Paolo e i non credenti 8831535366, 9788831535366

In questo saggio l'autore esamina la Lettera ai Romani, con particolare riferimento alla sezione della Lettera che

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Paolo e i non credenti
 8831535366, 9788831535366

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PAOLO

DI

7

TARSO

Alessandro Sacchi

Paolo e i non credenti Lettera ai Romani 2,14-16.26-29

PAOLINE Editoriale Libri © FIGLIE DI SAN PAOLO, 2008 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it [email protected] Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino

Ogni qualvolta, infatti, dei gentili che non hanno legge, per natura fanno le (cose) della legge, costoro, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che l’opera della legge è scritta nei loro cuori e ne danno testimonianza la loro coscienza e i loro stessi ragionamenti, che vicendevolmente accusano o anche difendono nel giorno in cui Dio giudicherà le cose segrete degli uomini secondo il mio vangelo per mezzo di Gesù Cristo. (...) Se dunque il non circonciso osserva le prescrizioni della legge, la sua non circoncisione non gli verrà forse contata come circoncisione? E colui che per natura non è circonciso ma adempie la legge giudicherà te che, nonostante la lettera e la circoncisione, sei un trasgressore della legge. Infatti, non è giudeo chi (è tale) in modo palese, e la (vera) circoncisione non è (quella praticata) in modo palese nella carne; ma il (vero) giudeo è colui che lo è nel segreto e la (vera) circoncisione (è quella) del cuore, nello spirito e non nella lettera; la cui gloria non (è) dagli uomini ma da Dio. Rm 2,14-16.26-29 Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Ger 31,33

Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Ez 36,27 Il Signore tuo Dio circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu ami il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva. Dt 30,6

Prefazione

La pace e il progresso dell’umanità dipendono in gran parte da un interscambio sincero e approfondito fra tutti gli uomini e le donne di buona volontà, sia che appartengano a una religione istituzionale, sia che abbiano rinunziato a qualsiasi forma di pratica religiosa. Per i cristiani, l’apertura a un vero dialogo con tutti appare sempre più come un marchio d’origine del movimento a cui appartengono. Ma perché esso si possa attuare in modo pieno, si presuppone la soluzione di un problema spinoso, quello dello statuto proprio di ogni essere umano, sia come individuo che come membro di una comunità religiosa, nei confronti della verità e, di conseguenza, della salvezza. Nel corso dei secoli, la convinzione di possedere una verità definitiva e universale ha eretto una barriera quasi insormontabile fra le diverse religioni e tra credenti o non credenti. Oggi la mentalità è cambiata, ma i problemi aperti sono ancora numerosi. Non si esclude certamente la conoscenza da parte di tutta l’umanità di quelle verità che sono necessarie per condurre una vita onesta e giusta. Ma spesso resta la convinzione secondo cui Dio ha rivelato la sua volontà in modo esplicito, pieno e definitivo, solo all’interno 7

della religione biblico-cristiana. Ciò comporta da parte dell’interlocutore un certo disagio. È difficile dialogare su un piano di parità quando una delle due parti ritiene di avere già in partenza, in campo sia dottrinale che etico, una verità che l’altra non possiede. E questo soprattutto quando il dibattito riguarda i problemi posti dalla scienza e dalla tecnologia moderne. Anche il tema dell’appartenenza alla Chiesa non cessa di suscitare difficoltà. Per affrontare correttamente questi problemi si fa sentire la necessità di ricorrere con rinnovata attenzione alla parola di Dio. I passi della Bibbia che attestano la pari dignità di tutti gli esseri umani che si pongono alla ricerca del Bene sono numerosi. Fra essi è soprattutto significativo Rm 2,14-16.25-29, un testo in cui si intrecciano, in rapporto ai non giudei (i gentili), tre parole chiave strettamente collegate al tema della salvezza: legge, natura e Spirito. Esso però si situa all’interno di una sezione in cui Paolo descrive la situazione di peccato in cui è venuta a trovarsi tutta l’umanità prima e al di fuori della giustificazione offerta da Cristo (Rm 1,18 - 3,20): ciò ne ha reso molto problematica, fin dagli inizi della storia dell’esegesi, l’interpretazione in funzione della salvezza dei non evangelizzati. La nuova atmosfera teologica introdotta dal concilio Vaticano II avrebbe dovuto stimolare da tempo la riconsiderazione di una pagina così importante dell’epistolario paolino. Ciò non è avvenuto e l’interpretazione acquisita, che tende a escludere un riferimento oggettivo alla salvezza dei non evangelizzati, continua a dominare incontrastata anche nei commenti più recenti, sia cattolici che protestanti, della Lettera ai Romani. Ora, questa 8

interpretazione non è per nulla la più antica e neppure la più ovvia. Si rende quindi necessario rivisitare il testo alla luce di una comprensione più approfondita dello sfondo biblico-giudaico sul quale esso è stato composto. A questo compito mi accingo nella presente monografia. Il tema di questo lavoro mi è stato indicato diversi anni fa come tesi di laurea presso il Pontificio Istituto Biblico da padre Stanislas Lyonnet sj, il quale ne ha seguito l’elaborazione fino alla discussione avvenuta nel 1971, con il titolo: « Il problema della legge naturale nell’esegesi di Rom 2,14-16 ». Le vicende della vita mi hanno impedito di pubblicare il manoscritto. Tuttavia non è mai venuta meno la mia attenzione verso questo argomento, al quale ho dedicato alcuni contributi (cfr. qui in Bibliografia); nel corso del tempo le conclusioni a cui sono giunto non hanno perso nulla della loro validità e attualità. Mi sono perciò deciso a riprendere il tema in un modo più ampio e organico, nella speranza di suscitare un dibattito che riguardi non solo un testo isolato ma anche una nuova visione del messaggio paolino. Nel tentativo di cogliere il senso genuino del pensiero di Paolo ho voluto ricostruire lo sfondo religioso e culturale sul quale il brano è stato composto. Perciò ho dato grande spazio non solo alle premesse bibliche, ma anche al modo di pensare diffuso nell’ambiente giudaico ed ellenistico al tempo di Paolo. Pur mantenendo il carattere scientifico della ricerca, ho cercato di renderne accessibile la lettura anche ai non addetti ai lavori, soprattutto riducendo le note all’essenziale e utilizzando l’ebraico e il greco solo nello stretto 9

necessario e sempre riportando la traduzione italiana. Tutte le opere consultate sono elencate in modo completo nella bibliografia. In essa, alle fonti giudaiche, greche ed ellenistiche è riservato un posto a parte. Se non è detto altrimenti, si deve ritenere che il materiale comparativo preceda nel tempo la composizione della Lettera ai Romani o almeno sia a essa contemporaneo. Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato, con le loro critiche e i loro consigli, a elaborare questa ricerca, e in modo speciale le Figlie di San Paolo che ne hanno accettato la pubblicazione.

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Introduzione

Il testo che forma l’oggetto della presente ricerca (Rm 2,14-16.26-29) si inserisce nella sezione iniziale della Lettera ai Romani, in cui Paolo descrive la rivelazione dell’ira di Dio sui gentili e sui giudei (Rm 1,18 - 3,20); essa rappresenta la premessa di quella che è la prima grande sintesi paolina circa il tema della giustificazione mediante la sola fede, preannunziato in Rm 1,16-17 e poi sviluppato in 3,21-31. Per introdurci nel nostro studio esamineremo, dunque, anzitutto le articolazioni fondamentali della Lettera ai Romani e quelle della sua sezione iniziale, rivolgendo infine la nostra attenzione ai versetti che ci interessano più da vicino. Da questo primo accostamento appariranno già in modo abbastanza chiaro i problemi che essi sollevano e la via che dovremo seguire per affrontarli e risolverli.

1. Il contesto della Lettera ai Romani La Lettera ai Romani è uno scritto ampio e pacato, nel quale Paolo espone in modo meditato e approfondito le sue idee circa i temi più importanti del messaggio 11

cristiano, con lo scopo evidente di dimostrarne la veracità e l’autenticità evangelica1.

a) Contenuto e struttura della lettera La missiva inizia con il consueto prescritto e ringraziamento (1,1-15), nel corso del quale l’Apostolo indica il motivo del suo interessamento per i cristiani di Roma, e termina con un lungo epilogo (15,14 - 16,27), nel quale accenna ai suoi progetti di viaggio e invia numerosi saluti. Il corpo della lettera è comunemente diviso in due parti, l’una dottrinale (1,16 - 11,36) e l’altra esortativa (12,1 - 15,13). L’estensione stessa del prologo e dell’epilogo mostra che, come oggi è universalmente riconosciuto dagli studiosi, anche questa lettera non è un documento dottrinale senza agganci con la realtà concreta, ma uno scritto occasionale, che risponde a problemi specifici derivati non solo dalla situazione dell’Apostolo, ma anche da quella della comunità a cui è indirizzata 2. Nella parte dottrinale (1,16 - 11,36) Paolo espone i temi fondamentali della sua riflessione mediante una serie di brani i cui contorni sono facilmente identificabili, mentre resta in gran parte oscura la logica con la quale sono collegati l’uno con l’altro. Diversi studiosi hanno cercato di scoprire il piano dell’opera: alcuni affermano che un piano organico di tutta la lettera non esiste o esi1 Cfr. A. Sacchi, Alla Chiesa di Roma, in A. Sacchi (e coll.), Lettere paoline e altre lettere (Logos 6), LDC, Leumann (TO) 1996, pp. 171-188. 2 Cfr., in proposito, soprattutto A.J.M. Wedderburn, The Reasons for Romans, T. & T. Clark, Edinburgh 1988, pp. 44-65.

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ste solo parzialmente. Altri invece ritengono che esso si riscontri solo in Rm 1-8, mentre i testi di Rm 9-11 sarebbero una specie di parentesi o di excursus, collocato tra la parte dottrinale e quella parenetica della lettera; altri ancora risolvono la difficoltà negando l’unità originaria dello scritto3. Comunemente, però, si ritiene che la lettera sia composta in base a una struttura organica ben studiata, individuabile a partire da precisi indizi di carattere sia formale che contenutistico. Fra le varie ipotesi, ha ottenuto un notevole successo quella proposta da S. Lyonnet e adottata dalla BJ, secondo la quale la parte dottrinale della lettera si divide in due sezioni che trattano rispettivamente il tema della giustificazione (1,16 - 4,25) e quello della salvezza (5,1 - 11,36): – il primo tema è enunciato (1,16-17), poi approfondito in modo sia negativo (1,18 - 3,20) che positivo (3,21-31), e infine è illustrato a partire dall’AT (4,1-25); – anche il secondo tema è prima enunciato (5,1-11), poi elaborato prima in chiave negativa (5,12-21: liberazione dal peccato; 6,1-23: liberazione dalla morte; 7,1-25: liberazione dalla legge) e poi positiva (8,1-39), e infine è illustrato anch’esso a partire dai dati biblici (Rm 9-11)4. Un passo in avanti è stato fatto soprattutto da R. Penna, secondo il quale il modo in cui Paolo ha ordinato i suoi pensieri può essere in parte identificato a partire da Rm 3,1-8. Egli ha notato che in questo testo Paolo inter3 Per una panoramica dei risultati ottenuti, cfr. B. Rossi, Struttura letteraria e articolazione teologica di Rom 1,11-11,36, in SBFLA 38 (1988) 59-133. 4 S. Lyonnet, Note sur le plan de l’épître aux Romains, in Mélanges J. Lebreton, vol. I (RSR 39 [1951-1952]), pp. 301-316.

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rompe il flusso dei pensieri esposti in 1,16 - 5,21 ed evidenzia due problemi (fedeltà di Dio alle promesse fatte a Israele; rapporto tra peccato e salvezza) che verranno poi affrontati, in ordine inverso, rispettivamente in Rm 6-8 e 9-115. In base a questa intuizione, la parte dottrinale della lettera (1,16 - 11,36) conterrebbe, dopo l’enunciazione del tema (1,16-17), le seguenti parti: • La giustificazione mediante la fede (1,18 - 5,21). • Peccato e salvezza: la nuova realtà del credente (6,1 - 8,39). • Veracità di Dio: la sorte di Israele (9,1 - 11,36). Oggi, numerosi studiosi cercano di comprendere la struttura della lettera in base alle leggi della retorica antica, pur salvaguardando le peculiarità di uno scritto che ha diverse radici culturali e religiose 6. Le indicazioni che essi offrono sono molto importanti per comprendere la strategia argomentativa di Paolo. Il piano della Lettera ai Romani rappresenta dunque un problema aperto, che difficilmente otterrà anche in futuro una soluzione condivisa dalla maggioranza degli studiosi. Il suo carattere frammentario è forse la conseguenza del fatto che in essa l’Apostolo ha assemblato materiale precedentemente elaborato nell’ambito della missione. Nonostante ciò, lo scritto manifesta una gran5 R. Penna, La funzione strutturale di 3,1-8 nella lettera ai Romani, in Id., L’Apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1991, pp. 77-110; R. Penna, Lettera ai Romani (Scritti delle origini cristiane 6), 2 voll., EDB, Bologna 2004, 2006, vol. I, pp. 69-76. 6 R. Jewett, Romans as an Ambassadorial Letter, in Int 36 (1982) 5-20. Cfr. anche W. Wuellner, Paul’s Rethoric of Argumentation in Romans, in CBQ 38 (1976) 330-351; Id., Following the Argument of Romans, in K.P. Donfried (ed.), The Romans Debate, T. & T. Clark, Edinburgh 1977, pp. 265-277; J.-N. Aletti, La présence d’un modèle rhétorique en Romains, in Biblica 71 (1990) 1-24.

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de unitarietà nei temi che affronta a ondate successive. È significativo come l’interesse per l’umanità prima e al di fuori di Cristo, tipica di Rm 1,18 - 3,20, ritorni in 5,12-25 e in 7,7-25, dove si possono trovare interessanti chiarificazioni e indicazioni complementari.

b) Ruolo e struttura di Rm 1,18 - 3,31 La struttura di Rm 1,18 - 3,31, diversamente da quella della lettera nel suo insieme, è facilmente identificabile7. In essa Paolo vuole dimostrare la tesi generale (propositio) secondo cui « la giustizia di Dio si rivela in esso (nel vangelo) di fede in fede » (1,17). A questa tesi fa seguito immediatamente una sub-propositio che contiene la tesi della nostra sezione: « Si rivela l’ira di Dio dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia » (1,18). Per dimostrare il suo assunto, Paolo elabora anzitutto una lunga narratio (1,18-32), in cui descrive la situazione disperata dell’umanità peccatrice. La narratio lascia poi il posto alla demonstratio (2,1 - 3,18) che comprende la presentazione delle prove (2,1-11) e alla refutatio, cioè la risposta a due obiezioni che i giudei avrebbero potuto sollevare contro di essa, cioè il possesso della legge (2,12-16) e della circoncisione (2,25-29); tra questi due brani si situa una dura apostrofe nei loro confronti 7 Cfr. G. Bornkamm, Die Offenbarung des Zornes Gottes, in Id., Das Ende 5 des Gesetzes. Paulusstudien (BEvTh 16), Kaiser, München 1966 , pp. 9-33; J.M. Bassler, Divine Impartiality: Paul and a Theological Axiom (SBL.DS 59), Scholars Press, Chico (CA) 1982, pp. 123-156; J.-N. Aletti, Rm 1,18 - 3,20: Inchoérence ou cohérence de l’argumentation paulinienne?, in Biblica 69 (1988) 47-62.

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(2,17-24); viene poi la risposta a una ulteriore obiezione riguardante le promesse fatte da Dio a Israele e il suo ruolo nel piano salvifico di Dio (3,1-8), seguita da una prova scritturistica (3,9-18); conclude la sezione una peroratio (3,19-20), che consiste in una ricapitolazione delle questioni principali affrontate precedentemente. Al termine di questa sezione, Paolo riprende in modo positivo la tesi generale, che dimostra per esteso in 3,21-31. Lo scopo di Rm 1,18 - 3,20 è sufficientemente chiaro: in questo brano l’Apostolo vuole dimostrare che l’umanità intera si trova in una situazione drammatica di « non salvezza », indicata metaforicamente come « ira di Dio », dalla quale non può essere liberata se non mediante un intervento straordinario del Dio giusto. E soprattutto vuole sottolineare che in questa situazione disperata si trova non solo il « greco » (gentile), ma anche il giudeo, che naturalmente è portato a ritenersi oggetto di una particolare predilezione divina. Lo scopo di Paolo non è dunque tanto quello di mettere in luce, a partire dalla rivelazione di Dio, la situazione di peccato in cui si trova l’umanità, quanto piuttosto la fondamentale uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio e al suo progetto di salvezza rivelato in Cristo e, di riflesso, l’« imparzialità di Dio » nei confronti di tutta l’umanità. In base a considerazioni riguardanti soprattutto i contenuti di Rm 1,18 - 2,29, sono stati sollevati alcuni dubbi circa l’origine della sezione e i suoi rapporti con il resto della lettera8. Secondo alcuni studiosi, essa non sarebbe che una 8 Per questo problema e la sua storia, cfr. R. Penna, Rom 1,18 - 2,29 tra predicazione missionaria e imprestito ambientale, in Id., L’Apostolo Paolo, pp. 126-134.

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omelia precristiana, composta nell’ambito della sinagoga o della predicazione missionaria giudaica: ne farebbe fede il fatto che, ad eccezione di 2,16 (da alcuni accantonato come una glossa), nulla si riferisce in essa all’annunzio di Cristo, mentre i problemi e le soluzioni prospettate non sono quelli di Paolo ma piuttosto quelli del mondo giudaico9. Altri invece ritengono che, a motivo dei suoi toni estremamente critici nei confronti del mondo giudaico, la sezione non fosse originariamente una omelia sinagogale, anche se è probabile che in essa Paolo abbia usato materiale tipico della polemica giudaica contro i gentili. Qualunque sia l’origine del materiale contenuto nella sezione, si può supporre che essa sia stata composta personalmente da Paolo, il quale l’ha inserita in questo contesto per trasmettere ai cristiani di Roma alcuni temi essenziali della sua predicazione, elaborata in funzione di un uditorio prevalentemente giudeo-ellenistico. Pur non trattandosi originariamente di un discorso rivolto a cristiani, è probabile che egli se ne sia servito in questo contesto con lo scopo di favorire l’unità fra i diversi gruppi cristiani di Roma, divisi appunto in base alla loro ascendenza etnica e religiosa (cfr. Rm 14,1 - 15,13). In questo studio si parte quindi dal presupposto, valido fino a prova contraria, che Paolo, anche se si serve di materiale preesistente, lo faccia proprio e lo utilizzi ai fini della sua argomentazione, esprimendo con esso intuizioni e idee che sono coerenti con quanto afferma in altre parti della lettera e nel resto del suo epistolario. 9 Si vedano in questo senso i problemi evidenziati da E.P. Sanders (Paolo, la legge e il popolo giudaico [StBi 86], Paideia, Brescia 1989, pp. 203-223), ai quali si spera di dare una risposta in questa ricerca.

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2. Il testo All’interno della « sezione dell’ira », Rm 2,14-16.26-29 svolge un ruolo di grande importanza. Le due parti del brano hanno una struttura simile, in forza della quale devono essere lette in parallelo. Dalla loro struttura e collocazione deriva la gran parte dei problemi che essi suscitano.

a) Collocazione e struttura di Rm 2,14-16.26-29 I due brani fanno parte della refutatio, cioè della risposta di Paolo alle due principali obiezioni che gli interlocutori giudei potevano opporre alla sua tesi del loro coinvolgimento in un peccato generalizzato: il possesso della legge e della circoncisione. Il primo brano è introdotto da una considerazione generale: « Tutti quelli che hanno peccato senza legge, periranno anche senza legge; quanti invece hanno peccato sotto la legge, saranno giudicati mediante la legge. Perché non coloro che ascoltano la legge ma quelli che la mettono in pratica saranno riconosciuti come giusti » (vv. 12-13). Il testo prosegue letteralmente: Ogni qualvolta, infatti, dei gentili che non hanno legge, per natura fanno le (cose) della legge, 14bcostoro, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; 15aessi dimostrano che l’opera della legge è scritta nei loro cuori 15b e ne danno testimonianza la loro coscienza 15ce i loro stessi ragionamenti, che vicendevolmente accusano o anche difendono. 14a

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nel giorno in cui Dio giudicherà le cose segrete degli uomini secondo il mio vangelo per mezzo di Gesù Cristo. 16

Questo testo contiene un periodo formato da una protasi e da un’apodosi, cui fa seguito una frase a prima vista abbastanza autonoma. La protasi (Rm 2,14a) è introdotta da hotan (« quando », « ogni qualvolta »), che si ricollega a quanto precede mediante la particella gar, « infatti », che ha qui valore argomentativo. In essa si prospetta il caso di « gentili che, non avendo legge, per natura fanno le cose della legge ». Nell’apodosi (v. 14b) si afferma che costoro, « (pur) non avendo legge, sono legge a se stessi ». L’apodosi prosegue con una frase parallela in cui si precisa che gli stessi gentili « mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori » (v. 15a) e termina con un genitivo assoluto in cui si prospetta, come convalida di quanto detto precedentemente, la testimonianza della loro coscienza (v. 15b) e dei ragionamenti che « fra di loro » (oppure « vicendevolmente ») « accusano o anche difendono » (v. 15c). La frase successiva (v. 16) non è collegata sintatticamente al periodo precedente (anacoluto): essa rimanda al giorno del giudizio di Dio che avverrà per mezzo di Gesù Cristo in base al vangelo di Paolo. Anche i vv. 26-29 sono preceduti da una introduzione in cui si dice: « La circoncisione è utile se osservi la legge; ma se sei un trasgressore della legge, la tua circoncisione diventa (come) non circoncisione » (v. 25). Il testo continua: Se dunque il non circonciso osserva le prescrizioni della legge, 26a

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la sua non circoncisione non gli verrà forse contata come circoncisione? 27 E colui che per natura non è circonciso ma adempie la legge giudicherà te che, mediante la lettera e la circoncisione, sei un trasgressore della legge. 28Infatti, non è giudeo chi (è tale) in modo palese, e la (vera) circoncisione non è (quella praticata) in modo palese nella carne; 29 ma il (vero) giudeo è colui che lo è nel segreto e la (vera) circoncisione (è quella) del cuore, nello spirito e non nella lettera; la cui gloria non (è) dagli uomini ma da Dio. 26b

Come il precedente, questo brano inizia con un periodo ipotetico composto da una protasi, cui fa seguito un’apodosi all’interrogativo. Nella protasi (Rm 2,26a), introdotta dalla particella ean (se), Paolo si rivolge al suo interlocutore (giudeo) prospettandogli il caso di incirconcisi (e¯ akrobystia, l’incirconcisione) che osservano la legge, e prosegue domandandosi nell’apodosi se la loro incirconcisione non sarà ritenuta come circoncisione (v. 26b). Egli prosegue affermando, sempre in dialogo con l’ipotetico interlocutore, che gli incirconcisi « per natura » che compiono la legge giudicheranno lui che, pur avendo la lettera e la circoncisione, è trasgressore della legge (v. 27). Il testo termina con una frase esplicativa (vv. 28-29) estremamente concisa, in cui si precisa che il (vero) giudeo non è (quello che è tale) in modo palese né la (vera) circoncisione è (quella che è tale) in modo palese nella carne (v. 28), ma il (vero) giudeo è (quello 20

che è tale) in segreto e la (vera) circoncisione è (quella) del cuore nello spirito, non nella lettera; a questo giudeo autentico viene la lode non dagli uomini ma da Dio (v. 29). Si suppone perciò che il non circonciso che osserva la legge può essere considerato come circonciso, in quanto riceve appunto la « circoncisione del cuore nello spirito » che fa di lui, gentile, il vero giudeo. La tradizione testuale dei due brani è molto uniforme e costante. Esistono solo alcune piccole varianti, irrilevanti per l’interpretazione del testo, che saranno prese in considerazione al momento dell’esegesi. L’unico problema di un certo rilievo riguarda il v. 16 che, per ragioni di forma (anacoluto) e di contenuto (il giudizio di Cristo), viene spesso ritenuto come una glossa. Anche questo problema, che non è senza rilievo per l’interpretazione del brano, verrà affrontato nel corso dell’esegesi.

b) I problemi L’interpretazione di Rm 2,14-16.26-29 presenta numerosi problemi che possono essere così sintetizzati: 1) Si tratta veramente, in ambedue i casi, di gentili non ancora raggiunti dall’annunzio del vangelo, o non piuttosto di etnico-cristiani, cioè di gentili convertiti al cristianesimo, come spesso è stato sostenuto in passato? In caso affermativo, in quale senso si può parlare di una legge da loro non solo conosciuta ma anche praticata? 2) Nei due testi si trovano le espressioni « legge scritta sul cuore » e « circoncisione del cuore nello spirito », che richiamano tre grandi testi biblici (Ger 31,33; Dt 21

30,6; Ez 36,27) riguardanti la salvezza escatologica di Israele. Sono utilizzati nel loro senso originario? E, in caso affermativo, si può dire che con essi Paolo intende affermare la loro attuazione anche in favore dei gentili? 3) Sia nel v. 16 che nel v. 27 di Rm 2 appare il tema del giudizio. In quale senso esso rientra nell’argomentazione contenuta nel brano preso in considerazione? La risposta a questi problemi deve essere ricercata a partire anzitutto dal contesto culturale di Paolo, in cui era presente sia la componente culturale giudaica che quella greca. In altre parole, dobbiamo anzitutto domandarci: A chi parlava Paolo? Con quali idee si confrontava? E soprattutto: Quali erano la mentalità e la prassi dei suoi interlocutori? Sarà perciò necessario descrivere lo sfondo culturale dei temi trattati da Paolo. In base a questa complessa problematica, la ricerca è stata divisa in due parti, nella prima delle quali si delinea lo sfondo culturale (ellenistico e giudaico) del brano paolino (capitoli I-IV), mentre nella seconda (capitoli V-VII) si affronta la sua esegesi alla luce del suo contesto sia remoto che prossimo. È utile che il lettore sappia in partenza la conclusione a cui perviene la presente ricerca: Paolo intende riferirsi veramente a gentili non evangelizzati i quali, osservando gli elementi fondamentali della legge mosaica, riassunti nel precetto dell’amore, raggiungono in modo inequivocabile la salvezza, indicata mediante il ricorso alle grandi profezie bibliche.

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Abbreviazioni e sigle

1. Collane, raccolte, traduzioni A.P.

AnBib AT BEvTh BibETL BJ Cei CTNT EB EKKNT

gdt HNT

Charles R.H. (ed.), The Apocrypha and Pseudepigrapha of the Old Testament, 2 voll., Clarendon, Oxford 1913, 1968. Analecta Biblica (PIB, Roma). Antico Testamento (Paideia, Brescia). Beiträge zur Evangelischen Theologie (Kaiser, München). Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium La Bibbia di Gerusalemme Conferenza episcopale italiana Commentario Teologico del Nuovo Testamento (Paideia, Brescia) Études Bibliques (Gabalda, Paris). Evangelisch-Katholisches Kommentar zum Neuen Testament (Benzinger, Zürich-Einsiedeln-Köln / Neukirchener, NeukirchenVluyn). Giornale di Teologia (Queriniana, Brescia). Handbuch zum Neuen Testament (Mohr, Tübingen). 23

ILB.NT ILB.PT JBL.MS LD LXX NDTB

NDTM

NICNT NTAbh NTS NVB PG PL RivBSup S.B.

24

I Libri Biblici Nuovo Testamento (Paoline Editoriale Libri, Milano 1999-). I Libri Biblici Primo Testamento (Paoline Editoriale Libri, Milano 1999). Journal of Biblical Literature. Monograph Series. Lectio Divina (Cerf, Paris). Traduzione greca della Bibbia detta dei Settanta. P. Rossano - G. Ravasi - A. Girlanda (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988. F. Compagnoni - G. Piana - S. Privitera (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990. New International Commentary on the New Testament (Eerdmans, Grand Rapids). Neutestamentliche Abhandlungen (Aschendorff, Münster). New Testament Studies (Cambridge University Press). Nuovissima Versione della Bibbia (Edizioni Paoline, Roma). Patrologia Greca (Migne). Patrologia Latina (Migne). Supplementi alla Rivista Biblica (Brescia, Bologna). Strack H.L. - Billerbeck P., Komentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, 4 voll., C.H. Beck, München 1922-1928.

SBL.DS SChr SNTS.MS SPCIC

StANT StBi SVF

TM TU

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Biblical Research (Chicago [IL]). Biblische Zeitschrift The Catholic Biblical Quarterly (Washington, DC). Ephemerides Theologicae Lovanienses (Leuven). 25

Int JBL JJS JSNT LumVie NRT PSV RB RicStBib RivB RQum RSPhTh RSR RThL RThPh SBFLA SBL.SP StPat ThLZ ThZ VD 26

Interpretation. A Journal of Bible and Theology (Richmond [VA]). Journal of Biblical Literature (Philadelphia [PA]; dal 1986 Atlanta [GA]). Journal of Jewish Studies (Oxford). Journal for the Study of the New Testament (Sheffield [UK]). Lumière et Vie (Lyon). Nouvelle Revue Théologique (Tournai; Eegenhoven-Louvain). Parola Spirito e Vita. Quaderni di lettura biblica (EDB, Bologna). Revue Biblique (Paris). Ricerche Storico Bibliche (EDB, Bologna). Rivista Biblica (EDB, Bologna). Revue de Qumran (Paris). Revue de Sciences Philosophiques et Theologiques (Paris). Recherches de Science Religieuse (Paris). Revue Theologique de Louvain (Louvain-laNeuve). Revue de Theologie et de Philosophie (Lausanne). Studii Biblici Fanciscani Liber Annuus (Jerusalem). Society of Biblical Literature. Seminar Papers (Atlanta 1995. Studia Patavina (Padova). Theologische Literaturzeitung (Leipzig). Theologische Zeitschrift (Basel). Verbum Domini (Roma).

VT ZAW ZNW ZRelGg

Vetus Testamentum (Leiden). Zeitschrift für die Alttestamentliche Wissenschaft (Berlin). Zeitschrift for die Neutestamentliche Wissenschaft (Giessen). Zeitschrift für Religions-und Geistes geschichte

3. Fonti giudaiche e rabbiniche Giub 1Enoc

2Enoc

4Esdra

2Baruc

Ass. Mos.

Test.

Libro dei giubilei, scritto giudaico composto nel secolo II a.C. Primo libro di Enoc. Raccolta di cinque scritti giudaici composta tra il secolo III a.C. e il I d.C. Secondo libro di Enoc. Scritto giudaico tardivo, basato su un prototipo che probabilmente risale a prima della caduta di Gerusalemme. Quarto libro di Esdra (o Apocalisse di Esdra). Opera composta verso la fine del secolo I d.C., forse a Roma. Secondo libro di Baruc (o Apocalisse siriaca di Baruc), la cui composizione è avvenuta verso la fine del secolo I d.C. Assunzione di Mosè (detto anche Testamento di Mosè), opera composta nel secolo I d.C. (prima del 70). Testamenti dei XII patriarchi. Opera giudaica composta tra il secolo II a.C. e il III d.C. Contiene interpolazioni cristiane. 27

Test.Abramo Testamento di Abramo. Opera giudaica che risale, probabilmente ai secoli I-II d.C. Aristea Lettera di Aristea a Filocrate è uno scritto composto in greco, nel quale si narra l’origine della versione greca della Bibbia detta dei Settanta (LXX), composta nel secolo II a.C. 4Maccabei Quarto libro dei Maccabei: trattato filosofico giudaico (diatriba), composto nel secolo I d.C. Sib Oracoli sibillini: il libro III, di origine più sicuramente giudaica, è stato composto in Egitto verso la metà del secolo II a.C. PsSal Salmi di Salomone: composti nel secolo I d.C. (prima del 70 d.C.). Ios. As. Giuseppe e Asenet: romanzo composto tra il secolo I a.C. e il II d.C. TgO Targum babilonese, chiamato Targum di Onkelos. TgPsJ Targum palestinese, attribuito erroneamente a Jonathan, chiamato anche Jerushalmi I. Tgfrm Targum palestinese frammentario chiamato anche Jerushalmi II. TgN Targum palestinese, contenuto nel codice Neofiti I, recentemente scoperto nella Biblioteca Vaticana.

4. Testi di Qumran 1Q27 1Q34 28

1 grotta di Qumran, Libro dei misteri. 1 grotta di Qumran, Preghiere festive.

1QH 1QM 1QpAb 1QS CD

1 grotta di Qumran, Inni di ringraziamento. 1 grotta di Qumran, Rotolo della guerra. 1 grotta di Qumran, Pešer di Abacuc (commento). 1 grotta di Qumran, Regola della comunità. Documento di Damasco, ritrovato anche nella geniza del Cairo.

29

I

Legge e natura nella filosofia greca

I due termini legge e natura, che appaiono collegati fra di loro sia in Rm 2,14 che in 2,27, svolgono un ruolo importante nell’argomentazione contenuta non solo in Rm 2,14-16.26-29, ma anche in tutta la sezione in cui questo brano è inserito: infatti il termine natura, assieme all’aggettivo « naturale », è stato utilizzato, in modo piuttosto vistoso, nella prima parte della sezione (cfr. Rm 1,26-27). L’uso simultaneo dei due termini legge/natura richiama senza dubbio il noto binomio della filosofia greca. E infatti è opinione abbastanza comune fra gli studiosi che in questo contesto Paolo, diversamente da quanto fa di solito, mutui in modo espresso e consapevole una concezione di stampo filosofico. Questa è stata sviluppata in modo particolare dalla scuola stoica, che all’inizio dell’era cristiana esercitava un influsso preponderante su quel movimento filosofico allora diffuso chiamato « filosofia popolare ». Essa però ha origini ben più remote, che risalgono fino agli inizi della filosofia greca1. 1 F. Flückiger, Geschichte des Naturrechtes, vol. I, Evangelischer Verlag, Zollikon-Zürich 1954, pp. 9-283; H. Kleinknecht, Nomos, in GLNT 7,1237-1273; G. Bornkamm, Die Offenbarung des Zornes Gottes, in Id., Das Ende des Gesetzes. Paulusstudien, pp. 9-33; H. Köster, Physis, in GLNT 15,210-248; R. Pizzor-

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1. Le antiche scuole filosofiche La riflessione filosofica sui temi della legge e della natura prende le mosse da una visione razionale dell’essere umano, visto come parte di una entità più grande, che è la società e più in generale il cosmo intero.

a) La legge non scritta Gli antichi poeti greci, Omero ed Esiodo (secoli VIIIVII a.C.), avevano fondato l’autorità della legge sulla volontà degli dèi. La legge è quella della polis, la cittàstato: in essa si manifesta il volere degli dèi, perciò la sua trasgressione non è solo in contrasto con il bene della collettività, ma costituisce, nello stesso tempo, un atto di ribellione contro gli dèi e attira sul colpevole la loro punizione. L’autorità assoluta della legge della polis è messa in discussione per la prima volta dalla tragedia greca (secolo VI a.C.), nella quale comincia a farsi strada l’idea che esiste un’altra legge, non scritta, ma ugualmente di origine divina, la quale a volte può imporre una condotta diversa o addirittura in contrasto con quella della polis: Sofocle, ad esempio, chiama tale legge « le norme non scritte, e tuttavia ben sicure, degli dèi » (agrapta kasphale¯ theo¯n nomima [Antigone 454-455]). Con i sofisti (secolo V a.C.) non è più l’unicità della legge della polis a essere respinta, ma la sua stessa origine ni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino, Studio Domenicano, Bologna 20003, pp. 23-90.

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divina. Essi non la considerano più come la manifestazione positiva della volontà degli dèi, ma come frutto di convenzioni umane. Così facendo mettono in questione anche la religione, che aveva conferito carattere divino alla legge dello Stato. Secondo il sofista Antifonte, l’autorità di quest’ultima è trasferita a un’altra legge che si fonda sulla natura stessa dell’uomo (ho nomos te¯s physeo¯s) e non può essere trasgredita impunemente (Frammenti 1/A). Con i sofisti il concetto di « natura » (physis) fa così il suo ingresso nel linguaggio filosofico. Ma per loro la natura non è altro che la realtà umana quale concretamente si manifesta, cioè come impulso che porta il più forte a dominare sul più debole. Platone infatti riferisce che per i sofisti « una vera vita in armonia con la natura » (kata te¯n physin orthon bion) significa « vivere in un reale dominio sugli altri e non nel servizio degli altri in armonia con la legge (kata nomon) » (Leggi 10,890a) e pone sulle labbra del sofista Trasimaco questa frase: « Io affermo che il giusto non è altro se non l’utile del più forte » (Repubblica 1,338c).

b) Il primato della ragione Si comprende perciò la reazione di Socrate (469-399 a.C.), il quale riafferma con forza l’obbligatorietà delle leggi della polis. Anch’egli però non crede nella loro origine divina: mettendo la ragione al centro del suo sistema, egli dimostra ormai di considerare come fonte della legge l’uomo stesso in quanto essere razionale, dotato di un certo numero di tendenze secondo le quali è normale 35

vivere. Secondo Senofonte, egli afferma che esistono due tipi di leggi, quelle scritte, che ordinano la vita di uno Stato, e quelle non scritte, che tutti devono osservare e portano con sé una pena inevitabile in caso di trasgressione (Memorabili 1,4; 4,4). Platone (428-347 a.C.) riprende e sviluppa le idee del suo maestro 2. Egli colloca la fonte della legge nello spirito umano che si trova in perfetta armonia con l’ordine dell’universo. In tal modo egli non vuole sottovalutare l’importanza pratica delle leggi, la cui osservanza era stata considerata nel periodo classico della Grecia come la più alta espressione della virtù della giustizia: nel Politico però fa notare che le leggi, per essere in armonia con la giustizia, devono continuamente adattarsi alle esigenze della vita, e ciò avviene mediante un ricorso alla retta ragione (orthos logos) che il legislatore, cioè l’uomo saggio, esprime per mezzo delle parole scritte. La legge, di conseguenza, è il « pensiero ragionato » (logismos) che è stato fatto oggetto di sanzione da parte della polis (Leggi 1,644-645). Essa permette alla comunità di agire in quanto coordina gli sforzi dei singoli tra di loro e le iniziative dello Stato con quelle degli altri Stati. Per Platone, la « retta ragione » è qualcosa di divino, che però l’uomo coglie mediante la sua stessa ragione. Perciò l’ideale di una società è che a dominare non siano le leggi, che difficilmente possono prevedere tutti i casi e adattarsi all’evolversi delle situazioni, ma l’uomo saggio che possiede la vera conoscenza delle cose (Politico 294ab; cfr. Leggi 9,875cd)3. 2 J.P. Maguire, Plato’s Theory of Natural Law, in Yale Classical Studies 10 (1947) 149-178. 3 H. Kleinknecht, Nomos, in GLNT 7,1261-1262.

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Aristotele (384-322 a.C.) dà una forma più organica alle intuizioni dei suoi predecessori4. Egli ritiene che il diritto e la giustizia siano fondati parte su disposizioni positive, dikaion nomikon, e parte sulla natura, dikaion physikon (Etica nicomachea 5,7). Da questa deriva la « legge comune » (nomos koinos), detta anche « legge secondo natura » (nomos kata physin) la quale è comune a tutti, mentre le altre leggi, essendo frutto di convenzione, variano a seconda dei popoli (Retorica 1,13). Legge naturale e legge convenzionale sono anche denominate rispettivamente agraphos nomos, « legge non scritta », e gegrammenos nomos, « legge scritta » (Retorica 1,10), sebbene altre volte l’agraphos nomos appaia come una suddivisione della legge convenzionale (Retorica 1,13). A partire dalla natura, che intende come la sostanza o la forma di una cosa, Aristotele determina nella Politica le norme che devono reggere la vita familiare, economica e politica: la famiglia è « la società quotidiana fondata dalla natura », perché è stata la natura a fare sì che l’uomo e la donna si unissero per continuare la specie e collaborare in ogni cosa; inoltre, la natura vuole che le diverse famiglie si uniscano in villaggi e questi nelle diverse città-stato, perché « l’uomo è per natura un animale socievole » (Politica 1,2). Anche la morale individuale è costruita sullo stesso schema di pensiero. La natura indica lo scopo per cui l’uomo è stato fatto: la felicità. Questa non si trova nel possesso dei beni esterni che possono essere tolti dalla sorte, ma nell’esercizio delle virtù intellettuali e morali con le quali l’uomo 4 A.-J. Voelke, Les rapports avec autrui dans la philosophie grecque d’Aristote à Panétius, J. Vrin, Paris 1961.

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sviluppa le facoltà superiori di cui la natura ha dotato la sua anima (Etica nicomachea 10,7-8). Anche per Aristotele coloro che per la loro virtù superano tutti gli altri non sono più legati ad alcuna legge; essi sono al di sopra della legge, anzi sono come dèi fra gli uomini; essi fungono da legge per sé e per gli altri, autoi gar eisi nomos (Politica 3,13): « L’uomo virtuoso e libero si comporterà come se fosse legge a se stesso (oion nomos o¯n eauto˛¯ ) » (Etica nicomachea 4,8).

2. La filosofia stoica La filosofia stoica seppe trovare nel concetto di natura il punto di partenza per l’elaborazione di un sistema di pensiero che rispondesse alle esigenze di una società cosmopolita quale era quella formatasi in seguito al crollo della polis e alle conquiste di Alessandro Magno 5.

a) Ragione e natura Secondo gli stoici, l’universo è formato da due principi diversi, l’uno inerte e passivo, la materia cosmica primitiva, e l’altro attivo e vivificante, il logos, che penetra la materia e le imprime la forma corrispondente ai diversi 5 La scuola stoica fu fondata da Zenone (nato verso il 333 a.C.) a cui successero prima Cleante e poi Crisippo (cfr. M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1967). Gli scritti degli antichi stoici sono conservati solo in frammenti raccolti da H. von Arnim, Stoicorum Veterum Fragmenta, 4 voll., Leipzig 1903-1905 (ed. it. a cura di R. Radice, Rusconi, Milano 1998). Successivamente, il ritrovamento dell’opera si troverà in sigla (SVF).

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oggetti. Siccome tutto ciò che agisce deve avere necessariamente un sostrato materiale, gli stoici identificano il logos con l’elemento più attivo, il fuoco. La « natura » (physis) non è altro che il logos nella sua funzione di principio che garantisce l’ordine e la razionalità dell’universo: essa non è una forza che agisce in modo cieco e meccanico, ma è la ragione somma che governa coscientemente l’universo. La natura è il fuoco artefice (pyr technichon) che procede ordinatamente alla generazione (SVF 1,171). Perciò la natura coincide, in ultima analisi, con Dio stesso e le può essere attribuito il nome di Zeus, come fa Cleante nel suo famoso Inno a Zeus (SVF 1,537; cfr. 2,937). Secondo Seneca, Giove è « colui che regge e custodisce l’universo, l’anima e lo spirito del mondo, il padrone e l’artefice di questa opera, al quale ogni nome conviene: se lo vuoi chiamare fato, non ti inganni... se vuoi chiamarlo provvidenza, fai bene... se lo vuoi chiamare natura, non sbagli... se lo vuoi chiamare mondo, non ti inganni » (Naturales quaestiones 2,45). La divinità così concepita viene conosciuta a partire dall’universo visibile. Cicerone, ad esempio, afferma che « non puoi vedere Dio (...), tuttavia lo puoi conoscere dalle sue opere » (Tusculanae disputationes 1,29[28]). Secondo lo PseudoAristotele, « Dio, essendo invisibile (atheo¯re¯tos) a ogni natura mortale, è visto a partire dalle sue opere (ap’auto¯n to¯n ergo¯n theo¯reitai) » (De mundo 6-7)6. L’universo è spesso paragonato a un palazzo o a una città che con la sua architettura manifesta colui che l’ha costruita (cfr. SVF 2,1011-1020). Questo paragone 6 Questa opera, di ispirazione stoica, falsamente attribuita ad Aristotele, è stata composta verso il secolo I d.C.

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però non deve essere preso alla lettera, perché la divinità che l’uomo viene in tal modo a conoscere non si distingue in modo adeguato dall’universo stesso, di cui è il principio informatore. In seno all’universo l’essere umano occupa un posto tutto speciale. Per la sua natura razionale, egli si distingue da tutti gli altri esseri e partecipa alla ragione universale, al logos divino (SVF 3,200a). Per questo, Arato di Soli, vissuto verso il 315 a.C., ha scritto la famosa frase citata da Paolo nel discorso dell’Areopago: « Poiché di lui stirpe noi siamo » (At 17,28; cfr. Fenomeni 5). Secondo Dione di Prusa (secolo I d.C.), l’essere dell’uomo consiste nel « non trovarsi lontano o fuori dal divino (...) ma di essere diventato in esso, più ancora di essere cresciuto con esso e di aderire a esso in ogni modo » (Orazione 12,28). Perciò l’uomo ha un rapporto molto stretto di parentela con la divinità. Cleante si rivolge a Zeus con queste espressioni: « Tutti da te siamo nati e, di quanto vive e si muove qui sulla terra, noi soli abbiamo il dono della lingua. Pertanto ti voglio lodare e voglio senza posa predicare la tua potenza » (SVF 1,537,4-6). La natura razionale dell’uomo sta alla base delle norme di comportamento, che costituiscono una parte fondamentale della filosofia greca, specialmente stoica.

b) Vivere secondo natura Secondo gli stoici, la vita morale dell’uomo ha inizio quando egli prende coscienza di se stesso come essere ragionevole. A questa consapevolezza si giunge per mez40

zo di un processo chiamato oikeio¯sis (attrazione), che è descritto per la prima volta da Crisippo, sebbene nelle sue linee essenziali debba risalire a Zenone stesso: quando un essere vivente si mette a contatto con gli oggetti esteriori, si sviluppa in lui la coscienza del proprio io come appartenente a sé e separato dalle altre cose percepite come estranee. Questa percezione del proprio io è accompagnata da un senso di piacere che fa nascere l’inclinazione a cercare ciò che conserva e favorisce il proprio io: nell’uomo essa, grazie alla natura ragionevole, porta a una valutazione cosciente delle cose in rapporto al proprio io: ciò che lo favorisce è sentito come utile e buono, mentre ciò che lo danneggia è sentito come un male. All’inizio sarà considerato come bene ciò che soddisfa le esigenze materiali dell’uomo, ma poco per volta questi diventa cosciente del suo logos, riconosce in esso la sua vera natura e concepisce come bene ciò che lo favorisce e lo sviluppa. La vita morale non è altro che la ricerca di questo bene. La oikeio¯sis è anche all’origine della vita sociale, perché l’uomo percepisce il suo io come strettamente legato a quello degli altri esseri umani, come i genitori, i figli, i parenti più stretti; anzi, ogni essere umano in quanto tale non è sentito come un estraneo ma come un congiunto. Da ciò nasce l’inclinazione a unirsi e a vivere in comune, rendendosi utili gli uni agli altri, dando così origine alla megalopolis, la grande città, nella quale vivono insieme gli uomini e gli dèi, legati da un vincolo di fratellanza (SVF 3,340-348). Questo modo di comportarsi fu definito da Zenone con la formula omologoumeno¯s ze¯n che per lui significava, in base all’etimologia, « vivere secondo il logos » divi41

no al quale la ragione umana partecipa (SVF 1,179[2]). Ma il logos non è altro che la natura, perciò Cleante fece consistere l’attività morale dell’uomo nel « vivere secondo natura », omologoumeno¯s te˛¯ physei ze¯n (SVF 1,179[1]; 1,552): con il termine natura egli intendeva anzitutto la natura dell’universo e in secondo luogo la natura dell’uomo che è parte di essa. Crisippo a sua volta spiegava che « il fine ultimo dell’attività umana consiste nel vivere “secondo la natura” (akoloutho¯s te˛¯ physei), cioè secondo la nostra natura individuale e nello stesso tempo la natura universale, senza compiere nulla di quanto proibisce la legge comune (ho nomos ho koinos) che è la retta ragione (ho orthos logos) presente dappertutto, identica a Zeus la cui potenza governa tutti gli esseri » (SVF 3,4). L’identificazione della legge comune con la divinità è un insegnamento costante degli stoici, a partire da Zenone (SVF 1,162) fino allo PseudoAristotele, che afferma: « Per noi infatti il dio è la legge perfettamente equilibrata (nomos men gar e¯min isokline¯s ho theos) » (De mundo 6). Nell’inno a Zeus di Cleante, Zeus è, da una parte, colui che con la legge dirige l’universo, mentre dall’altra è identificato con l’ordine del mondo che uomini e dèi devono venerare (SVF 1,537). La natura, dunque, è la legge che governa l’universo e rappresenta nello stesso tempo la norma alla quale tutti quanti, uomini e dèi, devono conformare la loro condotta. Gli stoici antichi non adottano però l’espressione « legge di natura » (nomos physeo¯s); questa appare per la prima volta in Cicerone 7, secondo il quale « la legge è la 7

42

Cfr. H. Köster, Physis, in GLNT 4,246-247.

ragione somma insita nella natura, la quale comanda ciò che va fatto e proibisce quel che non va fatto » (De legibus 1,6,18: cfr. SVF 3,315). L’osservanza di questa legge dà così all’uomo la possibilità di inserirsi nella grande armonia dell’universo governato dalla divinità, conferendo alla sua vita un senso religioso. La legge così concepita non ha nulla a che vedere con le leggi positive dei singoli Stati: queste infatti sono molto spesso frutto di convenzione o arbitrio, perciò il saggio non può ispirare a esse la sua vita morale; la vera legge egli la trova dentro di sé, secondo quanto afferma Plutarco: « Chi dunque governerà su chi governa? La legge, sovrana su tutti, mortali e immortali, come diceva Pindaro, non quella scritta (gegrammenos) all’esterno in libri o in qualche tavola, ma la ragione vivente (empsykos... logos) che è in lui, e sempre abita e vigila, e non lascia mai l’animo privo di guida » (Ad principem ineruditum 3,1). Però possono esistere anche leggi positive parzialmente identiche alla legge di natura: esse, mentre da una parte sono pienamente comprensibili solo al saggio, dall’altra non sono necessarie per lui, poiché è già istruito dalla legge di natura, ma per gli stolti ai quali impediscono con pene e minacce di fare il male. L’imperatore Giuliano scrive che « le leggi ci vengono dagli dèi e sono come scritte negli animi (ho¯sper eggraphentes tais psychais) » (Orationes 7,5). Seguendo la legge della sua natura, il saggio raggiunge la vera libertà (SVF 3,360) e l’autosufficienza che gli procura la felicità (SVF 3,49-67): per lui non è difficile praticare la virtù, perché l’uomo per natura è portato al bene e solo gli influssi esterni possono trascinarlo al ma43

le, ma anche contro di essi lo immunizza la conoscenza della legge della sua natura (SVF 3,228-229).

c) Doveri, virtù e vizi Al seguito di Zenone gli stoici hanno introdotto nel loro sistema filosofico il concetto di kathe¯kon8. Epitteto, ad esempio, si domanda: « Voglio sapere – come si addice a un uomo pio, amante della filosofia, diligente – qual è il mio dovere (kathe¯kon) verso gli dèi, verso i genitori, verso i fratelli, verso la patria, verso gli stranieri » (Diatribe 2,17,31). Secondo quanto riferisce Diogene Laerzio, Crisippo usa questo termine al singolare (to kathe¯kon) o al plurale (ta kathe¯konta), per indicare i doveri, cioè quello che spetta e conviene all’uomo perché imposto dalle circostanze esterne e quello che la ragione critica gli mostra come corrispondente alla sua natura. Egli definisce questo secondo tipo di doveri « quelle cose che il logos consiglia di fare, come onorare i genitori, i fratelli, la patria, e andare d’accordo con gli amici ». Le azioni cattive sono definite come contrarie al dovere (para to kathe¯kon, cfr. SVF 3,495). Dei doveri, alcuni non dipendono dalle circostanze esterne, come prendersi cura della salute, dei propri organi di senso e simili; altri invece, come l’infliggersi mutilazioni o dare fondo alle proprie sostanze, dipendono dalle circostanze esterne. Alcuni, come vivere secondo virtù, sono tali stabilmente, altri invece 8

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H. Schlier, Kathe¯kon, in GLNT 4,1319-1326.

no, come, ad esempio, porre domande, dare risposte, passeggiare e simili (cfr. SVF 3,496). In pratica, per Crisippo esistono tre specie di doveri (kathe¯kon): quelli che riguardano l’esistenza come tale, considerata nella sua realtà oggettiva e nel suo modo specifico di essere; quelli che la legge e la morale indicano come valori generali; infine, quelli che l’abituale coscienza morale non avverte, e a cui anzi si ribella, come il sacrificio per gli amici, l’amore per il prossimo. Nella terminologia filosofica ciò che è contrario al kathe¯kon è sempre indicato con la locuzione to para to kathe¯kon. Un altro aspetto caratteristico della morale stoica sono i cataloghi di virtù e di vizi 9. Le prime sono elencate normalmente in base alle quattro virtù cardinali (SVF 3,264) oppure alle diverse parti dell’anima, che secondo gli stoici sono otto, e cioè i cinque sensi, il potere della riproduzione e della parola, e infine la parte dominante (ragione) che governa le altre sette; esse agiscono nelle varie parti del corpo sotto forma di correnti immateriali o pneumata10. I vizi invece, secondo Zenone, derivano dalle quattro passioni (pathe¯) contro cui l’uomo deve combattere. Esse sono: il desiderio (epithymia), il piacere (e¯done¯), la paura (phobos) e l’afflizione (lype¯; cfr. SVF 1,211). Fra di esse la epithymia riveste un ruolo preminente. Secondo Cicerone, Crisippo la definisce come « la ricerca smodata di un bene ritenuto molto grande che però non corrisponde alla ra9 A. Vögtle, Die Tugend- und Lasterkataloge exegetisch, religions- und formgeschichtlich untersucht, Aschendorff, Münster 1936; S. Wibbing, Die Tugend- und Lasterkataloge im Neuen Testament, Töpelmann, Berlin 1959; J.T. Fitzgerald, Virtue/Vice Lists, in D.N. Freedman - G.A. Herion, Anchor Bible Dictionary, Doubleday, New York 1992, vol. VI, pp. 857-859. 10 Cfr. PseudoPlutarco, Placita philosophorum 4,21.

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gione » (Tusculanae disputationes 3,11,24; cfr. SVF 3,385). Epitteto parla spesso dell’epithymia ed esorta a combatterla. Essa è considerata come una mancanza da parte dell’uomo nei confronti della sua razionalità: nei suoi confronti perciò viene formulato un giudizio etico, non religioso11. d) La coscienza Il concetto di « coscienza » (syneide¯sis) si sviluppa nella filosofia greca solo agli inizi dell’era cristiana12. Fin dai tempi di Eschilo ed Erodoto, si trova invece nel greco classico la forma verbale synoida con il significato di « essere consapevole » (ad esempio, come testimone dell’accusa o della difesa), e nella forma riflessiva synoida eauto˛¯ , « essere cosciente di sé ». È nota la frase di Socrate che afferma: « Sono consapevole che non sono né molto né poco saggio »13. L’uso del sostantivo syneide¯sis è attestato solo a partire da Democrito (Frammenti 297) con un contenuto noetico: la capacità di rapportarsi a se stesso, e specialmente al proprio passato, con uno sguardo retrospettivo. Siccome questo non si ferma alla semplice constatazione di quanto è avvenuto, ma conduce a una valutazione critica, il termine acquista un po’ alla volta il significato morale corrente di coscienza. Questo sviluppo diventa frequente a partire dal secolo I a.C., per lo meno presso gli stoici (Dione, Strabone, F. Büchsel, Epithymia, in GLNT 4,593-595. J. Dupont, Syneidèsis. Aux origines de la notion chrétienne de conscience morale, in Studia Hellenistica 5 (1948) 119-153; A. Cancrini, Syneidesis. Il tema semantico della « con-scientia » nella Grecia antica, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970; C. Maurer, Syneide¯sis, in GLNT 13,271-295. 13 Platone, Apologia di Socrate 21b. 11 12

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Plutarco). A seconda che si sia o no in grado di giustificare il proprio comportamento di fronte a questa istanza giudicante, si parla di una coscienza buona (agathe¯, orthe¯) oppure cattiva (deine¯, ponera). Mentre, di solito, la prima è quella che provoca calma e serenità, la seconda è quella che provoca inquietudine nel soggetto. Secondo Euripide, Oreste, l’assassino di sua madre, considera come malattia la coscienza che lo annienta, cioè che lo rende consapevole delle cattive azioni (Oreste 396). Nella letteratura greca le Erinni sono le raffigurazioni mitologiche di questa cattiva coscienza che inquieta. Nell’ambiente greco precristiano si parla quasi esclusivamente di una cattiva coscienza che, in quanto conoscenza retrospettiva delle mancanze e dei vizi, ha spesso un carattere accusatorio e inquietante. Nel mondo romano, invece, si sviluppa anche l’idea di una conscientia bona oppure perfino praeclara o optima (soprattutto in Cicerone), che consiste nella consapevolezza del dovere compiuto. Nello stoicismo più recente si affievolisce la funzione retrospettiva della coscienza, la quale viene considerata piuttosto come una sentinella che Dio ha dato all’individuo, affinché viva in armonia con la natura e realizzi il suo progresso morale. Su questa linea Seneca riporta il formulario di un « esame di coscienza », di cui attribuisce la paternità ai pitagorici; ma sembra che sia stato lui stesso il primo a vedere in questo gesto di autocritica l’intervento della coscienza (Ad Novatum de ira 3,36,1-4). Nella coscienza, l’uomo ha così un indicatore infallibile per il suo comportamento. Il primo compito della coscienza è sempre quello di una istanza che esamina in modo critico, che giudica ciò che è ac47

caduto, oppure, al massimo, ciò che dovrà accadere; in tal modo, essa si prepara a diventare la guida della condotta morale.

3. Conclusione La tendenza dominante nel pensiero legale greco, dagli inizi fino ai vertici più elevati della filosofia della legge, fu dunque quella di riferire la legge all’essere, cioè all’unità oggettiva del mondo in quanto cosmo, a un ordine di cose ontologico permanente, che è nello stesso tempo l’ordine ideale di tutti i valori e il fondamento della vita umana e della libertà14. La visione degli stoici riguardo alla moralità umana è molto ottimistica: essi riconoscono l’esistenza di una legge comune a tutti, la quale è radicata nella loro stessa natura razionale, parte del logos divino che informa ogni cosa: in se stesso ogni essere umano possiede non soltanto la norma delle sue azioni, ma anche la capacità di vivere conformemente a essa, a meno che, cedendo ai cattivi influssi e alle attrattive delle cose materiali, egli venga meno alla sua razionalità. Questo modo di vedere comporta una concezione molto aperta e universalistica dell’essere umano. Di fronte alla legge suprema della ragione tutti gli esseri umani sono uguali, dotati degli stessi diritti e doveri. Le leggi delle nazioni hanno un valore secondario, in quanto sono basate su realtà di ordine contingente e possono 14 W. Jaeger, Eloge de la loi. L’origine de la philosophie légale et les Grecs, in Lettres d’humanité 8 (1949) 5-42, qui 41.

48

essere mutate in base ai luoghi e alle circostanze. Ma soprattutto esse non possono offuscare quella che è la luce suprema del logos, identificato con Dio, del quale una scintilla dimora nell’intimo di ognuno. Da qui deriva l’importanza della coscienza, che è la facoltà mediante la quale ogni essere umano coglie i valori supremi del logos e li fa entrare nella sua vita, prima come accusa nei confronti di scelte sbagliate e poi come indicazione di rotta nelle decisioni da prendere.

49

II

Conoscenza di Dio e legge mosaica

Nella Lettera ai Romani il termine legge (nomos) appare per la prima volta in 2,12 ed è ripetuto ben 7 volte in 2,14-16.26-29: si può quindi affermare che esso svolge un ruolo di primaria importanza nell’argomentazione contenuta in questo brano. Normalmente, nei testi di matrice ebraica come sono anche le Scritture cristiane, la legge non è altro che la tôra¯h, nella quale è delineata la volontà di Dio rivelata a Israele nel contesto dell’alleanza. Questo concetto viene elaborato soprattutto a partire dall’esilio. I profeti, che pure sono consapevoli del rapporto speciale che unisce gli israeliti a JHWH, solitamente non fanno uso del termine legge, ma annunziano direttamente la parola di Dio. Sebbene la legge sia una realtà interna all’esperienza religiosa di Israele, in essa appaiono forti spinte universalistiche che dispongono progressivamente i giudei a considerarla come una norma valida per tutta l’umanità.

1. La parola di Dio annunziata dai profeti Il movimento profetico è attestato in Israele a partire dai secoli VIII-IX a.C. e si estende fino al periodo postesi53

lico1. Esso precede quindi la composizione del pentateuco, che ne è stato fortemente influenzato e, a sua volta, ha condizionato la redazione finale dei libri profetici, che ha avuto luogo in un periodo posteriore 2. I profeti riaffermano in modo vigoroso il « diritto di JHWH », cioè di un comportamento che si rifà al modo di essere e di agire di Dio stesso. In questa prospettiva, essi elaborano il tema della « conoscenza di JHWH », che essi presentano non in chiave dottrinale, ma esistenziale 3.

a) La ricerca del « diritto di JHWH » I profeti mettono in primo piano lo speciale rapporto che collega Israele a JHWH, mostrando come da esso scaturiscano le norme fondamentali che regolano la vita sociale. A tale scopo, essi si concentrano su quelli che sono gli atteggiamenti più profondi che devono ispirare il comportamento dei singoli nei diversi settori della vita quotidiana perché corrispondano alla volontà e, prima ancora, al modo di essere di JHWH. I termini più comuni con i quali vengono designate queste scelte di fondo sono il diritto (mišpat.), la giustizia (s.edaqâ), il bene (t.ôb), 1 Per una presentazione del movimento profetico e dei singoli profeti, cfr. B. Marconcini (e coll.), Profetici e Apocalittici (Logos 3), LDC, Leumann (TO) 1995. 2 Sulla formazione dei libri profetici cfr. B.S. Childs, Teologia biblica, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1998, pp. 158-161; R.G. Kratz, I profeti di Israele, Queriniana, Brescia 2006, pp. 15-20; K. Schmid, La formazione dei profeti posteriori (storia della redazione), in Th. Römer - J.-D. Macchi - Ch. Nihan (edd.), Guida di lettura dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 2007, pp. 291-300. 3 F. Horst, Naturrecht und Altes Testament, in Id., Gottes Recht. Gesammelte Studien zum Recht im Alten Testament, Kaiser, München 1961 (1950), pp. 235-259, qui 250-257; W. Eichrodt, Theologie des Alten Testaments, 2 voll., Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19645, vol. II, pp. 225-233; J.L. Sicre, Profetismo in Israele, Borla, Roma 1995, pp. 412-439.

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la fedeltà (h.esed). Da questi valori essi ricavano direttive morali analoghe a quelle che confluiranno poi nel decalogo4. Il profeta Amos compendia in questo modo ciò che Dio si aspetta dal suo popolo: « Cercate il bene e non il male. (...) Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto » (Am 5,14-15). Il rifiuto del male e la ricerca del bene si identificano qui con il « diritto », cioè con la giustizia in tribunale, là dove facilmente viene calpestato il diritto dei poveri e dei deboli. Il culto, in quanto strumento autonomo dell’incontro con Dio, è messo in questione dai profeti 5. Amos afferma che Dio non gradisce i sacrifici e gli atti di culto che non siano accompagnati dalla giustizia e aggiunge: « Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne » (Am 5,24). Anche secondo Isaia, Dio rifiuta i sacrifici e ammonisce: « Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate il diritto, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova » (Is 1,16-17). Per Michea, JHWH esige che il popolo compia ciò che è buono, e lo invita a « praticare il diritto, amare la fedeltà, camminare umilmente con il tuo Dio » (Mi 6,8). Egli si rivolge ai capi e ai governanti di Israele, ai quali spettava in caso di lite dichiarare chi aveva ragione e chi aveva 4 A. Penna, Il decalogo nell’interpretazione profetica, in G. Canfora (ed.), Fondamenti biblici della Teologia morale. Atti della XXII Settimana Biblica, Paideia, Brescia 1973, pp. 82-116, qui in particolare pp. 88-93. 5 J. L’Hour, La morale de l’alliance, Gabalda, Paris 1966, pp. 20-28. N.W. Porteous, Actualization and the Prophetic Criticism of the Cult, in E. Würthwein - O. Kaiser (edd.), Tradition und Situation. Festschrift A. Waiser, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1963, pp. 93-105; J.L. Sicre, Profetismo, pp. 440-470.

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torto, e domanda loro: « Non spetta forse a voi conoscere il diritto? » (Mi 3,1). Essi invece odiano il bene e amano il male, aborriscono il diritto e storcono ogni cosa retta, spargono sangue, commettono soprusi e si comportano in modo venale (Mi 3,9-11). « Conoscere il diritto » significa dunque comportarsi secondo giustizia: nessun cenno è fatto a precetti di altro genere. In un testo tardivo di Isaia si dice che fa il bene ed è gradito a Dio « chi cammina nella giustizia e parla con lealtà, chi rigetta un guadagno frutto di angherie, scuote le mani per non accettare regali, si tura gli orecchi per non udire fatti di sangue e chiude gli occhi per non vedere il male » (Is 33,15)6. Geremia, parlando ai suoi connazionali, dice loro che potranno restare nella loro terra solo a queste condizioni: « Se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete il sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia altri dèi » (Ger 7,6). Subito dopo li accusa con queste parole: « Ma voi confidate in parole false e ciò non vi gioverà: rubare, uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a Baal, seguire altri dèi che non conoscevate » (7,8-9). Il culto di JHWH, che costituisce il fondamento della vita religiosa di Israele, è autentico e a lui gradito solo nella misura in cui va di pari passo con la difesa dei deboli e con la giustizia sociale. Il profeta Ezechiele afferma che un uomo può essere detto giusto solo a queste condizioni: « Se non mangia sulle alture e non alza gli occhi agli idoli della casa d’Israe6 In modo analogo si esprimono i « salmi di ingresso » (Sal 15,2-5; cfr. Sal 24,4-6; 50,17-20), che indicano le condizioni da adempiere per potersi presentare alla presenza di Dio.

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le, se non disonora la moglie del suo prossimo e non si accosta a una donna durante il suo stato di impurità, se non opprime alcuno, restituisce il pegno al debitore, non commette rapina, divide il pane con l’affamato e copre di vesti l’ignudo, se non presta a usura e non esige interesse, desiste dall’iniquità e pronunzia retto giudizio tra un uomo e un altro, se cammina nei miei decreti e osserva le mie leggi agendo con fedeltà (’e˘met) » (Ez 18,5-9). Lo stesso messaggio è ripreso dopo l’esilio dal Tritoisaia, il quale così descrive il digiuno gradito a Dio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo, dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire colui che è nudo (Is 58,6-8). Zaccaria riassume in questi termini la volontà di JHWH: « Praticate il diritto e la fedeltà (’e˘met, stabilità); esercitate la fedeltà (h.esed) e la misericordia (rah.amîm), ciascuno verso il suo prossimo » (Zc 7,9). Secondo Malachia, il giudizio divino si eserciterà « contro incantatori, adulteri, spergiuri, contro chi froda il salario all’operaio, chi opprime la vedova e l’orfano e contro chi fa torto al forestiero » (Ml 3,5). Secondo i profeti, ciò che conta è dunque la fedeltà a JHWH, che va di pari passo con la giustizia nei confronti del prossimo. Essi non manifestano un semplice interesse per l’ordine costituito, ma un vero amore per ciò che è giusto e al tempo stesso la convinzione che tale giustizia è una peculiarità di JHWH a cui tutti devono ispirarsi. La stessa varietà dei linguaggi e dei generi letterari da loro utilizzati mostra come essi, nei loro oracoli, non ripetano formule stereotipate, ma esigano dai loro ascoltatori scelte radicali che incidano profondamente nella loro vita. 57

b) Diritto e conoscenza di Dio I profeti collegano strettamente il tema del diritto come scelta di vita con quello della « conoscenza (da‘at) di Dio/JHWH »7. Secondo Osea, quando non c’è « stabilità (’e˘met) né fedeltà (h.esed), né conoscenza (da‘at) di Dio » si apre la porta al dilagare dell’ingiustizia: spergiuro, menzogna, omicidio, furto e adulterio (Os 4,1-2). Osea sottolinea che il popolo perisce per mancanza di conoscenza, perché ha dimenticato la legge del suo Dio (Os 4,6). Criticando il comportamento del popolo, Dio afferma: « Voglio la fedeltà e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti » (Os 6,6). Geremia afferma che sia le classi socialmente basse come quelle elevate « non conoscono la via di JHWH, il diritto del loro Dio » (Ger 5,4-5); « Anche la cicogna nel cielo conosce i suoi tempi; la tortora, la rondinella e la gru osservano la data del loro ritorno; il mio popolo, invece, non conosce il diritto di JHWH » (Ger 8,7). Qualificando il diritto con il nome di Dio, il profeta vuole affermare non solo che esso proviene da Dio, ma anche che esiste una correlazione interna tra Dio e il diritto. Perciò « conoscere JHWH » significa « praticare il diritto e la giustizia », cioè « tutelare la causa del povero e del misero » (Ger 22,15-16). Rifiutando di « conoscere JHWH », il popolo cade nei vizi più abominevoli (Ger 9,1-5). A chi vuole conoscere Dio, Geremia chiede di stabilire un rapporto personale e diretto con lui, ispirando la propria condotta al suo modo di agire nei confronti di Israele e di tutta l’umanità: « Ma chi vuole gloriarsi si 7

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Cfr. R. Bultmann, Gino¯sko¯, in GLNT 2,480-486.

vanti di questo, di avere senno e di conoscere me, perché io sono JHWH che agisce con fedeltà, con diritto e con giustizia sulla terra; di queste cose mi compiaccio (Ger 9,23). La « conoscenza di JHWH » consiste dunque in una adesione vitale a Dio e al suo modo di agire, e non in una percezione astratta del suo essere. Quando si parla di persone che non conoscono Dio (cfr. Ger 5,12; 10,25; Sal 10,3; 14,1; 53,2; 79,6; Gb 21,14-15), si intende non coloro che negano la sua esistenza, ma coloro che rifiutano di comportarsi secondo la sua volontà. I profeti mostrano dunque con chiarezza come l’impegno assunto da Dio per la salvezza di Israele comporti da parte del popolo un coinvolgimento leale e profondo nelle sue finalità e nel suo modo di agire, che viene espresso correntemente in termini di giustizia e di diritto. Da qui scaturiscono doveri precisi che riguardano i vari settori della vita sociale. Il fatto che i profeti identifichino la conoscenza di Dio con l’assunzione di valori noti a tutti, mette in luce la dimensione universalistica del loro messaggio.

2. La legge di Mosè Il concetto di legge, in ebraico tôra¯h, si sviluppa a partire dalle tradizioni riguardanti l’alleanza (berît) che JHWH ha concluso con Israele ai piedi del monte Sinai. L’alleanza israelitica è stata descritta secondo uno schema che è simile a quello dei formulari usati nei trattati internazionali dell’antico Medio Oriente8. All’inizio si 8 Per quanto riguarda il formulario dell’alleanza sono ancora illuminanti i rapporti dei testi biblici con i trattati di vassallaggio dell’impero neoittita dei

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situa l’iniziativa libera e gratuita di JHWH che ha scelto Israele e lo ha liberato dall’Egitto (prologo storico). A essa fa riscontro la risposta di Israele che, per conseguire la salvezza piena, deve aderire a lui con una fedeltà indefettibile (clausola fondamentale, cfr. Es 19,3-6). Questa esigenza ispira poi una raccolta di dieci comandamenti (decalogo), alla quale si sovrappongono i codici legali. L’insieme di questo materiale, sia narrativo che legale, forma appunto la tôra¯h, la legge di Israele 9.

a) La clausola fondamentale La « clausola fondamentale » dell’alleanza esige che Israele si lasci coinvolgere fino in fondo nell’opera che JHWH ha iniziato, facendone proprie le finalità e i metodi. Esistono numerose formulazioni della clausola fondamentale. Fra di esse, la più significativa è quella che esige da Israele nei confronti di JHWH una risposta di amore, che ha la sua origine nel cuore del popolo10. Amore, fiducia e fede. L’amore nei confronti di Dio è fatto oggetto nel Deuteronomio di un appello pressante: secoli X-VII a.C. (cfr. G.E. Mendenhall, Law and Covenant in Israel and the Ancient Near East, The Biblical Colloquium, Pittsburg 1955; D.J. McCarthy G.E.Mendenhall - R. Smend, Per una teologia del patto nell’Antico Testamento, Marietti, Torino 1972 [specialmente pp. 15-40]; P. Buis, La notion d’alliance dans l’Ancien Testament [LD 88], Cerf, Paris 1976). Per quanto riguarda invece aspetti particolari oggi si fa maggiormente riferimento ai patti assiri dei secoli VIII-VII a.C. (cfr. F. García López, Il Pentateuco [Introduzione allo Studio della Bibbia 3/1], Paideia, Brescia 2004, pp. 231-232). 9 J. L’Hour, La morale de l’alliance, pp. 53-68; G. Quell, Agapao ¯ , in GLNT 1,72-92. 10 R. Völkl, Botschaft und Gebot der Liebe nach der Bibel, Lambertus, Freiburg in Br. 1964, pp. 57-92. N. Lohfink, Ascolta Israele. Esegesi di testi del Deuteronomio (StBi 2), Paideia, Brescia 1968, pp. 57-76.

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« Ascolta Israele: JHWH è il nostro Dio, JHWH è uno solo. Tu amerai JHWH tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. Queste parole che oggi ti do siano sul tuo cuore » (Dt 6,4-6). In questo testo l’unicità di JHWH si colloca non sul piano ontologico, ma su quello esperienziale: solo lui ha dimostrato di essere talmente potente e misericordioso da liberare gli israeliti dall’oppressione degli egiziani, manifestando così la sua predilezione verso di loro (cfr. Dt 7,7-8). All’amore di JHWH, Israele deve quindi rispondere con un identico atteggiamento di amore (we’ahabta), che ha nel cuore la sua sede (bekol lebabeka, « con tutto il tuo cuore »)11. Israele perciò deve sempre portare sul suo cuore (‘al lebabeka) le parole (debarîm) di JHWH, cioè i comandamenti del decalogo, che erano stati riportati poco prima (cfr. Dt 5,6-21): l’amore per Dio è autentico solo se parte dal cuore e dà origine a comportamenti che sono in sintonia con la sua volontà (cfr. Es 20,6; Dt 5,10; 7,9; 1Re 3,3; Dn 9,4; Ne 1,5). La clausola fondamentale ha avuto altre importanti formulazioni. È significativo in proposito un testo, appartenente forse a uno strato più antico del Deuteronomio, nel quale si dice: « Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu l’ami e serva il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, che tu osservi i comandi del Signore e le sue leggi, che oggi ti 11 Già i sovrani orientali dei millenni I e II a.C. esigevano dai re alleati o vassalli non solo la sottomissione, ma anche l’amore (cfr. W.L. Moran, The Ancient Near Eastern Background of the Love of God in Deuteronomy, in CBQ 25 [1963] 77-84).

