Il linguaggio. Teorie e storia delle teorie. In onore di Lia Formigari 9788820739089, 9788820745004

Fra i molti modi possibili di fare filosofia del linguaggio, ce n´è uno che assume la storia delle idee come punto di pa

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Indice
Premessa
“Nei nostri giovani giorni”
Il linguaggio tra teoria e storia della teoria
Eraclito e Parmenide. Contemporaneità, consapevolezza e/o (in)dipendenza?
La retorica dei sofisti tra riscoperta e reinterpretazione
Il quesito di Plutarco. Linguistico, epilinguistico e metalinguistico nello studio del linguaggio
Acquisire parole, acquisire saperi. Riflessioni su alcune
pagine di Agostino
Un motivo aristotelico e i suoi sviluppi nelle dottrine
linguistiche di Dante e Varchi
Derive semantiche e psicologia cognitiva in Leibniz.
Discutendo con Lia Formigari
Processi simbolici e parti (pluri)gemellari. La riflessione del linguaggio di Vico tra modello genetico e paradigma funzionale
Le lingue e i popoli primitivi in Etienne Bonnot de Condillac e Joaquín Camaño
Psicologismo e antipsicologismo nello studio del linguaggio. Il caso Herder
I segni naturali nella riflessione post-lockiana.
Dalla protopragmatica alla pragmatica cognitiva
Il metalinguaggio di Saussure fra vecchie e nuove scienze
Antipsicologismi a confronto. Saussure e Frege
Il Della Certezza come critica al Della Certezza
La psicomeccanica di Gustave Guillaume. Una filosofia della mente?
Compromettersi con le parole. Irreversibilità e perlocutività degli atti linguistici
Le nozioni di spazio e di tempo in prospettiva linguistica e filosofica. Alcuni spunti di lettura
Lo statuto del fonema
Bibliografia generale
Indice dei nomi
Quarta di copertina
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Il linguaggio. Teorie e storia delle teorie. In onore di Lia Formigari
 9788820739089, 9788820745004

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Quaderni del Dipartimento di Filosofia e Politica Universita` degli Studi di Napoli ‘‘L’Orientale’’ Comitato di direzione: Lorenzo Bianchi, Stefano Gensini, Francesca Izzo, Luigi Parente, Pia Vivarelli 30

Universita` degli Studi di Napoli “L’Orientale” Dipartimento di Filosofia e Politica

Il linguaggio. Teorie e storia delle teorie In onore di Lia Formigari a cura di Stefano Gensini e Arturo Martone

con un intervento introduttivo di Tullio De Mauro

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/1941: http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l633_41.html). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati, anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla Legge ed è soggetta all’autorizzazione scritta dell’Editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile al seguente indirizzo: http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali e marchi registrati, anche se non specificamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi o regolamenti. Liguori Editore - I 80123 Napoli http://www.liguori.it/ © 2006 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Aprile 2006 Gensini, Stefano (a cura di): Il linguaggio. Teorie e storia delle teorie/Stefano Gensini, Arturo Martone (a cura di) Napoli : Liguori, 2006 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4500 - 4 1. Storia della linguistica 2. Filosofia e teoria del linguaggio I. Titolo. Aggiornamenti: ————————————————————————————————————— 15 14 13 12 11 10 09 08 07 06 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Indice

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Premessa di S. Gensini e A. Martone

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“Nei nostri giovani giorni” di Tullio De Mauro

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Il linguaggio tra teoria e storia della teoria di Lia Formigari

23

Eraclito e Parmenide. Contemporaneita`, consapevolezza e/o (in)dipendenza? di Domenico Silvestri

33

La retorica dei sofisti tra riscoperta e reinterpretazione di Mauro Serra

47

Il quesito di Plutarco. Linguistico, epilinguistico e metalinguistico nello studio del linguaggio di Raffaella Petrilli

55

Acquisire parole, acquisire saperi. Riflessioni su alcune pagine di Agostino di Grazia Basile

71

Un motivo aristotelico e i suoi sviluppi nelle dottrine linguistiche di Dante e Varchi di Stefano Gensini

VIII

91

Indice

Derive semantiche e psicologia cognitiva in Leibniz. Discutendo con Lia Formigari di Francesco Piro

109

Processi simbolici e parti (pluri)gemellari. La riflessione del linguaggio di Vico tra modello genetico e paradigma funzionale di Sara Fortuna

131

Le lingue e i popoli primitivi in Etienne Bonnot de Condillac e Joaquı´n Caman˜o di Alessandra Olevano

149

Psicologismo e antipsicologismo nello studio del linguaggio. Il caso Herder di Ilaria Tani

163

I segni naturali nella riflessione post-lockiana. Dalla protopragmatica alla pragmatica cognitiva di Maurizio Maione

179

Il metalinguaggio di Saussure fra vecchie e nuove scienze di Cristina Vallini

195

Antipsicologismi a confronto. Saussure e Frege di Marina De Palo

223

Il Della Certezza come critica al Della Certezza di Matteo Falomi

245

La psicomeccanica di Gustave Guillaume. Una filosofia della mente? di Arturo Martone

Indice

267

IX

Compromettersi con le parole. Irreversibilita` e perlocutivita` degli atti linguistici di Massimo Prampolini

289

Le nozioni di spazio e di tempo in prospettiva linguistica e filosofica. Alcuni spunti di lettura di Alberto Manco

305

Lo statuto del fonema di Federico Albano Leoni

329

Bibliografia generale

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Indice dei nomi

Premessa

Raccogliamo in questo volume i contributi presentati al Convegno Il linguaggio. Teoria e storia delle teorie, organizzato dal Dipartimento di Filosofia e Politica dell’Universita` degli Studi di Napoli “L’Orientale” nella giornata del 29 maggio 2003. L’iniziativa, dedicata a Lia Formigari in occasione della conclusione della sua attivita` istituzionale di docente di Filosofia del linguaggio, e aperta da un intervento del Magnifico Rettore, il prof. Pasquale Ciriello, ha consentito a un certo numero di allievi e amici della studiosa, concentrati questi ultimi nelle universita` campane, di tornare a interrogarsi sul nesso fra indagine storica e ricerca teorica nel campo delle ricerche filosofico-linguistiche. Cio` si e` fatto senza molto indulgere a ragionamenti metodologici, e piuttosto andando a sondare, con liberta`, momenti, aspetti, figure che hanno animato la lunga tradizione del pensiero linguistico, e risalendo ai problemi generali, anche a carattere tecnicometodologico, dal vivo di case studies concreti, da frammenti di storie in cui l’osservatorio linguistico si e` fatto o si fa metafora di questioni culturali, sociali, filosofiche di lungo periodo. Vedra` il lettore se questo modo di procedere abbia dato risultati utili, e se se ne possa trarre conforto (come e` sembrato agli organizzatori) quanto alla prospettiva di una rinnovata presenza della storia delle idee nel sistema degli studi linguistici, semiotici e cognitivi, non solo nella chiave di una inchiesta archeologica su passaggi della vicenda plurisecolare delle nostre discipline, ma anche come uno stimolo alla comprensione e all’approfondimento delle problematiche che formano l’agenda teorica di oggi.

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Premessa

Queste due dimensioni, spesso poco o male saldate nei dibattiti sulla storiografia linguistica degli anni Settanta-Ottanta, risultano invece felicemente fuse nella produzione e nella prospettiva scientifica di Lia Formigari; e ne sia riprova il discorso tenuto dalla studiosa in occasione di questo convegno che, piu` che a un bilancio di una carriera (peraltro ricchissima di riconoscimenti, nazionali e internazionali), assomiglia a un programma entusiasmante di lavoro, di nuove, avvincenti ricerche cui chiamare l’intelligenza di chi oggi si avvia agli studi. I curatori, desiderano ringraziare tutte le componenti dell’ “Orientale” che hanno permesso, col loro sostegno ideativo, finanziario, organizzativo, la riuscita di questa Giornata e la realizzazione del volume che ne raccoglie le risultanze scientifiche: accanto al Dipartimento di Filosofia e Politica (allora diretto dal prof. Michele Fatica e oggi da Riccardo Naldi, che ne ha rinnovato l’impegno), e senza dimenticare la preziosa collaborazione editoriale di Alessandra Olevano che ha provveduto a rivedere i testi, ringraziano il Magnifico Rettore, prof. Ciriello, la Facolta` di Lettere e Filosofia (allora presieduta dal prof. Giovanni Cerri), il Dottorato in Teoria delle lingue e del linguaggio, nella persona del prof. Domenico Silvestri. E un grazie di cuore a Tullio De Mauro che nelle molteplici vesti di collega e amico fra i piu` antichi della festeggiata, di maestro di molti dei presenti, di auctoritas riconosciuta nel campo della storia delle idee linguistiche, e, last not least, di vecchio orientalista, ci e` stato compagno in tutta l’impresa, fino allo scritto che apre questa fatica comune. E alla carissima Lia ci sia lecito dire, in fine: alla prossima! Luglio 2005 Stefano Gensini

Arturo Martone

“Nei nostri giovani giorni” di Tullio De Mauro

Mi avete chiesto di introdurre questo volume in onore di Lia Formigari, cosı` come mi avevate chiesto di aprire la luminosa giornata napoletana di studi all’Orientale da cui questo volume e` nato. Ognuno puo` vedere che e` una raccolta di lavori in corso, opera di studiose e studiosi in maggioranza giovani, attivi e in crescita, che affrontano originalmente temi di storia delle teorie e idee linguistiche con una grande attenzione alle ricadute attuali di teoria del linguaggio che la ricerca storica puo` avere. Come cerchero` di dire, e` questo lo stile di ricerca che Lia Formigari si e` conquistata negli anni e ha praticato e insegnato. Non tutti coloro che sono stati segnati dall’impronta di Lia come studiosa e docente sono presenti in questo volume. Ma i lavori dei presenti e dei qui assenti sono appunto in corso, e alle assenze si potra` rimediare. Sono tanto in corso, c’e` una tale aria laboratoriale, da operai della ricerca, che, giustamente, tra gli altri contributi figura anche un acuto e propositivo lavoro della stessa onoranda. I lavori parlano da se´ e non staro` qui a chiosarli. Profittero` del privilegio accordatomi e confermatomi per dire qualcosa della studiosa. Del resto, il motivo di quel privilegio sta in cio` che alcuni di voi sanno e cioe` nel fatto che conosco Lia da moltissimo tempo, ne ho costeggiato il cammino intellettuale e scientifico, in piu` tratti mi sono accompagnato a lei. Dicevano i greci antichi: ´ıdio´n estin en ge´rai to` philo´muthon, “amare raccontare e` una proprieta` della vecchiaia”. Ne avro` di che. Il mio

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Tullio De Mauro

primo ricordo di Lia risale all’inizio degli anni Cinquanta ed e` ambientato nel corridoio, nelle stanze e nella biblioteca dell’Istituto di Filosofia. Io la` ero un abusivo, ero iscritto a filologia classica. Dopo avere carezzato piu` classicistici progetti, mi andavo orientando verso la linguistica attratto dall’insegnamento di Antonino Pagliaro e del suo geniale assistente, Mario Lucidi. Ero abusivo, ma il virus filosofico, contratto negli anni precedenti attraverso frenetiche letture di Croce e delle sue fonti maggiori, e il consiglio di un nostro compagno di studi scomparso troppo presto, Gabriele Giannantoni, mi avevano spinto a programmare un esame di filosofia teoretica con Ugo Spirito. Sulle cui attitudini e idee filosofiche corrono giudizi spesso assai critici, ma nell’universita` di quegli anni (e non solo) Spirito era uno dei pochissimi docenti che, sia pure partendo da un iniziale interrogativo un po’ bizzarro (“Qual e` il suo problema?”), badasse davvero alla formazione e alla persona, all’intera persona degli studenti che gli si avvicinavano e ai casi della loro intera vita. A noi letterati era concesso definire un programma non standard, una tesina scritta su un argomento particolare e, discutendo con Spirito, avevo scelto una tesina sull’origine e lo sviluppo delle idee linguistiche di Croce. All’esame Spirito era circondato da tutti i suoi collaboratori, assistenti e allievi anziani. Li ricordo perche´ di lı` a poco sarebbero stati l’ambiente di amici comuni che mi avrebbero legato a Lia: Francesco Valentini, re´tour de Paris, e Lino Lacorte, i piu` giovani Italo Cubeddu, Lucio Colletti, Antonio Capizzi. L’esame aveva la forma di una lunga e pacata discussione, veniva ordinato un caffe` e il candidato veniva servito per primo perche´ si rinfrancasse. I filosofi, voglio dire gli studenti di filosofia, portavano ‘soltanto’ due testi: la Metafisica e la prima Critica¸ e su quelli venivano spremuti al torchio. La mia tesina di letterato suscito` qualche diffidenza tra i collaboratori di Spirito. L’esame pero` ando` piu` che bene e, anzi, qualche giorno dopo Spirito mi fece chiamare e mi disse che avrebbe pubblicato la tesina come articolo nel “Giornale Critico della Filosofia Italiana”. Cosı` fu e la cosa mi dette qualche credito presso gli aspiranti filosofi che si aggiravano, molti fumando e tutti discutendo, nei filosofici ambulacri: Franco Bianco, Rosaria Egidi,

“Nei nostri giovani giorni”

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Giancarlo Fua`, Alberto Gianquinto, Pippo Lo Verso, Domenico Parisi, Enzo Siciliano, Riccardo Venturini, Marisa Zilli. E, tra loro, Lia Formigari, di cui si diceva con ammirazione che aveva studiato e stava studiando in Inghilterra, conosceva la filosofia insulare che si andava sviluppando, derivata da un viennese anglicizzato, che negli anni Venti aveva inaugurato il positivismo logico, con un’opera allora appena tradotta in italiano da un gesuita, ma poi aveva cambiato idea e criticato se stesso in un libro uscito postumo, che esprimeva e precisava le idee della nuova filosofia linguistica. Lia Formigari mi apparve dapprima in quest’aura britannico-analitica e wittgensteiniana. E forse fu proprio lei, con Giancarlo Fua`, a suggerire che ci dedicassimo a una lettura collettiva seminariale delle Philosophische Untersuchungen. Ci vedevamo sul far della sera un paio di volte alla settimana in un’auletta dell’Istituto di Filosofia, destinata ai libri di Enrico Castelli. A noi ancora studenti o poco piu` l’uso dell’aula era consentito grazie alla presenza incuriosita di alcuni assistenti di Ugo Spirito che ho gia` ricordato: Lino Lacorte, Italo Cubeddu, Francesco Valentini. Studiosi di Kant, di Hegel e dell’hegelismo, profittavano dell’occasione per accostarsi a un testo di cui avvertivano l’interesse. Tra i piu` assidui, oltre Lia e oltre Giancarlo Fua`, ricordo Rosaria Egidi, Domenico Parisi, Riccardo Venturini. Qualche volta si univa a noi Enzo Siciliano. Studiavamo e a turno illustravamo qualche paragrafo, confrontando testo tedesco e inglese. Le riunioni avevano un che di catacombale. Cominciammo a familiarizzarci con lo stile delle Ricerche. Lia intanto pubblicava i suoi primi lavori sugli analitici inglesi nella “Rassegna di filosofia” che l’Istituto aveva avviato. Ma gia` l’orizzonte dei suoi interessi si andava ampliando. Restava la dominanza degli interessi per il pensiero inglese, ma il campo diventava il pensiero estetico del Settecento e lo sbocco fu il volume sansoniano del 1962, L’estetica del gusto nel Settecento inglese. Come altri di noi, per campare la vita, Lia attraverso Spirito aveva trovato lavoro nelle enciclopedie della Sansoni e dell’Unione Editoriale: lei lavorava alla Filosofica, io collaboravo a quella dell’Arte e lavoravo all’Enciclopedia dello Spettacolo, dove ero entrato con un commando guidato da Italo Cubeddu col compito di

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accelerare l’uscita dell’opera. Questo rafforzo` i legami tra noi, dall’universita` al luogo di lavoro e alle andate serali nelle allora rare e tranquille birrerie romane. Lino Lacorte era guida intellettuale incontrastata del gruppo e Lia rifulgeva con la grazia della sua intelligenza e della sua figura. Vengono poi gli anni in cui meno da vicino seguii il lavoro di Lia che, presa la libera docenza in Estetica nel 1963, aveva ottenuto a Messina un incarico di Filosofia del linguaggio. Poi, sul finire degli anni Sessanta, Pagliaro, che era stato grande amico del padre di Lia e seguiva con affetto il suo cammino avendone grande stima, convoco` lei e me e ci propose di dare vita a un progetto di storia del pensiero linguistico sostenuto da un finanziamento del CNR. Ci mettemmo in qualche modo al lavoro, che poi si disperse in una raccolta di schede bibliografiche e, morto Pagliaro, non ebbe piu` seguito. Per me fu soprattutto un’occasione per incrociare di nuovo il cammino di Lia e per scoprire in lei un articolato e specifico interesse, sempre piu` marcato, per il rinnovarsi e modificarsi delle concezioni del linguaggio nelle filosofie europee tra Seicento e Ottocento. La grande ondata di studi sulla storia del pensiero linguistico era appena agli inizi. Lia conosceva gia` magistralmente lo svolgersi delle vicende filosofiche nei maggiori centri della cultura europea, in Gran Bretagna, Germania, Francia. Mentre facevamo schede bibliografiche, lei preparava i risultati della sua “svolta linguistica” il cui primo frutto fu, nel 1970, il volume laterziano Linguistica e empirismo nel Seicento inglese con la innovativa rilettura dell’Essay di Locke e della sua concezione del significato, tradotto nel 1988 presso Benjamins con un titolo inglese concettualmente piu` adeguato: Language and Experience in 17th Century British Philosophy. Da questo punto in poi Lia e` diventata una riconosciuta protagonista internazionale degli studi di storia del pensiero linguistico, di una storia tanto capace di adesione puntuale ai testi, anche minori, lontana dunque dalla “storiografia monumentale” che Ju¨rgen Trabant una volta, in un convegno palermitano del 1985, rimprovero` benevolmente alla mia vecchia Introduzione alla semantica del 1965, quanto lontana dalla micrologia demotivata, ed evitata

“Nei nostri giovani giorni”

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grazie all’occhio sempre vigilmente attento al significato teorico generale dei testi di volta in volta minutamente studiati. I suoi studi cominciarono a investire le filosofie e concezioni del linguaggio dell’Aufkla¨rung, del Settecento francese e della Restaurazione, il nesso tra tali concezioni e le idee di societa` e potere. Si fece editrice e curatrice di importanti volumi collettivi, su Herder e Monboddo, su Maupertuis, Turgot e Maine de Biran del 1973, su marxismo e linguistica, del 1974, sulla linguistica della Romantik, del 1977. Intanto Lia, come si dice, ando` in cattedra, ma ne´ allora ne´ poi monto` in cattedra, e la collaborazione con gli allievi messinesi e i colleghi siciliani, Nicolao Merker, Demetrio Neri, Franco Lo Piparo, si fece stretta e ricca di risultati. Nel 1977 appare La logica del pensiero vivente. Il linguaggio nella filosofia della Romantik, capitale per la restituzione di elementi portanti di continuita` tra il pensiero europeo sei-settecentesco, le filosofie d’eta` romantica e la nascente linguistica storica e comparativa. Alle soglie degli anni Ottanta Lia, con Nicolao Merker, Mario Mazza, Bianca Maria Scarcia, e` tra i non molti umanisti che accetta subito la scommessa dei “Libri di base” che cominciavo a progettare per gli Editori Riuniti. E` lei a suggerire il bel libro di Demetrio Neri sulle liberta` dell’uomo (numero 3 della collana) e, soprattutto, e` sua l’idea di scrivere in proprio (appare nel 1981) un libro obbligatamente smilzo sulla formazione dell’immagine laica e scientifica dell’essere umano e del mondo dopo Copernico, da Newton a Darwin, La scimmia e le stelle. C’e` un curioso snobismo accademico per cui i “Libri di base” venivano sı` comprati a migliaia, talora decine di migliaia di copie, si leggevano, magari si saccheggiavano e ancora si saccheggiano brutalmente, ma non si citano. Sta male. Sono, oh orrore, divulgazione. Citazioni o no, quel piccolo libro di Lia e` istruttivo per chiunque, da qualsiasi versante della cultura, voglia capire in che modo le filosofie europee moderne e gli studia humanitatis abbiano progressivamente appreso a mettere a frutto i contributi delle scienze fisiche, naturali, matematizzanti. Ed e` fondamentale per chi vuole capire le scelte tematiche, il filo profondo dei discorsi che Lia Formigari e` venuta sviluppando fino ai suoi contributi piu` recenti, la sua avver-

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sione allo spiritualismo, la sua attenzione al nesso tra eredita` naturale e bisogni e creazioni culturali nella storia umana e nel linguaggio. Nel 1984, vincendo qualche passato ostracismo accademico di incerta origine, Lia Formigari puo` finalmente rientrare a Roma sulla cattedra sdoppiata di Filosofia del linguaggio, che fino ad allora, dal 1974 (dopo un anteriore periodo d’incarico tra 1961 e 1967) avevo tenuto da solo, sottoponendo i collaboratori di allora, Massimo Prampolini, Caterina Marrone, Emanuela Piemontese, Massimo Vedovelli, Donatella Di Cesare, e una preziosa corona di (oggi si direbbe) “non strutturati” di grande qualita` (Stefano Gensini, Raffaella Petrilli, Miriam Voghera, Anna Thornton, Grazia Basile…) a veri tour de force per reggere quell’enorme afflusso di studenti che resero obbligato lo sdoppiamento e poi ulteriori moltiplicazioni dell’insegnamento. La mia era stata e resto` una filosofia del linguaggio assai linguistica e linguistico-semiotica, per certi aspetti un succedaneo di una linguistica teorica e generale e di una semiotica che la Facolta` di Lettere romana con bella ostinazione rifiutava. Quando Lia fu chiamata, un amico comune mi disse: “Vedrai, non durerete, finirete col litigare. Siete troppo diversi”. E invece non mi pare che questo sia successo. Abbiamo lavorato gomito a gomito, diviso stanze, tavoli, esami, programmi d’esame, orari e spazi di lezione, alunne e alunni, tesi, i guai piccoli e meno piccoli dell’accademia, dei concorsi, delle chiamate. Abbiamo programmato e realizzato insieme incontri di studio di qualche rilievo, nel 1990 sulle origini sei-settecentesche del comparativismo, nel 1994 sulla storia degli studi di storia del pensiero linguistico in Italia in memoria di Pagliaro. In comune abbiamo vagliato le scelte di autrici e autori che, insieme a Donatella Di Cesare, ho fatto come Co-Editor per l’antichita` classica e l’Italia nel Lexicon Grammaticorum di Harro Stammerjohann. Dai dettagli torno a una questione di fondo. Tutto sommato credo che Lia Formigari, sempre piu` attratta dall’idea di Sylvain Auroux della filosofia del linguaggio come filosofia della linguistica, non si sia trovata male, anzi da subito si sia trovata a casa sua, giustamente, con un filosofo del linguaggio di complemento

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o, almeno, per una buona meta` linguista quale io ero e, diis adiuvantibus, conterei di restare, preoccupato che si formassero giovani filosofi del linguaggio, ma anche, insieme, studiosi di morfologia, lessicologia, sintassi, semantica, fonologia, insomma di linguistica. Il resto voi lo sapete e lo vedra` chi legge questi contributi che concretano in direzioni diverse l’insegnamento di Lia. Il resto sono i lavori su semiotica e kantismo del 1994, i volumi in collaborazione con Gambarara e Cubeddu sulle radici storiche delle teorie linguistiche e sull’immaginazione. Il resto e` infine questo libro ormai fondamentale per i nostri studi, Il linguaggio. Storia delle teorie, dal 2001 piu` volte riedito e ora tradotto presso Benjamins. Qui Lia, attraverso letture e riletture di prima mano dei testi antichi, medievali e moderni, mostra tutta la efficacia che nella storia dispiega una visione integrata e integrabile, progressivamente cumulativa del sapere o, meglio, dei saperi intorno al linguaggio. Posso solo sperare di riuscire a muovermi in questa stessa prospettiva, che del resto con grande intuizione tanti e tanti anni fa, nei nostri giovani giorni, Antonino Pagliaro raccomandava nella Premessa alla nascente rivista “Ricerche linguistiche”.

Il linguaggio tra teoria e storia della teoria1 di Lia Formigari

1. Vorrei precisare con un sottotitolo il titolo cosı` latitudinario che mi avete assegnato, e dire: «Le due o tre cose che si imparano praticando la storiografia linguistica». Cerchero` di elencarle, queste cose, e poi di fare qualche esempio illustrativo. In primo luogo si impara che a dispetto di qualsiasi rivoluzione epistemologica la storia della linguistica presenta alcuni nuclei di sostanziale continuita`. Naturalmente bisogna intendersi su quel che significa continuita`. La mia generazione e` andata a scuola dagli ultimi maestri dell’idealismo e ha dovuto disimparare alcune cose prima di mettersi in proprio. Una di queste cose era quell’idea di continuita` che e` stata poi definita con qualche sarcasmo la «teoria dei precorrimenti». Per la storiografia idealistica si trattava di cercare nei modelli teorici del passato gli abbozzi e conati di una visione che si sarebbe pienamente dispiegata solo nella filosofia dello spirito. Sgombrato il campo dall’equivoco dei precorrimenti, e possibilmente anche dalla umana tendenza alla ricerca degli antenati, la continuita` – o forse meglio sarebbe dire la persistenza di certi 1

I temi illustrati in quel che segue sono stati discussi in occasione di diversi seminari: presso l’Universita` del Piemonte orientale (marzo 2002), l’Universita` cattolica di Milano (maggio 2002), la Ludwig-Maximilian-Universita¨t di Monaco di Baviera (dicembre 2002), la Fondazione Singer-Polignac di Parigi (marzo 2003). I rispettivi contributi sono in parte gia` stampati (Formigari: 2003a, 2003b) e in parte in corso di stampa (Formigari, in stampa). Ad essi si rimanda per una piu` ampia documentazione e articolazione

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Lia Formigani

modelli teorici – appare come una peculiarita` tutt’altro che lineare della storia delle idee; una continuita` non riducibile alla semplice trasmissione del sapere all’interno di una tradizione intellettuale com’e` quella del sapere filosofico sulle lingue e il linguaggio. C’e` piuttosto una sorta di coalescenza nella storia delle teorie: non saprei trovare una metafora migliore per indicare le procedure di aggregazione e disaggregazione di domande, ipotesi e punti di vista attorno a certi problemi che, formulati e riformulati ogni volta secondo gli stilemi del tempo, sembrano pero` indicare la persistenza di certi nodi teorici fondamentali che si perpetuano nella tradizione teorico-linguistica occidentale. Per esempio: non e` difficile leggere come formulazioni e riformulazioni di uno ed un solo tema questioni lontane nel tempo e nello stile teorico come la discussione classica sulla genesi dei nomi e la dottrina kantiana dello schematismo (con le implicite pieghe semiotico-linguistiche che vi si possono scorgere); la teoria della categorizzazione della prima modernita` e la teoria psicolinguistica dei prototipi; la lunga riflessione sulla genesi delle categorie grammaticali e certe analisi delle semantiche cognitive degli ultimi due decenni. Sono altrettanti tentativi di risposta al problema filosofico dei rapporti tra percezione e concetto: tentativi di rispondere alla domanda se e in che misura la percezione sia gia` di per se´ una procedura protosemiotica, capace di orientare i processi di concettualizzazione o addirittura, come vogliono autori come Fauconnier, come Talmy e Langacker, di orientare le configurazioni grammaticali delle lingue naturali. Questa coalescenza, e questa persistenza di alcuni nodi fondamentali della ricerca sul linguaggio, spiegano, credo, l’utilita` di una integrazione storica della teoria, e giustificano la ricerca storica come una fra le tecniche del conoscere necessarie per la teoria. Spiega anche quella sorta di Zeitgeist che induce studiosi di diversa formazione, in certi momenti – e momenti che durano anche decenni – a convergere su certi temi od autori che poi a un certo punto sembrano quasi improvvisamente esaurirsi per desuetudine. Non e` un fenomeno spiegabile con la sola sociologia della ricerca accademica: ha motivazioni piu` profonde, che hanno a che fare

Il linguaggio tra teoria e storia della teoria

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con lo stato coevo delle teorie. Non e` un caso per esempio, che negli anni Sessanta-Settanta, in periodo di egemonia strutturalista, molti di noi si sia andati a studiare le teorie dell’arbitrarieta` del segno; e non e` neppure un caso che da una quindicina d’anni a questa parte invece si insista piuttosto sui limiti dell’arbitrarieta` e sulle radici corporee della significazione. Un’altra cosa che si impara praticando la storiografia linguistica (e probabilmente ogni genere di storiografia) e` che le grandi cesure e contrapposizioni cui spesso noi tutti ricorriamo per motivi didattici e grossolanamente classificatori non reggono poi alla prova, quando smontiamo una teoria per vedere come funziona e come si concilia o no con altre teorie. Per esempio la dicotomia tra razionalismo ed empirismo. In filosofia, e in filosofia del linguaggio, in diversi momenti, e da ultimo nella seconda meta` del Novecento, la scelta tra queste due etichette ha assunto il valore di un vero e proprio manifesto teorico. Ancora oggi Pinker nel suo ultimo libro (2002) polemizza con una idea di tabula rasa che non e` mai esistita neppure in epoca pre-darwiniana. Nessuno ha mai negato che la mente abbia una qualche sua inerente struttura: e` sull’origine di questa struttura casomai che le posizioni divergono e mai nei termini di una logica a due valori con cui spesso la cosa viene presentata. 2. Vorrei esporre rapidamente un caso che mi sembra possa servire come campione a conferma di quanto ho detto. Riguarda il modo in cui abbiamo studiato la storia della grammatica teorica, in particolare la nozione di grammatica universale, e il modo in cui credo dovremmo oggi ristudiarla. Non ho bisogno di ricordare i termini in cui, a partire dagli anni Sessanta, Chomsky ha accreditato la propria idea di grammatica come continuazione della grammatica generale secentesca. Quello che mi preme di ricordare invece e` che, nel far questo, Chomsky si trova pero` costretto a prendere le distanze dalla grammaire ge´ne´rale, che infatti descrive come un modello di razionalismo incompiuto, come una grammatica insufficientemente ragionata,

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costruita su una semplice serie di esempi particolari, sulla base dunque di un metodo induttivo. Allora, per giustificare la sua lettura generativista della grammatica di Portoreale, giustappone nel suo modello ideale di grammatica generale classica, accanto ai razionalisti dimezzati della scuola cartesiana, la teoria – questa sı` genuinamente razionalista – del filosofo neoplatonico Herbert of Cherbury, con la sua idea della mente come repertorio di “nozioni comuni” innate, che si attivano all’occasione dell’esperienza ma non derivano dall’esperienza. Con questa operazione storicoteorica, integrando cioe` la descrizione empirica dei tratti comuni alle lingue con una teoria della mente come insieme di moduli trascendentali (le nozioni comuni), Chomsky ottiene un modello di razionalismo compiuto. La struttura astratta della grammatica risulta a questo punto costituita da un insieme di nozioni innate, e queste nozioni sono piu` simili alle forme trascendentali kantiane che non ai modi del concevoir portorealista, che sono invece, come cerchero` di mostrare, semplici modalita` di semantizzazione. Con questo bel salto dal cartesianesimo professato a un non confessato o inconsapevole kantismo, Chomsky, oltre a ritagliarsi nella tradizione storiografica un razionalismo su misura, ottiene anche il risultato di giustificare la sua separazione della sintassi dalla semantica. Tutto questo puo` metterci sulla pista di una revisione della lettura che era stata fatta fin lı` dei testi di Portoreale. Puo` indurci a rivedere uno stereotipo storiografico inveterato, formatosi gia` nell’eta` del comparatismo: l’accusa di apriorismo, di intellettualismo, di razionalismo appunto, di riduzionismo, che la filosofia romantica aveva rivolto alla tradizione della grammatica generale, e che la storiografia successiva ha sempre preso per buona. Proprio la riserva di Chomsky puo` indurci a una rilettura della tradizione della grammatica generale che ne colga invece quello che a me oggi appare come il suo tratto piu` significativo: il fatto di essere un rilevamento per cosı` dire statistico di tratti che indicano l’esistenza di una qualche logica naturale sottostante agli usi linguistici. Gli universali del linguaggio, ben lungi dall’essere strutture apriori, sono il risultato empirico della sostanziale uniformita` organica dei

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parlanti e della conseguente uniformita` delle idee costruite sulla base di procedure di percezione e concettualizzazione universalmente umane anche se relativamente condizionate dalle circostanze empiriche. Le parti del discorso e i loro accidenti morfosintattici sono modalita` dell’operazione mentale del concepire-rappresentare: modalita`, dunque, squisitamente semantiche. Non a caso ho citato sopra le semantiche cognitive degli ultimi decenni. Quando queste sostengono (per es. con Langacker, 1987) che la grammatica non costituisce un livello formale autonomo di rappresentazione; che la grammatica nasce dalla simbolizzazione delle strutture semantiche; che lessico, morfologia e sintassi formano un continuo di strutture simboliche, quello che viene messo in discussione e` uno dei principi metodici piu` importanti della filosofia del linguaggio del Novecento, la separazione di semantica e sintassi: un dogma, prima per la filosofia analitica e poi per la scuola chomskiana. A cominciare dagli anni Ottanta, come si sa, il modello di grammatica proposto da Chomsky e` stato oggetto di dure critiche ad opera di alcuni filosofi cognitivi di seconda generazione, tra i quali appunto quelli che ho menzionato sopra, il cui approccio tende invece a mostrare come fattori semantici e pragmatici operino anche nelle generalizzazioni che governano le strutture sintattiche. La questione fra chomskiani e neo-cognitivisti (tra formalismo e funzionalismo come si tende oggi a dire) si gioca proprio su questo punto. Ora, la ricostruzione che credo si possa fare nel caso di Portoreale e` probabilmente possibile per l’intera storia delle teorie grammaticali: la teoria delle parti del discorso, zoccolo duro della tradizione grammaticale in Occidente, era nata come teoria dei modi di significare gia` prima che i semantici medievali inventassero questa espressione ed esplicitassero la natura semantica delle strutture formali delle lingue. Questa implicazione tra funzioni semanticocognitive e forma della lingua e` proprio la sostanza della nozione portorealista di grammatica. Se questo e` vero, l’immagine stereotipa della grammatica generale come formalismo universalistico va ridimensionata ancor piu` di quanto non facesse Chomsky quando la dichiarava insufficientemente razionalista.

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La profonda implicazione delle forme della lingua con le procedure di semantizzazione, nei testi di Portoreale, salta agli occhi se si fa un esperimento, che e` quello di leggerli tutti e tre insieme, o per meglio dire uno di seguito all’altro, come parti di un sistema. La Grammatica spiega che la prima delle operazioni mentali e` il concevoir, cioe` la formazione delle rappresentazioni mentali. Da cio` dipende lo statuto delle parole che compongono il discorso, la loro appartenenza funzionale all’una o l’altra categoria. Dunque, per comprendere i fondamenti della grammatica, e` necessario conoscere quello che succede nella nostra mente, il modo in cui si formano e trasformano le nostre rappresentazioni mentali, e con esse si formano e operano le categorie grammaticali. La priorita` del concevoir, della formazione di rappresentazioni, e` affermata anche in apertura della Logica. E tuttavia, l’opera che studia le modalita` e i dispositivi della rappresentazione non e` ne´ la Grammatica ne´ la Logica, bensı` la Retorica. E` la retorica che spiega l’origine di quei dispositivi che la grammatica e la logica possono solo descrivere. C’e` una frase di Lamy che esprime molto bene il senso di quello che chiamerei lo ‘psicologismo’ di Portoreale: Lamy dice che i tropi, possenti dispositivi che agiscono nelle procedure di semantizzazione, sono posture 2 della mente, paragonabili alle posture del corpo . Ho parlato sopra di una logica naturale: la logica infatti, nei testi di Portoreale, non e` concepita mai come scienza formale. E` piuttosto intesa come descrizione delle operazioni mentali, come l’arte di ben condurre quelle operazioni della mente di cui la grammatica e` uno strumento. E allora il presunto ‘logicismo’ della tradizione portorealista e dei suoi successori ci appare come qualcosa che oggi appunto chiameremmo piuttosto psicologismo. 2

«Dieu n’a pas refuse´ a` l’aˆme ce qu’il a accorde´ au corps: si le corps sc¸ait se tourner, & se disposer adroitement pour repousser les injures, l’aˆme peut aussi se de´fendre: la nature ne l’a pas faite immobile lorqu’on l’attaque. Toutes les figures qu’elle emploie dans le discours quand elle est e´meue¨, sont le meˆme effet que les postures du corps; si celles-la` sont propres pour se de´fendre des attaques des choses corporelles, les figures du discours peuvent vaincre ou fle´chir les esprits» (Lamy: 1688, 113). Ha attirato la mia attenzione su questo passo Marazzini (2001: 208).

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Via via che la grammatica generale si sviluppa, nel corso del Settecento, emerge sempre piu` chiaramente questa accezione psicologista della logica, che tiene insieme una teoria dell’universalita` delle funzioni con il convincimento che, nella prassi, realizzazioni diverse e contingenti corrispondono ai diversi modi di appercepire gli oggetti, alla diversita` delle procedure cognitive, a classificazioni di natura pragmatica. Per i grammairiens-philosophes del tardo Settecento, tutti i dispositivi semiotici – ivi incluse le forme grammaticali – sono posture della mente, che realizzano in modi diversi nelle diverse lingue funzioni universali radicate nella struttura corporea dei parlanti. Siamo di fronte a una ulteriore formulazione del problema ricorrente dei rapporti tra percezione e categorizzazione, cui accennavo sopra come esempio di persistenza nella storia delle posizioni teoriche. Arricchita di un aspetto ulteriore, che mi pare molto importante: il fatto che le posture secondo le quali la mente, in analogia con le posture del corpo, interpreta e organizza i dati della percezione, presiedono non solo alla formazione dei concetti, alla dimensione lessicale delle lingue, ma anche alla formazione delle categorie grammaticali. Proprio le grammatiche generali del Settecento, cioe` quella tradizione che la storiografia tradizionale ha bollato per decenni come razionalista e riduttivista, proprio queste grammatiche sembrano suggerire la continuita` delle strutture simboliche e la profonda motivazione semantica delle forme grammaticali. Letto in questa luce, un testo pressoche´ ignorato dalla storiografia linguistica come la Grammatica scritta da Condillac per il principe di Parma si palesa come un vero e proprio saggio di semantica cognitiva. 3. Non mi fermo su questo, che pure sarebbe un punto interessante. Ma vorrei almeno ricordare un autore che nessuno includerebbe nella storia delle teorie grammaticali, tanto meno di tradizione ‘logicista’, e che tuttavia in poche pagine di una sua opera considerata troppo a lungo marginale fa una bellissima «deduzione» delle strutture grammaticali, una lista di universali che presiedono a un tempo ai processi di semantizzazione e alla forma-

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zione della categorie morfosintattiche. L’autore e` Herder, e l’opera e` la Metacritica, una resa dei conti con Kant, con la sua idea di unificazione del molteplice sulla base di forme trascendentali, che Herder interpreta invece come procedure di semiosi naturale attive gia` nella percezione3. Quello che qui interessa e` il punto in cui queste procedure si organizzano in un sistema morfosintattico. L’esigenza di ricomporre l’unita` tra forme dell’intuizione e forme dell’intelletto, che Kant come si sa aveva separato, induce Herder a ricostruire la genesi empirica del tempo, dello spazio e delle categorie. Applica cosı` alle forme della lingua la nozione di autocoscienza corporea elaborata gia` in opere precedenti: la coscienza dell’anima che sente ciascuna delle sue operazioni come radicata nel corpo e si serve di ogni parte del corpo come strumento di pensiero, sensazione e volizione. Le forme sono forme dell’esperienza e della lingua nello stesso tempo, inerenti alla nostra esistenza: come lo spazio, che si forma a partire dalla percezione che ciascuno ha del luogo occupato dalla sua persona, distinto dal luogo occupato da cio` che non e` la sua persona; a partire dal movimento, grazie al quale si impara a misurare lo spazio, a valutarlo, e a collocare se´ e gli oggetti all’interno di esso. Questa esperienza primaria si deposita nella lingua, la quale, scrive Herder (1799, I: 93-94), pullula di espressioni spaziali, le aggiunge alle parole come prefissi o suffissi, per determinare il significato, per dare ordine e disposizione alla percezione dell’universo. Come lo spazio, anche il tempo e` il prodotto di questa autocoscienza corporea, e` un’ esperienza vissuta, percepita come durata prima di essere acquisita dalla lingua e diventare una griglia per la riorganizzazione verbale dell’esperienza. E cosı` la misura e il numero, che si formano a partire dai ritmi corporei e dall’osservazione dei ritmi naturali che l’uomo impara a seguire e anticipare in vista della sopravvivenza. Queste forme si impadroniscono della sintassi delle lingue: le determinazioni di tempo, spazio e numero strutturano i 3

Rinvio per questo tema a Formigari (1994: cap. II), e soprattutto a Tani (2000 e 2004: 179-193).

