Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico


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Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico

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ANTON IO CARULLI

SFIDUCIA E SRAGIONE Trattato teologico-politico Prefazione di Marco Fortunato

La scuola di Pitagora cdirtice

Patri dicatum {A.1947 fl 2015), il som111() sacerdote degli abituati al Cristia1USÌ111() Che la morte è 'lluoto, nulla. Non ha lasciti. La memoriapercorre un 'llasto territorio inesistente; infondo, a ritrO'llare sestessa. S. ADDAMO, Le abitudini e rassenza Si tratta di questo: lui (accennando a fra Pietro) ci crede '!leramentet l Sn.oNE, L 'll'U'lltTltura d'un pO'llero cristiano

INDICE

L'Occidente fra apatia e philautia di Marco Fortunato

9

Ingemisco Una introduzione?

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LIBRO PRIMO (ETHICA)

27

Gerusalemme senza Atene L'abitudine al cristianesimo (La sua durata eterna) R.eligionskultur La vita dopo la morte

29 39 87 99

25

LIBRO SECONDO (DISCIPLINA POPULORUM)

139

De 11Wtu migrantium Democrazia e fanatismo Distruzione e scampo dell'Europa Una pedagogia per islamici

141 165 185 191

LIBRO TERZO (METAPHYSICA)

195

Appunti Docet nihil aòsolutum nu111(Juamfaisse

197 201

Disposizioni non transitorie

Ad seipsum

227 229

L'Occidente fra apatia e philautia

Nietzsche ha scritto che gli uomini antichi - dunque i più gi(J'{Jani, ifanciulli dell'umanità-vedevano in veglia cose straordinarie che noi, i moderni - dunque gli uomini più vecchi-, non vediamo neppure in sogno. I.:inizio, solo l'inizio, è il momento dello charme, dell'intensità, dellèmozione, delle grandi emozioni. Ma, in Occidente, fra gli antichi rientrarono e assunsero un primato uomini molto particolari, i Greci; uomini grandi e, in un certo senso, perniciosi, in quanto destinati a smorzare, se non addirittura a spegnere, l'emozione. È vero che proprio a Nietzsche dobbiamo la "scoperta" e la massima enfatizzazione del lato oscuro, ambiguo, enigmatico, "selvaggio" e sconvolgentemente immaginifico della mente dell'antico Greco; ma, nell'essenza, i Greci furono le prime grandi, tremendamente serie, figure della ratw, quindi di una lucidità che vede. Essi furono prima di tutto dei vedenti. E, come lamenta il cristianissimo Sestov che mugghia e quasi li maledice per questo, videro guardando dietro di sé, a un "testo" di verità e di leggi che stanno ("scritte") già prima di ogni cosa, che sono da sempre e per sempre, mai nate e quindi immortali, insfuggibili e immodificabili. E che cosa videro, che cosa lessero i Greci? Videro-lessero, con Aristotele, che il mondo è eterno, senza inizio e senza fine, e quindi, implicitamente, che ha qualcosa di infanti!-

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L'OCCIDENTE FRA APATIA E PHIL,fUlU

mente il-logico pensarlo come iniziato-creato e, come tale, magari esposto alla possibilità di an-nientarsi. Videro-lessero, soprattutto ma certo non solo con i grandi autori tragici, che il dolore e la morte sono dati naturali costitutivi e irreversibili per tutti gli individui viventi, compresi quelli umani, e quindi, implicitamente, che ha qualcosa di bambinescamente fatuo concepire e progettare la loro eliminazione, il loro "superamento". Videro-lessero - soprattutto ma certo non solo con i materialisti, ad esempio con Democrito, al quale non a caso Mane, cioè pur sempre un pensatore dell'evo cristiano, preferisce nella sua tesi di laurea il più "possibilista" Epicuro - che tutto accade secondo inflessibile necessità, e quindi, implicitamente, che ha qualcosa di puerilmente sbruffonesco pretendere che l'uomo, solo l'uomo, sia libero; lo videro-lessero certo non solo con i materialisti, perché l'idea dell'esistenza di Ananke, di un fato tanto invisibile quanto onnipresente e onnipotente che sovrasta anche gli dei, è patrimonio comune dell'intera Kulturgreca antica. Del resto, essa "parla" a favore della necessità contro la possibilità e della stabilità-continuità contro la variabilità-volubilità già in quanto, come si è detto, è una Kultur che si nutre di verità e di leggi. Ma la via della necessità e della permanenza è quella che conduce a Spinoza, il grandissimo "Greco risorto" nel Seicento, il quale insegna-dimostra che tutto è normale, nel senso sia più filosoficamente pregnante che più ordinario e "banale" del termine: che il mondo sia, che sia precisamente quello che è e come è, che vada come effettivamente e costantemente va, è assolutamente necessario, quindi normale. Anche se i due massimi filosofi dell'antichità greca, Platone e Aristotele, concessero che a innescare la domanda e il ragionamento filosofici sarebbe lo stupore, per il loro titanico "figlio" secentesco il contrassegno della mente adulta, e perciò davvero filosofica, è che essa non si stupisca (più); ammesso che il filosofo nasca come uno che prova stupore, la sua maturità consiste nel rimuoverlo, nel cancellarlo,

L'OCCIDENTE FRA APATIA E PIIJUUIU

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nel provare e nell'insegnare a tutti gli uomini che non c'è nulla di cui sorprendersi, che non c'è alcuna ragione di stupirsi. Ma contro il processo della razionalizzazione-normalizzazione non poteva tardare più di tanto a erompere un'insurrezione. Infatti la necessità è sì stile, ma anche costrizione. La continuità-stabilità è sì sicurezza, ma anche noia. La sobria, disincantata chiarezza della visione di un "testo" preciso e vincolante è sì una grande acquisizione epistemologico-scientifica, ma è anche un'esperienza di disperazwne, perché quel "testo" è inesorabilmente bloccato e, fra le verità definitive che esibisce, c'è quella secondo cui la vita dell'uomo è questa qua, esclude qualsiasi vera e radicale sorpresa, è e sarà sempre nella sostanza quella che è e che è sempre stata; e, malgrado quell'altro grande "Greco postumo" che fu Nietzsche si sia adoperato in ogni modo per rendercela accettabile e perfino amabile "cantando" la terribile bellezza di Physis, l'uomo sa-sente, ha sempre saputo e sentito, che essa è una vicenda amara, dolorosa, violenta, umiliante, deludente. In reazione alla grande "sistemazione"greca, dunque, qualcuno o qualcosa doveva difendere i diritti da essa conculcati della possibilità (anche della possibilità più inverosimile e folle), della rottura di continuità, dello sconvolgimento, della speranza, dellèmozione. Ci pensò il cristianesimo, la religione di cui, non a caso, Cioran si avvicina a scrivere testualmente che è quella che le ha sparate più grosse di ogni altra. Il cristianesimo inventò e si regge su almeno cinque dirompenti, clamorosissimi, in-concepibili colpi di scena: la creazione del mondo dal nulla da parte di Dio; la discesa in Terra fra gli uomini di Dio in figura di uomo; la sua condanna, passione e atroce morte in croce per la salvezza dell'umanità; la fine del mondo, l'evento escatologico, contemplato soprattutto da alcuni filoni della tradizione cristiana, del suo an-nientamento o della sua ri-soluzione in un Totalmente Altro; e infine la resurrezione dei corpi di tutti quelli che nel mondo sono vissuti e l'inizio

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L'OCCIDENTE FRA APATIA I! PHILAUTU

per essi - almeno per alcuni di loro, i "migliort, o forse per tutti indistintamente - di un'interminabile vita ultraterrena toto genere diversa dalla breve vita precedente. Cinque strepitosi, dis-sennati coups de thlatre, dei quali, naturalmente, i primi tre non sono accaduti e gli ultimi due non accadranno. Cinque eventi 'Violentemente emozionanti, anche nel senso che stabilire che il mondo sia stato creato significa espropriarlo di ogni autonomia e autosussistenza pensandoloponendolo in balia di ~alcuno che, come lo fece, cosi potrebbe anche dis-farlo; e infatti il cristianesimo con-figura e pensa anche lo scenario della sua fine. Date simili premesse, non può certo stupire che l'uomo forgiato dal cristianesimo, l'h()f11o christianus, sia un uomo costantemente allarmato, fremente, a rischio e arrischiante, proteso in avanti in attesa di qualche possibile novitas e pre-occupato in alacre preparazione di qualcosa, in primis ovviamente della "vita oltre la vita" che gli è stata promessa. Se l'uomo greco era essenzialmente un vedente che stava, in fondo, quietamente ancorato all'inalterabile destino "pre-scritto" per lui dal "testo" di verità e di leggi oggetto della sua visione retro-spetti.va, l'homo christianus è invece, come osserva Ortega y Gasset in una pagina scritta da par suo, essenzialmente un ascoltante, uno che vive con l'orecchio teso e pronto a ricevere annunci capaci di sovvertire in modo più o meno radicale l'assetto della sua vita e del mondo, quegli annunci di cui vediamo essere particolarmente prodigo il Dio dell'Antico Testamento. La mens cristiana è una mens febbricitante, elettrizzata, sovreccitata, una mens in definitiva giornalistica, vogliosa di scoqp, aperta alla scossa delle più eclatanti breaking news. Il calor bianco di quest'eccitabilità dev'essere stato raggiunto quando, nel primo periodo della di.tfusione e dell'affermazione del cristianesimo, gli adepti della nuova religione attendevano con tensione spasmodica, credendoli seriamente imminenti, nientemeno che la fine del mondo e il passaggio all'avvento del Regno dei Cieli.

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Ma furono certamente trascinante emozione anche la quasi bramosa disponibilità al sacrificio con cui molti cristiani dei primissimi secoli affrontarono il martirio e le ardenti sregolatezze psichichee sensoriali di non pochi santi e mistici almeno fino al "glorioso" periodo della Controriforma. Ma tutto ciò era il cristianesimo alfinizio, che si conferma il momento elettivo dell'intensità e dell'emozione, o almeno fin quando la sua parabola rimase tutto sommato ascendente. Oggi, invece, che cos'è-che cos'è diventato il cristianesimo? Oggi in Europa - parola della quale Novalis sand l'interscambiabilità con "Cristianità" nel celebre titolo di una sua opera del 1799 - e quindi anche in Italia, che ne è del cristianesimo? O, per meglio dire, a che cosa è ridotto il cristianesimo? A un'a/Jitudine, secondo l'acuminata diagnosi che costituisce la colonna portante di questo libro per più versi urticante e "scorretto" di Carulli. L'esser cristiani è receduto al livello, che non potrebbe essere meno entusiasmante, di una spenta, anonima, rinsecchita, stracca abitudine, di un'ovvietà tanto indiscutibile e indiscussa quanto ininfluente sulla sostanza profonda (ammesso e non concesso che questa esista ancora) delle vite degli europei-degl'italiani. Gli europei-gl'italiani-gli occidentali sono ormai gli abituati al cristianesimo. Vanno a messa, si accostano ai sacramenti, si sposano in chiesa (dopo essersi guardati bene dall'ottemperare alle nonne ecclesiastiche concernenti la vita sessuale pre-matrimoniale, sulla quale d'altronde il sacerdote officiante è il primo ad avere la "discrezione" di astenersi dal porre domande scomode) perché si fa così, perché si è sempre fatto così, perché così fan tutti (e tutte). Credono perché si crede. Alla domanda se credano, rispondono senza esitazioni, meccanicamente di si, magari perché una loro nonna, durante le visite domenicali che le facevano da bambini, ha "insufflato" loro, neppure con particolare insistenza, l'idea che è normale credere, senza nerwneno far seguire al verbo "credere" qualche

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parola che specificasse e chiarisse in chi o in che cosa. E infatti - rileva Carulli non senza una punta di disgusto - questo cristianesimo è ormai una religione senza Dio, il quale riesce ancora ad affacciarsi nelle disanimate vite degli abituati solo nei momenti in cui vi irrompe la morte con la sua lugubre maestà e serietà (non c'è dubbio che Carulli tenga conto qui della esemplare "provocazione" di Sgalambro secondo cui, se c'è, Dio non può che essere di grandissima lunga il più insaziabile dei serial killers). L'essere, o meglio il dimtutti cristiani, finisce per tradursi in una vicendevole strizzatina d'occhio con cui i concittadini-i connazionali si riconoscono come compari, come membri complici di quell'associazione per delinquere, o più precisamente per fare e subire il male/per uccidere ed essere uccisi, che sono i viventi. Certo, a Carulli non sfugge che, se il cristianesimo mantiene un suo prestigio o - per dirla più seccamente e badando al sodo - si mantiene in piedi da duemila anni (e, secondo lui, dà l'impressione insieme rassicurante e sinistra di essere inaffondabile, di poter veleggiare ancora per chissà quante altre migliaia di anni), è essenzialmente perché promette-"assicura" una continuazione dell'esistenza dopo e nonostante la morte a quegli esseri - gli uomini - che, tanto infondatamente quanto pervicacemente, pretendono che spetti loro un destino speciale, diverso da quello di tutti gli altri (ess)enti (già il grande Rensi aveva rilevato che, se - com'è giusto - a nessuno che veda una gallina ruotare sullo spiedo viene in mente che le sia riservata - e magari sia già in corso - un'altra vita successiva a quella finita nel momento in cui le è stato tirato il collo, non si vede perché mai invece, di fronte al cadavere di un uomo, si debba pensare, anzi dare quasi per scontato, che lui goda di quel privilegio). Come già Savater ha scritto apertis verbis in La vita eterna, tutta l'enorme incastellatura dottrinaria della religione cristiana e tutta la sua "nomenklatura" di persone divine, angeli e santi sono state fucinate perché ce n'era bisogno come di

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pre-condizione e "pezza giustificativa" dell'approdo all'enunciazione di quell'unica "verità" di fede che agli uomini interessa realmente: la loro sopravvivenza post 11UJTtem. Il cristianesimo ha avuto, ha e avrà una fortuna commisurata alla condiscendenza con cui si presti a lusingare gli uomini, che per i Greci erano per definizione i 11W1tali, accordando loro la patente di immortali. Al ribadimento della rivelazione di questo segreto di Pulcinella, Carulli aggiunge la nota pungente secondo cui gli abituati al cristianesimo sono in definitiva fiochi, tiepidi anche nei confronti della promessa di vita ultraterrena che dovrebbe galvanizzarli. Non stanno a pensarci poi più di tanto; anche quella loro apoteosi, quel loro trionfo annunciato è divenuto oggetto di un sapere sciattamente consuetudinario, quasi distratto. Sanno come cosa nota, ovvia, risaputa che al momento debito ritireranno quel premio che li attende. Tutto qua. Ma, come già si è detto, Carulli ritiene che un altro motivo fortissimo della persistenza del cristianesimo, tanto forte quanto la captatio benevolentiae da esso affidata alla promessa d'immortalità, risieda nella sua avvenuta trasformazione in una sorta di familiare liquido amniotico o, se si preferisce, di morbida ovatta entro cui l'europeo-l'italiano-l'occidentale, cioè il cittadino delle cosiddette democrazie libere-liberali, si muove e sguazza. Cristianesimo e democrazia vanno a braccetto, si spalleggiano l'un l'altra; per Carulli, il cristianesimo è la "visione del mondo" della democrazia (ma, tutto sommato, vale anche la reciproca). D'altronde, la democrazia non è forse il regno del voto e quindi della quantità, che dipana senza eccessi e sussulti i suoi rituali irrimediabilmenteprosaici, convenuti e ripetitivi, sedati esedamn, la cui regula è il proposito di risolvere i con.Bitti sociali e politici, o piuttosto di gestirli-di amministrarli, senza spargimento di sangue, cioè senza mai pervenire alla barbarie di quell'atto supremamente emozwnante e "solenne" che è l'omicidio? L'opaco, dolcemente sonnolento sciabordio prodotto dalla coppia democrazia-cristianesimo è il segreto della sua tenuta e

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anche della sua forza d'attrazione nei confronti dei popoli. Scostandosi dall'opinione molto diffusa - che anche Cioran ritiene di poter derivare dalla "lezione" offerta dalla cadutadell1mpero romano - secondo cui le civiltà ormai acquietate, ragionevoli e sazie sono destinate a venire sopraffatte da quelle meno evolute, più surriscaldate e più aggressive, Carulli pensa che a durare, a tirare diritto, siano invece le prime, anche per la capacità che hanno di assorbire-fAgocitare-livellare a sé gli esponenti delle seconde. Si consideriil problemadi stretta attualità rappresentato dagli islamici, gli uomini che, diversamente dagli occidentali/ dai cristiani nessuno dei quali può più credere sul serio, credono ancora intensamente e appunto per questo conservano una strettissima familiarità con la morte data agli altri e ancor più a se stessi, quella morte che d'altronde ogni vero credente si dovrebbe dare seduta stante a filo di logica, per passare al più presto a (infinitamente) miglwr vita. Ebbene, questi islamici, in quanto fanno non solo metaforicamente fuoco e fiamme attentando spesso e volentieri alla tranquillità delle nostre città e delle nostre vite, potrebbero sembrare una seria minaccia per la sopravvivenza stessa degli europei-degli italiani-degli occidentali, insomma del cristianesimo e dei cristiani. Ma non a Carulli, che ci rassicura: come lascia già presagire il fatto che, forse, attaccano e distruggono quello a cui in realtà desiderano assomigliare e proprio perché vorrebbero assomigliargli, essi saranno assimilati a noi, saranno integrati, nel senso radicale che, quanto più ci frequenteranno/quanto più li lasceremo frequentarci e convivere con noi, tanto più e tanto più presto si trasformeranno anch'essi in innocui, mansueti a/Jimati. Ma è venuto il momento di chiedersi: abituati, in ultima analisi, a che cosa? La risposta non può che essere: allo star bene, al benessere, e quindi, specularmente, all'esclusione più recisa possibile della povertà e del sacrificio. Carulli lo sa, come dimostra quando scrive che il richiamo dell'Occidente è irresistibile perché non si resiste alla seduzione dei comodi e dei piaceri.

