Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte 9788874627318

Il corpo umano si costruisce intorno ad un taglio che non si rimargina, che non diventa cicatrice. Prima di quel taglio

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Italian Pages 160 Year 2015

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Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte
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Campi della psiche. Filosofie dell’inconscio

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Felice Cimatti Il taglio Linguaggio e pulsione di morte

Quodlibet

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Prima edizione: giugno 2015 © 2015 Quodlibet srl Via Santa Maria della Porta, 43 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (tn) isbn 978-88-7462-731-8 Campi della psiche. Filosofie dell’inconscio Comitato scientifico: Felice Cimatti, Manuela Fraire, Francesco Napolitano, Stefano Velotti

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Indice

7 Premessa



Dal corpo alla parola

1. Psicoanalisi e natura umana 15 18 22 25

1. Homo psycho-analiticus 2. La «situazione antropologica fondamentale» 3. Per una storia dell’inconscio 4. Inconscio, soggetto e linguaggio



2. La zecca e l’uomo

31 34 39 44

1. «Ambiente» e «mondo» 2. Esiste un «ambiente» umano? 3. Linguaggio e mancanza 4. Angoscia e «mistico»

«Parlessere»



3. Linguaggio e pulsione di morte

55 60 62 65

1. Istinto e pulsione 2. Il gioco del rocchetto 3. FLN e «coazione a ripetere» 4. Chomsky e Lacan sulla natura umana

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indice



4. Il paradosso del ricordare

71 77 82 87

1. La tesi di Wander 2. Di chi è il ricordo? 3. Il grido nel deserto 4. Quei ricordi che nessuno può ricordare

Dalla

parola al corpo



5. Per un’estetica del reale

95 99 104 109

1. Parola e immagine 2. E poi? 3. A grande a piccolo 4. «Un significante nuovo»



6. L’immanenza della vita

15 1 120 124 128

1. Cosa cura la psicoanalisi? 2. Lawrence sull’animale umano 3. Il trauma del linguaggio 4. Diventare un corpo

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Bibliografia

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Premessa

All’inizio c’è un corpo, il corpo minuto di un primate, senza peli, inerme. Questo corpo, come ogni altro corpo vivente, non è fin da subito equipaggiato di tutto ciò di cui ha bisogno per sopravvivere. Come ogni altro corpo vivente deve trovare nel suo ambiente delle integrazioni, degli aiuti. Deve imparare qualcosa, anche se è molto variabile la quantità di esperienze necessarie per rendere un corpo vivente autosufficiente, ammesso che esista un corpo del genere. Nessun corpo vivente nasce già pronto per la lotta per la sopravvivenza (Prochiantz, 1997). In questo senso neanche un insetto nasce già perfettamente formato, neanche un filo d’erba. La vita è il movimento – questa agitazione – generata da questa originaria mancanza: «questa pura inquietudine della vita» come scrive Hegel nella Fenomenologia dello spirito (Hegel, 1807, trad. it. 1999, p. 103). Lo stesso vale, naturalmente, anche per il piccolo corpo dell’animale umano. Anche questo corpo, come ogni altro corpo, non nasce già formato, già maturo. È un corpo, come tutti gli altri, un corpo bisognoso, un corpo che da solo non ce la farebbe. Essere un corpo significa questo, prima di tutto, il corpo è bisognoso. Il corpo del piccolo umano ha bisogno di amore, di cibo, di calore, di attenzione. Ma dall’esterno, sul corpo umano in formazione, arriva molto altro. Arriva ad esempio il desiderio degli adulti. Un desiderio di cui non sono consapevoli, ma che proprio per questo è più potente, più penetrante, più invasivo. Arrivano pensieri – che si traducono in gesti, sguardi, esitazioni, slanci – che il piccolo non comprende, ma che tuttavia registra. Sul piccolo della specie Homo sapiens comincia a formarsi un reticolo di tracce, di impressioni, di cicatrici. Perché ogni esperienza, come le estati secche sulle cortecce di un albero, si incide sulla sua carne. Il piccolo umano si costruisce intorno a queste tracce. Esperienza vuol dire questo, essere toccato da qualcosa, un qualcosa che lascia,

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premessa

sul corpo in formazione, un’impronta. E poi arrivano le parole, i discorsi degli adulti, le loro espressioni. In realtà c’erano anche prima, prima ancora che il piccolo umano nascesse, e già allora le ascoltava (de Boysson-Bardies, 1996; Moon, Lagercrantz, Kuhl 2013). Non ne capiva il senso, è vero, eppure quei suoni lo colpiscono in modo particolare; il piccolo umano è geneticamente predisposto a prestare attenzione in modo particolare ai suoni di una lingua (Kuhl, 2004). Ecco, il piccolo umano si aspetta il linguaggio, come le ali di un giovane gabbiano nel suo nido a picco su una scogliera si aspettano il cielo. E le parole arrivano, e lasciano tracce, si depositano nel suo corpo, come i solchi della pioggia su un terreno scosceso. Le parole toccano il corpo. Perché le parole, prima di tutto, sono cose. In realtà sono cose un po’ speciali, perché sono cose che significano qualcosa. Non come una cicatrice, che significa qualcosa solo se qualcuno, un medico ad esempio, la interpreta come segno di una ferita. La corteccia di un albero, a chi l’osservi con attenzione, “dice” tutta la sua storia, le piogge e le siccità che ha attraversato, il vento che l’ha scosso e i fulmini che l’hanno colpito, gli incontri con gli insetti che ci vivono dentro e con tutti gli altri animali che lo hanno usato come riparo. La corteccia “parla”, ma non parla all’albero. L’albero è quella corteccia. Un cane che saltella su tre zampe ci “dice” che probabilmente è stato investito da un’automobile; ma il cane ormai è quel corpo con tre zampe. Forse quando sente il rombo del motore di un’automobile corre via a nascondersi, forse, ma il suo corpo, ormai, è così, un corpo con tre zampe. Non c’è bisogno che il cane sappia di essere un corpo senza una zampa, si contenta di essere quel corpo che è. Una cicatrice non parla da sola, ci vuole qualcuno che la interroghi, altrimenti è una cosa come un’altra. La cicatrice non è di per sé un segno. Le parole, invece, sono cose che parlano, in ogni caso, anche se nessuno le vuole ascoltare. Le parole sono segni, cioè sono cose che significano. Il piccolo umano nasce con questa capacità, si accorge – molto prima di essere in grado di accorgersi di avere questa capacità – che le parole hanno un senso. Se ne accorge anche, e soprattutto, quando quel senso gli sfugge, quando non le comprende, quando quel senso che non afferra lo disturba, lo inquieta, lo getta nel dubbio. Perché dev’essere tremendo sentire che c’è qualcosa che quelle cose vogliono dirci, e non essere in grado di capire quel che ci vogliono dire. È talmente tremenda, questa condizione, che nessuno

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premessa

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la vuole ricordare. Ci siamo passati tutti, ma nessuno ne sa nulla. Il piccolo umano è inerme, ma basta che qualcuno lo abbracci e lo stringa con affetto, con attenzione, con calore, che quella condizione è superata, la paura non c’è più, il disagio svanisce. Ma non c’è nessun sollievo per la sensazione che si prova quando la parola parla, ma non riusciamo a capire che dica, in realtà, quella parola. Il dubbio che produce questa sensazione è senza rimedio. Il piccolo umano ha bisogno di amore e di parole. Il primo, se lo riceve, lo tranquillizza, le seconde, che arrivano comunque, lo turbano. Secondo lo psicoanalista Jean Laplanche l’inconscio, nell’animale umano, è ciò che rimane di incompreso e quindi rimosso delle parole che il neonato riceve, e non comprende. L’umano ha un inconscio solo perché è un corpo che parla. L’inconscio è la traccia del linguaggio nel corpo umano. È il taglio del linguaggio. È un taglio perché, letteralmente, lo taglia in due: da una parte c’è il corpo che sente, che vede e agisce, così come è ogni corpo vivente; dall’altro c’è l’inconscio, che è un’incertezza che nessuna rassicurazione potrà mai placare. L’inconscio è un domanda, che non è che l’ennesima ripetizione della prima domanda che il piccolo umano pose a sé stesso – “che significano queste parole?” – una domanda che non ammette risposta, perché “sa” istintivamente che quelle cose sono parole, ma non sa (ancora) quale sia il loro significato. Per questo non è una domanda, bensì, propriamente, è un enigma, cioè appunto una domanda che non ammette risposte. Un enigma non è altro che un inarrestabile generatore di altre domande, di altri dubbi, di ulteriori insicurezze. Il corpo umano, il corpo segnato dal linguaggio, è il corpo dell’enigma. All’inizio, allora, c’è – come lo chiama Laplanche – un «messaggio enigmatico». All’inizio c’è una cosa che rimanda a qualcos’altro, ad un senso, che tuttavia non è possibile afferrare. Questa prima cicatrice, perché è dolente come una scottatura, come una ferita aperta, un altro psicoanalista – Jacques Lacan – la chiama «S[ignificante]1», dove quell’uno mette appunto in evidenza che tutto comincia in questo momento, da una parola che parla, e quindi si aspetta una risposta, e che tuttavia non si comprende, che per questa ragione innesca – come una reazione a catena – uno «spostamento che non cessa mai» (Lacan, 1991, trad. it. 2001, p. 181). L’animale umano, l’animale tagliato del linguaggio, è esattamente questo «spostamento che non cessa mai». In un ricordo di Kafka – ri-

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premessa

portato da un suo amico – troviamo una descrizione tremendamente efficace di questo processo di iscrizione corporea (che ricorda l’«erpice» del racconto Nella colonia penale, la macchina che incide sulla schiena del condannato il testo della norma che non ha rispettato): Qualche volta la cuoca borbottò: “Sei un ravachol!”. Non sapevo cosa fosse. Glielo chiesi, ma lei rispose: “Sei tu. Sei proprio un ravachol”. In questo modo mi fece entrare a far parte di un gruppo di uomini a me sconosciuto. Mi mise a parte di un oscuro segreto, che mi faceva rabbrividire. Ero un ravachol! La parola aveva su di me l’effetto di una terribile formula magica, che mi gettava in uno stato di tensione insopportabile. Per sfuggirvi, una sera che i miei genitori giocavano a carte nella sala da pranzo, chiesi loro che cosa era un ravachol. Mio padre mi rispose, senza alzare lo sguardo dalle carte: “È un delinquente, un assassino”. Devo avere fatto una faccia meravigliata e stupida, perché mia madre mi chiese preoccupata: “Dove l’hai sentito?”. Io balbettai qualche cosa. La consapevolezza che la cuoca aveva riconosciuto in me un delinquente mi paralizzava la lingua (Janouch, 1968, trad. it. 2014, p. 104).

C’è una parola, una parola qualunque, “ravachol” (dal nome di un celebre, al tempo, anarchico francese, François Koenigstein Ravachol). È un nome come un altro, in questo caso una parola che viene da un’altra lingua, un suono esotico. Non conta quale parola, conta che per qualche ragione proprio quella parola incide la carne del corpo. Il giovane Kafka non ha idea del significato di questa parola, ma capisce che comunque lo riguarda. Ma perché lo riguarda? Il giovane Kafka è forse davvero, come gli dice il padre, un delinquente? In realtà “ravachol” non è una descrizione, al contrario, è una sorta di ingiunzione: “se mi chiamano così allora sono davvero un delinquente!” La parola serve solo a dare sollievo ad un dubbio preesistente, al dubbio originario suscitato dal «messaggio enigmatico» che proviene dall’adulto. Quel messaggio, affatto incomprensibile, lascia dietro di sé una sensazione di incertezza, di sospetto, di inquietudine. Ora “ravachol” prende su di sé questo dubbio, ed è quasi un sollievo questa scoperta: “ecco perché mi sentivo così, non lo sapevo, in realtà sono un ravachol”: Il giorno dopo avevo la febbre. Mandarono a chiamare il medico e questi diagnosticò un’infiammazione della gola. […] Il nome ravachol non venne più pronunciato da noi, ma restò in me come un aculeo, o meglio come una punta spezzata di un ago che si muoverà attraverso il corpo. L’infiammazione alla gola sparì, ma io restai molto malato dentro di me, un ravachol! Esterior-

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premessa

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mente nulla era cambiato. Mi trattavano come prima, ma io sapevo di essere un bandito, un delinquente, in poche parole un ravachol. Questo mutò il mio comportamento. Non partecipai più alle zuffe con gli altri ragazzi e tornavo sempre a casa da bravo con la signorina. Non ci si doveva accorgere che ero un ravachol. “Ma questo non ha senso!” mi sfuggì [è l’amico di Kafka a parlare]. Al contrario – Kafka sorrise dolorosamente ―. Nulla resta attaccato all’anima quanto un senso di colpa infondato, perché – proprio perché non ha alcun fondamento – non c’è penitenza o riparazione che permetta di sbarazzarsene. Per questo restai un ravachol anche dopo che avevo apparentemente scordato già da molto tempo l’episodio con la cuoca e conoscevo ormai il vero significato della parola (Ivi, pp. 104-105).

Il «vero significato della parola» non conta nulla, perché non è per il suo significato che la parola è stata così potente. Non è stata la parola “ravachol” a introdurre il senso di colpa nel corpo di Kafka, perché quella sensazione di inadeguatezza, di disagio, di colpa infine era già lì prima di quell’incontro. Un senso di colpa rispetto alla propria inadeguatezza, al non essere capaci di venire a capo dell’originario «messaggio enigmatico»: quella colpa che si prova quando si sente di mancare al proprio compito. L’epiteto “ravachol” non racchiude il segreto del giovane Kafka, perché questo segreto non esiste: è però quell’S1 da cui prende le mosse quello «spostamento che non cessa mai» che racchiude il movimento di una esistenza. In effetti nell’incontro con il linguaggio non c’è solo un trauma, ma c’è anche, e forse soprattutto, una specie di compito. Le tre parti in cui si articola questo libro – Dal corpo alla parola, «Parlessere» e Dalla parola al corpo – provano infatti a descrivere il movimento del corpo umano rispetto al linguaggio. In effetti la questione antropologica posta dal rapporto fra Homo sapiens e linguaggio è proprio quella del corpo: perché la prima e fondamentale vittima del taglio operato dal linguaggio è appunto il corpo. Che cos’è infatti quel senso di colpa di cui parla Kafka se non la sensazione di non abitare il proprio corpo? Di essere separati da esso? L’animale abitato dall’inconscio è un corpo a disagio, perché in ogni momento percepisce di non essere tutto lì dov’è: «l’Io non è padrone in casa propria» (Freud, 1917, trad. it. 1976, p. 663). Se c’è un compito, per l’animale che parla, è provare a diventare, finalmente, un corpo. I capitoli 1, 2, 3, 4 e 6 di questo libro sono il risultato di una estesa rielaborazione di lavori già pubblicati: Psicoanalisi e natura umana è stato pubblicato sulla «Rivista di psicoanalisi», vol. 58, n. 2, 2012,

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premessa

pp. 475-488; La zecca e l’uomo. Antropologia e linguaggio fra Wittgenstein e Lacan, sulla «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», vol. 7, n. 2, 2013, pp. 38-52; Linguaggio e pulsione di morte riprende ed amplia in modo sostanziale un capitolo apparso nel volume Le ragioni della natura. La sfida naturalistica delle scienze della vita. Scritti in onore di Ninni Pennisi, a cura di Alessandra Falzone, Sebastiano Nucera, Francesco Parisi (Corisco Edizioni, Roma-Messina, pp. 181-191); L’impossibilità di un’esperienza integrale, ovvero il paradosso del ricordare, è un capitolo del volume La memoria e la storia, a cura di Paolo Coen e Galileo Violini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 239-254; L’immanenza della vita. D. H. Lawrence e la psicoanalisi, è apparso su «La psicoanalisi», vol. 51, 2012, pp. 277-295. Ringrazio gli editori e le direzioni delle riviste per avermi concesso di poter riprendere questi lavori.

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Dal corpo alla parola

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1. Psicoanalisi e natura umana

«La teoria psicoanalitica. Questa è metapsicologia; […] è la teoria dell’essere umano in quanto è affetto da un inconscio» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 88).

1. Homo psycho-analiticus Una teoria della natura umana, lo scrive esplicitamente Freud in Inibizione sintomo e angoscia (1926), è una teoria di ciò che caratterizza in modo specie-specifico l’animale umano. Va precisato che parlare di “natura umana” non equivale a sostenere che sia innata o immodificabile (ma nemmeno il contrario, peraltro). “Natura umana” è ciò che rende un corpo vivente un essere umano, e lo distingue – almeno per alcuni aspetti – dagli altri corpi viventi. Il problema, con l’animale umano, è complicato dal fatto che è difficile stabilire (forse è impossibile) quanto la “natura umana” sia inscritta nel “suo” corpo (nel “suo” DNA) e quanto, invece, sia “imposta” da una particolare concezione di ciò che sarebbe o dovrebbe essere “naturale” (non è possibile separare in modo netto, all’interno della “natura umana”, ciò che è immodificabile e ciò che non lo è, ciò che è dato e ciò che è costruito, ciò che è invariante e ciò che è storico). In un certo senso è proprio questa difficoltà, come vedremo, a definire la “natura umana”: quella di un corpo che non trova in quanto è specificato nel “suo” genoma tutte le informazioni necessarie per garantirne la maturazione e lo sviluppo (benché questo valga, anche se in misura minore, in tutti gli organismi viventi: cfr. Odling-Smee et al. 2003).

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il taglio

In questo senso una teoria psicoanalitica della “natura umana” è una teoria dello sviluppo umano. La specificità umana infatti risiede, per Freud, nel particolare modo in cui si forma la sua psiche/ corpo. Freud elenca tre fattori, biologico, filogenetico e psicologico, che caratterizzano questo processo. Il primo fattore è quello direttamente biologico: «la lungamente protratta impotenza e dipendenza del bambino piccolo. L’esistenza intrauterina dell’essere umano appare, in confronto a quella della maggioranza degli animali, relativamente più breve; esso viene mandato nel mondo più incompleto di loro. L’influenza del mondo esterno reale viene perciò rafforzata. […] Questo fattore biologico produce dunque le prime situazioni di pericolo e genera il bisogno di essere amati: bisogno che non abbandonerà l’uomo mai più» (Freud, 1926, trad. it. 1978, p. 301). L’animale umano viene al mondo «incompleto»; questo significa che non nasce con una dotazione naturale di istinti che gli consentano di cavarsela precocemente da solo. Un agnellino dopo pochi minuti dalla nascita si alza sulle zampe ed già in grado di seguire la madre che l’ha appena partorito. È ancora un corpicino gracile e vulnerabile, non sa ancora nulla del mondo che l’attende, però sa già, in modo innato, (quasi) tutto quello di cui ha bisogno per sopravvivere: dove prendere il nutrimento di cui ha bisogno, dai capezzoli della madre, in quale direzione dirigersi – dove va la madre – cosa fare se perde il contatto con lei, emettere un particolare belato. Tutto quello che serve all’agnellino per sopravvivere è già in funzione, anche se è presente in una forma ancora immatura e approssimata. Venire al mondo come organismo «incompleto», al contrario, significa letteralmente nascere ancora privo di alcune componenti necessarie per la propria sopravvivenza psico-fisica; di conseguenza questo organismo non è semplicemente immaturo (come nel caso dell’agnellino), è una psiche/corpo che deve essere riempita/completata. Per questa ragione avrà necessariamente bisogno di chi si prenda cura di lui. Da qui, anche, quel «bisogno di essere amati […] che non abbandonerà l’uomo mai più», proprio perché l’organismo umano fin dall’inizio non è, né mai potrà essere, autosufficiente. Il primo fattore della natura umana per Freud, allora, è collegato alla particolare costituzione biologica dell’animale umano, alla sua originaria incompletezza (Bolk, 1926). Il secondo fattore, quello filogenetico (che per Freud sarebbe una conseguenza della particolare storia evolutiva della nostra specie,

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1. psicoanalisi e natura umana

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in particolare come conseguenza delle condizioni di vita durante il periodo delle glaciazioni) ha a che fare con la peculiare sessualità dell’Homo sapiens: «noi riscontriamo che la vita sessuale dell’uomo non si sviluppa con stabilità e regolarità dall’inizio sino alla maturità come quella degli animali a lui prossimi, ma che dopo un suo primo fiorire che dura sino al quinto anno di vita, essa subisce una forte interruzione, dopodiché riprende di bel nuovo con la pubertà» (Freud, 1926, trad. it. 1978, p. 302). Questa è la grande scoperta (sempre di nuovo rimossa) di Freud, i «due tempi» (Freud 1905, trad. it. 1970, p. 507) della sessualità umana: all’inizio, fino appunto ai cinque anni circa d’età, la sessualità umana non ha di mira la riproduzione, non è cioè subordinata all’istinto riproduttivo; è una sessualità, secondo la sua celebre formula, segnata da una «disposizione perversa polimorfa» (Ivi, p. 499). Solo in seguito, alla pubertà, cioè anni dopo, entrerà in campo la sessualità biologica, genitale, riproduttiva. Qual è il significato di questa particolarità filogenetica umana? Torniamo per un momento all’agnellino che abbiamo lasciato mentre segue ancora un po’ traballante la madre che bruca sul prato. In questo caso prima viene il comportamento istintivo, quello innato, e poi quello appreso: l’agnellino imparerà, ad esempio, a riconoscere il pastore fra gli altri umani che gli capiterà di incontrare, oppure imparerà che certe erbe sono più dolci e morbide rispetto ad altre che sono dure e dal sapore aspro. L’appreso viene dopo l’innato. Nel caso della sessualità umana accade propriamente il contrario: «nella sessualità umana e nel suo sviluppo, l’acquisito sopraggiunge non sulla base dell’innato, ma prima dell’innato. Questo è molto importante, soprattutto per la psicologia dell’adolescenza, giacché nel momento in cui l’istinto entra in scena, il terreno è già interamente “occupato” dalla pulsione e dal suo supporto, il fantasma» (Laplanche, 1993, 1999, trad. it. 2000, p. 110). Nel processo di formazione dell’animale umano è previsto uno spazio libero, non da subito presidiato dall’istinto, strutturalmente aperto all’influenza esterna; uno spazio, presidiato invece dalla pulsione, all’interno del quale il piccolo umano prende forma (Cimatti, 2000; Ludovico, 2006). Vedremo più avanti quali sono, in particolare, le caratteristiche di questa originaria sessualità pulsionale, non istintiva; per ora è importante sottolineare che è qui, in questo intervallo pulsionale, che si costituisce lo specifico corpo/ psiche umano.

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il taglio

Il terzo fattore che per Freud definisce la nostra natura è quello psicologico, che «risiede in una imperfezione del nostro apparato psichico, la quale si connette propriamente con la differenziazione di questo in un Io e in un Es» (Freud, 1926, trad. it. 1978, p. 302). L’Io non è un’istanza originaria, autonoma e unitaria (ecco perché per Freud questa è una «imperfezione» dell’Io); deriva dall’Es, e rimarrà sempre sotto la sua influenza, non se ne staccherà mai del tutto. Anche l’Io, possiamo aggiungere, è «incompleto», nel senso che non basta a sé stesso, ha bisogno di integrazioni e complementi che devono necessariamente giungere dall’esterno, altrimenti semplicemente l’Io non può formarsi. In questo senso è corretto parlare dell’Io, secondo l’espressione di Lacan, come di un «taglio» (Lacan, 1973, trad. it. 1979, p. 44). L’elemento comune fra i tre fattori elencati da Freud, biologico, filogenetico e psicologico, è quindi l’ampio intervallo che si apre fra la venuta al mondo del piccolo sapiens e il momento della sua maturazione istintiva (in primo luogo corporea e sessuale, ma anche psicologica). È qui, nel lungo intervallo pulsionale che precede l’arrivo dell’istinto, che secondo Freud e la psicoanalisi dobbiamo cercare la natura umana, ossia ciò che rende i corpi che siamo corpi umani. 2. La «situazione antropologica fondamentale» Torniamo alla grande scoperta freudiana. La sessualità specificamente umana, quella cioè che non condividiamo con altri animali, è una sessualità pulsionale (Triebe), non una sessualità istintiva (Instinkt) e quindi genitale e riproduttiva, questa sì comune a tutti gli animali. Jean Laplanche, propone di definire la sessualità pulsionale con il termine «sexuale [che] non è il sessuato; è essenzialmente il sessuale perverso infantile» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 149). Qui è importante precisare la differenza, che è fondamentale per il tema della natura umana, fra una pulsione e un istinto: un comportamento istintivo, secondo l’etologia, è «un meccanismo nervoso, gerarchicamente organizzato, che è sensibile a determinati impulsi preparatorî, scatenanti e orientanti, di origine interna come pure esterna, e che risponde a tali impulsi con movimenti coordinati i quali contribuiscono alla conservazione dell’individuo e della spe-

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1. psicoanalisi e natura umana

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cie» (Tinbergen, 1951, trad. it. 1994, p. 166). Un comportamento istintivo ha una immediata ed evidente funzione adattativa: l’istinto sessuale, ad esempio, è innato, è innescato da certi stimoli interni (ormoni) ed esterni (come particolari segnali corporei e/o ambientali), è articolato in una serie di passi piuttosto rigidi, e ha uno scopo biologico determinato, la riproduzione della specie. Per questa ragione, una volta che lo scopo adattativo è stato raggiunto subentra una fase di equilibrio istintuale, in cui lo stato di tensione è superato. Lo schema di funzionamento della pulsione è completamente diverso: laddove l’istinto è «innato, atavico e endogeno» la pulsione è «acquisita ed epigenetica» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 12), non è «necessariamente adattativa» (Ivi, p. 13), e infine e soprattutto «ricerca l’eccitamento anche a costo dell’esaurimento totale» (Ivi, p. 14). Qui, forse, c’è la differenza maggiore fra il «sexuale» ed il sessuale: il primo «non è un piacere da acquietamento, è un piacere da aumento di tensione. Infatti, niente permette di affermare che il “piacere-desiderio” infantile corrisponda ad una tensione fisiologica interna e che esiga una scarica» (Ivi, p. 19). L’aspetto forse più rilevante della scoperta del «sexuale», rispetto al tema della natura umana, è che introduce una frattura non ricomponibile – quella appunto fra pulsione e istinto – all’interno del corpo/psiche umano. Una frattura che non deve essere interpretata come un’ennesima e ripetitiva variante dell’usurata distinzione fra mente e corpo, o fra culturale e naturale. La pulsione è la carne dell’umano, e il fatto che non sia istintiva non la rende per questo meno biologicamente caratterizzata; al contrario, abbiamo visto con Freud che l’«incompletezza» è la caratteristica biologica distintiva dell’animale umano. In questo senso la pulsione è il dispositivo, «al limite fra lo psichico e il corporeo» (Freud, 1905, trad. it. 1970, p. 479), che proviene dall’esterno, predisposto a colmare quella naturale incompletezza. Se la pulsione non è endogena, da dove viene, e soprattutto, che cos’è, propriamente, il «sexuale»? Finora, infatti, abbiamo soltanto trovato la causa biologica (la costitutiva incompletezza alla nascita della specie Homo sapiens) che dischiude lo spazio per l’arrivo, dall’esterno, di quel necessario complemento senza del quale l’umanità del piccolo sapiens non si realizza. Qual è la situazione che troviamo, e non possiamo non trovare, all’inizio dello sviluppo di ogni animale umano? In effetti, prima ancora dell’Edipo, c’è quella che Laplanche chiama la

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«situazione antropologica fondamentale» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 95): un piccolo sapiens e un adulto che si prende cura di lui. Questa situazione è antropologicamente fondamentale in almeno due sensi; perché se l’adulto non c’è il piccolo non sopravvive, perché non è necessario che l’adulto sia anche uno dei genitori del piccolo (ciò che è reso in modo ancora più evidente oggigiorno che le biotecnologie permettono la nascita di esseri umani anche da un corpo che non è quello della madre, come si sarebbe detto un tempo, naturale). All’inizio c’è una relazione di cura, un adulto e un neonato della specie umana. Ora, si chiede Laplanche, che tipo di relazione si stabilisce fra questi due organismi? Il pregiudizio relazionale (ed ermeneutico) di questi anni vorrebbe che si trattasse di una relazione reciproca e simmetrica; ma appunto questo è solo un pregiudizio. In realtà si tratta di una relazione fortemente e strutturalmente asimmetrica: infatti da un lato c’è un adulto «che ha un inconscio così come è stato scoperto dalla psicoanalisi, un inconscio sessuale, essenzialmente fatto di residui infantili, un inconscio perverso nel senso dei Tre saggi sulla teoria sessuale» (Ivi, p. 95); dall’altro c’è un bambino «che non ha montaggi sessuali genetici, che non ha attivatori ormonali della sessualità» (Ivi, p. 95). Fra questi due organismi, al di là di eventuali casi di seduzione patologica, «si sviluppa un dialogo, una comunicazione adulto-infans» (Ivi, p. 96); un dialogo non esplicitamente linguistico, tutto corporeo, fatto di gesti e sguardi. Un dialogo, però, affatto asimmetrico, perché mentre l’adulto è un organismo «affetto da un inconscio» (Ivi, p. 88), l’infans ne è ancora privo. La «situazione antropologica fondamentale» è quella in cui assistiamo letteralmente ad un «impianto» (Laplanche, 1992, 1997, trad. it. 2000, p. 451) dell’inconscio dell’adulto nella psiche/corpo del piccolo sapiens. Un «impianto» che può avvenire proprio perché la particolare costituzione biologica dell’animale umano ha predisposto lo spazio – quello che abbiamo definito come intervallo pulsionale – prima dell’arrivo dell’istinto, all’interno del quale lo potesse accogliere. All’inizio c’è allora un «messaggio» non verbale, implicito, che arriva dall’adulto, un «messaggio […] parassitato […] disturbato» che proviene dall’«inconscio infantile dell’adulto, nella misura in cui la situazione adulto-infans è una situazione che riattiva queste pulsioni inconsce infantili» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 96). Per Laplanche l’inconscio del piccolo sapiens nasce in questo incontro («genesi esogena dell’inconscio», Laplanche, 1992, 1997,

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trad. it. 2000, p. 17), un inconscio che non è cioè precedente alla «situazione antropologica fondamentale». E nasce attraverso questa «esperienza di seduzione» (Ivi, p. 73) a cui nessun umano sfugge né può sfuggire, perché altrimenti non potrebbe diventare umano. E nasce a partire da un «messaggio enigmatico dell’adulto», enigmatico appunto perché «contaminato dal [suo] sessuale» inconscio. Laplanche prova a rappresentare la «situazione antropologica fondamentale» con lo schema qui sotto (Ivi, p. 73):

Figura 1

Il corpo/psiche umano che si sta formando è il punto di giunzione fra il «messaggio enigmatico» che proviene dall’adulto, che viene impiantato in quello stesso corpo, dando origine così al «sexuale» dell’infans. Il nocciolo dinamico della natura umana, secondo Laplanche, è colto in questo schema: c’è la «situazione antropologica fondamentale», cioè c’è una comunicazione adulto-infans; un «messaggio enigmatico […] “compromesso” dall’inconscio» (Ivi, p. 189) che proviene dall’adulto; prima di questa comunicazione non esiste ancora, nell’infans, un inconscio; poi avviene l’«impianto», da cui origina la «neogenesi del sessuale nel bambino» (Ivi, p. 73); la coscienza dell’infans, infine, si costruirà proprio nel tentativo di trovare un senso al «messaggio enigmatico» dell’adulto: «ciò che conta, in questa situazione, in fin dei conti, è ciò che ne fa il ricettore, ossia, precisamente, il tentativo di traduzione ed il necessario fallimento di questo tentativo» (Ivi, p. 73).

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3. Per una storia dell’inconscio All’inizio dello sviluppo umano c’è allora un «messaggio enigmatico», questo è il nucleo fondativo di ogni sapiens. La natura umana, secondo la psicoanalisi (o almeno, questa versione della psicoanalisi: però una versione, si ammetterà, particolarmente chiara nelle premesse biologiche e nelle conseguenze psichiche), si colloca al di fuori della psiche/corpo del piccolo sapiens: «i processi in cui l’individuo manifesta la sua attività» – cioè appunto quelli che segnano la nascita della sua coscienza – «sono tutti secondarî rispetto al tempo originario, che è quello di una passività: la stessa della seduzione» (Laplanche, 1992, 1997, trad. it. 2000, p. 453). Si tratta di analizzare più da vicino, a questo punto, che succede, dell’originario «messaggio enigmatico». Il punto di partenza è che si tratta di un messaggio che non può essere tradotto e compreso, almeno in modo integrale. E non può per almeno due ragioni: perché il piccolo umano non dispone delle risorse linguistiche, e semiotiche in generale, per tradurlo; perché il messaggio è opaco anche per chi lo comunica, l’adulto. Il punto di partenza, allora, è che «nella comunicazione originale il messaggio adulto non può essere colto nella sua totalità contraddittoria», perché «vi si mescolano, per esempio, amore e odio, acquietamento ed eccitamento, latte e seno, seno “contenente” e seno eccitato sessualmente ecc.» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 191). Questa «totalità contraddittoria» non può essere elaborata, e tuttavia viene inscritta nel corpo/psiche dell’infans. Questo «impianto» iniziale è all’origine dell’inconscio del piccolo umano. Come nasce, allora, l’inconscio? «Indico con questo il fatto che i significanti apportati dall’adulto» – perché il messaggio enigmatico, in quanto enigmatico, non è ancora neanche propriamente inteso come messaggio, e allora rimangono soltanto il significante, ossia il corpo materiale del segno, non il significato (Laplanche non smette di essere allievo di Lacan) – «sono fissati, come in superficie, nel derma psico-fisiologico di un soggetto nel quale non è ancora differenziata un’istanza inconscia. Su questi significanti ricevuti passivamente si effettuano i primi tentativi attivi di traduzione, i cui resti sono il rimosso originario (oggetti-fonte)» (Laplanche, 1992, 1997, trad. it. 2000, p. 454). Arriva il messaggio, un messaggio che non può non arrivare, perché ogni infans passa per la «situazione antropologica

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fondamentale», e parte il tentativo di comprenderne il senso; ma questa operazione è destinata a fallire, in misura più o meno estesa, perché il piccolo umano semplicemente non è in grado di cogliere quel senso nella sua «totalità contraddittoria». Qui di seguito presentiamo lo schema di Laplanche che cerca di dare conto in senso dinamico di questa situazione (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 197):

Figura 2

All’inizio c’è l’altro, che però non è «l’Altro metafisico», è, in base all’impostazione biologica freudiana, «l’altro della seduzione originaria, in primo luogo l’altro adulto» (Laplanche, 1992, 1997, trad. it. 2000, p. 454). Un altro che si prende cura del piccolo infans. Questa operazione, che lo ribadiamo è biologicamente necessaria, non è semplicemente una relazione di cura, però, come quella che può accadere fra un animale non umano e la sua prole (ammesso che negli altri animali vada in modo così semplice). Questa relazione è segnata dall’inconscio dell’adulto, che rivive in questa situazione quello che lui stesso aveva vissuto quando era lui l’infans; in questo senso è l’inconscio infantile, sostiene Laplanche, ad intromettersi nella sua relazione con il piccolo umano. Da questa intromissione deriva che il messag-

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gio che proviene dall’adulto è un messaggio enigmatico. Una parte di questo enigma rimane intraducibile e incomprensibile, e va a formare l’«inconscio intercluso». Un’altra parte, quella che il piccolo umano riesce in qualche modo a tradurre, dà origine da un lato al «preconscio», che appunto coincide con questa operazione di «traduzione», e dall’altra, quella composta dai residui non tradotti, all’«inconscio rimosso». Questa è una vera e propria storia naturale dell’inconscio: ciò che […] contestiamo è la nozione di un Es primordiale, all’origine della vita psichica, idea che va direttamente nella direzione contraria alla novità implicata nella nozione di pulsione, in quanto processo sessuale non adattato (nell’uomo) ad una meta prestabilita. Se la nozione di Es conserva un senso, è per caratterizzare l’inconscio rimosso che, per la sua alterità, diventa veramente “qualche cosa in noi”, un “corpo estraneo”, un “Es” (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 190).