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sintagmi nominali e il sistema dei verbi, si palesano come avverbi e preposizioni. Le categorie kantiane che dovrebbero rappresentare le forme di ogni esperienza possibile sono in realta` desunte dalle diverse forme di enunciato: l’enunciato universale, particolare, singolare, categorico ecc. Queste nozioni elementari bastano secondo Herder a spiegare la trama di tutte le lingue, a spiegare la genesi stessa delle categorie grammaticali che infatti, in un suo passo (1799, I: 306-307), vengono ‘dedotte’ da queste forme di esperienza primaria. 4. Concludo. In nessun passo degli scritti di Herder traspare, per quanto ne so, la minima tensione fra l’universalita` dei principi e i condizionamenti empirici inerenti alla storicita` delle lingue. E` una questione, questa, che non interessa soltanto la filologia herderiana. Tocca chiunque si occupi di filosofia della linguistica, oggi, in eta` post-chomskiana. La mia tesi e` che la contraddizione fra l’universalita` delle strutture e la particolarita` delle lingue storiche nasce solo quando si tenta la via di una deduzione delle lingue a partire da principi apriori. Kant non ci prova neppure: le lingue storico-naturali son fuori dal suo orizzonte teorico. Ma cercano di farlo alcuni grammatici di scuola kantiana ai primi dell’Ottocento, e lo fa Chomsky col suo programma di deduzione delle lingue naturali dai principi della grammatica universale. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a possenti modelli esplicativi – l’analitica kantiana, la grammatica universale chomskiana – che tuttavia falliscono proprio la` dove tentano di spiegare la varieta` delle lingue storiche. Un grammatico di radicata fede kantiana come August Bernhardi finisce per ammetterlo candidamente, sia pure nelle pieghe del discorso. Riferendosi alla dialettica trascendentale di Kant, Herder esclude che il compito della filosofia sia la ricerca dell’incondizionato. Tradotto in termini piu` attuali, questo vuol dire che il potere esplicativo d’una teoria non si misura sulla sua capacita` di risalire la catena delle condizioni fino a una condizione trascendentale, che si ponga come estrinseca rispetto ad ogni esperienza. Una condizione puo` essere apriori rispetto a una esperienza,

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spiega Herder, non mai rispetto a ogni esperienza. Una nozione assoluta di apriori e` un semplice abuso della lingua (1799, I: 70), e Herder vi oppone una nozione relativa: l’apriori e` un prius puramente empirico rispetto a un posterius. Questo ossimoro di Herder – un apriori empirico e` per l’appunto un ossimoro – serve molto bene, credo, per capire che cosa sta succedendo oggi negli studi semantici. Nelle teorie del linguaggio optare infatti per l’una o l’altra nozione di apriori – una nozione assoluta, una nozione relativa – incide direttamente sulla definizione delle strutture del linguaggio. L’ossimoro herderiano produce una nozione di grammatica universale dotata ancor oggi di grande valore euristico per la filosofia delle lingue. Herder ci invita a non identificare l’universale con l’incondizionato. La posizione di una grammatica universale incondizionata renderebbe impossibile la deduzione delle lingue particolari. Al contrario, la via dell’ esposizione o deduzione empirica consente di studiare i dispositivi di generalizzazione delle lingue nella loro universalita` relativa, per costruire una grammatica universale che renda conto dell’interazione fra storia e strutture. In eta` postdarwiniana – oggi – questa idea di universalita` relativa opera ad esempio nelle teorie evolutive-adattamentistiche dell’origine della facolta` del linguaggio e viene rifiutata nelle teorie dell’esattamento. Ecco un esempio di persistenza di modelli teorici: uno stesso modello (la genesi empirica delle strutture universali delle lingue; la nozione empirica di apriori) sottosta` alla critica di Herder a Kant e alla rivincita della semantica contro il formalismo chomskiano. Entrambe le applicazioni di questo modello rispondono alla domanda sulle connessioni profonde tra estetica e analitica (nella terminologia kantiana), tra percezione e cognizione (nel linguaggio dei cognitivisti), insomma al problema persistente e ricorrente di come i percetti diventino pensabili e dicibili. Entrambe producono un progetto di grammatica universale. Bisogna dire che si tratta di un approccio razionalista, o logicista, dato che suppone una corrispondenza fra strutture della grammatica e strutture apriori della mente? o che e` un approccio empirista, perche´ le strutture apriori sono tuttavia ricostruite con un

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processo di deduzione empirica dalle modalita` dell’esperienza corporea? Non lo so: non credo che si possa o si debba rispondere con un sı` o con un no. Piuttosto, c’e` da scavare ancora e molto, io credo, nella fenomenologia della percezione e nelle sue modalita`, nella varia intersezione di queste con le modalita` dell’interazione sociale, per capire i trucchi e misteri della significazione e della comprensione.

Eraclito e Parmenide. Contemporaneita`, consapevolezza e/o (in)dipendenza? di Domenico Silvestri

Quello che qui si propone e` un contributo di linguistica testuale e di lessicologia per la soluzione (magari provvisoria e parziale) di vecchi problemi. Partiro` da un (pre)giudizio di Diano, che non mi sento di condividere: [...] il problema di Eraclito sono gli opposti, ed e` un problema che non emergerebbe in tutta la sua tragicita` prima della netta separazione tra l’essere e il non-essere operata da Parmenide. (Diano: 1980, XIV).

In esso e` implicita una precedenza logica (se non cronologica) di Parmenide rispetto a Eraclito: ma gli opposti eraclitei, che – a ben guardarli dentro la cornice ineliminabile dell’armonı´a¯ – non hanno nulla di tragico, non coincidono affatto con l’essere-non essere di Parmenide, ma sono piuttosto gradazioni dinamiche dell’essere1. In questo senso un buon interprete-eco del grande efesino e` proprio (noblesse oblige!) Leonardo da Vinci (1974: 35):

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Il primo a fraintendere (strumentalmente?) Eraclito e` stato proprio Parmenide nel celebre frammento 6, in cui si nega la possibilita` degli opposti, riferendosi a «gente insensata,/ch’essere pensa e non essere sia e non sia lo stesso» (Parmenide di Elea: 1999).

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L’acqua che tocchi de’ fiumi e` l’ultima di quella che ando` e la prima di quella che viene. Cosı` il tempo presente.

Per la parte restante del mio intervento procedero` in modo sinottico e contrastivo allo scopo di far meglio emergere somiglianze e differenze in vista di ipotesi di risposte (parziali!) alle domande poste nel titolo2. E Lo sfondo e` Efeso, con tutte le sue implicazioni microasiatiche e latamente orientali, il modus loquendi sembra quasi essere – nella sua enigmatica oscurita` – quello della Sibilla «dalla bocca invasata», sotto il segno del signore di Delfi «che non intreccia parole e non nasconde, ma con segni si manifesta»3. Il topic e` il Logos «che e`», versante positivo e costitutivo di ogni forma dell’essere, mentre quello negativo coincide con la sempiterna disconnessione rispetto ad esso (aei axy´netoi) degli a´nthropoi, che si limitano ad ascoltare il lo´gos «che e` detto», cioe` i molti logoi perı` physeo˜s resi disponibili (compreso quello di Parmenide?): si ricordi, a questo proposito, la fortissima avversativa (de`) con cui si apre il piu` importante frammento di Eraclito, in termini di orgogliosa rivendicazione di una originalita` consistente in una legittimazione dell’oggetto conosciuto con impostazione del problema dell’esistente a parte obiecti. In realta` nel pensiero di Eraclito si da`, come gia` detto, la simultaneita` dinamica dei presunti e pretesi opposti (sy´llapsis/sy´2

Per le questioni molto dibattute sui rapporti tra Eraclito e Parmenide rinvio, per un primo orientamento, a Capizzi (2002) e, per un aggiornamento, al recente ed illuminante contributo di Cerri (1999, da cui si cita). Si veda anche il quasi coevo Parmenide (2003). Dal lato eracliteo mi rifaccio alle edizioni ed ai commenti canonici: Eraclito (1973, 1980, e al piu` recente 2005); e a Colli (1980). Sui «Presocratici», termine che io non amo per la sua riduttivita` periodizzante, valgono sempre due grosse antologie in lingua italiana: AA.VV. (1979) e Lami (1991). Entrambe si rifanno, per il testo greco, all’edizione canonica di Diels-Kranz (1951-19526). 3 Per le mie scelte traduttive rinvio a Silvestri (2004: 415-435).

Eraclito e Parmenide. Contemporaneita`, consapevolezza e/o (in)dipendenza?

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napsis) e l’insiemita` ontologica (xyno´n) dello hen panta [...] ek pantoˆn hen kaı` ex heno`s panta), cioe` dell’uno come totalita` e della totalita` come unica. P Lo sfondo e` Elea, con tutte le sue implicazioni magnogreche ed evocativamente occidentali, il modus loquendi rivendica, dentro l’ornato metrico, una sua cristallina chiarezza, a cui fa da accompagnamento non casuale con il suo corteggio di fanciulle la Dea titolare del culto demetriaco che compare all’inizio del poema, mentre si pone senza residui il contrasto insanabile tra Aletheie¯ e Do´xa4. Vengono in primo piano il No´os, il noeı˜n e il no´ema: «la stessa e identica cosa e` noeı˜n ed einai» e` affermazione che si converte in una potente legittimazione del soggetto conoscente ed emerge, per la prima volta, l’impostazione del problema della conoscenza a parte subiecti. In realta` nel pensiero di Parmenide si pone la simultaneita` statica di «cio` che e` (in quanto pensato)» (eo´n) e la sua consustanziale omogeneita`: ma come poi potrebbe muoversi l’Essere? Ma come potrebbe assumere forma diversa? (po˜s d’a`n ´epeita pe´loi to` eo´n? Po˜s d’a´n ke ge´noito?).

Dell’Essere, con straordinaria eloquenza, ancora si dice: Mai potresti distinguerlo in parti, e` tutto omogeneo;/non piu` qui, meno lı`, per cui non potrebbe consistere,/e` invece all’opposto tutto pieno di Essere./E` dunque tutto continuo, si stringe l’Essere all’Essere./Immobile allora nei ceppi delle sue grandi catene,/e` privo di inizio, di fine, dato che nascita e morte/sono respinte lontano, certezza verace le esclude./Resta identico sempre in un 4

Per la Thea´ cfr. Pugliese Carratelli (1988: 337-346). Per Aletheie¯ cfr. Germani (1988: 177-206).

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luogo, giace in se stesso,/dunque rimane lı` fermo; potente distretta lo tiene/nelle catene del ceppo, che tutto lo chiude all’intorno.

E Proviamo ora a riconoscere il Logos «che e`» come costanza relazionale attraverso le sue molteplici epifanie; il Logos della Terra e del Mare: tha´lassa diakhe´etai kaı` metre´etai eis to`n auto`n logon [hokoios prosthen eˆn e¯ gene´sthai geˆ] «La terra si effonde nel mare e si conforma nella sua misura allo stesso identico logos (cioe` ‘principio di legamento’)[quale prima era che diventasse terra]».

il Logos dell’Anima: psykheˆs peı´rata ioˆn ouk an exeu´roio pa˜san epiporeuo´menos hodo´n: hou´to¯ bathy´n logon ekhei «I confini dell’anima, per quanto tu avanzi, non li potresti scoprire, anche se percorri tutta la strada: a tal punto e` profondo il suo logos (cioe` il suo principio di legamento)». ` proprio dell’anima un logos che psykheˆs esti logos heauto`n hauxo¯n «E accresce se stesso».

lo Sciocco e il Logos: blax a´nthroˆpos epı` pantı` logo(i) eptoeˆsthai phileı˜ «L’uomo sciocco si compiace di esprimere stupore davanti alla totalita` del logos (cioe` del principio di legamento)».

i logoi che non sono il Logos: hokoso¯n logous ¯ekousa, oudeı`s aphikneı˜tai es touto, ho¯ste gino¯skein hoti sopho´n esti panto¯n kekho¯risme´non «Di quanti ho inteso intrecci di parole (cioe` ‘legamenti’ verbali occasionali), nessuno giunge al punto di riconoscere che la saggezza e` separata da tutto il resto».

Eraclito e Parmenide. Contemporaneita`, consapevolezza e/o (in)dipendenza?

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il Logos del Sapiente: en Prie¯ne¯i Bı´as ege´neto ho Teuta´meo¯, hou˜ pleı´o¯n logos ¯e to˜n allo¯n «In Priene nacque Biante figlio di Teutame: il suo modo di ragionare (cioe` il suo ‘principio di legamento’) fu superiore a quello di tutti gli altri».

P Proviamo a leggere (il termine non e` casuale!) legein, logos e noeı˜n, no´ema, noos come manifestazione cognitiva dell’Essere; il dire giusto: khre` to` legein te noeı˜n t’eo`n ´emmenai «Bisogna che dire e pensare siano (la stessa cosa che) essere». en to˜(i) soi pauo¯ pisto`n logon ede` no´ema / amphı`s aletheie¯s «Con questo per te pongo fine al discorso degno di fede e al pensiero inteso alla verita`». ou ga`r a´neu tou˜ eo´ntos, en ho˜(i) pephatismenon estı´n, / heure´seis to` noeı ˜n 5 «senza l’essere mai, in cui diviene parola, puoi trovare intelletto» .

il dire non giusto: mede´ s’ethos poly´peiron hodo`n kata` tende biastho, / noma˜n a´skopon omma kaı` ekhe´essan akoue`n / kaı` glo˜ssan «vezzo di molto sapere non t’induca su questa strada, / a mettere in opera occhio accecato, orecchio rombante, / lingua...». ...doxas d’apo` tou˜de broteı˜as / ma´nthane kosmon emo˜n epe´o¯n apatelo`n akouo¯n «e dopo di cio` impara le opinioni mortali, ascoltando l’or5

Faccio notare che la dimensione del pephatismenon, lett. «cio` che e` detto», o meglio «che e` enunciato», proprio per la sua specifica natura fenomenologica, e` secondaria e subalterna rispetto all’Essere e non si da` a´neu tou eo´ntos, mentre la primarieta` assoluta e in ultima istanza attingibile e` data da to` noeı˜n. Per la corretta agnizione semantica di phatizo si legga (piu` avanti nel testo) l’orgogliosa dichiarazione a parte subiecti del frammento sulla la fallacia delle gnoˆmai («impressioni») e degli ono´mata («nomi»).

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dine ingannevole delle mie parole» (cfr. Empedocle: 1,4,25: «senti bene, percio`, il seguito non ingannevole del mio discorso»)6.

la fallacia delle gno¯mai («impressioni») e degli ono´mata («nomi»): morpha`s gar kate´thento dy´o gno¯mas onoma´zein /... to˜n soi ego` dia´kosmon eoikota panta phatizo, / hos ou me¯ pote´ tis se broto˜n gno¯me¯ parelasse¯(i) «Posero duplice forma a dar nome alle loro impressioni /... Io t’enuncio di cio` sistema in tutto plausibile, sı` che mai opinione corrente possa sviarti» (cfr. il frammento «Dato che tutte le cose si chiamano tenebra e luce (panta phaos kaı` nyx ono´mastai), / ciascuna secondo efficacia di queste sull’altra, / tutto e` pieno egualmente di luce e notte invisibile, / entrambe alla pari, nulla pertiene ne´ all’una ne´ all’altra»). outo toi kata` doxan ephy tade kaı´ vyv ´easi / kaı` mete´peit’apo` toude teleute´sousi traphe´nta / toı˜s d’o´nom’a´nthropoi kate´thent’epı´semon hekasto¯(i) «Ecco, secondo parvenza, come furono e stanno le cose, / come da questo evolute andranno a finire in futuro: / segno a ciascuna, gli uomini imposero loro un nome».

Eraclito e Parmenide: coincidenza o contatto? E: axy´netoi akou´santes ko¯phoı˜sin eoı´kasi: phatis autoı˜sin martyreı˜ pareo´ntas apeı˜nai «Disconnessi, quando ascoltano, rassomigliano ai sordi; rende a loro testimonianza il detto: essendo presenti sono assenti»7.

P: leu˜sse d’homo¯s apeo´nta voo¯(i) pareo´nta bebaio¯s «vedi le cose assenti tuttavia ben presenti alla mente». 6

Cfr. Empedocle (1975). Per una possibile presa di posizione polemica nei confronti di Eraclito e della sua concezione, presunta autoreferenziale, del logos, si veda il commento al passo citato. 7 Indico in tondo le parole (e/o i concetti) di (apparente) coincidenza assoluta tra i due filosofi.

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Mentre la condizione, eminentemente antropica8, degli axy´netoi ci regala, nel caso di Eraclito, due abbaglianti paradossi, quello dell’ascolto dei sordi e quello dell’assenza dei presenti, Parmenide replica idealmente, da par suo, con la focalizzazione sul noos, luogo della contemporaneita` di un’assenza (oggettiva) e di una presenza (soggettiva), oggi diremmo «cognitiva» dell’Essere. E: xyno´n [gar] arkhe` kaı` peras epı` kyklou periphereı´as «Cio` che si connette (xyno´n) e` principio e fine nella curvatura del cerchio».

P: ...xyno´n de´ moı´ estin / hoppothen a´rxomai: to´thi ga`r palin hı´xomai au˜tis «Cio` che si connette («xyno´n») e` donde io principio: la` infatti di nuovo io andro` di ritorno (alla fine, appunto, del cerchio)».

La ciclicita` eraclitea non e` quella della simultaneita` dei contrari, come induce a credere una corriva vulgata del grande «enigmatico» di Efeso, bensı` la circolarita` continua del logos, in cui tutto e` principio e fine nella pervasivita` relazionale dello xyno´n. Quella di Parmenide si fonda invece, ancora e sempre a parte subiecti, sulla «immobile essenza della circolare verita` » (secondo la perspicua traduzione di Adorno) (1988: 14), dell’espressione parmenidea Ale¯theie¯s eykykleos atreme`s heˆtor. Appendice

  E tı´s [gar]auto˜n no´os ¯e phre¯n?de¯mo¯n aoidoı˜si peı´thontai kaı` didaska´lo¯(i) khreı´ontai homı´lo¯(i) ouk eidotes hoti hoi polloı` kakoı´, olı´goi de` agathoı´ «qual 8

Cfr., per una messa a punto etimologica di questa parola fondamentale, Silvestri (1997: 929-986).

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Domenico Silvestri

e` il loro intuire, il loro sentire? Prestano fede agli aedi delle moltitudini e prendono a maestro il volgo e non sanno che i molti sono spregevoli, eccellenti i pochi» (trad. di A. Tonelli). xyn no˜(i) le´gontas iskhyrı´zesthai khre¯ to˜i xyno˜(i) panto˜n... «Bisogna che coloro che in modo sensato (cioe` con l’aiuto della mente: «xu`n no˜i») parlano (cioe` scelgono e mettono insieme parole secondo il principio del legamento: le´gontas) si facciano forti dello xyno´n (cioe` dell’“istanza di connessione”) che sussiste fra tutte le cose [...]». polymathı´e noon ou dida´skei: Hesı´odon ga`r a`n edı´daxe kaı` Pytagore¯n au˜tı´s te Xenopha´nea´ te kaı` Hekataı˜on «apprendere molte cose non insegna ad avere mente: infatti l’avrebbe insegnato a Esiodo e a Pitagora, a Senofane e a Ecateo».

Nel caso del primo frammento la traduzione «intuire» di Tonelli e` uno degli infiniti esempi di accostamento ingenuo al difficilissimo linguaggio eracliteo (prendo in ogni caso le distanze da certe illazioni etimologiche di questo autore, quale quella relativa alla connessione tra la radice indeuropea dell’«essere» bhu e quella della «luce» bha, «a sua volta forse attiva in sophı´a, che e` dunque conoscenza della Luce, sapienza-luce, sapienza che illumina» (Tonelli: 1993, 19): con questo tipo di argomentazioni non si va molto lontano, anzi non e` neppure il caso di ... partire!). Il secondo frammento costruisce una fictio etimologica giocando, con grande finezza, sulla quasi omofonia della sequenza sintagmatica con testa preposizionale xy´n no˜(i) «con la mente» e la forma sostantivale xyno˜(i), che io rendo con «(istanza di) connessione». Infine il terzo frammento rappresenta un attacco topico alla polymathı´e, in questo caso in piena sintonia con autori aristocratici come lo stesso Parmenide e Pindaro: il bersaglio principale e` Pitagora, gli fanno buona compagnia Esiodo, Senofane ed Ecateo: «apprendere molte cose» – giova ripeterlo – «non insegna ad avere mente».

  P [...] krı˜nai de` logo¯(i) poly´derin ´elenkhon / ex emethen rhethenta «razionalmente valuta invece la sfida polemica da me proferita».

Eraclito e Parmenide. Contemporaneita`, consapevolezza e/o (in)dipendenza?

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Rendere logo¯(i) con «razionalmente» e` correre avanti, ma non troppo, se ci si ricorda (ed e` proprio il caso di farlo!) che il logos oggettivo di Eraclito si converte pienamente in realta` soggettiva (mentale!) in Parmenide. In questa prospettiva il filosofo di Elea imbocca una strada di lunga durata, che e` poi quella della filosofia occidentale nel suo complesso, anche se su tutto si cala il monito ungarettiano «... e` la stessa illusione mondo e mente», ed ancor oggi e` piu` che mai attuale, nella rete globale che ci avvolge, l’invito eracliteo a non essere fuori del logos, nella cieca e sorda condizione di chi e` antropicamente disconnesso.

La retorica dei sofisti tra riscoperta e reinterpretazione di Mauro Serra

1. L’insegnamento dei sofisti ha subito, come e` noto, un destino paradossale. Dopo essere stati, secondo la felice espressione di Hegel, «i maestri dell’Ellade», in un periodo storico di cruciale importanza coincidente con l’apogeo politico e culturale di Atene, su di essi si e` abbattuta la condanna platonico-aristotelica, segnando irrimediabilmente la ricezione del loro pensiero1. A partire da questo momento, nel corso del tempo si sono succeduti vari tentativi di recupero e rivalutazione del pensiero di questi personaggi, il piu` remoto dei quali risale ai primi secoli dell’eta` imperiale ed al movimento di intellettuali che proprio per questo motivo prese il nome di seconda sofistica. Di fronte alla molteplicita` di questi tentativi, che dalla prima eta` imperiale si sono protratti fino alla modernita`, passando attraverso figure della statura di Hegel, Nietzsche, Grote, etc., ci si puo` tuttavia ancora legittimamente domandare in quale misura la fisionomia intellettuale di questi personaggi sia stata fedelmente delineata. Il problema e` rappresentato 1

Berrettoni (2000: 39): «La sofistica e` innanzi tutto un fatto storico, un movimento intellettuale individuato nel tempo e nello spazio, cui hanno preso parte figure individuali ben precise, pero` essa, com’e` noto, e` in buona parte anche un effetto, una costruzione culturale operata da quanti, combattendola, l’hanno riassunta e descritta in modo apparentemente neutrale, ma in realta` imponendole una serie di caratterizzazioni e stereotipi derivanti non tanto da cio` che i sofisti effettivamente dissero, ma da cio` che gli avversari vollero vedervi come specchio teorico di un’alterita` radicale». Per una recente messa a punto sulla figura del sofista, cfr. Casertano (2004).

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non tanto dalle differenza delle interpretazioni e riabilitazioni che si sono succedute, quanto dalla natura intrinseca dell’oggetto storico che si ha di fronte. In altri termini, il pensiero dei sofisti sembra costituire un luogo di osservazione privilegiato del rapporto tra teoria e storia della teoria, che appare del resto proprio di ogni tentativo esegetico. Cio` per almeno due ragioni: le modalita` di trasmissione del loro pensiero, che ci e` giunto in larga parte ‘filtrato’ dalla testimonianza di Platone ed Aristotele; la natura specifica dell’oggetto teorico al centro della loro speculazione: il lin2 guaggio . Nelle pagine seguenti questo nesso (teoria-storia della teoria) verra` indagato analizzando il piu` recente di questi tentativi di rilettura della sofistica, quello operato da Barbara Cassin. Tale scelta e` determinata non soltanto dalla sua vicinanza cronologica, ma da almeno altri due fattori di non minore importanza. In primo luogo, l’interpretazione della studiosa francese, affinata in almeno vent’anni di assidua frequentazione con questi autori, nasce da un felice connubio tra filologia e filosofia. In secondo luogo essa si presenta, in maniera programmatica, come una reinterpretazione del pensiero sofistico radicalmente differente dai precedenti tentativi di riabilitazione: Io non propongo qui una ‘riabilitazione’, e soprattutto non una di quelle riabilitazioni che si fondano in maniera circolare sui miglioramenti e i perfezionamenti che esse stesse permettono di introdurre nel quadro stabile della piu` tradizionale delle storie (Cassin: 2002, 10-11).

L’esposizione sara` suddivisa in questo modo: presenteremo in primo luogo gli aspetti salienti dell’interpretazione proposta dalla 2

Gensini (1995: 13): «We would rather suggest that is due to the peculiar nature of language as a subject to be investigated, that we feel ourselves bound to a permanent dialogue with the long cultural tradition in which both our theoretical categories and metalinguistic vocabulary depend. Both language and the knowledge structures that have been used to study it in the various periods of history are so closely linked that every theory concerning language is not only the output of historical circumstances, but also an interlocutor for us».

La retorica dei sofisti tra riscoperta e reinterpretazione

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Cassin, facendo ricorso ad un nutrito numero di citazioni allo scopo di restituire nella maniera piu` fedele possibile il suo pensiero. In questa fase cercheremo anche di far emergere quali sono i presupposti teorici che sembrano guidare la sua rilettura e che ne rappresentano l’orizzonte di riferimento. La tesi della Cassin sara` poi discussa criticamente da un duplice punto di vista: in un primo momento mostreremo come anche essa trovi riscontro nelle pieghe della testimonianza platonica di cui ricalca in una certa misura gli aspetti essenziali, cambiandone tuttavia la valutazione e la connotazione: cio` che in Platone appare come un tratto negativo, diviene in positivo, per la Cassin, il lascito piu` autentico di questi intellettuali. Si tratta, a nostro avviso, di un punto importante, non tanto perche´ mette in discussione l’originalita` e la radicalita` rivendicati alla sua interpretazione dalla studiosa francese, quanto piuttosto perche´ mostra la difficolta` di liberarsi dal quadro 3 interpretativo lasciatoci in eredita` da Platone (ed Aristotele) ; successivamente mostreremo quali sono i punti maggiormente problematici nell’interpretazione proposta dalla studiosa francese. 2. La nota premessa dall’autrice alla recente traduzione italiana della sua opera di maggior respiro permette di individuare senza ombra di dubbio il punto nodale intorno a cui si articola la sua ricostruzione della sofistica. Scrive, infatti, la Cassin: Tutto questo4 [...] non decide della figura concettuale del sofista come critico dell’ontologia. Logologia contro ontologia, e` questa la sola articolazione di una storia sofistica della filosofia (Cassin: 2002, IX).

3 Cio` appare tanto piu` significativo, poiche´ la stessa studiosa ha sottolineato la presenza di tale tendenza in tutte le reinterpretazioni moderne. «A cet e´gard il est tout a` fait fondamental de noter avec G. B. Kerferd que toutes les re´habilitations philosophiques propose´e, jusqu’a` Heidegger inclus, sont essentiellement platoniciennes : elle consistent a valoriser, a` affecter d’un signe positif ce que Platon de´valorise» (Cassin: 1986, 8). 4 Si tratta delle parti dell’edizione originale omesse nella traduzione italiana.

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Sono cosı` immediatamente individuati i due poli entro i quali si muove l’interpretazione avanzata. Da un lato l’ontologia, che coincide, a partire da Parmenide, con l’ambito d’elezione della filosofia, dall’altro la logologia, chiave di volta per mettere a nudo la radicale novita` di quell’alter ego della filosofia che fu la sofistica. Se la filosofia vuole ridurre al silenzio la sofistica e` certamente, perche´, all’inverso, la sofistica fa della filosofia un fatto di linguaggio. Propongo di chiamare logologia, con un termine preso a prestito da Novalis, questa percezione dell’ontologia come discorso, questa insistenza sull’autonomia performativa del linguaggio e sull’effetto-mondo che questo produce (Cassin: 2002, 14).

Si puo` comprendere allora perche´ il trattato Sul non essere di Gorgia sia considerato paradigmatico della posizione espressa dalla sofistica. Il suo scopo consisterebbe, infatti, nel mostrare che il poema ontologico di Parmenide – «gravido di tutta l’ontologia platonico-aristotelica sulla quale viviamo» (Cassin: 2002, 23) – e` gia` in se´ un discorso sofistico, anzi, come mostra l’intera tradizione filosofica che da esso dipende, e` il piu` efficace dei discorsi sofistici. L’effetto-limite prodotto da Gorgia, con questa prima tesi del Trattato sul non essere, e` quello di dimostrare che se il testo dell’ontologia e` rigoroso, cioe` se non costituisce esso stesso un’eccezione rispetto alla regola che lo instaura, allora questo e` un testo sofistico (Cassin: 2002, 37).

L’essere, dunque, lungi dal costituire «il cuore della ben ro5 tonda verita`» , a cui l’iniziato puo` accedere per il tramite della dea, si rivela esso stesso un effetto del dire. Ma, come e` facile immaginare, una tale constatazione innesca una serie di conseguenze di vasta portata. Ad andare in frantumi non e` solo l’ontologia parmenidea, ma un’intera concezione che fa del linguaggio la rappresen5

Parmenide (DK: 1, v.29).

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tazione di una realta` ad esso preesistente e comunque indipendente. O, per dirla in termini piu` moderni: La direzione dell’ontologia e` quella di schiacciare il senso sulla referenza che lo regge; le cose comandano le parole [...]. Con il pharmakon, al contrario, la relazione di sutura e` inversa, e` il senso che comanda la referenza, la parola produce la cosa (Cassin: 2002, 62-63).

Emerge in questo modo un altro degli aspetti che sembrano caratterizzare in maniera decisiva la posizione teorica dei sofisti. Il linguaggio non e` piu` inteso come uno strumento per parlare di qualcosa, il suo esercizio e la sua efficacia sono invece legati al semplice piacere di parlare6. Parlare per non dire niente, questo potrebbe essere il motto con cui la sofistica cerca di liberarsi dai vincoli imposti dalla filosofia al discorso. Tale mossa non appare, tuttavia, fine a se stessa; il discorso, pronunciato senza altra finalita` che la sua stessa ripetizione, opera, infatti, in due direzioni che, per quanto differenti, finiscono tuttavia per convergere. Da un lato agisce come creatore di consenso culturale ed e` ad esso, in ultima 7 analisi, che si deve la creazione della sfera politica ; dall’altro, svincolato dal regime della significazione, il semainein ti aristotelico, genera il mondo della finzione letteraria, del romanzo, la cui fioritura e` legata appunto alla seconda sofistica. Non e` difficile a questo punto comprendere quale possa essere l’orizzonte teorico entro il quale si colloca una interpretazione del genere. Come ha scritto recentemente G. Mazzara: La Cassin, con questa interpretazione, sembra inserirsi all’interno di quel grande movimento di pensiero, tipicamente francese, degli 6

Per il ruolo centrale svolto da questo concetto che ricalca l’espressione aristotelica

λγου χριν contenuta in Metafisica, γ, 1009 a 21 cfr. il paragrafo successivo. 7

«In fin dei conti, come prova tutta l’analisi condotta da Gorgia che abbiamo ripercorso nella prima parte di questo libro, l’essere non e` che un effetto del dire. A partire da qui si capisce che la presenza dell’Essere, l’immediatezza della Natura, e l’evidenza di una parola che ha il compito di dirle adeguatamente, svaniscono insieme: il fisico che scopre la parola lascia spazio al politico che crea il discorso» (Cassin: 2002, 81).

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anni settanta che si rivolto` contro la ragione classica, che fu antiplatonico ed antiaristotelico, e che porto` il suo interesse sugli aspetti linguistici in quanto significanti che rinviano a se stessi e non alla realta`. Esponenti principali di questo nuovo tipo di filosofia del linguaggio si possono considerare J. Lacan, J. Derrida, G. Deleuze (Mazzara: 1999, 10).

Al di la` di una precisa contestualizzazione storico-geografica, e` fuor di dubbio che una simile proposta esegetica sia riconducibile ad una opzione teorica che puo` essere genericamente definita no8 minalistica e ad un modello di spiegazione del linguaggio che ne sottolinea fortemente l’autonomia sia ontologica (ed e` questo l’aspetto maggiormente evidenziato dalla Cassin), che cognitiva. Si tratta di un modello che ha, in varie forme, improntato larga parte della riflessione linguistica del ’900 e la cui origine e` generalmente fatta coincidere con la figura di Ferdinand de Saussure. Non stupisce, dunque, che la speculazione dei sofisti riletta in questa particolare prospettiva appaia singolarmente moderna e precorritrice. C’e`, tuttavia un ulteriore elemento da prendere in considerazione per completare il quadro d’assieme. Come afferma esplicitamente la stessa studiosa francese: per una certa generazione di filosofi, alla quale appartengo, parola [logos], non e` stata innanzitutto una parola della greca, ma dell’idioma heideggeriano: la sofistica costringe spiegazione del concetto heideggeriano di logos, e forse di (Cassin: 2002, 14).

questa lingua a una lingua

Confrontarsi con il pensiero di Heidegger non significa peraltro soltanto confrontarsi con l’interpretazione che egli ha fornito del termine logos, cosı` come della costellazione semantica costituita dai termini ad esso correlati (innanzitutto quello di verita`), significa soprattutto prendere posizione rispetto ad un modo di leggere i presocratici assolutamente originale e straordinariamente influente. 8

« [il nome possiede] una realta` piu` tenace ed efficace di quella della cosa: la risorsa stessa del nominalismo – dite il nome, ed avrete la cosa, piu` cosa della cosa» (Cassin: 1985, 166; cit. in Mazzara: 1999, 12).

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Per Heidegger, i Presocratici, compresi Anassimandro o Eraclito, e compreso Protagora, sono tutti e sempre intesi come assolutamente parmenidei. E con il Parmenide di Heidegger il mattino greco stabilisce nel cuore dell’aletheia una coappartenenza tra l’essere, il dire e il pensare che costituisce lo spazio stesso di quello che, per i secoli a venire, si chiama «ontologia» (Cassin: 2002, 14).

La domanda allora e`: si puo` essere presocratici diversamente? Ovvero, si puo` essere presocratici situandosi in rapporto all’Essere ed al Logos in maniera diversa da Parmenide senza per questo essere considerati «sedicenti presocratici [che] non sono gia` piu` dei Presocratici, anche quando hanno osato vivere prima di Socrate»? (Cassin: 2002, 63). La risposta e` ovviamente nel concetto di logologia e nella sua radicale contrapposizione all’ontologia. E` dunque possibile essere presocratici diversamente ed in cio` consiste la straordinaria novita` del pensiero sofistico: Riprendendo il termine «logologia» cio` che importa, dal mio punto di vista, non e` trovarvi ancora una volta lo strumento per una valorizzazione unilaterale della sofistica, ma mettere in evidenza cio` che la lingua fa e puo` fare di diverso dall’ontologia (compreso il superare l’ontologia, come se fosse una tappa o un coma) (Cassin: 2002, 77).

3. Si e` gia` accennato in precedenza all’estrema difficolta`, anche per coloro che hanno riletto in positivo l’esperienza di questi pensatori, di uscire dal quadro concettuale all’interno del quale Platone e Aristotele ci hanno restituito il pensiero dei sofisti. Poiche´ si tratta di un punto messo in rilievo anche dalla studiosa francese, sara` bene prendere innanzitutto in considerazione sotto quale aspetto le riabilitazioni precedenti non riescano – a suo giudizio – a liberarsi dall’ipoteca della condanna platonica. Il punto essenziale sembra risiedere nel fatto che esse continuano a mantenere ferma quella relazione privilegiata tra l’essere ed il dire che e` al centro della 9 riflessione platonica e prima ancora di quella parmenidea . L’unica 9

Questo e`, per esempio, il rimprovero che la studiosa muove all’interpretazione avanzata da Kerferd nel suo libro sui sofisti (Kerferd: 1981). Essi sono, infatti, considerati

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via d’uscita consiste allora nel prendere atto che il logos dei sofisti non mira a dire l’essere, sia esso fenomenico o ideale. A cio` serve appunto un concetto come quello di logologia introdotto dalla Cassin. E` tuttavia legittimo domandarsi se il «panlinguismo negatore di una realta` extra-linguistica» (Berrettoni: 2001, 43) che la studiosa francese finisce con l’attribuire ai sofisti, ed in particolare a Gorgia, sia in grado di sfuggire alla stessa trappola. Riprendiamo brevemente in considerazione il modo in cui viene interpretata l’espressione logou charin, alla quale la studiosa annette fondamentale importanza10. Essa rappresenta in primo luogo la chiave di volta per differenziare la posizione assunta da Aristotele nei confronti della sofistica rispetto a quella del suo maestro11. In secondo luogo, permette di individuare una «positivite` autrement spe´cifique de la sophistique» (Cassin: 1986, 8). Comment peut-on donc parler pour ne rien dire? Premie`re re´ponse : il suffit de ne pas parler de, mais parler a`. Non pas s’occuper de ce dont on parle, de la phu´sis, du ko´smos, de l’e´tant, mais s’occuper de celui a qui l’on parle, de l’effet ad hominem. D’un coˆte´ donc, connaıˆtre avec pour vise´e le vrai, de l’autre persuader avec pour vise´e l’utile et l’efficace. A droite le philosophe, a` gauche l’orateur (Cassin: 1986, 10).

Con questa prima considerazione siamo ancora all’interno di una prospettiva abbastanza tradizionale. Il discorso dei sofisti appare centrato sulla nozione di efficacia e sulla possibilita` che esso ha di produrre determinati effetti nell’interlocutore a cui si rivolge. Si tratta pero` solo del primo aspetto, a cui segue una successiva constatazione: dallo studioso inglese dei razionalisti il cui merito fondamentale consiste nel cercare di rendere conto razionalmente della realta` fenomenica (Cassin: 1984). 10 Non a caso essa da` il titolo alla raccolta, curata dalla Cassin, di una parte degli interventi tenuti al convegno di Cerisy la Salle sui sofisti da lei organizzato insieme a Monique Canto nel 1984. 11 «Il faut, je crois, prendre maintenant en compte ce qui, dans la position aristote´licienne a` l’e´gard des sophistes, n’est pas une simple reprise de la position platonicienne» (Cassin: 1986, 8).