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Chiaramente accessorio e di contorno è, ormai, lo strombazzamento - cui peraltro l'Occidente non rinuncia, sebbene sia con una convinzione ogni giorno un po' più flebile che dà fiato alle trombe- degli alti valori di cui si sente !"'inventore" e a cui lega il suo orgoglio e il senso di un suo decoro: la libertà, l'attitudine critica, la giustizia, l'uguaglianza, la solidarietà, la tolleranza. Il solo "valore" di cui ormai l'Occidente èveramente portabandiera e promotore, il solo nel quale ripone realmente il suo interesse, è la libertà, sì, ma di mercato-, insomma la ricchezza, o, se vogliamo, il diritto di arricchirsi. Ciascuno, sospinto dal vento di una retorica invasiva dell'"unicità" di ogni individuo e del valore della sua "realizzazione personale" che gli soffia in poppa con insistenza tanto più frastornante quanto più gravi e soffocanti sono in realtà gli ostacoli opposti dalla società alla possibilità che i singoli si modellino in modo dawero armonico e compiuto, cerca di scavarsi la sua nicchia o nicchietta nel "territorio" socio-lavorativo per spremerne il massimo arricchimento o arricchimentuccio possibile per sé, per i propri "cari" e per la propria cricca, vasta o esigua che sia. Ma si effettua una "radiografia" e insieme una critica ancora più stringenti del western-american way oflift dicendo che il modello cui si informano e cui cercano di avvicinarsi il più possibile le società che battono la bandiera con le insegne della coppia democrazia-cristianesimo è quello del parco divertimenti, del paese dei balocchi. Che fa, e da che cosa è contraddistinto, l'europeo-l'italiano-l'occidentale? Giochicchia e smanetta con l'ultimo aggeggio - si tratti di un cellulare o di un taòlet- che la macchina perennemente accesa della tecnica e dell'industria ha eruttato sul mercato e che magari, come anche in altre occasioni consimili, è stato fra i primi a precipitarsi a comprare nel giorno annunciato del suo arrivo nei raggelanti centri commerciali. Viaggiucchia tendenzialmente senza limiti su distanze internazionali o anche intercontinentali verso luoghi dove unisce il dilettevole all'utile della soddisfazione di

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L'OCCIDENTE PRA APATIA E PHILAUTU

vaghi, epidennici interessi "culturali". Copulicchia un po' con chi, come e quando vuole, ali'occorrenza formando, sciogliendo e poi "accorpando" famiglie più o meno a suo piacimento. Soprattutto, stravaccato e svagato voyeur, se ne sta ininterrottamente su un divano ideale, che per una non esigua parte del giorno diviene reale, ad assistere allo spettacolo della fiumana di immagini che gli ammannisce il Moloch dei media, anch'esso inesorabilmente operativo ogni giorno 24 ore su 24, e in cui secondo qualche filosofo o sociologo si è ormai letteralmente trasformato-disciolto il reale. Piuttosto desolante, non c'è dubbio, per non dire addirittura squallido. Ma domandiamoci: questo, che è poi l'offerta-imposizione del capitalismo pienamente-furiosamente dispiegato, non è forse esattamente ciò che desidera e chiede il cosiddetto average man, ossia la (stra)grande maggioranza dei viventi, e non perché siano condizionati e" deformati" dalla propaganda, dalla pubblicità e dal marketing, ma in forza di quella che è la loro natura/l'ordinaria natura umana e - verrebbe quasi da dire - per loro determinazione biologica-genetica? Come non vedere che il suddetto capitalismo è vincente anche e soprattutto perché dallàltro da ciò che esso passa, o addirittura dal suo opposto, può essere attratta tutt'al più una ristretta, estrema minoranza dei viventi, quegli individui delicati e discretamente devianti che sono grosso modo riconducibili agli idealtipi del contemplativo, del santo e dellàrtista (intendendo "artista" in un'accezione abbastanza elastica da potervi ricomprendere anche il filosofo; ovviamente solo taluni, assai rari filosofi), insomma quegli individui i cui comportamenti s'ispirano alla formula - il meno è il più - che non a caso per Kierkegaard è la "divisa" nientemeno che del religwso, ossia del più alto fra gli stadi esistenziali, o, ancor meglio, quegli individui che si elevano al livello forse ancora più sublime dell' indifferen7,il a ogni distinzione fra più e meno, abbondanza e miseria, acquisizione e perdita, vittoria e sconfitta?

L'OCCIDENTE PRA APATIA E PIIJUUTU

Naturalmente, Carulli vede la desolazione, lo squallore, e ne ha il dovuto ribrezzo; ma non si creda che se ne dissoci. In lui parla lo spirito di corpo-di appartenenza, che gli impedisce di scordarsi anche per un solo momento di essere quello che è, cioè un europeo-un italiano-un occidentale. È appunto in quanto tale che, dopo aver scritto «La civiltà - vanto della psicologia cognitivo-comportamentale - è le sue manifestazioni. Decisivo è l'utilizzo degli avverbi temporali. Non c'è civiltà inferiore, a quello che si dice. Però attualmente c'è qualcuno che le teste le taglia, infibula, dà in sposa le minorenni agli sconosciuti e lapida le adultere», si guarda bene dall'integrare-equilibrare soggiungendo «Però attualmente (e, a dire il vero, già da un bel po' di tempo) c'è qualcuno che colonizza il pianeta, sfrutta brutalmente le risorse naturali un po' a tutte le latitudini, depreda popoli riducendone porzioni non trascurabili in condizioni lavorative para-schiavili e bombarda spesso e volentieri svariate terre e i loro abitanti, in particolare le terre su cui vuole a tutti i costi instaurare o mantenere la sua egemonia per crassi interessi economici». Lo spirito di corpo-di appartenenza è in definitiva autoaffermatività, attaccamento a sé,philautia; ed è in fondo l'attaccamento a sé della philautia ciò che in questo libro Carulli chiama "fanatismo", dando a questo termine un'accezione un po' particolare. Tenendovisi stretto, Carulli onestamente non finge di essere migliore di quello che è. Ma il punto è che, in ogni caso, non potrebbe non tenervisi stretto. Che qui, in questo mondo, (purtroppo) l'unico esistente, autoaffermatività e philautia siano l'imprescindibile-l'inevitabile, lo testimoniano le pagine piuttosto fascinose della terza e ultima parte di questo libro, dove si dipana una sorta difabula metafisico-teogonica. Nella quale ci viene narrato come in origine ci sia (forse) stato qualcosa come uno smisurato monolito granitico, assolutamente esente dall'imperfezione e dalla crisi di una crepa, anzi anche solo di una sia pur minima venatura.

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Qi.iesto, l'elemento dell'un(ic)o e dell'indifferenziato, era (se mai vi fu) anche lo stadio, se non del bene, almeno del non-male, del non-dramma; Carulli sa ciò la cui amrrùssione distingue un pensante serio dai tantissimi, più o meno invasati e cialtroneschi "figlioletti di Nietzsche", vale a dire che l'individuazione e gli individui, e quindi la molteplicità, sono la disgrazia. Di quella stele intatta e miracolosa ci viene detto che awebbe potuto essere 11nfrantumato; ma difatto si frantumò. In verità, non (c')è mai stata; o, se si preferisce, il suo modo di esser(ci) è quello di esser(ci) come da sempre e per sempre superata, trapassata. Tra-passata in quello che veramente ed effettivamente c'è, ossia nei (suoi) frantumi, in una pietraia di frantumi, cioè di (ess)enti individuali. Ma c'è frantume e frantume; o meglio, c'è un frantume diverso da tutti gli innumerevoli altri, un frantume che è in realtà un immane, pesantissimo, prevaricantissimo sesa11UJ. Chiesta specie di scheggia colossale è Dio; gli altri frantumi, al confronto miserevoli sassolini, sono quelli del cui rotolare, cioè delle cui vicissitudini, consta la storia. Il primato di Dio è tutto quantitativo. Dio sic et simpliciter pesa, e quindi schiaccia, incomparabilmente di più; è indicibilmente più grande, anzi sarebbe meglio dire più grosso. Dio è né più né meno che un mostro tutto-quantità. Il quale, comunque, della sua innegabilmente volgare supremazia è irriducibilmente geloso. In quanto gli altri frantumi possono dare l'impressione di crescere troppo, di essere forse in grado di svilupparsi fino a sfidarlo, Lui li stoppa: la 11Wrle è l'alt che impone loro, a tutti indistintamente, uno dopo l'altro. Ma con la morte essi nonfiniscono. Anch'essi - per così dire, nel loro piccolo - manifestano più che discrete risorse di resistenza; infatti, dopo la morte comincia la vicenda - la sola "altra" o "seconda" vita che sia loro concessa realmente - della loro dissoluzione, del loro lunghissimo, in-terminabile disfacimento, con cui si avvicinano asintoticamente al niente senza però mai raggiungerlo. La decomposizione del cadavere lascia sempre un

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L'OCCIDENTE PRA MATIA E Pff/LAUTT,f

residuo: in generale le ossa, se non altro - magari - un dente, qualcosa del genere di ciò che la devozione rubrica e venera come reliquie. Ma proprio questo non venire mai completamente e definitivamente meno degli innumerevoli "frantumi minori" è ciò che fa al caso di Dio e lo tranquillizza: infatti, se essi - tutti - si an-nientassero davvero, Dio/l'Essere si troverebbe confrontato e "in competizione" con la distesa della sua temibile controparte - il Nulla-, mentre il regime del loro an-nientamento sempre mancato, del loro semplice e in-finito diminuire, sancisce la originaria ed ekmentareverità per cui (c') è (solo) l'Essere e non il Nulla, che quindi ha da sempre e per sempre perso la sua partita. Non si stenta a cogliere quale sia la triste "morale" della fabula metafisico-teogonica narrataci da Carulli: in questo mondo Dio stesso non è che un violento ceffo la cui sola vera (pre)occupazione è vivere letteralmente guatando, controllandoprocurando che niente e nessuno insidi il suo dominio. È cosi che il cerchio della nostra argomentazione si chiude: se Dio è questo debordante campione-monumento di autoaffermatività e philautia, come potebbero mai i "frantumi minori"/i semplici individui/i comuni mortali - e fra loro, ovviamente, anche Carulli - essere diversi e migliori di Lui? Marco Fortunato

INGEMISCO (Quasi un romanzo di Fénéon)

Noi siamo gli abituati al Cristianesimo. Battezzati, comunicati, sposate di bianco in chiesa, dove ci andiamo, non sempre, di domenica. Sempre pii e compunti alle esequie degli amici. In questo consiste oramai il Cristianesimo sotto due papi.

UNA INTRODUZIONE?

Ermeneutica della creazione. Il saggio filosofico di teologia, questo nostro, è una postfazione ad un libro che c'è, ma è come se non ci fosse, e viceversa. Come Borges e il Signor Nicolaus Notabene (quel birichino di Kierkegaard sotto falso nome) ce ne diedero prova maestra, si possono prefare libri che non esistono o che non hanno avuto se non un solo modo d'esserci, pudicamente trascurabile. Ci sono poi quei libri che non ammettono vaniloqui a corredo: si danno solitari e non tollerano accompagnamenti di sorta. Discorso che non vale per tutte le pre- o post-fazioni nella fattispecie: se non di tutte, di alcune possiamo dire ciò che abbiamo appena detto valere per il saggio: devono uscire da sole. Ma c'è un problema evidentemente: se il saggio dell'Autore è giusto che esca solo, il medesimo non può dirsi della chiacchiera, ovvero dello studio consecutivo, che non può neppure vantarsi cosi di essere male accompagnato. L'ermeneutica - questa scienza orribile - non ammette simmetrie. Le vicende varie e vogliamo credere casuali - la cui contingenza seguiamo nel mondo e assolviamo col "gesuitismo" nostro, come pure di ogni studioso, razza cui ci guardiamo bene dall'appartenere - che ci hanno condotto ad editare questa nostra post (o pre?!)-fazione scompagnata del naturale (ma fino a che punto?, stando a quello che andiamo dicendo) compie-

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SPIOUCIJ\ E SRACIONE

mento, almeno un merito innegabile hanno, quello di farci riflettere sul rapporto di convivenza forzata che lega scritto e scritto a corredo in uno stesso volume: dei due solo uno farebbe volentieri a meno dell'altro. Adesso possiamo veramente essere certi di quale? Alla riscoperta di un nesso la sua stessa assenza in questo nostro libro invita. Miracolo delle pre-fazioru o post-fazioru a libri che non "cisono" o che ci sono ma come se non vi fossero. Fozio e Simorudis d'altronde - almeno loro - sono esistiti e non hanno operato invano. Ne siamo certi? Fino a che punto? Si sono resi conto che parlavamo di creazione e scienza di Dio?

LlBRO PRIMO (ETHICA)

GERUSALEMME SENZAATENE

Il problema allora - o quantomeno il perno attorno a cui gli assi di questo minuscolo carro che è questo libro girano - è quello che Simenon soggiunge dei protagonisti de La scala di ferrtr. '"Sei battezzato?' 'Ho ricewto una educazione cattolica'. 'Anch'io. Q!iando sarà il momento, ci sposeremo in chiesa'. Lei non andava più a messa. Forse non credeva neanche in Dio. Ma voleva che tra loro ci fossero ilegami più stretti e ufficiali". Il Cristianesimo, dovremmo averlo capito, è insuperabile. Come il capitalismo. Alle best practices voi sapete quanto abbiamo sempre preferito le cattive teorie. Però è giusto ora occuparsi, per una volta, di una cattiva pratica. Da noi Dio rimane solo un diffuso sentire, un sensus communis che non è comtTUm law, non è religio dvilis. Influenza ogni singolo, per non influenzare niente della sua vita. Dall'opinione dei singoli sul Cristo diffusa, che nei discorsi nei buenos retiros non si riversa, non viene niente - eccetto qualche accesso che può far cadere in imbarazzo e svampa presto. "Solito" e "solitudine" potrebbero avere la stessa radice: nell'abitudine abbiamo costruito tante isole che sono lontane anni luce dall'essere quell'enfatico popolo di Dio di cui si disse ai tempi. Con un mix di sacramenti tramandati e nO'lJÌSSimi esangui non si costruisce né una religione civile, forse un centro in politica (tecnicamente impossibile - e la Chiesa è la prima a saperlo e compiacersene - alla luce del

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fatto che ora Dio è per ogni dove), in quanto un basso livello ideologico garantisce al meglio quell'ars regia di cui - vedi Platone, Politico 305e ss. ovviamente - ogni scienza politica si compone. Spazi improbabili si apriranno di qui, da questa deficienza (di cui Paolo, una volta per tutte, scopri la forza: 2 Cor 12, 10). Ogni deriva nichilistica è scongiurata (per rimanere alla stupida accusa dei nostri tempi): un senso piccolo piccolo come una fiammella nella notte buia basta ad orientare il percorso degli ipovedenti di questo secolo. Ovviamente qui non è in gioco nessuna variante debolistica del mondo: sappiamo di stare nella notte, stiamo facendo di necessità virtù, stiamo maneggiando quello che ci troviamo tra le mani, non stiamo svuotando nulla di proposito. Stiamo solo tentando di capire come questo gregge di fanciulle scondottate, maschi utilizzatori di espedienti antigravidici, e di "fedeli" recantisi in Chiesa proprio quando non se ne può fare a meno possano fare al caso nostro. Non poniamo limiti all'infernale provvidenza. I conti si fanno con ciò che il tempo offre: questa la grande lezione della Civiltà. La Civiltà, e la religione correlata al tempo, sono quello che sono, sciocco è pensarne altre eventuali sostitutive o di scorta (l'Islam è quello che è: non esistono varianti da poter studiare a tavolino, o cui appellarsi per stornarne altre, tipo quell'araba fenice che sarebbe l'Islam moderato). Da una Civiltà non possiamo pretendere chi sa cosa. La Civiltà ci dà quello che ci può dare in questo momento. La Civiltà - vanto della psicologia cognitivo-comportamentale - è le sue manifestazioni. Decisivo è l'utilizzo degli avverbi temporali. Non c'è civiltà inferiore, a quello che si dice. Però attualmente c'è qualcuno che le teste le taglia, infibula, dà in sposa le minorenni agli sconosciuti e lapida le adultere. A nulla serve affermare che l'Islam attuale è ciò che nel Seicento fu il Cristianesimo: la civiltà è come l'amore, conta sempre e solo al presente. Non v'è nessun indice di "ribellione" all'ordine del mondo in questo Cristianesimo (il tratto che ne costituirebbe il segno

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sempre immediatamente escatologico). A Dio si è sempre congiunti in una indifferenza distale che ne costituisce la presenza continua. Due sono le cose che hanno consentito a Dio di non smarrirsi nei millenni: l'indimostrabilità della sua esistenza, cosa che ne ha alimentato la perenne ricerca (pena la dimenticanza per acclarata disponibilità di lui), e l'alone suo entro la nostra vita, più per decreto altrui che per intima adesione. Solo di qui, da questo fondo paradivino, potrà poi stagliarsi la presa di coscienza del cattolicesimo militante. Non parliamo qui di quelle strutture ontologiche alla Zubiri secondo cui io non possa pensarmi ontologicea prescindere da Dio (cosa che ci pare sempre meno vera), ma del residuo di questa antropologia scolastica nel vivere. Si sa bene che i residui di una antropologia sono alla mercé degli altri (vedi cosa è successo con Frazer). È così anche qui: una struttura onto-costitutiva è allegata ad una sociologia d'accatto. Ma se senza un senso comune o un sentire diffuso difficilmente avrebbe potuto darsi Dio, la vita, non per questo, senza la logica a corredo, non la smette di farsi i fattacci suoi. Dire che Dio sia la Vìta è quantomeno affi:-ettato. La voce di popolo non è voce di Dio, è dimostrazione della propria raucedine prima di tutto. Dio è un perceptum, una hypothesisfincta, un'astrazione servizievole come l'etere o le sfere cristalline di Eudosso. La società si regge sulle "credenze". Rientra tra queste il Cristianesimo. O meglio, non è che essa si poggi sul Cristianesimo, ma è come se di quello abbisognasse per rinsaldare la propria identità ambigu_a. Qyel che resta dei Guelfi serve ai Ghibellini per governare. E un tratto consolidato, debole ma persistente, che fa rispondere all'interrogato sempre nello stesso modo. Non sappiamo neppure se esiziale possa essere questo tratto di biacca leggero, la sua scomparsa. L'agonia ormai secolare di questo Cristianesimo (agonia nel senso non pari a quello che gli spagnoli diedero alla cosa) rende difficile pensare alla sua morte eventuale. Muore chi è in buona salute; chi pian piano

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continua a piegarsi sotto il gravame dello spirito (questo il senso della senescenza che non prende da subito ad organizzare la falcidia progressiva) inizia ad ammalarsi tutt'al più. La società, più che reggersi sull'idea di buono o di bello, o di giusto, prende colore dalla sopravvivenzapost mr,rtem, l'idea entro cui tutte le altre finiscono, come biglie in un imbuto di sabbia. Vera o falsa che sia questa credenza non importa. La "credenza" va creduta, e tanto basti. Alla vecchia polis articolata dalla democrazia subentra la societas che come su di un piano inclinato rotola verso l'incredibile - la sopravvivenza dopo la morte - che si pone come il massimamente creduto. O!Jesto sembra essere il tratto dell'umano precipuo: la costruzione di ciò che sfida la morte e la disorganizzazione. Ma è un riflesso condizionato: al vecchio timore del nemico che incendia i nostri campi e stupra le nostre vergini si sovrappongono tanti istinti che, per un miracolo, dalla entropia della teologia ad usum delphini ridotta ormai, cavano un ordine. È, questo, l'aspetto "retributivo" che regola la morale della società: il buono, il fare bene, il portarsi decorosamente in giro, comandano, legati antikantianamente alla ricompensa finale. Tanti individualismi in theologicis, individualismi introiettati e tramandati, affluiscono nelfronte comune di un ordine provvisoriamente sempre in piedi sulle macerie di una teologia "personale", cioè ricondotto a religione consuetudinaria. A detta del personalismo, le verità di carattere religioso - quanto di peggio possa esservi (già una qualsiasi verità è infernale...) sarebbero vincolanti in minima parte dal momento che presuppongono la massima comunanzaspirituale. Proprio perché le più "soggettive", esse perderebbero in cogenza. Mala cogenza che esse perdono in quanto personali sarebbe ricuperata in un idealismo sociale entro cui Dio apparirebbe ai singoli come adempimento di quella promessa che la società non sarebbe in grado di mantenere. Una religione oppiacea ritorna, in una società che come ha dismesso ogni proposito rivoluzionario così ha abbandonato ogni convinta adesione al Crocifisso.