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do per il tuo bene? » (Dt 10,12-13); poco più avanti il testo continua con questa esortazione: « Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra nuca » (10,16); e poi aggiunge: « Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto » (10,19). Con l’amore vanno dunque di pari passo il timore, la sequela, il servizio, l’obbedienza. Israele dovrà inoltre trasformare il suo cuore e amare gli appartenenti a una categoria emarginata, quella dei forestieri (ger, straniero residente). Accanto a queste diverse formulazioni della clausola fondamentale, che si rifanno alle istanze tipiche della predicazione profetica, emergono anche sia la giustizia (s. edaqâ, cfr. Dt 6,25; Gn 15,6) che la fede (Gn 15,6), espressa in ebraico con parole derivanti dalla radice ’mn (« prestare fede, fidarsi di qualcuno ») e in greco con i termini pisteuein, pistis. Nel mondo biblico la fede non indica l’assenso a un complesso di concezioni o pratiche religiose, ma l’adesione a Dio dell’essere umano nella totalità del suo comportamento sia esteriore che interiore12. La clausola fondamentale consiste dunque in un atteggiamento globale di sottomissione a Dio, nel quale si fondono amore, timore, lealtà e, soprattutto, una fede sincera che si traduce in termini di fedeltà e di fiducia. Essa indica una scelta di campo, che parte dal cuore e determina tutte le scelte che la persona fa nei diversi campi della sua vita. 12 Cfr. A. Weiser, Pisteuo¯, in GLNT 10,359-384. I termini credere/fede non sono molto attestati nell’AT (cfr., ad esempio, Es 14,31; 19,9; Dt 1,32; 9,23; Is 7,9; 28,16), ma sono destinati ad assumere, assieme al termine giustizia, un ruolo fondamentale nel NT.

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Cuore e coscienza. Il cuore è la sede non tanto degli affetti e dei sentimenti, quanto piuttosto dei pensieri, dei ragionamenti e dei progetti, e può designare tutta la personalità in quanto cosciente, intelligente e libera, capace quindi di decidere e di scegliere13. La funzione assegnata al cuore umano fa sì che Dio, quando si rivolge a Israele, parli al suo cuore (Os 2,16), perché è da lì che scaturiscono le decisioni che determinano tutta la sua vita. Nel suo cuore l’essere umano viene a contatto con Dio e scopre ciò che è bene e ciò che è male (Dt 4,39-40); per questo, solo dal suo cuore può scaturire l’amore per Dio (Dt 6,5; 30,6-8), che si manifesta nell’osservanza dei comandamenti. Chi rifiuta l’obbedienza a Dio, indurisce il suo cuore (Is 6,10; Sal 95,8; Ez 6,9), cadendo così nel peccato. Dio ha la prerogativa di scrutare il cuore dell’uomo (1Sam 16,7; Ger 17,10). Perciò solo quello che proviene da un cuore retto ha valore di fronte a lui: un culto offerto con le labbra, mentre il cuore è lontano da lui, non può essergli gradito (Is 29,13). Può anzi capitare che uno compia con cuore retto, cioè pensando di fare bene, un’azione oggettivamente cattiva (Gn 20,4-7). È infine ancora il cuore umano che, riflettendo alla luce della volontà divina sulle azioni compiute, emette un giudizio di approvazione o di condanna (cfr. Gb 27,6; Sal 51,19; 1Sam 24,6; 2Sam 24,10). Il concetto biblico di cuore si avvicina a quello greco di coscienza (syneide¯sis)14. Questo termine non ha un 13 Sul concetto biblico di cuore, cfr. J. Behm, Kardia, in GLNT 5,205-210; J.B. Bauer, De « cordis » notione biblica et iudaica, in VD 40 (1962) 27-32. 14 Cfr. C. Maurer, Synoida, syneide ¯ sis, in GLNT 13,305-311; E. Borghi, La notion de conscience dans le Nouveau Testament. Une proposition de lecture, in Filología Neotestamentaria 10 (1997) 85-98.

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corrispondente specifico nell’AT. Nella traduzione greca dei LXX si trova solo in due testi, nel primo dei quali corrisponde all’ebraico « pensiero » (Qo 10,20: « Non maledire il re neppure con il tuo pensiero »), mentre nel secondo indica il senso di colpa che opprime il malvagio (Sap 17,11). In un altro testo, invece, compare il verbo corrispondente: « Sono cosciente (synoida) di non avere fatto (in ebraico: “il mio cuore non mi rimprovera”) nulla di male » (Gb 27,6). In Gb 31 infine, pur senza riferimento al termine coscienza, si trova una specie di « esame di coscienza » analogo a quello di cui parla Seneca. Nei testi giudaici e cristiani bisogna sempre saper percepire, sullo sfondo della coscienza, il concetto biblico di « cuore ». Su questa linea si pone chiaramente Filone di Alessandria. Per lui, la coscienza non è una istanza autonoma di decisione, ma una facoltà guidata da Dio, il cui compito è quello il condurre alla consapevolezza del peccato e della necessità di pentimento. Essa « come accusatore, incolpa, accusa e svergogna; come giudice insegna, dà indicazioni, esorta alla conversione, e se riesce a convincere si rallegra e si riconcilia », altrimenti continua a inquietare (Decalogo 87). Lo stesso punto di vista appare anche nei Testamenti dei dodici patriarchi: Ruben è tormentato dalla « coscienza » del peccato da lui commesso quando ha venduto suo fratello Giuseppe (Test.Ruben 4,2-3). Il peccatore è accusato dallo spirito di verità che si fa sentire nel suo cuore (Test.Giuda 20,1-5); d’altra parte il giusto evita di commettere il male per non essere condannato dal suo cuore, perché il Signore sorveglia la sua anima (Test.Gad 5,3). In modi diversi, si tratta sempre di un giudizio interiore riguardante il passato. 64

La clausola fondamentale, in quanto adesione di fede a Dio che parte dal cuore, rappresenta la sintesi più significativa e completa di quella raccolta che sarà chiamata « legge di Mosè ». Tutti gli altri comandamenti e precetti che si trovano in essa non sono esclusi, ma rappresentano la sua traduzione nella vita di ogni giorno. Essi quindi non devono essere compiuti come semplici prestazioni, ma come espressione di una ricerca costante di ciò che Dio vuole, in quanto traduzione in termini umani del suo modo di agire nella storia15.

b) Il decalogo come direttiva di vita Le prime conseguenze pratiche della fedeltà a Dio sono delineate nel decalogo (Es 20,2-17 // Dt 5,6-12)16. Questo documento è così chiamato perché contiene dieci comandamenti, denominati debarîm, « parole » (cfr. Es 20,1), alcuni dei quali sono forniti di un commento che ne mette in luce l’importanza e il significato. Per la loro forma breve e incisiva, che non ammette repliche, essi hanno ricevuto l’appellativo di « apodittici »17. La lista si apre con una formulazione della clausola fondamentale (Es 20,3: « Non 15 L’importanza che la clausola fondamentale ha assunto nel giudaismo risulta dal fatto che il testo di Dt 6,4-5, insieme con il decalogo (Dt 5,6-21), è entrato nella preghiera quotidiana di ogni pio israelita (cfr. E.P. Sanders, Il giudaismo. Fede e prassi [63 a.C. - 66 d.C.], Morcelliana, Brescia 1999, pp. 271-272). 16 Circa il decalogo, cfr. G. Barbaglio, Decalogo, in NDTM, pp. 204-218; H. Schüngel-Straumann, Decalogo e comandamenti di Dio (StBi 42), Paideia, Brescia 1977; W.H. Schmidt, I dieci comandamenti e l’etica veterotestamentaria (StBi 114), Paideia, Brescia 1996; J. Schreiner, I dieci comandamenti nella vita del popolo di Dio (Biblioteca Biblica 5), Queriniana, Brescia 1991; A. Wénin, Le décalogue, révélation de Dieu et chemin de bonheur?, in RThL 25 (1994) 145-182. 17 A. Alt, Die Ursprünge des israelitischen Rechts, in Id., Kleine Schriften zur Geschichte des Volkes Israel, vol. I, München 19684, pp. 278-332.

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avrai altri dèi di fronte a me »), seguita da nove comandamenti nei quali si delineano i doveri essenziali di ciascuno israelita nei rapporti con il proprio prossimo: proibizione del giuramento falso e della falsa testimonianza in ambito giudiziale, riposo in giorno di sabato (in favore anzitutto delle categorie più povere e sfruttate), onore verso i genitori, rispetto della vita del prossimo, della sua famiglia (proibizione dell’adulterio e del desiderio della donna altrui) e dei suoi beni (proibizione del furto e del desiderio). A Dio Israele deve una sottomissione totale, che si attua però solo attraverso la giustizia verso il prossimo18. Nel pentateuco, come nei libri profetici, si trovano altre liste di comandamenti che riguardano i rapporti fra i membri del popolo19. Rispetto a esse il decalogo, pur non essendo la più antica, è certamente la più importante. Esso infatti contiene una sintesi abbastanza esaustiva dei doveri verso l’altro, e per di più è stato collocato al centro della teofania sinaitica e, diversamente dai codici, è stato posto direttamente sulle labbra di JHWH (cfr. Es 20,1). Inoltre, quando Mosè presiede al rito di conclusione dell’alleanza, scrive in un « libro » le « parole » di JHWH, cioè i dieci comandamenti, sulla cui base l’alleanza è ratificata (Es 24,3-8)20. In-

18 Siccome in alcuni testi si parla di « due tavole » (forma duale) su cui è scritto il decalogo, si è pensato che esse contengano rispettivamente i doveri verso Dio (comandamenti I-III) e quelli verso il prossimo (comandamenti IV-X). Invece, si tratta piuttosto di un unico comandamento che riguarda l’adesione totale a Dio e alla liberazione da lui compiuta, seguito da altri nove che ne illustrano le implicazioni in campo sociale. 19 Cfr. Dt 27,15-26; Es 21,12.15-17; Lv 19,13-18; Os 4,1-2; Ger 7,8-9; Ez 18,5-9. Cfr. G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia 1972, vol. I, p. 223. 20 Il termine norme (mišpatîm), che solo in Es 24,3 appare accanto a « paro. le » (debarîm), è chiaramente un’aggiunta tardiva con la quale si vuole assimilare al decalogo il successivo codice.

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fine, quando Mosè scende dalla montagna con in mano le « tavole della testimonianza » su di esse sono scritti unicamente i dieci comandamenti (cfr. Es 24,12; 31,18; 32,15; 34,27-28). Per questi motivi il decalogo svolge a pieno diritto il ruolo di « carta dell’alleanza », analogo a quella che negli stati moderni è la Costituzione. Questa concezione è attestata nel giudaismo. Il Targum palestinese lo afferma simbolicamente, descrivendo la parola di Dio come un tutt’uno che precede la promulgazione separata di ciascuna delle dieci parole (cfr. Tg Es 20,1; Mekhilta, nel commento a Es 20). Filone di Alessandria sottolinea il fatto che al Sinai Dio ha parlato senza intermediario umano (Decalogo 9,33) e dispone tutto il materiale legale in ordine sistematico in modo che esso faccia capo al decalogo, che considera come il riassunto e la base di tutte le altre leggi (Leggi speciali 1,1). Secondo Giuseppe Flavio, Dio ha parlato direttamente perché il significato di quelle parole non fosse alterato e nessuno perdesse qualcuna di quelle dieci parole che Mosè ha scritto sulle due tavole (Antichità giudaiche 3,5,4). Una tradizione più recente riportata dal Talmud (Makkot 24a), afferma invece che Dio, quando promulgò il decalogo, non pronunziò se non le prime due parole che abbracciano, secondo la divisione ebraica, il prologo storico e il primo comandamento. È allora, e non alla fine del decalogo (come appare invece da Es 20,19), che il popolo, spaventato per la voce divina, avrebbe domandato a Mosè di parlare lui a nome di Dio21. Solo la clauso21 Cfr. J. Potin, La fête juive de la Pentecôte. Étude des textes liturgiques (LD 65), 2 voll., Cerf, Paris 1971, vol. I, pp. 262-263.

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la fondamentale sarebbe dunque la piena manifestazione della volontà di Dio. È significativo che originariamente nella preghiera sinagogale la recita dello Šema‘ (Dt 6,4-5) era preceduta da quella del decalogo22. Il decalogo rappresenta dunque l’indicazione più completa di ciò che JHWH si aspetta dal suo popolo. In esso la clausola fondamentale appare come incarnata nei grandi valori che stanno alla base dell’esistenza stessa di un popolo. Perciò il decalogo è considerato come una sintesi esaustiva di tutta la tôra¯h. È significativo che gli israeliti abbiano posto alla base del loro rapporto con Dio il rispetto dei diritti della persona umana, secondo parametri che corrispondono all’ethos di ogni popolo e cultura23.

c) I codici: una normativa inculturata Accanto al decalogo, sono riportate nei libri della tôra¯h altre raccolte di leggi il cui scopo è quello di regolare i rapporti fra persone, garantendo così l’ordinato funzionamento della vita sociale. Le più importanti sono il « codice dell’alleanza », che nella tradizione sinaitica è inserito subito dopo il decalogo (Es 20,22 - 23,33), il « dodecalogo rituale » (Es 34,17-26); il « codice deuteronomico » (Dt 12-28) e il « codice di santità » (Lv 17-26). Cfr. J. Potin, La fête juive de la Pentecôte, vol. I, pp. 282-284. Si veda, ad esempio, la confessione contenuta nel libro egiziano dei morti: G. Rachet (ed.), Il Libro dei morti degli antichi Egizi, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1997. Si veda anche la somiglianza del decalogo con la letteratura sapienziale extrabiblica (cfr. J. Lévêque, Testi sapienziali dell’antico Egitto, in G. Ravasi [ed.], L’Antico Testamento e le culture del tempo: testi scelti, Borla, Roma 1990, pp. 393-497). 22 23

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Queste prescrizioni sono simili, come forma e contenuto, alle leggi contenute nei grandi corpi legali dell’antico Oriente24. Molte di esse, riguardanti i rapporti tra persone, sono redatte in forma casistica, in quanto indicano un caso e ne danno la soluzione: a esse è dato il nome di mišpat.îm, « sentenze » (cfr. Es 21,1; 24,3), poiché si tratta originariamente di sentenze pronunziate da un giudice (šopet.) nel tribunale di un villaggio o di una città. Il loro scopo era quello di applicare ai casi concreti della vita di Israele, in un particolare momento della sua esistenza, quei principi sulla cui osservanza si fonda la sua stessa dignità di popolo di Dio. Non per nulla il « codice dell’alleanza », che contiene la raccolta più caratteristica di mišpat.îm (Es 21,1 - 23,9), riporta all’inizio una lista di precetti apodittici (Es 21,12.15-17). Sovrapposte e spesso mescolate con le disposizioni giuridiche si trovano le norme riguardanti il culto: il santuario (Es 25-30 e 35-40); feste e disposizioni liturgiche (Es 23,13-19; 34,17-26); sacrifici (Lv 1-7). Altre prescrizioni rituali sono sparse nei diversi libri del pentateuco, spesso in collegamento con racconti storici: così la norma riguardante la circoncisione è messa in rapporto con la vocazione di Abramo (Gn 17), mentre le disposizioni riguardanti la Pasqua sono promulgate in occasione dell’uscita dall’Egitto (Es 12-13). Un posto a parte spetta alle norme riguardanti la purità (Lv 11-15; Dt 14,3-21), il cui compito è quello di garantire il decoro esterno del popolo di Dio: la loro trasgressione, anche in24 Cfr. R. de Vaux, Le istituzioni, pp. 150-170. Per i paralleli extrabiblici, si veda ad esempio la raccolta di M.-J. Seux, Leggi dell’antico Oriente, in G. Ravasi (ed.), L’Antico Testamento e le culture del tempo, pp. 499-605.

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volontaria, richiedeva speciali riti purificatori, fra i quali rivestiva particolare importanza il rituale del gran giorno dell’espiazione, detto in ebraico Kippur (Lv 16). Nella legislazione israelitica i codici ricoprono, rispetto al decalogo, un ruolo secondario, analogo a quello che, negli ordinamenti statali moderni, i diversi codici svolgono nei confronti della Costituzione. Una volta accolti nei libri canonici, i codici non hanno più potuto essere aggiornati in funzione delle nuove situazioni politico-sociali. Perciò si è resa necessaria l’opera di interpreti che li hanno adattati alla situazione presente. Le loro interpretazioni (dette halakah, sentiero o cammino), trasmesse prima oralmente e poi messe per iscritto nel corso dei primi cinque secoli dell’era cristiana (Mišna), sono state considerate come una « legge orale » che deriva anch’essa da Mosè 25. In ambiente greco, le prescrizioni riguardanti gli alimenti, i tempi e i riti sacri, che non sembravano obbedire a criteri di razionalità, sono interpretate in modo allegorico 26: Secondo l’autore della Lettera di Aristea, esse sono state volute da Dio per separare il popolo eletto dagli altri popoli in modo che non fosse contagiato dalla loro idolatria (139) e per ammonirli a evitare certi peccati contro la giustizia, simboleggiati proprio nel comportamento di quegli animali il cui uso era loro proibito (144-147). Anche Filone di Alessandria, trattando nell’opera Leggi speciali le prescrizioni giuridiche e cultuali del giu-

25 Cfr. G. Aranda Pérez - F. García Martínez - M. Pérez Fernández, Letteratura giudaica intertestamentaria (Introduzione allo studio della Bibbia 9), Paideia, Brescia 1998, pp. 392-398. 26 Questo metodo era già stato applicato dai filosofi greci alla mitologia classica (cfr. F. Büchsel, Alle¯goreo¯, in GLNT 1,697-698).

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daismo, dimostra la loro ragionevolezza mediante l’interpretazione allegorica. Esse sono così giustificate con motivazioni diverse, di carattere storico, igienico, religioso, in modo da farle apparire come le norme più giuste e ragionevoli. Secondo lui, nella legge esiste, come nell’uomo, oltre al corpo (la lettera della prescrizione), anche un’anima (il senso spirituale) che solo l’interpretazione allegorica aiuta a enucleare (cfr. Vita contemplativa 78; Sobrietà 33). Ciò non toglie però nulla al carattere vincolante di tali disposizioni (Migrazione di Abramo 89). Le prescrizioni dei codici rappresentano la volontà di Dio, ma solo nella misura in cui incarnano in una data situazione i grandi valori che scaturiscono dall’alleanza. Tuttavia la situazione storica dei giudei, sotto il dominio straniero e in condizione di diaspora, ha avuto l’effetto di far valorizzare specialmente queste parti della legge, in forza delle quali i giudei si distinguevano anche esteriormente da tutti gli altri.

d) La tôra¯h di Mosè Tutto il complesso di disposizioni e di racconti elaborati nel contesto dell’alleanza è stato raccolto sotto il titolo di legge 27. Questo termine, in greco nomos, è la traduzione dell’ebraico tôra¯h, che letteralmente significa « istruzione, insegnamento » (dalla radice jrh, « insegnare »). L’espressione « legge di Mosè » è stata usata nella tradizione deuteronomica per indicare l’insieme delle disposizioni che 27 Sul concetto biblico di legge, cfr. W. Gutbrod, in H. Kleinknecht - W. Gutbrod, Nomos, in GLNT 7,1273-1332.

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riguardano la vita concreta di Israele, riportate appunto nel Deuteronomio (cfr. Dt 17,18; 31,26). L’esistenza di un libro che contiene la tôra¯h del grande legislatore (« libro della legge ») è segnalata per la prima volta al tempo del re Giosia (640-609 a.C.), i cui ministri l’avrebbero ritrovato nel tempio durante i lavori di ristrutturazione dell’edificio sacro (2Re 22,8)28. A motivo delle sue caratteristiche, si pensa che esso corrisponda alla prima edizione del Deuteronomio. Di un analogo libro si parla a proposito di Esdra, il quale fece leggere davanti all’assemblea dei rimpatriati il « libro della legge di Mosè » (Esd 9; Ne 8). A partire dall’opera cronistica e dai salmi più recenti, il nome tôra¯h viene a indicare il complesso dei primi cinque libri della Bibbia 29. Esso abbraccia non solo le disposizioni legali, ma anche i racconti storici che fanno loro da cornice. Si evidenzia quindi che i comandamenti di Dio non sono altro che la traduzione, in termini di comportamento umano, di ciò che Dio stesso compie intervenendo nella storia umana e mettendosi in rapporto con il suo popolo. L’osservanza della legge, contenuta nei cinque libri di Mosè, diventa così il fondamento di tutta la vita della comunità e la nota caratteristica dell’appartenenza al popolo di Dio 30. 28 Cfr. I. Cardellini, Lo scritto normativo dimenticato e ritrovato (2Re 22,3 - 23,3), in E. Manicardi - A. Pitta (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture nell’autotestimonianza della Bibbia. Atti della XXXV Settimana Biblica, in RicStBib 1-2 (2000) 39-57. 29 Circa l’origine del pentateuco, cfr. J.L. Ska, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia, EDB, Bologna 1998; J. Blenkinsopp, Il Pentateuco. Introduzione ai primi cinque libri della Bibbia, Queriniana, Brescia 1996; Ch. Nihan - Th. Römer, Il dibattito attuale sulla formazione del Pentateuco, in Th. Römer - J.-D. Macchi - Ch. Nihan (edd.), Guida di lettura dell’Antico Testamento, pp. 75-99. 30 Cfr. E.P. Sanders, Il giudaismo, pp. 331-333.

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Il termine tôra¯h è tradotto solitamente nel greco dei LXX con nomos, che assume le connotazioni specifiche, specialmente il carattere legalista, che esso ha assunto nel giudaismo. Nella letteratura giudaica in lingua greca ho nomos senza specificazioni indica normalmente la legge mosaica, anche quando è usato senza articolo. A volte si trova con lo stesso significato il plurale nomoi (cfr. 1Mac 10,37; Gdt 11,12; 2Mac 6,1; Libro dei giubilei, passim), che riflette da vicino la mentalità greca. La legge israelitica trae dunque il suo significato e la sua ispirazione dal senso profondo della trascendenza di JHWH, al cui servizio Israele si è messo nel momento in cui ha accettato di lasciarsi coinvolgere nel difficile cammino della libertà, diventando così un popolo sacerdotale e una nazione santa (Es 19,5-6). A lui il popolo deve anzitutto una fedeltà incondizionata, le cui grandi direttrici, dopo essere state esposte nella predicazione profetica, sono state condensate nel decalogo. Anche i codici fanno parte della legge, ma ne rappresentano lo strato più contingente, legato a fattori storici e culturali; nonostante la loro estensione, essi occupano un posto secondario e sono per loro natura soggetti a trasformazioni e a successivi adattamenti. Questa pluralità di contenuti condiziona il significato del termine legge, che può indicare tutto il complesso di racconti e disposizioni legali o un aspetto di esso, come l’amore, la fede o i comandamenti del decalogo. È significativo che questi ultimi, pur essendo indirizzati a Israele in quanto popolo di Dio, siano in realtà una vera e propria carta dei diritti e dei doveri dell’uomo, la cui validità si estende ben oltre i confini di Israele. 73

3. Formule riassuntive della legge La clausola fondamentale dell’alleanza rappresenta una sintesi esauriente della volontà di Dio contenuta nella tôra¯h a partire dai rapporti del popolo con Dio. Nella tradizione biblica esiste però anche il tentativo di fare una sintesi di tutti i comandamenti in chiave orizzontale, a partire cioè dai rapporti con i propri simili. Su questa linea si evidenziano tre orientamenti, i quali tendono a presentare come sintesi di tutta la legge rispettivamente l’amore del prossimo, la regola d’oro e la proibizione del desiderio.

a) L’amore del prossimo L’amore, che nella tradizione deuteronomica esprime la fedeltà di Israele verso il suo Dio (cfr. Dt 6,5) e saltuariamente lo straniero (cfr. Dt 10,19), nella tradizione sacerdotale è richiesto espressamente nei confronti del prossimo (Lv 19,18). Il contenuto essenziale della tôra¯h di Israele viene così inteso non solo come una risposta personale al Dio dell’alleanza, ma anche come un atteggiamento di lealtà verso gli altri membri del popolo. Il comandamento di Lv 19,18. L’amore del prossimo fa la sua comparsa in una raccolta di precetti morali, sociali e religiosi trasmessi all’interno del « codice di santità » (Lv 17-26)31. La raccolta è introdotta con l’esortazione: 31 M. Noth, Levitico (AT 6), Paideia, Brescia 1989, pp. 172-181; E. Cortese, Levitico 19, in Aa.vv., Evangelizare pauperibus. Atti della XXIV Settimana Biblica, Paideia, Brescia 1978, pp. 207-217; D. Luciani, « Soyez saints, car je suis saint ». Un commentaire de Lévitique 19, in NRT 114 (1992) 212-236; H.-P. Mathys, Liebe deinen Nächsten wie dich selbst. Untersuchungen zum alttestamentlichen Gebot

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« Siate santi, perché io, JHWH vostro Dio, sono santo » (Lv 19,2): con essa le singole prescrizioni sono collocate nel quadro dell’alleanza sinaitica e sono presentate come la via obbligata per imitare la santità di Dio. All’inizio sono elencati i comandamenti riguardanti il rispetto dei genitori e la proibizione dell’idolatria (Lv 19,3-4). Dopo un intermezzo, in cui si esaminano alcuni casi specifici di carattere giuridico e cultuale (19,5-10), riprende la serie di comandamenti morali: proibizione del furto, dei giuramenti falsi, dello sfruttamento del povero, del disprezzo del sordo e del cieco e infine dell’ingiustizia nel tribunale (19,11-16). Al termine di questo elenco appare la seguente esortazione: « Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso (we ’ahabta lere‘aka kamôka). Io sono JHWH » (Lv 19,17-18). La lista procede con altri precetti di tipo per lo più casistico (Lv 19,19-37). Fra di essi appare la disposizione che impone all’israelita di amare il forestiero come se stesso, perché anch’egli è stato forestiero nel paese d’Egitto (19,34). Questa sistemazione del materiale tende a sottolineare l’importanza e il significato che l’amore del prossimo riveste all’interno della legislazione biblica. Mentre gli altri precetti della lista riguardano azioni esterne, l’esortazione contenuta in 19,17-18.34 tocca alla radice l’atteggiamento interiore del singolo israelita, der Nächstenliebe (Lev. 19,18), Universitätsverlag - Vandenhoeck & Ruprecht, Fribourg-Göttingen 1986; S. Legasse, E chi è il mio prossimo?, EDB, Roma 1991, pp. 35-55.

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la sua opzione fondamentale, in quanto gli impone di « amare » (’ahab) il suo prossimo come se stesso. Questa formulazione va oltre il divieto di odiare e di vendicarsi, in quanto afferma che ciascun membro della comunità deve riconoscere nel suo prossimo un altro se stesso, dotato dei suoi stessi pregi e difetti, degno perciò della stessa simpatia e solidarietà di cui egli ha bisogno 32. In tal modo si mette in luce come l’osservanza dei comandamenti morali sia impossibile se non si assume nei confronti del prossimo un atteggiamento del cuore analogo a quello che la tôra¯h richiede nei confronti di Dio (cfr. Dt 6,5). D’altra parte, l’amore del prossimo indica il criterio con il quale è possibile scoprire la volontà divina anche in tutti quei campi che non sono regolati da norme specifiche: a tal fine ciascuno non deve fare altro che invertire i ruoli e chiedersi che cosa si aspetterebbe egli stesso dal suo prossimo se fosse al suo posto. In tal modo, l’amore del prossimo diventa tendenzialmente la sintesi di tutti i comandamenti, in quanto indica la strada maestra per obbedire alla volontà di Dio in qualsiasi situazione, appropriandosi di quella santità che è la sua caratteristica specifica. Nei testi narrativi e anche in molti testi legislativi, il termine prossimo (rea‘) può indicare l’uomo in genere, il compagno, l’amico o l’amante, colui che è investito della carica ufficiale di amico del re e infine è usato come secondo termine nella formula « l’uno all’altro »33. In Lv 32 Cfr. D. Flusser, Il giudaismo e le origini del Cristianesimo, Marietti, Genova 1995, pp. 123-124. 33 Cfr. J. Fichtner, Ple ¯ sion, in GLNT 10,713-723; J. Schreiner - R. Kampling, Il prossimo, lo straniero, il nemico (I temi della Bibbia 3), EDB, Bologna 2001.

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19,17-18 tuttavia esso è l’equivalente di fratello, compatriota, membro del tuo popolo, perciò è fuori dubbio che indica l’altro israelita e non ogni essere umano. L’obbligo dell’amore si estende anche al nemico personale, poiché proprio nello stesso brano si esclude in seno alla comunità israelitica ogni forma di vendetta e di rancore 34. È significativo però che nello stesso contesto l’amore venga richiesto anche nei confronti del forestiero (ger). Il ger è il non israelita che si è stabilito a lungo o definitivamente nel territorio di Israele 35. Egli si trova in un rapporto di servitù verso un patrono o verso la tribù nella quale risiede; a differenza dello schiavo, mantiene la sua libertà personale e può farsi una posizione con il suo lavoro. Tuttavia non può entrare in possesso di una proprietà fondiaria, e di conseguenza resta sempre in una posizione di inferiorità sociale paragonabile a quella dei poveri, degli orfani e delle vedove e, in una certa misura, dei leviti. Insieme con tutti costoro, il forestiero dispone della tutela della legge, che proibisce di farlo oggetto di ingiustizia e di oppressione (cfr., ad esempio, Es 22,20-22; 23,9; Dt 10,19; 14,29; 24,17-19). Come motivo dell’amore verso il forestiero viene portato il fatto che gli israeliti sono stati forestieri in Egitto: si suppone che non debbano fare agli altri quello che hanno sentito come 34 Altre direttive contro l’odio si trovano in Es 23,4-5; Pro 20,22; 24,29; 25,21; Gb 31,29. 35 Cfr. Es 12,49; Dt 23,8; 2Cr 2,16. A proposito della figura del ger, cfr. K.G. Kuhn, Prose¯lytos, in GLNT 11,299-336; G. Barbiero, Lo straniero nel Codice dell’Alleanza e nel Codice di Santità: tra separazione e accoglienza, in I. Cardellini (ed.), Lo « straniero » nella Bibbia. Aspetti storici, istituzionali e teologici. Atti della XXXIII Settimana Biblica, in RicStBib 1-2 (1996) 41-69. Cfr. A. Spreafico, Lo straniero e la difesa delle categorie più deboli come simbolo di giustizia e di civiltà nell’opera deuteronomico-deuteronomista, in I. Cardellini (ed.), Lo « straniero » nella Bibbia, pp. 117-134.

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particolarmente odioso nei propri confronti. In ambito ellenistico il ger diventerà il proselite, cioè il gentile che aderisce al popolo di Israele. Non si parla invece di amore verso l’altra categoria di stranieri, i nok erîm. Costoro erano gli stranieri veri e propri, che potevano trovarsi solo occasionalmente in terra di Israele, come viaggiatori, commercianti o più spesso come occupanti. Essi erano privi, in Israele come presso gli altri popoli dell’antichità, di protezione e di diritti; si aggiunga il fatto che appartenevano a popoli spesso anche nemici, oggetto quindi di disprezzo e di odio36. Ma anche nei loro confronti vigeva l’obbligo dell’ospitalità che per gli israeliti, come presso gli altri popoli dell’antichità, era sacra (cfr. Gn 18,1-15; 19; Gdc 19,16-24). Giudaismo. L’amore del prossimo continua ad avere un ruolo di primaria importanza nel giudaismo, specialmente in ambito ellenistico 37. Ciò è evidente soprattutto all’interno dei vari movimenti che connotavano la società religioso-politica al tempo di Gesù, ciascuno dei quali, presentandosi come il vero Israele, esigeva dai suoi membri un rapporto vicendevole di amore. Nel Siracide sono numerosi i riferimenti all’amore del prossimo. Alludendo a Lv 19,18, l’autore afferma che ira, rancore e vendetta devono lasciare il posto alla misericordia e al perdono (Sir 28,1-6), e conclude: « Ri36 Questi stranieri sono visti nell’AT soprattutto come idolatri, dai quali la comunità israelitica, specialmente dopo l’esilio, tende sempre più a separarsi (cfr. G. Stählin, Xenos, in GLNT 8,26-34). 37 La versione greca dei LXX traduce normalmente con agapao¯ e agape¯ i termini derivati dalla radice ebraica ’hb, che solo eccezionalmente, quando sono usati in senso profano, sono tradotti con philein/philia (10 volte) e con erasthai (2 volte): cfr. E. Stauffer, Agapao¯, in GLNT 1,98-101.

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cordati dei comandamenti e non avere rancore verso il prossimo (ple¯sion), dell’alleanza con l’Altissimo e non fare conto dell’offesa subita » (Sir 28,7). Secondo questo autore, esiste un rapporto speciale tra amore (eleos, misericordia) e osservanza dei comandamenti (Sir 29,1). Secondo il Libro dei giubilei, lo stesso giuramento che introduceva nell’alleanza di Dio rappresentava la base del legame fraterno. L’amore del prossimo è inculcato con insistenza e in contesti diversi; in modo particolare esso rappresenta il nucleo centrale delle raccomandazioni che i patriarchi fanno ai loro figli prima di morire 38. Esso figura fra le norme morali inculcate da Noè ai suoi figli (7,20); la sua trasgressione, da lui stesso prevista, rappresenta il segno di una ricaduta nell’ingiustizia e nel peccato (7,26). Abramo raccomanda nel suo testamento non solo a Isacco, ma anche a Ismaele e ai figli di Chetura e ai loro rispettivi figli, « di rispettare la via del Signore per fare giustizia e amarsi l’un l’altro e di essere così anche in ogni guerra » (20,2)39. Isacco raccomanda a Giacobbe e a Esaù: « E vivete, figli miei, fra di voi, amando i vostri fratelli come voi stessi e cercando ciò che è bene per loro, per agire insieme concordemente sulla terra ed amarvi, vicendevolmente, come loro stessi » (36,4; cfr. 36,7-8; 46,1). L’amore però non si estende ai nemici di Israele e ai gentili in genere, verso i quali si impone una rigorosa separazione. 38 M. Testuz, Les idées religieuses du Livre des Jubilés, E. Droz - Minard, Genève-Paris 1960, pp. 104-105. 39 Secondo P. Sacchi (Apocrifi dell’Antico Testamento, 5 voll., Utet, Torino [voll. I-II] 1981, 1989; Paideia, Brescia [voll. III-V] 1999, 2000, 1997, qui vol. I, p. 304), l’espressione « così anche in guerra » potrebbe essere tradotta « fra tutti gli uomini »: in questo caso si sottolineerebbe l’universalità del precetto dell’amore.

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Le espressioni più elevate riguardo all’amore del prossimo si leggono nei Testamenti dei dodici patriarchi 40: in esso i due precetti sono strettamente congiunti come nel NT e sono presentati come il culmine di una vita giusta. Nel Test.Issacar si legge: « Ma amate il Signore e il prossimo. Abbiate misericordia del povero e del malato » (5,2; cfr. 7,5-6). Il rapporto che intercorre tra il comandamento dell’amore del prossimo e i diversi precetti della legge è esposto nel Test.Gad, secondo il quale l’odio « provoca l’infedeltà alla legge (anomia) anche contro il Signore » mentre l’amore « agisce insieme con la legge di Dio per la salvezza degli uomini » (4,1-2.7; 6,1.3-4) 41. Negli scritti di Qumran il duplice precetto dell’amore è spesso ricordato come fondamento della vita comunitaria. Il testo di Lv 19,18 è citato al centro di una lista di precetti morali e rituali che devono essere osservati da coloro che sono entrati nella nuova alleanza (CD 6,18 7,1). In questo testo il termine fratello prende il posto del prossimo, ma resta valido l’obbligo di estendere l’amore allo straniero. L’amore del prossimo deve essere proporzionato ai doni che questi ha ricevuto da Dio, mentre per coloro che Dio allontana non può esserci che odio (1QH 6,18-21). Nella comunità si entra « per amare tutto ciò che egli [Dio] predilige e per odiare tutto ciò che egli aborrisce » (1QS 1,3-4), « per amare tutti i figli della 40 Nonostante le innegabili interpolazioni cristiane, l’origine giudaica di questo libro è sempre più riconosciuta dagli studiosi (cfr. P. Sacchi [ed.], Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. I, pp. 727-747, secondo il quale il carattere giudaico degli insegnamenti sull’amore è fuori dubbio; cfr. anche S. Legasse, E chi è il mio prossimo?, pp. 45-49). 41 Espressioni analoghe si trovano anche in Test.Zabulon (5,3), Test.Dan (5,3), Test.Beniamino (3,1.3-5), Test.Simeone (4, 6-7), Test.Dan 2,1 - 5,2; Test. Asher 2,2-7.

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luce... e per odiare tutti i figli delle tenebre » (1QS 1,9-11; cfr. 1QS 5,3-4). In questi testi l’odio non riguarda i nemici personali, che in Qumran è condannato come nell’AT, ma gli empi in quanto tali, facilmente identificati con i nemici del gruppo 42. Nella letteratura giudaica della diaspora la sensibilità verso il mondo greco porta a un notevole allargamento del concetto di prossimo, già percepibile nell’uso di tradurre l’ebraico rea‘ (amico, collega, connazionale) con il termine ple¯sion (prossimo) che ha un significato più generale43. Le massime contenute nel libro dei Segreti di Enoc sono largamente ispirate al principio dell’amore: l’autore infatti esorta alla sopportazione delle offese per amore di Dio, al perdono, all’aiuto generoso offerto ai poveri e ai deboli (cfr. 9,1; 50,3-4; 52,11.12; 63,2-4; 66,6). Nella Lettera di Aristea, tutta la legislazione ebraica è spiegata come espressione della « pietà » (eusebeia) e della « giustizia » (dikaiosyne¯), che nel giudaismo ellenistico indicano la fedeltà verso Dio e l’amore per il prossimo (131). In seguito la giustizia viene presentata come lo scopo a cui tende tutta la legge (168-169). Anche Filone di Alessandria, pur adottando la terminologia greca, resta fedele, come Aristea, alla sostanza del pensiero biblico che mette l’amore di Dio e del prossimo al centro della vita religiosa44. Secondo lui, la eusebeia è la prima di tutte le virtù nello stesso modo in cui Dio è il primo e il più eccellente di tutti gli esseri (Decalogo C fr. E.F. Sutcliffe, Hatred at Qumran, in RQum 2 (1959-60) 345-355. J. Fichtner, Ple¯sion, in GLNT 10,720-723. 44 Cfr. H.A.Wolfson, Philo, Foundation of Religious Philosophy in Judaism, Christianity and Islam, 2 voll., Cambridge (MA) 1948, vol. II, p. 215. 42 43

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52); alla giustizia (dikaiosyne¯) è riconosciuto il titolo di « regina delle virtù » (Vita di Abramo 27). Filone afferma: « Vi sono due principi riassuntivi (dyo ta ano¯tato kephalaia) degli innumerevoli precetti e insegnamenti (della legge), quello della pietà e della venerazione (eusebeia, hosiote¯s) verso Dio e quello dell’amore e della giustizia (philanthro¯pia, dikaiosyne¯) verso gli uomini » (Leggi speciali 2,63)45. L’eusebeia e la philanthro¯pia sono le regine delle virtù (Virtù 95). Per Filone la philanthro¯pia non si limita al connazionale ma si estende al proselite, allo straniero residente, al nemico, allo schiavo, agli animali e alle piante fino ad abbracciare tutte le creature (Virtù 51-174): in questa esposizione è evidente l’influsso del cosmopolitismo ellenistico, ma il carattere concentrico dell’amore tradisce l’origine giudaica del suo pensiero46. Giuseppe Flavio riconosce il valore centrale della giustizia verso il prossimo e della pietà verso Dio. Egli riassume così il messaggio di Giovanni il Battista: « Era un uomo giusto, che esortava i giudei a tendere alla virtù, a esercitare la giustizia verso il loro prossimo e la pietà verso Dio e a ricevere, così preparati, il battesimo » (Antichità giudaiche 18,5,2). L’amore verso il prossimo riceve un’attenta considerazione anche negli scritti rabbinici. A R. Hillel, vissuto verso il 20 a.C., si attribuisce un detto molto vicino ai precedenti: « Sii un discepolo di Aronne, che ama la pace 45 Questo testo presenta una forte analogia con Rm 13,9, dove si dice che tutta la legge si riassume (anakephalaioutai) in un’unica parola: « Amerai il prossimo tuo come te stesso ». 46 Cfr. R. Le Déaut, Philanthropia dans la littérature grecque, jusq’au Nouveau Testament (Tite III,4), in Mélanges E. Tisserant (Studi e Testi 231), LEV, Città del Vaticano 1964, pp. 255-294. A. Wolfson, Philo, vol. II, pp. 218-222.

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e la ricerca, che ama gli uomini (berijôt) e li avvicina alla legge » (Aboth 1,12). Per R. Hillel la comunità è il luogo privilegiato in cui si esercita l’amore: « Non separarti dalla comunità (...); non giudicare il tuo prossimo (h.aber) finché non ti sia messo al suo posto » (Aboth 2,5). Nel Targum si legge: « Popolo mio, figli di Israele, come il nostro Padre è misericordioso (rah.amîn) nei cieli, così anche voi sarete misericordiosi sulla terra » (TgPsJ Lv 22,28). Alcuni detti attribuiti a R. ‘Aqiba sono ugualmente significativi perché, sebbene sia morto nell’anno 135 d.C., è testimone di convinzioni più antiche. Egli afferma che « l’uomo è amato (h.abib) perché fu creato a immagine di Dio » (Aboth 3,18). Perciò « se uno sparge il sangue dell’uomo ciò gli è addebitato come se avesse diminuito l’immagine (di Dio) » (GnR 34,14 commento a Gn 9,6). L’amore verso gli uomini è per R. ‘Aqiba il dovere fondamentale di ciascun membro del genere umano, come risulta dal giudizio che egli dà della generazione del diluvio: « Essi hanno dimenticato l’amore (rah.amaj) verso gli uomini (berijôt), perciò anche Dio ha dimenticato il suo amore verso di loro » (GnR 3,5 commento a Gn 8,7). Ma R. ‘Aqiba non si ferma qui: egli sostiene che il precetto « Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Lv 19,18) è « il più grande principio della legge (kelal gadôl battôra¯h) », cioè il precetto fondamentale, dal quale tutti gli altri possono essere dedotti (Sifra Lv 19,18). Questa sentenza di R. ‘Aqiba è accompagnata in Sifra Lv 19,18, come pure nei testi paralleli, da un detto di R. ben ‘Azzai, vissuto verso il 110 d.C., secondo il quale Gn 5,1 (« Questo è il libro delle generazioni dell’uomo: quando creò l’uomo, Dio lo fece secondo la sua 83

somiglianza ») rappresenta il principio più grande di tutta la legge: in altre parole, tutta la legge consiste nel rispetto di qualsiasi persona umana in quanto creatura di Dio47. Questa panoramica, pur con tutti i suoi limiti, dimostra che in un periodo vicino a quello delle origini cristiane l’« amore » era presentato come il fondamento e il centro di tutta la vita religiosa, e quindi come la sintesi di tutta la legge. Esso era percepito come una scelta indivisibile, che si manifesta da un lato nei confronti di Dio e dall’altro nei confronti del prossimo. L’obbligo dell’amore sottolinea che il rispetto dell’altro non si esaurisce nella ricerca della giustizia sociale o nell’esercizio del diritto, ma deve fondarsi su un rapporto personale, l’unico che possa garantire all’agire umano una vera dimensione di libertà. Pur non trattandosi ancora di un amore universale, che includa anche i nemici, l’amore biblico, come sottolinea bene Filone di Alessandria, ha uno sviluppo concentrico: partendo da Dio esso trova il suo primo campo d’azione nella casa, dalla quale si allarga al popolo e al forestiero che si stabilisce in Israele e potenzialmente si estende a ogni essere umano.

b) La regola d’oro L’atteggiamento di fondo richiesto da Dio nei confronti del prossimo è espresso nel giudaismo non solo in 47 Cfr. J.Z. Lauterbach, The Ethics of the Halakah, in Id., Rabbinic Essays, Hebrew Union College Press, Cincinnati 1951, pp. 256-296. Gli studiosi cristiani sono in genere meno ottimisti.

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termini di amore, ma anche facendo ricorso alla cosiddetta « regola d’oro », cioè la massima che impone a ciascuno di non fare all’altro quello che non vorrebbe fosse fatto a sé (forma negativa), e di fare per l’altro quello che vorrebbe per sé (forma positiva). Nei libri canonici dell’AT la regola d’oro non è formulata esplicitamente, sebbene non manchino testi che si ispirano a essa (cfr. Es 23,9; Dt 15,12-15). Nel giudaismo invece la massima acquista una grande popolarità, assumendo, accanto al precetto che impone l’amore del prossimo, il ruolo di sintesi di tutta la legge 48. Nel Siracide la massima appare all’interno di una sezione in cui si parla del comportamento che deve tenere colui che è invitato a un banchetto (31,15): nel testo ebraico essa è contenuta, in forma negativa, nel secondo stico, come commento a una esortazione positiva che riproduce sostanzialmente Lv 19,18: « Comportati con il tuo compagno come con te stesso, ed evita tutto ciò che tu detesti ». Nel testo greco invece manca la regola d’oro negativa nel secondo stico, mentre il primo stico è reso in modo tale da esprimere la regola d’oro positiva: « Conosci (noei) le cose del prossimo da te stesso e rifletti su ogni cosa »49. 48 L.J. Philippidis, Die Goldene Regel religionsgeschichtlich untersucht, Klein, Leipzig 1929; A. Dihle, Die Goldene Regel. Eine Einführung in die Geschichte der antiken und frühchristlichen Vulgärethik, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1962; J. Wattles, The Golden Rule, Oxford University Press, Oxford - New York 1996; L. Sandonà, Forme della Regola d’oro nel mondo ebraico-cristiano, in C. Vigna - S. Zanardo (edd.), La regola d’oro come etica universale (Filosofia morale 23), Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 3-36. 49 Cfr. F. Vattioni, Ecclesiastico. Testo ebraico con apparato critico e versione greca, latina e siriaca (Pubblicazioni del Seminario di Semitistica, Testi 1), Istituto Orientale di Napoli, Napoli 1968, pp. 146-148.

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Nel libro di Tobia la regola d’oro negativa è elencata senza un’enfasi particolare tra i precetti morali e i consigli che il vecchio Tobit espone al figlio Tobia prima che questi inizi il suo viaggio: « Non fare agli altri ciò che tu detesti per te stesso » (ho miseis me¯deni poie¯se˛¯ s, Tb 4,15 [v. 14 nel testo aramaico ed ebraico]). Nella Lettera di Aristea la regola d’oro è riferita come norma di sapienza per i potenti: « Come tu non desideri che ti sopravvengano dei mali, ma al contrario vuoi avere parte a tutti i beni, (è norma di sapienza) fare questo verso i sudditi e i colpevoli » (207). Caratteristico di questo testo è il fatto che, pur dando il primo posto alla forma negativa, dimostra di conoscere anche quella positiva, che combina con la precedente senza riscontrare tra le due una particolare diversità. Anche Filone di Alessandria, nella sua opera Hypothetika, utilizza la regola d’oro in forma negativa: « Nessuno faccia quelle cose che non desidera subire »50. Nel libro dei Segreti di Enoc la regola d’oro è riferita in forma positiva: « Ciò che un uomo domanda al Signore per la sua anima, lo faccia per ogni anima viva » (61,1-2). Il testo ebraico del Testamento di Neftali presenta la pratica della regola d’oro, espressa anche qui in forma negativa, come lo scopo dell’esistenza dell’uomo in quanto creatura di Dio: « (Dio) non ha creato il suo mondo senza uno scopo, ma affinché le creature lo temano e nessuno faccia al suo prossimo ciò che non vuole sia fatto a lui » (1,6)51. 50 Questa citazione è riportata dallo storico Eusebio di Cesarea (Praeparatio evangelica 8,7,6: PG 21,604). 51 Cfr. P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. I, p. 926. Con tutta probabilità questo testamento è un rifacimento giudaico del testo greco conosciuto.

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Nella letteratura rabbinica il Targum palestinese menziona, quale commento al precetto dell’amore del prossimo, la regola d’oro negativa: « Ciò che tu hai in odio per te stesso non lo farai a lui » (TgPsJ Lv 19,18.34). L’antichità di questo commento targumico appare dalla frequenza con cui la regola d’oro è citata e utilizzata nella letteratura giudaica antica. La massima, sempre in forma negativa, si trova sulle labbra di R. Hillel. A suo riguardo si racconta che uno straniero si rivolse al suo contemporaneo R. Shammai dicendogli di essere disposto a diventare proselite, a condizione che gli insegnasse tutta la legge mentre rimaneva su un solo piede. R. Shammai lo cacciò via con il metro da muratore che aveva in mano. Egli allora fece la stessa domanda a R. Hillel, che lo accettò come proselite dicendogli: « Quello che è odioso a te non farlo al tuo prossimo (h.aber). Questa è tutta la legge; il resto non è che una spiegazione: va’ e imparalo » (Shabbat 31a)52. Con R. Hillel la regola d’oro diventa il principio in cui si riassume tutta la legge mosaica. Tutto il resto non è che una pura spiegazione o, meglio, la traduzione di tale principio nella vita pratica. Ma le singole prescrizioni della legge, pur essendo soltanto una spiegazione e un commento, devono essere imparate e osservate così come suonano. Anche a R. ‘Aqiba viene attribuita, nella seconda recensione di un’opera tardiva, intitolata Aboth de-Rabbi Natan, l’enunciazione della regola d’oro in forma negativa in circostanze analoghe a quelle in cui essa fu pronun-

52 Cfr. D. Daube, The New Testament and Rabbinic Judaism, Ayer Company, Manchester (NH) 1984, p. 251.

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ziata da R. Hillel (26)53. Sia nel detto di R. Hillel come in quello di R. ‘Aqiba la regola d’oro è conservata in aramaico, in una forma molto simile a quella del Targum: ciò significa che si tratta di un’antica massima popolare, forse molto più diffusa di quanto risulti dalle fonti letterarie conosciute. La regola d’oro ha la stessa struttura di pensiero del comandamento riguardante l’amore del prossimo: quello che ognuno ritiene giusto o ingiusto per sé deve considerarlo tale anche per chiunque altro. Per questo ha potuto essere considerata come la sintesi di tutta la legge. La sua citazione da parte di R. Hillel e di R. ‘Aqiba dimostra che essa, all’inizio dell’era cristiana, era utilizzata nel giudaismo, specialmente nel dialogo con i non giudei: ciò è significativo, in quanto si sa che la massima non è di origine giudaica ed è frequentemente attestata sia nell’ambiente greco-romano che fuori da esso 54. Il giudaismo, profondamente interessato ai valori umani e sociali, ne ha colto la validità e l’ha presentata come l’equivalente di Lv 19,18 e perciò come sintesi di tutta la legge. In tal modo, ha dimostrato la sua apertura al dialogo con gli ambienti più diversi, nei quali la legge mosaica poteva essere maggiormente apprezzata se veniva presentata come commento e applicazione di una massima il cui valore era universalmente riconosciuto.

53 S. Schechter, Aboth de Rabbi Nathan, Olms, Hildesheim - New York, 1945, p. 27b. 54 Cfr. L.J. Philippidis, Die Goldene Regel, pp. 62-95; A. Dihle, Die Goldene Regel, pp. 8-10 e 103-105. T. Lippiello, La Regola d’oro nei « Dialoghi » di Confucio, in C. Vigna - S. Zanardo (edd.), La regola d’oro, pp. 53-81.

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c) La proibizione del desiderio L’« amore del prossimo » e la « regola d’oro » non erano gli unici comandamenti nei quali il giudaismo ha visto la sintesi di tutta la legge mosaica. Lo stesso ruolo è stato attribuito al comandamento che proibisce il desiderio. Questa proibizione è così formulata al termine del decalogo: « Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo » (Es 20,17). In questo testo è proibito anzitutto il desiderio della casa del prossimo, poi il desiderio di tutti gli altri beni che gli appartengono (la moglie, lo schiavo, la schiava, il bue, l’asino e tutto ciò che appartiene al prossimo). In ambedue i casi la radice usata è h.md. Nel decalogo deuteronomico (Dt 5,21) l’ordine delle proibizioni è diverso: prima viene proibito il desiderio della moglie del prossimo (la radice usata è anche qui h.md) e poi il desiderio (in questo caso è usata la radice ’wh) della sua casa, del suo campo, del suo schiavo, della sua schiava, del suo bue, del suo asino e di tutto ciò che gli appartiene. Le due radici h.md e ’wh sono sinonime e designano non la pura attrattiva inefficace verso un oggetto, ma la decisione della volontà orientata all’azione; sia l’uno che l’altro vengono tradotti nel testo dei LXX con il verbo epithymein 55. Nel racconto della creazione si narra che Dio diede ad Adamo un unico precetto, consistente nella proibizio55 Cfr. W.L. Moran, The Conclusion of the Decalogue (Es 20,17 = Dt 5,21), in CBQ 29 (1967) 544-548.

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ne di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (Gn 2,16-17). Ora, in Gn 3,6 si dice che, a causa della tentazione da parte del serpente, Eva prende coscienza che il frutto dell’albero non era solo buono da mangiare, ma anche « attraente agli occhi (ta’awa¯ la‘ênayim) e desiderabile (neh.emad) per acquistare conoscenza ». In questa frase le caratteristiche dell’albero sono indicate proprio con le due radici ’wh e h.md con le quali è formulato in Dt 5,21 il precetto che proibisce il desiderio 56. Mediante la percezione dell’appetibilità del frutto originata dalla tentazione, il narratore esprime l’insorgere del desiderio perverso, mostrando così che il comandamento dato da Dio ad Adamo, simbolo di quanto Dio esige da tutta l’umanità, si identifica in ultima analisi con la proibizione del desiderio. Anche altrove la trasgressione del decimo comandamento ha assunto una notevole importanza: in Nm 11,4-7 si narra che gli israeliti nel deserto furono colti da un forte desiderio (epethyme¯san epithymian) e chiesero a Dio un cibo diverso da quello che egli aveva scelto per loro, anzi giunsero a rimpiangere il cibo che avevano a disposizione in Egitto. Tale desiderio di un cibo materiale rappresenta il rifiuto di riconoscere pienamente la propria sottomissione a Dio. Perciò i salmi storici enumerano questo atto di desiderio fra i grandi peccati commessi da Israele nel deserto (Sal 106,14; 78,18.29-30), secondo per gravità solo all’adorazione del vitello d’oro (Dt 9,22). I libri sapienziali, e in particolare i Salmi, presentano spes56 S. Lyonnet, « Tu ne convoitera pas » (Rom VII,7), in Neotestamentica et Patristica. Freudesgabe O. Cullmann, Brill, Leiden 1962, pp. 157-165, qui 161.

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so il malvagio come uno che è dominato continuamente da desideri perversi e incontrollati (cfr. Gb 20,20; Pro 21,10.26; Sal 10,3; 104,9; 112,10). Negli ambienti giudaici il comandamento che proibisce il desiderio assume un ruolo di particolare importanza. Il suo uso in forma assoluta, senza l’elenco delle cose che sono oggetto del desiderio, si trova nel Targum palestinese, dove l’ultimo comandamento del decalogo è così introdotto: « Popolo mio, figli di Israele! Non siate desiderosi, né compagni e complici di coloro che desiderano, e non si vedano nelle assemblee di Israele persone che desiderano, affinché i vostri figli (che) verranno dopo di voi non imparino a essere anche loro persone che desiderano » (Tg Es 20,17; Dt 5,21). Gli Oracoli sibillini sembrano ispirarsi al Targum quando affermano che « l’avidità (philochre¯mosyne¯) genera innumerevoli mali agli uomini mortali, guerra e fame smisurata » (3,235-236). Nel Quarto libro dei Maccabei l’attuazione del precetto di « non desiderare », formulato in modo assoluto, è presentata come l’opera più importante della ragione, che si ispira, secondo l’autore, alla legge mosaica: « Non solo la ragione si mostra vincente sull’impulso del desiderio sessuale (e¯dypatheia), ma anche su quello di ogni desiderio (epithymia). Dice appunto la legge: Non desidererai la donna del tuo prossimo né quanto appartiene al tuo prossimo. Ebbene, poiché la legge ci dice di non desiderare (me¯ epithymei eire¯ken e¯mas ho nomos), mi è molto più facile convincervi che la ragione può dominare i desideri » (2,4-6). Secondo Filone di Alessandria, il desiderio perverso è la sintesi di tutti i peccati, cosicché il comandamento che 91

proibisce il desiderio, usato in modo assoluto, viene ad assumere un posto centrale in seno alla legge: « Il desiderio è dunque un male molto grande o, piuttosto, per indicarlo con precisione, la sorgente di tutti i mali (apanto¯n pe¯ge¯ to¯n kako¯n). Infatti, furto, saccheggio, non pagamento dei debiti, calunnia e ingiustizia, seduzione, adulterio, assassinio e tutti gli altri delitti contro i singoli e contro lo Stato, contro le cose sacre e quelle profane, da quale altra fonte derivano? » (Leggi speciali 4,84; cfr. Decalogo 142; 150; 173). Senza dubbio, l’enfasi che Filone pone sul desiderio è dovuta all’influsso della filosofia stoica, secondo la quale il desiderio è uno dei quattro vizi cardinali che si oppongono alla natura e alla retta ragione; ma il suo pensiero resta sostanzialmente giudaico, in quanto il desiderio non è per lui una semplice passione, ma un vero atto libero di volontà che si oppone direttamente alla legge di Dio 57. Nell’Apocalisse di Mosè, Eva narra che il serpente, dopo averle offerto il frutto proibito, si fece giurare da lei che ne avrebbe dato anche ad Adamo: « Quando mi ebbe strappato il giuramento, allora si affrettò a salire sull’albero e iniettò il veleno della sua malvagità, cioè del suo desiderio (te¯s epithymias autou), nel frutto che mi diede da mangiare; ché il desiderio è all’origine di ogni peccato (kephale¯ pase¯s hamartias). Curvato il ramo fino a terra, presi del frutto e ne mangiai » (19). Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca la Lettera di Giacomo, che afferma: « Ciascuno è tentato dal proprio desiderio, che lo attrae e lo seduce. Il desiderio, poi, concepisce e genera il peccato e il peccato, quand’è consumato, produce la morte » 57

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Cfr. H.A. Wolfson, Philo, vol. II, pp. 231-236.

(Gc 1,14-15; cfr. 4,1-3). Secondo un testo rabbinico più tardivo, gli israeliti al Sinai sarebbero stati esentati dal desiderio, il quale invece sarebbe rimasto prerogativa dei gentili (Shabbat 145b-146a). Il precetto che proibisce il desiderio non è dunque semplicemente uno dei tanti precetti della legge mosaica, ma rappresenta la sintesi di tutto ciò che essa prescrive. L’accento posto su questo comandamento rappresenta un ponte significativo con la cultura greca, nella quale la filosofia stoica bollava il desiderio come la prima delle quattro passioni contro cui bisogna combattere.

4. Conclusione Nel giudaismo la legge assume un significato esistenziale ben diverso da quello, tipicamente legalistico, che spesso le è attribuito alla luce delle posizioni polemiche di Paolo e del cristianesimo primitivo. La sua osservanza infatti non è considerata come la condizione a cui Israele deve adempiere per essere ammesso nell’alleanza con JHWH, ma come la risposta spontanea e amorevole del popolo all’iniziativa salvifica del suo Dio. Diversamente da quanto può apparire a prima vista, la tôra¯h di Israele non è un complesso organico e omogeneo di precetti legali. In essa infatti si possono distinguere strati differenti che si sovrappongono e si mescolano fra di loro, e per di più sono inseriti all’interno di un quadro narrativo che ne indica il senso e ne giustifica l’obbligatorietà. Da ciò consegue che il termine legge può essere applicato a realtà diverse, che hanno un rapporto a volte remoto 93

con quello che noi oggi chiamiamo con questo termine. La legge per eccellenza, quella da cui dipendono tutti gli altri precetti, è la clausola fondamentale, che rappresenta il principio ispiratore di tutta la legislazione. Ma tôra¯h sono anche i comandamenti del decalogo, o le formule a essi affini, che indicano i binari di un’autentica fedeltà a Dio e al tempo stesso le norme fondamentali della convivenza umana. In altre parole, la legge non consiste in un insieme di prescrizioni da osservare, ma piuttosto delinea un atteggiamento interiore di fedeltà che prende forma essenzialmente in rapporti sociali basati sulla giustizia. Le caratteristiche letterarie e storiche dei racconti in cui la legge mosaica è incastonata, nonché l’analisi dei suoi contenuti, mostrano come il carattere di « rivelazione » a essa attribuito faccia parte del genere letterario e non della sostanza dei testi. In realtà, la tôra¯h di Israele non è che il punto di arrivo di antiche tradizioni, trasmesse oralmente e poi redatte dalle scuole profetiche e sapienziali del postesilio. Ciò spiega il carattere estremamente umano e « naturale » della legge e la corrispondenza delle sue norme con quelle proprie di tutte le culture e religioni. L’esigenza dell’amore è affermata sia nei testi biblici che nella letteratura giudaica, dove è presentata come culmine e sintesi di tutti i precetti della legge. Non mancano però le difficoltà che a volte impediscono di dare al principio dell’amore la sua piena estensione: esse sono, da una parte, l’enfasi posta sui precetti dei codici, visti come contrassegni della propria identità etnico-religiosa; dall’altra, una concezione particolaristica della comunità, che impedisce di vedere in colui che vive al di fuori di essa il soggetto e l’oggetto di un vero sentimento di amore. 94

Nonostante ciò, l’assunzione della regola d’oro manifesta una notevole apertura ai valori profondamente umani esistenti anche al di fuori di Israele: l’amore, centro di tutta la vita religiosa del popolo di Dio, è così presentato come qualcosa di già noto e accettato da tutta l’umanità. Ma proprio la presenza e spesso la mescolanza di principi generali con applicazioni contingenti ha fatto della legge un’entità il cui possesso, ancora prima della sua pratica, caratterizza l’identità del popolo e lo tiene segregato nei confronti delle altre nazioni. A prima vista, il modo in cui nel mondo biblico si affronta il problema della legge è molto diverso da quello proprio della filosofia greca. I greci infatti concepiscono l’universo come kosmos, cioè come unità armonica e coerente, retta dal Logos e dalle sue leggi immutabili che si possono facilmente scoprire mediante la ragione; gli autori biblici invece percepiscono l’esistenza stessa di questo mondo come un evento, dominato continuamente dall’azione potente di Dio (cfr. Sal 104,29), che manifesta agli uomini la sua volontà, di cui la tôra¯h rappresenta la sintesi più alta. Tuttavia le somiglianze non sono meno significative. In ambedue le culture, infatti, le leggi fondamentali della convivenza sociale sono attribuite in modi diversi a una Entità suprema dalla quale dipende la sussistenza stessa di questo mondo. A partire da questa constatazione diventa comprensibile il fatto che, come vedremo nel capitolo successivo, la legge di Israele sia stata concepita come una norma di vita valida per tutta l’umanità.

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III

Una legge uguale per tutti

In Rm 2,14-16.26-29 Paolo si appella, nella sua argomentazione riguardante la rivelazione dell’ira di Dio sull’umanità peccatrice, all’esistenza di gentili che, pur non avendo la legge mosaica, ne osservano le prescrizioni. Questa idea presuppone necessariamente che essi conoscano la legge mosaica, pur non possedendola come codice scritto. La possibilità che la legge sia conosciuta e praticata al di fuori di Israele non è evidente a partire dai testi legali e profetici del Primo Testamento, nei quali, nonostante le loro aperture universalistiche, è messo fortemente in risalto il fatto che la legge è stata conferita al popolo di Israele nel contesto dell’alleanza. Tuttavia, non bisogna dimenticare che esiste nella Bibbia un’altra corrente di pensiero, quella sapienziale, meno legata al contesto storico-salvifico di Israele, nella quale si fa strada la dottrina secondo cui nella legge mosaica si manifesta una « sapienza » attraverso la quale Dio ha creato il mondo e conduce a sé tutta l’umanità. Sullo sfondo di questa concezione, si afferma a più riprese che anche i gentili sono legati a una norma morale che viene concepita in analogia con la legge di Israele: essa sarebbe stata conferita ad Adamo, o ai figli di Noè (precetti noa99

chici) oppure alle nazioni in occasione della rivelazione sinaitica. Da queste tradizioni risulta che, nei suoi elementi essenziali, la legge mosaica è considerata valida anche al di là dei confini di Israele e come tale è nota a tutti.

1. La rilettura sapienziale della legge La corrente sapienziale si distingue da quella profetica in quanto non limita il suo interesse a Israele e ai suoi rapporti con Dio nella storia, ma rivolge la sua attenzione a tutta l’umanità, alla ricerca di quei comportamenti che sono giusti e validi per tutti. Essa mette in primo piano non una legge data da Dio in un momento particolare a un popolo specifico, ma lo studio e la conoscenza delle realtà del mondo e della vita umana, senza particolari preoccupazioni di carattere etnico o religioso1. Sebbene la corrente sapienziale si sia sviluppata in modo largamente autonomo rispetto a quella profetica, i contatti e gli influssi reciproci sono stati molteplici. È significativa soprattutto la tendenza a rileggere in chiave sapienziale la legge mosaica. L’incontro tra sapienza e legge raggiunge il suo culmine nei libri sapienziali più recenti, nei quali la sapienza viene presentata come 1 Cfr. G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, vol. I, pp. 495-509; Id., La sapienza in Israele, Marietti, Torino 1975, pp. 134-161; R.E. Murphy, L’albero della vita. Una esplorazione della letteratura sapienziale biblica, Queriniana, Brescia 1993; Id., Israel’s Wisdom: a Biblical Model of Salvation, in Studia Missionalia 30 (1981) 1-43; V. Morla Asensio, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione allo studio della Bibbia 5), Paideia, Brescia 1997, pp. 19-87; D. Scaiola, La sapienza in Israele e nel vicino antico Oriente, in A. Bonora - M. Priotto (e coll.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4), LDC, Leumann (TO) 1997, pp. 29-42; É. Beaucamp, I sapienti d’Israele o il problema dell’impegno, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1991.

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un’entità personale che si identifica con la legge mosaica, conferendole così una dimensione universale che originariamente non possedeva.

a) La ricerca dei saggi I libri sapienziali del canone ebraico e cristiano sono stati composti in un periodo recente, ma contengono un materiale più antico che sta all’origine di molte formulazioni legali del pentateuco. Negli strati più antichi di questi libri il problema dell’agire umano non è trattato dal punto di vista dell’alleanza, cioè di un ordine stabilito da Dio nel quale l’israelita è inserito e dal quale attinge la sua norma di vita, ma dal punto di vista dell’essere umano in quanto tale e di ciò che contribuisce alla sua piena realizzazione 2. Questa visuale è dovuta anzitutto al carattere « internazionale » della sapienza che Israele ha sviluppato in sintonia con le culture della Mesopotamia, dell’Egitto e dello stesso ambiente cananeo. Il saggio ha il compito di guidare i suoi simili a scoprire il bene e il male radicati nella realtà stessa di questo mondo; egli non ha comandi da fare valere, ma semplici consigli (cfr. Ger 18,18), coi quali vuole aiutare i suoi giovani discepoli, e in genere ogni essere umano, a vivere una vita più conforme alla propria dignità: egli si appella non all’obbedienza, ma al buon senso pratico. I termini tôra¯h, mis.wâ e da¯ba¯r si trovano occasionalmente anche 2 F. Festorazzi, Il valore dell’esperienza e la morale sapienziale, in G. Canfora (ed.), Fondamenti biblici della teologia morale. Atti della XXII Settimana Biblica, Paideia, Brescia 1973, pp. 116-146, qui 133.

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nella letteratura sapienziale, ma sono sempre usati nel senso di istruzioni e consigli dei saggi e non in senso legale (legge, precetto). La ricerca dei saggi si fonda sul presupposto che un ordine presiede al funzionamento delle cose e agisce silenziosamente e spesso in modo impercettibile come forza equilibratrice: esso è benefico e giusto, perciò deve essere rispettato in ogni circostanza se si vuole orientare rettamente la propria vita. Questo ordine abbraccia in modo armonico l’uomo e gli esseri inferiori: una vera analogia appare infatti tra le norme che regolano i fenomeni naturali e quelle che reggono l’agire dell’essere umano, il quale dall’osservazione della natura può attingere un utile indirizzo per la sua vita pratica (cfr. Pro 25,3.14.23; 26,20; 27,17.20; 30,15-33). Il campo nel quale si muovono i consigli dei saggi è quello delle molteplici decisioni pratiche, a volte anche molto delicate, che si presentano nella vita di ciascuno. Da un breve sondaggio nella parte più antica dei Proverbi appaiono i grandi temi dell’etica biblica3. Anzitutto, è affermato il primato di Dio, a cui si deve timore (Pro 10,27; 14,26; 15,33), sottomissione (30,9) e confidenza (16,20). Nei confronti del prossimo, si afferma l’esigenza di rispettare e di onorare i genitori (19,26; 20,20; 23,22), di difendere la vita umana (28,17), di evitare l’adulterio e le relazioni illecite (22,14; 23,27), nonché i guadagni ingiusti (10,2; 16,8; 28,16), di praticare l’onestà (11,1; 16,11; 20,10) e la giustizia in tribunale (17,26), di rispet3 Si veda, in proposito, A. Nicacci, La casa della sapienza. Voce e volti della sapienza biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1994, pp. 24-52.

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tare e aiutare il debole e il povero (14,31; 21,13; 22,22-23) e di amare il prossimo (10,12) anche se nemico (24,17-18; 25,21-22). Queste direttive, pur essendo in sintonia con il decalogo, non dipendono da esso o dai testi analoghi contenuti nel pentateuco e negli scritti profetici, anzi è più probabile che siano questi ad avere il loro humus originario nella ricerca sapienziale. La letteratura sapienziale, mediante una osservazione attenta e una riflessione su quello che è l’ordine che regna nel mondo, si concentra sui principi di vita che regolano la convivenza umana. Si presuppone che, una volta che il giovane alunno li avrà assimilati in modo libero e spontaneo, non gli sarà difficile accettare le norme che regolano i rapporti sociali o il culto all’interno della comunità.

b) La sapienza personificata La riflessione sapienziale, pur essendo autonoma rispetto a quella profetica, era destinata a fondersi con essa4. L’ordine del cosmo, infatti, si basa sul fatto che Dio ha svolto e continua a svolgere in esso la sua opera di creatore. Egli è l’unico vero sapiente dal quale deriva la sapienza che dà unità a tutte le cose, nella quale anche l’uomo deve inserirsi se vuole raggiungere la felicità (cfr. Sir 1,1-8). La sapienza cessa, così, di essere una semplice 4 G. Segalla, Le figure mediatrici di Israele tra il III e il I secolo a.C., in G.L. Prato (ed.), Israele alla ricerca di identità tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C. Atti del V Convegno di studi veterotestamentari, in RicStBib 1 (1989) 13-65; A. Bonora, Il binomio sapienza-Torah nell’ermeneutica e nella genesi dei testi sapienziali (Gb 28; Pro 8; Sir 1.24; Sap 9), in A. Fanuli (ed.), Sapienza e Torah. Atti della XXIX Settimana Biblica, EDB, Bologna 1987, pp. 31-48.

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caratteristica delle massime dei saggi per diventare anzitutto un attributo divino e per assumere poi una consistenza personale che ne fa l’intermediaria della creazione e della chiamata di tutta l’umanità all’intimità con Dio. Questo sviluppo appare per la prima volta nel libro di Giobbe. In esso, i personaggi e il quadro geografico in cui il dramma si svolge sono volutamente extraisraelitici: Giobbe, l’esempio più alto di uomo giusto e perfetto nel compimento della volontà di Dio, non appartiene a Israele; Dio stesso, nella parte centrale del libro, non è mai chiamato con il nome di JHWH. In questo scritto si affronta il problema della sofferenza che colpisce l’uomo giusto e fedele a Dio e si dà una risposta a partire dalla potenza di Dio quale si manifesta non negli eventi della storia della salvezza ma nella creazione (Gb 38-41). La soluzione, prospettata nella parte finale del libro, è preparata dall’elogio della sapienza (Gb 28), una composizione poetica inserita nello sviluppo tematico dell’opera, anche se diversi studiosi la considerano come un’aggiunta posteriore5. Nella prima parte del poema (28,1-22) si insiste sul fatto che nessun essere umano, nonostante le sue abilità tecnologiche, può conoscere la sapienza: essa non è un bene acquistabile, non è paragonabile ad alcun tesoro, fosse anche il più prezioso. La ricerca dell’uomo, che spazia dal campo artigianale a quello tecnico e commerciale, non è squalificata ma riportata ai suoi limiti: essa non raggiunge la « sapienza », perché questa non si trova né in cielo né in terra né sottoterra. 5 Circa l’origine e i contenuti di questo poema, cfr. A. Nicacci, Giobbe 28, in SBFLA 31 (1981) 29-58; L. Alonso Schökel - J.L. Sicre Diaz, Giobbe. Commento teologico e letterario, Borla, Roma 1985, pp. 441-454.