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L’opposition non se situe plus seulement entre ‘parler a`’ et ‘parler de’, mais c’est le «parler de» qui se trouve lui-meˆme fissure´, de´double´. En termes sauvagement anachroniques, c’est ici je crois, et pas seulement dans la description d’un tel ou tel sophisme ou paralogisme, qu’il est avantageux d’e´voquer la distinction entre sens et re´fe´rence (Cassin: 1986, 16).

Il parlare per non dire niente si caratterizza cosı` innanzitutto attraverso una doppia negazione: esso non rappresenta il mondo esterno – la phusys –, ne´ d’altra parte esprime il mondo interiore del soggetto parlante – gli aristotelici pathemata tes psukhes –; allo stesso tempo il sofista pur non essendo uno scienziato della natura, ne´ d’altra parte uno psicologo, non si contenta alla maniera di Cratilo di rimanere in silenzio, indicando con un dito una realta` che dato il suo eterno movimento si lascia cogliere solo illusoriamente all’interno del linguaggio. Quale e` allora la specificita` del suo discorso? Esso e` «de´miurgique, il fabrique le monde, il le fait advenir» (Cassin: 1986, 18). Svincolato dagli obblighi della referenza, il linguaggio diviene esso stesso il creatore di una realta` che non ha altra consistenza al di fuori di quella discorsiva: siamo cosı` nel campo della cultura e della letteratura: L’effet-monde se produit a` deux niveaux: celui de la fabrication du monde humain, du consensus qui constitue la cite´, culture par opposition a` nature; celui de la fiction litte´raire, du patrimoine qui constitue l’identite´ d’un peuple, culture par opposition ad inculture (Cassin: 1986, 20).

Non e`, tuttavia, difficile mostrare come sotto le spoglie di una simile interpretazione si nasconda ancora una volta l’immagine dei 12 sofisti consegnataci da Platone . Per ragioni di spazio mi limitero` ad insistere sui due aspetti che mi sembrano di maggior rilievo, ricorrendo a sintetici riferimenti ai testi platonici. E` importante che si tratti proprio di quella platonica, poiche´ cio` mette in luce la difficolta` a svincolare la sua posizione da quella, apparentemente diversa, di Aristotele, come la Cassin cerca appunto di fare. 12

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Il primo punto e` rappresentato dalla dimensione del piacere che, evocata dall’espressione aristotelica λγου χριν, rimanda, nel discorso dei sofisti, sia all’effetto prodotto sugli interlocutori sia all’esercizio di una pratica fine a se stessa, simile ad un gioco di cui a godere e` innanzitutto chi lo mette in opera. Ebbene, entrambi questi elementi, privi naturalmente delle molteplici risonanze che la studiosa francese ne ricava, sono largamente presenti nella caratterizzazione dei sofisti fornita da Platone. Cosı`, per fare solo qualche esempio, nel Gorgia l’oratore appare come colui che si serve dei suoi discorsi per procurare piacere (χαρ ζεσθαι) ai cittadini, trascurando il bene comune della citta` a vantaggio dei suoi interessi personali (502d-e) e cio` in un passaggio del dialogo nel quale Platone propone una identificazione tra il retore ed il poeta, proprio in virtu` del fatto che entrambi hanno di mira semplicemente il piacere del loro pubblico, mostrandosi invece assolutamente disinteressati al bene (e dunque anche alla verita`). Nel Sofista (259d4-7), d’altra parte, lo Straniero d’Elea critica questi personaggi affermando che essi hanno l’atteggiamento di coloro che si limitano a provare piacere (χα ρειν) mostrando le contraddizioni nei loro discorsi, restando in questo modo lontani, alla maniera di chi si dedica ad un gioco infantile, da cio` che e` (τω˜ ν οντων). Proprio un simile rimprovero ci porta al secondo dei punti evidenziati dalla Cassin: la radicale divaricazione tra discorso e realta` (essere) messa in atto dalla sofistica, che mette capo al potere demiurgico attribuito al logos. Ora, nella parte iniziale dell’omonimo dialogo platonico, il sofista viene appunto caratterizzato come colui che e` in grado di fare e produrre (ποιεν) – ‘demiurgicamente’ potremmo dire – con una sola arte tutte le cose e tale arte non e` altro se non la capacita` di creare immagini verbali relative ad ogni aspetto della realta` in maniera tale che esse, penetrando attraverso le orecchie nell’animo dei piu` giovani, li seducano, convincendoli della verita` di quanto affermato e soprattutto del fatto di trovarsi di fronte alla persona piu` sapiente di tutti. Anche per Platone, dunque, il logos dei sofisti appare come un sostituto della realta`, di ogni tipo di realta` verso la quale essi non mostrano alcun effettivo interesse. Anzi, il sapere di cui il sofista

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risulta fornito viene definito come apparente proprio perche´ non si fonda sulla reale conoscenza di cio` su cui verte il discorso, ma sulla semplice padronanza del linguaggio. Non siamo molto distanti dall’affermazione, sovente ripetuta dalla Cassin, secondo cui, i sofisti «ne sont pas des me´te´reologues, des physiologue, des ontologues, la sophistique n’est pas une science de la nature» (Cassin: 1986, 17; cfr. 2002, 63), ma dei pensatori la cui specificita` consiste 13 nel parlare per il piacere di parlare . 4. L’aver mostrato la possibile derivazione platonica dei principali motivi teorici che, secondo la Cassin caratterizzano la speculazione dei sofisti non dice ancora nulla sulla validita` della proposta esegetica avanzata dalla studiosa francese. Non c’e` naturalmente lo spazio per una dettagliata valutazione di un’ interpretazione che si segnala proprio per la ricchezza degli spunti offerti. Due punti appaiono pero` particolarmente critici e sono anche quelli che risultano piu` strettamente dipendenti dall’orizzonte teorico che fa da cornice all’interpretazione proposta. 13

Non sembra un caso, d’altra parte, che coloro che hanno aderito alla tesi della Cassin, lo abbiano fatto leggendovi non tanto un’alternativa alle categorie di pensiero platonico-aristoteliche largamente dominanti nella tradizione occidentale, quanto piuttosto un loro capovolgimento. Berrettoni (2000: 51): «[...] Protagora sosteneva (secondo quanto riferisce Platone nel Teeteto, 167A) che nessuno e` mai riuscito a fare avere un’opinione vera a chi ne avesse una falsa; posizione apparentemente pessimista o quanto meno scettica sulle possibilita` del linguaggio, ma solo in una prospettiva iperrazionalista che vede nel dia-logo la via di accesso a una Verita` trascendente ed assoluta, transumana e data una volta per tutte, alla base delle diverse varianti di quell’epistemologia terroristica dell’esclusione (a` la Lyotard ) che ha caratterizzato molte epoche del pre-postmoderno: ma posizione molto meno sconsolata secondo altre prospettive (solitamente minoritarie e perdenti, oggi diremmo “queer”, nei vari differendi culturali del passato) e anzi aperta ad una molteplicita` di direzioni verso verita` (al plurale e con la lettera minuscola: le verita` piuttosto che la Verita`) locali e frattali, costruite da destinatore a destinatario dei logoi in una prospettiva ‘performativa’, quando non direttamente logologica appunto del discorso e del gioco linguistico come strumenti anche di una dialogicita` investita di jouissance festiva, proprio quel parlare λγου χριν che cosı` spiaceva alla prospettiva referenzialista e fondata sulla legge del significare (“a se stesso e/o agli altri”) di Aristotele, lontana antenata delle varie egemonie del significare/-ante che sono giunte fino a noi».

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In primo luogo, l’aver individuato l’aspetto saliente del discorso sofistico nel capovolgimento messo in atto rispetto all’ontologia parmenidea – la sua trasformazione in logologia – presuppone una certa lettura del poema parmenideo (cfr. Cassin: 1998) che rivela chiaramente i suoi debiti nei confronti delle analisi «ontologisantes» (Charles: 2001, 541) di Heidegger. Detto in altri termini: e` del tutto evidente che un concetto come quello di logologia si puo` reggere solo sull’ipotesi preliminare che ci sia un’ontologia da confutare e capovolgere. Questa lettura del poema parmenideo appare tuttavia per piu` versi discutibile e soprattutto in tempi recenti (cfr. Cerri: 1999; Lafrance: 1999; Brisson: 1994) si e` cercato di ricollocare piu` correttamente il pensiero di Parmenide nel contesto storico a cui appartiene: On oublie ainsi de situer dans le contexte historique qui le est propre, celui des traite´s pre´socratiques sur la nature dans lesquels on ne se demandait pas ce qu’e´tait l’eˆtre, mais bien ce qu’e´tait la nature. On cherchait une explication de l’univers (Lafrance cit. in Charles: 2001, 540).

Se e` vero che il poema parmenideo «appare gravido di tutta l’ontologia platonico-aristotelica sulla quale viviamo» (Cassin: 2002, 23), cio` potrebbe tuttavia dipendere proprio dal modo in cui Platone ed Aristotele lo hanno interpretato e trasmesso ai posteri. Con un singolare anacronismo la sofistica si troverebbe allora a ‘superare’ un’ontologia che storicamente non ha potuto conoscere14. Ancora piu` problematica si presenta, per certi versi, la conseguenza che da una simile lettura incrociata di Parmenide e Gorgia viene fatta scaturire e cioe` la considerazione dell’intera realta` come un effetto anzi il piu` importante degli effetti prodotti dal logos.

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Il problema della ricezione di Parmenide da parte dei pensatori successivi fino a Platone e Aristotele e` naturalmente assai piu` complesso di quanto qui si possa accennare: cfr. Palmer (1999).

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Mais peut-on affirmer qu’il n’y a pas, selon, Gorgias, d’extradiscursif, ou plutoˆt que cet extra-discursif est toujours produit par le discours? (Dixsaut: 2002, 206).

A sostegno di questa tesi, la Cassin adduce un passo, importante e difficile, che si ritrova nella versione del Trattato sul non essere di Gorgia fornitaci da Sesto Empirico (Contro i logici: 85, 5-6), ma che non ha equivalenti in quella dell’Anonimo. Del passo la studiosa fornisce un commento dettagliato (Cassin: 2002, 54-58), di cui qui mi limitero` a fornire le conclusioni. Ecco il testo: Se e` cosı`, non e` il discorso che commemora l’esterno [parastatikos], ma e` l’esterno che diviene rivelatore [meˆnytikon] del discorso (Cassin: 2002, 54).

Ed ecco le conclusioni a cui la studiosa ritiene di poter giungere: Questa frase mi sembra il modo migliore per precisare il rapporto che si instaura tra discorso sofistico e mondo. [...] il discorso non puo` rappresentare il reale e non deve farlo, non sta al posto di, non fa riferimento a, una cosa o un’idea esteriore, ad esso estranea. [...] il discorso fa essere ed e` per questo che il suo senso non puo` essere appreso se non in un secondo tempo, alla luce del mondo che ha prodotto (Cassin: 2002, 57).

Ma e` veramente questo il significato che si puo` ricavare dalla frase di Sesto? C’e` piu` di un motivo per dubitarne e questo senza entrare nel merito di una dettagliata analisi filologica che ci porterebbe troppo lontani (ma cfr. Dixsaut: 2002, 206 nota 1). Basta, in effetti, ricollocare, la frase nel contesto a cui appartiene e di cui essa, come mostrano le sue parole iniziali (se e` cosı`), costituisce la logica conseguenza: Il discorso – afferma Gorgia – si forma dalle esperienze sensibili che giungono su di noi. Cosı` dall’esperienza del gusto ci deriva la parola corrispondente a quella qualita` e dall’incidenza sensibile del colore quella relativa al colore. Se e` cosı` [...] (Sesto Empirico: Contro i logici, 85, 1-5).

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Mauro Serra

Non e` difficile constatare come il discorso di Gorgia insista non tanto sulla potenza demiurgica che farebbe del discorso il creatore della realta`, quanto piuttosto sul rapporto problematico che si instaura tra realta` esterna e linguaggio. Quest’ultimo, non a caso definito nell’Elena come il piu` invisibile dei corpi, nasce dall’esperienza sensibile e vi fa ritorno in un movimento incessante, senza poter tuttavia mai coincidere con essa. Il logos e` infatti altro dalle cose esterne ad esso: da cio` scaturisce la sua potenza ma al tempo stesso anche la sua debolezza: l’incomunicabilita` affermata nel Trattato sul non essere e ed il potere quasi magico attribuito al discorso nell’Elena sono cosı` le due facce di una stessa medaglia15. Se e`, dunque, vero che, secondo Gorgia, all’uomo e` precluso qualsiasi accesso alla realta` che non sia in qualche forma mediato dal linguaggio, cio` tuttavia non equivale ad affermare la scomparsa del mondo esterno e la sua riduzione a mero effetto di un atto linguistico.

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Sulla natura problematica dei rapporti tra linguaggio e realta`, Gorgia insiste anche nell’altra sua orazione sopravvissuta, l’Apologia di Palamede: cfr. Dixsaut (2002).

Il quesito di Plutarco. Linguistico, epilinguistico e metalinguistico nello studio del linguaggio di Raffaella Petrilli

1. Secondo l’opinione diffusa, le tradizionali categorie (o parti del discorso) sono nozioni del discorso metalinguistico, il discorso «grammaticale» che costituisce un’analisi del linguaggio. L’argomento e` molto studiato, ma solleva ancora, tra i tanti, un quesito che mi interessa in modo particolare. Si e` detto che la comparsa delle categorie segna la discontinuita` tra, da una parte, la «linguistica spontanea» (Formigari: 2001, 11), una sorta di riflessione naturale sul linguaggio o «sapere epilinguistico [...] che appartiene ad ogni locutore» (Formigari: 2001, 11); e, dall’altra, il sapere propriamente «metalinguistico» che deriva dal tentativo esplicito e consapevole di spiegare le regolarita` dell’agire linguistico spontaneo. Le categorie appartengono a quest’ultimo versante. Tale punto di vista, autorevolmente sostenuto (cfr. Auroux: 1989), non puo` fare a meno di prendere atto di un fatto curioso: nelle fonti antiche sembra mancare la consapevolezza del salto e della discontinuita` tra riflessione spontanea e riflessione esplicita ed esplicativa sul linguaggio. E infatti, lo storico delle idee linguistiche e` costretto ad ammettere che non rileva alcuno stupore, alcuna traccia di una riflessione antica su quella che, pure, costituisce una conquista notevole. Insomma, le fonti greche arcaiche e antiche passano dall’epilinguistico al metalinguistico senza che la discontinuita` sembri mai neppure (semplicemente!) notata. Una tale assenza di attenzione di fronte a un cambiamento di

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Raffaella Petrilli

quella portata e` poco comprensibile e sembra degna di qualche indagine ulteriore. Il quesito che vorrei sollevare riguarda il passaggio dall’epilinguistico al metalinguistico e la convinzione che esso sia testimoniato dalla comparsa delle categorie. Vorrei sottoporre alla prova delle fonti due ipotesi connesse reciprocamente: 1) la prima e` che non si dia un passaggio cosı` netto da epilinguistico a metalinguistico, come invece si e` presa l’abitudine di credere. In altri termini, il dubbio riguarda il fatto che l’adozione del sistema alfabetico sia sufficiente – oltre che necessaria – a segnare la nascita del pensiero metalinguistico nella cultura greca; 2) la seconda ipotesi e` che l’adozione dell’alfabeto abbia sı` provocato numerose riflessioni nella Grecia arcaica ed antica, ma che tali riflessioni aprano un dominio intermedio tutto da definire. Valutando la fondatezza delle ipotesi, mi pongo un duplice obiettivo: a) chiarire un problema storiografico, ossia di come potevano apparire agli occhi degli Antichi le innovazioni culturali relative alla scrittura, senza confondere quel lontano punto di vista con quello che noi, oggi, abbiamo sugli stessi fenomeni; b) discutere teoricamente la nozione di «metalinguaggio», sotto il cui ombrello cadono, a quanto sembra, le categorie grammaticali antiche e contemporanee (complice l’identita` terminologica). 2. Il percorso argomentativo che propongo a supporto dell’ipotesi appena enunciata richiede di esaminare alcune fonti antiche. Una di queste e` Plutarco di Cesarea (ante 50 d.C.-post 120 d.C.). Plutarco e` tardo, rispetto alle date in cui si collocano l’adozione dell’alfabeto e la prima elaborazione di categorie grammaticali. Non e` un dettaglio privo di importanza, ma per il momento puo` essere accantonato. Ecco la domande che Plutarco discute a proposito di o´noma e rheˆma, le sole due parti del discorso menzionate da Platone nel Sofista: Perche´ Platone ha detto (Soph. 262c) che il lo´gos e` composto da o´noma e rheˆma, quando e` provato che le parti del discorso (me´re touˆ lo´gou) sono ben piu` di due, e almeno otto [come si vede in Omero]? (Plat. quest. X, Moralia VI, 3 B-C).

Il quesito di Plutarco

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La risposta, prosegue Plutarco, e` semplice: basta guardare ai fenomeni di cui Platone intendeva occuparsi. Platone si occupa, infatti, della necessita` di valutare i contenuti delle espressioni, ossia fatti e «azioni». A questo scopo, e` indispensabile e sufficiente indicare chi agisce o subisce (o´noma) e l’azione eseguita o subita (rheˆma) (es.: «Socrate fa il filosofo» o «Socrate vola»). In breve, cio` che conta e` disporre della descrizione essenziale (semaı´nein, ib. D) del caso da valutare in quanto vero o falso. La grammatica ha obiettivi ben diversi: mette sotto osservazione i fenomeni dell’«espressivita`» (emphaı´nei, ib. E), e cerca di individuare e denominare tutti gli elementi linguistici che li manifestano, quelli che costituiscono le possibilita` metriche, articolatorie, acustiche dell’emissione vocale (aspirazione, allungamento, abbreviazione, pausa ecc.). La disparita` delle liste, platonica (due elementi) e grammaticale (otto elementi), forma un rompicapo solo se, conclude Plutarco, trascurando la diversita` dei fenomeni discorsivi e dei loro obiettivi (khreı´a), di cui quelle liste cosı` diverse danno ragione, si pretenda di accorpare in una le due diversissime analisi. L’essenziale della posizione plutarchea e` non dare per scontato che le categorie abbiano alle spalle fenomeni omogenei, della stessa natura, e che tale natura sia linguistica. A Plutarco interessa indicare, al contrario, la discontinuita` fenomenica che l’omonimia di termini quali lo´gos, o´noma ecc. tende ad occultare. Insomma, non c’e` un genere comune «linguisticita`» per quei fenomeni. Quando, oggi, chiamiamo metalinguistiche le categorie dell’una e dell’altra lista, oppure diciamo che sono entita` della riflessione metalinguistica inaugurata dal fatto storico dell’alfabetizzazione greca, perdiamo completamente di vista le ragioni di Plutarco. 3. Si sa che Plutarco non e` il solo a sostenere questa posizione: si pensi, per restare in ambito antico e tardoantico, a Quintiliano (I-II d.C.), o a Sesto Empirico (II-III d.C.) e in generale alle molte discussioni e commenti sui contenuti dei trattati grammaticali greci piu` importanti. Tuttavia, le ricostruzioni storiche delle teorie antiche sembrano sottovalutarla, se non proprio tacerla. Le storie del pensiero antico sul linguaggio tendono a disegnare un percorso di

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Raffaella Petrilli

elaborazione lineare, retta piu` o meno dalla regola dell’arricchimento progressivo della batteria di nozioni. Se invece interroghiamo le fonti antiche rispettando la prospettiva plutarchea, cioe` chiedendo quali fenomeni siano normati da ogni lista di categorie presente in autori e tempi diversi, possiamo fare osservazioni interessanti. E` noto da tempo che i primi modelli interpretativi elaborati, in eta` arcaica, per spiegare fatti linguistici derivano dal «campo della teoria musicale del pitagorismo antico» (Ciancaglini: 1991, 47). Lo strumentario dell’analisi della «fenomenologia acustica della voce umana» e` quello elaborato dai pitagorici antichi per le loro indagini musicali. Si potrebbe leggere questo fatto dicendo che il «grammatico» ha chiesto in prestito quegli strumenti con l’intenzione di adattarli al proprio, specifico oggetto «voce umana linguistica». Ma possiamo pensare altrettanto bene, e piu` adeguatamente direi, alla soluzione opposta, e cioe` che l’analisi della voce umana si sia andata spontaneamente – i.e. dato quel contesto storico-culturale – a collocare nell’ambito degli studi musicali, come sua parte. Il fenomeno sotto osservazione assume, in tal caso, l’identita` non di fenomeno linguistico bensı` di fenomeno acustico, omogeneo a tutti gli altri fenomeni acustici oggetto delle analisi pitagoriche, con l’unica particolarita` d’essere prodotti dalle corde vocali di un corpo umano piuttosto che da strumenti artificiali. Non mancano sostegni testuali, in proposito (Ciancaglini: 1991; Petrilli: 2001). In quest’ottica, alcune altre fonti assumono un aspetto non ovvio, quali il famoso inizio del Cratilo platonico: E. O Socrate, il nostro Cratilo dice che a ciascuno degli enti appartiene per natura una innata giustezza di nome, e che il nome (o´noma) non e` cio` con cui alcuni, accordatisi, lo chiamano, pronunciandone una parte di suono (mo´rion phoneˆs), ma che vi e` una giustezza dei nomi innata e identica per tutti, Greci e Barbari [...] (Crat. 383 a-b).

Qui non abbiamo semplicemente il problema di definire un’entita` linguistica, il nome-suono, al quale Platone avvertirebbe l’esigenza di aggiungere un «contenuto» (una funzione semantica). Qui c’e`, ci sembra, molto di piu`, e cioe`:

Il quesito di Plutarco

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a) l’accenno a una teoria relativa a fenomeni acustico-vocali, le «parti di suono pronunciato». Questa teoria e` certo posteriore alla disponibilita` di un sistema di scrittura, ma non richiede una rappresentazione del linguaggio, e tanto meno una generale o generica «consapevolezza della struttura della lingua greca» (Auroux: 1989, 21) . Questa teoria richiede, invece, una metodologia d’analisi, che equivale – presumibilmente – a quella messa in atto in ambiente pitagorico per i fenomeni fisico-acustici in generale (individuazione di medie aritmetiche) (Burkert: 1972; Huffman: 1993). Platone cita la teoria e metodologia d’analisi per contestarla (il nome non `e ... parte di suono pronunciato), e lo fa per ragioni, ampiamente discusse dalla letteratura critica, che poco hanno a che fare con problemi linguistici in senso stretto (Frajese: 1973); b) c’e` poi l’accenno ad una teoria della «giustezza dei nomi», che, come e` noto, in Cratilo non viene definita altrimenti che in opposizione alla prima, appena citata. Si ricavano, pero`, due indicazioni: che la teoria della giustezza e` alternativa a quella di tipo pitagorico; e che lo e` perche´ rifiuta il criterio quantitativo su cui questa si basava. E infatti, il criterio quantitativo costringeva la conoscenza a muoversi nel dominio limitato di cio` che e` empiricamente percepibile e misurabile, e aveva gia` mostrato la sua grave inadeguatezza (per es. nell’incapacita` a risolvere problemi aritmo-geometrici quali la misura della diagonale del quadrato). In definitiva, l’aspetto predominante del Cratilo e` la discussione epistemologica su quale debba essere il metodo per l’analisi adeguata e verificabile dei fenomeni. La «giustezza» e` l’istanza di un principio qualitativo per condurre le ricerche, tutte le ricerche in cui il pensiero greco era impegnato, comprese quella sulla voce umana. Proporre, come fa Platone, di assumere i fenomeni vocali non quali suoni bensı` quali entita` dotate di «giustezza» equivale a rifiutare l’analisi come misurazione quantitativa (assunzione pitagorica) e a introdurre va-

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lutazioni qualitative degli oggetti di studio (Crat. 439 c-d; v. Petrilli: 2001, 411 sgg.)1. 4. A ben guardare, i suggerimenti dell’epistemologia «qualitativa» platonica non richiedono l’introduzione di un piano di riflessione metalinguistica, nel senso di «riflessione consapevole sulla lingua presa come oggetto» che noi, oggi, diamo al termine. Richiedono, invece, e piu` semplicemente, strumenti definitori ottenuti epilinguisticamente, ossia da materiali linguistico-verbali. Il «discorso piu` breve», formato dalla connessione di o´noma e rheˆma, e` un tale strumento, lo strumento essenziale dell’analisi della conoscenza cosı` come Platone la intende. Platone lo elabora facendo uso della propria capacita` epilinguistica. In questo modo, pero`, non sta analizzando il linguaggio verbale, sta usando il linguaggio (alcune parti) in modo nuovo, sta sfruttando la capacita` di utilizzare la propria dotazione linguistica per nuovi obiettivi. In breve: amplia gli usi del linguaggio verbale, definendo quello che, con Wittgenstein, possiamo chiamare un nuovo giuoco linguistico. In questo senso, la caratteristica piu` importante ed evidente dell’operazione platonica, ossia del nuovo gioco linguistico, e` il suo statuto epilinguistico: esso – esattamente come accadra` piu` tardi con l’analitica e la sillogistica aristotelica – resta all’interno del linguaggio stesso. Detto altrimenti: o´noma, rheˆma e proˆton lo´gos non sono categorie metalinguistiche, bensı` il risultato dell’attivita` epilinguistica, poiche´ non si applicano al linguaggio verbale quale oggetto da conoscere, bensı` usano il linguaggio verbale – selezionandone alcune strutture – per l’analisi dell’attivita` di conoscenza. La teoria della «giustezza» e` un esempio di attivita` epilinguistica. Gli storici della logica colgono proprio questo aspetto della logica antica, quando la distin1

Non si puo` trascurare il fatto che la discussione epistemologica platonica, di cui il Cratilo fornisce una esemplificazione, va collocata in un contesto storico che vede in atto trasformazioni rilevanti, dall’ «idealizzazione» della geometria (v. per es. Frajese: 1973) alla elaborazione della logica, esplicita in Aristotele, ma le cui premesse sono gia` – meno studiate (Mignucci: 1969) – in Platone. Per una discussione circa i «contenuti» di una ideografia, v. Petrilli (2002).

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guono dalla logica formale del Novecento. E infatti, dal punto di vista semiologico, una logica formale richiede, tra l’altro, un sistema di notazione che – all’opposto di quanto richiesto da un sistema alfabetico di scrittura –, non passi attraverso una specifica lingua, configurandosi piuttosto come «semasiografia» (Gelb: 1952 [1993], 266) o «ideografia», secondo l’autore della svolta formalizzante, Gottlob Frege2. Come dimostra la storia antica e meno antica della grammatica, lo statuto non formale dell’epistemologia platonica basata sul «primo discorso» ha permesso che si confondessse il criterio metodologico, espresso nella forma del proˆtos lo´gos, con la forma-base, canonica, degli enunciati verbali; e che si vedesse nell’esigenza epistemologica di determinare qualitativamente (semaı´nein) gli oggetti delle indagini scientifiche il requisito fisso di ogni entita` linguisticoverbale (e, viceversa: che si concepisse il «senso» delle entita` linguistico-verbali come «determinazione qualitativa»). 5. La convinzione, invalsa in anni recenti, che il pensiero antico sulle categorie sia metalinguistico perche´ ha alle spalle la scrittura, che avrebbe reso visibile il linguaggio quale oggetto d’analisi, fa convergere in uno stesso dominio nozioni di fatto eterogenee. Il piano fenomenico linguistico unitario e` ignoto agli antichi. Dalle loro osservazioni emerge la variabilita` della fenomenologia di riferimento dipendente dalla diversita` delle ricerche e dei loro obiettivi. D’altra parte, l’introduzione della scrittura richiede lo sfruttamento della capacita` epilinguistica. E` senza dubbio l’antecedente 2

La svolta formalista della logica permette anche lo sviluppo di un punto di vista effettivamente metalinguistico, cioe` di una «linguistica scientifica» basata su procedure molto diverse da quelle realizzate dallo sfruttamento della capacita` epilinguistica. Perche´ si abbia un punto di vista propriamente metalinguistico e` necessario che il linguaggio sia preso ad oggetto di una procedura d’analisi la quale non sia, a sua volta, un pezzo del linguaggio sotto analisi. In questo senso vanno le riflessioni di Ferdinand de Saussure su nozioni formali quali «valore», «sintagmaticita`», «paradigmaticita`», «langue» ecc., sviluppate esattamente negli stessi anni delle trasformazioni della logica. Il punto di vista metalinguistico richiede, in breve, la costituzione esplicita di un codice «ideografico», ossia di un sistema formale per l’analisi.

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del successivo sfruttamento platonico della stessa capacita`. Ma l’epilinguistico permette la scrittura, non anche l’«oggettivazione del linguaggio»: la consapevolezza epilinguistica riguarda sempre l’attivita` verbale in contesto, ossia parcellizzata e funzionale a scopi determinati non metalinguistici (analisi di suoni vocali, da riportare a medie matematiche, come ogni altro tipo di suono; analisi di contenuti di conoscenze specifiche veicolabili da strutture valutabili quale il «discorso piu` breve», ecc.). Una rivisitazione della tradizione delle «categorie» logico-grammaticali rispettosa dei dati storiografici permette, ci sembra, di riflettere su un tema teorico importante quale la distanza fenomenica e teorica tra la ricerca metalinguistica sulle proprieta` del linguaggio verbale, da un lato, e la ricerca sulle realizzazioni storiche della riflessione epilinguistica.

Acquisire parole, acquisire saperi. Riflessioni su alcune pagine di Agostino di Grazia Basile

1. Agostino, Wittgenstein e l’acquisizione del linguaggio Negli studi sull’acquisizione del linguaggio si fa spesso riferimento a un noto passo di Agostino contenuto ne Le confessioni (I, VIII – tr. it. 1974; 19957: 60-61), opera scritta tra il 397 e il 401, in cui – molto schematicamente – il bambino sarebbe impegnato ad ascoltare cio` che dicono i gli adulti attorno a lui fino a realizzare dentro di se´ che la parola da lui ascoltata sta per la cosa, l’oggetto indicato da coloro che lo circondano. Il bambino avrebbe un ruolo sostanzialmente passivo, per cui inizialmente ascolterebbe cio` che viene detto intorno a lui, in un secondo momento immaginerebbe, farebbe delle ipotesi su cio` che significano i vocaboli che via via ascolta, e solo successivamente collegherebbe le parole l’una con l’altra fino a formare delle frasi e a farsi cosı` intendere dagli altri membri della comunita` linguistica di cui fa parte. Al modello agostiniano si opporrebbe quello di L. Wittgenstein per il quale il significato delle parole non puo` essere conosciuto al di fuori del contesto in cui esse sono usate (cfr. Kaye: 1987, 37-38). Wittgenstein introduce la nozione di forma di vita (Lebensform) per sostituire alla prospettiva logicizzante del Tractatus logicophilosophicus, tesa a fornire dall’alto una teoria generale sulle condizioni di possibilita` del linguaggio, un punto di vista, per dir cosı`, antropologico rivolto dal basso sugli stessi temi (cfr. Voltolini: 1998

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e 20002, 4), per cui il linguaggio e` legato necessariamente a una prassi concreta, di cui le singole parole sono parte integrante e in cui i parlanti non sono mai spettatori, ma attori coinvolti in ogni momento in tale prassi intersoggettivamente condivisa. Agostino e` chiamato in causa proprio da Wittgenstein nel paragrafo di apertura delle Ricerche filosofiche, in cui la citazione tratta dal capitolo ottavo del Libro I de Le confessioni e` assunta come esempio di una teoria referenzialista del significato e dunque – nello spirito del secondo Wittgenstein – come paradigma del suo «vecchio modo di pensare» e dei «gravi errori» da lui commessi nel Tractatus (cfr. la prefazione di Wittgenstein alle Ricerche filosofiche, 1953; trad. it. 1974: 4). Tale citazione di Agostino serve, insomma, al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche come spunto esemplare per respingere l’atteggiamento teorico di cui egli stesso si era fatto sostenitore nel Tractatus. Nel Tractatus – come si sa – le proposizioni linguistiche sono delle immagini, dei semplici rispecchiamenti dei fatti che esse descrivono: «Un nome sta per una cosa, un altro per un’altra cosa e sono connessi tra loro: cosı` il tutto presenta [...] lo stato di cose» (Tractatus 4.0311 – ed. it. 1964: 24). In uno stato di cose gli oggetti sono connessi tra loro, «ineriscono l’uno nell’altro, come le maglie di una catena» (Tractatus 2.03 – ed. it. 1964: 8), si presentano insomma come un tutto determinato e proprio tale determinatezza e` la condizione per cui una proposizione abbia un senso. Una delle tesi fondamentali della prima opera di Wittgenstein e` che il linguaggio consiste fondamentalmente di nomi e che tutte le parole propriamente dette da un punto di vista semantico funzionano allo stesso modo, cioe` come nomi di oggetti. Agli inizi degli anni Trenta, tuttavia, questa idea della semantica lessicale e del linguaggio inteso come rigida struttura denominativa inizia a sembrare allo stesso Wittgenstein troppo riduttiva (cfr. Marconi: 1997 e 2002, 85) tanto che, a partire dal 1929, la sua critica all’impostazione data nel Tractatus alla riflessione sul linguaggio si fa sempre piu` articolata. Nella Grammatica filosofica (composta tra il 1929 e il 1934) Wittgenstein, con toni che ricordano l’incipit delle Ricerche filosofiche, afferma:

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Quando parla dell’apprendimento del linguaggio, Agostino parla soltanto del modo in cui assegnamo nomi alle cose o capiamo i nomi delle cose. Qui il denominare sembra il fondamento, l’alfa e l’omega del linguaggio [corsivo nel testo] (Wittgenstein: 1969; trad. it. 1990: §19, 22).

E` sulla base di queste premesse, insomma, che Wittgenstein apre le Ricerche filosofiche criticando un certo modo di funzionare del linguaggio, definito primitivo e semplificato, e attribuendone la paternita` ad Agostino. Il tipo di linguaggio descritto da Agostino sarebbe quello esemplificato dall’impiego delle quattro parole mattone, pilastro, lastra e trave (v. Wittgenstein: 1953; trad. it. 1974: §2, 9): e` un linguaggio che serve alla comunicazione tra un muratore e il suo aiutante, dove la parola e` cosı` strettamente legata all’azione che e` difficile concepirle l’una indipendentemente dall’altra, per cui quando il muratore dice, ad esempio, lastra, il suo aiutante gli porge una lastra, quando dice mattone gli porge un mattone e cosı` via. Il problema di Wittgenstein e` che «Agostino descrive [...] un sistema di comunicazione; solo che non tutto cio` che chiamiamo linguaggio `e questo sistema [corsivi nostri]» (Wittgenstein: 1953; trad. it. 1974: §3, 10-11). L’intento del filosofo austriaco diventa subito chiaro nel momento in cui introduce il paragone con il caso dei giochi (v. Wittgenstein: 1953; trad. it. 1974: §3, 11). Come i giochi fatti sulla scacchiera sono solo una piccola parte dei possibili giochi, cosı` la situazione – per dir cosı` – di addestramento descritta da Agostino, in cui il bambino che impara a parlare avrebbe per lo piu` un ruolo da spettatore e in cui: l’insegnante indica al bambino determinati oggetti, dirige la sua attenzione su di essi e pronuncia, al tempo stesso, una parola; ad esempio pronuncia la parola «lastra», e intanto gli mostra un oggetto di questa forma (Wittgenstein: 1953; trad. it. 1974: §6, 12).

e` uno dei tanti giochi possibili, uno dei tanti possibili modi di usare le parole, insomma una delle tante possibilita` di far funzionare il linguaggio (cfr. Caselli: 1995, 242). Le parole non hanno come unico scopo, come nel caso descritto da Wittgenstein, quello

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di designare oggetti, ma la designazione di oggetti e` solo uno dei possibili scopi delle parole da noi usate. Il significato delle parole non consiste nel cogliere o comprendere con un atto mentale degli enti a cui esse potrebbero essere associate, ma viene a coincidere con l’uso che di esse viene fatto in un determinato contesto di attivita`. Non a caso, l’espressione gioco linguistico nelle Ricerche filosofiche e` associata fin dalle sue prime occorrenze, con forma di vita (Lebensform – v. Wittgenstein: 1953; trad. it. 1974: §23, 21). Il linguaggio non puo` essere pensato in astratto, ma e` indissolubilmente legato alle sue condizioni di uso, alle forme di vita al punto che «immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita» (Wittgenstein: 1953; trad. it. 1974: §19, 17). Le forme di vita non si imparano, ma sono cio` a partire da cui lo specifico apprendimento umano e` possibile e questa `e anche la tesi di Agostino (cfr. Lo Piparo: 1994, XXV). Il noto passo agostiniano de Le confessioni, citato da Wittgenstein come esempio della teoria referenzialista del significato, puo` essere dunque riletto – a nostro parere – da un diverso punto di vista, ossia considerando tutti gli elementi che entrano in gioco nel processo di acquisizione della lingua materna, in quel complesso insieme di attivita` in cui si trovano immersi sia i bambini fin dalla nascita che gli adulti. Sia Wittgenstein che Agostino sembrerebbero partire proprio dalle forme di vita e dalle interazioni di tipo pragmatico tra gli individui (sia adulti che bambini), e su questa base si innesterebbe il linguaggio vero e proprio.

2. Agostino: verso una concezione pragmatica dell’acquisizione del linguaggio A questo proposito prendiamo spunto da quanto sostiene Lia Formigari nel capitolo Storia naturale della parola (Formigari: 2001) riguardo al famoso passo de Le confessioni agostiniane che, secondo la studiosa, puo` essere letto:

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in chiave “epicurea”, come manifesto di una teoria pragmatica dell’acquisizione della parola, che parte dall’espressione elementare delle emozioni e sentimenti per arrivare alla complessita` comunicativa della vitae humanae procellosa societas (Formigari: 2001, 66).

Formigari, nella sua discussione sul naturalismo, parte dalla natura della parola considerata come «parte inalienabile della costituzione biologica e della vicenda filo- e ontogenetica dell’uomo» (Formigari: 2001, 62), in un’ottica in cui la contrapposizione tra istinto e apprendimento, tra natura e convenzione non si pone mai in maniera davvero radicale, semmai storia e natura vanno di pari passo (cfr. Formigari: 2001, 64). A partire da Aristotele, ma soprattutto con Epicuro e Lucrezio, viene sostenuta l’unita` inscindibile della naturalita` del linguaggio connessa alle necessita` dell’uso comune, al fatto che ogni creatura umana – per riprendere la nota definizione aristotelica dell’uomo come zoˆon politiko´n (cfr. Aristotele: Pol., 1253a 1-5; trad. it. 1993; 20026: 6) – e` un essere vivente sociale o comunitario che per essere tale deve necessariamente interagire e dialogare con i propri simili nella sua comunita` e per far questo ha bisogno delle parole (cfr. De Mauro: 2002, 31). Come afferma Epicuro nella Lettera a Erodoto, riportata da Diogene Laerzio (1991: §76, 425), il linguaggio e` parte della specifica natura degli uomini, ma tra l’iniziale stadio naturalistico del linguaggio e quello fondato sugli accordi e sulla convenzione non c’e` uno iato, bensı` una continuita` sostanziale. Non si puo` dunque mai parlare di linguaggio privato, e dunque: la parola non e` concepita mai, neppure nella sua fase «naturale», come pura espressione di stati soggettivi e privati, ma nasce fin dall’inizio ordinata alla sua funzione comunicativa (Formigari: 2001, 65).

E` sullo sfondo di queste riflessioni epicuree che possiamo non solo rileggere il passo agostiniano de Le confessioni, ma inserirlo in un contesto piu` ampio di riflessioni sulla natura generale del linguaggio, delle lingue e dei sistemi semiotici che trova in Agostino uno dei suoi piu` sensibili indagatori.