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Il riformismo avrebbe fatto fuori il fanatismo, non v'è dubbio. Ma un briciolo di fanatismo serve sempre: per difendere la civiltà, per parare i colpi che alla civiltà vengono inferti, per vivere, semplicemente. L'assenza del fanatismo classicamente inteso, cioè barbarico, lascia il campo libero nella nostra società al fanatismo di un fanatismo deprivato della sua violenza: un fanatismo molliccio, un filo ironico, dolente un poco, frammischiato come si conviene al saper dire cosa e quando. Ogni piglio timorato è smesso, abbiamo preso lo scalfo della giacca alla Civiltà, come uno di quei bravi sarti di cui mai sapemmo più di tanto (i sarti in effetti non hanno nome, questo il loro destino). Del fanatismo vero, quello dei popoli che sempre hanno assediato l'Occidente, questo "fanatismo" ha l'assenza pressoché totale o la presenza per niente decisiva di uno sbuffo di ragione; del fanatismo non ha la violenza dacché qui tutto avviene senza manifestazioni eclatanti e neppure convincimenti cui possa abbarbicarsi l'interiorità, da cui a malapena se ne sporge, quanto basta per non disperare (e la società non ammette i disperati, più degli assassini, di cui ha sempre saputo cosa farsene). Non è che la società si regga su questo Cristianesimo. Sarebbe esagerato dirlo. Si regge su potere ed economia, ma da esso riceve una coloritura da cui di fatto non viene incisa. Ne è finalizzata, ma non duramente segnata a livello pubblico. L'abitudine al Cristianesimo è propriamente dei singoli. E tante abitudini tra le mura domestiche sono una direttiva lasca impressa. Non è che sulla società si spanda una luce uniforme. È la singola faccia del prisma societario - solo questo rapporto singolare - il raggio dell'individuo. E tante piccole luci tra loro gettano coni d'ombra evidenti. La società abituata al Cristianesimo è questo buio rimasto tra di noi, al di fuori di quel lume fioco con cui ci hanno insegnato a rischiarare per un po' la nostra misera esistenza. Senza compiere uno spazio pubblico "perfetto", l'abitudine al Cristianesimo crea questo

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Cristianesimo, portato e mentore in uno della secolarizzazione. La Civiltà ha domato la bestia feroce. La Civiltà è natura su/J ripetizione. Vivere non poteva darsi che in una società scandita dalla religione - il quietivo di Dio -, addormentati a quei ritmi che Dio stesso o gli imprevisti del cortocircuito di fede e ragione avrebbero potuto sconoscere, o alternarne la prevedibilità. Dio, la terribilità di quello, che scolpi Michelangelo, non fa più paura. Paura, addomesticato Dio, la fa la morte, comunque superabile, stando a quello che dice questo Cristianesimo che lafa facile. La nostra non è più stagione di dimostrazione dell'esistenza di Dio, né tantomeno è tempo che preveda l'annosa tenzone di fede e ragione: a dispetto dell'enfasi posta sul pensiero, non v è più nessuno che possa annoverarsi tra i paladini del razionalismo in senso stretto, né tra i filosofi disposti ad indagare i preambulafaiei anche dove la loro operazione parrebbe andare in tal senso, dacché oggi la ragione "cartesiana" ha fatto il tempo suo. Della religione che fece a meno del pensiero: di questo onestamente si può trattare per parlare nel tempo della supposta morte della filosofia. Qiiesta la sorte attuale della teologia - o meglio detto, la sua risoluzione finale in religione. Si è giunti alla religione che si tiene in piedi da sé nella costumanza di un Dio che a noi penserà post nwrtem. Ai presagiti cenni di un Dio si è sostituita la chiassosa certezza che tutto ci sarà dovuto. La misericordia è assai; la redenzione- che non si sa bene cosa sia - ridotta al più ad un incontro tra le nuvole; la preghiera, da respiro della comunità, a certezza di esazione (il confronto conAlcibiaàe minore, 149e -150b è impietoso). Anche la putrefazione di Dio - più che la sua morte, decretata da Nietzsche-, come quella dei re nel Pudridero de L'Escorial, era divina, necessitava di un trattamento particolare. Ma il credo ut intelligam, intelligo ut credam cede il passo ad un credere sine intelligere che, dando Dio per scontato, lo porta alla

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disponibilità immediata come per gli utensili di Essere e tempo. L'ontoteologia è solo il lato "raffinato" del credere qualunque, il trattare non altrimenti Dio da chiunque altro quanto alla sostanza delle cose. All'uomo basterà d'ora innanzi, come sempre gli è bastato, credere. Senza comprendere alcunché. Se v'è una cosa che sfuggi ai Lumi fu quella di épateruna fede che tornava barbara, nel mentre era abbrancata alla ragione. La religione per quelli doveva ancora fare il filo alla ragione; quella attuale, svincolarsene. Q9esta la differenza capitale. La religione è un sentimmto e poco più. Credere e basta, dopo che si è tentato di giustapporvi la ragione, è il degno compimento di questa storia. Ma alla storia del pensiero nessuno crede più, come a Dio si crede per quello che serue. La tradizione è ridotta a consuetudine. Il civilizzato, che pontifica convinto nei salotti dell'impasto di fides et ratio, sinceramente si affida in imo al Dio che unicamente lo deve far scampare alle fiamme dell'inferno e fargli incontrare i cari suoi in quell'isoletta dei vivi che Bocklin si vide costretto a dipingere a fine vita, lui chefelù:emmte aveva dipinto cosi tante isole dei morti. Primum 'Uivere. Semper. L'uomosa cosa gli serve fare la domenica mattina perché il resto della settimana stia a posto. Se alla teologia non difettò il coraggio, lo stesso non poté dirsi del credente moderno, un credente che finalmente abbia espulso dalla propria fede le "ragioni". La figura di un credente tutto sommato tiepido e scarsamente dominato dalla voglia di inte/Jigere Deum: questa la figura che il secolo offre, questa la necessità di cui possiamo fare virtù. Di qui la possibilità di un incontro con la religione che vorrebbe mangiarsi l'Occidente. L"'irrazionalismo" di un Cristianesimo mondato della sua radice greca potrà competere con la sragione di ogni fondamentalismo. Al fondo di ogni religione v'è un fondo selvaggio, mondato di ogni esprit define.sse teologico. La religione senza teologia incontra un'altra religione che pure parti decisive della sua filosofia a corredo condivise.

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Alla magniloquenza di una ragione slargata all'inverosimile opponiamo una ragione il cui diametro di chiarore espanso sia tutto sommato buono a rischiarare un brano di carta. Morali provvisorie (vedi Descartes), come vecchi dittatori simpatici all'Occidente reggono le quotidianità. Smuoverli entrambi è destabilizzare un'area Il ripristino di una idea di credulitas può tornare a fare al caso nostro. È una piccola scogliera di marmo contro l'invasore che non farà delle chiese romaniche moschee, ma si fermerà ai palmizi presenti al loro esterno. Q!lanto al Cristianesimo esso continuerà a sopravvivere nei millenni, ne siamo certi (al pari, ma riuscendoci stavolta, di quanto pensava della religione romana, l'unica, a suo dire, vera, Lacan, IItrionfa della religwne).

• La religione fa quanto Dio capì bene non avrebbe dowto fare: lo ostende perennemente. Per troppo amore rischia di farlo scomparire. A renderlo troppo disponibile ce lo rende scontato e indifferente. Gli attentati religiosi vogliono ribadire Dio, ma corrispondendo alla sua natura "violenta": se la nostra morte è il coltello con cui Dio lacera il cielo di carta della religione che lo ricopre, le religioni fanatiche vogliono muoversi come Dio fa natura sua. Ilfanatismo vuole essere Dio, wole sostituirsi ad esso. Una religione fanatica è un ossimoro: la violenza della manifestazione è di Dio, non della religione. Tra Dio e la religione c'è la morte che è solo di Dio, come voleva Agostino. Il Cristianesimo occidentale ci ha assuefatto a Dio tanto da farcene dimenticare, salvo poi essere risvegliati da lui in persona quando ci muore un caro ad esempio. Per essere eccezionale esso sembra debba passare per la più aberrante delle normalità. Abbiamo disseminato Dio senza clamori per ogni dove, meglio

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di quanto fosse riuscito all'Islam con la sua teocrazia. L1slam invece pretende di sostituirsi a Dio, alla sua manifestazione improvvisa e irregolare. La radicalizzazione dell1slam così va intesa, in questo senso. L'abitudine al Cristianesimo è invece la verità di Dio: in essa lo scandalo di quando in quando èpatente. Del resto, troppi scandali ribaditi ci accostumeranno talmente alla violenza che Dio alla fine perderà l'eccezionalità della sua, l'unica vera possibile. Il fanatismo usa troppo la morte: Dio perde in questo modo la sua nO'Uitas cruenta. Va da sé che solo per noi, dormienti prima e poi svegliati, varrà la benedizione del consummatum est. La morte è Dio tenne a scrivere Sciascia ne L'antimonio. La morte riporta Dio fuori della religione. Le guerre, i terremoti, gli incidenti stradali etc. sono il Dio nudo e crudo, non più addomesticato dalla religione microfìsica, so.ft religious power. Nella Bibbia i miracoli - di cui lamentiamo la mancanza oggigiorno- avvenivano perché non c'era la "religione", ma Dio in carne ed ossa. La morte è insuperabile dacché Dio lo è. Le guerre di religione possono distruggerei'immagine di Dio, non Dio in quanto tale. E con la morte che ci investe uno per uno Dio rientra in scena. Rimane un'ultima forma di sopravvivenza duplicata, in grado di garantire una sopravvivenza pressoché infinita a Dio e al suo culto: l'abitudine alla religione, al Cristianesimo nella fattispecie.

L'ABITUDINE AL CRISTIANESIMO (LA SUA DURATA ETERNA)

Risposta a Luca roangelista. Ma il Figlio dell'Uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? No. Meriti immani. "Sei credente? Non sei credente? In cosa credi? etc.". Dinanzi a un pigolio del genere, noioso, ignorante e privo di costrutto, basterà rispondere: "Sono un abituato al Cristianesimo". Mi dicano loro se non è un buon motivo per passare alla storia. Ciò che dura ha forza. Non v'è dubbio che da duemila anni il Cristianesimo sia sulla faccia della terra. Gli imperi si disfecero, ma esso no. È diventato, come dire, l'abitudine della Civiltà. L'abitudine allora non sarebbe l'esito di un deficit di vitalità, ma l'eccesso di una forza? O forse il minimo indispensabile per consentire all'organismo di adempiere ai suoi processi vitali? O!}esto è il punto da cui occorre partire. Ammettiamo pure che Dio, come si dice per la divisione in sessi, sia stato una grande bugia da duemila anni messa in giro sulla terra. Non sposta niente tutto ciò: una bugia divenuta verità come verità va trattata.

Dramatis Persona. "Per trentadue anni, quasi trentatré, era stato un uomo onesto. Aveva seguito i binari, come aveva pro-

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clamato con tanta veemenza quella notte: bravo figlio, scolaro diligente, impiegato, marito, padre di famiglia, proprietario di casa a Long Island. Non aveva mai infranto la legge, non era mai comparso dinanzi a un tribunale e tutte le domeniche mattina andava a messa con la famiglia. Era un uomo felice. Non gli mancava niente" (Simenon, Luci nella notte). Assistiamo al divorzio della preghiera dal pensiero (la cui unione rimane confinata ai pretenziosi studi di settore). L'età attuale ha implicitamente decretato che o si pensa o si crede. Nessuno abbiamo trovato che fosse veramente in grado di recepire l'invito a fondere fede e sapere (anche a costo di vederli trasfusi in forme irregolari), al di fuori ovviamente di un ristretto milieu di convinti della sintesi necessaria (cui pure appartenemmo). L'entusiasmo (Begeisterung), che era il sigillo della festa della ragione sposata alla fede presso l'Illuminismo, non coglie più nessuno. Non è agnosticismo quello che percorre la nostra esistenza. Ma di quello ha lo stesso lassismo, la stessa tendenza all'indifferenza, la stessa inutile vocazione al poco meno che niente (in realtà ci giunge un tutto, ma solo come cosa già da sempre assodata da altri: Dio c'è - ne siamo quasi certi - , con in quel "quasi" un dubbio pallido, un' opinione sopravvissuta). Da questo punto di vista, siamo all'opposto esatto di Henri Le Saux per il quale il Dio vero era ben oltre il Dio pensato. Dio è quell'idea che ci hanno detto. Nessuna klesis qui. Attraversiamo il deserto non perché chiamati ma perché seguiamo stancamente le onne lasciate da chi ci ha preceduto. Secondo Chesterton il cattolicesimo non si sarebbe mutato in una tradizione. Si sarebbe mutato in una abitudine diciamo noi. Il che è pure peggio. Ancora a detta di Chesterton, il buon senso sarebbe rimasto sotto forma di debole tradizione.

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Ma ora il buon senso non passa più da quel redde rationem che era la quintessenza di quella ragionevolezza che faceva da mallevadrice al Cristianesimo. La religione sarebbe cosi l'abitudine a Dio, la consuetudine a Lui, cosi come si è prodotta e consolidata nel corso dei millenni. Poiché Dio, la sua esistenza, è incerto, cosi come la nostra vita se fu voluta, dovremmo accostumarci a questo antidoto più straniante di quello straniante cui avrebbe dowto porre riparo. Nell'abitudine si realizza il sogno di Villiers de l'Isle-Adam, di qualcuno che viva in vece nostra: un sé collettivo e meccanico nella fattispecie, come il Cristianesimo di prammatica del popolo delle domeniche che al Cristianesimo ha preso la forma dei piedi come un paio di scarpe consumate.

Le cose hanno perso il loro officio severo di ammonimento. Funerali, ospedali ed obitori sono i punti unici - più delle messe domenicali - dove si apra una porticina al Mistero. Ma non il pertugio evangelico in cui si passerà al Regno dei Cieli: no, si tratta dello sporgersi dalla piccionaia per assistere alla solita opera... All'infinità delle vie del Signore preferiamo tener d'occhio solo l'Infinito con qualche suo nesso squallido. La Bibbia nutre dei dubbi sul fatto che il Figlio dell'uomo troverà ancora la fede ad attenderlo. In effetti, noi non sappiamo se ci sarà ancora la fede di Le 18,8. Sappiamo che di sicuro ad attenderlo vi sarà l'abitudine. Come Caifa lasciamo che il Cristo entri a casa nostra, ma non pronunciamo nessuna sentenza. Lasciamo che esca come vi è entrato - nella più totale indifferenza. Se l'odio è indifferenza e disdegno, di sicuro l'indifferenza non è né l'uno né l'altro. Qlieste le coordinate di un'apatia lunga.

SPIDUCIA E SRACIONE

Pulsate et aperietur w!Jis

Mt7,7

Se è vero che fu la postura eretta a creare la storia, l'alto (donde i morti ci guarderebbero) fece nascere il senso di colpa che investi la nostra coscienza (la peggior invenzione dell'umanità secondo Nietzsche). Tutto crolla nel mondo contemporaneo: multiple organfailure. Ma rimane questo Cristianesimo dalla pelle dura. Il colmo è che della vita - l'esperienza dell'esperienza - nessuno possa dire di avere fatta l'esperienza definitiva. Come pure del Cristianesimo nessuno può dire di avere in tasca l'esperienza autentica. Semmai quella di più lunga durata, diciamo noi: l'abitudine che ha trasformato l'insoddisfazione del mancato ritorno di Cristo nel migliore degli investimenti possibili. Le catene dell'abitudine alla Legge furono spezzate perché quelle della legge dell'Abitudine ci serrassero i malleoli. Qyesto Cristianesimo accompagna le nostre vite, come il selciato del camposanto è battuto dai nostri passi. Inavvertitamente si calpesta un suolo sacro, un vecchio bortus eone/usus, fumando con piacere e parlando del più e del meno appena tumulato un caro. Scoppi di vita possono pure darsi, in maniera nient'affatto infrequente. Qyesto Cristianesimo che ci scorre accanto, imbelle e per niente indigesto, è un po' una sorta di precategoriale ad uso inconsapevole del cristiano tiepido. Se per Husserl era un dono di grazia, per noi è sigillo di una distrazione inconscia con qualche sprazzo di salvifico. Neppure è rassegnazione questa consuetudine. Magari lo fosse. La rassegnazione è ciò che rimane di una disperazione lucida che è giunta al punto di sapere di non potere più nulla. Qui, prima ancora di aver tentato, ci si è seduti, affiatandosi alle altre comari, e attaccando bottone. Uabituato è da sempre convinto che la /ex mercatoria sia dalla sua parte. Indipendentemente da ciò che racimolerà in vita, gli sarà dato.

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È caduta la vecchia pretesa che all'accrescimento delle mie qualità interiori corrispondesse tanto meglio il dettame di un ordine superiore. Ci si consegna come si è, al momento dell'atto di richiamo. Ogni idea di una ratio melwrans (tipica di tutte le epoche di dissoluzione, a partire dallo Spatauftlimmg, dove il tratto rilevante è l'esasperazione caricaturale della ragione, vedi Schelling con la sua brutta Darstellung finale) non pare giocare ormai alcun ruolo in questo genere di faccende attuale. Non v'è ordine superiore per il nostro Cristianesimo da senso comune, cosa che la dice lunga su come esso non sia un fenomeno della crisi, ma si trascini da secoli così come è ora: v'è solo la prosecuzione attesa dopo la fine della vita, cui la morte sarebbe una istanza ostativa come un attraversamento pedonale in una via ad alta percorrenza. Dio non è più l'asintoto delle nostre qualità suscettibili di sviluppo, ma il doganiere che ci fa passare sporchi e laceri. O divine giornate in cui ci si sente migliori a leggere antropologie religiose come quella di Spalding. Ci si sente bambini come a Natale, animati da buoni propositi, edificati ... L'antropologia - fosse pure filosofica - è sempre il rifugio della psicologia. Ce ne siamo accorti con Le Confessioni di Agostino (d'accordo: Agostino non fa psicologia, bla bla bla; d'accordo, ma a noi così parve. Sapete quanto egli non ci sia mai piaciuto).