Il nucleo costitutivo dell’umano è rappresentato dal tentativo, che non può non fallire, ma che allo stesso tempo non può non essere sempre di nuovo ripreso, di tradurre un originario messaggio ed enigmatico. Il modello della natura umana che stiamo delineando in queste pagine, il modello psicoanalitico (cercando di mettere insieme Freud, Lacan e Laplanche), dà conto della formazione dell’inconscio, del perché della pulsione, e infine di come si formi l’Io: «la traduzione, o il tentativo di traduzione, ha la funzione di fondare, nell’apparato psichico, un livello preconscio. Il preconscio – essenzialmente l’Io – corrisponde al modo in cui il soggetto si costituisce, si rappresenta la sua storia. La traduzione dei messaggi dell’altro adulto è essenzialmente una storicizzazione, più o meno coerente» (Ivi, p. 192). Una operazione di «storicizzazione» che può riuscire in molti modi, talvolta non riuscire affatto. È qui che questo modello colloca il nodo problematico dello sviluppo umano; perché quando si assiste ad un «fallimento radicale della traduzione» (Ivi, p. 193) allora l’incombere dell’inconscio diventa invasivo. Qui, ancora, nel processo di traduzione, si collocano le tecniche medico-culturali che in vario modo hanno da sempre cercato di tradurre/contenere la presenza inquietante e minacciosa dell’altro dentro di noi, dell’inconscio (si pensi all’uso psicoanalitico che si potrebbe fare della nozione di «crisi della presenza» di Ernesto De Martino, 2002). In questa rappresentazione dell’animale umano è contenuto inoltre anche un vettore in qualche modo etico, aspetto inseparabile da

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ogni pratica medica. Secondo questa visione della natura umana c’è un compito, per l’umano. Se all’inizio c’è un messaggio enigmatico, un messaggio che turba e sollecita una ulteriore domanda, a cui perè non potremo mai rispondere, il compito che spetta a ciascun umano, proprio per diventare umano (ché l’umano coincide con questo tentativo) consiste nello sforzo di tradurre questo messaggio, provare comunque a tradurlo. O meglio, il compito consiste nel guardare dritto negli occhi questo enigma. Non è un caso che Freud colleghi strettamente la «pulsione di sapere», è questo il compito di cui stiamo parlando, alla pulsione sessuale, al «sexuale» di Laplanche: «nella stessa epoca nella quale la vita sessuale del bambino raggiunge la sua prima fioritura, dal terzo al quinto anno, subentrano in lui anche i primordi di quell’attività che si attribuisce alla pulsione di sapere o di ricerca», una pulsione, continua Freud, particolarmente «attratta dai problemi sessuali, [che] anzi ne è forse risvegliata per la prima volta» (Freud 1905, trad. it. 1970, pp. 502-503). Dal messaggio enigmatico dell’altro deriva l’inconscio rimosso, e da questo, a loro volta, derivano le pulsioni «che si possono considerare […] come l’ “esigenza di lavoro” imposta al corpo dal suo legame con i significanti inconsci primari» (Laplanche, 2007, trad. it. 2007, p. 193). Il compito dell’animale umano è quindi quello «della messa in storia e opera» del rimosso, il «movimento della simbolizzazionetraduzione» dei residui intradotti del messaggio originario (Ivi, p. 276); ed è qui, in questo passaggio, che opera la psicoanalisi, come scienza che identifica il suo oggetto nel «sexuale». 4. Inconscio, soggetto e linguaggio Si pone, in questo modello della natura umana, un’ultima questione, il rapporto fra quel che siamo ed il linguaggio. È il problema che solleva Lacan rispetto ad ogni visione dell’umano che non consideri la realtà della pulsione, e in particolare la differenza che esiste fra istinto e pulsione: «ciò che la psicoanalisi vuole insegnarci è che, nell’uomo, il sessuale di origine intersoggettiva, dunque il pulsionale, il sessuale acquisito [cioè il sexuale], cosa assolutamente strana, viene prima dell’innato. La pulsione viene prima dell’istinto, il fantasma viene prima della funzione; e quando arriva l’istinto sessuale,

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la poltrona è già occupata» (Ivi, p. 22). Ora, cos’è questo «sessuale di origine intersoggettiva»? L’abbiamo visto, è il sessuale inconscio adulto, è il suo messaggio ambiguo, enigmatico, è un gesto che non è soltanto il gesto che è, carezza o scapaccione, è anche qualcos’altro, un altro ignoto tanto a chi lo compie che a chi lo riceve. È un gesto, un movimento del corpo, un significante infine, che richiede che gli venga assegnato un senso, che richiede una traduzione. L’Io è appunto questo tentativo di rendere conto di questo messaggio ambiguo. «L’inconscio come istinto», scrive Lacan in I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, «tutto ciò non ha nulla a che fare con l’inconscio di Freud» (Lacan, 1973, trad. it. 1979, p. 128). Appunto, perché questo inconscio non è quello umano, quello che nasce dall’incontro con il messaggio enigmatico che proviene dall’altro; al contrario, se è della natura umana che ci occupiamo, «l’inconscio è la somma degli effetti della parola su un soggetto, a quel livello in cui il soggetto si costituisce dagli effetti del significante» (Ibidem). Questa affermazione, nel quadro che abbiamo finora delineato, è letteralmente vera: l’inconscio dell’infans nasce a partire da un significante, il residuo intradotto di un messaggio che proviene dall’esterno. Sostenere allora che «l’inconscio» è «fatto di linguaggio» (Ivi, p. 200), appare quasi come una affermazione zoologica, una descrizione del modo in cui si costruisce, a partire dalla «situazione antropologica fondamentale», l’animale umano; e così, continuando su questa linea argomentativa, «il soggetto, in initio, comincia nel luogo dell’Altro, in quanto è lì che sorge il primo significante» (Ivi, p. 201). Cos’è l’Altro, quindi? È il luogo di provenienza del messaggio enigmatico, un Altro che proprio per questa ragione non sarà mai raggiungibile, mai del tutto integrabile nel quadro della coscienza. Una coscienza, peraltro, che come abbiamo visto di fatto coincide con il tentativo di risalire a questo Altro. In questa ricostruzione può diventare perspicua un’altra formula lacaniana, quella per cui «un significante è ciò che rappresenta un soggetto per […] un altro significante» (Ivi, p. 201). All’inizio c’è un messaggio, un significante appunto, e poi – solo successivamente – arriva in campo un soggetto, che si costruisce proprio attorno ad esso, allo sforzo di integrarlo, di farlo proprio. Tentare questa operazione significa, di fatto, cercare di ricondurre questo significante ad un altro ed ulteriore significante, attraverso il quale poter spiegare il

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primo. Il soggetto è allora ciò che permette il passaggio da un significante all’altro; ad esempio, come abbiamo prima visto in Laplanche, è colui che, dopo aver ricevuto l’«impianto» del sessuale inconscio adulto, riproduce a sua volta questa operazione quando viene a contatto con un altro infans. Proviamo ad illustrare questa situazione nello schema qui sotto:

Figura 3

Non sarà un caso, allora, che lo stesso Lacan, per spiegare questa formula, ricorra all’esempio di un segno enigmatico, cioè un oggetto che si riconosce come artefatto semiotico, ma il cui senso è incomprensibile: «supponete di scoprire nel deserto una pietra coperta di geroglifici. Voi non dubitate nemmeno per un momento che dietro ci sia stato un soggetto che li ha scritti. Ma credere che ogni significante sia indirizzato a voi, è un errore – come prova il fatto che potete non capirci niente. Invece li definite come significanti, perché siete sicuri che ciascuno di questi significanti si rapporta a ciascuno degli altri. Di questo si tratta nel rapporto del soggetto con il campo dell’Altro» (Ivi, pp. 201-202). C’è un deserto, uno spazio vuoto, e poi appare questo oggetto, una pietra su cui sono tracciate linee misteriose; qualcuno le avrà tracciate, queste linee, ci sarà stata un’intenzione, dietro di esse. Ed ecco che dal soggetto ci muoviamo verso un altro significante, allora. E così, prosegue Lacan, «il soggetto nasce in quanto nel campo dell’Altro sorge il significante. Ma, per questo stesso fatto, ciò – che prima non era nulla, se non soggetto a venire – si fissa come significante» (Ivi, p. 202). Perché il soggetto è questo movimento, generato da un significante intradotto, verso un ulteriore significante che possa servire per disambiguare il primo. Ma questo movimento non è quello dell’ermeneutica, che si compiace di non essere altro che questo stes-

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so movimento, perché se è vero che l’inconscio «sono gli effetti della parola sul soggetto» (p. 151), è altrettanto vero che c’è un «realismo dell’inconscio» (p. 155). In realtà può esserci un io proprio e solo perché c’è un inconscio: «l’Es è ciò che nel soggetto ha la possibilità di diventare, tramite il messaggio dell’Altro, io (je)» (Lacan, 1994, trad. it. 2007, p. 41). Se l’Es non ci fosse non potrebbe esserci Io. L’Io c’è, quindi l’Es deve esserci. E l’Es, appunto, «non è una realtà grezza», come vorrebbe la lettura semplificatoria e istintuale dell’inconscio, «né semplicemente quel che è prima, l’Es è già organizzato, articolato, come organizzato e articolato è il significante» (Ibidem). Qui ritorna la fondamentale distinzione fra pulsione e istinto da cui sono partite queste osservazioni; una distinzione necessaria proprio perché è la natura umana che ci interessa, e una visione dell’umano che trascuri la realtà della pulsione non è biologicamente adeguata: quel che metto al principio dell’esperienza analitica è la nozione che vi è del significante già istallato e già strutturato. Vi è una centrale già fatta e che funziona. E non siete voi ad averla fatta. Questa centrale è il linguaggio, che funziona da così tanto tempo quanto il vostro ricordo. Letteralmente, non potete ricordarvi più in là, parlo della storia dell’umanità nel suo insieme. Da quando vi sono dei significanti che funzionano, i soggetti sono organizzati nella loro psiche dal gioco proprio di tali significanti. Di conseguenza l’Es, che andate cercando nel profondo, non è qualcosa di tanto naturale, lo è ancor meno delle immagini (Ivi, p. 45).

L’inconscio non è «naturale» nel senso che non è un istinto, non è qualcosa da cercare «nel profondo», è qualcosa che viene dall’esterno del corpo, dalla relazione adulto-infans come si stabilisce nella «situazione antropologica fondamentale». Per questo l’inconscio e la pulsione rimandano ad «un ambiente assai più importante» (per comprendere l’umanità dell’animale umano) di quello direttamente biologico (quello che invece vale per ogni mammifero, Homo sapiens compreso), «vale a dire a quello legale, l’ordine simbolico» (Ivi, p. 199). La teoria della natura umana della psicoanalisi si basa su una premessa biologica, la costituiva incompletezza alla nascita dell’infans. L’umano matura in senso biologico, cioè diventa capace di riprodursi, molti anni dopo che ha cominciato a svilupparsi psichicamente (l’istinto arriva dopo la pulsione). Questa sorta di parentesi istintuale, soprattutto nei primi anni di vita, dischiude lo spazio all’influenza dell’inconscio sessuale adulto sul corpo/psiche dell’infans. Questo influsso, che

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si impianta nel bambino attraverso i messaggi enigmatici che provengono dall’adulto, è all’origine del suo inconscio. Il soggetto che risulta da questa combinazione è il «soggetto barrato», l’«$» di Lacan, cioè il soggetto «marcato dalla condizione che lo subordina […] all’Altro» (Lacan, 1988, trad. it. 2004, p. 487). La psicoanalisi è la scienza delle conseguenze di questo impianto; in particolare il suo oggetto specifico è il «sexuale», cioè la sessualità non riproduttiva come si costruisce nella «situazione antropologica fondamentale» (la relazione adultoinfans). Lo scopo terapeutico della psicoanalisi è di consentire al soggetto di abitare questa scomoda ma inevitabile condizione, non promettendo una via d’uscita che non esiste, piuttosto cercando di trovare al suo interno inediti e imprevisti spazi di libertà, rimettendo in campo «il desiderio di desiderare» (Lacan, 1986, trad. it. 2008, p. 358). Il linguaggio, dapprima non verbale e corporale, successivamente quello esplicito delle lingue, gioca un ruolo decisivo in tutto questo processo, perché diventa il corpo stesso dell’animale umano: «la parola [parole] infatti è un dono di linguaggio, e il linguaggio non è immateriale. È corpo sottile, ma è corpo» (Lacan, 1966, trad. it. 1974, p. 294).

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2. La zecca e l’uomo.

«dans tout ce que Freud a apporté de fulgurant en psychologie [on doit reconnaître] l’effet de cisaille que le langage apporte dans les fonctions de l’animal qui parle» (Lacan, Autres écrits, p. 224). «Je sais qu’il est très captivant de lire Wittgenstein» (Lacan, Séminaire XIX, … ou pire, p. 88).

1. «Ambiente» e «mondo» Mentre «l’animale» non umano – scrive Max Scheler in La posizione dell’uomo nel cosmo (1928) – «vive immerso nella realtà concreta […] essere uomini significa», al contrario, «proferire nei confronti di questo tipo di realtà un energico “no”» (Scheler, 1928, trad. it. 1997, p. 156). In questo lavoro ci occuperemo di questo “no”. Ci interessa, in particolare, provare a capire quali sono le conseguenze psichiche ed esistenziali dell’essere un vivente capace di dire “no” alla «realtà concreta» (in nessun sistema di comunicazione naturale di animali non umani sembra esistere un segno simile al “no” delle lingue umane; cfr. Hauser, Konishi, 1999.). L’antropologia filosofica ha come oggetto specifico proprio questo atto linguistico originario, perché è da quel “no” che nasce l’animale umano (senza “no” non può esserci la separazione fra “soggetto” e “oggetto”, e quindi autocoscienza e “io”). In questo senso il problema centrale dell’antropologia filosofica è il rapporto fra Homo sapiens e facoltà del linguaggio (appunto perché “no” è un atto linguistico). Pertanto in questo lavoro ci poniamo questa domanda: qual è lo stato d’animo fondamentale dell’animale capace di dire

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“no”? Per provare a rispondere confronteremo alcune proposizioni del Tractatus di Ludwig Wittgenstein con il pensiero dello psicoanalista Jacques Lacan. Lacan si occupa poco di Wittgenstein (secondo Krutzen 2009, nel Seminario XVII, lezione del 21 gennaio 1970, nel Seminario XIX, lezione del 9 febbraio 1972, fra i seminari pubblicati. All’interno di quelli non ancora pubblicati Lacan si riferisce a Wittgenstein nel Seminario IX, lezione del 15 novembre 1961, e nel Seminario XIV, lezione del 18 gennaio 1967), quindi non è delle corrispondenze esplicite fra i due autori che ci occuperemo in questo capitolo. Quello che ci interessa è la vicinanza teorica fra Wittgenstein e Lacan. Una vicinanza che nasce dal fatto che per entrambi (insieme, forse, a Heidegger, ma non con la loro stessa nettezza) non c’è umano senza linguaggio. Wittgenstein e Lacan, in particolare, hanno provato a pensare quello che desidera un corpo segnato dal “no”. Perché il “no” divide: corpo e mente, soggetto e oggetto, dentro e fuori. Il desiderio ultimo dell’animale che parla è trovare un modo per uscire da questa condizione di costitutiva separatezza. Homo sapiens è un animale come tutti gli altri. E come tutti i viventi è adattato ad un ambiente particolare (von Uexküll, 1934). Ogni specie vivente è infatti adattata ad un «ambiente» specifico (Gibson, 1966). Questo significa che ogni animale viene al mondo con una serie (innata) di predisposizioni che gli permettono di “incastrarsi” in modo efficace al suo interno (come le pinne dei pesci all’ambiente acquatico (v. Figura 1); da notare che per ora non è necessario precisare chi sia il vivente e quale sia l’ambiente, perché questa distinzione, da un punto di vista biologico, è secondaria, rispetto al primato della relazione):

Figura 1

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2. la zecca e l’uomo

L’«ambiente» non coincide con il mondo fisico, le rocce gli alberi la pioggia e così via. Questo mondo è comune a tutti i viventi, ma ogni specie prende in considerazione soltanto alcuni aspetti del mondo, trascurando tutti gli infiniti altri. L’esempio di von Uexküll è quello, celebre (ripreso ad esempio da Heidegger), della zecca: questo artropodo rimane in attesa (anche molto a lungo), del passaggio di un mammifero, che percepisce attraverso una sostanza odorosa secréta dai follicoli sebacei, l’acido butirrico (è un acido presente nei grassi animali). La zecca (quella nella Figura 2 è un esemplare di Rhipicephalus sanguineus, la zecca del cane) è attratta dai mammiferi perché ha bisogno del loro sangue per il proprio ciclo vitale.

Figura 2

Ora, come fa la zecca a individuare un mammifero fra tutti gli altri oggetti, viventi e no, con cui entra in contatto? Si tenga conto che la zecca è cieca e sorda. Percepisce il cane attraverso l’olfatto, l’annusa. Qui è importante notare la differenza fra mondo e «ambiente»: nel mondo (un’entità che – se seguiamo von Uexküll – possiamo pensare soltanto noi umani) ci sono segnali visivi, ad esempio, che potrebbero essere usati dalla zecca per distinguere un cane da una rana. Per la zecca, però, l’informazione visiva non è pertinente. Il mondo è pieno di luce, ma non nell’«ambiente» della zecca. In questo senso la zecca non deve prestare attenzione agli stimoli visivi, ma solo a quelli odorosi. In realtà l’«ambiente» della zecca è molto più specifico; di

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tutti i possibili odori e profumi del mondo soltanto uno attira la sua attenzione, l’acido butirrico appunto, che rappresenta per la zecca un «segno percettivo» (Merkzeichen) che innesca un comportamento altrettanto specifico: quando percepisce questo odore la zecca si lascia cadere dal ramo su cui si nascondeva, per cadere sulla pelle del mammifero. Per questo più sopra abbiamo scritto che ogni organismo vivente si “incastra” in un «ambiente» particolare. Nella Figura 1 abbiamo provato a rappresentare visivamente questa situazione biologica fondamentale: la sfera è il «segno percettivo» a cui corrisponde un altrettanto specifico dispositivo sensoriale “predisposto” a percepirlo: la superficie concava “è fatta” per accogliere la sfera (e secondo alcuni biologi vale anche il contrario, la sfera – in un processo coevolutivo fra organismo e «ambiente» – è “fatta” per adattarsi alla superficie concava; cfr. Odling-Smee, Laland, Feldman, 2003). Questo schema – nelle sue linee generali – vale per tutti i viventi, Homo sapiens compreso. Ogni vivente infatti nasce con bisogni e dotazioni corporee determinati che si adattano in particolare ad un «ambiente» specie-specifico. Si pensi al modo in cui il piccolo della specie umana presta particolare attenzione agli stimoli linguistici (Kuhl, 2004). Si tratta di una evidente predisposizione innata: il piccolo della specie Homo sapiens “si aspetta” di trovare nel suo ambiente naturale degli stimoli particolari, i suoni linguistici. Anche in questo caso una predisposizione innata si “incastra” in uno stimolo particolare. Uno stimolo specie-specifico, perché lo stesso suono linguistico non è che un rumore per un gatto. 2. Esiste un «ambiente» umano? Ma quali sono gli aspetti caratteristici dell’«ambiente» umano: se la zecca, ad esempio, è adattata all’acido butirrico, c’è qualcosa di equivalente per l’animale umano? Nel Tractatus Wittgenstein distingue il «mondo» (Welt), che è «la totalità degli stati di cose esistenti» (§ 2.04) dalla «realtà» (Wirklichkeit), che invece è «il sussistere o non sussistere di stati di cose» (§ 2.06). La «realtà» è quindi più ampia del mondo, nel senso che contiene più “roba” di quella contenuta nel mondo. Il mondo è «la totalità dei fatti» (§ 1.1), ed un «fatto» è «il sussistere di stati di cose» (§ 2), cioè «un nesso di oggetti (entità,

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cose)» (§. 2.01). Nella Figura 3 proviamo a rendere visivamente evidente la distinzione fra «mondo» e «realtà»: il primo è la superficie grigia, la seconda quella più ampia che la contiene.

Figura 3

Ma se il «mondo» è «la totalità dei fatti», che cos’altro può esserci nella «realtà» per giustificare questa differenza? Wittgenstein ce l’ha già detto: la realtà è «il sussistere o non sussistere di stati di cose». Ma questo vuol dire che nella «realtà» umana oltre agli «stati di cose» che sussistono (come le nuvole nel cielo in questo momento), ci sono anche quelli che non sussistono: per Wittgenstein esistono due tipi di fatti: «il sussistere di stati di cose lo chiamiamo fatto positivo; il non sussistere, un fatto negativo» (§ 2.06). È questa la differenza fra «mondo» e «realtà»: mentre nel primo ci sono solo fatti positivi, effettivamente sussistenti (come appunto la presenza delle nuvole nel cielo, proprio ora che sto scrivendo queste righe), nella seconda ci “sono” (ci sono in un senso tutto particolare, evidentemente) anche i fatti negativi; in questo stesso momento, ad esempio, il cielo sopra di me non è terso. In questo momento il cielo non è terso, proprio perché il cielo è annuvolato. Ma il fatto che ora ci siano le nuvole – cioè che la presenza delle nuvole sia realmente sussistente – apre alla possibilità logica che le nuvole non ci siano: se ci sono le nuvole il cielo non è terso, ma proprio perché non è così avrebbe potuto essere così: infatti «la totalità degli stati di cose sussistenti determina anche quali stati di cose non sussistono» (§ 2.05). Ad esempio, l’asserzione “il cielo è pieno di nuvole” implicitamente asserisce anche “il cielo non è terso”. Torniamo per un momento alla zecca: nel suo «ambiente» esistono soltanto fatti (positivi), come

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l’odore dell’acido butirrico che proviene dalla pelle di un cane di passaggio. Se la zecca non viene colpita da una molecola di questa sostanza non succede niente, rimane ferma sul ramo. Non si può neanche dire, propriamente, che la zecca attenda l’odore dell’acido butirrico: per aspettare qualcosa occorre poter distinguere fra ciò che si aspetta e ciò che, invece, non si aspetta: ma la zecca non si aspetta nulla, è lì sul ramo, e se per caso nessun mammifero passerà sotto di lei finirà per morire su quello stesso ramo. In questo senso tutto il tempo che la zecca trascorre sul ramo non è un tempo di attesa, non è un vuoto che aspetta di essere riempito dall’arrivo della molecola di acido butirrico: è semplicemente un tempo di vita su di un ramo. La zecca non desidera l’acido butirrico, perché la zecca sul ramo non manca di niente. Per poter desiderare qualcosa occorre poter percepire lo scarto fra una presenza attuale e un’altra presenza che avrebbe potuto prendere il suo posto: occorre appunto poter pensare la differenza fra un «fatto positivo» ed un «fatto negativo». Solo se può presentarsi il pensiero “il cielo non è terso” posso desiderare – oggi che il cielo è nuvoloso – che il cielo sia sgombro dalle nuvole. L’ambiente (nel senso di von Uexküll) dell’Homo sapiens è quella che Wittgenstein chiama «realtà», cioè l’insieme infinito dei fatti positivi e dei fatti negativi. È un insieme infinito perché ogni fatto positivo, ad esempio quello corrispondente alla asserzione “oggi il cielo è nuvoloso”, è “circondata” da una specie di alone logico di fatti negativi: “il cielo non è terso”, “il cielo non è limpido”, “il cielo non è luminoso” e così via. C’è differenza, ovviamente, fra la durezza e la spigolosità di un fatto positivo (se piove mi bagno davvero), e la consistenza di un fatto negativo. Eppure anche questi fatti sono, a loro modo, “reali”. Se si aspettava il sole, e invece ci sono le nuvole, cambia l’umore, l’abbigliamento, i progetti: un fatto negativo, cioè, ha effetti reali quanto, e talvolta anche di più, un fatto positivo. Ma come può essere comparso il «fatto negativo»? Qual è, cioè, la differenza fra l’ambiente della zecca e quello dell’animale umano? Per Wittgenstein la risposta è chiara: è l’operatore logico della negazione (qualunque sia il suo antecedente psicologico; cfr. Cuccio, 2012) che infrange la pienezza del «mondo» animale: «è il mistero della negazione», scrive in uno dei Quaderni preparatori del Tractatus, «le cose non stanno così, eppure possiamo dire come stanno le cose che non stanno» (Wittgenstein 1922, trad. it. 1995, p. 164). Par-

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lare una lingua – e quindi disporre della negazione – significa poter pensare non solo il «mondo» così com’è, ma anche poter pensare alla «realtà» come potrebbe essere. In una nota precedente Wittgenstein scrive: «pensa alla rappresentazione di fatti negativi, mediante modelli come: Così e così due treni non devono stare sui binari. La proposizione, l’immagine, il modello sono – nel senso negativo – come un corpo solido che restringe la libertà di movimento degli altri; nel senso positivo, come lo spazio, limitato da una sostanza solida, ove un corpo ha posto» (p. 163). E quindi aggiunge l’immagine riprodotta nella Figura 4, che chiarisce la strana realtà del fatto negativo:

Figura 4

C’è un fatto, effettivamente sussistente, ma “intorno” ad esso – un “intorno” logico, benché agli occhi degli umani altrettanto reale dei dintorni spaziali – c’è l’insieme dei fatti negativi: «che, da un fatto p», ad esempio dal fatto corrispondente alla proposizione elementare (p) “oggi il cielo è nuvoloso”, «ne debbano seguire infiniti altri, ossia ~ ~ p, ~ ~ ~ p, ecc., è, a tutta prima, difficile a credersi» (§ 5.43); è difficile, per la zecca è impensabile (perché il suo ambiente è pieno, ossia privo di vuoti e quindi di desideri), eppure l’ambiente umano è ricolmo di fatti negativi. L’animale umano si confronta, prima ancora che con “il cielo oggi è nuvoloso“ con il molto più complicato “il cielo oggi non è terso”. Osserviamo il cielo, appena dopo esserci alzati dal letto: “il cielo oggi è nuvoloso” pensiamo; ma questo pensiero (p) è accompagnato – anche se non ce ne rendiamo conto, perché i dintorni di p sono dintorni logici – dal pensiero ~ p. Da un lato «la proposizione negativa è formata indirettamente mediante quella positiva», perché p presuppone appunto p; dall’altro, però, «la proposizione positiva deve

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presupporre l’esistenza della proposizione negativa, e viceversa» (§ 5.5151). Pensare il mondo com’è significa anche pensare il mondo come non è: «la verità o falsità di ogni proposizione àltera qualcosa nella struttura generale del mondo» (§ 5.5262). La negazione, e quindi il linguaggio, trasforma il «mondo» in «realtà»; comprendere una lingua, scrive Wittgenstein, significa «sapere che cosa accade se essa è vera. (Dunque, una proposizione la si può comprendere senza sapere se essa è vera)» (§ 4.024). Una qualunque proposizione p ha senso indipendentemente che noi si sappia se è vera (e quindi corrisponda ad un fatto positivo), oppure è falsa (se niente nel «mondo» corrisponde ad essa). Più in generale, ogni proposizione «è una immagine della realtà» (§ 4.01), cioè è la raffigurazione (un modello) di un possibile stato di cose del mondo. Ad ogni proposizione corrisponde una situazione possibile: «il pensiero contiene la possibilità della situazione che esso pensa. Ciò che è pensabile è anche possibile» (§ 3.02). Qui si mostra in assoluta evidenza la differenza biologica fra l’ambiente della zecca e quello dell’animale umano: mentre la zecca può pensare soltanto a ciò che si manifesta direttamente al suo apparato sensoriale, per un qualunque Homo sapiens capace di usare una lingua «ciò che è pensabile è anche possibile». Quello che era il solido e confortevole ambiente della zecca, nel passaggio alla «realtà» umana, letteralmente esplode in una miriade di frammenti. Mentre gli oggetti dell’«ambiente» della zecca sono tutti perfettamente reali, sono tutte cose fisicamente esistenti, quelli dell’«ambiente» umano contengono, oltre a quelli materiali, anche fatti negativi; e questi sono infinitamente di più di quelli. Qualunque progetto di antropologia filosofica che non tenga conto di questa caratteristica della «realtà» umana è sostanzialmente inutile. Nella tabella qui sotto proviamo a riassumere le differenze fra l’«ambiente» della zecca e quello umano, quello che Wittgenstein chiama «realtà» («il sussistere o non sussistere di stati di cose»): Zecca

pienezza

reale

atemporalità

Homo sapiens

fatti: positivi e negativi

reale + possibile

desiderio/rimpianto

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L’ambiente della zecca, che è privo della negazione, è pieno, senza lacune. La vita della zecca è tutta nel momento che sta vivendo. Non potendo fare esperienza del possibile non ha rimpianti né desideri. La sua vita coincide completamente con quello che le succede. Un essere umano, al contrario, può fare esperienza dei «fatti negativi», quindi può fare esperienza anche di ciò che non è effettivamente presente: l’ambiente umano è l’ambiente del possibile. Se la zecca, tutta schiacciata nel reale, vive fuori dal tempo (sebbene sia una creatura temporale e temporanea), l’umano, al contrario, è una creatura intrinsecamente temporale. E quindi vive del ricordo, del rimpianto, del desiderio. La zecca non conosce la trascendenza, l’umano – attraverso il linguaggio – è sempre proiettato oltre di sé, nella trascendenza appunto (Cimatti, 2009). «Il linguaggio comune», scrive ancora Wittgenstein, «è una parte dell’organismo umano, e non meno complicato di questo»; e poi ancora, più avanti: «le tacite intese per la comprensione del linguaggio comune sono enormemente complicate» (§ 4.002). Difficoltà e complicazione che si presenta perché non si tiene conto dell’impatto del linguaggio sul «mondo» umano, che ha come effetto principale – come abbiamo appena visto – di trasformarlo in una «realtà» intessuta da fatti positivi e da fatti negativi. L’essenza del linguaggio umano consiste, prima ancora che nel riferimento (anche le api, ad esempio, sono capaci di usare un segno per riferirsi ad un fiore; cfr. von Frisch, 1946), nella negazione. E la negazione è un operatore logico-linguistico. Trascurare l’effetto trasformativo del linguaggio sul mondo umano, significa non cogliere la differenza che esiste fra l’ambiente della zecca e quella di un qualunque esemplare di Homo sapiens. In questo senso, e cominciamo il confronto con Jacques Lacan, per comprendere la specificità umana occorre partire da una premessa linguistica: «il linguaggio, prima di essere una funzione di comunicazione di contenuti mentali individuali, determina una nuova realtà e una nuova corporeità rispetto all’esperienza animale» (Zenoni, 1999, p. 41). 3. Linguaggio e mancanza Torniamo ancora una volta all’«ambiente» della zecca; è un mondo pieno, abbiamo visto più sopra. Questo non significa che non ci possano essere dei buchi, al suo interno, ad esempio una cavità nel

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tronco dell’albero a cui è aggrappata. Ma una cavità non è ancora la mancanza di qualcosa. Immaginiamo una formica che, arrampicandosi lungo il tronco, arrivi al bordo di una cavità: con le antenne ne esplora i contorni, poi si introduce al suo interno. Dal suo punto di vista non ha mai smesso, sotto le sue zampe, di esserci una superficie piena e continua. Una cavità è una forma particolare, ma di per sé non implica la mancanza di qualcosa che, prima, la riempisse. Occorre uno sguardo diverso, per “vedere” nella trama del pieno la mancanza di qualcosa; quello sguardo è appunto lo sguardo dell’animale umano, l’animale del linguaggio: Vi avevo detto […] che non esiste mancanza nel reale, che la mancanza può essere colta solo tramite il simbolico. Rispetto alla biblioteca possiamo dire: Qui, il tale volume manca al suo posto. Si tratta di un posto designato dall’introduzione preliminare del simbolico nel reale. Per questo, il simbolo colma facilmente la mancanza di cui sto parlando, in quanto indica il posto, indica l’assenza, presentifica ciò che non c’è (Lacan, [1962-1963] 2004, trad. it. 2007, p. 143). Nel reale «non esiste mancanza». Il reale è pieno, non ci sono lacune all’interno del tessuto spazio-temporale. È così che la zecca, o la formica, percepisce il proprio ambiente, senza soluzioni di continuità, senza desideri o rimpianti, c’è quello che c’è, niente di più niente di meno. Per riuscire a “vedere” quello che manca, invece, occorre osservare il reale dal punto di vista del «simbolico», cioè del linguaggio. L’esempio di Lacan è molto chiaro: in una biblioteca si trovano molti libri, ognuno identificato da un numero di collocazione. Su uno scaffale ci accorgiamo che, dopo il numero n, manca il libro con il numero n+1, mentre troviamo invece il libro con il numero n+2. C’è una lacuna nella numerazione, manca qualcosa. In effetti qui è la sequenza dei numeri – ogni numero progressivo è il contrassegno di un libro distinto – che determina l’aspettativa che dopo il numero n segua n+1; siccome non lo troviamo, e saltiamo invece a n+2, arriviamo alla conclusione che manca qualcosa, manca appunto n+1. Nel regime del «simbolico» ad ogni «significante» ci aspettiamo che corrisponda qualcosa, anche se questo qualcosa non esiste realmente. Siamo arrivati al «posto» del segno n+1, però sullo scaffale non troviamo nulla, ecco che sotto i nostri occhi si forma una assenza (il libro mancante): “il libro n+1 non c’è” diciamo. Eccolo, il «fatto

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negativo» di cui parlava Wittgenstein: nel linguaggio il «simbolo […] indica il posto, indica l’assenza, presentifica ciò che non c’è». Ci sono tantissimi libri, nella biblioteca, c’è un pieno di materia su quegli scaffali; ma oltre a tutti i libri che ci sono, ci “sono” anche quelli che, in realtà, non ci sono (non ci sono più, in questo caso): “il libro n+1 non c’è” trova spazio nei nostri pensieri anche se quel libro non c’è, proprio perché non c’è. Nel «mondo» di quella biblioteca ci sono molti libri, ma nella sua «realtà» umana ce ne sono di più, ci sono anche quelli che al suo interno non ci sono. L’animale umano è quel vivente che costruisce sé stesso a partire da questa scoperta: mentre la zecca, e ogni altro vivente non segnato dal linguaggio proposizionale (quello che contiene la negazione), è alle prese con un mondo in cui c’è solo ciò che effettivamente c’è, per Homo sapiens c’è anche la «mancanza», che è «radicale, radicale nella costituzione stessa della soggettività» (Ivi, p. 145). Nella «realtà» umana (distinta dal «mondo») la «mancanza» è “presente” quanto l’acido butirrico per la zecca, o il gatto per il topo, o la parete cellulare per un virus. Una delle prime, e più controintuitive, conseguenze di questa situazione, è che il linguaggio in realtà non è uno strumento che favorisce l’adattamento al mondo (come vorrebbe il luogo comune evoluzionistico; cfr. Pinker, Bloom, 1990), al contrario, è un formidabile agente di disadattamento (Zenoni, 1999). Si pensi ancora una volta al caso della zecca: nel suo «ambiente» non ci sono sorprese, cioè non si verificano situazioni affatto impreviste. Possono esserci sorprese “locali”, ad esempio l’albero su cui si trova viene abbattuto dal vento, ma non può accadere nulla che la zecca non possa affrontare. Per i problemi che pone l’«ambiente» esiste già una soluzione; la zecca non deve inventare nulla, essere una zecca significa appunto saper già, prima ancora di nascere, come risolvere il tipo di problemi che le pone il suo «ambiente» naturale. Con l’entrata in campo del «fatto negativo», al contrario, si presentano all’animale umano situazioni sempre nuove e imprevedibili; la selezione naturale può “prevedere” il problema della riproduzione per la zecca, ma non può prevedere come affrontare il “problema” posto dalla proposizione “oggi il cielo non è terso”. Il tipico problema umano non ha a che fare con quel che c’è, bensì con quel non c’è. L’antropologia filosofica comincia con la constatazione della «distinzione radicale tra il mondo e il luo-

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go in cui le cose, fossero anche le cose del mondo, arrivano a dirsi. Tutte le cose del mondo arrivano a mettersi in scena secondo le leggi del significante, leggi che non possiamo in alcun modo considerare di primo acchito omogenee a quelle del mondo» (Lacan, [1962-1963] 2004, trad. it. 2007, p. 37). È l’omogeneità fra corpo e «ambiente» la caratteristica distintiva dell’esperienza della zecca (v. Figura 1), mentre è invece la disomogeneità quella dell’esperienza umana: «le leggi del significante», cioè appunto del linguaggio, non corrispondono a quelle del mondo. Questo è pieno e compatto, mentre la «realtà» umana è “piena” di buchi, mancanze, lacune (i fatti negativi di Wittgenstein); e quindi sarà “piena” di rimpianti (per un pieno che non c’è più, o non c’è mai stato) e desideri (per un pieno che un giorno tornerà). In questo senso il linguaggio proposizionale è profondamente disadattativo, perché non favorisce il contatto con l’«ambiente», al contrario, lo rende sostanzialmente impossibile. Per descrivere la vita umana, scrive Lacan: i riferimenti biologici, i riferimenti al bisogno sono certamente essenziali. Non si tratta di rifiutarli, a condizione però di accorgersi che la più primitiva differenza strutturale vi introduce, di fatto, delle rotture, dei tagli, vi introduce dunque subito la dialettica significante. […] La dimensione del significante non è nient’altro […] che ciò in cui si trova preso un animale all’inseguimento del suo oggetto. In modo tale che l’inseguimento di tale oggetto lo conduce su un altro campo di tracce, dove l’inseguimento stesso perde il suo valore introduttivo per divenire il suo fine (Ivi, p. 73).