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3. Che cosa acquisiamo quando acquisiamo le parole Alla base delle riflessioni di Agostino sul linguaggio c’e` una concezione fortemente teolinguistica (cfr. Lo Piparo: 1994, XVIII sgg.), per cui Dio si manifesta nel e tramite il linguaggio. Dio e` la Verita` interiore o il Maestro interiore che da` agli uomini tutte le conoscenze possibili, che ci illumina e ci istruisce. Per spiegare la conoscenza Agostino respinge qualsiasi forma di innatismo e al tempo stesso respinge l’ipotesi che il linguaggio sia una dote che fa parte del corredo bio-psicologico dell’essere umano e che e` pronta a svilupparsi (cfr. Vecchio: 1994, 117). All’interno di questa concezione teocentrica della conoscenza il linguaggio si configura come una capacita` che si apprende per via imitativa, o meglio cio` che si apprende e` l’esistenza di «un sistema gia` dato di corrispondenze tra il piano del contenuto semantico e il piano dell’espressione fonica quale sua veicolazione principale ma non esclusiva» (Vecchio: 1994, 117). Fin dai primi istanti della nostra esistenza facciamo esperienza di un primissimo livello di semiosi, ossia fissiamo la nostra attenzione su qualcosa, ci indirizziamo verso qualcosa che desta la nostra attenzione. In tal modo tentiamo di dare una forma, di porre delle delimitazioni all’interno della serie di fenomeni che ci si presentano dinanzi, e, piu` in generale, all’interno di quella che L. Hjelmslev aveva chiamato la materia del contenuto, dunque a livello di tutto cio` che e` pensabile, esprimibile e dicibile (cfr. Hjelmslev: 1943; trad. it. 1968: 57). Il piano della materia del contenuto e` il luogo a partire dal quale gli esseri umani, singolarmente e con i loro simili, danno vita e organizzazione ai loro sistemi di conoscenze. La nostra ipotesi e` che tali operazioni semiotiche di base, i vari modi in cui diamo forma alla materia del contenuto siano da collocare in una prospettiva di tipo semiotico-evolutivo che ponga al centro delle proprie considerazioni gli esseri umani, i parlanti delle lingue storico-naturali, l’ambiente socio-biologico in cui essi si trovano ad operare, le interazioni con la realta` circostante in cui siamo immersi fin dai primi istanti della nostra vita e tutto il bagaglio di conoscenze e di saperi gia` acquisiti e da acquisire (cfr.

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Basile: 2001, 18). Come aveva sottolineato E. Cassirer nel suo Saggio sull’uomo, il produrre/fruire di segni e significazioni e` connaturato alla condizione specie-specifica del soggetto umano, concepito quale animale simbolico-culturale. L’uomo condivide sı` con le altre specie animali il sistema ricettivo e quello reattivo, ma tipico dell’animale umano e` un terzo sistema che Cassirer chiama «sistema simbolico, l’apparizione del quale trasforma tutta la sua situazione esistenziale» (Cassirer: 1944; trad. it., 1968, ed. 2000: 79), al punto che «invece di definire l’uomo come un animal rationale si dovrebbe dunque definirlo come un animal symbolicum» (Cassirer: 1944; trad. it., 1968, ed. 2000: 80-81). Esiste, insomma, una capacita` semiotica primaria ed essenziale per l’esplicarsi di qualsiasi attivita` umana e il linguaggio verbale e` soltanto una delle possibili realizzazioni di essa (cfr. Vecchio: 1994, 117). Tutto cio` era ben presente ad Agostino, il quale, a partire dal celebre passo dell’ottavo capitolo del I libro de Le confessioni, intende l’acquisizione del linguaggio proprio in questo senso. Gia` nel sesto capitolo del I Libro de Le confessioni intitolato Le tenebre dell’infanzia Agostino descrive la situazione iniziale del bambino appena nato, che, in quanto tale, si trova ad essere totalmente dipendente dagli stimoli esterni e privo di qualsiasi forma di coscienza (cfr. Agostino: Le confessioni, I, VI; trad. it. 1974; 19957: 57). I bambini piccoli sono completamente in balı`a della loro corporeita` e desiderano o respingono, come sostiene Agostino nel De Trinitate, solamente cio` che riguarda il loro corpo (cfr. Agostino: De Trinitate, 14, 5, 7; trad. it. 1998: 440). La situazione descritta e` quella dell’infanzia intesa del senso etimologico del termine, ossia come incapacita` di parlare. Il momento successivo e` quello in cui il bambino comincia a prendere coscienza del luogo in cui si trova e dell’esistenza di altri individui a lui simili: Ed ecco sorgere a poco a poco la percezione del luogo in cui mi trovavo, il bisogno di far conoscere le mie volonta` a coloro che avrebbero dovuto eseguirle [...]. Violenti moti di membra, strilli

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acuti erano le manifestazioni corrispondenti ai miei voleri, poche e insufficienti (Agostino: Le confessioni, I, VI; trad. it. 1974; 19957: 57).

Il bambino comincia, insomma, a prendere coscienza dell’esistenza di se´ e degli altri e manifesta la propria volonta` di comunicare attraverso i mezzi espressivi che ha a disposizione, che pero` non gli vengono dall’addestramento degli adulti, ma direttamente dalle capacita` cognitive fornitegli da Dio: Non mi venivano insegnate dalle persone anziane le parole in un determinato ordine logico, come in seguito per le lettere dell’alfabeto; ma io, da me, con l’intelligenza di cui mi hai dotato Tu, o mio Dio, con piagnucolii, con varie voci, con diversi movimenti delle membra avrei voluto esternare i sentimenti interiori per essere obbedito, ma non riuscivo a tutto cio` che volevo, ne´ con tutti (Agostino: Le confessioni, I, VIII; trad. it. 1974; 19957: 61).

Attraverso gesti, espressioni di pianto e strilli il bambino comincia a stabilire una prima comunicazione con le persone che lo circondano e in questo modo si creano le condizioni perche´ da infans diventi puer loquens. La comunicazione viene dunque prima del linguaggio e il bambino sviluppa le proprie competenze linguistiche a partire da un situazione di comunicazione nella quale sono presenti – per dir cosı` – delle competenze comunicative di tipo prelinguistico. Il bambino – potremmo dire – impara a parlare attraverso tentativi ripetuti di comunicazione: il desiderio, la voglia di comunicare e di entrare in contatto col mondo degli adulti sono talmente forti che costituiscono una sorta di motore dell’apprendimento linguistico (cfr. Anolli: 1998, 281). Esiste dunque una sostanziale e profonda continuita` tra la fase prelinguistica e la fase linguistica, per cui da forme comunicative puramente biologiche e con un alto valore di sopravvivenza (come il pianto), il bambino passa all’uso di segnali che, pur essendo usati spontaneamente in ogni comunita` sociale, di fatto esprimono gia` una sorta di convenzione comunicativa (ad esempio l’indicare con il dito). Come sostiene Agostino:

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Mi si imprimeva nella memoria il suono con cui indicavano qualche cosa e i movimenti del corpo corrispondenti a quel suono: vedevo e capivo che cosı` essi chiamavano una cosa quando volevano indicarla. E che questo fosse il loro scopo appariva dal movimento del corpo, come da un linguaggio connaturale a tutti, che risulta dal volto, dal variar dello sguardo, dal gesticolare, dal tono della voce: cose tutte che rivelano i sentimenti dell’animo nel chiedere, nel possedere, nel rifiutare, nel rifuggire (Agostino: Le confessioni, I, VIII; trad. it. 1974; 19957: 61).

In questo passo troviamo un’integrazione tra alcuni aspetti tipici della comunicazione verbale («il suono con cui indicavano qualche cosa») e altri tipici della comunicazione non verbale («i movimenti del corpo corrispondenti a quel suono», il «variar dello sguardo», e poi il gesto di indicare, le espressioni del viso, il gesticolare, il tono della voce). Insomma, la dimensione cinetica sembra naturalmente e profondamente integrata con quella linguistica in un comune contesto di interazione e di acquisizione. L’acquisizione del significato delle parole e` dunque ben lungi dall’essere un processo che si realizza ex abrupto, senza far riferimento alle esperienze, alle pratiche, alle abitudini che caratterizzano la piu` generale competenza comunicativa, insomma alle Lebensformen di Wittgenstein. Lo stesso gesto deittico di indicare gli oggetti e pronunciare contemporaneamente il loro nome, tipico del procedimento ostensivo e oggetto di critica da parte di Wittgenstein nel primo paragrafo delle Ricerche filosofiche (cfr. supra, §1), va riletto come uno dei tanti possibili giochi, come un aspetto del piu` complesso processo di acquisizione del linguaggio. A partire dalle Lebensformen, che costituiscono una sorta di sfondo comune e intersoggettivamente condiviso, in cui si collocano sia i concetti pre-linguistici, sia le forme di comunicazione tra bambini e adulti (compresi dunque anche i significati linguistici veri e propri), sia le pratiche di interazione sociale tra gli individui, uno dei primi giochi di rilievo da un punto di vista semiotico ed evolutivo e` proprio quello che si concretizza, nel periodo che va dai nove ai dodici mesi, nel gesto di indicare. Il bambino a poco a poco impara che lo scopo dell’indicare non e` mostrare il dito che

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indica, bensı` cio` che si vede seguendo la direzione del dito. L’acquisizione di questa abilita` e` molto importante nello sviluppo linguistico, al punto che sembrerebbe che i bambini che indicano prima siano poi i primi a imparare a parlare (cfr. Michnick Golinkoff-Hirsch-Pasek: 1999; trad. it. 2001: 107). In questo gioco sono presenti due elementi molto importanti: la consapevolezza dell’esistenza di un mondo di oggetti, di esseri animati e di eventi e la cosiddetta co-orientazione dello sguardo, per mezzo della quale il bambino e l’adulto si riferiscono e indicano il medesimo oggetto (cfr. Anolli: 1998, 285). Nel momento in cui i bambini acquisiscono la credenza che esista un mondo che va oltre il loro corpo e che questo mondo e` lo stesso mondo di cui fanno esperienza altre persone (dunque nel momento in cui acquisiscono, sia pure in forma embrionale, il concetto di referenza), acquisiscono anche la consapevolezza dell’esistenza di altre persone (e dunque di altre menti) che possono condividere esperienze analoghe nei confronti di una stessa realta`. La condivisione dell’attenzione, che sta a fondamento dell’intersoggettivita` , e` dunque un fattore importantissimo nel processo di acquisizione e sviluppo del linguaggio. Tali scambi e transazioni rivelano i primi tratti di intenzionalita`, le prime manifestazioni di intenzioni comunicative. Queste prime abilita` comunicative, in particolare la capacita` di additare le cose e la capacita` di seguire lo sguardo altrui, sono gia` presenti prima dello sviluppo del linguaggio vero e proprio e suggeriscono che il bambino deve possedere una qualche predisposizione prelinguistica che lo aiutera` poi a conseguire una referenza di tipo linguistico (cfr. Bruner: 1986; trad. it. 1998: 79 e Bruner: 1990; trad. it. 1992, rist. 2000: 76-77). Nel momento in cui il bambino prelinguistico comincia a seguire lo sguardo dell’altro e quindi ad attribuire delle intenzioni comunicative a gesti e a suoni da parte degli adulti si crea un’interazione di tipo pragmatico tra gli individui (sia adulti che bambini), a partire dalla quale prendera` poi forma il linguaggio vero e proprio. All’interno di questo gioco, di questa interazione continua tra bambino e adulto si fissano i primi nomi, intesi come risultato, come fase finale del processo di condivisione

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dell’attenzione che era iniziato con la co-orientazione degli sguardi ed era proceduto poi con la comparsa di gesti deittici, prima indifferenziati e poi via via sempre piu` precisi e puntuali (v. Anolli: 1998, 289). I primi nomi, le prime denominazioni sono inoltre la conferma di un altro momento importante nel processo di acquisizione del linguaggio da parte del bambino, ossia del fatto che in tal modo il bambino inizia a fare le prime ipotesi di semanticita`, e dunque a ipotizzare che i suoni che ascolta abbiano un significato e un riferimento alle cose, che debbano insomma significare qualcosa. I bambini, cosı` come gli adulti, iniziano a fare inferenze e dunque a risolvere i primi problemi (seguendo la strategia del problem solving) e poi, grazie al linguaggio, entrano a far parte di un sistema di conoscenze condivise e comunicabili (v. Benelli: 1989, 8). L’acquisizione del linguaggio rientra cosı` nell’ambito delle procedure di apprendimento e di scoperta cosiddette per tentativi-ed-errori, in quanto sia il bambino che l’adulto giungono ad appropriarsi dei nomi degli oggetti individuando delle regolarita`, formulando delle ipotesi, verificando la loro adeguatezza grazie al confronto con gli usi linguistici del mondo degli adulti, fino a che non si appropriano dei significati delle varie parole socialmente condivise (cfr. Benelli et al.: 1980, 284-285). Questo momento – definito da Sebastiano Vecchio come il momento dell’acquisizione piena della sistematicita` e della socialita` (cfr. Vecchio: 1994, 118) – e` ben descritto da Agostino nel capoverso finale del capitolo ottavo del Libro I de Le confessioni. Afferma infatti Agostino: Cosı` venivo a poco a poco collegando le parole ripetute in varie espressioni e spesso udite con le cose da esse significate, e la bocca gia` si piegava a manifestare con esse i miei desideri: e cosı` cominciai a trasmettere a coloro tra i quali vivevo i segni rivelatori della volonta` e procedetti oltre nella comunanza procellosa della vita umana, sottomesso all’autorita` dei genitori e alla volonta` dei piu` anziani (Agostino: Le confessioni, I, VIII; trad. it. 1974; 19957: 61).

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Il bambino giunge cosı` a rappresentarsi nella mente oggetti, azioni ed eventi e ad usare il codice linguistico socialmente condiviso dalla comunita` linguistica di cui fa parte per comunicare con i suoi simili e l’esistenza di tale codice e` la condizione di possibilita` perche´ ci sia significazione e dunque comunicazione tra gli esseri umani. Agostino sintetizza cosı` – a nostro parere – due istanze costitutive del linguaggio umano, quella legata alla significazione e quella legata alla comunicazione.

4. A proposito di comunicazione, comprensione e significazione Ogni processo di comunicazione tra esseri umani presuppone un sistema di significazione come propria condizione necessaria, per cui non si da` comunicazione se non si da` significazione e viceversa. Come aveva ben intuito Agostino, perche´ esistano dei segni e` necessario che vi sia una comunita` di soggetti che dia vita e interpretazione a tali segni. Questo carattere essenzialmente pubblico e interpersonale del linguaggio e` espresso con chiarezza dal vescovo di Ippona, ad esempio, nel De Trinitate. Egli riconosce infatti, nel linguaggio, «la bellezza di una scienza che racchiude la conoscenza di tutti i segni» e «l’utilita` di un’arte che permette agli uomini uniti in societa` di comunicarsi tra loro i propri pensieri» (Agostino: De Trinitate, 10, 1, 2; trad. it. 1998: 305). In questo quadro umanita` e societa` si costituiscono ed esistono solo in quanto si stabiliscono rapporti di significazione e processi di comunicazione: ogni processo di comunicazione poggia su un sistema di significazione e viceversa. Perche´ si creino le condizioni sufficienti a produrre significazione, perche´ ci sia produzione linguistica e` necessario porci dal punto di vista del soggetto parlante, in una situazione di produzione segnica in cui ci sia intenzionalita`, nel senso di capacita` e volonta` del soggetto umano di produrre segni intenzionali. A questo proposito ci rifacciamo alla dottrina semiologica di Agostino, il quale distingue, da una parte, i segni cosiddetti naturali che non dipendono dalle intenzioni dell’anima (per esempio il fumo

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come segno del fuoco), e, dall’altra, invece, i segni che l’anima si da` (cfr. Agostino: De doctrina christiana, Libro II, I, 1, 10-15 e II, 3, 1-10; trad. it. 1994: 75 e 77). Nel primo caso A (in questo caso il fumo) e` segno di B (il fuoco), nel secondo caso A e` segno di B per C, dove C e` un soggetto umano. I contenuti delle rappresentazioni trovano dunque la loro ragion d’essere e la loro determinazione solo in quanto sono tali per un soggetto, per una mente umana. Il mondo che ci circonda e` costituito di cose e di segni, e noi conosciamo le cose tramite i segni («Ogni insegnamento ha come oggetto cose o segni: ma le cose si apprendono per mezzo di segni» – Agostino: De doctrina christiana, Libro I, II, 2; trad. it. 1994: 21). Per Agostino il segno non ha il potere empirico di indicare qualcosa di separato da se´ e la sua carica espressiva puo` essere colta solo dal pensiero: il segno – per dir cosı` – fa pensare qualcosa d’altro da se´ (cfr. Alici: 1976, 18). Il segno insomma ha un carattere – potremmo dire – strumentale, per cui «chiama le cose ed invoca la persona» (Alici: 1976, 18). Nel De Magistro, del resto, Agostino aveva detto chiaramente che il segno linguistico risulta dalla combinazione di due elementi, il suono e il significato (cfr. Agostino: De Magistro, XII, 40; trad. it. 1993: 137-139). Ma mentre il primo, la parte – diremmo oggi – significante puo` esser colta in una dimensione di immediata fisicita`, per comprendere il significato dobbiamo far appello alla persona e al suo patrimonio di conoscenze. Insomma la decodificazione, la comprensione del messaggio linguistico non e` risolvibile in un semplice processo di registrazione sonora, ma deve necessariamente comportare «evocazione e stimolo di un’autonoma esperienza personale, sintonizzata sulla stessa onda semantica indicata dal segno» (Alici: 1976, 142). A questo punto siamo decisamente lontani da un’interpretazione del linguaggio rigidamente denominativa quale quella che Wittgenstein aveva attribuito a Agostino, in quanto non sono chiamate in causa soltanto «attitudini sensoriali ed abilita` tecniche, ma anche un principio spirituale della persona» (Alici: 1976, 143). Inoltre, il fatto che i segni (almeno quelli intenzionali) sono tali se e solo se esiste un soggetto umano che li produce, costituisce il

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punto di partenza per comprendere tutti gli altri elementi che entrano in gioco nel processo di comprensione e di significazione. In particolare, la ricerca e la costruzione dei significati relativi alla realta` che ci circonda cosı` come al nostro stare nel mondo avvengono – richiamandoci a Jerome Bruner – in un contesto di negoziazione sociale e di attitudine ermeneutica e conversazionale, legate alla necessita` di dare senso al mondo (cfr. Scaratti-Grazzani Gavazzi: 1998, 296). Sia la comunicazione che la comprensione di un enunciato sono possibili a partire dalla preliminare esistenza di meccanismi interazionali e sociali: la comprensione, infatti, anche quando sembrerebbe riguardare abilita` specifiche dei singoli individui, in realta` presuppone sempre una comunicazione, una comunione di esperienze, conoscenze ecc. condivise dagli esseri umani che, in quanto tali, interagiscono necessariamente tra loro.

5. Conclusioni. Verso il costituirsi di una comunita` linguistica Se un certo livello di semiosi e` ascrivibile anche agli animali non umani, gli esseri umani, in piu`, sono esseri semiotici, ossia individui capaci – per dir cosı` – di una semiotica cosciente come riflessione sulla semiosi in cui sono inseriti (cfr. Vecchio: 1994, 123). Perche´ ci possa essere una semiosi tipicamente umana, dunque, e` necessario che ci sia una comunita` di soggetti che stabilisca e rispetti le regole d’uso dei segni dati. Insomma, perche´ una res sia signum di un’altra res e` necessario che vi sia un soggetto che sia a conoscenza del rapporto semiotico che le lega e che quindi sia in grado di interpretare la prima capace di evocare la seconda (cfr. Simone: 1969; ora in 1992, 77). Il segno non esiste di per se´, ma – come aveva sostenuto Agostino nel De doctrina christiana – diviene tale solo in quanto ci sono dei soggetti che lo riconoscono come tale, e che, in quanto facenti parte di una comunita` linguistica, sono in grado di identificare la cosa di cui esso e` segno. Un segno si caratterizza dunque come viable, come capace di vita non soltanto sulla base della sua sostituibilita` con qualcos’altro (secondo il principio dell’aliquid quid stat pro aliquo formulato in se-

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guito dalla Scolastica), ma a condizione che vi sia una interpretazione, un riformulazione da parte di un soggetto umano dotato del suo patrimonio di conoscenze. Agostino esprime con molta chiarezza questo punto nel De Trinitate: E cosı` pure se qualcuno ode un segno che gli e` sconosciuto, per esempio il suono di una parola, di cui ignora il significato, desidera conoscerlo, cioe` desidera sapere quale idea evoca questo suono; se, per esempio, ode pronunciare la parola temetum, poiche´ ignora tale parola, ne cerca il senso. Ma e` necessario che sappia gia` che e` un segno, cioe` che quella parola non e` un suono vuoto, ma un suono che significa qualcosa, altrimenti questo trisillabo e` gia` conosciuto e per mezzo del senso dell’udito e` stato impresso nell’anima il modo di articolarlo (Agostino: De Trinitate, 10, 1, 2; trad. it. 1998: 304).

In questo passo emerge la natura specificamente semiotica dell’essere umano, il quale prima di interrogarsi sul significato di temetum (“vino non diluito”), deve prima aver riconosciuto tale parola come segno, deve sapere gia` che e` un segno, un suono che significa qualcosa (cfr. Agostino: De Trinitate, 10, 1, 2; trad. it. 1998: 304). Come sostiene Formigari, nel De Trinitate Agostino fa un passo avanti rispetto a Le confessioni e arricchisce il paradigma naturalistico che aveva ripreso dalla tradizione classica (cfr. Formigari: 2001, 66). Se nel passo citato de Le confessioni si presuppone che chi impara a parlare faccia uso dell’osservazione e dell’esercizio dei naturali meccanismi dell’inferenza, nel De Trinitate l’apprendimento linguistico, l’interrogarsi sul significato delle parole presuppongono invece l’esistenza nella mente di una sorta di pre-conoscenza, di una qualche precognizione che ci faccia da bussola quando ci interroghiamo sul senso dei segni linguistici (cfr. Formigari: 2001, 66-67). La conoscenza preliminare della segnicita` di fondo e il conseguente sapersi muovere tra segni costituiscono, insomma, la molla della nostra conoscenza, quale si manifesta a partire dalle piu` normali e quotidiane pratiche linguistiche, quali il domandare – come nel caso di temetum – il significato di una parola. Agostino, infine, aveva ben colto l’importanza del momento

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riflessivo, della capacita` degli esseri umani di interrogarsi sul significato delle parole nel processo di acquisizione del linguaggio come pure nelle pratiche linguistiche che caratterizzano tutta la nostra vita. In questo continuo interrogarsi possiamo rintracciare – sempre seguendo il filo dell’argomentazione di Formigari – un altro elemento innovatore del naturalismo agostiniano, ossia l’introduzione di un elemento etico come movente delle pratiche linguistiche (cfr. Formigari: 2001, 67). Infatti, gia` quando ci interroghiamo sul senso delle parole, in realta` lo facciamo intuendo le ragioni di un sapere che e` intersoggettivo e costitutivo della comunita` degli uomini, e vedendo: nella luce della verita` quale cosa grande e buona sia comprendere e parlare tutte le lingue di tutti i popoli e il non udirne nessuna come straniera e il non essere udito come straniero (Agostino: De Trinitate, 10, 1, 2; trad. it. 1998: 305).

Questo momento di riflessione sulle parole ha una valenza etica in quanto e` fondativo e costitutivo di una comunita` linguistica e delle interazioni tra gli esseri umani all’interno di essa. La condivisione di un codice e`, insomma, il terreno comune, la condizione di possibilita` perche´ vi sia comunicazione e condivisione di conoscenze ai piu` vari livelli.

Un motivo aristotelico e i suoi sviluppi nelle dottrine linguistiche di Dante e Varchi di Stefano Gensini

1. Che in Dante Alighieri e in Benedetto Varchi siano reperibili tracce cospicue di teorie linguistiche di Aristotele non e` circostanza che possa sorprendere alcuno: troppo noto e` il ruolo che l’opera dello Stagirita ha avuto nella formazione culturale di entrambi, e in particolare nella definizione del temario su cui vertono le rispettive analisi del linguaggio verbale (particolarmente nel De vulgari eloquentia e nell’Hercolano). Tuttavia, il testo aristotelico che qui evocheremo e di cui cercheremo di discutere l’utilizzazione e` meno conosciuto di altri – almeno in sede storico- e filosoficolinguistica – e, salvo errore, non e` stato finora indicato come possibile fonte dei due grandi letterati fiorentini. Si tratta del capi1 tolo nono del quarto libro di Historia animalium , un aureo saggetto di zoosemiotica comparata (per dirla con parole d’oggi) nel quale Aristotele, riprendendo e elaborando materiali della tradizione ip2 pocratica , pone a confronto le dotazioni anatomico-linguistiche degli umani e degli altri animali, introducendo una strategica distin1

Il testo aristotelico si puo` leggere nell’ed. e trad. di A. L. Peck (Aristotele: Hist. Anim.). Sul passo in questione, utilissime le note di commento apposte da J. Tricot alla sua trad. francese dell’opera (cfr. Aristotele: Hist. Anim. Tr., 262-68). Si veda inoltre l’ed. ital. di Diego Lanza a Mario Vegetti (Aristotele: Opp. Biol. ad locum). 2 In particolare di opere come il De carnibus e De morbo sacro, sulla cui rilevanza storica vd. le importanti pagine di Laspia (1997: 51 ss.). La prima formulazione della distinzione tra ‘voce’ e ‘voce articolata’ sembra pero` risalire a Omero (cfr. Laspia: 1996, 137).

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zione fra termini tecnici, destinati a assumere un ruolo rilevante nelle dottrine biologiche e naturalistiche, dalla tarda antichita` al3 meno fino agli inizi dell’eta` illuministica . I termini in gioco sono pso´phos (“suono”), phone´ (“voce”) e dia´lektos (“linguaggio articolato”). Essi consentono di fissare una gerarchia delle capacita` linguistiche nel mondo animale, strettamente correlata alla organizzazione corporea. Cosı`, prerequisito della voce e` la dotazione di un vero e proprio apparato fonatorio, segnatamente dei polmoni e della laringe; mentre si ha un linguaggio la` dove la voce prodotta da tali due organi e` soggetta a un’ulteriore modifica nel senso di una “articolazione” (dia´rthrosis) da parte della lingua (opportunamente “sciolta”, ovvero mobile) e delle labbra. In particolare i suoni vocalici sono il prodotto tipico della voce, mentre i suoni consonantici sono il prodotto di questo passaggio ulteriore. Cosı`, animali come i delfini e le rane possono essere considerati provvisti di voce, laddove altri come i pesci e gli insetti possono generare solamente suono, questi ultimi grazie all’attrito del “pneuma interno”. Quanto alla dia´lektos, essa e` tipica del piu` perfetto degli animali, l’uomo, ma non e` specifica di questo: si ritrova infatti, fino a un certo punto almeno, anche negli uccelli, che la natura ha dotato di importanti capacita` di articolazione e modulazione della voce. Aristotele aggiunge importanti osservazioni circa l’esistenza di varieta` locali di canto, anche all’interno della stessa specie di uccelli, come pure sul carattere non completamente innato di questo: si da` infatti il caso di pulcini che, separati dai genitori, hanno appreso un’altra forma di canto, e di femmine di usignuolo sorprese a insegnare a cantare ai loro piccoli. Si tratta di pagine enormemente suggestive, che non a caso hanno attirato l’attenzione degli studiosi di oggi, e nelle quali e` lecito vedere la geniale anticipazione di temi centrali della ricerca 4 semiotica moderna . Dobbiamo aggiungere che la trattazione di Aristotele non si 3 4

Per una prima documentazione di questo punto rimando a Gensini (2002-2003). Si vd. ad esempio il lavoro, un piccolo classico nel suo genere, di Mainardi (1988).

Un motivo aristotelico e i suoi sviluppi nelle dottrine linguistiche di Dante e Varchi

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ferma al versante anatomico-comportamentale della differenza fra voce e linguaggio articolato. In altre, piu` note, sue opere, dalla Politica al De anima, egli si interroga infatti sui correlati psicologici e mentali di tali caratteristiche, giungendo a graduare le dotazioni cognitive degli umani e degli altri animali. Nella Politica, come si ricordera`, e` spiegato che gli animali provvisti della voce possono, per il suo tramite, esprimere solo il sentimento del piacere e del dolore, mentre agli umani, cui compete lo´gos, possono esprimere cio` che e` giovevole e cio` che e` nocivo, e dunque assurgere a quella sfera morale che e` necessaria per la costituzione della fami5 glia e dello Stato . Nel De anima la questione e` spostata sul piano strettamente cognitivo. La pecularita` della voce e` posta nel fatto che essa venga prodotta meta` phantası´as tino´s, sia cioe` accompagnata da una rappresentazione mentale: non e` dunque mero suono, ma 6 pso´phos semantiko´s, suono dotato di senso , quale non si ritrova in specie animali inferiori, prive di voce, come la formica, l’ape o il 7 verme . Lo spazio cognitivo degli animali dotati di voce si situa dunque nell’anima sensitiva, cui corrisponde una forma sensibile di immaginazione; lo spazio cognitivo specifico degli umani si colloca invece nella facolta` dell’intelletto (anima intellettiva), donde dipende la capacita` di ragionamento. Di grande importanza e` che la nozione di anima sia coestensiva, nel suo risvolto meramente nutritivo, a tutto il mondo dei viventi (“tutti gli esseri che crescono e deperiscono”), mentre l’anima sensitiva forma un tessuto connet8 tivo fra gli umani e altre specie animali . E l’anima, in generale, non e` corpo, ma e` un qualcosa a esso necessariamente coordi9 nato .

La fase piu` recente della ricerca zoosemiotica, orientata verso i problemi della cognizione, e` ben rappresentata da Allen-Bekoff (1998). 5 Pol. 1253a, 10-18. 6 De an. II (B), 420b-421a. 7 De an. III (Γ), 428a, 10-11. 8 Si vd. De an. II (B), 413a-b, III (Γ),434a-b. 9 De an. II (B) 414a, 19-21 ([he psyche´] soˆma me`n ga`r ouk ´esti, so´matos de´ ti).

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2. La sommaria sintesi ora fatta di questi concetti aristotelici10 va tenuta presente accostandoci ai testi linguistici di Dante e Varchi. Diciamo subito che, mentre nel caso del secondo e` sicura una conoscenza diretta dei testi citati, nel caso dell’Alighieri il problema dell’accesso alle fonti aristoteliche si presenta ben piu` complesso: e` ben nota la difficolta` di ricostruire con qualche sicurezza la “biblioteca” del poeta, ed e` altresı` controverso quali canali indiretti di aristotelismo possano essere volta a volta evocati. Tuttavia non ci interessa solo, in questa sede, identificare la presenza ideale di un testo, ma anche e soprattutto osservare come esso si renda attivo nella filigrana del pensiero dei due autori moderni, sollecitando e, per dir cosı`, facendo reagire i diversi componenti che ne innervano l’opera linguistica. Cominciamo, dunque, con Dante11, e piu` esattamente con i §§ 1-3 del primo libro del De vulgari eloquentia, sovente “schiacciati”, nella considerazione dei critici, dalla rilevantissima sezione dedicata all’analisi della struttura dialettale della penisola e alla enucleazione delle caratteristiche del volgare illustre. In questa zona del testo il ragionamento sul linguaggio si svolge a un livello molto generale: non e` in gioco questo o quell’idioma (termine che in Dante pertiene al momento della prima particolarizzazione geostorica della facolta` linguistica), ma la locutio intesa come “linguaggio verbale”, declinabile ora come vulgaris ora come gramatica: la prima forma, indipendentemente dal modo in cui «in diversas prolationes et vocabula sit divisa», e` “naturale” agli esseri umani, in quanto appresa spontaneamente nella primissima infanzia, mentre la seconda, appannaggio di alcuni, come i Romani e i Greci, e` “artificiale” in quanto frutto di un’applicazione e di uno studio specifici. Bene ha

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Per una trattazione particolareggiata si rimanda ai lavori specialistici di Ax (1986), Laspia (1997), Lo Piparo (2003), cui largamente attingiamo. 11 Esula dagli obiettivi di queste note una disamina esaustiva della amplissima bibliografia esistente sul De vulgari eloquentia. Ci limitiamo pertanto a citare i lavori strettamente pertinenti al nostro tema.

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fatto il Tavoni12 a sottolineare la distribuzione non casuale, ne´ meramente legata a ragioni di variatio stilistica, di quest’uso di locutio, cui succede, a partire dal §4, ydioma e, soprattutto dal §10 in poi, lingua/vulgaris. E` un percorso dal generale al particolare, che ha per ipotetico punto d’arrivo – come viene annunciato alla fine del I libro del DVE – il volgare «quod unius solius familie proprium est», un tema che, lasciando incompiuta l’opera sua, l’Alighieri non arrivo` a trattare. Ora, la portata tecnica, diciamo pure semiologica, del termine locutio si coglie fino in fondo se si osserva che esso viene, nei §§ 1-2, correlato a, e insieme distinto dalla coppia vox e sonus. Infatti, dove Dante definisce per la prima volta la locutio vulgaris, spiega che si tratta del linguaggio appreso dagli infanti «cum primitus distinguere voces incipiunt» (I 2, 5; corsivo mio); poco oltre, dove si riportano quei casi surrogati di espressione linguistica che il mito riconosce al serpente di Eva o all’asina di Balaam, dice che «vox inde resultavit distincta tanquam vera locutio» (II 6, 5; corsivo mio). Dunque la locutio non e` meramente voce, ma voce “articolata”. Ne´ si tratta di una proprieta` relativa alla sola organizzazione fonetica, espressiva, della voce: e` in gioco anche una componente mentale, inseparabile dalla produzione linguistica. Se infatti si prende il caso delle gazze o di altri uccelli (come i pappagalli, spessissimo citati in questo genere di letteratura) che riescono a riprodurre parole, non siamo di fronte a locutio, ma a pura e semplice «quedam imitatio soni nostre vocis» (II 7, 6; corsivo mio). Il processo e` insomma squisitamente fisico, non importa un processo razionale13. Gazze e pappagalli ci imitano «in quantum sonamus, non in quantum loquimur» (II 7, 7-8). Dante e` dunque nettissimo nell’attribuire la locutio agli esseri umani e solo a essi; dalla locutio, insomma dalla 12 Cfr. Tavoni (1987), un lavoro molto importante ai nostri fini, dal quale e` discesa una complessa polemica critico-esegetica con l’ultimo editore del De vulgari, Mengaldo (1987). Il Tavoni ha ripreso e sviluppato ulteriormente le sue idee in Introd., che propone una stimolante lettura complessiva del De vulgari. 13 Una buona parafrasi di tale concetto nel commento di Marigo (1948: 11n., 16-17n.) che pero` non si pone il problema delle fonti relative.

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parola in quanto “linguaggio articolato” si differenziano la voce e il suono, che pertengono, secondo modalita` che lo scrittore non approfondisce, agli animali “inferiori”. La correlazione fra linguaggio articolato e presenza della ragione e` ribadita in un note14 vole passo del III libro del Convivio : E se alcuno volesse dire contra, dicendo che alcuno uccello parli, sı` come pare di certi, massimamente de la gazza e del pappagallo, e che alcuna bestia fa atti o vero reggimenti, sı` come pare de la scimia e d’alcuno altro, rispondo che non e` vero che parlino ne´ che abbiano reggimenti, pero` che non hanno ragione, da la quale queste cose convegnono procedere; ne´ e` in loro lo principio di queste operazioni, ne´ conoscono che sia cio`, ne´ intendono per quello alcuna cosa significare, ma solo quello che veggiono e odono ripresentare (Conv. III, 7, 8-9).

Molto intrigante e` l’insistita prospettiva “semiologica” del nostro autore: le forme di espressione degli uccelli o delle scimmie (simulacri di parole o movimenti del corpo) non sono ne´ linguaggio ne´ comportamenti fisici controllati, perche´ non sono intesi a significare (torneremo fra breve su questo termine) ma solo a rappresentare esperienze visive o uditive contingenti. La ragione fa da discrimine ai due tipi di processo, implicando un momento di consapevolezza per cosı` dire in itinere del fatto comunicativo («ne´ conoscono che sia cio`»). Riassumendo i risultati fin qui conseguiti, possiamo dunque dire che Dante riprende la triade terminologica di Aristotele (linguaggio articolato, voce, suono) valendosene per definire la specifi15 cita` linguistica degli umani rispetto agli altri animali . Il ricorso ai E` noto che la composizione di quest’opera largamente si sovrappone a quella ipotizzata per il De vulgari eloquentia. I primi tre trattati del Convivio risalirebbero al 1303-1304 (mentre il quarto al 1306-1309); il De vulgari (la cui stesura e` notoriamente annunciata nell’opera volgare) sarebbe stato avviato e steso fra il 1304 e il 1305 (Corti: 1992, 187). 15 Tralascio qui (rimandando in proposito a Gensini: 2005) la questione delle fonti utilizzate da Dante nel suo risalire alla distinzione aristotelica, limitandomi a segnalare che considerazioni di ordine terminologico suggeriscono di escludere un accesso diretto alla Historia animalium (reperibile al tempo nella versione latina di Guglielmo di 14

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due piani (linguistico e mentale) del ragionamento e` anch’esso, come sappiamo, autorizzato dai precedenti aristotelici, ma in questi testi si articola piu` precisamente intorno alla differenza fra quel che potremmo chiamare un “discorso manifesto”, che al limite puo` risolversi in mera imitazione degli aspetti fisici della voce, e un “discorso interiore”, il quale soltanto chiama in causa la ragione. La felice ambiguita` del termine greco lo´gos (che in molti testi aristotelici surroga e integra dia´lektos) e` qui sciolta nei suoi due componenti: quando Dante parla di ragione, e ne fa il distintivo dell’uomo, parla del risvolto mentale del lo´gos, presupposto interno, condizione di possibilita` della locutio (della dia´ lektos in senso stretto). Chi sia minimamente al corrente dei dibattiti filosoficolinguistici dell’antichita` e della tarda antichita` non fatica a riconoscere negli esempi addotti da Dante la fonte stoica cui si deve lo sdoppiamento di piani anzidetto: dobbiamo a una testimonianza di Sesto Empirico nell’Adversus logicos la notizia che gli stoici, appunto, distinguevano il lo´gos prophoriko´s di cui sono capaci anche corvi, pappagalli e gazze dal logos endia´thetos che e` prerogativa dei soli umani: questi ultimi infatti non hanno semplicemente phantası´a, non sanno solo farsi rappresentazioni delle cose, ma dispongono di una phantası´a ... metabatike` kaı` synthetike´16, sanno cioe` muovere e combinare le rappresentazioni. A qualcosa del genere sembra alludere l’Alighieri quanto dice, nel menzionato passo del Convivio, che gli animali inferiori si rappresentano solo cio` che vedono o odono, ancorandosi staticamente, insomma, alla circostanza percettiva. Su questa combinazione di motivi aristotelici e stoici viene ora innestato un ragionamento di sapore curiosamente “zoosemiotico” che vale la pena considerare con attenzione. Fin dall’inizio del §2 del De vulgari, l’essenza del loqui e` posta nella sua funzione di “mostrare agli altri il concetto della nostra mente”, e` cioe` risolta in Moerbeke) e di concentrare l’attenzione, invece, sulla Sententia libri politicorum di Tommaso e sulle Quaestiones super de animalibus di Alberto Magno, in cui quella distinzione e` largamente ripetuta e discussa. 16 SVF (2002: 362).