Verstandiger undfreyhandlender Wesen. Tutto è bello nelle antropologie filosofiche. Awerto in me sensazioni che non attraversano lo squallore della mia carne fetida, precetti di equilibrio che non avrei immesso io nel mio spirito, misura e ragionevolezza ... Poi subentra la teologia con la sua ragione e la musica cambia. La "ragionevolezza" sa di bestie ammansite, pazzi furiosi ricondotti alla socialità, animali risospinti entro il recinto. La ragionevolezza sa di necessità fatta virtù, logica coatta degli angeli caduti (o scimmie evolute - fate voi). La

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ragionevolezza è degli spiriti sul far del mattino. La simmetria che vuole gli estremi combaciare qui non vale. La ragione che ha esperito non potrà essere ragionevolezza. Al massimo raziocirùo. Come l'emottisi è fatta di sbocclù di sangue, la ragione sputa quei frammenti di ragionevolezza che non sono propriamente la sua carne, come la primipara espelle pezzi di placenta. L'immagine di un aldilà nebuloso popolato di tante persone e di un Dio buono continua a signoreggiare l'immaginario collettivo. Che si possa essere alla sua altezza per il tramite di regole improntate alla ragione, all'armorùa e alla bontà è cosa da Arcadia. Umana, troppo umana è quella religione che posponga alla morte quei frutti che altrimenti dovrebbe ministrare ai viventi hic et nunc. Vi fu mai un tempo in cui il non-ancora articolava il già? Non lo sappiamo. Così si dice. Sappiamo solo che è il nostro già ad allungare le mani su quell'avvenire che siamo convinti spettarci di diritto. È il porto lontano cui ci toccherà di sicuro di attraccare, non il lievito che fa crescere la nostra pasta informe adesso esso. Ci sono posti dove Dìo sembra tornare in grande stile, nella riclùesta del matrimonio in clùesa per i divorziati ad esempio. Fu vera gloria? O la marea dell'abitudine al Cristianesimo non accetta che un isolotto di intransigenza pastorale non si lasci inondare? Il dibattito in materia teologica attuale è nulla più che l'insofferenza del secolo che qualcosa possa ancora sfuggirgli. E pertanto corre ai ripari. Ritornare a]acobi. Nessuna gradazione infinita qui che porti verso libertà e ragionevolezza, progressivamente, ma il salto entro l'ignoto che di colpo ci restituisca clù sa cosa (dacché un corpo nuovo e materiale è quantomeno incredibile. D'accordo: la resurrezione non è rianimazione di cadavere, Lazzaro non è il Christw redivi'llUS. Sul corpo che ci sarà dato, lo immaginia-

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mo quasi come un vapore, un alone, ma non importa, dacché dei morti immaginiamo solo il viso). Ma come tutto ciò possa awenire non si discute. Non v'è dubbio che il tempo rimanga ancora come qui. L'eventualità di una differenza qualitativa tra le due plaghe separate dal tran.situs (inteso mai comefinis) non sfiora la fede del credulone, per il quale l'immutabilità di un ordine - indipendente da lui - neppure si rivelerà come l'asfissia di un dogma personale e incondiviso. Chi vive da cristiano e chi come se lo fosse: ma come possiamo mai sceverare? Con questa ambiguità il problema dell'unità secolare è risolto. Come tre pasti al giorno decidono del peso con cui una persona si trascina una vita intera, così tre momenti in Chiesa dispongono di una esistenza che, almeno nominalmente, si vuole cristiana. L'abitudine al Cristianesimo risolve cosi il problema del confine tracciabile tra cristiani e non cristiani. La religione è quello sfondo su cui si stagliano macchie di adesione, ora più convinte, ora meno, ora al limite dell'indifferenza... Qiiesto sentire religioso che abbiamo succhiato col latte, o appreso, da bambini, sui banchi di scuola, più che al buon senso, al quale lo si vuole legare, è affine ad un senso buono a tutto. Per una volta dalla religione viene la salvezza, come dovrebbe essere, ex religione salus. Ma a fare difetto è il fatto che essa ci salvi in questo mondo: !'"originarietà" del Cristianesimo è rovesciata, sentendo esso ciò che sentiamo noi. Da questo punto di vista, l'ultimo Habermas, per il quale la religione si sarebbe ristretta a nient'altro che alle funzioni pastorali della cura dell'anima, ha ragione. Noi postuliamo questo spettro di colori, dove la religione è appena al di sopra della soglia di visibilità, un indaco, un'esistenza da travèt dove né la mente, né il cuore governano i processi, ma atti riflessi, reazioni agli stimoli che furono. L'abitudine ha ragioni che le ragioni della ragione stessa sconoscono.

SFIDUCIA E SRAGIONI!.

Illustri precedenti. 01tando i Donadieu andavano la domenica a messa formavano una processione dove l'unico assente finiva per essere Dio. Stato delfarte. Usa il condom; è per il testamento biologico e per l'eutanasia, che è brutto assai veder soffrire alla fine; non va mai a messa; l'aborto in certi casi è inevitabile; si separa o divorzia; è possessivo, avido, violento, odia; non ha mai letto mezzo rigo della Bibbia. Si professa cristiano senza problemi. Questioni di teologia ,nqra/e. La Chiesa si fa tanti problemi per cose che hanno già trovato la soluzione, vedi in Africa o presso i nostri baldi giovanotti. Dissidio edefinizioni. Come mai odiamo l'uomo ma odiamo l'aborto? Perché è lo scotto che paghiamo all'Antimodemo. Odiare l'uomo e amare il proprio tempo oppure odiarlo ma compatire le "presenze" di quello. L'importante è non osteggiarli entrambi: altrimenti sarebbe pessimismo. Il nichilismo poi è fascinazione del nulla, ma a livello di languore. Leopardi era nichilista... Come pure, credere nell'ordine ma solo quando schiaccia gli altri; godere - come dire - di tutti i fenomeni della dissoluzione, volere lo Stato forte ma solo nella crisi della formaNazione, Lentulo Batiato e Spartaco in uno. Qiiesto è invece anarchismo "da destra". Miseria delfabitudine al Cristianesimo. Il cristiano abituato non vuole dividere con nessuno la salvezza che già Dio a suo tempo divise. Egli si assicura che la messa in suffragio sia solo per il suo congiunto: "Padre, mi raccomando, le do quanto viene richiesto perché la messa sia solo per la razza mia.. . Nella funzione, mi raccomando ancora, nessun altro nome sia unito al momento del ricordo del mio caro... Mettete una bella

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intenzione, e che la cerimonia sia cantata ... Poi vedete voi di dire un poco di belle parole che era così buono e bravo, non c'era nessuno come lui sopra alla faccia della terra...". Parlavo con un prete. Di rado mi capita, che ci vuoi fare (comunque - lo si sappia - non mi piacciono). La domenica la gente affollava le messe. Era un bisogno dell'intimo, a suo dire, quello. Le chiese insomma come postriboli, come posti del soddisfacimento. Da notarsi qui è la cattura dello spirito nelle maglie di quel corpo, per liberarsi dal quale era stato inventato. Lo spirito avrebbe gli stessi vizi del suo antipode. D'altronde non dobbiamo meravigliarci più di tanto, il Cristianesimo ha sempre ragionato di converso: se il male fu preso come assenza di bene, il bene del male ha le identiche paturnie. La messa a mezzanotte di Natale: che rivolta scoppiò per un parroco che per motivi di sicurezza, più presunti che reali, ne aveva disposto finagibilità. Il Cristianesimo val bene un visone. Di questa spasmodica protesta, per una esigenza insopprimibile del quartiere malfamato, sapete già bene cosa pensiamo: trattasi unicamente di un orpello che fa atmosfera, al pari delle lwninarie comunali, dell'albero, del presepio vivente fuori porta, della settimana bianca, della coda davanti al negozio grandi firme (a proposito: non seccateci con la vostra sociologia natalizia da straccioni, il bene è anticiclico- sappiatelo-, come facquisto dei libri. Leggete Veblen piuttosto). Ri'Uincite metafisiche. L'abituato è uguale allo stronzo fascistello odierno o al sempreverde militante Bobr;. non ci crede, ma fa come se. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, a sinistra ogni tanto sembra che qualcuno ci creda sul serio a questi principi che la storia ha decretato irrealizzabili, semplicemente, quando non perniciosi. La fede a sinistra regge, altrove fa ridere.

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Storicismo napoletano. Sennonché ritornerebbe la vecchia apologetica, quella secondo cui, a fronte pure della catastrofe di ogni realizzazione storica, a contare sarebbe unicamente la bontà del principio: il buono perché creato dagli uomini la spunterebbe in questo caso sul Bene che quegli uomini stessi avrebbe finito per creare. Primo vere. Il fattore meteorologico non è ininfluente per l'abituato: il Natale è bello perché si sta al caldo, come bimbi, ma la Pasqua, vuoi mettere, è di primavera, si va fuori.

Hesychia, Gaunilone, dimostrazione perposteriu.s dell'Ente vero, Ultimo dio, concetto di tradizione in Zolla, indifferenza dei com-possibili, le Osservazioni sulla morale cattolica del vecchio Manzoni... Ma cosa sono queste cose?! All'abituato basta l'ostia - rigorosamente sul palmo igienico della mano- , il segno di pace scambiato, il mea culpa ... Se gli parlo di intimo quello pensa allunderwear, ma quale Agostino... Forse è giusto cosi: la pratica, cioè il culto e la religione sensu lato, èla declinazione della teoria teologica, il suo utilizzo. Ciò che per San Paolo, in Fi/3, 18-19, era fonte di una vergogna composta, almeno per lui ("Perché molti [...]si comportano da nemici della Croce di Cristo: la loro fine è la perdizione, il loro dio il ventre, il loro vanto nella loro vergogna, avendo in mente solo i beni della terra"), è prassi invalsa per l'a/Jituato al Cristianesimo. I soldati si giocarono a dadi la tunica di Cristo. Gli abituati manco quella. Assai estese sono le terre dell'Abitudine: per Graham Greene pietà, infelicità, bene e male, l'umiltà, e mille altre cose tra cui il confessionale, erano per l'appunto abitudini.

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Ci sono a volte delle GrenzsituatiQTlen dinanzi a cui anche il più indefesso degli abituati vacilla: la gravidanza improvvida della figlia minorenne nella fattispecie (il dilemma dell'aborto è ciò che rimane del vecchio problema della castità). "Non l'hanno fatta abortire perché sono molto credenti" è la risposta più frequente che si può constatare. Anche la donna dilacera per un attimo il velo dell'abitudine: dinanzi alla vita cui si vuol porre fine, il malizioso e pudico invito a intervenire si scontra sempre con quella soglia personale dinanzi a cui si arretra sempre obtorto collo. Qui, nell'ostinazione femminile, troviamo il volto di Medusa del Cristo. Ci prende un misto di sensazioni arcaiche e cattiva coscienza dinanzi a cui arretriamo ... Strano ad ogni modo ciò che segue: se la vita è un valore totale, davanti ai non nati, a quelli che non sono neppure in cammino - il ventre piatto insomma - nessun sentimento ci prende. Il ventre piatto è piano neutrale: niente di bello, come niente di brutto ci comunica. Però possiamo notare questo: nella indifferenza dinanzi ad esso raggiungiamo alla radice quella stessa assolutezza che ci comunica una nuova esistenza; una mestruazione arrestata è identica a un nato che è un nato. Insomma, senza stare a scomodare l'invenzione più terribile della bomba all'idrogeno mai messa a punto dall'uomo (non la coscienza, come voleva Nietzsche, ma il valore, dallo storicismo tedesco), la tautologia per una volta fa paura.

Lo stesso peso del Reale è fantasmatico. Come inverificabile è quanto di intimo convincimento vi sia nell'adesione alla carne di Cristo, così non sapremo mai quanto voluta sino in fondo sia una vita. La confessione di una nazione è dopotutto il numero degli educati ad una certa tradizione a perpetuarla. Il fatto tremendo che si debba vivere ad onta di tutto (tremendo come la Némirovsky che parlain]ezabe/ dell'imposizione della vita ad un feto) - questo sarebbe !'"ottimismo cattolico" cosiddetto - quanto sia figlio di un sicuro dettame di coscienza (sempre

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più intesa come luce, più che come prisma che la luce divina vada a scomporre), più che di una eccitazione maldestramente scaricatasi, è pressoché impossibile a stabilirsi. L'indifferenza con cui salutiamo la vita o la accogliamo storcendo il naso sembrerebbe deporre a favore della seconda ipotesi. Solo la morte continua a farci paura. Ma l'inevitabilità di essa è tutt'una con l'inevitabilità del vivere demotico che si pretende contingente, per poi passare la vita con la schiena curvata. D'altronde, i mezzi della immaginazione sono piuttosto scarsi. Più che lo scandalo del Fìglio di Dio crocifisso, è lo scandalo della morte a tenere in vita il Cristianesimo. Le cose sono legate a doppio filo, ma sono diverse. È la morte di per sé, fosse pure obliata la storia dello svuotamento in forma di servo di quello, a tenere il cuore in allarme. Uno scandalo puro e semplice - il fatto che si muoia - è al centro della nostra attenzione, più dell'insopportabilità redupllcata di un eterno fattosi pezzo di carne e spirato in croce. L'inferno è diventato il paradiso della nostra ragione sbilenca e distributiva. Il Cristianesimo è ormai un'abitudine che lascia spazio alle altre abitudini. Esso è inalienabile come il Natale e le sue luci, il centro con la passeggiatina serale, la Pasqua sotto il maltempo e il Capodanno con i botti. Nessuno può levarceli. Ti investono senza che stai lì a pensarci. L'abitudine al Cristianesimo, il suo pallore, ha come controparte una forma di curioritas (stranamente assente da quelle rubricate da Bossuet), oltreché un mutismo de Deo (l'abitudine ci lascia in silenzio: in essa alligna la pertinacia dell'afasia, in questo caso teologica). Il Cristianesimo è l'unica cosa al mondo che, pur volendosi esperienza massimamente (e alla fine che cos'è esperienza se non gli anni che non si vogliono avere buttati come un kleenex usato?!), non deve mai dare giustificazione o prova di sé, o cambiare paradigma, perché sembra che lo schema seguito sia quello, pur facendosi nella storia, di non cambiare. Emblematico è il problema della

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morte: duemila anni di storia e la storia è sempre quella: morte negativo; resurrezione di Cristo - riscatto del dolore. L'abitudine ha plasmato il mondo e di conseguenza è-per dirla con Rahner - un esistenziale che articola l'agire dell'esserci. Se proprio volessimo parlare forzosamente di morale, non è di un'etica senza Dio qui che ne va, ma di un'etica che di quel Dio o quantomeno del suo lontano ricordo, meccanicamente presente nel mondo che di Dio sembra non incolpevolmente fare esplicitamente a meno, fa tesoro. Ma come noi ci siamo abituati a Dio, così però pretendiamo che egli non si sia assuefatto a noi e stiamo sempre ad indirizzargli i nostri patetici e insulsi cahiers de doléances. La civiltà ha ripiombato il Cristianesimo giusto nell'uso che ne si fa, al di fuori di qualche sporadico sprazzo di consapevolezza, cioè di gratuità, in poche occasioni. Silete cleri.ci in theologicis!Di solidi trucchi del mestiere fanno sfoggio i pretucoli allorquando per essi la morte è già resurrezione istantanea (sono andati evidentemente tutti a scuola da Andrea Erno senza saperlo). Secondo il prete, furbetto e ignorantello, che deve sbrigare il funerale, la morte è qua talis risurrezione actu: neanche il tempo di morire che già stiamo in alto come in certi squarci tardobarocchi. Pecunia sequitur. Insomma, al terribile problema teologico dell'apocalisse dell'Apocalisse sostituiamo una bella levitazione dell'animetta buona del congiunto ed è fatta. Le stesse intelligenze e volontà sarebbero principi dello Spirito in noi secondo i preti (l'odio invece non si sa bene perché no). Lìdea di risolvere l'immortalità del defunto nelle attività - sopravvissutegli presso i cari, ignoranti come delle capre - della memoria, della volizione, dell'intelligenza è un bel colpo-lo riconosciamo - dello spiritualista in pecture. A pensarci bene, però, ascoltando il loro empito cantilenante, la morte non sarebbe che comodataria insolvente del Nulla, cui sfuggirebbe per il tramite di quel Dio che l'ha vinta da sempre. Nè dell'uno, né dell'altro, la morte non sarebbe allora

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solo un miserabile possesso dimentico, ma legittima spettanza di questo abitaf(J'fede/le comici, di questo menscevico dello spirito che è l'uomo. L'eccessiva tutela teologica ci ha legato così paradossalmente per sempre alla dannazione eterna. Qiiando si dice i danni del troppo amore...

Dio ci liberi da Dio. Vi invito a pregare solo per una cosa, che non avvenga cioé la Resurrezione dei defunti: il debitore strozzato, la vittima innocente, la bimba stuprata, il malato irato rimetteranno le loro anime furenti e i loro corpi sformati agli altri corpi in vita. La figura dell'abituato manda in soffitta la vecchia distinzione tra credenti e non credenti, atei ed agnostici (cose cui nessuno mai ha creduto: le professioni di ateismo o agnosticismo erano - come tutte le professioni di fede - pubbliche. In foro inferi(J'fedubito sia mai esistito un solo ateo nell'intera storia dell'umanità. All'ateo in fondo interessa la sua misera esistenza dopo la morte, assai più di quanto a noi possa interessare imparare il cinese o l'arabo. Le conversioni sul letto di morte fanno testo solo per questo: rivelano ciò su cui da sempre si è ~asata la religione: la sacrosanta cacazza di non salvare la pelle. E chiaro che Leopardi doveva convertirsi: si è atei nello studiolo del paesello, come comunisti sui begli attici della Città Eterna. Come per la clausura, ateismo e agnosticismo sono forme quintessenziali di vanità. La distinzione agìta tra queste categorie era comunque assai più labile che non quella tra destra e sinistra che continua ad esistere, per quanto di molto camuffata). Esistono ora più che altro gli abituati al Cristianesimo, e quelli che si sono abituati agli abituati al Cristianesimo e al mondo derivato da questa visione. Tutta qui l'ipotetica distinzione. Un ricorso massivo alla figura dell'abitudine si trova e nel Diario di unparroco di campagna, e nei meravigliosi e terribili

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Dialoghi delle carmelitane del Bemanos (autore che si rimpiange solo una volta terminato di leggerlo). V'è un ottimismo dei superiori per abitudine; vi sono i conservatori che infilano il chiavistello consueto anziché usare la dinamite per aprire la porta; v'è l'abitudine strana di interpellare il crocifisso alla parete; l'abitudine della preghiera; l'abitudine al freddo; l'abitudine che trasforma il dolore in compagno fedele; l'abitudine presa a morire a poco a poco facendovi il callo (ma nessuno sa come fare in effetti) ... Nei Dialoghi delle carmelitane l'abitudine distacca da ogni cosa, salvo lasciare che ogni religiosa non si distacchi dal proprio distacco. È come dire: saggiare ogni cosa, non mangiandone alcuna... V'è pure una abitudine a dormire tanto, quando si è giovani e belli, freschi come una rosa, in convento; a veder morire persone serie bisogna essere abituati; alla vita stessa si può tenere per un'abitudine divenutaferoce. Occorre abituarsi alla fortuna di vivere felici e liberati. E la costrizione è nulla più che mancanza di abitudine, frammista ad imbarazzo. Ad alcune precauzioni contro i minacciosi pure occorrerà presto fare l'abitudine.