Per la zecca l’acido butirrico è segno della presenza di un mammifero; la funzione della traccia è di condurla alla pelle (e solo alla pelle), sotto cui scorre il sangue di cui ha bisogno per sopravvivere. Quando la traccia ha assolto la sua funzione svanisce. All’animale umano succede il contrario: la traccia non è un mezzo, bensì il fine. Il «significante» non è la traccia che ci porta alla cosa, piuttosto è ciò che ce ne allontana (Lacan, nel Seminario XVIII, definisce questo significante senza significato «sembiante»: [1971] 2006, p. 14). “Oggi il cielo non è terso”, diciamo; un pensiero che apre la strada a rappresentarci non quel che realmente c’è – un cielo coperto – bensì quel che non c’è, che potrebbe esserci, che ci sarebbe piaciuto ci fosse, che una volta ci piacque tantissimo quando ci fu. Un «fatto negativo» è solo il primo di una serie di altri pensieri, che non si arrestano nella

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cosa (come la zecca quando arriva al sangue), al contrario, pensieri che portano ad altri pensieri, e poi altri ancora, e così via. E così «l’inseguimento […] perde il suo valore introduttivo per divenire il […] fine», cioè per trasformarsi in «quella catena indefinita di significazioni che si chiama destino» (Ibidem). Al «destino» non si sfugge, perché quel destino coincide con la costituzione biologica dell’animale umano, che è fatta di carne e linguaggio. Questa è la differenza fra la zecca e l’Homo sapiens; e qui ritroviamo Wittgenstein. Quello che Lacan chiama «destino» per il filosofo austriaco è racchiuso nel concetto di «operazione». Così scrive in uno dei Quaderni che accompagnano la stesura del Tractatus: «il concetto di operazione è, parlando in termini generalissimi, quello secondo il quale possono costruirsi segni secondo una regola» (Wittgenstein, 1922, trad. it. 1995, p. 237). L’«operazione» è il dispositivo logico originario che produce segni a partire da altri segni: «il concetto “e così via”, in segni “…”, è uno dei più importanti e, come tutti gli altri, infinitamente fondamentale», perché «senza questo concetto ci fermeremmo ai segni primitivi e non potremmo andare oltre, andare “via”» (Ibidem). Per la zecca ci sono soltanto «segni primitivi», come l’acido butirrico rispetto alla pelle di un mammifero; un segno primitivo non può esistere se non corrisponde ad una cosa (è un indizio). Al contrario, un segno linguistico non ha bisogno di essere attaccato ad una cosa (perché può riferirsi a qualcosa che non c’è, il «fatto negativo»); con l’«operazione» del «“e così via”» ogni segno può generarne altri: «dopo il segno d’operazione segue il segno “…”, il quale significa che il risultato dell’operazione può essere preso a sua volta a base della stessa operazione, e “e così via”» (Ibidem). L’analogo linguistico dell’operatore “e così via” è la capacità sempre presente di aggiungere un enunciato ad uno preesistente: “c’è il sole, oggi, e c’è vento”, e così via, appunto. Un qualunque enunciato p è circondato da un alone di enunciati possibili che lo possono estendere in modo indefinito. Entrare nel linguaggio significa entrare in uno spazio letteralmente senza confini. È per questo che l’operatore del «“e così via”» diventa un destino: il segno “…” rende potenzialmente illimitata la catena segnica, la estende oltre ogni riferimento alle cose realmente esistenti. Lo spazio dei pensieri dell’animale umano non conosce confini.

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4. Angoscia e «mistico» La zecca sul ramo dell’albero, quando viene colpita da una molecola di acido butirrico si lascia andare, perché ha buone possibilità di cadere sulla pelle di un mammifero. La zecca, anche se forse non ne è consapevole, si “fida” del corpo che è; se c’è questo odore, allora qua sotto dev’esserci anche un cane (sulla mente “olfattiva” v. Jacobs, 2012). Ci interessa, ora, proprio questo punto: che tipo di mente sarà, invece, quella che deve confrontarsi con l’esistenza del «fatto negativo»? Partiamo proprio dall’enunciato che ci ha così spesso occupati finora, “oggi il cielo non è terso”. Siccome nel cielo ci sono delle nuvole, chi parla del “cielo terso” non lo sta vedendo, al contrario, sta vedendo delle nuvole. Mentre possiamo farci una idea (peraltro molto approssimativa) di quello che può passare per la mente di una zecca mentre percepisce l’odore dell’acido butirrico (sulla mente degli artropodi cfr. Ranganathan, 2004), è molto più complicato farsi una idea di come sia possibile pensare a qualcosa che ha una esistenza soltanto linguistica. Il cane (dalla posizione della zecca) è percepibile, mentre all’enunciato “oggi il cielo non è terso” non corrisponde niente, dal momento che il cielo oggi è appunto coperto di nuvole. Wittgenstein affronta, e risolve, questo problema con una mossa radicale, perché d’un solo colpo si sbarazza di ogni presupposizione psicologistica: «ma è chiaro che “A crede che p”, “A pensa che p”, “A dice p” sono della forma “

dice p”» (Wittgenstein, 1922, trad. it. 1995, § 5.542). Pensare p, ad esempio “oggi il cielo non è terso”, significa letteralmente essere quell’enunciato, essere “p”. La mente umana non è come la mente della zecca più la capacità di parlare: il pensiero umano, in quanto è specificamente umano, coincide con la capacità di usare una lingua. In questo senso la forma generale di questi enunciati è «“

dice p”», cioè “dentro” e “fuori” siamo alle prese comunque con una proposizione linguistica (ciò che rende superflua la distinzione fra dentro e fuori). Quello che per la psicologia ingenua (ma spesso anche per quella scientifica) è il soggetto (misteriosa entità e metafisica), per Wittgenstein è la capacità di pensare nella lingua. Homo sapiens incarna la lingua che parla: «il segno proposizionale applicato, pensato, è il pensiero» (§ 3.5), quindi «il pensiero è la proposizione munita di senso» (§ 4). Data questa radi-

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cale identità fra pensiero e linguaggio (proposizionale) – e questa è la premessa dell’antropologia filosofica e della psicoanalisi – possiamo farci una idea di come sia possibile pensare ciò che non è, cioè il «fatto negativo». È umana una mente capace di pensare oggetti che hanno una esistenza soltanto linguistica. E la mente umana è questa stessa capacità, non è nient’altro (in quanto mente umana, non di mammifero). In questo senso è una mente completamente marchiata dal linguaggio. Per questo oltre al linguaggio «il soggetto che pensa, che immagina, non v’è» (§ 5.631), e non c’è bisogno che ci sia, possiamo aggiungere. La mente umana è completamente impregnata di linguaggio. Wittgenstein prova a illustrare questa idea della soggettività attraverso un confronto con il campo visivo umano. Più in particolare, il confronto è in negativo, serve a mostrare come il campo visivo non è: «il campo visivo non ha, infatti, una forma così» (v. Figura 5; § 5.6331). Il campo visivo è un campo continuo, appunto, non c’è al suo interno una posizione privilegiata per l’occhio. In realtà il campo visivo si offre come una pura visibilità, come un campo d’azione, come uno spazio di possibilità, «e nulla […] fa concludere che esso sia visto da un occhio», perché «nel campo visivo […] l’occhio, in realtà, tu non lo vedi» (§ 5.633). Il campo visivo non è diviso in due, l’occhio da una parte e l’oggetto visto dall’altro: il campo visivo si presenta come una visibilità unitaria. Il vedere coincide con il campo visivo, l’occhio che vede non è separabile da quello che viene visto. Nella Figura 5, al contrario, l’occhio sembra collocato all’esterno del campo visivo, ma è proprio questa idea che Wittgenstein critica:

Figura 5

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La stessa situazione vale per il soggetto psicologico, che coincide con lo spazio dei suoi pensieri, e quindi della sua lingua («i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo»; § 5.6). Io sono tutto quello che posso pensare, e siccome la forma dei miei pensieri è «“

dice p”», io sono tutto ciò che posso dire. Il soggetto è questa coincidenza di linguaggio e pensiero; per questa ragione, perché non rimane nient’altro di psicologico, «il soggetto non è parte, ma limite del mondo» (§ 5.632). Il soggetto non è una cosa nel mondo, come invece è la zecca sull’albero; il soggetto arriva fin dove arriva il suo linguaggio (e quindi i suoi pensieri), per questo è un «limite». Il soggetto allora svanisce: «appare qui che il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà ad esso coordinata» (§ 5.64). Il soggetto «si contrae in un punto inesteso»: c’è un qualcosa che non è niente. È la stessa conclusione a cui giunge Lacan, e non sorprende, visto che la sua premessa è identica a quella di Wittgenstein: non c’è Homo sapiens senza linguaggio (ad una conclusione analoga arriva, peraltro, chiunque, ad esempio Vygotskij, leghi strettamente corpo e linguaggio). Nella simbologia lacaniana questo «punto inesteso» viene indicato con la lettera a. Lacan parla di a piccolo in contrapposizione ad un A grande, che è il linguaggio (il Simbolico), che è sempre altro rispetto al soggetto (nel senso che lo precede, a partire dal fatto elementare che ogni umano riceve un nome prima di nascere). In effetti anche per Wittgenstein il soggetto è in una relazione di completa subordinazione rispetto al linguaggio. Senza linguaggio non ci sarebbe nessun soggetto, infatti: designare questo a piccolo con il termine oggetto è fare un uso metaforico di questo termine, poiché esso è tratto dalla relazione soggetto-oggetto, da cui il termine oggetto si costituisce. Quest’ultimo è sicuramente appropriato per indicare la funzione generale dell’oggettività, ma ciò di cui dobbiamo parlare usando il termine a è, per l’appunto, un oggetto esterno a qualsiasi definizione possibile dell’oggettività (Lacan, [1962-1963] 2004, trad. it. 2007, p. 95).

L’oggetto non oggettuale a piccolo è ciò che «resta, dopo il taglio» (Ivi, p. 108) operato dal linguaggio. Non è qualcosa, eppure qualcosa è, come “oggi il cielo non è terso” (quando il cielo è coperto di nuvole) indica qualcosa anche se ciò che indica non esiste. L’«oggetto a si pone al centro del nostro discorso» dice Lacan, e «l’angoscia è la

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sua sola traduzione soggettiva» (Ivi, p . 109). Lacan esplicita quello che in Wittgenstein rimaneva implicito: di questa soggettività come «limite», come «punto inesteso», come «taglio» rimane qualcosa, l’angoscia, che è il tono emotivo fondamentale dell’animale umano, cioè di quel vivente che propriamente non è, perché è soltanto un «limite»: l’angoscia […] svolge la funzione di segnale rispetto a qualcosa. Io dico che questo segnale è in rapporto a quello che succede riguardo alla relazione del soggetto con l’oggetto a in tutta la sua generalità. Il soggetto non può entrare in questa relazione se non nella vacillazione di un certo fading, la quale viene indicata dalla notazione S barrata (Ivi, p. 94).

Il soggetto, segnato da questa «vacillazione» rispetto a sé stesso (perché sa di essere un fatto che non sussiste), è (come indica la «notazione S barrata») un $, ossia un Soggetto difettoso, cancellato, barrato appunto, incapace di tenersi in piedi da solo. Il movimento, il «destino» come scriveva più sopra Lacan, di questo soggetto è allora segnato: «$ desiderio di a» (Ivi, p. 109). Se la zecca è sempre a casa nel suo «ambiente», perché non potrà mai arrivare una sorpresa che metta in crisi quella certezza in cui il suo stesso corpo consiste, $ invece è sempre fuori luogo, perché incarna il suo stesso dissidio. Per questo «$ [è] desiderio di a», cioè il (vano) tentativo di riempire quella lacuna che egli stesso rappresenta, desiderio di sé stesso. Se è la sorpresa ciò che manca nel mondo della zecca, nella «realtà» del $ è invece la certezza ad essere esclusa: l’angoscia è questo taglio – questo taglio netto senza il quale la presenza del significante, il suo funzionamento, il suo solco nel reale sono impensabili –, è questo taglio che si apre e lascia apparire […] l’inatteso, la visita, la notizia, ciò che il termine presentimento esprime così bene. Questo non è semplicemente da intendere come il presentimento di qualcosa, ma anche come il pre-sentimento, ciò che precede la nascita di un sentimento (Ivi, pp. 82-83).

L’angoscia non è un sentimento come gli altri, è un «pre-sentimento», quello che viene prima di tutti gli altri, e che li rende possibili. L’angoscia è lo stato d’animo specifico (proprio in senso biologico) dell’animale umano. Ma è da questa situazione, infine, che si apre la possibilità per un ulteriore confronto fra Wittgenstein e Lacan. Il Tractatus si chiude con le pagine che cercano di delineare la possibili-

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tà di una esperienza collocata oltre il linguaggio, in quello spazio che Wittgenstein chiama il «Mistico». Solo un animale affatto attraversato dal linguaggio, e segnato dall’angoscia che ne deriva, può desiderare di liberarsi della causa del suo disagio, il linguaggio appunto. È esattamente lo stesso obiettivo che Lacan pone alla psicoanalisi: arrivare al «reale» (usando i termini di Wittgenstein: trasformare la «realtà» in «mondo»), ossia liberarsi del «simbolico». Anche se nessuno dei due autori ha dedicato riflessioni specifiche al tema dell’animalità – nonostante gli animali sono molto presenti nei loro scritti (Frongia, 1996; Macola, Brandalise 2007) – qui entrambi costeggiano il tema della possibilità di una forma di vita oltre il linguaggio: ossia l’animalità, cioè appunto una forma di vita affrancata dal “no” del linguaggio (Cimatti, 2013). «L’angoscia», scrive Jacques-Alain Miller nel suo commento al Seminario X di Lacan, è l’effetto dell’«operazione mortifera del significante […] l’effetto principale del linguaggio sul godimento» (Miller 2006, p. 114). Quel «punto inesteso» che è il $, non ha mai conosciuto la condizione della zecca, perché quando non c’era il linguaggio non c’era ancora l’umano. Se da un punto di vista evolutivo la specie umana si può essere formata gradualmente, da un punto di vista strutturale l’umanità comincia quando nel suo ambiente appare il «fatto negativo». In questo senso la condizione umana non è qualcosa di più, o di meno, rispetto a quella della zecca, è qualcosa di completamente diverso. Per questa ragione il «Mistico» di Wittgenstein come il «reale» di Lacan si collocano oltre e dopo il linguaggio. Non c’è prelinguistico nell’umano. D’accordo, ma come liberarsi del linguaggio, se è il linguaggio ciò che definisce l’umano come umano? Anche in questo caso Wittgenstein affronta il problema in negativo: ciò che è oltre il linguaggio è evidentemente indicibile (se non lo fosse non sarebbe oltre il linguaggio): data l’identità di pensiero e linguaggio si tratta allora di «delimitare l’impensabile dall’interno attraverso il pensabile» (Wittgenstein, 1922, trad. it. 1995, § 4.114), e così si potrà alludere al«l’indicibile rappresentando chiaramente il dicibile» (§ 4.115). Scartiamo subito una ipotesi sbagliata (anche se ricorrente): non si può raggiungere l’indicibile attraverso mezzi diversi dal linguaggio, ad esempio l’intuizione (qualunque cosa sia l’intuizione). Abbiamo visto che non c’è alcuna sostanza psicologica nel soggetto. Se togliamo il linguaggio non c’è soggetto, e quindi non

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c’è nemmeno intuizione. La zecca non si preoccupa dell’indicibile non perché sia pigra o ottusa, bensì perché non essendosi mai mossa dal suo ambiente non desidera nemmeno tornarvi. L’intuizione rientra nel prelinguistico, e non c’è prelinguistico. «Tutte le proposizioni», cioè l’insieme del linguaggio umano, «sono di pari valore» (§ 6.4). È così perché l’«infinitamente fondamentale» operazione «“e così via”» permette di generare quante proposizioni vogliamo; si tratta di un dispositivo sempre all’opera, pertanto non c’è una proposizione finale del linguaggio, così come non si arresta la serie dei numeri naturali (c’è sempre un +1). Come ogni numero è soltanto un altro numero, così ogni nuova proposizione linguistica non è che un’altra proposizione. Questo a dire che dentro il linguaggio, nel dicibile, non c’è nessun atto linguistico che valga in modo speciale, appunto perché non è che un evento linguistico qualunque. Bisogna allora trovare qualcosa che sfugga al linguaggio, l’indicibile appunto, ma che non sia “fuori” del linguaggio, perché in quello spazio un animale umano non può andarci. Occorre trovare il “fuori” nel linguaggio stesso. E quindi: «il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene: non vi è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore» (§ 6.41). È evidente che dal linguaggio non si esce, se non smettendo di essere umani. Si tratta allora di cambiare il modo di stare al mondo, rimanendo tuttavia con i piedi ben piantati dentro il mondo: «non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è» (§ 6.44). Il che del mondo è la presa d’atto che il mondo c’è, e basta. Il «Mistico» si mostra (ricordiamo che è indicibile) quando il soggetto ($) riesce a tirarsi fuori dall’«“e così via”» del linguaggio (cioè dalla domanda su come è il mondo: ad esempio “oggi il cielo è nuvoloso”, “oggi il cielo non è terso”, “oggi il cielo è plumbeo” e così via, senza fine). Questo significa non lasciarsi trascinare da «quella catena indefinita di significazioni che si chiama destino», come scriveva Lacan. Rispetto al linguaggio si possono assumere due posizioni fondamentali: o assecondare la deriva del significante (implicita nell’“e così via” costitutivo del funzionamento dei segni linguistici), oppure afferrarlo come un tutto: «la visione del mondo sub specie aeterni è la visione del mondo come totalità delimitata. Il sentimento del mondo come totalità delimitata è il sentimento mistico» (§ 6.45). Il «Misti-

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co» non è lo straordinario stato d’animo di chi intuisce una verità sovrasensibile; al contrario, il «Mistico» è la condizione di chi riesce a vivere il linguaggio (cioè la «realtà», e quindi l’insieme infinito dei fatti positivi e di quelli negativi) come se fosse un «mondo» (che invece è l’insieme di tutto ciò che è sussistente), e quindi qualcosa di pieno, sicuro, affidabile. Si apre lo possibilità del «mistico» quando la «realtà» diventa «mondo», cioè quando il dispositivo angoscioso del linguaggio (c’è sempre un altro numero, un’altra proposizione, un altro «fatto negativo») viene “immobilizzato”, e la serie infinita appare – miracolosamente – come unitaria. Il «mistico» è quando il sapiens per un istante vede il mondo come lo vede la zecca. Per Wittgenstein, come dice nella Conferenza sull’etica, si tratta dell’«esperienza […] di sentirsi assolutamente al sicuro. Intendo lo stato d’animo in cui si è portati a dire: “Sono al sicuro, nulla può recarmi danno, qualsiasi cosa accada”» (Wittgenstein, 1967, p. 13). Si tratta dell’esperienza più vicina a quella della zecca che un umano possa provare: solo che mentre la zecca non ha mai dubitato del suo «ambiente» (questo significa essere una zecca, non essere mai sfiorato dal dubbio), l’animale umano parte dall’angoscia: la certezza che cerca non l’ha mai conosciuta, perché questo significa essere un Homo sapiens, non avere mai conosciuto l’esperienza dell’essere a casa. Rimanere nel linguaggio uscendone, in questa contraddizione consiste, per Lacan, la cura analitica: «dissociare a da A, riducendo il primo a qualcosa che appartiene all’immaginario e l’altro a qualcosa che fa parte del simbolico» (Lacan [1972-1973] 1975, trad. it. 2011, p. 77). Coincidere con l’a piccolo significa appunto non essere più trascinato da A grande, dal linguaggio, dalla sua deriva. Significa coincidere con quella mancanza che il linguaggio scava in ogni corpo umano (è questo l’«immaginario» di cui parla Lacan), e quindi uscire dalla dinamica senza fine mancanza – rimpianto – desiderio: «non si può dire la verità; se non si è ancora assoggettato sé stessi. Non la si può dire; ma non perché non si è ancora abbastanza intelligenti. Può dirla solo colui che già in essa riposa; non chi è ancora nella non verità, e solo una volta fuori dalla non verità le stende la mano» (Wittgenstein, 1977, trad. it. 1980, p. 72). Solo chi nella verità «riposa», può dire la verità. Ma a quel punto non ha più bisogno di dire nulla, perché desidera dire la verità solo chi ancora non la incarna, chi si trova ancora al di fuori della verità. Se piove e dico “oggi piove” quel

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che dico è vero, ma si tratta di un enunciato che mi allontana dalla pioggia, che mi separa dal mondo, che presuppone la distinzione fra chi parla e ciò di cui si parla. La zecca non si pone il problema di dire qualcosa, la zecca si bagna, se piove. La zecca è nel mondo, è tutta lì nel mondo. Quello Wittgenstein chiama il «mistico» è quello che il Lacan degli ultimi anni della sua vita indicava come la via d’uscita dall’analisi, il reale inteso come «la mancanza della mancanza» (Lacan, 2001, p. 573). Ossia stare nella «realtà» come se fosse un «mondo»: questo significa riposare nella verità. Essere un animale linguistico, che vive in modo non linguistico. Essere un sapiens, ma vivere come una zecca.

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«Parlessere»

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3. Linguaggio e pulsione di morte

Quando la parola è schiava, tutto è schiavo (Ellul, 1977, trad. it. 2009, p. 74).

1. Istinto e pulsione In questo capitolo provo a rispondere a questa domanda: cosa è, propriamente, quella «pulsione di morte» di cui Freud comincia a parlare in Al di là del principio di piacere? Per provare a rispondere occorre partire dalla distinzione fra «istinto» e «pulsione»: ogni indagine sulla natura umana comincia da questa distinzione (Lewontin et al. 1984, Zenoni, 1999; Laplanche, 2000; Virno, 2003). Un istinto, secondo Nikolaas Tinbergen (Burkhardt, 2014), è «un meccanismo nervoso, gerarchicamente organizzato, che è sensibile a determinati impulsi preparatorî, scatenanti e orientanti, di origine interna o esterna, e che risponde a tali impulsi con movimenti coordinati i quali contribuiscono alla conservazione dell’individuo e della specie» (Tinbergen, 1951, trad. it. 1994, p. 166). Un istinto è un dispositivo non appreso che permette ad un organismo vivente, in presenza dello stimolo (interno o esterno) appropriato (che rientra nel cosiddetto «Meccanismo Scatenante Innato»), di reagire all’ambiente in modo adeguato fin dal primo tentativo. La sopravvivenza di un organismo vivente dipende dalla sua dotazione istintiva. Prendiamo un esempio diventato celebre, quello di un pesce, lo spinarello maschio: in primavera, il graduale allungarsi delle giornate mette i maschi in una condizione di accresciuta motivazione riproduttiva che li spinge a migrare in acque dolci poco profonde. Qui […] un aumento della temperatura e assieme una situazione di stimolo visivo, fornita da un territorio adatto, scatenano lo

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schema riproduttivo per intero. Il maschio si insedia nel territorio e i suoi eritrofori [cellule che contengono granuli di pigmento rosso] si espandono; esso reagisce agli estranei combattendo e comincia a costruirsi un nido. Però, mentre tanto la costruzione del nido quanto il combattimento dipendono dall’attivazione della pulsione riproduttiva nel suo insieme, nessun osservatore può predire quale dei due schemi sarà esibito in un dato momento. Il combattimento, ad esempio, deve essere scatenato da uno stimolo specifico, e cioè “maschio rosso nell’atto di invadere il territorio”. La costruzione del nido non è attivata da tale situazione, ma dipende da altri stimoli (p. 155).

Il suo comportamento è di volta in volta innescato da uno stimolo preciso: l’aumento della temperatura primaverile “accende” l’istinto riproduttivo; la vista di un particolare habitat acquatico lo porta a costruire un nido per la futura prole; un ventre rosso “significa” un maschio rivale, vista che scatena l’istinto aggressivo, e così via. La questione che si pone è se qualcosa del genere esista anche per gli animali umani (Ridley, 2003; Toga, Thompson 2005; Fox Keller, 2010). La strettissima parentela genetica fra Homo sapiens e i mammiferi in genere, e i primati in particolare (Prüfer et al., 2012) porta ad aspettarci di trovare degli istinti umani. C’è però un problema, che rende questa aspettativa vana: un umano che si trovasse nella situazione ormonale dello spinarello di Tinbergen potrebbe sempre fermarsi e chiedersi: “Ma che sto facendo? Perché me la prendo con quest’uomo che ha la sola colpa di portare un maglione rosso?”. Nel momento in cui si ponesse questa domanda, immediatamente potrebbe anche fermarsi, e dissociarsi dal proprio stesso istinto. Lo spinarello è “agito” dall’istinto; lo stesso istinto, nell’animale umano, può essere controllato perché chi ne subisce la spinta può rendersi conto di questa spinta (qui interessa che questa possibilità esista, non quanto sia effettivamente praticata o praticabile). C’è una enorme differenza fra essere trascinati da una corrente impetuosa, e sapere di essere trascinati da una corrente impetuosa. In questo secondo caso forse c’è un modo per non essere travolti da quella stessa corrente, nell’altro no. La differenza fra «pulsione» e «istinto» è tutta (ed è davvero una differenza radicale) in questa diversità: «le pulsioni», diceva Jacques Lacan nel Seminario XXIII, «sono l’eco nel corpo del fatto che ci sia un dire» (Lacan, 2006, trad. it. 2005, p. 16). Il corpo e l’istinto sono potenti e trascinanti tanto nello spinarello quanto nell’uomo; il punto che è che in quest’ultimo quelle stesse forze possono essere pensate, rielaborate, attutite, fino al punto che diventa possibile deviarne

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3. linguaggio e pulsione di morte

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la direzione di movimento. Essere in grado di parlare, sostiene Lacan, modifica non soltanto il modo di comunicare di un corpo, modifica lo stesso corpo. Il linguaggio si intrufola, modificandolo, nell’intera costituzione biologica dell’Homo sapiens (Cimatti, 2000; Lo Piparo, 2003). La pulsione, allora, è una forza corporea, potente e trascinante, che tuttavia è impregnata di linguaggio. E che quindi eredita la flessibilità e mobilità del linguaggio. Di fronte ad un gatto sul tappeto (Searle, 1978), non c’è un solo modo per parlarne, come sarebbe il caso se il linguaggio fosse un istinto (Cimatti, 2007): nel dispositivo linguistico è implicita una libertà e una variabilità che l’istinto non permette. La pulsione, allora, è un istinto passato attraverso il filtro del linguaggio, cioè un istinto liberato e non più univoco (che quindi, di fatto, cessa di essere un istinto). Secondo Freud: la “pulsione” […] appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea (Freud, 1915a, trad. it. 1976, p. 17).

Il campo della pulsione (Trieb) ha a che fare con il corpo, come anche l’istinto (Instinkt), ma allo stesso tempo ha a che fare anche con la psiche, diversamente da quello che succede con l’istinto, che è soltanto corporeo. La pulsione infatti è il «rappresentante psichico» degli stimoli che provengono «dall’interno del corpo» quando appunto «pervengono alla psiche». Che succede all’istinto, allora, quando diventa pulsione? Torniamo per un momento all’esempio dello spinarello durante la stagione riproduttiva. Quando vede un oggetto rosso, ad esempio, gli si scaglia contro con estrema violenza. Lo stimolo scatenante innato è una macchia rossa; per lo spinarello non fa differenza se la macchia è sul petto di un altro maschio oppure se è il colore di un furgoncino postale che vede attraverso la finestra del laboratorio dentro cui si trova la vasca di vetro dove vive (un caso realmente accaduto a Tinbergen). La visione di qualcosa di rosso mette in movimento il comportamento aggressivo; lo spinarello in realtà non ha alcun controllo sul suo corpo, subisce la visione del rosso come una foglia subisce la forza del vento. Per Freud sono quattro gli elementi che compongono una pulsione: la «fonte», ossia «il processo somatico» da cui prende avvio tutto

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il movimento pulsionale (p. 19); la «spinta» cioè il suo «elemento motorio» (le azioni che si devono mettere in atto per soddisfarlo); la «meta» che è sempre la stessa per tutte le pulsioni, ossia il «soddisfacimento che può essere raggiunto soltanto sopprimendo lo stato di stimolazione alla fonte della pulsione», ed infine l’«oggetto […] ciò in relazione a cui, o mediante cui, la pulsione può raggiungere la sua meta» (p. 18). Ciò che caratterizza una pulsione, rispetto ad un istinto, è la estrema variabilità dei modi che conducono dalla fonte alla meta. È il vasto campo e imprevedibile dei «destini» a cui può andare incontro una pulsione. Si prenda il caso «delle pulsioni che hanno come mete il guardare e il mostrarsi» (p. 25). Se fossero degli istinti il loro percorso sarebbe lineare: nel primo caso – il guardare – il vettore sarebbe dall’occhio del soggetto all’oggetto cercato, così come il colore rosso, durante la stagione riproduttiva, è l’oggetto che soddisfa la meta dell’istinto aggressivo dello spinarello; nel secondo – il mostrarsi – il vettore andrebbe dall’occhio altrui al proprio corpo. Per le pulsioni, invece, secondo Freud ci sono almeno quattro «destini» alternativi: «la trasformazione nel contrario; il volgersi sulla persona stessa del soggetto; la rimozione; la sublimazione» (p. 22). Secondo il primo destino, ad esempio, «al posto della meta attiva ([…] contemplare) viene instaurata quella passiva ([…] essere contemplato)» (Ibidem). Qui il movimento dello sguardo viene rovesciato esattamente come un enunciato attivo può essere trasformato in uno passivo: da “io guardo te” a “io sono guardato da te”. Al posto della rigidità dell’istinto subentra la plasticità del linguaggio. Una operazione analoga per la pulsione sadica, che può trasformarsi nel suo contrario: «a) il sadismo consiste nell’esercizio della violenza e della forza contro un’altra persona assunta quale oggetto; b) questo oggetto viene abbandonato e sostituito dalla propria persona. Con il volgersi della pulsione sulla propria persona si compie pure la conversione della meta pulsionale attiva in meta pulsionale passiva; c) viene nuovamente cercata, quale oggetto, una persona estranea, la quale deve assumere, in seguito al cambiamento determinatosi nella meta, il ruolo di soggetto» (p. 23). In questi casi il corpo diventa direttamente logica, e l’istinto si modifica in base alle possibilità grammaticali della lingua. In questo senso la «pulsione» è la grammaticalizzazione del corpo. Come un’entità sintattica è mobile e combinabile, così il corpo “grammati-

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calizzato” è altrettanto mobile e modificabile. Non ci sarebbe «pulsione» se non ci fosse la facoltà del linguaggio. Se ora torniamo alla definizione di Freud, rimane da chiarire cosa intenda, propriamente, quando scrive che la pulsione è il «rappresentante psichico» degli stimoli che provengono «dall’interno del corpo». È qui che vedremo fino a che punto il linguaggio faccia presa sul corpo dell’animale che parla. Per Freud, infatti, la coscienza umana – più precisamente l’autocoscienza – è un fenomeno completamente linguistico, che sarebbe impossibile senza linguaggio: la rappresentazione conscia [di un qualunque contenuto] comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente [a quel contenuto], mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inconscio contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Preconscio nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con le relative rappresentazione verbali. Abbiamo il diritto di supporre che siano tali sovrainvestimenti a determinare una più alta organizzazione psichica, e a rendere possibile la sostituzione del processo primario con il processo secondario che domina nel Preconscio (Freud, 1915b, trad. it. 1976, p. 85).