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Nella seconda parte dell’inno (Gb 28,23-27), la sapienza è presentata come prerogativa di Dio: lui solo ne « discerne » la via, ne « conosce » la dimora, poiché « vede » i confini della terra, « osserva » quanto è sotto il cielo. Questa conoscenza non è acquisita, ma risale ai primordi stessi dell’universo: « Quando fece al vento il suo peso e fissò una misura alle acque, quando fece una legge alla pioggia e una via per i lampi dei tuoni, allora la vide e la valutò, la stabilì e la esaminò ». Ma Dio non ha tenuto esclusivamente per sé questa conoscenza. Il poema termina con queste parole: « E disse all’uomo: ecco, il timore del Signore è sapienza e allontanarsi dal male è prudenza » (28,28). La sapienza non è una realtà accanto alle altre, un « oggetto » di cui l’essere umano possa prendere possesso. Non si identifica con le « cose » né con Dio, che la « stabilisce » liberamente. Essa è piuttosto la presenza ordinatrice di Dio nel cosmo, il « mistero » del mondo che la sapienza umana, in quanto abilità tecnologica ed economica, non sa scoprire. In quanto libera comunicazione di Dio al mondo, la sapienza fa appello alla libertà umana, si dà soltanto a chi vi consente liberamente. La sapienza così concepita è quella che ogni uomo (’adam) può trovare solo mediante il timore di Dio e il distacco dal male. Come la sapienza divina, ordinatrice del cosmo, è universale, così pure il timore di Dio è possibile non solo all’israelita che trova in esso il compendio della sua fede e del suo comportamento (cfr. Pro 3,7; 13,19; 14,16; 16,6.27; Gb 1,1.8; 2,3; Sal 34,15; 37,27), bensì a ogni uomo, sull’esempio dello straniero Giobbe. La sapienza giudaica, come la fede jahwista, non è altro che un modo partico105

lare di vivere l’esperienza umana; non può quindi costituirsi né a parte né « fuori » da essa, anzi si pone come proposta per ogni essere umano. In questa prospettiva, temere Dio e allontanarsi dal male coincide sostanzialmente con la tôra¯h, in quanto espressione della coscienza etico-religiosa di Israele. La personificazione della sapienza appare più espressamente nello strato più recente del libro dei Proverbi (Pro 1-9)6. In questa sezione, la sapienza è presentata non semplicemente come una prerogativa dei maestri e delle massime da loro pronunziate, ma come una persona che si rivolge a tutti gli abitanti della città per invitarli ad accogliere le sue esortazioni (Pro 1,20-32). Nel capitolo finale della sezione (Pro 8) essa è presentata nella veste del maestro che si rivolge con tono ispirato a tutti coloro che sono disposti ad ascoltarlo. Di essa si dice che parla non nel tempio, nella scuola o nella natura, ma « all’incrocio delle strade », « presso le porte (della città) », là dove vive la gente comune; essa ha di mira non i capi, ma le folle, tutti gli esseri umani (8,1-11). Poi la sapienza stessa entra in scena per invitare tutti ad ascoltare la sua voce: ciò che proclama è la « verità » (’e˘met) e la « giustizia » (s.edeq), che sono qualità proprie di JHWH (cfr. Dt 32,4-5). A lei compete il ruolo di guidare al bene e alla giustizia non solo i re, ma anche i semplici cittadini (Pro 8,12-21). 6 M. Gilbert, Le discours de la Sagesse en Proverbes, 8. Structure et cohérence, in Id. (ed.), La sagesse de l’Ancien Testament (BibETL 51), University Press, Leuven 1979, pp. 202-218; A. Robert, Les attaches littéraires bibliques de Prov. I-IX, in RB 43 (1934) 42-68; 172-204; 374-384; 44 (1935) 344-365; 502-525; J.-N. Aletti, Proverbes 8,22-31. Étude de structure, in Biblica 57 (1976) 25-37; G.A. Yee, An Analysis of Prov 8,22-31 According to Style and Structure, in ZAW 94 (1982) 58-66.

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A questo punto la sapienza mette in luce la sua identità (Pro 8,22-36). Essa ha avuto origine da Dio prima di tutte le cose, mediante un processo che definisce prima con la radice qnh (« creare, procreare »), poi con nsk (costituire) o skk (« tessere, formare ») e infine con h.wl (« dare alla luce »). Questa origine ha avuto luogo in un tempo remoto (‘ôla¯m), prima che Dio creasse tutte le realtà che fanno parte dell’universo (8,22-29). La sapienza dunque è trascendente rispetto alla realtà creata, non si identifica semplicemente con il mondo. Infine, essa designa se stessa con il termine ’a¯môn (8,30), che può significare « artigiano, orefice, architetto », oppure il « bambino » allevato da una nutrice. A favore del secondo di questi due significati starebbe il fatto che la sapienza « si diletta » davanti a Dio. Propriamente, dunque, essa non è lo strumento di cui Dio si è servito nella creazione, ma il principio attivo dal quale hanno origine l’armonia e l’ordine che regnano nel creato. Per questo la sapienza trova gioia a stare con i figli degli uomini (v. 31) e li invita a imparare da lei come comportarsi per piacere a Dio (8,31-36). E infine imbandisce la sua mensa e invita tutti gli inesperti a parteciparvi perché imparino a essere saggi (9,1-6). L’unica condizione posta all’umanità per trovare la vita, ottenere il favore di JHWH ed essere felice, è ascoltare, accogliere e amare la sapienza. La sapienza, dunque, non è Dio e neppure coincide con il mondo, ma ha una funzione sua propria nel rapporto tra il mondo e Dio. Essa non « crea » il mondo ma è presente in esso e gli dona armonia e stabilità; proprio per questo, spetta a lei il compito di condurre l’umanità a Dio, facendola così entrare nell’ordine del 107

creato. Molti dei termini con i quali si esprime l’appello pressante della sapienza riecheggiano quelli con i quali il Deuteronomio raccomanda l’osservanza della legge (cfr. ad esempio Pro 8,7.21 con Dt 6,5; Pro 8,13 con Dt 10,12; Pro 8,21 con Dt 5,10). Con la differenza che ora l’uditorio è quanto mai ampio: tutti e ciascuno in particolare sono invitati a prenderla come guida e modello. Lo stesso Dio che ha dato a Israele la sua legge si rivolge, nella creazione, a tutta l’umanità. La sapienza personificata rappresenta dunque il piano di Dio che si manifesta nell’ordine del creato e nel cuore di ogni essere umano. Il fatto che la sapienza intervenga e agisca in prima persona non significa che essa sia concepita come una « ipostasi », cioè una persona in senso proprio: essa è piuttosto la « personificazione letteraria » di un attributo divino che, come altri nella Bibbia (la gloria, lo Spirito, la parola), serve a conciliare la presenza attiva di Dio in questo mondo con la sua trascendenza. Rivolgendo all’umanità l’appello di Dio, la sapienza entra nel campo specifico della legge, mediante la quale Dio ha offerto la salvezza al suo popolo. Si prepara così l’identificazione tra sapienza e legge.

c) Sapienza e legge L’incontro tra la sapienza e la legge mosaica ha radici profonde nella Bibbia. Esso è attestato già nei libri più antichi del Primo Testamento. Esso si trova nel passo del Deuteronomio in cui Mosè, a proposito delle disposizioni da lui promulgate, afferma: « Le osserverete dunque e 108

le metterete in pratica perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli » (Dt 4,6)7. Questo incontro diventa più esplicito nei libri più recenti del canone alessandrino, nei quali è già presupposta la personificazione della sapienza. Il primo testimone di questo sviluppo è il libro deuterocanonico del Siracide. All’inizio del suo scritto egli presenta la sapienza come una entità che è con il Signore (Sir 1,1), e quindi irraggiungibile da qualsiasi essere umano; essa, d’altro canto, è profondamente immersa nel creato: « Il Signore ha creato la sapienza; l’ha vista e l’ha misurata, l’ha diffusa su tutte le sue opere, su ogni mortale, secondo la sua generosità, la elargì a quanti lo amano » (1,7-8). Questa stessa sapienza in Sir 24,1-29 si presenta come una persona che interviene direttamente nelle vicende del cosmo e dell’umanità8. Pronunziando il suo autoelogio « in mezzo al suo popolo », essa si presenta come un vapore (homichle¯) che, uscito dalla bocca dell’Altissimo, ha coperto tutta la terra. Essa ha la sua dimora in cielo, ma ha percorso il cielo e gli abissi e ha preso dominio sul mare, sulla terra e su tutti i popoli. Fra questi ha cercato una dimora, senza trovarla: allora ha ricevuto da Dio, suo creatore, questo ordine: « Fissa la tenda e prendi in ere7 G. Braulik, Weisheit, Gottesnähe und Gesetz. Zum Kerygma von Deuteronomium 4,5-8, in Id. (ed.), Studien zum Pentateuch. W. Kornfeld zum 60. Geburtstag, Herder, Wien-Freiburg-Basel 1977, pp. 165-195; F. Foresti, Il Deuteronomio: nascita della Torah come proposta di sapienza, in A. Fanuli (ed.), Sapienza e Tora, pp. 17-30, qui 24-29. 8 Cfr. E.J. Schnabel, Law and Wisdom from Ben Sira to Paul (WUNT 2. Reihe 16), Mohr, Tübingen 1985, pp. 8-92; J. Marböck, Gesetz und Weisheit: Zum Verständnis des Gesetzes bei Jesus Sirach, in BZ 20 (1976) 1-21; M. Gilbert, L’éloge de la Sagesse (Siracide 24), in RThL 5 (1974) 326-348; G. Boccaccini, Il medio giudaismo. Per una storia del pensiero giudaico tra il terzo secolo a.e.v. e il secondo secolo e.v., Marietti, Genova 1993, pp. 55-67.

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dità Israele » (24,1-8). Perciò la sapienza, creata da Dio « prima dei secoli, fin dall’inizio » e destinata a durare fino all’eternità, dopo avere officiato nella tenda santa davanti a lui, ha preso dimora in Sion, ha posto le sue radici in un popolo glorioso, porzione ed eredità del Signore. In Israele la sapienza ha prosperato come le piante più belle; da lei parte l’invito pressante a cibarsi dei suoi frutti (24,9-22). Infine l’autore rivela che cosa è la sapienza: « Tutto questo è il libro dell’alleanza (diathe¯ke¯s) del Dio Altissimo, la legge (nomon) che ci ha prescritto Mosè, l’eredità delle assemblee (synago¯gais) di Giacobbe » (24,23). In conclusione, si paragona la sapienza non solo ai fiumi famosi del paradiso, ma anche al Nilo e al Giordano, che con l’abbondanza delle loro acque danno fertilità alle terre che bagnano (24,25-29). In questo testo l’incontro tra sapienza e legge è ormai realizzato, sebbene non si possa ancora parlare di una completa identificazione tra le due. L’autore vuole affermare che quanto la sapienza insegna trova la sua formulazione più piena nei comandamenti che Dio ha dato al suo popolo nel contesto dell’alleanza. In tal modo la legge è assunta come fonte per la riflessione sapienziale, poiché in essa è nascosta quella sapienza che è diffusa nel cosmo intero. Di riflesso, però, la legge mosaica cessa di essere soltanto la legge di Israele per diventare l’espressione più alta di quella sapienza che Dio ha manifestato nella creazione del mondo e, come tale, costituisce la norma alla quale tutti devono ispirare la loro condotta (cfr. Sir 17,11-14)9. 9 Cfr. A. Bonora, Il binomio sapienza-Torah nell’ermeneutica e nella genesi dei testi sapienziali (Gb 28; Pro 8; Sir 1.24; Sap 9), in A. Fanuli (ed.), Sapienza e Torah, pp. 31-48, qui 44-45.

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La legge può svolgere questo ruolo poiché essa, secondo il Siracide, coincide praticamente con i comandamenti etici di cui è portatrice, dai quali anche il culto riceve il suo significato (cfr. Sir 34,18-26; 35,1-11). L’incontro tra legge e sapienza appare espressamente anche nella seconda parte dello scritto deuterocanonico attribuito a Baruc, segretario di Geremia (Ba 3,9 - 4,4)10. In questo brano l’autore, sulla linea di Gb 28, mette fortemente in risalto l’inaccessibilità della sapienza. I cananei, gli abitanti di Teman, gli ismaeliti, tutti noti per la loro ricerca della sapienza, non l’hanno raggiunta; i ricercatori dell’intelligenza non hanno conosciuto la via della sapienza; nessuno ha potuto scoprirla (Ba 3,9-31). Essa però è conosciuta da Dio, come appare dall’ordine e dalla magnificenza del creato. Dio « ha trovato tutte le vie della dottrina (episte¯me¯s) che diede a Giacobbe suo servitore, a Israele suo prediletto. Pertanto essa è comparsa sulla terra e ha conversato fra gli uomini » (3,32-38). A conclusione, l’autore soggiunge: « Questo è il libro dei comandamenti di Dio e la legge che sussiste in eterno. Quanti si attengono a essa sono destinati alla vita, quanti l’abbandonano moriranno » (Ba 4,1). Il testo termina con un appello a Giacobbe, perché la accolga e cammini allo splendore della sua luce, affinché non capiti che la sua gloria e i suoi privilegi siano trasferiti a gente straniera; gli israeliti infatti sono beati perché è stato loro rivelato ciò che piace a Dio (Ba 4,2-4). Il pericolo che Israele perda i suoi privilegi a causa della sua 10 Cfr. P.-E. Bonnard, La Sagesse en personne annoncée e venue: Jésus Christ (LD 44), Cerf, Paris 1966, pp. 81-88.

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infedeltà può far pensare che la legge sia qui un possesso esclusivo del popolo eletto. Tuttavia per Baruc la legge mosaica, pur rappresentando la via attraverso la quale Israele raggiunge la sapienza, ha una dimensione universale, pari a quella della sapienza che opera nel creato, e quindi i suoi contenuti sono noti a tutti. Nel libretto giudeo-ellenistico, intitolato Sapienza di Salomone, il rapporto tra legge e sapienza resta molto vivo11. L’autore esorta i re della terra perché si impegnino a imparare (6,1), cioè a conseguire la sapienza; poi li rimprovera con queste parole: « Pur essendo ministri del suo regno (di Dio) non avete governato (ouk ekrinate) rettamente né avete osservato la legge (nomon) né vi siete comportati secondo il volere di Dio » (Sap 6,4). La sapienza e la legge sono dunque strettamente correlate fra di loro. La sapienza ha il potere di guidare ogni essere umano nelle sue scelte di vita: coloro che se la procurano conseguono l’amicizia con Dio (7,14). Essa è in grado di insegnare agli uomini i segreti dell’universo (7,17-21) poiché è l’artefice (technitis) di tutte le cose (7,21). La sapienza è un essere spirituale e purissimo, che procede da Dio come il soffio della sua potenza, l’effluvio della sua gloria, lo specchio tersissimo del suo vigore e l’immagine della sua bontà (Sap 7,22-26). Essa governa con bontà eccellente ogni cosa (8,1): è lei che insegna la giustizia e tutte le altre virtù (8,7) e consiglia nel bene (8,9). La sapienza siede nel trono celeste accanto a Dio (Sap 9,4) e supplisce alla debolezza dell’uomo aiutandolo nella comprensione del giudizio e delle leggi (kriseo¯s kai 11

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Cfr. J. Vílchez Líndez, Sapienza, Borla, Roma 1990, pp. 95-97.

nomo¯n, Sap 9,5), poiché sa ciò che piace agli occhi di Dio ed è conforme ai suoi decreti (9,9). Sebbene nella sua preghiera Salomone chieda a Dio di conferirgli la sapienza come dono speciale (9,10), l’autore del libro la vede all’opera specialmente nella storia di Israele (Sap 10-19); per mezzo dei giudei perseguitati in Egitto « l’incorruttibile luce della legge doveva essere data alla razza umana » (18,4). Sebbene non si dica espressamente, la sapienza che conduce a Dio si manifesta nella legge attraverso cui Dio ha comunicato la sua volontà a Israele. La legge mosaica diventa così una realtà che trascende i confini di Israele e assume un ruolo di carattere universale. Il Dio dei padri « è l’unico che può condurre tutti gli uomini a realizzare il loro destino finale mediante la sua divina presenza, diffusa nel cosmo come sapienza “creatrice” e formulata nelle parole della legge mosiaca nella storia del suo popolo; interiorizzata nel cuore dell’uomo mediante il dono dello Spirito di Dio »12. L’incontro tra sapienza e legge, così espressamente delineato negli scritti deuterocanonici, avviene precisamente perché i sapienti reinterpretano la tôra¯h come autocomunicazione di Dio non separabile da quella che egli fa di sé mediante la sapienza cosmica universale. In tal modo, la legge specifica di un popolo diventa l’espressione culturalmente condizionata di una realtà che sta alla base dell’esistenza di tutti gli esseri umani e ne rende possibile la vita associata.

12 A. Bonora, Il binomio sapienza-Torah nell’ermeneutica e nella genesi dei testi sapienziali (Gb 28; Pro 8; Sir 1.24; Sap 9), in A. Fanuli (ed.), Sapienza e Torah, pp. 31-48, qui 47.

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d) Conoscenza universale della legge Le intuizioni contenute nei libri sapienziali danno il loro frutto nel giudaismo. La tendenza sapienziale a vedere nella legge una realtà che riguarda tutta l’umanità riaffiora spesso nei libri giudaici. Parallelamente si sviluppa il tema della conoscenza di Dio e della sua volontà da parte dei gentili. L’universalità della legge mosaica è affermata soprattutto nelle opere giudaiche più preoccupate di stabilire un ponte con la cultura greca. Secondo il filosofo ebreo Aristobulo (secolo II a.C.), sia Platone che Pitagora hanno attinto abbondantemente alla legge mosaica13. Nel libro alessandrino della Sapienza, dopo avere prospettato lo stretto rapporto che intercorre tra sapienza e legge, l’autore affronta in chiave filosofica il tema della conoscenza di Dio da parte dei gentili (Sap 13,1-9)14. In questo testo egli qualifica come stolti coloro che vivono nell’ignoranza di Dio. Il termine stolti (mataioi) è un appellativo utilizzato nel testo dei LXX per designare sia gli idoli (cfr. 1Re 16,13.27) sia i loro cultori (Is 44,9). Essi sono tali « per natura » (physei): questo termine è usato non 13 Si veda il frammento di Eusebio (Preparazione evangelica 13,12,1-16), riportato in P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. V (a cura di L. Troiani), pp. 132-133; cfr. A. Paul, La Torah sapienziale a confronto con il mondo culturale ellenistico, in A. Fanuli (ed.), Sapienza e Torah, pp. 49-69, qui 51; G. Segalla, Le figure mediatrici di Israele tra il III e il I secolo a.C., in G.L. Prato (ed.), Israele alla ricerca di identità tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C. Atti del V Convegno di studi veterotestamentari, in RicStBib 1 (1989) 13-65, qui 47-49. 14 Cfr. C. Larcher, La connaissance naturelle de Dieu d’après le livre de la Sagesse, in LumVie 14 (1954) 53-62 (197-206); J.M. Reese, Hellenistic Influence on the Book of Wisdom and its Consequences (AnBib 41), PIB, Rome 1970, pp. 52-62; M. Gilbert, La critique des dieux dans le Livre de la Sagesse (Sg 13-15) (AnBib 53), PIB, Rome 1973; J. Vílchez Líndez, Sapienza, Borla, Roma 1990, pp. 404-420; G. Scarpat, Libro della Sapienza. Testo, traduzione, introduzione e commento, 3 voll., Paideia, Brescia 1989-1999, qui vol. III, pp. 15-83.

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per indicare in senso filosofico la legge suprema che regola l’ordine del cosmo, ma piuttosto la situazione « ordinaria » in cui si trovano quanti sono estranei all’alleanza e alla legge mosaica. L’« ignoranza di Dio » (theou agnosia), da cui sono affetti, consiste nella mancanza di una conoscenza che riguarda non tanto l’esistenza di Dio, quanto piuttosto la sua vera natura. Da una parte, essi non furono capaci di « conoscere » (eidenai) « colui che è » (ton onta) « a partire dai beni visibili » (ek to¯n horo¯meno¯n agatho¯n); dall’altra, non riconobbero (ouk epegno¯san) l’artefice (ton technite¯n) considerando le opere (tois ergois prosechontes). Essi dunque, pur avendo a disposizione le opere di Dio, attraverso le quali avrebbero potuto raggiungere la sua conoscenza, si sono fermati a metà strada, adorando al suo posto gli elementi della natura da cui aveva preso le mosse la loro ricerca15. L’autore elabora poi il suo pensiero affermando che proprio a partire dalla bellezza dell’universo si sarebbe dovuto scoprire quanto è superiore colui che l’ha formato, poiché dalla grandezza e bellezza delle creature « per analogia » (analogo¯s) si conosce (theo¯reitai, si vede) l’autore. Egli si rifà qui al noto procedimento filosofico per cui, a partire dalle realtà visibili, è possibile giungere alla conoscenza di colui che le ha fatte. L’autore non adotta però la concezione immanentista tipica della filosofia greca, ma si ispira all’idea biblica di creazione. Egli osserva infine che i personaggi in questione sono 15 L’autore associa il culto degli astri, più volte condannato nella Bibbia, alle concezioni filosofiche, specialmente stoiche, che identificavano in qualche modo gli elementi primordiali (fuoco, vento, aria) con la divinità (cfr. J. Vílchez Líndez, Sapienza, pp. 408-409).

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inescusabili, perché avevano tutti i mezzi per trovare Dio, ma meritano un rimprovero più leggero perché lo hanno ricercato sinceramente e, se si sono ingannati, ciò è dovuto al fatto che si sono lasciati sedurre dalla bellezza delle cose create. L’autore pensa dunque che anche ai gentili sia possibile conseguire una conoscenza pratica ed esistenziale di Dio analoga a quella propria di Israele, ma è convinto che, per colpa loro, ciò non si sia verificato in un modo pieno. La validità eterna della legge mosaica è uno dei punti dottrinali più importanti del Libro dei giubilei, il quale la considera non come l’espressione della coscienza religiosa di una o più epoche, ma come la rivelazione nel tempo di quanto è valido dall’inizio fino a tutta l’eternità16. I vari precetti della legge, morali o rituali, sono scritti dagli angeli sulle « tavole celesti » (cfr. 3,31; 6,17-18; 33,10) e rivelati all’umanità in occasioni diverse per mezzo di angeli, ancora prima di Mosè (1,27)17. Da qui la tendenza a presentare i padri di Israele anteriori a Mosè come rigidi osservanti della legge. A volte, però, l’autore nota che prima di Mosè la legge non era stata rivelata in modo perfetto, e solo a partire da lui essa è diventata una legge eterna per tutte le generazioni (33,16). « La legge ha apportato sulla terra e dato a Israele – per mezzo di Mosè – le leggi che dagli inizi della creazione regolano la vita degli esseri celesti. La legge è sapienza perché indica all’uomo la via 16 Cfr. M. Testuz, Les idées religieuses, pp. 101-102; W. Gutbrod, Nomos, in GLNT 6,1308-1309. 17 Cfr. Libro dei giubilei 24,11 (Abramo). Nel giudaismo, questa convinzione è attestata in diversi testi come Sir 44,20 (Abramo); 1Mac 2,53 (Giuseppe); 2Baruc 57,2 (i patriarchi).

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della vita per giungere alla divinità e gli dà il modo di anticipare i tempi »18. Nei Testamenti dei dodici patriarchi si legge questo rimprovero nei confronti dei giudei che trasgrediscono la legge: « Voi attirerete la maledizione sopra la nostra gente e così finirete col distruggere la luce della legge, che è stata data per illuminare tutti gli uomini, insegnando comandamenti contrari alla volontà di Dio » (Test.Levi 14,4). In 4Maccabei si legge: « La saggezza (sophia) è conoscenza delle cose divine e umane e delle loro cause. Essa è dunque l’educazione della legge, per mezzo della quale apprendiamo con riverenza le cose divine e con profitto le cose umane » (1,16-17). La legge è dunque la norma più alta di vita morale, e anche le virtù proposte dai greci, secondo la convinzione dell’autore, non possono essere realizzate se non alla sua scuola. « Per un verso non c’è vera razionalità che nell’obbedienza alla legge, per l’altro quest’ultima determina ciò che è devoto, cioè sapiente e veramente colto. Per 4Maccabei, insomma, restano indiscusse e la centralità assoluta della Torah e l’identificazione palestinese e alessandrina tra legge e sapienza di vita »19. Gli stessi pensieri si trovano nella Lettera di Aristea. Nel memoriale al re d’Egitto l’autore afferma: « È necessario che anch’essi (i libri dei giudei) siano oggetto presso di te di cura diligente, in quanto questa legislazione 18 L. Moraldi, Sapienza e Torah in alcuni scritti del giudaismo: Giubilei, Esdra, Baruc, Esseni di Qumran, in A. Fanuli (ed.), Sapienza e Torah, pp. 71-81, qui 73. 19 C. Marucci, La rilevanza sapienziale della Torah nel quarto libro dei Maccabei e negli scritti di Flavio Giuseppe, in A. Fanuli (ed.), Sapienza e Torah, pp. 83-98, qui 90.

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è più filosofica e pura; come divina » (31). Tutta l’opera, specialmente nella parte in cui si descrive il banchetto (187-300), tende a dimostrare, di fronte al re d’Egitto e ai suoi cortigiani, la sapienza di coloro che si ispirano alla legge. Inoltre, sono sottolineati la stima, l’interesse e l’ammirazione che le autorità cittadine hanno avuto nei suoi confronti (301-321). L’autore della lettera è consapevole delle difficoltà che si possono sollevare contro « la santità e il significato naturale della legge (semno¯te¯s kai physike¯ dianoia tou nomou) » (Lettera di Aristea 171): perciò mediante l’interpretazione allegorica le presenta, in definitiva, come un mezzo per restare fedeli alle norme relative alla pietà (eusebeia) e alla giustizia (dikaiosyne¯), le quali costituiscono l’oggetto primario della legge (131). L’autore conclude la sua esposizione affermando che « tutto il discorso sui cibi e sulle creature impure che strisciano e sugli animali repellenti e nocivi tende alla giustizia e a giusti rapporti tra gli uomini (pros dikaiosyne¯n kai te¯n to¯n anthro¯po¯n synanastrophe¯n dikaian) » (169). In definitiva la legge, anche in quelle parti che sono più sociologicamente condizionate, manifesta la dimensione etica dell’umanità, contiene il più alto ideale di vita per tutti gli uomini20. Filone di Alessandria si pone espressamente sul piano di una rilettura filosofica della legge 21. Egli afferma che 20 Cfr. A. Paul, La Torah sapienziale a confronto con il mondo culturale ellenistico, in A. Fanuli (ed.), Sapienza e Torah, pp. 49-69, qui 55-63. 21 H.A. Wolfson, Philo, vol. I, pp. 184; 326-328; vol. II, pp. 190-194; W. Gutbrod, Nomos, in GLNT 7,1315-1321; H. Najman, The Law of Nature and the Autority of Mosaic Law, in The Studia Philonica Annual 11 (1999) 55-73; C. Termini, La creazione come arche¯ della legge in Filone di Alessandria, in RivB 49 (2001) 283-318.

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la sapienza è il logos che Dio ha creato prima dell’universo e lo ha infuso in esso perché fosse la sua legge. Questa legge cosmica è la stessa che guida l’agire umano, la « legge naturale » dei filosofi. Ma lo stesso Dio che ha posto la sua legge nella natura è anche l’autore della legge che ha dato a Israele per mezzo di Mosè (Vita di Mosè 2,48), la quale è perciò in perfetta armonia con essa. In un altro luogo egli afferma: « Il mondo è in armonia con la legge e la legge con il mondo e l’uomo osservante della legge diviene, in virtù di tale osservanza, cittadino del mondo (kosmopolite¯s), per il solo fatto che conforma le sue azioni alla volontà della natura, secondo la quale è governato anche l’universo intero » (Creazione del mondo 3). Prima di promulgare le leggi, Mosè « ha descritto l’origine della megalopoli, poiché era convinto che le leggi sono l’immagine più fedele del corso dell’universo (te¯s tou kosmou politeias) » (Vita di Mosè 2,51). Nel trattato sulle leggi egli afferma: « La giustizia e ogni virtù sono comandate dalla legge dei nostri padri e da un antico statuto (thesmos). Che altro sono leggi e statuti se non le sacre parole della natura, che possiedono intrinsecamente una fissità e una stabilità che le rende simili ai giuramenti? » (Leggi speciali 2,13). Nonostante la loro armonia con la natura, le leggi non sono un ritrovato umano, ma i più veri oracoli di Dio, theou chre¯smous saphestatous einai (Decalogo 15): Dio stesso ha annunziato il decalogo in modo meraviglioso, senza la mediazione di alcun uomo (Decalogo 1). Per queste sue caratteristiche, la legge mosaica è al di sopra delle leggi delle altre nazioni le quali, non avendo una totale sintonia con la natura, sono semplici aggiunte 119

a essa (Vita di Giuseppe 31). Lo scopo della vita umana consiste dunque nel mettere le proprie azioni in sintonia con la legge (Immutabilità di Dio 23), come hanno fatto i patriarchi, i quali sono diventati in tal modo quasi una incarnazione della legge (hoi empsychoi kai logikoi nomoi), dimostrando così che « le disposizioni stabilite non sono in disaccordo con la natura (te¯s physeo¯s ouk apa˛¯ dei) » (Vita di Abramo 5). Per Filone la legge mosaica, sebbene si situi all’interno della storia e nell’ambito delle rivelazione sinaitica, è la manifestazione contingente di una realtà superiore, la natura, da cui i filosofi hanno tratto i loro principi etici. In Flavio Giuseppe non appare espressamente la personificazione della sapienza e la sua identificazione con la legge. Il modo in cui egli concepisce la legge rivela tuttavia la familiarità con le concezioni proprie del giudaismo del suo tempo. Nella sua opera Antichità giudaiche egli presenta Mosè, più che come un legislatore, come il « profeta » di Dio (5,20), il suo « ermeneuta » (3,87). Parlando dell’origine della tôra¯h dice che Dio « ha generato » le leggi (4,319): il verbo « generare » (gennao¯), che non usa mai per indicare l’azione divina, gli è suggerito dalla presentazione che la sapienza fa di se stessa in Pro 8,25. Egli afferma anche che è meglio « morire che violare la sapienza delle leggi (te¯n sophian... to¯n nomo¯n) » (Antichità giudaiche 18,59). Più di una volta afferma che il « saggio » (sophos) in Israele è uno che conosce le leggi e sa interpretare ciò che dice la Scrittura (Guerra giudaica 6,313; Antichità giudaiche 18,81-82; 20,264). Inoltre, egli parla delle leggi come entità o potenze personali che « ordinano », « proibiscono », « ritengono giusto », posso120

no diventare « nemici irriducibili » (4,264) e dimostrano di avere una loro « volontà ». La legge assume così quel carattere di perenne validità e onnipresenza che nella tradizione giudaica era propria della sapienza, sebbene essa non sia dotata di una vera e propria personificazione 22. Nella letteratura rabbinica si giunge a una vera e propria identificazione della sapienza con la legge mosaica, la quale è concepita ormai come una realtà preesistente23. Quando narra l’allontanamento del primo uomo dal giardino dell’Eden (Gn 3,24), il Targum osserva che « duemila anni prima di creare il mondo, Dio aveva creato la legge » (TgN Gn 3,24). Secondo i rabbini, « la legge, essendo più preziosa di qualunque cosa, fu creata per prima, come è detto “Il Signore mi ha creato come principio della sua via” (Pro 8,22) » (Sifre Dt 11,10). Secondo una tradizione molto diffusa, la legge è una di quelle sette realtà che furono create in anticipo da Dio, alla vigilia del primo sabato24. Il ruolo della legge nella creazione è riconosciuto da R. ‘Aqiba (+ 135 d.C.), il quale afferma: « Un amore speciale fu annunziato a loro (gli israeliti) poiché a essi fu dato uno strumento prezioso con il quale il mondo è stato creato, poiché è detto: Ho dato a essi un buon insegnamento, non abbandonate la mia legge (Pro 4,2) » 22 C. Marucci, La rilevanza sapienziale della Torah nel quarto libro dei Maccabei e negli scritti di Flavio Giuseppe, in A. Fanuli (ed.), Sapienza e Torah, pp. 83-98, qui 96-98. 23 Cfr. K. Hruby, La Torah identifiée à la Sagesse et l’activité du « Sage » dans la tradition rabbinique, in Bible et Vie Chrétienne 76 (1967) 65-78; W.D. Davies, 2 Paul and Rabbinic Judaism, SPCK, London 1965 , pp. 170-174; G. Boccaccini (The Preexistence of the Torah: a Commonplace in Second Temple Judaism, or a Later Rabbinic Development?, in Henoch 17 [1995] 329-350) ritiene che l’idea della « preesistenza della legge mosaica » sia emersa solo nella seconda metà del secolo II d.C. all’interno del giudasmo rabbinico. 24 Le altre sono il Messia, la penitenza, il paradiso, la geenna, il trono della gloria e il santuario (cfr. G. Vermès, Gesù l’ebreo, Borla, Roma 1983, p. 163).

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(Aboth 3,18[19]). La concezione secondo cui la tôra¯h era stata in qualche modo presente e operante al momento della creazione stabilisce una profonda correlazione tra rivelazione e natura25. Alla luce della riflessione sapienziale appare dunque che il possesso della legge da parte di Israele non esclude, anzi esige che essa abbia le sue radici nella creazione stessa di Dio e sia valida per tutti e a tutti nota. Questa idea implica certo una esaltazione del proprio universo etnico culturale come centro di tutta la realtà cosmica e umana. Ma al tempo stesso comporta una visione della legge che ne mette in primo piano, come suo contenuto essenziale, i valori fondamentali: a ciò portava d’altronde la concezione della legge non solo in ambito profetico e sapienziale, ma anche nelle tradizioni legali. Al di là di possibili strumentalizzazioni ai fini di una esaltazione di Israele in quanto popolo eletto, la visione sapienziale della legge garantisce una effettiva uguaglianza di giudei e gentili di fronte alla volontà di Dio.

2. La legge di Mosè per tutta l’umanità La conoscenza della legge mosaica anche al di fuori dell’ebraismo non è solo un corollario della sua validità universale, ma viene spesso attestata nei testi giudaici secondo modalità che il più delle volte non sono esplicite e concettuali, ma piuttosto implicite e narrative. In altre parole, sono molti i casi in cui si afferma che Dio stesso 25

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W.D. Davies, Paul and Rabbinic Judaism, p. 174.

l’ha fatta conoscere in occasioni diverse anche al di fuori del popolo eletto, al quale invece essa è stata conferita in modo ufficiale. La prima di queste occasioni è la creazione stessa, vista come momento fondante dell’esistenza umana in quanto tale. Ma, secondo le tradizioni giudaiche, la legge è stata manifestata alle nazioni anche mediante Noè sotto forma di « precetti noachici » ed è stata proposta a esse al Sinai.

a) La legge conferita ad Adamo Nel secondo racconto della creazione (Gn 2,4b-25), attribuito solitamente alla tradizione jahwista, l’autore mette in luce il rapporto privilegiato che fin dall’inizio unisce l’essere umano in quanto tale al suo Creatore. Egli non definisce questo rapporto secondo i canoni biblici dell’alleanza, ma allude a questa concezione facendo uso di una terminologia ispirata ai racconti sinaitici26. Nel passo in cui descrive la collocazione di Adamo nel giardino (2,15) egli usa due verbi, « lo prese » (laqah.) e « lo fece riposare » (nûah., alla forma causativa), con cui altrove sono designate rispettivamente la liberazione di Israele dall’Egitto (cfr. Dt 4,20) e la sua introduzione nella terra promessa (Is 14,1; Ez 37,14). Così i verbi « lavorare » (‘abad) e « sorvegliare » (šamar), con i quali si indica l’attività di Adamo nel giardino, sono gli stessi che nel quadro dell’alleanza designano rispettivamente 26 L. Alonso Schökel, Motivos sapienciales y de alianza en Gn 2-3, in Biblica 43 (1962) 295-316, qui 305-309.

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il servizio di Dio (cfr. Es 23,25; Dt 6,13; 11,13; 1Sam 12,14; Sal 2,11) e l’osservanza dei comandamenti (cfr. Es 20,6; Dt 4,40; 1Sam 13,13; Sal 19,12). Di fatto, alla prima coppia è imposto un comandamento, la proibizione di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (2,17), enunciato nello stile apodittico caratteristico del decalogo, la cui trasgressione comporta la morte del colpevole, esattamente come quella dei precetti riportati in Es 21,12-17. Inoltre questo precetto nel corso del racconto è identificato con l’ultimo comandamento del decalogo, quello che proibisce il desiderio perverso (Gn 3,6), nel quale, come si è visto, si riassume tutta la legge 27. Il primo uomo conosceva dunque i suoi doveri fondamentali verso Dio (onore e obbedienza), nel cui quadro si collocano i doveri verso il prossimo, espressi poi nel fatto che Adamo riconosce in Eva un essere uguale a sé, destinato ad avere con lui un rapporto di amore e di collaborazione (Gn 2,18.23). È un fatto che il peccato si manifesterà proprio nella degenerazione dei rapporti interpersonali, come appare dalla storia successiva dei progenitori. La terminologia adottata in Gn 2,15 offre al Targum palestinese lo spunto per introdurre nel testo l’idea di legge: « JHWH Dio prese Adamo e lo fece abitare nel giardino dell’Eden per rendere un culto secondo la legge e per osservare i suoi comandamenti » (TgN Gn 2,15). Secondo il Targum, dunque, Adamo non fu collocato nel giardino dell’Eden per un lavoro e una sorveglianza materiali, che d’altronde nelle circostanze concrete non erano necessa27

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Cfr. in questo volume alle pp. 89-93.

ri, ma per compiere un servizio spirituale di onore e di obbedienza a Dio conformemente alle prescrizioni della legge. Il targumista mostra così di conoscere l’idea di un conferimento della legge ai progenitori. Questa spiegazione di Gn 2,15 è nota anche ai rabbini28. Questa idea trova riscontro nel libro del Siracide, in un testo in cui si parla della creazione dei primi esseri umani (Sir 17,1-12). In esso, con chiaro riferimento a Gn 1-2, l’autore racconta che Dio li creò a sua immagine; diede loro discernimento, lingua, occhi, orecchi e cuore perché ragionassero e conferì loro il dominio su quanto è sulla terra. Poi prosegue osservando che Dio « li riempì di dottrina e di intelletto (episte¯me¯n syneseo¯s), indicò loro il bene e il male (kai agatha kai kaka) » e mostrò loro la grandezza delle sue opere affinché potessero lodare il suo nome (Sir 17,1-8). Infine, l’autore soggiunge: « Inoltre pose davanti a loro la scienza e diede loro in eredità la legge della vita. Stabilì con loro un’alleanza eterna e fece loro conoscere i suoi decreti. I loro occhi contemplarono la grandezza della sua gloria, i loro orecchi sentirono la magnificenza della sua voce. Disse loro: Guardatevi da ogni ingiustizia (apo pantos adikou) » e diede a ciascuno « precetti riguardanti il prossimo » (peri tou ple¯sion) (17,9-12). In questo brano le allusioni alla legge mosaica sono evidenti, come appare dal confronto con Dt 30,15 (« Ecco, ho messo davanti a voi la vita e la morte, il bene e il male ») e soprattutto con il racconto che lo stesso autore fa dell’alleanza sinaitica, dove i comandamenti conferiti 28

Cfr. Sifre Dt 41, commento a Dt 11,13; Pirqe de-Rabbi Eliezer 12.

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da Dio a Mosè sono presentati come « legge di vita e di intelligenza » (Sir 45,5). Non vi sono però ragioni per affermare che a partire da Sir 17,9 non si parli più dei progenitori del genere umano, ma di Israele in quanto popolo eletto. Nulla nel testo, infatti, indica un cambiamento di soggetto. L’espressione « legge della vita » richiama, inoltre, il racconto della creazione, dove si parla di un « albero della vita » (Gn 2,9). Secondo il Siracide, per il quale la sapienza si identifica con la legge (Sir 24,23), quella stessa legge che rappresenta l’identità specifica di Israele è posta al centro della creazione e assume una dimensione universale: per mezzo suo ogni uomo riceve la conoscenza del bene e del male29. In questa sua veste la legge si riassume, però, nei comandamenti riguardanti il prossimo. Il conferimento della legge all’umanità nella persona del suo primo progenitore appare anche nel libro dei Segreti di Enoc, dove Dio così si esprime riguardo ad Adamo: « Gli diedi la sua volontà e gli mostrai le due strade, la luce e la tenebra, e gli dissi: Questo è per te il bene e questo è il male, per sapere se avesse per me amore o odio, perché si manifestassero coloro che mi amano nella sua stirpe » (30,15); « Creai un recinto nell’Eden a oriente, per vedere se serbava il patto e osservava il comandamento » (31,1)30. Anche qui, come in Sir 17, si incontrano nel primo uomo la conoscenza del bene e del male e il 29 Cfr. G.L. Prato, Il problema della teodicea in Ben Sira. Composizione dei contrari e richiamo alle origini (AnBib 65), PIB, Roma 1975, pp. 282-299; L. Alonso Schökel, The Vision of Man in Sirac 16:24 - 17:14, in Aa.vv., Israelite Wisdom. Theological Essays in Honour of S. Terrien, G. Gammie - J.M. Ward a.o., New York 1978, pp. 235-245, qui 243; E.J. Schnabel, Law and Wisdom from Ben Sira to Paul (WUNT 2.16), Mohr, Tübingen 1985, p. 87. 30 I due testi si trovano solo nella redazione lunga (cfr. P. Sacchi [ed.], Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. II, pp. 546-547).

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possesso della legge. La stessa convinzione affiora, anche se in modo più implicito, in 4Esdra, dove ad Adamo è attribuita la trasgressione non di un solo precetto, ma dei « comandamenti » di Dio: « Quando Adamo trasgredì i miei comandamenti, quel che era stato fatto venne giudicato » (7,11)31. Filone di Alessandria adotta una linea più vicina al pensiero filosofico, in quanto afferma che Adamo è stato dotato della legge naturale che per lui, come si è visto32, forma un tutt’uno con la legge mosaica: « E poiché ogni città ben regolata (eunomos) ha un governo, era necessario che il cittadino del mondo (kosmopolite¯s) avesse il governo stesso del mondo intero: ed esso è la retta ragione della natura (ho te¯s physeo¯s orthos logos), che è chiamata, con una denominazione più propria, legge stabilita (thesmos) da Dio, essendo una legge divina, secondo la quale a ciascuna cosa è stato assegnato ciò che le conviene e le spetta » (Creazione del mondo 143). L’idea secondo cui Dio ha manifestato la sua legge ad Adamo è dunque abbastanza fondata nel mondo culturale giudaico. Essa implica, in base al noto procedimento per cui si ricerca nelle origini la spiegazione dei fatti attuali, che la legge fosse effettivamente nota all’umanità intera, prima ancora che esistesse il popolo eletto e continui a esserlo anche ora al di fuori di esso. Con questa teoria si è cercato di risolvere il problema della moralità dei gentili: se nella legge mosaica è espressa in sintesi una volontà divina che riguarda tutta l’umanità, essa non 31 32

Cfr. P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. II, pp. 321-322. Cfr. in questo volume alle pp. 118-120.

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può non essere conosciuta fin dal primo momento in cui questa ha fatto la sua apparizione.

b) I precetti noachici Il tema della moralità umana, a prescindere dall’alleanza sinaitica, è affrontato dal giudaismo a partire da Noè, l’unico sopravvissuto al diluvio. Secondo la Genesi, l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26-28), trasmette per via di generazione a tutti i suoi discendenti questa sua prerogativa (Gn 5,1-3). Quando nei rapporti tra uomo e uomo prende il sopravvento la violenza (h.amas), l’universo è colpito dal diluvio, che rappresenta un ritorno al caos primitivo (Gn 6,11-12). L’unico a essere salvato è Noè, con il quale Dio dà inizio a una nuova umanità e stabilisce la sua alleanza (Gn 9,1-17). È la prima volta che nella Bibbia si parla di una « alleanza », stabilita da Dio non con Israele, ma con il capostipite dell’umanità rinnovata; per di più si sottolinea che essa è un’alleanza « eterna » (9,16), che quindi sussisterà anche quando Dio farà alleanza con Abramo e poi con il popolo di Israele. Nel quadro di questa alleanza Dio conferisce all’umanità due comandamenti: non mangiare la carne che ha in sé il sangue (cfr. Gn 9,4) e non spargere il sangue dell’uomo (cfr. 9,5-6). Di essi, il primo deriva dalla legislazione cultuale che considera il sangue, in quanto sede della vita, come parte spettante alla divinità nel sacrificio (Lv 17,10-14). La proibizione di spargere il sangue umano è ricavata dal decalogo (cfr. Es 20,13). Questi due comandamenti, che 128

intendono porre rispettivamente le basi del culto a Dio e della convivenza sociale, rappresentano in sintesi i pilastri su cui si regge l’alleanza di Dio con Noè e con tutti i suoi discendenti. In senso stretto, quindi, non esiste alcun uomo che sia privo di un adeguato orientamento di vita. Questo racconto ha offerto lo spunto per formulare la dottrina dei precetti noachici, cioè dei precetti trasmessi da Noè ai suoi figli, che costituiscono la base della fede e della morale dei gentili33. La più antica formulazione di questa dottrina si trova nel Libro dei giubilei, dove si legge: « Nel ventottesimo giubileo Noè cominciò a ordinare ai discendenti le norme, i comandamenti – tutti come li sapeva – e la giustizia e disse ai figli di applicare la giustizia, di coprirsi i genitali, di benedire Colui che li aveva creati, di rispettare il padre e la madre, di amare il prossimo e di tenersi lontani da ogni fornicazione, da tutte le impurità e dalla malvagità » (7,20)34. Filone di Alessandria non cita direttamente questa concezione, ma dimostra di conoscerla in quanto afferma che Noè « divenne perfetto, dimostrando di avere acquistato non una sola virtù, ma tutte, in quanto, avendole acquistate, continuava a esercitare ciascuna di esse a seconda dell’opportunità » (Vita di Abramo 34)35. Nel 33 E.L. Dietrich, Die « Religion Noahs », ihre Herkunft und ihre Bedeutung, in ZRelGg 1 (1948) 301-315. Cfr. anche W.D. Davies, Paul and Rabbinic Judaism, pp. 115-117; G.F. Moore, Judaism, Harvard University Press, Cambridge 1927, vol. I, p. 274; J. Bonsirven, Le judaisme palestinien au temps de Jésus-Christ: sa théologie (Bibliothèque de théologie historique), 2 voll., Beauchesne, Paris 1934, vol. I, p. 251; N.G. Cohen, Taryag and the Noahide Commandments, in JJS 43 (1992) 46-57. 34 P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. I, p. 254. Per questa concezione del Libro dei giubilei, cfr. M. Testuz, Les idées religieuses, p. 112. 35 Cfr. H.A. Wolfson, Philo, vol. II, pp. 183-187, il quale fa notare l’analogia tra i precetti noachici e quelli che Filone di Alessandria enumera come appartenenti alla legge naturale.

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Talmud si ricava da Gn 2,16, interpretato in modo artificioso con l’aiuto di diversi testi dell’AT, un elenco di sette precetti conferiti ai figli di Noè: « Le leggi giudiziarie (dinin), la proibizione della bestemmia, dell’idolatria, dell’incesto, dello spargimento di sangue, del furto e di mangiare un membro tagliato da un animale vivo » (b.Sanhedrin 56b)36. La dottrina dei precetti noachici, pur essendosi sviluppata in un periodo successivo a quello dei testi del NT, getta le sue radici nella concezione biblica secondo cui l’alleanza con Israele è stata preceduta da un’altra alleanza, riguardante tutta l’umanità, nella quale sono state date le direttive di comportamento che poi costituiranno la base della tôra¯h. Questa linea di pensiero è parallela e complementare rispetto a quella che situa la manifestazione della volontà di Dio all’umanità nel primo progenitore, Adamo. Esse si incontrano nell’affermare che i principi fondamentali dell’agire umano, che coincidono sostanzialmente con i comandamenti del decalogo, sono stati conferiti da Dio a tutta l’umanità.

c) L’offerta della legge alle nazioni Nella letteratura giudaica non si parla soltanto di una rivelazione della legge ad Adamo o a Noè. Secondo un’altra tradizione, nel momento stesso in cui stabiliva la sua alleanza con Israele, JHWH non ha escluso per principio le 36 L. Goldschmidt, Der Babilonische Talmud, Biblion, Berlin 1929-1936, vol. VII, p. 240; lo stesso testo è riportato anche nella Tosefta Ab.Z. 8(9)4.6 (cfr. S.B., vol. III, pp. 37-38). Il termine dinin è tradotto anche « osservanza della giustizia » oppure « obbedienza alle autorità ».

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nazioni, ma anche a esse ha proposto la sua legge37. Prendendo lo spunto da Dt 33,2, il TgPsJ riferisce che al Sinai si trovavano gli edomiti e gli ismaeliti, e proprio a essi Dio ha offerto la legge, ma essi l’hanno rifiutata, mentre Israele l’ha accolta con piena disponibilità. Il motivo del loro rifiuto non è menzionato; ma nelle altre due versioni del Targum si afferma che l’hanno rifiutata perché rispettivamente vi hanno trovato il comandamento di non uccidere e quello di non rubare (TgN e Tgfrm di Dt 33,2). Secondo il commento tannaitico al Deuteronomio, invece, al momento di dare la legge Dio ha parlato in quattro lingue, l’ebraico, l’edomita (Edom è spesso usato per indicare Roma), l’arabo e l’aramaico (Sifre 343 [Dt 33,2]). Nella Mekhilta questa leggenda è ulteriormente ampliata. In essa si dice che « la legge è stata data come un bene comune, pubblicamente, in un luogo che non appartiene ad alcuno », anzi, per salvaguardare meglio questa pubblicità essa non è stata data né di notte, né nel silenzio. Alla rivelazione sinaitica infatti erano presenti, oltre a Israele, anche altre nazioni. Esse sono state invitate allo scopo di evitare che potessero dire: se fossimo state invitate, di certo l’avremmo accettata. Ma esse l’hanno rifiutata, ciascuna per un motivo specifico: gli edomiti perché in essa si proibisce di uccidere; gli ammoniti e i moabiti perché si proibisce l’adulterio; gli ismaeliti perché si proibisce di rubare. Gli israeliti invece alla proposta di JHWH risposero: « Tutto ciò che JHWH ha detto lo metteremo in pratica e l’ascolteremo » (cfr. Es. 24,7). 37 Cfr. J. Potin, La fête juive de la Pentecôte, vol. I, pp. 248-259; K. Hruby, La révélation dans la théologie rabbinique, in Orient Syrien 11 (1966) 17-50.

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La tendenza a collocare la rivelazione sinaitica in uno scenario internazionale appare anche in un’altra tradizione, attribuita a R. Joh.anan, un tannaita della seconda generazione (90-130 d.C.), il quale dal Sal 68,12 ricava che « ogni parola che usciva dall’Altissimo si divideva in settanta lingue » (Shabbat 88b), quante cioè, secondo Gn 10, sono le nazioni del mondo. Il detto di R. Joh.anan è citato in Esodo Rabba 5,9 (commento a Es 4,27), dove si dice che Dio si è espresso in settanta lingue « perché le nazioni potessero comprendere » Una variante del detto di R. Joh.anan si trova nel Targum palestinese, dove si narra che al monte Ebal Dio ordinò agli israeliti: « Poi scriverete sulle pietre tutte le parole di questa legge, con una scrittura chiara e distinta; la si leggerà e poi la si tradurrà in settanta lingue » (Tg Dt 27,8)38. Questa tradizione è riportata anche dalla Mišna, dove si dice: « Dopo di ciò essi (gli israeliti) portarono le pietre, costruirono l’altare e lo intonacarono e vi iscrissero tutte le parole della legge nelle settanta lingue, come è detto: In modo chiaro e distinto (Dt 27,8) » (Sota 7,5). Nella Tosefta invece viene riferita una sentenza di R. Jehuda (b. El’aj, vissuto verso il 150 d.C.), secondo il quale « il Santo suggerì loro (alle nazioni) di inviare degli stenografi, i quali trascrissero la scrittura delle pietre in settanta lingue. In quel momento fu decretata la condanna delle nazioni del mondo alla fossa dell’abisso » (Tosefta Sota 8,6). Questa tradizione trova una conferma indiretta da parte di Filone di Alessandria, il quale così commenta 38 R. Le Déaut, Targum du Pentateuque (SChr 245, 256, 261, 271), 4 voll., Cerf, Paris 1978-1980, vol. IV, pp. 214-215.

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il suono della tromba nella teofania sinaitica: « Allora la voce della tromba discese dal cielo, capace verosimilmente di raggiungere le estremità del mondo, affinché l’evento potesse colpire di paura coloro che erano lontani e abitavano le estremità del mondo, affinché venissero alla conclusione che queste grandi cose sono segni di avvenimenti importanti » (Leggi speciali 1,184)39. Queste leggende hanno lo scopo di giustificare come mai solo a Israele sia stato conferito il dono della legge, e con esso il privilegio di avere un rapporto speciale con Dio. Ma da esse emerge anche la convinzione secondo cui la legge di Mosè rappresenta una norma valida per tutti e a tutti nota, cosicché il fatto di non conoscerla e di non praticarla sarebbe moralmente colpevole e degno della condanna di Dio. La legge però, in questa funzione universale, è ristretta praticamente ai comandamenti del decalogo, gli unici contro i quali le nazioni interpellate hanno sollevato le loro obiezioni.

3. Conclusione Nei testi biblici la legge è conferita direttamente da Dio a Israele all’interno di quel rapporto specialissimo che Dio ha stabilito con questo popolo nel contesto dell’esodo e dell’alleanza sinaitica. Si tratta quindi di una realtà legata al suo statuto speciale di popolo eletto, anche se molti dei suoi contenuti sono chiaramente frutto di una ricerca umana. Tuttavia nell’AT si sente il bisogno di col39

Cfr. J. Potin, La fête juive de la Pentecôte, vol. I, p. 261.

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locare la storia di Israele, e quindi anche le sue prerogative specifiche, nel quadro più ampio dei rapporti di Dio con tutta l’umanità. Questa tendenza non ha dato origine a una riflessione organica, ma si è manifestata in diverse piste di riflessione contenute sia nei testi biblici che in quelli della successiva letteratura giudaica. Il passo più importante di questo percorso è compiuto all’interno della corrente sapienziale, dove la sapienza personificata assume il ruolo di collaboratrice di Dio sia nella creazione che nel suo intervento salvifico a favore dell’umanità. In questa veste la sapienza si incontra con la legge che Dio ha dato al suo popolo e le conferisce una valenza universale: la legge diventa così il modello e lo strumento della creazione e come tale è inviata da Dio per portare la salvezza a tutti gli uomini. Se essa ha posto la sua dimora in Israele, ciò non significa che gli altri popoli non l’abbiano conosciuta, ma piuttosto che l’abbiano rifiutata per un atto cosciente di volontà. Israele difende così il suo privilegio al prezzo di squalificare moralmente il resto dell’umanità. Il concetto stesso di alleanza assume poco per volta un’apertura universale. Il termine berît designava originariamente solo l’alleanza sinaitica. Ma nel corso del tempo assistiamo a un allargamento di prospettiva. La storia del popolo eletto subisce un prolungamento retrospettivo: Abramo è il progenitore del popolo; anche con lui Dio ha stabilito un’alleanza. Ma prima di Abramo esisteva l’umanità. Perciò si fa strada la convinzione che, dopo il diluvio, Dio abbia fatto un’alleanza con Noè. Ancora più all’indietro, si fa strada l’idea che le stesse prime parole del Creatore ad Adamo non fossero altro se non un’al134

leanza. Così tutta la storia dell’umanità viene concepita come un susseguirsi di alleanze, in cui opera il principio dell’elezione: Dio ha scelto l’essere umano dal resto della creazione ponendolo in una posizione di dominio40. Nel contesto delle diverse alleanze concluse da Dio con l’umanità, il giudaismo spiega in quale modo la legge non solo abbia una valenza universalistica, ma sia conosciuta da tutta l’umanità. Anzi, perfino la rivelazione della legge ai piedi del monte Sinai riceve una dimensione universale: Dio ha conferito la legge a Israele solo dopo averla proposta a tutte le nazioni. Ciò comporta che, mentre per i greci i principi fondamentali dell’agire umano sono ricavati mediante un’analisi di carattere razionale che parte dal basso, cioè da quello che si può vedere e percepire, per il pensiero ebraico essi sono comunicati dall’alto, cioè sono fatti oggetto di una comunicazione da parte di Dio. Ma al di là dei modelli culturali, anche per il giudaismo, la rivelazione della legge da parte di Dio indica, come nella filosofia greca, l’impulso verso il bene che è innato in ogni essere umano e in ogni cultura. Lo ha capito bene il giudaismo ellenistico e in particolare Filone di Alessandria, il quale ha identificato la legge mosaica con la legge naturale di cui l’umanità ha usufruito fin dalle sue origini. Nella sua funzione universale, la legge viene a coincidere praticamente con i comandamenti quali sono stati elencati nel decalogo e inculcati nella predicazione profetica. Ciò non intacca minimamente la convinzione 40 G. Lindeskog, Studien zum neutestamentlichen Schöpfungsgedanken, A.B. Lundequistska Bokhandeln, Uppsala 1952, pp. 76-77.

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secondo cui tutte le prescrizioni della tôra¯h hanno validità assoluta in seno al popolo di Israele, per il quale rappresentano il mezzo più appropriato per adempiere, nel suo contesto specifico, agli obblighi fondamentali che lo legano al suo Dio. Essa assolve così a un bisogno non solo religioso ma anche politico, in quanto garantisce la difesa della propria identità etnica e nazionale. Per questa ragione la pratica della legge, proprio in quanto essa ha di più precario e contingente, assume nel giudaismo una importanza preponderante. Si giunge così a un controsenso: mentre da una parte la legge è vista come una realtà universale, dall’altra essa diventa una barriera che separa i giudei dalle altre nazioni.

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IV

Giudizio e salvezza

Il verbo « giudicare » (krinein) appare 2 volte in Rm 2,14-16.26-29, dove esprime rispettivamente un intervento giudiziale di Dio nei confronti di tutta l’umanità (2,16) e dei gentili nei confronti dei giudei (2,27). Ma il tema del « giudizio » ricorre diverse volte nel contesto prossimo del brano (Rm 1,32; 2,1-3.5.12; 3,6-8), in stretta connessione con quello dell’« ira di Dio » (Rm 1,18; 2,5.8; 3,5). Paolo fa appello al giudizio divino con uno scopo ben preciso: mostrare che sia giudei che gentili sono sotto il segno del peccato e hanno bisogno a pari condizione dell’unica salvezza di cui è portatore il Cristo. Il tema del giudizio è molto vivo nel mondo biblicogiudaico, in quanto la salvezza, elargita all’inizio a tutta l’umanità e poi donata in modo speciale a Israele, implica una precisa responsabilità di fronte a JHWH, il quale è presentato come il « giudice di tutta la terra », il cui giudizio è giusto (Gn 18,25)1. Il giudizio di Dio appare in concomitanza con la manifestazione della sua « ira » 1 V. Herntrich, Krino ¯ , in GLNT 5,1027-1060; M. Reiser, Jesus and Judgment. The Eschatological Proclamation in Its Jewish Context, Fortress Press, Minneapolis 1997, pp. 17-163.

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(in ebraico, ’af; in greco, prevalentemente orge¯)2. L’ira di Dio è una metafora3 con la quale si fa risalire a JHWH, in quanto garante dell’ordine cosmico, tutta una serie di disgrazie individuali o collettive che hanno la loro causa prossima nella natura o nella malvagità umana. Il giudizio di Dio e lo scatenarsi della sua ira possono avere luogo sia nel corso della storia che alla fine di essa. Sia l’uno che l’altra però non hanno mai carattere definitivo, perché l’ultima parola di Dio sulla storia umana è sempre la salvezza di Israele e delle nazioni, anche se essa è descritta secondo modalità molto diverse. Dopo avere esaminato nei due precedenti capitoli la situazione in cui si trovano rispettivamente giudei e gentili nei confronti della legge, vediamo ora come questi due settori dell’umanità si situano, secondo il pensiero biblico-giudaico, di fronte al giudizio divino, dal quale può scaturire sia la condanna sia la salvezza.

1. Israele di fronte al suo Dio Per la loro condizione di popolo di Dio, gli israeliti si sentivano impegnati a praticare fin nei minimi dettagli la sua volontà espressa nella legge. Certo, i peccati non potevano mancare e i profeti avevano preannunziato l’ira di Dio non solo per i gentili ma anche per gli israeliti 2 H. Kleinknecht - O. Grether - J. Fichtner - G. Stälin, Orge ¯ , in GLNT 8,1073-1254; L. Moraldi, Ira, in NDTB, pp. 756-759; R. Miggelbrink, L’ira di Dio. Il significato di una provocante tradizione biblica (gdt 309), Queriniana, Brescia 2005, pp. 9-93. 3 Il termine ebraico ’af significa « naso, narice » e deriva dal verbo ’anaf, che originariamente significava « sbuffare ». Il collegamento semantico tra l’ira e il soffio che esce dalle narici appare ancora, con riferimento a Dio, in Sal 18,9.

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peccatori. Ma si riteneva che alla fine Dio avrebbe fatto prevalere la sua misericordia e avrebbe conferito la salvezza al suo popolo.

a) Alleanza e giudizio Nel formulario dell’alleanza rivestono una grande importanza le benedizioni che Dio promette a Israele in caso di fedeltà, ma anche le sventure che colpiranno il popolo se sarà infedele agli impegni presi4. I testi biblici e giudaici mostrano quanto fosse vivo nel giudaismo il senso della propria responsabilità di fronte a Dio. Ma era convinzione comune che l’alleanza avesse in se stessa tutte le risorse non solo per garantire la fedeltà a JHWH, ma anche per porre rimedio ai peccati individuali e collettivi. Sebbene con le sue ribellioni il popolo avesse provocato dolorosi castighi, mettendo continuamente a repentaglio l’alleanza stessa, questa non poteva venire meno, perché si fondava non sui meriti del popolo, ma sull’amore gratuito del suo Dio. Testi biblici. Nella loro predicazione, i profeti rivolgono spesso agli israeliti l’accusa di venire meno alle esigenze fondamentali del rapporto che li lega a JHWH e annunziano lo scatenarsi su di essi dell’ira divina, che comporta spesso la minaccia di una distruzione totale. Tuttavia le raccolte che portano il loro nome terminano sempre con la speranza in una futura liberazione5. Cfr. J. L’Hour, La morale de l’alliance, pp. 98-103. Gli oracoli profetici di sventura risentono già del clima teologico del postesilio, durante il quale è stata fatta la loro redazione finale (cfr. R.G. Kratz, I profeti di Israele, pp. 42-45). 4 5

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L’atteggiamento di Dio nei confronti del peccato del popolo è messo in luce in modo emblematico nei racconti della tradizione sinaitica. Secondo il libro dell’Esodo, subito dopo la conclusione dell’alleanza, Israele si ribella a JHWH prestando culto al vitello d’oro (Es 32,1-6). Il racconto prosegue con un testo di origine redazionale, secondo il quale Mosè, che si trova sulla montagna, informato da Dio di quanto è accaduto, prega e ottiene il perdono per il popolo (Es 32,7-14). Nel seguito del racconto appare che Mosè, ritornato nell’accampamento, spezza le tavole dell’alleanza, indicando così la rottura dell’alleanza stessa (32,19). A questa fanno seguito altre punizioni, che mettono in luce la gravità del peccato commesso (Es 32,15 - 33,6): il castigo non può essere evitato, ma esso avviene all’insegna di un perdono già concesso in anticipo e, alla fine, l’alleanza è rinnovata in forza della misericordia divina (Es 34,1-28). La mancanza di fedeltà del popolo è descritta nelle tradizioni dell’esodo mediante il motivo ricorrente della mormorazione, che provoca l’esplosione della collera di JHWH (cfr. Nm 11,33). Nel Deuteronomio le minacce contenute nel formulario dell’alleanza trovano la loro massima espansione e culminano nell’esilio, che rappresenta la fine non solo dell’alleanza, ma del popolo stesso (cfr. Dt 28,15-68). Nella redazione finale del libro, avvenuta quando ormai la minaccia si è avverata (Dt 29,21-28), si profila la conversione a JHWH e il ritorno nella terra (Dt 30,1-5). La scuola deuteronomistica vede nel crollo dei due regni israelitici, sotto i colpi rispettivamente degli assiri e dei babilonesi e nell’esilio, la realizzazione della sventura 142

preannunziata dai profeti (cfr. 2Re 17,7-23). Tuttavia, nel buio dell’esilio appare un piccolo segno di speranza: la liberazione dal carcere di Ioiakin, il re legittimo di Giuda deportato a Babilonia dopo la prima conquista di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor (cfr. 2Re 25,27-30). Il senso profondo di un peccato che coinvolge tutto il popolo, assieme alla fiducia nel perdono di Dio, caratterizza le grandi preghiere di penitenza del periodo postesilico (cfr. Esd 9; Ne 9). Pur facendo i conti con il peccato e le sue drammatiche conseguenze, l’orizzonte è sempre quello della misericordia e del perdono. Letteratura giudaica. Nel giudaismo Israele è presentato come un popolo santo e al tempo stesso peccatore, al quale però è riservato, in forza dell’alleanza con JHWH, un trattamento di riguardo, diverso da quello che spetta alle altre nazioni6. Secondo il libro di Baruc, Israele si trova in terra straniera perché ha abbandonato la fonte della sapienza, cioè la legge, alla quale deve ritornare per ritrovare la pienezza della vita (Ba 3,9; 4,1). Il testo termina con una esortazione che comporta una minaccia ma anche una presa di coscienza della propria condizione di privilegio: « Ritorna, Giacobbe, e accoglila, cammina allo splendore della sua luce. Non dare ad altri la tua gloria, né i tuoi privilegi a gente straniera. Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato » (Ba 4,2-4). Il Siracide prega per la distruzione dei nemici di Israele, mentre per quest’ultimo fa questa richiesta: « Raduna tutte le tribù di Giacobbe, rendi loro il possesso come 6 Riportiamo qui alcune testimonianze da E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione (Biblioteca Teologica 21), Paideia, Brescia 1986, pp. 460-588.

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era al principio. Abbi pietà, Signore, del popolo chiamato con il tuo nome, di Israele che hai trattato come un primogenito » (Sir 36,10-11). Nel Libro etiopico di Enoch si racconta in modo metaforico la storia di Israele: il popolo è paragonato a un gregge che, per quanto pascolato e nutrito dal Signore, non è rimasto tutto fedele a lui. Dio quindi lo ha abbandonato e ha permesso che molte pecore, anche non colpevoli, fossero distrutte (1Enoc 89,1 - 90,19). Poi ha luogo il giudizio nel quale gli angeli decaduti sono puniti insieme alle pecore cieche, cioè gli ebrei che hanno tradito la loro fede (90,20-27). Allora Dio fa scomparire la vecchia casa e ne crea una nuova, più bella e più grande di quella di prima, dove giudei e gentili si raccolgono in una comunità nuova sotto la guida del Messia (90,28-42). Secondo l’autore del Libro dei giubilei, non esiste uomo senza peccato e, di conseguenza, tutti saranno giudicati secondo le loro opere. Ma di Israele si dice: « Se si rivolgono a lui in santità, egli perdonerà tutte le loro colpe e rimetterà tutti i loro peccati » (5,17). Dio ha dato agli spiriti il potere di far errare le nazioni lontano da lui, ma a nessuno ha dato potere sugli israeliti, perché egli solo è il loro principe, li protegge e li rivendica, per sé, « sì che tutti rispettino i suoi comandamenti ed egli li benedica, ed essi siano suoi ed egli sia loro, da oggi nei secoli » (15,32). Infine, si preannunzia che « passeranno giubilei fino al momento in cui Israele si purificherà da ogni fornicazione, peccato, impurità, abominio, colpa e frode e starà, degno di fiducia, in tutta la terra e non vi sarà più, ben per lui, alcun satana o alcun maligno e da allora nei secoli, la terra sarà pura » (50,5). 144

Nei Salmi di Salomone si legge questa preghiera: « E ora, tu sei Dio e noi (il) popolo che ami: guarda e prova compassione, Dio d’Israele, perché siamo tuoi e non allontanare da noi la tua pietà perché non ci assalgano. Perché tu fra tutti i popoli hai scelto la stirpe di Abramo, hai posto su di noi il tuo nome, Signore, e non smetterà in eterno. Tu per noi stringesti un’alleanza con i nostri padri e nel pentimento de(lla) nostra anima noi speriamo in te. La misericordia del Signore è sulla casa di Israele nei secoli e per sempre » (9,8-10; cfr. 7,8). Secondo l’autore di queste preghiere, gli eletti ottengono la salvezza nella misura in cui restano fedeli all’alleanza e non peccano al punto di esserne esclusi. Ma al tempo stesso egli esprime la speranza che un giorno tutto Israele sarà oggetto della misericordia divina. Nel Quarto libro di Esdra, prima di venire assunto al cielo, il protagonista fa questa preghiera: « Non guardare ai peccati del tuo popolo ma a coloro che ti hanno servito lealmente. (...) Non adirarti con quelli che sono considerati peggiori delle bestie, ma prediligi coloro che hanno sempre riposto fiducia nella tua gloria. Perché noi e i nostri padri ci siamo comportati in modo terreno, ma tu, (proprio) per noi che abbiamo peccato, sei chiamato misericordioso » (4Esdra 8,26.30-31). In questo libro il vero Israele è formato di giusti, santi ed eletti, mentre i loro avversari sono apostati e/o gentili. Le singole trasgressioni dei giusti non sono considerate con eccessiva severità. L’autore del Secondo libro di Baruc fa questa preghiera: « Proteggici tu con la tua misericordia e nella tua clemenza soccorrici. Guarda i piccoli che ti sono sottomessi e salva tutti coloro che ti si avvicinano, non spezzare la 145

speranza del nostro popolo e non accorciare i tempi del nostro aiuto. È questo infatti il popolo che tu hai scelto, un popolo di cui non hai trovato l’eguale » (2Baruc 48,18-20). Nei Testamenti dei dodici patriarchi Levi, dopo avere preannunziato ai suoi figli un periodo di traviamento, che comporterà la distruzione del tempio, conclude: « Non ci sarà per voi luogo puro, ma in mezzo ai popoli sarete maledizione e dispersione, finché egli non volga di nuovo il suo sguardo verso di voi, abbia misericordia e vi accolga » (Test.Levi 16,5). Nei manoscritti di Qumran si dice che la peccaminosità che contamina l’essere umano non può essere sradicata completamente se non da Dio alla fine dei tempi. Ciò comporta che anche i membri della comunità possano sbagliare; quando però ciò avviene, essi non devono fare altro che pentirsi delle loro trasgressioni e aderire nuovamente al patto (1QH 6,6; 14,24)7. Nel libro alessandrino della Sapienza il tema del peccato di Israele e quello della misericordia di JHWH sono abilmente collegati a esaltazione del popolo eletto: « Ma tu, o nostro Dio, sei buono e fedele, sei paziente e tutto governi secondo misericordia. Anche se noi pecchiamo, siamo tuoi, conoscendo la tua potenza; ma non peccheremo più, sapendo che ti apparteniamo. Conoscerti infatti è giustizia perfetta, conoscere la tua potenza è radice di immortalità » (Sap 15,1-3). Mentre sugli altri l’ira di Dio permane sino alla fine, nel caso d’Israele è 7 Circa la letteratura di Qumran, si veda la documentazione di E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, pp. 340-459.

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limitata e ha sempre come scopo la correzione (cfr. 16,5; 18,20; 19,1). In 2Maccabei l’autore, dopo avere narrato il saccheggio del tempio di Gerusalemme da parte di Antioco IV Epifane, fa questa riflessione: « Antioco si inorgoglì, non comprendendo che il Signore si era sdegnato per breve tempo a causa dei peccati degli abitanti della città e per questo quel luogo era stato abbandonato » (5,17). Nel racconto dei sette fratelli martiri uno di loro dice al re: « Se per nostro castigo e correzione il Signore vivente si adira per breve tempo con noi, presto si volgerà di nuovo verso i suoi servi » (7,33). Nella Lettera di Aristea si prende occasione dalle disposizioni alimentari della tôra¯h per fare questa riflessione sulla purezza non solo rituale, ma anche morale di Israele: « Perché non subissimo degenerazioni e non ci contaminassimo con alcuno e non avessimo contatto con i malvagi, da ogni parte ci rinchiuse, secondo il modello della legge, con prescrizioni di purità tanto nei cibi quanto nelle bevande e nel tatto e nell’udito e nella vista. (...) Infatti la maggior parte degli altri uomini si contamina mescolandosi, commettendo grave torto, e interi paesi e città si gloriano di questo. Non solo seducono i maschi, ma anche contaminano sia chi li ha generati sia le sorelle. Noi invece ci teniamo separati da queste pratiche » (142.152). Negli Oracoli sibillini, a proposito di Israele, viene fatta questa predizione: « Ci sarà di nuovo una stirpe santa di uomini pii, disposti a fare la volontà e i disegni dell’Altissimo, che grande onore renderanno al tempio del gran Dio con libagioni, con grasso e con sacre eca147

tombi. (...) Avendo avuto in sorte la legge dell’Altissimo, essi saranno felici nella giustizia e abiteranno le città e i pingui campi, innalzati dall’Immortale al rango di profeti » (3,573-576.580-583). Secondo Filone di Alessandria, « Mosè, avendo rinunziato al potere sulla nazione più grande del mondo, ha ricevuto da Dio autorità su una nazione più numerosa e potente, che egli stava per scegliere fra tutte le altre per destinarla a offrire senza sosta preghiere in favore di tutta la razza umana, affinché possa essere liberata dal male e partecipare al bene » (Vita di Mosè 1,27) Nei testi rabbinici, gli israeliti nel deserto sono stati oggetto di un amore speciale da parte di Dio e hanno fatto l’esperienza di una profonda fraternità. Essi hanno perciò realizzato perfettamente la loro vocazione di nazione santa, di popolo consacrato, diventando così la comunità ideale, il modello a cui dovranno ispirarsi i loro discendenti. Nel midraš riguardante la rivelazione sinaitica, gli israeliti sono esaltati perché, mentre altre nazioni hanno rifiutato la legge, non volendo adeguarsi ai comandamenti in essa contenuti, essi l’hanno accettata con grande disponibilità8. Nel giudaismo è dunque predominante l’idea secondo cui Israele, nonostante la sua miseria, è legato al suo Dio con un rapporto speciale, reso stabile dalla misericordia di Dio, dai meriti dei padri, ma soprattutto dalla sua condizione speciale di popolo eletto, che costituisce un pegno sicuro di salvezza, assieme al fatto che Israele è 8 Per la letteratura rabbinica, cfr. E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, pp. 61-339.