Parole come Giudizio Universale (concetto che non va più tanto di moda, e il cui giorno a detta di Kafka potrebbe essere tranquillamente questa stessa inutile giornata di oggi, tanto da non differenziarsene punto) non dovrebbero incutere più nessun tipo di timore al casato baronale di Yosch dentro Il maestro del Giudizio Universale di Perutz. A quelli che una volta il Dies lrae avrebbe gettato in uno stato di totale prosternazione, ora la figura di un tribunale di Dio va giù come un bicchiere d'acqua. Gli Angeli del Giorno del Giudizio - ci rassicurano da parti opposte Kafka e Lemet-Holenia - saranno quantomeno insoliti e stravaganti... V'è come un residuo al margine di questa ragione calcolante che vuole stabilire tutto e prevedere ogni cosa; una sorta di

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pedaggio ad una impotenza che non si awerte come tale, una gabella ad una inettitudine che prima fu l'interstizio entro cui penetrava tutto lo sporco dell'ignoranza, in seguito il crisma di un cattolicesimo elementare, forbito non più di tanto, diffidente di ogni intellettualizzazione che della religione ami e citi la "cultura", che, proveniente da un altro munere, nel cono d'ombra di quello voglia portare la sua luce oscura. Per l'ignorante educato, come per il credente colto e formato sul De doctrina christiana agostiniano, vale il dire semplice ed onesto cui non abbisogni di capire più di quanto non sia dowto. La modestia è la dote, nel caso, dei poco più che incapaci, più che degli impotenti in senso stretto (cui si addice l'ignoranza caprina fatta e finita). La stolidità della preghiera, la sua ripetitività, l'ossessività mnemonica con cui si è straziati dalla litania ci mettono dinanzi al mistero di una immodi.6.cabilità che il pensiero tenta di accomodare, giustificandosi, e compiacendosi della riflessione. Da questo punto di vista, la preghiera viene da Dio, la ragione dagli uomini. Muto èil Dio pregato: tutt'orecchi, senza dubbio, non proferisce parola, o riferisce - meglio - quelle poche verba di cui la ragione sola può dare contezza, o mettere a parte. La ragione è sempre soluzione, instrumentum sa/utis. Dove essa pare voler testimoniare della sua inanità (dinanzi all'infinito, mettiamo), Il è in sommo grado la sua sicurezza, derivandone cosl la sua civetteria insopportabile. Diffidiamone. Ut unum sint. Pochi sono i giorni di una vita (battesimo, comunione, funerale, più le domeniche riposate) in cui pretendiamo di differire dal resto del mondo: quanto al resto della vita con tutti gli altri possiamo andare d'accordo (pure con gli atei). Il Cristianesimo comune non ha problemi, beato lui: nasci come dono di Dio, il battesimo ti leva il peccato originale... Le spose in abito bianco (tutte belle pur con l'abbozzo del pancino ben nascosto quel tanto che basta perché il celebrante faccia finta di non accorgersene) all'addetto che ha spostato il problema su di un terreno che non sia quello della continenza prematri-

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moniale non fanno difetto. Rimane un sentire automatico, una riprovazione abbacinata e innocua pronta alevarsi, uno stigma più teorico che reale, una prassi sociale invalsa ... L'accordo non andrà costruito, già c'è, bello e sottomano nelle società. Dinanzi a questa risposta perentoria nulla può un emendamento del magistero o una smentita della scienza. Un'adesione sentita e inavvertita - nello stesso tempo - ad una serie di "nozioni" è il senso comune. Non una carne e poi una filosofia, ma una carne fatta filosofia, una filosofia in cQryore vili è il tessuto da cui si sviluppa l'invasione metastatica del Cristianesimo in ogni plica del corpo sociale. In gioco non è il passaggio tra società civile e Stato, la presenza della religione nello Stato o una sua più lampante evidenza nella società emancipatasi dal nesso teologico: in questione è il livello "inferiore" del diritto e dei suoi lineamenti, nell'immediatezza delle sue pieghe morali dove due si fanno tre e ogni cosa va al suo posto come per miracolo. Le statue della Madonna negli ospedali, agli angoli delle corsie, vengono da questa a/Jitudine al Cristianesimo? Esse consentono ai malati di dirsi miracolati dopo un ciclo di cure.

Nella traditic scaduta a consuetudo ci tocca pure di essere privati del piacere (immenso veramente) dellefinessespatristiche: il sacramento, preso sulla lingua o nel palmo a cucchiaio, risolve ogni domenica, alla buona, l'immane problema teologico. Che ne sanno quelli di Calcedonia? Ipotesi su Dio. Mai a nessuno che sia venuta l'idea - variazione sul Neoplatonismo - che la creazione sia stata un divino coitus interruptusfinito male, e che Dio ce ne voglia per questo motivo? Nella generazione di un figlio, nonostante il dramma vitale che non tarda mai ad appalesarsi, vediamo in fondo quasi il desiderio di fargliela pagare al primo che capita. L'esistenza con l'esistenza si paga, altro che l'amore con l'amore.

SPIDUCIA I! SRACJONI!

È controintuitivo che un figlio possa costituire un dono: la natura infatti ci ha insegnato che a un piacere segue uno sforzo e viceversa. Che al piacere effimero della copula possa seguirne uno lungo decenni è cosa di una generosità francamente troppo sospetta. Cosa sia allora l'umanità sotto forma di catena di esseri dovremmo averlo capito. Che l'antropologia cattolica- la parte che secondo i più dovrebbe andare soggetta a riforma - qui non voglia seguire le leggi invalenti della physis va denunciato. Solo in questi termini parlare di "miracolo" per la generazione è corretto. La regalità dei dogmi- che viene perduta regolarmente con l'adolescenza o quando gli occhi vengono aperti all'ideologia perniciosa - è tutta nella lontananza di quelli, la cui origine non ha mai interessato nessuno veramente. La loro forza semmai ne hanno ancora una - è nell'aura di remoto che ne viene. La loro dignità è pari a quella di questa pessima biro sullo scrittoio. O posso ignorarla, o posso servirmene. Conta unicamente la destinazione finale di un sacramento: quanto all'origine di esso, ai concilii, ai teologumeni, alla storicità di quello (che è stato "fabbricato" storicamente in mezzo ad altre ahitudini del tempo, non dimentichiamolo) ci pensino quelli che studiano queste cose noiose. A noi basta l'abito bianco, il segno di pace, il padre che ci accompagna all'altare, rispondere a tono al prete, i confetti e il riso ... Confessarsi: una stupidità bella e buona, un gesto che pure mezza parola di spiegazione della sua dabbenaggine è de trop. A un altro della nostra stessa risma poi, se non di una peggiore; da un imberbe, cosa volete abbia commesso al di là di un prurito grattato di nascosto su per gli inguini... Il punto è proprio questo: se non ci si vuole "uomini" o "creature storiche", ogni discorso confessionale viene a cadere. Non c'è confessore per rantistoricista.

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V'era un luogo in cui la divina discrezione del silenzio doveva pur slargarsi, filarsi come la pasta vitrea nella bocca di un soffiatore, cadere come un Icaro che non si è mai mosso da terra, farsi carne di porco per Derrida o Maria Zambrano. Possiamo assistere nelle nostre città a nuove figure di credenti o sedicenti tali: al vecchio fedele afflitto dalfacedia, male del diavolo, o divorato dal tarlo della miscredenza, o roso dall'estrema forma di autocelebrazione, il dubbio, si sostituisce la nuova figura del Padre della Metropoli che non conosce esorcismo se non per scacciare qualche estremo senso di colpa. Nessuna contrizione, salvo in poche occasioni. L'uomo moderno non si disprezza, o si autocommisera con vanità (di cui sono strapieni i conventi di clausura) solo quando sa che una mano pietosa lo rialzerà a prescindere. Rinunciare a tutto tranne che a sé: questo il grande logismosche si fu strada tra vetrine luccicanti. Nel lessico dell'uomo d'oggi si conservano tracce teologiche insomrno grado, nei cui termini viene articolata una morale disonesta dell'abbandono e della coscienza sgravata: "peccato", "colpa", "redenzione" signoreggiano la sozzura; "destino" e "volere di Dio" reggono le cose quando iniziano ad andaremale; "riposo" e "pace" quando la rabbia non fronteggia più l'oggetto su cui scaricarsi. La religione viene chiamata a provarsi con la morte, prova di cui tutti ci lamentiamo non dia l'esito. Non basta evidentemente ciò che Dio fece una volta sola e per sempre per l'umanità. Fuottimista il Cristo sulla croce, non c'è che dire. Non è la morte a mettere a dura prova Dio, né tantomeno la teologia. È la psicologia spicciola (cosa che per lunghi tratti impegola Agostino nelle Confessioni) a strascinare Dio nell'inferno della recriminazione e dell'irriconoscenza. La generosità totale di una volta si lega all'ingenerosità perenne degli uomini. C'era un tempo in cui si potevano fue - come nei giochi di fanciulli - con tutta serietà le cose che ci divertivano. Adesso non più: questo semicredente sbriga serioso cose che più che altro lo annoiano.

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Senza gioia sono per Bernanos i credenti della domenica: mezz'ora alla settimana è troppo poco perché la gioia possa essere loro prodotta in seno. Non v'è dubbio. Però qualche buon proposito è in grado di alimentarlo, come il Natale. Dura il tempo che dura, dopodiché è apatia e affezione corriva col tepore di una eredità poco convinta. Q9anto al cattolicesimo tridentino, esso pure non infonderebbe nessuna allegria, a detta del francese. Strano come ad un parigino sfugga l'esprit definesse che può venire da un ébauche géométrique: la gioia di sentirsi migliori perché pochi, perché il prete è di spalle, perché il rito non va soggetto ad alcun capriccio, perché non c'è segno di pace da scambiarsi. ..

Per una prO'Va dell'esistenza di Dw. La stanchezza nostra, la mancanza di brio con cui meniamo le nostre giornate, è la stanchezza di Dio. Un tempo, pensiamo a Jonas, la stanchezza di Dio - o meglio, la sua perdita di potenza - era tra i suoi attributi inauditi. Adesso, questa nostra rassegnazione fattiva -entro cui il Moderno si reduplica - è a immagine e somiglianza. Nell'acedia di Tommaso, o nella melancolia de Il dramma barocco benjaminiano la cosa era un filo diversa nonostante pure là Dio vi fosse, e con lui la storia invasa. Per unaprova delfinesistenza di Dw. Non credere è cosi semplice. Se è vero quello che si dice, che un Dio perfetto avrebbe fatto a sua immagine questo mondo, non oso immaginare cosa avrebbe fatto un creatore così così. Figli prediletti che non arrivano oltre gli ottant'anni quando va bene (una miseria per uno che ragionerebbe in termini di eoni); la morte inevitabile; il dubbio atroce sull'esistenza dopo di questa; dolori dello spirito e sofferenze nella carne di ogni tipo. E c'è pure chilo ringrazia di non essere morto nel rogo di un pullman, in un terremoto o con un brutto male, quand'invece assai più corretto da parte sua sarebbe stato non causarli.

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Fosse toccato a noi, avremmo fatto molto di meglio, senza dubbio, pure col più acerrimo dei nemici. Siamo seri: c'è tutto per non credere. Quieta mm 111()'()tre. La condizione degli empi era ben strana secondo Bemanos: essi comunque sono costretti a riconoscere chela credenzain Dio è un fatto universale,ancorché irrituale il fatto che i credenti, ricolmo in ogni dove il loro mondo di Dio, lo preghino cosi poco e cosi male. Dalla presenza familiare e quasi per niente molesta di Dio non viene prodotta nessuna eccezionalità. Da questo rimasuglio del Cristianesimo verrà balsamo e medicamento quel tanto che basta... Nulla di trionfale. Chi disse che senza Dio tutto sarebbe stato possibile ci prese in parte. Invece, solo con il Dio presente ogni giorno della nostra vita, presente quel tanto che basta per essere quasi dimenticato, tutto sarà possibile.

Sotto forma di abitudine è ricaduto il sangue di Cristo su di noi (Mt 27, 25). Cartesio nel Discorso sul metodo parla di quella morale provvisoria che a suo dire avrebbe retto il discorso dei più nel momento di distruzione totale. La stessa consuetudine - vedi la Lettera a Elisabetta del 15 settembre 1645 - pure avrebbe giocato buona parte. Si legga il §50 delle Passwni delfanima. Pascal pure era convinto che l'abitudine fosse una "seconda natura" (VII. 117) che avrebbe distrutto la prima. Sennonché non v'è una prima natura nel Cattolicesimo dell'uomo attuale. La consuetudine è l'unica natura concessaci.

Al pastore cui tocca - ne Il conte di Saint-Germain - essere sfidato dalla miscredente impenitente, basta sapere che le sue entrate poggiano sulle decisioni del concistoro che ha ratificato i principi teologici. Tanto gli occorre, e tanto sufficit - tranne

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qualche sporadico osso duro - al popolo che così può incontrarlo nei paraggi del Cristo morto eforse risuscitato. A un certo punto Lemet-Holenia si lascia sfuggire che sì, le cose sono molto più semplici di quanto possiamo pensare: "Dio è Dio, una donna anziana porta sfortuna e un cavallo bianco porta fortuna, e dopo la morte ci ritroveremo tutti". Anche noi lo pensiamo, ma con una differenza decisiva: ciò che qui può apparire concessione alle misteriose vie che portano al Signore, noi lo ammettiamo per inerzia e stanchezza tramandata di generazioni, spentesi neppure così tanto deluse come voleva qualcuno. Nell'abitudine c'è tanta serenità comunque, nessuna disperazione, un automatismo felice e un pizzico noioso. Naturalmente a nessuno di questa schiatta di abituati potrebbe venire in mente che sia Dio a poter aver bisogno di noi, dell'umano. La fede rimarrà sempre l'affidarsi - impotente e lagnoso - a chi ne sa di più e potrebbe più di noi tutti messi assieme. L'assuef.izione allareligione baratta il dubbio eterno con una sicumera inavvertita. Basta poco (esequie senza rito religioso, ad esempio) perché si rimanga turbati un attimo: tuttavia è un'eccezione che non sovverte nessuna regola. Tutto continuerà come prima. Comunque abbiamo assistito ad una inversione epocale: non è più la Rivelazione che getta la sua luce accecante sui singoli in attesa, ma è questo similcredente fin troppo urbano che si prepara una pastura dove la religione è un ingrediente al pari di tanti altri nella miscela, al cui retrogusto amaro presta attenzione solo in tre, quattro occasioni di quel!'esistenza che sorbisce assente come la dama il bicchiere di assenzio nel quadro di Degas. In strani barattoli dalla scritta incomprensibile

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sono alloggiati i nwissimi del Cristianesimo: solo allora, nelle mani del prete-speziale possiamo sceverarli e magari assaggiarli con la punta della lingua per non attossicarcene. Fmiti nel composto del Profano preparato dalla società-cerusico che male ha interpretato il Vaticano II ne vien fuori un'acqua un poco schifosa e assai colorata. O del Cristianesimo si è perso ogni sapore, frammischiato a mille altre cose, o, confinato nella sua dimensione storica di sapere "teologico", ne abbiamo perso ogni "ragione", patendo la distanza e saggiando orripilati il gusto indicibile della sbobba. Leggo un appunto di Pessoa del 29 marzo 1930. Egli appartenente a una epoca in cui i giovani stavano perdendo la propria fede - l'aveva persa, proprio come loro, così come i loro padri, compreso il suo, l'avevano ricevuta: senza sapere perché, come la rosa. Nondimeno, non l'aveva persa del tutto - a differenza di quelli. La fede stessa poi non avrebbe avuto come suo viatico la ragione. È proprio quello che accade: l'immagine del salto -appioppata oltre ogni consentito a Jacobi - è quella impostasi. Di quest'immagine si accontenta l'uomo della credulitas che niente immagina dell'esistenza delle Somme o della faticaccia di un signore di nome Hegel... Nessun falso profeta, nessun Christus redivivus (Gv 21): solo una grande noia, una routine entro cui la tradizione sfatta tramanda un Kèrygma imbalsamato a catechismo da oratorio...

Della maggioranza delle persone. "A parte il giorno in cui si era sposato, Bouin vi era entrato una sola volta, per curiosità. Era battezzato. Aveva fatto la prima comunione. E anche se nella sua famiglia nessuno andava a messa, i suoi genitori erano stati sepolti con un funerale religioso" (G. Simenon, I/gatto). V'era un tempo in cui la vecchia consuetudine con il Cristianesimo era il segno della naturalezza della ragione - o meglio,

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della ragionevolezza della nostra natura caduta (non per sempre: eravamo ottimisti anche in questo. Gratia non perficit naturam). Gli elementi del Cristianesimo, che tutti conoscevano senza mai averli veramente appresi, deponevano a favore di un passaggio senza soluzione di continuità tra natura umana e Dio, decretavano la indiscutibile superiorità del dogma. Adesso la costumanza non è più con il nobile oggetto, ma solo con l'imprinting che quell'oggetto andava a mediare ... Entro un alone di poetica rimembranza si scioglie ogni cosa: l'oratorio della Chiesa, le suore moleste e pettorute che ci insegnarono a far di conto, il "non si sa mai" con cui chiamiamo il cappellano che spruzza di acqua santa il congiunto moribondo. La nostra confidenza è ormai solo con quel tramite che prima non era che un mezzo a garanzia di un affiatamento ulteriore. Astuzia della ragione di'Uina. D dubbio in Descartes avrebbe consumato il mondo. Nella fede, ratificata l'esistenza e vivificata la .figura trascurabile altrimenti di Dio. Furbizia del Cristianesimo. L"'intelligenza" del Cristianesimo ha fatto sì che esso spostasse qualsivoglia genere di ingaggio dal terreno della sessualità ad un terreno dove di quella se ne fossero perse le tracce. Costretti all'impossibilità di esercitarvi un controllo (duole dirlo - soprattutto a chi, come lo scrivente, continua a coltivare l'ambizione oramai manifesta di diventare puro spirito: ma tant'è, dinanzi ai piaceri non si può nulla), si gira il volto dall'altra parte. Il Cristianesimo che non può modificare l'antropologia, si mette a ignorarne alcuni tratti precipui.