Il processo primario inconscio è costituito dalle «rappresentazioni di cosa», cioè tutti quei fenomeni psichici che hanno origine dalle esperienze con il mondo (processo che Homo sapiens ha in comune con tutti gli altri viventi); nel processo secondario, invece, la rappresentazione di cosa viene sovrainvestita da una rappresentazione verbale, cioè viene associata alla rappresentazione interna del suono linguistico che le corrisponde, ad esempio. Poniamo che nella mente di qualcuno si formi il pensiero di un gatto. Se questo qualcuno è in grado di parlare, allora insieme alla immagine del gatto, o alla sensazione della mano che ne carezza il pelo, si accompagna anche il suono linguistico “gatto”. Pensa al gatto, e intanto ascolta nella mente la parola che designa quel pensiero. Questa doppia e contemporanea rappresentazione mentale di uno stesso contenuto permette non solo di essere cosciente del gatto, ma anche di essere cosciente del fatto di essere cosciente del gatto. L’autocoscienza, per Freud, significa letteralmente parlare e ascoltare sé stessi. L’animale umano è quel vivente in grado di passare dall’istinto alla pulsione. Il processo secondario è letteralmente quello che lo psicologo sovietico Vygotskij chiamava «pensiero verbale» (Vygotskij, 1934).

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2. Il gioco del rocchetto Ma cosa allora è la «pulsione di morte» di cui parla Freud in Al di là del principio del piacere, questa strana «spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente al quale quest’essere vivente ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze proveniente dall’esterno» (Freud, 1920, trad. it. 1983, p. 222)? Intanto è da scartare ogni ipotesi interpretativa che preveda una misteriosa e universale forza biologica che spingerebbe «a ritornare allo stato inanimato» (Ivi, p. 224) (cfr. Laplanche, 1972; Sulloway, 1982; Green, 1991; Weatherill, 1999; Mills, 2006; Razinsky, 2013). Si tratta piuttosto di vedere qual è il dispositivo, proprio della natura umana (Hauser et al. 2002; Cimatti, 2011), che può essere all’origine di quei fenomeni che Freud spiega postulando appunto l’esistenza, accanto ad una «pulsione di vita», di una «pulsione di morte». La manifestazione principale di questa pulsione è la cosiddetta «coazione a ripetere» (Wiederholungszwang) (Freud, 1920, trad. it. 1983, p. 209). Il primo esempio, e migliore, di questa pulsione è il comportamento di un bambino (il nipote di Freud, all’età di un anno e mezzo), che: aveva l’abitudine […] di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi […]. Nel fare questo emetteva un “o–o–o” forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; […] questo suono non era un’interiezione, ma significava “fort” [“via”]. Finalmente mi accorsi che questo era un gioco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a “gettarli via”. Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno attorno a cui era avvolto del filo […] tenendo il filo a cui era attaccato, gettava […] con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo di farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo “o–o–o”; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]. Questo era dunque il gioco completo – sparizione e riapparizione – (pp. 200-201).

Secondo Freud attraverso questo gioco il bambino inscena un doppio movimento “simbolico”: l’allontanamento della madre – il gesto con cui il rocchetto viene scagliato via – e il suo ritorno, quando il rocchetto viene di nuovo riportato sul letto. In entrambi i casi è il linguaggio a marcare questi due movimenti: via dal bambino, “o–o–o”, vicino a lui “da”. Il bambino non si limita a gettare via

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qualcosa, un gesto comune a molti viventi (come quando un gatto scarta qualcosa che non vuole, ad esempio un cibo che non gradisce). Il gesto del bambino è un gesto simbolico, non sta allontanando da sé un oggetto che non vuole, sta allontanando da sé ciò che quell’oggetto significa. Il rocchetto non è un vero rocchetto, è un segno. Una parola scaccia via un oggetto, secondo Freud la madre, un’altra parola la riaccoglie vicino a sé. La parola qui non è un semplice accompagnamento di un gesto non linguistico: al contrario, senza la parola l’intera sequenza non sarebbe un gioco, non avrebbe il valore di una messa in scena rappresentativa. Perché è solo attraverso la parola che qualcosa di presente, il rocchetto, viene allontanato; e perché solo attraverso una parola che qualcosa di assente – la madre – può essere trasformata in qualcosa di presente. Il linguaggio umano è esattamente questa doppia possibilità: rendere presente una assenza (Marconi, 1997), rendere assente una presenza (Freud, 1925; Cuccio, 2011; Virno, 2013). Una parola, “da”, infatti si riferisce a qualcosa che non è presente, come il rocchetto alla madre assente, che quindi attraverso di essa è in qualche modo presente; un’altra parola, “o–o–o” rende assente – come la negazione – qualcosa che invece è presente (il rocchetto-madre viene negato, e quindi allontanato). Con due sole parole, in realtà, nel gioco del rocchetto viene messa in scena la potenza straordinaria del linguaggio umano (Sabbatini, 2010): capace di dare consistenza a ciò che non presente, perché basta l’evocazione di una parola perché ciò a cui si riferisce si presenti alla mente, anche se fisicamente non ce n’è traccia; capace allo stesso tempo di rendere in qualche modo assente ciò che è davanti agli occhi. “Questa non è una pipa” scrive René Magritte mentre ce ne mostra l’immagine. Cos’è che vediamo, allora, una pipa o no? O è soltanto una immagine della pipa? Ma già vedere qualcosa come immagine significa vederla come una specie di segno (non è affatto sicuro, infatti, che un animale non umano, cioè non linguistico, veda un’immagine in quella che noi chiamiamo immagine; cfr. Weisman, Spetch 2010). Ciò che è fisicamente presente diventa incerto e aperto al dubbio, perché la parola è più potente della cosa. “Non c’è un gatto sul tappeto”, dice qualcuno, e in effetti non ci sono gatti nella stanza, però subito è proprio ad un gatto che pensiamo, anche se non ne vediamo nessuno. La parola rende presente l’assente, la parola rende assente

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ciò che è presente. Il linguaggio è questa potenza. Che fin dall’inizio svela quindi un doppio carattere: estende il potere della nostra immaginazione, perché ci permette di pensare anche a ciò che non esiste; però allo stesso tempo rende ogni cosa come evanescente e mortale (Agamben, 1982; Green, 1993; Oberst, 2009; Cimatti, 2010; Hansen, 2011; D’Alonzo, 2013). I viventi muoiono da prima che esista il linguaggio, non è questo che ha introdotto la mortalità nel mondo della vita. Il linguaggio però rende gli umani plasticamente consapevoli della radicale caducità di tutto ciò che avrebbero tanto preferito pensare come eterno e indistruttibile. Basta un “non”, ed anche un bambino si accorge che nulla resiste alla corrosione del tempo. La madre del nipote di Freud comincia a morire la prima volta che il figlio gioca con il suo terribile “o–o–o”; ma non solo la madre, anche il figlio comincia a morire in quello stesso istante. In questo senso anche l’esperienza della temporalità comincia con il linguaggio (Cimatti, 2013). È terribile il prezzo che Homo sapiens paga per il fatto di parlare (Crow, 1997; Mufwene, 2004; Pennisi, Falzone, 2010; Cimatti, 2011; Pagliardini, 2011). 3. FLN e «coazione a ripetere» Che cosa è, propriamente, la «coazione a ripetere»? Abbiamo appena visto il bambino ripetere il gioco che mette in scena simbolicamente l’allontanamento della madre ed il suo ritorno. Un gioco che il bambino non si stanca di ripetere. È proprio questa ripetizione che deve essere spiegata. Anche se la ripetizione del gioco, infatti, può aiutare il piccolo umano a sopportare l’esperienza dolorosa dell’assenza della madre, ci si chiede perché sempre di nuovo ripeterla. Perché una volta che il gioco è riuscito, e la madre-rocchetto è tornata, il bambino sente ancora il bisogno di ricominciare da capo? Una prima risposta è contenuta nell’essenza stessa del linguaggio come fenomeno simbolico: il rocchetto è un segno della madre, non è la madre in carne ed ossa. Il bambino vuole la madre, non la rappresentazione della madre. In questo senso il sollievo dal dolore che procura il gioco dura poco, e quindi di nuovo occorre ripetere la sequenza «sparizione e riapparizione». Una sequenza, però, che lo costringe ogni volta anche a rivivere l’esperienza traumatica della separazione dalla madre. Il gioco del rocchetto tanto produce sollievo quanto produce dolore. Questa

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risposta, che è anche la più frequente, quella che vede il senso del gioco nel fatto che in questo modo il bambino è attivo e non si limita a subire il trauma, non è quindi del tutto soddisfacente. In effetti il carattere ripetitivo del gioco del bambino dice qualcosa che va oltre la sua soggettività, la sua scelta, il suo stesso desiderio. Il gesto compulsivo attraverso il quale il bambino è costretto a ripetere il movimento di andata e ritorno del rocchetto testimonia che in lui agisce una forza impersonale che è di gran lunga più potente e originaria della sua volontà. In che consiste, allora, il gioco del rocchetto? Riduciamolo alla sua forma più elementare: uno schema, una specie di enunciato atomico, composto da un primo segno, “o–o–o”, seguito da un altro segno, “da”, e poi di nuovo “o–o–o”, e così via. Una sorta di catena, in cui ogni maglia è saldata alla seguente, senza che apparentemente esista un’ultima maglia. Di fatto ad un certo punto il bambino si stancherà di ripetere il gioco, oppure sarà distratto da qualcos’altro, o semplicemente la madre sarà tornata, ciò che bloccherà la sequenza. Il punto da notare, però, è che di per sé la sequenza potrebbe continuare a ripetersi in modo indefinito. Non c’è nulla, al suo interno, che la arresti, perché una “fine naturale” non è prevista. Si ferma perché qualcosa, in modo contingente, la ferma, ma non perché debba fermarsi. La sequenza, cioè, si ripete indipendentemente dalla volontà del bambino. Qui è importante sottolineare il carattere impersonale di questa operazione: è la sequenza che si ripete, attraverso la bocca del bambino, non è lui che ripete la sequenza. Il soggetto logico e causale è la sequenza, non il bambino, che è soltanto il soggetto grammaticale (è un finto agente). È la lingua che parla, attraverso il bambino, non è il bambino che usa le parole per esprimersi. Il bambino di Freud mostra che la lingua parla, indipendentemente dalle intenzioni del parlante. Sembra di sentire le parole di Chomsky, nelle Strutture della sintassi: «la grammatica di una lingua L è così un dispositivo [device] che genera tutte le sequenze grammaticali di L» (Chomsky, 2002, p. 17). In questa definizione Chomsky non menziona il parlante, né le sue intenzioni, e nemmeno la semantica: il parlante, in particolare, è previsto solo in modo implicito: la lingua, e quindi la grammatica sottostante, ci sarebbe anche senza di lui, perché «la grammatica […] è indipendente dalla semantica» (Ivi, p. 106), cioè appunto dalle intenzioni di chi usa la lingua. Si tratta di una definizione potentissima: secondo una tradizione secolare la lingua è uno strumento al servizio degli esseri umani

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per consentirgli di esprimere i proprî pensieri. Chomsky, in questo nessuno più di lui ha seguito l’insegnamento di de Saussure, ribalta completamente questa tradizione: la lingua, in particolare la sua (della lingua) grammatica, è indipendente da chi la parla (anche per questa ragione, per Chomsky, è innata). La lingua intransitivamente parla, appunto. Il parlante c’è, certo che c’è, ma l’unico parlante di cui questa grammatica ha bisogno è una idealizzazione, un costrutto teorico necessario per la completezza della teoria, non è un essere umano in carne ed ossa: «la teoria linguistica in primo luogo si occupa di un parlante-ascoltatore ideale, in una comunità linguistica del tutto omogenea, che conosce perfettamente la sua lingua e non è influenzato da condizioni grammaticalmente irrilevanti come limitazioni di memoria, cambiamenti di attenzione e interesse, ed errori (casuali o caratteristici) nella applicazione della sua conoscenza della lingua nell’uso effettivo» (Chomsky, 1965, p. 3). Tutto quello che ha a che fare con il parlante reale, con il suo corpo e la sua psicologia, è del tutto irrilevante per capire cosa è una lingua, la sua inquietante essenza grammaticale. Una teoria scientifica della lingua non ha bisogno dei parlanti. Per spiegare quello che succede al nipote di Freud non occorre cercare nelle sue intenzioni o nei suoi pensieri: quello che occorre è attenersi a quello che si dice (nel senso che propriamente non c’è nessuno che lo dice, c’è un dire qui, c’è un parlare che parla in modo autonomo), alla sequenza linguistica “o–o–o”–“da”. Nel 2002, in un saggio che ha avuto una enorme diffusione, Chomsky ed altri individuano, all’interno della facoltà del linguaggio, quella che definiscono FLN (Faculty of Language in Narrow Sense), «un sistema computazionale (sintassi in senso ristretto) che genera rappresentazioni interne» (Hauser et al. 2002, p. 1571), a cui in seguito vengono associate rappresentazioni semantiche e fonologiche. Il linguaggio è un dispositivo computazionale, cioè una specie di automa, che per conto suo produce rappresentazioni astratte, indipendentemente dal fatto che qualche altro sistema cognitivo le possa in seguito associare ad un suono e ad un significato. Il «sistema computazionale» macina rappresentazioni astratte, è questo il suo compito, tutto il resto (semantica, psicologia, pragmatica) non conta. La funzione più importante della FLN è la ricorsività, che è una operazione che si applica al risultato di una precedente applicazione di quella stessa operazione: in questo modo la «FLN» a partire da

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«un insieme finito di elementi […] produce una matrice potenzialmente infinita di espressioni discrete. Questa capacità della FLN genera l’infinità discreta (una proprietà che caratterizza anche i numeri naturali)» (Ibidem). Dato un numero naturale n, attraverso l’applicazione dell’operazione successore (in base al secondo assioma di Peano per i numeri naturali), otteniamo il numero n+1; l’operazione può essere ripetuta quante volte si vuole, così come non c’è limite alle volte che il nipote di Freud può far seguire “da” a “o–o–o”, e così via. Tornando alla grammatica del linguaggio: «gli enunciati sono fatti di unità discrete: ci sono enunciati di sei parole e di sette parole, ma non di 6,5 parole. Non esiste l’enunciato più lungo di tutti […] così come non c’è un limite superiore non arbitrario alla lunghezza di un enunciato. In questo senso, il linguaggio è direttamente l’analogo dei numeri naturali. Nel caso minimo, la FLN include la capacità ricorsiva» (Ibidem). L’esempio dei numeri naturali è particolarmente suggestivo: applicando ricorsivamente l’operazione successore al precedente risultato della stessa operazione si dà inizio (in modo del tutto impersonale) alla sequenza potenzialmente infinita 1, (1)+1, (1+1)+1 … È in questo dispositivo che è intrappolato il nipote di Freud. Questa è l’essenza del linguaggio, che coincide con la coazione a ripetere. Ed è questa la pulsione di morte. 4. Chomsky e Lacan sulla natura umana In realtà – anche se una volta, durante un’intervista, ad una domanda su Lacan Chomsky avesse risposto rudemente “quite frankly I thought he was a total charlatan” – i due condividono, al di là di tutte le ovvie differenze che li separano, una idea simile del linguaggio (che entrambi, probabilmente, ricavano dall’insegnamento di Saussure; cfr. Chomsky, 1969, p. 174), e quindi della natura umana: la lingua è qualcosa che se ne sta per conto suo, che non ha bisogno del parlante, al contrario, di cui il parlante (per Lacan il Soggetto) subisce impotente gli effetti. È la lingua che parla, non chi ingenuamente crede di usarla per i suoi scopi. «Per lingua» scrive Chomsky, «si intende […] un insieme di frasi, tutte costruite a partire da un alfabeto finito di fonemi (o lettere). Queste frasi possono essere prive di significato, in qualsiasi senso indipendente dall’espressione, e non ne-

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cessariamente devono essere state usate dai parlanti la lingua» (Ivi, p. 36). Non è l’uso che definisce una lingua, cioè non sono i parlanti, le loro intenzioni, i loro scopi comunicativi: la lingua è quel particolare “oggetto” che esiste anche indipendentemente dai nostri corpi (infatti le frasi della lingua «possono essere prive di significato», e che ce ne facciamo noi di una lingua priva di senso? Il punto è proprio questo, la lingua non è fatta per noi). Che cosa intende Chomsky? Che quello che rende lingua un insieme di frasi è contenuto dentro la stessa lingua: una lingua è una faccenda di sintassi (cioè di forma), non di semantica e tanto meno di pragmatica. La lingua vive di vita propria, e questa vita coincide con la sua «grammatica» che è da intendere come «un dispositivo che genera tutte le frasi grammaticali della lingua […] senza generare non frasi» (Ibidem). Una lingua è un «dispositivo» che «genera» soltanto enunciati corretti, anche se mai nessun corpo umano userà uno di questi enunciati (nei termini di Eco, 1993, questa è una «lingua perfetta»). Questo vuol dire, semplicemente, che la lingua non ha bisogno degli esseri umani; di più, questo significa che la lingua si serve dei corpi umani per realizzare le sue – della lingua – possibilità sintattiche. Qui torna il caso della «infinità discreta» (Hauser et al. 2002). Qual lo scopo intrinseco di una lingua? Ancora una volta la risposta la troviamo nella lingua stessa, non nelle intenzioni o negli scopi dei parlanti; in particolare, «per grammatica intendiamo un insieme di regole che […] specificano ricorsivamente le frasi di una lingua» (Chomsky, 1969, p. 121). Lo scopo immanente della lingua è “generare” enunciati grammaticali: consideriamo il caso […] di una grammatica contenente le due regole [di riscrittura]: F [frase]  aF; F  a. Questa coppia di regole può generare ricorsivamente qualunque frase a, aa, aaa, aaaa, …. (Ovviamente possono essere messe in corrispondenza biunivoca con gli interi cosicché la lingua sarà infinita numerabile). Per esempio, per generare aaa procediamo come segue: F (il simbolo iniziale dato) aF (applicando la prima regola di riscrittura) aaF (riapplicando la prima regola di riscrittura) aaa (applicando la seconda regola di riscrittura) (Ivi, p. 122).

Si parte da «F», e poi applicando ricorsivamente le regole alle precedenti applicazioni delle stesse regole si possono “generare” tutte e

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solo le infinite sequenze grammaticali della lingua (è sufficiente questo punto, per capire perché la lingua non sia al nostro servizio; che se ne fanno dei corpi finiti di infiniti enunciati?). Il «dispositivo» linguistico, dati il simbolo iniziale e le regole di riscrittura, non ha bisogno d’altro. Non è un caso che ancora oggi per Chomsky il linguaggio non abbia una spiegazione evolutiva: quello del linguaggio è un vero e proprio «mistero» (cfr. Hauser et al. 2014). Può ricevere una spiegazione evoluzionistica una attività che abbia una evidente funzione biologica, ma come spiegare ciò che non ha scopo? Chomsky non parla mai di «pulsione di morte», eppure, che cos’è questa lingua che vive di vita propria a spese dei corpi umani che la “usano”? «La situazione del desiderio», dice Lacan nel Seminario VI, «è profondamente marcata, fissata, rivettata ad una particolare funzione del linguaggio, ad un particolare rapporto del soggetto al significante» (Lacan, 2013, p. 14). Anche Lacan, come Chomsky, non parla mai né di semantica né di significato. Il «dispositivo» linguistico, come abbiamo appena visto nell’esempio delle regole di riscrittura di Chomsky, “funziona” indipendentemente dal senso. Il movimento intrinseco del linguaggio è puramente sintattico. Il «desiderio», cioè la molla sempre carica che spinge l’umano e lo scuote senza soste, ha a che fare con il significante. Torniamo per un momento al nipotino di Freud, al gioco del rocchetto che lo trascina con sé, senza che lui possa fermarlo. Qual è la forza irresistibile, la pulsione appunto, che lo spinge sempre di nuovo a lanciarlo oltre le cortine del suo letto? la soggettività di cui si tratta, in quanto l’uomo è preso nel linguaggio, in tanto che è preso, che lo voglia o no, e che lo è ben al di là del sapere che ne ha, non è immanente ad una sensibilità, se la si intende come qualcosa che abbia a che fare con la coppia stimolo-risposta. La ragione sta nel fatto che lo stimolo è dato in funzione di un codice che impone il suo ordine al bisogno, nel quale deve essere tradotto (Ivi, p. 20).

La «soggettività» umana non è quella che si può spiegare attraverso la coppia stimolo-risposta (Lacan parla in anni segnati dalla psicologia comportamentistica, tutta basata su questa coppia). La «soggettività» umana è caratterizzata dal fatto che il «bisogno» (che è proprio del corpo vivente, così come tutti gli animali hanno istinti) umano è «in funzione di un codice», cioè appunto di una lingua. La soggettività specificamente umana si costruisce nell’incontro fra bi-

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sogni corporei e lingua. Il «bisogno», ad esempio la fame, si arresta quando è soddisfatto: quando lo stomaco è pieno non c’è più bisogno di cibo. Ma il «desiderio», invece, non si soddisfa così facilmente. Quello del nipote di Freud, ad esempio, non è un «bisogno» proprio perché rimane sempre insoddisfatto. Per questa ragione l’alternanza di “o–o–o” e “da” non si ferma mai. Perché qui è in campo un «desiderio», non un «bisogno». Il «desiderio» non si soddisfa mai, il desiderio agita sempre di nuovo il corpo dell’animale umano, il corpo dell’animale che parla. E sappiamo anche perché il desiderio non si arresti, perché nel corpo del bambino è in funzione un «dispositivo» che continua a “generare” sempre nuovi pensieri. Il «desiderio» è l’effetto psicologico del funzionamento del linguaggio. Non saremo sorpresi, a questo punto, se scopriamo che anche Chomsky la pensa così. Come si spiega, si chiede, la capacità umana di progettare complessi piani d’azione proiettati nel futuro? Se li si analizza nel dettaglio si scopre che sono organizzati gerarchicamente, proprio come succede nella grammatica di una lingua: Probabilmente non è un caso che una teoria della struttura grammaticale possa essere generalizzata così facilmente e naturalmente quale schema per teorie di altri tipi di comportamento umano complicato. Un organismo complicato e altamente strutturato, al punto da eseguire le operazioni che […] sono interessate nella comunicazione linguistica, non perde improvvisamente la sua complicazione e la sua struttura quando si rivolge ad attività non linguistiche. In particolare, questo organismo può formare piani verbali per guidare molti suoi atti non verbali. Il meccanismo verbale produce enunciati – e, per gli uomini civili, gli enunciati hanno un potere irresistibile di controllo sul pensiero e l’azione (Chomsky, 1969, p. 375).

Non c’è nessun bisogno di forzare le parole di Chomsky, è tutto molto esplicito: si parla di «meccanismo verbale [che] produce enunciati», non di un parlante che decide di agire così e così. Il «meccanismo» mette in movimento il corpo umano attraverso «enunciati» (che sono stati “generati” in modo del tutto autonomo) che esercitano un «potere irresistibile di controllo sul pensiero e l’azione». È chiaro chi comanda qui, e non è certo il corpo umano. Le conseguenze di queste premesse le trae Lacan, che in questo è molto più chomskyano (e coraggioso) di Chomsky: «il soggetto che ci interessa, soggetto non in quanto fa il discorso, ma in quanto è fatto dal discorso, come un topo preso in trappola, è il soggetto dell’enunciazio-

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ne» (Lacan, 2014, p. 38). Chi “parla”, chi “prende” le decisioni, chi “vuole” non è altro che «un topo preso in trappola». E la trappola è il linguaggio: «il soggetto viene fabbricato tramite un certo numero di articolazioni che si sono prodotte e da cui egli è caduto come un frutto maturo della catena significante» (Ivi, p. 44). La natura umana è segnata dalla «pulsione di morte», che coincide con quella stessa facoltà di linguaggio che lo rende umano (come dice Laplanche, 1972, «pulsione di vita» e «pulsione di morte» sono due facce di uno stesso meccanismo): il nostro soggetto così com’è, il soggetto che parla, se volete, può ben rivendicare il primato, ma non sarà mai possibile considerarlo puramente e semplicemente come libero iniziatore del suo discorso, dal momento che, essendo diviso, esso è legato a quell’altro soggetto che è il soggetto dell’inconscio e risulta dipendente da una struttura di linguaggio. È questa la scoperta dell’inconscio (Ivi, p. 51).

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4. Il paradosso del ricordare

Io continuerò a piangere e a non capire nulla. È possi­bile capire la sofferenza degli altri, troviamo persino pa­role di conforto, persino un rimedio per coloro che han­no perduto tutto. Ma nessuno riesce a capire il proprio dolore (Fred Wander, Il settimo pozzo, p. 96).

1. La tesi di Wander Perché «nessuno riesce a capire il proprio dolore»? Un consolidato luogo co­mune vuole proprio il contrario, soltanto io posso sapere e capire quello che provo, tu sei costretto a limitarti all’apparenza, a ciò che è esterno, puoi al mas­simo congetturare il mio stato interno. Quello che c’è dentro la mia anima è invisibile per tutti meno, ovviamente, per me. Sarebbe allora vero esattamen­te il contrario, solo chi l’ha provato può comprendere quel dolore, e proprio nessun altro. E invece Fred Wander (nato Fritz Rosenblatt, cambiò nome do­po la fine della guerra), un ebreo viennese fra i pochissimi scampati ai campi di sterminio (Il settimo pozzo è la storia di quegli anni), di colpo ci mostra un aspetto del problema che il luogo comune ci impedisce di vedere: mentre «è possibile capire la sofferenza degli altri», persino di «coloro che hanno perdu­to tutto», è proprio la nostra interiorità che non capiamo. Ciò che è più vici­no a noi non riusciamo a vederlo, mentre possiamo vedere e comprendere ciò che è lontano. È la tua interiorità che io posso vedere, e tu la mia, non io la mia e tu la tua. In questo capitolo proviamo a capire il senso delle parole di Wander. Il te­ma che ci interessa è il complicato rapporto che si stabilisce fra ricordo e indi­vidualità, e in particolare: il ricordo è un’esperienza

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privata? Oppure (anche se è difficile immaginare in che modo possa esserlo) il mio ricordo è fin dall’inizio qualcosa di pubblico (per questa ragione «nessuno riesce a capire il proprio do­lore»)? Detto altrimenti, il soggetto di un’esperienza individuale è un io o, con­tro il luogo comune dell’interiorità, un noi? Dal modo in cui si risponde a que­sta domanda discende anche il modo di pensare il rapporto fra il cosiddetto «dovere della memoria» e ciò che quel dovere ingiunge di ricordare (Margalit, 2002). Se infat­ti il ricordo non è mai, paradossalmente, individuale, se non può esserlo, per­ché un’esperienza radicalmente individuale non è una esperienza, allora l’uni­co modo di provare a preservare la fedeltà del ricordo rispetto all’esperienza originaria implica sempre una qualche forma di tradimento dell’unicità di quel­la stessa esperienza. È possibile rimanere vicini a quell’esperienza solo se accet­tiamo di allontanarcene, se la rendiamo pienamente pubblica; ma in questo modo, appunto, se ne perde l’impensabile e intollerabile individualità. Lo psicoanalista Christopher Bollas definisce questo stato il «conosciuto impensato», che può diventare qualcosa di «pensato» solo se, attraverso la mediazione della lingua pubblica e del­la relazione affettiva con l’altro, dà vita a «un’esperienza del tutto nuova, dato che a “qualcosa” viene data una dose di spazio, di tempo e attenzione in cui può emergere» (Bollas, 1987, trad. it. 2001, p. 282). È la psicoanalisi, in effetti, che prima di ogni altro sapere si scontra con la tesi di Wander: il suo scopo dichiarato è giungere al nucleo originario di ciascun essere umano, ai “suoi” ricordi più dolorosi, alle “sue” esperienze fondamentali. Secondo questa tesi controintuitiva la persona meno in grado di ricordare, pensare e dire quelle esperienze è proprio colui che ha vissuto quelle esperienze. Com’è possibile? Definiamo un’esperienza integrale quando assorbe completamente chi la vive, al punto di escludere ogni altra possibile esperienza; evidentemente l’internamento in un campo di sterminio nazista è una esperienza integrale. La tesi di Wander è che un’esperienza del genere è impossibile. E non perché sa­rebbe un’esperienza troppo coinvolgente da un punto di vista psicologico (co­me se, cioè, una persona emotivamente più forte potesse sopportare qualcosa del genere). È impossibile perché logicamente impossibile: per trasformare un evento della vita in una esperienza, che quindi può essere ricordata e descritta, è necessario che non sia una esperienza integrale.

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L’esperienza integrale è affatto individuale, perché coinvolge tutte le risorse, corporee e psichiche, di chi la vive; ebbene, proprio questa caratteristica impedisce che questa vicenda diventi una esperienza. L’esperienza integrale è assolutamente individuale; secondo Wander una esperienza davvero individuale non è una esperienza, perché ciò che è assolutamente individuale non può essere raccontato a nessuno, nemmeno a sé stessi. Solo un’esperienza individuale può essere un’esperienza integrale, ma un’esperienza integralmente individuale non è un’esperienza (cfr. Harvey, Briant, 2002; Foisson et al. 2006). Il punto è dolo­rosamente chiaro per Primo Levi, che in una pagina famosa de I sommersi e i salvati scrive, infatti: non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. […] Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i “mussulmani”, i sommersi, i testimoni integrali, colo­ro la cui deposizione avrebbe avuto il significato generale. Loro sono la rego­la, noi l’eccezione (Levi, 1986, p. 64).

Qui Levi pone un vero e proprio paradosso: il vero e uni­co «testimone» è chi ha «toccato il fondo», chi cioè ha vissuto l’esperienza in­tegrale dell’annientamento. Questa è l’esperienza integrale, quella in cui è l’inte­rezza della persona, corpo ed anima, ad essere coinvolta in un’esperienza che non lascia spazio per nient’altro, per nessun’altra emozione, per nessun’altro pensiero, per nessun’altra parola. E difatti soltanto un’esperienza del genere avrebbe potuto aspirare ad un «significato generale», e non essere soltanto l’e­sperienza particolare, per quanto terribile, di quest’uomo o di quell’altro. So­lo passare per l’esperienza integrale permette ad un uomo di diventare un «te­ stimone» in senso pieno. Ed ecco il paradosso, però: un’esperienza del genere è integrale proprio perché non ammette ritorno, proprio perché non può essere raccontata in pri­ma persona; perché se la si può raccontare allora non è stata un’esperienza in­tegrale. Un uomo può essere un «testimone» solo se «non è tornato per rac­contare, o è tornato muto». Puoi essere un «testimone» solo se non sei più un uomo, se non puoi più raccontare nulla di quello che hai vissuto. Puoi essere un «testimone» solo se, in realtà, non lo sei più. È questa la tesi di Wander, in sostanza. Si tratta di un paradosso che per Levi è evidente:

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noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccon­tare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto: ma è stato un discorso “per conto di terzi”, il racconto di cose viste da vicino, non spe­rimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. I sommer­si, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Par­liamo noi in loro vece, per delega (Ivi, p. 65)

I «salvati» – come Levi e Wander – proprio perché sono riusciti a scampare alla «demolizione condot­ta a termine», possono raccontare non solo il proprio destino, ma provare a descrivere anche «quello degli altri, dei sommersi, appunto». Il fatto è che l’e­sperienza integrale è quella del sommerso, di chi ha vissuto l’esperienza dell’annientamento fino in fondo, fino a raggiungere la situazione in cui ogni te­stimonianza non è più possibile. La condizione piena ed integrale del testimo­ne impedisce la testimonianza; il «testimone» infatti è «muto», non parla. Vedremo nelle pagine seguenti che la condizione del mutismo non riguarda solo il linguaggio, ma anche e soprattutto quella del ricordo. Senza parola non c’è nemmeno ricordo. E così chi si è salvato parla «per conto terzi», il suo è «il racconto di cose viste da vicino» certo, ma una vicinanza che è affat­to diversa da quella assoluta identificazione di sé ed esperienza che prova, in­ vece, chi quelle vicende le ha «sperimentate in proprio». La verità, integrale e definitiva, dell’esperienza l’ha vissuta solo chi non sopravvissuto a quella stes­sa esperienza; la condizione, terribile e afasica, di vivere l’esperienza dell’an­nientamento è possibile solo se si perde la possibilità di raccontarla. Posso sa­pere fino in fondo cos’è ciò che ho realmente vissuto soltanto se perdo la pos­sibilità di raccontarlo, di renderlo noto a chi non l’ha vissuto. Ma c’è di più, e così ci avviciniamo alla tesi di Wander. L’esperienza integrale non solo impe­disce il suo racconto, da parte di chi l’ha vissuto, cioè del sommerso, ma sem­bra impedire il suo stesso ricordo. In effetti ricordare un avvenimento significa, ad esempio, raccontarlo ad un amico, scriverne su un diario, disegnarlo su un foglio, riviverlo nell’immaginazione. Prendiamo il primo caso, raccontarlo ad un amico. Raccontare qualcosa significa scegliere alcune parole rispetto ad altre, individuare una sequenza negli avvenimenti, e la sequenza che si sceglie non coin-

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cide necessariamente con quella vissuta; c’è qui, anche se in modo impli­cito, un confronto, una selezione rispetto ad altre parole che avrei potuto usare al loro posto. Tutto questo equivale ad un lavoro di allontanamento dall’espe­rienza, che proprio per questa ragione non è un’esperienza integrale, che inve­ce non ammette alcuno scarto fra ciò che si vive e chi lo sta vivendo. Ora, è proprio questo allontanamento che i sommersi non potevano più realizzare, essendo ormai in una condizione di identificazione senza ritorno con la vicen­da in cui erano precipitati. Infatti, «anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale». Il ricordo, è il ricordo di qualcuno, è il mio ricordo. E questo si­gnifica che io e ciò che ricordo non coincidiamo, c’è una distanza fra me e la mia esperienza. E questo diaframma consiste appunto nella capacità di «osser­vare, ricordare, commisurare ed esprimersi». Quando questa capacità s’è per­sa, quando non c’è più un io che si differenzi da quanto sta accadendo, non c’è nemmeno più la possibilità di un ricordo, perché non esiste un ricordo pri­vo di qualcuno che lo ricordi: perché i ricordi non si ricordano da soli. È un punto importante, spesso del tutto trascurato: il rapporto del “ricordo” con il passato non è un rapporto ovvio. Una fotografia ingiallita di un vecchio album non è, di per sé, una testimonianza del “passato”. Infatti se la osserva un gatto non ci vede il passato, vede solo un oggetto. Il passato non sta nella fotografia. Il punto è che questo vale anche per i “nostri” ricordi. L’immagine mentale di mia madre non è una testimonianza del “mio” passato; di per sé è una immagine mentale come un’altra, occorre qualcos’altro perché la possa collocare nel “passato”. Non esi­ste una traccia mnestica autosufficiente, che non abbia bisogno di qualcuno che la ricordi e la riconosca come un proprio ricordo: «l’idea che debba esserci a di­sposizione della persona una memoria immagazzinata, e che questa sia la condizione della sua capacità di ricordare presuppone la memoria […] e non può spiegarla. Perché anche se ci fosse una simile registrazione, bisognerebbe comunque ricordarsi come leggerla […]. Allo stesso modo si può usare un album fotografico come un aide-mémoire solo che si ricorda di che cosa quel­le foto siano immagini» (Bennett, Hacker, 2003, p. 164). Se non so che quella persona che vedo ripresa nella foto è morta da anni, non potrei nemmeno “vedere” in quella foto il “passato”.