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un ufficio comunicativo: sul presupposto, ovviamente, che un conceptus, ovvero un’attivita` mentale, vi sia. La partita e` a questo punto giocata fra i tre consueti protagonisti delle dottrine medievali del linguaggio: animali inferiori, uomini e angeli. Sulla scorta di noti precedenti patristici, e` ripetuto a proposito di questi ultimi che non hanno bisogno di alcun segno linguistico-verbale (signum locutionis) perche´, essendo puro spirito e reciprocamente trasparenti, non necessitano di supporti sensibili per comunicarsi reciprocamente il pensiero17. Degli umani si dice invece, nel § 3, che, essendo fatti di anima e corpo, hanno bisogno di un linguaggio composto di un elemento razionale (correlativo all’anima) e di uno sensibile (correlativo al corpo) per poter comunicare fra loro. L’elemento sensibile (sensuale) coincide con un suono organizzato cosı` e cosı` (in quantum sonum est); l’elemento razionale (rationale) coincide invece con un contenuto mentale che si desidera manifestare agli 18 altri, significare, con un preciso atto di volonta` (ad placitum) . Anche questo segmento del ragionamento dantesco non riserva sorprese, sciogliendosi in una dottrina “bifacciale” del segno, di tipo arbitrarista-convenzionalista, frequentissima nei dibattiti medievali e tardo-medievali. Molto meno ovvio, invece, il confronto che si avvia sul versante degli animali inferiori, anche perche´ esso propone interessanti precisazioni in ordine alla dottrina della ‘ragione’. Lo stacco cognitivo fra umani e altri animali e` identificato nel fatto che i primi hanno la ragione, mentre i secondi sono guidati dal solo istinto naturale (II 5, 1-2). L’istinto, secondo Dante, fa sı` che gli animali inferiori, specie per specie, producano “i medesimi atti e passioni”. Dunque il mio cane ha gli stessi comportamenti esterni e prova le stesse passioni di tutti gli altri cani; quel gatto ha 17

Il vecchio saggio di Nardi (1921-29) e` ancora una delle migliori presentazioni complessive delle radici medievali del pensiero linguistico dantesco. Sul nesso lingua-ragione, come pure sulla comunicazione angelica, e` da vedere, fra le cose piu` recenti, Sabazio (1984). 18 Classici passi di Tommaso (Summa Theol. II, II 85, 1; In Aristotelis De interpr. Lectio II) furono segnalati gia` da Marigo (1948: 19n.) per illustrare il radicamento della nozione di significazione ad placitum nella tradizione cui Dante fa riferimento.

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gli stessi comportamenti esterni e prova le stesse passioni di tutti i 19 gatti del mondo ecc. ecc. . Ora, dal principio aristotelico di economia, per cui la Natura non fa nulla invano, discende che gli animali inferiori non hanno bisogno di locutio, perche´ non hanno da manifestarsi alcunche´ di originale e individuale: letteralmente «possunt per proprios [actus et passiones] alienos cognoscere» (II 5, 4). Riconoscono dunque negli altri se stessi. Per lo stesso principio non devono/possono comunicare con specie animali diverse. Che cosa, dunque, ci fa diversi, radicitus diversi, dagli altri animali? La ratio, certamente. Ma in che consiste propriamente questa razionalita`? Siamo abituati a pensare tale facolta` in termini universalistici, come un qualcosa che fonda l’“uguale” nella infinita` delle differenze; e non v’e` dubbio che, in quanto dotazione di specie, anche Dante la veda cosı`. Se pero` andiamo a vedere come tale facolta` si eserciti in concreto, troviamo che essa si risolve (simmetricamente alla statica identita` di vita psicologica e comportamentale degli animali inferiori) in una attitudine alla indefinita moltiplicazione dei giudizi e delle scelte. E` quanto si ricava dall’attacco del fondamentale §3: Cum igitur homo non nature instinctu, sed ratione moveatur, et ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudicium vel circa electionem diversificetur in singulis, adeo ut fere quilibet sua propria specie videatur gaudere, per proprios actus vel passiones, ut brutum animal, neminem alium intelligere opinamur. Nec per spiritualem speculationem, ut angelum, alterum alterum introire contingit, cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus spiritus sit obtectus. Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse

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Nel commento a questo passo Mengaldo (1978) cita opportunamente passi di Alberto Magno (De an. II 3, 22) e di Vincenzo di Beauvais («... Et quia natura eadem est in omnibus, ideo sue voces manserunt indistincte etc.», Spec. Nat. XXVI, 56) che possono essere stati presenti a Dante. Va ovviamente presupposta sullo sfondo la gamma di distinzioni del De anima come delle altre opere aristoteliche piu` su ricordate.

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oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit.

L’individuo umano e` dunque intrinsecamente votato alla diversificazione, al punto che ciascuna persona sembra fare specie a se´. La ratio ci rende diversi l’uno dall’altro quanto a discretio, iudicium, electio (press’a poco “valutazione distintiva, giudizio, scelta”). Si noti come Dante, probabilmente memore di un passo del Tresor20, evochi forme di vita psicologica strettamente inerenti alla componente intellettiva dell’anima, lasciando fra parentesi (ma ovvia` questo, mente non negando) le componenti affettive e passionali. E non altro, che ha reso necessario dotare la specie umana del linguaggio articolato: il conceptus e` dunque il luogo topico della varieta`, e la locutio e` quanto occorre per esprimere tale varieta`. Ne´ a questo punto ci si stupisce di veder dedicato il prosieguo del primo libro alla esposizione dei meccanismi storici e geografici di differenziazione del linguaggio, fino a quel limite teorico – gia` ricordato – della variazione microfamiliare, vorremmo dire idiotopica, cui si allude in chiusa del capitolo 19. Uno snodo del percorso, spesso ricordato dai critici, e` quel passo del §9 in cui Dante, introducendo l’analisi delle differenze linguistiche d’Italia, a partire dalla macrodivisione fra versante destro e sinistro della penisola, propone «una eademque ratio» di tante varieta`: e la ritrova nel principio di inerenza delle lingue all’arbitrio (beneplacitum) umano, ovvero di un animale «instabilissimum atque variabilissimum» (IX 6, 6-7), a seconda dei luoghi e dei tempi. Non si tratta pero`, si badi, di un giudizio di valore, quasi che le differenze linguistiche ripetano una eternamente umana vocazione babelica; e nemmeno si tratta di un apprezzamento di maniera intorno alle qualita` del libero arbitrio, quale sarebbe facilmente desumibile dalle fonti: si tratta di una conseguenza necessaria derivante dal tipo di organizzazione mentale che fa l’uomo altro dagli animali inferiori: «nullus effectus superat suam causam»; e la circostanza trova riscontro, al 20

«La serie discretion-election-oppinion e` in Brunetto, Tres. II, XVIII, 5» (Mengaldo: 1978, 39n.).

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solito, in un passo del Convivio ove lo scrittore, appoggiandosi all’autorita` della Fisica, spiega che il ‘movimento celestiale’ influisce sugli umani in quanto esseri senzienti e che cio` condiziona anche la nostra mente, in quanto ella e` fondata sopra la complessione del corpo che a seguitare la circulazione del cielo altrimenti e` disposto 21 un tempo e altrimenti un altro .

A ben considerare le cose, dunque, questo dispiegamento di differenze, che Dante insegue, a misura delle scarse conoscenze disponibili, con fascinoso spirito protocomparatista, non e` che l’attuazione sul piano storico di un programma cognitivo che e` proprio della specie umana, dotata da Dio di quanto le occorre per differenziarsi dagli altri animali. Il nocciolo non-modista, anche se forse non tecnicamente anti-modista, del pensiero linguistico dantesco trova in questi passi la sua piena esplicazione22. 3. Venendo a Varchi, ci troviamo dinanzi a uno studioso nel quale l’utilizzazione della lezione aristotelica fa profondamente corpo con i dati biografici e con l’ossatura stessa, se cosı` possiamo dire, del curriculum scientifico e professionale. L’esperienza padovana degli anni 1537-41, culminata nell’attiva partecipazione ai lavori della Accademia degli Infiammati, e poi quella bolognese del 1541-42, con l’assidua frequentazione di Ludovico Boccadiferro, lettore principe dell’aristotelismo presso l’Universita`, fornirono al Varchi lo stimolo a una immersione profonda nell’opera dello Stagirita, condotta attraverso la lettura diretta del testo greco e una attivita` lunga e impegnata di esposizione e commento didattico. Fu questa la base per quell’innesto dell’aristotelismo nella cultura, ancora largamente platonizzante, della Firenze cosimiana, operato a 21

Conv: IV 2, 7. A questo mi pare necessariamente conduca una seria considerazione del singolare nodo ‘zoosemiotico’ che intriga Dante. Il riferimento e`, ovviamente, alle note tesi interpretative proposte da Maria Corti nei suoi importanti lavori sul De vulgari eloquentia (soprattutto 1981, 1992), sulle quali, con una linea di ragionamento un po’ diversa da quella qui offerta, aveva sollevato dubbi gia` Lo Piparo (1983). 22

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partire dalla meta` degli anni Quaranta in seno all’Accademia fiorentina. Basti dunque, in questa sede, menzionare i famosi commenti varchiani, proposti nelle adunanze degli Infiammati, all’Etica nicomachea, il lavoro (rimasto incompiuto) di traduzione in lingua volgare del primo libro dei Primi analitici23, il giudizio sulla Poetica24, le frequentissime citazioni da un po’ tutti i libri di Aristotele25: la parola di quest’ultimo innerva non solo le idee filosofiche del Varchi, ma anche il suo approccio alla poetica, alle divisioni della poesia, e, inevitabilmente, il suo pensiero linguistico. Della circostanza credo andrebbe tenuto conto piu` sistematicamente nell’analisi dell’Hercolano e di altre opere vertenti sul tema del linguaggio, laddove spesso (e non certo senza ragione) l’attenzione si concentra in modo pressoche´ esclusivo sulla ricerca lessicologica o grammaticale del Nostro, che certamente (in ispecie la prima) riveste un interesse storico-linguistico di primo piano. Proponiamo in quel che segue alcuni assaggi concentrati sulla prima parte dell’Hercolano, dove sono poste sei ‘dubitazioni’, per dirla con la battuta del personaggio del Conte, «pertinenti generalmente alla cognizione delle lingue»26: «Che cosa sia favellare. Se il favellare e` 23

Si vd. in proposito le informazioni offerte da Samuels (1976: 620 ss.). Cfr. anche Sorella (1995 II: 77n., 150n. ecc.). Per un quadro dell’aristotelismo varchiano si puo` partire dal capitolo relativo contenuto in Pirotti (1971). Per l’influenza sul Varchi di Ludovico Boccadiferro (1482-1545; dal 1517 docente di filosofia aristotelica a Bologna) si vd. piu` specificamente Nardi (1965: 320 ss.). I primi capitoli di Bruni (1969) sono una efficace presentazione dell’opera di mediazione culturale svolta dal Varchi fra l’aristotelismo padovano e il neoplatonismo di marca ficiniana inerente alla tradizione rinascimentale fiorentina. 24 Alludo al passo contenuto nella prima delle cinque lezioni sulla poesia, svolta presso l’Accademia fiorentina la prima domenica di dicembre 1553: «E per fermo, se io non mi fossi, sono gia` molti anni, in traducendo e commentando la Poetica d’Aristotile, senza il quale non saprei muovere un passo, esercitato non mezzanamente in cotal materia [della teoresi poetica], non avrei osato d’entrare in cosı` grande impresa, la quale in verita` non e` da pigliarsi a gabbo» (Varchi: 1858-59, II, 696). 25 Per una facile, e comunque istruttiva documentazione di questo punto si vedano, ad esempio, la lezione Della natura (1547) (Varchi: 1858-59, II, 648 ss.), quella Della poetica in generale (1553) (Varchi: 1858-59, II, 681 ss.), o gli opuscoli raccolti sotto il titolo di Trattati filosofici e letterari (Varchi: 1858-59, II, 794 ss.). 26 Varchi (1570/1995: II, 529).

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solamente dell’huomo. Se il favellare e` naturale all’uomo. Se la natura poteva fare che tutti gli huomini in tutti i luoghi e in tutti i tempi favellassino d’un linguaggio solo e colle medesime parole. Se ciascuno huomo nasce con una sua propria e naturale favella. Quale fu il primo linguaggio che si favello` e quando, e dove e da chi, e perche´ fosse dato»27. Siamo come si vede in una zona ad alto gradiente filosofico-linguistico, ove e` del massimo interesse saggiare l’apporto e l’utilizzazione delle fonti, antiche e moderne, movendo dalla giusta osservazione del Sorella (il recente editore dell’opera) secondo il quale «Aristotele, insieme con il De vulgari eloquentia dantesco, fornisce la griglia teorica su cui si sviluppa l’impianto argomentativo dell’Hercolano» (1995: I, 17). La risposta del Varchi alla prima dubitazione (prescindendo qui dalle riflessioni etimologiche su parlare e favellare) e` una esemplare sintesi delle due fonti-principe appena ricordate: «Il parlare, o vero favellare humano esteriore, non e` che manifestare ad alcuno i concetti dell’animo mediante le parole»28; e poco oltre: «Ho detto i concetti dell’animo, perche´ il fine di chi favella e` principalmente mostrare di fuori quello che egli ha racchiuso dentro nell’animo, o 29 vero mente; cioe` nella fantasia ecc.» . Il riferimento e` per un verso alla definizione del De vulgari eloquentia (I 2, 1), cui Varchi accede nella versione in volgare del Trissino («Se volemo poi sottilmente considerare la intenzione del parlar nostro, niun’altra ce ne troveremo, che il manifestare ad altri i concetti de la mente nostra» [1529/1970: 2v.]; «[...] nostre mentis enucleare aliis conceptum» nell’originale); per un altro (e segnale ne sia la surrogazione di animo in luogo di mente) alla formula pathe´mata teˆs psyche´s del De interpretatione (16a, 3-4). Varchiana, non immediatamente riconducibile a fonti note, e` invece la suggestione che questa manifestazione dell’animo possa avvenire mediante le parole nei normoudenti, e avvenga invece (su un piano, almeno virtuale, di parita` 27 28 29

Varchi (1570/1995: II, 530). Varchi (1570/1995: II, 530). Varchi (1570/1995: II, 532).

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espressiva) «con atti, con cenni e con gesti» nei muti (mutoli), ovvero in coloro che (come Varchi spiega lucidissimamente piu` avanti), essendo nati sordi, necessariamente non imparano a parlare: hanno bensı` la voce (nel senso della phone´ aristotelica), ma non la favella (nel senso della dia´lektos o locutio: insomma la voce articolata)30. Segue il secondo tema di discussione, se cioe` il parlare sia esclusivo dell’uomo: una parte (ricorda in nota il Sorella) che molti lettori ritennero oziosa, e l’Alfieri addirittura «sciocca da capo a fondo», basandosi sull’ovvio presupposto, di ascendenza biblica, che solo all’uomo il linguaggio competa. Varchi invece ci si cimenta con impegno, consapevole che si tratta di un tema centrale della tradizione medica e filosofica, caro al suo venerato Aristotele, ma tutt’altro che indifferente anche per alcuni dei suoi maggiori interlocutori diretti: Pietro Bembo, che nel primo paragrafo del I libro delle Prose (1525), sostiene che «gli uomini in questa parte massimamente sono dagli altri animali differenti, che essi parlano»31; e Sperone Speroni, che nel Dialogo delle lingue (1542) mette in bocca a Lazaro, l’allievo di Pomponazzi, l’affermazione che quantunque in molte cose siamo differenti dalli bruti animali, in quest’una principalmente ci discostiamo da loro, che ragionando e scrivendo comunichiamo l’un l’altro il cor nostro: la qual cosa non possono fare le bestie. Dunque, se cosı` e`, quegli piu` 32diverso sara` dalla natura de’ bruti, il quale parlera` e scrivera` meglio .

Non direi pero` (come fa il Sorella nel suo commento) che Varchi si limiti a seguire le tesi dello Speroni; piuttosto si muove autonomamente, elaborando le suggestioni provenienti direttamente da Aristotele: dalla Politica, certo, ma anche, con molta evi30

Varchi (1570/1995: II, 543). Bembo (1525/1960: 270). Aggiunge il letterato veneziano che, a maggior ragione, di qui discende un motivo per cercare di eccellere fra gli uomini nella dote per cui essi «agli altri animali grandemente soprastanno». 32 Speroni (1542/1978: 593). Si osservi come la battuta echeggi, e insieme modifichi, il passo di Bembo poco sopra ricordato nel testo e in nota 27. 31

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denza, da Historia animalium, che e` richiamato nella ampia trattazione della differenza tra favella e voce. Alla seconda dubitazione Varchi risponde infatti che solo l’uomo ha bisogno della parola e propriamente favella, perche´ e`, di tutti gli animali, il piu` socievole. Anche gli altri animali sono socievoli (come fa osservare il Conte, che qui e in altri punti svolge un certo ruolo “filo-animalista”), ma non nella misura straordinaria degli umani, che tale inclinazione sviluppano a partire dalla necessita` di associarsi per sopravvivere. Vi e` qui, d’accordo con Sorella, una contaminazione fra il luogo famoso della Politica (da noi gia` ricordato supra, §2) e uno del ciceroniano De inventione (I 2) (che echeggia, e` bene aggiungere, passi epicureo-lucreziani circa l’erramento ferino dei primitivi). Anche vi e` una fulminea proiezione della distinzione aristotelica suono/voce/linguaggio articolato nel doppio sistema di coordinate formato da una parte dal dato della socialita`, dall’altro dal tipo di ‘manifestazione’ dell’interiorita` concessa agli uomini e agli altri animali: V. Ancora a cotesti [api, uccelli, pecore ecc.: animali a vario titolo socievoli] non manco` la natura, percioche´ in vece del parlare diede loro la voce, la quale, sı` come e` spezie del suono, cosı` e` il genere del favellare, mediante la qual voce possono mostrare e a se stessi e agli altri quello che piace e quello che dispiace loro, cioe` la letizia e il dolore e tutte l’altre passioni, o vero perturbazioni, che nascono da questi due. C. E credete che possano gli animali mediante la voce significare i concetti loro l’uno all’altro o a noi huomini? V. I concetti no, ma gli affetti dell’animo, cioe` le 33 perturbazioni sı` .

Se dunque Varchi concorda con Dante nel dire che la dotazione cognitiva e degli animali e` frutto di puro ‘istinto naturale’ (Varchi 1570/1995: II, 541; e cfr. ovviamente Dante DVE: I 3, 1), da Dante si discosta nettamente nell’attribuire loro una vera e propria forma di comunicazione (mostrare, significare sono i verbi utilizzati nella cit. precedente). Il che importa un ritorno alla lettera 33

Varchi (1570/1995: II, 535).

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di Aristotele, sia a Hist. Anim. IV 9, per quanto attiene alle nozioni di suono, voce e favella, sia al luogo della Politica, per quanto attiene alla distinzione tra le forme di attivita` psicologico-cognitiva impegnate: l’affettivita`, dunque cio` che piace o dispiace nel caso degli animali inferiori, i concetti (e dunque «quello che giova e quello che nuoce, cioe` l’utile e il danno, il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto e sopra tutto l’honesto; le quali cose non intendono ne´ curano gli altri animali»34) nel caso degli umani. Non mancano nel testo i riferimenti al dibattito tardo-antico sulle forme di intelligenza o prudenza morale degli animali: il personaggio-Conte cita non a caso Plutarco, le cui opere Bruta animalia ratione uti e De sollertia animalium avevano goduto una vasta fortuna e erano tornate di attualita` nell’ambiente fiorentino grazie a Giovan Battista Gelli e alla sua Circe35. Varchi risponde ammettendo senza difficolta` che i bruti sappiano fare «cose meravigliosissime; come sono i nidi delle rondini e le tele de’ ragni» – si tratta, si badi, di luoghi comuni delle tradizioni naturalistica e scettica, che di lı` a pochi anni un autore come Montaigne riportera` con massima enfasi nella sua Apologie de Raymond Sebond (1580) nel quadro di una contestazione dell’antropocentrismo filosofico. Ma il nostro autore ha di mira obiettivi specificamente linguistici, talche´ l’ammissione delle forme di ingegnosita` animale36 prelude al chiarimento che queste dipendono in modo esclusivo o dall’istinto 34

Varchi (1570/1995: II, 540). L’ed. definitiva dei dieci dialoghi che formano la Circe era stata pubblicata dal Torrentino, a Firenze, nel 1562. Sulla figura e l’iniziativa culturale del Gelli (a parte il saggio di Bonomi cit. piu` avanti, n. 44) resta imprescindibile De Gaetano (1976). 36 Un dettaglio non privo di interesse e` il giudizio limitativo espresso da Varchi circa la forma di coscienza apparentemente attribuita alle formiche da Dante nella famosa terzina di Purg. XXVI (“Cosı` per entro loro schiera bruna / S’ammusa l’una con l’altra formica / Forse a spiar lor via e loro fortuna”): Dante avrebbe parlato come buon poeta e per di piu`, come ottimo filosofo, giustamente avrebbe introdotto quel dubitativo forse. Il puntiglioso Castelvetro osservera` nella sua Correttione (1572/1999: 221-22) che il riferimento varchiano non cade a proposito, perche´ Dante qui non allude affatto al linguaggio delle formiche. Sennonche´ la battuta del Varchi appare del tutto coerente col tema generale della sezione, che inquadra il tema linguistico in quello piu` generale delle facolta` conoscitive degli animali inferiori. 35

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(come gia` detto) o dalla consuetudine, laddove solo alla favella e` collegato l’esercizio di una dotazione che dal piano naturale (il poter favellare) si distende a cio` che oggi riassumeremmo nella nozione di ‘cultura’: [...] il favellare piu` in un linguaggio che in un altro e piu` tosto con queste parole che con quelle non e` loro [scil. agli uomini] naturale. C. Donde l’hanno adunque? V. O dal caso, nascendo chi in queste e chi in quella citta`, o dalla propria volonta` e dallo studio [...]. Onde Dante, il quale pare a me che sapesse tutte le cose e tutte le dicesse, lascio` scritto nel 26˚ canto del Paradiso queste parole: “Opera naturale e` ch’uom favella, / Ma cosı` o cosı`, natura lascia / Poi fare a voi, secondo che v’abbella”37.

Dunque agli animali diversi dall’uomo sono liberalmente riconosciute voci diverse, naturalmente significative delle rispettive sfere emozionali: piu` avanti nel testo vi e` anzi una interessante digressione sui nomi che, in fiorentino, indicano tali voci, digres38 sione nata dall’esigenza di rendere in volgare la Thyrsi di Teocrito . Ma quando si tratta di esplicitare lo specifico cognitivo e linguistico degli umani, Varchi e` nettissimo (forse volendo in cio` anche differenziarsi dai civettamenti gelliani): sono richiamati, sulla scorta di Historia animalium e De partibus animalium, «gli strumenti mediante i quali si favella», illustrando in modo dettagliato i vari componenti di cio` che oggi chiameremmo apparato respiratorio-fonatorio, dai polmoni alla laringe, ai vari segmenti interessati del tratto soprala39 ringeo ; ed e` spiegato, riprendendo in questo caso i parr. 2-3 e 9 del primo libro del De vulgari e i celebri versi 127-29 del XXVI del 40 Paradiso («Che nullo affetto mai razionabile...» ), come la contro37

Varchi (1570/1995: II, 542). Varchi (1570/1995: II, 577). 39 Non si tratta dunque, in questo caso, come sembra al Sorella (1995: II, 541n.) di una anticipazione delle distinzioni di Fabrizio d’Acquapendente, il celebre medico e protofonetista autore del De locutione et ejus instrumentis (1601). 40 Varchi, si badi, legge affetto dove le edizioni critiche moderne leggono effetto. Cfr. Sorella (1995: II, 545n.). 38

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parte “storica” di questa dotazione naturale, ovvero il differenziarsi delle favelle nell’uso, il loro alterarsi nel tempo, dipenda dalla ragionevolezza e dunque mutevolezza dell’animale umano: nessun disiderio humano, perche´ solamente gli huomini, havendo essi soli la ragione, si chiamano razionabili, o vero ragionevoli, puo` essere eterno, cioe` durare sempre; anzi, per piu` vero dire, non puo` non mutarsi quasi ogni giorno, percio` che gli huomini di dı` in dı` mutano voglie e pensieri; e cio` fanno, perche´ sono sottoposti al cielo, e il cielo non ista` mai in uno stato medesimo, non istando mai fermo41.

Come i lettori dell’Hercolano ricordano, verso la fine di queste dubitazioni cade un ampio riferimento alla autenticita` del De vulgari eloquentia, il cui originale latino Varchi dichiara di non aver mai visto (e infatti sara` pubblicato solo nel 1577, a Parigi, dall’esule fiorentino Corbinelli) e le cui dissonanze rispetto a classiche situazioni del Convivio (la ben nota querelle sulla maggiore nobilta` del latino o del volgare) e della Commedia (il dilemma se la lingua di Adamo fosse o no tutta spenta prima dell’episodio babelico) sono 42 richiamate per metterne in dubbio l’autenticita` . Cio` non esclude per nulla, come si e` visto, una larga utilizzazione dei temi e degli argomenti dei primi paragrafi del De vulgari per sviluppare questa 43 sezione, di sapore effettivamente semiologico , dell’opera. Ma il nocciolo della prospettiva filosofico-linguistica del Varchi muove con grande evidenza da Aristotele, sulla scorta del quale, mi sembra, e` proposta una concezione rigorosa della fisionomia insieme naturale (biologica) e storica del linguaggio umano, su una scala di crescente, irriducibile complessita` rispetto alle forme di comunicazione animale. Credo che queste deduzioni non siano prive di conseguenze per quanto riguarda quella teorizzazione del carattere primaria41 42 43

Varchi (1570/1995: II, 546). Varchi (1570/1995: II, 551 e ss.). Cosı` il Sorella (1995: II, 534n.).

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mente parlato delle lingue che i critici riconoscono come il contributo specificamente varchiano alla ‘questione della lingua’: certamente una bussola decisiva per cercare un equilibrio nuovo, negli anni dell’assorbimento, ma anche del superamento della prospettiva bembiana, fra le ragioni del naturalismo linguistico tipico della tradizione fiorentina e le ragioni di una scrittura d’arte, tale da 44 fondare nel lungo periodo l’identita` letteraria italiana . Chiudiamo qui la nostra veloce incursione su Dante e Varchi lettori e utenti di Aristotele. Il prelievo eseguito pertiene a un frammento, non dei piu` appariscenti, della multiforme lezione dello Stagirita, che ancora una volta si e` rivelata occasione, in fasi storiche diverse, di rielaborazioni autonome, variamente intese a una complessiva definizione della peculiarita` del linguaggio. Come ha scritto Lia Formigari, «c’e` [...] una sorta di coalescenza nella storia delle teorie: non saprei trovare una metafora migliore per indicare le procedure di aggregazione e disaggregazione di domande, ipotesi e punti di vista attorno a certi problemi che, formulati e riformulati ogni volta secondo gli stilemi del tempo, sembrano pero` indicare la persistenza di certi nodi teorici fondamentali che si perpetuano nella tradizione teorico-linguistica occi45 dentale» .

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Fra le voci piu` recenti e innovative della bibliografia varchiana, a parte il fondamentale lavoro di scavo condotto dal Sorella, si vd. Bonomi (1985) e Marazzini (1997). 45 La citazione e` tratta dal saggio di Lia Formigari pubblicato in questo stesso volume.

Derive semantiche e psicologia cognitiva in Leibniz. Discutendo con Lia Formigari di Francesco Piro

1. La magistrale «storia delle teorie» del linguaggio offertaci da Lia Formigari ha diverse pagine dedicate a Leibniz. Il mio contributo parte da una di esse: ...Locke si occupa del rapporto tra la categorizzazione linguistica e l’organizzazione dell’esperienza; Leibniz delle condizioni elementari e irriflesse dell’attivita` mentale che presiedono alla genesi delle lingue. Locke si occupa di semantica cognitiva, Leibniz di semantica storica. Sono discorsi diversi, in linea di principio non inconciliabili: e` legittimo chiedersi perche´ Leibniz voglia farli collidere. La risposta e` che Leibniz contesta proprio la negazione lockiana degli universali concepiti come condizioni di possibilita` rispetto alle rappresentazioni empiriche (....) Insomma, messo in salvo Platone (categorizziamo come ci dettano le essenze reali), Leibniz puo` mettersi a scuola da Epicuro (vocalizziamo come ci dettano gli affetti). Leibniz aveva riposto nel simbolismo fonico il fondamento della «somiglianza» fra la parola e il suo referente. All’iconismo fonico il naturalismo settecentesco associa, come princı`pi generatori della parola, anche l’azione gestuale, fisiognomica, prosodica, il comportamento motorio, l’istinto a metaforizzare. Quest’ultimo, relegato da Leibniz tra i fattori «tropici» della mutazione di significato delle parole, era stato, come abbiamo visto, un caposaldo della semantica lockiana. L’idea della metafora come generatrice oltre che trasformatrice di significati diventera` un luogo comune del naturalismo settecentesco (Formigari: 2003, 161).

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Ripetiamolo, questo non e` se non uno dei passi dedicati a Leibniz (altri, molto importanti anch’essi, si trovano a pp. 132-135) ma ho voluto isolarlo perche´ tocca un problema che mi sembra particolarmente affascinante. La chiave di lettura del conflitto Leibniz-Locke qui offerta, se capisco bene, si potrebbe riassumere cosı`: Leibniz condivide sı` molte delle novita` di approccio presenti nella filosofia del linguaggio del suo tempo – il recupero della linguistica epicurea, il rilievo dato all’«impulso a metaforizzare» e, piu` in generale, a tutta la problematica del mutamento linguistico – ma effettua una sorta di strategia di confinamento di esse. Le novita` sono recepite sul piano della semantica storica, non della semantica cognitiva, perche´ solo la prima resta conciliabile con l’innatismo e la teoria degli universali come rispecchiamento delle essenze reali, che a Leibniz interessa salvaguardare. A costo di diminuire l’interesse del lettore per quanto segue, diro` subito che, almeno se ci fermiamo alle opere centrali (e, in particolare, ai Nuovi Saggi sull’intelletto umano), la diagnosi e` sicuramente azzeccata. Il quadro diviene pero` piu` mosso se prendiamo in esame quello che potremmo chiamare il «laboratorio privato» di Leibniz, con il suo imponente apparato di appunti e opuscoli sulle lingue storiche, la loro struttura, il rapporto tra analisi sintattica e ricerca etimologica e cosı` via1. Tant’e` che un fine interprete della filosofia del linguaggio leibniziana come Rutherford, si e` domandato se il rilievo qui dato agli usi metaforici del linguaggio – Rutherford pensa soprattutto al tema dell’origine delle preposizioni, sul quale torneremo di qui a poco – non debba condurci a interrogarci perfino sul linguaggio filosofico e sulla sua letteralita` (Rutherford: 1995, 268-269). Avendo gia` detto che, in linea di 1

Mi riferisco soprattutto agli studi di linguistica degli anni ’70 e ’80 editi a spezzoni da Couturat e da altri editori leibniziani, ma ora integralmente disponibili nel volume VI, 4 A della Akademie-Ausgabe (d’ora in poi “A”). Per gli scritti etimologici e di storia del linguaggio della piena maturita`, non esiste ancora una raccolta soddisfacente, ma il lettore consultera` utilmente Schulenburg (1973), Heinekamp (1976), Gensini (1991), che riporta la Epistolica Dissertatio de Historia Etymologica, nonche´ sempre Gensini in Leibniz (1995).

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massima, concordo con Formigari, mi tocchera` di dover mettere dei paletti notevoli alla possibilita` di rileggere Leibniz a partire da Lakoff e Johnson (sto semplificando, ma e` per capirci). Tuttavia mi sembra stimolante provare a intendere la strategia di «confinamento» presente in testi come i Nouveaux Essais come un momento di una dinamica interna del pensiero linguistico leibniziano piu` tormentata se non addirittura conflittuale. Ci provero` in queste pagine, cercando qua e la` anche ad accennare a possibili linee di ricerca da approfondire. 2. Il filo rosso del discorso sara` costituito dalla tesi leibniziana che una (non l’unica, ma una delle piu` importanti) tra le forze che operano nella modificazione delle lingue storiche o, piu` esattamente, che le plasmano e le rendono funzionali, e` costituita dalla tendenza degli uomini ad usare in modo tropico le parole e (soprattutto) a tramandare nel corso del tempo gli usi originalmente non-letterali. Ora, ripetendo in breve quanto ho gia` scritto altrove, questa tesi compare con funzioni diverse in tre diverse fasi dell’elaborazione teorica leibniziana, vale a dire: (I) Essa compare quasi a titolo di digressione nella Dissertatio praeliminaris de stylo philosophico Nizolii, dove risponde alla domanda «quanto ci e` utile la storia delle parole per chiarirne il significato e per superare gli eventuali casi di obscuritas o di ambiguitas?». In questo contesto, la posta in gioco sembra essere la definizione di un punto di equilibrio tra la prospettiva che fa riferimento al solo usus attuale e non sull’etimologia (la prospettiva «anomalistica»: Valla, Nizolio) e quella che ripercorre la storia del vocabolo basandosi sulla convinzione che, almeno quando la parola non e` troppo primitiva e arcaica, essa sia sorta attraverso regole abbastanza precise di composizione che ne governano il significato (la prospettiva «analogistica» cosı` come Leibniz la ritrova in autori come Giulio Cesare Scaligero)2. La tesi sostenuta da 2

Che queste dottrine siano cio` tra cui Leibniz sta cercando un equilibrio si evince dal fatto che egli si premura di attribuire allo stesso Giulio Cesare Scaligero la dottrina della

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Leibniz – il significato delle parole non e` governato solo dal significato dei vocaboli piu` arcaici nonche´ dalle regole composizionali, ma anche da fluidi e imprevedibili slittamenti semantici dovuti alla normalizzazione di un uso originariamente non letterale – recepisce il primato dell’usus sulla origo, ma legittima anche il ricorso alla storia in alcuni specifici casi. Vedremo meglio di qui a poco quali siano questi casi. (II) La seconda significativa comparsa del tema si ha negli scritti di analysis linguarum che Leibniz compone tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ‘80 e nei quali egli ripercorre la via di un’analisi semantica delle diverse partes del discorso allo scopo di preparare la sua lingua artificiale, la Characteristica o lingua logica del pensiero scientifico. Nel corso di questi scritti, incontriamo infatti di frequente la tesi che alcune delle partes orationis piu` tipiche delle lingue europee nascano attraverso l’acquisizione di una funzione nuova per un complesso di voci originariamente nate da esigenze ben piu` primordiali. Le interiezioni, per esempio, nascerebbero dall’esigenza ancora «bestiale» di esprimere gli affetti, ma assumerebbero progressivamente la funzione standard di permettere di esprimere economicamente una valutazione su un fatto all’interno del medesimo 3 asserto con il quale lo comunichiamo . In questo contesto, il modello della deriva tropica si applica soprattutto alle preposizioni delle lingue europee che, secondo Leibniz, nascerebbero tutte in funzione della denotazione delle posizioni spaziali, per poi assumere attraverso singole derive tropiche (posizione spaziale – relazione non spaziale in qualche modo analoga) il ruolo piu` ampio di parti-

mutazione per deriva tropica, che pero` si applica proprio ai casi nei quali usus e origo in realta` divergono (A, 6, 2, 498-409). Per la legittimita` di quest’attribuzione sono costretto a rinviare ad un mio recente lavoro (Piro: 2005). 3 Cfr. il De lingua philosophica degli anni ’80: «Interjectiones vulgo sunt residuum illius loquendi rationis quam solam habent bestiae, seu est modus loquendi bestialis....» (A, 6, 4A, 889), ma poco dopo si specifica: «Interjectiones usitatae aut exprimunt nostra judicia nostroque affectus, aut tendunt ad aliena, scilicet uditorium» (A, 6, 4A, 890).

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culae che collegano i sostantivi in generale4. I testi ci mostrano che quest’analisi ha un doppio scopo. Da un lato, essa conforta una gia` presente tendenza di Leibniz a cercare dei fattori antropologicamente naturali dai quali si sia poi evoluta la complessa struttura delle lingue storiche. D’altro lato, pero`, partendo dalla problematica (ancora dominante) della costruzione della «lingua logica», l’ambivalenza delle preposizioni suggerisce piani di lavoro fortemente eliminativistici nei loro confronti. Pur salvando talora alcune preposizioni piu` «formali», in genere Leibniz progetta di sostituirle integralmente con perifrasi che non le contengono e che sono semmai rette su connettivi logici tra asserti atomici: al posto de «la testa di Cesare» andra` detto «la testa che e` parte in quanto (qua5 tenus) Cesare e` tutto» . (III) Infine, nel periodo piu` maturo dell’opera di Leibniz, quello in cui il suo interesse per il linguaggio e` accentuatamente storico, storico-etimologico in particolare, la tesi delle derive tropiche ritorna in campo soprattutto allo scopo di chiarire le ragioni di quella che il filosofo chiama «l’indetermination du langage». Seguendo una tradizione sorta con Vossius, Leibniz semplifica infatti la tavola dei tropi, riducendoli a quattro (metafora, metonimia, sineddoche, ironia) o addirittura a tre (metafora, metonimia, 6 sineddoche) . Questa riduzione permette di cogliere la parentela 4 Vedi Omnes praepositiones proprie significant relationem loci (A, 6, 4 A, 640-645); Analysis Particularum, 1685-86 (A, 6, 4 A, 644-650); De lingua philosophica, 1687-1688 (A, 6, 4 A, 882-892). I testi della maturita` riprendono la stessa tesi, ma senza le dettagliate analisi semantiche di questi testi, che tentano di catturare con grafici o con immagini verbali il significato delle diverse preposizioni. 5 Gia` le Grammaticae Cogitationes del 1677-1678 ipotizzano l’abolizione delle preposizioni (A, 6, 4A, 114-115) e, tra gli scritti che ho gia` ricordato, la propugna soprattutto la Analysis Particularum (A, 6, 4A, 649-650). Linee piu` moderate si trovano invece nella Characteristica Verbalis del 1679 (A, 6, 4B, 333-337) e nel De lingua philosophica (A, 6, 4A, 883-884). Assolutamente costante e` invece l’abolizione delle declinazioni, che la lingua logica dovra` rendere per mezzo di congiunzioni tra asserti atomici o (nei programmi piu` moderati) attraverso le praepositiones formales ammesse. 6 Sulla storia di questo schema di tropologia, cfr. Battistini (1975). Sulla tropologia di Leibniz, rinvio a Piro (1996), ma piu` generalmente a tutti i saggi citati alla nota 2.

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sussistente tra le operazioni compiute con un materiale lessicale gia` formato e quelle che invece – dal punto di vista del naturalismo leibniziano – vengono a costituirlo: l’onomatopea, l’espressione degli affetti e cosı` via. Tant’e` che spesso Leibniz sembra non 7 distinguere i due livelli o considerarli come un continuum . Tuttavia, l’uso precipuo che viene fatto della tesi delle derive tropiche e` quello di sancire che, proprio attraverso i continui slittamenti semantici, le forme primitive e naturali di significazione hanno perso la loro riconoscibilita` e le parole hanno assunto dei significati che vanno considerati come se fossero stati stabiliti ad placitum ovvero «senza ragione». In breve, la tesi delle derive tropiche serve a conciliare l’arbitrarismo del significato con il Principio di Ragion Sufficiente che, a prima vista, lo condannerebbe. Non ci e` possibile «seguire la pista» delle origini e dobbiamo per forza ragionare in termini di uso. In un certo senso, il cerchio si chiude, dal momento che l’origo torna ad essere dichiarata (quasi sempre) insignificante non perche´ le lingue non rispondano a nessuna regolarita` nel loro generarsi ed evolversi, ma perche´ le regolarita` sono troppe, cioe` danno luogo a processi ipercomplessi e percio` irricostruibili. 3. Queste tre diverse comparse del topos dei «canali dei tropi» – quelli per i quali transiterebbero le parole nella loro storia – ci pongono una difficolta`. Da una parte, si assiste indubbiamente a un uso sempre piu` ampio e intenso del topos, con una correlata insistenza sulle regolarita` specificamente psico-semantiche alle quali bisogna riferirsi per spiegare l’evoluzione delle lingue storiche. D’altro lato, pero`, viene sempre sottolineato che tutto cio` e` utile per il passato delle lingue (la «storia delle nostre scoperte»), ma non certo per la logica o l’epistemologia, quasi che spettasse proprio a quest’ultime far partorire – magari con il forcipe – l’usus 7

Cfr. in particolare l’ampia casistica di etimologie fornita nel capitolo 2 del terzo libro dei Nouveaux Essais, in cui si scivola costantemente tra l’iconico e il metaforico, tra il carattere evocativo di determinati suoni e la facilita` con cui determinate parole assumono significati nuovi in virtu` delle somiglianze tra gli oggetti.