D'accordo, il Cristianesimo erano i bimbi festanti, il focolare domestico, tutte queste belle cose calde calde, eccetera eccetera. Sembrava indissolubile quel nesso di religione e naturalità, di Cristianesimo e fertilità. Fummo però portati a due evidenze: che non v'era una antropologia nuova ad attendere i nuovi

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nati (cosa pure encomiabile, visto che la teoria è sempre la gallina vecchia che fa buono il brodo: guai non fosse così), e che l'ideologia umanistica resisteva ancora, manco fossimo ancora in uno dei regimi dell'est. Insomma: è il neonato ancora il totem di questo Cristianesimo, ed esso ci pare funzionare alla grande con pochi battesimi e chiese vuote. Sarà pure, la nostra, l'Europa delle cattedrali, ma le chiese sono diventate monumenti per turisti costretti dalle guide. Che forse in quei momenti che ci spingono alla più seriosa delle compunzioni realizziamo il senso di ogni autentica esperienza cristiana? Al pari della pornografia, probabilmente si deve attraversare la più smaccata finzione per toccare con mano il vero. Il Cristianesimo è questo oggi, occorre farsene una ragione: una pia intenzione, un promessa da bambini, un fioretto alla Madonna, la processione a Pasqua (l'accusa rivolta alla quale di Paganesimo fa ridere proprio perché è serio e vero il fatto), un alone di sentimentalismo dolciastro pari a quello del Natale, o al calore che si forma tra due corpi a dicembre e induce a sbagliare... Il Cristianesimo non c'è verso di escluderlo. Ne siamo così intrisi che esso regge pure le categorie alle quali ci lamentiamo non venga affiancato, ma in realtà è ll sotto a sorreggerle. Il mondo secolarizzato tenta maldestramente di allontanare da sé l'amante del quale ha l'utero gravido. Da Bergson, ne Le due fonti della mera/e e della religione, abbiamo una delle più belle definizioni di abitudine mai vista: un'attività che, dapprima intelligente, si avvia a essere una imitazione dell'istinto. Secondo Yeats, dall'abitudine nasceva solo innocenza. Noi vi aggiungiamo torpore ed inerzia. Secondo Nietzsche l'ozio era padre dei vizi e pertanto anche della psi-

SPIDUCIA E SRAGIONI!

cologia, parente prossima a questa religione. Il nostro credo è figlio allora probabilmente a quell'indaffararsi senza costrutto e pace, che già Seneca denunciò, estensione del nostro vacuum assillante. V'è un solo motivo- anzi una ragion sufficiente-per cui, a detta di Moore, in assenza di una prova patente dell'esistenza di Dio, ci si dovrebbeastenere dall'amarlo: il pericolo di azioni

dagli esiti peggiori di quelle che si sarebbe potuto altrimenti condurre. L'esistenza supposta dell'oggetto è tutto per questo filosofo: non esistesse Dio, l'amore per lui sarebbe di gran lunga inferiore a quello per quella creatura che deve tutto non a quel Dio che la avrebbe generata, ma al pollice opponibile che si ritrova - nemmeno essa sa come. Ma Moore evidentemente sopravvalutava questo abituato: a lui che Dio esista o non esista non importa nulla, né nemmeno lontanamente gli si può chiedere azioni che manco si sogna di compiere. La deroga alle leggi della natura miserabile dovrà per lui avvenire come per miracolo: è questo il vero miracolo. Perché continuare a parlare di religione e non di psicologia? Per religione intendiamo oramai la scienza dei vissuti collettivi inerenti la fede (come pure certo storicismo tentò di fare, lasciando tracce patenti dentro il giovane Heidegger). Il credente è più vicino a scettici ed agnostici di quanto si sarebbe mai potuto immaginare, smarcandosi per un capello dall'ateo che non esiste più. Ragione e religione non interloquiscono, sono di fianco senza parlarsi. Entrambe esercitano un che di strumentale, l'una nel reame del visibile, l'altra in quello del non visibile: ad azioni si aspettano reazioni controllate. La storia del loro reciproco fecondarsi è fola per filosofi; un po' meno dei teologi disposti a giocare, ma sino a un certo punto; per niente di medici e scienziati che sanno il fatto loro e, fuori delle belle parole con le due categorie precedenti ai convegni, non ne vogliono sapere in corsia.

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Dinanzi ad oggetti differenti (siano essi la sopravvivenza dopo la morte, o un legame di causa-effetto qualunque), cristiano e scettico - chi lo avrebbe mai detto - raggiungono una insospettabile prossimità. Non è qui in questione quale "regione" possa esistere, se l'inferno che esiste da sempre, o il pwgatorio che esiste per il ghiribizzo di qualche teologo troppo cristiano: ma che qualcosa esista se ne è abbastanza certi, e in questo "abbastanza" si gioca tutto il nostro vivere cotidie. Al Cristianesimo del tempo che fu, che spiegava ogni cosa alla ragione bambina, subentra il Cristianesimo che, spiegata ogni cosa, gli resta da dare una mezza garanzia a che si passi dal già spiegato a ciò che dovrebbe essere oramai assodato. Insomma la vita eterna, il fatto che noi si debba continuare a vivere, ha risucchiato in sé tuttala divina commedia del post r,wrtem. Dal momento che ci bastiamo, tutta la teologia basti giusto a questo. Affidandoci al Cristianesimo, vogliamo solamente riscuotere il pegno della nostra protervia. La religione estende la "garanzia" dell'umano, manco fosse un elettrodomestico. Umana, troppo umana è questa religione: è divenuta, per l'appunto, psicologia. Futile è l'idea che il mondo dovrebbe fare spazio al credente per giungere alla propria autochiarifi.cazione, al pari di quello che nel mondo andrebbe per realizzarsi e verificare la ragione intima al proprio credo. Non è il mondo che si è allargato, è il credo che si è ristretto. Nessun dubbio più attraversa l'uomo d'oggi: non v'è dubbio alcuno che questa nostra sia l'unica realtà. O meglio: potrà pure darsi un mondo della verità, superiore a questo, ma il vecchio dilemma luce/ombra su quale sia il mondo vero e quale la favola non ha più ragion d'essere. Fosse pure inferiore, sempre di realtà si tratta per questa nostra, e unica al momento concessaci, esistenza. Ogni beata ineptitu(/Q va rivalutata: a morire tranquille sono le santissime e le mediocri.

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Un insieme imbarazzante di obiezioni di coscienza è questa realtà. O meglio: i brani di tessuto sopravvissuti alle sforbiciate sono gli stracci da vantare con quel nome pletorico. Il livello zero delle nostre misere esistenze - quel Dasein da Heidegger caparbiamente rimarcato come senza Dio - è da sempre imbevuto di quel residuo tramandato di Cristianesimo che ci portiamo appresso volenti o nolenti come una pelle tignosa. Qui, in quest'unico senso, si può dire che non v'è laicismo se non cattolico. Ad ogni modo vi sono delle cattive abitudini. {hiesta vita ci condanna tutti, a priori e in contumacia. (hiesto occorrerebbe sempre sapere. Unitamente al fatto che se v'è una abitudine che ci sorprende senza limite è come all'uomo ci si sia affezionati da duemila anni. Non è mai scaduto il suo tempo, sembra debba godere di una fiducia illimitata - a differenza di Dio contro il quale ogni tanto alziamo le mani al cielo. Ad ogni modo all'idea di entrambi ci siamo assuefatti, come a un narcotico. Se è vero che Cristo è morto per noi, la nostra sofferenza spalmata su due millenni dovrebbe aver ampiamente risarcito la sua. Egli è morto una volta sola, noi non facciamo che ripetergliela da due millenni e sino alla fine del mondo.D'accordo: ognuno è corpo eristico ma quousque tandem abutere patientia nostra? È ben vero che era figlio di Dio in forma di servo. Ma è altrettanto vero che siamo miliardi di servi lungo migliaia di anni. Il debito contratto dovrebbe essere stato estinto ad abundantiam. Ogni tanto anche all'abituato capita di perdere le staffe. Incorruttibile è la corruttela entro cui versa la condizione dellabituato (nella vita del quale l'imprinting dell'educazione

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religiosa ricevuta - meccanica e altrettanto svogliata condivisione - gioca un ruolo decisivo perché in tal senso l'abituato al Cristianesimo non sia un agnostico qualsiasi). Non v'è più traccia della pericolosità immane di idee da maneggiare come cristalli fragili e capaci di tagliarci le mani. Del Cristianesimo rimane un birignao più che altro, compitato da una coscienza discreta, con le sue scelte oculate e la sicurezza che ogni cosa comunque ci sarà perdonata: Dio non è venuto a portare la spada ma l'amore infecondo nei letti, l'eucaristia la domenica, il ritualismo più corrivo e privo di ogni novitas... Nulla più insomma di una filantropia vaga, di una dottrina sociale risolta in colletta e sussidiarietà d'accatto (il calcio d'angolo dello sfilacciarsi del tessuto, oltreché il Lazzaro del comunitarismo americano, vedi l'invecchiato Maclntyre citato oltre ogni pudore). Qiianto alla teologia, essa rimane un affare di tesi e baccellierati. Dal Cristianesimo, al quale siamo assuefatti come istupiditi, ce ne viene una figurazione inesatta, come il senso che si sprigiona dalla parola "intellettuale": ne vediamo le movenze come in sogno, pensiamo ai suoi accessori - la pipa, il completo da dandy, i gemelli da polso; ce ne viene il senso complessivo con l'ennesimo Papa buono, del tutto assimilabile a quello di guida turistica in gite organizzate per un pubblico di pensionati beneducato, ma mai veramente qualcosa più di questo. Neppure possiamo dire di assistere ad una rivincita di Cartesio: in vece della fede inconcussa, neanche assistiamo all'affermazione del dubbio continuo nelle cose immateriali come pure concrete, semmai siamo uniti da un tacito accordo, da una morale provvisoria che ci trae inconsapevoli in direzione dell'abito bianco, del funerale, del battesimo dei nostri figli. Oggi più che mai le festività religiose sono le vacanze dello Spirito.

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Che fomhra rinvia esattammte a se stessa.

s. ADDAMO, Le abitudini. fassmza Q.iesto cristiano abituatosi non è il vile agnostico: l'agnostico sa che in fondo in fondo Dio c'è, ma vuole recitare la parte odiosa dell'astenuto; l'accostumato a Dio invece sente nel fiato degli altri l'alito di Dio, del quale neppure si sogna di mettere in discussione - salvo rarissimi casi di rabbia che subito rientrano - l'esistenza (gli atei - parliamoci chiaro - non esistono, o, se ci sono, non sono in società, dacché le società sono sempre societates credentium). Il cristiano abituato è preceduto dagli altri, dalla società che fabbrica al volto di Dio, che precede, quella maschera che l'uomo odierno guarda fiso. L'agnostico finge di esercitare una opzione di scelta, l'Abituato è scelto da quella finzione (dietro cui potrebbe celarsi l'Immane) che da sempre gli hanno fatto scegliere. Una rimozione. Domandarsi perché mai si sia giunti a questo punto, perché le cose si siano messe in questa maniera, il perché il Cristianesimo sia diventato un costume, trova facilmente risposta: a motivo della consuetudine ad esso. Come bastava nascere in un nazione perché si fosse cattolici romani, ortodossi o protestanti, basta vivervi come se fosse stato sempre così e come se tra ciò che rimane del culto e il culto stesso non vifosse differenza. Le abitudini non hanno origine. Il perché è della teoria, il come della pratica.

L'abitudine di buono ha questo, che ci rassicura dell'esistenza di Dio, come i paleontologi che l'uomo abbia svariati milioni di anni alle spalle. Storia e Dio hanno in comune di essere invenzioni più vere del vero. Ricordiamoci cosa scriveva D'Annunzio a l'Hérelle: una cosa tanto più è immaginata, tanto più è reale. Dio si incarna per la pratica del suo concetto, come la storia esiste solo nei libri. Un idealismo di carta sorregge

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quest'ultima, come una teologia di ferro preserva dall'usura quei teologumeni che finiscono per decretare l'esistenza di ciò cui rimandano. Per Moore l'amore di Dio, nel caso di chi crede, è affetto, o diretto male, in direzione sbagliata, o semplice credenza nella realtà delle qualità belle, nel caso in cui esse non esistano. A livello di abitudine si muovono tante cose, tra cui il piacere segreto che ci investe allorquando un fervente, un disabituato insomma, si produce in ciò di cui non siamo capaci o verso cui siamo indifferenti. Ogni presa di distanza si basa su questo, su questa gioia inconfessabile: che il prossimo abbia fatto ciò di cui non siamo (stati) capaci. Una crepasi apre nell'abitudine e vi entra, con un punta di astio non dichiarabile, l'ammirazione per il nostro correligionario che ci crede, come capita agli astanti commossi ne L'avuentura d'un pO'Vero cristiano quando sanno finalmente di avere un papa che crede in Dio.

Una vecchia barzelletta. Dinanzi a dei turisti incontrati all'estero, anche Gesù disse di voler andare in vacanza, recandosi in chiesa. Allo stupore di quelli, rispose di non esserci mai stato. La vita dell'agnostico è dura. Già Bellah si chiedeva se un presidente agnostico potesse trovare spazio nell'America della religione civile (crepe nella quale avrebbero dovuto verificarsi a seguito degli smottamenti dovuti alla crisi teologica, la cui crisi doveva precedere la crisi di quella). L'uomo odierno sa di non poter fare a meno della religione (almeno per il dopo), ma si comporta come se potesse. Costretto a vivere come se Dio ci fosse sempre e comunque, coltiva nella scienza l'orticello di quell'alterigia che gli proviene dall'impotenza. All'esperienza - entro cui avrebbe dovuto baluginare il

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vestigio di Dio - si ricorre per la smentita di ogni invisibile. La garanzia dei sensi, fatta per essere superata, ora è la diga che non va esondata. L'esperienza è di fatto l'autorità dei miscredenti. La oculatafales (S. 1h. III, q. 55, a. 2, ad. 1) è un lontanissimo ricordo... Habermas a ragione ritiene che un accordo in grado alla fine di battere in breccia ogni sofisma sia possibile. Non v'è dubbio. Giusta sarebbe quella risposta in grado di coronare un accordo intersoggettivo. Qyeste tante piccole ragioni, che si disputano ogni cosa, come cani attorno ali'osso, in un Umwelt, lasciano imporre quella parte del sé che non smette di maneggiare le cose di Dio manco fossero le inezie degli uomini (cui di fatto si riducono): in quel mondo della vita, dove l'abitudine segue e precede ogni cosa, fa insomma quello che altrimenti si disse facesse Dio. L'accordo non è frutto di ragione allora, ma di un affare a buon mercato nel commercio quotidiano. Qyelle strette di mani sono l'olio catecumenale, l'acqua lustrale a confermare la persuasione, squalificare gli scettici, ottemperare al sentire comune; hanno l'insostituibilità del Natale, la comodità del calendario alla parete, la garanzia di riscossione di un assegno postdatato, eppure non istigano alla derisione di quanti si vogliono esclusi (con poca convinzione, va da sé): anche a loro sarà pensato. Ogni perplessità è fatta confluire e redenta nel grande mantra dell'ominide che vuole con poco sforzo il massimo risultato. L'abitudine tollera ogni cosa che non attenti a se stessa: non sappiamo se vi sia della tanto amata "tolleranza" in tutto ciò. Ormai anche l'ateo che dimostrava mathematicorum ratione l'inesistenza di Dio è scaduto nell'indifferenza collettiva. Egli è rubricato tra i monstra che davano fondo alla civiltà. Di un ateismo compiuto non possiamo parlare. Esso è irrealizzabile. Nietzsche in persona era convinto che nessuno avesse mai

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saputo cosa significasse un'esistenza che di Dio avesse fatto a meno, almeno sino ad oggi. Anche al fondo dell'ateo, prima vittima del suo orgoglio, si agitano speranze inconfessabili. Il sale sembra veramente non poter perdere sapore (Matteo, utilizzando l'ipotetica, sembra esserne veramente convinto).

Constatazwne non amichroole. Il mondo fu fatto in sette giorni. Troppo frettolosamente per un Eterno. La sua imperfezione di sicuro possiamo pensare discenda da questo sbrigativo fiat. Il creato è un figlio cieco. Un tempo era disperato l'uomo che in vita abbandonava ogni sguardo sull'aldilà; adesso, anche se Dio ti è indifferente, ti puoi comunque sporgere. L'equazione secondo cui a più fede corrispondeva più speranza (e conseguente libertà in theologicis) non regge più. Dio non cambia e rimane, a prescindere dal gradiente di sfiducia che lo investe nell'era del nichilismo compiuto, e dolce assai. L'abitudine, contrariamente a quello che si pensa, è una forma di sfiducia, la più sublime, il miele delle nostre giornate. L'ignoto non è temuto o al contrario sperato, è atteso come si attende il sole in una giornata di tempo incerto quando vogliamo andare al mare: se c'è bene, altrimenti, un poco a malincuore, cambiamo programma. Non è perché esiste la religione che esistono i sacramenti, ma sono i sacramenti che fanno esistere la religione, in quel preciso momento in cui ci si sposa, ci si comunica, ci si cresima... Il sacramento è il trompe-foeil, un inganno prospettico necessario. L'etica laica inavvertitamente ricalca gli stilemi religiosi che alle categorie di quella rischiano sempre di sottoporsi. Pure storicamente: anche i delinquenti sono figli di Dio, ma nella fattispecie - a detta di Hegel, per il quale era giusto comminare la pena a chi avesse infranto la legge o si fosse

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mostrato colpevole - ad essere un delinquente qualunque era il figlio di Dio stesso. O!iesta l'astuzia di questo Cristianesimo costretto a fare di necessità virtù. Alla fine la religione rimane in piedi. Ha una funzione, le viene riconosciuta, non v'è dubbio. Garantisce ciò che potrebbe farsi altrimenti con meno pompa (si pensi al matrimonio in Chiesa, che è più bello, con sicuramente più fascino rispetto agli scialbi corridoi di sezioni distaccate di comuni di provincia). Se non dall'intima adesione, quantomeno la religione trae spazio dalle velleità per le quali un matrimonio in bianco è meglio di un tailleur verde smeraldo. L'io di Cartesio trova coronamento nella religione che l'era post-cartesianaavrebbe voluto smantellare. Qiialcosa è andato storto. Nei momenti clou quel che resta della religione si fa valere. Mica a morire è il cane (cosi si dice): le esequie in pompa magna sono un obbligo. Insomma, sia detto per inciso, finché c'è ingiustificabile ambizione c'è religione. Non è difficile pronosticare vita lunglùssima alle religioni, almeno sintantoché l'uomo non si libererà dal suo ego, dalle sue fisime - cosa impossibile -, o riuscirà a spiegare ogni cosa con dovizia di particolari: in buona sostanza, la religione è eterna quanto la pretesa dell'uomo di doversi attendere - non si sa bene perché - qualcosa in più di qualsiasi altra cosa stazionante negli altri regni dell'esistente. Il matrimonio in Comune, avesse un poco di scena come quello davanti al prete -che questo è il vero punto per cui quello in Clùesa non molla l'osso - si affermerebbe senza problemi: più asettico e indubbiamente più smart, sarebbe in perfetta sintonia con questi tempi. V'è un'altra gelosia, stupida come tutte le gelosie, e altrettanto giustificabile: quella di quando ci precedono nell'aldilà nostro marito e la fidanzata ai tempi. Non so perché ma non riusciamo aimmaginare la cosa a sessi invertiti.