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La fotografia è una cosa qualunque, il ’senso’ di quella cosa non sta dentro di essa. E lo stesso vale per i ricordi. Ci aiuta a comprendere questo groviglio un passo di Zettel, il libro che raccoglie una serie di pensieri di Wittgenstein sul problematico statuto logi­co delle entità psicologiche: «Il ricordare: un vedere nel passato. Il so­gnare si potrebbe chiamare così, quando ci presenta il passato. Non però il ricordare; perché, anche quando ci mostrasse scene con allucinante chiarez­za, sarebbe certo soltanto il ricordo a insegnarci che si tratta del passato» (Wittgenstein 1967, trad. it. 1986, § 662). Non basta vedere nell’immaginazione una scena «con allucinante chiarezza»; di per sé non è altro che una immagine mentale, senza alcuna colloca­zione temporale. Cosa rende quell’immagine un ricordo, cioè la rievocazio­ne di una esperienza passata? «Ma se la memoria ci mostra il passato, come fa a mostrarci che è il passato? Appunto, non ci mostra il passato. Non più di quanto i nostri sensi ci mostrino il presente» (Ivi, § 663). Perché quell’immagine rappresenti una esperienza che abbiamo vissuto nel passato, occorre qualco­sa d’altro, oltre al suo presentarsi alla nostra immaginazione. Wittgenstein ci sta dicendo che l’esperienza del passato, quella che trova espressione nel ricor­do, non è qualcosa di esclusivamente interno, non è qualcosa di psicologi­co. Può venirmi in mente una certa immagine, ma se in qualche modo (non interno, non privato) non aggiungo a quell’immagine una determinazione temporale, non potrei – ad esempio – distinguerla da un sogno, che non è legato ad alcun tempo particolare. La temporalità del ricordo non è una ca­ratteristica interna dell’immagine che mi si presenta nell’immaginazione. «Non si può nemmeno dire che ci comunichi il passato. Perché, anche se la memoria fosse una voce udibile, che ci parlasse – come potremmo comprenderla? – Se ci dice per esempio: “Ieri il tempo era bello”, come posso fa­re per imparare cosa significhi “ieri”?» (Ivi, § 664). Immaginiamo all’occhio della mente si presenti una certa immagine, ed insieme ad essa ascoltiamo anche una vo­ce interna che aggiunge questo commento: “ieri”. In questo modo potrem­mo capire che l’immagine è in realtà un ricordo del passato, e non un’imma­gine onirica, senza tempo. Ma il problema, ci fa osservare Wittgenstein, l’ab­biamo solo spostato. Perché si ripropone identico per la parola “ieri”: qual è la temporalità di questa espressione linguistica? Il significato temporale di questa parola non è contenuto nella parola stessa, e quindi

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siamo di nuovo al­le prese con il problema di cosa distingua un ricordo da un’atemporale im­magine mentale. La conclusione di questa analisi è sconcertante: l’esperienza del tempo non è dentro la nostra testa, non basta quindi che qualcosa si presenti nella immaginazione perché la si possa trattare come un “ricordo”. Ma cosa rende, allora, uno stato mentale una testimonianza del “passato”? 2. Di chi è il ricordo? Siamo partiti dalla tesi di Wander, secondo la quale «nessuno riesce a ca­pire il proprio dolore». Per comprendere il perché di questa tesi così inconsue­ta, quando il luogo comune dell’interiorità vuole esattamente il contrario, ab­biamo analizzato le pagine di Levi sul paradosso del testimone: può testimo­niare della tragedia della Shoah solo chi non l’ha vissuta fino in fondo. Chi, invece, ha vissuto l’esperienza integrale di quella terribile vicenda «non è tor­nato per raccontare, o è tornato muto». Il problema, abbiamo capito, è quel­lo dell’esperienza: che significa fare esperienza di qualcosa? Si tratta di un fe­nomeno privato (psicologico) o invece è qualcosa di pubblico? Abbiamo, con Wittgenstein, cominciato a capire che non può essere un fenomeno individua­le, perché il ricordo di un’esperienza non è un processo che possa aver luogo soltanto, o esclusivamente, all’interno di una mente individuale. Abbiamo an­zi cominciato a scoprire, al contrario, che un ricordo non è un’entità psicolo­gica, non è qualcosa che si trovi all’interno dell’individuo che lo ricorda. Per quanto possa essere paradossale abbiamo visto che la caratteristica temporalità del ricordo (ciò che ci permette di dire che una certa immagine rappresenta il ricordo di qualcosa che ci è successo nel passato, e non un sogno) non è con­tenuta nel ricordo stesso. Prendiamo il caso di una fotografia in cui si vede una coppia si abbraccia. Ora, in che senso è il passato, che si vede in quella foto? Ad esempio, nel suo essere ingiallita, oppure nella posa ormai desueta della coppia, o nei loro vestiti, del tutto fuori moda, o ancora in una data scrit­ta a penna sul retro della foto. Se non avessimo avuto nessuno di questi indi­zi, avremmo ancora inteso la fotografia come una testimonianza (un ricordo) del passato? Come l’avremmo distinta da una fotografia scattata oggi (o da una che sarà scattata domani)? Se

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ora spostiamo l’immagine nella nostra mente, non si pone proprio lo stesso problema? Un’immagine mentale, di per sé, non dice in che modo debba essere osservata e compresa, e tantomeno rivela una sua intrinseca temporalità. Il tempo non è una caratteristica interna degli sta­ti mentali. Se applichiamo il caso della foto a quello degli stati interni, allora un’esperienza può diventare un ricordo proprio perché – come nel caso della foto – aggiungiamo all’esperienza una serie di caratteristiche che prendiamo dal mondo non psicologico, dal mondo esterno al soggetto. In questo modo pos­siamo dargli una collocazione non solo spaziale, ma anche temporale. Così di­venta, appunto, un ricordo. Ma allora l’esperienza nasce pubblica, e la tesi di Wander diventa comprensibile (ed anche tollerabile, per quanto ha di tragico rispetto ai «sommersi»). Si tratta pertanto di capire come sia possibile che il ricordo non sia un fe­nomeno psicologico, e più in generale come si formi uno stato interno, ad esempio come un’esperienza diventi un ricordo. La via, ancora una volta, ce la indica Wittgenstein: «Una cosa la presento a me stesso soltanto nel modo in cui la presento anche all’altro» (Ivi, § 665). Finora, proprio perché ci muovevamo seguendo il luogo comune dell’interiorità presumevamo che ciò che accade al nostro interno ci fosse del tutto chiaro, mentre fosse oscuro quanto succe­de agli altri, nella loro inaccessibile interiorità. Ma seguendo questa strada ab­biamo visto che siamo incapaci, ad esempio, di distinguere un’immagine men­tale da un ricordo, un sogno da un ricordo, una fantasia da una testimonianza. In realtà, ci dice Wittgenstein, posso chiarire a me stesso quanto ho vissuto, le mie esperienze, solo se posso fare la stessa operazione con un altro (cfr. Cimatti 2007a). In modo ancora più netto: io posso ricordare qualcosa se posso rac­contare a te quello che ho vissuto. La mia memoria dipende dalla tua (e vice­versa, naturalmente). Torniamo allora al paradosso che ci mostra Levi, del te­stimone che può testimoniare proprio perché non ha vissuto l’esperienza inte­ grale, proprio perché non ha vissuto fino in fondo ciò di cui testimonia; in realtà non tradisco l’esperienza che non ho vissuto fino in fondo nel raccontartela, perché questo è l’unico modo, anzi il modo naturale, di trasfor­mare un evento della vita in un ricordo: solo perché la mia esperienza non è stata una esperienza integrale posso parlarne, a te come a me. In questo modo il paradosso diventa forse

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meno paradossale, e meno drammatica la condizione di chi parla «per conto terzi». Poiché l’esperienza integrale impedisce il ricordo, con la conseguenza che so­lo perché c’è un nucleo d’esperienza che non possiamo ricordare, è possibile – paradossalmente – il ricordo. E questo nucleo che sfugge al ricordo è costitui­to da un’esperienza che fino in fondo non abbiamo vissuto, o da un’esperien­za che abbiamo sì vissuto, ma senza che diventasse per noi l’impensabile e ter­ribile esperienza integrale. In effetti per Freud il compito dell’analisi, del ricordo condiviso, è proprio quello di «ri­condurre […] al passato» gli «elementi della malattia» che altrimenti sarebbero destinati soltan­ to ad essere meccanicamente ripetuti (Freud 1914, trad. it. 1977, p. 357). Il tempo, para­dossalmente, è il punto finale dell’esperienza del ricordare, non la sua premessa. La temporalità non sta nel ricordo, al contrario, possiamo ritenere “passato” uno stato mentale solo perché lo abbiamo raccontato ad altri, e collocato così nel “passato”. Il problema che solleva la tesi Wander lo possiamo riformulare così, a questo punto: esiste qualcosa che soltanto io posso conoscere, del mio mondo priva­to, e che è del tutto inaccessibile agli altri? La posta in gioco, evidentemente, non è un segreto che non dirò mai a nessuno, perché se alla fine lo dicessi a qualcuno questi non avrebbe difficoltà a comprenderlo. Il problema è più ra­dicale: esiste qualcosa della mia esperienza che in linea di principio nessuno al­l’infuori di me potrebbe comprendere? Qualcosa di assolutamente incomuni­cabile, perché anche se trovassi le parole per dirlo nessuno le comprenderebbe nel mio – l’unico rilevante, in questo caso – senso? Se qualcosa del genere esi­ste la tesi di Wander è falsa. Prendiamo le mosse, allora, proprio dal modo in cui il senso comune imposta il problema: «Che senso ha dire: questa esperienza non è descrivibile? Vorremmo dire, è troppo complessa, troppo sottile. Questa esperienza è in­comunicabile ma io la conosco – perché sono io ad averla» (Wittgenstein 1993, trad. it. 2007, pp. 9-10). Già, però subi­to viene spontanea una domanda: e tu, come lo fai ad essere così sicuro di avere quest’esperienza, proprio questa e non un’altra? Non basta, in effetti, ribadire con enfasi che chiunque sa bene quel che prova. Ci si può sempre sbagliare, tutti i giorni ci sbagliamo, perché non potrebbe succedere anche in questo caso? Il senso co­mune ribadisce il punto, però: «Parlo della mia presenza, per così dire, in sua presenza» (Ivi, p. 10). Ma questa, evidentemente, non è ancora

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la risposta che cerchia­mo, una certezza interiore è certo una certezza, ma soltanto soggettiva, e una certezza soggettiva e privata non è una certezza. Si trat­ta di capire, intanto, in che modo stabiliamo quale sia l’oggetto della nostra esperienza, in che modo identifichiamo lo stato interno che stiamo provan­do. Questa operazione è semplice quando ci occupiamo degli oggetti alla lu­ce del sole: vado al mercato, sono al banco della frutta, prendo in mano un paio di arance, e dico al fruttivendolo, “Me ne dà un paio di chili, per favo­re?”. Il fruttivendolo non ha dubbi, sto parlando di arance, le abbiamo da­vanti agli occhi io e lui. Oppure, siamo dal meccanico, il cofano della nostra auto è sollevato, traffica con le mani nel motore, ci mostra una guarnizione bruciata, e ci dice, soddisfatto, “Ecco la causa di tutto quel fumo”. Anche in questo caso c’è qualcosa in comune fra noi e lui, qualcosa di pubblicamente accessibile. Se c’è un dubbio non dobbiamo fare altro che andare a vedere, in­sieme, l’oggetto che ci interessa; se la frutta di quel fruttivendolo non mi piace posso passare da un altro banco, se quel meccanico non mi convince posso andare da un altro meccanico. Nulla del genere nel caso degli stati interni, dei pensieri, dei ricordi. Per queste entità sembra esserci un solo esperto, io che li provo: «Non vi è solo la parola “mal di denti” ma anche una cosa come il mal di denti stesso» (Ibidem). La possibilità dell’errore sembra essere esclusa in linea di principio. Anzi, sembra che sia proprio questa la definizione del punto di vista interno: su quello che accade dentro di me non posso sbagliarmi. Ma torniamo alla domanda che ci siamo posti poco più sopra: come identifichiamo – per noi stessi – uno stato interno? «Sembra che dal mo­mento che non posso, per esempio, descrivere un’esperienza ma la ho, ne con­segua che posso conoscerla con più esattezza di chiunque altro. Ma che signi­fica conoscere un’esperienza se non significa descriverla e non significa aver­la? Vi è una conoscenza dell’esperienza che non possiamo comunicare?» (Ibidem). Tor­niamo al caso del meccanico. Poniamo che stia ancora studiando per ricevere il diploma di perito meccanico, o qualcosa del genere: l’esaminatore gli chie­de, «Che cos’è la marmitta?». Immaginiamo che il meccanico risponda co­sì, “Lo so benissimo cos’è, ho davanti agli occhi nitidissima la sua immagine, ma non riesco ad esprimerlo, le parole della mia lingua non sono in grado di dirlo”. Ora, si potrebbe sostenere che il mecca­nico ha una conoscenza reale

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della marmitta? In che senso si può dire di qualcuno che saprebbe qualcosa se poi non sa né indicarcelo né usarlo prati­camente? Secondo l’immagine del luogo comune dell’interiorità succede pro­prio questo, invece, quando si tratta degli stati interni. So benissimo che co­sa provo, qual è il mio stato interno, ma non riesco a dirtelo con le parole. Ma che strano tipo di conoscenza è, questa? Facciamo un esempio diverso, più vicino al problema che ci interessa in queste pagine, l’identificazione di una immagine interna come un ricordo. Ve­do un fiore rosso, e poi, in un’altra occasione, dico di un altro fiore che il suo colore è lo stesso “rosso” del primo fiore. C’è un incontro in un giardino – vedo un fiore ros­so – e poi – quando osservo l’altro fiore – il ricordo di quella esperienza. Suc­cede tutti i giorni, non c’è nulla di strano, eppure un problema c’è, almeno se ci atteniamo al luogo comune dell’interiorità: «qual è il criterio per dire che lo stesso colore ritorna due volte?» (Ivi, p. 37). Come facciamo a dire che è lo stesso “rosso” dell’altra volta? Ci sembra un problema da nulla perché senza accorgercene ci basiamo su quello che facciamo quando casi come questi si pongono alla luce del sole. Dipingo una stanza della mia casa di un certo colore, poi voglio di­pingere dello stesso colore anche un’altra stanza. Prendo un campione del co­lore della prima stanza, vado nel negozio di vernici e confronto il campione con diverse sfumature della stessa tinta, fino a trovare quella che cerco. È un’o­perazione pubblica, che riesce proprio perché è pubblica; il campione del colo­re, infatti, non è nella mia testa, ma ben visibile sul banco del negozio di ver­nici, ed è facile così confrontare con esso gli altri colori. Al contrario, nel ca­so del ricordo del colore “rosso” quest’operazione è impossibile. E allora, cosa giustifica quest’operazione? «Se descriviamo un gioco che egli gioca con sé stes­so, è importante che egli usi la parola “rosso” [per] lo stesso colore nel nostro senso, o lo chiameremmo ancora un gioco linguistico, comunque la usasse? Qual è allora il criterio per usarla nello stesso modo? Non semplicemente la relazione fra “stesso”, “colore” e “rosso”» (Ibidem). Posso dire che tu sai usare la parola “rosso” se la usi come la usiamo nella nostra comunità, se quan­do vedi rosso dici “rosso”, ad esempio. Qui il criterio per dire che sai usare que­sta parola è una prassi pubblica. Quindi o il caso del ricordo del colore è di questo tipo, oppure non c’è alcuna giustificazione per il tuo comportamento. Nel primo caso, lo stato interno viene comunque individuato me-

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diante un cri­terio pubblico; se si rinuncia al criterio esterno, sociale, e si sostiene che ci si basa su una evidenza interiore, non abbiamo più alcuna ragione per fidarci di te, perché un criterio privato non è un criterio (non ci fideremmo di un frut­tivendolo che pesasse la frutta mediante una sua “infallibile bilancia interio­re”; o la bilancia la vedo anche io, oppure non è una bilancia). «Qual è lo stes­so colore di quello che ho visto? Non è quello a cui applico le parole “questo è lo stesso colore”?» (Ibidem). So che riconosci il «rosso» quando sai usare questa paro­la secondo le regole della lingua italiana. Può darsi che per te queste regole sia­no inessenziali, e che in realtà ti affidi ad una tua misteriosa intuizione priva­ta; può darsi, ma non ci interessa né ci riguarda, quello che conta è che usi “rosso” come l’usa la comunità di cui fai parte. 3. Il grido nel deserto Ma quanto riguarda, questo tipo di prassi, i privati pensieri sul “rosso” del nostro ami­co? Può darsi pure che quando parla con noi si attenga alle norme della comu­nità, ma nel suo “intimo” segua poi regole del tutto diverse, affatto incom­prensibili per chiunque non sia lui. È proprio questo che la tesi di Wander con­testa, che qualcosa del genere possa accadere realmente. Prendiamo sul serio quest’ipotesi. Immaginiamo che il nostro bizzarro amico abbia un suo sistema di notazione esclusivamente mentale, che non trascrive su un quaderno perché non vuole che qualcuno lo possa scoprire, in cui ad ogni esperienza corrispon­de una parola determinata: ad esempio usa il “segno mentale” “s” per la sensazione che prova quan­do si sorseggia un buon caffè. Qui sorge subito un problema, evidentemente, perché «nell’uso della parola “significato” è essenziale che lo stesso significato sia mantenuto per tutto il gioco» (Ivi, p. 38). Proprio quello che non succede in questo caso, perché come farà il nostro amico a decidere se l’aro­ma del caffè che assaggia in questo momento è lo stesso di quello che ha assag­giato quando lo ha privatamente battezzato con il segno “s”? «“Ma definendo ostensivamen­te una parola per me stesso, imprimo su di me il suo significato così da non dimenticarla in seguito”. Ma come sai che questo serve? In seguito sai se la ri­cordi o no correttamente?» (Ibidem). Un sistema di notazione privato per i

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propri sta­ti interni – pensieri, sensazioni, ricordi, emozioni – non dà alcuna garanzia di poter essere usato in modo sensato, perché non c’è alcuna possibilità di sape­re, privatamente, se i segni vengono usati in modo corretto o scorretto: «Sei certo di chiamare “mal di denti” sempre la stessa esperienza privata?» (Ibidem). In realtà il sistema di notazione privato è completamente inutilizzabile: «La rico­nosco come la stessa». E riconosci anche il significato della parola stessa, così da essere sicuro che «riconoscerla come la stessa» significa per te ora lo stesso che in passato?» (Ibidem). In realtà il nostro amico non dispone di alcun mezzo per decidere con sicurezza che può usare i suoi segni privati in un modo attendi­bile nel tempo; ma allora, in che modo potrà essere sicuro di riconoscere ogni volta lo stesso stato interno, lo stesso pensiero, lo stesso ricordo? Torniamo all’esempio del meccanico: “Cos’è una marmitta? Questo oggetto qui, me l’ha confermato il mio istruttore”, qui la stabilità dell’oggetto nella nostra comunità è garantita dal riconoscimento pubblico. Ma come fare quando questo riconoscimento è precluso in modo radicale? Certo, forse l’a­roma del caffè è proprio lo stesso dell’altra volta, ma forse no, forse mi sbaglio, però forse no. Come fissare l’identità di uno stato interno nella varietà di tem­pi e luoghi in cui posso incontrarlo, se nessuno, fuori di me, può aiutarmi a ri­conoscerlo? Il problema qui è che quando abbandoniamo il campo pubblica­mente accessibile cambia completamente la nozione di esperienza (ma è pro­prio quello che il luogo comune dell’interiorità non fa, con il risultato di non comprendere affatto la specifica natura dell’esperienza interna); in realtà la no­zione stessa di una esperienza privata si rivela incomprensibile, almeno se ab­biamo come criterio la comune e familiare esperienza pubblica. Una esperienza o è pubblica o non è una esperienza. Una esperienza “privata” in realtà è pubblica perché il modo in cui io la posso rappresentare a me stesso è basato sugli stessi mezzi che uso quando ne parlo pubblicamente con altri. Qui è importante non confondere privato con segreto: posso tacere qualcosa che mi è successo, ma questo non rende questa esperienza radicalmente privata; il segreto è ciò che è pubblico ad una sola persona, ma proprio per questa ragione il segreto è originariamente pubblico. In particola­re, qui è oscuro proprio il cuore di questa presunta esperienza privata, ciò di cui sarebbe esperienza, il suo oggetto. Perché non c’è un modo, nell’esperien­za privata, di individuarlo in

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modo attendibile e costante nel tempo, come il caso del sistema di notazione personale ha mostrato: posso dire che la marmitta è questo oggetto qui, lo stesso che ho visto e controllato ieri, perché è sempre rimasto nello stesso posto, sul banco di lavoro dell’officina, ci abbia­mo lavorato insieme io ed il mio assistente. Ma quando passo alla sensazione privata dell’aroma del caffè, come fare a individuarla come la stessa sensazione che ho avuto ieri? Qual è il criterio che mi permette di esserne sicuro? Qui, in realtà, non c’è nessun criterio, perché un criterio o è pubblico, o non è un cri­terio, e nel chiuso della mia mente non c’è nulla – per definizione (questa è l’essenza del luogo comune dell’interiorità) – di pubblico: se esaminiamo accuratamente questa idea di un’esperienza privata che noi non cono­sciamo, non possiamo neppure parlare di una esperienza privata determinata perché questa espressione è presa dal caso in cui allude a una determinata classe di esperienze che noi conosciamo – sebbene non sappiamo quale fra queste egli stia avendo. Piut­tosto, le esperienze /impressioni/ private che immaginavamo sullo sfondo rispetto al primo piano delle nostre azioni, si dissolvono nella nebbia […]. O meglio, le espe­rienze private che immaginavamo come tante x, y, z sconosciute, dietro le nostre azio­ni, si dissolvono nella nebbia e nel nulla (Ivi, p. 44).

L’immagine del senso comune di un’interiorità inaccessibile agli altri, traspa­rente solo per chi la prova e vive, precipita in un vero e proprio abisso, ché ora svanisce del tutto ciò di cui sarebbe una esperienza: «ma perché si dovrebbe parlare di una esperienza privata e non di 100 esperienze private dal momen­to che non sai se ve n’è una sola o se ve ne sono 100?» (Ibidem). Lo spettro di questo modello della vita mentale umana è un angosciante solipsismo, in cui non so­lo l’io è isolato dal resto della comunità – che ignora quello che realmente pro­va e pensa – ma anche da sé stesso, perché è un io che non sa né che prova né che pensa! Ma si potrebbe ancora definirlo un io, un soggetto che è all’oscuro tanto dell’esistenza degli altri soggetti quanto dei contenuti della propria stessa co­scienza? In effetti non sembra esserci una risposta a queste obiezioni; si potrebbe so­stenere che i nostri stati interni li conosciamo in modo diretto e infallibile, ma non abbiamo alcuna reale giustificazione per una asserzione del genere. Tornia­mo per un momento al caso del linguaggio privato interiore. Si potrebbe soste­nere che quando, nella

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nostra mente e solo per noi, battezziamo con il segno “s” una determinata sensazione (è la procedura dell’ostensione), si stabilisce una con­nessione diretta, e quindi infallibile, fra segno e oggetto: «sono giustificato se la parola mi viene in un modo e non lo sono se mi viene in un altro. – Ma in che modo? – Sono giustificato quando mi viene in modo diretto. Ma qual è il mo­do diretto? – Io lo so ma non so spiegare come questo paradigma sia in me. – Ma finché è in te non è di alcuna utilità per applicare in futuro la parola definizione ostensiva privata» (Ivi, p. 51). Il confronto con il normale battesimo è istruttivo: non è il neonato che dà il nome a sé stesso, sono i suoi genitori, cioè la comunità. Pro­prio per questa ragione il nesso fra un nome e la persona che porta quel nome è sicuro, perché non è una connessione privata: «come so che [la parola] mi viene in modo diretto? Il modo diretto deve essere stabilito da un paradigma» (Ibidem), cioè da una regola, e una regola o è pubblica o non è una regola, per questa ragione logica (in tutta questa analisi non c’è nulla di psicologico, nulla di soggettivo) «la “definizione privata” non è vincolante» (Ivi, p. 42). Cominciamo a capire, allora, perché la tesi di Wander, benché controintuitiva, sia in realtà tragicamente vera. Quella che abbiamo definito come esperienza integrale è l’esempio perfetto di una esperienza affatto privata, e proprio per questa ragione del tutto indicibile. Tanto più una esperienza è privata tanto meno ci sono le parole per dirla e pensarla; ma se non sono in grado di raccontarla a te, non sono nemmeno in grado di raccontarla a me. L’analisi che precede ha tolto ogni credibilità logica all’immagine del senso co­mune secondo la quale ognuno di noi avrebbe un accesso privilegiato alla pro­pria interiorità, mentre avrebbe un accesso solo indiretto, ed ipotetico, ai sen­timenti e pensieri altrui. La tesi di Wander, «nessuno riesce a capire il proprio dolore» ora possiamo comprenderla (non sarebbe cioè una tesi psicologica sul­la particolare ottusità di ciascuno di noi rispetto al proprio mondo interiore). Ricordare qualcosa significa, innanzitutto, individuare un certo contenuto della coscienza come un’esperienza che ho già vissuto. Le analisi precedenti ci hanno fatto capire che per individuare un contenuto devo disporre di uno stru­mento pubblico, ad esempio una parola della lingua della comunità a cui appartengo, attraverso il quale lo riconosco come un contenuto che ho già in­contrato: così posso plausibilmente sostenere (ai miei stessi occhi) che sto par­lando

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dello stesso contenuto di allora, che sto effettivamente ricordando qual­cosa. In questo modo il tempo entra nella mia esperienza come effetto dell’uso di strumenti socialmente condivisi e pubblicamente accessibili. Ora la mia me­moria si può strutturare in una serie di avvenimenti, ognuno dei quali ha una collocazione temporale perché li posso disporre lungo una sequenza pubblica, come ad esempio il calendario, o il ripetersi periodico di grandi eventi collet­tivi. L’insieme della vita interiore di una persona assume contorni diversi da quelli da cui abbiamo preso le mosse: l’interiorità risulta dall’applicazione a sé stessi di quello che abbiamo imparato con gli altri. Paradossalmente, ma solo in parte, posso occuparmi della mia anima soltanto perché il meccanico mi ha insegnato a non confondere la marmitta con la vaschetta del liquido per i tergicristalli. Torniamo ad una delle domande che ci siamo posti all’inizio di questo capitolo: è possibile uno stato interno che tuttavia non sia privato? È proprio quello che abbiamo scoperto, perché sono io che ricordo, ma il ricordare è possibile grazie a mezzi pubblici, che tu mi hai insegnato ad usare, che tu mi hai offer­to: «“Si pensa”. È questa proposizione vera e “io penso” falsa?» (Ivi, p. 26). In prima ap­ prossimazione sembra chiaro quello che ci sta dicendo Wittgenstein, che il pensiero è uno strano fenomeno non privato, impersonale e pubblico, che anzi io e te possiamo capir­ci proprio perché il nostro individuale sentire e pensare presuppone l’apparte­nenza ad una comunità di pensiero originariamente pubblica: «si pensa» appunto. Eppure si tratta di una domanda, non di un’asser­zione. C’è qui infatti anche la consapevolezza che ogni ricordare implica un movimento, che può essere estremamente doloroso, in cui quel linguaggio pri­vato di cui abbiamo scoperto l’impossibilità spera confusamente e cerca di di­ventare lingua comune, intersoggettiva e intelligibile. Ogni ricordo implica una solitudine ed una sofferenza che cerca condivisione. Quel punto interro­gativo ci parla allora soprattutto della solitudine di chi prova a ricordare: «im­magina una persona che, sola nel deserto, grida di dolore: sta usando un lin­guaggio? Diremmo che il suo grido aveva un significato?» (Ivi, p. 83). Ricordare signi­fica provare ad ascoltare, anche se ormai lontani da quell’«universo deserto e vuoto» (Levi, 1987, p. 66) quel grido, e provare, incredibilmente, a rispondergli. Certo, ormai è disperatamente tardi, chi ha lanciato quel grido non è più con noi per pro­vare sollievo

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dalla nostra risposta, eppure rispondere a quel grido non è un ge­sto inutile (Pogue Harrison, 2003), non è soltanto un alibi: «Non è forse possibile che sviluppando un rapporto limitato con il conosciuto non pensato in noi stessi possiamo volgerci ai misteri della nostra esistenza – il fatto strano dell’esistenza stessa – in particolare l’eredità dei nostri antenati che dura da generazioni attraverso l’idioma della disposizione ereditaria? Pensando al conosciuto non pensato non riflettiamo non solo sul nucleo del nostro vero Sé, ma anche su elementi dei nostri antenati» (Bollas, 1987, trad. it. 2001, pp. 286-287). 4. Quei ricordi che nessuno può ricordare Quel grido, incomprensibile e inascol­tabile, è comunque una testimonianza di una voce oscura a sé, eppure una vo­ce, una solitudine che cerca un riscatto, che solo io posso dargli (perché lei non può più riscattarsi, non avrebbe mai potuto riscattarsi, è questo il dramma intrinseco dell’esperienza integrale). La voce che ascoltiamo provenire dal «deserto» (ma che può benis­simo essere anche la nostra voce, anzi, tutto questo movimento nasce spesso proprio da quella voce che chiede riconoscimento e accoglienza) non ci dice nulla, in realtà, testimonia soltanto di «qualcosa» che anche senza essere un’in­teriorità individuata (e quindi ormai pubblica) ci interpella, spera attraverso noi di diventare esplicita e comprensibile: «è come se le nostre descrizioni dell’esperienza personale non avessero neanche bisogno di scaturire da esperien­ze interne che ricorrono con regolarità ma solo da qualcosa» ((Wittgenstein 1993, trad. it. 2007, p. 90). Sappiamo be­ne, le pagine precedenti ce l’hanno mostrato a sufficienza, che l’interiorità è subordinata all’esteriorità, che la psiche non è un giardino privato e inaccessibile, al contrario, non è che un ripie­garsi su di sé del pubblico, ma sentiamo anche che «da questo non consegue necessariamente che non esista «qualcosa» come l’esperienza interiore» (Murdoch, 1999, trad. it. 2006, p. 69). È co­me se il nostro ricordare anche per chi non c’è più completasse per gli altri, per i sommersi appunto, il percorso che conduce dall’impossibile linguaggio pri­vato alla lingua pubblica, dal “qualcosa” alla parola che tutti possiamo inten­dere, restituendo il debito che abbiamo con chi ci ha aiutato a compiere lo stes­so percorso.