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attualmente valido dall’origo a partire dal quale si e` venuto evolvendo. Perche´ questi due movimenti simultanei? Per capire i dilemmi che Leibniz ha di fronte, converra` forse tornare al primo dei passaggi a cui abbiamo accennato, cioe` alla Dissertatio praeliminaris de stylo philosophico Nizolii del 1670. Come si e` detto, in tale sede, Leibniz tratta la questione delle variazioni tropiche soprattutto allo scopo di definire le strategie per la «chiarificazione» del significato attuale. Le possibilita` sono le seguenti8: (i) l’usus si e` differenziato dall’origo per variazione tropica ed e` autonomamente intelligibile, tant’e` che il significato originario puo` essere addirittura scomparso dal lessico. Fatum (originariamente derivato da for, faris, parlare) appartiene a questa categoria. (ii) L’usus non riesce ad essere definito senza ricorrere all’origo, cioe` gli usi non originari restano inintelligibili di per se ed hanno percio` un valore meramente tropico. Un esempio ne sono i termini del linguaggio scolastico, per esempio influere (usato da Suarez per definire la relazione causa/effetto). (iii) Gli usi attuali sono apparentemente diversi, ma se ne puo` dare ragione senza ricorrere all’etimologia, semplicemente perche´ vi sono delle condizioni soggiacenti a tutti i casi e queste sono sufficienti a catturare quello che Leibniz chiama (ispirandosi a un teologo, Samuel Bohl) il «significato formale» del termine (significatio formalis). Che io sappia, l’unico esempio che Leibniz faccia al proposito e` quello del verbo colere in latino: gli usi contestuali apparentemente diversi (colere agrum: coltivare un campo, colere Deum: compiere i propri doveri religiosi) possono venire spiegati ipotizzando che colere indichi l’attivita` volta a rendersi benefico un altro 9 essere . (iv) Gli usi attuali sono diversi e privi di significato formale comune e qui l’etimologia puo` servire a reperire un usus originarius, che sia abbastanza prossimo all’origine (per definizione non rin8

Cfr. A, 6, 2, 408-411. L’esempio e` dato nel De legum interpretatione, rationibus, applicatione, systemate del 1678 (A, 6, 4C, 2791). Avviene di rado di trovarne altri cosı` semplici. 9

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tracciabile) da poter spiegare storicamente la maggior parte di quelli derivati e magari – fino a un certo punto – da svolgere la funzione di significato «formale» di essi. Qui insomma si e` piu` nell’ambito di un tentativo di identificare qualche uso del termine vagamente prototipale, capace di dare un qualche ordine a mere «somiglianze di famiglia», senza piu` la pretesa di fare corrispondere a una parola un significato. Ora, l’elemento piu` interessante di tutta questa vicenda sta nella relazione molto complessa che questa casistica giovanile ha nei confronti del modello di innatismo che Leibniz costruira` piu` tardi e che sara` sistematizzato ai tempi della polemica con Locke nel 1704. A prima vista, questa casistica sembra addirittura anticiparla o almeno porre la questione di una psicologia cognitiva adeguata. Se esaminiamo il caso (i), quello rappresentato dalla carriera di fatum da participio passato a oggetto di dilemmi filosofici, non costa alcuna fatica reintepretarlo da un punto di vista «innatistico-virtuale». Bastera` suggerire che la deriva tropica abbia per una qualche ragione innescato la rappresentazione di un’«idea innata virtuale» che ha sostituito il significato primitivo del termine, cosı` come e` avvenuto – secondo Leibniz – quando pneuma o spiritus si sono innalzati dal loro primo significato sensibile (soffio di vento) a quello piu` astratto e intellettuale. La prova che il passaggio si e` veramente effettuato sta nell’autonomia acquisita dal nuovo significato: chi ha bisogno di sapere che cosa significava un tempo «fatum» per discutere del fato? La mancanza di autonomia, per contro, ci condurra` al caso (ii), che e` quello contrario: capita che gli uomini prendano una serie di vaghe associazioni per un concetto e l’analisi linguistica ci aiutera` a disilluderli. Quanto al caso (iii), esso non solamente e` coerente con l’innatismo virtuale leibniziano, ma addirittura inspiegabile senza di esso. Come giustificare altrimenti l’ipotesi che i parlanti abbiano progressivamente allargato l’uso di un determinato termine – Leibniz non esclude affatto che uno dei due significati di colere sia emerso storicamente prima dell’altro – e che pero` questa variazione soggiaccia a delle invarianti semantiche di fondo, di livello piu` astratto ma riconoscibili retrospettivamente dallo studioso?

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A rompere quest’armonia vi e` soltanto il caso (iv), il quale sembra affermare l’insostenibile situazione di una polisemia effettiva, ovvero di una ambiguitas non totalmente riducibile e persistente all’interno della storia della lingua. A questo punto, arriviamo alla questione-chiave. In quale casella della casistica del 1670 dovremmo inscrivere il caso delle preposizioni, cosı` come Leibniz ne discute nei suoi studi logico-grammaticali degli anni ’80? La parte negativa della risposta e` abbastanza facile. Leibniz stesso giunge a concludere che le preposizioni (o almeno la maggior parte di esse, vedremo poi le possibili eccezioni) non hanno un significato formale nel senso di Samuel Bohl10. Il fatto che Leibniz si premuri (nei Nouveaux Essais, dunque nel 1704) di darci questa notizia ci rassicura, tra le altre cose, sul fatto che la casistica del 1670 non era stata un capriccio momentaneo. Dunque, le preposizioni non rispondono al nostro caso (iii) e ovviamente nemmeno al caso (i), dal momento che i significati piu` antichi non sono scomparsi. Dobbiamo dunque decidere tra il caso (ii) e il caso (iv) e, tra i due opterei per quest’ultimo. In primo luogo, perche´ per quanto ci siano state derive tropiche a partire da un uso piu` arcaico che resta sottinteso (quello spaziale), i significati nuovi si sono consolidati. Leibniz infatti consiglia i compilatori di lessici di ammettere piu` accezioni per la stessa preposizione, il che non sarebbe ne´ possibile ne´ necessario se gli usi succedutisi nel tempo 11 fossero esclusivamente tropici . Ma, ancora piu` fondamentalmente, suggerirei che perfino il riferimento spaziale delle preposizioni costituisca dal punto di vista di Leibniz un usus originarius piuttosto che una origo. Tra la singola preposizione e la posizione spaziale o il 10 Le particelle non sono sempre suscettibili «di un significato generale o formale, come lo chiamava Bohl, che possa soddisfare tutti gli esempi» (Nouveaux Essais, III, 7, § 4; cito da Leibniz: 2000, 2, 310). 11 Il passo dei Nouveaux Essais continua: «nonostante cio` si potrebbero sempre ridurre tutti gli usi di una parola a un numero determinato di significati: Ed e` cio` che si dovra` fare» (Leibniz: 2000, 310). Al lessicografo che studi le particelle, il Leibniz maturo consiglia dunque una strategia molto simile a quella del caso (iv) della dissertazione sul Nizolio.

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movimento nello spazio che rappresenta non vi e` infatti nessun legame di tipo «iconico» (onomatopea o altro). E` solo all’interno di un contesto storico che un insieme di voci elementarissime assume la funzione di raffigurare un insieme coerente di dislocazioni spaziali e movimenti nello spazio («in» «sopra» «sotto», «da» «verso» etc.), raffigurazione che viene poi usata a sua volta come modello per rappresentare tipi di relazioni ulteriori. In questo processo vi e` qualcosa di psicologicamente «naturale», ma che si determina completamente all’interno al gioco linguistico, non nell’interfaccia tra segni e cose, dal momento che le singole preposizioni non hanno alcuna «somiglianza» con cio` che rappresentano. Certamente, Leibniz insiste su questa naturalita` quando egli cerca di rappresentare con grafici o con immagini il contenuto semantico delle singole preposizioni o la struttura di opposizioni che le diverse preposizioni definiscono. Per esempio, il latino ex e il tedesco aus rappresenterebbero una fuoriuscita, mentre a o ab e von il muoversi a partire da un luogo senza fuoriuscirne e cosı` via...). Ma cio` che egli sta cercando di fare e` di rappresentare per questa via un calcolo, quello che il parlante deve fare quando sceglie tra il 12 dire «venio ex Germania» e il dire «venio a Germania» . A questo punto la domanda e` se Leibniz si sia reso conto che questa analisi delle preposizioni poneva dei problemi notevoli concernenti il tipo di subintelligentia (per usare il termine dell’epoca) che il parlante deve avere nell’usarle e nel comprendere. Da un certo punto di vista, sembra indubbio che egli se ne renda progressivamente conto. Se, negli scritti di analisi logica del linguaggio, egli giustifica l’ampliamento di uso delle preposizioni con la scontata tesi che gli uomini tendono a rappresentare attraverso l’immaginazione anche cio` che trascende i sensi, nella tarda Epistolica de Historia Etymologica Dissertatio (1712) gli usi arcaici di preposizioni e avverbi rivelano nientemeno che i «pensieri piu` semplici» del ge12

Sulle preposizioni indicanti provenienza, cfr. soprattutto De lingua philosophica (A, 6, 4A, 891-892).

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nere umano13. Si tratta di un’ammissione significativa, anche se e` difficile chiarire come vada intesa la dizione cogitationes simpliciores. Certamente, non si tratta delle «nozioni semplici» da cui dovrebbe partire la Caratteristica, cioe` di universali epistemici. Si puo` forse parlare di universali psico-semantici contrapposti ai primi, o semplicemente di determinate propensioni antropologiche che si rivelano nella prevalenza statistica di determinati schemi e modelli di concettualizzazione? E` difficile dirlo. In ogni caso, la stessa importanza crescente che Leibniz da` all’etimologia, alla storia delle lingue, al problema degli elementi «naturali» della significazione, nel corso degli ultimi decenni della sua vita, sembrerebbe testimoniare una coscienza della radicalita` del problema al quale erano approdati gli studi di analisi logica del linguaggio. Ma allora come interpretare la strategia di “confinamento” del problema che sembra dominante nei Nouveaux Essais? Direi che vi giocano diverse questioni. Una prima e` evidente. Un conto e` considerare le lingue storiche come dei depositi di «metafore morte» come e` abbastanza ovvio fare. Un altro conto e` invece ipotizzare che queste metafore siano ancora viventi e che la capacita` di fare riferimento a determinati modelli, applicarli al singolo caso, usarli in modo saliente e non contraddittorio, sia un ingrediente importante della competenza linguistica ordinaria14. Un’adozione sistematica di quest’ipotesi avrebbe implicato una rottura degli argini tra competenza linguistica ordinaria e quello che un classico come lui avrebbe piuttosto definito l’ingenium, conducendoci all’ipotesi di un parlante che riplasma e quasi ricrea poeticamente gli usi del linguaggio in ogni momento. Se la teoria dell’indetermination du langage dell’ultimo Leibniz deve essere letta a partire da questa problematica, allora essa implica un rifiuto netto di questa prospettiva. I collegamenti operabili a partire da ogni parola sono troppi perche´ 13

«...significant cogitationes simpliciores» (Gensini: 1991, 225). Il che e` quanto e` dato per certo da Lakoff e Johnson. Si vedano al proposito gli esperimenti tentati per mostrare che il parlante e` in grado di percepire e di usare come metafore “vive” anche usi linguistici che ormai considereremmo letterali per la loro banalita`. Cfr. Lakoff-Johnson (1999: 118-129). 14

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se ne possa tenere conto e, alla fin fine, non contano. Le parole debbono essere trattate come se avessero un significato convenzionale stabilito ad placitum. Se cosı` non fosse, avremmo modi di significare, ma forse non il significato. Avremmo correnti di concettualizzazione senza il concetto. E tutto cio` avrebbe implicato il sostenere che le operazioni di calcolo logico propriamente detto, quelle fondate su significati convenzionali (cioe` su precisi elenchi di condizioni necessarie e sufficienti per l’uso del termine), catturano una parte abbastanza piccola di cio` che effettivamente facciamo con il linguaggio. La Caratteristica, cioe` la lingua delegata a potenziare al massimo l’uso inferenziale del linguaggio resterebbe utile, ma sarebbe per definizione non-universale dal momento che sarebbe poco rappresentativa dei processi propri dell’intelligenza umana (almeno se dobbiamo supporre che la Caratteristica operi come un calcolo lineare, sequenziale). Ed e` ovvio pensare che Leibniz non avesse nessuna intenzione di arrivare cosı` lontano. Questa ragione sarebbe forse gia` sufficiente, ma io penso che vi sia anche una seconda ragione – cioe` una diversa da quelle che derivano da quello che genericamente chiamiamo il «razionalismo» del Nostro – a spingerlo in questa direzione di confinamento del problema. 4. Abbiamo gia` visto che la teoria del «significato formale» Leibniz la trae dall’opera di un teologo luterano, Samuel Bohl (1611-1639). A quanto Leibniz stesso ce ne dice, colpito dalla apparente ambiguita` di molte parole della Scrittura, Bohl ipotizzo` che vi dovesse essere una definizione di quella voce che ne giustificasse e rendesse letterali tutti gli usi15. Questo letteralismo esasperato costituisce l’esatto contrario prospettiva di storicizzazione della Scrittura che, ai tempi di Leibniz, Spinoza e la sua scuola stavano portando avanti. Come giudicare che proprio a Samuel Bohl e al suo modello, ovviamente reso un po’ piu` elastico – «secolarizzato», se cosı` 15

Cfr. ancora la Dissertatio sulla storia etimologica: «Samuelis Bohlius, et quandam significationem investigavit, quam formalem vocat, ad omnia loca Scripturae, in quibus vox reperitur, quadrantem: qua ratione translatas significationes persaepe evitabat» (in Gensini: 1991, 223).

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si puo` dire – Leibniz dichiari di richiamarsi nella sua teoria del significato? Non credo che si tratti di una semplice coincidenza. Forse e` anche il modo nel quale Leibniz prende posizione – abbastanza alla lontana e su un terreno neutrale – anche su questioni che coinvolgono l’ermeneutica biblica. Come e` stato sottolineato soprattutto da Gensini, all’origine degli interessi leibniziani per la semantica storica e la dottrina del significato in genere vi e` il paragrafo sulla «Hermeneutica» scritto a vent’anni all’interno della Nova Methodus discendae docendaeque jurisprudentiae16. E in questo paragrafo Leibniz cita, con chiara ammirazione, proprio un autore del tutto contrario a Bohl, vale a dire il medico L. Meyer, amico di Spinoza e autore di un Philosophia Scriptura Interpres che proprio sull’oscurita` e ambiguita` dei testi scritturali – arcaici, spesso mal tramandati, piu` spesso ancora troppo pieni di usi tropici del linguaggio per essere compresi – aveva fondato l’esigenza della filo17 sofia di stabilire i dogmi teologici senza ricorrere a tale autorita` . Gli scritti intercorsi tra il 1667 (Nova Methodus discendae docendaeque jurisprudentiae) e il 1670 (Dissertatio praeliminaris de stylo philosophico Nizolii) mostrano chiaramente che il problema delle regole dell’interpretazione della Scrittura non era affatto scomparso dalla mente di Leibniz. Ma la problematica dell’ermeneutica biblica e delle pagine che Leibniz vi dedica non ci interessa qui direttamente. Ci interessa piuttosto la domanda se l’insieme delle alternative che Leibniz dispiega nella sua teoria generale del significato non sottintenda anche problemi di siffatta natura. Una traccia di questa possibilita` ci viene dato dalla menzione di Adrian Koerbagh fatta nei Nouveaux Essais. Koerbagh e suo fratello erano parte del 16

Nova Methodus discendae docendaeque jurisprudentiae, II, §65 (A, 6, 1, 338). Cfr. sull’importanza di questo passo, Gensini (2002: 124-127). 17 «De eadem re accurate admodum Autor anonymus Arminianus, ut videtur, in Philosophiae scripturae interprete nuper in Belgio edita» (A, 6, 1, 338). Le note sovraggiunte nel 1695 avvisano che si tratta di Lodewijk Meyer, amico di Spinoza, e peggiorano di molto il giudizio sul testo. Su Meyer e il suo Philosophia Scripturae Interpres (1666), mi limito a rinviare al saggio di Bordoli (1997).

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circolo degli spinozisti olandesi e Leibniz attribuisce la condanna del primo da parte delle autorita` religiose alla sua propensione a dare sempre il significato piu` arcaico (e dunque piu` rozzo, piu` materiale) alle parole della Scrittura18. Ecco dunque un estremismo che Leibniz rifiuta – in pratica un’universalizzazione a tutto il linguaggio religioso del nostro caso (ii) – e che forse gli e` stato possibile trovare in nuce gia` nel libro di Meyer. Ecco dunque un altro motivo per il quale la dissertazione del 1670 si premura di spiegarci che fatum puo` essere nato per deriva tropica da dictum Dei, ma non richiede piu` di essere inteso per questa via. Ipotizzerei che Leibniz sosterrebbe la stessa cosa anche per spiritus. In altri termini, la storicizzazione degli usi linguistici puo` essere ammessa – magari anche all’interno del testo biblico – a condizione che la si usi all’interno di uno schema di «rivelazione progressiva». Ma come giustificare allora i casi nei quali gli usi disparati coesistono in uno stesso tratto di tempo e sono usati dagli stessi parlanti? E` in questi casi che viene tirato in ballo il modello Bohl, estrema difesa dell’ipotesi di una logicita` intrinseca nelle scelte dei parlanti. E` presumibile che, in assenza di questo modello di partenza, Leibniz non sarebbe nemmeno arrivato all’ipotesi, piu` blanda e piu` ovvia per noi, che la molteplicita` degli usus si dirami a raggiera da un usus originarius, sempre sottinteso ma tutt’al piu` prototipale. Ma i due corni dell’alternativa restano nella sua mente sempre intrecciati tra loro. Perfino nel caso delle preposizioni, la possibilita` di catturare un qualche significato «formale» per qualcuna di esse non viene radicalmente escluso19 – in particolare quando si tratta di preposizioni che si rivelano indispensabili per la stessa intellegibilita` delle relazioni logiche, come per esempio lo «in» che ricorre nella definizione della relazione soggetto-predicato in ter18 Nouveaux Essais sur l’Entendement Humain, III, 1 (Leibniz: 2000, 2, 251). Sul destino dei fratelli Adrian e Johannes Koerbagh, incarcerati ad Amsterdam nel 1668, cfr. Israel (2001: 185-196). 19 In alcuni casi, Leibniz ammette nella Caratteristica quelle che chiama le praepositiones formales (A, 6, 4A, 883-884). Tra le preposizioni piu` frequentemente salvate dalla soluzione eliminativistica, vi sono «in» e «cum» (cfr. A, 6, 4A, 333-337).

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mini di in-esse20. Da questo punto di vista, la tesi dell’originario riferimento spaziale delle preposizioni puo` venire essa stessa intesa in due modi antitetici: se ne puo` concludere che i nostri usi linguistici rivelano una naturale propensione umana a concepire le cose attraverso schemi e modelli fortemente radicati nella sfera percettuale-sensibile – e fin qui Leibniz e` d’accordo con Locke e anticipa Vico –, ma se ne puo` anche inferire che i processi cognitivi attraverso i quali costruiamo la percezione spaziale sono essi stessi conformi ad operazioni logiche. L’attenzione ai vincoli «naturali» della significazione che Leibniz esibisce quando fa l’etimologista e il teorico del linguaggio ci conduce verso la prima lettura, ma la sua metafisica ci conduce altrettanto ovviamente verso la seconda. Detto cio`, vi sarebbe da domandare se perfino questo gioco sottile tra negazione e ammissione della polisemia non sia soggetto a ipoteche teologiche, oltre che epistemologiche. Da un lato, il Nostro era infatti profondamente consapevole della matrice metaforica di tutte le espressioni riferite al trascendente – il linguaggio della sua monadologia e` intenzionalmente ricco di simili metafore: «punto di vista», «prospettiva», «scenografia» –, d’altro lato non avrebbe mai accettato di vedere queste metafore come assolutamente costitutive e insostituibili. Di qui la sua scelta di provare a rovesciare la prospettiva e di presentarci l’intellettuale come qualcosa gia` in nuce nel sensibile. In ultima istanza, il problema radicale che egli ha di fronte mi sembra ben rappresentato dal suo sforzo, negli scritti piu` maturi, di trovare un analogo del concetto di 20

Si noti che l’uso di inesse per indicare la relazione soggetto-predicato appariva al giovane Leibniz come un caso di deriva tropica malriuscita – quello che abbiamo chiamato il caso (ii) –, come influere ed altri termini scolastici (A, 6, 2, 409-410). Di diverso avviso e` ovviamente il Leibniz maturo, il quale ritiene di aver chiarito la relazione di inerenza come nessun altro prima. Il che ovviamente non vuol dire che Leibniz neghi che noi ci rappresentiamo l’inclusione logica come un rapporto spaziale (si ricordera` che egli anticipa Venn nel rappresentare per mezzo di cerchi le relazioni di inclusioneesclusione logica), ma egli sottende che sarebbero possibili rappresentazioni del tutto diverse e che queste ultime esprimerebbero le stesse operazioni che noi compiamo gia` nel contesto della rappresentazione spaziale.

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«Dio» in una lingua che ne manca quale e` il cinese – come anche dalla sua soluzione di trovarlo adombrato non tanto in una parola specifica, ma piuttosto in un tipo di schema simbolico, quello dello Yang e dello Yin del Libro dei mutamenti21. Per dare una conclusione piu` definita a queste riflessioni e ipotesi, chiudero` indicando quali sono secondo me i testi sui quali occorrera` lavorare non solo per chiarire gli impliciti presenti nei testi leibniziani, ma anche per comprendere piu` a fondo il movimento del pensiero linguistico nel Seicento. In primo luogo, come e` evidente da cio` che ho scritto in queste ultime pagine, ritengo che occorra riprendere in mano i testi di ermeneutica biblica e soprattutto quelli del periodo che va dai processi di crisi interna delle alternative tradizionali (letteralismo, allegorismo...) alla storicizzazione del testo biblico nell’eta` di Spinoza e di Richard Simon. In secondo luogo, credo che uno sguardo piu` accurato alle grammatiche filosofiche rinascimentali e post-rinascimentali e al loro modo di interpretare le partes orationis e le loro funzioni sia ancora interessante: piu` che al celebrato Francisco Sanchez (che Leibniz conosce solo indirettamente, attraverso le divulgazioni di Scioppio), penso qui a Giulio Cesare Scaligero ma anche a Vossius22. Ma infine penso ai lessici filosofici, perche´ uno dei temi centrali nel pensiero leibniziano e` proprio quello della possibilita` del linguaggio della filosofia (ovvero di un linguaggio significante riferito ad entita` astratte). Tra di essi, meriterebbe uno sguardo piu` accurato (e` un consiglio, forse una promessa) il Lexicon Philosophicum di Martin Fogel, un libro che Leibniz stesso contribuı` a fare pubblicare e che nasceva nell’ambiente del grande logico Joachim Jungius23. Questo testo contiene un’ampia e dettagliata teoria dei tropi e 21

Sul caso dell’interpretazione leibniziana del Libro dei Mutamenti, cfr. Widmaier (1983). Sul De Causis Linguae Latinae di Scaligero rinvio ancora a Piro (2005: 16-22). Ma un altro testo fondamentale e` l’Aristarchus di Gerhard Vossius, lungamente analizzato in A: 6, 4A, 609 e passim. Quanto a Sanchez, Leibniz sembra conoscerne le tesi solo indirettamente, attraverso la Grammatica Philosophica di Kaspar Shoppe. 23 Il Lexicon Philosophicum di Fogel fu pubblicato nel 1689 proprio grazie a una segnalazione favorevole di Leibniz. Nell’Akademie-Ausgabe sono riportati tutti i passi sottoli22

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della loro funzione di rimedio all’inopia linguarum e, se non mi sentirei di attribuirgli un’enorme influenza diretta su Leibniz stesso, esso ci aiuta forse a comprendere meglio il trapasso della teoria dei tropi dall’ ambito tecnico della retorica a quello della linguistica storica che si verifica nel corso del Seicento. La potenza teorica di questo trasferimento di domicilio ci e` nota a` rebours a partire da Locke, da Vico, da Rousseau, da Leibniz stesso. Ma scandagliare i suoi primi passi puo` riservare interessanti sorprese.

neati e annotati da Leibniz (A, 6, 4B, 1307-1331). Il testo ha una ampia parte dedicata alle «homonymiae significationis» e ai tropi.

Processi simbolici e parti (pluri)gemellari. La riflessione del linguaggio di Vico tra modello genetico e paradigma funzionale di Sara Fortuna

Introduzione L’ampia ricognizione della storia delle idee linguistiche attuata da L. Formigari con Il linguaggio. Storia delle teorie, riserva alle riflessioni che tengono insieme genesi e funzionamento del linguaggio umano un ruolo di primo piano. Questo intervento prende avvio dalla interpretazione della filosofia del linguaggio di Giambattista Vico proposta in quel saggio, che e` l’esito di una lunga riflessione su temi vichiani (Formigari: 1984; 1990; 2001). L’idea fondamentale intorno a cui si sviluppa la lettura di Lia Formigari – prendendo esplicitamente le distanze da due opposte prospettive esegetiche, quella naturalistica e quella idealistica – e` che la trattazione piu` propriamente filosofico-linguistica del pensiero vichiano emerge anzitutto dagli studi giuridici: «l’interesse di Vico per il linguaggio nasce dall’ermeneutica giuridica come descrizione delle forme del diritto e delle rispettive tecniche di enunciazione» (Formigari: 1990, 89; 2001, 139). L’analisi delle lingue arcaiche (anzitutto latino, greco, ebraico) si sviluppa a partire da questo tipo di ricerca, che e` dunque la condizione a partire da cui diventa possibile formulare «una teoria generale dell’origine e delle funzioni del linguaggio» (Formigari: 1990, 89; 2001, 139). La grande rilevanza teorica attribuita alla connessione tra lin-

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guaggio e diritto deriva anzitutto dal fatto che essa consente di riflettere su cio` che permea e contraddistingue la socialita` umana: «l’inerenza del linguaggio al diritto e` attestata dal fatto che la vita associata nasce con l’elemento, linguistico appunto, della promessa e della testimonianza, della parola data, insomma, e con il credito che ad essa viene prestato» (Formigari: 1990, 89). Il linguaggio umano non e` dunque identificato nelle facolta` cognitive ed espressive che stanno nella testa del singolo parlante, ne´ corrisponde alla capacita` di comunicare tout court, che posseggono anche i «bestioni» non umani. La peculiarita` del linguaggio umano e` viceversa quella di manifestarsi ed evolversi fin dall’origine nella produzione di specifici vincoli e obblighi sociali, di ordini civili e di leggi. Perche´ questo cammino si innesti sulle modalita` sensoriali ed espressive delle “bestie” non umane e` necessario, secondo Vico, che si produca il senso umano di una divinita` onniveggente. La saldatura di religione e linguaggio delle origini assume pero` in Vico un’originale curvatura naturalistica. La stessa divinita` si genera infatti dalla percezione di corpi in movimento e di imponenti fenomeni naturali, anzitutto, come si vedra`, da quella del cielo tonante da cui nasce il carattere poetico di Zeus. Nel connettere tutti gli elementi indispensabili a spiegare l’origine e l’evoluzione delle societa` umane e delle loro capacita` simboliche la filosofia vichiana esibisce non solo quella complessita` e articolazione di questioni e metodi per cui Vico fu a ragione indicato da Cassirer come «il pensatore che, per primo, ha osato abbozzare un disegno comprensivo e sistematico delle scienze dello spirito» (Cassirer: 1923, 106), ma si pone anche come avversaria consapevole della separazione della dimensione sociale, storicoantropologica, dalla dimensione individuale e immateriale del cogito, in una esplicita polemica anticartesiana, (v. Trabant: 1996, 7 ss.)1. 1

Come si e` osservato (v. Trabant: 1994; Badaloni: 1984), nella sua Autobiografia Vico oppone anzitutto uno stile filosofico al cogito cartesiano, attraverso la scelta di preferire alla narrazione in prima persona del Discorso sul metodo di Descartes un racconto tutto in terza persona, in cui la costruzione dell’identita` intellettuale del filosofo e` seguita a partire dai suoi studi, dagli incontri, dalle vicende personali e professionali, dalla rete sociale in cui si muove il filosofo.

Processi simbolici e parti (pluri)gemellari

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Questa mossa, narrativa e teorica al tempo stesso, e` centrale nella riflessione vichiana e si ritrova anzitutto nel principio che esprime la necessita` di ancorare la riflessione filosofica, e anzitutto quella sul linguaggio, a cio` che Vico chiama «filologia», ossia all’insieme dei fatti storici e culturali di cui si compongono le attivita` umane. Questo saggio si propone di mettere in luce alcuni aspetti del tentativo vichiano di pensare la molteplicita` funzionale delle tecniche di significazione umane. I prossimi due paragrafi saranno dedicati ad analizzare come venga delineata la complementarita` di piu` principi funzionali nella genesi della significazione umana attraverso due modelli: quello diadico della tesi del parto gemellare di lingue e lettere e quello triadico in cui si afferma la genesi contemporanea delle tre lingue. Nel terzo paragrafo proviamo ad applicare la concezione plurifunzionale del linguaggio, proposta da Vico con quei due modelli, all’esempio vichiano delle diverse espressioni dell’ira. Nel seguire lo sviluppo della riflessione vichiana su questo punto appaiono con particolare evidenza oscillazioni, trasformazioni e ambiguita` non risolte: nel De uno universi iuris principio et fine uno e nel De constantia iurisprudentis (1720), opere in cui Vico comincia a riflettere filosoficamente sulla natura del linguaggio attraverso i documenti offerti dalla giurisprudenza latina, la tensione tra una concezione del linguaggio radicalmente monista e materialista di matrice epicurea (v. Gensini: 1993) e la metafisica dualista in cui una Provvidenza tutta mente regola la storia ideale eterna, e` particolarmente accentuata, mentre tale tensione si stempera nell’ultima versione della Scienza Nuova, orientandosi sempre piu` verso una separazione netta tra la storia sacra e quella della gentilita`. Questo tratto emerge con particolare chiarezza nella definizione dello statuto della lingua e della storia ebraiche. Quella «felice contraddizione del testo vichiano» (Formigari: 1990, 103) che e` la «contrapposizione tra il corpo e la mente» nella Scienza Nuova del ’44 fa assumere alla lingua ebraica il ruolo di una lingua perfetta nella tradizione secentesca della mistica del logos (Formigari: 1970; Apel: 1963), mentre la storia ebraica viene separata da quella dei popoli gentili. «La cesura tra lingua primeva e lingue volgari» e`

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pero` un punto d’approdo e l’esito di un percorso tormentato in cui Vico presenta anche la lingua ebraica come prodotto della mitopoiesi, anch’esso intessuto di metafore e altri tropi2. Il modo in cui, nei due libri del Diritto Universale, si sottolineano analogie e differenze tra l’ebraico e le altre lingue e tra la storia degli ebrei e la storia degli altri popoli e` il portato di quella concezione plurifunzionale del linguaggio umano che Vico sta proprio allora cominciando ad elaborare. In questo modello trovano fondamento sia la diversita` e specificita` tra lingue e culture (v. De Mauro: 1968; Eco: 1980) che derivano dalle molteplici forme e proporzioni in cui le diverse tecniche di significazione possono interagire tra di loro e con l’ambiente delle comunita`, sia la comunanza antropologica, perche´ il modello di significazione delineato da Vico vale per tutte le lingue e per tutti popoli.

1. Lingue e lettere: origine ed evoluzione di due significazioni gemelle Nella filosofia vichiana il linguaggio corrisponde a una attivita` di significazione multipla, non specificamente verbale, che include comunicazione e comprensione come due facce dello stesso fenomeno. Come ha osservato Ju¨rgen Trabant: il verbo parlare, in Vico, va inteso in questo senso molto generale di «dare a qualcuno qualcosa da capire». Non vuole dire «parlare una lingua verbale», ma piu` in generale «comunicare», «dare segni a qualcuno». (Trabant: 1994, 41).

Nella comunicazione e` sempre incluso colui che comprende, 2

Di Cesare (1992-93). Nelle due ultime edizioni della Scienza Nuova vi e` pero` un luogo in cui Vico sottopone alle leggi delle mitopoiesi anche una nozione cardinale della tradizione ebraico-cristiana qual’e` quella di Provvidenza, considerata, anch’essa, come un universale fantastico (v. Cristofolini: 1994). Questo luogo e` la “Dipintura”, il disegno che ha il compito di introdurre l’opera ed e` costruito da Vico (e realizzata dal pittore Domenico A. Vaccaro) secondo quelli stessi principi della logica poetica del mondo delle origini (su questo v. Fortuna: 2005).

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infatti «nell’espressione parlare e` contenuto percio` l’altro, colui che percepisce il significare» (Trabant: 1994, 41). La novita` del progetto filosofico-linguistico vichiano nasce, come si accennava, da una contrapposizione e da una esplicita polemica contro la filosofia di Descartes e anzitutto dalla contrapposizione a un cogito, che si vuole del tutto sottratto alla sensibilita` e alla comunicazione. Vico contrappone a esso un pensiero che parte dallo studio delle regole piu` antiche del vivere civile, mostrando come esse siano al tempo stesso produzioni simboliche peculiari dell’epoca piu` antica dell’umanita`. In questo scenario radicalmente sociale la stessa struttura della corporeita` umana assume un ruolo di primo piano e, con essa, in particolare, la postura eretta e il conseguente orientamento del volto che permette il ‘faccia a faccia’, dimensione costitutiva della significazione e comunicazione umane. Nel capitolo XLV del De uno universi iuris principio et fine uno intitolato «L’uomo e` naturalmente socievole» Vico associa esplicitamente questa componente alle capacita` comunicative umane: Ed invero non solo per la ragione e per la loquela l’uomo dai bruti differisce, ma eziandio pel volto. Le bestie hanno la faccia, non il volto, e consegue dalle racconte cose, che la natura non ha fatto l’uomo perch’egli, a guisa di belva, solitario godesse le cose utili, ma bensı` perche´ cogli altri uomini le comunicasse (DU: 58).

Emerge qui il ruolo centrale della gestualita`, anzitutto fisiognomica, nei processi di simbolizzazione delle origini, mentre la posizione del faccia a faccia diventa componente costitutiva della nuova forma di socialita` specificamente umana; la forma data all’uomo da Dio e` infatti tale «che gli affetti dell’animo nel volto gli si manifestino, mostrandosi or lieto, or mesto, ora di un’altra maniera; e da un’altra parte egli e` condotto a conformare il proprio aspetto a quello di coloro, che seco lui conversano, arridendo ai ridenti, e dogliendosi cogli afflitti». (DU: 58). La comunicazione gestuale e` parte di cio` che, nella riflessione successiva di Vico, viene definito lingua «mutola» o «mentale».

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Come e` stato mostrato, la descrizione di tale lingua che si esprime per «atti o corpi» che abbiano «naturali rapporti all’idee» (SN: §401) si riconnette alle trattazioni fisiognomiche secentesche (Totaro: 1998, 289). Vico presenta cosı` il primo tipo di linguaggio umano nella triade che prevede una lingua degli dei, una lingua degli eroi e una lingua degli uomini. In quella forma espressiva delle origini fenomeni naturali che si impongono in modo ineludibile all’attenzione degli esseri umani vengono concepiti come divinita`, attraverso un atto di comprensione che precede il momento della comunicazione. Le prime lingue sono dunque «mutole» anche nel senso che in esse ci si limita a indicare con un gesto. Vico osserva che «convenevolmente fu cosı` dalla divina provvidenza ordinato in tali tempi religiosi, per quella eterna proprieta`, ch’alle religioni piu` importa meditarsi che favellarne» (SN: §401). In questa fase quindi percezione e comprensione non si rivolgono a un altro soggetto, a un interlocutore che da` qualcosa da comprendere, perche´ quel primo muto «additare» si riferisce all’intero mondo circostante che viene simbolizzato attraverso la creazione del carattere poetico della divinita`: Giove, Cibele o Berecintia, Nettunno, per cagione d’esempli intesero e, dapprima mutoli additando, spiegarono esser esse sostanze del cielo, della terra, del mare, ch’essi immaginarono animate divinita`, e percio` con verita` di sensi gli credevano dei: con le quali tre divinita`, per cio` che abbiamo sopra detto dei caratteri poetici, spiegavano tutte le cose appartenenti al cielo, alla terra, al mare (SN: §402).

Come si e` osservato a proposito del caso di Ercole, eroe fondatore di civilta` che, come Giove, ha un equivalente in tutti i popoli delle origini: «l’aspetto che piu` colpisce uomini rozzi (la proprieta` di «compiere certe fatiche)» viene privilegiato rispetto alla totalita` e concretezza determinata dell’individuo» (Velotti: 1995, 112). Una volta creato il carattere poetico, esso viene riferito a piu` fenomeni di uno stesso ambito (ad esempio il cielo, la terra o il mare della citazione vichiana) e all’interno di tali ambiti si avvicendano nel carattere poetico piu` aspetti di cui viene colta la relazione

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analogica. Vico descrive in questo modo la matrice della significazione polisemica delle origini in cui la dimensione fonicoonomatopeica si affianca a quella prima percezione di azioni, di «animate divinita`»: [...] nello stesso tempo che si formo` il carattere divino di Giove, che fu il primo di tutt’i pensieri umani della gentilita`, incomincio` parimente a formarsi la lingua articolata con l’onomatopea, con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente i fanciulli. Ed esso Giove fu da’ latini, dal fragor del tuono, detto dapprima «Ious»; dal fischio del fulmine da’ greci fu detto Ζες [...] (SN: §447)

La comunicazione delle origini e` gestuale anche per la difficolta` dell’articolazione fonica dei primitivi, constatazione quest’ultima che porta Vico a paragonare i primi parlanti a muti e balbuzienti costretti a servirsi di una forma canora: «I mutoli mandan fuori i suoni informi cantando, e gli scilinguati pur cantando spediscono la lingua a prononziare» (SN: §228). Quello fonico-acustico e` inoltre un canale privilegiato per l’espressione delle violente emozioni delle origini: «Gli uomini sfogano le grandi passioni dando nel canto, come si sperimenta ne’ sommamente addolorati e allegri» (SN: §229). L’espressione mimica e` dunque complementare a quella sonora ed entrambe, per le reazioni istintive che suscitano, creano le forti relazioni simpatetiche da cui e` segnata la comunicazione delle origini. Poiche´, come abbiamo visto, l’evoluzione del linguaggio va di pari passo con la creazione di una societa` retta da obblighi reciproci, e` necessario che si crei un rete di simboli in cui sia possibile esprimere queste inedite forme di relazioni civili. A tale scopo e` riconducibile la molteplicita` dei caratteri poetici della fase mutola messa in luce dall’indagine vichiana che lega, nell’affermazione di «tre incontrastate verita`», la componente significativa con quelle sociale, politica ed economica: [...] la prima che, dimostrato le prime nazioni gentile tutte essere state mutole ne’ loro incominciamenti, dovettero spiegarsi per atti o corpi che avessero naturali rapporti alle loro idee; la seconda, che con segni dovettero assicurarsi de’ confini de’ lor poderi ed

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avere perpetue testimonianze de’ lor diritti; la terza, che tutte si sono trovate usare monete. Tutte queste verita` ne daranno qui le origini delle lingue e delle lettere e, quivi dentro, quelle de’ geroglifici, delle leggi, de’ nomi, delle imprese gentilizie, delle medaglie, delle monete e della lingua e scrittura con la quale parlo` e scrisse il primo diritto naturale delle genti (SN: §434).