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Non è infrequente che alla fede in Dio sia anteposta, inavvertitamente,la fede nellafede in Dio. Tutti veniamo dalla nonna che la domenica mattina, saputa e giudiziosa, vexsandoci un bicchierino innocuo, invitava noi, imberbi in visita annoiata, a credere. Ma qui si fermava, per fappunto, a questo infinito, senza complementi di termine. Fede e credenza erano le colonne d'Ercole: a che dopo vi fosse un Dio - cosa che non crediamo fosse in discussione - il linguaggio pareva non voler alludere. A partire dalla rimembranza di questi pudori casuali e un poco naives, le cose non avrebbero tardato a rivelarcisi col senno di poi, quando finalmente, ormai grandicelli, avremmo lambito il senso di questa imperfetta e pia sigetica domenicale. Con Dio, non scompaiono i valori (già G6mez Davila era per una teologia dei valori, più forte a suo dire di una teologia dell'essere). Essi, per il tempo che dura il simulacro, si fanno sentire. O meglio, i valori sono così radicati che non sono più sentiti come tali. È solo fistituzione - il matrimonio, mettiamo - a rivitalizzare, fosse pure per un'oretta, quei valori che reggono nell'ombra il mondo egregiamente, senza che siano fatti passare per tali. L'istituzione sfila dal mazzo la carta del valore e solo nel momento dell'estrazione sembra che tutti scoprano ciò che invece sapevano da sempre: che quella carta faceva parte del mazzo. Il valore dell'esistenza è quello che più di tutti tiene ancora. Tutte le storie che la civiltà fa per un omicidio, o le storie che si fa l'incauta nel reparto IVG, tradiscono, nella più asettica delle prassi, gli scrupoli della morale. A livello di senso comune, l'eccezionalità di certi eventi fortemente sentiti - nascita, nozze, morte - rivela non lo stadio terminale dei valori che prendono colore per un momento, ma l'immutabilità di quelli. I va/uri servono a quello che servono, non v'è un periodo in cui di essi vi sia una affermazione migliore di un'altra. Ne cambia f adesione attorno, ma il valore è quello che è. Il valore è un mondo, il va/qre è l'essere. Spetta solo a noi corrispondervi. Ciò che si ritiene

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essere l'assenza o il depotenziamento di un valore è nulla più che la resistenza dell'intorno a sostenerne il correlato. Non è che il valore di Nazione - poniamo - sia diminuito quanto a forza, o sia cambiato: esso è sempre uguale, è diminuito semmai l'entusiastico appoggio del popolo ad esso. Non è che cambi il senso di un valore: si adopera solo un'altra lente concorrente a quella tirannia per vedere il mondo. Senza di ciò non avremmo capito quell'abitudine al Cristianesimo di cui andiamo parlando: non è che il Cristianesimo si sia depotenziato, sia diventato postmoderno, si sia indolenzito. Abbiamo inforcato un altro paio di occhiali per guardare al crocefisso: noia, stanchezza, peso del retaggio, indifferenza sono i vetri oscurati. O!Jesta fase è destinata a durare. Non vi sarà spegnimento prima di svariati secoli. Anzi, non siamo neppure sicuri che quello spegnimento vi sarà. Di qui, da questo corpo tisico squassato dalla tosse stizzosa, verranno gli stami non di una fioritura ventura, ma quantomeno di un mancato appassimento, la cosa che più conta. Come subentri l'eterno alla morte l'abituato non se lo chiede, se subito o appena dopo non importa, tanto v'è il teatrino di paradiso inferno e purgatorio che tiene occupata la sua mente. Una rapida messa la domenica (da cui sia ovviamente escluso lo splendore del vecchio ritualismo), e non se ne parli più. Privati della necessaria disperazione, la speranza è nulla più di una attesa insulsa, un augurio vacuo come quello ai compleanni o alle lauree. La natura coi suoi cicli non ammette termine. Allora perché la morte sarebbe un fatto naturale? Perché nessuno è mai tornato indietro? Perché nessuno ha fatto mai niente perché non ce ne lamentassimo sempre? Il problema della morte è identico a quello della deflorazione: una saU'Uagerie trattata con i guanti bianchi (attenzione, rischiano di sporcarsi).

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Una generica canzonatura silenziosa, mista a qualche volgare ammiccamento, si destina a quei pochi che non pratichino il mestiere della carne o intendano farlo dopo le nozze pro creando. Il Cristianesimo, come sappiamo, èvenuto a patti con il mondo, con una dedizione strana, e, soprattutto, universa, non reciproca. La Chiesa degna quel mondo che non la degna: questa, in sintesi, la secolarizzazione. Nulla di diabolicamente eclatante o selvaggio. L'inferno, ad ogni modo, è qui. Le sue fiamme sono il giudizio del demi-monde, i diavoli le fanciulle scondottate che compatiscono le vergini insospettabili. Sono costoro i principi del mondo, fopposizione ai quali desta non più una sensazione di forza reattiva, ma giusto un po' di sussiego. Gli stiliti sono quelle ragazzine timorate della deflorazione, più che di Dio, in questo Cristianesimo che al vivere civile non oppone nessuna forma di apocalisse, nessun deserto, non foss'altro perché il cemento della buona coscienza lo ha bonificato. È stato il Cristianesimo ad essere stato desertificato, al posto delle città che avrebbero dovuto, perché in esse si levasse la vox clamantis. Per inerzia, si sposa il Cristianesimo (unitamente a quel vivere come Summum Bonum strombazzato nelle Somme), ma non la verginità che ne sorresse i primi passi. Matrimonio e figli pure possono essere messi nell'insieme di quelle cose che si fanno per consuetudine. Fidanzati e sposi sono attesi al varco. Epperò a ben vedere, anche in queste forme, si cela l'orrore del nulla: la resistenza del matrimonio come istituto - il fatto che la gente ancora si sposi, considerazione condita da dolente ma compiaciuto stupore - trae altrove la propria ragione, di certo non nell'amore. Se un tempo poteva essere quella di sfuggire all'instabilità per così dire "metafisica", avvicinandosi al senso economico originario, adesso è per rincorrere la solita deadline anagrafica: quanto ad esso, non è impossibile pensare che la sua istituzione fu per stabilire a chi appartenessero i nati, cosa

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piuttosto difficile in un regime di promisa.lità. A proposito, dove sono finiti i cantoridelle nascite zero e della fine di tutte le cose? Ci si è accostumati alle Chiese vuote. L'uomo che si interroga su Dio ne ha già decretato l'esistenza. Parimenti, nella nostra civiltà il Dio esiste come esistono le chiese, gli oratori e le pievi, simulacri che finiscono per rimandare nella peggiore delle ipotesi a se stessi, ma che punteggiano il nostro paesaggio urbano, come Dio le nostre democrazie. L'esistenza di Dio non è nulla di esigente, come le chiese delle nostre città entro cui non ci capiterà mai di entrare. Pure l'idea che l'utilizzo di un amminnicolo antifecondativo sia meglio della vecchia marnmana col prezzemolo si è imposta. Se l'esistenza è superiore al nulla, il nulla è sempre meglio dell'essere principiante. Il magistero consolidato è sempre di là della soglia dinanzi a cui si ferma lo spiccio sentire condiviso e applicato dai più. V'è una generale assenza di contrasti su quel che va fatto: la Chiesa ha dubbi che il popolo ha già risolto. Le ubbie del Magistero morale sono le certezze del fedele che si ammanta di lattice come un cavaliere della lorica e va in esplorazione notturna. A ben vedere, assistiamo a contrasti, più oziosi che reali, su questioni già da tempo risolte. Le domande eterne sono sempre su problemi cui già da sempre il popolo, mai stato scemo, anzi, ha risposto. Sono le classi inferiori ad essere tradizionalmente quelle più emancipate, a sguazzare nelle assenze o nelle rotture di Forma; la conservazione è per gli illuminati, l'esercizio della tradizione è cosa sottile, per spiriti niente male. Il popolo non ha bisogno di salvatori: si è sempre salvato da sé, e anche piuttosto bene, dobbiamo dire. Gli edotti che praticano nella loro mente l'emancipazione da elargire come monetina al mendicante, sappiano che lo fanno perché non gli è riuscita l'articolazione di un disegno di superiorità e sperano che questa sia la volta buona. O meglio: col loro fare, vorrebbero maldestramente fare sfoggio di generosità; vorrebbero invece

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che il popolo da tutto si emancipasse fuorché da loro, messisi indebitamente a guardianìa delle libertà. Come si può fantasticare che una persona, quando si è soli a casa, sia uscita, cosi possiamo immaginare la morte. Basterebbe cosi poco per non impelagazsi nelle pastoie della sopravvivenza, basterebbe solo immaginare dei fauriusciti, dei partiti in paesi lontanissimi per tempi lunghi (esattamente come si spiega la morte ai bambini). In questa ignoranza spaziale potremmo risolvere il problema dell'immortalità. L'"unmortalità -assodata l'eternità - è solo questione di spazio occupato, in un a/tTQVe non meglio definito. Se volessimo azzardare una definizione, potremmo dire che l'uomo è materia con velleità (la speranza sua invece è pura volontà). Le velleità della materia non giustificano un bel niente, sono come le venature in un blocco di marmo, zone di materia meno compressa, o rigata dal ricordo di quel mente che assedia il blocco compatto dell'essere (cosa che viene ribadita da Sartre, assieme alla positività assoluta di quest'ultimo, dalla prima all'ultima pagina). Nella storia della filosofia non è infrequente che il maestro illustre venga oscurato dal discepolo meglio speso (vedi Alberto Magno con Tommaso). Cosi è accaduto con Moore e Wittgenstein. Ma si verifica poi che essi arrivino appaiati al traguardo. Alle convinzioni incrollabili di Moore, che bene spiegano l'andazzo della tradizione che ci ha preceduti (per cui, ad esempio, c'è un aldilà con i nostri nonni petulanti e benevoli), possiamo - non tollerandole punto - giustapporre le sofisticherie di Wittgenstein malato terminale. Se improbabile era che vi fossero per costui una mano o un piede o questa stanza provvista di mobilio, figurarsi se potesse esservi un destino oltre il nostro nome stesso (la cosa più dubbia per

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questo sapienziale andato a lezione dal Platone del Grati/o). Sembra di assistere appunto al Wittgenstein di Della certezza allorquando leggiamo ne La resurrezione di Maltravers: " - Le nostre teste si sono scontrate, e io ti ho detto di stare più attento. - Qiieste parole non le hai dette affatto. A quel punto eri già morto. - Ti sbagli, ribatté Maltravers, ti sbagli di grosso! Come potevo essere morto se ho bevuto tutto il Porto! - Non lo hai bevuto, infatti: il Porto si è rovesciato sulle coperte del tuo letto, tu invece sei ricaduto supino e sei morto. - Può darsi che a te sia sembrato cosi, Anna. A me invece è sembrato di alzarmi dal letto e di dirti che le tue mani mi avevano giovato, che ormai ero guarito ma che ne avevo abbastanza della mia famiglia e perciò volevo subito partire per Parigi. [...) -A volte, al ritorno da quelle passeggiate, dubitavano perfino di essere rimasti a Parigi". Ma al netto di tutte queste ubbìe inutili, ci soccorre Moore per il quale esiste tutto, piedi e mani compresi. Così, in quell'immensità immaginata di là della siepe cosi tante volte da divenire più vera del vero, egli ci spinge tutto sommato fiduciosi, a differenza di Wittgenstein che vorrebbe farci annegare nella vasca da bagno di casa. La storia della filosofia - risalita a ritroso (per intenderci da Della certezza a Apologia del senso comune) - ci restituisce quel maltolto che nessuno mai ha pensato - a differenza della ridicolaggine della filosofia - di poter mettere in discussione. Wittgenstein fa per metà il contrario di ciò che vuole la religione: salda al presente una comunità, ma rende impossibile una tradizione. Ogni culto vuole invece l'una e l'altra: non v'è qui un giuoco linguistico che determini un sapere da cui sarebbe avvalorato in principio, ma una credenza confusa e tramandata che si perpetua in un senso comune religioso e debosciato di cui un fl.ebilissimo dubbio sarebbe il gradiente indispensabile, con la forma di vita corrotta connessa (d'altronde, la riduzione del sapere a livello qualunque di cono-

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scenza soggettiva, la sua dignità sminuita, ci pare essere il piacere perverso di questo Wittgenstein). La religione da essere stato d'animo diventa una verità credibile senza pensare al passato o al futuro; il sapere, da solida certezza oggettiva, scade - secondo questa congiura ordita contro il condivisibile buonsenso di Moore - ad accaloramento dello spirito... È possibile affermare di sapere una cosa solo allorquando molteplici siano i modi per il suo accreditamento; dove uno solo sia il viatico, ogni "lo so" può essere lasciato cadere. È quest'ultimo il caso di quella conoscenza del post mortem che ci viene dalla voce univoca dei nostri consimili: uno solo è il modo di "sapere" questa cosa. Non più sapere allora, ma "religione" semmai. Come volevasi dimostrare. (hianto alla fondazione, das Mystische non sparisce, si sposta soltanto qui. Wittgenstein risolse nel pollachos legomenon degli scritti successivi al Tractatus quel das Mystische, di cui il mondo non sembrava sapere che farsene. Ma il senso comune del Cristianesimo non ammette giuoco o retti.fica, come nelle Ricerche e negli scritti ultimi. Esso, per l'appunto, è quello che è, è ciò a cui si è ridotto suo malgrado. Se v'è una mistica nel mondo, è quella dell'indi1ferenza che accoglie il Cristo e l'annessa teologia che lo accolse. A detta di un Wittgenstein stupito, certe asserzioni fisiche pronunciate in tribunale avrebbero tutt'altro senso che dette altrove. Q!iesto potrebbe farsi con la nozione di Dio: dichiarata in tribunale, in una torrida sessione degna de Gli intru.si di Simenon, ricaverebbe un senso ben diverso da quello che secondo Gentile gli andrebbe commisurato e che quel primo senso, di regola, da quel di fuori che è il foro interiore, dovrebbe consentire.

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Lui non con/lJ'UQ su nulla, nésui santi né sugli uomini. Ma era ah6astanza supenti:,:ioso per non gettare un santo in mare. G. SJMENON, Corte d'assise

Non si capisce perché, se a detta di taluni "scienziati" (almeno stando al Nolte, degno allievo di cotale Maestro) i campi di concentramento non bastino a comprovare tecnicamente lo sterminio, anzi lo smentiscano del tutto, siano sufficienti le testimonianze di quattro semianalfabeti o poco più per avallare l'esistenza del Cristo. La storicità di un fatto è cosa opinabile, come l'esistenza di ogni cosa, di questa mano che scrive, di questo calendario alla parete o di cosa ho mangiato oggi a pranzo. Dire che il Cristianesimo poggi sul Fatto - cioè sulla indubitabilità - del Cristo è controvertibile tanto quanto l'identità di un reo nel diritto processuale. La storia è una superstizUJT1e. Ci basta sapere questo. Non vogliamo sapere di ciò che su di essa si poggia. Dovremmo averlo capito oramai: storia ed esperienza non sono a garantire un bel niente. Anche il negozio di un calzolaio ha una "storia"; anche i corvi hanno esperienza del ramo dove poggiano; anche la chiazza giallina ai piedi dei letti di albergo è, in un colpo solo, fatto ignobile e indizio di ottima tradizione. Insomma il problema non è la malafede del revisionista o la vicinanza del testimone e la di lui veridicità. Il problema è sempre e solo uno: la storia non è che un tradimento millenario. Noi e la storia siamo rispettivamente la moglie e l'amante: quest'ultima sa tutto di noi - o meglio, sa le cose che nostro marito le ha raccontato; noi non sappiamo niente di lei che ci fila a nostra insaputa (ignoranza quasi mai totale, con noi che in fondo glielo lascia11Wfare per poter continuare a far finta di dare retta al prete).

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Come si possa credere ancora - dopo la Metodologia del Giudizio teleologico dalla kantiana terza Critica, e non dopo Darwin, insopportabili lui e i suoi estimatori- alla storia della creazione è per chi scrive uno scandalo, più che un mistero. La creazione universale gli appare un concetto troppo sbrigativo, a prescindere poi dai begli esiti sotto gli occhi di tutti. Per una volta fermiamoci, diciamolo con una parola da bambini: la creazione universale è infantile. È la mamma che ti fa trovare a pranzo ciò che la mattina non c'era. Ma non nella misura in cui tutto è fanciullesco per il filosofo che la fa sempre difficile e lunga, essa è infantile. No, proprio cosl: irredimibilmente infantile, asilo per asini patentati. Come sifonda una religwne (1). Lo avevano spostato nel reparto di medicina interna. Mio zio non ritrovò papà in sala rossa, dove era giunto, terminale, in crisi respiratoria, e dove lo avevano sistemato in attesa di trovargli un posto. Non lo avesse saputo da non ricordo chi - se medico o infermiere -, si poteva fondare una religione. Come sifanda una religwne (2). Il parente andò all'obitorio, non trovò il corpo, sporse denuncia ... Nel frattempo una religione poteva sorgere. Maledizione, ci siamo andati vicino. Non dovevano funzionare granché le investigazioniin Galilea. Come sifanda una religwne (3). Il parente andò a trovare il paziente nell'ora di visita. Non si era accorto che era in doccia. C'erano rumori in corridoio, ristrutturavano una corsia in fondo. Sul letto asciugamani, biancheria usata, un accappatoio. Effetti personali sul comodino. Nessuno in stanza a dirgli dov'era. Incipit Buona NO'lJella. Come sifanda una religione (4). Mentre il parente entrava ali'ora di visita, proprio allora stavano portando il degente a

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fare la TAC. In fondo al corridoio, il suo ri.desso in una vetrata accecata dal sole d'agosto a mezzogiorno... Come duemila anni fa, la storia sarebbe finita col suo ritorno. Ma giusto una mezz'ora, in questo caso. Alparente (umane, trqppo umane riscritture}. Mt 28, 1-7 oppure Mc 16, 1-8: un infermiere col suo camice bianchissimo e inamidato, fresco d'appretto, gli disse che avevano cambiato il degente di reparto. Là lo avrebbe atteso. Le 24, 1-12: due medici supponenti gli dissero che il degente era al piano superiore. Gli ricordarono che glielo aveva anticipato, del cambio di piano, per sottoporsi ad accertamenti per mano di scalzacani. Gu 20, 1-18: alle spalle dei due infermieri cordiali che gli chiedevano perché piangesse - una clinica milanese, di quelle dove ti chiamano per nome, credo - si affacciò il degente irriconoscibile per la barba lunga di giorni. Scambiato inizialmente per un portantino, quando fu riconosciuto, disse di non trattenerlo che stava andando dal primario a prendere il foglio di dimissioni. L'uomo chefamava sui sagrati. Delle poche messe che frequentò nella sua esistenza, comunioni, battesimi, trigesimi, cose cosi. Non una opposizione "ideologica" alla Chiesa e ai preti, ma una generica distanza, una beata indifferenza frammischiata a una diffidenza pari a quella di mille altri e per mille altre cose. L'estraneità alla Chiesa era pari a quella per ogni forma di militanza. Preti e politicanti erano figure perniciose, i primi figli di puttana, neppure cosi tanto amabili come i figli di puttana sanno essere di regola; i secondi esposti addirittura al rischio di essere accoltellati dagli estremisti della fazione opposta. Un'idea del tutto anni Settanta nel crudo e mercatante capoluogo appulo doveva evidentemente aver permeato la sua figura di annoiato. La folla lo infastidiva, non secondo opzione

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ideologica, ma come assembramento di spazi; ogni slancio era destinato a spegnersi prima ancora di percorrere il tragitto tra i suoi orecchio e bocca; faceva troppo freddo fuori per la messa di mezzanotte del Natale, come pure sugli spalti dello stadio d'inverno... Incarnava, senza saperlo, alla perfezione, il detto di quell'autore secondo cui la vita non valeva neppure un suicidio... Credo che una buona parte della mia mancanza di entusiasmo senza ,nqtivo verso le cose da qui abbia preso il proprio incominciamento. Vi ho solo aggiunto un poco più di vitalità (priva di sportività: questo sentimento cosi "parafascista") e curiosità, che a lui difettavano in sommo grado. A spese degli altri, si era fatto una esperienza del mondo che in buona parte non conosceva, non conosceva nella sua parte migliore, ma del cui splendore ovviamente subiva la fascinazione. La conoscenza che suggeva dalle azioni altrui, se fallimentari, serviva a sfiduciare sistematicamente il figlio; se di successo, era perché riferibili unicamente ad un contesto irripetibile. Senza nessuna vera esperienza delle cose del mondo, se non quella di chiunque si fosse ammogliato e trovato un lavoro appena dopo l'adolescenza nel Meridione del Miracolo Economico, così, in barba ad ogni ambizione o talento, mio padre pretendeva di sapere e condannava gli sbagli (tra questi, il sommo era quello di una gravidanza indesiderata che potesse capitare o a un adolescente o a uno che già avesse awto dei figli oramai adolescenti: di qui credo il miofaroreanti-natalista). "Impedendo" agli altri di sbagliare, nei fatti non ne tollerava delirw alcuno. Non si è mai perduto chi non è mai uscito di casa: questa era la sua "media" vitale, condotta con la boria di chi neppure poteva immaginare cosa fosse il vivere oltre gli orari del cartellino o della sveglia alle cinque del mattino. Pertanto il suo orgoglio testardo aveva sempre buon giuoco di tutto e di tutti. Non solo, ma sqprattutto per sé, erano le spese dei dottori, coi quali erano l'unico dell'intera famiglia a sapersi ben disimpegnare, a suo dire.