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La posta in gioco su cui si misura il paradosso di Levi è allora la solitudi­ne della «persona che, sola nel deserto, grida di dolore: sta usando un lin­guaggio? Diremmo che il suo grido aveva un significato?». Si tratta di una so­litudine che può essere senza riscatto, ed è il caso dei sommersi, di chi ha vis­suto l’abisso dell’esperienza integrale (di chi è rimasto prigioniero della trap­pola del linguaggio privato); ma può essere anche la vergogna e la solitudine del sopravvissuto, di chi è «alla ricerca permanente di una giustificazione» (Levi, 1987, p. 63). Ed è chiaro, a questo punto, che siamo tutti salvati, senza merito né ragione, che tutti siamo «colpevoli di omissione di soccorso» (Ivi, p. 59). Perché questo senti­mento? Perché il fatto stesso di essere in grado di ricordare implica che la pro­pria esperienza non è stata integrale, significa essere vivi. Io posso parlare e ricordare proprio perché il caso o l’astuzia mi hanno fermato prima di preci­pitare. Il ricordare, in questo senso, tanto non è un fenomeno psicologico e privato quanto è, invece, pubblico e semplicemente etico. Qui etico, infine, vuole richiamare al fatto elementare che il ricordare, in questo caso, assolve ad una sorta di impegno (cfr. Descombes, 1996) che abbiamo assunto nei confronti dell’altro quan­do abbiamo cominciato a pensare e sentire, cioè quando abbiamo trasforma­to in strumenti individuali (psicologici) quelli pubblici – la lingua, le tradi­zioni, gli usi comuni – della comunità in cui siamo stati accolti alla nascita. Non solo io posso avere un mondo interiore perché tu mi hai dato i mezzi per poterlo avere, c’è di più: nel momento in cui scopro la mia interiorità, quan­do comincio il movimento del ricordare, prendo la parola anche in nome di quelli che non possono più farlo (o che non hanno mai potuto farlo), perché io posso esistere in quanto io perché qualcuno prima di me mi ha donato que­sta possibilità. Ed ogni dono (anche se non abbiamo scelto di riceverlo, ma se non l’avessimo comunque accettato ora non saremmo qui) implica un im­pegno alla reciprocità (cfr. Hénaff, 2002). Ricordando, costruendo la memoria del mio passato testimonio anche per loro, ricordando dichiaro la mia umanità, e di coloro che mi hanno offerto questa possibilità. Si vorrebbe di più, certo, quel dolo­re rimane impensabile, ma così non svanisce del tutto, perché me ne faccio carico anche io. C’è qui, però, una tensione, ed è proprio in questa tensione che si colloca il soggetto umano, la sua inesprimibile “verità”. Da un lato, come ci ha mostrato la tesi di Wander, io posso ricordare solo ciò che

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non è davvero privato e personale; dall’altro, però, questo significa che per poter ricordare, e attraverso il ricordo partecipare alla vita pubblica, io devo in qualche modo “tradire” la “mia” individualità. Se posso pensare a me stesso solo mediante le parole della lingua pubblica, solo attraverso l’Altro – è così che lo indica Lacan, un Altro generico, che comunque viene prima di me, e senza del quale non potrei definirmi come “io” – allora che ne è di quel me che nessuna lingua potrai mai dire? Di quel me così privato e misterioso che “io” per primo non ne so nulla? La tesi di Wander ci consegna allora un altro, e ancora più radicale, paradosso: il prezzo da pagare, per poter partecipare alla vita pubblica, alla vita del linguaggio, alla vita secondo i codici fissati dall’Altro è proprio ciò che ci caratterizza come qualcosa di affatto individuale e privato. Lacan ha fissato questa tensione nella distinzione fra l’Altro (A maiuscola) e «a» minuscolo. La posta in gioco della tesi di Wander è proprio questo a piccolo. Per fare un esempio, sono quei ricordi che nessuno può ricordare. Per rievocare una vicenda della “nostra” vita dobbiamo trasformarla in una “esperienza”, in un “ricordo”: questa operazione implica che quella vicenda venga a forza adattata ai mezzi con i quali la comunità, cioè l’Altro, ricorda: parole, segni, immagini, lapidi, commemorazioni e così via. Il problema è che in questo passaggio tutto ciò che era personale e “intimo” diventa pubblico e impersonale (la morale dell’analisi di Wittgenstein è non esiste un linguaggio privato). Un “ricordo” o è di tutti o è di nessuno. Il problema nasce dal fatto che tutti noi sentiamo che fra tutti e nessuno c’è uno spazio intermedio, anche se nessuno può starci, in quello spazio. O meglio, non può starci nessun “io”, nessuna soggettività. È la soggettività che “ha” i ricordi, ossia quegli stati mentali che possono essere raccontati, a sé come agli altri. Prendiamo il caso di un animale non umano, un gatto. Sta dormendo, improvvisamente si sveglia perché ha percepito un fremito nell’aria, è una farfalla che gli è appena passato vicino al muso. Di colpo si alza e cerca di afferrarla. Ma questa è più veloce di noi, e sale alta nel cielo, e si nasconde fra i rami di un albero. Il gatto rimane per un po’ con il muso sollevato a fissarla, poi torna ad acciambellarsi e si rimette a dormire. È una normale vicenda della vita del gatto. La domanda, ora, è: questa vicenda può diventare, per il gatto, un “ricordo” (cfr. Cimatti, 2002)? Se vale l’analisi che abbiamo condotto finora la risposta è semplice,

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no, non è possibile. E non perché il gatto non abbia buona memoria, ma perché se per “ricordo” intendiamo quello che è un “ricordo” per noi umani, allora il gatto non dispone dei mezzi attraverso i quali Homo sapiens forma i cosiddetti “ricordi”. Un “ricordo” umano è qualcosa che si può raccontare; quindi senza linguaggio articolato (e quello dei gatti non è di questo tipo; cfr. Milani, 1993) non ci sono “ricordi”. Ma questo non significa affatto che non rimanga qualcosa di quell’incontro del gatto e della farfalla. Anche se non è un “ricordo” non per questo è un nulla. Anche se non c’è un soggetto che lo ricorda (perché il soggetto umano è definito proprio dalla capacità di “avere” ricordi, e quindi senza “ricordi” non c’è nemmeno soggetto) «qualcosa» – come scriveva Wittgenstein – rimane, anche se nessuno lo sa né potrai mai venire a raccontarcelo. Un ricordo senza nessuno che lo ricorda è come quello che succede al gatto con la farfalla. La tesi di Wander ci dice che di questi ricordi non c’è traccia, ma in fondo è solo di questi ricordi che nessuno ricorda che ci interessa. Perché quella è la “nostra” impersonale verità. Una verità che per un verso è proprio nostra, perché siamo noi e solo noi ad aver vissuto quella vicenda, per un altro verso, però, è impersonale perché l’esistenza stessa del soggetto – l’unico che potrebbe ricordarla – impedisce che quella vicenda rimanga privata e personale. Ma come facciamo, allora, a sapere che esiste un ricordo del genere, se è escluso che possiamo ricordarlo, e se addirittura il nostro essere un soggetto esclude la possibilità stessa di ricordarlo? Non lo sappiamo, infatti, perché se lo sapessimo potremmo parlarne. Allo stesso tempo c’è sempre, nel nostro corpo, il sentimento di qualcosa che resiste, muto e riservato, al linguaggio. “Io” non sa nulla di tutto questo, ma il corpo sì, anche se davvero nessuno sa cosa sa il corpo, nessuno (Deleuze, 2010). Tutti siamo passati attraverso quel dispositivo, la «macchina antropologica» (Agamben, 2002; Cimatti, 2013), che trasforma il corpo inerme e indifeso di un piccolo di mammifero in un esemplare della specie Homo sapiens. È una operazione violenta e pericolosa, di cui il corpo porterà per sempre le cicatrici. Sono quelle cicatrici, per definizione mute (è “io” che parla, e può parlare solo perché il corpo è escluso dal linguaggio), i ricordi che nessuno ricorda. La tesi di Wander, in fondo, ci dice questo: «Io continuerò a piangere e a non capire nulla» scrive. È il corpo che, impersonalmente e silenziosamente, piange. Il corpo non si preoccupa di sapere, è “io”

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che non sa e cerca di sapere. Il corpo è, gli basta. «È possi­bile capire la sofferenza degli altri, troviamo persino pa­role di conforto, persino un rimedio per coloro che han­no perduto tutto». È facile, paradossalmente, capire il dolore altrui, perché l’altro lo prova nello stesso modo in cui lo proveresti tu, avete le stesse parole, gli stessi pensieri, le stesse emozioni per vivere questo dolore (Cimatti, 2007a). Il problema è che «nessuno riesce a capire il proprio dolore», esattamente perché è il proprio dolore (solo il corpo potrebbe capirlo, ma il corpo non parla; è la definizione del corpo, quella entità che non parla). Un dolore che è radicalmente fuori del senso e del linguaggio: ma del “non-senso” non sappiamo che farcene, perché non riusciamo a vedere oltre il senso. Sempre ci rivolgiamo al senso: al di là di esso, siamo costretti a cedere […]. “Il corpo” è dove si cede. “Non senso” non indica qui qualcosa come l’assurdo, né un senso alla rovescia o contorto (non è in Lewis Carroll che arriviamo a toccare i corpi); ma indica che non c’è senso o che si tratta di un senso che nessuna figura del “senso” può avvicinare. Senso che ha senso là dove, per il senso, è il limite. Senso muto, chiuso, autistico: ma non c’è autós, non c’è “sé stesso”. L’autismo senza autós del corpo, che lo rende infinitamente meno di un “soggetto”, ma anche infinitamente diverso da esso: gettato e non “soggettato”, ma anche duro, intenso, inevitabile e singolare come un soggetto (Nancy, 1992, trad. it. 1995, pp. 14-15).

Il ricordo che nessuno ricorda è questo «autós del corpo» che tuttavia non coincide con l’autismo, disturbo che può colpire solo il soggetto che dice di sé d’essere un “io” (il corpo non è mai egoista; l’egoismo è uno dei modi, oggi molto propagandato, di stare con gli altri). Perché ogni corpo è soltanto questo corpo, che non può essere generalizzato né sussunto sotto una categoria universale. Per questo il «reale» del corpo, scrive Lacan, è «senza legge. Il vero reale implica l’assenza di legge. Il reale non ha ordine» (Lacan, 2005, trad. it. 2006, p. 134). Legge, ordine, linguaggio, sono le forme dell’Altro, che non sanno che farsene del corpo e del suo silenzio, come di quei ricordi che nessuno può ricordare: «il reale è ciò che resiste alla struttura [alla legge appunto], in quanto si tratta di un puro c’è» (Miller, 2012, p. 251). Ma allora la tesi di Wander, infine, non ci consegna una impossibilità, uno scacco. In realtà consegna ad ognuno di noi un compito, quello di arrivare a quel corpo. Un compito che nessun soggetto può realizzare, ma questo non toglie nulla alla sua importanza. Finché il soggetto rimane un “io” la “sua” verità non

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è affatto sua, è quella dell’Altro. Per quanto “io” dica e pretenda di essere il padrone del proprio destino non farà che realizzare il sogno di qualcun’altro, dei genitori, del maestro, del principale, del partner, di Dio o del Mercato. La condizione di esistenza di “io” è di realizzare il desiderio di un Altro. Questo è “io”, il volenteroso servo dell’Altro (e nessuno è così servo come il servo che vuole diventare padrone). Ora, accettare la tesi di Wander significa rendersi conto di questa situazione (è solo perché “io” sono il sogno di un Altro che non posso sapere nulla del corpo che scioccamente dico di “avere”), e cominciare a muoversi verso il corpo. La psicoanalisi, nonostante tutte le chiacchiere confuse e disperate di chi continua a pensarla come una terapia della consapevolezza e della conoscenza (cioè come una faccenda che si occupa di “io”), è la strada che porta al corpo.

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Dalla parola al corpo

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5. Per un’estetica del reale

Asilo dei sogni, i nomi sono le calamite del desiderio (Proust, L’età dei nomi, pp. 209-210). Il linguaggio del resto mangia il reale (Lacan, 2005, trad. it. 2006, p. 30).

1. Parola e immagine C’è un luogo comune, riguardo a Lacan, che alla fine riduca tutto al linguaggio. È un luogo comune. Per di più sbagliato. Il problema, clinico e teorico, di Lacan è come trovare una via d’uscita dal linguaggio, verso il reale (il terzo elemento della tripartizione con cui comincia, propriamente, il suo lavoro teorico nel 1953: immaginario, simbolico, e appunto reale). È un problema clinico, perché la talking cure può avere effetti terapeutici solo a condizione di portare oltre la parola, perché altrimenti non si uscirebbe mai dal gioco delle interpretazioni (in cui ognuna rimanda ad un’altra, senza fine; «la stolida idea di un’interpretazione infinita», Agamben, 2014, p. 36). È un problema teorico, perché il rapporto con il linguaggio segna la natura umana, e quindi non riguarda soltanto il nevrotico. Il problema del reale è il problema di come un vivente che è impregnato di linguaggio possa fare esperienza di qualcosa che non è linguistico. In questi termini il problema di Lacan pare facilmente risolvibile, perché sembrano molte le attività umane non toccate dal linguaggio: l’immaginazione, la pittura, l’espressività non verbale, per non fare che i primi e più ovvii esempi. Si esce dal linguaggio quando entra in scena il corpo. Il punto è che il linguaggio e le lingue non interrompono la loro azione quando la voce tace. Si rimane nel linguaggio anche

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quando si osserva un paesaggio o si carezza un volto. Homo sapiens vuol dire corpo fatto di linguaggio. E qui comincia il lavoro teorico, e clinico, di Lacan. Come vedremo il problema di un ipotetico “dopo” il linguaggio – ipotetico perché se non c’è Homo sapiens senza linguaggio, dove cercare nell’umano un’esperienza davvero non linguistica? – diventa quindi: quali sono le condizioni per vivere una esperienza non linguistica, ossia appunto esclusivamente estetica? Perché è questa la posta in gioco per Lacan: il campo di una estetica genuinamente sensibile può aprirsi solo dopo il linguaggio, perché finché si rimane al suo interno, di estetico (cioè di non linguistico) può esserci ben poco nella vita dell’animale che parla. Ma il problema è, va ribadito: può accedere, l’animale che parla, ad un campo di esperienza non linguistico (Recalcati, 2007; Vizzardelli, 2014)? Durante il corso intitolato L’insu que sait de l’une-bevue s’aile a mourre (Seminario XXIV), alla fine della lezione del 18 gennaio 1977, qualcuno nell’uditorio (nella trascrizione di Jacques-Alain Miller viene indicato come M. Z.) pone a Lacan una domanda, ricorrente quando si affronta il tema del linguaggio umano: «se la funzione parlante isola l’uomo, che ne è delle manifestazioni preverbali, come la pittura, la musica, tutte le arti che non passano attraverso la talking cure? L’atto della pittura è il fatto di una apertura, ma attraverso una continuità che sarebbe un po’ come quando voi prendete del caramello – fa dei fili» (in Lacan, 1977/1978, Pâques, p. 9). Prendiamo il caso della pittura, che c’entra con il linguaggio, si chiede M. Z.? La sua domanda è quella di chi ritiene che il linguaggio sia soprattutto un mezzo di comunicazione, e che quindi quando non si parla la nostra mente (ed il corpo) sia al di fuori del campo del linguaggio. Si dipinge con le mani e gli occhi, le parole non servono. Che c’entra, allora, il linguaggio? C’entra, intanto, perché non si ha nessuna prova paleontologica di attività pittoriche umane, come ad esempio quelle delle celebri grotte di Lascaux, prima della comparsa dell’Homo sapiens. E la vera e distintiva novità evolutiva di questa specie animale, rispetto agli altri ominidi, è la facoltà del linguaggio (Tattersall, 1998). Non c’è traccia di attività di questo tipo prima della comparsa del sapiens (preveniamo subito l’altra obiezione classica, e l’arte animale? Detto in modo brutale, non ha niente a che cha fare con l’arte “umana”, sia per le sue motivazioni, sia per l’uso che ne fanno gli animali; qui è importante ricordare che la ricerca del bello

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solo marginalmente ha a che fare con la dimensione estetica, e tanto meno con quella artistica; cfr. D’Angelo, 2011; Watanabe, 2013). Prendiamo, ad esempio una immagine come la seguente, che si trova all’interno delle celebri Grotte di Lascaux:

Si distingue un cavallo, più probabilmente una cavalla gravida, considerato il grado di realismo di queste immagini. Occorre parlare una lingua, o comprenderne una, per vedere una cavalla in un prato? Certamente no. Ma vedere un corpo vivente che corre per un prato non è la stessa cosa che vedere una entità particolare, una “cavalla”. Da quel che sappiamo del sistema visivo dei mammiferi la percezione è un processo sempre legato alla azione (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006): quando una scimmia vede una mela nel suo cervello si attivano, come in un essere umano, non soltanto le aree cerebrali deputate all’analisi della informazione visiva, ma contemporaneamente anche quelle che controllano i movimenti del braccio e della mano con cui quella stessa mela potrebbe essere afferrata. La percezione è una forma di azione, è «un vedere con la mano, rispetto al quale l’oggetto percepito appare immediatamente codificato come un insieme determinato di ipotesi d’azione» (Ivi, p. 49). L’oggetto percepito in realtà non è mai soltanto un oggetto, ma anche e soprattutto una azione possibile (una affordance, come la chiamava Gibson, 1966; sul rapporto fra azione e percezione estetica cfr. Freedberg, Gallese, 2007). C’è una grande differenza cognitiva fra un oggetto ed una azione. Un oggetto è una entità che viene individuata, di solito in tre dimensio-

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ni, con una forma determinata, una certa tessitura, e un colore caratteristico; un oggetto, soprattutto, ha un nome. Viene da chiedersi se un animale non umano veda mai “oggetti”, come ad esempio quelli che osserviamo in un museo (si pensi agli animali impagliati in un museo di Zoologia), oppure quello che ha noi sembra un oggetto non è per lui un evento spazio-temporale molto rallentato. In questo senso un oggetto è una astrazione, perché biologicamente non esiste un oggetto come entità tridimensionale isolata: se quello che un animale vede, in realtà, è una azione/evento, allora non esiste un oggetto 3d, esistono (biologicamente) solo eventi 4d, cioè eventi spazio-temporali. Per vedere una “cavalla”, in realtà, è necessaria una operazione cognitiva molto particolare, per certi versi innaturale (rispetto al funzionamento “naturale” del cervello di un qualunque mammifero): occorre estrarre l’animale che corre nella prateria dalla situazione in cui si trova, e congelarla in una entità autonoma, la “cavalla” appunto, un’entità solo spaziale, come appunto l’animale immobilizzato del museo. Se, in quel giorno di ventimila anni fa, nella prateria in cui correva, oltre all’umano che l’avrebbe poi riprodotta sulle pareti della grotta, osservava la cavalla anche un lupo, che cosa avrebbe visto, propriamente? Probabilmente non avrebbe visto una “cavalla”, cioè non avrebbe visto un oggetto in movimento, bensì avrebbe preso parte ad un evento unitario che comprende il suo stesso corpo, la prateria, la cavalla al galoppo, la sua fame e la possibilità di soddisfarla. Vedere un’immagine vuol dire tirarsi fuori dal mondo, significa contemplarlo dall’esterno: un lupo non è mai fuori dal mondo, è sempre mondo, è tutt’uno con il mondo. Solo un “soggetto” può vedere il mondo come qualcosa da contemplare, come un “oggetto”. Solo ad un “soggetto” – cioè a quel corpo che pensa sé stesso come un “io” – può venire in mente di raffigurare il mondo, di trasformarlo in una “immagine”. Al contrario, per vedere un oggetto in movimento (ossia una cosa che si sposta nello spazio, ossia come una cosa nello spazio, come se fosse un contenitore per le cose) occorre poter separare la cavalla dalla situazione in cui si trova, e soprattutto occorre tirare fuori il proprio corpo da quella stessa situazione. Per vedere la “cavalla”, e non il resto della situazione, occorre “fingere” di non essere lì nel prato con il proprio corpo ad osservarla. Perché se ci fosse tutto il corpo, a vederla, allora non sarebbe possibile separare percezione e azione, e quindi non si vedrebbe un oggetto, bensì si prenderebbe parte ad una azione (talvolta solo possibile).

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Occorre appunto separare lo sguardo dalla azione, la rappresentazione dal gesto, l’immagine dalla realtà. Torniamo ora alla figura nella grotta di Lascaux. Non basta avere due buoni occhi per vedere una “cavalla”; è necessario essere capaci di vedere la “cavalla” in quanto tale, come oggetto soltanto visibile. Ora, questa non è una abilità percettiva, non dipende cioè da quanto è buona la vista dell’animale che osserva la scena. Quello che è necessario è la capacità di pensare l’evento complessivo, e non articolato, corpo + sguardo + cavalla + galoppo + prateria + calore + sole (poniamo che la scena si svolgesse di giorno, in piena luce solare) come, al contrario, una composizione di pezzi staccati. Per raffigurare la “cavalla” sulle pareti della grotta è necessario separare la cavalla dal suo galoppo, e quindi separare lo spazio dal tempo/movimento. Ora, qual è il mezzo cognitivo in grado di effettuare questa stranissima – e affatto innaturale – operazione? È il nome (o i suoi derivati più recenti: l’immagine pittorica e poi la fotografia). Per tirare fuori la “cavalla” dall’evento a cui prende parte occorre uno strumento che permetta di isolarla dal resto della situazione (Treisman, 2006); il nome permette di concentrare l’attenzione dello sguardo solo sull’entità “cavalla”, come se tutto il resto non ci fosse: «percezione [umana] e linguaggio si condizionano a vicenda» (Garroni, 2005, p. 41). In questo senso l’immagine che osserviamo stupiti sulle pareti della grotta di Lascaux è un’entità (anche, e soprattutto) linguistica; un vivente privo di parola non raffigura nulla, e non perché gli manchi l’abilità manuale per farlo (la mano di uno scimpanzé, ad esempio, è molto simile a quella umana; cfr. Cimatti, 1999), perché nel suo mondo cognitivo non ci sono né oggetti né immagini, bensì solo eventi. L’immagine è un costrutto linguistico, non sensoriale: «la percezione, non la sensazione come tale, è un correlato del linguaggio» (Garroni 2005, p. 44). 2. E poi? Proviamo allora a ricostruire i passaggi cognitivi che hanno portato alla immagine della “cavalla”. C’è un Homo sapiens, che osserva una scena, probabilmente dall’alto di una altura, al sicuro. Lo possiamo ipotizzare perché il tipo di sguardo necessario per contemplare una scena, e poterla osservare attentamente, distinguendone con cura

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i diversi componenti, richiede essere distanti, anche spazialmente, da quello che si sta osservando. Per separare lo sguardo dall’azione occorre distanza. Una doppia distanza, fisica – l’altura – ma soprattutto cognitiva: disporre di nomi permette di distinguere nella scena una serie di oggetti distinti e autonomi, “cavalla”, “prato”, ma anche “criniera”, “zoccoli” e così via (lo zoom di un apparecchio fotografico non è che la trasposizione ottico-meccanica di un dispositivo logico-linguistico, così come il mirino di un fucile è l’altra faccia della parola. Il primo cacciatore è stato Adamo, quando ha cominciato a nominare gli animali). La parola allontana il braccio dall’occhio, l’azione dallo sguardo (può anche aiutare a mettere fra parentesi gli stimoli che provengono dal proprio corpo. Poniamo che il pittore fosse affamato, quel giorno: tanto più l’azione è separata dalla sensazione, tanto è più facile riuscire a vedere una “cavalla” anziché la “cena”). Fino a che diventa possibile concentrare tutta la propria attenzione solo su oggetto isolato (cfr. Cimatti, 2013). E una volta che esiste l’oggetto, esiste cioè come entità a cui si può pensare separatamente, diventa anche possibile provare a riprodurre la sua forma da qualche parte, per qualunque ragione si desideri compiere questa curiosa operazione (nessun altro vivente produce immagini, come nessun altro vivente, a parte Homo sapiens, è in grado di usare una lingua). Ma allora la domanda che M. Z. pose a Lacan il 18 gennaio 1977 è una domanda davvero mal posta, perché la pittura non è una attività non verbale, è vero piuttosto il contrario, non potrebbe esserci pittura, e nemmeno immagine, senza la parola, senza il linguaggio. «Per quanto mi riguarda», gli rispose Lacan, «credo che il vostro preverbale è, in questo caso, completamente modellato dal verbale. Direi quasi che si tratta di un iper-verbale. Ciò che voi chiamate fili, filamenti, è profondamente motivato dal simbolo» (Lacan, 1978, Pâques, p. 9). I «fili» in questione – quelli che legano la cavalla nella prateria all’immagine della “cavalla” nella grotta – non sono l’effetto di una analogia sensoriale; al contrario, la loro somiglianza è istituita simbolicamente. Ora, se questa analisi è corretta, allora si applica anche agli altri casi in cui compaiono immagini, e in generale anche alle altre attività cognitive non verbali, nel sogno, ad esempio (con un corollario interessante: il sogno degli animali non umani, per quanto fisiologicamente simile al nostro – cfr. Ellmann, 2014 – in realtà è profondamente di-

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verso, perché manca della possibilità di essere raccontato. Il sogno del topo nel labirinto è probabilmente molto simile all’esperienza reale; lo stesso sogno da parte di un essere umano è una “storia”). L’influenza della parola sulla mente umana si estende molto al di là di quelle attività cognitive in cui è esplicitamente coinvolto il linguaggio. Ogni volta che l’attività mentale si concentra su qualcosa, lì è all’opera il potere individualizzante del nome. Per Vygotskij la funzione principale del linguaggio non è quella comunicativa, bensì quella di mezzo per controllare l’attenzione (distingue infatti l’attenzione naturale, quella che si la lascia guidare dallo stimolo, e quella guidata dal linguaggio, che chiama attenzione «artificiale»; cfr. Vygotskij, Lurija 1984). La conseguenza teorica, e clinica, dell’analisi del caso dell’immagine della “cavalla” di Lascaux è che nel mondo cognitivo, e pratico, dell’animale umano non si dà il caso di una esperienza che in misura maggiore o minore non sia segnata dal linguaggio. Da questa constatazione antropologica prende le mosse Lacan. La talking cure è una terapia fatta di parole, e soltanto parole. Il fatto è che vale per le parole quello che vale per i numeri, dopo ce n’è sempre un altro (Hauser et al., 2002). La migliore interpretazione analitica e più efficace non pone fine alla potenza generativa di una lingua: rimane sempre spazio per altre parole, per un’ulteriore interpretazione, per una aggiunta. Il primo ad accorgersene è stato lo stesso Freud, nel 1937, nel celebre saggio “Analisi terminabile e interminabile”. Posta in questi termini la talking cure non può mai finire, per motivi logico-sintattici, prima ancora che psicologici. Freud lo dice in un altro modo, ma la conclusione è la stessa: nell’analisi «dopo aver attraversato tutte le stratificazioni psicologiche, siamo giunti alla roccia basilare, e quindi al termine della nostra attività» (Freud, 1937, trad. it. 1996, p. 535). Quando arrivi alla roccia – cioè alla biologia umana – non c’è più niente da scavare, c’è solo la dura roccia (per questo, nonostante Ricoeur 1965, la psicoanalisi non è un’ermeneutica, perché ha come obiettivo dichiarato uscire dal linguaggio). E allora, quando finisce un’analisi, tenuto conto che comunque prima o poi deve finire? È «faccenda che riguarda la prassi» (Ivi, p. 532) conclude lapidariamente Freud. Proviamo a schematizzare questo suggerimento freudiano: Psicoanalisi (talking cure): parole  parole  parole  … prassi

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Alla fine delle parole, cioè della catena delle interpretazioni, si deve trovare qualcosa che non sia ancora una parola, ecco perché alla fine c’è la prassi, c’è l’agire, c’è un comportamento (nuovo, si spera; cfr. Miller, 2005). Ma che tipo di prassi? Perché dev’essere una prassi che porti con sé l’eco del percorso che ha attraversato, un percorso tutto intessuto di parole. Altrimenti un qualunque gesto varrebbe come fine dell’analisi. Ma un gesto del genere è arbitrario, e risulterebbe sconnesso dalla talking cure. La prassi si colloca nel campo del reale, ma un reale – e qui comincia a svilupparsi il tentativo lacaniano – che si presenta dopo il simbolico, non prima di esso. Dei tre registri di Lacan, immaginario, simbolico e reale, il reale non è il primo, bensì appunto l’ultimo, è un punto d’arrivo, non di partenza. L’apparente stranezza di questa affermazione (prima le cose poi le parole vuole il senso comune, ma l’umano viene al mondo a partire dal linguaggio) svanisce se si tiene conto della peculiare costituzione biologica dell’animale umano: l’ambiente che accoglie ogni corpo umano è un ambiente simbolico (linguistico). Il piccolo umano non ne sa nulla, ma già prima della sua nascita c’è una attesa simbolica per la sua venuta, un nome ad attenderlo, una posizione nella gerarchia familiare, un desiderio da soddisfare, che non è certo suo, ma dei genitori, degli antenati, di qualcuno che non conoscerà mai e di cui nessuno conserva più il ricordo: «il soggetto viene fabbricato tramite un certo numero di articolazioni che si sono prodotte e da cui egli è caduto come un frutto maturo nella catena significante. Già quando viene al mondo cade da una catena significante, forse complicata, in ogni caso elaborata, alla quale, molto precisamente, è soggiacente quello che chiamiamo il desiderio dei genitori» (Lacan, 2014, p. 44). Tutto questo insieme di pratiche simboliche precede la sua effettiva comparsa fisica nel mondo. Quando il piccolo nasce c’è già un ordine che l’aspetta, e cos’è un ordine se non una struttura simbolica? «L’Altro», con la maiuscola, come lo definisce Lacan, «è già lì» (Lacan 2004, trad. it. 2007, p. 25). «L’Altro è già lì», appunto, il simbolico c’è già, prima ancora che entri in campo il corpo. In questo senso la biologia umana, le predisposizioni innate, il retaggio evolutivo, pur naturalmente presenti, sono comunque subordinate alla sfera del simbolico: «il linguaggio c’è prima dell’uomo […]. Non solo l’uomo nasce nel linguaggio, esattamente come nasce al mondo, ma nasce tramite il linguaggio» (Lacan, 2014, p. 31).

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Per questo il reale non è il punto di partenza dell’umano, bensì il punto d’arrivo, se mai può essere raggiunto. Nascere nel simbolico, sostiene Lacan nel Seminario X, vuol dire nascere sotto il segno dell’angoscia. «L’Altro è già lì», solo dopo arriverà il corpo. Ma questo vuol dire che il corpo definirà sé stesso a partire da quello che l’Altro si aspetta da lui; fin dall’inizio il corpo è fuori di sé, letteralmente, perché non è in sé (nella sua costituzione reale) che potrà trovare ciò che lo caratterizza, ma appunto solo al suo esterno, nel simbolico, nell’Altro appunto: «l’uomo trova la propria casa in un punto situato nell’Altro, al di là dell’immagine di cui siamo fatti» (Lacan, 2004, trad. it. 2007, p. 53). C’è una ferita, in ogni corpo umano, aperta dal simbolico; l’angoscia è lo stato d’animo che corrisponde a questa ferita: che, evidentemente, non può mai rimarginarsi, dal momento che l’essere umano è quella ferita: la dimensione del significante [cioè del simbolico] non è nient’altro, se volete, che ciò in cui si trova preso un animale all’inseguimento del suo oggetto [cioè la sua consistenza reale]. In modo tale che l’inseguimento di tale oggetto lo conduce su un altro campo di tracce, dove l’inseguimento stesso perde il suo valore introduttivo per divenire il suo fine […] il quale lo riconduce a quella catena indefinita di significazioni che si chiama destino (Ivi, p. 73).

Il «destino» dell’animale umano – cioè la condizione a cui non può sfuggire, e quindi la sua natura – è di essere sempre di nuovo ricondotto «a quella catena indefinita di significazioni» che è l’essenza del linguaggio. Ogni enunciato linguistico non è che un anello di una catena potenzialmente infinita di altri possibili enunciati. Qui vale l’analogia – che già abbiamo incontrato più volte in questo libro – con l’aritmetica elementare: la serie infinita dei numeri naturali si ottiene, partendo dallo 0, attraverso la funzione successore: dato un numero qualunque n, il suo successore è n + 1. Un enunciato linguistico può essere esteso indefinitamente allo stesso modo, ad esempio attraverso la congiunzione “e”. Come non esiste un ultimo numero, così non esiste una parola finale (secondo Hauser et al., 2002, facoltà del linguaggio e capacità di contare definiscono il nucleo cognitivo fondamentale della natura umana). Una volta incatenato a questa struttura, l’«oggetto» che veniva inseguito – il reale del suo corpo appunto – viene rimosso; e così il «fine» della sua esistenza diventa l’«inseguimento» – il fine non è

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il corpo, bensì le sue «tracce». Questa angoscia non sembra allora emendabile, perché è connaturata all’animale umano, è la sua caratteristica strutturale. Per questo, Freud, osservava sconsolato che «questi fenomeni costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo pulsione di aggressione o di distruzione, e che consideriamo derivata dall’originaria pulsione di morte insita nella materia vivente» (Freud, 1937, trad. it. 1996, p. 525). Un’analisi può finire, allora, a condizione di liberare il corpo dall’angoscia che lo segna; e per liberarlo dall’angoscia occorrerebbe liberarlo dal simbolico, e quindi da «quella catena indefinita di significazioni» che lo incatena (cfr. Cimatti, 2013) e gli impedisce di arrivare al reale. Perché il reale è dopo il simbolico. Ci sono il corpo e la prassi, nel reale. Qui si arresta l’analisi, o si dovrebbe arrestare, quando è efficace. 3. A grande a piccolo Se il simbolico è l’Altro, quel reale che stiamo cercando è invece proprio ciò che gli sfugge, che Lacan indica come «a», in minuscolo, «la riserva ultima, irriducibile della libido» (Lacan 2004, trad. it. 2007, p. 116). Prendiamo l’esempio dell’immagine della “cavalla” che possiamo osservare nella grotta di Lascaux. La potenza di questa parola consiste nel fatto che una “cavalla” è ogni cavalla, di tutti i tempi e di tutte le praterie, al di là dello spazio e del tempo (per usare la distinzione di Proust, “cavalla” è una parola, non un nome). Per questa ragione il linguaggio annienta il reale, perché lo trasforma in qualcosa di maneggiabile a piacimento, che non oppone nessuna resistenza. Il simbolico scorre, per definizione, perché c’è sempre un altro anello nella «catena indefinita di significazioni». Al contrario, il reale è ciò che questo dispositivo seriale e articolatorio non riesce a toccare: infatti «il reale è o la totalità o l’istante che svanisce» (Lacan, 1953, trad. it. 2006, p. 27). La «totalità» sfugge per definizione al meccanismo che può solo aggiungere segno a segno, perché ci sarà sempre un “e poi?” dopo l’ultima parola. Vale lo stesso per «l’istante che svanisce», perché proprio perché istantaneo non può essere assorbito da un segno che pretende, invece, di valere per tutti i tempi

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e tutti gli spazi. Il reale ha così due caratteristiche che sembrano fra loro contraddittorie: è una totalità spazio-temporale che non manca di nulla, ma è anche istantaneo, è l’evento che accade proprio ora, e mai più, qui, e solo qui. Per questo il campo del reale è dopo e oltre il linguaggio, perché è ciò che le parole non hanno la possibilità di afferrare. Il punto è che neanche il corpo riesce a stringere il reale che lui stesso incarna. È qui il paradosso intrinseco alla psicoanalisi: il simbolico, l’A con la maiuscola, precede e condiziona il corpo umano. Gli insegna a pensare per oggetti e per immagini (come quella della grotta di Lascaux), a fissare la sua attenzione su aspetti del mondo su cui altrimenti non sarebbe in grado di concentrarsi. Ma lo strumento parola è efficace solo se fa astrazione dal tempo e dallo spazio. Il reale come totalità o come istante è inarrivabile per la parola. E così l’a piccolo, che «è ciò che resta di irriducibile nell’operazione totale dell’avvento del soggetto nel luogo dell’Altro» (Lacan 2004, trad. it. 2007, p. 175). L’«a» piccolo è un «residuo» (Ivi, p. 72), un «avanzo» (Ivi, p. 175), «qualcosa di separato, di sacrificato, di inerte», una «libbra di carne» (Ivi, p. 238) che dischiude il movimento verso il reale. È qui che vorrebbe arrivare l’analisi, ed è proprio qui che i mezzi dell’analisi – le parole, il linguaggio – non possono giungere. Il problema è che il simbolico è segnato dalla mancanza, perché il segno linguistico sta al posto della cosa, e finisce per prendere il suo posto: non esiste mancanza nel reale, […] la mancanza può essere colta solo tramite il simbolico. Rispetto alla biblioteca possiamo dire: Qui, il tale volume manca al suo posto. Si tratta di un posto designato dall’introduzione preliminare del simbolico nel reale. Per questo, il simbolo colma facilmente la mancanza di cui sto parlando, in quanto indica il posto, indica l’assenza, presentifica ciò che non c’è (Ivi, p. 143).

L’analisi cerca, mediante un lavoro tutto incentrato sulla mancanza, di arrivare al pieno, cioè al reale, a cui però «non manca nulla» (Ivi, p. 201). È il reale la posta in gioco. Non sappiamo se, e come, si possa arrivare al reale, tuttavia sappiamo quali devono essere le sue caratteristiche: deve essere nello spazio e nel tempo, dev’essere proprio qui adesso, deve tenere insieme la «totalità» ma anche «l’istante che svanisce», dev’essere affatto individuale, perché deve coincidere con quella «libbra di carne» che è ciò che ogni corpo è, assolutamen-

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te, e irriducibilmente. Allo stesso tempo, questo reale irriducibile è comunque la traccia del linguaggio sul corpo umano (non si diventa umani senza passare per l’Altro): è il fantasma individuale, la cifra affatto specifica che individua un corpo umano, e solo quello, «un fantasma che è soltanto una frase» (Miller, 2006, trad. it. 2012, p. 14); un fantasma (distinto dal sintomo, che può sempre essere interpretato), l’effetto unico e irriducibile dell’incontro del linguaggio e del corpo, «la cui caratteristica è di essere un residuo non modificabile» (Ibidem). Nessuna parola può stringere questo reale. Al contrario, il percorso teorico lacaniano (all’epoca di “Funzione e Campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi”, nel 1953) comincia invece con il tentativo di ricondurre l’individuale al linguaggio, per renderlo intersoggettivo e comprensibile. All’inizio la talking cure consiste nel tentativo di trasformare il linguaggio privato dell’inconscio affatto individuale in linguaggio pubblico: «per questo, all’epoca, Lacan poteva dire che l’inconscio sarebbe un paradosso se fosse rapportato a una realtà individuale. Tutto ciò che fa non-senso esige un’esegesi che ne ristabilisca il senso, e che oltrepassi quindi l’interruzione […], per ottenere la continuità del discorso» (Miller, 2007, p. 42). Ma che rimane, dell’inconscio indicibile e affatto individuale, di quella «libbra di carne», se viene completamente ricondotto al simbolico, al grande Altro? «La storicizzazione», cioè il tentativo di portare a completa comprensibilità l’inconscio del paziente, «ha un aspetto davvero potente, come se essa potesse, attraverso il vero, riassorbire completamente, senza resto, il reale» (Ivi, p. 145). Il reale è quel «residuo» che nessuna simbolizzazione può digerire completamente; il primato del simbolico del primo Lacan cerca proprio, al contrario, di inghiottirlo tutto, questo nocciolo irriducibile: parlare vuol dire comunicare. Parlare implica l’altro, gli altri. Radicalizzando questa concezione, diciamo che il dire è quello dell’altro, poiché ci si esprime nel linguaggio dell’altro per essere intesi da lui. A tal punto che si può anche arrivare a dire […] che questo dire viene dall’altro stesso (Ivi, p. 158).