La significazione per caratteri poetici si esprime dunque in forme eterogenee di lettere, attraverso segni percepiti, mostrati, imposti, scambiati nelle interazioni sociali. Essa e` per Vico essenziale per comprendere l’identita` dell’evoluzione simbolica e di quella civile. Nell’enunciare la tesi della “gemellarita`” di lingue e lettere espressa nell’«Idea dell’opera» dell’ultima Scienza Nuova si sottolinea a questo proposito come «l’infelice cagione» della mancata comprensione della natura del linguaggio sia dovuta al fatto che «i filologi han creduto nelle nazioni esser nate prima le lingue, dappoi le lettere; quando [...] nacquero esse gemelle e camminarono del pari, in tutte e tre le loro spezie le lettere con le lingue» (SN: §33). L’errore dei filologi e` stato quello di prendere come punto di riferimento la scrittura alfabetica, la cui comparsa in una fase relativamente tarda dello sviluppo linguistico e` documentabile storicamente. Secondo Vico invece, che riconosce il ruolo straordinario che ha avuto la scrittura alfabetica nel rafforzamento delle capacita` 3 astrattive , l’influenza reciproca tra lingue e lettere, tra la componente fonico-linguistica e quella iconico-letterale, e` un tratto costante e costituivo del linguaggio umano.

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La «Letteratura» ovvero «la scuola di leggere e di scrivere [...] con quelle sottili e delicate forme che si dicono lettere, ingentilisce a meraviglia le fantasie dei fanciulli, che in leggere o scrivere ogni parola scorrono gli elementi dell’abicı`, ne compongo le lettere che lor bisognano, e le compongono per leggerle, o per iscriverle» (SNI: 56).

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2. Ancora tre eccentriche gemelle: lingue di dei, di eroi e di uomini Ad ogni fase dello sviluppo linguistico, delle tre «spezie» di lingue di cui esso si compone, corrisponde dunque una particolare forma di lingue e di lettere che, come in ogni simbiosi gemellare, e` prodotto dal tipo di relazione che tra esse si istituisce. Dalla citazione vichiana sembrerebbe che il modello della gemellarita` tra lingue e lettere faccia riferimento a una compresenza temporale (e a un’interazione funzionale), mentre quello delle tre spezie di lingue descriva piuttosto un avvicendarsi di esse lungo una linea di evoluzione. Tuttavia Vico insieme alla tesi della gemellarita` di lingue e lettere propone anche quella che presenta la stessa nascita delle tre lingue come un singolare parto, almeno apparentemente trigemellare: Ora, per entrare nella difficilissima guisa della formazione di tutte e tre queste spezie e di lingue e di lettere, e` da stabilirsi questo principio: che, come dallo stesso tempo cominciarono gli de`i, gli eroi e gli uomini (perch’erano pur uomini quelli che fantasticaron gli de`i e credevano la loro natura eroica mescolata di quella degli de`i e di quella degli uomini), cosı` nello stesso tempo cominciarono tali tre lingue (intendendo sempre andar loro del pari le lettere); pero` con queste tre grandissime differenze: che la lingua degli de`i fu quasi tutta muta, pochissima articolata; la lingua degli eroi, mescolata egualmente e di articolata e di muta, e ’n conseguenza di parlari volgari e di caratteri eroici co’ quali scrivevano gli eroi, che σματα dice Omero; la lingua degli uomini, quasi tutta articolata e pochissimo muta, perocche´ non vi ha lingua volgare cotanto e copiosa ove non sieno piu` le cose che le sue voci (SN: §446).

Si tratta qui di un parto trigemellare singolare non solo perche´ le tre gemelle sono diversissime: il loro spazio di interazione e` anche inversamente proporzionale; infatti quanto piu` cresce l’una tanto piu` l’altra vede ridotto il proprio ambito di influenza. La significazione mutola e` prevalente nella prima fase mentre in quella delle lingue pistolari e` in uno stato del tutto embrionale. La lingua poetica si affaccia attraverso l’articolazione onomatopeica ed emerge producendo un singolare equilibrio tra la componente muta e quella articolata. Vi e` inoltre un’altra particolarita` da mettere in luce: sembra che qui ritro-

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viamo nuovamente due distinte tecniche di significazione, quella muta e quella articolata, dalla cui fusione la poetica appare prodotta. E` possibile affiancare a esse, come una terza tecnica, la capacita` di mettere in relazione e «mescolare» le altre due, che appunto e` caratteristica costitutiva della lingua di mezzo. Essa ha per Vico uno statuto particolare e una esemplarita` espressiva messa in luce in un sentito corollario: «quanto le lingue sono piu` ricche di tali parlari eroici accorciati tanto sono piu` belle, e per cio` piu` belle perche´ son piu` evidenti, e perche´ piu` evidenti sono piu` veraci e piu` fide» (SN: §445). Si affaccia quindi anzitutto l’idea che cio` che Vico chiama parlari convenuti o lingue pistolari, la lingua stessa di cui egli si serve, funzioni ancora grazie a dispositivi poetici: «La favella poetica, com’abbiamo in forza di questa logica poetica meditato, scorse per cosı` lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l’acque portatevi con la violenza del corso» (SN: §412). Qui l’efficacia della tesi vichiana e` dovuta anzitutto al suo tratto autoriflessivo: il carattere metaforico delle lingue nel loro stato piu` evoluto e` esibito attraverso l’analogia dei fiumi che sfociano nel mare. A partire da questa immagine e` stata proposta la tesi della mitopoiesi come principio funzionale: Ora, e` lecito chiedersi se la presenza di elementi mitopoietici nelle lingue volgari sia da attribuire a una sorta di memoria storica, al fatto che la lingua primitiva «scorse per cosı` lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi fiumi si spargono molto dentro il mare portativi con la violenza del corso»; o se piuttosto non attesti il fatto che il principio genetico e` anche, del linguaggio, il principio funzionale (Formigari: 1990, 102).

Come ha osservato Trabant, non si tratta di considerare «sematogenesi» e «semiosi» come due esiti alternativi e inconciliabili della riflessione vichiana. Nella prospettiva di Vico infatti l’indagine genetica e` quella che meglio consente di comprendere il funzionamento «pancronico» della mente umana, secondo quanto espresso nel principio per cui «Natura di cose altro non e` che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose» (SN: §147).

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Si osservi che, se si associano strettamente genesi e natura di cose, la contrapposizione tra corpo e mente, da cui, come si e` detto, la metafisica vichiana non prende mai veramente congedo, assume le spoglie di una tensione immanente tra principi funzionali che si rivela costitutiva dell’attivita` linguistica umana. In ogni atto di significazione coesisterebbero cioe` la componente mutola, ossia il gesto indicale che seleziona un aspetto particolarmente significativo da un evento e gli attribuisce un nome (originariamente onomatopeico) e quella arbitraria, in grado di separare il significato astratto dalla forma in cui al principio si esibisce attraverso onomatopee e universali fantastici. La compresenza di questi due principi funzionali sarebbe costitutiva della lingua poetica, che congiunge in se´ la dimensione affettivamente marcata e quella astratta e arbitraria ed esibisce nell’universale fantastico i due momenti del particolare/individuale e dell’universale/astratto. Solo in questa mediazione mitopoietica si connettono i due momenti e si articolano al tempo stesso le diverse facolta` che sono alla base dei diversi tipi di simbolizzazione – passioni smisurate, memoria, fantasia, attenzione, capacita` imitative, prevalenti nelle prime due fasi, e riflessione e capacita` logico-astrattive, costitutive dell’ultima. La mediazione mitopoietica e` dunque una componente presente in tutta la proliferante molteplicita` di simboli che si offre allo sguardo del Vico filologo-filosofo. Solo a partire dal nucleo eroico-poetico diventa possibile all’analisi filosofica saggiare le diverse dosature in cui tecniche di significazione e facolta` antropologiche si manifestano. Come abbiamo visto, le lettere delle origini non sono solamente gesti, di esse fanno parte geroglifici, insegne, medaglie, blasoni, stemmi, armi gentilizie, figure geometriche, segni mnemonici, abbreviazioni, cifrari e oggetti di ogni genere. Esse si presentano percio` come membri della stessa grande famiglia dei simboli umani tra loro connessi da una rete di affinita` parentali4, in cui si articolano in diverso modo i diversi principi di significazione. 4

V. Velotti (1995: 109): «I caratteri poetici sono questa eterogeneita`, sono questa ‘famiglia’ di termini di cui e` forse possibile intuire solo qualche tratto comune».

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Non a caso, nella prima Scienza Nuova, i caratteri poetici vengono associati a grammatica e geometria: quello dei caratteri poetici – spiega Vico – e` il principio cardine del proprio pensiero «quale l’abicı` e` ’l principio della Grammatica, quali le forme geometriche sono il principio della Geometria: perche´ siccome la lettera A, per esemplo, e` un carattere della Grammatica ritrovato per uniformarvi tutti gli infiniti diversi o gravi o acuti suoni vocali cosı` articolati, il triangolo, per cagion d’altro esemplo, e` un carattere disegnato dalla Geometria per uniformarvi tutte le innumerevoli diverse figure in grandezza di tre angoli che si aguzzano da tre linee unite in tre punti» (SNI: 155). Alla base della genesi dei caratteri poetici, delle figure geometriche e delle lettere Vico individua dunque uno stesso procedimento: quello che coglie uno stesso aspetto all’interno di piu` fenomeni e lo comunica attraverso uno stesso simbolo. I caratteri poetici, ossia gli «elementi delle Lingue con le quali parlarono le prime nazioni gentili» sono necessari: perche´ se una nazione, per essere di mente cortissima, non sappia appellare una proprieta` astratta, o sia in genere, e per quella prima volta avvertita, appelli in ispecie un uomo da quella tal proprieta` col cui aspetto ha ella l’uomo per la prima volta guardato e sia egli, per esemplo, con l’aspetto di uomo che faccia una gran fatica comandatagli da famigliare necessita`, onde egli divenga glorioso [...] tal nazione certamente da tutti i fatti che per quella stessa proprieta` di fatiche sı` fatte avra` avvertito essere stati operati da altri diversi uomini e in diversi tempi appresso dara` a quegli uomini il nome dell’uomo da quella tal proprieta` la prima volta appellato, e, per istare sul dato esempio, appellera` ogni uomo di quelli Ercole (SNI: 155-156).

I caratteri poetici immettono gia` i popoli delle origini in una dimensione significativa in cui una proprieta` astratta e` gia` «per quella prima volta avvertita». La percezione muta coglie nelle azioni di una persona (ma anche in un fenomeno naturale o in altri eventi) un aspetto particolarmente rilevante e lo affida a un simbolo, si tratti di un gesto, un’onomatopea o di un oggetto. Allo stesso modo le lettere e le forme geometriche colgono un aspetto comune rispettivamente nelle articolazioni di certi suoni e nella

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configurazione di certe sagome e oggetti e gli danno forma attraverso lettere e figure geometriche. E` significativo che per Vico questa sia un’attivita` collettiva il cui soggetto sono appunto le nazioni. Mentre negli scenari glottogenetici anteriori e posteriori a quello vichiano l’invenzione del linguaggio e` per lo piu` opera di un individuo isolato, qui la saldatura di filosofia e filologia e l’assunzione di un punto di vista sociale orienta lo sguardo del filosofo a selezionare quegli aspetti e quei caratteri poetici che hanno avuto una rilevanza storica e sociale e costituito il tessuto connettivo al cui interno si e` evoluta una comunita`.

3. Il geroglifico dell’ira Un esempio che mostra il modificarsi dei rapporti tra le varie tecniche di significazione e in particolare il passaggio dalla significazione poetica a quella delle lingue pistolari e` fornito da Vico attraverso il caso dell’ira. La scelta non e` casuale: l’ira costituisce, infatti, da un lato, l’espressione emozionale di cui i bestioni umani condividono con i loro omonimi non cospecifici tratti fondamentali, dall’altro, un comportamento simbolico specificamente umano che caratterizza i forti delle origini e traina in un certo senso l’evoluzione politico-simbolica di quest’eta`, in cui i primi eroi stabiliscono con i piu` deboli una relazione che e` marcata dalla polarita` ira-paura. La stesso primo senso comune che e` a fondamento della filosofia della storia vichiana, l’intuizione del divino, di Zeus colto per la prima volta nel tuono e nel fulmine, assume i tratti emozionali dell’ira percepita e temuta nel cielo in tempesta. Da quello appunto e` tratto il geroglifico muto della divinita` a cui viene agganciata la voce onomatopeica «Ious» (SN: §447). Al terrore di questa prima, tremenda rivelazione del divino si affiancano altre emozioni meno violente: vergogna per la venere bestiale finora praticata e pudore nella pratica del matrimonio. Quello che i parlari convenuti definiranno «ira» viene colto anzitutto attraverso comportamenti

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esemplari come l’ira funesta dell’eroe Achille o nelle spoglie di una divinita` femminile poiche´ «delle facolta` della mente umana, delle passioni, delle virtu`, de’ vizi, delle scienze, dell’arti» afferma Vico, «formiamo idee per lo piu` di donne, ed a quelle riduciamo tutte le cagioni, tutte le propieta` e ’nfine tutti gli effetti ch’a ciascuna appartengono» (SN: §402). La creazione di un termine come «ira» rappresenta dunque per Vico l’ultima tappa del mondo umano, quella dei parlari convenuti, e delle menti riflessive in grado di padroneggiare le proprie emozioni. Il vocabolo «ira» infatti non fa piu` riferimento a un comportamento corporeo percepito (fatto di gesti e suoni), ma a un concetto astratto e a una qualita` interna e immateriale. Ma questo e` appunto l’esito finale di un percorso: al principio «la mente umana e` inchinata naturalmente co’ sensi a vedersi fuori nel corpo, e con molta difficulta` per mezzo della riflessione ad intendere se medesima (SN: degnita` LXIII)». Se assumiamo in tutta la sua radicalita` questa tesi di Vico, possiamo dire che qui non si vuole affermare la priorita` di una «mente incarnata», di una «embodied mind» come fa quella seconda generazione delle scienze cognitive che non a caso ha in Vico un interlocutore prezioso per il compimento del proprio progetto (v. Danesi: 1995). Nella prospettiva di Vico infatti e` stata la significazione corporea ad essere stata gradualmente “mentizzata”, mano a mano che i significati percepiti nei corpi, spinti dalle passioni, sono stati resi autonomi e attribuiti a rappresentazioni e stati interni della mente. Poiche´ la filosofia occidentale si identifica in buona parte con tale processo, lo stesso Vico si muove ancora all’interno di quel modello dualistico di cui adotta tra l’altro la polarita` mente-corpo. Nel seguire l’evoluzione significativa dell’espressione «ira» Vico ricostruisce pero` le prime tappe di questo cammino: Perocche´, essendo i poeti, innanzi, andati a formare la favella poetica con la composizione dell’idee particolari [...] da essa vennero poi i popoli a formare i parlari da prosa con contrarre in ciascheduna voce, come in un genere, le parti ch’aveva composte la favella poetica; e di quella frase poetica, per esempio: «Mi bolle il

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sangue nel cuore» (ch’e` parlar per propieta` naturale, eterno e universale a tutto il genere umano), del sangue, del ribollimento e del cuore fecero una sola voce, com’un genere, che da’ greci fu detto στμαχος, da’ latini ira, dagli italiani collera (SN: §469).

Cio` che la lingua degli uomini chiama «ira» e` il prodotto di una sostituzione e una contrazione dell’espressione poetica del tempo degli eroi «mi bolle il sangue nel cuore», una contrazione di cui Vico non illustra in realta` l’evoluzione (Pagliaro: 1953, 417) e che non trova fondamento ne´ dal punto di vista storico-genetico, ne´ da quello linguisco strutturale (Trabant: 1994, 84) E` qui necessario riprendere in considerazione la tesi vichiana della gemellarita` di principi funzionali. «Mi bolle il sangue nel cuore» fa riferimento anzitutto alla componente mutola, o, come si direbbe oggi a un significato di ordine gestaltico, che corrisponde a una certa immagine complessiva percepita e simbolizzata come un particolare aspetto. La riformulazione linguistico-poetica la trasforma adottando la strategia dei parlari convenuti e compone quindi un asserto composto di termini dotati di un loro proprio significato letterale «bollire», «sangue», «cuore». Una lettura di questo tipo e` stata data da Nuessel per cui l’espressione vichiana «mi bolle il cuore nel petto» corrisponde alle metafore corporee di Lakoff ed ha come queste un carattere originario (Nuessel: 1995, 137)5. L’espressione coincide anzitutto con un gesto, un movimento che e` investito del ruolo simbolico di un «protoverbo», perche´ gli atti, l’insieme di movimenti di cui si compone il geroglifico dell’ira sono la prima forma di significazione con cui gli esseri umani delle origini e i bambini si riferiscono al verbo dei parlari convenuti «essere adirato». Questa connessione viene stabilita gia` nella «Sinopsi del diritto universale» con cui Vico introduce in italiano De uno universi iuris principio et fine uno e De 5

Nuessel attribuisce a Vico le quattro caratteristiche fondamentali che Lakoff usa per definire la propria riflessione sul linguaggio e in genere la sua filosofia (realismo esperienzalista). Embodiment, immaginazione, tratti gestaltici e una struttura ecologica, ossia la necessita` di partire dai rapporti degli individui con il proprio ambiente (Nuessel: 1995, 133).

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constantia iurisprudentis (1720), e in cui ritroviamo l’esempio dell’ira a proposito della distinzione tra il parlare in prosa e quello poetico: Ed e` piu` propia la locuzion poetica, per esemplo sanguis circa praecordia fervet che irasci de’ prosatori. Quello e` un parlare per caratteri, per immagini: questo un parlare per generi astratti, che del sangue, del cuore e del bollimento se ne e` fatta una parola, che dicesi ira (SDU: 9).

Nelle annotazioni al secondo libro del De constantia, nel paragrafo intitolato «L’espressione poetica e` propria, quella volgare e` impropria», torna nuovamente l’esempio del geroglifico dell’ira come espressione propria, poiche´ «non si puo` applicare in modo proprio e corretto ad un’altra espressione se non a quella di cui e` contrassegno; cosı` come sanguis circa praecordia fervet non puo` significare altro affetto che l’ira. [...]. La ragione e` questa: infatti l’espressione poetica si compone delle note proprie delle cose, e queste cose descrive attraverso le ultime proprieta` delle stesse; ma l’espressione del discorso in prosa dalle proprieta` di ciascuna cosa astrae una sola parola, come genere, come dal sangue, dal ribollimento e dai precordi compone la parola «adirarsi». Ma i generi sono per loro natura comuni, non propri. Percio` chi parla secondo il genere, non parla mai in modo proprio delle cose: ne consegue che le lingue volgari sono di grande impedimento ai filosofi nel distinguere la vera natura delle cose» (DC: 759-60). La «proprieta`» dell’espressione consiste nel suo essere anzitutto espressione gestuale ed onomatopeica che corrisponde alla stessa manifestazione reale dell’ira, riferirsi all’ira attraverso un carattere poetico e imitare una manifestazione dell’ira in qualche misura dunque coincidono (e Vico ha ricordato nella cinquantaduesima degnita` della sezione «Degli elementi» che nel «mondo fanciullo» imitazione e poesia sono la stessa cosa, SN: §216). Tuttavia, per la tesi della coesistenza delle tre lingue, nella fase poetica si saldano la dimensione gestaltica e quella arbitraria: e` chiaro infatti che parlare di ribollimento del cuore sembra presuppone dei termini arbitrari come «cuore» e «bollire», che, se ci si attiene alla concezione vi-

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chiana, sono a loro volta succeduti a espressioni onomatopeiche, dopo che in esse e` prevalsa la dimensione arbitraria, la tecnica significativa che privilegia il riferimento a un concetto, a prescindere dalla analogia con esso del significante che lo esprime. La peculiarita` significativa della fase poetica (la sua superiorita` espressiva, chiaramente sottolineata, come abbiamo visto, da Vico) e` che essa aderisce sempre alla significazione gestaltica, riferendosi esclusivamente a quegli aspetti che sono stati colti nella simbolizzazione percettiva della prima lingua mutola. Un termine come «ira» e` viceversa un termine improprio in quanto mantiene solo delle caratteristiche generali e astratte che permettono di riferire il concetto a piu` casi, ma mai facendo riferimento alle caratteristiche percettive ed espressive di cui essi si compongono. La differenza tra universale fantastico e universale astratto consiste proprio in questo: l’universale fantastico e` gia` in grado di esprimere un significato generale, ma solo servendosi dei tratti gestaltici in cui esso si manifesta attraverso particolari stati corporei, siano essi rossore, pugni serrati, dentatura aggressivamente esibita, suoni espressivi (grugniti, sbuffi, grida, etc.), o appunto ribollimento del cuore. L’universale astratto, che si crea per induzione dal primo, astrae invece proprio dai tratti gestaltici nel produrre per contrazione il termine «ira». Solo nei tempi delle lingue volgari diventa inoltre possibile l’ironia: in questa fase possiamo parlare di «ira» senza provarla e mentire facendo credere il contrario ai nostri interlocutori, oppure appunto parlare ironicamente del nostro essere molto arrabbiati. In realta` siamo persino costretti a utilizzare in modo ironico le espressioni prosastiche e soprattutto poetiche, quando l’attivita` linguistica rompe ogni rapporto con la componente mitopoietica e non puo` quindi che fingere certi sensi non piu` compresi veramente, ma solo ricostruiti attraverso la riflessione. Per questa ragione l’ironia, quest’ultimo arrivato tra i tropi che costituiscono la cognitivita` umana (SN: §408), e` per Vico anche la forma con cui il linguaggio taglia i ponti con sentimento e sensibilita` e diventa capace di esercitare una peculiare forma di distacco su qualsiasi tipo di contenuto. Piu` pericolosa della mente corposa

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dei bestioni che si serve dei piu` antichi tropi poetici (metafora, metonimia, sineddoche) ed e` sempre partecipe affettivamente di cio` che esprime, la riflessione ironica, antitetica al coinvolgimento eroico delle origini, rende identico qualsiasi contenuto e agisce in questo in modo speculare alla razionalizzazione, essendo in grado di rendere accettabile qualsiasi contenuto (Mazzotta: 1999, 230). Anche la riflessione produce dunque la sua barbarie che e` peggiore di quella del senso dei primi esseri umani: infatti quest’ultima – spiega Vico nella sua «Conchiusione» dell’opera – «scopriva una fierezza generosa dalla quale altri poteva difendersi o campare o guardarsi; ma questa, con una fierezza vile, dentro le lusinghe e gli abbracci, insidia alla vita e alle fortune de’ suoi confidenti ed amici» (SN: §1106, 530). La riflessione e gli stessi parlari convenuti mostrano i loro tratti piu` pericolosi nel momento in cui sottraggono ai loro interlocutori ogni mezzo per comprendere le loro vere intenzioni. Il carattere poetico dell’ira assume qui una connotazione etica di verita`: di fronte all’espressione poetica dell’ira, cosı` come di fronte alle sue manifestazioni animali non umane, e` facile reagire in modo adeguato, mettersi in salvo dal pericolo. Quando invece l’ira puo` essere perfettamente controllata, oppure simulata in modo altrettanto preciso, gli esseri umani si trovano a far fronte a pericoli di natura del tutto nuova e rispetto a essi e` necessario che sviluppino una diffidenza priva di scrupoli dagli effetti altrettanto radicali. La figura paradigmatica dello psicopatico, che e` in grado di simulare affetto e amicizia in modo persino piu` convincente di quello delle persone sincere, allo scopo di poter manipolare nella maniera piu` efficace possibile interlocutori che non esiterebbe a eliminare se cio` si rivelasse vantaggioso, si affaccia tra le righe del passo vichiano ed assume una forma tanto piu` inquietante in quanto tale comportamento appare, per cosı` dire, un effetto di linguaggio (v. Guggenbu¨hl-Craig: 1980). E` infatti proprio perche´ il significato delle lingue diventa astratto e arbitrario che noi ci riferiamo a esso attraverso il medium della sola riflessione. Ma come la filosofia della storia vichiana prevede il ricorso (e con esso la possibilita` di un nuovo inizio della storia), cosı` la concezione del linguaggio di Vico ritiene che sia sempre possibile riatti-

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vare un nucleo mitopoietico ormai quasi inutilizzato. La stessa storicita` del linguaggio consente di far nuovamente emergere strati piu` antichi in cui la mitopoiesi e` l’elemento prevalente e con essi anche quella dimensione affettiva che nella psicopatia e` cosı` gravemente lesa6.

4. Conclusioni Consideriamo infine il significato del termine «ira» cosı` come e` esposto da una voce di dizionario. La prima accezione della voce del Grande Dizionario De Mauro ne descrive il significato facendo riferimento anzitutto alle sue manifestazioni («stato di violenta irritazione che tende a manifestarsi con parole di sdegno e gesti di collera aggressiva, indignazione, e sim.»). Nel ricordare poi le nozioni a cui e` associata con piu` frequenza ritroviamo i tratti descritti dal geroglifico dell’ira, («accendersi, avvampare, fremere d’i.»). E` poi menzionata l’accezione teologica, designata come tecnicospecialistica, per cui ira e` «uno dei sette peccati capitali che consiste in un violento e smodato desiderio di vendetta». Anche accezioni autonome come «i. del vento, del mare in tempesta» e «sembrare un’ira scatenata» vengono registrate. E viene infine riportata l’espressione polirematica7 «ira di Iddio», a cui sono attribuite tre accezioni: (1) persona, o cosa terribile; (2) grande confusione, finimondo; (3) prezzo spropositato (De Mauro: 2000, 1298). Anche nella semantica delle lingue storico-naturali, cosı` come in ogni carattere poetico, coesistono piu` sensi, «qualita` diverse e 6

Segnalo che un interessante tentativo di costruire un’etica dell’individualita` moderna non armonicistica, ne´ garantita nei suoi esiti positivi, a partire dalla riflessione filosoficolinguistica vichiana e` compiuto in Gessa (1999: 101): “L’unita` del se´, compresa come immagine poetico-fantastica si costituisce come forma individuale, attraverso un’operare che autenticamente deve avere memoria della disarmonica molteplicita` dell’accadere singolarmente frammentario e casuale da cui si origina”. Sul nesso tra eticita` e linguaggio in base al quale e` possibile parlare di un’’etica dal linguaggio’ v. De Mauro-Fortuna: 1995. 7 Polirematiche sono “espressioni costituite da piu` parole e aventi un significato unitario, non ricavabile dalle parole costitutive” (De Mauro: 2000, X).

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talvolta anche contrarie» (DC: 910-1). Se consideriamo anzitutto le prime accezioni del significato del termine «ira» vediamo che la diversita` di accezioni trova un fondamento comune nella componente gestaltica. Essa non ci presenta soltanto i diversi contesti (anzitutto comportamenti umani e fenomeni naturali) in cui gli esseri umani hanno colto l’aspetto «ira», connettendolo anzitutto alle manifestazioni di una divinita` minacciosa, ma anche la rete di analogie che connette i diversi sensi. Rispetto a questo livello semantico l’accezione teologica dell’ira come peccato capitale e` derivata e dipende proprio dalla produzione di un concetto astratto, che e` condizione indispensabile per l’ontologizzazione dell’ira, presupposta dalla stessa nozione di peccato capitale. Ma e` in «ira di Iddio», cosı` come in molte altre espressioni polirematiche, che ritroviamo quel carattere gestaltico, che Vico attribuisce all’espressione poetica delle origini «mi bolle il sangue nel cuore» e che connette ancora la parola «ira» alle forme mutole delle origini. Se infatti il significato della parola facesse riferimento solo a un concetto astratto e non avesse come propria componente anche le manifestazioni corporee, in cui anzitutto si e` espresso tale significato, non si capirebbe come e` possibile che «ira» si associ ad altri termini, formando un’espressione il cui significato complessivo, non ricavabile dai singoli termini di cui e` composta, descrive un’attivita`, un evento (si dice infatti «ha fatto un’ira di Iddio», «e` successa un’ira di Iddio»), cosı` come l’espressione «mi bolle il sangue nel cuore». L’interazione funzionale delle lingue gemelle emerge dunque con particolare perspicuita` nel carattere eterogeneo della semantica del termine «ira». Persino Wittgenstein, erede nel Tractatus logico-philosophicus di una tradizione logica, che considerava polisemia e omonimia come errori emendabili attraverso un linguaggio privo di segni ambigui, arriva poi nelle sue riflessioni piu` tarde a rintracciare nelle pratiche linguistiche umane le tecniche di significazione poetica descritte da Vico: In una favola di animali si dice: «Il leone ando` a passeggio con la volpe». Non un leone con una volpe, e neanche il leone cosı` e cosı`

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con la volpe cosı` e cosı`. E qui, certamente, e` proprio come se la specie leone venisse considerata come un leone. (Non gia`, secondo quanto dice Lessing, come se al posto di un leone qualsiasi si mettesse un determinato leone. «Grimmbart il tasso» non vuol dire: un tasso di nome Grimmbart). Immagina un linguaggio in cui la classe dei leoni sia chiamata «il leone di tutti i leoni», la classe delle piante «la pianta di tutte le piante», e cosı` via. – Perche´ la gente che usa questo linguaggio pensa che tutti i leoni costituiscano un solo, grande leone. (Noi diciamo: «Dio ha creato l’uomo») (Wittgenstein: 1956, 240).

Quello che Wittgenstein mette in luce qui e` l’originaria compresenza di universale e singolare che e` propria degli usi del linguaggio poetico, delle favole anzitutto, e che e` colta da Vico nel modo piu` perspicuo attraverso la nozione di universale fantastico e da Wittgenstein attraverso la descrizione del fenomeno della percezione di aspetti, sviluppata in particolare negli scritti sulla filosofia della psicologia (Fortuna: 2002). Approdare a queste posizioni dal punto di partenza del Tractatus e` costato a Wittgenstein, proprio come a Vico, piu` di venticinque anni di «continova e aspra meditazione» (SNI: 155, passim)8. La produzione di un nome proprio quale «Leone» e` qui associata al significato del leone come concetto riferito a un intero genere per cui, come osserva lo stesso Wittgenstein, puo` essere perfettamente sensata una frase come «Leone e` un leone» (Wittgenstein: 1956, 240). Come abbiamo visto, per Vico in un nome come «leone», come nei nomi degli Ercoli e degli Zeus, e ancor prima nei termini onomatopeici che a essi si riferiscono a partire da particolari occasioni, sono congiunti sia la specie sia l’individuo sia, anzitutto, le caratteristiche piu` peculiari esibite in esso – nel caso del leone il coraggio, che consente anche l’interpretazione metaforica di una frase come «Leone e` un leone». Percio` quest’ultimo non e` un enunciato di una lingua primitiva obbligata a ser8

Per una riflessione comparativa tra Vico e Wittgenstein che si concentra sull’analisi della Dipintura nella Scienza Nuova e che parte dalla riflessione wittgensteiniana sul vedere come e sulla percezione di aspetti, v. Fortuna (2005).

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virsi della figura dell’antonomasia con cui un individuo con un determinato tratto particolarmente accentuato esibisce il genere astratto, le caratteristiche che in esso si esibiscono. Infatti le lingue storico-naturali di cui ci serviamo ci permettono sistematicamente questo uso molteplice; diciamo infatti, come osserva Wittgenstein «Dio ha creato l’uomo» oltre a «L’uomo si alzo` in fretta»; «il leone e` carnivoro» e «il leone fece un salto di un metro e mezzo», ma anche «leone e` maschile», «leone ha cinque lettere». La molteplicita` di livelli semantici, a partire dalla coesistenza di accezione individuale e accezione generale attraversa tutto il lessico. La riflessione vichiana ci propone come spiegazione del fenomeno un’origine di tecniche di significazione che veicolano la percezione di aspetti in tipi di simboli diversi la cui articolazione funzionale e` il motore dello sviluppo linguistico.

Le lingue e i popoli primitivi in Etienne Bonnot de Condillac e Joaquı´n Caman˜o di Alessandra Olevano

Questo breve lavoro e` dedicato al confronto fra il filosofo sensualista francese Etienne Bonnot de Condillac e il missionario creolo gesuita Joaquı´n Caman˜o (Rioja de Tucuma´n 1737-Valencia 1820) circa la complessa tematica della primitivita` dei popoli e delle lingue. Cerchero` di dimostrare come Condillac, partendo dall’evoluzione dell’intelletto, e Caman˜o dalla primitivita` culturale, arrivarono a teorizzare una stretta relazione fra lo sviluppo gnoseologico, culturale e linguistico. Le loro ricerche si collocano in un momento nevralgico per la storia del pensiero linguisticoantropologico, quando l’osservazione diretta di fenomeni e la riflessione teorica si misurarono con fatica con la grande varieta` umana, ormai riscontrata nel mondo. Senza alcun dubbio, la tipologia morfologica costituı` un esito importante di tale fermento di studi, un paradigma interpretativo capace di inquadrare la diversita` in un cammino teleologico dell’uomo, come fece ad esempio Humboldt (1991). Tale modello trovo` prodromi anche nelle riflessioni che vediamo in questa sede, quando in pieno spirito del Settecento la natura veniva considerata l’unica matrice dell’evoluzione e della diversita` umane. 1. Esiste fra Condillac e Caman˜o una prima coincidenza di ordine biografico: entrambi vissero per un periodo nel Gran Ducato di Parma, il filosofo vi soggiorno` dal 1758 al 1767 in qualita` di

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precettore del principe ereditario e il missionario vi arrivo` nel 1768 come rifugiato politico-religioso, dopo l’espulsione dell’Ordine dalle Province americane. E` difficile affermare quali fossero le letture del gesuita una volta arrivato a Faenza e quanto conoscesse di questo filosofo, come di altri autori fondamentali francesi e dello stesso italiano Vico; certo sappiamo che Condillac aveva avuto un’attivita` intensa in quegli anni e che il suo Cours d’e´tudes aveva ottenuto una prima edizione a Parma (1768-1772), terminata quando il filosofo era gia` tornato a Parigi e immediatamente ritirata. Non ho trovato testimonianze precise del periodo italiano del missionario, prima che andasse ad insegnare a Valencia nel 1800 (Storni: 1980, 49). Nelle carte esaminate egli citava direttamente soltanto l’evoluzionista Paw o si riferiva in modo assai critico e generico alle idee illuministiche, per il resto la sua bibliografia di riferimento e` soltanto gesuitica. Guardando all’insieme della sua produzione (Uriarte-Lecina: 1929-1930, I, 58-63), troviamo una lunga serie di relazioni geografiche, faunistiche, etnografiche e testi grammaticali, lavori interamente dedicati a testimoniare l’attivita` missionaria. Le carte rappresentano in modo eccellente l’intensa attivita` di riordinamento del materiale e soprattutto di difesa dell’Ordine dopo la soppressione, una letteratura centrata sul ricordo, sull’esperienza, ma chiusa rispetto alle teorie filosofiche e linguistiche, presenti al tempo in Europa (Poli: 1995-1996). I testi di Caman˜o analizzati sono costituiti da alcune lettere manoscritte (Camano˜: Bibl. Vat.), databili attorno al 1785, inviate dal missionario a Lorenzo Herva´s y Panduro, al tempo impegnato nella stesura dell’ultima parte della Idea dell’Universo (1778-1787), l’opera gesuitica scritta in risposta all’Encyclope´die (Olevano: 2002). Le relazioni del missionario sono state messe a confronto con alcuni brani di Condillac, tratti dall’Essais sur l’origine des connoissances humaines (1746), dal Traite´ des animaux (1755), dal Cours d’e´tude pour l’instruction du prince de Parme (1775) in particolare nella Grammaire, ne L’art de penser e l’Histoires ancienne. Inoltre sono state presi in esame La Logique (1780) La langue des Calculs (1798) e il Dictionnaire

Le lingue e i popoli primitivi in Condillac e Caman˜o

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des synonymes, pubblicato soltanto nell’edizione delle opere di Condillac (Le Roy: 1947-1951). Caman˜o fu senza dubbio un informatore fondamentale di Herva´s, in particolare quale raffinato conoscitore di quechua, guaranı´ e chiquita; fu anche autore di una parte dei testi grammaticali preparati da Herva´s per Humboldt sulle lingue amerindiane (Camano˜ : Arsi, ff. 34-87; Battllori: 1978). La relazione Caman˜ o, Herva´s, Humboldt segna un importante passaggio dall’osservazione empirica e l’analisi intuitiva dei fenomeni linguistici al sistema filosofico. Se Herva´s fu il mediatore fra le intuizioni linguistiche e la successiva rielaborazione filosofica, Caman˜o compı` il delicato lavoro di riordinamento della personale esperienza, con un’unica forte assunzione teorica: il rifiuto dell’esegesi aproblematica del Vecchio Testamento. La riflessione circa la relazione fra lingua e pensiero partı` quindi dall’urgente esigenza di spiegare il mondo amerindiano secondo una buona dottrina cristiana: per Caman˜o, nato a Buenos Aires, l’America era veramente un intero universo da spiegare e non una impallidita, corrotta copia del nostro continente. Cosı` la sua attenzione era direttamente rivolta alla diversita` dei popoli, incontrata nelle diverse latitudini geografiche. Condillac sviluppo`, invece, la sua teoria sulla diversita` e la primitivita` delle lingue partendo dai processi cognitivi e dall’elaborazione dell’esperienza sensibile. Tutti e due tuttavia contemplarono strutture culturali e sociali viventi nelle lingue, concependo la varieta` delle espressioni umane, quale segno di una necessaria evoluzione dell’uomo, voluta da Dio. 2. Condillac trovo` la molla dello sviluppo dell’uomo nei besoins primari, quali la nourriture e il vivre par troupes e teorizzo` una lenta evoluzione, compresa in un progetto naturale universale. La natura non si presentava agli occhi del filosofo come un enchantement, era piuttosto un sistema che operava organizzato secondo specifiche fonctions. La fonction, capace di governare sia il sistema vegetale, sia quello animale, costituisce un cardine nel pensiero illuministico, come si legge anche nella voce dell’Enciclopedie (Janik: 1981). Nel

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Dictionnaire de Synonymes (Condillac: 1951, 22) di Condillac ritroviamo la parola fonction direttamente rinviata ad action, con evidenza della stretta consequenzialita` degli effetti rispetto alle relative cause e della necessita` di queste ultime. Il principio di funzionalita` governa pienamente lo sviluppo dell’uomo, determinando un necessario crescendo di esigenze e di risposte culturali adeguate. Nel Cours d’e´tude, nella parte Histoire ancienne, Condillac affermava: Ces sauvages paroissent avoir e´te´ les pe`res de presque toutes les nationes; et ils ont toujours laisse´ quelques chose des pre´juge´s et de leures moures aux ge´ne´rations qui se sont civilise´es. C’est une raison pour les observer (Condillac: 1947c, 15).