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ormai un popolo di giusti. Questo rapporto è certamente esigente e non risparmia le più gravi punizioni in caso di ribellione. Esso però rappresenta una specie di garanzia di salvezza in quanto, se il popolo o i suoi membri si pentono, Dio non può che perdonare in forza della sua fedeltà all’alleanza9.

b) La redenzione di Israele I profeti rimandano la liberazione finale e definitiva di Israele agli ultimi tempi, che alla vigilia dell’esilio venivano identificati con il momento in cui il popolo sarebbe ritornato nella sua terra. I testi che annunziano questa fase finale dei rapporti tra Israele e il suo Dio sono innumerevoli. Fra di essi spiccano quelli ai quali Paolo sembra alludere nella sezione dedicata alla manifestazione dell’ira di Dio (Rm 2,15.29). Essi riguardano rispettivamente la nuova alleanza (Ger 31,31-34), l’infusione dello Spirito (Ez 36,27-28) e la circoncisione del cuore (Dt 30,6). Testi biblici. I tre testi presi in considerazione hanno in comune la convinzione secondo cui la rinascita del popolo dovrà cominciare dal suo intimo, là dove JHWH soltanto può operare in modo efficace, mettendo le basi di un rapporto ormai indistruttibile. In essi si annunzia l’inizio di una nuova economia di salvezza che non è in contrasto con la precedente, ma la porta a compimento e al tempo stesso la supera e la sostituisce. 9 Resta incerto il destino finale dei giudei peccatori. Per quanto riguarda la letteratura tannaitica, cfr. E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, pp. 217-264.

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La nuova alleanza (Ger 31,31-34)10. Questo brano, in cui si fa sentire fortemente la redazione deuteronomistica, fa parte di un gruppo di oracoli, composti poco prima oppure subito dopo la caduta di Gerusalemme (587 a.C.), nei quali si annunzia in modo sistematico la restaurazione futura di Israele e di Giuda dopo la fine dell’esilio (Ger 30-31). Secondo il profeta, Dio manifesta l’intenzione di stabilire con Israele una « nuova alleanza » (berît h.adašah, 31,31), che sostituisce quella conclusa da Dio al Sinai. Questa infatti, benché avesse avuto origine da un suo atto sovrano (« la mia alleanza », 32,32) e fosse basata sulla signoria di JHWH (« benché io fossi loro signore », we’anoki ba‘alti bam)11, è ormai terminata perché gli israeliti l’hanno violata, trasgredendo la legge. La nuova alleanza si basa su un intervento diretto di JHWH: « Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo » (Ger 31,33). Da queste parole si arguisce che Dio ha decretato la fine dell’alleanza sinaitica perché questa era scritta all’esterno, su tavole di pietra (Es 31,18; 34,28; cfr. Es 24,4.7): ciò comportava la necessità di un ascolto 10 Cfr. R. Martin-Achard, La Nouvelle Alliance selon Jerémie, in RThPh 12 (1962) 81-92; J. Coppens, La Nouvelle Alliance en Jér 31,31-34, in CBQ 25 (1963) 12-21; P. Buis, La nouvelle alliance, in VT 18 (1968) 1-15; A. Weiser, Geremia (AT 20-21), 2 voll., Paideia, Brescia 1987-1988, vol. II, pp. 515-519; G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, Paideia, Brescia 1974, vol. II, pp. 251-257; D.J.P. Babcock, The New Covenant of Jeremiah. Jeremiah 31:31-34, Thesis Winnipeg Theological Seminary 1991 (http://www.collectionscanada. gc.ca/obj/s4/f2/dsk2/ftp03/MQ26815.pdf). 11 Secondo un’altra interpretazione, il profeta farebbe allusione ai castighi subiti da Israele a causa delle sue infedeltà (Vulgata: « Et ego dominatus sum eorum »); cfr. J. Coppens, La Nouvelle Alliance en Jér 31,31-34, in CB 5 (1963) 12-21, che a p. 14, nota 8, seguendo E. König, traduce: « Et moi j’ai dû sévir contre eux en epoux ». Sulla stessa linea la traduzione della BJ (« Alors, moi, je leur fis sentir ma maitrise »).

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e di una obbedienza che Israele non aveva saputo realizzare. Perciò la caratteristica fondamentale della nuova alleanza consiste nel fatto che Dio stesso alla fine dei tempi (« dopo quei giorni ») si incaricherà di « mettere » (natattî, perfetto con significato di futuro) la sua legge nell’intimo (beqirbam) degli israeliti e di « scriverla nel loro cuore » (we‘al libbam ’ektabennah): in altre parole, sarà il cuore, dove si prendono le decisioni più vitali, a essere posto in piena sintonia con la legge di Dio. La legge scritta sul cuore non è quindi una legge in senso proprio, se si intende per legge una norma esterna alla quale l’essere umano deve adeguare la sua condotta; essa è invece un principio interno di azione, un influsso sulla sua volontà, affinché egli compia spontaneamente ciò che Dio esige12. La legge della nuova alleanza costituisce senza dubbio un superamento della legge scritta: questo non significa però che le esigenze della volontà di Dio nei confronti del suo popolo siano mutate13; ciò che è cambiato sono solo le disposizioni dell’uomo che, grazie all’intervento di Dio, non ha più bisogno dello stimolo esterno della legge, che pure non gli impediva di essere peccatore. Tuttavia è probabile che il profeta pensasse alla clausola fondamentale dell’alleanza, che consiste appunto in un amore incondizionato verso Dio che ha origine nell’intimo del cuore (cfr. Dt 6,4-5; cfr. 30,6).

12 Geremia non vuole certo negare che già nell’antica alleanza Dio operasse all’interno del cuore (cfr. Dt 30,14); ma, secondo lui, nei tempi escatologici questo influsso interiore avrà una intensità tutta speciale, tale cioè da impedire che i peccati del popolo lo rendano inefficace. 13 Cfr. P Buis, La nouvelle alliance, in VT 18 (1968) 1-15, qui 5. Più cauto W.D. Davies, Torah in the Messianic Age and/or the Age to come (JBL.MS 7), Society of Biblical Literature, Philadelphia 1952, pp. 13-28.

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L’obbedienza spontanea alla volontà di Dio è espressa in Ger 31,34 in termini di « conoscenza di JHWH », la quale indica, com’è noto, quell’assenso pratico e vitale di tutta la persona (e non della sola intelligenza) a Dio che si esprime nell’osservanza dei comandamenti. In questa nuova situazione sarà ormai superflua l’esortazione reciproca a conoscere Dio. Di conseguenza, il peccato sarà perdonato una volta per tutte e sarà escluso dall’esistenza del popolo, almeno come esperienza collettiva tale da rimettere in questione il suo rapporto con Dio. Geremia riprende le stesse idee, anche se con alcune diversità di linguaggio, in altri due brani. Nel primo di essi (Ger 24,7), Dio promette ai giudei deportati di dare loro « un cuore capace di conoscerlo » (cfr. Is 54,13). Nel secondo (Ger 32,39-40), la trasformazione operata da Dio nel suo popolo è descritta come conferimento di « un solo cuore e di un solo modo di agire » (le¯b ’eh.ad wederek ’eh.ad), di un cuore dotato del « timore di JHWH » che, come la « conoscenza », designa l’obbedienza alla volontà di Dio; inoltre, l’alleanza che Dio intende instaurare con il suo popolo viene qualificata non più come « nuova », ma come « eterna » (berît ‘ôla¯m, cfr. Ez 37,26), sottolineando così maggiormente la continuità con l’alleanza sinaitica. Dio è dunque l’inizio, il centro e lo scopo dell’alleanza escatologica; anche i destinatari sono gli stessi e identica è la volontà di Dio nei loro confronti, espressa già da tempo nella legge mosaica. La vera novità consiste nelle disposizioni che Dio crea nei loro cuori in modo tale che la sua volontà sia compiuta in modo pieno. Non si dice come farà Dio ad attuare questa promessa. Ma il contesto letterario della profezia lascia intendere che il 152

ritorno dall’esilio, operato da Dio in forza del suo amore misericordioso, sarà un evento capace di toccare il cuore del popolo molto più in profondità di quanto avesse fatto un tempo la liberazione dall’Egitto. Il dono dello Spirito (Ez 36,26-27). Questo oracolo è stato composto dopo la caduta di Gerusalemme (587 a.C.), quindi appena pochi anni dopo quello di Geremia, con il quale manifesta una grande somiglianza non solo di vocabolario ma anche di contenuto14. Anche Ezechiele pensa al ritorno di Israele dall’esilio, che presenta come effetto di un gesto straordinario di JHWH che, così facendo, « santifica il suo nome », cioè rimuove il disonore che il castigo inflitto al popolo per i suoi peccati aveva fatto ricadere inevitabilmente anche su di lui. Inoltre egli descrive il ritorno dall’esilio come una specie di bagno lustrale con il quale il popolo sarà purificato da tutti i suoi peccati, soprattutto dall’idolatria che tanto aveva condizionato il rapporto con JHWH (cfr. Ez 36,23-25). Ezechiele riporta poi questa promessa di JHWH: « Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi » (Ez 36,26-27). In questo testo la trasformazione interiore degli israeliti è descritta con tre immagini: conferimento di « un cuore nuovo » e di uno 14 Cfr. J.W. Miller, Das Verhaltnis Jeremias und Hesekiels sprachlich und theologisch untersucht (Van Gorcum’s Theologische Bibliotheek 28), Van Gorcum, Assen 1955, p. 118. Secondo questo studioso, molto verosimilmente Ezechiele ha conosciuto e studiato a fondo una copia di Ger 30-31. Cfr. anche P. Buis, La nouvelle alliance, in VT 18 (1968) 1-15, qui 12-13.

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« spirito nuovo » (le¯b h.adaš werûah. h.adašah), sostituzione del cuore di pietra, diventato duro e insensibile a causa dei peccati, con un « cuore di carne », e infine l’infusione dello Spirito: « Darò dentro di voi (’etten beqirbeken) il mio Spirito ». In forza di questo dono, aggiunge il profeta, il popolo potrà osservare pienamente gli statuti e le leggi di JHWH. In questo testo Ezechiele non si allontana sostanzialmente dalle affermazioni di Geremia, che richiama usando la stessa espressione: ’etten beqirbeken15. Anche per lui si tratta di un evento, il ritorno dall’esilio, che segnerà profondamente Israele e lo metterà nella condizione di osservare pienamente la volontà di JHWH (statuti/leggi). Il linguaggio però è diverso. Anzitutto, Ezechiele non parla espressamente di « alleanza » e tanto meno di « alleanza nuova ». Tuttavia egli allude all’alleanza mediante l’antica formula: « Sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio » (cfr. Ez 36,28); inoltre, poco prima aveva affermato che Dio intende stringere con Israele una « alleanza di pace » (berît ša¯lôm, cfr. Ez 34,25) e subito dopo parlerà di una « alleanza eterna » (berît ‘ôla¯m, Ez 37,26; cfr. Ger 32,40). Il profeta riserva invece la qualifica di « nuovo » al « cuore di carne », sostituito al cuore di pietra, e allo « spirito » che viene infuso in esso. E, infine, identifica lo spirito nuovo con lo « Spirito di JHWH » che opera nell’intimo della persona. Così facendo sostituisce l’immagine della « legge scritta sul cuore » con quella dello Spirito. In altre parole, egli vede la novità non nell’alleanza, ma 15 Il verbo « dare » è comune a tutti e tre gli oracoli di Geremia riguardanti l’alleanza escatologica; ma il termine qereb e l’aggettivo h.adaš dimostrano la dipendenza diretta di Ez 36,25-27 da Ger 31,31-34.

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nelle disposizioni che Dio creerà nei membri del suo popolo. In tal modo, egli intende salvaguardare meglio la continuità dell’alleanza escatologica con quella sinaitica e sottolineare il carattere attivo e dinamico della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Il testo di Ez 36,26-27 è simile a Ez 11,19-20, ma rappresenta un notevole progresso rispetto a Ez 18,31, dove la formazione di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo era stata presentata non come un dono da parte di Dio ma come una direttiva che il popolo stesso doveva attuare. L’infusione dello Spirito di JHWH come principio interiore di purificazione e di rinnovamento è annunziato anche in altri oracoli escatologici (cfr. Is 32,15-20; 44,3; Gl 3,1-2)16. Ezechiele stesso ne offre una descrizione pittoresca in 37,1-14: per i suoi peccati il popolo di Dio era stato ridotto a un cumulo di ossa secche, ma in esse lo Spirito di JHWH, invocato dal profeta, diventa principio di una vita nuova. Lo Spirito di JHWH è dunque Dio stesso che agisce nell’intimo dell’essere umano per infondergli la capacità di essergli fedele nell’osservanza dei suoi comandamenti. Il dono dello Spirito non è altro che un modo diverso per descrivere la stessa realtà escatologica espressa da Geremia con l’immagine della legge scritta nel cuore del popolo: essa indica la potenza misericordiosa di Dio che, intervenendo a favore del popolo e liberandolo dall’esilio, riesce a sbloccare le sue resistenze e a muo16 Cfr. P. van Imschoot, L’esprit de Jahvè et l’alliance nouvelle dans l’Ancien Testament, in ETL 13 (1936) 201-220; Id., L’esprit de Jahvè, principe de vie morale dans l’Ancien Testament, in ETL 16 (1939) 457-467; W. Bieder, Pneuma, in GLNT 10,863-871.

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verlo dall’interno per ricondurlo a sé, purificandolo in modo totale e definitivo dai suoi peccati e rendendolo pienamente fedele alla sua volontà. La circoncisione del cuore (Dt 30,6). Il terzo testo che, sebbene non direttamente profetico, è apparentato con la profezia della nuova alleanza si trova nel libro del Deuteronomio, in una delle sezioni più recenti del libro, sulla quale si fa sentire ormai l’influsso di Geremia17. In essa l’autore afferma: « JHWH tuo Dio circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu ami JHWH tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva » (Dt 30,6). La circoncisione è un’antichissima usanza magico-religiosa, collegata originariamente con l’iniziazione al matrimonio (cfr. Es 4,24-26), che Israele ha in comune con numerosi altri popoli18. In seno alla tradizione sacerdotale essa assume il significato di segno esterno dell’alleanza, al quale sono tenuti non soltanto gli israeliti di nascita, ma anche gli schiavi nati in casa di israeliti o comprati da essi (cfr. Gn 17,9-14). L’assenza della circoncisione è considerata qualcosa di disdicevole (Gs 5,9; Gn 34,14), di fronte alla quale l’israelita prova un senso di ripugnanza (1Sam 17,26.36; Gdc 14,3), perché essa significa l’esclusione dalla comunità dell’alleanza e la separazione da Dio: perciò l’incirconciso sarà escluso dalla Gerusalemme dei tempi escatologici (Is 52,1). 17 Cfr. H. Cazelles, Jérémie et Deutéronome, in Mélanges J. Lebreton, vol. I (RSR 39 [1951-1952]), pp. 5-36, qui 36. Sulla formazione del Deuteronomio, cfr. A. Sacchi, I libri storici. Israele racconta la sua storia, Paoline Editoriale Libri, Milano 2000, pp. 215-217. 18 Cfr. R. de Vaux, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Genova 1998, pp. 56-58; W. Eichrodt, Teologia dell’Antico Testamento, vol. I, pp. 136-138; R. Meyer, Peritemno¯, in GLNT 10,48-58.

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Alla circoncisione del cuore si era già accennato in Dt 10,16, dove essa è presentata, in connessione con l’amore verso Dio, come una iniziativa che deve partire dal popolo. È probabile che questo testo abbia ispirato due passi di Geremia in cui si parla ugualmente di circoncisione del cuore19. Nel primo (Ger 4,4), il profeta esorta il popolo a circoncidere il proprio cuore per prevenire l’erompere dell’ira di Dio; nel secondo (Ger 9,22-25), dopo avere affermato il primato della conoscenza di JHWH, ricorda che la circoncisione è praticata anche da altri popoli e non ha alcun valore se coloro che ne sono dotati restano incirconcisi di cuore. Da questi tre testi Dt 30,6 si distacca, poiché in esso la circoncisione del cuore non è più considerata come un atto che il popolo deve compiere, ma come il frutto di un intervento straordinario di Dio che avrà luogo dopo la catastrofe dell’esilio20. Questo aspetto è ulteriormente sottolineato nel contesto del brano. Poco prima, infatti, si era detto che il popolo, disperso fra le nazioni a motivo dei suoi peccati, sarà raccolto da Dio e introdotto nuovamente nella terra dei padri (Dt 30,4-5), mentre subito dopo si aggiunge che il popolo ascolterà la voce di JHWH e metterà in pratica tutti i suoi precetti (30,8). L’immagine della circoncisione del cuore coincide dunque con quella della legge scritta sul cuore di cui 19 Secondo H. Cazelles, Jérémie et Deutéronome, in Mélanges J. Lebreton, vol. I (RSR 39 [1951-1952]), pp. 5-36, qui 13, il carattere originario di Dt 10,16 sarebbe dimostrato dall’allitterazione tra ‘rl (prepuzio) e ‘rp (nuca), mentre la dipendenza di Geremia da questo testo sarebbe attestata dal fatto che egli in 4,4 designa il cuore con il termine lebab, come in Dt 10,16, e non con le¯b, come fa di solito. 20 Su questo punto Dt 30,6 è più vicino a Ger 31,31-34 che al resto del Deuteronomio, dove invece è in primo piano l’impegno che Israele deve mettere per obbedire ai precetti di Dio.

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parla Geremia (Ger 31,33) e con quella del dono dello Spirito di JHWH di cui parla Ezechiele (Ez 36,26-27). Rispetto a esse, però, il Deuteronomio propone una significativa precisazione: la circoncisione del cuore avrà come effetto l’osservanza del comandamento fondamentale del Deuteronomio: « Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze » (Dt 6,5)21. Con ciò l’autore porta un notevole contributo alla comprensione dei testi precedenti: la legge scritta sul cuore non è altro che il comandamento dell’amore (Geremia), la cui pratica è garantita dallo Spirito (Ezechiele). I tre grandi oracoli contenuti in Geremia, Ezechiele e nel Deuteronomio sono dunque strettamente collegati fra loro in quanto attribuiscono la purificazione escatologica del popolo a una profonda interiorizzazione della legge dell’alleanza, che soltanto un cuore intimamente trasformato e rinnovato può praticare. Questa sintonia fra testi diversi ha reso possibile, sia nel giudaismo che nell’epistolario paolino, applicare a essi il metodo esegetico rabbinico chiamato gezerah shawah, che consiste nel considerare testi diversi, ma apparentati l’uno all’altro, come un’unica fonte da cui ricavare dati ricomponibili nei modi più svariati22. Giudaismo. Nel giudaismo non mancano i riferimenti ai testi riguardanti il rinnovamento escatologico di Israele, anche se l’espressione « nuova alleanza » è attestata Cfr. J. L’Hour, La morale de l’alliance, pp. 61-63. C.K. Stockhausen, Moses’ Veil and the Glory of the New Covenant (AnBib 116), PIB, Roma 1989, pp. 26-27; G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al midrash, Città Nuova, Roma 1995, pp. 33-34. 21 22

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solo a Qumran23. Il motivo di questa reticenza deve forse ricercarsi nel fatto che la comunità israelitica dopo l’esilio tende piuttosto a sottolineare la continuità con l’alleanza e le istituzioni mosaiche e soprattutto nell’accentuato legalismo di certi strati della popolazione che, supponendo già realizzato l’intervento salvifico di Dio (ritorno dall’esilio - nuovo esodo), insistono maggiormente sull’osservanza dei diversi precetti della legge da parte dei singoli e di tutto il popolo24. La versione greca di Ger 31(LXX 38),31-3425 si discosta dall’originale ebraico, a parte alcuni dettagli secondari, soprattutto per il fatto che il v. 33 è così tradotto: « Porrò le mie leggi (didous do¯so¯ nomous mou) nel loro intimo (eis te¯n dianoian auto¯n), sui loro cuori le scriverò (epi kardias auto¯n grapso¯ autous) ». È questo l’unico testo in cui l’ebraico qereb (intimo) è tradotto con il greco dianoia, che invece è usato spesso per tradurre l’ebraico le¯b/lebab (cuore) nella formula deuteronomica che prescrive di amare Dio « con tutto il “cuore” e con tutta l’anima ». Ciò significa forse che il traduttore identificava la legge scritta sul cuore con il precetto dell’amore di Dio. Nonostante ciò, la versione dei LXX rende l’ebraico to¯ratî con il plurale nomous mou, quasi a sottolineare che la legge di cui parla il profeta coincide con le diverse 23 R. Martin-Achard, La Nouvelle Alliance selon Jerémie, in RThPh 12 (1962) 81-92, qui 82; A. Jaubert, La notion d’alliance dans le judaïsme. Aux abords de l’ère chrétienne (Patristica Sorbonensia 6), Seuil, Paris 1963, p. 447. 24 Circa l’importanza della pratica della legge nel giudaismo, cfr. W. Gutbrod, Nomos, in GLNT 7,1304-1307. 25 Nella versione greca dei LXX, a causa della diversa collocazione degli oracoli contro le nazioni, questo testo assume un’altra numerazione (Ger 38,31-34). Per semplificare la lettura, useremo la numerazione del TM, eccetto quando si parlerà espressamente della traduzione greca.

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prescrizioni della legge mosaica come erano conosciute nella comunità giudaica26. Ma più probabilmente si tratta di una semplice variante stilistica dovuta all’influsso di un modo di esprimersi proprio del mondo greco (cfr., ad esempio, 1Mac 10,37; 13,3 e spesso in 2Mac 3-10)27. Nel libro deuterocanonico di Baruc gli israeliti sono chiamati « popolo di dura cervice » (Ba 2,30a; cfr. Ez 36,26). Di essi si dice che nella terra del loro esilio « ritorneranno in sé (epi kardian auto¯n, al loro cuore) e riconosceranno che io sono il Signore loro Dio » (Ba 2,30b-31a; cfr. Ger 31,33; Ez 36,28). Dio « darà loro un cuore e orecchi che ascoltano » (do¯so¯ autois kardian kai o¯ta akouonta, Ba 2,30b-31; cfr. Ger 24,7; 32,39; Ez 36,26); nella terra del loro esilio, ripensando alla sorte subita dai loro padri a motivo dei loro peccati, abbandoneranno la loro caparbietà e la loro malizia (Ba 2,32-33; cfr. Ger 31,34); Dio li ricondurrà nella terra promessa con giuramento ai loro padri, ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe, e ne darà loro nuovamente il dominio (Ba 2,34; cfr. Dt 30,5; Ger 24,6; 32,37; Ez 36,24). Il testo termina con questa promessa: « Farò con loro un’alleanza perenne (diathe¯ke¯n aio¯nion, cfr. Ba 2,35a; Ger 32,40; Ez 37,26): io sarò Dio per loro ed essi saranno popolo per me » (Ba 2,35b; cfr. Ger 31,33; Ez 36,28). In Ba 3,7 l’autore del libretto riprende l’immagine del timore di Dio infuso nei cuori rinnovati (cfr. Ger 32,40) e afferma che tale conversione ha già avuto luogo nella terra d’esilio (cfr. Dt 30,1). All’inizio del Libro dei giubilei si trova un brano in cui si narra che al Sinai Dio, dopo avere dato a Mosè le 26 27

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Cfr. W.D. Davies, Torah in the Messianic Age, p. 24. Cfr. W. Gutbrod, Nomos, in GLNT 7,1303-1304.

tavole della legge, gli predice la futura apostasia degli israeliti e la loro conversione dopo l’esilio; Mosè allora chiede a Dio di « creare in essi uno spirito fermo e di non permettere che lo spirito di Beliar domini su di essi » (1,20). Dio allora risponde: « Conosco le loro ribellioni, i loro pensieri e la durezza della loro cervice, e non obbediranno finché non confessino i loro peccati e quelli dei loro padri. Dopo torneranno a me con tutta giustizia e con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima, e io circonciderò il prepuzio del loro cuore e il prepuzio del cuore della loro discendenza e creerò in essi uno spirito santo e li purificherò cosicché non si allontanino da me in eterno. E le loro anime aderiranno a me e ai miei precetti e io sarò il loro Padre ed essi saranno i miei figli. E tutti si chiameranno figli del Dio vivente » (1,22-25). In questo testo si fa riferimento all’alleanza escatologica mediante la formula: « Io sarò il loro Padre ed essi saranno i miei figli » (cfr. Ger 31,33 e Ez 36,28, riletti alla luce di 2Sam 7,14); la purificazione del popolo si rifà a Ger 31,34, mentre il tema dell’osservanza dei precetti di Dio si richiama a Ez 36,27b; infine, la trasformazione degli israeliti mediante la circoncisione del cuore compiuta da Dio stesso si rifà a Dt 30,628. L’accenno alla durezza della loro cervice, pur riferendosi direttamente a Dt 31,27, allude anche al cuore di pietra di cui si parla in Ez 36,26. Parallelamente, la creazione da parte di Dio di uno spirito fermo e di uno spirito santo, pur ispirandosi al Sal 51,12-13, rievoca contemporaneamente anche Ez 28 La circoncisione del cuore non annulla l’obbligo della circoncisione fisica, spesso sottolineato nei testi giudaici. Si veda, ad esempio, quanto afferma in proposito il Libro dei giubilei (15,14.26.29; 16,14; 20,3).

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36,26-27. Questo testo è molto simile al precedente, in quanto ambedue sono costruiti mediante reminiscenze dei tre testi biblici che, in forza del metodo esegetico della gezerah shawah, sono considerati come un unico pool di risorse, sia tematiche che verbali. Nei Testamenti dei dodici patriarchi vi sono due testi nei quali, in sintonia con Ez 36,26, si attribuisce allo Spirito la purificazione del popolo di Dio degli ultimi tempi. Nel Test.Levi 18,9-10 è annunziata la cessazione del peccato, la riapertura delle porte del paradiso e l’effusione sui santi dello « Spirito di santità ». Nel Test. Giuda 24,3 il patriarca afferma: « (Il Messia) riverserà lo Spirito di grazia su di voi, e voi sarete per lui dei figli in verità e camminerete nei suoi comandamenti ». In 4Esdra, a proposito della felicità escatologica che farà seguito immediatamente alla presente epoca corrotta, si afferma, con un implicito riferimento a Ez 36,26-27: « Allora il cuore degli abitanti (della terra) sarà cambiato e sarà convertito a un altro spirito » (4Esdra 6,26). Negli scritti di Qumran gli accenni ai testi riguardanti il rinnovamento escatologico di Israele sono numerosi. Essi sono gli unici nella letteratura giudaica in cui si parla espressamente di « nuova alleanza ». Nel Documento di Damasco questa espressione è utilizzata per designare la comunità che si raduna nella « terra di Damasco » (CD 6,19; 8,21 [A] // 19,34 [B]; 20,12). Gli empi sono « coloro che tradirono la nuova alleanza » (1QpAb 2,3). Sembra dunque che i membri del gruppo di Qumran fossero convinti che la profezia di Ger 31,31-34 si sarebbe presto attuata nella loro comunità. Essi però non aspettavano qualcosa di diverso dall’alleanza sinaitica né 162

dalla legge mosaica che pensavano di dovere osservare integralmente29. L’immagine della circoncisione del cuore appare in 1QpAb 11,13, dove si legge, a proposito di Ab 2,16, che l’ignominia del sacerdote empio era dovuta al fatto che « egli non circoncise il prepuzio del suo cuore e procedette per le vie... ». Una allusione alla circoncisione del cuore si trova nella Regola della comunità in collegamento con l’idea di una alleanza eterna: « Nella comunità ciascuno circoncida il prepuzio della propria inclinazione (jes.er) e della propria dura cervice, per stabilire un fondamento di verità per Israele, per la comunità dell’eterna alleanza » (1QS 5,4-6)30. La comunità considera dunque la circoncisione del cuore come una prerogativa dei suoi membri, ma la concepisce come frutto degli sforzi dell’uomo piuttosto che come un dono di Dio. A volte poi lo Spirito santo è menzionato in contesti che richiamano in qualche modo Ez 36,26-2731. Nella letteratura rabbinica l’utilizzo delle profezie riguardanti la nuova alleanza è raro. Nell’antico midraš tannaita sul Levitico si narra la parabola di un re che ingaggia molti operai, ma a uno solo dà una ricompensa considerevole. Questi rappresenta Israele che, avendo

29 L’espressione « nuova alleanza » riveste a Qumran sfumature diverse da quelle intese da Geremia, in quanto non si oppone a un’alleanza antica e si riferisce a una realtà non solo escatologica ma anche già attuale. Cfr., in proposito, A. Jaubert, La notion d’alliance, pp. 209-211; L. Moraldi, I manoscritti di Qumran, Utet, Torino 19862, p. 241. 30 Lo jes er è strettamente collegato con il cuore in cui ha sede. Secondo . R. Meyer, Peritemno¯, in GLNT 10,64, un’altra allusione alla circoncisione del cuore si trova in 1QS 5,26, ma il testo è corrotto e la ricostruzione non è sicura. 31 Cfr. E. Puech, L’Esprit saint à Qumrân, in SBFLA 49 (1999) 283-298, con ampia raccolta di testi. Circa la nozione di « Spirito » in Qumran, si veda anche W. Foerster, Der Heilige Geist im Spätjudentum, in NTS 8 (1961-1962) 117-134; A. Jaubert, La notion d’alliance, pp. 238-245.

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fatto molto lavoro, riceve un grande premio, mentre gli altri, i gentili, ricevono un salario limitato. Dio commenta così questo fatto: « Vi farò aumentare dandovi una statura elevata e stabilirò la mia alleanza con voi, non come la prima alleanza che voi avete rotto (...), ma un’alleanza nuova (berît h.adašah) che non potrà essere rotta » (cfr. Ger 31,31; Sifra Lv 26,9). Sebbene sia Dio a prendere l’iniziativa di concludere una nuova alleanza, la parabola rabbinica lascia l’impressione che essa sia la ricompensa per il molto lavoro compiuto da Israele, e non la condizione perché tale lavoro (l’osservanza della legge) possa essere compiuto, come pensava Geremia. Il dono dello Spirito viene spesso nominato nella letteratura rabbinica, ma si tratta soprattutto dello spirito profetico o della potenza divina che attua la risurrezione finale32. L’attesa di un futuro rinnovamento interiore in forza di un intervento gratuito di Dio in favore di Israele è tipica del movimento profetico, specialmente nel contesto storico e spirituale dell’esilio. I testi che ne parlano hanno avuto una risonanza piuttosto esigua nel periodo postesilico, forse perché i giudei erano convinti della perpetua validità della legge mosaica, alla cui pratica erano protesi33. Non stupisce quindi che l’attesa di una nuova alleanza fosse tipica soprattutto di due movimenti di contestazione e di riforma, degli esseni prima e poi del cristianesimo, che ne hanno messo in luce l’aspetto critico nei confronti del giudaismo ufficiale.

E. Sjöberg, Pneuma, in GLNT 10,906-928. Circa la trasposizione del concetto di « nuova alleanza » in Filone di Alessandria, cfr. A. Jaubert, La notion d’alliance, pp. 437-442. 32 33

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2. La condanna delle nazioni In Rm 1,18-32 Paolo esprime un giudizio fortemente negativo circa la moralità dei gentili, ai quali preannunzia l’imminenza di un terribile castigo. La sua posizione è molto vicina al modo di pensare di larga parte del mondo giudaico, dal quale mutua la terminologia e le immagini. Fra di esse spicca soprattutto quella dell’« ira di Dio » che si manifesta nel corso della storia e poi soprattutto alla fine, nel « giorno di JHWH ». Nei testi più antichi questo giorno è presentato come il momento in cui l’« ira di Dio » esplode anzitutto nei confronti di Israele. Spesso appare l’idea secondo cui Dio si servirà delle nazioni straniere come strumento della sua ira nei confronti del popolo peccatore (cfr. Is 8,6-10; 10,5-6; 47,6; Ger 1,14-16; 4,6-7). Successivamente, però, il « giorno di JHWH » è immaginato come il momento della rivincita del popolo eletto nei confronti delle nazioni che l’hanno ridotto in schiavitù. Da ciò deriva l’idea secondo cui alla fine dei tempi i gentili, presi nel loro insieme, saranno giudicati severamente e riceveranno una dura condanna, mentre di riflesso si afferma l’esaltazione di Israele che essi avevano umiliato e oppresso (cfr. Is 63; Ag 2,1-10; Zc 2,1-4). È in questo contesto che frequentemente Israele appare accanto a Dio come strumento della sua ira nei confronti delle nazioni.

a) L’immoralità dei gentili I rapporti tra Israele e le nazioni circonvicine è sempre stato improntato a diffidenze, contrasti a volte vio165

lenti e rancori profondi. La necessità di giustificare la propria diversità e di difendere il proprio deposito culturale e religioso ha fatto sì che spesso i giudei squalificassero i costumi religiosi e sociali degli altri popoli. Le critiche severe pronunziate dal mondo giudaico nei confronti della moralità dei gentili assumono spesso i contorni di giudizi inappellabili di Dio. Da essi appare la convinzione secondo cui le nazioni sono perfettamente responsabili dei loro atti e non possono appellarsi alla mancanza di conoscenza o alla propria incapacità di agire correttamente per giustificare i propri errori. Testi biblici. La condanna nei confronti delle nazioni appare chiaramente in Gn 1-11, dove si proietta sul periodo prima di Abramo quella che, secondo l’autore biblico, è la situazione generale dell’umanità prima e al di fuori dell’azione salvifica di Dio. In questo racconto le colpe dell’umanità sono descritte come una corruzione dilagante che ha origine dalla caduta di Adamo (Gn 3,1-24). Dopo di essa, compaiono i vizi più ignobili: l’omicidio (4,1-16), la vendetta (4,23-24), i rapporti sessuali tra figli di Dio e figlie degli uomini (6,1-4), la violenza (6,11), la mancanza di rispetto per i genitori (9,20-27), l’arroganza e la ricerca del potere (11,1-9). Il peccato degli abitanti di Sodoma grida vendetta al cospetto del giudice divino (18,20.25), provocando un castigo terribile (19,1-12)34. Ma anche sulla famiglia di Lot, l’unico giusto salvato dalla distruzione, l’incesto compiuto dalle sue due figlie (19,30-39) getta un’ombra 34 Ezechiele interpreta la colpa di Sodoma come una sintesi di tutti i vizi: superbia, ingordigia, ozio indolente, e soprattutto un venir meno ai doveri verso il povero e l’indigente (Ez 16,49-50).

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di infamia (cfr. Lv 18,6) sui due popoli vicini a Israele Moab e Ammon che da esse hanno origine. L’invasione della terra di Canaan è considerata a più riprese come un castigo di Dio per le colpe dei suoi abitanti (cfr. Gn 15,16; Dt 9,4-5); i cananei devono essere sterminati perché altrimenti Israele imparerebbe a peccare contro JHWH (Dt 20,18). Gli israeliti dal canto loro sono messi in guardia dall’imparare gli abomini delle nazioni cananee, quali fare passare i figli attraverso il fuoco, praticare la divinazione, il sortilegio, la magia, l’evocazione dei morti: infatti, se ciò avverrà, anch’essi faranno la loro stessa fine, perché Dio ha in abominio chiunque compia tali cose (cfr. Lv 18,3.24-30; 20,22-24; Dt 18,9-14). L’invasione israelitica della terra di Canaan appare così come espressione della condanna divina nei confronti dei suoi abitanti. Gli interventi dei profeti non sono meno negativi. Nei primi due capitoli del suo libro, Amos annunzia il giudizio di Dio su diverse nazioni colpevoli di delitti crudeli verso altri popoli. Isaia annunzia una catastrofe su tutta la terra e i suoi abitanti, perché hanno trasgredito le leggi (tôrôt) di Dio, hanno disobbedito al suo decreto (h.oq) e infranto l’alleanza eterna (berît ‘ôla¯m, Is 24,5)35. Nei loro oracoli contro le nazioni, i profeti condannano severamente i vizi dei gentili, fra i quali emergono in modo speciale la superbia (cfr. Is 10,13; 14,13-14; Ger 48,29.42), l’idolatria (Is 44,9-11), la ferocia contro Israele (Gl 4,5-6) e contro gli altri popoli (Is 10,7), la frode e la rapina (Na 3,1). 35 Questo testo « sembra alludere a un’alleanza che Dio concluse con tutta l’umanità, condizionata dall’osservanza delle leggi della natura, simile a quella stretta con Noè e con la sua discendenza » (S. Virgulin, Isaia [NVB 24], Edizioni Paoline, Roma 1968, p. 148).

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Letteratura giudaica. La polemica nei confronti dei gentili prosegue con gli stessi toni nel giudaismo. Essa diventa estremamente forte nella diaspora giudaica, dove il confronto con gli usi e i costumi delle altre popolazioni è più diretto. Sullo sfondo restano sempre visibili le disposizioni morali contenute nella legge mosaica. Alcuni esempi basteranno a chiarire l’atteggiamento di fondo. Nel libro alessandrino della Sapienza l’autore, dopo avere descritto l’idolatria delle persone colte (Sap 13,1-9), dipinge un’altra categoria di idolatri, gli adoratori di statue36. A riguardo di costoro si esprime in questo modo: « Infelici sono coloro le cui speranze sono in cose morte e che chiamarono dèi i lavori di mani d’uomo, oro e argento lavorati con arte, e immagini di animali, oppure una pietra inutile, opera di mano antica » (Sap 13,10). Dopo avere lungamente spiegato l’origine di questo tipo di idolatria, egli passa a descrivere i vizi di cui essa è la causa, fra i quali nomina sangue e omicidio, furto e inganno, corruzione, slealtà, tumulto, spergiuro, adulterio, perversione sessuale, osservando che « l’adorazione di idoli senza nome è principio, causa e fine di ogni male » (Sap 14,23-29). Il giudizio nei confronti dei gentili è senz’altro molto duro e incline a generalizzazioni; tuttavia non si afferma che tutti i gentili siano immersi in questo mare di vizi, ma solo quanti sono caduti nell’idolatria37. Il Libro etiopico di Enoch prende lo spunto dall’ordine che regge l’universo, dove tutto obbedisce ai comandi 36 Cfr. G. Scarpat, Libro della Sapienza, vol. III, pp. 94-142; J. Vílchez Líndez, Sapienza, pp. 446-454. 37 All’inizio del libro, infatti, l’autore afferma che Dio « ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale » (cfr. Sap 1,14-15).

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di Dio, per fare questo rimprovero: « Voi, invece, non avete adempiuto i comandamenti e non vi siete sottomessi all’ordine del Signore, ma (lo) avete trasgredito e avete offeso la sua grandezza con le parole grosse e aspre della vostra bocca immonda. Aridi di cuore, per voi non ci sarà pace » (1Enoc 5,4). L’autore si rivolge direttamente ai malvagi, a cui appartengono in primo luogo i gentili. Negli Oracoli sibillini affiora un confronto serrato tra l’agire retto di Israele e le depravazioni dei gentili. In 3,573-595 l’autore esalta la purezza morale del popolo giudaico derivante dal fatto che possiede « la legge dell’Altissimo », e conclude osservando che i giudei « non hanno rapporti impuri con giovanetti come fanno i fenici, gli egiziani e i latini (...), trasgredendo la santa legge del Dio immortale che egli ha ordinato » (3,596-600)38. Nei tempi escatologici, sarà proprio la visione del benessere conferito a Israele che spingerà i gentili a meditare i suoi insegnamenti (3,719): allora « vi sarà una legge generale su tutta la terra » (3,757). La legge è dunque la stessa sia per i giudei che per i gentili, solo che mentre i primi l’hanno accettata nella loro vita divenendone i testimoni in tutto il mondo, gli altri l’hanno respinta consapevolmente, attirandosi così il castigo di Dio. Nei Testamenti dei dodici patriarchi si racconta che il patriarca Neftali, dopo avere esortato i suoi figli a fare propria la volontà di Dio e a respingere quella di Beliar, prosegue: « Il sole, la luna e le stelle non cambiano il proprio ordine (te¯n taxin auto¯n); allo stesso modo neanche 38 L’espressione « che egli ha ordinato » (honper etheken) è una correzione congetturale del testo che ha hon parebe¯san « che essi hanno trasgredito » (cfr. P. Sacchi [ed.], Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. III, p. 447).

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voi dovete cambiare la legge divina con il disordine delle vostre azioni. Popoli ingannati e che hanno abbandonato il Signore hanno cambiato il proprio ordine: hanno obbedito a legni e a pietre, agli spiriti dell’inganno. Ma voi non (fate) così, perché conoscete, nel fondamento (del cielo), nella terra e nel mare e in tutte le opere della creazione, il Signore che ha creato tutte le cose. (Non fate così), per non diventare come Sodoma, che cambiò l’ordine della sua natura (ene¯llaxen taxin physeo¯s aute¯s) » (Test.Neftali 3,2-4)39. Da questo testo emerge l’idea di un ordine divino che regola le cose inanimate e il comportamento umano. I gentili sono accusati di avere sovvertito questo ordine quando hanno adorato le cose inanimate. Per questo l’idolatria è equiparata simbolicamente al peccato di Sodoma, cioè l’omosessualità, vista come l’espressione più drammatica di un capovolgimento dell’ordine naturale. La natura, che si manifesta nell’ordine dell’universo, è così identificata con la legge che Dio ha dato a Mosè40. In due frammenti ritrovati nella prima grotta di Qumran appare l’idea che tutti gli uomini, sebbene conoscano la volontà di Dio (non si usa il termine « legge »), la trasgrediscano continuamente (1Q27 1,8-12; 1Q34 2,3-5; cfr. CD 2,17-21). In 4Esdra si afferma che anche i gentili hanno conosciuto la legge di Dio, ma l’hanno trasgredita: « Perciò, pe-

39 Cfr. P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. I, p. 861; R.H. Charles, The Greek Version of the Testaments of the Twelve Patriarchs, Clarendon, Oxford 1908, pp. 149-150. 40 Cfr. M. De Jonge, The Testaments of the Twelve Patriarchs, a Study of their Text, Composition and Origin, Van Gorcum, Assen 1953, pp. 59-60.

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riscano pure i molti che ora sono vivi, piuttosto che venga trascurata la legge prescritta da Dio. Dio infatti, a coloro che venivano (alla vita), ordinò esattamente, al momento della nascita, che cosa fare per vivere, e che cosa osservare per non essere puniti; ma loro non se ne convinsero, e non gli dettero ascolto, e per sé concepirono vani pensieri, proponendosi inganni delittuosi, e affermando per di più che l’Altissimo non esisteva; non riconobbero le sue vie, disprezzarono la sua legge, negarono i suoi patti, non credettero ai suoi precetti e non portarono a compimento le sue opere » (7,20-24). « Coloro che abitano sulla terra verranno tormentati, perché, pur possedendo la ragione, hanno commesso l’ingiustizia, hanno ricevuto degli ordini ma non li hanno osservati, hanno ottenuto una legge ma hanno eluso quella che avevano ricevuto » (7,72). L’essere umano, in quanto creatura di Dio, è stato istruito da lui mediante la sua legge ed educato con la sua sapienza (8,12). In questi testi l’autore non pone una differenza sostanziale tra la legge che i gentili hanno conosciuto e la legge mosaica41. Diverso invece è il modo di comportarsi dei gentili, sui quali si riversano le critiche pesanti dell’autore. Nel Secondo libro di Baruc si afferma che Israele è il popolo della legge (48,22.24); nonostante ciò, è stato punito per le sue trasgressioni mediante la distruzione del tempio di Gerusalemme. Ma alla fine dei tempi vi sarà un mutamento repentino di situazione in seguito al quale i malvagi « che non avevano ricordato la legge del Potente », riceveranno il castigo di Dio (48,38-39). In41 L’autore non intende solo i gentili, ma tutti gli empi, anche all’interno del popolo eletto (cfr. P. Sacchi [ed.], Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. II, p. 323).

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fatti « ciascuno degli abitanti della terra sapeva, quando commetteva scelleratezze, e non conobbero la mia legge per il loro orgoglio » (48,40). Prendendo in considerazione tutti i discendenti di Adamo, l’autore fa questa considerazione: « La loro (stessa) fine li accuserà e la tua legge, che hanno trasgredito, nel tuo giorno li retribuirà » (48,47). Dio ha guidato con la sua intelligenza tutte le creature e ha messo a loro disposizione « depositi di sapienza »: perciò « giustamente periscono coloro che non hanno amato la tua legge e il tormento del giudizio riceve coloro che non si sono sottomessi al tuo dominio » (54,13-15). Secondo questo autore, la conoscenza della legge di Dio appartiene a tutti. Ciò rende possibile la loro condanna quando sbagliano. La condanna che i giudei esprimono nei confronti dei gentili appare nei numerosi « cataloghi di vizi », mediante i quali descrivono il loro comportamento42. Questi cataloghi, specialmente quelli elaborati in ambiente ellenistico, rivelano nello stile una notevole somiglianza con quelli formulati dagli stoici e dalla filosofia popolare, ma ricavano in massima parte il loro materiale dall’AT, ossia dal decalogo e dalle liste analoghe in esso riportate, e dai luoghi comuni della predicazione morale dei profeti43. Il giudaismo dunque, pur ammettendo che i gentili conoscono la sostanza della legge di Dio e hanno la possibilità di osservarla, non riconosce a essi in linea generale una condotta conforme alla volontà di Dio. Ma il più 42 Cfr. Libro dei giubilei 21,21; 1Enoc 10,20; 91,5-7; 2Baruc 70,2-4; Assunzione di Mosè 7,3-9; 2Enoc 10; Lettera di Aristea 134-143; 152; Oracoli sibillini 3,29-45; 235-247; 545-555; 586-590; 761-765. 43 A. Vögtle, Die Tugend- und Lasterkataloge, pp. 96-120; S. Wibbing, Die Tugend- und Lasterkataloge, pp. 26-33.

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delle volte si tratta di generalizzazioni e di affermazioni stereotipate che sono in gran parte provocate da intenti apologetici e polemici. Squalificando le nazioni che lo tenevano soggiogato, il piccolo popolo giudaico affermava la propria identità e la propria superiorità nei loro confronti, difendendosi così dai rischi di assimilazione culturale e religiosa. b) Israele giudicherà le nazioni Nei libri più recenti dell’AT si fa strada l’idea secondo cui la storia umana si concluderà con un grande giudizio, che avrà come scopo la punizione dei cattivi e il premio dei buoni44. Questa concezione si colora spesso di tinte fortemente nazionalistiche al punto tale che la salvezza è vista come una prerogativa quasi esclusiva di Israele, mentre la condanna è riservata ai gentili. Dio è sempre presentato come il giudice ultimo e inappellabile. Si afferma però la tendenza a coinvolgere attivamente Israele nel giudizio di Dio. Testi biblici. Come nel corso della storia Dio si era servito di Israele per punire nazioni empie e corrotte e gli aveva consegnato il loro territorio (cfr. Gs 10,1-15), così alla fine dei tempi egli assegnerà a questo popolo un ruolo di primaria importanza nel pronunziare ed eseguire il verdetto finale contro di esse. Nei libri profetici più tardivi il ruolo punitivo attribuito a Israele alla fine dei tempi è descritto con diverse immagini. Dio compirà la sua vendetta su Edom per 44

Cfr. M. Reiser, Jesus and Judgment, pp. 26-163.

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mezzo del suo popolo, Israele (Ez 25,14). Ai fenici e ai filistei Dio comunica che venderà i loro figli e le loro figlie per mezzo dei figli di Giuda (Gl 4,8). Costoro saranno come un arco o come una spada nella mano di Dio (Zc 9,13). Questa attesa è espressa bene nel penultimo salmo del Salterio, dove i fedeli israeliti sono descritti con le lodi di Dio sulla bocca e la spada a due tagli nelle mani, per compiere la vendetta tra i popoli e per eseguire su di essi il giudizio già scritto (Sal 149,5-9). Nella visione del Figlio dell’uomo riportata nel libro di Daniele (Dn 7) si parla di un ruolo giudiziale attribuito a Israele45. Il protagonista (Daniele) racconta un sogno da lui avuto. Quattro terribili bestie sorgevano dal mare in tempesta; l’ultima di esse era dotata di dieci corna e di un undicesimo che parlava con arroganza. Poi erano sistemati i troni, su cui prese posto un vegliardo e insieme con lui la corte (dîna’). Allora furono aperti i libri del giudizio, la quarta bestia fu distrutta mentre alle altre fu tolto il potere; ed ecco che si fece avanti con le nubi del cielo un tale simile a un « Figlio d’uomo » e a lui furono dati il potere, la maestà e il regno, cosicché tutti i popoli, le nazioni e le lingue lo servissero (7,1-14). Segue la spiegazione della visione: le bestie sono quattro regni46, mentre colui che è simile a un figlio d’uomo è Israele, il popolo dei santi dell’Altissimo (Dn 7,15-27). In 7,22 si dice che il potere delle bestie durerà « finché 45 Cfr. G.G. Bernini, Daniele (NVB 28), Edizioni Paoline, Roma 1977, pp. 223-224; B. Marconcini, Daniele. Nuova versione, introduzione e commento (ILB 28), Paoline Editoriale Libri, Milano 2004, pp. 102-115; M. Reise, Jesus and Judgment, pp. 38-40. 46 Circa l’identificazione di questi regni, cfr. B. Marconcini, Daniele, pp. 105-106; G.G. Bernini, Daniele, p. 223.

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verrà il vegliardo, e darà il giudizio ai santi dell’Altissimo, e giungerà il tempo in cui i santi possederanno il regno ». In questo versetto l’espressione « diede il giudizio » (dîna’ jehib) non indica semplicemente una presa di posizione a favore di qualcuno (« Sarà resa giustizia ai santi dell’Altissimo »)47, ma il conferimento di un potere giudiziale, come d’altronde l’ha intesa il testo dei LXX (te¯n krisin edo¯ke)48. Gli israeliti collaboreranno dunque con Dio nel giudizio finale. In che cosa consista questa collaborazione viene suggerito subito dopo: « Si terrà poi il giudizio (wedîna’ jetib; kai he¯ krisis kathisetai) e le (alla bestia) sarà tolto il potere, quindi verrà sterminata e distrutta completamente » (7,26). Allora il regno universale, al quale tutti saranno sottomessi, verrà dato al popolo dei santi dell’Altissimo (7,27). In realtà, gli israeliti non dovranno emettere alcuna sentenza giudiziale, ma dichiareranno la condanna dei loro avversari semplicemente entrando nel pieno possesso dei beni salvifici49. Nel libro della Sapienza50 la sorte finale dei giusti, cioè degli israeliti fedeli alla legge, viene così descritta: « Giudicheranno le nazioni (krinousin ethne¯) e domineranno i popoli e il Signore sarà loro re per sempre » (Sap 47 Questa traduzione inesatta è adottata non solo nella traduzione della CEI, ma anche in quella di altri studiosi, come G.G. Bernini e B. Marconcini. 48 In base alla correzione proposta da R. Kittel (Biblia Hebraica, Württembergische Bibelanstalt, Stuttgart 196112, p. 1273), il testo originale sarebbe stato « la corte si sedette e la potenza fu data... ». Il termine aramaico dîna’ indicherebbe quindi non il potere giudiziale bensì la corte. Ma l’attendibilità di questa correzione è negata dalla versione greca dei LXX. 49 Se si suppone che il « Figlio dell’uomo », in forza del concetto di « personalità corporativa », rappresenti una figura di leader escatologico del popolo di Dio (cfr. B. Marconcini, Daniele, p. 115), a lui personalmente competerebbe il compito di attuare il giudizio di Dio su tutta l’umanità (cfr. Rm 2,16). 50 Cfr. J. Vílchez Líndez, Sapienza, pp. 142-143; M. Reiser, Jesus and Judgment, pp. 43-47.

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3,8). Anche qui si ritiene che i giusti svolgano un ruolo giudiziale nei confronti degli empi. Ciò avverrà in quanto gli empi, vedendo la sorte loro toccata, si renderanno conto del loro fallimento (cfr. Sap 5,1-5.15-17). È precisamente in questo senso che in Sap 4,16 si afferma che « il giusto che è morto condannerà (katakrinei) gli empi che ancora vivono »51. Nei Salmi di Salomone si dice che, prima che inizi il tempo della salvezza, il Messia giudicherà gli oppressori di Israele (17,21-25). Secondo 1Enoc, gli empi saranno sottoposti, sotto gli occhi dei giusti, alla punizione nella geenna (27,3). I re e i governanti saranno messi nelle mani dei giusti (38,5; 48,9). Il giudice è Dio (47,3) oppure l’eletto o il Figlio dell’uomo (45,3; 51,3; 55,4; 61,8; 62,2). I giusti riceveranno una spada e i malvagi saranno messi nelle loro mani (90,19; 93,10; 91,12-14); a essi vengono rivolte queste parole: « Non temete i peccatori, voi giusti; poiché di nuovo il Signore li consegnerà nelle vostre mani, affinché voi eseguiate su di loro il giudizio secondo i vostri desideri » (95,3; cfr. 97,10; 98,12). Nel Testamento di Abramo, un’opera giudaica che nella sua stesura primitiva risale probabilmente ai secoli I-II d.C., si legge: « E nella seconda venuta essi saranno giudicati dalle 12 tribù di Israele, ciascuno spirito e ciascuna creatura » (13). Negli Oracoli sibillini si afferma: « I profeti dell’Altissimo porteranno via la spada, perché essi sono i giudici dei mortali e giusti re » (3,781-782; cfr. Sap 3,8). Nei manoscritti di Qumran si dice che alla fine i « figli della luce », cioè i giusti di Israele, combatteranno 51

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Cfr. J. Vílchez Líndez, Sapienza, pp. 235-254.

contro i « figli delle tenebre » e li distruggeranno (1QM 1,1-8). In 1QS 5,6-7 si afferma che i membri della setta parteciperanno al « processo, giudizio e condanna di tutti coloro che trasgrediscono i precetti » (cfr. 1QH 4,26)52. Nel commento di Abacuc si fa questa affermazione: « Dio non annienterà il suo popolo per mano dei gentili, ma per mano del suo eletto Dio giudicherà tutti i gentili » (1QpAb 5,3-5). Alla fine dei tempi, Dio si servirà della cooperazione di Israele nel giudizio a cui saranno sottoposti i gentili. A volte, questo compito è riservato all’inviato escatologico di JHWH. Con questa metafora è indicato un capovolgimento radicale della situazione storica di Israele. Le nazioni lo hanno asservito, umiliato e oppresso non certo per una loro superiorità nei suoi confronti, ma perché Dio si è servito di esse come strumento per castigare il suo popolo peccatore. Ma alla fine Israele entrerà in possesso del regno universale di Dio che esse avevano usurpato, testimoniando così in modo aperto e drammatico la loro sconfitta. Ma anche per le nazioni non è questa la parola finale e definitiva.

3. Il destino finale delle nazioni Nelle fonti bibliche e giudaiche il destino finale delle nazioni non è descritto in modo univoco e costante, in quanto le posizioni che affiorano nei diversi scritti sono determinate non solo dai principi fondamentali 52

Cfr. E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, p. 384.

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che ispirano la fede di Israele, ma anche dalle situazioni storiche in cui sono vissuti i loro autori. Lo scontro che si è verificato con i grandi imperi della Mesopotamia e dell’Egitto, se da una parte ha fatto maturare l’idea secondo cui JHWH non è solo un piccolo dio nazionale ma il Signore di tutto il mondo, dall’altra ha provocato il sorgere di una mentalità discriminatoria nei loro confronti, in quanto nemici di Dio. Tuttavia, la prospettiva biblica è nettamente universalistica e la possibilità di una pratica della legge da parte dei gentili nel corso della storia non è esclusa.

a) Una salvezza universale L’universalismo biblico non appare semplicemente in singole affermazioni, ma pervade la struttura stessa della raccolta dei libri canonici53. Per valutare questo aspetto del messaggio biblico è dunque necessario coglierne l’orientamento di fondo, senza lasciarsi condizionare da quei testi che sembrano affermare il contrario. Si deve supporre che la prospettiva biblica resti costante anche nel giudaismo, nonostante l’eclisse di un universalismo esplicito. Testi biblici. La prospettiva universalistica delle Scritture ebraiche appare in primo piano nei racconti riguar53 Si veda, in proposito, R. Martin-Achard, Israël et les nations. La perspective missionaire de l’Ancien Testament, Delachaux & Niestlé, Neuchatel-Paris, 1959, pp. 31-53; L. Legrand, Il Dio che viene. La missione nella Bibbia, Borla, Roma 1989, pp. 30-45; D. Senior - C. Stuhlmueller, I fondamenti biblici della missione, EMI, Bologna 1985, pp. 119-153; G. Ravasi, Missione ed universalismo nell’Antico Testamento, in Rassegna di Teologia 28 (1987) 32-59, qui 50-57; E. Testa, I principi biblici della missione, in Aa.vv., Missiologia oggi, Urbaniana, Roma 1985, pp. 11-47, qui 16-28.

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danti la creazione e la prima diffusione dell’umanità (Gn 1-11). In essi, sebbene l’interesse sia puntato fin dall’inizio sulla nascita di Abramo, capostipite del popolo eletto, in primo piano è posto non Israele ma l’essere umano in quanto tale. Secondo il primo racconto della creazione, è l’uomo che è stato creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26), e tale rimane anche dopo la catastrofe del diluvio (Gn 5,1-3). Nel secondo racconto della creazione appare che l’uomo viene all’esistenza in un rapporto di amicizia con Dio, descritto sulla falsariga dell’alleanza tra Dio e Israele (Gn 2,4b-17). Anche dopo la caduta, i racconti biblici non cessano di sottolineare la cura amorosa di Dio per tutta l’umanità. Dopo il diluvio, l’umanità viene ricostituita a partire da Noè e dai suoi figli, gli unici superstiti. Con loro e con tutto il cosmo Dio stabilisce un’« alleanza perpetua », che quindi si estende a tutta l’umanità ed è destinata a durare per sempre (Gn 9,1-17). La vocazione di Abramo viene situata all’interno del rapporto già esistente tra Dio e l’umanità. Ciò viene esplicitato nel fatto che ad Abramo, in occasione della sua chiamata, Dio promette che sarà una benedizione per tutte le nazioni della terra (Gn 12,2-3). In seguito, Dio fa con lui un’alleanza nel cui contesto riceve la promessa di diventare « padre di una moltitudine di popoli » (17,4-5). A lui è conferito dunque non un privilegio ma una responsabilità nei confronti di tutta l’umanità, alla quale per mezzo dei suoi discendenti sarà aperta la strada a un rapporto pieno con Dio, quale esisteva all’inizio. È significativo che quando promette l’alleanza agli israeliti Dio ci tenga a sottolineare: « Mia è tutta la terra » (Es 19,5). 179

La visione di una salvezza universale, che le tradizioni storiche proiettano agli inizi (protologia), è situata dai profeti alla fine dei tempi (escatologia). L’immagine che essi utilizzano molto spesso è quella del pellegrinaggio escatologico al monte Sion, luogo della presenza di JHWH in mezzo al suo popolo, dove le nazioni si recheranno per sottomettersi a lui e offrirgli sacrifici. Questa immagine appare per la prima volta in un oracolo riportato sia da Isaia che da Michea (Is 2,2-5; Mi 4,1-3), ripreso poi in vari modi anche da altri profeti (cfr. Is 11,10; 18,7; Ger 3,17; 16,19-21; Mi 7,12). In un testo tardivo, entrato nel libro di Isaia, si dice che un giorno anche l’Egitto si convertirà a JHWH (Is 19,18-25)54. Il profeta che ha più elaborato lo sfondo universalistico della salvezza è il Deuteroisaia, il profeta del ritorno dall’esilio babilonese, dove il Servo di JHWH è presentato non solo come « alleanza del popolo » ma anche come « luce delle nazioni » (Is 42,6; 49,6), mentre Israele è il testimone di JHWH, a cui un giorno accorreranno le nazioni (Is 55,4-5) per prendere parte alla salvezza finale, sottomettendosi a JHWH e al suo popolo (45,14-16.20-25). Nel Tritoisaia la salvezza è resa disponibile anche agli stranieri e agli eunuchi, due categorie di persone che, per ragioni sociali e religiose, erano escluse dalla comunità: « I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare, perché il mio tempio si chiamerà casa di pre54 Sulla portata di questo testo, cfr. A. Feuillet, Un sommet religieux de l’Ancien Testament. L’oracle d’Isaïe XIX (vv. 16-25) sur la conversion de l’Égypte, in Id., Études d’exégèse et de théologie biblique, Gabalda, Paris 1975, pp. 261-279, qui 273-274.

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ghiera per tutti i popoli » (Is 56,7). Il profeta annunzia poi la gloria futura della città santa, alla quale andranno in pellegrinaggio gli abitanti dei paesi più lontani, portando tutti i loro beni in dono a JHWH (60,1-9). Essi ricostruiranno le mura di Gerusalemme (60,10), mettendosi al servizio degli israeliti, i quali saranno per loro come i sacerdoti del Signore (61,5-6). Alla fine, tutte le nazioni si convertiranno e ricondurranno i dispersi di Israele a Gerusalemme come offerta a Dio; anche fra esse Dio prenderà sacerdoti e leviti (66,18b-24). Gli stessi concetti appaiono nei profeti contemporanei (cfr. Ag 2,6-9; Zc 2,15; 8,20-23; 14,16; Sof 2,11). In un testo apocalittico conservato nel libro di Isaia la salvezza finale è concepita come un grande banchetto al quale parteciperanno tutte le nazioni, alle quali JHWH si rivelerà eliminando per sempre la sofferenza e la morte (Is 25,6-9). L’universalismo biblico ha trovato espressione nella preghiera di Israele, soprattutto nei salmi che esaltano la regalità di JHWH (cfr. Sal 68,29-35; 86,9; 87; 96,7-10). In questi canti di lode, nei quali è evidente l’influsso del Deuteroisaia, l’opera di JHWH si svolge ormai su uno scenario internazionale. Non solo il popolo eletto, ma anche tutte le nazioni e l’intero universo sono invitati a sottomettersi a JHWH e a dargli lode. I giudei che recitavano questi salmi non potevano non nutrirsi delle loro idee, anche se in controtendenza rispetto alla tendenza più particolaristica, tipica del postesilio55.

55 Cfr. A. Feuillet, Les psaumes eschatologiques du Règne de Yahvé, in Id., Études d’exégèse et de théologie biblique, Gabalda, Paris 1975, pp. 363-394, qui 382-385.

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Nel libretto di Giona si mette in luce, in polemica con la mentalità esclusivista del profeta, specchio fedele della comunità postesilica, che la misericordia di Dio è assicurata anche a una nazione straniera, l’Assiria, tradizionale nemica di Israele. Nel libro di Rut la protagonista è una donna moabita che accetta la fede di Israele e diventa la progenitrice del re Davide. Anche nel libro di Tobia è attestata l’attesa del pellegrinaggio escatologico delle nazioni al tempio di Gerusalemme (Tb 13,13). Emblematica a questo riguardo è la figura di Achior nel libro di Giuditta. Questo personaggio, pur essendo un ammonita, è al corrente del ruolo conferito a Israele nel piano di Dio e, alla fine, dopo la morte di Oloferne, si converte all’ebraismo (Gdt 5,5-24; 14,6-10)56. Nonostante alcune tendenze particolaristiche, la religione del Primo Testamento conserva una notevole apertura al mondo gentile, presentato come l’ultimo destinatario del progetto di salvezza che si è attuato in Israele. Alle nazioni la salvezza può giungere attraverso vie diverse, e non necessariamente in forza della mediazione del popolo di Dio. Quello che conta è l’adesione, anche da parte dei gentili, ai valori che Israele ha scoperto nella sua esperienza religiosa. Giudaismo. Nel giudaismo, le posizioni nei confronti dei gentili si fanno più rigide57. In 1-2Maccabei e nel Libro dei giubilei, l’universalismo è completamente assente. 56 M. Priotto, Giuditta e Sapienza: due aspetti dell’atteggiamento dei popoli di fronte a Israele, in G. Ghiberti (ed.), La missione nel mondo antico e nella Bibbia, pp. 45-70, qui 46-54. 57 Cfr. il bilancio della ricerca di M. Reiser, Jesus and Judgment, pp. 146-147.

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In numerosi testi si accentua l’unicità di Israele come popolo eletto (cfr. 4Esdra 5,23-27) e si parla delle nazioni unicamente in chiave di distruzione (cfr. Assunzione di Mosè 10,7-10). Restano però voci meno esclusiviste. Gli Oracoli sibillini annunziano la conversione finale dei gentili, che un giorno si recheranno in pellegrinaggio al tempio per offrire il culto al vero Dio: « Da tutta la terra recheranno incenso e doni ai templi del gran Dio » (3,772; cfr. 3,734.777-779). Nel Libro etiopico di Enoc è riportata una descrizione del benessere degli ultimi tempi, a conclusione della quale si dice: « E tutti i figli degli uomini siano giusti e tutte le genti mi adorino e mi venerino, e tutti si prostreranno a me » (1Enoc 10,21); successivamente, nella sezione delle parabole si dice: « Egli sarà il bastone dei santi e dei giusti, affinché si appoggino a esso e non cadano, e sarà luce dei popoli e speranza per coloro che soffrono nel loro animo. Tutti quelli che vivono sulla terra cadranno e si prostreranno innanzi a lui e salmodieranno per lui al nome del Signore degli spiriti » (48,4-5). Nei Testamenti dei dodici patriarchi è forte la sottolineatura universalista in prospettiva escatologica. Parlando ai suoi figli, Levi dice: « E se voi diventerete tenebra a causa dell’empietà, che cosa resterà da fare alle genti che vivono nella cecità? Voi attirerete la maledizione sopra la nostra gente e così finirete col distruggere la luce della legge che è stata data per illuminare tutti gli uomini, insegnando comandamenti contrari alla volontà di Dio » (Test.Levi 4,4; cfr. 14,4; 2,11). Testi simili sono attribuiti anche ad altri patriarchi (cfr. Test.Neftali 2,5; 4,5; 8,3; Test.Dan 6,7; Test.Beniamino 9,2; 10,5; Test.Asher 7,3), 183

ma non è facile discernere il fondo antico dalle interpolazioni cristiane58. Un grande apprezzamento per i gentili è attestato anche nel romanzo Giuseppe e Asenet, un’opera giudaica del secolo I d.C. orientata in senso proselitistico59. Nel giudaismo, pur essendo forte la tendenza a considerare i gentili in blocco come una massa damnata, non mancano le voci che annunziano la loro salvezza nei tempi finali. Salvo eccezioni, si pensa che questa salvezza sia accessibile a loro solo mediante l’adesione alla fede di Israele. Questo modo di vedere ha dato origine all’esperienza del proselitismo, in forza del quale molti gentili aderivano alla religione giudaica in senso pieno, sottoponendosi alla circoncisione e osservandone tutte le leggi e le usanze (proseliti), mentre altri diventavano simpatizzanti, accettandone gli insegnamenti e qualche pratica rituale (timorati di Dio). In questo contesto non era facile pensare a una via di salvezza autonoma per i gentili.

b) I gentili onesti L’universalismo della salvezza, all’interno del quale si situa l’elezione di Israele, non sarebbe credibile se già nel corso della storia la grazia di Dio non raggiungesse anche quanti si trovano al di fuori del patto. Ciò comporta necessariamente che a tutti sia elargita la possibilità con58 Cfr. P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. I, p. 747, dove si esprime un giudizio favorevole all’origine giudaica dei passi in questione. 59 Cfr., in proposito, G. Aranda Pérez - F. García Martínez - M. Pérez Fernández, Letteratura giudaica intertestamentaria, pp. 355-360.

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creta non solo di conoscere, ma anche di compiere la volontà di Dio. E di riflesso questa possibilità sarebbe vana e illusoria se non esistesse almeno qualcuno che ne usufruisca. Nei testi biblici questo aspetto viene affrontato solo in modo indiretto, mentre nei testi giudaici è quasi completamente ignorato. Perciò le rare testimonianze in suo favore devono essere adeguatamente valorizzate. Libri biblici. Nella storia biblica delle origini a Caino, ingiusto e violento, si oppone Abele la cui offerta è tenuta in considerazione da Dio (Gn 4,4); l’umanità prediluviana è totalmente corrotta, ma fra essa si trova un uomo giusto, Noè (Gn 6,9), che è salvato dalle acque e riceve da Dio il compito di dare vita a una nuova umanità. Quando Abramo discende in Egitto e presenta Sara come sua sorella (Gn 12,10-20), il faraone lo rimprovera per averlo messo nella condizione di compiere un’azione anche solo materialmente illecita. Nel racconto parallelo, Abimelech rimprovera Abramo che gli ha ceduto sconsideratamente la moglie facendola passare per sua sorella, per averlo messo nell’occasione di compiere un grave peccato, commettendo così nei suoi confronti « una cosa che non deve essere fatta » (Gn 20,9): questa riflessione è segno di una sensibilità morale analoga a quella che si trova in Israele60. Fra i cananei pervertiti emerge la figura nobile e retta di Melchisedek, re di Salem (Gn 14,18-20), che la tradizione successiva presenta come figura del re davidico (cfr. Sal 110,4). Abramo, che conosce i peccati degli abitanti di Sodoma e Gomorra, non ritiene impossibile che vi siano fra di loro almeno dieci giusti (Gn 18,22-33): 60 La violenza usata a Dina e quella a Tamar sono designate ambedue come « cosa che non deve essere fatta in Israele » (Gn 34,7; 2Sam 13,12).

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se i fatti dimostrano che il suo calcolo era stato troppo ottimista, almeno una famiglia, quella di Lot, è ritenuta degna di sfuggire al castigo (Gn 19). Anche nella storia successiva non mancano di fare la loro comparsa personaggi che, pur non appartenendo al popolo di Israele, riscuotono tutta la stima degli autori sacri per la loro levatura morale, come Jetro, suocero di Mosè (Es 18), la moabita Rut, protagonista del libro omonimo, il generale siro Naaman (2Re 5) e tanti altri. Il Deuteroisaia sottolinea la predilezione di Dio per Ciro (Is 44,28; 48,14), al quale attribuisce addirittura l’appellativo di « messia » (45,1-3). Giobbe, il protagonista del libro omonimo, pur essendo uno straniero, viene presentato come il modello dell’uomo giusto che teme Dio. Giudaismo. Anche in seno al giudaismo si levano voci che riconoscono ai gentili la possibilità di condurre una vita giusta, in armonia con i precetti di Dio. L’autore del 4Esdra, di cui sono state menzionate le vedute universalistiche a proposito della conoscenza della legge, afferma di avere girato per le nazioni e di averle viste nella prosperità, sebbene non ricordassero i comandamenti divini; egli osserva che, se si pesano sulla bilancia le iniquità del popolo giudaico e quelle degli abitanti del mondo, si vedrà chiaramente da quale parte essa inclini; e conclude così la sua riflessione: « Quand’è che non hanno peccato al tuo cospetto coloro che abitano la terra? O quale popolo ha osservato così i tuoi comandamenti? Troverai sì dei singoli uomini che li abbiano osservati, ma certo non dei popoli » (3,35-36). Nonostante il suo pessimismo, egli non esita dunque ad ammettere che singoli gentili, senza dubbio in via eccezionale, possano avere praticato la legge. 186

In 2Baruc si afferma: « Tu solo sei il Vivente, che non muore né è investigabile e sa il numero degli uomini e se un tempo molti hanno peccato e altri, non pochi, sono stati giustificati. Tu sai dove è custodita la fine di coloro che hanno peccato o il compimento di coloro che furono giustificati » (21,10-12). Nei Testamenti dei dodici patriarchi a Beniamino sono attribuite queste parole: « Osservate i comandamenti di Dio, finché il Signore non rivelerà la sua salvezza su tutta la terra. Allora vedrete Enoc, Noè, Sem, Abramo, Isacco e Giacobbe risorti nella gioia alla sua destra. Allora risorgeremo anche noi, ciascuno alla sua tribù e adoreremo il re dei cieli. Allora tutti risorgeremo, gli uni per la gloria e gli altri per il disonore, e il Signore giudicherà per primo Israele per la sua ingiustizia. Allora giudicherà tutti i popoli. Convincerà di colpa Israele per mezzo degli eletti fra i gentili, come convinse Esaù per mezzo dei madianiti che avevano amato i loro fratelli. Essi erano diventati, dunque, figli con la parte di coloro che temono Dio » (Test.Beniamino 10,5-10). Che non si tratti di una interpolazione cristiana appare dall’allusione alla haggadah su Esaù e i madianiti che non è conosciuta altrove61. Filone di Alessandria afferma che tra i greci e i barbari vi sono alcuni che praticano la sapienza; costoro, vivendo in modo irreprensibile, decisi a non compiere alcuna ingiustizia, sono come « asceti della sapienza... dediti alla contemplazione della natura ». Essi sono certo « un piccolo numero, un tizzone di sapienza che brucia di nascosto in varie città », ma con la loro vita sono 61

M. Reiser, Jesus and Judgment, p. 94.

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testimoni del fatto che « la legge si adatta alla vita irreprensibile degli uomini che seguono la natura e i suoi ordinamenti » (Leggi speciali 2,44-47). Nel Talmud babilonese, quando i rabbini discutono circa il valore delle opere buone compiute dai gentili, alcuni dichiarano che esse si trasformano in peccati; R. Joh.anan b. Zakkaj, fondatore dell’accademia di Jabne (+80 d.C.), interviene allora affermando: « Come il sacrificio per il peccato opera l’espiazione per Israele, così l’esercizio delle opere di misericordia (s.edaqâ) attua l’espiazione per i popoli del mondo » (Baba Batra 10b). Nella Tosefta è riportata una interessante discussione tra due rabbini vissuti verso la fine del secolo I d.C. circa il problema della salvezza dei gentili. A partire dal Sal 9,18 (« Gli empi scenderanno nello še’ôl, tutti i gentili che dimenticano Dio »), R. Eli’ezer ben Hyrkanos afferma che tutti i gentili (gôjîm) non hanno parte al mondo futuro assieme agli israeliti infedeli. Ma R. Jehoshu’a ben Hananiah ribatte: « Se la Scrittura avesse detto: “Gli empi scenderanno nello še’ôl, tutti i gentili”, e poi avesse taciuto, allora sarei d’accordo con te; ma poiché la Scrittura prosegue “che dimenticano Dio”, ecco, ciò significa che vi sono dei giusti fra i gentili, che hanno parte al mondo futuro » (Tosefta Sanhedrin 13,2)62. Come si può constatare, una valutazione positiva della moralità dei gentili si trova più nei libri canonici che non nei successivi scritti giudaici. È possibile che ciò sia dovuto all’atteggiamento di difesa assunto dai giudei in seguito alle lotte maccabaiche e alla situazione di diaspora in cui 62

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Cfr. M. Reiser, Jesus and Judgment, pp. 136-138.

si trovavano tanti di essi, sempre nel rischio di assimilare i costumi greci. I pochi testi citati sono però sufficienti a ridimensionare l’impressione di totale pessimismo che di solito si ricava dalla letteratura giudaica: nonostante i gentili siano accusati in modo sbrigativo di avere rifiutato, sia teoricamente che praticamente, la legge di Dio, non si può escludere in modo assoluto che alcuni di loro la pratichino, ottenendo così il premio che Dio ha riservato ai giusti di Israele. In questo essi sarebbero chiamati a pronunziare nei confronti dei giudei peccatori un giudizio analogo a quello attribuito ai giudei nei confronti dei gentili63.