Si tratta allora di cominciare a cercare quei fenomeni singolari, al di là dell’individualità soggettivata (perché l’identità del soggetto la stabilisce sempre l’Altro), che si sottraggono al campo del linguaggio. Qui è il reale. Ecco, ad esempio, la distinzione fra «rimemorazione» e

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«reminescenza». La prima è una operazione linguistica, è il racconto di un ricordo, è la storicizzazione di un evento passato; si rimemora per condividere, per rendere comune, per farsi capire. La «reminescenza», al contrario, è una memoria senza soggettività, è la durata, è impersonale. È uno stile, il tono di un gesto, la grazia di un movimento. E così, paradossalmente, è «fuori tempo […] extratemporale» (Ivi, p. 151). È reale, perché lo stile non esiste se non incarnato, e lo stile è tanto più presente (reale, appunto) quanto meno è saputo, quando letteralmente costituisce la carne ed il sangue del corpo. Lo stile, pur essendo affatto individuale, non ha bisogno del soggetto, né di essere esplicitato, di essere detto; lo stile c’è, è lì, evidente e inafferrabile: che cosa bisogna intendere qui per reminescenza? Ebbene, la reminescenza è la supposizione che c’è qualcosa che è già lì, che c’è un’idea che è lì da sempre, un’idea che non è inventata, che si sostiene in un soggetto supposto sapere e che, quando appare, lo fa nel suo splendore solitario […]. Essa appare come essendo stata appresa o acquisita in un’altra esistenza o in uno statuto eterno del soggetto (Ivi, p. 167).

Ecco cos’è il reale, lo «splendore solitario», appunto perché senza nome, non comunicabile né pensabile; e però proprio per questa sua condizione di radicale singolarità, è uno «splendore», cioè qualcosa che spicca, inconfondibile e meraviglioso. Un reale dopo il simbolico: «il reale è esterno al senso» (Ivi, p. 172). Vediamo meglio il caso della «reminescenza». Non si tratta di un “ricordo”, perché questo è affine alla “immagine” (e quindi alla parola). Il “ricordo” è una sorta di immagine nella mente, è un dettaglio di un evento, è l’attenzione che ritaglia un momento delimitato nel flusso della vita psichica. Il “ricordo” è l’altra faccia della parola, appunto, quella “interna”. E così la «rimemorazione» implica che ci sia qualcuno, che sta ricordando, e un oggetto, il “ricordo” appunto, che quel soggetto si sta rappresentando. La «reminescenza» al contrario, è un ricordare senza “ricordo” e senza nessuno che lo ricorda; è il passato che è diventato carne del presente, è uno stile, è il reale della memoria, impersonale e assoluto. Rispetto all’«inconscio strutturato come un linguaggio» – la celebre tesi lacaniana, che sembra segnare il primato del linguaggio rispetto ad ogni possibile esperienza umana – assistiamo qui ad un ribaltamento radicale: «l’Altro è destituito e il soggetto è pensato a partire dal reale […]. Ho torto nel dire il soggetto. In effetti non è più il soggetto del

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significante, nemmeno il soggetto dell’identificazione, ma l’essere umano, che Lacan qualifica come parlessere. Ecco cosa resta del primato del linguaggio che Lacan aveva installato precedentemente nella psicoanalisi» (Miller, 2008, p. 222). Dal soggetto al parlessere. Il soggetto è legato a doppio filo al linguaggio, il soggetto ha un nome (il cosiddetto nome proprio, che in realtà non lo è affatto, chiunque può portare quel nome), e si identifica mediante una parola apposita, il soggetto infatti è un “io” (come chiunque prenda la parola è, temporaneamente, un “io”). Il soggetto non esiste al di fuori del linguaggio. Proprio per questa ragione non è reale, perché il soggetto è letteralmente una creatura linguistica, è sempre sotto lo sguardo dell’Altro; il «parlessere», invece, è un corpo che è passato per il simbolico, senza tuttavia restarci intrappolato. Il linguaggio è diventata la sua carne, e lì il suo movimento centrifugo si arresta, finalmente. Nel senso che il «parlessere» è capace di sostare nel linguaggio senza un “e poi” che accende la fuga dei significanti. Ricordiamo che il reale, per Lacan, presenta due caratteristiche: è totalizzante e istantaneo. Al soggetto è preclusa questa condizione, perché il linguaggio lo condanna al dettaglio e alla successione temporale. Il «parlessere», invece, accede al reale del corpo: «tutto ciò che si trovava investito nel rapporto con l’Altro viene qui ridotto alla funzione originaria del rapporto con il proprio corpo» (Ibidem). Il «parlessere» è fatto di linguaggio, è linguaggio incarnato, e tuttavia non è trascinato dalla deriva del significante come invece succede al soggetto. È un linguaggio che è diventato cosa, che finalmente è diventato corpo (è il «letterale» di cui Lacan parla in “Lituraterra”; cfr. Lacan, 2001). Questo corpo, allora, è un corpo che ha traversato il campo del linguaggio, e ne è uscito trasformato, non più dilaniato dalla sequenza significante. Questo nuovo corpo Lacan lo chiama «Un-corpo» (deve essere un corpo perché da un lato è un corpo qualunque, senza nome, dall’altro è un corpo affatto singolare, e per questa ragione indicibile); è un corpo, appunto, nel senso di corpo ricomposto, unitario, non più proiettato fuori di sé sul modello dell’Altro: questo corpo «non ha nulla a che fare con la definizione del soggetto che passa per la rappresentazione significante. L’ego si stabilisce dal rapporto con l’Un-corpo» (Miller, 2008, p. 222). Questo corpo è finalmente unitario, perché non è più diviso dall’Altro, è tutto nel corpo che è: «qui non c’è identificazione, c’è appartenenza, proprietà […] [che]

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5. per un’estetica del reale

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non mira al punto di mancanza dell’altro soggetto. Tuttavia ha a che fare con l’amore, ma non con l’amore del padre, è l’amore proprio, nel senso dell’amore dell’Un-corpo» (Ibidem). L’amore del padre è un amore che passa per l’Altro, un amore che il soggetto può trovare solo fuori di sé, nel modello paterno; è un amore della trascendenza, perché questo Altro è sempre oltre, al di là del soggetto, irraggiungibile. L’«amore dell’Un-corpo», invece, è nella immanenza assoluta del corpo, che non deve più uscire da sé, per poter essere reale: «l’Uncorpo […] è la “sola consistenza” del parlessere» (Ivi, p. 223). 4. «Un significante nuovo» Ma si tratta comunque del «parlessere», cioè di un corpo fatto di linguaggio. Com’è possibile che la sintesi di un corpo e di una lingua non produca trascendenza, cioè quell’interminabile “e poi” del senso che rimanda ad un altro senso, e così via e così via (sul rapporto fra linguaggio e trascendenza cfr. Cimatti, 2013)? C’è un altro concetto lacaniano che può aiutare a pensare questa condizione, il concetto di «lalingua» (tutto attaccato, a ribadire che non è la lingua, come il tedesco o l’osco, cioè una lingua particolare, con una sintassi ed una semantica definiti). «Lalingua serve a tutt’altre cose che alla comunicazione. Ce l’ha mostrato l’esperienza dell’inconscio, in quanto esso è fatto di lalingua, […] ciò che per ciascuno è affar suo» (Lacan, 1975, trad. it. 2011, p. 132). «Lalingua» ha a che fare con il linguaggio, ma non con la comunicazione e con il senso intersoggettivo, e quindi con l’Altro. Qui Lacan ci dice che l’inconscio non è una forma nascosta di comunicazione, non è un linguaggio, è piuttosto «un sapere, un saper-fare con lalingua. E quel che si sa fare con lalingua supera di gran lunga ciò di cui si può rendere conto a titolo di linguaggio» (p. 133). «Lalingua» ha quattro caratteristiche: è un «sapere» (Ibidem); non è uno strumento comunicativo; «per ciascuno è affar suo»; è «un saper-fare». Intanto, lalingua non serve per comunicare. È la lingua che ha questa funzione; e una lingua funziona perché è al servizio dell’Altro. Altrimenti non potrebbe esserci comprensione reciproca. Al contrario lalingua non serve a stabilire un contatto con altri. È un sapere che coincide con un saper-fare, con il saper-fare del corpo,

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che finalmente è soltanto il corpo che è. Per questa ragione non è un insieme di conoscenze (che sono entità simboliche e comunicabili), è una conoscenza incarnata. Lalingua è un sapere corporeo. In questo ossimoro sta la sfida della psiconalisi; arrivare ad un sapere che, tuttavia, non è fatto di parole e nozioni, ma è carne e sangue, è corpo appunto. Del corpo che ognuno è, per questo «per ciascuno è affar suo», e soltanto suo. Lalingua è allora un saper-fare che è inscritto in ciascun corpo, non comunicabile e non pensabile, inconscio. Se il soggetto che dice “io” è intercambiabile – chiunque può dire, di sé, “io” – il corpo, questo corpo, è inconfondibile. Lalingua è la condizione di una lingua che ha smesso di essere comunicazione e strumento dell’Altro, per diventare carne, gesto, immanenza: «se si può dire che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, è nella misura in cui gli effetti di lalingua, già lì come sapere, vanno ben oltre tutto ciò che l’essere parlante ha la possibilità di enunciare» (Ibidem). Quando il linguaggio torna ad essere «lalingua» il dispositivo della trascendenza, da un senso ad un altro senso, da n a n+1, e così via, si arresta. Laddove “io” finalmente tace c’è il corpo. Prima di affrontare l’ultimo passaggio, che mira a portare al «rapporto diretto del reale con il reale» (Miller, 2008, p. 231), proviamo a ripercorrere il movimento percorso finora. Il punto di partenza è stato il primato della lingua nella costituzione del soggetto e di ciò a cui si rapporta, l’oggetto. Lingua che precede, nel tempo e nella struttura, la comparsa del soggetto. Questa situazione comporta che il soggetto è sempre straziato dallo «sciame significante, uno sciame ronzante» (Lacan, 1975, trad. it. 2011, p. 137) del linguaggio; un ronzio all’interno del quale il corpo del soggetto finisce per perdersi. La psicoanalisi è il tentativo di liberare il corpo umano da questo sciame. L’obiettivo è il reale del corpo. La stranezza di questo tentativo è che la stessa cura analitica si svolge mediante parole. La scommessa dalla talking cure è quella di un uso non comunicativo – non trascendente – della parola. «La mia ipotesi è che l’individuo affetto dall’inconscio è lo stesso che costituisce quello che io chiamo il soggetto di un significante. Cosa che enuncio in quella formula minimale secondo cui un significante rappresenta un soggetto per un altro significante» (Ivi, p. 136). Il soggetto, in quanto costrutto linguistico, non è altro che un anello della catena dei significanti. L’obiettivo dell’analisi è tirare fuori il corpo da questa catena:

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5. per un’estetica del reale

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colui che parla, l’animale parlante, il parlessere, colui che trae il suo essere dal parlare, paradossalmente, s’imbroglia con il simbolico. Il fenomeno di imbrogliarsi non appare […] come un incidente, un accidente, ma, al contrario, come quel che nomina il rapporto fondamentale del parlessere con il linguaggio (Miller, 2011, p. 225).

Siamo partiti dal linguaggio, dal significante, passando per l’immaginario, per arrivare al reale. Il reale è il corpo. Un corpo comunque segnato dal linguaggio, perché si diventa umani soltanto quando si entra nel campo dell’Altro, cioè appunto del linguaggio. Il «parlessere» è l’«Un-corpo», è il corpo di lalingua. La posta in gioco, nell’ultima fase del suo lavoro teorico è quella di immaginare – sul modello della fine dell’analisi – un saper-fare non comunicativo della lingua. «Che cosa resta, allora? Resta una x, che è la poesia» (Ibidem). In effetti non rimane altra strada, trasformare la lingua da strumento comunicativo a fenomeno sensibile: «ma è una poesia speciale, perché è quella che opererebbe un rapporto diretto del significante con il corpo» (Ibidem). L’esempio su cui riflette Lacan è il lavoro di James Joyce – in particolare in Finnegans Wake – a cui dedica uno dei suoi ultimi seminari (Seminario XXIII. Il sinthomo). Joyce rappresenta il caso esemplare di colui che sa fare qualcosa di lalingua, cioè dell’inconscio. Lacan propone di definire questa capacità con il termine «sinthomo», per differenziarlo dal sintomo: questo è un segno, che come ogni segno chiede di essere interpretato, cioè chiama il linguaggio per poter entrare nella catena significante: il «sinthomo» è invece un segno che ha smesso di essere significante, è un «reale fuori senso» (Miller, 2007, p. 172). Il sinthomo è il segno incarnato, è il corpo che ha traversato il linguaggio e se ne è, infine, liberato, perché «è fuori dalla significazione» (Miller, 2012, p. 133). L’esempio di Joyce è, nonostante la proverbiale oscurità della sua scrittura, illuminante. Joyce non scrive nella lingua dell’Altro, scrive in una nuova lingua, la sua lingua. In questo modo si completa il passaggio da A grande ad a piccolo; e così il Finnegans Wake diventa il nome proprio di Joyce: «il sinthomo è quel che c’è di singolare in ogni individuo» (Miller, 2008, p. 244). Joyce coincide con la sua scrittura, Joyce è Finnegans Wake: «identificarsi con il proprio sinthomo, essere il proprio sinthomo, vuol dire sbarazzarsi delle scorie ereditate dal discorso dell’Altro, dopo averle attraversate» (Ivi, p. 252). In questo senso alla fine non c’è che la poesia. La quale non

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chiede di essere interpretata, non chiede di entrare nel tritatutto del significante: la poesia è una «consistenza», sta lì, non c’è che da prenderne atto. La poesia è un reale, e come ogni reale alla fine ci si va a sbattere, non c’è altro da fare con il reale. Ed il reale è singolare, è solo questo reale qui, ora, non c’è altro da aggiungere o da spiegare: «il sinthomo, il sinthomo come la cosa più singolare, è indecifrabile» (Ibidem). Il sinthomo è quando il corpo smette d’essere un segno d’Altro (un sintomo, appunto), e istituisce un «significante nuovo», un gesto inedito, una forma inaspettata: «si parla di uso del sinthomo, precisamente perché non si tratta di far sparire il sinthomo e sicuramente di non farlo sparire interpretandolo» (Ivi, pp. 252-253). Joyce è riuscito a sublimare il linguaggio nel corpo, e non per trasformarlo a sua volta in un segno, al contrario, per dare vita ad un «significante nuovo» pienamente sensibile; un significante che non parla più, ma che appare, che si impone come reale sensibile: «la psicoanalisi potrebbe essere definita come l’accesso alla identità sinthomatica, cioè non accontentarsi di dire quello che hanno voluto gli altri, non accontentarsi di essere parlati dalla propria famiglia ma, al contrario, accedere alla consistenza assolutamente singolare del sinthomo» (Ivi, p. 250). Con una precisazione: il sinthomo è l’inconscio, Joyce per primo non conosce nulla di sé, Joyce incarna sé stesso, e questo è tutto (il paradosso è che il «discorso universitario», invece, non fa che cercare di spiegare quello che per Joyce, invece, era da prendere come gioco e apparenza). Perché l’«identità sinthomatica» non è conoscibile, perché ogni conoscenza rimanda all’Altro, al simbolico. Joyce è così «l’incarnazione del sinthomo» (Ivi, p. 250). Qui non c’è più il soggetto, con tutto il suo strascico di Altro, di identificazioni, di Edipo; c’è solo – se ci si riesce – «incarnazione del sinthomo». Nel Seminario XXIII, quello appunto dedicato a Joyce, questa condizione viene descritta come un «reale senza legge» (come a dire, senza linguaggio, senza Altro, senza nome del Padre): «il vero reale implica l’assenza di legge. Il reale non ha ordine. È quello che voglio dire quando dico che l’unica cosa che forse un giorno riuscirò ad articolare qui con voi è qualcosa che riguarda ciò che ho chiamato un lembo di reale» (Lacan, 2005, trad. it. 2006, pp. 134-135). Si esce dall’analisi quando si diventa capaci di produrre un «significante nuovo»: «i nostri significanti» dice Lacan nel Seminario

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5. per un’estetica del reale

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XXIV, «sono sempre ricevuti. Perché non si inventa un significante nuovo? Per esempio un significante che, come il reale, non avesse alcuna specie di senso?» (Lacan, 1978, p. 21). Alla fine dell’analisi c’è l’esperienza estetica, che non ha un senso (che instaura la distinzione fra significato e significante), bensì è un senso. Alla fine c’è la poesia come capacità di dare vita ad un «significante nuovo», come succede nel «motto di spirito», quando «ci si serve di una parola per un uso diverso da quello per il quale è stata fatta, la si accartoccia un po’, ed è in questo accartocciamento che consiste il suo effetto operatorio» (Ibidem). Alla fine c’è un simbolico accartocciato, rimaneggiato, incarnato. Non c’è più qualcosa da interpretare, bensì qualcosa da sentire. Finalmente il reale, perché è lì che fin dall’inizio si voleva arrivare, perché «l’interpretazione analitica […] accetta, assume, supporta un certo non vuol dire niente» (Miller, 1996, p. 38). L’analisi porta infine oltre il linguaggio, dove appunto non c’è più alcun senso da cercare. Alla fine rimane soltanto una forma sensibile (la traccia scritta, la «formalizzazione», «l’impossibile» del reale (Ibidem). Ma a questo punto Lacan non parla più soltanto dell’analisi, parla del lavorio dell’umano di fronte al linguaggio: Sta di fatto che Joyce sceglie. E in questo egli è […] un eretico. […] Occorre scegliere per quale via prendere la verità. Tanto più che, una volta fatta la scelta, si può sempre sottoporla a verifica, vale a dire essere eretici nel modo giusto. Il modo giusto è quello che, dopo aver riconosciuto la natura del sinthomo, non rinuncia a servirsene logicamente, ovvero a usarlo fino a raggiungere il suo reale. A quel punto ne avrà a sazietà (Lacan, 2005, trad. it. 2006, pp. 13-14).

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6. L’immanenza della vita

Lawrence ce l’ha con la povertà delle immagini identiche immobili, ruoli figurativi che sono altrettante allacciature sui flussi di sessualità: “fidanzata, amante, moglie, madre” – si potrebbe anche dire “omosessuali, eterosessuali”, ecc. – tutti questi ruoli sono distribuiti sul triangolo edipico, padre-madre-io, un io rappresentativo essendo supposto definirsi in funzione delle rappresentazioni padre-madre, per fissazione, regressione, assunzione, sublimazione (Deleuze, Guattari, 1972, trad. it. 1975, p. 403).

1. Cosa cura la psicoanalisi? Qual è l’obiettivo terapeutico della psicoanalisi? In questo capitolo conclusivo proveremo a rispondere a questa domanda attraverso l’analisi del lavoro di uno scrittore, D. H. Lawrence, che si è occupato specificamente della psicoanalisi. Scopriremo perché D. H. Lawrence ritenesse che la psicoanalisi non potesse affatto essere considerata una cura, ma anzi, al contrario, un modo insidioso per ammalare il corpo umano. Crediamo che Lawrence avesse ragione. Il punto è che la psicoanalisi che Lawrence critica è quella che descrive sé stessa come una pratica di consapevolezza e conoscenza, come un “sapere”. Quello che a Lawrence interessa è invece il corpo umano. Ma prima di parlare di Lawrence, c’è da chiedersi, preliminarmente, in che senso la psicoanalisi è una cura? All’inizio c’è qualcuno che per qualche ragione (non importa quale) vive con disagio la propria condizione, e chiede aiuto ad una o ad uno psicoanalista. All’inizio, di fatto, c’è una individualità isolata. Si può dire di più, in effetti, all’inizio c’è una singolarità che prova disagio proprio perché è quella particolare individualità isolata. Essere quella individualità,

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infatti, significa non essere come la regola sociale vorrebbe che si fosse, significa essere diversi, significa, soprattutto, non poter comunicare con gli altri: l’individualità è isolata perché è una individualità. Di qui il disagio, che è appunto la conseguenza del sentirsi tagliati fuori dal resto della comunità, e si è tagliati fuori perché si è una individualità. È quella del linguaggio la questione più importante, perché riassume tutte le altre. Perché qualcuno capisca quel che gli dico è necessario usare le parole in un modo che l’altro le possa comprendere: è necessario che condividiamo le stesse regole d’uso del linguaggio. Gli dico, ad esempio, “mi passi per favore quel peperone rosso laggiù, accanto a quello verde?”. L’altro mi capirà, e mi passerà il peperone che gli ho chiesto, se ho usato la parola “rosso” nel modo in cui si usa nella comunità a cui entrambi apparteniamo, altrimenti non potrà capirmi. Nella letteratura filosofica questo problema è noto come il problema del linguaggio privato, affrontato in particolare da Ludwig Wittgenstein. Il problema di Wittgenstein è provare a capire come sia possibile che persone diverse possano usare in modo reciprocamente comprensibile una stessa lingua. Il modo più facile per risolvere questo problema è ritenere che nella testa delle persone ci siano dei pensieri comuni (secondo alcuni queste idee sono innate), ad esempio l’idea che corrisponde alla parola “rosso”: quando uso questa parola l’altro mi può capire perché anche per lui – che come me parla l’italiano – “rosso” è collegato all’idea di rosso che ha in testa. Wittgenstein osserva che questa soluzione è sbagliata, è logicamente sbagliata. Seguiamo il suo ragionamento: immaginiamo questo caso: mi propongo di tenere un diario in cui registrare il ricorrere di una determinata sensazione. A tal fine associo la sensazione alla lettera “S” e tutti i giorni in cui provo la sensazione scrivo questo segno in un calendario. […] [I]o parlo, o scrivo il segno, e così facendo concentro la mia attenzione sulla sensazione – come se la additassi interiormente. […] Questo avviene, appunto, mediante una concentrazione dell’attenzione; in questo modo, infatti, m’imprimo nella mente la connessione fra il segno e la sensazione. – Ma “Me la imprimo in mente” può soltanto voler dire: questo procedimento fa sì che nel futuro io ricordi correttamente questa connessione. Però nel nostro caso non ho alcun criterio di correttezza. Qui si vorrebbe dire: corretto è ciò che mi apparirà sempre tale. E questo vuol dire soltanto che qui non si può parlare di “corretto” (Wittgenstein, 1953, trad. it. 1974, i, § 258).

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6. l’immanenza della vita

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Ho deciso di tenere un diario, ma voglio che nessuno lo possa mai leggere, e quindi, per evitare ogni rischio, lo scriverò in una lingua privata, un idioletto, una lingua che solo io posso capire. Ora, per essere ancora più sicuro, ho inoltre stabilito che alle regole di questa lingua privata potrò accedere soltanto io, pertanto le imparerò a memoria. Dopodiché comincio ad usare l’idioletto, e quindi decido che tutte le volte che proverò la particolare sensazione che sto provando oggi scriverò “S” sul mio diario. L’indomani provo di nuovo la stessa sensazione, e quindi sul diario scrivo nuovamente “S”. Ma qui sorge subito un problema, come faccio a sapere che è proprio “S” il segno giusto, e non, ad esempio, il segno“P” che avevo deciso di usare per una sensazione simile ma comunque diversa? Non basta dire, come fanno tutti, “sono sicuro di non sbagliarmi, è proprio S che devo usare, non P”, perché questa rassicurazione non è sufficiente. Posso sentirmi sicuro, ma posso anche sbagliarmi, non c’è un modo per scartare la possibilità che mi stia sbagliando. La regola privata che stabiliva il nesso fra la sensazione ed il segno “S” non è affatto affidabile. Ma se non sono sicuro che sia proprio “S” il segno che devo usare, come posso fidarmi della mia lingua privata? E se non posso esserne sicuro, come posso affidare a questa lingua le note sulle mie sensazioni? Una regola privata non è una regola, proprio perché è privata. Quello di cui il mio idioletto manca è un controllo esterno. In una lingua pubblica, se ad esempio mi viene un dubbio su quale sia la corretta ortografia di una parola, cerco in un dizionario, e il dubbio viene risolto. Il dizionario non l’ho scritto io, perché è pubblico, e proprio per questo me ne posso fidare, perché le regole sono controllate da più persone, in particolare da esperti della lingua. Tutto questo, nel mio idioletto, non c’è. Ma allora il paradosso del linguaggio privato è che un idioletto, se esiste, non lo può usare nessuno, nemmeno chi l’ha inventato. Un idioletto non lo capisce nessuno. Un idioletto non è, propriamente, una lingua. Per questo quella di Wittgenstein è una confutazione logica della tesi dell’esistenza di una lingua privata: una lingua o è pubblica o non è una lingua (Cimatti, 2004). Ma in questo modo Wittgenstein ci pone di fronte ad un dilemma: se vogliamo salvaguardare la singolarità che incarniamo, cioè il nostro impossibile idioletto, siamo costretti a rinunciare alla possibilità di stabilire una relazione con gli altri; se, al contrario, vogliamo salvare questa possibilità, siamo

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però costretti a rinunciare alla nostra peculiare e incomunicabile individualità. O l’Altro (la lingua), come scriverebbe Lacan, o il «soggetto reale» (l’idioletto; cfr. Soler, 2009, p. 21). Se ora torniamo da dove siamo partiti, capiamo perché il problema del linguaggio racchiuda un po’ tutti i problemi dell’individualità a disagio, che è a disagio proprio perché è una individualità. Essere una individualità in senso pieno significa infatti non essere in grado di stabilire una relazione con il resto della comunità. Il disagio mentale nasce da questo senso di isolamento. Uno dei modi teoricamente più coerenti di intendere la psicoanalisi è pensarla proprio come una cura che cerca di ristabilire il legame con la comunità; una cura che trasforma l’idioletto in lingua (Lorenzer, 1970), ossia adatta l’individuo alla comunità, lo rende “digeribile” dalla comunità. In fondo è quello che sostiene lo stesso Freud, nel Disagio della cività, quando scrive che «l’uomo diventa nevrotico perché è incapace di sopportare il peso della frustrazione che la società gli impone affinché egli possa mettersi al servizio dei suoi ideali civili» (Freud, 1929, trad. it. 1978, p. 578). La psicoanalisi allora è una cura, una cura basata sulla parola. Il meccanismo della cura lo spiega Freud nei saggi sulla Metapsicologia, in particolare quello dedicato all’Inconscio. È importante spiegarlo in dettaglio perché proprio a partire dalla funzione del linguaggio nella costituzione della psiche che parte la critica radicale di Lawrence alla psicoanalisi. Il punto di partenza del modello di Freud è la distinzione (che riprende dal suo libro sulle afasie; Freud, 1891) fra «rappresentazione della cosa» e «rappresentazione della parola» (Freud, 1915b, trad. it. 1976). La prima è l’insieme delle «tracce mnestiche» che rimangono nella psiche dopo una qualunque esperienza sensibile; la seconda invece è collegata ai gesti espressivi – i movimenti coordinati dell’apparato fonatorio – che permettono di articolare un suono linguistico (o un gesto manuale, nel caso della lingua dei segni). Questa differenza, nota Freud, è parallela alla differenza fra «rappresentazione inconscia», che corrisponde alla «rappresentazione della cosa», e «rappresentazione conscia», che invece corrisponde alla «rappresentazione della parola» (Ivi, p. 85). Un contenuto psichico può diventare (auto)cosciente se si associa alla «rappresentazione della parola»:

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6. l’immanenza della vita

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la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inc contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con le relative rappresentazioni verbali. Abbiamo il diritto di supporre che siano tali sovrainvestimenti a determinare una più alta organizzazione psichica, e a rendere possibile la sostituzione del processo primario con il processo secondario che domina nel Prec (Ibidem).

Il passo di Freud è esplicito: la mente umana può divenire (auto) cosciente soltanto perché è in grado – ciò che sembra precluso ad altre specie animali (Cimatti, 2002) – di pensare in parole, cioè di articolare pensieri letteralmente intessuti di lingua. Se non ci fosse la possibilità di associare «rappresentazioni di cosa» a «rappresentazioni di parola» la psiche umana sarebbe strutturalmente inconscia, perché, spiega Freud, «i processi ideativi» sono «in sé stessi privi di qualità» (pertanto non potremmo auto-percepirli); per questa ragione rimarrebbero «inconsci», mentre acquistano «la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle percezioni verbali» (Freud, 1915b, trad. it. 1976, p. 86), cioè appunto alle «tracce mnestiche» che rimangono in noi dall’ascolto delle parole. In realtà per Freud il ruolo della lingua rispetto al pensiero è ancora maggiore. Attraverso le parole possiamo pensare anche a ciò di cui non abbiamo avuto, propriamente, nessuna esperienza. Proviamo a chiarire con un esempio: vedo davanti a me una cartella rossa poggiata su una sedia. A rigore che la cartella sia sulla sedia non lo vedo direttamente, perché le relazioni fra gli oggetti non sono visibili. Vediamo qualcosa di rosso, e sullo sfondo la massa – di un altro colore – della sedia. Eppure ci sembra proprio di vedere una cartella sopra una sedia. E allora, come facciamo a vedere, e quindi a pensare, ad una relazione, come ad esempio la relazione “sopra”? «La congiunzione con parole può dotare di qualità anche quegli investimenti che non possono derivare qualità alcuna dalle percezioni stesse, in quanto corrispondono a mere relazioni fra le rappresentazioni degli oggetti. Tali relazioni», come nel caso del “sopra”, «che diventano comprensibili solo per il tramite delle parole, sono una parte essenziale dei nostri processi di pensiero» (Ibidem). Siamo partiti dal tema dell’individualità e della sua impossibile forma espressiva, l’idioletto. La psicoanalisi in quanto talking cure è

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il tentativo di riportare l’idioletto alla lingua, il privato al pubblico, il soggettivo all’oggettivo. Il prezzo da pagare per compiere questo percorso è perdere quella assoluta e irriducibile individualità da cui nasceva il disagio che abbiamo visto collocarsi all’inizio del percorso analitico. Perché l’individualità è di per sé fonte di disagio – perché produce esclusione – ma è anche ciò che caratterizza in modo esclusivo ciascun essere umano. Il dispositivo analitico, che si basa proprio sul passaggio dall’inconscia e incomunicabile «rappresentazione della cosa» alla conscia e comunicabile «rappresentazione della parola» incide esattamente su questa singolarità. Secondo Lawrence questo prezzo è troppo alto, perché la cura – in un certo senso – finisce per uccidere il malato; per questa ragione critica l’intero progetto della psicoanalisi. Ma forse, lo vedremo nell’ultima parte di questo lavoro, ammesso che la critica di Lawrence si applichi a Freud, sicuramente non si può applicare alla psicoanalisi lacaniana. 2. Lawrence sull’animale umano La psicoanalisi, per Lawrence, si inscrive in un movimento storico di civilizzazione che allontana l’umano da sé stesso, rendendolo cerebrale, contorto, costitutivamente infelice (cfr. Goodheart, 1969; Dervin, 1979). Il passaggio «dalla rappresentazione della cosa» inconscia alla «rappresentazione della parola», e quindi alla coscienza di sé, rende l’animale umano un essere intrinsecamente diviso, instabile, sempre proiettato o verso il passato o verso il futuro, senza mai veramente abitare il presente che sta vivendo. La posta in gioco della critica di Lawrence alla psicoanalisi è l’immanenza (Ciccarelli, 2008; Pagliardini, 2011). Cioè la questione di una vita tutta al proprio stesso livello, una vita rasoterra, una vita senza trascendenza: «il pensiero dell’immanenza è un esempio di pensiero filosofico non fenomenologico, non strutturalista, non antropologico, estraneo al pensiero analitico che eccelle nello scientismo logico-matematico, nel funzionalismo cognitivo, nell’intersoggettività normativa e linguistica» (Ciccarelli, 2008, p. 20). Immanenza significa rimanere attaccati alla vita, e a nient’altro, ogni altra categoria è superflua. È lo stesso per Lawrence, che vede in particolare nella psicoanalisi il vertice del processo storico che ha portato invece ad allontanarsi dalla vita,

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producendo corpi inevitabilmente segnati dal dualismo che separa il mentale dal corporeo. La psiconalisi per Lawrence sembra invece d’avere come fine il pensiero del corpo, perché nient’altro che questo è la mente, un pensiero inevitabilmente destinato ad allontanarsi dal corpo, fino a perderlo definitivamente: «Adamo ed Eva peccarono non perché avessero un sesso, neanche perché commisero l’atto sessuale, ma perché si accorsero di avere un sesso, e la possibilità dell’atto. Quando il sesso divenne per loro un oggetto mentale […] allora furono maledetti e cacciati dall’Eden» (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 163). Ecco il danno per la vita della psicoanalisi, trasformare il sesso in un «oggetto mentale», e così separarlo dal corpo, e l’immanenza dell’esistenza si perde per sempre: «la mente ideale», scrive Lawrence in Fantasia dell’inconscio, «il cervello, è diventato un vampiro della vita moderna, succhiando via il sangue e la vita» (Ivi, p. 63). Da notare come, per Lawrence, «mente» e «cervello» siano in realtà espressioni sinonime, perché testimoniano della avvenuta frammentazione del corpo umano, una dualità che non può essere superata rendendo la prima identica al secondo (come oggigiorno vorrebbero le scienze cognitive), o abbandonando il corpo a vantaggio della mente (come vuole l’eterna tentazione della trascendenza), ma rinunciando ad un modo di vivere che instancabilmente produce quello stesso dualismo. È l’immanenza della vita, semplicemente, quella che cerca Lawrence: qual è allora il vero inconscio? Non un’orma fumosa derivata dalla mente. È la spontanea pulsione alla vita in ogni organismo. Da dove ha origine? Comincia dove comincia la vita. Ma questo è troppo vago. Non ha senso parlare della vita e dell’inconscio alla rinfusa. Si può parlare dell’elettricità, perché è una forza omogenea, concepibile separatamente da qualsiasi incorporamento. Ma la vita è inconcepibile come oggetto generico. Esiste solo nelle creature viventi. Cosicché la vita ha inizio, oggi come allora, in una individuale creatura vivente. All’inizio dell’individuale creatura vivente c’è l’avvio della vita, sempre e ogni volta, e la vita non ha altro inizio. Ogni tentativo di un’ulteriore generalizzazione ci porta semplicemente oltre la considerazione della vita, nella regione della forza meccanica e omogenea (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 167).