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Le cose andavano fatte come era giusto che fosse, "giusto" nella misura in cui la gente che lavorava aveva inteso farle da sempre. Un lavoro, un matrimonio, una famiglia: questa la sua idea minuscola di vita, da intendersi rigorosamente cronologicamente non solo per sé. La preparazione a vivere contava assai più del vivere stesso, la cosa che più di tutto doveva risultargli ignota. Credo di poter dire a questo punto, senza tema di smentita, che l'ignoranza, di qualsiasi ordine e grado, quando non unita a vitalità, o alla prontezza di un ingegno semplice, è il peggiore degli inferni possibili. Dimenticavo: la barba tutte le mattine, fondamentale, come l'allume di rocca (mio padre era uno di quelli per cui, in mancanza d'altro, lui, privo delle cosiddette scuole alte, l'igiene personale poteva ogni cosa nei rapporti interpersonali). Non credo di disonoramela memoria affermando che ottemperò ad ogni cosa, come fosse un peso affibbiatogli, senza infamia e senza lode. Fu padre e marito come se in fondo non avesse mai voluto esserli. Chiaro era però l'atto della decisione. Altrettanto quanto l'"ineluttabilità" del vivere awertito nella sua cogenza più che altro quotidiana, più che storico-esistenziale. I termini e le visioni grandi non gli appartenevano. Grandi erano le sue ambizioni per i figli, grandi però solo in quanto filtrate dalla sua visuale piccolo-borghese: "Era uno di quelli che aveva sempre avuto l'ansia di togliersi la tuta di dosso" ebbe a dirmi un suo amico con la sofistica di cui sono capaci gli spiriti rozzi e che in bocca a loro suona così insopportabile, non sapremo mai se per l'oggetto che ci duole, perché a costoro non consentita, per il semplice sguardo che insopportabilmente piega in diagonale i loro lineamenti di gnucchi fattisi svegli all'improvviso. Le cose che non si potevano toccare non lo riguardavano, semplicemente- o meglio, lo riguardavano secondo quanto di generazione in generazione si era tramandato. In mio padre, inconsciamente, la tradizione si rivelava come stanchezza, vestito liso, pratica priva di senso ma necessaria. Politica, Scuola,

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Chiesa erano il suo sbuffare, onorate però nel rispetto formale ma onesto che portava al magistrato, al professore, al ministrante. Avesse portato il cappello, avesse passeggiato lungo il corso la domenica mattina, lo avrebbe abbassato senza indugi dinanzi al potentato di turno (mio padre era uno di quelli cui non difettava certo il senso dell'intellettualità da rispettare. Comunque erano sempre gli altri quelli da onorare: il proverbiale "fattela con quelli migliori di te, rimettendoci" valeva per ogni dove, fuorché per la famiglia e per quel ragazzino timido e ciarliero che lo accompagnava a comprare quei diti dal "Sali e Tabacchi" che gli si sarebbero puntati contro, intimandogli, alle soglie di una vecchiezza non ancora turpe, di obbedire, non senza qualche attimo di esitazione e malumore dissimulato sino alla fine non foss'altro per occultare agli altri la colpa di morire, all'atto di richiamo). In mio padre ben presto venne ad appalesarsi, nel minuscolo spazio di una biografia trascurabilissima, il conflitto tra il vecchio mondo di una rispettabilità non priva di ampollosità, e l'arroganza di una ascesa d=ta ai figli, prima ancora che a sé conseguentemente. Non fu così, per lui. Lo fu in parte, secondo le leggi del mondo che non dovettero alla fine risultargli così "giuste", o forse sì, in virtù di quel senso pratico così dolente che aveva sempre praticato e ne regolava le asperità ostili alla prosopopea dei colti (entro cui mi rubricava non foss'altro che per scuotermi da quello che per lui era l'inspiegabile, il non fare soldi dopo così tanto impegno sui libri). I miei giovanili interessi di filosofia della religione dovettero preoccuparlo non poco, essendo queste cose affare dei preti, che quelli studiavano teologia. Accettò, non potendo fare diversamente, bevendo fiele, quel fiele che aveva ingurgitato all'atto della mia iscrizione, quell'amaro che altri provvidero a rendergli meno amaro sciogliendovi dentro qualche zolletta di zucchero. Che la teologia va con lafilosofia, i preti studianofilosofia e non viceversa: si addivenne a questo compromesso. Proprio a lui che della

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Chiesa non gliene poteva fregare di meno. Singolare caso di come il dominio della disciplina traesse legittimità da timori ingiustificati. Cosa ricordo di lui ora? Non importa. Ricordo con nitore che fumava beatamente sul sagrato di spalle, dall'altezza del suo metro e novanta, nell'attesa che la messa finisse e si andasse alla sala ricevimenti. Neppure quella era una festa, erano solo regali inprestito. I matrimoni erano spese, per le frequentazioni c'era sempre tempo. C'era sempre qualcosa di più importante. Ogni cosa era sempre e solo un lusso. Ci si ritrova così a guardare stralunati e avidi l'anulare sinistro delle ragazze. Dimenticavo: aveva sempre fretta. Per cosa poi non si era mai capito. La fretta era solo un modo per non aderire mai veramente a nulla. La sua non era semplice abitudine al Cristianesimo, era una abitudine a vivere. Senza entusiasmo. Credo di avergli dato qualche sporadica soddisfazione, non potendo mai veramente corrispondergli, lui tutto sommato così restio - come, del resto, verso ogni cosa del mondo - ad emettermi dalla sua uretra - stando a quel passato di prima della creazione personale che viene raccontato con spaventosa leggerezza, non si capisce perché, ai figli. La voluttà con cui fumava le sue MS rosse dal filtro duro al tavolo dopo cena, il gomito puntato e i fibromi penduli attraverso la canottiera a fare brutta mostra di sé, lo assolve, nella mia memoria, e, con lui, la sua natura così arida. Padre mio, sei solo questo pezzo di carta ora, che orrore... Requiescat.

REUGIONSKULTUR

Oramai sappiamo perché il Cristianesimo è la religione più "razionale", quella che più di altre ha consentito alla ragione di entrare nella sua carne. È il cumulo insostenibile delle sue contraddizioni storico-dogmatiche ad aver avuto bisogno della ragione la quale notoriamente viene a placare, giustificare, incollare i cocci di un vaso rotto che perde acqua da millenni. La ragione salva i fenomeni anche nel campo della fede, non dimentichiamolo mai. La ragione è un rimedio per galleggiare nel finito, mica il viatico a quodammodo omnia.

Ereditarietà delfintellettualità babbuina. "La cultura consiste precisamente nel fatto che ci tiene. Ce l'abbiamo sul gobbo né più né meno come un parassita giacché non sappiamo che cosa farcene se non spidocchiarci. Il mio consiglio è di tenersela, perché solletica e risveglia. Risveglierà i vostri sentimenti che tendono un po' ad abbruttirsi sotto l'influsso delle circostanze ambientali, cioè di quelle che gli altri, che verranno dopo, chiameranno la vostra cultura. Per costoro tutto ciò sarà diventato una cultura perché voi sarete da tempo morti e sepolti, e insieme a voi tutti i legami sociali che avete sostenuto" 0Lacan, Il seminario, XX).

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Sine effusione sanguinis? La cultura è una forma di disprezzo. Essa rifiuta l'altro. Divide, separa. È l'uomo che cerca di sottomettere il prossimo che va in cerca di questo sedicente bene. Qui, in questo obbrobrio, si rinnova il legame tra Cultura e Cristianesimo: ricordiamoci del gladium mittendum del vangelo di Matteo. D'accordo, Pol Pot fu un criminale bla bla bla. Lo so, non mi seccate. Però che bella l'idea di ripartire senza cultura, fatta

tabula rasa ... Il sangue. A Bari hanno spostato la Biblioteca nazionale dall'Ateneo all'ex macello. Non aggiungiamo altro.

Lo stomachevole concetto di cultura è l'estrema reincarnazione dello Spirito h egeliano. Si ignorava all'epoca tutto ciò che questo avrebbe significato. Come lo Spirito non risolse in sé i contesti opachi che avrebbe attraversato, nella cultura vi entrò luce ma non vi uscì che buio e freddo. All'idealismo, al vettore suo di spiegamento, sarebbe subentrato lo storicismo, owerosia l'idealismo che aveva capito: il mondo non andava diretto, andava seguito. All'amore per il sapere subentrò l'amore per la filosofia. All'amore della cosa si sostituì insomma l'amore per l'amore di una cosa. Ma non vè ritorno in questa cosa. Il sapere non contraccambia nessuno. E giunge al punto in cui pari.menti non è contraccambiato. E questo è il ruolo della religione attuale, prima ancora che nostro, che abbiamo tutto da guadagnarci ad ignorare. Della riflessione non vuole saperne. E di Dio sino ad un certo punto. Il Cristianesimo ha smesso di essere sinanco una coerente visione del mondo, se non c'è visione del mondo - come volle lo storicismo - senza la sua, di "verità". Rimosse la verità e la grande tematizzazione dell'inizio delle cose, al cristiano non rimane che una vita condotta senza scossoni di sorta, con una fine che rimane

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costitutivamente oscura e che la vita non riesce mai a rendere diafana. Nessun inquietum cor nostrum: il quietivo dello spirito è un vivere che smette di pensare alla possibilità di un dramma a venire concreto e duro. Immersi nella linearità cristiana sino al collo, nessuno pensa che il tennine "avvenire" sia l'imbroglio, il sinonimo accorsato per non utilizzare quello di morte, di sicuro più terribilmente sincero. Apologetica, filosofia della religione, teologia, precettistica: sono come la musica dell'organo, una questione di registri... Alla filosofia non si crede più. A Dio appena appena, quel tanto per darsi una chance. Ma chi tira in ballo la religione smuove la torba sul fondale. Non "filosofica" sarebbe quella coscienza che non riftette sulla sua fede. L'estraneità di pensiero finito e fede èla taccia sua di ogni "esteriorità". La fede-come il cazzo - non vuole pensieri. Ma sino a un certo punto. La fede che scoprì la filosofia scoprì la propria "infelicità". La filosofia è la "negatività" della religione. In quello che si pensò essere il vuoto della conoscenza la fede non volle conoscere perché già sapeva. Di un ciclo della cultura e del dolore relativo parla Hegel sul finire di Fede e sapere. La solitudine in generale (e a maggior ragione nelle cose dello spirito) è ereditata. Ogni solitudine non è mai "personale". La solitudine di un singolo è /QUI court la solitudine dei propri padri. Farsi fiamma in un avello della propria intelligenza, farsi face entro cui la cultura maledetta possa bruciare per sempre... Cosa daremmo per smetterla di sfogliare pagine, concatenare empiti slegati e sporcare fogli ... La filosofia non è cultura chiarisce Hegel, divinamente, come la tecnica non è arte. Dopo la cultura v'è la filosofia. V'è un dopo dopo la cultura. "Voto alla Madonna" della cultura: la promessa di una dismissione di questa tabe maledetta, di questo supplizio di sventura, di questo infiruto che ci vota all'infelicità... La filosofia mai avrebbe dovuto

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rappresentare il punto di vista degli uomini, né preferire alla conoscenza di Dio la conoscenza degli umani: così ebbe a dire Hegel. Cosa che l'Ecclesia invece puntuahnente fa. La cultura - a suo dire - avrebbe solo innalzato il nostro tempo al di sopra dell'antico contrasto di fede e ragione. Ma i libri buttati sulle bancarelle cosa sono divenuti oramai? Natura? Spirito? Con chi ci accompagniamo qui? Hegel oGellner? Sinonimi econtrari. Se l'Idealismo è Offen/Jarung, il contrario esatto sarebbe un Materialismo gnostico?

L'elemento decisivo del Cristianesimo è quello "culturale". Il Cristianesimo come Forma di cultura può fungere bene laddove non sia sorretto da un "credo" degno di questo nome. Vi rimane quest'aura fatta di immani prodotti culturali entro cui si colloca il cristiano che ne ha ereditato i contenuti impastati alla fede, o susseguenti all'esaurimento di quella. Spassosissimo è ascoltare qualche messa, quando capita, con il pretucolo che si lancia in arditezze teologiche, inavvertitamente: gli angeli non avrebbero corpo; i morti freschi sarebbero bambinelli nell'Eterno; la preghiera sarebbe inutile per la madre morta cinquant'anni fa visto che già ce l'ha fatta a risalire... Un po' come osservare orribili croste che profanano i transetti siglate dallanima pia di turno contemporanea. Che meraviglia sarebbe poter finire spediti tra le mani dell'inquisitore o del diavolo pro domo Christi. Ripetiamolo: la cultura è l'estremo vestigio di quello Spirito di cui parlò Hegel. Di quello ha la stessa tendenza a contenere ogni cosa. Hegel dell'abitudine riconobbe la perfetta liceità nelle alte sfere dello spirito dentro l'Enciclopedia. Essa sarebbe

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cosa assolutamente necessaria all'uomo che pensa. Ma se il Geist prendeva in sé la carne viva, la sua linfa, le sue nervature nell'atto del movimento, la cultura affastella corpi a peso morto. Berdjaev adopera parole dure sulla cultura: vi sarebbe a suo dire un legalismo della cultura, un fariseismo della cultura, una medietà, una menzogna grande e - soprattutto - sopra la cultura dimorerebbe un giudizio superiore, una - così la chiama - "apocalisse della cultura". La civiltà è uno scopo autonomo oramai. Ma meglio sarebbe stato che fosse rimasta per una volta mezzo. Oddio, mezzo rimane sempre, condizione che divide con la cultura, ma della nostra disfatta, infinito cattivo della nostra infelicità. Fondere Cristianesimo ed estenuazione, il corpo di Cristo - quello che ne rimane - con l'odio per l'uomo e la storia: questa l'unica via che paia pervia ma non praticabile dall'Abituato. Ai tempi di Kant non era per nulla infrequente l'invito a perdersi nella bellezza universale, stando attenti - una volta penetrativi - a non farla sfigurare. Ma sappiamo di cosa si tratta. Si entra in questi, che furono dei templi, non per alzare gli occhi al cielo e scorgervi la perfezione divina, o per inginocchiarsi dinanzi a un altare, ma per una coazione a ripetere, per trovare la ripetizione di una spocchia, la prosecuzione di una masturbazione, l'allargarsi di un commiserevole solipsismo, la rivendicazione delle malattie dell'io...

Metti un funerale: la benedizione della cassa, i piagnistei da prefica etc. ~este ed altre forme di retorico commiato dal defunto si danno non perché si sappia qualcosa, ma perché non si sa mai. L'idea dell'affidarsi andrebbe indagata peraltro tra le pieghe del Cristianesimo: dal tempo in cui si poteva pensare di abbandonarsi alla Provvidenza divina (vedi de Caussade) siamo passati a quello in cui ci tocca consegnarci. Che etimologicamente la religione rimandi a tutto ciò non conta. Il punto è che

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l'azione qui è condotta per conto terzi. È l'Altro quella condotta cui non si può derogare in nessun modo e che mi tange sempre indirettamente: la messa, le belle parole, gli inviti a credere nonostante tutto, fa religionefatta cultura insomma (Vico docet). Una cosa delicata è transvalutata in una prassi digiuna di ogni riservatezza. È sempre l'ignorante, espansivo a dire poco, che la spunta sull'edotto solitario. La cultura deve rendersene conto. La sua vocazione minoritaria ha francamente fatto il tempo suo. L'idea di una cultura per pochi va rimpiazzata dall'evidenza che la cultura possa veramente poco, ovvero che essa debba continuare a fare quel poco che ha sempre fatto-ma per tutti quanti stavolta, per tutti quanti i morti che siamo. Il credente attuale è l'ombra del credente che fu. Comunque trema dinanzi alla morte. Egli pretende di ottenere dall'abitudine aDio quella rassicurazione che altrimenti avrebbe dovuto ricevere dal Dio in persona. Nella penombra collettiva, tra mille idee rassicuranti, si leva un'ombra più nera delle altre che fa paura manco fosse quel Dio che non siamo sicuri preceda. La morte è quella volontà che dilacera il Velo di Maya. La morte a differenza di Dio- non è mai un'ombra. La morte, più di Dio, è lo scandalo perenne, l'ente realissime. L'eternità della morte sulla faccia della terra è il Deus perennis. La morte è eterna: anche di essa, come per la vita, abbiamo forme infinite, ma essa rimane fissa _quantomeno a livello concettuale. La morte è sempre quella. E terribile cadere nelle mani del Dio vivente