4. Conclusione I rapporti tra Dio e Israele rappresentano il punto centrale delle Scritture ebraiche. È convinzione comune dell’ebraismo che nel corso della storia Dio abbia manifestato una predilezione speciale per Israele e lo abbia unito a sé nel vincolo perenne dell’alleanza. Assieme all’aspetto di privilegio l’alleanza comporta anche una pesante responsabilità, quella di testimoniare al consesso dei popoli il valore supremo di una liberazione che parte dal cuore e dà origine a rapporti nuovi fra le persone. La vocazione storica di Israele è quella di lottare in nome di Dio per un mondo più giusto e fraterno. Il peccato di Israele consiste nel considerare il proprio statuto religioso come un privilegio, cioè come segno di un’identità nazionale da affermare in contrapposizione alle altre nazioni. È 63 In realtà, questa possibilità appare unicamente nel passo citato del Test. Beniamino (10,5-10) e, indirettamente, almeno come minaccia, in Ba 4,3.

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questa una deviazione dallo spirito genuino dell’alleanza, che ha portato con sé dolorose conseguenze, presentate metaforicamente come una punizione divina. In questa prospettiva le grandi profezie escatologiche, più che preannunziare eventi futuri, rappresentano un tentativo di ricuperare nella storia la vera vocazione di Israele. Il ruolo assegnato a questo popolo non è concepibile senza la visione di una salvezza universale, disponibile a tutta l’umanità senza alcuna discriminazione. Se si vuole parlare di una « storia della salvezza » di cui Israele è protagonista, questa non può essere che il vertice e il punto qualificante di una lenta trasformazione di tutta l’umanità verso la pienezza escatologica del regno di Dio. Il ruolo di testimone affidato a Israele non esclude quindi, ma esige che la salvezza si realizzi progressivamente a favore di tutti. Senza una salvezza dei gentili, che si attui già nel corso della storia, attestata dalla vita moralmente corretta almeno di alcuni di loro, tutto il castello dell’elezione di Israele perde il suo significato simbolico e diventa puramente segno di arroganza pretestuosa. Se nel giudaismo il carattere universale della salvezza si è in parte oscurato, ciò è dovuto ai meccanismi tipici della religione istituzionale, che tende a identificare un gruppo sociale, a organizzare le sue manifestazioni culturali e religiose, a premunirlo nei confronti di influssi esterni, specialmente quando questi diventano accattivanti. Si può dunque affermare che il giudizio negativo formulato dal giudaismo nei confronti della moralità dei gentili è valido se riguarda il male strutturale di una umanità alla quale anche Israele appartiene, ma diventa intollerabile se inteso come condanna indiscriminata di tutti i non giudei. 190

Conclusione della prima parte

Le Scritture di Israele illustrano un progetto di salvezza che è tale proprio perché è universale. Per quanto ciò possa apparire paradossale, lo scopo finale del piano di Dio non è Israele, ma l’umanità di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Nella prospettiva di una salvezza universale, la legge non può essere riservata a un solo popolo, ma deve appartenere a tutti. Il fatto che Israele possegga la legge di Dio non esclude che anche altri la posseggano. Anzi, per essere veramente tale, la manifestazione della volontà di Dio deve avere un carattere universale. In questa prospettiva assumono particolare valore e significato nella legge mosaica proprio quelle istanze che possono essere condivise senza difficoltà da tutta l’umanità, cioè i principi morali e in ultima analisi il comandamento dell’amore. Il fatto di possedere la legge avrebbe dovuto fare di Israele il paladino di una religione universale, basata sulla difesa dei diritti umani. Le tendenze di carattere particolaristico hanno portato invece a vedere nella legge un privilegio speciale di Israele e, di conseguenza, a mettere in risalto proprio quelle pratiche descritte nei codici, che identificavano Israele e lo separavano dalle nazioni circonvicine. 191

Lo studio dei contenuti della legge, specialmente se visti in una prospettiva universalistica, mostra che con questo termine sono indicate realtà molto diverse. Sono infatti tôra¯h le norme dei codici che devono essere applicate con fedeltà assoluta secondo le direttive dei maestri, anche quando di esse viene data una spiegazione allegorica, come accadeva nel giudaismo ellenistico. Ma sono tôra¯h anche le diverse formulazioni della clausola fondamentale, il comandamento riguardante l’amore del prossimo, la regola d’oro e la proibizione del desiderio perverso. E infine il concetto di legge si estende anche ai racconti nei quali l’azione di Dio nella storia diventa il motivo e il modello del comportamento di Israele. Ognuno di questi diversi settori rappresenta la tôra¯ h, cioè l’istruzione data da Dio al suo popolo. Ma in realtà, nella prospettiva profetica, la vera legge è quella che un giorno Dio scriverà nei cuori degli israeliti (Ger 31,33), la stessa che si identifica con lo Spirito (Ez 36,27) e consiste nell’amore esercitato da un cuore circonciso (Dt 30,6). Il carattere escatologico di questa legge non impedisce che essa costituisca fin d’ora il dono che Dio fa al suo popolo. Il lettore moderno, per evitare malintesi, deve dunque costantemente domandarsi, nei singoli casi, che cosa si intenda per « legge ». E ciò vale non solo per i testi giudaici, ma anche per quelli cristiani. Il giudizio prevalentemente negativo che nella tradizione biblico-giudaica è espresso nei confronti dei gentili non deve essere disgiunto da quello ugualmente negativo emesso nei confronti di Israele stesso. Nella Bibbia la storia umana è vista sotto il segno del peccato. Questa 192

percezione è frutto non di una visione ideologica, ma della consapevolezza che questo mondo è dominato da poteri forti, sia in campo politico che in quello economico e religioso, che deteriorano la convivenza civile e impongono sofferenze incalcolabili ai singoli e a tutta l’umanità. Il peccato di Adamo è un simbolo altamente significativo di questo male istituzionalizzato, mentre la liberazione di Israele, dall’Egitto prima e poi dalla schiavitù babilonese, per un intervento speciale di Dio significa che la vittoria su queste potenze è possibile, sia al di dentro che al di fuori del « popolo eletto ». La religione ebraica non ha potuto attuare pienamente i suoi principi fondamentali a motivo della sua qualifica in senso etnico e istituzionale. Quando una religione è utilizzata, come avviene facilmente, per difendere l’identità sociopolitica di un raggruppamento umano, allora le conseguenze sono negative. Il rito prende il sopravvento sul rapporto interpersonale, la violenza riappare come strumento di difesa dei propri interessi, l’esclusivismo si erge come una barriera di separazione nei confronti di quanto è diverso o estraneo. L’affermarsi in Israele di una religione fortemente legata alla identità etnica ha portato necessariamente alla difesa del proprio gruppo, rigettando sugli « altri » la colpa di quanto era negativo in questo mondo. Chi condanna gli altri e giustifica se stesso difficilmente può lottare per un mondo migliore, in vista del quale dovrebbe mettere in discussione prima di tutto se stesso. Contro questa degenerazione hanno lottato i profeti di Israele e le autentiche guide religiose di tutti i tempi. Fra esse bisogna annoverare Paolo, il quale ha visto 193

in Cristo la liberazione da una religione istituzionale e formale, incapace di lottare efficacemente per quella salvezza che pure annunziava. Purtroppo, anch’egli non ha potuto impedire che lungo i secoli il cristianesimo cadesse nelle medesime strettoie.

194

V

I gentili e la legge (Rm 2,14a.26a.27a)

Alla luce del materiale comparativo biblico-giudaico raccolto nei precedenti capitoli, affrontiamo ora lo studio del testo paolino. Ambedue i brani in questione (Rm 2,14-16.26-29) contengono un periodo ipotetico, formato da una protasi e un’apodosi. La protasi del primo è contenuta nel v. 14a, mentre quella del secondo si trova nel v. 26a. Nelle due protasi sono indicate le condizioni da cui dipendono le affermazioni contenute nelle rispettive apodosi. Di esse la prima è introdotta dalla particella hotan (ogni qualvolta) seguita dal verbo al congiuntivo presente, mentre la seconda si apre con ean (se) seguita anch’essa dal congiuntivo presente. Le due protasi sono costruite a mo’ di ossimoro, cioè contengono affermazioni a prima vista contrastanti: « I gentili che non hanno legge » « fanno le cose della legge » (v. 14a); la « non circoncisione » « osserva la legge » (v. 26a). Nel primo caso, il paradosso consiste nel non avere e al tempo stesso nell’osservare la legge; nel secondo caso, l’essere privo di circoncisione contrasta con l’osservanza della legge, di cui la circoncisione è uno dei massimi precetti. Per interpretare correttamente le affermazioni di Paolo, è necessario affrontare tre nodi esegetici che emergono dal testo: 197

1) identificare i personaggi designati come « gentili » e « non circoncisi »; 2) stabilire quale tipo di conoscenza e di pratica sia loro attribuito; 3) determinare il significato e il ruolo del termine natura che appare in ambedue i casi. Per ciascuno di questi tre punti presenteremo anzitutto le opinioni degli studiosi, poi esamineremo i testi dell’epistolario paolino in cui è affrontato lo stesso tema e infine daremo la nostra interpretazione.

1. L’identità dei « gentili » / « non circoncisi » (Rm 2,14.26) Il soggetto della protasi di Rm 14 è designato con il termine ethne¯ (genti), che nella versione greca dei LXX rappresenta la traduzione corrente dell’ebraico gôjîm, e corrisponde al latino gentes, da cui deriva l’italiano « gentili ». Il termine gôj è sinonimo di ‘am (LXX, laos), e designa un gruppo di persone legate in qualche modo da un vincolo associativo, senza peraltro specificarne la natura. Con lo sviluppo storico della religione ebraica il plurale gôjîm e, in misura ancora maggiore, il corrispondente greco ethne¯ vengono a designare le nazioni in quanto contrapposte a Israele, cioè i gentili in senso stretto, mentre ‘am/laos sono riferiti al popolo eletto in quanto tale1. Nel NT si mantiene lo stesso significato: il termine ethnos infatti ricorre in circa 160 passi, dei quali circa 40 sono 1

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Cfr. G. Bertram, Ethnos, in GLNT 3,99-110.

citazioni dell’AT e numerosi altri sono reminiscenze più o meno evidenti di testi anticotestamentari. In 64 occorrenze il vocabolo non ha uno speciale rilievo semantico; nelle altre 100 occorrenze è usato come termine tecnico per indicare i « gentili » in contrasto con i « giudei » e più raramente con i non cristiani2. Nella Lettera ai Romani il termine gentili (ethne¯) appare per la prima volta in Rm 1,5 e poi altre 23 volte. Esso è usato come sinonimo di elle¯nes (greci) che appare nella lettera 6 volte, delle quali 4 in Rm 1-2: questo termine riflette la situazione socioculturale alla quale, nel tempo di Paolo, apparteneva la maggior parte di gentili. Nel testo parallelo di 2,26 appare invece il termine akrobystia, che significa originariamente « prepuzio » e designa correntemente la condizione di non circoncisione e, per metonimia, coloro che hanno il prepuzio, cioè « i non circoncisi ». Il termine riappare in Romani altre 8 volte. I due termini gentili e non circoncisi sono sinonimi, in quanto la caratteristica distintiva dei gentili rispetto ai giudei era precisamente quella di essere privi della circoncisione.

a) « Gentili » o « etnico-cristiani »? Il termine gentili, pur indicando normalmente i non giudei, a volte nell’epistolario paolino è usato per designare i cristiani di origine etnica (etnico-cristiani). Sorge 2 Cfr. K.L. Schmidt, Ethnos, GLNT 3,110-118. Il vocabolo è usato per indicare i non cristiani in 1Cor 5,1; 12,2; 1Ts 4,5; 1Pt 2,12; 3Gv 7, e in alcuni passi dell’Apocalisse. Questo uso si spiega con il fatto che, secondo il NT, i cristiani sono i veri israeliti degli ultimi tempi.

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quindi il problema dell’identità di coloro che l’Apostolo chiama in causa in Rm 2,14.26. Si tratta di semplici gentili / non circoncisi oppure di coloro che, provenendo dalla gentilità, sono già stati evangelizzati e hanno accettato il dono della salvezza annunziata da Cristo?3. Secondo l’interpretazione più antica del testo, questi gentili sono tali in senso proprio. È questo il parere di Origene (185-254), almeno per quanto risulta dagli scritti che ci sono pervenuti, e di Giovanni Crisostomo (354-407)4. I dubbi circa la loro identità sono sorti nel contesto della polemica di Agostino di Ippona (345-430) contro i pelagiani. Prima di essa egli aveva sostenuto che in questo testo Paolo si riferisce a gentili veri e propri, lasciando quindi aperta la possibilità di una loro salvezza (prima sentenza). In un secondo tempo però, siccome il testo era utilizzato dai pelagiani per affermare che è possibile la salvezza in forza della natura umana, senza bisogno di un supplemento di grazia, Agostino ha preferito affermare che nel testo paolino non si tratta di veri e propri gentili, ma di cristiani provenienti dalla gentilità (seconda sentenza). Agostino spiega così la sua seconda sentenza: « Di essi si dice che fanno senza legge, naturalmente, le cose della legge perché vennero al vangelo dal paganesimo e non dal giudaismo (ex circumcisione) al quale è stata data la 3 Per la storia dell’esegesi, cfr. M. Lackmann, Vom Geheimnis der Schöpfung. Die Geschichte der Exegese von Römer I,18-32; II,14-16 und Acta XIV, 15-17; XVII, 22-29 vom 2. Jahrhundert bis zum Beginn der Orthodoxie, Evangelisches Verlagswerk, Stuttgart 1952; J. Riedl, Das Heil der Heiden nach R 2,14-16.26.27, St. Gabriel Verlag, Mödlin bei Wien 1965. 4 Per quanto riguarda Origene, cfr. PG 14,889; Per Giovanni Crisostomo, cfr. PG 57,416-417. Per ambedue, si veda J. Riedl, Das Heil der Heiden, pp. 8-10; 22-27.

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legge; e perciò (fanno le cose della legge) naturalmente perché, affinché credessero, la loro stessa natura è stata corretta mediante la grazia di Dio »5. Dal punto di vista esegetico questa interpretazione comporta una notevole forzatura dei termini gentili e natura, che vengono rispettivamente a indicare, in contrasto con l’uso normale, gli etnico-cristiani e la natura elevata dalla grazia. Anche dopo la controversia antipelagiana, però, Agostino ha continuato a ritenere possibile che Paolo si riferisse a gentili in senso proprio, pur escludendo che in tal caso essi, in quanto privi della fede, potessero giungere alla salvezza6. Le due interpretazioni da lui formulate hanno tenuto campo nei secoli successivi fino a Tommaso d’Aquino, il quale, pur proponendo ancora come possibile la seconda sentenza di Agostino (etnico-cristiani), non nasconde però la sua preferenza per l’opinione secondo cui Paolo si riferisce a gentili veri e propri 7. Nei secoli XVI-XVIII l’opinione secondo cui i gentili di Rm 2,14 sono in realtà etnico-cristiani riappare ancora qua e là in campo cattolico, ma trova una vivace opposizione da parte della maggioranza degli esegeti e viene in gran parte abbandonata. Già allora l’esegeta e teologo spagnolo A. Salmeron (+1585) ha esposto lucidamente i motivi per cui essa non può essere sostenuta8. Anche 5 Agostino di Ippona, Contra Julianum 4,3 (25): PL 44,750; cfr. Id., De spiritu et littera 26,43-46: PL 44,226-228. Cfr. in proposito S. Lyonnet, Lex naturalis et iustificatio Gentilium, in VD 41 (1963) 238-242, qui 242; J. Riedl, Das Heil der Heiden, pp. 12-22. 6 Agostino di Ippona, Contra Julianum 4,3(25): PL 44,750-751. 7 Tommaso d’Aquino, Super epistolam ad Romanos lectura 2,3,216 (cfr. J. Riedl, Das Heil der Heiden, pp. 42-59). 8 A. Salmeron, Commentarii, pp. 345-346, citato in J. Riedl, Das Heil der Heiden, pp. 85-89.

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fra gli esegeti non cattolici questa interpretazione non ha trovato che qualche raro sostenitore ed è stata presto abbandonata: la maggior parte di essi ritiene che in 2,14-15 l’Apostolo tratti di gentili in senso stretto. Tuttavia sia in campo cattolico sia in quello protestante si è fatta strada l’opinione, di cui parleremo in seguito, secondo la quale questi gentili non si salvano. Perciò alcuni ritengono probabile che i « non circoncisi » di cui si parla in 2,25-29, dove gli indizi di un’attività salvifica di Dio sono più chiari, non siano più gentili in senso proprio, ma cristiani provenienti dalla gentilità. Nei secoli XIX-XX l’opinione che intende questi gentili come etnico-cristiani appare decisamente superata, anche se oggi si nota una certa rinascita di simpatia nei suoi confronti, a volte in forma dubitativa, se non altro in 2,299, mentre la maggior parte degli esegeti è convinta che Paolo si riferisse a gentili veri e propri.

b) I « gentili » nell’epistolario paolino L’ipotesi secondo cui i gentili di Rm 2,14 sono in realtà etnico-cristiani si basa sul fatto che effettivamente, almeno in alcuni casi, questo uso è presente nell’epistolario paolino. Pur essendo piuttosto rari, questi casi sono significativi anche perché, a parte Ef 3,1 e Gal 2,12.14, essi si trovano esclusivamente nella Lettera ai Romani (1,13; 11,13; 15,27; 16,4). 9 Fra gli attuali sostenitori o simpatizzanti di questa sentenza si possono ricordare, fra gli altri, F. Flückiger, Die Werke des Gesetzes bei den Heiden (Röm 2,14ff.), in ThZ 8 (1952) 17-42; C.E.B. Cranfield, La lettera di Paolo ai Romani, 2 voll., Claudiana, Torino 1998; 2000, vol. I, pp. 70-71; S.J. Gathercole, A Law unto themselves: The Gentiles in Romans 2.14-15 Revisited, in JSNT 85 (2002) 27-49.

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Nella Lettera agli Efesini, la cui autenticità paolina non è riconosciuta dalla maggioranza degli studiosi moderni, l’autore pone sulle labbra di Paolo questa affermazione: « Per questo io, Paolo, il prigioniero di Cristo per voi gentili » (Ef 3,1). Dal contesto risulta che qui l’appellativo di « gentili » è usato all’interno di un discorso rivolto alla parte etnico-cristiana della comunità, in quanto distinta da quella giudeo-cristiana (cfr. 3,6): si tratta quindi di una dizione non solo comprensibile, ma obbligata nel contesto della lettera10. In Gal 2,12-13 l’Apostolo, riferendo la controversia da lui avuta con Pietro circa i pasti comuni fra i cristiani, designa gli etnico-cristiani con l’appellativo di « gentili » (ethne¯) e chiama i giudeo-cristiani « quelli dalla circoncisione ». Nel v. 14 Paolo chiede a Pietro: « Se tu, che sei giudeo, vivi come i gentili (ethniko¯s) e non alla maniera dei giudei (ioudaiko¯s), come puoi costringere i gentili (ta ethne¯) a vivere alla maniera dei giudei (ioudaizein)? ». Trattandosi di rapporti all’interno della comunità cristiana, il termine gentili non può designare se non gli etnico-cristiani. Nella parte conclusiva della Lettera ai Romani, accennando alla colletta che le Chiese della gentilità hanno organizzato in favore dei membri della Chiesa di Gerusalemme, Paolo così commenta: « L’hanno voluto perché sono a essi debitori: infatti, avendo i gentili partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali » (Rm 15,27). Anche 10 Cfr. R. Penna, Lettera agli Efesini (Scritti delle origini cristiane 10), EDB, Bologna 1988, pp. 154-156.

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qui il termine « gentili » non può essere frainteso in quanto l’Apostolo si riferisce espressamente alle Chiese del mondo greco nei loro rapporti con la Chiesa di origine giudaica di Gerusalemme. Ancora più ovvia è l’espressione usata nei saluti della lettera: le « Chiese dei gentili », che come Paolo devono essere grate a Prisca e Aquila (Rm 16,4), sono precisamente quelle in cui l’elemento etnico è preponderante. In tutti questi testi l’appellativo « gentili » è attribuito agli etnico-cristiani per sottolineare la loro differenza, in seno alla comunità, dai giudeo-cristiani proprio in base alla loro estrazione etnica: il significato del termine è chiaro e il contesto impedisce qualsiasi dubbio o malinteso. Sempre nella Lettera ai Romani, al termine della parte dottrinale, Paolo interpella i cristiani di Roma con queste parole: « Pertanto, ecco che cosa dico a voi, gentili: come Apostolo dei gentili, io faccio onore al mio ministero » (Rm 11,13). Qui il termine gentili è reso necessario dal fatto che l’Apostolo si rivolge non a tutti i cristiani, ma solo a quelli di origine non giudaica; presentandosi poi come Apostolo dei « gentili », egli ritorna al senso normale del vocabolo, designando con esso non gli etnico-cristiani, ma i gentili in senso proprio (cfr. 1,5; 15,16.18). Nella parte introduttiva della lettera Paolo, presentandosi anche qui come Apostolo dei gentili, afferma che fra costoro vi sono anche i cristiani di Roma (1,5-6): è chiaro che egli si riferisce ai gentili in senso proprio, ai quali appartengono, per la loro origine etnica, la maggior parte dei cristiani della capitale. Inoltre, egli esprime il suo progetto di recarsi da loro, per raccogliere qual204

che frutto, egli dice, « anche fra di voi, come fra gli altri gentili » (Rm 1,13). Anche qui il termine gentili si riferisce indirettamente ai cristiani di Roma in quanto prevalentemente di origine etnica. Siccome però egli esclude espressamente di volere annunziare il vangelo dove era già giunto il nome di Cristo (cfr. 15,20), è possibile che « fra di voi » indichi non tanto i cristiani di Roma, quanto piuttosto i romani in genere, la maggior parte dei quali sono appunto gentili non ancora evangelizzati, come « gli altri gentili » a cui l’Apostolo ha già predicato il vangelo11. Questa ambiguità è forse intenzionale in quanto il lavoro che Paolo vuole svolgere a Roma dovrà avere una duplice valenza, pastorale e missionaria. Comunque, è chiaro che il contesto esclude un utilizzo indiscriminato di ethne¯ per indicare gli etnico-cristiani. Per quanto riguarda il termine non circonciso (akrobystia, Rm 2,26), anch’esso è a volte applicato agli etnico-cristiani, ma sempre in contesti in cui si tratta della loro condizione prima di diventare cristiani. Secondo Col 2,13, gli etnico-cristiani, prima della loro conversione a Cristo, erano morti per l’« incirconcisione » della loro carne. Nella comunità cristiana « non c’è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione » (Col 3,11). Agli etnico-cristiani è rivolta questa ammonizione, che riguarda la loro condizione prima di aderire a Cristo: « Perciò ricordatevi che un tempo voi, gentili per nascita, eravate chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo » (Ef 2,11). 11

Cfr. R. Penna, Lettera ai Romani, vol. I, pp. 120-121.

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A Gerusalemme gli apostoli riconoscono che i non circoncisi, cioè i gentili non ancora evangelizzati, sono il campo d’azione di Paolo, come i circoncisi sono quello di Pietro (Gal 2,7). A proposito dei cristiani, Paolo osserva: « In Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità » (Gal 5,6; cfr. 6,15). Egli affronta questo tema anche a proposito della permanenza nel proprio stato: « Qualcuno è stato chiamato quando era circonciso? Non lo nasconda! È stato chiamato quando non era ancora circonciso? Non si faccia circoncidere! La circoncisione non conta nulla, e la non circoncisione non conta nulla; conta invece l’osservanza dei comandamenti di Dio » (1Cor 7,18-19). Sia i circoncisi che i non circoncisi saranno giustificati per mezzo della fede (Rm 3,30). A proposito di Abramo egli spiega che il perdono dei peccati riguarda chi è circonciso e chi non è circonciso. Infatti, la fede fu accreditata ad Abramo come giustizia quando non era ancora circonciso, perché fosse padre di tutti quelli che credono, sia non circoncisi che circoncisi (Rm 4,9-12). I brani in cui i termini gentili e non circoncisi sono usati in rapporto agli etnico-cristiani sono dunque molto pochi e non presentano alcun problema esegetico, in quanto il loro significato emerge senza possibilità di equivoci dal contesto. L’interpretazione agostiniana non riceve quindi alcun supporto da una presunta ambiguità di questi termini, che in realtà non si riferiscono a cristiani se non là dove il significato del termine è identificabile senza ambiguità. A questo uso semantico non si può opporre alcuna eccezione o testo dubbio. 206

c) Rm 2,14.26: gentili non evangelizzati Il contesto in cui è inserito il termine ethne¯ (Rm 2,14) fornisce diversi elementi che fanno escludere l’ipotesi secondo cui Paolo si riferisca agli etnico-cristiani12. È chiaro anzitutto che il passo in questione è inserito in una sezione in cui si parla della manifestazione dell’ira di Dio sull’uomo peccatore (cfr. 1,18), e non ancora della salvezza operata da Cristo, della quale si comincerà a trattare in 3,21. In questo contesto i termini gentili (2,14; cfr. v. 24) e incirconcisi (2,26.27), come pure giudeo (2,17) e circonciso (2,25), non possono che riferirsi a persone non ancora evangelizzate. A questo argomento di carattere generale si aggiunge una serie di considerazioni ricavate dallo sviluppo delle idee contenute nella sezione. Già nell’introduzione tematica Paolo aveva espresso la sua intenzione di dimostrare che la salvezza contenuta nel vangelo è offerta ugualmente sia al giudeo che al greco, sebbene il primo abbia un primato di carattere storico-salvifico (1,16). I termini giudeo e greco indicano dunque tutta l’umanità non ancora raggiunta dal vangelo: il secondo di essi è l’equivalente di gentile, in quanto nel mondo grecoromano i giudei erano portati spontaneamente a considerare come greci tutti coloro che non appartenevano al loro popolo. 12 Cfr. G. Bornkamm, Gesetz und Natur (Röm 2,14-16), in Id., Studien zu Antike und Christentum. Gesammelte Aufsätze, vol. II (BEvTh 28), Kaiser, München 19703, pp. 93-118; F. Kuhr, Röm 2,14f. und die Verheissung bei Jeremia 31,31ff., in ZNW 55 (1964) 243-261, qui 252-254; R. Penna, Lettera ai Romani, vol. I, p. 234; A. Pitta, Lettera ai Romani (ILB.NT 6), Paoline Editoriale Libri, Milano 2001, p. 115.

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In Rm 1,18-32 Paolo descrive la situazione di coloro che « soffocano la verità nell’ingiustizia »: sebbene non lo dica espressamente, appare che si tratta della seconda categoria prima nominata, i greci, considerati nella loro situazione disperata di uomini non ancora salvati. A partire da 2,1, egli affronta invece, pur senza dirlo immediatamente, la situazione dei giudei, ai quali rimprovera non il rifiuto della salvezza proposta da Cristo, ma la non osservanza della loro legge (cfr. 2,17-24). Che i due settori dell’umanità non evangelizzata siano ancora ben presenti nella sua mente appare chiaramente in 2,9.10, dove giudei e greci sono posti su un piano di parità nei confronti del giudizio divino, che può sfociare sia nel premio che nel castigo. In 2,12 l’umanità è divisa in coloro che hanno peccato « senza la legge » (i gentili) e coloro che hanno peccato « sotto la legge » (i giudei): quindi non si tratta certamente di credenti in Cristo, nei quali, come Paolo stesso affermerà in Rm 8,1, non c’è più alcuna condanna. Quando subito dopo, in 2,14, l’Apostolo si appella ai gentili, non esiste quindi alcuna ragione esegetica per affermare che egli si riferisca a un’altra categoria di persone, cioè agli etnico-cristiani; e di fatto subito dopo, in 2,17, quando rivolge la sua accusa direttamente ai giudei, è chiaro che egli continua a parlare dell’umanità non ancora evangelizzata. Infine, in 2,24 il termine gentili, usato in una citazione biblica (Is 52,5 [LXX]), si riferisce esplicitamente ai gentili non evangelizzati. La stessa cosa si può dire a proposito del termine akrobystia usato in Rm 2,26-27. Anche qui il confronto tra circoncisi e non circoncisi non rivela alcun elemento che faccia pensare a una situazione intraecclesiale. E 208

di fatto, accennando subito dopo ai privilegi dei giudei (3,1-8), Paolo dimostra di riflettere sulla situazione che precede l’avvento di Cristo. E infine, nel brano conclusivo (3,9-20), è decretata solennemente la colpevolezza di tutti, « giudei » e « greci », ma soprattutto dei primi, ai quali la parola stessa di Dio rivela la situazione di peccato in cui sono venuti a trovarsi. A tutto questo bisogna aggiungere che in Rm 2,14 Paolo precisa 2 volte a proposito dei gentili che essi « non hanno legge ». È difficile pensare che l’Apostolo sarebbe stato d’accordo con l’idea che un cristiano, per quanto proveniente dal mondo gentile, sia senza legge. Egli infatti afferma che, con coloro che sono senza legge, si è fatto come uno che è « senza legge » (anomos), pur non essendo « senza la legge di Dio » (anomos theou), anzi essendo « nella legge di Cristo » (ennomos Christou, 1Cor 9,21). Per lui, la legge di Cristo si identifica con la legge di Dio che Cristo porta a compimento13. È quindi difficile immaginare che egli, caratterizzando un gruppo di persone come prive della legge senza ulteriori qualifiche, volesse riferirsi a cristiani di origine gentile. Siccome il contesto prossimo di Rm 2,14 non offre il minimo appiglio per considerare i « gentili » ivi nominati come etnico-cristiani, si potrebbe ipotizzare che ciò sia richiesto dalla coerenza interna del testo. L’unico argomento in questo senso potrebbe derivare dal fatto che, nel seguito della frase, si afferma che i gentili in questione « fanno le cose della legge ». Come è possibile che Paolo, 13 Cfr. R. Fabris, Prima lettera ai Corinzi, p. 128. Circa il dibattito su questo testo, cfr. G. Barbaglio, La Prima lettera ai Corinzi. Introduzione, versione e commento (Scritti delle origini cristiane 16), EDB, Bologna 1995, pp. 446-447.

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dopo avere denunziato in termini molto severi il peccato dei gentili (cfr. 1,18-32), attribuisca loro il compimento della legge? E di fatto la maggior parte di coloro secondo i quali Paolo si riferisce a gentili in senso proprio, si trova poi a dover escludere che egli attribuisca loro effettivamente una pratica integrale della legge. Ora però è necessario notare che il termine ethne¯ è usato qui senza articolo: ciò significa che Paolo intende designare con esso non tutti i gentili, e neppure alcuni di essi presi singolarmente (in questo caso, avrebbe usato l’aggettivo sostantivato ethnikoi), ma solo quelli di essi che si distaccano dagli altri in quanto « fanno le cose della legge »14. Nello stesso modo anche in 2,26-27 non si parla di tutti gli incirconcisi, ma solo di coloro che osservano le prescrizioni della legge. Il fatto che Paolo nei due casi faccia appello a gentili che osservano la legge, qualunque sia il significato che si dà a questa espressione, non è dunque in contrasto con i precedenti sviluppi della sua argomentazione, a meno che egli in 1,18-32 abbia escluso anche la possibilità che alcuni gentili, vissuti prima di Cristo, conoscessero e praticassero la volontà di Dio. Ma questo, come si vedrà in seguito, non è il pensiero di Paolo. Sia la storia dell’esegesi che gli argomenti portati inducono a concludere che la seconda sentenza agostiniana, quella secondo cui i « gentili » di Rm 2,14 e i « non circoncisi » di 2,26-27 sarebbero etnico-cristiani, non ha alcun fondamento ed è stata giustamente abbandona14 Così O. Michel, Der Brief an die Römer, Vandenhoek & Ruprecht, Göt4 tingen 1966 , p. 77; O. Kuss, La lettera ai Romani, 3 voll., Morcelliana, Brescia 1962-1981), vol. I, p. 100, nota 2, al seguito di M.-J. Lagrange, Saint Paul: Épître aux Romains, Gabalda, Paris 1916, 1950, p. 49.

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ta dall’esegesi moderna. È certo dunque che il termine ethne¯ assume in 2,14 lo stesso significato che usualmente gli è attribuito alla versione greca dei LXX e nel NT. L’esegesi di questi due passi deve dunque basarsi su questo presupposto ormai solidamente acquisito.

2. I gentili di fronte alla legge (Rm 2,14.26.27) Una volta stabilito che in Rm 2,14-16.25-29 Paolo si riferisce a gentili in senso proprio, resta da precisare in quale senso attribuisce loro la pratica della legge. Gli studiosi sono praticamente unanimi nel ritenere che la legge di cui parla Paolo si identifica, come avremo ancora modo di precisare, con la legge mosaica15. Essi, invece, non sono d’accordo sulla possibilità di dare all’espressione ta tou nomou poio¯sin il significato, come sembra ovvio, di una pratica integrale della legge. Le difficoltà contro questa interpretazione del testo sorgono anzitutto da un problema di coerenza interna del discorso di Paolo, il quale nel contesto prossimo del brano in questione (cfr. Rm 1,18 - 3,20) e in altri passi della lettera sembra affermare l’universalità del peccato al di fuori della fede in Cristo.

a) Semplice conoscenza o pratica della legge? Nell’esegesi antica è notevole l’interpretazione di Giovanni Crisostomo, secondo il quale in Rm 2,14a 15 Cfr. H. Räisänen, Paul and the Law, Mohr-Siebeck, Tübingen-Philadelphia 1983, pp. 94-119.

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e in 2,25 Paolo, riferendosi a gentili in senso proprio, intende effettivamente attribuire loro un compimento integrale della legge, che egli però intende come « legge naturale »16. Attualmente, però, questa posizione è minoritaria e raramente è presa in considerazione dai commentatori. Alcuni studiosi danno a tutta la frase, sia in Rm 2,14 che in 2,26, un significato ipotetico: Paolo accennerebbe a questa possibilità, senza pensare realmente che essa si attui17. In ambedue i casi si tratterebbe di un periodo ipotetico della irrealtà, in cui si allude a un evento che potrebbe accadere solo in teoria ma non in pratica. In altre parole, Paolo affermerebbe che, se per assurdo i gentili compissero le cose della legge, essi sarebbero legge a se stessi (2,14); se il non circonciso praticasse le prescrizioni della legge, la sua non circoncisione gli verrebbe contata come circoncisione (2,26). La premessa quindi non si può verificare, ma se ciò accadesse, allora si attuerebbe anche quanto affermato nell’apodosi18. Secondo un altro orientamento, oggi prevalente, l’espressione « le cose della legge » non indica tutti i precetti della legge, ma solo una parte di essi, e cioè i precetti più leggeri del decalogo. Questa interpretazione è già accennata da Agostino di Ippona, il quale pensa che, se si volessero ravvisare in Rm 2,14 degli autentici gentili, si do-

Cfr. J. Riedl, Das Heil der Heiden, pp. 24-27. Cfr. J.W. Martens, Romans 2,14-16: A Stoic Reading, in NTS 40 (1994) 55-69, qui 62-63. 18 Cfr. P. Räisänen, Paul and the Law, pp. 103-104; A. van Dülmen, Die Theologie des Gesetzes bei Paulus, Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1968, pp. 77-82; J.S.Vos, Traditionsgeschichtliche Untersuchungen zur paulinischen Pneumatologie, Van Gorcum, Assen 1973, p. 110. 16 17

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vrebbe attribuire loro il compimento di certe opere buone, delle quali difficilmente è priva anche la vita del peggiore degli uomini19. Egli si spinge fino ad affermare che « essi hanno fatto naturalmente le cose della legge, avendo scritto nei cuori l’opera della legge che prescrive di non fare agli altri ciò che non si vuole subire da loro ». Tuttavia egli conclude: « Malgrado ciò essi hanno peccato, poiché, essendo uomini senza fede, non hanno rivolto queste opere a quel fine a cui avrebbero dovuto rivolgerle »20. Agostino dunque esclude che i gentili, non avendo la fede in Cristo, possano compiere tutto ciò che la legge prescrive e con la debita intenzione, raggiungendo così la salvezza. L’interpretazione secondo cui « le cose della legge » sono semplicemente alcuni precetti della legge è sostenuta comunemente dagli esegeti moderni in campo sia protestante che cattolico. O. Kuss sintetizza bene la convinzione comune: « L’espressione greca “le cose della legge” non indica necessariamente l’osservanza di tutta la legge; di tutto ciò che è proprio della legge non si parla. Paolo vuole dunque dire che talvolta alcuni gentili compiono delle azioni che corrispondono ai dettami della legge mosaica, e questo gli basta per poter dimostrare che tutti i gentili, per il fatto di essere uomini, recano in se stessi la legge »21. E poco dopo prosegue: « Bisogna però aggiungere subito che il gentile, secondo la convinzione dell’Apostolo, non può mai ottenere la salvezza mediante un comportamento conforme alla sua coscienza (Ordnungsbewusstsein) moAgostino di Ippona, De Spiritu et littera 27 (48): PL 44,229-230. Agostino di Ippona, Contra Julianum 4,3 (25): PL 44,750-751 (cfr. J. Riedl, Das Heil der Heiden, pp. 12-22). 21 O. Kuss, La lettera ai Romani, p. 100. 19 20

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rale, a questa legge scritta nel suo cuore. Ciò non sarebbe in armonia con quello che è il punto di partenza e il centro della teologia paolina, con la convinzione cioè che la vera salvezza si ottiene solo mediante la fede nell’opera redentrice di Dio compiuta per mezzo di Gesù Cristo. Guardando il mondo dal punto di vista di questa azione salvifica, l’Apostolo vede chiaramente che nessuno, né tra i giudei né tra i gentili, ha osservato la legge, prestando alla legge di Dio, scritta o su tavole o nel cuore, l’obbedienza richiesta, sebbene tutti senza eccezione la conoscano. Così e giudei e gentili stanno tutti senza eccezione in potere del peccato (Rm 3,9.23) »22. Secondo J.A. Fitzmyer, « l’espressione “le (cose) della legge”, significa alcuni precetti della legge, ma non necessariamente tutto quello che è prescritto nella legge mosaica. Paolo non pensa a un’osservanza completa della legge mosaica da parte di questi pagani »23. H. Schlier afferma: « Pagani che non hanno la torà fanno talvolta, per proprio impulso, cose che la torà prescrive »24. Secondo E. Käsemann, l’espressione « le cose della legge » sta per « legge »; ma ciò non significa che Paolo intenda un compimento integrale della legge da parte dei gentili, bensì soltanto alcune delle sue esigenze nella situazione concreta, in quanto capita frequentemente che quelli che sono senza legge di fatto adempiano le intenzioni della legge25. Per A. Pitta, « Paolo non si riferisce necessaria-

O. Kuss, La lettera ai Romani, p. 107. J.A. Fitzmyer, Lettera ai Romani. Commentario critico-teologico (Religione), Piemme, Casale Monferrato (AL) 1999, p. 371. 24 H. Schlier, La Lettera ai Romani (CTNT 6), Paideia, Brescia 1982, p. 146. 25 E. Käsemann, Commentary on Romans, SCM, London 1980, p. 63. 22 23

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mente a tutte le prescrizioni della legge, bensì ad alcune di esse »26. R. Penna, dal canto suo, afferma: « La frase di Paolo circa le “cose della legge”, tà tou nómou, non si riferisce ovviamente a tutta la legge, ma solo a “quelle cose” che appunto i gentili osservano »27. Altri studiosi infine ritengono che « le cose della legge » siano effettivamente tutti i precetti della legge, ma sono del parere che il verbo poio¯sin (« fanno ») significhi non un vero e proprio compimento di quanto la legge prescrive ma solo lo sforzo, il tentativo di compierlo. In sintesi, la maggior parte degli studiosi, ricollegandosi visibilmente alla posizione delineata da sant’Agostino, afferma che i gentili di cui si parla in Rm 2,14 potrebbero compiere (ipoteticamente), oppure di fatto compiono (o si sforzano di compiere), quanto basta perché si possa dedurre che anch’essi, pur non praticando la legge di Dio, la conoscono; ciò sarebbe sufficiente per mettere in crisi la falsa sicurezza dei giudei, che si vantano di conoscere la legge ma non la praticano.

b) Il contesto. Conoscenza e pratica della legge in Romani Il tema della conoscenza della legge da parte di ogni essere umano, e quindi anche dei gentili, rappresenta lo sfondo di tutta la sezione iniziale della Lettera ai Romani (1,18 - 3,31). Il tema della conoscenza, e di riflesso della pratica, della legge è affrontato però anche, sebbene in 26 27

A. Pitta, Lettera ai Romani, p. 116. R. Penna, Lettera ai Romani, p. 237.

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modo più implicito, nel brano riguardante l’ingresso del peccato nel mondo (5,12-21) e infine nel passo in cui si dà una valutazione globale della legge (7,7-25). È in questo contesto che bisogna esaminare il suo pensiero circa l’osservanza della legge da parte dei gentili. A tal fine è utile ricordare che egli si serve di categorie che riflettono da vicino idee e orientamenti tipici del suo ambiente culturale e teologico. Esaminiamo questi testi cominciando, per comodità, dall’ultimo di essi. La legge della ragione (7,1-25). In questo capitolo Paolo riprende il tema, già affrontato precedentemente, della liberazione dell’uomo dai tre grandi poteri che lo tengono schiavo (peccato, morte e legge)28. In questa parte della lettera, però, egli mette in primo piano la liberazione dal terzo di essi, cioè la legge. Egli ne parla anzitutto in modo programmatico in Rm 7,1-6, facendo riferimento al paragone della donna che, alla morte del marito, è liberata dalla legge che la teneva legata a lui, al punto tale che può sposare un altro uomo29. Da questo paragone Paolo deduce che anche noi, mediante il corpo di Cristo, « siamo stati messi a morte quanto alla legge », « siamo stati liberati dalla legge, essendo morti a ciò che ci teneva prigionieri » (Rm 7,6). Questa forte associazione della legge con il peccato suscita in Paolo l’obiezione: « Ma allora la legge è pecca28 Cfr. P. Bläser, Das Gesetz bei Paulus, Aschendorff, Münster in Westfalen, 1941; G. Bornkamm, Sünde, Gesetz und Tod. Exegetische studie zu Röm. 7, in Id., Das Ende des Gesetzes, pp. 51-69; S. Romanello, Una legge buona ma impotente. Analisi retorico-letteraria di Rm 7,7-25 nel suo contesto (RivBSup 35), EDB Bologna 1999, pp. 167-224; G. Barbaglio, La Teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare, EDB, Bologna 1999, pp. 626-640. 29 È incerto se questo brano, strutturalmente, si colleghi con quanto precede o con quanto segue. Per gli argomenti in favore di un nuovo inizio in Rm 7,7, cfr. S. Romanello, Una legge buona, pp. 69-80.

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to? ». A essa egli risponde con un drastico diniego: « Certamente no! ». Poi si spiega elaborando le sue riflessioni in prima persona singolare: con essa Paolo non intende alludere alla sua esperienza personale, né prima né dopo la sua « conversione », e neppure a quella di Israele, ma a quella dell’uomo in quanto tale, identificato con Adamo, il suo primo progenitore30. Secondo lui, la legge non ha nulla a che vedere con il peccato. Tuttavia egli non avrebbe conosciuto il peccato se non fosse stato « per mezzo della legge » (dia tou nomou). Infatti, non avrebbe conosciuto il « desiderio » se la legge non avesse detto: « Non desiderare » (ouk epithyme¯seis, Rm 7,7). Egli dunque ha preso coscienza contemporaneamente della legge e del peccato, in quanto la prima si identifica con il precetto che proibisce di desiderare, mentre il secondo non è altro che il desiderio che spinge a trasgredire la legge. In questo versetto Paolo si rifà senza dubbio alla legge mosaica, che egli vede riassunta nell’ultimo precetto, successivamente sdoppiato, del decalogo: « Non desiderare! » (Es 20,17). Egli però pensa anche al precetto dato da Dio ad Adamo: è vero infatti che questo consisteva nella proibizione di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (Gn 2,17), ma in realtà, come si è visto, nella Genesi la caduta originale è descritta come un peccato di desiderio (cfr. Gn 3,6)31. Infine, 30 Questa posizione è oggi largamente condivisa (cfr. W.G. Kümmel, Römer 7 und die Bekehrung des Paulus [Untersuchungen zum Neuen Testament 17], Hinrichs, Leipzig 1929; S. Lyonnet, L’histoire du salut selon le chapitre VII de l’épître aux Romains, in Id., Études sur l’Épître aux Romains [AnBib 120], PIB, Roma 1989, pp. 203-230, qui 213-217; e più recentemente S. Romanello, Una legge buona, pp. 128-134; 176-183; G. Barbaglio, La Teologia di Paolo, pp. 630-632). 31 Cfr. in questo volume a p. 90.

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non si può negare che l’Apostolo fosse influenzato anche dall’etica greca, che considerava il desiderio come il massimo vizio. Paolo dunque in questo contesto ha in mente la legge mosaica che, però, nella prospettiva della Genesi, vede riassunta nella proibizione del desiderio egoistico e perverso, che a sua volta rappresenta il peccato per eccellenza32. Il ruolo della legge nell’esperienza umana è ulteriormente approfondito da Paolo, sempre in riferimento alla vicenda di Adamo, così come è narrata nella Genesi. Sulla falsariga di questo racconto egli mette in scena un piccolo dramma in cui agiscono tre personaggi: l’Io (l’uomo, Adamo), la legge (comandamento) e il peccato personificato che prende il posto del serpente genesiaco (Rm 7,8-11). Prima del peccato, l’uomo (Adamo) « viveva » (in senso pieno, cioè nell’amicizia con Dio) « senza alcuna legge ». Non che mancasse anche allora un comandamento divino (cfr. Gn 2,17), ma l’uomo non lo sentiva come tale, cioè come una imposizione dall’esterno, in quanto la sua osservanza era per lui il frutto di una esigenza interiore che scaturiva dall’amicizia con Dio33. Perciò, in assenza di una legge sentita come tale, « il peccato era morto », cioè non esisteva come realtà capace di influenzare l’uomo e di condurlo al male. Il peccato appare invece quando l’uomo comincia a sentire la volontà di Dio come « legge ». In altre parole, 32 Cfr. S. Lyonnet, « Tu ne convoitera pas » (Rom VII,7), in Neotestamentica et Patristica. Freudesgabe O. Cullmann, Brill, Leiden 1962, pp. 157-165. 33 Allo stesso modo si può dire che per una madre che ama i suoi figli la legge che vieta di ucciderli praticamente non esiste, in quanto è completamente al di fuori del suo orizzonte (cfr. S. Lyonnet, L’histoire du salut selon le chapitre VII de l’épître aux Romains, in Id., Études sur l’Épître aux Romains, p. 222).

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il sentire che esista una legge che comanda o proibisce è la conseguenza e il sintomo di un cedimento al peccato. In questo momento la legge, che con le sue proibizioni ha sostanzialmente lo scopo di difendere la vita, diventa occasione di trasgressione, in quanto indica ciò che è male ma non è capace di impedire che sia commesso. La conseguenza è la morte dell’uomo, il quale è condannato, proprio mediante la legge, alla morte non solo fisica, ma anche spirituale. A questo punto, rispondendo alla domanda iniziale (« La legge è peccato? »), Paolo spiega che « la legge è santa, e santo, giusto e buono è il comandamento ». Ma subito si pone una ulteriore domanda: « Ciò che è bene è allora diventato per me (causa di) morte? ». Anche a questa domanda risponde con un secco diniego, e soggiunge che è stato invece il peccato a dargli la morte servendosi a tale scopo di ciò che è bene: ciò è avvenuto o, meglio, è stato permesso da Dio, perché il peccato, proprio per mezzo del comandamento, potesse rivelarsi come tale, cioè come la rovina dell’uomo (Rm 7,12-13). Dopo avere delineato il ruolo svolto dalla legge nella caduta dell’umanità, Paolo passa a descrivere l’esperienza drammatica dell’uomo « sotto la legge », lacerato tra le esigenze del peccato che lo domina e quelle di una legge che non è capace di liberarlo da esso (Rm 7,14-25). Anche qui l’uso della prima persona singolare non ha finalità autobiografiche: l’Apostolo non parla di se stesso prima della « conversione » né tanto meno dopo di essa, ma dell’uomo privo della grazia giustificante di Dio. Rifacendosi a quanto aveva affermato poco prima (cfr. 7,12) e appellandosi al consenso implicito dei suoi let219

tori (« sappiamo »), egli sottolinea che in realtà la legge è « spirituale » (pneumatikos), come lo sono le realtà che provengono direttamente da Dio (7,14). Egli si riferisce qui alla legge in quanto espressione universale della volontà divina di cui tutti sono al corrente: per lui, in questo contesto, l’ipotesi di una legge errata o illegittima non si pone. Paolo prosegue però osservando che, mentre la legge è spirituale, egli è carnale (somatikos), venduto come schiavo al peccato. In quanto creatura debole, l’uomo è soggetto agli attacchi del peccato, al quale la legge non sa opporsi in modo efficace. L’uomo peccatore, raggiunto dalle prescrizioni della legge, si trova in una situazione drammatica, nella quale non riesce neppure a capire ciò che fa: infatti, non riesce a compiere quello che vorrebbe, mentre invece compie ciò che detesta (Rm 7,15). Non volendo fare ciò che di fatto compie, egli dimostra di trovarsi d’accordo con la legge, riconoscendo che essa è buona; quindi, se non la pratica, ciò significa che non è lui a operare, ma il peccato, visto come una realtà personificata che abita in lui. Di conseguenza, si rende conto che il bene non abita « nella sua carne », cioè nella sua persona ormai dominata dal peccato (7,16-18). Infine, Paolo sintetizza il suo pensiero affermando che trova in sé una « legge » (qui nel senso di un fatto che si ripete costantemente) in forza della quale, quando vuole il bene, il male è accanto a lui (7,21)34. A questo punto, Paolo cerca di spiegare questa esperienza (Rm 7,22-23). Venendo a contatto con « la legge 34

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Cfr. W.G. Kümmel, Römer 7 und die Bekehrung des Paulus, p. 61.

di Dio », l’uomo peccatore si trova d’accordo con essa « secondo l’uomo interiore » (kata ton eso¯ anthro¯pon), che qui non è l’uomo rigenerato dalla grazia (come in 2Cor 4,16), bensì l’uomo capace di giudicare rettamente con la sua ragione. Nelle sue membra, cioè in se stesso in quanto essere debole, dominato dal peccato, egli vede però un’altra legge contraria alla legge « della sua ragione » (tou noos), che lo rende schiavo della « legge del peccato », presente anch’essa nelle sue membra: probabilmente, qui Paolo non si riferisce più alla legge mosaica, ma alle inclinazioni cattive che dominano l’essere umano35. Paolo conclude questa analisi con una dolorosa constatazione e con una domanda angosciosa: « Sono un povero infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? » (Rm 7,24). Egli ha dunque la sensazione di un male irreparabile, almeno dal punto di vista umano: nessuno è capace di liberarlo dal suo « corpo di morte », cioè dal suo essere debole e caduco, in cui si è insediato il peccato con la sua potenza mortale. Egli aspira quindi alla liberazione non tanto dalla legge, quanto piuttosto dal peccato, che di essa si è servito per dargli la morte. Alla domanda posta egli risponde con una preghiera: « Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! » (7,25a): proprio dalla constatazione di un male irreparabile sgorga il ringraziamento verso Colui che non solo può liberarlo, ma lo ha effettivamente liberato. 35 Cfr. R. Penna, Lettera ai Romani, vol. II, pp. 117-118; S. Romanello, Una legge buona, pp. 160-161.

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Paolo pensa dunque che esista una legge di origine divina, nota a tutti, che coincide come contenuto con la legge mosaica e con il precetto che Dio stesso ha dato ad Adamo, nonché con quanto suggerisce la ragione umana. Egli non si riferisce perciò alle molteplici prescrizioni della legge mosaica, ma a un unico precetto che coincide con il decimo comandamento (la proibizione del desiderio perverso), il quale non è altro che la formulazione al negativo del comandamento dell’amore. Per l’Apostolo non esiste che un’unica volontà di Dio, la cui conoscenza è stata conferita a ogni essere umano fin dall’inizio ed è restata viva anche quando questi è caduto sotto il dominio del peccato. Il suo schema di pensiero non si discosta quindi da quello tipico del mondo giudaico in cui egli è stato formato. In questo testo Paolo sottolinea fortemente l’impossibilità per l’uomo peccatore di compiere la volontà di Dio (Rm 7,14-25). Egli però riflette non a livello di singoli individui, ma dell’umanità nel suo complesso, in quanto identifica il protagonista della sua argomentazione con Adamo, il primo peccatore. È l’umanità intera, compreso il mondo giudaico, che si trova in un groviglio di egoismi e di violenze dal quale non sa liberarsi senza l’intervento di Cristo. Ma questo giudizio fortemente negativo non si estende necessariamente al comportamento morale di tutti gli esseri umani vissuti prima di Cristo, presi singolarmente. Se così fosse, dovrebbe ammettere la sconfitta di Dio e il fallimento del suo piano di salvezza prima di Cristo anche in favore di Israele, cosa che certamente l’Apostolo non intende fare. Legge e peccato (5,12-14). In Rm 5 Paolo spiega che l’uomo giustificato è stato liberato anzitutto dall’ipoteca 222

del peccato, che aveva fatto di lui un nemico di Dio36. Questo testo è quindi in qualche modo parallelo non solo a quello che abbiamo appena trattato (Rm 7,1-25), ma a Rm 1,18 - 3,31. Qui egli lo affronta sotto una nuova angolatura, mostrando che il peccato ha dominato sia prima che dopo la promulgazione della legge mosaica, e che da esso ci si libera solo passando dalla solidarietà con Adamo peccatore a quella con Cristo. L’Apostolo inizia la frase con la particella « come » (ho¯sper), che introduce il primo termine di paragone, e prosegue osservando che « a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte ». Questa frase richiama molto da vicino il testo di Sap 2,24 in cui si dice: « Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono ». Rispetto a questo testo, il termine diavolo è sostituito con « il peccato » (he¯ hamartia), presentato come un’entità personificata che, a partire dal primo uomo, prende possesso dell’umanità intera. Al peccato è strettamente associata la morte (ho thanatos), che nel racconto genesiaco ne rappresenta l’immediata conseguenza: anche qui, come in Gn 3 e più esplicitamente in Sap 2,24, la morte fisica è vista come simbolo e conseguenza di una realtà più drammatica, che consiste nella separazione da Dio. Dopo avere chiamato in scena l’uomo che con la sua caduta ha introdotto il peccato e la morte nel mondo, Paolo prosegue con un « e così » (kai houto¯s) con cui non 36 Cfr. E. Brandenburger, Adam und Christus. Exegetisch-religionsgeschichtliche Untersuchung zu Röm. 5,12-21 (1 Kor. 15) (WMANT), Neukirchener, Neukirchen 1962.

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introduce ancora, come ci si sarebbe aspettati, il secondo termine di paragone, cioè la figura e il ruolo di Cristo, ma approfondisce ulteriormente le conseguenze del gesto compiuto dal primo uomo. Egli afferma che, per sua colpa, la morte « ha raggiunto » (die¯lthen, « è entrata in ») tutti gli uomini, cioè ha preso possesso di loro, « poiché (eph’o˛¯ ) tutti hanno peccato ». In passato, l’espressione eph’o˛¯ è stata erroneamente tradotta « nel quale », e di conseguenza si è supposto che « in Adamo » tutti abbiamo peccato, cioè che il peccato da lui commesso si sia trasmesso a tutti i suoi discendenti. Nei tempi moderni, si è invece accertato che in greco l’espressione eph’o˛¯ è una particella che può avere significato sia causale (« poiché ») sia constatativo (« per il fatto che »)37. A parte le sfumature, l’Apostolo sembra voler dire che il peccato di Adamo non è indipendente da quello dei suoi discendenti, ma è l’espressione figurata di una causalità di cui tutti i peccatori sono ugualmente corresponsabili. Paolo prosegue affermando che « fino alla legge c’era peccato nel mondo » (Rm 5,13a): la presenza del peccato nel mondo si è verificata nonostante il fatto che Dio non avesse ancora conferito la sua legge. Senz’altro Paolo pensa al momento in cui Dio ha promulgato la sua legge nel contesto dell’alleanza. Alla sua mente sale però un’obiezione: Come è possibile ciò se « il peccato non può essere imputato (ouk ellogeitai) quando manca la legge »? Se non c’è una legge che proibisca una certa azione, il 37 Cfr. A. Pitta, Lettera ai Romani, pp. 233-234. Per la seconda di queste due possibilità, cfr. S. Lyonnet, Le sens de eph’o˛¯ en Rom 5,12 et l’exégèse des Pères grecs, in Id., Études sur l’Épître aux Romains (AnBib 120), PIB, Roma 1989, pp. 185-202.

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commetterla può essere ancora considerato peccato? (v. 13b). Questa obiezione è suggerita da quanto egli stesso aveva scritto precedentemente: « Dove non c’è legge, non c’è nemmeno trasgressione » (4,15). Le azioni malvagie degli uomini potevano essere considerate peccato in senso proprio, cioè essere imputate come « trasgressioni » quando mancava ancora una legge che le proibisse?38. Alla luce dei racconti biblici delle origini, Paolo non poteva pensare che prima di Mosè fossero stati commessi solo « peccati irresponsabili » e l’umanità si trovasse in una situazione di « peccato innocente »39. Perciò risponde a questa obiezione in modo indiretto, osservando cioè che « la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione (parabasis) simile a quella di Adamo ». La morte, vista come una conseguenza diretta del peccato (cfr. Rm 5,12), è una realtà non solo fisica ma anche spirituale (lontananza da Dio con tutte le sue conseguenze), che ha manifestato i suoi effetti devastanti anche su coloro che non avevano ricevuto, come Adamo, un precetto esplicito: ciò è sufficiente perché si possa affermare che anch’essi non sono esenti dal peccato in senso proprio. La presenza della morte, anche prima della promulgazione della legge e dopo di essa al di fuori di Israele, implica che questa fosse nota, almeno nei suoi contenuti essenziali, a tutta

38 Il carattere di obiezione del v. 13b si coglie all’interno del metodo della diatriba cinico-stoica, adottato qui come altrove da Paolo (cfr. R. Penna, Lettera ai Romani, vol. II, p. 457). 39 Così S. Lyonnet, L’histoire du salut selon le chapitre VII de l’épître aux Romains, in Id., Études sur l’Épître aux Romains, pp. 203-230, qui 210-213, in contrasto con F.J. Leenhardt, L’Épître aux Romains, Delachaux et Niestlé, Neuchatel-Paris, 1957, p. 85.

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l’umanità, altrimenti il peccato non avrebbe provocato le trasgressioni e quindi non sarebbe stato imputato. Dopo avere menzionato espressamente due volte il nome di Adamo, che non riapparirà più nel corso della lettera40, Paolo aggiunge che egli è « immagine (typos) di colui che doveva venire ». Con queste parole riporta il discorso all’intenzione originaria, che era quella di confrontare Adamo con Cristo. Tutti gli esseri umani si sono resi corresponsabili del peccato commesso dal primo uomo, cioè si sono lasciati liberamente coinvolgere nella situazione che egli simboleggia. Ma la sua persona è solo una « figura » di Cristo, dal quale prende avvio una umanità nuova, sulla quale Paolo concentra ora tutta la sua attenzione. Al termine del brano Paolo accenna brevemente al secondo periodo in cui il peccato ha dominato, quello che va da Mosè a Cristo. A questo proposito egli osserva: « La legge poi sopraggiunse perché abbondasse la caduta (ina pleonase˛¯ to parapto¯ma) » (5,20). Senza approfondire ulteriormente, egli conclude affermando che « dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia », che è stata conferita mediante Cristo (5,20b-21). Per Paolo, dunque, nel mondo domina il peccato che va di pari passo con la morte, intesa non semplicemente come evento fisico, ma come una situazione di lontananza da Dio che si manifesta nelle conseguenze del peccato: ingiustizia, violenza, oppressione. Anche là dove manca una legge che trasformi il peccato in trasgressione, la presenza della morte è un segno inequivocabile del peccato 40 A Paolo non interessa Adamo come persona, ma come personificazione di tutta l’umanità peccatrice. In questo senso si rifà a lui anche in Rm 7,7-25 e in 1,18-32.

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che domina l’umanità intera, che così appare in tutto partecipe del peccato di Adamo. Ciò suppone che anche in quel periodo vi fosse una conoscenza della volontà di Dio analoga a quella data dalla legge di Mosè41. Tuttavia essa non ha potuto arginare il peccato, come non ha potuto la legge data da Dio a Israele per mezzo di Mosè. Ma assieme alla conoscenza della volontà divina doveva esserci anche la capacità di osservarla. E se tale capacità esisteva realmente, non si vede come si possa negare a priori che qualcuno l’abbia effettivamente praticata già prima della venuta di Cristo. In definitiva, ancora una volta bisogna riconoscere che Paolo non parla di singoli individui ma di Adamo, cioè dell’umanità in quanto tale, in cui dominano rapporti di potere e di sopraffazione in cui tutti, in modi diversi, sono coinvolti. Il peccato dell’umanità (1,18 - 3,20). Nella sezione a cui appartengono Rm 2,14-16.25-29 Paolo sferra un duro atto di accusa nei confronti del comportamento non solo dei gentili, ma anche dei giudei, che egli pone sullo stesso piano: lo scopo di questa argomentazione è quello di mettere in luce il bisogno di salvezza che è proprio di tutta l’umanità, senza distinzioni42. Lasciando per ora da parte Rm 2,14-16.25-29, dividiamo la sezione in tre parti: 41 Cfr. J.C. Poirier, Romans 5:13-14 and the Universality of Law, in VT 38 (1996) 344-358. 42 Cfr. in proposito G. Bornkamm, Die Offenbarung des Zornes Gottes, in Id., Das Ende des Gesetzes, pp. 18-26; J.-N. Aletti, Rm 1,18 - 3,20: Inchoérence ou cohérence de l’argumentation paulinienne?, in Biblica 69 (1988) 47-62; R. La Fontaine, Pour une nouvelle évangélisation. L’emprise universelle de la justice de Dieu selon l’épître aux Romains 1,18 - 2,29, in NRT 108 (1986) 641-665; Th. Schmeller, Paulus und die « Diatribe ». Eine vergleichende Stilinterpretation (NTAbh. Neue Folge 19), Aschendorff, Münster 1987, pp. 225-286; A. Sacchi, Torah di Israele e morale ellenistica alla luce di Rm 1-2, in I. Cardellini - E. Manicardi (edd.), Torah e kerygma: dinamiche della tradizione nella Bibbia. Atti della XXXVII Settimana Biblica, in RicStBib 1-2 (2004) 245-270.

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1) rivelazione dell’ira di Dio (Rm 1,18-32); 2) condanna e salvezza per giudei e gentili (Rm 2,1-13); 3) universalità del peccato (Rm 3,1-20). Rivelazione dell’ira di Dio (Rm 1,18-32). In questa parte della sezione è esposta la narratio, cioè l’esposizione dei fatti sui quali si basa la successiva argomentazione43. Paolo si introduce affermando che l’ira di Dio si rivela contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che tengono « costretta », cioè allontanano dalla loro mente (cfr. 2Ts 2,6-8), oppure tengono « prigioniera » (cfr. 1Ts 5,21; Lc 4,42), la verità (ale¯theian) nell’ingiustizia, cioè mediante la loro ingiustizia impediscono alla verità di portare i suoi frutti (Rm 1,18)44. È giusto sottolineare che per Paolo l’ira di Dio si manifesta non su tutti gli uomini ma solo su quelli che rifiutano la verità. L’ira di Dio si manifesta perché « ciò che di Dio si può conoscere » (to gno¯ston tou theou), ossia ciò che è accessibile alla mente umana, è « manifesto » (phaneron) « a loro » (en autois, « in mezzo a loro, nel loro intimo »). Infatti, « Dio lo ha manifestato a loro » (1,19). La verità di cui parla si identifica quindi con Dio stesso, il quale è la fonte e il modello di un comportamento giusto e retto45; egli si è dato premura di rivelare tutto ciò che di lui gli uomini possono conoscere, e questo non solo a Israele, ma anche a tutta 43 S. Schulz, Die Anklage in Röm 1,18-32, in ThZ 14 (1958) 161-173; C.L. Porter, Romans 1:18-32: Its Role in the Developing Argument, in NTS 40 (1994) 210-228; G. Segalla, L’empietà come rifiuto della verità di Dio in Romani 1,18-28, in StPat 34 (1987) 275-296. 44 Circa i due possibili significati del verbo katecho ¯ , cfr. O. Michel, Der Brief an die Römer, p. 62, nota 2; L. Ligier, Péché d’Adam e péché du monde, 2 voll., Aubier, Paris 1960-1961, vol. II, pp. 173-175. 45 Si veda lo stesso concetto di verità in rapporto alla legge in Rm 2,20.

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l’umanità. Non si tratta perciò della semplice possibilità di conoscere Dio e la sua volontà, ma di una conoscenza reale che, una volta data, resta prerogativa di ogni essere umano nonostante la sopraffazione dell’ingiustizia. Per l’umanità, in generale, questa conoscenza di Dio ha luogo « fin dalla creazione del mondo », cioè, in base al contesto, a partire dal momento in cui Dio ha dato origine a tutte le cose. Da allora « le cose invisibili di Dio » (ta aorata autou), cioè la sua eterna « potenza e divinità » (dynamis kai theio¯tes), sono contemplate (kathoratai), per mezzo della ragione (nooumena), a partire dalle sue opere (tois poie¯masin, Rm 1,20). All’origine della conoscenza di Dio vi è dunque la sua stessa iniziativa salvifica, che si manifesta nel creato e nella storia, e si coglie mediante l’attività della ragione umana. Ciò che l’umanità ha conosciuto di Dio consiste però non in una dottrina astratta che impegna solo l’intelletto, bensì in due attributi, la potenza e la divinità, che conferiscono a Dio il pieno diritto all’ossequio dell’uomo46. Il modo in cui Paolo affronta il problema della conoscenza di Dio rivela l’influsso sia del mondo giudaico che di quello greco47. Nel primo, si riteneva che la legge di Dio fosse stata rivelata in modi diversi a tutta l’umanità, a partire dal suo primo progenitore; nel secondo, invece, l’uomo, con la sua ragione, può conoscere Dio partendo dalla contemplazione delle cose create. In parte, questi

46 Cfr. A. Nygren, Der Römerbrief, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19654, p. 82. F.-J. Leenhardt (L’Épître aux Romains, pp. 36-37) sottolinea che, secondo Paolo, Dio interviene attivamente nella conoscenza che si ha di lui. 47 Secondo W.D. Davies (Paul and Rabbinic Judaism, p. 117), « l’abito è ellenistico, ma il corpo è rabbinico ».

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due mondi si erano già incontrati, come risulta dal libro della Sapienza (cfr. Sap 13,1-9). Paolo dimostra di conoscere le idee contenute in questo testo e di condividerle, ma si distacca in quanto afferma non solo la possibilità, ma la realtà stessa della conoscenza di Dio48. Implicitamente l’Apostolo fa riferimento all’esperienza di Adamo, il quale aveva ricevuto da Dio nel giardino dell’Eden gli elementi fondamentali della legge, ma li aveva trasgrediti, pur senza perderne la conoscenza49. Il significato del verbo conoscere oscilla quindi tra il significato biblico di adesione piena e vissuta alla volontà di Dio, come si verifica nel caso di Adamo prima del peccato, e quello di una conoscenza puramente intellettuale, più vicina alla concezione filosofica che è propria anche dell’uomo peccatore, il quale tiene la verità prigioniera dell’ingiustizia. L’ira divina sui malvagi è motivata dal fatto che essi, pur avendo conosciuto Dio, « non lo hanno glorificato e ringraziato come Dio » (Rm 1,21a): la conoscenza di Dio diventa per loro motivo di condanna, perché al conoscere non ha fatto seguito il ri-conoscere. Il rifiuto della conoscenza di Dio da parte degli uomini ha avuto conseguenze drammatiche: essi « hanno vaneggiato (emataio¯the¯san) nei loro ragionamenti », cioè sono diventati come pazzi, 48 G. Bornkamn, Die Offenbarung des Zornes Gottes, in Id., Das Ende des Gesetzes, p. 20, nota 6. Circa i rapporti tra il testo paolino e Sap 13, si veda soprattutto Ch. Larcher, La connaissance naturelle de Dieu d’après le livre de la Sagesse, in LumVie 14 (1954) 53-62; S. Lyonnet, La connaissance naturelle de Dieu (Rom 1,18-23), in Id., Études sur l’Épître aux Romains, pp. 43-70, qui 52-53; G.R. Castellino, Il paganesimo di Romani 1, Sapienza 13-14 e la storia delle religioni, in SPCIC 2,255-263. 49 Circa i riferimenti ad Adamo in Rm 1, cfr. M.D. Hooker, Adam in Romans 1, in NTS 6 (1959-1960) 297-306; A. Feuillet, La connaissance naturelle de Dieu par les hommes d’après Rom. 1,18-23, in LumVie 14 (1954) 63-80, qui 72-78.

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proprio nel campo dei « ragionamenti » (dialogismoi), cioè delle decisioni pratiche che determinano il comportamento (cfr. 1Cor 3,20, dove si parla dei « ragionamenti vani » dei sapienti di questo mondo). Di conseguenza, il loro « cuore », cioè la facoltà dalla quale vengono fatte le scelte fondamentali che impegnano tutta la vita, già « ottuso » (asynetos, dissennato), si è ancora più oscurato, portandoli completamente fuori strada (v. 21b). Paolo passa poi a descrivere le conseguenze del rifiuto della conoscenza di Dio50: gli empi si dichiaravano sapienti (sophoi) e invece sono diventati stolti (emo¯ranthe¯san). Adottando la sapienza umana, che mette in primo piano la propria esaltazione personale, essi hanno rifiutato la vera sapienza, che è il dono di sé che Dio ha fatto mediante la sua legge, e così sono precipitati nella stoltezza (cfr. 1Cor 1,17-25). La stoltezza dell’umanità è sfociata poi nell’idolatria, che li ha spinti a « scambiare » (allasso¯) « la gloria del Dio incorruttibile » con « l’immagine della figura » dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili (Rm 1,22-23). Il peccato degli empi ha provocato la reazione di Dio, il quale li « ha abbandonati » anzitutto « ai desideri » (en tais epithymiais) dei loro cuori per l’impurità, poi a « passioni infami » (eis pathe¯ atimias), di cui l’esempio per lui più sconvolgente sono i rapporti omosessuali (Rm 1,24-27), e infine alla loro « intelligenza depravata » (eis adokimon noun), dalla quale sono stati portati a compiere « le cose sconvenienti » (ta me¯ kathe¯konta, 1,28). Queste 50 Sulla struttura letteraria di Rm 1,22-32, cfr. S. Lyonnet, Notes sur l’exégèse de l’Épître aux Romains. I. La structure littéraire de Rom 1,22-32, in Biblica 38 (1957) 35-40.

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sono poi indicate mediante un lungo catalogo di vizi, che può essere agevolmente diviso in tre parti. Anzitutto Paolo dice che i malvagi sono colmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia e malizia. Poi aggiunge che sono pieni di invidia, omicidio, lite (eris), frode, malignità. Infine, li accusa di essere diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore. Al termine di tutto, li bolla come privi di misericordia (anelee¯mones), un vizio questo che rappresenta il punto d’arrivo e la sintesi di tutti gli altri (Rm 1,29-31). Questo catalogo, pur appartenendo a un genere letterario molto usato dai filosofi greci, dipende, come forma e contenuto, dalla letteratura giudeo-ellenistica, la quale aveva elaborato anch’essa cataloghi di vizi (e di virtù), ispirandosi però al decalogo e ad altre liste analoghe contenute nel Primo Testamento51. Ciò che l’Apostolo afferma circa i vizi dell’umanità non è frutto di un’analisi sociologica, ma riflette il modo piuttosto stereotipato e sbrigativo con cui i giudei osservanti del tempo giudicavano il mondo greco. Associandosi al duro giudizio dei suoi connazionali, Paolo presuppone, in pieno accordo con loro, l’esistenza di un codice di comportamento che è sostanzialmente uguale per tutti e di cui tutti sono a conoscenza. Al termine del capitolo, Paolo afferma che gli empi conoscono il « comandamento » (dikaio¯ma, giudizio, sen51 Due interessanti paralleli si trovano in Sap 13,23-27 e in Mc 7,21-22. Circa il catalogo dei vizi, cfr. S. Wibbing, Die Tugend- und Lasterkataloge, pp. 78-117; A. Vögtle, Die Tugend- und Lasterkataloge, pp. 229-232; G. Segalla, I cataloghi dei peccati in S. Paolo, in StPat 15 (1968) 205-228; A. Pitta, Cataloghi dei vizi e delle virtù, in Id., Sinossi paolina, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1994, pp. 259-265; J.T. Fitzgerald, Virtue/Vice Lists, in D.N. Freedman - G.A. Herion (edd.), Anchor Bible Dictionary, Doubleday, New York 1992, vol. VI, pp. 857-859.