L’inconscio sessuale, per Lawrence, non è quello originario, non è il «vero inconscio». Al contrario, gli umani in formazione possono sviluppare un inconscio sessuale perché subiscono una sorta di seduzione da parte dell’inconscio dell’adulto (è interessante che Lawrence usi il termine “seduzione” anticipando una tesi che, decenni dopo,

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diventerà quella di Laplanche, per il quale l’inconscio nasce dal messaggio enigmatico dell’adulto, non è cioè originario; cfr. Laplanche, 2007): «dai primissimi giorni, un bambino è soggetto alle influenze psichiche dell’io-cosciente del suo circondario, e reagirà quasi automaticamente ad un suggerimento paradossale e conscio della madre. Il questo senso viene evocato prematuramente il sesso personale, e vengono costruiti i veri complessi» (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 181). Lo sviluppo spontaneo (ma esiste davvero? Lawrence qui non è troppo ingenuamente seguace di Rousseau?) del bambino viene così perturbato dall’«io-cosciente», cioè dalla «mente» dell’adulto, che introduce disturbi e perversioni. Ma cos’è, propriamente, questo «vero inconscio», al di qua della perturbazioni introdotte dalla «mente» e dalle razionalizzazioni della psicoanalisi? Lawrence identifica quest’entità con il nucleo affatto singolare della vita di ciascun corpo. Una singolarità del tutto intraducibile (ecco l’unico vero idioletto esistente), perché ogni lingua mira al comune e all’intersoggettivo, cioè proprio a ciò che non è singolare e unico. È questo il grumo originario che Lawrence vuole difendere ad ogni costo, sempre e comunque. Un nucleo che la talking cure può invece prendere in carico soltanto inquadrandolo (e quindi perdendolo) nelle sue categorie generali, l’Es, il Super Io, l’Io, e ancora l’Edipo, la castrazione, il Fallo, e così via. Lawrence, di conseguenza, per evitare ogni categoria che possa fargli smarrire la radicale singolarità di questo grumo, non può che definire il «vero inconscio» attraverso una tautologia: «al mio principio ci sono io. C’è una misteriosa piccola entità che è il mio sé individuale» (Lawrence, 1922, trad. it. 1995, p. 55). Una entità che è «misteriosa» perché non esiste una categoria che la possa spiegare, e ricondurre ad un principio superiore, trascendente appunto. È questa l’immanenza, questa ottusa e scontrosa tautologia. È questa la posta in gioco fra la psicoanalisi e Lawrence, o almeno un particolare modo di intendere la psicoanalisi. Il «vero inconscio» coincide allora con il grumo originale e affatto singolare della vita: «l’inizio della vita è l’inizio della prima creatura individuale. […] E dove comincia la vita ha inizio anche l’inconscio. Ma tenete a mente, il primo e nudo organismo unicellulare è un individuo. È un individuo specifico, non un’unità matematica come un’unità di forza. Dove comincia l’individuo, ha inizio la vita. I due sono

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inseparabili, vita e individualità. E allo stesso modo, dove comincia l’individuo, comincia anche l’inconscio, che è la specifica pulsione alla vita» (Lawrence, 1922, trad. it. 1995, pp. 167-168). «Vita», «inconscio» e «individualità» vanno insieme, sono tre modi diversi per indicare uno stesso movimento e unitario. Ogni tentativo di stabilire per la vita una direzione, un vincolo, un ideale equivale, per Lawrence, a stravolgerne la spontanea motilità. Qui Lawrence coglie un problema reale della psicoanalisi, che da un lato è il sapere che ha esattamente questo ambito brulicante di vita e desiderio come proprio oggetto specifico, dall’altro, però, è la prima ad esserne impaurita. Di qui la perenne tentazione della psicoanalisi a presentarsi come il sapere rispettabile e conformista che mira al controllo e alla «sublimazione» dell’inconscio (cfr. Cimatti, 2011). L’immanenza del vitale viene scoperta ma solo per rinchiuderla subito dopo dentro nuove e più severe categorie di controllo, a partire dall’Edipo (e qui vale tutta la differenza lacaniana, per il quale, invece, «al centro della dottrina della soggettivazione è una sostanza particolare, preontologica, non-fondata, priva di essenza che non si lascia mortificare integralmente nell’universale del significante», Recalcati, 2012, p. 422). Per questo, nel confronto fra Lawrence e la psicoanalisi, la posta in gioco è l’immanenza: «la meta non è ideale. Lo scopo non è la consapevolezza mentale. Vogliamo esseri umani reali, non consci» (Lawrence, 1922, trad. it. 1995, p. 63). Appunto, la meta non consiste nell’andare oltre il corpo e la vita, nella trascendenza appunto (sia quella apparentemente più mondana delle regole sociali e comunicative, come di quella dichiaratamente spirituale della religione), al contrario, la meta coincide con il punto di partenza, la meta è rimanere dove già si stava. Il problema che pone la psicoanalisi, per Lawrence, è stabilire se intende collocarsi dal lato della trascendenza (non c’è affatto bisogno di credere in Dio per stare dalla parte della trascendenza, il culto della scienza ne è la prova più evidente) o da quello dell’immanenza: «tutto il campo della coscienza dinamica e reale è sempre pre-mentale, non-mentale» (Ibidem). La vita è soltanto questo corpo vivente qui ed ora. Se allora la psicoanalisi è il tentativo di «sublimare» questo processo vitale trasformandolo in una «coscienza mentale, finita e statica» (Ivi, p. 64), allora significa che la psicoanalisi ha fatto la sua scelta di campo, ha scelto la trascendenza. Mentre nell’altro, quello dell’immanenza,

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rimane la «coscienza primaria», quella non scissa, quella terra terra, quella non divisa fra realtà e ideale (o fra Io e Super Io): «questa coscienza, comunque, è assolutamente non ideale, non mentale, puramente dinamica, una materia costituita da un interscambio dinamico e polarizzato di vibrazioni vitali, come uno scambio di messaggi radio che non sono mai tradotti dal ritmo del polso in parole, perché non ne hanno bisogno» (Ibidem). 3. Il trauma del linguaggio L’esempio di quest’ultima citazione è chiarificatore, perché mostra come il nodo teorico di fondo di questo confronto fra Lawrence e la psicoanalisi sia, in realtà, il linguaggio. Lawrence parla della comunicazione via onde radio, ma una comunicazione che non richiede decodifica; il polso dell’operatore che riceve in cuffia i segnali radio non sta pensando a come associare lettere a segnali, in realtà vibra e risuona a quanto sta ascoltando, e la sua mano si muove di conseguenza, trasformando la vibrazione sonora in vibrazione gestuale (le lettere che scrive nel blocco d’appunti). Questo non è il linguaggio, almeno non il linguaggio umano (cfr. Lo Piparo, 2003). L’esempio di Lawrence è quello di un flusso continuo di vibrazioni, come la radiazione termica rispetto al movimento del girasole: il ruotare del fiore verso il calore della luce solare non significa che il girasole abbia compreso che il sole si trova in una certa posizione del cielo. Questo non è un fenomeno mentale, non è un ragionamento, è invece un risuonare della pianta ad una certa vibrazione ambientale (Gibson, 1966). Qui è il flusso in primo piano, la trasformazione, in corpi diversi, di uno stesso schema di vibrazione. Al contrario, il linguaggio umano è costruito sull’interruzione del flusso, a partire da quella che è forse la parola per eccellenza di ogni lingua, la negazione, il “no” (Freud, 1925; Virno, 2013). Negare significa infatti introdurre nel dinamismo del flusso dell’esperienza un blocco, uno stacco: dire, di fronte alla cartella sulla sedia (l’esempio che abbiamo discusso più sopra), “la cartella non è gialla” significa esattamente prendere le distanze dal flusso percettivo. La cartella che vediamo è rossa, non c’è niente di giallo nel nostro campo visivo, eppure, attraverso l’operatore logico-linguistico della negazione im-

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provvisamente entra nel nostro campo mentale (e qui è proprio e soltanto mentale) anche il “giallo”. Il flusso percettivo è interrotto, non c’è più risonanza con l’ambiente esterno. Possiamo pensare al “giallo” – attraverso la parola – anche se non c’è niente di giallo da vedere. La parola ha appunto questo potere, straordinario e dalle infinite conseguenze, separare quello che è continuo, dividere ciò che è unitario, articolare quello che è compatto. In questo senso la psicoanalisi, in quanto talking cure, cura della parola, rappresenta il vertice di un modo di stare al mondo che allontana definitivamente dalla immediatezza del corpo. Lawrence non può certo conoscere Lacan, ma sarebbe stato del tutto d’accordo con lui quando questi dice «che l’individuo affetto dall’inconscio è lo stesso che costituisce quello che io chiamo il soggetto di un significante» (Lacan, 1975, trad. it. 2011, p. 136). Quest’inconscio di cui sta parlando Lacan è molto simile a quello di Lawrence, è qualcosa che arriva dall’esterno, dal «significante», cioè dal linguaggio. Non è originario, questo inconscio; l’umano è segnato dall’inconscio perché è segnato dall’Altro, per usare un’altra formula di Lacan. Lawrence sarebbe stato d’accordo, all’inizio non c’è l’inconscio, o meglio, c’è quello che lui chiama, come abbiamo visto, il «vero inconscio», che appunto non è quello che «è strutturato come un linguaggio» (Ivi, p. 133): la mentalità [mentality], per suo principio automatica come una macchina, comincia ad assumere vita. Comincia ad intaccare la vita, a pretendere di fare e disfare la vita. “In principio c’era il Verbo”. Questa è la presuntuosa mascherata della mente. Il Verbo non può essere l’inizio della vita. È la fine della vita, ciò che cade perduto. La mente è il vicolo cieco della vita (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 193).

In questo caso è del tutto esplicita l’associazione che Lawrence stabilisce fra «mente», «Verbo» cioè linguaggio (il «significante» di Lacan) e «fine della vita». L’operazione linguistica, attraverso la parola e la presa di coscienza che l’accompagna, frammenta l’unitarietà del flusso vitale. E questo preclude definitivamente la possibilità di vivere l’esistenza con pienezza: «conoscere è perdere. Quando io possiedo un concetto mentale dell’amato, di un amico, allora l’amore e l’amicizia sono morti. Decadono al livello di mere conoscenze. Non appena possiedo un concetto mentale finito, un’idea completa anche di me stesso, allora da un punto di vista dinamico sono morto. Co-

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noscere è morire» (Ivi, p. 193). La coscienza, per Lawrence, è una «dynamic consciousness» (Lawrence, 1922, trad. it. 1995, p. 65), che è viva finché permane in questo flusso non sostanziale, finché partecipa del movimento delle relazioni vitali, finché rimane fluida e aperta a nuove relazioni. Ogni forma di irrigidimento semplicemente la uccide. Ecco perché un progetto terapeutico basato sulla parola, come appunto la psicoanalisi, è considerato da Lawrence come il punto terminale di una storia che ha come fine l’annientamento di quanto c’è di originario nella vita umana, «la libera psiche spontanea, l’anima effettiva» (Lawrence, 1922, trad. it. 1995, p. 184). La psicoanalisi, allora, non è la cura della nevrosi, al contrario, è il punto più alto della malattia. Bisogna liberarsi della cura, per provare – finalmente – a guarire dalla malattia. La psicoanalisi, cioè l’operazione attraverso la quale si prende coscienza linguistica del proprio mondo interiore, è il problema, non la soluzione: iniettare «l’ideale» (sotto forma di Super Io, ad esempio) nella «sfera passionale […] rappresenta il pericolo conclusivo per la coscienza umana» originaria, «è la morte di ogni vita spontanea e creativa» (Ivi, p. 166). D’accordo, è alla «dynamic consciousness» che dobbiamo rivolgerci, è questa la via d’uscita dalla nostra condizione, ma dove trovarla? Qui Lawrence si trova di fronte ad una alternativa, che è logica prima ancora che letteraria o teorica. Se il «vero inconscio» rappresenta la nostra condizione originaria, è però anche una condizione ormai perduta, proprio per la nostra condizione di animali parlanti. E allora, il «vero inconscio» semplicemente non esiste più, è stato cancellato dal momento in cui l’umano è diventato, come dice Lacan, il «parlêtre»: «quando affrontiamo il soggetto, sappiamo che vi è già nella natura qualcosa che è il suo Es, strutturato secondo la modalità di un’articolazione significante che [lo] contrassegna con le sue impronte, le sue contraddizioni, con la sua profonda differenza rispetto alle captazioni naturali, tutto ciò che si esercita nel soggetto» (Lacan 1994, trad. it. 2007, p. 45). Ormai è questa, la natura dell’animale umano. Dove cercare, allora, il «vero inconscio»? Per questo quello di Lawrence è un problema logico, perché non possiamo cercare di abitare in un tempo che è irrimediabilmente passato; in realtà il «parlêtre» può esserci solo perché quel tempo non è più. Per Lawrence tutto questo è chiaro, è una condizione che non è alle nostre spalle, al contrario, può esistere (se esiste) solo come oriz-

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zonte. Quale sia la condizione d’arrivo è altrettanto chiaro, una volta compreso che la posta il gioco è il rapporto con il linguaggio e la sua potenza distanziatrice rispetto alla pienezza dell’esperienza. Quello che Lawrence cerca è l’assoluta immanenza, una condizione in cui «vi è qualcosa di interamente nuovo» (perché l’immanenza è radicale singolarità), «non derivato e non derivabile» (non esiste modello per la singolarità, ognuna fa regola a sé), «qualcosa che è, e resterà per sempre, fortuito» (perché non deducibile dalle premesse, è sempre la prima volta e l’ultima che si presenta; il «reale è senza legge» dice Lacan; 2005, trad. it. 2006, p. 134); «e questo qualcosa è l’inanalizzabile, l’indefinibile realtà dell’individualità» (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 168). Ebbene questa condizione è da raggiungere, o meglio, è da costruire, è il compito assolutamente non trascendente di ogni essere umano: eppure noi dobbiamo conoscere, anche se solo per imparare a non conoscere. La suprema lezione della coscienza umana è di imparare come non conoscere. Vale a dire, come non interferire. Ancora, come vivere dinamicamente […] e non staticamente come macchine guidate da idee e principi che partono dalla testa, o automaticamente, a partire da un unico desiderio fisso (Lawrence, 1922, trad. it. 1995, p. 69).

Il percorso che ci propone Lawrence è tortuoso, e apparentemente contradditorio. L’animale che parla, l’animale scisso in corpo e mente, l’animale autocosciente, deve imparare a smettere di essere proprio ciò che è, il «parlêtre», l’animale intrinsecamente scisso. Deve imparare, compito a cui solo una mente può applicarsi, a non imparare; deve addirittura imparare a «non interferire». Questo è il compito più difficile, perché non interferisce solo chi non ha nulla da avanzare di proprio, solo chi partecipa della situazione, ma senza pretendere di guidarla. Una mente, al contrario, è sempre lì con le sue preoccupazioni, il suo orgoglio, il suo “io” da promuovere e difendere. Per questo, il più perfetto esempio di «vero inconscio», per Lawrence, è il «feto», che infatti «non è conscio in modo personale» (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 172). In effetti lo stesso linguaggio che produce, a partire dall’operazione originaria della negazione, la distanza fra corpo ed esperienza – la “mente” è appunto la presa d’atto di questa separazione – produce anche quella particolare entità tutta linguistica che dice di sé “io” (Cimatti, 2000). E non po-

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trebbe esserci psicoanalisi senza “io”, e viceversa. E quindi liberarsi del primo significherebbe anche liberarsi della seconda: «ci rendiamo conto che l’inconscio», nel senso di Lawrence, quello non infettato dalla coppia mente-linguaggio, «non contiene nulla di ideale, nulla di minimamente concettuale, e perciò nulla di minimamente personale, giacché la personalità, come l’ego, appartiene al sé cosciente, mentale-soggettivo» (Lawrence, 1921, trad. it. 1995, p. 180). 4. Diventare un corpo L’obiettivo, per Lawrence, è recuperare una radicale individualità, questo è infine il «vero inconscio», quello che vuole salvare dall’influsso pernicioso della mente autoriflessiva e della psicoanalisi: «perché il fine, la meta, è il perfezionamento di ogni singola individualità» (Ivi, p. 174). Ora, questo obiettivo è il contrario di quanto si potrebbe pensare, non equivale affatto ad un imperativo egocentrico. Solo un “io” può desiderare di affermare sé stesso, solo un “io” può essere egoista. La «singola individualità» invece è tanto più sé stessa, e soltanto sé stessa, quanto meno affaticata dal peso del proprio “io” con tutto il carico delle sue preoccupazioni. Una singolarità che, a questo punto, è finalmente e liberamente capace di risuonare con l’ambiente di cui è parte integrale: «ciò che è individuale è la relazione, l’anima, non l’io. L’io tende a identificarsi con il mondo, ma appartiene già alla morte, mentre l’anima tende il filo delle sue “simpatie” e “antipatie” viventi. Smettere di pensarsi come un io, per viversi come un flusso, un insieme di flussi, in relazione con altri flussi, fuori di sé e in sé» (Deleuze, 1995, trad. it. 1996, p. 71). La preoccupazione di Lawrence è salvaguardare il nucleo impersonale e affatto singolare del vivente umano, nucleo che sfugge ad ogni classificazione, ad ogni sforzo di assimilazione da parte dell’accoppiata mente-linguaggio. Un nucleo, anche questo va ribadito, che Lawrence ritiene non sia uno stato da ritrovare, bensì da raggiungere, attraverso progressive identificazioni con sé stessi. Un processo che non accresce l’“io”, al contrario, lo scarnifica, lo riduce alla condizione non più ulteriormente riducibile dell’immanenza di una vita. Ecco che, allora, si apre un nuovo spazio di riflessione rispetto alla psicoanalisi. Non è affatto necessario, infatti, che la talking cure fini-

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sca nel primato della mente sul corpo, a prezzo di sacrificare il nucleo di individualità che incarna ogni vita umana. La critica di Lawrence forse non è indirizzata tout court alla psicoanalisi, ma forse solo ad un particolare modo di intenderla. Un modo che probabilmente non è quello freudiano (Freud, 1937), ma certamente non è quello di Lacan. L’obiettivo dell’analisi, per Freud, è l’«opera di liberazione di un essere umano dai suoi sintomi nevrotici, inibizioni e anomalie di carattere» (Ivi, p. 499). Ma questa opera si può intendere in più modi. Quello che Lawrence temeva era quello normalizzante che privilegia lo spazio della mente rispetto a quello del corpo, il primato del conformismo sociale sull’eccentricità anonima del corpo. Ma appunto, non è l’unico modo né il più adeguato di intendere il processo analitico. Chiariamo intanto l’obiettivo, di quest’altro modo di intendere la psicoanalisi, un modo che accolga la critica di Lawrence, che protegga e rafforzi il nucleo impersonale del vivente umano. Ciò che quest’altro modo di intendere la psicoanalisi intende salvare è – usiamo ancora le parole di Deleuze, uno dei pochi filosofi che hanno saputo usare produttivamente il suo pensiero – «la parte inalienabile dell’anima, [che] è quando si è smesso di essere un io: bisogna conquistare questa parte eminentemente fluida, vibrante, lottatrice» (Deleuze, 1995, trad. it. 1996, p. 72). L’analisi è un lavoro di parole, non c’è altro, fra analista e analizzato. Eppure in questo caso le parole non cercano di trasformarsi in altre parole, in altre interpretazioni, in altre ipotesi. È un processo questo sì interminabile, che non porta al di là delle parole. Ecco, è questa la psicoanalisi che Lawrence critica, e giustamente, perché produce soltanto compiacimento e uno sterile godimento della parola. Mentre l’obiettivo della cura è passare «dal simbolico al reale» (Izcovich , 2006, p. 18), cioè al corpo stesso. Ma questo significa che la talking cure è una cura che ha come fine quello appunto di liberare il corpo dalle parole (Di Ciaccia, 2013). Quello che Lawrence chiama, con una punta di ingenuità, «vero inconscio» il Lacan del seminario XX lo chiamerebbe forse «lalingua», tutto attaccato. Lalingua non è la lingua che parliamo tutti i giorni, la lingua che incessantemente produce “io” e gli oggetti di cui “io” parla e si preoccupa, la lingua che produce “tu” e la distanza che lo separa da “io”, che genera frammentazione e parole che chiamano altre parole, e altre parole ancora. Lalingua «serve a tutt’altra cosa che alla comunicazione», infatti, «ce l’ha insegnato l’esperienza dell’inconscio, in

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quanto esso è fatto di lalingua» (Lacan, 1975, trad. it. 2011, p. 132). Dove c’è lalingua non ci sono soggettività, e quindi non c’è nemmeno comunicazione; lalingua è il flusso impersonale al qua di “io” e “tu”. Per questa ragione lalingua sconcerta, e infatti «il linguaggio è quel che si cerca di sapere circa la funzione di lalingua» (Ibidem). Lalingua è lo spazio di movimento e libertà che si può aprire, alla fine dell’analisi, quando l’analizzato ha smesso di chiedere il perché dei suoi sintomi; finché il sintomo è inteso come un segno non lo si prende per qualcosa di reale, ma appunto soltanto come il rappresentante di qualcosa d’altro. È questo altro, che interessa, il sintomo è soltanto un modo per arrivarci. Ma il sintomo è il corpo, questo corpo qui. Finché il corpo è soltanto sintomo, in realtà il corpo non ci interessa per niente. Quello che ci interessa, invece, è il discorso sul corpo, è cioè la mente che si compiace di essere separata dal corpo. Per Lacan il compito dell’analisi, invece, consiste nell’andare nella direzione contraria, dalla mente al corpo, dal simbolico al reale. Lacan è d’accordo con Lawrence, la meta è l’immanenza, e allora «lasciamo che il sintomo sia quel che è: un evento del corpo» (Lacan, 2001, trad. it. 2012, p. 561). Per far meglio cogliere questo passaggio, dal sintomo come segno al sintomo come «evento del corpo», Lacan ricorre ad un espediente grafico: il sintomo non semiotico è un «symptôme» (Lacan, 2005). Il punto centrale è che per Lacan il «symptôme» è legato al «godimento» (Lacan, 2001, trad. it. 2012, p. 570). Finché il corpo è l’altro della mente, il godimento è interdetto, e può essere raggiunto solo aggirando questo interdetto, e quindi attraverso il sintomo. Il sintomo è infatti un modo per soddisfare il godimento, ma senza che la mente lo sappia, di nascosto, furtivamente. Quando il sintomo diventa «symptôme», quando cioè l’analizzato ha imparato, come diceva Lawrence, a non voler più imparare (quando è il reale che cerca, non più il simbolico), allora gli è possibile stare nel corpo, semplicemente. Ora il corpo è, ed è tutto quello che ha da esserci. In questo senso il «symptôme», scrive Colette Soler, «è il nome dell’identità del soggetto, il suo vero nome proprio che detronizza il patronimico» (Soler, 2009, p. 92), che invece è il nome che viene dall’Altro, dal linguaggio. Questo nuovo nome, al contrario, non è propriamente un nome, perché coincide con il corpo stesso: «identificarsi con il symptôme è […] riconoscersi» (Ivi, p. 111). Un riconoscimento che non significa però vedersi da fuori, perché questo processo sarebbe ancora un allonta-

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6. l’immanenza della vita

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narsi dal corpo; è un riconoscersi immanente, è un coincidere con sé stessi. A questo punto il corpo è semplicemente e per la prima volta il corpo che è: non è più il corpo come lo vede l’Altro, come lo hanno immaginato i genitori e il Super-Io, la Chiesa e lo Stato. Il corpo alla fine dell’analisi è il corpo oltre l’Altro. La talking cure ha lo scopo di portare il simbolico fino al punto di sciogliersi nel corpo (e quindi non di sublimare il corpo nella mente, al contrario, la mente nel corpo). Una operazione, e anche questo Lawrence l’aveva capito, che solo un «parlêtre» può compiere: «se per l’animale è lecito identificare l’essere e il corpo, per la specie umana non lo è. Concerne lo statuto del corpo parlante: il corpo non rileva dell’essere, bensì dell’avere» (Miller, 2000, p. 23). L’organismo umano, una volta assorbito nel campo del linguaggio viene diviso in corpo e pensiero sul corpo, cioè la mente che dice “io”. Ora, solo un organismo del genere può provare la sofferenza che questa divisione comporta, e quindi desiderare di ricomporla. Solo chi ha qualcosa, in questo caso il proprio corpo, può scegliere di fare tutt’uno con esso; diventare il corpo che si ha, questo significa, per l’animale umano, essere un corpo. La cura analitica ha esattamente questo obiettivo, riportare il corpo al corpo. La meta della psicoanalisi è incarnare il simbolico. Lawrence, nel romanzo breve L’uomo che era morto, racconta la storia del Cristo che, dopo la crocifissione, risorge, come corpo d’uomo fra gli altri uomini. Non è più il figlio di Dio, è proprio soltanto un corpo, ferito e profondamente addolorato, di un uomo che è morto, e che per qualche inspiegabile ragione è tornato alla vita. Anzi, non ne vuole sapere della vita, che per lui ha significato dolore e tradimento, ma la vita l’ha richiamato, anche contro il suo desiderio, ché alla fine – nella tortura della croce – desiderava solo la morte. Ora è vivo, e scopre, suo malgrado, che può finalmente essere il corpo che è: «che bello», si dice, «aver concluso la missione e averla superata. Ora posso stare solo e lasciare le cose a loro stesse. Il fico può essere sterile se lo vuole e il ricco può essere ricco. La mia strada è mia e la percorrerò da solo» (Lawrence, 1931, trad. it. 1995, p. 384). Il corpo che è diventato è ancora un corpo che parla, non smette d’essere un «parlêtre», ma il suo rapporto con il linguaggio è cambiato. Parla, ma la parola non lo allontana più dell’assoluta immanenza della sua esistenza. È un corpo che vive, e nient’altro. È certo curioso come esempio, ma se la possibilità del «symptôme» si

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dà realmente, allora questo corpo ha fatto della coincidenza con sé stesso la propria singolarità: «il verbo non è altro che una zanzara che morde di sera. L’uomo è tormentato dalle parole come dalle zanzare e lo seguono dritto alla tomba. Ma non possono andare al di là della tomba. Ora, sono passato al luogo in cui le parole non possono più mordere e l’aria è chiara, non c’è niente da dire, e sono solo, all’interno della mia stessa pelle che è il muro di recinzione di tutto ciò che possiedo». Così guariva delle sue ferite e si godeva la sua immortalità di essere vivo, senza inquietudine, poiché nella tomba si era liberato di quel cappio che noi chiamiamo preoccupazione. Nella tomba aveva lasciato la parte di sé che combatte, che si preoccupa e che si autoafferma. Ora la parte di sé indifferente guariva e diventava intera all’interno della pelle ed egli sorrise a sé stesso con pura solitudine, che è una sorta di immortalità (Ibidem).

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Quodlibet Studio



analisi filosofiche

Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di “funzione” tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Giancarlo Zanet, Le radici del naturalismo. W.V. Quine tra eredità empirista e pragmatismo Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003 Elio Franzini, Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi Erica Cosentino, Il tempo della mente. Linguaggio, evoluzione e identità personale Francesca Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione Jlenia Quartarone, Causazione e intenzionalità. Modelli di spiegazione causale nella filosofia dell’azione contemporanea Arianna Bernardi, Intenzionalità e semantica logica in Edmund Husserl e Anton Marty Maria Primo, Alle radici della parola. L’origine del linguaggio tra evoluzione e scienze cognitive Antonio Rainone, Quale realismo, quale verità. Saggio su W. V. Quine Giovanni Tuzet, La pratica dei valori. Nodi fra conoscenza e azione

campi della psiche

Francesco Napolitano, Sete. Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione di conoscere Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza Stefania Napolitano, Dal rapport al transfert. Il femminile alle origini della psicoanalisi

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Luca Zendri, La fabbrica delle psicosi Stefania Napolitano, Clinica della differenza sessuale. Fantasma, sintomo, transfert

campi della psiche. filosofie dell’inconscio

Felice Cimatti, Il taglio. Linguaggio e pulsione di morte

campi della psiche. lacaniana

Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psico-analitica Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie Céline Menghi, Chiara Mangiarotti, Martin Egge, Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould Noëlle De Smet, In classe come al fronte. Un piccolo, nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare Yves Depelsenaire, Un’analisi con Dio. L’appuntamento di Lacan con Kierkegaard François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psico-analisi Jacques-Alain Miller, Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi Nicolas Floury, Il reale insensato. Introduzione al pensiero di Jacques-Alain Miller Chiara Mangiarotti (a cura di), Il mondo visto attraverso una fessura. A scuola con i bambini autistici Roberto Cavasola, L’isteria, la depressione e Lacan François Ansermet, Ariane Giacobino, Autismo. A ciascuno il suo genoma Éric Laurent, La battaglia dell’autismo. Dalla clinica alla politica

dietro lo specchio

Andrea Zucchinali, Jacques-André Boiffard. Storia di un occhio fotografico

discipline filosofiche

Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla “Metafisica della conoscenza” di Nicolai Hartmann

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Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi Girolamo De Michele, Felicità e storia Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il “nuovo neokantismo” di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831) Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen» Mariateresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia

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Daniele Cozzoli, Il metodo di Descartes Francesco Bianchini, Concetti analogici. L’approccio subcognitivo allo studio della mente Marco Mazzeo, Contraddizione e melanconia. Saggio sull’ambivalenza Vincenzo Costa, I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica Aldo Trucchio (a cura di), Anatomia del corpo, anatomia dell’anima. Mecca-nismo, senso e linguaggio Roberto Frega, Le voci della ragione. Teorie della razionalità nella filosofia americana contemporanea Carmen Metta, Forma e figura. Una riflessione sul problema della rappresentazione tra Ernst Cassirer e Paul Klee Felice Masi, Emil Lask. Il pathos della forma Stefano Besoli, Claudio La Rocca, Riccardo Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere Adriano Ardovino, Interpretazioni fenomenologiche di Eraclito Mariannina Failla, Dell’esistenza. Glosse allo scritto kantiano del 1762 Caterina Zanfi, Bergson e la filosofia tedesca 1907-1932 Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin

estetica e critica

Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’“amoroso regno” Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma

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Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile» Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente Rita Messori, Poetiche del sensibile. Le parole e i fenomeni tra esperienza estetica e figurazione Dario Cecchi, La costituzione tecnica dell’umano Francesca Iannelli (a cura di), Vita dell’arte. Risonanze dell’estetica di Hegel

filosofia e politica

Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile Adalgiso Amendola, Laura Bazzicalupo, Federico Chicchi, Antonio Tucci (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione Paolo B. Vernaglione, Dopo l’umanesimo. Sfera pubblica e natura umana nel ventunesimo secolo Dario Gentili, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida Mauro Farnesi Camellone, La politica e l’immagine. Saggio su Ernst Bloch Le vie della distruzione. A partire da «Il carattere distruttivo» di Walter Benjamin, a cura del Seminario di studi benjaminiani Ferdinando G. Menga, L’appuntamento mancato. Il giovane Heidegger e i sentieri interrotti della democrazia Paolo Vignola, La lingua animale. Deleuze attraverso la letteratura Laboratorio Verlan (a cura di), Dire, fare, pensare il presente Mario Barenghi, Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea Mauro Farnesi Camellone, Indocili soggetti. La politica teologica di Thomas Hobbes Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700) Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione Giovanni Licata (a cura di), L’averroismo in età moderna (1400-1700)

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filosofia e psicoanalisi

Silvia Vizzardelli e Felice Cimatti (a cura di), Filosofia della psicoanalisi. Un’introduzione in ventuno passi Felice Cimatti e Alberto Luchetti (a cura di), Corpo, linguaggio e psicoanalisi Silvia Vizzardelli, Io mi lascio cadere. Estetica e psicoanalisi

il pensiero etico e religioso

Isabella Adinolfi, Giuseppe Goisis (a cura di), I volti moderni di Gesù. Arte Filosofia Storia lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George

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Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del xx secolo Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica Susanna Spero, L’invenzione di una forma. Poetica dei generi nell’opera di Samuel Beckett Marcella Biasi, Potenza della lirica. La filosofia della poesia moderna e il paradigma Celan Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia Paola Laura Gorla, Sei diversioni nel Chisciotte Davide Colussi, Paolo Zublena (a cura di), Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure Fabrizio Scrivano, Diario e narrazione Barbara Ronchetti, Caleidoscopio russo. Studi di letteratura contemporanea Eloisa Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja Paolo Amalfitano, L’armonia di Babele. Varietà dell’esperienza e polifonia delle forme nel romanzo inglese Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana

lettere. ultracontemporanea

Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese Matteo Majorano (a cura di), Il ritorno dei sentimenti Marinella Termite, Le sentiment végétal. Feuillages d’extrême contemporain Gianfranco Rubino, Dominique Viart (a cura di), Le roman français contemporain face à l’Histoire. Thèmes et formes Gianfranco Rubino (a cura di), Le sujet et l’Histoire dans le roman français contemporain. Écrivains en dialogue

lingua, didattica, società

Alejandro Patat e Andrea Villarini (a cura di), Gli italianismi in Argentina Alejandro Patat (a cura di), Vida nueva. La lingua e la cultura italiana in America Latina

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scienze del linguaggio

John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio

scienze della cultura

Francesco Fiorentino (a cura di), Icone culturali d’Europa Giovanni Sampaolo (a cura di), Kafka: ibridismi. Multilinguismo, trasposizioni, trasgressioni Flavio Cuniberto, La foresta incantata. Patologia della Germania moderna Francesco Fiorentino (a cura di), Al di là del testo. Critica letteraria e studio della cultura Guglielmi Marina, Giulio Iacoli (a cura di), Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria Fiorentino Francesco, Carla Solivetti (a cura di), Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture Alessandro Bosco, Il romanzo indiscreto. Epistemologia del privato nei “Promessi Sposi” Maria Carolina Foi, La giurisdizione delle scene. I drammi politici di Schiller Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Lessico mitologico goethiano. Letteratura, cultura visuale, performance Michele Cometa, Valentina Mignano (a cura di), Critica/crisi. Una questione degli studi culturali Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Rappresentanza/rappresentazione. Una questione degli studi culturali

teoria delle arti e cultura visuale

Laura Iamurri, Lionelli Venturi e la modernità dell’impressionismo Andrea Pinotti e Maria Luisa Roli (a cura di), La formazione del vedere. Lo sguardo di Jacob Burckhardt Giovanni Gurisatti, Scacco alla realtà. Dialettica ed estetica della derealizzazione mediatica Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva nell’arte italiana del primo Novecento Michele Cometa, Danilo Mariscalco (a cura di), Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale Luca Pietro Nicoletti, Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore d’arte a Parigi

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