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tenza) di Dio in forza del quale gli autori di tali cose meritano la morte, e tuttavia non solo le fanno, ma approvano chi le fa (Rm 1,32). La morte, in questo contesto, non è solo un evento fisico, ma implica la rovina eterna. Che gli empi siano al corrente di tale pena divina non è dimostrato, ma è supposto da Paolo, in base forse al racconto della caduta originale (Gn 2,17; 3,17-19). Il fatto di non limitarsi a compiere le azioni malvagie, ma di approvare chi le commette, è visto da lui come un’aggravante perché implica una piena consapevolezza del loro carattere perverso, e quindi della volontà divina che le proibisce con la pena di morte. In questo testo Paolo rivolge la sua accusa non a tutta l’umanità e neppure a tutti i gentili, ma solo a quegli uomini che « soffocano la verità nell’ingiustizia » (Rm 1,18). L’attribuzione a Paolo di una condanna indiscriminata nei confronti di tutta l’umanità prima di Cristo non è fondata, anzi è in antitesi con la dialettica interna del suo pensiero. Come potrebbero, infatti, gli empi essere « inescusabili » se, assieme alla conoscenza di sé, Dio non avesse conferito loro anche la grazia per compiere la sua volontà? Inoltre, come potrebbe una conoscenza di Dio, coadiuvata dalla sua grazia, non avere portato alcun frutto? Il fallimento totale dell’uomo sarebbe anche il fallimento di Dio. E questo l’Apostolo non potrebbe accettarlo. Perciò bisogna affermare che anche qui Paolo si riferisce non ai singoli individui, ma a tutta l’umanità in quanto è solidale con il primo peccatore, Adamo. Gli individui diventano solidali con questo peccato strutturale solo se ne sono partecipi o conniventi. 233

Condanna e salvezza per giudei e gentili (Rm 2,1-13). In Rm 2,1-11 è contenuta la demonstratio, il cui stile si differenzia nettamente da quello della precedente narratio52. Concluso il discorso generale fatto in 1,18-32, Paolo si rivolge, facendo ricorso al metodo della diatriba cinicostoica, a un personaggio fittizio che, diversamente da coloro che approvano le azioni malvagie sopra descritte (cfr. Rm 1,32), le condanna, ma si associa a loro nel compierle. Con cautela, senza dire chi egli sia, anzi mostrandosi volutamente noncurante circa la sua identità, l’Apostolo gli fa notare che il semplice fatto di condannare gli altri non è una buona ragione per sentirsi al sicuro; anzi, dal momento che anche lui commette le stesse cose, condannando gli altri finisce per condannare se stesso. Ciò dovrebbe essergli chiaro in quanto sa bene che il giudizio (krima) di Dio è secondo verità (kata ale¯theian, 2,1-2). La circospezione con cui procede l’Apostolo ha fatto sì che la categoria contro cui si rivolge in Rm 2,1 sia stata interpretata diversamente dai commentatori53. La maggior parte però vede in essi i giudei, i cui difetti, descritti poi espressamente in 2,17-24, corrispondono all’atteggiamento di queste persone, più disposte a vedere i difetti degli altri che i propri. Colui che condanna quelli che commettono azioni malvagie e intanto le compie lui stesso, pensa di sfuggire al giudizio in forza di tre importanti attributi di Dio, la « bontà », la « tolleranza » e la « pazienza », ma in realtà li 52 J. Cambier, Le jugement de tous les hommes par Dieu seul, selon la vérité, dans Rom. 2,1 - 3,20, in ZNW 67 (1976) 187-213; D.A. Campbell, A Rhetorical Suggestion Concerning Romans 2, in SBL.SP 23 (Atlanta 1995) 140-167. 53 Cfr. K.H. Schelkle, Paulus Lehrer der Väter: die altkirchliche Auslegung von Römer 1-11, Patmos, Düsseldorf 1956, pp. 70-71.

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disprezza in quanto non riconosce che la bontà di Dio lo spinge alla conversione. Così facendo dimostra di avere un cuore talmente duro e ostinato da attirare su di sé la collera divina, che lo raggiungerà nel giorno del giudizio (Rm 2,3-6a)54. Mentre in 1,18-32 aveva parlato dell’ira di Dio che si rivela nella storia, l’Apostolo accenna qui all’ira che si rivelerà nel giudizio finale (cfr. Sal 62,13; Pro 24,12). Proseguendo il suo discorso, Paolo fa notare che nel giorno del giudizio Dio darà a ciascuno secondo le sue opere (Rm 2,6b): a coloro che, perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità, Dio ha riservato la vita eterna; invece su coloro che, ribellandosi, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia, riverserà ira e sdegno (2,7-8). Questo stesso concetto è poi ripetuto una seconda volta, in ordine inverso (chiasmo): tribolazione e angoscia verranno su ogni essere umano che opera il male, prima (pro¯ton) sul giudeo e poi sul greco; gloria invece, onore e pace sono riservate per chi opera il bene, prima (pro¯ton) per il giudeo e poi per il greco (2,9-10). Questa ripetizione serve all’Apostolo per sottolineare come ai giudei spetti il primo posto sia nella punizione che nel premio55. Ciò è dovuto al fatto che essi, in quanto popolo eletto, hanno ricevuto non un privilegio 54 Il principio secondo cui il giudizio avviene in base alle opere è affermato in tutta la Bibbia (cfr. Ger 17,10; Pro 24,12; Sal 62,13; Sir 16,15; Mt 16,27; Rm 14,10; 2Cor 5,10; Col 3,25); esso presuppone che a tutti sia stata data una effettiva possibilità di salvezza. Si veda, in proposito, S. Lyonnet, Gratuité de la justification et gratuité du salut, in Id., Études sur l’Épître aux Romains, pp. 163-177; K.L. Yinger, Paul, Judaism and Judgment according to Deeds (SNTS. MS 105), Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 146-182. 55 L’avverbio pro ¯ ton era già stato usato con questo senso in Rm 1,16, dove però è omesso dai codici B (Vaticano) e G (Boernarianus), dalla versione Sahidica e da quella di Marcione. In Rm 2,9.10 invece non esistono dubbi circa la genuinità di questa lezione.

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di cui gloriarsi, ma una responsabilità nei confronti degli altri. Se sono fedeli, ne avranno un vantaggio, se no saranno i primi a essere puniti. Solo a questa condizione Paolo può concludere che Dio non fa « preferenze di persone » (proso¯pole¯mpsia, 2,11). In questo modo, Paolo contesta direttamente la mentalità diffusa nel mondo giudaico in base alla quale Dio ha per Israele una pista preferenziale. Il fatto che, secondo Paolo, sia i giudei che i greci possano ottenere il premio divino (cfr. Rm 2,7.10) lascia supporre che già prima di Cristo Dio abbia dato a ciascuno la sua grazia. Non è quindi escluso che siano esistite, sia fra gli uni che fra gli altri, persone che di fatto si sono comportate onestamente: la grazia di Dio infatti non sarebbe tale se non fosse capace di farsi strada almeno nell’animo di qualcuno. Nel timore che questa affermazione vada contro la tesi paolina dell’universalità del peccato prima di Cristo, molti studiosi ritengono che in questi due versetti sia contenuta una pura ipotesi non realizzata. Secondo costoro, Paolo direbbe semplicemente che, se fosse possibile fare il bene, si otterrebbe così la vita eterna, l’onore, la gloria e la pace. Ma siccome ciò non può avvenire, Paolo non annunzierebbe altro che il castigo per tutti. Purtroppo bisogna riconoscere che questa interpretazione, se fosse oggettiva, toglierebbe all’argomentazione di Paolo tutta la sua forza dimostrativa. Come potrebbe infatti fare anche solo l’ipotesi di un premio per le buone opere se queste non fossero per principio possibili? Quando dunque l’Apostolo dipinge tutta l’umanità come immersa nel peccato, egli non intende includere in questo giudizio tutti i suoi membri, ma solo quelli che si sono situati volontariamente al di fuori della grazia divina. 236

In Rm 2,8, volendo indicare il tipo di comportamento perverso che provoca l’ira divina in un contesto in cui ogni differenza tra giudei e gentili è nettamente superata (cfr. 2,9.10), egli si riferisce ancora alla descrizione che aveva fatto in Rm 1. Infatti i malvagi sono detti oi ex eritheias (i ribelli), un’espressione che richiama la eris di 1,29, con cui si indica un comportamento antisociale e contrario all’amore che Paolo ha descritto a lungo in Rm 1,26-3156. Inoltre, sempre in 2,8, gli empi sono definiti come « coloro che resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia » (apeithousi te˛¯ aletheia˛¯ peithomenoi de te˛¯ adikia˛¯ ). Questa espressione richiama quella con cui nel capitolo precedente aveva indicato il peccato capitale dei gentili: « Tengono la verità costretta nell’ingiustizia » (1,18); « Hanno mutato la verità di Dio con la menzogna » (1,25). In particolare, il termine verità, che qui come in 1,18.25 indica Dio stesso, in quanto principio di un comportamento moralmente onesto, è ripreso in 2,20 dove indica la « verità » che il giudeo possiede in forza della legge: la verità di Dio conosciuta dai gentili corrisponde dunque a quella nota ai giudei mediante la legge. Perciò, i peccati per cui è condannato il giudeo che trasgredisce la legge sono gli stessi che commette il gentile peccatore: la legge di Dio è uguale per tutti57. Infine, Paolo afferma: « Tutti quelli che hanno peccato senza la legge periranno anche senza la legge; quanti invece hanno peccato sotto la legge saranno giudicati con la legge » (Rm 2,12). Che si possegga o no la legge mosaica, chi pecca O. Kuss, La lettera ai Romani, vol. I, p. 96, nota 3. Sul ruolo che svolge questo concetto nel presente contesto e in genere nella Lettera ai Romani, si veda l’opera citata di J.M. Bassler, Divine Impartiality, pp. 121-156. 56 57

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va incontro al castigo di Dio: per il giudeo, il possesso della legge, se non è praticata, lungi dal costituire un privilegio, fornisce soltanto lo strumento con cui sarà giudicato. Paolo poi aggiunge: « Perché non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati » (2,13). Questo versetto presenta due difficoltà. Può Paolo pensare oggettivamente che esistano persone capaci di praticare la legge, dal momento che tutti sono peccatori? Può la pratica della legge procurare la giustificazione, dal momento che egli dirà in seguito: « In virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui » (3,20)? Alla prima domanda si risponde senza difficoltà che è proprio il concetto di un peccato in cui sono immersi tutti, senza eccezione, che non corrisponde al pensiero di Paolo. Per quanto riguarda il verbo « saranno giustificati » (dikaio¯the¯sontai), bisogna riconoscere che Paolo cita qui Sal 143(142),2 nel suo significato originario (« essere riconosciuti giusti nel giudizio »), come appare dalla prima parte del versetto, in cui si dice che coloro che praticano la legge « sono giusti » (dikaioi) davanti a Dio, e non nel significato che Paolo dà a questo verbo a partire da Rm 3,20: nessuno può essere giustificato, cioè reso giusto, nel corso della sua esistenza terrena, mediante le opere della legge, perché ciò non può avvenire se non mediante la fede. Ma tutti alla fine saranno giudicati in base alle opere buone compiute. Qui, come spesso altrove, Paolo ragiona in chiave di giudizio finale 58. 58 Il futuro dikaio ¯ the¯sontai, come krithe¯sontai e apolountai di Rm 2,12-13 e come logisthe¯setai e krinei di 2,26.27, ha certamente valore escatologico e si riferisce al giudizio finale, nella cui prospettiva si svolge tutto il discorso di Paolo in Rm 2.

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Il giusto giudizio di Dio può comportare dunque, per i giudei come per i greci, sia il premio che il castigo. Alla luce del contesto, letto superficialmente come una dichiarazione di peccato universale, questa affermazione è stata spesso sminuita e ridotta al rango di una pura ipotesi senza fondamento. Non è forse vero che l’unica possibilità di salvezza è quella che proviene dalla fede in Cristo?59. Ma qui Paolo fa i conti con una reale possibilità, aperta non solo ai giudei ma anche ai gentili, di compiere la volontà di Dio e raggiungere il premio: se questa mancasse non si potrebbe parlare neppure di castigo60. E una possibilità è reale nella misura in cui, almeno qualche volta, si attua61. Tutti hanno peccato (Rm 3,1-20). Dopo avere risposto alle obiezioni che un uditorio giudaico poteva fare in base al privilegio determinato dal possesso della legge e della circoncisone (2,14-29), Paolo risponde in 3,1-8 a un’altra obiezione, basata sulla fedeltà di Dio alle sue promesse. L’argomento di Paolo può essere così riassunto: l’esclusione dei giudei dalla salvezza non dipende dall’infedeltà di Dio alle sue promesse, ma piuttosto dal fatto che alcuni (tines) di loro non sono stati fedeli (e¯piste¯san) a lui. È vero che l’infedeltà del popolo non può annullare la fedeltà di Dio, il quale realizzerà ugualmente il suo piano di salvezza. Tuttavia ciò non va a vantaggio dei trasgres59 Così O. Kuss (La lettera ai Romani, vol. I, pp. 94-95), il quale si rifà a H. Lietzmann, Die Briefe des Apostels Paulus. Die vier Hauptbriefe (HNT 3), J.C.B. Mohr, Tübingen 1910, p. 13. Contro questa tesi cfr. K.L. Yinger, Paul, Judaism and Judgment According to Deeds, pp. 175-178. 60 Cfr. J.-N. Aletti, Rm 1,18 - 3,20: Inchoérence ou cohérence de l’argumentation paulinienne?, in Biblica 69 (1988) 47-62, qui 50. 61 Non è corretto pensare, come afferma H. Räisänen (Paul and the Law, p. 106), che si tratti di un concetto che affiora solo quando Paolo non riflette da un punto di vista strettamente teologico.

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sori, perché in questo caso Dio sarebbe un giudice ingiusto, connivente con i malvagi, i quali, sapendo di essere impuniti, sarebbero ancora più invogliati a fare il male. La fedeltà di Dio quindi non è quindi incompatibile con la punizione dei peccatori, anche se si tratta di coloro ai quali ha fatto le sue promesse. In Rm 3,9 Paolo, facendosi portavoce dei suoi interlocutori giudei, fa una ulteriore domanda: « Che dunque? Siamo superiori (proechometha)? ». In altre parole essi, memori di quanto egli ha affermato in Rm 3,1-2 circa la superiorità dei giudei, chiedono se, dopo tutto, la posizione speciale a essi assegnata nel piano di Dio non conferisca loro per caso qualche vantaggio. A questa domanda Paolo risponde drasticamente: « Niente affatto » (ou panto¯s). E ricorda che, in base alla dimostrazione appena conclusa, sia i giudei che i greci sono tutti « sotto il (dominio del) peccato » (hyph’ hamartian): la posizione speciale che i giudei hanno avuto nel piano di Dio non può preservarli dalla sua ira, dal momento che hanno peccato come tutti gli altri (cfr. 2,9). Nei versetti successivi (Rm 3,10-18) Paolo ribadisce l’universalità del peccato mediante una serie di citazioni scritturistiche. Alla fine, egli sottolinea che quanto dice la « legge », intesa qui nel senso di Scrittura, vale in modo speciale per « quelli che sono sotto la legge » (en to˛¯ nomo˛¯ , nella legge), cioè per i giudei, per i quali essa rappresenta la manifestazione della volontà di Dio. In altre parole, se la Scrittura parla di un peccato generalizzato, è necessario supporre che questo abbia preso piede proprio in coloro ai quali per primi essa si rivolge. Annunziando prima di tutto ai giudei la condanna di Dio, la Scrittura chiude loro la bocca, ossia toglie loro ogni possibilità di 240

considerarsi un’eccezione: in tal modo essa afferma, senza possibilità di equivoci, che il mondo intero è colpevole (hypodikos) di fronte a Dio (3,19). Nell’ultima frase del brano Paolo riprende, mediante un dioti (perciò) conclusivo, quanto ha appena detto, precisando che « per le opere della legge » (ex ergo¯n nomou) nessuno « sarà giustificato » (dikaio¯the¯setai) davanti a Dio, perché per mezzo della legge non si ha altro che « la conoscenza del peccato » (epigno¯sis te¯s hamartias, Rm 3,20). Qui il verbo dikaio¯the¯setai non significa più, come in Rm 2,13 e nel Sal 143(142),2, « sarà riconosciuto come giusto » nel giorno del giudizio finale, ma « sarà reso giusto », cioè giustificato. Paolo ha cambiato ormai registro. Egli non pensa più al giudizio finale, nel quale Dio si manifesterà come giudice, ma alla storia umana, nel corso della quale ha deciso di rendere l’uomo giusto per mezzo di Cristo. In questa conclusione abbiamo la dichiarazione più solenne e definitiva di un peccato generalizzato. Ma che cosa vuole dire veramente Paolo? Già in Rm 3,3 egli non dice che tutti i giudei hanno peccato, ma solo alcuni, tanti o pochi che siano. Ma soprattutto egli inizia il brano finale della sezione (3,21-31), con queste parole: « Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata (pephanero¯tai) la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, testimoniata dalla legge e dai profeti » (3,21). A tale preannunzio da parte dei profeti Paolo si riferisce sia all’inizio che al termine della Lettera ai Romani (1,1-2; 16,25-26). Ciò significa che quanto è avvenuto in Gesù non solo era già presente nel consiglio segreto di Dio, ma ha avuto una manifestazione, anche se parziale e incompleta, nell’AT. Questo pensiero è implicito nella 241

riflessione sul ministero dell’antica alleanza, il quale era dotato di una gloria effimera ma reale, anche se fino a Cristo un velo ha impedito ai giudei di coglierla in tutta la sua portata (cfr. 2Cor 3,7-16). In Rm 4 Paolo presenta Abramo come il padre e il modello di tutti coloro che sono stati giustificati da Cristo (Gal 3,6; Rm 4). In 1Cor 10,4-5 si afferma che gli israeliti dell’esodo erano dotati di doni spirituali, uno dei quali era l’acqua scaturita dalla roccia, e questa roccia, che secondo la leggenda rabbinica li accompagnava nel deserto, era Cristo62. A lui dunque risalgono i doni spirituali concessi al popolo eletto: è vero che Dio non si è compiaciuto nella maggior parte di essi, ma gli altri, è sottinteso, hanno trovato grazia e salvezza per mezzo del dono anticipato di Cristo63. Anche nei confronti dei gentili, sebbene il giudizio di Paolo sia alquanto negativo, non mancano espressioni più positive. Riguardo al caso dell’incestuoso di Corinto, egli afferma che « una immoralità tale non si riscontra neanche fra i gentili » (1Cor 5,1). A Corinto dovevano esserci gentili di elevato livello morale, se egli scrive ai cristiani di quella città: « Non date motivo di scandalo né ai giudei, né ai greci, né alla Chiesa di Dio » (1Cor 10,32). Se esorta i tessalonicesi a non abbandonarsi alle passioni come fanno i gentili che non conoscono Dio (1Ts 4,5), non vuole dire che alle passioni si abbandonano tutti i gentili, ma solo quelli che non (ri)conoscono Dio. An62 Cfr. A. Feuillet, Le Christ Sagesse de Dieu d’après les épîtres pauliniennes (EB), Lecoffre, Paris 1966, pp. 103-111. 63 La presenza di Cristo nell’AT è affermata comunemente dai padri della Chiesa e dai teologi (cfr. P. Grelot, Sens chrétien de l’Ancien Testament, Desclée, Tournai 1962, pp. 139-165; A. Feuillet, Le Christ Sagesse de Dieu, pp. 106-109).

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che l’affermazione: « Noi per nascita siamo giudei e non peccatori dai gentili (ex ethno¯n hamarto¯loi) » (Gal 2,15) non significa necessariamente che tutti i gentili siano peccatori. In 1Cor 6,9-11, dopo avere fatto un elenco di vizi che impediscono l’ingresso nel regno di Dio, Paolo conclude: « E tali eravate alcuni di voi ». Quindi non tutti i cristiani di Corinto, prima di aderire a Cristo, erano esclusi dal regno di Dio, ma solo quelli che commettevano i vizi che l’Apostolo condanna. Pur essendo molto drastico circa il comportamento dei gentili, Paolo non si abbandona a generalizzazioni indebite, ma lascia sempre la porta aperta alla possibilità di eccezioni. È vero che questo mondo è strutturalmente in preda al peccato, ma ciò non può avvenire a scapito della potenza sovrana di Dio, che in qualche modo deve manifestarsi attraverso le opere buone, tante o poche che siano, di giudei e di gentili onesti. Alla luce di queste considerazioni, l’affermazione secondo cui « tutti, giudei e greci, sono sotto il peccato » (Rm 3,9) deve essere letta più come un espediente retorico, utilizzato per preparare l’annunzio della salvezza in Cristo, che come un tassello essenziale della sua costruzione teologica64. Con essa l’Apostolo, più che dare un giudizio tassativo circa la moralità dei gentili, vuole fare comprendere quanto l’umanità deve a Cristo: a tale scopo egli ritiene più significativo presentare l’umanità prima di Cristo come se fosse anche senza Cristo, cioè al di fuori della sua azione salvifica, piuttosto che soffermarsi su quanto essa già possedeva prima della sua venuta. 64 Cfr. J.-N. Aletti, Israel et la loi, pp. 41-69; H. Räisänen, Paul and the Law, pp. 118-119, E.P. Sanders, Paolo, la legge e il popolo giudaico, pp. 206-208.

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c) Rm 2,14.26.27: i giusti fra i gentili Alla luce di quanto, in altri luoghi della Lettera ai Romani, Paolo afferma circa la conoscenza e l’osservanza della legge da parte dei gentili, è possibile ora dare una interpretazione delle affermazioni contenute in Rm 2,14.26-27. Una volta sgombrato il terreno dal presupposto secondo cui prima di Cristo tutti sono necessariamente peccatori, non è difficile dimostrare che in Rm 2,14 Paolo si riferisce veramente a gentili onesti in senso pieno. A tal fine preciseremo anzitutto il senso delle particelle che introducono le protasi dei due periodi ipotetici contenuti in questo testo, esamineremo poi il rapporto dei gentili con la legge e infine stabiliremo in qual senso si può dire che essi, o almeno alcuni di loro, la praticano. Le particelle introduttive. Il primo nodo da affrontare è quello di stabilire quale tipo di periodo ipotetico sia introdotto rispettivamente da hotan e da ean con il congiuntivo in Rm 2,14.26-27. Dal punto di vista grammaticale, l’ipotesi secondo cui in ambedue i casi si tratta di un periodo ipotetico della irrealtà, in cui si allude a un evento che potrebbe accadere solo in teoria ma non in pratica, rappresenta una forzatura del testo. La particella hotan seguita dal congiuntivo, con cui si apre la prima delle due frasi, non introduce una condizione impossibile a realizzarsi, ma piuttosto un’azione condizionata, possibile e spesso ripetuta (periodo ipotetico della possibilità). Essa significa « ogni qualvolta », « tutte le volte che », e regge il congiuntivo presente quando l’azione del verbo è contemporanea a quella della prin244

cipale65. Lo stesso dicasi a proposito della seconda frase costruita con la particella ean seguita da un congiuntivo: anch’essa introduce una condizione possibile che, ogni volta che si attua, rende valida l’affermazione contenuta nell’apodosi66. In ambedue i casi si tratta quindi di una possibilità reale e oggettiva, anche se non si dice nulla circa le modalità e la frequenza con cui si attua. D’altra parte, è evidente che non avrebbe senso argomentare a partire da un fatto semplicemente ipotetico, senza fondamento nella realtà67. Il tentativo di trasformare le due protasi di Rm 2,14a e 26a nell’indicazione di condizioni impossibili a realizzarsi dipende non tanto da ragioni di carattere grammaticale, ma piuttosto dalla convinzione, condivisa da molti studiosi, secondo cui l’Apostolo, affermando tale possibilità, contraddirebbe quanto ha affermato in Rm 1,18-32 circa l’universale diffusione del peccato nel mondo gentile. Quindi il problema è di carattere ermeneutico, non grammaticale. Più che su argomenti grammaticali bisognerà quindi soffermarsi su quello che è il pensiero autentico dell’Apostolo su questo argomento. I gentili « che non hanno legge » (2,14). I gentili di Rm 2,14 sono qualificati due volte come « coloro che non hanno legge » (ta me¯ nomon echonta - nomon me¯ echontes). Nella Lettera ai Romani il termine nomos ha fatto la sua prima comparsa in Rm 2,12-13, dove è stato usato due volte. Nel seguito del capitolo esso appare 14 65 Cfr. W. Bauer, Wörterbuch zum Neuen Testament, Töpelmann, Berlin 19635, p. 1165; R. Penna, Lettera ai Romani, p. 234. 4 66 M. Zerwick, Graecitas biblica, PIB, Roma 1960 , p. 103. 67 H. Räisänen, Paul and the Law, pp. 103-104.

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volte, delle quali 5 volte in 2,14-16 e 4 volte in 2,26-29, mentre nel resto della lettera è usato altre 51 volte. Il termine nomos nella Bibbia greca è solitamente la traduzione dell’ebraico tôra¯h, la legge mosaica, intesa come codice scritto, conferito direttamente da Dio al suo popolo. Circa il significato di « legge » in 2,14 non esistono divergenze significative fra gli studiosi. Nonostante l’assenza dell’articolo nella prima occorrenza del termine, sembra evidente che si tratti anche qui della legge mosaica, della quale si è parlato nei due versetti precedenti68: per definizione, infatti, il possesso della legge mosaica come codice scritto è una prerogativa speciale dei giudei, che non compete ai gentili in quanto tali. Siccome qui si parla di una particolare categoria di gentili, mentre il non possesso della legge caratterizza tutti, bisogna tradurre le due espressioni ta me¯ nomon echonta - nomon me¯ echontes in senso concessivo: « pur non avendo la legge ». Una conferma significativa di questo uso del termine legge viene dal confronto con 1Cor 9,19-21. In questo testo, volendo approfondire il tema della « libertà » da cui aveva preso lo spunto per la sua autodifesa (cfr. 1Cor 9,1), Paolo mostra come ha saputo privarsi anche di questo diritto per il bene degli altri: « Infatti, pur essendo libero (eleutheros) da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero » (9,19). Egli menziona alcune categorie di persone in funzione delle quali ha saputo rinunziare alla sua libertà. Anzitutto egli nomina i giudei, per guadagnare i quali si è fatto giudeo come 68 L’uso dell’articolo in riferimento alla legge mosaica non è determinante neppure nella letteratura giudaica del tempo (cfr. W. Gutbrod, Nomos, in GLNT 7,1302).

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loro. Egli poi specifica qual è stato il suo comportamento rispettivamente nei loro confronti, e di riflesso in quelli dei gentili. Per quanto riguarda i giudei, siccome essi sono « sotto la legge » (hypo nomon), cioè riconoscono nella legge mosaica un codice rivelato da Dio in base al quale regolare la propria condotta, egli, pur non essendo sotto la legge, è diventato « come » (ho¯s) uno che è sotto la legge » (1Cor 9,20), cioè si è adattato a osservarne i precetti, almeno i più importanti. La stessa cosa Paolo ha fatto con coloro che « non hanno legge » (tois anomois), cioè i gentili che non si riconoscono nella legge mosaica: per guadagnarli è diventato anche lui come (ho¯s) « uno che non ha legge » (anomos), pur non essendo « uno che non ha la legge di Dio » (anomos theou), ma « uno che è nella legge di Cristo » (ennomos Christou, 1Cor 9,21). Paolo usa un linguaggio analogo anche nel contesto immediato di Rm 2,14. Infatti poco prima, in Rm 2,12, dove il termine « legge » appare per la prima volta, si dice: « Tutti quelli che hanno peccato senza la legge (anomo¯s), periranno anche senza la legge (anomo¯s); quanti invece hanno peccato nella legge (en nomo˛¯ ), saranno giudicati mediante la legge (dia nomou) ». Certamente i giudei si distinguono dai gentili per il possesso della legge come codice scritto, ma tutti saranno giudicati nello stesso modo, gli uni mediante la legge che essi soli possiedono e gli altri mediante l’equivalente della legge, cioè mediante i principi etici di cui anch’essi sono dotati. Quando poi conclude affermando che non è giusto chi ascolta la legge, ma chi la pratica (2,13), Paolo fa capire che esiste una legge che tutti possono conoscere e praticare. 247

Alla luce di questi testi, l’affermazione di Rm 2,14a (me¯ nomon echonta) dice soltanto che i gentili non hanno la legge come codice scritto, cosa questa che è prerogativa dei giudei. Ma il fatto che siano solo i giudei a possedere la legge non significa in alcun modo che i gentili siano all’oscuro della volontà di Dio rivelata nella legge. È quanto l’Apostolo ha dimostrato in Rm 1,18-32 e ha presupposto in 2,12a. Se è vero che il peccato non è imputato « quando manca la legge » (me¯ ontos nomou), bisogna ritenere che coloro su cui ha regnato la morte da Adamo a Mosè, cioè i gentili, non possono non conoscere, anche se in altro modo, la legge di Dio (cfr. 5,13-14). In questo pensiero Paolo è d’accordo con quanto affermato nel giudaismo, specialmente ellenistico, nel quale la legge mosiaca era diventata un’entità universale (la « legge naturale »). La legge appartiene dunque solo ai giudei come codice che riguarda la loro identità religiosa, sociale e politica. In questo senso i gentili sono senza legge. Ciò non toglie che anch’essi conoscano la legge in quanto si identifica con la sua parte fondamentale, che consiste nei comandamenti morali. Questo non è un punto da dimostrare, ma è il presupposto su cui si basa tutta l’argomentazione. Se il possesso della legge in quanto codice fosse una condizione per compiere la volontà di Dio, Paolo non potrebbe affermare l’uguaglianza di giudei e gentili di fronte a Dio. La pratica della legge da parte dei gentili / non circoncisi (2,14.26.27). In Rm 2,14a Paolo non afferma che i gentili conoscono la legge, cosa d’altronde presupposta, ma piuttosto che essi, pur non possedendola come codi248

ce scritto, compiono di fatto quanto essa prescrive (ta tou nomou poio¯sin). Egli attribuisce questa prerogativa per ben 2 volte e con termini praticamente identici anche ai non circoncisi (2,26: ta dikaio¯mata tou nomou phylasse˛¯ ; 2,27: ton nomon telousa). Queste espressioni hanno creato notevoli difficoltà ai commentatori, in quanto sembra scontato che, in base a quanto Paolo ha affermato in Rm 1,18-32, nessuno prima di Cristo abbia potuto condurre una vita moralmente onesta. Per evitare che da Rm 2,14 si ricavi una conclusione a prima vista in contrasto con il pensiero di Paolo, si è avanzata l’ipotesi che ta tou nomou sia un partitivo, cioè si riferisca al compimento non della legge nella sua integralità, ma soltanto di alcune delle sue prescrizioni, quelle più facili (faciliora legis). In teoria, sarebbe possibile considerare l’articolo determinativo ta come equivalente di « alcune cose », ma solo a condizione che ciò risulti chiaramente dal contesto. Questo invece orienta in senso diametralmente opposto: l’espressione ta tou nomou (v. 27) è infatti strettamente collegata a una catena di espressioni analoghe che indicano, senza ombra di dubbio, la totalità della legge. Anzitutto la forma chiastica della frase (i gentili che non hanno legge - le cose della legge fanno) implica che nella seconda parte della frase l’espressione ta tou nomou non sia che la ripresa del precedente nomon, che indica la totalità della legge; ciò è confermato dall’uso dell’articolo determinativo, che sottolinea come nella seconda parte della frase si riprenda il concetto di legge esattamente nel senso della prima. D’altra parte, è chiaro che all’inizio di Rm 2,14 il termine nomos si richiama all’espressione 249

immediatamente precedente hoi poie¯tai nomou, che dal canto suo è in parallelismo antitetico con akroatai nomou: non quelli che ascoltano ma coloro che praticano la legge sono giusti di fronte a Dio (v. 13). Ora nel v. 13 l’espressione hoi poie¯tai nomou non è per nulla ambigua: se si tratta di persone che saranno dichiarate giuste (dikaio¯the¯sontai), ciò significa che il compimento della legge da parte loro è integrale, cioè tale da meritare il premio eterno da parte di Dio, come Paolo ha detto poco prima (cfr. 2,7.10). Nel v. 14, in contrapposizione ai giudei semplici ascoltatori della legge, Paolo indica alcune persone che la compiono, scegliendoli paradossalmente proprio fra i componenti dell’altra grande categoria umana, i gentili. Di conseguenza, ta tou nomou poio¯sin non può non avere lo stesso significato: in caso contrario, si avrebbero nello stesso contesto due espressioni simili e collegate fra di loro, ma aventi l’una un senso diverso dall’altra, senza che il lettore sia minimamente avvertito di tale cambiamento. Tanto più che nel brano successivo (Rm 2,17-24) il termine legge è utilizzato per indicare la tôra¯h di Israele nella sua globalità. Un ulteriore argomento, che impone di non dare all’espressione ta tou nomou di Rm 2,14 un significato partitivo, viene dal confronto con l’espressione parallela di Rm 2,26: qui l’Apostolo parla di colui che, pur non essendo circonciso, compie « le prescrizioni della legge » (ta dikaio¯mata tou nomou phylasse˛¯ ). Il parallelismo tra le due espressioni è evidente: ta tou nomou non è altro che una contrazione di ta dikaio¯mata tou nomou. Ora, non c’è dubbio che questa espressione indichi la legge nella sua totalità: ne sono prova le sue origini anticotestamentarie 250

(cfr. Dt 30,16)69 e il fatto che nel versetto seguente Paolo accenni, in parallelismo con essa, al non circonciso « che adempie la legge » (ton nomon telousa), dimostrando così di possedere la circoncisione del cuore nello Spirito: questa volta qualsiasi possibilità di un compimento parziale della legge è escluso. Di riflesso, bisogna escludere qualsiasi dubbio anche a proposito di ta tou nomou di 2,14a. Secondo un’altra ipotesi, i gentili di Rm 2,14 « si sforzano » di praticare la legge, senza però riuscirvi. A essa si oppone la catena di affermazioni contenute in Rm 2 che non possono essere considerate come puramente ipotetiche. Se in 2,5-11 Paolo afferma come fondata l’ipotesi secondo cui almeno alcuni gentili raggiungono il premio eterno proprio perché operano il bene, nulla impedisce di pensare che in 2,14a egli intenda realmente riferirsi al caso di gentili onesti, i quali compiono ciò che la legge prescrive. E che ciò possa effettivamente accadere è confermato da 2,26, dove Paolo ribadisce, con ancora maggiore chiarezza, lo stesso principio. La protasi di Rm 2,14a, pur senza fare considerazioni circa l’estensione e le modalità di questo fenomeno, lo ritiene possibile e reale. D’altra parte, se così non fosse, quanto Paolo afferma nell’apodosi del periodo sarebbe senza valore, come senza valore sarebbe tutta l’argomentazione di Rm 2. La falsa sicurezza dei giudei si basa non solo sulla loro conoscenza della legge, ma sulla prerogativa di possederla come codice scritto, che garantisce loro un particolare 69 In questo testo si dice: « Io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi (phylassesthai ta dikaio¯mata autou), le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso ».

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rapporto con Dio, a prescindere dal fatto che la pratichino o no. Di fronte a questa pretesa non è sufficiente affermare che anche i gentili conoscono la legge o qualcosa di simile. La loro sicurezza può essere scalzata solo se esiste qualcuno che, pur non possedendo la legge, la osserva in modo pieno, non come semplice ipotesi o come tentativo non riuscito, ma come una realtà oggettiva e constatabile. È quanto afferma Paolo chiamando in causa i « gentili onesti ». Costoro si distaccano non solo dagli altri gentili, ma anche da quei giudei che, per definizione, possiedono la legge senza praticarla. Sull’esempio di tali gentili, di cui altrove non esclude l’esistenza, l’Apostolo fa leva per richiamare alle loro responsabilità i giudei trasgressori. È così riaffermato nel modo più esplicito che, anche prima di Cristo e al di fuori di un rapporto esplicito con lui, pur nella situazione di peccato in cui è immersa tutta l’umanità, esistono persone moralmente rette, capaci di competere in questo con i giusti di Israele.

3. La « natura » (Rm 2,14.27) In Rm 2,14a compare in modo inaspettato il termine physei, « per natura ». L’uso di questa espressione sembra richiamare un importante tema della filosofia greca, specialmente stoica, che pone nella natura l’origine e la manifestazione della legge che regola l’universo. Per il mondo giudaico, invece, la legge viene da Dio, il quale l’ha manifestata a tutta l’umanità nella creazione, dopo il diluvio e sul monte Sinai, dove essa è diventata il sacro deposito di Israele. 252

Filone di Alessandria aveva già operato una fusione tra queste due diverse linee di pensiero identificando, contrariamente ai presupposti della filosofia stoica, la legge naturale dei filosofi con la legge di una nazione particolare, Israele, la quale però aveva come autore colui che era anche l’autore della natura. Si può attribuire un pensiero analogo anche a Paolo? Forse ritiene anch’egli che i gentili vengano a conoscenza degli elementi fondamentali della legge mosaica mediante il magistero della natura? In ogni caso, che cosa significa nel contesto l’espressione « per natura »?

a) Paolo fra i filosofi? Agostino di Ippona aveva inteso il termine physis di Rm 2,14 nel senso di « natura corretta mediante la grazia », in modo da rendere possibile l’affermazione secondo cui i gentili sono in realtà etnico-cristiani70. Tommaso d’Aquino, dopo avere accennato alla sentenza agostiniana, aggiunge: « Oppure può dirsi “naturalmente”, cioè mediante la legge naturale che mostra loro che cosa si deve compiere, secondo quanto dice il Salmo 4,7: “Molti dicono: Chi ci mostrerà il bene? Porta su di noi la luce del tuo volto, o Signore”, riferendosi alla luce della ragione naturale, nella quale c’è l’immagine di Dio »71.

70 Cfr. M. Lackmann, Vom Geheimnis der Schöpfung, pp. 96-111. Circa il concetto di legge naturale nei padri della Chiesa e l’influsso che su di esso ha esercitato la filosofia greca, cfr. R. Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino, Studio Domenicano, Bologna 2000. 71 Tommaso d’Aquino, Super epistolam ad Romanos lectura 2,3,216.

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Fra gli esegeti moderni questa interpretazione può dirsi praticamente comune. R. Cornely afferma ad esempio che Paolo « fa riferimento a due magisteri diversi che insegnano la legge, uno esterno, cioè la rivelazione soprannaturale, ascoltando la quale i giudei imparavano la legge, e uno interno, cioè la stessa natura razionale dell’uomo, dalla quale soltanto i gentili venivano istruiti quasi direttamente su ciò che è proprio della legge »72. M.-J. Lagrange dice ancora più esplicitamente che « la natura, cioè la luce della ragione naturale, in mancanza della legge, ha detto ai gentili che cosa dovevano fare ed evitare »; e più avanti aggiunge: « Oggi tutti gli esegeti sono d’accordo: i gentili, pur non avendo una legge scritta, hanno in se stessi il principio dell’obbligazione, quella legge naturale che Sofocle (Antigone) e Cicerone (Pro Milone) hanno espresso in modo ammirabile »73. Secondo O. Kuss, Paolo inserisce tacitamente la nozione di physis formulata dalla filosofia nel suo mondo ispirato all’AT: « Ciò che il giudeo può apprendere appieno dalle chiare parole della Scrittura, il gentile lo può attingere dalla natura (physei), mediante la coscienza della norma morale ispirata nella natura umana all’atto della sua creazione »74. Riferendosi al concetto greco della lex naturalis, G. Bornkamm afferma che « dal punto di vista teologico non si può dubitare neppure un attimo, nonostante le recenti contestazioni, che Paolo faccia proprio questo pensiero, così come non si può fare dell’Apostolo uno 72 R. Cornely, Commentarius in S. Pauli Apostoli Epistolas. I. Epistola ad Romanos, Lethielleux, Paris 1896, p. 135. 73 M.-J. Lagrange, Saint Paul: Épître aux Romains, p. 49. 74 O. Kuss, La lettera ai Romani, vol. I, p. 106.

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stoico », e porta come prima prova il fatto che Paolo utilizza « i due concetti paralleli di physis/nomos, i quali non sono affatto biblici, ma specificamente greci »75. Secondo J.W. Martens, « Paolo scrive sotto l’influsso della tradizione stoica, in modo particolare l’idea di legge di natura »76. Le numerose e autorevoli voci di coloro che vedono nel termine natura un riferimento alla filosofia naturale dei greci non devono essere sottovalutate. Tuttavia, l’ipotesi di una dipendenza di Paolo da questo ambiente culturale deve essere precisata alla luce dell’uso che egli fa di questa terminologia nel resto del suo epistolario.

b) La « natura » nell’epistolario paolino Il termine physis (natura), formulato nelle scuole filosofiche greche, al tempo di Paolo apparteneva ormai al linguaggio corrente e usuale, nel quale significava ciò che è innato in antitesi a quanto è frutto di studio o di esperienza, ciò che è spontaneo, indipendente, in opposizione a ciò che è positivamente comandato77. Paolo ne fa uso nel suo epistolario ben 10 volte, alle quali bisogna aggiungere Rm 1,26.27 in cui appare l’aggettivo physikos78. 75 G. Bornkamm, Gesetz und Natur (Röm 2,14-16), in Id., Studien zu Antike und Christentum - Gesammelte Aufsätze, vol. II (BEvTh 28), Kaiser, München 3 1970 , pp. 93-118, qui 101. Sulla stessa linea, cfr. M. Pohlenz, Paulus und die Stoa, in ZNW 42 (1949) 69-104; W. Kranz, Das Gesetz des Herzens, in Rhein. Museum für Philologie 94 (1951) 222-241; F. Kuhr, Röm 2,14f. und die Verheissung bei Jeremia 31,31ff., in ZNW 55 (1964) 243-261. 76 J.W. Martens, Romans 2,14-16: A Stoic Reading, in NTS 40 (1994) 55-69, qui 66. 77 A. Bonhöffer, Epiktet und das Neue Testament, Töpelmann, Giessen 1911, p. 148. 78 Cfr. H. Köster, Physis, in GLNT 15,260-274.

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È giusto, quindi, porsi la domanda se l’Apostolo, quando lo utilizza nel suo epistolario, si ispiri al linguaggio filosofico oppure a quello corrente. Al di fuori delle lettere sicuramente autentiche di Paolo, si fa uso del termine natura solo in Ef 2,3, dove si dice che prima della loro conversione a Cristo anche i giudei, come i gentili, erano « per natura » (physei) figli dell’ira. È chiaro che l’autore non vuole qui affermare che gentili e giudei fossero sottoposti alla condanna divina in forza della « natura » in senso proprio, ma semplicemente perché si trovavano al di fuori del piano salvifico di Dio rivelato da Cristo (cfr. Ef 2,5)79. Nelle lettere autentiche il termine natura appare in 1Cor 11,14-15, dove si dice che « la natura stessa ci insegna che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere ». Qui l’Apostolo intende per natura la consuetudine seguita spontaneamente nella società greca. Il significato che gli attribuisce è dunque ben lontano da quello inteso dagli stoici, i quali anzi definivano la natura come ragione suprema, la cui legge si distacca nettamente dalle leggi e consuetudini dei singoli popoli, anzi spesso si oppone a esse 80. Nella Lettera ai Galati l’Apostolo afferma: « Noi siamo per natura (physei) giudei, e non peccatori dai gentili (ex ethno¯n) » (Gal 2,15). Stando alla convinzione giudaica, in 79

H. Schlier, La lettera agli Efesini (CTNT X/2), Paideia, Brescia 19732,

p. 129. 80 A. Bonhöffer, Epiktet und das Neue Testament, p. 147; J.L. McKenzie, Natural Law in the New Testament, in BR 9 (1964) 3-13, contro C.H. Dodd, Natural Law in the New Testament, in Id., New Testament Studies, University Press, Manchester 1953, pp. 129-142.

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base alla quale i giudei sono il popolo dei giusti mentre i gentili sono semplici peccatori, basta che uno appartenga al popolo giudaico « per natura », cioè in forza della sua origine (« per nascita », secondo le traduzioni correnti), per essere partecipe dei privilegi di Israele e per non avere nulla a che fare con i gentili peccatori. Anche qui il termine physis indica ciò che è originario, innato, senza alcun riferimento alla natura razionale dei filosofi stoici. Nella stessa lettera Paolo dice che i galati, prima della loro conversione, « ignoravano Dio e veneravano quelli che per natura (physei) non sono dèi » (Gal 4,8): ciò significa che gli dèi dei gentili non sono in se stessi vere divinità, e perciò non compete loro quel culto che spetta all’unico vero Dio. Anche qui il termine natura è usato in senso popolare, per designare qualcosa che è originario, innato, senza alcuna connotazione filosofica. L’uso più frequente del termine « natura » si trova nella Lettera ai Romani. In Rm 11,21-24 i giudei sono detti rami « naturali » (kata physin) della radice santa, cioè del popolo eletto: proprio in quanto tali, per la loro origine, essi sono i depositari dell’alleanza e delle promesse, di modo che anche quando si sono separati dalla radice santa, mantengono con essa una affinità che ne rende « naturale » (kata physin) il reinserimento. Il gentile invece per la sua stessa natura (kata physin) appartiene all’olivo selvatico, non ha nulla cioè a che fare con l’olivo domestico, il popolo di Dio, nel quale può essere innestato solo contro natura (para physin), venendo meno quindi alle sue caratteristiche specifiche di gentile. Il termine physis non implica dunque un riferimento alla natura razionale dei filosofi, ma è usato per indicare (come in Gal 2,15 e 257

in 4,8) ciò che è normale o originario dal punto di vista della storia della salvezza. In Rm 1,26.27 Paolo designa l’omosessualità come una pratica « contro natura » (para physin), mentre usa l’espressione « uso naturale » (physike¯ kre¯sis) per indicare l’uso dei sessi che corrisponde alle loro caratteristiche biologiche81. Per lui, l’omosessualità simboleggia quel capovolgimento di valori insito nell’idolatria (cfr. il testo sopra citato del Test.Neftali 3,3-4). Essa è peccato, perché da una parte va contro la struttura biologica dell’essere umano, e dall’altra perché è espressione della « passione » (pathos) che si manifesta nel « desiderio » perverso (epithymia), nella quale il giudaismo aveva visto la trasgressione di tutta la legge (Es 20,17; Dt 5,21; cfr. Rm 7,7). Nonostante la terminologia filosofica, Paolo si riferisce solo remotamente al pensiero degli stoici, per i quali la natura coincide con la ragione e non con le strutture biologiche dell’essere umano; d’altronde, non è certo che per essi l’omosessualità fosse un vizio « contro natura »82. Anche in questo caso l’Apostolo usa i termini natura, naturale più nel senso comunemente inteso che in quello più propriamente filosofico. Tuttavia, bisogna riconoscere nella terminologia da lui adottata un tentativo di dialogare con la cultura greca, per la quale la moralità dipendeva esclusivamente dalla natura razionale. 81 Sul tema dell’omosessualità nella Bibbia, cfr. Th. Römer - L. Bonjour, L’omosessualità nella Bibbia e nell’Antico vicino Oriente, Claudiana, Torino 2007; I. Himbaza - A. Shenker - J.-B. Edart, L’omosessualità nella Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2007. Per un più ampio status quaestionis, cfr. R. Penna, Lettera ai Romani, vol. I, pp. 192-198. 82 Cfr. J.W. Martens, Romans 2,14-16: A Stoic Reading, in NTS 40 (1994) 55-69, qui 57, il quale tuttavia ammette l’influsso stoico su queste affermazioni di Paolo.

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Dai testi in cui Paolo fa uso del termine « natura » appare che questo, come in diversi altri casi, ha perso il significato tecnico originario e ne ha assunto uno più generico, conforme agli usi del linguaggio comune. Qui la « natura » viene a designare ciò che è una caratteristica individuale di ciascuno. Ciò che il giudeo, l’incirconciso, il gentile, l’uomo e la donna sono e fanno in quanto tali, cioè per le loro caratteristiche innate e per il posto che occupano nella società o nella storia della salvezza, essi lo fanno physei, cioè in forza del loro stesso essere. Il rapporto tra questo uso del termine e quello filosofico è dunque piuttosto vago e generico, ma non per ciò meno significativo.

c) Rm 2,14a.27: un ponte con la filosofia I testi sopra esaminati aiutano in modo determinante a precisare l’uso paolino del termine natura nei due testi paralleli di Rm 2,14a e 2,27. Anzitutto conviene esaminare Rm 2,27, dove i gentili sono designati con l’espressione he¯ ek physeo¯s akrobystia, letteralmente « l’incirconcisione (derivante) da natura ». A prima vista, sembra che Paolo si riferisca qui al fatto « fisico » della incirconcisione, in quanto nel versetto seguente parla di una circoncisione « visibile » (en to˛¯ phanero˛¯ ), « nella carne » (en sarki). Tuttavia è chiaro che l’Apostolo intende qui alludere semplicemente al fatto che i gentili, proprio per la loro origine e per il posto che occupano nella storia della salvezza, sono degli incirconcisi, non hanno parte al privilegio della circoncisione che è proprio di Israele e fa di esso il popolo dell’alleanza. 259

Venendo a Rm 2,14, l’espressione avverbiale « per natura » potrebbe riferirsi sia a quanto precede (i gentili « che per natura non hanno la legge ») sia a quanto segue (i gentili « per natura fanno le cose della legge »). Nel primo caso, il ricorso alla « natura » non farebbe altro che sottolineare il fatto che i gentili, in quanto tali, sono privi della legge. Secondo questa interpretazione, l’espressione « per natura » avrebbe lo stesso significato che riveste negli altri testi in cui Paolo se ne serve: quando i gentili, che non hanno la legge, compiono in quanto tali, cioè in quanto gentili, ciò che la legge prescrive, allora essi, che non hanno la legge, sono legge a se stessi 83. Paolo farebbe quindi ricorso al termine physei per sottolineare che si appella a persone che, per la loro condizione specifica, sono privi della legge mosaica come codice scritto, in antitesi ai giudei, ai quali la legge appartiene per un privilegio conferito loro da Dio stesso. D’altra parte, è significativo il fatto che proprio in 2,27, un testo non solo molto vicino, ma anche strettamente parallelo a 2,14a, l’espressione « per natura » qualifichi non il comportamento, ma il fatto che i gentili non siano circoncisi84. Tuttavia, dal punto di vista sintattico, la seconda ipotesi, che collega physei con poio¯si, è la più probabile, in quanto la forma avverbiale si collega spontaneamente con il verbo seguente. In questo caso, però, è difficile spiegare che cosa significhi « fare per natura le cose della legge ». È superfluo sottolineare che in questo contesto, 83 F. Flückiger, Die Werke des Gesetzes bei den Heiden (Röm 2,14ff.), in ThZ 8 (1952) 17-42, qui 31. 84 Per una valutazione di questa interpretazione, cfr. F.-J. Leenhardt, L’Épître aux Romains, p. 48, nota 2; J.A. Fitzmyer, La Lettera ai Romani, pp. 371-372.

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come d’altronde negli altri in cui è usato, il termine natura non ha nulla a che vedere con il tema della grazia che Dio conferisce per mezzo di Cristo, perciò non indica né la sua presenza (Agostino di Ippona), né la sua assenza (Pelagio). Siccome è impossibile pensare che Paolo indichi nella natura il motore del comportamento umano, bisognerebbe ritenere che egli consideri la natura come il magistero da cui i gentili ricevono le norme della legge che essi praticano. Il termine natura verrebbe così a esplicitare quanto affermato in Rm 1,20 e in 7,23 circa il ruolo della ragione nella scoperta della volontà di Dio e si ricollegherebbe a quanto è stato detto circa l’omosessualità in Rm 1,26-27. Questa ipotesi è suffragata dalla identificazione tra legge mosaica e legge naturale fatta propria da Filone e dalla presenza in Rm 2,15 del termine coscienza, che ha anch’esso chiare ascendenze filosofiche. Bisogna dunque concludere che probabilmente Paolo non dà al termine natura in Rm 2,14.27 un significato specificamente filosofico, ma si serve di esso, come di altri termini del suo vocabolario, quali libertà, immortalità, giustizia, prendendolo dal linguaggio popolare e adattandolo alle sue categorie ispirate all’AT e al giudaismo. Non si può però escludere che egli, anche se è convinto che in ultima istanza è Dio stesso che si è fatto conoscere adeguatamente a tutti, pensi a un modo naturale di conoscenza della volontà di Dio, messo a disposizione dei gentili. In questo caso bisognerebbe pensare che, sulla linea di Filone di Alessandria, Paolo abbia voluto gettare un ponte tra l’idea giudaica di rivelazione e quella greca di legge naturale, senza però addentrarsi più di tanto in un discorso di carattere filosofico. 261

4. Conclusione In Rm 2 Paolo si rivolge ai suoi connazionali che si vantano di possedere la legge e non la praticano, diventando così puri « ascoltatori della legge ». Essi non escludono di poter essere puniti se la trasgrediscono, ma vedono in essa una garanzia del perdono e della misericordia di Dio. Essi la considerano soprattutto come marchio della loro identità in quanto popolo di Dio, dotato di particolari privilegi. In questa prospettiva sono portati a mettere in primo piano le prescrizioni rituali a scapito dei comandamenti morali e soprattutto dell’amore verso il prossimo. Di conseguenza, una certa pratica minuziosa della legge può nascondere l’infedeltà più grave alla volontà di Dio, non diversa da quella che pervade il mondo dei gentili. Paolo lo sottolinea accusando i giudei di fare esattamente quello che condannano negli altri, anche se la fattispecie può essere diversa. Per smuovere la falsa sicurezza dei suoi connazionali, l’Apostolo non trova di meglio che portare loro l’esempio di gentili i quali invece, pur non possedendo la legge come codice scritto, ne praticano le prescrizioni. Quale garanzia può offrire una legge posseduta e non osservata, dal momento che altri, senza possederla, la osservano? Il contrasto è stridente. Esso però può ottenere l’effetto desiderato solo nella misura in cui si tratta di un’osservanza non semplicemente ipotetica, ma piena e costante della legge da parte di persone che con la legge mosaica non hanno niente a che fare. Una osservanza saltuaria e parziale della legge non avrebbe alcun impatto sugli ascoltatori, perché essa non può mancare neppure fra i peggiori dei malfattori. 262

Questa interpretazione presuppone anzitutto la conoscenza da parte dei gentili della volontà di Dio, che per Paolo coincide con la legge mosaica in quanto si riassume nei comandamenti morali e in ultima analisi nel comandamento dell’amore. Egli dunque ha fatto proprie le spinte che in questo senso erano presenti nel giudaismo, facendo della legge di Dio una realtà priva ormai di connotati etnici, capace di illuminare tutti gli esseri umani nel loro rapporto con Dio e con i loro simili. Egli pensa a una rivelazione di questa legge fatta da Dio all’umanità, ma non esclude la mediazione della ragione e della natura, aprendo così una porta alla filosofia naturale dei greci. Il punto centrale di Rm 2,14a.26 non è però la semplice conoscenza della legge, già precedentemente affermata, bensì la sua osservanza da parte di gente che, secondo l’opinione di coloro a cui Paolo si rivolge, ne è totalmente incapace. Il fatto di portare l’esempio dei gentili onesti presuppone che a monte Paolo ammetta la possibilità che anche al di fuori del raggio d’azione di Cristo e della Chiesa esista una vera e oggettiva possibilità di praticare la volontà di Dio espressa nella legge. Di conseguenza, la sua affermazione secondo cui l’umanità prima di Cristo è immersa nel peccato, non deve essere presa alla lettera. Più che la descrizione di un fatto oggettivo si tratta di una metafora per indicare il ruolo centrale svolto da Cristo nella salvezza di tutta l’umanità. D’altronde, se la situazione fosse esattamente quella descritta dall’Apostolo non si potrebbe più parlare di libertà umana, e quindi neppure di peccato in senso stretto.

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VI

La salvezza dei gentili (Rm 2,14b-15.26b-29)

Nella protasi del periodo contenuto in Rm 2,14-16, Paolo ha evocato il caso di quei gentili che, in contrasto con la loro situazione di uomini privi della legge, non solo dimostrano di conoscerne le prescrizioni, ma anche le praticano in modo pieno e costante. Il discorso prosegue con l’apodosi che comprende due frasi: anzitutto Paolo afferma che tali gentili « sono legge a se stessi » (2,14b), e poi spiega che « essi manifestano l’opera della legge scritta nei loro cuori » (2,15a); infine, egli si appella alla testimonianza della loro « coscienza » (2,15b) e ai « pensieri che l’uno dopo l’altro accusano o anche difendono » (2,15c). In Rm 2,26-29 la struttura del discorso è molto simile. Alla protasi di 2,26a (« Se la non circoncisione osserva le prescrizioni della legge ») fa seguito un’apodosi in forma interrogativa: « La sua non circoncisione non verrà considerata come circoncisione? » (2,26b). A questa domanda si suppone una risposta affermativa. Perciò l’Apostolo prosegue (letteralmente): « E (così) la non circoncisione per natura che compie la legge giudicherà te che, nonostante la lettera e la circoncisione, sei un trasgressore della legge » (2,27). Infine, Paolo conclude con una frase in cui giustifica quanto affermato precedentemente: « In267

fatti, il giudeo non è (tale) all’esterno, né la circoncisione (è tale) nell’apparenza, nella carne; ma il giudeo (è tale) nel segreto, e la circoncisione (è quella) del cuore, nello spirito e non nella lettera; del quale (giudeo) la gloria non (è) dagli uomini ma da Dio » (Rm 2,28-29). Anche a proposito di questi versetti non mancano le difficoltà, originate soprattutto dal modo piuttosto enigmatico con il quale l’Apostolo procede nella sua argomentazione. I principali nodi esegetici sono i seguenti: 1) Le due espressioni parallele: « legge scritta nel cuore » (2,15a) e « circoncisione del cuore nello spirito e non nella lettera » (2,29) devono essere interpretate in riferimento a concetti filosofici o ai testi biblici riguardanti l’alleanza escatologica? 2) Che significato ha sempre nel v. 15a l’enigmatica espressione « opera della legge »? 3) Infine, qual è il ruolo della « coscienza » e dei logismoi a essa collegati (2,15bc)? Si rimanda invece al capitolo successivo l’esame del concetto di giudizio contenuto in 2,16.27.

1. La legge scritta nei cuori e la circoncisione del cuore (Rm 2,14b-15a.29) I gentili che, pur non avendo la legge, praticano la legge, « sono legge a se stessi » e « mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori » (Rm 2,15a); allo stesso modo i non circoncisi che osservano la legge, pur non avendo la circoncisione, appaiono ugualmente dotati di essa, in quanto hanno la vera circoncisione, quella del cuore, 268

nello spirito e non nella lettera (vv. 26b.29). Ora, nei due casi si allude a tre importanti testi biblici: Ger 31,31-34; Ez 36,26-27 e Dt 30,6, di cui si è parlato ampiamente a proposito dello sfondo biblico del testo paolino. Paolo intende veramente affermare che nei gentili in questione si adempiono le promesse fatte da Dio a Israele e che, di conseguenza, essi conseguono la salvezza? A prima vista sembrerebbe di dover dare una risposta affermativa, ma molti studiosi lo negano.

a) La salvezza prima di Cristo: opinioni La sentenza secondo cui i gentili di cui si parla in Rm 2,14.29 conseguono la salvezza è molto antica. Essa è sostenuta nell’antichità da Giovanni Crisostomo, il quale afferma che, prima di Cristo, per ottenere la salvezza era sufficiente il rifiuto dell’idolatria e la conoscenza del vero Dio1. Questa interpretazione è sostenuta da Tommaso d’Aquino (1227-1274) il quale, nel suo commento alla Lettera ai Romani, per evitare che l’avverbio naturaliter sia preso in senso pelagiano, ricorda ancora la sentenza secondo cui Paolo si riferirebbe a gentili convertiti al cristianesimo. Poi però continua: « Ma si può dire “naturalmente” cioè mediante la legge naturale che mostra loro che cosa si deve fare. (...) E tuttavia non si esclude che sia necessaria la grazia per muovere l’affetto ». E di 1 Cfr. PG 67,416-417. Ciò che ha reso possibile questa posizione è stata la convinzione, espressa da Giovanni Crisostomo in questo contesto e poi rimasta viva nei secoli successivi, secondo cui per la salvezza dell’umanità prima di Cristo era sufficiente la fede esplicita in un solo Dio.

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conseguenza subito dopo riconosce espressamente che in Rm 2,15 si afferma l’attuazione per questi gentili della profezia di Ger 31,332. Dello stesso parere è stata la maggior parte dei commentatori durante il Medioevo3. Nei successivi secoli XVI-XVIII, in campo cattolico, resta preponderante l’opinione secondo cui Paolo parla di veri gentili che ottengono la salvezza, e si afferma la tendenza a includere in questa categoria anche i non evangelizzati vissuti dopo Cristo. In campo protestante, invece, si fa strada, anche se non esclusivamente, l’idea che si tratti veramente di gentili, i quali però non hanno raggiunto la salvezza4. È solo nei secoli XIX-XX che in ambiente sia cattolico che non cattolico si diffonde, anche se non in modo esclusivo, la convinzione secondo cui Paolo non parla della salvezza dei gentili prima di Cristo, mentre appare occasionalmente l’ipotesi che i gentili siano in realtà etnico-cristiani5. Ai nostri giorni, l’idea secondo cui Paolo considera il caso di gentili che non conseguono la salvezza è preponderante, mentre fa capolino qua e là l’ipotesi che vede nei gentili gli etnico-cristiani6. Perciò solo una minoranza di studiosi ammette senza difficoltà che Paolo si serva delle profezie escatologiche nel loro significato originario: ma 2 Tommaso d’Aquino, Super epistolam ad Romanos lectura 3,216-218 (edizione a cura di R. Cai, 2 voll. Marietti, Torino 19538), vol. I, p. 39. 3 Si vedano, a questo proposito, la documentazione riportata da J. Riedl, Das Heil der Heiden, pp. 30-74, e la sintesi a pp. 75-79. 4 J. Riedl, Das Heil der Heiden, pp. 81-130. 5 J. Riedl, Das Heil der Heiden, pp. 131-172. 6 Su questa linea si situano, ad esempio, A.Viard, Le problème du salut dans l’épître aux Romains, in RSPhTh 47 (1963) 3-34; 373-397; A. Ito, Romans 2: A Deuteronomistic Reading, in JSNT 59 (1995) 21-37; N.T. Wright, The Law in Romans 2, in J.D.G. Dunn (ed.), Paul and the Mosaic Law (WUNT 89), MohrSiebeck, Tübingen 1996, pp. 131-150.

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si tratta di coloro che identificano i gentili / non circoncisi in questione con gli etnico-cristiani7. La maggior parte degli studiosi, invece, pur ritenendo che Paolo abbia di mira gentili in senso proprio, non ammette che egli attribuisca loro una vera e oggettiva pratica della legge. In Rm 2,12 Paolo avrebbe prospettato una condanna che colpisce tutti i peccatori, siano essi gentili o giudei. Ma perché questa possa colpire i gentili, si richiede che anch’essi, come i giudei, conoscano sufficientemente la volontà di Dio contenuta nella legge. Questo perché, come Paolo affermerà in seguito, « è la legge che opera l’ira; dove non c’è legge non c’è neppure trasgressione » (4,15). Perciò si ritiene che in 2,14-15 egli abbia voluto dimostrare che anche i gentili conoscono la legge, in quanto ne compiono (a volte e solo parzialmente) le prescrizioni; essi per principio non posseggono questa legge, ma dalle loro buone azioni si può arguire che essa è scritta nel loro cuore. Se questo è lo scopo a cui tende l’argomentazione dell’Apostolo, non c’è spazio in Rm 2,15a per una utilizzazione di Ger 31(LXX 38),33 nel senso inteso dal profeta, il quale evidentemente non parla di una semplice conoscenza della legge, ma di un intervento escatologico di Dio che ha come scopo il rinnovamento interiore del suo popolo. Di conseguenza, molti studiosi ignorano o escludono formalmente che l’Apostolo abbia inteso ispirarsi a essa. O. Kuss afferma esplicitamente che « sarebbe errato credere che il senso del passo di Geremia sia qui riprodot7 Si veda S.J. Gathercole, A Law unto themselves: The Gentiles in Romans 2.14-15 Revisited, in JSNT 85 (2002) 27-49, le cui osservazioni sono pertinenti, ma non portano necessariamente, come egli pensa, alla tesi secondo cui i gentili di Rm 2,14 sono in realtà etnico-cristiani.

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to; qui infatti non si tratta di un intervento miracoloso ed escatologico di Dio, ma – come già in Rm 1,19.20 – di funzioni, capacità e doti dell’uomo in quanto tale »8. Anche S. Lyonnet, nel suo commento della BJ, è stato piuttosto reticente, ma successivamente ha riconosciuto l’utilizzazione delle profezie della nuova alleanza per lo meno in 2,29 e afferma che la seconda pericope (2,25-29) illumina retrospettivamente il senso della prima (2,12-16)9. Il testo di Geremia non è citato nelle referenze marginali a proposito di Rm 2,15, sia nell’edizione critica di E. Nestle10 che in quella di A. Merk11. F. Kuhr afferma: « Se Paolo voleva riferirsi, cosa che io non credo, a Ger 31,33, egli ha dato a questo testo un nuovo significato in funzione del concetto di legge naturale »12. Secondo O. Michel, Paolo « certo non pensa espressamente a Ger 31,33, sebbene possa trovarsi una somiglianza esterna nel modo di esprimersi. Ma mentre là si tratta della promessa escatologica di Dio a Israele, qui ci troviamo davanti a un apprezzamento greco-ellenistico del gentile, che ritrova nel suo cuore qualcosa di somigliante alla legge mosaica »13. G. Bornkamm afferma testualmente: « Sebbene la rassomiglianza sia sorprendente, ritengo improbabile una O. Kuss, La lettera ai Romani, vol. I, p. 101. S. Lyonnet, Les Épîtres de Saint Paul aux Galates et aux Romains (BJ), Cerf, Paris l966, p. 78; Id., Le « païen » au coeur circoncis ou le « chrétien anonyme » selon Rom. 2:29, in Id., Études sur l’Épître aux Romains (AnBib 120), PIB, Roma 1989, pp. 71-88, qui 82. 10 E. Nestle - K. Aland, Novum Testamentum Graece, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 196325. La citazione laterale di Ger 31,33 si trova invece nelle edizioni successive (198427). 11 A. Merk, Nuovo Testamento greco e italiano (a cura di G. Barbaglio), EDB, Bologna 1990, p. 514. 12 F. Kuhr, Röm 2,14f. und die Verheissung bei Jeremia 31,31ff., in ZNW 55 (1964) 243-261, qui 260. 13 O. Michel, Der Brief an die Römer, p. 83. 8 9

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utilizzazione cosciente del testo anticotestamentario, poiché Ger 31(LXX 38),33 ha per Paolo nel suo contenuto un significato troppo importante (cfr. 2Cor 3,3.6; 1Cor 11,25) »14. A. Pitta riconosce l’allusione a Ger 31,31-34 e a Ez 11,19-21, ma sottolinea che « anche in questo caso Paolo ha presenti le rilevanze naturali della Legge »15. Questa posizione è condivisa con diverse sfumature da numerosi studiosi16. Secondo R. Penna, « vanno fatte valere alcune obiezioni che si oppongono al richiamo o almeno alla portata determinante di questo testo profetico »17. Mentre trascurano o escludono un riferimento positivo alla profezia di Geremia, i commentatori illustrano volentieri Rm 2,15 con espressioni ricavate da Sofocle, da Aristotele e dagli stoici. Pur escludendo una dipendenza diretta di Paolo da tali sistemi filosofici, sembra loro incontestabile che egli abbia fatto propria un’idea da essi elaborata, naturalmente adattandola all’insieme del suo pensiero18. Anche Rm 2,29 è commentato il più delle volte in modo tale da escludere ogni riferimento alle profezie escatologiche. Partendo dalla considerazione secondo cui l’antitesi « lettera » e « spirito », presa in senso stretto, non si adatta per nulla (keineswegs passt) al complesso di 14 G. Bornkamm, Gesetz und Natur (Röm 2,14-16), in Id., Studien zu Antike und Christentum, pp. 93-118, qui 107. 15 A. Pitta, Lettera ai Romani, p. 117. 16 F. Godet, Commentaire sur l’Épître aux Romains, Sandoz & Thuillier, 2 Paris 1883 , p. 280; P. Althaus, La Lettera ai Romani (Nuovo Testamento 6), Paideia, Brescia 1970, p. 51. 17 R. Penna, Lettera ai Romani, vol. I, p. 240. 18 Cfr. M.-J. Lagrange, Saint Paul: Épître aux Romains, p. 49; F.-J. Leenhardt, L’Épître aux Romains, p. 48, nota 3; J. Riedl, Das Heil der Heiden, p. 203; G. Bornkamm, Gesetz und Natur (Röm 2,14-16), in Id., Studien zu Antike und Christentum, pp. 93-118, qui 106-108.

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idee proprio di questa prima parte della lettera, O. Kuss ritiene che sia necessario « ridurre opportunamente la nozione di “spirito” ». Di conseguenza, egli riporta come possibili tre diverse interpretazioni: 1) Paolo parlerebbe di una circoncisione dell’ordine dello spirito che si oppone al compimento di una formalità legale scritta; 2) la circoncisione del cuore nello spirito sarebbe il moto interiore di una gioiosa dedizione, opposto all’obbedienza imposta dall’esterno mediante una legge scritta; 3) infine, la circoncisione del cuore nello spirito sarebbe l’effetto dello spirito di Dio così come se ne parla o se ne potrebbe parlare nell’AT. E respinge, invece, altre tre interpretazioni: 1) quella secondo cui Paolo designerebbe il semplice spirito umano; 2) quella che riferisce tutto il contesto al giudeo che ha sperimentato la realizzazione delle profezie dell’AT ricevendo lo spirito che animava la comunità cristiana; 3) quella secondo cui si parlerebbe già dell’infusione del superiore elemento vitale divino, della comunicazione della grazia santificante. E conclude: « Non bisogna mai dimenticare che per l’Apostolo, la vera salute si ha solo per mezzo di Gesù Cristo; anche qui, pertanto, è impossibile che egli abbia voluto dire che i pagani hanno compiuto la legge senza di lui »19. Secondo E.P. Sanders, il termine spirito si contrappone a carne, e di conseguenza, poiché « carne » indica 19

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O. Kuss, La lettera ai Romani, vol. I, pp. 128-129.

l’aspetto fisico dell’uomo, anche lo « spirito » va inteso come una facoltà umana20. Siccome il riferimento alle profezie bibliche non è facilmente eliminabile da questo testo, non mancano coloro che, pur affermando che in Rm 2,14 si parla di veri gentili, ritengono che in 2,27.29 Paolo si riferisca agli etnico-cristiani21. A. Pitta riconosce che qui un riferimento agli oracoli di Ger 31,31-34 e di Ez 36,25-27 non sia del tutto eliminabile, ma prosegue: « Anche se forse Paolo riutilizzerà questi oracoli profetici in Rm 8,2-4, non significa che ora stia pensando agli etnico-cristiani ma agli stessi giudei che si lasciano guidare dallo spirito e non dalla lettera ». E soggiunge: « In Rm 2,29 il sostantivo pneuma si riferisce allo Spirito di Dio, ma senza ancora la connotazione cristologica di cui Paolo tratterà in 5,1 - 8,39 »22. Al termine di questa panoramica, bisogna riconoscere che oggi è preponderante la sentenza secondo cui i gentili di cui parla Paolo in Rm 2,14-15 che in 2,26-29 non raggiungono la salvezza. Questa convergenza di interpretazioni non è che la logica conseguenza del principio ammesso esplicitamente o implicitamente dagli studiosi, in base al quale, trattandosi di semplici gentili, e per di più nel quadro di una sezione in cui si parla dell’uomo prima e fuori di Cristo, Paolo non può riconoscere loro se non un’attività conoscitiva puramente naturale. Ma si tratta di un’opinione relativamente recente, in contrasto con l’in20 E.P. Sanders, Paolo, la legge e il popolo giudaico (StBi 86), Paideia, Brescia 1989, pp. 212-213. In realtà, il termine carne si contrappone a cuore, mentre spirito è in antitesi a lettera. 21 Cfr., ad esempio, H. Schlier, La Lettera ai Romani, p. 162 22 A. Pitta, Lettera ai Romani, p. 133. A questa posizione si associa anche R. Penna, Lettera ai Romani, vol. I, 265.

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terpretazione comune fino al secolo XVIII, e per di più basata su un pregiudizio. Quando questo viene a cadere, l’interpretazione antica appare come l’unica sostenibile.

b) Le promesse escatologiche nell’epistolario paolino Le profezie riguardanti la trasformazione escatologica del cuore del popolo hanno esercitato un influsso determinante sul NT. Anche se sono citate raramente in modo esplicito23, esse hanno fornito la più importante chiave interpretativa dell’opera svolta da Gesù in funzione della vita della comunità cristiana. Paolo soprattutto dimostra una grande familiarità con i testi profetici, che usa, secondo il metodo, già adottato nel giudaismo, della gezerah shawah, cioè considerandoli come un insieme unitario da cui ricava via via quegli spunti che gli sono necessari24. Ovviamente non ne parla in funzione dei gentili o dei giudei non credenti in Cristo, ma il linguaggio che egli usa è di grande aiuto per interpretare le affermazioni contenute in Rm 2,14b-15a.29. Nell’epistolario paolino l’espressione « nuova alleanza », tipica di Ger 31(LXX 38),31-34, appare solo in 2Cor 3,6.10 e nel racconto dell’istituzione della cena, dove l’Apostolo riferisce che riguardo al calice Gesù ha detto: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue » (1Cor 11,25). Tuttavia il testo di Geremia è ben noto a Paolo che se ne serve, congiuntamente con Ez 36,27-28, per elaborare il suo pensiero in alcuni punti chiave del suo epistola23 24

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L’unica eccezione vistosa si trova nella Lettera agli Ebrei (8,8-12; 10,16-17). C.K. Stockhausen, Moses’ Veil, p. 36.

rio (1Ts 4,8.9; 2Cor 3,1-14); una volta sola (Fil 3,3) Paolo utilizza invece il testo di Dt 30,6 in congiunzione con Ez 36,26-27, ma a esso allude in Rm 5,5. Soprattutto interessante è l’uso che fa delle profezie di Geremia e di Ezechiele in Rm 7,6; 8,2, due testi molto vicini a Rm 2,29 25. Il dono dello Spirito (1Ts 4,8-9). Nella parte della lettera in cui affronta i problemi pratici della comunità, Paolo pone l’accento sulla santità, verso la quale tutti devono tendere e conclude affermando che Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perciò, egli aggiunge: « Chi disprezza (queste cose) non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona (didonta) il suo santo Spirito » (1Ts 4,8). Con queste parole Paolo supera il concetto di direttive imposte dall’esterno, che il credente sarebbe costretto a praticare, e attribuisce il suo operare allo Spirito che dimora dentro di lui, al punto tale che, se disobbedisce alle sue direttive non disprezza un uomo, cioè l’Apostolo che ha annunziato il vangelo a Tessalonica, ma Dio stesso. Questa idea si rifà remotamente a Ger 31,33, in quanto suppone una interiorizzazione della legge, e direttamente a Ez 36,27, dove si promette il dono dello Spirito che guida e sostiene l’agire umano. L’Apostolo poi prosegue: « Riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti siete istruiti da Dio (theodidaktoi) per amarvi gli uni gli altri » (1Ts 4,9). Il concetto di una « istruzione che viene da Dio » si rifà direttamente a Is 54,13, ma un pensiero analogo si trova anche in Ger 31, 34 (« Non do25 A questi testi bisognerebbe aggiungere quelli in cui si afferma l’intima fusione tra Cristo e il credente (cfr. Gal 2,20-21; Fil 1,21; Col 1,26-27).

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vranno più istruirsi gli uni gli altri dicendo: riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande »); inoltre, l’idea di un amore insegnato da Dio si rifà a Dt 30,6, mentre il collegamento al versetto precedente, in cui si parla dello Spirito, mostra che è ancora operante il riferimento a Ez 36,27. Nella più antica lettera di Paolo l’utilizzo delle profezie escatologiche è già chiaramente abbozzato. I veri circoncisi (Fil 3,3). Questo testo si trova all’inizio della sezione polemica della Lettera ai Filippesi. Paolo mette in guardia i destinatari nei confronti dei predicatori giudaizzanti, chiamandoli con l’appellativo di katatome¯, « mutilazione »: è questa un’espressione sarcastica per squalificare il loro amore per la circoncisione, vista anzitutto sotto l’aspetto fisico. In contrasto con loro, egli afferma: « Siamo noi infatti la (vera) circoncisione (peritome¯), noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne ». Applicato a persone non circoncise fisicamente, il termine circoncisione richiama chiaramente la profezia di Dt 30,6, in cui si parla di « circoncisione del cuore ». Il riferimento allo Spirito è invece una palese allusione a Ez 36,27. La legge della nuova alleanza (2Cor 3,1-14). Questo testo si situa all’inizio della prima sezione apologetica della lettera (2Cor 2,14 - 7,4). In essa Paolo riafferma il compito e l’autorità che gli competono in quanto apostolo in rapporto alle comunità da lui fondate26. Nell’introduzio26

Su questo brano, cfr. C.K. Stockhausen, Moses’ Veil, pp. 71-122; M. Carrez,

ΙΚΑΝΟΤΗΣ: 2Co 2,14-17, in L. De Lorenzi (ed.), Paolo ministro del Nuovo Testamento

(2Co 2,14 - 4,6) (Serie monografica di « Benedictina » 9), Benedictina, Roma 1987,

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ne, composta in prima persona plurale, l’Apostolo ringrazia Dio perché in Cristo lo « fa partecipare al suo trionfo » diffondendo per mezzo suo il « profumo della sua conoscenza », che diventa odore di morte per quelli che si perdono e odore di vita per quelli che si salvano. Di fronte a tale compito, Paolo si sente inadeguato ed esclama: « Chi è all’altezza di queste cose? ». E conclude: « Noi non siamo infatti come quei molti che mercanteggiano la parola di Dio, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo » (2Cor 2,14-17). Dopo questa introduzione, Paolo si pone due interrogativi: « Cominciamo forse di nuovo a raccomandare noi stessi? O forse abbiamo bisogno, come altri, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra? » (2Cor 3,1). Egli continua a usare la prima persona plurale, riferendosi però unicamente a se stesso. Egli è consapevole che le sue parole potrebbero essere scambiate per una vuota polemica nei confronti dei suoi avversari, i quali si presentavano a una comunità con « lettere di raccomandazione » (systatikai epistolai) fornite da un’altra comunità precedentemente visitata. Perciò taglia corto e osserva di non avere bisogno di raccomandazioni, proprio perché ne ha una che nessun altro può esibire: « La nostra lettera (epistole¯) siete voi, lettera scritta (eggegrammene¯) nei vostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini » (3,2). Egli si riferisce alla comunità stessa di Corinto, la cui vita di fede rappresenta la migliore attestazione dell’autenticità apostolica di colui che l’ha fondata (cfr. 1Cor 9,2-3). pp. 79-95; A. Sacchi, Il ministero della nuova alleanza (2Cor 3,1-18), in A. Sacchi (e coll.), Lettere paoline e altre lettere (Logos 6), LDC, Leumann (TO) 1996, pp. 351-368; A. Pitta, La seconda lettera ai Corinzi, Borla, Roma 2006, pp. 164-196.

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La metafora della comunità come lettera suggerisce a Paolo una nuova riflessione, che formula in questo modo: « È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori » (2Cor 3,3). Questa frase è comprensibile solo alla luce dei testi biblici riguardanti l’alleanza escatologica27. La comunità di Corinto è una lettera « di Cristo », in quanto è Cristo che l’ha chiamata all’esistenza conferendole la salvezza. Questa lettera però è stata « composta » (diakone¯theisa) da Paolo, nel senso che Cristo ha dato origine alla comunità servendosi di lui come di uno strumento (diakonos, ministro). Il fatto che la comunità/ lettera sia scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente è un riferimento a Ez 36,27, in cui si parla dell’effusione dello Spirito di JHWH nel cuore degli israeliti, letto nella prospettiva di Ez 37,1-14, dove appare che lo Spirito è portatore di una vita nuova al popolo esiliato. La comunità/lettera non è scritta su « tavole di pietra » (en plaxin lithinais) come era avvenuto, secondo la tradizione sinaitica, e in particolare Es 34,29-35, per la legge mosaica. In quanto lettera di Cristo, la comunità è scritta invece « su tavole (che sono) cuori di carne » (en plaxin kardiais sarkinais). In questa espressione il termine tavole è mutuato dalla tradizione sinaitica a cui Paolo ha appena alluso; invece lo scrivere « sui cuori » rappresenta un’allusione a Ger 31,33; l’aggettivo « di carne » deriva invece da 27 Cfr. W.C. van Unnik, La conception paulinienne de la nouvelle alliance, in A. Descamps (ed.), Litterature et theologie pauliniennes (Rechercehes Bibliques 5), Desclée de Brouwer, Brussels 1960, pp. 109-126; Id., « He¯ kaine¯ diathe¯ke¯ », in F.L. Cross (ed.), Studia Patristica 4 (TU 79), Akademie Verlag, Berlin 1961, pp. 212-227.

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Ez 36,26-27, dove si parla appunto del « cuore di carne » che è sostituito al cuore di pietra. I corinzi sono quindi per Paolo una lettera di raccomandazione impareggiabile, in quanto egli solo ha il merito di avere reso possibile la loro partecipazione alla salvezza finale promessa dai profeti, e attuata da Dio mediante Cristo. Alla loro comunità, la cui esperienza cristiana è nota a tutti, egli può appellarsi per dimostrare l’autenticità del suo apostolato. Quanto Dio ha realizzato a Corinto per opera di Paolo è per lui fonte di grande serenità e fiducia: « Questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio » (2Cor 3,4). La fiducia dell’Apostolo non deve essere scambiata per autosufficienza, perché essa gli viene da Dio per mezzo di Cristo. Per eliminare ogni malinteso su questo punto egli prosegue: « Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una nuova alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita » (2Cor 3,5-6). Paolo è stato lo strumento di cui Cristo si è servito per conferire la salvezza ai corinzi, rendendolo capace di essere « ministro » (diakonos) non della prima, ma della « nuova alleanza » preannunziata da Geremia. E, come Mosè, anche lui è stato abilitato da Dio nel momento stesso in cui sulla via di Damasco è stato chiamato all’apostolato. Questa alleanza non si basa, come la precedente, su un documento scritto (gramma, « lettera », cioè la legge in quanto scolpita sulla pietra), ma sullo « Spirito » (pneuma) che Ezechiele aveva presentato come il marchio degli ultimi tempi (cfr. Ez 36,27). L’opera della lettera è antitetica a quella dello Spirito, in quanto essa « uccide » (apokteinei), 281

mentre lo Spirito « dà vita » (zo¯opoiei). Questo pensiero può essere stato suggerito nuovamente a Paolo dal fatto che Ezechiele, subito dopo la profezia riguardante il dono escatologico dello Spirito, racconta la visione delle ossa inaridite che riprendono vita appunto per opera dello Spirito (Ez 37,14). Il ruolo mortifero della lettera è invece affermato di riflesso, in base al carattere antitetico delle due economie e al fallimento storico della prima28. L’idea, già presente in 1Cor 15,56, sarà esplicitata in Rm 3,20; 7,7-13; 8,2. Il testo procede mediante un ragionamento a fortiori. Se il ministero della morte fu circonfuso di gloria, quanto più lo sarà il ministero dello Spirito? E conclude affermando, con un nuovo accenno esplicito alla profezia di Geremia, che se il « ministero della condanna » era glorioso, ora non lo è più a confronto della sovreminente gloria della nuova alleanza (2Cor 3,7-11). Per mancanza di franchezza Mosè si copriva il volto: questo velo, non ancora rimosso, impedisce ai giudei di scoprire Cristo nella lettura dell’« antica alleanza » (3,12-14). In sintesi, Paolo pensa alla comunità cristiana come al popolo di Dio degli ultimi tempi, nel quale si sono attuate le profezie di Geremia e di Ezechiele che ne annunziavano la trasformazione interiore con le immagini rispettivamente della legge scritta sul cuore e dell’infusione in esso dello Spirito. Per lui, i credenti in Cristo formano dunque a pieno titolo la comunità della nuova alleanza, mentre la sinagoga, ancora fissa sull’alleanza sinaitica, è designata retrospettivamente come l’« antica alleanza ». Questa è basata su una legge che, in quanto documento scritto all’esterno, 28

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Cfr. C.K. Stockhausen, Moses’ Veil, pp. 78-79.

è considerata come semplice « lettera » perché, in contrasto con lo Spirito, è incapace di influire sul cuore umano. « L’amore di Dio infuso nei cuori » (5,5). All’inizio di Rm 5, Paolo afferma che la giustificazione mediante la fede porta con sé, pur fra mille tribolazioni, un profondo senso di speranza. La speranza a sua volta non può deludere i credenti perché non si identifica semplicemente con l’attesa delle realtà future, ma dà fin d’ora la possibilità di farne una esperienza anticipata; a essa infatti si accompagna un altro importante frutto della fede, il dono dell’« amore (he¯ agape¯) di Dio », che è stato riversato nei loro cuori mediante lo Spirito santo « che è stato dato » (tou dothentos) loro. In questo testo Paolo si rifà ai due grandi precetti dell’alleanza, che esigono rispettivamente di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6,5), e di amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18). Egli li legge però alla luce delle tre profezie escatologiche. Il riferimento al dono dello Spirito richiama chiaramente Ez 36,27, mentre il fatto che lo Spirito sia « dato » allude non solo a questa profezia, ma anche a quella di Geremia (Ger 31,33), la quale entra in causa perché mediante lo Spirito è un precetto, riassuntivo di tutta la legge, a essere posto nel cuore dei credenti in Cristo. Infine, il tema dell’« amore di Dio » si rifà a Dt 30,6, dove appunto esso è il frutto della circoncisione del cuore 29. 29 Alla luce dei testi profetici che si trovano sullo sfondo di questo brano, l’« amore di Dio » non può avere solo un valore soggettivo (l’amore con cui Dio ama noi), come afferma R. Penna (Lettera ai Romani, vol. I, pp. 428-429), appoggiandosi al parere dei commentatori, « quasi unanimi nel parlare del solo genitivo soggettivo ». È invece più convincente l’ipotesi secondo cui anche qui, come nella maggior parte dei casi in cui utilizza il termine agape¯, Paolo lo usi con una valenza morale, come qualificazione del comportamento etico del credente.

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L’« amore di Dio » infuso nel cuore dei credenti è dunque l’amore che proviene da Dio, e suscita l’amore verso di lui e l’amore verso il prossimo. Esso è la legge della nuova alleanza, che non è più imposta dall’esterno ma viene incisa nel cuore mediante lo Spirito, in modo da provocare spontaneamente l’obbedienza alla volontà di Dio. La novità dello Spirito (7,6). In Rm 7,1-6 Paolo affronta direttamente il tema della « liberazione dalla legge ». In base alla similitudine della donna che, rimasta vedova, è liberata dalla legge che la teneva legata al marito, egli dichiara: « Anche voi, mediante il corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto alla legge, per appartenere a un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio » (7,4). Invece di spiegare come ciò abbia potuto realizzarsi, Paolo descrive la condizione del credente prima e dopo essere stato liberato dalla legge. Prima egli era nella carne e « le passioni peccaminose » (ta pathe¯mata to¯n hamartio¯n), mediante la legge (dia tou nomou), si scatenavano nelle sue membra, al fine di (eis) portare frutti per la morte. La percezione di una legge che ordina o proibisce è dunque caratteristica dell’uomo carnale, cioè debole e peccatore, che sperimenta in se stesso i desideri egoistici che lo conducono alla morte (cfr. 6,19). In questa tragica situazione la legge non serve a controllare le passioni, anzi finisce per diventarne essa stessa complice. Ora invece, essendo morti con Cristo, i credenti sono stati liberati (kaste¯rge¯the¯men, al passivo, suppone Dio come complemento di agente) dalla legge che li teneva prigionieri (7,6). Ciò rende loro possibile servire (Dio) « nel regime nuovo dello Spirito » (en kainote¯ti pneumatos, nella novità dello Spirito) e non « nel regime vecchio 284

della lettera » (palaiote¯ti grammatos, nella vecchiezza della lettera). Con queste parole l’Apostolo riprende l’antitesi « legge/Spirito » elaborata nel contesto della sua riflessione sulla nuova alleanza (cfr. 2Cor 3,6). Essa gli è suggerita dai due importanti oracoli profetici già richiamati in quel contesto (Ger 31,31-34 ed Ez 36,26-27). Rifacendosi a essi, Paolo identifica due momenti che si succedono l’uno all’altro nella storia della salvezza: il primo è quello antico, nel quale l’uomo era dominato da una legge che, essendo ridotta a puro documento scritto (gramma, lettera), gli indicava quello che doveva fare, senza però dargli la capacità di compierlo; l’altro è quello nuovo (nuova alleanza), nel quale lo Spirito, infuso ormai nel suo cuore, funge da legge interiore, capace cioè non solo di dirgli quello che deve fare, ma anche di spingerlo interiormente a compierlo. Il cristiano si trova ormai in questa nuova situazione, in quanto è stato liberato dalla legge intesa come gramma, e ha ricevuto mediante lo Spirito la possibilità di servire fedelmente il suo Dio30. La legge dunque, ridotta a semplice documento scritto a motivo del peccato in cui è caduto, non ha dato all’essere umano la possibilità di obbedire a Dio, anzi ha collaborato all’insorgere in lui delle passioni peccaminose, tenendolo così prigioniero di una situazione nella quale non poteva fare altro che opporsi a Dio. Ora invece le cose sono totalmente cambiate: avendo ricevuto dallo Spirito la possibilità di presentare a Dio quei frutti che questi si aspetta da lui, il credente è completamente liberato dalla legge e dalla sua tirannia. 30

Cfr. A. Pitta, Lettera ai Romani, pp. 265-266.

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« La legge dello Spirito della vita » (8,2). All’inizio di Rm 8, Paolo riprende il tema della liberazione del credente dalla legge (cfr. 7,1-6). Egli si introduce affermando che non c’è più condanna per quelli che sono in Cristo Gesù (Rm 8,1) e prosegue: « La legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte » (8,2)31. La legge del peccato e della morte è con ogni probabilità quella stessa che ha collaborato con il peccato a dare la morte all’uomo (cfr. 7,13)32. Il principio in forza del quale questa legge è stata eliminata è chiamato « legge dello Spirito (nomos tou pneumatos) ». Questa espressione non significa un nuovo « regime » caratterizzato dal dono dello Spirito, e neppure una legge dettata dallo Spirito, bensì una legge che è lo Spirito stesso (genitivo soggettivo), in quanto guida dell’uomo nella via dell’obbedienza a Dio. La designazione dello Spirito come « legge » si comprende alla luce delle profezie di Ger 31,31-34 e di Ez 36,25-28, utilizzate in stretto collegamento l’una con l’altra. Secondo il primo di questi testi, la fedeltà a Dio è attuata mediante una legge scritta da Dio nel cuore del popolo. Il secondo invece attribuisce allo Spirito, infuso nel cuore del popolo, il suo ritorno a Dio e l’obbedienza alla sua volontà. Dalla sovrapposizione dei due testi emerge che nei tempi escatologici sarà precisamente lo Spirito a svolgere nei credenti il ruolo di legge. 31 Cfr. S. Lyonnet, Rom 8,2-4 à la lumière de Jérémie 31 et d’Ézéchiel 35-39, in Id., Études sur l’Épître aux Romains, pp. 231-241. 32 L’espressione « legge del peccato e della morte » di Rm 8,2 potrebbe anche riferirsi a 7,23 (« Legge del peccato che è nelle mie membra »). In questo caso si tratterebbe forse non più della legge mosaica, ma della potenza del peccato che domina nelle membra dell’uomo peccatore.

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In questa veste lo Spirito è designato come Spirito « della vita » (te¯s zo¯e¯s). Questa espressione si comprende alla luce di Ez 37,1-14, un testo strettamente collegato a quello sopra citato dello stesso profeta, che termina con queste parole: « Farò entrare in voi il mio Spirito e vivrete ». Lo Spirito realizza dunque nel credente la vita nuova che consiste nella comunione restaurata con Dio. Il dono escatologico dello Spirito si è ora attuato « in Cristo Gesù »: esso infatti è l’effetto per eccellenza della giustificazione da lui operata (cfr. Rm 5,1.5)33. I testi citati mostrano senza possibilità di equivoco che Paolo aveva bene in mente le tre grandi profezie escatologiche e le ha usate nel loro significato originario, cioè per indicare la salvezza finale e definitiva. Anche nella Lettera ai Romani esse sono sullo sfondo di importanti affermazioni paoline. I suoi riferimenti ai testi escatologici sono veramente ampi e approfonditi. Mai si tratta di citazioni o allusioni casuali, ma sempre di approfondimenti degli aspetti più significativi del suo messaggio. È vero tuttavia che l’Apostolo si serve di tali riferimenti sempre e solo in funzione di Cristo e dei cristiani. c) Rm 1,14.27.29: i gentili onesti sono salvati In altri contesti del suo epistolario Paolo ha dimostrato di conoscere molto bene le profezie escatologiche e di saperle utilizzare in modo coerente per descrivere 33 Il riferimento alle profezie escatologiche è ammesso con molti dubbi da R. Penna (Lettera ai Romani, vol. II, pp. 134-135), mentre è escluso da S. Romanello, Una legge buona ma impotente, pp. 274-276. Senza entrare nel dibattito, ritengo Paolo si sia ispirato, più di quanto sia oggi ammesso, ai testi biblici che annunziano il rinnovamento finale del popolo di Dio.

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la salvezza portata da Cristo. È possibile che se ne serva anche in Rm 2,15a.29 in riferimento ai gentili? È quanto ora dobbiamo esaminare, sapendo che, se si risponde in senso affermativo, bisognerà concludere che egli attribuisce consapevolmente anche a loro il dono della salvezza. I gentili sono legge a se stessi (2,14b). La prima frase dell’apodosi attribuisce ai gentili la prerogativa di essere « legge a se stessi » (heautois eisin nomos). Il soggetto della frase è il pronome dimostrativo houtoi (costoro), che rinvia al soggetto della protasi, cioè « gentili » (ethne¯), senza articolo (Rm 2,14a). Questo termine è stato usato da Paolo per indicare non tutti, ma solo una particolare categoria di gentili, quelli cioè che praticano le cose della legge. Essi si distaccano dall’atteggiamento attribuito ai gentili in Rm 1,18-32, in quanto osservano la legge in un modo che, da tutto il contesto, appare integrarle: solo « costoro » sono legge a se stessi, e non tutti i gentili, come sarebbe lecito aspettarsi se si trattasse della semplice conoscenza della legge. L’espressione « sono legge a se stessi » ha un remoto substrato filosofico. Secondo Aristotele, come si è detto sopra, coloro che per virtù superano tutti gli altri non hanno più bisogno di una legge che indichi loro come comportarsi, in quanto sono legge (autoi gar eisi nomos) per sé e per gli altri (Politica 3,8[13],1284); inoltre, « l’uomo virtuoso e libero si comporterà come se fosse legge a se stesso (hoion nomos o¯n heauto˛¯ ) » (Etica nicomachea 4,8[14],1128). Questa concezione è stata utilizzata da Filone di Alessandria per affermare che i patriarchi, pur non avendo ancora ricevuto la legge mosaica, sono diventati in tal modo quasi una incarnazione della legge (hoi empsychoi 288

kai logikoi nomoi), dimostrando così che « le disposizioni stabilite non sono in disaccordo con la natura (te¯s physeo¯s ouk apa˛¯ dei) » (Vita di Abramo 5). In base a questi paralleli e sulla linea dell’interpretazione che sarà data alla frase successiva, l’espressione « sono legge a se stessi » è solitamente interpretata in senso filosofico: i gentili, pur non possedendo la legge mosaica, trovano in se stessi, nella loro stessa natura, una legge che li guida e li dirige nella loro vita morale. Inavvertitamente, si sarebbe passati qui dalla legge mosaica alla legge della natura, che nessuno può ignorare34. Questa interpretazione è chiaramente in linea con il rifiuto di accettare che i gentili possano compiere integralmente le prescrizioni della legge. Se si abbandona questo presupposto interpretativo, la frase assume un altro valore. Secondo Aristotile, il saggio è legge a se stesso perché non solo conosce ma compie, senza bisogno di una prescrizione esterna, ciò che è giusto e virtuoso. Secondo Filone di Alessandria, i padri di Israele attestano che la legge di Mosè è in sintonia con la legge naturale dei filosofi non perché la conoscono ma perché, pur senza conoscerla nella sua forma scritta, si adeguano spontaneamente a essa al punto di diventare espressione e modello di una vita conforme alla volontà di Dio. Per Paolo, la stessa cosa si può dire di quei gentili che, con il loro comportamento onesto, sono diventati i veri modelli di una vita vissuta in obbedienza a quella legge che i giudei hanno ricevuto mediante Mosè. 34 Cfr. G. Bornkamm, Gesetz und Natur (Röm 2,14-16), in Id., Studien zu Antike und Christentum, pp. 100-101; C.H. Dodd, The Epistle of Paul to the Romans, Collins, London 1932, 19706, p. 61; J. Riedl, Das Heil der Heiden, p. 198; J.W. Martens, Romans 2,14-16: A Stoic Reading, in NTS 40 (1994) 55-69, qui 66; A. Pitta, Lettera ai Romani, p. 117.

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In definitiva, questa frase di chiaro sapore filosofico, ma utilizzata in senso biblico nel giudaismo ellenistico, ha perso in Paolo, come spesso capita, il suo significato tecnico originario e ne ha assunto uno nuovo, molto più generico, i cui connotati precisi si ricavano dal contesto immediato. In questo caso specifico essa fa da preludio alla frase seguente in cui si trova il problematico accenno alla profezia di Geremia. La « legge scritta nei cuori » dei gentili (Rm 2,15a). L’apodosi del periodo prosegue con una seconda frase, coordinata con la precedente, nella quale si dice che i gentili in questione « manifestano l’opera della legge scritta nei loro cuori ». Questo testo si richiama senza dubbio, almeno in senso formale, a Ger 31(LXX 38),33. Il testo profetico consta di due frasi parallele che nella traduzione greca suonano così: « Darò le mie leggi nel loro intimo, sul (epi) loro cuore le scriverò ». La struttura della frase di Rm 2,15a è diversa, in quanto non è più Dio che scrive, ma sono i gentili che mostrano quanto è « scritto » (grapton) nel loro cuore: è chiaro che questo participio deve essere considerato come un passivo divino, che presuppone Dio come complemento d’agente. Un’altra differenza consiste nel fatto che, mentre nel testo di Geremia, in riferimento al cuore, viene usata la preposizione « su » (epi), Paolo usa « in » (en): ma si tratta di un dettaglio irrilevante, data l’interscambiabilità di numerose preposizioni nel greco della koine¯ 35. Infine, Paolo sostituisce il plurale « le mie leggi » (nomous mou) con « l’opera della 4

35 M. Zerwick (Graecitas biblica, PIB, Roma 1960 , p. 27) osserva: « Le preposizioni affini per significato nella lingua popolare cominciano a identificarsi e quindi a confondersi nell’uso ».

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legge », ma anche qui si tratta, come si vedrà in seguito, di un dettaglio facilmente giustificabile proprio alla luce dell’uso paolino di questa profezia. All’ipotesi secondo cui l’Apostolo, pur usando il linguaggio della nota profezia di Geremia, intende riferirsi al concetto di una legge non scritta, conosciuta ma non praticata dai gentili, si oppongono numerosi argomenti difficilmente contestabili. Anzitutto, il testo di Geremia era ben noto a Paolo, il quale ne suppone la conoscenza da parte dei suoi interlocutori al punto tale di servirsene in forma molto spontanea e creativa, in stretta adesione al suo significato originario. Questo caso è l’unico in cui lo cita quasi ad litteram: infatti le tre parole chiave del testo profetico – legge, scrivere, cuore – sono le stesse su cui fa leva l’Apostolo. Sarebbe strano che questa volta usasse il testo con un significato difforme da quello inteso dal profeta. Ciò è escluso dal fatto che nel testo parallelo di Rm 2,26-29 le tre profezie escatologiche sono usate, come vedremo subito, in modo tale da eliminare ogni dubbio, e proprio in riferimento a gentili che osservano la legge. Contro l’utilizzo da parte di Paolo del testo di Geremia si porta normalmente la somiglianza tra quanto egli afferma e il noto tema della « legge non scritta » (agraphos nomos) che Filone di Alessandria ha identificato con la legge mosaica. Ma i due sintagmi: « legge scritta nel cuore » e « legge non scritta », pur essendo simili dal punto di vista contenutistico, si rifanno a contesti letterari e culturali diversi e non facilmente assimilabili, rispettivamente a quello biblico e a quello filosofico. Che Paolo li abbia confusi, attribuendo al primo, tipico della sua cultura, il significato del secondo, è altamente improbabile. 291

A sostegno dell’interpretazione filosofica viene anche portato l’uso da parte di Paolo del termine natura. Ma questo, come si è visto, svolge nel contesto un ruolo difficile da precisarsi36. Tuttavia, il ricorso alla natura, anche se avesse lo scopo di spiegare da dove ha origine la conoscenza della legge da parte dei gentili, non è sufficiente a rendere ragione del testo paolino, nel quale è in gioco non la semplice conoscenza, ma la pratica della legge da parte dei gentili. Circa il termine coscienza, usato subito dopo (Rm 2,15b), si mostrerà in seguito come in questo contesto non indichi un « magistero » in campo morale ma mantenga il significato originario di « tribunale » interiore. In definitiva, se si lasciano cadere, come impone una considerazione più attenta del pensiero paolino, le note difficoltà di ordine teologico, in base alle quali Paolo non potrebbe ammettere l’osservanza della legge da parte dei gentili, non ci sono più veri argomenti in contrario: in Rm 2,15 l’Apostolo si appella effettivamente al caso di veri gentili, i quali non solo conoscono la legge che Dio ha elargito a tutta l’umanità, ma la praticano in modo pieno, conseguendo l’attuazione delle profezie riguardanti la salvezza finale del popolo eletto. Pur non avendo conosciuto Cristo, essi ottengono la salvezza e, di diritto, sono equiparati a coloro che hanno aderito a Cristo e alla Chiesa. La circoncisione del cuore (2,26b-29). In questo brano l’uso delle profezie escatologiche è inequivocabile37. Paolo afferma in primo luogo che i non circoncisi che osCfr., in questo volume, alle pp. 260-261. Cfr. S. Lyonnet, Le « païen » au coeur circoncis ou le « chrétien anonyme » selon Rom. 2:29, in Id., Études sur l’Épître aux Romains (AnBib 120), PIB, Roma 1989, pp. 71-88. 36 37

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servano la legge sono equiparati ai circoncisi (Rm 2,26b). Egli aggiunge poi che il vero giudeo è chi appare come tale non « all’esterno » ma « nel segreto » e la vera circoncisione non è quella che è tale « all’esterno », « nella carne », ma quella « del cuore nello Spirito e non nella lettera » (2,28-29). Ancora una volta queste affermazioni si capiscono solo alla luce delle profezie escatologiche. Anzitutto è chiaro il riferimento a Dt 30,6, dove si parla di una circoncisione che, in contrasto con quella fisica, in cui manca ogni intenzionalità da parte di chi ne è dotato, si applica al cuore della persona, in quanto simboleggia l’osservanza della volontà di Dio come effetto di un suo intervento speciale. Questo concetto è esattamente quello che Paolo elabora in riferimento ai gentili: in se stessa la circoncisione impressa all’esterno (en to˛¯ phanero˛¯ ), nella carne (en sarki), non ha valore e chi la porta non può per ciò stesso pretendere di essere un vero giudeo. Il vero giudeo è quello che nel segreto (en to˛¯ krypto˛¯ ), a prescindere dalla circoncisione fisica, obbedisce alla legge di Dio, dimostrando così di possedere la « circoncisione del cuore » (peritome¯ kardias). Anche il riferimento a Ez 36,27 è fuori discussione. Secondo Ezechiele, infatti, la trasformazione del cuore degli israeliti è frutto di un intervento speciale dello Spirito di Dio che dà loro la capacità di osservare fino in fondo la sua legge. Anche per Paolo la circoncisione del cuore avviene « nello Spirito » (en pneumati), cioè per mezzo di un suo intervento straordinario. Infine, è significativa anche l’allusione a Ger 31(LXX 38),33. In questo testo la differenza tra la nuova alleanza e l’antica consiste precisamente nel fatto che, mentre questa 293

è scritta all’esterno e quindi non ha alcuna efficacia sul comportamento umano, la prima comporta una incisione della legge nel cuore, con l’effetto di un’intima assimilazione della legge e di una sua spontanea osservanza. Anche l’Apostolo, attribuendo la circoncisione del cuore allo Spirito, la contrappone a quella che ha luogo « nella lettera » (en grammati), cioè come effetto di una semplice prescrizione « scritta » all’esterno dell’uomo e quindi priva di ogni impatto sul suo cuore. Secondo Paolo, dunque, l’adempimento delle profezie escatologiche, che caratterizza l’Israele degli ultimi tempi, ha luogo non in favore dei giudei che si ritengono tali semplicemente perché hanno la circoncisione fisica, ma di coloro che, pur non avendo la circoncisione fisica, praticano la legge. Sono loro i veri giudei, ai quali va la lode di Dio. L’ipotesi secondo cui Paolo adotterebbe il linguaggio ma non il contenuto delle profezie è praticamente insostenibile, in quanto egli usa lo stesso linguaggio che esse gli avevano suggerito in 2Cor 3,6 e in Rm 7,6. Proprio perché il riferimento alle profezie escatologiche non è facilmente eliminabile da questo testo, anche alcuni di coloro per i quali in Rm 2,14 si parla di veri gentili ritengono che Paolo si riferisca qui agli etnico-cristiani38. Ma si tratta di un ripiego: lo stretto parallelismo tra i due brani toglie ogni fondamento a questa ipotesi. È vero che, per l’Apostolo, colui che ha la circoncisione del cuore, in quanto possiede il dono dello Spirito contrapposto alla lettera, è il vero giudeo e si identifica in ultima analisi con il credente in Cristo. Ma qui, in via eccezio38

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Cfr. H. Schlier, La Lettera ai Romani, p. 162.

nale, egli applica la stessa immagine a quei gentili che, con il loro comportamento onesto, dimostrano di avere ottenuto la salvezza promessa a Israele.

2. « L’opera della legge » (Rm 2,15) L’espressione « l’opera della legge » (to ergon tou nomou, Rm 2,15a) presenta una sua particolare difficoltà di interpretazione. A che cosa intende riferirsi l’Apostolo usando una circonlocuzione così insolita? Infatti, egli parla spesso in senso negativo di « opere della legge » al plurale, indicando con ciò le opere compiute in obbedienza alla legge, mentre l’espressione « l’opera della legge », al singolare e per di più in senso positivo, non appare altrove nell’epistolario paolino. Anche a questo proposito è utile considerare anzitutto le opinioni degli studiosi e poi cercare la soluzione nel contesto remoto e prossimo del brano.

a) « L’opera » o « le opere » della legge? Gli studiosi interpretano in modi diversi l’espressione « opera della legge ». Alcuni di loro pensano che Paolo abbia scelto questa espressione, invece del semplice ton nomon, quasi a indicare i limiti della conoscenza della legge da parte dei gentili rispetto a quella più chiara e completa di cui godono i giudei. M.-J. Lagrange ritiene che l’espressione paolina significhi « l’azione comandata dalla legge per il caso presente » e osserva: « Essi (i genti295

li) provano dunque con la rettitudine della loro condotta che la soluzione del caso che si presenta è chiaramente indicata nel loro intimo, come se fosse stata scritta su di un manoscritto (cfr. 2Cor 3,1-3) »39. Secondo A. Nygren, « Dio ha scritto l’opera della legge nel cuore (dei gentili) nel senso che se essi nel caso concreto avessero agito diversamente sarebbero stati coscienti che ciò era male »40. F.-J. Leenhardt afferma che « il gentile che compie le opere della legge (ta tou nomou) agisce in condizioni paragonabili, anche se non identiche, a quelle dell’israelita messo a confronto con la legge mosaica. Nel suo cuore è scritta “l’opera della legge”, ciò che la legge prescrive. Con questa formula Paolo indica che il gentile ha una certa conoscenza della legge, non certo perfetta e completa – ciò che significherebbe la realizzazione della profezia di Ger 31 – ma reale: egli sa ciò che la legge comanda di fatto, senza sapere che è Dio che lo comanda, e qual è il Dio che lo comanda »41. Altri studiosi intendono to ergon tou nomou come « l’essenziale della legge ». Secondo F. Zorell, si tratta di « ciò che la legge di Mosè comanda, almeno le cose più importanti »42. Secondo O. Kuss, « “l’opera della legge” è il modo di agire richiesto dalla legge mosaica, che è la più chiara espressione della divina volontà; ciò che si deve fare, nell’accezione più vasta, comprendente tutto ciò che 39 M.-J. Lagrange, Saint Paul: Épître aux Romains, p. 49. Secondo J.A. Fitzmyer (Lettera ai Romani, p. 373, al seguito di E. Käsemann, Commentary on Romans, p. 64), significherebbe « l’atto concreto richiesto dalla legge ». 40 A. Nygren, Der Römerbrief, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1959, p. 95. 41 F.-J. Leenhardt, L’Épître aux Romains, p. 48. 42 F. Zorell, Lexicon Graecum Novi Testamenti, Lethielleux, Parisiis 19312, col. 510.

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si richiede come essenziale, sta “scritto”, “senza lettere” “nei cuori” dei gentili »43. Altri studiosi fanno riferimento all’unico comandamento nel quale vedono riassunta tutta la legge mosaica, e di riflesso la legge della natura. Quando interpreta Rm 2,14-15 in riferimento ai gentili, Agostino di Ippona dice che essi non sono salvati, perché privi della fede, ma sono puniti in un modo più tollerabile « perché hanno compiuto naturalmente le cose della legge, avendo scritta nei loro cuori l’opera della legge, che ordina di non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi »44. Secondo R. Cornely, « i numerosi e diversi precetti della legge mosaica non sono scritti singolarmente nei cuori, ma sono presenti nella natura razionale ridotti a unità. (...) Questa unità dei diversi precetti mosaici è insinuata anche altrove, quando si dice che tutta la legge è adempiuta nell’unico precetto dell’amore del prossimo (Gal 5,14) »45. Dello stesso parere è anche S. Lyonnet, il quale cita in proposito Sir 17,14; Rm 8,4; 13,8-10 46. I sostenitori di queste diverse opinioni riconoscono che l’espressione « opera della legge » ha un rapporto diretto con la legge mosaica, e al tempo stesso riducono la portata di questa espressione, in modo da evitare la possibilità che in essa si ravvisi l’idea di un’osservanza completa della legge mosaica. Su un’altra linea si colloca Bo 43 O. Kuss, La lettera ai Romani, vol. I, p. 101. Sulla stessa linea A. Pitta, Lettera ai Romani, p. 118: « Dunque l’opera della legge non si riferisce ai singoli precetti della legge, come la circoncisione o le norme alimentari, ma alle esigenze globali della legge ». 44 Agostino di Ippona, Contra Julianum 4,3(25): PL 44,750-751. 45 R. Cornely, Ad Romanos, p. 136. 46 S. Lyonnet, Exegesis epistulae ad Romanos (Cap. I ad IV) [Ad usum privatum auditorum], PIB, Romae 19602, p. 163.

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Reicke, il quale intende l’opera della legge alla luce di Rm 3,20 e 7,7 come il risveglio della coscienza del peccato in vista della giustificazione mediante la fede (Rm 3,21.31; 5,20; 10,4): questo risveglio normalmente è operato dalla legge mosaica ma, in ambienti totalmente pagani, può avere luogo in modo straordinario anche senza di essa 47.

b) L’unico comandamento della legge secondo Paolo Alcuni studiosi mettono in luce, a proposito dell’espressione « l’opera della legge » di Rm 2,15, la tendenza giudaica a considerare la legge mosaica soprattutto come norma morale e a vederla riassunta in un unico comandamento (amore del prossimo, regola d’oro, proibizione del desiderio). Paolo stesso dà più volte nella Lettera ai Romani chiari segnali di condividere questo punto di vista. È quindi molto probabile che anche qui faccia ricorso a questo modo di pensare. Per poterlo dimostrare è necessario esaminare anzitutto i testi dell’epistolario in cui si tratta di questo argomento. L’amore del prossimo, pienezza della legge (Gal 5,14; Rm 13,8-10). Il tema dell’amore del prossimo come sintesi della legge appare in due testi chiave dell’epistolario paolino. Nel primo di essi Paolo, dopo avere affermato che in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la « fede che opera per mezzo dell’amore » (Gal 5,6), segnala ai destinatari il pericolo che la libertà da essi conseguita diventi un pretesto per 47

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Bo Reicke, Syneidesis in Röm 2,15, in ThZ 12 (1956) 157-161, qui 160.

vivere secondo la carne. Poi li esorta a mettersi al servizio gli uni degli altri nell’amore (dia te¯s agape¯s). Infine prosegue: « Tutta la legge infatti trova la sua pienezza (eple¯ro¯tai) in un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Gal 5,14)48. Paolo si rifà qui al testo di Lv 19,18 che, come si è visto, già nel mondo giudaico era stato considerato come la sintesi di tutta la legge49. Egli afferma che l’esercizio dell’amore è il modo più semplice e diretto di osservare pienamente tutta la legge. L’uso del verbo ple¯roo¯ al perfetto medio-passivo (passivo divino) suggerisce che l’amore del prossimo è frutto di un evento che ha avuto luogo una volta per tutte, per opera non dell’uomo ma di Dio, e produce continuamente i suoi effetti nella vita quotidiana del credente. Ciò è reso esplicito dal fatto che, subito dopo (Gal 5,16), Paolo esorta i suoi interlocutori a camminare secondo lo Spirito, evitando così di soddisfare il desiderio (epithymia) della carne. Nel giudaismo il desiderio perverso era stato visto come l’espressione globale di un comportamento contrario alla legge di Dio. L’amore del prossimo è presentato nuovamente come sintesi della legge anche nel testo parallelo di Rm 13,8-1050. Questo testo si situa nella parte esortativa della lettera e fa seguito a un brano in cui Paolo dà alcune direttive circa i rapporti dei credenti con l’autorità civile 48 Cfr. A. Pitta, Lettera ai Galati. Introduzione, versione, commento (Scritti delle origini cristiane 9), EDB, Bologna 1996, pp. 339-343. 49 Cfr., in questo volume, alle pp. 74-84. 50 Cfr. S. Lyonnet, La charité plénitude de la loi (Rom 13,1-8), in Id., Études sur l’Épître aux Romains, pp. 310-328; Id., La carità pienezza della legge secondo san Paolo, AVE, Roma 1969; A. Feuillet, Loi ancienne et Morale chrétienne d’après l’Épître aux Romains, in NRT 92 (1970) 785-805, qui 795-799; A. Pitta, Lettera ai Romani, pp. 448-453.

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(Rm 13,1-7), invitandoli a compiere il loro dovere nei suoi confronti e a pagare le tasse. Questa direttiva gli offre lo spunto per fare un discorso più ampio circa i doveri sociali del cristiano. Gli obblighi verso l’autorità civile, come qualsiasi altro debito, sono presto pagati e non esistono più. Vi è però un debito che non è mai estinto, quello cioè dell’amore vicendevole (to alle¯lous agapan). Paolo intende qui senza dubbio l’amore che sta alla base dei rapporti comunitari. Ma è significativo che, riprendendo subito dopo lo stesso precetto, egli dica che « chi ama l’altro ha adempiuto la legge » (Rm 13,8). Con questa espressione egli allude chiaramente a Lv 19,18, ma usando il pronome « altro » (ton heteron) invece di « prossimo » vuole forse fare intendere che l’amore, partendo dai fratelli nella fede, deve estendersi a tutti. Il verbo « ha adempiuto » (peple¯ro¯ken) è al perfetto, indicando così un’azione del passato i cui effetti sono ancora presenti: chi ama, in realtà, ha già adempiuto in partenza tutta la legge, e il suo comportamento nella vita quotidiana ne è l’espressione concreta. Il ruolo dell’amore nell’osservanza della legge è fondato sul fatto che tutti i comandamenti della legge « si riassumono » (anakephalaioutai), cioè convergono e trovano la loro unità nell’unica « parola » (cfr. Es 20,1, dove i precetti del decalogo sono detti « parole », logoi) che prescrive di amare il proprio prossimo come se stesso (Lv 19,18; cfr. Rm 13,9). Per chiarire meglio il suo pensiero, Paolo cita alcuni di questi comandamenti ricavandoli dal decalogo (proibizione dell’adulterio, dell’omicidio, del furto e del desiderio), ma sottolinea che intende includere qualsiasi altro comandamento. Dagli esempi riportati 300

appare evidente che per l’Apostolo il termine « legge » indica prevalentemente la parte morale della legislazione mosaica, e in modo particolare il decalogo, nel quale tutte le altre prescrizioni sono già incluse. Paolo soggiunge infine che chi pratica l’amore per il prossimo non fa il male e conclude affermando che l’amore è il « pieno compimento » (ple¯ro¯ma) della legge (Rm 13,10). In altre parole, egli afferma che lo scopo di tutta la legge è precisamente quello di evitare il male in tutti i suoi aspetti, e a questo scopo l’unico mezzo efficace è l’amore del prossimo, che comprende tutti i comandamenti e al tempo stesso li sorpassa. Pur senza dirlo espressamente, Paolo lascia intendere che solo lo Spirito può essere autore di questa pienezza. Ciò risulta più esplicitamente dal testo parallelo di Rm 8,4. Il precetto della legge (Rm 8,4). Paolo aveva affermato poco prima, rifacendosi a Ger 31,33, che la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù ha liberato il credente dalla legge del peccato e della morte (Rm 8,2); egli poi afferma che Cristo ha vinto il peccato nella carne, e infine aggiunge che ciò è avvenuto « perché la prescrizione della legge (to dikaio¯ma tou nomou) fosse adempiuta in noi che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito » (Rm 8,4). Il senso dell’espressione to dikaio¯ma tou nomou è controverso51. Normalmente si pensa che essa designi le prescrizioni della legge in quanto giuste o la giusta esigenza morale della legge come espressione 51 Cfr. un’ampia rassegna delle diverse interpretazioni in R. Penna, Come interpretare la « giustizia della legge » in Rom 8,4, in L. Padovese (ed.), Atti del VI Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Istituto Francescano di Spiritualità Pontificio Ateneo Antoniano, Roma 2000, pp. 25-46, qui 25-30.

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armoniosa di un’unica volontà divina (cfr. Rm 2,26)52. Secondo una variante di questa interpretazione, essa indicherebbe tutta la legge in quanto riassunta in un unico comandamento, che può essere quello che impone di amare il prossimo come se stessi (cfr. Rm 13,8-10)53 o di « non desiderare » (cfr. 7,7). Secondo L. Keck, il dikaio¯ma di Rm 8,4 è « il giusto intendimento della legge », cioè lo scopo giustificante e vivificante della legge o, meglio, lo stato giustificante che richiedeva dal giudeo54. R. Penna riprende quest’ultima ipotesi e afferma che il dikaio¯ma della legge designa « la giustificazione a cui la legge era orientata o per la quale era stata data ». Egli esplicita così il suo pensiero: « Lo Spirito offre finalmente al cristiano la possibilità di attuare pienamente, se non proprio le singole prescrizioni della Torah, almeno l’esigenza morale di fondo propria della Legge in generale, eventualmente compendiata nel comandamento dell’amore vicendevole »55. In dialettica con questa posizione, J.-N. Aletti sottolinea invece che il dikaio¯ma della legge indica il comandamento di Dio non in quanto capace di giustificare, ciò che è escluso per motivi filologici e per il contesto della lettera, ma in quanto è giusto, cioè è dato per la 52 Cfr., fra gli altri, P. Althaus, La Lettera ai Romani, p. 154; O. Kuss, La lettera ai Romani, vol. I, p. 64; E. Käsemann, Commentary on Romans, pp. 217-218. 53 Fra gli altri, cfr. S. Lyonnet, Rom 8,2-4 à la lumière de Jérémie 31 et d’Ézéchiel 35-39, in Id., Études sur l’Épître aux Romains, pp. 231-241, qui 239-240; U. Wilckens, Der Brief an die Römer (EKKNT 6,1-3), 3 voll., Benziger, Neukirchen-Vluyn 1978-1982, qui vol. II, p. 128. 54 L. Keck, The Law and « the Law of Sin and Death » (Rom 8,1-4): Reflections on the Spirit and Ethics in Paul, in J.L. Crenshaw - S. Sandmel (edd.), The Divine Helmsman: Studies on God’s Control of Human Events, presented to Lou H. Silberman, Ktav, New York 1980, pp. 41-57. 55 R. Penna, Come interpretare la « giustizia della legge » in Rom 8,4, in L. Padovese (ed.), Atti del VI Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, pp. 25-46, qui 42.

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vita; e anch’egli stabilisce un collegamento con il precetto che impone di « non desiderare » (cfr. Rm 7,7.10)56. Comune a queste diverse interpretazioni è il fatto che l’espressione to dikaio¯ma tou nomou è compresa, direttamente o indirettamente, alla luce di un unico comandamento, che può essere sia l’ultimo del decalogo sia quello riguardante l’amore del prossimo. Ambedue svolgevano questo ruolo nel giudaismo ai tempi di Paolo. Il primo di essi è favorito dal contesto prossimo di Rm 7,7. Il secondo invece si basa sul parallelismo con Gal 5,14 e di Rm 13,8-1057. Esso è messo in luce dal fatto che anche in Rm 8,4, come negli altri due, si usa il verbo « adempiere » (ple¯roo¯). Paolo parla infatti di un unico comandamento obbedendo al quale tutta la legge è stata osservata in modo pieno, e una volta per tutte (ple¯ro¯the˛¯ , all’aoristo passivo); egli specifica che ciò è avvenuto « in noi » (en he¯min) e non, come sarebbe stato lecito attendersi, « da parte nostra ». Ciò significa che anche qui, come in Gal 5,14, la forma del verbo è un « passivo divino », comprensibile alla luce delle profezie di Deuteronomio, Geremia ed Ezechiele: l’amore non può essere praticato dal credente se non in quanto è stato infuso in lui dallo Spirito, in modo che le sue opere, da esso ispirate, siano da attribuirsi anzitutto all’azione dello Spirito stesso. E difatti l’unico comandamento si adempie in coloro che non vivono secondo la carne, ma secondo lo Spirito. 56 J.-N. Aletti, La giustificazione nell’epistola ai Romani, in V. Scippa (ed.), Lettera ai Romani. Esegesi e Teologia (Biblioteca Teologica Napoletana 24), Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Sezione S. Tommaso d’Aquino), Napoli 2003, pp. 33-50, qui 47. 57 Cfr. S. Lyonnet, Rom 8,2-4 à la lumière de Jérémie 31 et d’Ézéchiel 35-39, in Id., Études sur l’Épître aux Romains, pp. 231-241, qui 239-240.

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Secondo Paolo, il credente pratica dunque in modo pieno la legge, non però in quanto complesso di norme diverse, ma in quanto si identifica con l’amore del prossimo, l’unico comandamento che comprende e riassume tutti gli altri. Ma anch’esso in senso proprio cessa di essere tale, per diventare, a opera dello Spirito, un’esigenza intima dell’uomo, dalla quale scaturiscono le opere dell’amore58. Perciò l’uomo rigenerato non ha più bisogno di una legge che gli imponga dall’esterno ciò che deve fare: infatti, tutte le esigenze della legge si sintetizzano nell’amore, e questo gli è stato infuso per mezzo dello Spirito santo. Il credente è dunque colui che non ha bisogno della legge, e proprio per questo è l’unico capace di osservarla integralmente59.

c) Rm 2,15: una legge capace di operare L’enigma del termine ergon del v. 15a si spiega alla luce dei testi sopra esaminati, e in modo speciale di Rm 8,1-4 e 13,8-10. In questi due luoghi, infatti, Paolo prende in considerazione un intervento speciale di Dio che, in corrispondenza con la profezia di Ger 31,33, rende possibile all’uomo la pratica della legge. Come in Rm 8,4, così anche in 2,15a, Paolo non pensa a tutti i precetti della 58 R. Penna osserva giustamente che non si può ridurre l’economia della salvezza all’osservanza della legge. Ciò è vero anche a prescindere dalla sua interpretazione di Rm 8,4. In effetti, la salvezza consiste in un rapporto nuovo con Dio, attuato dallo Spirito, di cui l’osservanza della legge è semplicemente un segno e una testimonianza (cfr. J.-N. Aletti, La giustificazione nell’epistola ai Romani, in V. Scippa [ed.], Lettera ai Romani. Esegesi e Teologia, pp. 33-50, qui 48-49). 59 Giovanni Crisostomo afferma che usa bene della legge colui che non ha bisogno di essere istruito da essa (Omelia su 1Tm 1,8: PG 62,511).

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legge, ma all’unico comandamento in cui essa trova la sua sintesi più piena. Ciò è in sintonia con Dt 30,6, dove si dice che la circoncisione del cuore ha lo scopo di rendere possibile l’« amore di Dio », che implica sempre un analogo amore nei confronti del prossimo. Per sottolineare questa intuizione, Paolo ha sostituito il plurale nomous mou, usato dalla versione dei LXX in Ger 31(38),33 con il singolare to ergon tou nomou. I motivi che gli hanno suggerito questo cambiamento sono sostanzialmente due. In primo luogo, il testo ebraico di Ger 31,33 ha il singolare to¯ratî, « la mia legge »; traducendo con il plurale nomous mou, i LXX hanno forse voluto sottolineare la continuità tra la legge della nuova alleanza e le diverse leggi che fanno parte del codice mosaico. Paolo invece ha voluto fare un passo indietro: introducendo il singolare to ergon dimostra di volere ritornare se non alla lettera almeno al senso del testo originale che egli interpreta alla luce del precetto unico e fondamentale dell’amore. In secondo luogo, il termine to ergon si presta bene a sottolineare, come il passivo ple¯ro¯the˛¯ di Rm 8,4 e il medio-passivo eple¯ro¯tai di Gal 5,15, e sempre sulla linea della profezia di Geremia, che i gentili non hanno ricevuto una semplice conoscenza intellettuale della legge, ma l’opera stessa, cioè la possibilità di operare in conformità con il precetto fondamentale dell’amore del prossimo. In tal modo essi non sono semplici « ascoltatori della legge », come i giudei, ma veri « esecutori della legge », tali cioè da essere dichiarati giusti nel giorno del giudizio (cfr. Rm 2,13). Siccome è precisamente questo, secondo Paolo, il modo di agire del credente in Cristo, 305

non esiste una vera e propria differenza tra i gentili onesti e i cristiani. L’espressione « l’opera della legge », con la quale Paolo si discosta dalla lettera di Ger 31(LXX 38),33, è dunque pienamente comprensibile alla luce della stessa profezia così come è da lui compresa in Rm 8,2-4 e 13,8-10 (cfr. Gal 5,14): quei gentili che compiono le diverse prescrizioni della legge possono farlo perché Dio ha scritto nel loro cuore non una semplice norma di azione, ma l’opera stessa dell’amore, con la quale si adempie nel modo più completo tutta la legge. Non si tratta quindi del risultato di uno sforzo umano, ma di un dono divino mediante il quale si attua la promessa escatologica della nuova alleanza.

3. La coscienza (Rm 2,15b) Dopo avere affermato che l’opera della legge è scritta nel cuore dei gentili onesti, Paolo si appella alla testimonianza della loro « coscienza » (syneide¯sis), alla quale si aggiungono ragionamenti contrastanti, che ora accusano ora difendono. La comparsa improvvisa della coscienza pone nuovamente il problema se il quadro di riferimento a cui Paolo si ispira sia quello biblico-giudaico o quello tipico della filosofia greca60. 60 Cfr. C. Maurer, Synoida, syneide ¯ sis, in GLNT 13,269-326; M. Pohlenz, Paulus und die Stoa, in ZNW 42 (1949) 69-104; J. Dupont, Syneidèsis. Aux origines de la notion chrétienne de conscience morale, in Studia Hellenistica 5 (1948) 119-153; Bo Reicke, Syneidesis in Röm 2,15, in ThZ 12 (1956) 157-161; E. Borghi, La notion de conscience dans le Nouveau Testament. Une proposition de lecture, in Filología Neotestamentaria 10 (1997) 85-98.

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a) Coscienza previa o susseguente? La coscienza è qui intesa normalmente dagli studiosi, sulla linea delle interpretazioni date alle frasi precedenti, come un organo che svolge per i gentili un ruolo analogo a quello della legge per i giudei. In breve, toccherebbe alla coscienza il compito di attivare il dettato della legge naturale, scritta nel loro cuore, guidandoli nelle scelte quotidiane della vita. La coscienza si presenterebbe perciò come un’istanza che, pur non potendo emanare leggi specifiche, è in grado di indicare il modo con cui queste devono venire osservate. Questo tipo di lettura è stato proposto con l’apporto di numerosi argomenti e testi paralleli da G. Bornkamm, secondo il quale, per quanto riguarda il fenomeno della coscienza, Paolo è interessato non tanto al giudizio che si svolge all’interno dell’uomo, quanto piuttosto alla legge di Dio di cui non sono privi i gentili e di conseguenza al giudizio finale al quale sono destinati tutti, giudei e gentili. Con i suoi ragionamenti contrastanti essa non pronunzia il giudizio finale, ma indica che un altro, Dio, dovrà dire l’ultima parola61. Secondo O. Kuss, nella propria coscienza ogni essere umano conosce il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, e sa pure di essere responsabile di ciò che fa di buono e di cattivo, di giusto e di ingiusto, innanzi a Dio. Secondo lui, la legge divina che muove il giudizio della coscienza corrisponde a certe esigenze fondamentali della legge anticotestamentaria, quali sono formulate ad esempio 61 G. Bornkamm, Gesetz und Natur (Röm 2,14-16), in Id., Studien zu Antike und Christentum, pp. 98-118, qui 111-116.

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nel decalogo62. Secondo H.J. Eckstein, la coscienza non deve essere considerata come un’autonoma fonte di rivelazione o una norma di comportamento indipendente dalla legge: infatti, la consapevolezza della norma non si identifica con la coscienza ma ne rappresenta la logica premessa. Il fatto stesso che i gentili abbiano la legge trova, accanto alla prova delle loro azioni, anche quella della coscienza, la cui funzione senza la presenza di una norma antecedente non sarebbe concepibile63. Secondo F.-J. Leenhardt, « il dialogo dell’uomo con se stesso, questo dibattito nel quale egli è ora l’accusatore, ora il difensore di se stesso, manifesta che egli dispone, per valutare la propria condotta, di un riferimento oggettivo, quello stesso che Dio ha inciso nel suo cuore e al quale la sua coscienza porta la conferma soggettiva »64. A. Pitta accenna al ruolo di discernimento tipico della coscienza, ma solo per sottolineare che esso non è riconosciuto come fattuale per i gentili; a esso Paolo alluderebbe solo per impedire ogni vanto, da parte dei giudei, che possa minare il principio sovrastante dell’imparzialità divina65. Queste testimonianze, anche se solo indicative, sono sufficienti per capire in quale senso si muove l’esegesi moderna a proposito del concetto di « coscienza » in Rm 2,15: pur in modi diversi, essa è intesa in questo contesto come la facoltà mediante la quale ogni essere umano coglie la volontà divina e la applica alle situazioni concrete. O. Kuss, La lettera ai Romani, vol. I, pp. 112-113. H.J. Eckstein, Der Begriff Syneidesis bei Paulus. Eine neutestamentlichexegetische Untersuchung zum Gewissen Begriff (WUNT 2/10), Mohr Siebeck, Tübingen 1983, pp. 137-179. 64 F.-J. Leenhardt, L’Épître aux Romains, p. 49. 65 A. Pitta, Lettera ai Romani, p. 118. 62 63

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Essa quindi andrebbe di pari passo con la « natura », che designa l’ordine voluto da Dio dal quale la coscienza trae gli orientamenti concreti di vita.

b) La coscienza nel linguaggio paolino Nell’epistolario paolino il verbo synoida è usato una sola volta nella forma riflessiva (« essere autocosciente », 1Cor 4,4). Invece, il sostantivo syneide¯sis vi compare ben 14 volte, secondo modalità che tradiscono un pensiero non ancora formulato con precisione66. Anzitutto, Paolo lo usa ben 8 volte nel contesto del dibattito sulle carni sacrificate agli idoli (1Cor 8-10). In questa sezione della 1Corinzi Paolo si rivolge a coloro che si sentono liberi di mangiare questo tipo di carne e li considera come persone dotate di « conoscenza » (gno¯sis), cioè che hanno una esatta comprensione del messaggio cristiano, dal quale ricavano opportune direttive di comportamento (cfr. 1Cor 8,1.7.10). A loro però richiede di rispettare la « coscienza » (syneide¯sis) dei fratelli più deboli, i quali vedono nel mangiare le carni sacrificate agli idoli un atto implicito di idolatria (1Cor 8,7.10.13; 10,27-29). Dei due termini, quello che si avvicina di più al concetto moderno di « coscienza » è certamente la conoscenza, mentre la coscienza indica il tribunale interiore che condanna la persona per le scelte fatte non in coerenza con le proprie convinzioni. 66 Cfr. R. Bultmann, Teologia del Nuovo Testamento (Biblioteca di Teologia Contemporanea 46), Queriniana, Brescia 1985, pp. 208-211. A. Pierce, Conscience in the New Testament (Studies in Biblical Theology 15), SCM, London 1955; P. Carlotti, La syneidesis paolina e la coscienza morale, in F. Mosetto (ed.), Ecce ascendimus Jerosolymam, LAS, Roma 2003, pp. 289-321.

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In altri quattro casi il termine coscienza designa un’istanza che attesta e giudica le azioni compiute. In 2Cor 1,12 Paolo si rallegra per la testimonianza della sua coscienza che approva il suo comportamento nei confronti dei corinzi. Più avanti, sempre in 2Corinzi, il termine designa ogni persona dotata di istanza critica, dalla quale Paolo spera di avere una valutazione positiva del proprio comportamento (2Cor 4,2; 5,11). In Rm 13,5 l’Apostolo esige, in forza della coscienza (dia te¯n syneide¯sin), l’obbedienza all’autorità civile: in questo caso la coscienza appare come un’istanza interiore che impone un certo comportamento in quanto corrisponde a una precisa volontà divina67. Infine, il termine appare in Rm 9,1, dove Paolo apre la sua riflessione su Israele appellandosi alla testimonianza della propria coscienza che, quasi fosse un’entità separata da lui, è chiamata in causa per attestare insieme con lui (summartyrouse¯s moi te¯s syneide¯seo¯s mou) la presenza nel suo cuore di una profonda sofferenza per la situazione dei suoi connazionali. In definitiva, solo in Rm 13,5 Paolo usa il termine coscienza in un senso che si avvicina a quello di un’istanza che orienta le scelte morali della persona. In tutti gli altri casi la coscienza è la persona stessa, in quanto capace di emettere un giudizio critico sulle azioni proprie o altrui, cioè in quanto portatrice di un tribunale interiore in cui

67 Rimane il dubbio che Rm 13,1-7 sia un’aggiunta secondaria appartenente allo strato pastorale più recente dell’epistolario paolino: cfr. W. Munro, Authority in Paul and 1 Peter: The Identification of a Pastoral Stratum in the Pauline Corpus and 1 Peter (SNTS.MS 45), CUP, Cambridge 1983, pp. 56-67; A. Sacchi, Colpa e pena in Rm 13,1-7 nel contesto del messaggio evangelico, in A. Acerbi - L. Eusebi (edd.), Colpa e pena. La teologia di fronte alla questione criminale, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 57-95, qui 88-93.

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è Dio stesso che emette un giudizio inappellabile circa le azioni compiute, sia in senso negativo che positivo. c) Rm 2,15b: la coscienza come tribunale In Rm 2,15b Paolo chiama in causa, mediante un genitivo assoluto, la coscienza dei gentili, osservando che « essa unisce la sua testimonianza alla loro » (symmartyrouse¯s auto¯n te¯s syneide¯seo¯s). L’uso che si fa qui del termine coscienza è molto simile a quello che si ritrova in Rm 9,1. Nei due casi la coscienza è un’istanza interiore che attesta qualcosa che non è visibile agli occhi del corpo; il tempo presente del verbo mostra chiaramente che si tratta di una testimonianza attuale e non rimandata agli ultimi tempi. Nei due casi è chiaro che si tratta di una testimonianza che non è isolata, ma che si accompagna a un’altra testimonianza: in Rm 9,1 essa è abbinata a quella che Paolo dà di se stesso, come se la coscienza fosse un’istanza diversa e autonoma rispetto alla sua persona. Nel caso dei gentili onesti non si dice espressamente con quale altra testimonianza si abbina quella della loro « coscienza »; tuttavia, dal contesto appare che essa si unisce al fatto oggettivo e verificabile delle loro opere, le quali, essendo conformi alla legge, attestano da una parte che essi sono legge a se stessi e dall’altra che hanno l’opera della legge scritta nei loro cuori. Diversamente da quanto si afferma correntemente, la coscienza non dà qui direttive di comportamento né indica i valori morali a cui i gentili devono ispirare la propria condotta. Al contrario, essa « rende testimonianza » di qualcosa che, essendosi verificato nel profondo del loro cuore, è solo parzialmente visibile a partire dai suoi effetti. 311

In questo compito la coscienza si avvicina molto al cuore, che in Rm 2,15 è precisamente l’organo su cui è scritta la legge in attuazione delle profezie escatologiche e in modo speciale di Ger 31,33. È proprio questo cuore che, avendo fatto l’esperienza dell’intima trasformazione che si è verificata in esso, ne dà una testimonianza che si unisce a quella delle opere che esso ispira. In altre parole, Paolo si appella all’autocoscienza dei gentili, presentandoli come intimamente partecipi e consapevoli del dono di Dio. L’ultima frase presenta ancora qualche difficoltà. In essa Paolo indica con un altro genitivo assoluto « i ragionamenti che vicendevolmente accusano o anche difendono » (metaxy alle¯lo¯n to¯n logismo¯n kate¯gorounto¯n e¯ kai apologoumeno¯n). In questa frase non è chiaro chi sia a elaborare questi « ragionamenti »68. Essi potrebbero essere i pensieri che i gentili concepiscono nella loro mente, i quali si accusano o si difendono vicendevolmente (metaxy alle¯lo¯n): in questo caso si tratterebbe di una testimonianza autonoma, accanto a quella della coscienza, che giudica il loro comportamento morale69. Secondo un’altra interpretazione, i ragionamenti sarebbero invece lo strumento del quale la coscienza si serve per attuare il suo compito. Questa seconda interpretazione è preferibile, come d’altronde è d’accordo la maggior parte degli studiosi. L’attività della coscienza si manifesta dunque mediante un dibattito interiore che avviene per mezzo 68 Il termine logismoi appare solo qui e in 2Cor 10,4, mentre è frequente nella traduzione greca dei LXX (121 volte). Potrebbe essere sinonimo del più frequente dialogismoi, usato solo 27 volte dal testo dei LXX, mentre appare 14 volte nel NT, di cui 4 in Paolo. 69 Sintatticamente, questi ragionamenti non sono collegati alla coscienza e quindi dovrebbero indicare un altro procedimento interno autonomo che si aggiunge a essa (cfr. R. Penna, Lettera ai Romani, vol. I, pp. 241-242).

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di giudizi contrastanti che spesso condannano ma anche, come in questo caso, difendono le persone in questione. In Rm 2,15 la coscienza non ha dunque il compito di insegnare ai gentili le istanze morali che per i giudei sono contenute nella legge mosaica. A ciò si oppone sia il contesto remoto, in cui non si parla di questo ruolo della coscienza, sia il contesto prossimo (1,18-32), nel quale Paolo non si appella alla natura né alla coscienza per affermare che i gentili conoscono « ciò che di Dio è conoscibile ». Per di più egli non presenta la coscienza come sorgente di direttive morali, ma come un teste in favore di una realtà che sfugge al controllo dei sensi. Non è quindi intenzione di Paolo appellarsi alla coscienza per affermare la semplice conoscenza da parte di tutti gli uomini della legge morale (la « legge naturale » dei greci); per lui, la coscienza è un tribunale interiore che giudica le azioni di ciascuno e ne attesta la bontà o la malvagità. È proprio questo tribunale interiore che, nel caso di gentili che « fanno le cose della legge », attesta la trasformazione profonda che Dio ha operato nel loro cuore. Anche qui bisogna concludere che Paolo, pur usando un termine che avrà un ruolo notevole nel pensiero filosofico, se ne serve secondo un’accezione non tecnica, riversando in esso una concezione di tipo biblico.

4. Conclusione L’interpretazione dei due brani paralleli contenuti in Rm 2,15.27-29 non presenta, dal punto di vista esegetico, particolari difficoltà. Come si è visto precedentemente, il 313

fatto che in ambedue i casi Paolo si appelli a veri gentili appare da tutto il contesto ed è ammesso quasi unanimemente dagli studiosi; ugualmente si è dimostrato che, in base a motivazioni esegetiche precise, la pratica della legge da parte di questi gentili non può essere che totale, per quanto sia possibile a una creatura umana. Ora, l’Apostolo sottolinea che tale pratica corrisponde a un dono divino e quindi ha una indiscutibile connotazione salvifica. Ne sono prova i riferimenti alle profezie escatologiche, la cui attuazione, attesa dai giudei in proprio favore, è qui affermata da Paolo come un dono ottenuto da un certo numero di gentili onesti, a scapito dei giudei che si vantano di possedere la legge e la circoncisione, ma non osservano la prima e riducono la seconda a un puro segno esterno (cfr. Rm 2,26-29). L’interpretazione usuale secondo cui Paolo vorrebbe qui affermare semplicemente il possesso, da parte dei gentili (in genere), di una legge non scritta, suggerita dalla loro natura e mediata dalla coscienza, non ha alcun fondamento nel testo. Paolo infatti non parla, in senso filosofico, di una « legge non scritta », ma di una « legge scritta nel cuore », che si richiama espressamente all’ambito delle attese escatologiche di Israele. L’allusione alla natura e alla coscienza non è un valido argomento per affermare il contrario, perché l’Apostolo usa questi termini in modo popolare, senza rapporti diretti con l’idea filosofica di legge naturale. Per l’Apostolo ciò che si verifica fin d’ora nell’intimo dei gentili onesti è attestato da quel tribunale interiore che è la « coscienza », la quale si identifica con il cuore, che anticipa nell’oggi quello che sarà il verdetto finale di Dio. 314

L’analisi fatta mostra chiaramente che, in fondo, l’interpretazione filosofica di questi due brani non ha un vero e proprio fondamento esegetico, ma dipende esclusivamente dal presupposto secondo cui Paolo non può parlare di veri gentili che osservano la legge in modo salvifico. Ma anche questo presupposto, dopo attenta valutazione, è risultato totalmente gratuito, sia alla luce dell’AT e del giudaismo, sia nel contesto di pensiero di Paolo. L’umanità è peccatrice in modo generalizzato, in quanto sottomessa al potere del male che si annida nei gangli vitali della convivenza umana. Ma la grazia di Dio è sempre presente nell’umanità. Resta quindi aperta la possibilità reale, verificabile nella vita di alcune persone, che la legge sia pienamente osservata.

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VII

I gentili e il giudizio (Rm 2,16.27)

Il brano in cui Paolo si appella ai gentili che, praticando la legge, dimostrano di avere l’opera della legge scritta nel cuore, si conclude nel v. 16 di Rm 2 con una affermazione brusca e inattesa: « Nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio vangelo ». Anche nel passo parallelo, riguardante i non circoncisi che praticano la legge, appare una frase in cui si fa allusione al tema del giudizio: « E (così) i non circoncisi per natura che osservano la legge giudicheranno te che, nonostante la lettera e la circoncisione, sei un trasgressore della legge » (Rm 2,27). La comparsa di questo tema non è inaspettata in quanto, sebbene nel contesto immediato si parli di realtà attuali, nella sezione in cui il brano è inserito il tema del giudizio escatologico è fortemente presente. È necessario dunque esaminare i due versetti in questione e poi stabilire qual è il ruolo che essi svolgono nell’argomentazione dell’Apostolo.

1. Il giudizio di Dio (Rm 2,16.27) Nel giudaismo è forte l’idea di un giudizio finale, al quale sarà sottoposta tutta l’umanità. Il compito di giu319

dice spetta a Dio, ma spesso egli coinvolge altri in questa funzione. A volte si tratta di Israele che condanna le nazioni in quanto riceve da Dio il regno. Altre volte il giudizio è affidato al Messia o all’inviato escatologico di Dio. La possibilità che siano i gentili a giudicare Israele si trova molto raramente, sebbene sia minacciata velatamente nel libretto deuterocanonico di Baruc: « Ritorna, Giacobbe, e abbracciala (la legge), cammina sotto il suo splendore, sotto la sua luce. Non dare a un altro (hetero˛¯ ) la tua gloria, e i tuoi privilegi a un popolo straniero (ethnei allotrio˛¯ ) » (Ba 4,3). In Rm 2,16 il giudizio finale è attribuito a Dio, il quale però si serve come mediatore di Cristo, che in questo ruolo si basa come criterio non della legge, come si dice in Rm 2,12, ma del vangelo annunziato da Paolo. Anche in Rm 2,27 si parla di giudizio, ma qui esso riguarda i giudei peccatori, mentre il compito di giudicare è attribuito ai non circoncisi che praticano la legge. Di quale giudizio si parla in ambedue i casi?

a) Un Dio che giudica o che giustifica? La frase di Rm 2,16 presenta un piccolo problema di carattere testuale: mentre secondo i manoscritti più importanti il versetto comincia con « nel giorno quando » (en he¯mera˛¯ hote), sono state conservate altre due lezioni (« nel giorno in cui », en he¯mera˛¯ he˛¯ , e « nel qual giorno », en he˛¯ he¯mera˛¯ )1. La differenza fra le tre lezioni è trascura1 La lezione adottata nel testo critico è quella riportata, fra gli altri, dai codici S (Sinaitico) e D (Occidentale o di Beza). Il codice A (Alessandrino) e qualche versione hanno en he¯mera˛¯ he˛¯ , mentre il solo codice B legge en he˛¯ he¯mera˛¯ .

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bile, ma è opportuno segnalarla perché ha dato motivo a diverse letture del testo. Il versetto presenta anzitutto un problema di carattere sintattico, in quanto non ha alcun collegamento con il contesto immediato (anacoluto). Inoltre, è problematico il fatto che in essa si parli di un giudizio che sarà eseguito da Gesù Cristo e per di più in base al vangelo di Paolo, in un contesto in cui tutto il discorso è incentrato sull’umanità prima di Cristo, senza alcun riferimento a lui e alla sua opera. Infine, il testo è apparentemente in contrasto con Rm 3,21, dove Gesù Cristo non sarà presentato come giudice ma come colui che giustifica l’empio. Questi diversi problemi si sovrappongono e danno origine a ipotesi diverse. Le incongruenze riscontrate in Rm 2,16 hanno fatto sì che alcuni esegeti considerassero questo versetto, nella sua totalità o in parte, come una glossa. Secondo R. Bultmann, tutto il versetto è una glossa e quindi deve essere eliminato2. Della stessa opinione sono anche altri, come ad esempio G. Bornkamm3. Pur non pronunziandosi espressamente a favore di questa ipotesi, O. Kuss non nasconde le sue simpatie per essa4. Secondo H. Sahlin, in Rm 2,15-16 sarebbe da considerarsi una glossa tutto il v. 15c (« E i ragionamenti che ora li accusano, ora li difendono ») e il termine giorno (he¯mera) con cui inizia il versetto successivo. Il testo originale sarebbe stato dunque: « E a ciò aggiunge la sua testimonianza la coscienza, nella R. Bultmann, Glossen im Römerbrief, in ThLZ 72 (1947) 200-202. G. Bornkamm, Gesetz und Natur (Röm 2,14-16), in Id., Studien zu Antike und Christentum, p. 117. 4 O. Kuss, La lettera ai Romani, vol. I, p. 103. 2 3

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quale (en he˛¯ , secondo la variante riportata sopra) Dio giudica (al presente) i segreti degli uomini »5. Nonostante le difficoltà che il versetto presenta, la maggior parte degli studiosi non ritiene che si tratti di una glossa. Non esiste infatti alcun argomento di carattere testuale che valga a mettere in dubbio la genuinità del versetto. Inoltre, dal punto di vista stilistico possono escogitarsi diverse soluzioni che eliminano o attenuano la rottura che si nota tra Rm 2,15 e 2,166. Una di queste consiste nel collegare 2,16 a 2,13: « Quelli che mettono in pratica la legge saranno dichiarati giusti... nel giorno in cui Dio giudicherà... »7: ma in tal caso, a parte la difficoltà di cogliere un nesso tra due frasi così lontane, il brano 2,14-15 verrebbe a essere, contro l’intenzione dell’Apostolo, una lunga parentesi senza influsso nella sua argomentazione. Altri risolvono la difficoltà affermando che sia il verbo principale « dimostrano » (endeiknyntai, 2,15a) sia il participio « rendendo testimonianza » (symmartyrouse¯s, 2,15b), pur essendo al presente, si riferiscono a un’azione futura, di cui subito dopo si dice che avrà luogo nel giorno del giudizio8: il contesto però non favorisce questa soluzione, poiché in 2,14-15 si descrive un’azione certamente presente, mentre 2,16 parla del giudizio finale. Un’altra via d’uscita, adottata solitamente nelle traduzioni, è quella di attribuire la disarmonia del testo allo stile di Paolo e di eliminar5 H. Sahlin, Einige Textemendationen zum Römerbrief, in ThZ 9 (1953) 93-95. 6 Per una panoramica delle soluzioni proposte, cfr. D.J. Moo, The Epistle to teh Romans (NICNT), Eerdmans, Grand Rapids 1996, p. 154. 7 Cfr. U. Wilckens, Der Brief an die Römer, vol. I, p. 137. 8 Cfr. C.E.B. Cranfield, La lettera di Paolo ai Romani, vol. I, p. 74.

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la introducendo all’inizio della frase qualche parola di collegamento. Un altro problema è quello della coerenza interna tra l’immagine che appare in Rm 2,16 (e di riflesso in 2,5-10.12-13; 3,6) di un Dio imparziale, che giudica in base alle opere, e quella del Dio che giustifica (3,21-26)9. A questo problema risponde D.A. Campbell, affermando che Rm 2 sarebbe una reductio ad absurdum del principio giudaico di retribuzione secondo le opere10. Non molto diversa è la posizione di R. Penna, il quale afferma, a proposito di Rm 2,1-11, che in questo contesto si « mette in rilievo un tipo di giustizia divina non evangelica ma per così dire religionista, corrispondente cioè allo schema comune di un Dio che (alla pari di ogni uomo) per sua natura è portato solo a retribuire, non a perdonare »11. Alludendo a 2,16, egli osserva: « Secondo il giudaismo, solo nel giudizio finale, rivelando le cose nascoste, Dio emetterà una sentenza definitiva sull’innocenza o la colpevolezza degli uomini (con relativa sanzione). Paolo invece di suo, pur non trascurando la prospettiva escatologica anche per il cristiano (cfr. Rm 3,30; 4,24), si caratterizza per il fatto di sottolineare una già avvenuta giustificazione dell’uomo nell’oggi storico mediante la fede »12. Una tesi analoga sostiene anche G. Barbaglio quando afferma che in Rm 2,13 Paolo procede in modo contraddittorio rispetto alla sua 9 Il problema è espresso bene da S. Romanello, La giustizia di Dio in Rm 1,16 - 4,25: concezioni in conflitto?, in R. Fabris (ed.), La giustizia in conflitto. Atti della XXXVI Settimana Biblica, in RicStBib 1-2 (2002) 245-294, qui 284-285. 10 Cfr. D.A. Campbell, A Rhetorical Suggestion Concerning Romans 2, in SBL.SP 23 (Atlanta 1995) 140-167. 11 R. Penna, Lettera ai Romani, vol. I, p. 205. 12 R. Penna, Lettera ai Romani, vol. I, pp. 233-234.

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teologia; « di fatto si pone dal punto di vista del giudeo assumendone le convinzioni e con queste intende metterlo nell’angolo nella questione dell’equiparazione di giudei e gentili. Così siamo chiamati a leggere in 2,13 non il suo punto di vista, ma quello dell’interlocutore giudeo (...) »13. Si pone così il problema del giudizio secondo le opere, che si trova non solo in Rm 2,16 ma anche in diversi altri luoghi della sezione 1,18 - 3,20: si tratta solo di un espediente retorico usato per confutare gli interlocutori giudei, oppure di un punto qualificante della teologia paolina, in armonia con la sua dottrina circa la giustificazione mediante la fede?

b) Il giudizio escatologico Il tema del giudizio, pur essendo secondario rispetto a quello della giustificazione, appare abbastanza frequentemente nell’epistolario paolino14. A esso l’Apostolo fa ricorso a proposito non solo dell’umanità prima di Cristo ma anche di coloro che hanno creduto in lui. Giustificazione e giudizio non si contrappongono, ma caratterizzano due momenti diversi nella storia della salvezza. Segnaliamo anzitutto la sua comparsa in genere nell’epistolario paolino, per poi concentrare l’attenzione sulla sezione riguardante la rivelazione dell’ira di Dio (Rm 1,18 - 3,20). G. Barbaglio, La teologia di Paolo, p. 564. Cfr. F. Büchsel, Krino¯, in GLNT 5,1066-1068; K.P. Donfried, Justification and Last Judgment in Paul, in ZNW 67 (1976) 90-110; S.H. Travis, Giudizio, in G.F. Hawthorne - R.P. Martin - D.G. Reid (edd.), Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999, pp. 786-788; J.D.G. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo (Introduzione allo studio della Bibbia. Suppl. 5), Paideia, Brescia 1999, pp. 479-482. 13 14

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Nell’epistolario paolino. Secondo l’Apostolo, il giudizio è una prerogativa che compete a Dio solo e si situa in modo specifico negli ultimi tempi. Tuttavia, Dio non aspetta il momento finale per svolgere il suo ruolo di giudice: la sua attività giudiziale, pur essendo orientata al giudizio finale, si svolge già nel corso delle vicende umane come espressione del suo governo del mondo e della storia. Ciò appare a proposito della cena del Signore, nel cui contesto il peccato contro la comunità quale corpo di Cristo ha come conseguenza malattia e morte (1Cor 11,29-32). La prospettiva escatologica è fortemente affermata nella lettera più antica di Paolo, dove sullo sfondo della sua prima predicazione appare l’annunzio dell’incombente ira di Dio: « Vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira ventura » (1Ts 1,9-10; cfr. 5,9). In questo testo Gesù non appare come il giudice, ma come un teste in favore di quanti hanno creduto in lui, mentre secondo At 17,31 Paolo avrebbe detto in Atene che sarà Gesù stesso a giudicare il mondo con giustizia. L’ira da cui sono liberati i credenti è arrivata al colmo proprio sul capo di quei giudei che ostacolano la predicazione del vangelo (1Ts 2,16). Il ruolo di giudice è attribuito a Gesù nella 2Tessalonicesi, dove si dice che al momento del suo ritorno farà scatenare l’ira di Dio sui malvagi (2Ts 1,6-10). Anche per i credenti che in qualche modo hanno sbagliato, il giudizio finale riserva una speranza di salvezza (1Cor 3,13-15). A proposito dell’incestuoso di Corinto, Paolo afferma che egli deve « essere abbandonato in balia 325

di satana... affinché il suo spirito possa ottenere la salvezza nel giorno del Signore » (1Cor 5,5). I castighi che Dio infligge alla comunità nel corso della storia servono non alla distruzione ma alla salvezza finale: « Se siamo puniti dal Signore, veniamo da lui corretti affinché non siamo condannati con il mondo » (1Cor 11,32). Nel giudizio, un ruolo di primo piano spetta a Cristo. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori: allora ciascuno avrà la sua lode da Dio (1Cor 4,1-5). Alla fine, Cristo svolgerà una vera e propria attività giudiziale: « Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male » (2Cor 5,10). Anche ai santi, cioè ai membri della comunità, è riservato un ruolo giudiziale: « O non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se è da voi che verrà giudicato il mondo, siete dunque indegni di giudizi di minima importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più le cose di questa vita! » (1Cor 6,2-3). I santi svolgeranno quindi un ruolo che, secondo le concezioni apocalittiche giudaiche, era riservato a Israele (cfr. Dn 7,22; Sap 3,8; 1QpAb 5,4-5). Con questa immagine è messo in luce il ruolo centrale che compete alla comunità dei credenti in Cristo nel piano salvifico di Dio. Siccome il giudizio spetta solo a Dio, è proibito ai singoli di emettere giudizi sui propri simili (1Cor 10,29; cfr. Rm 14,10). Paolo pensa che in ultima analisi nessuno è autorizzato a giudicare gli altri e neppure se stesso (1Cor 4,3). Coloro che fanno parte della comunità devono però sottostare al giudizio vigilante dei loro fratelli (1Cor 326

5,12). Anche l’Apostolo si sottopone al giudizio della comunità (1Cor 10,15). È scontato che tutti dovranno presentarsi davanti al tribunale di Dio (Rm 14,10). Allora Dio attuerà la vendetta nei confronti dei malvagi (Rm 12,19). Il credente però, in forza della giustificazione da lui ottenuta, è già liberato dal giudizio di condanna per mezzo di Cristo (Rm 5,9; 8,1). Da questi riferimenti appare che il tema del giudizio fa parte dell’annunzio evangelico, in quanto rappresenta lo sfondo oscuro su cui si staglia il lieto annunzio della salvezza, il cui scopo è precisamente quello di salvare l’umanità dalla minaccia incombente del giudizio divino. Il ruolo di Gesù come strumento del giudizio è totalmente subordinato al fatto di essere proprio lui il mediatore della salvezza definitiva: metaforicamente, Gesù giudica nella misura in cui, attuando il regno di Dio, dichiara la perdizione di coloro che lo rifiutano (cfr. Gv 3,17-18; 5,27). Rm 1,18 - 3,20. In questa sezione Paolo, volendo dimostrare che tutti, giudei e gentili, sono bisognosi della salvezza portata da Cristo, delinea i contorni di una umanità dominata dal peccato. A tale scopo egli si serve del tema tipicamente giudaico dell’ira di Dio e del giudizio15. Il verbo krino¯ è usato ben 7 volte in Rm 2; in più appare una volta il verbo composto katakrino¯ (2,1), 2 volte il sostantivo krima (2,2.3) e una volta dikaiokrisia (2,6). L’idea di giudizio costituisce dunque il leitmotiv di Rm 2: è dunque importante partire da essa per cogliere il tipo di argomentazione che l’Apostolo sviluppa. Il suo scopo non 15 Cfr. S. Romanello, L’ira di Dio in Paolo: ragione ed ermeneutica di una categoria « violenta », in L. Mazzinghi (ed.), La violenza nella Bibbia. XXXIX Settimana Biblica, in RicStBib 1-2 (2008) 195-221.

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è quello di promulgare la condanna di Dio nei confronti dei peccatori o di invitarli alla conversione, ma piuttosto quello di fare emergere nei suoi ascoltatori la consapevolezza della loro situazione disperata, per poi annunziare il dono gratuito della salvezza da parte di Dio in Cristo16. Nella narratio di Rm 1,18-32 Paolo mette in luce la situazione di coloro che tengono costretta la verità nell’ingiustizia (1,18). Egli dipinge un fenomeno di ampie dimensioni, ma non specifica l’identità di coloro su cui si focalizza la sua attenzione. Certamente ha in mente i due grandi tronconi in cui si divide l’umanità, giudei e greci (1,16; 2,9.10); siccome dei giudei parlerà espressamente nel capitolo successivo (cfr. 2,17), è opinione quasi unanime degli studiosi che qui Paolo descriva la situazione dei gentili. A ciò si aggiungono considerazioni ricavate dall’interno del brano stesso, quali il tema della conoscenza razionale di Dio a partire dalle sue opere e l’accusa di idolatria in termini che non si confanno al mondo giudaico. All’ipotesi di un riferimento implicito ai gentili rimanda anche la somiglianza con quei testi giudeo-ellenistici in cui si condanna l’idolatria e l’immoralità dei gentili, primo fra tutti Sap 13-14. Questa opinione è stata messa in discussione da A. Pitta, il quale osserva che in questo contesto Paolo non fa mai accenno ai gentili, mentre d’altro canto parla della conoscenza di Dio e dell’idolatria in termini che si adattano ugualmente bene sia ai giudei che ai gentili: di conseguenza, Pitta afferma che Paolo si riferisce qui a tutta l’umanità, senza distinzioni di carattere religioso o 16 G. Bornkamm, Die Offenbarung des Zornes Gottes, in Id., Das Ende des Gesetzes, pp. 23-26.

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etnico17. Questa posizione risulta senz’altro corretta se ci si riferisce a ciò che Paolo effettivamente pensa: fin dal principio della sua argomentazione, egli vuole mettere in luce che giudei e greci si trovano su un piano di parità di fronte al vangelo e che quanto si dice degli uni vale senza riserve anche per gli altri (cfr. Rm 2,1). Ma se si considera l’aspetto retorico dell’argomentazione, bisogna riconoscere che subito dall’inizio Paolo fa una distinzione di campi. Dopo avere enunciato la divisione dell’umanità in giudei e greci (cfr. Rm 1,16), egli si mette volutamente nell’ottica dei primi e adotta lo stile della loro predicazione in ambito ellenistico. In tal modo egli ne attira il consenso, per poi puntare il dito contro di loro e dichiarare che si trovano anch’essi nella stessa situazione18. Se avesse attaccato subito indiscriminatamente gentili e giudei l’Apostolo avrebbe avuto ben poche possibilità di convincere i suoi interlocutori giudei, i quali mai avrebbero accettato di essere equiparati ai gentili. La condanna nei confronti dei gentili è espressa da Paolo mediante l’immagine biblica dell’« ira di Dio » che si manifesta già nel corso della storia umana. Ma è importante sottolineare ancora una volta che Paolo è ben attento a rivolgere la sua accusa non a tutti i gentili, bensì solo a coloro che « soffocano la verità nell’ingiustizia » 17 A. Pitta, Rm 1,18-32: Soltanto i pagani oggetto dell’ira di Dio?, in Id., Il paradosso della croce. Saggi di teologia paolina, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1998, pp. 177-194, qui 189-194; cfr. J.-N. Aletti, La lettera ai Romani e la giustizia di Dio, Borla, Roma 1997, pp. 77-78 e prima ancora Th. Zahn (Der Brief des Paulus an die Römer, A. Deichertsche Verlagsbuchhandlung Dr. Werner Scholl, Leipzig 19253, p. 90), secondo il quale l’Apostolo intende riferirsi non ai gentili, ma a tutta l’umanità. 18 Cfr. C.L. Porter, Romans 1:18-32: Its Role in the Developing Argument, in NTS 40 (1994) 210-228, il quale però non è corretto quando afferma che in seguito Paolo rifiuta in blocco questo discorso.

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(Rm 1,18)19. Nonostante il tono generalizzante della sua accusa, la condanna indiscriminata di tutta l’umanità prima di Cristo sarebbe, oltre che indimostrata, anche in antitesi con la dialettica interna della sua argomentazione. Il fatto stesso che Dio « abbandoni » (cfr. Rm 1,24.26.28) i colpevoli al loro peccato rappresenta per lui una drammatica condanna. Infatti, secondo il pensiero biblico, il peccato porta sempre con sé conseguenze terribili per coloro che sbagliano e per coloro che ne condividono la vita e le scelte (cfr. Es 20,5). La diffusione del male rappresenta quindi la premessa, e in una certa misura l’anticipazione, della condanna nel giudizio finale di Dio a cui tutta l’umanità sarà sottoposta. Di questa condanna si parla in Rm 1,32, dove è ricordata la « sentenza di Dio » (dikaio¯ma to theou) in forza della quale chi compie i vizi sopra descritti merita la morte20. In Rm 2,1 - 3,20 Paolo passa dal « racconto » (narratio) all’accusa: a tal fine, egli adotta (ad eccezione di 2,12-16) il procedimento tipico della diatriba cinico-stoica, che consiste nell’aprire un dibattito con un interlocutore fittizio, il quale è interpellato in seconda persona singolare. In questa parte si nota il ripetersi del termine giudicare (krino¯) e derivati21, nonché la ricomparsa del termine giudeo in antitesi a greco/gentile. È caratteristico, infine, l’uso dei verbi al futuro: l’attenzione dell’Apostolo Cfr. R. Penna, Lettera ai Romani, vol. I, p. 169. Il termine dikaio¯ma ha qui il significato originale di una « sentenza » (in ebraico, mišpat.), cioè di un precetto a cui è annessa una sanzione. Qui probabilmente si tratta della morte fisica, pur senza escludere la prospettiva di una morte eterna (cfr. R. Penna, Lettera ai Romani, vol. I, p. 202, nota 142). 21 Essi hanno come soggetto prima un anonimo interlocutore (Rm 2,1[4x]. 3[1x]), poi Dio stesso (Rm 2,2.3.5.12.16; 3,4.6.7.8), infine i non circoncisi (Rm 2,27). 19 20

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si sposta dunque dal presente al tempo escatologico, nella cui prospettiva delinea la situazione attuale dell’umanità peccatrice. In Rm 2,1-11 Paolo si rivolge a un interlocutore di cui volutamente non rivela l’identità. A lui lancia l’accusa di giudicare (krinein) gli altri, cioè i malvagi descritti in 1,18-32, e al tempo stesso di compiere i medesimi misfatti (2,1). Anzitutto, Paolo lo dichiara « inescusabile » come coloro che appartengono alla categoria precedente (cfr. 1,20). Proprio nel momento in cui giudica gli altri, egli condanna (kata-krino¯) inevitabilmente se stesso, perché anch’egli compie le stesse cose; egli perciò sarà sottoposto al giudizio (krima) di Dio, al quale non potrà sottrarsi per il semplice fatto di esprimere un giudizio negativo nei confronti dei peccatori (2,2-3). Egli dimostra infatti di non riconoscere la bontà di Dio che lo spinge alla conversione e così facendo attira su di sé l’ira che lo colpirà nel giorno del giusto giudizio (dikaiokrisia) di Dio (2,4-5). Allora Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere (2,6). In questi versetti si ha il passaggio esplicito dal giudizio nel corso della storia al giudizio escatologico. Esso appartiene a Dio, ma il peccatore che giudica gli altri collabora, senza volerlo, ad anticipare il suo verdetto di condanna nei propri confronti. Gli effetti del giudizio divino sono espressi in due frasi strutturate in forma chiastica: vita eterna a chi fa opere di bene e ira ai ribelli (Rm 2,7-8); tribolazione e angoscia per chi opera il male, gloria per chi opera il bene (2,9-10). La seconda parte del chiasma è aggiunta per sottolineare che nel giudizio secondo le opere sono coinvolti a pari condizione sia il giudeo che il greco, sebbene al 331

primo competa un primato nel premio come nel castigo. Paolo conclude che presso Dio non c’è « parzialità » (proso¯pole¯mpsia, Rm 2,11). Anche in questo brano non è indicata l’identità dell’interlocutore a cui Paolo si rivolge, ma si richiede poca fantasia per intuire che egli abbia già in mente proprio quell’uditorio giudaico davanti al quale aveva fatto implicitamente il suo attacco contro i gentili. Si tratta, infatti, di persone che conoscono la volontà di Dio, alla quale danno il loro assenso, e hanno fiducia nella sua misericordia, pur facendo il male22. Per Paolo, delle due categorie di persone in cui si divide l’umanità, cioè giudei e greci (cfr. 1,16), ambedue sottoposte al giudizio divino (cfr. 2,9-10), non possono identificarsi che con la prima. Infine, il loro identikit corrisponde precisamente a quello del giudeo, il quale si presenta ai gentili come maestro proprio di quella moralità che egli stesso disattende (cfr. 2,17-24)23. In Rm 2,12-13 Paolo si rifà nuovamente al tema del giudizio per rispondere all’obiezione dei giudei che si ritengono al sicuro per il fatto che, anche se non la osservano, hanno il privilegio di possedere la legge di Dio. A essi egli risponde che quanti hanno peccato senza la legge, senza la legge periranno; ma quanti hanno peccato sotto la legge, saranno giudicati mediante la legge (v. 12). La legge non serve a evitare il giudizio, ma offre il metro sul quale esso si attua. Perciò nel giudizio finale 22 Paolo ha di mira la pretesa giudaica di trovarsi in una posizione privilegiata, secondo quanto si afferma in Sap 15,2: « Anche se pecchiamo, siamo tuoi, conoscendo la tua potenza; ma non peccheremo più, sapendo che ti apparteniamo ». 23 Cfr. J.A. Fitzmyer, Lettera ai Romani, p. 356. È difficile supporre che in Rm 2,1-5 Paolo abbia ancora di mira tutta l’umanità, come vorrebbero J.-N. Aletti (La lettera ai Romani, pp. 77-80) e A. Pitta (Lettera ai Romani, pp. 101-102).

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saranno giustificati (dikaio¯the¯sontai), nel senso di « essere riconosciuti giusti » (cfr. Sal 143[142],2) non coloro che ascoltano la legge, ma quelli che la mettono in pratica (v. 13). Nonostante l’uso del verbo dikaioo¯, non si parla qui ancora di giustificazione, ma semplicemente del giudizio secondo le opere (cfr. Rm 2,6)24. A questo punto si inseriscono i due brani che trattano dei gentili, non circoncisi, che praticano la legge (Rm 2,14-16.25-29). Nel brano intermedio (2,17-24) appare ormai esplicitamente che la polemica è rivolta principalmente nei confronti dei giudei, i quali si vantano della legge e non la praticano. Successivamente, Paolo affronta un’ultima difficoltà: Se l’infedeltà dell’uomo mette in luce la fedeltà di Dio, come si può ancora ammettere che Dio riversi su di noi la sua ira? La risposta di Paolo è perentoria: se Dio non potesse fare ciò non sarebbe più il giudice del mondo (Rm 3,5-6; cfr. Gn 18,25). E proprio l’immagine di Dio giudice, che non fa preferenza di persone, permette a Paolo di dichiarare che tutti, giudei e gentili, di fronte al suo tribunale, risultano sottoposti al dominio del peccato (Rm 3,9-20). L’appello al giudizio escatologico di Dio appare dunque strumentale in vista di un’accusa rivolta da Paolo all’umanità del suo tempo e di tutti i tempi. Pur con le riserve che si prospettano circa l’effettiva partecipazione 24 Non c’è contraddizione tra Rm 2,13 e 3,20 (« In virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui »), perché mentre nel primo si tratta del giudizio finale, nel secondo l’attenzione è rivolta alla giustificazione che ha luogo nell’oggi (futuro gnomico, cfr. A Pitta, Lettera ai Romani, p. 151). Sul tema del rapporto tra giustificazione e giudizio, cfr. S. Lyonnet, Justification, Jugement, Rédemption, principalement dans l’épître aux Romains, in Id., Études sur l’Épître aux Romains (AnBib 120), PIB, Roma 1989, pp. 144-162; K.P. Donfried, Justification and Last Judgment in Paul, in ZNW 67 (1976) 90-110.

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di tutti a questa situazione di peccato, Paolo ha raggiunto lo scopo di dimostrare che in esso sono coinvolti, senza differenza, giudei e gentili, sottolineando che i primi, essendo dotati di maggiori strumenti per opporvisi, sono i più colpevoli.

c) Rm 2,16.27: il giudizio come salvezza Nel contesto dell’argomentazione paolina Rm 2,1416.25-29 svolge un ruolo di primaria importanza. Se prima di tutto Paolo descrive la situazione di peccato del mondo gentile, lo fa per motivi strategici, perché vuole arrivare a dimostrare che in essa sono coinvolti anzitutto proprio i giudei, che sono i suoi veri interlocutori in questa argomentazione. Di fronte a persone restie a mettersi in questione e a riconoscere i propri torti, Paolo non poteva trovare di meglio che associarsi a esse nel dichiarare la condanna, data per scontato, nei confronti dei gentili, per poi rivolgersi contro di loro, mostrando che, nel momento stesso in cui giudicano gli altri, condannano se stessi, poiché si comportano nello stesso modo. Il metodo da lui adottato è simile a quello di cui si è servito il profeta Natan allo scopo di convincere Davide del suo peccato (cfr. 2Sam 12,1-7)25. Pur volendo dichiarare la colpevolezza di tutta l’umanità « prima di Cristo », Paolo in realtà è preoccupato di convincere proprio quella parte di umanità che si riteneva già giustificata anche solo in base a particolari privilegi (la legge, la circoncisione e 25

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Cfr. Th. Schmeller, Paulus und die « Diatribe », p. 285.

le promesse divine). Se a loro spetta un primato, questo ha luogo non solo nel premio ma anche nel castigo. Solo così può affermare l’imparzialità di Dio e l’uguaglianza davanti a lui di tutta l’umanità. Il giudizio per mezzo di Gesù Cristo (2,16). L’anacoluto con cui inizia Rm 2,16 non è un motivo per dichiarare tutto il versetto una glossa, come non lo è il suo contenuto. L’anacoluto si risolve supponendo che siano sottintese alcune parole, come « ciò avverrà » (traduzione della CEI) oppure « ciò apparirà ». Fra queste due possibilità la migliore è la seconda, in quanto si passa da un fatto attuale (2,15, la situazione dei gentili onesti) a un evento del futuro (2,16, il giudizio escatologico): ciò che adesso è nascosto nel segreto della coscienza degli interessati, un giorno apparirà pubblicamente, davanti a tutti. In tal modo è risolto anche il dilemma se il verbo giudicare sia qui un presente oppure un futuro. La prima ipotesi si fonda sul fatto che nei versetti precedenti (Rm 2,14-15) si tratta soltanto di fatti presenti. Ma non si può negare che l’idea del giudizio escatologico di Dio sia presente in tutta la sezione. D’altra parte, il giudizio di Dio per mezzo di Cristo non può essere che un evento escatologico. Perciò con la maggior parte degli studiosi consideriamo il verbo come un futuro. Paolo ha affermato una realtà, l’attuazione delle promesse escatologiche in favore dei gentili onesti, che non è percepibile, specialmente agli occhi di persone prevenute. Egli ne rimanda perciò la manifestazione al momento del giudizio finale di Dio, nel corso del quale le cose occulte saranno rese palesi. In modo analogo Paolo si è espresso in 1Cor 4,5, dove egli esorta i corinzi a non giudicare prima del tem335

po (cfr. Rm 2,1), ma ad attendere la venuta del Signore che illuminerà le cose nascoste delle tenebre e manifesterà i disegni dei cuori (cfr. Rm 2,16) e allora la lode sarà a ciascuno da parte di Dio (cfr. 2,29). Più problematica è l’affermazione secondo cui il giudizio sarà compiuto per mezzo di Gesù Cristo e sulla base del vangelo annunziato da Paolo. Essa sembra in contrasto con il fatto che poco prima si era fatto riferimento alla legge come norma di giudizio (cfr. Rm 2,12), in una sezione in cui si prescinde da Cristo e dalla sua opera salvifica. Tuttavia non si può negare che il ruolo giudiziale attribuito a Cristo sia in piena sintonia con le convinzioni di Paolo, condivise con quelle di tutti gli autori del NT, i quali ritengono che il giudizio finale avverrà per mezzo di Cristo26. In 2,16, poi, l’accenno a Cristo giudice non appare così strano qualora si riconosca in 2,15a una vera utilizzazione della profezia di Geremia. Secondo Paolo, questa si attua normalmente a favore di coloro che hanno accettato, mediante la fede, la salvezza portata da Cristo. Ma se essa si realizza anche là dove l’annunzio del Vangelo non è ancora giunto, vuole dire che il vangelo è veramente universale, in quanto non si discosta dai contenuti fondamentali della legge mosaica, che a sua volta coincide con quanto i gentili, per altra via, hanno conosciuto di Dio e della sua volontà: il giudizio avverrà per tutti nello stesso modo. Perché Gesù sia il giudice universale non è dunque necessario pensare, come afferma ad esempio J. Huby, 26 Cfr., ad esempio, Mt 13,41-42; 16,27; 25,31-46; Gv 5,22; 1Ts 1,10; 2Cor 5,10; At 17,31.

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che giudei e gentili siano stati messi in grado di accettare o di respingere la grazia di Gesù Cristo che, misteriosa e anonima, li sollecitava nel segreto del loro cuore a fare il bene27. A tale scopo è sufficiente che i valori propugnati nel vangelo siano universali, così come universale è la grazia di Dio che li accompagna nel cuore di ogni essere umano. Dio interviene a favore dei gentili, come risulta dal fatto che nel cuore di alcuni di loro sia scritta un’unica opera, quella dell’amore, che d’altra parte è il precetto centrale del vangelo annunziato da Cristo. Ciò significa che esso è l’oggetto adeguato della sua volontà, non solo nei confronti dei giudei ma anche dei gentili: sia gli uni che gli altri, sebbene in modi diversi, ne erano a conoscenza. Quindi tutti sono sottoposti al giudizio di Cristo. È significativo anche il fatto che Paolo indichi come norma di giudizio non il vangelo in genere, ma il « suo » vangelo. Ciò si comprende tenendo presente che proprio il vangelo di Paolo « è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del greco ». L’aspetto che l’Apostolo ha maggiormente sottolineato nel vangelo di Gesù è questa perfetta uguaglianza di tutti, giudei e gentili, di fronte al dono di Dio. Questo aspetto del vangelo, che esclude in Dio ogni preferenza di persona (cfr. Rm 2,11), postula che alla fine il giudizio avvenga sulla base di quanto egli ha annunziato. Rm 2,16 ha dunque una funzione ben precisa nell’argomentazione di Paolo: la testimonianza della coscienza, che attesta l’azione di Dio nel cuore dei gentili onesti, è qualcosa di attuale, ma ancora nascosto nell’intimo del 27

H. Huby - S. Lyonnet, Epistola ai Romani, pp. 111 e 116.

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cuore; essa però avrà la sua piena manifestazione solo nel giorno del giudizio finale, quando Dio, diversamente da quanto fanno gli uomini, non giudicherà secondo le apparenze, ma terrà conto delle cose nascoste, siano esse intenzioni o opere28. Allora alla luce del Vangelo, sulla base del quale Cristo giudicherà tutti gli uomini, apparirà chiaramente che tali gentili, ispirando la loro vita al precetto dell’amore, hanno ricevuto da Dio il dono della salvezza. Presentando Gesù come il giudice universale, Paolo vuole ribadire il principio secondo cui anche il dono della salvezza è veramente universale. I giudei giudicati dai gentili (2,27). La condanna espressa nei confronti dei giudei trasgressori raggiunge il suo culmine in Rm 2,25-29, dove Paolo intende rispondere a un’obiezione, non espressa ma facilmente intuibile, proveniente dal mondo giudaico: Il possesso della circoncisione non sarà forse una garanzia sufficiente di salvezza anche là dove la legge non è osservata? In risposta a questa obiezione, egli afferma anzitutto che il non circonciso che osserva la legge è dotato egli pure di circoncisione (2,26); in 2,28 egli precisa che la vera circoncisione non è quella della carne ma quella del cuore, nello Spirito e non nella lettera: è questa la circoncisione che appartiene al non circonciso che osserva la legge. Questi è dunque, sebbene ancora « in segreto » (en to˛¯ krypto˛¯ ), il vero giudeo, e come tale riceverà la sua lode da Dio e non dagli uomini (2,29). Il non circonciso che osserva la legge è dunque messo sullo stesso piano di colui che è giustificato mediante la fede in Cristo, in quanto possiede 28

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Cfr. S. Légassse, L’epistola di Paolo ai Romani, p. 142.

il dono dello Spirito, contrapposto alla lettera (cfr. Rm 7,6; 8,2; 2Cor 3,6). Tuttavia l’Apostolo non parla qui di cristiani, ma di gentili non ancora raggiunti dall’annunzio del vangelo. Il fatto che egli li consideri « veri giudei », e non veri cristiani, denota il punto di vista preevangelico in cui egli si colloca: fino a 3,20 egli considera l’umanità esistente prima e al di fuori dell’annunzio evangelico, la quale si divide, secondo il punto di vista giudaico, da lui condiviso, in giudei e gentili. In Rm 2,27 Paolo fa un passo in avanti e afferma che il non circonciso che osserva la legge « giudicherà » (krinei, al futuro) il giudeo che, pur possedendo la « lettera » (della legge) e la circoncisione, è trasgressore della legge. Paolo ha in vista il giudizio finale, come in 2,16. Ma mentre là il giudizio era attribuito a Dio mediante Gesù Cristo, qui il ruolo di giudici è assegnato ai gentili onesti. Si riprende così un tema abbastanza diffuso nel mondo giudaico, secondo il quale Dio giudicherà il mondo per mezzo dei suoi eletti. Secondo l’opinione generale, questi sarebbero stati gli israeliti; ora invece sono le nazioni che giudicano Israele. I rapporti si sono capovolti29. Il giudizio assegnato ai gentili è però di carattere metaforico: essi giudicheranno i giudei trasgressori in quanto, avendo ottenuto un privilegio che di per sé spetterebbe a loro, ne smascherano le pretese e mettono in luce la loro situazione senza via d’uscita. Il fatto che alcuni gentili raggiungano in modo così imprevisto i beni di 29 Questa idea, che abbiamo trovato solo nel Test.Beniamino (vedi qui a p. 187), è attestata nei vangeli sinottici, in Mt 12,41-42 // Lc 11,32.31 e soprattutto in Mt 8,11-12 // Lc 13,28-29, dove la condanna dei giudei della generazione di Gesù va di pari passo con una promessa ai gentili (cfr. M. Reiser, Jesus and Judgment, pp. 206-221; 230-236).

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cui essi si ritenevano unici depositari costituisce per loro una vera e propria condanna in quanto manifesta la loro stoltezza e presunzione, rendendo più dura e cocente la loro punizione: essi pensavano di giudicare i gentili (cfr. Rm 2,1), e invece sono essi a essere sottoposti al giudizio e alla condanna da parte di costoro (cfr. Mt 7,2). È significativo il rapporto tra Rm 2,27 e il brano parallelo di 2,16. Mentre in quest’ultimo si afferma che sarà Dio per mezzo di Cristo a giudicare i giudei trasgressori della legge sulla base del vangelo di Paolo, in 2,27 sono gli stessi gentili che, raggiungendo la meta promessa ai giudei, ne proclamano la condanna. Il collegamento tra i due brani è tanto più significativo in quanto vi appare lo stesso aggettivo sostantivato kryptos (nascosto): Dio giudicherà « le cose nascoste degli uomini » (ta krypta to¯n anthro¯po¯n, 2,16). I gentili onesti giudicheranno i giudei trasgressori perché sono loro i veri giudei, sebbene ancora « in segreto » (en to˛¯ krypto˛¯ , Rm 2,29). Paolo avrebbe potuto affidare questo compito ai cristiani, ma la sua argomentazione non avrebbe avuto la stessa efficacia. Costoro infatti non sono privi della legge, in quanto posseggono la « legge di Cristo » (cfr. 1Cor 9,21) e sono essi stessi i veri circoncisi (cfr. Fil 3,3). Non così i gentili non ancora evangelizzati. Se essi, pur non possedendo la legge, sono giunti a praticarla, i giudei che la possiedono senza praticarla sono del tutto squalificati. In Rm 2,25-29 Paolo dunque chiama in questione i gentili e dichiara che alcuni di loro, entrando in possesso di un bene escatologico, la circoncisione del cuore operata dallo Spirito, diventano i giudici, in senso metaforico, dei giudei ai quali quei beni sono stati promessi ma che 340

se ne sono resi indegni. Come si vede, il modo di procedere di Paolo è lo stesso usato dai vangeli per esprimere la condanna di Gesù nei confronti dei giudei increduli. Con la differenza, però, che Paolo si riferisce non semplicemente al giudizio finale, ma a una realtà che, pur essendo ancora nascosta, non per questo è meno reale.

2. L’argomentazione di Paolo Al termine dell’esegesi di Rm 2,14-16.26-29 è importante ora mostrare, per quanto è possibile, come i dati che emergono da questo brano si inseriscano all’interno non solo della sezione iniziale della lettera (1,18 - 3,31), ma anche nella visione religiosa dell’Apostolo. Il punto di partenza della sua riflessione è la sua esperienza personale di Cristo, nel quale egli ha visto il rappresentante escatologico di Dio, a cui compete il compito di instaurare in modo definitivo il suo regno. A partire dalla persona e dall’opera di Cristo, egli guarda retrospettivamente la storia dell’umanità, cogliendo in essa un bisogno di salvezza al quale nessuno prima di lui aveva dato una risposta così piena ed esaustiva.

a) Giudizio finale e regno di Dio Il pensiero di Paolo è fortemente contrassegnato dall’attesa del giudizio finale. L’ombra dell’ira di Dio che incombe sull’umanità peccatrice appare subito all’inizio della sua predicazione (cfr. 1Ts 1,9-10) e gioca un ruolo 341

importante fino alla fine della sua attività missionaria, quando scrive la sua lettera ai cristiani di Roma (Rm 1,18). L’idea del « giudizio » nell’epistolario paolino deve però essere vista in stretto collegamento con la venuta del « regno di Dio », un concetto ben noto non solo ai vangeli sinottici (cfr. Mc 1,15), che lo presentano come il nucleo centrale della predicazione di Gesù, ma anche a Paolo che lo suppone conosciuto dai suoi interlocutori (cfr. Rm 14,17; 1Cor 4,20; 6,9.10; 15,24.50; Gal 5,21). Sullo sfondo della mentalità apocalittica, che anch’egli in una certa misura condivide, l’Apostolo pensava al regno di Dio non come a una realtà di un altro mondo, a un « paradiso » che aspetta il giusto dopo la morte, ma come all’instaurarsi, fra le persone, di rapporti nuovi improntati all’amore e alla giustizia: « Il regno di Dio non è questione di cibo e di bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito santo » (Rm 14,17). Nella prospettiva del regno di Dio, il giudizio non appare quindi come una retribuzione del bene o del male commesso dagli esseri umani nella loro vita terrena, ma piuttosto come una vittoria portata a termine per mezzo di Cristo sulle potenze che dominano il mondo (1Cor 15,24-27). Fra di esse Paolo comprendeva senza dubbio il potere imperiale, nei cui confronti lo scontro era totale: per lui, il Kyrios non era Cesare, ma Cristo (1Cor 8,6). Ma erano incluse anche tutte quelle entità che spingono allo sfruttamento dell’altro per fini di egoismo personale. Queste potenze, che si manifestano nei vizi diffusi nell’umanità, sono simbolicamente rappresentate nella figura del peccato personificato (Rm 8,3). Anche la morte è un potere che deve essere vinto (cfr. 1Cor 15,54-55). 342

In questo contesto l’ira di Dio, sia quella che si manifesta nella storia che quella che si scatena alla fine dei tempi, non deve essere compresa tanto come giusta punizione dei peccati commessi dagli esseri umani, quanto piuttosto come l’espressione della totale alterità di Dio nei confronti delle potenze di questo mondo.

b) Giudizio e giustificazione La venuta del regno di Dio non è solo un evento escatologico, ma è un processo che ha luogo già nel corso della storia. Per questo, Dio ha scelto Abramo e in lui il popolo di Israele che si distingue dagli altri popoli perché ha preso su di sé il « giogo della legge ». Dio è il re di questo popolo, perché lo ha liberato dal potere dell’Egitto e lo ha chiamato a osservare, nel quadro dell’alleanza ratificata ai piedi del Sinai, una legge santa che ha lo scopo di stabilire rapporti giusti fra le persone. Accettare la regalità di Dio significa dunque, per i singoli israeliti come per tutto il popolo, impegnarsi fino alla morte in un servizio a Dio che si traduce in atti concreti di solidarietà fra le persone. La missione di Israele appare soprattutto in alcune grandi figure della Bibbia, come Mosè, il Giusto sofferente (Sal 22), il Servo di JHWH (Is 52,1-12), il Messia (Is 9,1-6; 11,1-9). Per Paolo, come per tutto il nascente movimento cristiano, le esperienze e le attese di cui sono stati caricati questi personaggi hanno avuto compimento nella figura di Gesù. Nella sua persona la lotta contro le potenze ha avuto la sua massima espressione, soprattutto nella sua presa di posizione fino alla morte nei confronti 343

di un potere politico e religioso invadente e oppressivo. Così egli ha mostrato chiaramente che cosa vuole dire accettare su di sé il regno di Dio. In questo contesto deve leggersi la dottrina della giustificazione per mezzo della fede in Cristo, che rappresenta il cuore dell’insegnamento di Paolo (Rm 3,21-31). Gesù giustifica il peccatore non in quanto prende su di sé l’ira di Dio a lui destinata, ma perché manifesta una forza divina che coinvolge chiunque venga a contatto con lui: di fronte a lui nessuno può restare indifferente. La fede in lui consiste dunque in quella che i vangeli chiamano « sequela ». Essa prende piede là dove esseri umani, uomini e donne, si sentono « ispirati » a essere come lui, a superare i propri desideri perversi e a creare nuovi rapporti interpersonali. Questi sfociano poi naturalmente nella costituzione di comunità che vivono nel mondo ma sono sottratte alla logica di questo mondo. La novità di Gesù consiste nella sua totale dedizione al regno, che si manifesta in una capacità aggregativa che i suoi discepoli attribuiranno alla potenza dello Spirito di Dio che operava in lui. Questa sua opera potente è stata descritta da Paolo mediante due importanti categorie bibliche, quella di espiazione e quella di redenzione (cfr. Rm 3,24-25), con le quali è significata la liberazione dal peccato, identificato con il giogo dei poteri di questo mondo. La proposta di aderire a Gesù, il messia di Israele, è rivolta anzitutto ai giudei, ma da essa non sono esclusi i gentili, i quali si trovano ora su un piede di parità con loro. L’opera iniziata da Gesù e prolungata dai suoi discepoli in questo mondo sarà di breve durata. Gesù sta 344

per ritornare, e allora si attuerà il regno escatologico di Dio, preceduto da un grande giudizio nel quale Gesù apparirà come giudice (cfr. Rm 2,16), oppure come avvocato difensore degli eletti.

c) Giudei e gentili nel corso della storia A partire dalla visione del regno, annunziato e inaugurato da Gesù e ormai prossimo al compimento, Paolo dà uno sguardo retrospettivo alla situazione dell’umanità prima di Cristo (Rm 1,18 - 3,20). Scrivendone ai cristiani di Roma, egli la presenta come un tempo di non salvezza, in cui l’umanità, compreso il popolo di Israele, era immersa nelle tenebre del peccato ed era meritevole dell’ira di Dio. Questa visione fortemente negativa, specialmente in una comunità in cui c’era una forte presenza giudaizzante, non poteva non urtare contro il principio base del giudaismo, consistente nell’elezione di Israele e nel suo ruolo di strumento del regno di Dio nella storia. Come poteva il popolo di Dio essere assimilato al mondo dominato dai poteri avversi a Dio? Non si era esso impegnato fin dall’inizio a praticare la legge che Dio gli aveva conferito al Sinai? Non aveva la circoncisione che lo contrassegnava come popolo dell’alleanza? Per rispondere a questa obiezione, Paolo rivolge ai giudei l’accusa di non osservare la legge che è stata data loro da Dio. Questa accusa poteva apparire pretestuosa perché, nonostante tutte le deficienze umane, al suo tempo i giudei si caratterizzavano per una osservanza abbastanza rigida della legge. Anche per Paolo la pra345

tica della legge era importante. Se dunque egli fa questa accusa, ciò significa che secondo lui la pratica della legge propria del mondo giudaico non corrispondeva alle esigenze fondamentali del regno di Dio come erano state messe a fuoco da Gesù. Infatti, nella prassi giudaica avevano assunto un ruolo preponderante le norme rituali che caratterizzavano l’identità non solo religiosa, ma anche sociopolitica di Israele. Ciò portava Israele a separarsi dalle altre nazioni e a formulare nei loro confronti un duro giudizio. Invece che all’amore, si apriva la strada all’odio, e quindi a una nuova schiavitù nei confronti del peccato. Solo chi si impegna per la giustizia e la solidarietà aspetta e anticipa il regno di Dio. Tutto il resto non ha importanza e diventa facilmente un ostacolo. Ma come convincere il mondo giudaico di avere preso una strada sbagliata? Per fare ciò, Paolo si rifà a un certo numero di gentili onesti che, sebbene non posseggano la legge come codice scritto, tuttavia dimostrano non solo di conoscere ma anche di praticare tutta la legge mosaica nel suo significato più genuino, dimostrando così di avere conseguito le promesse che Dio aveva fatto al suo popolo (Rm 2,14-16.26-29). L’argomentazione di Paolo potrebbe essere riassunta così: se tutti fossero peccatori senza alcuna eccezione, forse il semplice possesso della legge mosaica e della circoncisione potrebbe bastare ai giudei per sentirsi al riparo dall’ira di Dio; ma se anche un solo uomo, senza possedere né la legge né la circoncisione, è giunto a impegnarsi fino in fondo per il bene del suo prossimo, ciò significa che tali privilegi non servono a nulla per colui che, possedendoli, non ne ha approfittato. I gentili onesti costituiscono dunque la più 346

dura condanna per i giudei peccatori e dimostrano loro che non possono illudersi di ottenere la misericordia di Dio, ma solo di andare incontro alla sua ira. Contrariamente all’opinione oggi comune fra gli esegeti, bisogna dunque ritenere che in Rm 2,14-16.26-29 Paolo non intenda ritornare sul tema del possesso di una norma morale (« la legge naturale ») da parte dei gentili, ma affronti quello ben più impegnativo della loro salvezza. Nel momento stesso in cui dichiara il peccato dell’umanità, Paolo afferma che, nel corso della storia, fra i gentili non sono mai mancate persone oneste che, con la loro condotta, rappresentano una condanna dei giudei peccatori. Certamente egli avrebbe potuto dire la stessa cosa anche a proposito dei giudei. Se non lo ha fatto, ciò è dovuto soltanto a esigenze di ordine retorico. Egli suppone dunque che in un mondo dominato dal peccato vi sono sempre state, fra i gentili come fra i giudei, persone che hanno lottato efficacemente per il regno di Dio, anticipandone la venuta nella loro vita e nella storia umana. Ma oggi, con la venuta di Gesù, le cose sono cambiate e a tutti, giudei e gentili, è annunziata la fede in lui come la strada maestra per orientarsi verso il regno di Dio e così anticiparlo all’interno di questo mondo destinato alla fine. La prospettiva in cui Paolo si pone in questo passo non gli permette di prendere in considerazione la possibilità che esistano gentili onesti anche dopo la diffusione del vangelo. Egli è proiettato infatti verso la missione ed è convinto che la seconda venuta di Gesù sia imminente e con essa l’instaurazione del regno di Dio. Non poteva quindi immaginare un lungo periodo di tempo, durante 347

il quale la maggior parte dell’umanità non sarebbe stata toccata dal vangelo, e per di più molti avrebbero ricevuto il battesimo senza avere colto il vangelo nella sua vera realtà. Perciò non dobbiamo aspettarci da lui la soluzione dei problemi che la nuova situazione fa emergere. Tuttavia la soluzione da lui prospettata nei confronti dei gentili onesti, non ancora raggiunti dal vangelo, vale anche per i « non credenti » di oggi. Chiunque si comporti onestamente, seguendo i valori del regno così come gli vengono proposti dalla sua coscienza, dimostra di avere accolto la grazia di Dio e di camminare verso la salvezza.

3. Conclusione La fede in Cristo e l’attesa del regno di Dio hanno reso Paolo molto consapevole nei confronti dei mali che affliggono questo mondo. Per lui, Gesù non è semplicemente un predicatore religioso che propone la conversione in vista di una vita felice nell’aldilà. Al contrario, per lui Gesù è un riformatore politico-religioso che annunzia la venuta imminente di un mondo nuovo, conforme al volere sovrano di Dio. Per questo egli è stato perseguitato e ucciso, sebbene la sua attesa del regno di Dio fosse esente da ogni ricorso alla violenza. Secondo Paolo, la sua persona rappresenta veramente l’inizio di un’epoca nuova che entro breve tempo sfocerà nella venuta finale del regno. Egli perciò invita tutti, giudei e gentili, a credere in Gesù, ottenendo quella giustizia che farà di loro, in senso vero, i « figli del regno ». 348

Paolo non dimentica però che nel vecchio mondo, dominato dal peccato, esistono persone oneste, giudei o gentili, che anch’esse lottano, senza saperlo, per la venuta del regno di Dio. Nei loro confronti l’Apostolo chiede implicitamente un grande rispetto. Anche se non appartengono alla comunità dei discepoli di Gesù, anch’essi hanno sperimentato un’attuazione anticipata delle promesse escatologiche di Israele. Con essi è possibile avere rapporti di amicizia e collaborare nella lotta contro le potenze che dominano in questo mondo. Il ruolo di Cristo nel piano di Dio non esclude, anzi abbraccia, tutto quanto di bene avviene in questo mondo.

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Conclusione generale

Il testo che abbiamo esaminato non tratta direttamente di coloro che sono al di fuori della Chiesa, siano essi appartenenti ad altre religioni, agnostici, atei, non credenti, che magari si ritengono tali soltanto perché hanno rotto i ponti con la Chiesa istituzionale. Tuttavia dà indicazioni preziose sul come comportarsi nei loro confronti. Le intuizioni di Paolo riguardano soprattutto la legge, la natura e lo Spirito, i tre temi chiave che si trovano in Rm 2,14-16.26-29.

a) La rivelazione universale della legge di Dio Paolo riconosce l’importanza della rivelazione sinaitica, all’interno della quale Dio ha conferito a Israele la sua legge. Ma al tempo stesso egli la relativizza, in quanto afferma che essa era già nota a tutta l’umanità. Questa affermazione è in sintonia con quanto affermano i testi biblici circa la creazione del primo uomo, il quale era dotato di tutto ciò che gli serviva per condurre una vita conforme alla volontà di Dio. Paolo ritiene che la legge mosaica non aggiunga nulla di nuovo rispetto alla cono351

scenza elargita da Dio a tutta l’umanità nell’atto stesso della creazione. Per lui, la legge consiste essenzialmente nei grandi valori della giustizia e della solidarietà fra esseri umani e fra popoli. Nella pratica di questi valori consiste la salvezza per ognuno di loro. Questa salvezza si attuerà pienamente alla fine dei tempi, ma prende forma già ora quando si stabiliscono rapporti nuovi fra le persone, che si trasformano in strutture di comunione in netta antitesi con le strutture di sopraffazione che dominano la società umana. In questa prospettiva, ciò che è nuovo nell’esodo e nell’alleanza israelitica non è la conoscenza di una legge rivelata da Dio, ma un’esperienza di Dio che si attua in un contesto di liberazione e diventa il principio ispiratore di una vita sociale basata sulla giustizia. La stessa cosa si può dire a proposito di Cristo, il quale non ha rivelato nulla di nuovo all’umanità, ma ha saputo ricavare dall’esperienza del suo popolo quanto poteva servire al progresso religioso di tutta l’umanità. Per i primi cristiani, la comunità era l’unica vera alternativa ai rapporti di potere tipici della società politica e civile, e come tale essa era capace di aggregare uomini e donne di buona volontà, che nella fede in Cristo e nel battesimo trovavano la strada maestra di un servizio al regno di Dio. Secondo un teologo moderno, « Dio non rivela nulla di ciò che un giorno non possiamo o potremmo sapere da noi stessi; egli ha una sola “cosa” da dirci, un solo “mistero” da rivelare al credente: se stesso, e se stesso come nostro fine ultimo. Che cosa potrebbe ancora dire dopo essersi rivelato totalmente, una volta per tutte, nella sua misteriosa identità? La sua autocomunicazione è quindi 352

una vera fine in seno alla nostra storia – un “compimento” definitivo –, che può essere seguita solo dal suo silenzio: “Dio” ci avrebbe donato tutto, compreso se stesso, la sua santità, affinché noi potessimo – grazie al suo silenzio – accedere in noi e da noi stessi a ciò che egli è in se stesso. È proprio questo che si può leggere e comprendere nella relazione tra Gesù e le persone che incrociano il suo cammino: il vangelo di Dio che egli annunzia è già all’opera in coloro che lo ricevono »1. Solo sulla base di questa rivelazione universale è possibile parlare di dialogo interreligioso, nel quale è importante stabilire non quale religione apra la porta alla salvezza nell’aldilà, ma come le religioni insieme possano e debbano collaborare per attuare la salvezza in un mondo dilaniato dallo sfruttamento e dalla violenza.

b) Il magistero della natura L’accenno alla natura in Rm 2,14.27 non ha direttamente lo scopo di introdurre il tema di una « rivelazione naturale » disponibile a tutta l’umanità2. In questo brano infatti Paolo non parla tanto di conoscenza, quanto piuttosto di una pratica della legge in forza della quale 1 Ch. Theobald, Dei Verbum. Dopo quarant’anni. La rivelazione cristiana, in Il Regno Attualità 22 (2004) 782-790, qui 789. 2 Circa il dibattito sulla « legge naturale » in teologia morale, cfr. F. Böckle (ed.), Dibattito sul diritto naturale (gdt 45), Queriniana, Brescia 1970; Rossi L. (ed.), La legge naturale. Storicizzazione delle istanze della legge naturale (Relazioni del Convegno dei Teologi Moralisti dell’Italia Settentrionale 1969), EDB, Bologna 1970; E. Chiavacci, Legge naturale, in F. Compagnoni - G. Piana - S. Privitera (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990, pp. 634-647.

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alcuni gentili diventano i giudici dei giudei trasgressori. Tuttavia, egli presuppone la conoscenza da parte di tutti dei principi fondamentali che regolano l’agire umano, che egli sintetizza nell’amore del prossimo e mette implicitamente in rapporto con la natura e con la ragione (Rm 1,18-32; 7,7-25). L’uso in questo contesto del termine natura ha quindi aperto la porta a un universo di pensiero che aveva suscitato grande interesse nella filosofia greca. Nella recezione del testo paolino, questo termine è stato esplicitato e caricato di un significato molto più preciso, come lo strumento mediante il quale tutti gli uomini conoscono la volontà di Dio e si sentono a essa vincolati. La convinzione secondo cui Dio, mediante la natura, ha conferito a tutta l’umanità la conoscenza dei principi fondamentali che regolano la vita morale percorre così tutta la storia della teologia cristiana3. Il pensiero della grande patristica è stato sintetizzato da Tommaso d’Aquino, secondo il quale la legge naturale coincide, quanto a contenuto, con la legge e il vangelo nella misura in cui questi esprimono i primi principi, cioè la regola d’oro, oppure i due precetti complementari dell’amore di Dio e del prossimo e i precetti morali (decalogo) che sono derivati da essi. Il compito della legge positiva divina consisterebbe semplicemente nell’offrire un aiuto ai singoli affinché non errino, a motivo della consuetudine di peccare, circa i principi generali e le soluzioni pratiche da essi ricavate. 3 Cfr. S. Lyonnet, « Lex naturalis » quid praecipiat secundum S. Paulum et antiquam Patrum traditionem, in VD 44 (1967) 150-161; R. Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino, pp. 155-273.

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Purtroppo la tarda scolastica non seppe mantenersi su questa linea profondamente biblica, in quanto cominciò a considerare come appartenente alla legge naturale anche tutto quello che si può ricavare dalle premesse con una deduzione moralmente certa. Ciò ha portato a un concetto piuttosto statico di legge naturale, presentata come un complesso ben determinato di norme precise e immutabili che la ragione umana scopre progressivamente sotto la guida del magistero. Il concilio ecumenico Vaticano II dimostra di volere ritornare alla grande tradizione biblico-patristica quando afferma: « Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama ad amare e a fare il bene e a evitare il male, risuona quando occorre alle orecchie del cuore invitandolo a fare questo o a evitare quello. Infatti, l’uomo ha una legge scritta da Dio nel suo cuore: obbedire a essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo essa egli sarà giudicato (Rm 2,14-16). La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nel suo intimo. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che si compie nell’amore di Dio e del prossimo (Mt 22,37-40; Gal 5,14). Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale » (Gaudium et spes 16). A ciascun uomo dunque, sia egli giudeo, gentile o cristiano, Dio non chiede altro che di amare il suo prossimo, perché soltanto così l’amore e la fedeltà verso di lui 355

possono raggiungere la loro più completa manifestazione. In questa ottica è importante che i grandi problemi odierni, soprattutto quelli riguardanti l’origine e la fine della vita, siano affrontati insieme da tutti gli uomini di buona volontà, senza la pretesa da parte cristiana di possedere un supplemento di verità di carattere rivelato.

c) L’opera nascosta dello Spirito La percezione di un peccato universale che pervade le strutture della convivenza umana è molto forte in Rm 1-3. Secondo Paolo, ciò non significa però che tutti gli esseri umani, giudei e gentili, siano personalmente peccatori. Di fatto, si può parlare di peccato solo nel contesto di una manifestazione adeguata di Dio e del conferimento della sua grazia a tutti gli esseri umani, senza discriminazione alcuna. Ciò è espresso nei testi biblici mediante il ricorso all’azione dello Spirito e della sapienza che operano in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Anche i non evangelizzati, come i credenti in Cristo, giungono alla salvezza non per merito proprio, ma per un dono speciale di Dio che ha messo nel cuore di ogni essere umano potenzialità che restano tali anche quando sono disattese o tradite. Per l’Apostolo, l’intervento dello Spirito non può verificarsi se non in rapporto a Cristo: questa convinzione affiora implicitamente nell’affermazione secondo cui Dio giudicherà il mondo per mezzo di Cristo e sulla base del vangelo di Paolo (Rm 2,16). Egli, però, non dice come un gentile, vissuto prima di Cristo o al di fuori di un rapporto esplicito con lui, possa ricevere la salvezza. Secondo 356

Giovanni Crisostomo, prima di Cristo anche coloro che non credevano in lui potevano essere salvati. A loro infatti era richiesto solo il rifiuto dell’idolatria e l’adesione all’unico vero Dio4. Questo pensiero è ripreso da Tommaso d’Aquino, il quale afferma: « Se anche coloro ai quali non è stata fatta la rivelazione sono salvati, non lo furono senza la fede del Mediatore. Poiché anche se non ebbero una fede esplicita, ebbero tuttavia una fede implicita nella divina provvidenza, credendo che Dio è il liberatore degli uomini secondo modalità a lui gradite e in quanto egli stesso ha rivelato la verità a quanti la conoscono »5. Questa dottrina è stata accolta nella costituzione del concilio ecumenico Vaticano II sulla Chiesa, dove si dice: « Quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e che tuttavia cercano sinceramente Dio, e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna » (Lumen gentium 16). In base a questa impostazione, colui che, pur appartenendo a un’altra religione o dichiarandosi non credente, vive di fatto il precetto dell’amore, possiede già, almeno in germe, la salvezza. Lo scopo del dialogo per il credente in Cristo sarà quello di operare assieme a lui per attuare il regno di Dio, inteso come opposizione ai poteri che dominano il mondo e come impegno per una trasformazione dei rapporti umani, personali e sociali, in chiave di giustizia e di solidarietà. 4 G. Crisostomo, Omelia 37 su Matteo: PG 57,416-417, citata da H. Riedl, Das Heil dei Heiden, p. 23. 5 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 2, art. 7, ad 3.

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Indice dei nomi

1. Autori antichi Agostino di Ippona 200-201, 212-213, 253, 261, 297 Alessandro Magno 38 Antifonte 35 ‘Aqiba 83, 87, 88, 121 Arato di Soli 40 Aristea 28, 70, 81, 86, 117-118, 147, 172 Aristobulo 114 Aristotele 37-39, 42, 273, 288, 359

Omero 34 Origene 200 Pitagora 114 Platone 35-36, 46, 114, 362 Plutarco 43, 47 PseudoAristotele 39, 42 Seneca 39, 47, 64, 363 Senofonte 36 Shammai 87 Sofocle 34, 254, 273 Strabone 46

Ben ‘Azzai 83 Cicerone 39, 45, 47, 254 Cleante 38-40, 42 Crisippo 38, 4142, 44-45

Tommaso d’Aquino 34, 201, 253, 269-270, 303, 354, 357, 366, 378 Trasimaco 35 Zenone 38, 41-42, 44-45

Democrito 46 Diogene Laerzio 44 Dione di Prusa 40, 46 Eli’ezer 125, 188, 362 Erodoto 46 Eschilo 46 Esiodo 34 Euripide 47 Eusebio di Cesarea 86, 114 Filone di Alessandria 64, 67, 70, 81-82, 84, 86, 91-92, 118, 120, 127, 129, 132, 135, 148, 164, 187, 253, 261, 288-289, 291, 360, 382 Flavio Giuseppe 67, 82, 117, 120-121, 361, 375 Giovanni Crisostomo 200, 211, 269, 304, 357 Giuliano, imperatore 43 Hillel 82-83, 87-88 Jehoshu’a 188 Jehuda b. El’aj 132 Joh.anan 132, 188

2. Autori moderni Acerbi A. 310, 379 Aland K. 272, 359, 362 Aletti J.-N. 14-15, 106, 227, 239, 243, 302-304, 329, 332, 366 Alonso Schökel L. 104, 123, 126, 364, 366 Alt A. 65, 367 Aranda Pérez G. 70, 184, 359 Babcock D.J.P. 150, 367 Barbaglio G. 65, 209, 216-217, 272, 323-324, 362, 364, 367 Barbiero G. 77, 367 Bassler J.M. 15, 237, 367 Bauer J.B. 63, 367 Bauer W. 245, 259 Baumgärtel W. Beaucamp É. 100, 367 Behm J. 63 Bernini G. 174-175, 364 Bertram G. 198 Bieder W. 155 Billerbeck P. 24, 363

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Black M. 359 Bläser P. 216, 367 Blenkinsopp J. 72, 359 Boccaccini G. 109, 121, 367 Böckle F. 353, 367 Bogaert P. 359 Bonhöffer A. 255-256, 367 Bonjour L. 258, 379 Bonnard P.-E. 111, 368 Bonora A. 100, 103, 110, 113, 359, 368, 380 Bonsirven J. 129 Borghi E. 63, 306, 368 Bornkamm G. 15, 33, 207, 216, 227, 254-255, 272-273, 289, 307, 321, 328, 368 Bovati P. 368 Brandenburger E. 223, 368 Braulik G. 109, 368 Büchsel F. 46, 70, 324 Buis P. 60, 150-151, 153, 368 Bultmann R. 58, 309, 321, 369 Cambier J. 234, 369 Campbell D.A. 234, 323, 369 Cancrini A. 46, 369 Canfora G. 55, 101, 370, 377, 380 Cardellini I. 72, 77, 227, 367, 369, 380, 382 Carlotti P. 309, 369 Carrez M. 278, 369 Castellino G.R. 230, 369 Cazelles H. 156-157, 369 Charles R.H. 23, 170, 359 Childs B.S. 54, 369 Cohen N.G. 129, 369 Cohn L. 360 Compagnoni F. 24, 353, 360 Coppens J. 150, 369 Cornely R. 254, 297, 364 Cortese E. 74, 370 Cranfield C.E.B. 202, 322, 364 Crenshaw J.L. 302, 372 Danby H. 360 Daube D. 87, 370 Davies W.D. 121-122, 129, 151, 160, 229, 370 De Jonge M. 170, 360 De Lorenzi L. 278, 369-370 De Vaux R. 69, 156, 360 Descamps A. 280, 382 Diels H. 360 Dietrich E.L. 129, 370 Dihle A. 85, 88, 370 Dodd C.H. 256, 289, 364, 370 Donfried K.P. 14, 324, 333, 370, 372, 384

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Dunn J.D.G. 270, 324, 370, 384 Dupont J. 46, 306, 370 Eckstein H.J. 308, 370 Edart J.-B. 258, 372 Eichrodt W. 54, 156, 371 Eusebi L. 310, 379 Fabris R. 209, 323, 379 Fanuli A. 103, 109-110, 113-114, 117-118, 121, 367, 371, 375-377 Festorazzi F. 101, 371 Feuillet A. 180-181, 230, 242, 299, 371 Fichtner J. 76, 81, 140 Finkelstein L. 361 Fitzgerald J.T. 45, 232, 371 Fitzmyer J.A. 214, 260, 296, 332, 364 Flückiger F. 33, 202, 260, 371 Flusser D. 76, 371 Foerster W. 163 Foresti F. 109, 371 Freedman D.L. 232, 371 Freedman H. 361 Friedrich G. 361 García Martínez F. 70, 184, 359, 361 García López F. 60, 361 Gathercole S.J. 202, 271, 372 Geffcken J. 361 Ghiberti G. 182, 368, 378 Gilbert M. 106, 109, 114, 372 Girlanda A. 24, 362 Godet F. 273, 364 Goldin J. 361 Goldschmidt L. 130, 361 Grelot P. 242, 372 Grether O. 140 Gry L. 361 Gutbrod W. 71, 116, 118, 159-160, 246 Hawthorne G.F. 324, 361, 382 Herion G.A. 232, 371 Herntrich V. 139 Himbaza I. 258, 372 Hooker M.D. 230, 372 Horowitz H.S. 361 Horst F. 54, 372 Hruby K. 121, 131 372 Huby J. 336-337, 364 Ito A. 270, 372 Jaeger W. 48, 372 Jaubert A. 159, 163-164, 372 Jewett R. 14, 373 Kaiser O. 55, 378 Kampling R. 76, 381

Käsemann E. 214, 296, 302, 364 Keck L. 302, 373 Kittel G. 361 Kittel R. 175, 361 Kleinknecht H. 33, 36, 71, 140 Köster H. 33, 42, 255 Kranz W. 373 Kratz R.G. 54, 141, 373 Kraus Reggiani C. 360 Kuhn K.G. 77 Kuhr F. 207, 255, 272, 373 Kümmel W.G. 217, 220, 373 Kuss O. 210, 213-214, 237, 239, 254, 271-272, 274, 296-297, 302, 307-308, 321, 364 L’Hour J. 55, 60, 141, 158, 373 La Fontaine R. 227, 373 Lackmann M. 200, 253, 373 Lagrange J.M. 210, 254, 273, 295-296, 365 Larcher C. 114, 230, 373 Lauterbach J.Z. 84, 373 Le Déaut R. 82, 132, 362, 373 Lebreton J. 13, 156-157, 369, 375 Leenhardt F.J. 225, 229, 260, 273, 296, 308, 365, 375 Legasse S. 75, 80, 365, 373 Legrand L. 178, 374 Lévêque J. 68, 374 Lietzmann H. 239, 365 Ligier L. 228, 374 Lindeskog G. 135, 374 Lohfink N. 60, 374 Lorimer W.L. 362 Luciani D. 74, 374 Lyonnet S. 9, 13, 90, 201, 217-218, 224-225, 230-231, 235, 272, 286, 292, 297, 299, 302-303, 333, 354, 364-365, 374-375 Macchi J.-D. 54, 72, 362, 381 Maguire J.P. 36, 375 Manicardi E. 72, 227, 369, 380 Marböck J. 109, 375 Marconcini B. 54, 174, 175, 362, 365 Martens J.W. 212, 255, 258, 289, 375 Martin R.P. 324, 361, 382 Martin-Achard R. 150, 159, 178, 376 Martini C.M. 359 Martone C. 361 Marucci C. 117, 121, 375 Mathys H.-P. 74, 376 Maurer C. 46, 63, 306 Mazzarelli C. 360 McCarthy D.J. 60, 376 McKenzie J.L. 256, 376 Mendenhall G.E. 60, 376

Merk A. 272, 362 Metzger B.M. 359, 362 Meyer R. 156, 163 Michel O. 210, 228, 272, 365 Miggelbrink R. 140, 376 Miller J.W. 153, 376 Moo D.J. 322, 365 Moore F. 129 Moraldi L. 117, 140, 163, 362, 376 Moran W.L. 61, 89, 376-377 Morla Asensio V. 100, 362 Munro W. 310, 377 Murphy R.E. 100, 377 Najman H. 118, 377 Nestle E. 272, 362 Nicacci A. 102, 104, 377 Niese B. 362 Nihan Ch. 54, 72, 362, 381 Noth M. 74, 365 Nygren A. 229, 296, 365 Padovese L. 301-302, 377 Paul A. 114, 118, 377 Pelletier A. 362 Penna A. 55, 377 Penna R. 13-14, 16, 55, 203, 205, 207, 215, 221, 225, 245, 258, 273, 275, 283, 287, 301-302, 304, 312, 323, 330, 365, 377 Perez Fernández M. 70, 184, 359 Philippidis L.J. 85, 88, 378 Piana G. 24, 353, 359 Pierce, A. 309, 378 Pitta A. 72, 207, 214-215, 224, 232, 273, 275, 279, 285, 289, 297, 299, 308, 328-329, 332-333, 365, 369, 378 Pizzorni R. 253-254, 378 Pohlenz M. 38, 255, 306, 378 Poirier J.C. 227, 378 Porteous N.W. 55, 378 Porter C.L. 228, 329, 378 Potin J. 67-68, 131, 133, 378 Prato G.L. 103, 114, 126, 378, 381 Priotto M. 100, 182, 359, 378, 380 Privitera S.. 24, 353, 359 Puech E. 163, 379 Quell G. 60 Rachet G. 68, 362 Radice R. 25, 38, 360, 363 Rahlfs A. 362 Räisänen H. 211-212, 239, 243, 245, 379 Ravasi G. 24, 68-69, 178, 362, 373, 379, 381

387

Reale G. 360, 363 Reese J.M. 114, 379 Reicke Bo 298, 306, 379 Reid D.G. 324, 361, 382 Reiser M. 139, 173, 175, 182, 187-188, 339, 379 Reiter S. 359 Riedl J. 200-201, 212-213, 270, 273, 289, 379 Robert A. 106, 379 Romanello S. 216-217, 221, 287, 323, 327, 379 Römer Th. 54, 72, 258, 362, 379, 381 Rossano P. 24, 363 Rossi B. 13, 380 Rossi L. 353, 380 Sacchi A. 12, 156, 227, 279, 310, 363, 365, 380 Sacchi P. 79-80, 86, 114, 126-127, 129, 169-171, 184, 363 Sahlin H. 321-322, 380 Sanders E.P. 17, 65, 72, 143, 146, 148-149, 177, 243, 274-275, 363, 381 Sandmel S. 302, 372 Scaiola D. 100, 381 Scarpat G. 114, 168, 366 Schechter S. 88, 363 Schelkle K.H. 234, 381 Schlier H. 44, 214, 256, 275, 294, 366 Schmeller Th. 227, 334, 381 Schmid K. 54 381 Schmidt W.H. 65, 199, 381 Schnabel E.J. 109, 126, 381 Schreiner J. 65, 76, 381 Schulz S. 228, 381 Schüngel-Straumann H. 65, 381 Schwab M. 363 Segalla G. 103, 114, 228, 232, 382 Senior D. 178, 382 Seux M.-J. 69, 382 Shenker A. 258, 372 Sicre Diaz J.L. 54-55, 104, 364, 382 Simon M. 361 Sjöberg E. 164 Ska J.L. 72, 382 Sperber A. 363 Spreafico A. 77, 382 Stälin G. 140 Stauffer E. 78 Stemberger G. 158, 363

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Stockhausen C.K. 158, 276, 278, 282, 382 Strack H.L. 24, 363 Stuhlmueller C. 178, 382 Sutcliffe E.F. 81, 382 Termini C. 118, 382 Testa E. 178, 382 Testuz M. 79, 116, 129, 382 Theobald Ch. 353 Tisserant E. 82, 373, 375 Tommaso d’Aquino 34, 201, 253, 269-270, 303, 354, 357, 366, 378 Travis S.H. 324, 382 Vílchez Líndez J. 112, 114-115, 168, 175-176, 364, 366 Van Imschoot P. 155, 383 Van Unnik W.C. 280, 383 Vattioni F. 85, 363 Viard A. 270, 383 Vigna C. 85, 88, 383 Virgulin S. 167, 383 Voelke A.J. 37, 383 Vögtle A. 45, 172, 232, 383 Völkl R. 60, 383 Von Arnim H. 25, 38, 363 Von Rad G. 66, 100, 150, 383 Vos J.S. 212, 383 Waiser A. 55, 378 Wattles J. 85, 384 Wedderburn A.J.M. 12, 384 Weiser A. 62, 150, 366 Wendland P. 359 Wénin A. 65, 384 Wibbing S. 45, 172, 232, 384 Wikgren A. 359 Wilckens U. 302, 322, 366 Wolfson H.A. 81-82, 92, 118, 129, 384 Wright N.T. 270, 384 Wuellner W. 14, 384 Würthwein E. 55, 378 Yee G.A. 106, 384 Yinger K.L. 235, 239, 384 Zahn Th. 329, 366 Zanardo S. 85, 88, 383 Zerwick M. 245, 290, 363 Zorell F. 296, 364 Zuckermandel M. 364

INDICE

Prefazione

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1. Il contesto della Lettera ai Romani a) Contenuto e struttura della lettera b) Ruolo e struttura di Rm 1,18 - 3,31 2. Il testo a) Collocazione e struttura di Rm 2,14-16.26-29 b) I problemi

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Abbreviazioni e sigle

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LEGGE E NATURA NELLA FILOSOFIA GRECA

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1. Le antiche scuole filosofiche a) La legge non scritta b) Il primato della ragione 2. La filosofia stoica a) Ragione e natura b) Vivere secondo natura c) Doveri e virtù d) La coscienza 3. Conclusione

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34 34 35 38 38 40 44 44 48

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Introduzione

I.

II. CONOSCENZA DI DIO E LEGGE MOSAICA 1. La parola di Dio annunziata dai profeti a) La ricerca del « diritto di JHWH » b) Diritto e conoscenza di Dio

2. La legge di Mosè a) La clausola fondamentale b) Il decalogo come direttiva di vita c) I codici: una normativa inculturata d) La tôra¯ h di Mosè 3. Formule riassuntive della legge a) L’amore del prossimo b) La regola d’oro c) La proibizione del desiderio 4. Conclusione III. UNA LEGGE UGUALE PER TUTTI 1. La rilettura sapienziale della legge a) La ricerca dei saggi b) La sapienza personificata c) Sapienza e legge d) Conoscenza universale della legge 2. La legge di Mosè per tutta l’umanità a) La legge conferita ad Adamo b) I precetti noachici c) L’offerta della legge alle nazioni 3. Conclusione IV. GIUDIZIO E SALVEZZA 1. Israele di fronte al suo Dio a) Alleanza e giudizio b) La redenzione di Israele 2. La condanna delle nazioni a) L’immoralità dei gentili b) Israele giudicherà le nazioni 3. Il destino finale delle nazioni a) Una salvezza universale b) I gentili onesti 4. Conclusione Conclusione della prima parte

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V.

I GENTILI E LA LEGGE (Rm 2,14a.26a.27a) 1. L’identità dei « gentili » / « non circoncisi » (Rm 2,14.26) a) « Gentili » o « etnico-cristiani »? b) I « gentili » nell’epistolario paolino c) Rm 2,14.26: gentili non evangelizzati 2. I gentili di fronte alla legge (Rm 2,14.26.27) a) Semplice conoscenza o pratica della legge? b) Il contesto. Conoscenza e pratica della legge in Romani c) Rm 2,14.26.27: i giusti fra i gentili 3. La « natura » (Rm 2,14.27) a) Paolo fra i filosofi? b) La « natura » nell’epistolario paolino c) Rm 2,14a.27: un ponte con la filosofia 4. Conclusione

VI. LA SALVEZZA DEI GENTILI (Rm 2,14b-15.26b-29) 1. La legge scritta nei cuori e la circoncisione del cuore (Rm 2,14b-15a.29) a) La salvezza prima di Cristo: opinioni b) Le promesse escatologiche nell’epistolario paolino c) Rm 1,14.27.29: i gentili onesti sono salvati 2. « L’opera della legge » (Rm 2,15) a) « L’opera » o « le opere » della legge? b) L’unico comandamento della legge secondo Paolo c) Rm 2,15: una legge capace di operare 3. La coscienza (Rm 2,15b) a) Coscienza previa o susseguente? b) La coscienza nel linguaggio paolino c) Rm 2,15b: la coscienza come tribunale 4. Conclusione

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VII. I GENTILI E IL GIUDIZIO (Rm 2,16.27) 1. Il giudizio di Dio (Rm 2,16.27) a) Un Dio che giudica o che giustifica? b) Il giudizio escatologico c) Rm 2,16.27: il giudizio come salvezza 2. L’argomentazione di Paolo a) Giudizio finale e regno di Dio b) Giudizio e giustificazione c) Giudei e gentili nel corso della storia 3. Conclusione

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319 320 324 334 341 341 343 345 348

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Bibliografia 1. Strumenti, fonti, introduzioni, dizionari 2. Commentari biblici 3. Articoli e monografie

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Indice dei nomi

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CONCLUSIONE GENERALE a) La rivelazione universale della legge di Dio b) Il magistero della natura c) L’opera nascosta dello Spirito

Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano - 2008