I besoins che guidano lo sviluppo dell’uomo si configurano quindi come caratteristiche assolutamente naturali che nel tempo trovano organizzazione in diversi moures, cominciando dalla prima forma di vita sociale che e` quella naturale del branco. Tale fase doveva necessariamente per l’uomo essere molto fisica: «les faculte´s du corps sont donc aussi supe´rieures... que celles de l’ame...» (Condillac: 1947c, 15). Le risposte che l’uomo cercava erano quindi legate all’immediata contingenza: Le sentiment de son existence est, en quelque sorte, borne´ au moment pre´sent: il meurt sans avoir eu une ide´e de la mort. Voila` a` quoi se re´duisent toutes les faculte´s qu’il doit a` ce premier besoin (Condillac: 1947c, 15).

Il loro vivere sociale era allora ancora strettamente determinato dalle lois naturelles, e soltanto quando si svilupparono nuove idee e nuovi costumi nacquero lois positives e si svilupparono le societa` storiche degli uomini. Il bisogno, quale motore dell’evoluzione umana, e` centrale anche nel pensiero di Caman˜o che ugualmente intuı` la presenza di alcuni elementi basilari che costituissero l’identita` etnica, strettamente connessi alla stretta sopravvivenza. In un’ottica etnologica cristiana Caman˜o vedeva le naciones salvages caratterizzate da propri

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costumi e sosteneva l’esistenza di culti religiosi che rispondessero all’esigenza naturale di tutelarsi dalla caducita` dell’esistenza: En todas, oˆ casi todas suele haber ciertos Charlatanes, embusteros de oficio, que fingen saber mas que los otros, para curar enfermedades, para causarlas, para imutar, y alterar los elementos, para pronosticar futuros, para adivinar hechos ocultos, oˆ distantes, y sus causas & ... El tener \ellos/ su oficio de impostores heredado de otros, que les precedieron, e¨ intruyeron en los modos de fingir; un poco de sagacidad, y locuacidad en ellos, y la pueril credulidad de la vida rustica, los autoriza, y hace que sean mirados con tal qual respeto; concurriendo tambien a` esto el temor de los males, que domina el corazon de los mortales (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 16r)1.

La pueril credulidad trova una propria risposta alla paura della morte, della malattia, alla vulnerabita` umana, cementando la vita sociale. Soltanto con l’evoluzione dei costumi la religiosita` puo` assumere forme piu` complesse fino ad arrivare all’idea stessa di un’entita` superiore: Este temor que sabe avivar la fantasia, agrandar los objetos, dar cuerpo aˆ las sombras, unido con la ignorancia, por la que atribuyen los salvages todos sus trabajos, y enfermedades a` causa externa, o` malicia agena, les despierta la idea de un ente maligno autor de los males, que mas clara, y mas reflexa, que la que tienen del Ente Supremo; y aun los que de este jamas parlan, hablan de aquel con frequenciaˆ. De aqui ai mismo nace tambien, que los Charlatanes de algunas naciones, con la ambicion de hacerse temer, y hacer creer sus patran˜as, fıˆnjan que aquellas noticias ocultas, que dixe, las recibin de aquel ente maligno oˆ demonio... (Caman˜ o: Bibl. Vat., 9802, f. 16r).

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La trascrizione dei testi manoscritti e` stata effettuata in modo letterale. Sono state usate alcune convenzioni per le seguenti particolarita`: carattere corsivo per esplicitare le abbreviazioni; {~} testo cancellato ma leggibile; {-\} testo cancellato e aggiunta in interlinea; \ / aggiunta in interlinea; 0 cambio di mano.

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Ogni popolo facilmente elabora, secondo Caman˜o, l’idea di un ente maligno che causa i mali degli uomini. I rusticos nella loro cecita` trovano soltanto riposte immediate ed elementari, senza possibilita` di concepire progetti universali, ma cio` non significa affatto che siano posseduti dal Demonio, come comunemente si pensava. La fede cristiana, in questa concezione, si prospettava essere il punto di arrivo di un percorso di crescita umana. Tutte le naciones cercano risposte alle problematiche della nascita, del popolamento della terra, della diversita` umana e delle relazioni sociali che danno vita in ogni luogo a ritualita` e miti, piu` o meno complessi, ma simili ai nostri racconti biblici. Tale coincidenza per Caman˜o e` dovuta all’universalita` dei bisogni e delle capacita` umane e non a reminescenze della vera fede e di veri costumi. A tal proposito, e` molto interessante la sua aspra critica a quanti pensavano che le forme di circoncisione presenti fra gli amerindiani fossero da imputare ad un’origine ebraica; laddove esse segnano un’importante iniziazione sociale e la relativa distinzione di ruoli: La circuncision delos Mocobies, y de los Guaicurus, y de otros barbaros, se reduce a` lo que voi a decir. En aquellas conversaciones, en que los viejos suelen engrandecer sus valentias antiguas, suelen decir; estos mozalvetes se crian mui regalones, yo quisiera ver si tendrian corage para las heridas. Los mozos responden, que tienen mas corage que los viejos. Altercan un poco, y salta el viejo diciendo: vamos a` la prueba. Quien de vosotros tiene animo para defjarse punzar con espina, oˆ hueso del perscado Raya. Ofrecense todos los mozos a` esta prueba de valor .... queda establecida en la nacion como costumbre; y esto es lo que los Historiadores, quando dicen que tal o` tal nacion usa un cruel rito para graduar de soldados a` los jovanes; porque en realidad despues de haber pasado por dicha prueba, los miran ya con respeto como a` hombres de valor, y los cuentan por mozos de armas, y no los echan con la chusma de mugeres... (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 18r).

Le relazioni sociali, il culto religioso e il potere, rigorosamente stabiliti secondo una principio di funzionalita`, ordinano la vita

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degli uomini. In questo troviamo un primo importante punto di convergenza fra i due autori. Ancor piu` interessante e` la relazione fra lingua e cultura per Condillac e Caman˜o. Secondo il filosofo francese l’uso della comunicazione verbale e quello dei cinque sensi costituisce un a priori sensoriale, cognitivo e linguistico. La «sostanziale uniformita` organica degli uomini e della conseguente uniformita` di rappresentazioni costruite sulla base dei sensi e procedimenti mentali» (Formigari: 2001, 149) sono la base per lo sviluppo dell’uomo, legato alla contingenza delle occasioni. Si configura con queste caratteristiche un fonds comune che permette, cambiando, di sviluppare varie societa` e varie culture: Ce fonds varie ensuite parce que la diffe´rence des conditions, en nous plac¸ant chacun dans circustances particulie´res, nous soumet a` des besoins diffe´rens (Condillac: 1947b, 361).

Il fonds comune trova quindi elaborazioni diverse nelle varie parti geografiche come nei diversi tempi storici. Entrambi gli autori partono dal presupposto biblico della caduta nel mondo dell’anima umana e dalla perdita della conoscenza immediata e dalla nuova condizione di casualita` che costringe l’uomo nel tempo e nello spazio e soggiacere ad elementari accidentalita`. Se Condillac sosteneva che la lingua fosse la moulle per lo sviluppo dell’uomo, della sua ame e di ogni sua elaborazione culturale, Caman˜o affermava che la diversita` dei popoli e dei costumi e il loro cambiamento si rivelasse soprattutto nelle lingue: Bien puede ser que en el decurso de tantos siglos se hayan, en alguna otra Lengua trocado las suertes, de modo que, la que fue rica, haya venido a` probeza: porque es cierto que la mayor multitud de individuos de una nacion, su mayor mutuo comercio y trato, su loquacidad (que puede entrar como moda nueva) su aplicacion al estudio de la eloquencia, y a` otras artes, y ciencias, su gobierno politico &, y principalmente si por casualidad inventaron, oˆ adquirieron la arte de escribir, con que se traspasan a` los decendientes y se eternizan las voces y frases de tarde en tarde inventadas, todo concurre a` enriquecer una lengua; y al contrario la puede empo-

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brecer mucho el ser poca la gente, el separarse en tropillas chicas, el andar descarriados, fugitivos, y a` veces solitarios en busca de caza por los bosques, el emplear los dias mas en buscar alimento, que en charlar el abandonar artes, ciencias, gobierno, el retitarse de lso objetos antiguos y reducirse a` tener a` la vista otros mui pocos, & porque faltando la frequencia del conversar, y del repetir las voces, y frases que se saben, se olvidan facilmente per non usus, oˆ los jovenes no las aprenden, ni pasan a` los nietos las que supieron los Abuelos (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 37r).

La ricchezza linguistica e` strettamente legata all’evoluzione dei singoli popoli. Piu` una nacion e` grande, ha relazioni con altre gentes, piu` si arricchisce e si evolve, esprime nuove idee e nuovi bisogni, sicche´ la sua lingua maturera` una ricchezza lessicale e strutturale. Invece, per popolazioni isolate e` facile pensare ad una comunicazione basata su pochi elementi, ad una lingua piu` povera per «voces y frases», perche´ lo stesso uso consolida le forme e ne garantisce il passaggio da una generazione ad un altra. Ugualmente la scrittura costituisce un elemento di civilta`, capace di custodire la ricchezza di un popolo e di promuoverne lo sviluppo. Le arti, i mestiere e le scienze trovano sviluppo assieme alla lingue. Le lingue si trasformano a seguito dei cambiamenti socio-culturali, e vedremo piu` avanti come avviene tale trasformazione di «voces y frases». Inoltre, secondo Caman˜o, non soltanto appare sciocco cercare costumi europei fra i popoli amerindiani, ma e` folle cercare fra le lingue dei due continenti similitudini lessicali, come molti volevano (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, ff. 12-18). E` possibile invece ripercorrere a ritroso la storia dei popoli incontrati proprio attraverso le loro lingue, le rispettive somiglianze, diversita` e contatti o interferenze, come diremmo in termini moderni. Tutte le carte del gesuita sono improntate in questa direzione. Nelle lingue si nasconde la storia delle genti nelle loro tradizioni di credenze e di tecnica. L’originale concezione etnologica di Caman˜o si lega alla forte tradizione di studi missionari e alla stretta collaborazione fra i gesuiti espulsi, come chiaramente si vede sia nelle carte hervasiane (Ca-

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man˜o: Bibl. Vat., 9802-9803), dove si leggono le storie etnolinguistiche dei diversi popoli incontrati. La stessa relazione fra lingue e civilta` e` riscontrabile in tutte le opere di Condillac. Nella Grammaire leggiamo: «Il faut donc conclure que les langues plus riches sont celles des peuples qui ont beaocoup coultive´ les arts et le sciences» (Condillac: 1947c, 435). Le lingue non possono che arricchirsi in relazione allo sviluppo culturale. 3. Assodata la relazione fra sviluppo culturale e sviluppo linguistico, va ora analizzata la natura di quest’ultimo e la sua relazione con le capacita` cognitive dell’uomo per i due autori. Nell’Introduzione a l’Essai sur l’origine des connoisances humaines (Condillac: 1947a), riprendendo la teoria di Locke, Condillac osserva che la metafisica «contribue le plus a` rendre l’esprit lumineux, pre´cis et entendu, et qui, par conse´quent, doit le pre´parer a` l’e´tude de toutes le autres» (Condillac: 1947a, 3), essendo questo lo studio rivolto all’indagine di tutte le ope´rations che governano la conoscenza dell’uomo. L’uomo di Condillac elabora ide´es sulla natura e le fissa e le comunica mediante i segni linguistici: Les ide´es se lient avec les signes, et ce n’est que par ce moyen, comme je le prouverai, qu’elles se lient entre elles. Ainsi apre`s avoir dit un mot sur les mate´riaux de nos connaissances, sur la distinction de l’ame dans leurs progre`s, mais encore de rechercher commente nous avons contracte´ l’habitude des signes de toute espe`ce, et quel est l’usage que nous en devons faire.... (Condillac: 1947a, 4).

Questa capacita`, propria soltanto degli uomini, permette quindi di tesaurizzare le conoscenze organizzandole. I processi cognitivi, fino alla tesaurizzazione delle conoscenze nella lingua, rispondono quindi pienamente ad un criterio di funzionalita`. Lo studio delle conoscenze e della lingua coincide sempre con quello delle relazioni fra le ide´es (Auroux: 1979, 116-158), e con la loro relazione diretta con il mondo percepito. Studiare le conoscenze dell’uomo non puo` in alcun modo prescindere dallo studio del legame fra

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ide´es e signes e dalla stessa organizzazione dei signes (Condillac: 1947a, 6). Esiste quindi una progressione nella conoscenza e nello sviluppo linguistico: Touts nos besoins tiennent les uns aux autres, et l’on en pourroit conside´rer les perceptions comme une suite d’ide´es fondamentales, auxquelles on rapporteroit tout ce qui fait partie de nos connaissances. Au-dessus de chacune s’e´le`veroient d’autres suites d’ide´es, qui formeroient des espe`ces de chaıˆnes dont la force seroit entie`rement dans l’analogie des signes (Condillac: 1947a, 17).

Il signe linguistico mantiene per analogie un legame indissolubile con l’ide´e. Il processo cognitivo parte dai cinque sens che permettono la perception e quindi immagination e la nascita delle ide´es, che grazie all’attention si fissano e si organizzano con la me´moire. Attraverso la re´minescence possiamo sempre richiamare ed usare i segni linguistici e le ide´es ad essi relati. Perception, immagination, attention me´moire, analogie re´minescence costituiscono le fasi progressive dei processi cognitivi umani. Tale schema e` rintracciabile in tutte le opere condillachiane, fino allo stesso Dictionnaire. La nostra conoscenza si configura quale processo astrattivo che procede per successivi ordinamenti concatenativi analogici, dove la lingua rappresenta il momento fondamentale di conservazione e organizzazione. L’analogia che governa la progressiva astrazione del pensiero e` allora la liaison primaria fra il segno e l’ide´e, capace di stabilire per contiguita` l’indissolubile relazione fra i due enti. I segni linguistici, importante fase del processo cognitivo, non sono propriamente arbitrari (Formigari: 2001, 149), piuttosto essi sono una convenzione, che nasce per gradi: gli accens inarticule´es (Condillac: 1947c, 428) divengono gradualmente artificiali, «donne´s par l’analogie» (Condillac: 1947c, 429). Un punto interessante che conferma la gradualita` fra natura e convenzione e` quello dell’apprendimento del linguaggio naturale che permette l’universale comunicazione. Per Condillac anche questo linguaggio necessita di un apprendimento, di una forma di relazionalita`:

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... mais si cet homme n’avoit pas observe´ ce que son corps fait en pareil cas, il n’aurait pas appris a` reconnaıˆtre le de´sir dans les mouvement d’un autre (Condillac: 1947c, 429).

Da solo l’uomo, in assenza di un simile, non userebbe neanche un linguaggio naturale, essendo questo basato sulla reciprocita`. Tale principio, ovviamente, e` primario anche nella comunicazione verbale. La lingua e` artificio nelle parole, ma e` naturale, in quanto forma di comunicazione che l’uomo apprende ed usa. [...] il n’a pas dit, faisons une langue: ils ont senti le besoin d’un mot, et ils ont prononce´ le plus propre a` repre´senter la chose qu’ils vouloient faire connaıˆtre (Condillac: 1947c, 433).

Tenuto fermo tale principio, rimane un altro punto molto importante da spiegare, e cioe` come sia strutturata, secondo Condillac, la lingua dei sauvages, in cosa consista la sua primitivita`. Essa e` sicuramente piu` povera nel lessico di una lingua con tradizione letteraria e scientifica, ma bisogna pensare alla sua struttura fonologica, morfologica, e sintattica. Nella Grammaire, viene confermata la relazione fra lingua e pensiero ed affermata l’esistenza di alcuni tratti basilari per tutte le lingue: [...] puisque le systeˆme des ide´es a partout les meˆmes foundamens, il faut que le syste`me des langues soit, pour le fond, e´galement la meˆme par-tout; par conse´quent, toutes les langues ont des re`gles communes, toutes ont des mots de diffe´rentes espe`ces; toutes ont des signes pour remarques les rapports des mots (Condillac: 1947c, 435).

Per parole diverse necessariamente devono sussistere delle re´gles comuni. La lingua, di chiara matrice sensibile, che costituisce la nostra distanza dagli animali e dagli angeli (Condillac: 1947a, 4), e` capace di custodire ed esprimere, come abbiamo visto, tutte le liaisons della nostra vita, le nostre progressive articolazione d’ide´es. La relazione fra lingua e pensiero nell’Essais e` sostanzialmente in linea con il pensiero lockiano, fatta eccezione della distinzione,

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operata da Condillac, fra memoria e reminiscenza, la facolta` dell’uso dei segni linguistici. Ne La Logique vengono ripercorse tutte le faculte´s de l’ame e viene ribadito come l’unico modo per analizzare il pensiero sia partire dalle langues che si configurano come metodhes analytiques (Condillac: 1947d, 398-401). Gia` in De l’art de Penser (Condillac: 1947c), all’interno del Cours, si trova esposta tale teoria a conferma dell’importanza delle lingue nel progresso delle ide´es, nelle loro reciproche liaisons. Le categorie grammaticali appaiono quindi rispondere ad un organizzazione del pensiero. Questa concezione risulta in linea con lo psicologismo della scuola di Port-Royal (Formigari: 2001, 148). Nell’ultima opera, La langue des Calculs (Condillac: 1947e), pubblicata postuma, la lingua diventa forma del pensiero in senso ancor piu` forte. Condillac diviene addirittura l’interprete piu` rivoluzionario della logica port-royalista (Auroux: 1982, 74-75), affermando che l’analogie del linguaggio permette di percepire la stessa identita`: L’analogie est proprement un rapport de ressemblance ... Mais diffe´rentes expressions repre´sentent la meˆme chose sous des rapports diffe´rents, et les vues de l’esprit, c’est- a`- dire les rapports sous lesquels nous conside´rons une chose (Condillac: 1947e, 465).

Il principio su cui poggia la facolta` di linguaggio, l’analogia, diviene quindi il motore del ragionamento logico. Il pensiero delle opere precedenti viene quindi radicalizzato, e proprio in apertura si legge: «Toute langue est un me´thode analytique, et toute methode analytique est langue» (Condillac: 1947e, 465). La lingua, che ha una chiara contiguita` rispetto al linguaggio d’action e alla stessa realta`, va a costituire interamente il procedimento logico. Il pensiero di Condillac rispetto alla formazione delle lingue presenta un doppio carattere: To consider the undeniable coexistence of semantic empiricism ... with syntactic rationalism (the attribution of universal validity to grammatical categories) as an indigestible residue in the philosophy

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of the Enlightenment would be anachronistic (Formigari: 1992, 176).

Tuttavia la struttura della lingua risulta essere generata dall’universale intelletto dell’uomo e come tale si mostra essere unica (Auroux: 1992, 184). Cosı` si ferma lo studio della struttura linguistica delle lingue primitive in Condillac, senza un forte interesse per l’articolazione fonologica, morfologica e sintattica delle singole lingue. L’idea di struttura linguistica la ritroviamo in Caman˜o, sia pure con modalita` assai differenti. Il gesuita, non considerando direttamente ne´ il problema gnoseologico, ne´ tanto meno quello logico, elaboro` l’interessante teoria dell’artificio linguistico e della relazione fra lingua e pensiero. Il concetto classico di meccanismo che appartiene certamente alla tradizione linguistica europea gia` dal ’500 (Formigari: 2001, 121-130), e` presente anche nella tradizione grammaticale missionaria. In tutti gli studi linguistici missionari troviamo, nel prologo, la meraviglia per la prodigiosa struttura della lingua nella grammatica, nei suoni e nelle frasi: un esempio fra tutti si ritrova nei testi classici di Montoya che celebrano la lingua, particolarmente nella sua capacita` di composicion (Montoya: 1639; 1876, 3), ma Caman˜o elaboro` una teoria sulla funzionalita` della struttura linguistica, con connotazioni molto interessanti. Rifiutando con forza l’idea di una monogenesi, il missionario identifico` l’evento biblico della torre di Babele con la plurigenesi. Riteneva assurda una semplice corruzione dell’unica lingua avvenuta sul lessico: Yo al contrario pienso que los de Babel el tiempo de la confusion quedaron con la misma loquacidad que antes, no con la misma lengua [...] El borrarles dela memoria la antigua lengua, y darles solo pocas voces de la nueva, de modo que no pudiesen proferir varios pensamientos que les venian, no seria tantos confundirles la lengua, quanto quitarsela, oˆ cercenarsela, y andar escasa en el milagro la divina Providencia, como si le faltase inventiva para completar y llenar de voces en un momento lillares de lenguas, oˆ le costase esto mas que infundir en cada mente un monosilabo (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 108r).

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Al momento della dispersione delle genti, la vera primitivita` non doveva certamente configurarsi come un balbettio o una comunicazione per monosillabi. Piuttosto, ogni nuova lingua doveva essere funzionale alla comunicazione necessaria, doveva rispondere al grado di sviluppo della popolazione parlante e dei suoi momentanei bisogni, sia nel lessico, sia nella struttura sintattica: Creo pues firmamente que cada familia quedo tan surtida de voces, y frases en la nueva lengua que le cupo, quanto lo estaba de ideas mentales (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 108r).

E ancora: Y como en esto segundo habia, y debia haber mucha diferencia de unas naciones, oˆ familias, a` otras; pues unas habian de ser mas cultas y mas instruidas, {~ que} otras mas rusticas; asi sucedio`, que a` unas tocase lengua mas culta y mas rica de voces y frases, a` otras una lengua mas pobre (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 108r).

La ricchezza in voces y frases chiaramente testimonia un’idea della varieta` nella struttura della lingua e non semplicemente nel lessico. Anche la piu` povera delle lingue doveva possedere una struttura, altrimenti la comunicazione non avrebbe potuto aver luogo: Confieso que paraque no se entendiesen, bastaba que Dios les diese nuevas voces sin ligamento gramatical; mas en tal caso, contra el sentir comun, no se verificaria, que se hablaban y no se entendian; pues locucion sin orden, y construccin gramatical de las voces es un gordisimo hirco-cervo; y por otra parte como se habian de entender unos a` otros los individuos de una misma familia? Estarian mudo, oˆ sin entender hijo a` padre, muger a` marido, gritando uno blictiri, otro baralipton, sin saberse si aquel era nombre oˆ verbo, primera oˆ 2.a persona, acusativo oˆ nominativo &? Y como habian de entenderse para ir despues estableciendo el orden gramatical? Fuera de que el artificio mismo de las lenguas Americanas por lo comun en su simplicidad, y regularidad, y en su raridad, y en la admirable conexion de unas cosas con otras, muestran non

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ser invento del capricio humano (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 111r).

Nessuna comunicazione potrebbe avvenire senza il ligamento gramatical. Tutte le lingue, secondo Caman˜o, usano un insieme di suoni, ma essi sono strutturati in lessico e grammatica. L’artificio, la struttura, certamente non puo` essere opera dell’uomo ed esso si conserva nel tempo: Por esto tengo por cierto que el artificio, y modo grammatical de las lenguas, au`n con mas imutabilidad que sus voces, viene desde Babel, y lo infundio Dios a` cada familia junto con lo material de las voces (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 111r).

L’artificio ha in se´ un chiaro tratto di funzionalita`; non e` affatto casuale, e` stato donato da Dio e caratterizza in modo peculiare le lingue. Il momento della Torre di Babele non e` piu` semplicemente quello della confusione, ma diviene l’evento creativo della plurigenesi delle lingue. Inoltre, nella lunga trattazione il missionario insiste lungamente sul diverso grado di difficolta` nel mutamento del lessico, dei suoni, della grammatica e della sintassi. Il contatto rivela la stessa forza dell’artificio linguistico (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, ff.15r-45v, 100r-121v). Caman˜o, operando fra popoli in chiaro contesto di contatto linguistico, pote` misurare in quale modo il nuovo lessico entrasse nelle lingue, quanto subisse una trasformazione nei sonidos e come venisse assimilato anche alla grammatica della lingua. Le lingue seguono quindi per lui un proprio processo evolutivo, condizionato anche da eventi esterni, ma conservano dei tratti strutturali peculiari. Tale idea di artificio verra` ampliamente ripresa ed elaborata da Herva´s, in termini di arbitrarieta` (Olevano: 2002), nella logica di una «linguistica epicurea» (Gensini: 1999) cristiana. La relazione fra lingua, cultura e pensiero e` radicale nel missionario: soltanto le facolta` e i bisogni costituiscono un presupposto comune fra gli uomini. Un ulteriore elemento utile a focalizzare i tratti comuni fra i due autori e la profonda originalita` di Caman˜o e` la trattazione dei

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numerali. Condillac sosteneva con forza la sua idea dell’a priori corporeo sullo sviluppo cognitivo e quindi linguistico della numerazione, come per il passaggio dalla langue d’action al segno linguistico: «Or le calcul avec les doigs est le premier calcul, comme le langage d’action est le premier langage» (Condillac: 1947e, 420). L’unita` matematica trova quindi il suo presupposto fisico nelle dita e la necessita` di fissare l’idea porta alla creazione del segno linguistico numerico; i sistemi di numerazioni e quindi dell’aritmetica non sono altro, secondo Condillac, che sistemi linguistici (Condillac: 1947e, 466-467). Cosı` la logica classica e la matematica trovano uno stretto legame con la nascita e l’apprendimento della numerazione (Auroux: 1982, 18), di nuovo una contiguita` fra presupposto corporeo e astrazione della conoscenza. Nell’Essais Condillac parlo` della nascita del numero ’mille’ in relazione con lo sviluppo culturale (Condillac: 1947a, 45). La relazione fra sistema di numerazione e sviluppo culturale e` molto forte anche in Caman˜o; parlando dei Manaciquas, una popolazione assai rustica che viveva al centro dell’attuale Bolivia, affermava che non avevano altra possibilita` che contare: uno, due e molti. I loro bisogni apparivano talmente poveri e i loro commerci erano praticamente inesistenti, da non necessitare di altre distinzioni (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 17r). Ma la sua analisi sulla funzionalita` della numerazione e lo sviluppo dei sistemi numerici va ben oltre: tento` una comparazione fra diversi sistemi, riconoscendone le varie sintassi. Attento osservatore, valutava i sistemi secondo la capacita` di esprimere quantita` grandi con piu` o meno precisione e l’uso di parti del corpo per esprimere entita` numeriche: El indio Lule para expresar, oˆ dar a` entender mayor cantidad, se valdra` mas de acciones que de palabras Levantara` las manos en derecho de los hombros, mostrandola abiertas, y inclinando al mismo tiempo la cabeza para mirar los pies, dira` tamop, que es decir, dos veces todo esto que muestro; y quedara` mui satisfecho de haber dicho quarenta. Con la misma accion acompan˜ada de la voz tamlip dira` 60 y acompan˜ada de loquep moile loquep, dira` , oˆ ocho veces veinte; y acompan˜ada de loquep moile alapea, dira` 81 y

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acompan˜ada de tamop moile is yacion dira` 50 && (Caman˜o: Bibl. Vat. 9802, f. 20r).

Oltre all’ostensione delle parti corporee egli rilevo` altri casi di prolungamento vocalico con valore accrescitivo: Si alguna vez ocurre, cogen unos granos de maiz, otra cosa, en numero a` poco mas, o` menos, proporcionados alquien queren significar, y mostrandolo, dicen Choitie, como esto. Mas por lo comun se contentan de decir unaha muchos. Unahapuz muchisimos, y si quieren exagerar mas alargan, oˆ redoblan una, oˆ mas veces la primera a diciendo unaahapuz (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 20v).

Nella rassegna compiuta sui sistemi di numerazione, analizzando le relative basi e le strutture sintattiche (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 19r-24v), egli prospettava chiaramente una relazione fra complessita` dei sistemi di numerazione e sviluppo culturale, mostrandosi attento all’uso di parti corporee per l’espressione (Caman˜o: Bibl. Vat., 9802, f. 20v). L’originale studio sulla contiguita` fra corporeo e linguistico nel sistema di numerazione presta interessanti testimonianze e spunti per le moderne riflessioni sulla relativa classificazione (Pannain: 2000). Esso testimonia quanto fossero correlati per Caman˜ o lo sviluppo culturale, cognitivo e linguistico. La parte dei suoi appunti dedicati ai numeri nei diversi popoli incontrati confluirono nel trattato Arithmetica di quasi tutte le nazioni conosciute di Herva´s, compresa nell’ultimo volume de L’Idea dell’Universo (Herva´s y Panduro: 1778-1787). 4. Da quanto esposto si arguisce come la primitivita`, sia per Caman˜o che per Condillac, si riveli essere aderenza non semplicemente ai bisogni primari, ma alla specifica dimensione corporea e abbiamo visto quanto la comunicazione ne risulti determinata. Assodata la stretta corrispondenza fra cognizione e lingua, si e` dunque visto come la lingua segua lo sviluppo dell’uomo. Per entrambi gli autori abbiamo verificato che esiste una struttura per le lingue, una loro autonomia rispetto al progresso dell’uomo. Tut-

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tavia, mentre per Condillac essa e` determinata dalla stessa organizzazione del pensiero e quindi e` uguale per tutte le lingue, per Caman˜o essa e` un’infusione divina ed e` diversa per le varie famiglie linguistiche. Cosı` l’analisi fenomenica e la mancanza di un paradigma filosofico di riferimento forte sembra aver portato piu` lontano Caman˜o, lasciandogli supporre una diversita` radicale nelle lingue, creata da Dio. La torre di Babele offriva un semplice presupposto alla plurigenesi. Struttura linguistica, diversita` e cammino dell’uomo sarebbero divenute con Humboldt (1991) parte di un unico vero processo umano.

Psicologismo e antipsicologismo nello studio del linguaggio. Il caso Herder di Ilaria Tani

1. Filosofia, psicologia, linguistica Tra le grandi questioni che periodicamente si ripropongono al dibattito filosofico e linguistico, quella del cosiddetto «psicologismo» ben si presta ad evidenziare il rilievo della prospettiva storiografica nella discussione dei fondamenti disciplinari dello studio del linguaggio. Di questo grande problema, la cui consapevole formulazione si colloca nella seconda meta` dell’Ottocento, il caso Herder costituisce un importante capitolo introduttivo, un tassello della preistoria della psicologia linguistica. Il riconoscimento di questa appartenenza e` tra i meriti della ricerca di Lia Formigari (1994; 2001), la cui indagine storiografica ci aiuta inoltre a sgombrare il campo dalle rigide contrapposizioni di cui e` disseminata la storia delle idee linguistiche, mostrando la compatibilita` di orientamenti oggi sentiti come antitetici. Tra questi, la presunta antitesi tra internalismo ed esternalismo. Se compito primario della ricerca storiografica e` dimostrare come si sono dipanati i fili delle diverse tradizioni, quando eventualmente si sono spezzati e perche`, una delle principali difficolta` consiste nel verificare la coerenza storica dell’impiego di nozioni ricorrenti. Nella riflessione filosofica a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento il termine «psicologismo» ha acquistato un significato decisamente negativo, indicando la sistematica confusione tra

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il mondo delle regole e delle norme e i principi del funzionamento psicologico. Ma in ambito linguistico ancora per tutto l’Ottocento il termine possiede un’accezione positiva: lo psicologismo linguistico si serve degli strumenti concettuali della psicologia per un piu` realistico lavoro di descrizione dei fenomeni linguistici (Elffers: 1999, 303). Il suo orientamento e` dunque decisamente empirico e sperimentale, come lo e` d’altra parte quello della linguistica storico-comparativa, altro grande paradigma dello studio ottocentesco del linguaggio. L’uso negativo del termine «psicologismo» nell’ambito degli studi linguistici si diffonde solo all’inizio del Novecento, in conseguenza del mutamento di prospettiva gia` maturato nel dibattito filosofico. L’antipsicologismo in filosofia ha innanzitutto una matrice logicista, coincide cioe` con la rivendicazione dell’autonomia della logica e del suo oggetto, pensato come distinto sia dal mondo naturale e fisico, sia dal mondo delle rappresentazioni mentali. Ha poi una matrice fenomenologica, per cui lo studio degli atti della coscienza deve spettare a una disciplina puramente apriori. In entrambi i casi l’antipsicologismo implica innanzitutto un antinaturalismo basato sulla distinzione tra a priori ed empirico, che serve a riaffermare l’autonomia dell’indagine logica e filosofica, rispetto a quella sperimentale della psicologia. Cosı`, l’accusa di psicologismo viene rivolta a chi confonde il carattere normativo e oggettivo di alcune verita` e di alcuni principi (in primo luogo quelli logici) con la loro origine naturale nella mente, a chi riduce l’oggettivo al soggettivo, i contenuti del pensiero a contenuti di rappresentazione, a chi pensa di fondare il significato delle parole sull’esistenza di idee nella mente. Tra i motivi che hanno determinato nei primi decenni del Novecento il declino della prospettiva psicologista, ancora ampiamente diffusa nel secolo precedente, c’e` proprio il mancato chiarimento «del problema del rapporto tra individuale e sociale nel linguaggio» (Graffi: 2002, 69). Di fronte ad un concetto di individuo sempre piu` legato a cio` che e` contingente e casuale la garanzia della costanza e della condivisibilita` dei significati viene cercata nella convenzione sociale, nella norma della lingua quale sistema esterno all’individuo e da lui indipendente. La stessa svolta

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linguistica in filosofia muove dall’esigenza di sostituire la way of ideas, la via psicologica per eccellenza, con la way of words, la via dell’analisi linguistica, e cioe` la considerazione dei modi privati e soggettivi delle idee con i modi pubblici del significato degli enunciati (Engel: 2000, 24). In questa prospettiva la critica allo psicologismo, nata con Frege da un problema di statuto disciplinare, finisce per coinvolgere anche la teoria delle lingue naturali (Formigari: 2001, 226). L’attenzione dei linguisti si sposta sempre piu` dal piano della capacita` linguistica (la facolta` di linguaggio) a quello del linguaggio inteso come oggetto (la lingua), la cui natura (psicologica, individuale o sociale) finisce per rivestire, per l’indagine linguistica, un interesse piuttosto marginale (Graffi: 2002, 75). Se l’antipsicologismo e l’antinaturalismo accomunano gran parte della riflessione filosofica e dell’indagine linguistica del XX secolo, la svolta cognitivista nella seconda meta` del Novecento sollecita una ripresa di interesse per gli orientamenti naturalistici e psicologistici nello studio del linguaggio, nella prospettiva di un generale ripensamento dei fondamenti epistemologici della ricerca linguistica. In questo nuovo contesto si collocano le piu` recenti indagini sulle radici storiche di questo programma di ricerca, nelle quali tende pero` a prevalere un certo interesse per l’orizzonte ottocentesco (Schmidt-Regener: 1991; Vonk: 1996; Elffers: 1999; Graffi: 2002). Il motivo sta nell’assunzione di una nozione ristretta di psicologia linguistica, basata sul presupposto che solo a partire dall’istituzionalizzazione di una disciplina si possa procedere alla ricostruzione della sua storia. Una impostazione condizionata da quel mito della «scientificita`» gia` messo in discussione a proposito della nascita degli studi linguistici, indebitamente fatta coincidere con il comparatismo dell’Ottocento (cfr. Auroux: 1998, 3). Parafrasando la celebre espressione di Ebbinghaus, si potrebbe dire pero` che l’orientamento psicologista nello studio del linguaggio ha un lungo passato e una storia breve: se la sua nascita ufficiale puo` essere collocata a meta` dell’Ottocento, con Steinthal, Wundt, Paul, Wegener, Gabelentz, i suoi presupposti teorici risalgono molto indietro nella storia del pensiero occidentale. E il periodo in cui lo studio della mente fu dominato dall’empirismo

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segna l’epoca d’oro del connubio tra psicologia, filosofia e studio del linguaggio. Ma tra la stagione empirista e gli psicologi dell’Ottocento sta Kant, e proprio a Kant si riallaccia la reazione tardoottocentesca al naturalismo psicologista che aveva cercato l’alleanza tra filosofia, psicologia e scienze della natura. La critica allo psicologismo e` infatti fortemente segnata dall’antinaturalismo kantiano, che impone una cesura tra a priori ed empirico e dunque il rifiuto del metodo genetico nella spiegazione delle forme dell’esperienza. Non e` un caso che l’accezione negativa del termine sia tradizionalmente legata alle interpretazioni di Kant in senso antropologico e psicologico elaborate da F.E. Beneke e J.F. Fries. E non e` un caso che nelle discussioni contemporanee su psicologismo e antipsicologismo tornino a riproporsi quelle antinomie che animavano il dibattito nell’eta` kantiana: naturale vs. normativo, genesi vs. validita`, soggettivo vs. oggettivo, contrasti apparentemente inconciliabili che si addensano proprio attorno al problema del rapporto tra individualita` e socialita`. Ma la durezza del confronto tra i due opposti orientamenti si era gia` annunciata alla fine del Settecento, quando Herder con la Metakritik (1799) denunciava l’intellettualismo di Kant, per cui la forma si identifica con un pensare reso autonomo dal condizionamento corporeo, e il suo malinteso oggettivismo, che ipostatizza pensieri, rappresentazioni, forme dell’esperienza (cfr. Tani: 2000, 152-195). Cio` che fa di Herder un caso interessante nella querelle tra psicologisti e antipsicologisti e` il suo tentativo di saldare la prospettiva psicologica con quella storico-sociale, il piano soggettivo con quello intersoggettivo, la funzione cognitiva del linguaggio con quella comunicativa, l’interno con l’esterno. Ne deriva una forma di psicologismo non ingenuo che sfugge alle consuete dicotomie che ancora oggi sembrano dominare lo scontro tra gli opposti orientamenti di ricerca.

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2. Dalla logica alla psicologia Che l’affermazione di una interdipendenza tra pensiero e linguaggio vada ascritta in Herder ad una precisa opzione disciplinare a favore di una psicologia linguistica ante litteram e non ad una astratta dichiarazione filosofica lo testimonia il suo «discorso sul metodo». Il saggio Wie die Philosophie zum besten des Volkes allgemeiner und nu¨tzlicher werden kann (1765) presenta gia` un progetto consapevolmente orientato verso strumenti di analisi che mettono al primo posto lo studio della mente, intesa pero` non come entita` astratta e disincarnata ma come funzione di singoli soggetti empirici sempre legata alle loro condizioni materiali, corporee e storiche. Nel generale mutamento di prospettiva della cultura tedesca della seconda meta` del XVIII secolo, che porta lentamente dal predominio della logica e della metafisica ad un crescente interesse per i temi della morale, della politica e dell’estetica, e soprattutto per l’antropologia e la psicologia (Erfahrungsseelenkunde) – le scienze dell’uomo – Herder cerca di rielaborare il vecchio programma della grammatica generale nel quadro di una psicologia del pensiero di impianto antiscolastico e anticartesiano, che trasforma la dottrina della forma logica, innata e universale, nello studio delle modalita` della sua acquisizione (Wundt: 1964). E` in questo contesto che appare necessaria una «rivoluzione copernicana» in filosofia che sposti l’attenzione «dal cielo della ragione» «all’uomo concreto», cosı` da riconciliarla con il terreno da cui nasce, «con l’umanita` e la politica», e renderla effettivamente «utile» e «popolare» (Herder: 1967, 49, 61). Significativa in questo senso e` la continuita` tra il saggio del 1765 e la Metakritik: l’aspirazione ad una filosofia che esca dai ristretti ambiti dell’accademia per farsi filosofia pratica, strumento di emancipazione, resta il principale obiettivo della attivita` intellettuale di Herder, in questo profondamente ancorata alla eredita` illuministica. L’esito di questa trasformazione del discorso filosofico in senso empirico e genetico e` un’«antropologia» (termine che Herder utilizza gia` prima della pubblicazione dell’Anthropologie fu¨r Aerzte und Weise di Platner, nel 1772), che deve comprendere la psicologia, il cui ambito e` lo

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studio dell’origine dei concetti, e che dunque assorbe la logica, recuperandone il legame con l’estetica. Un programma in cui non e` difficile riconoscere le consonanze con l’impostazione teorica e metodologica di Condillac. Questo orientamento era inevitabilmente destinato a scontrarsi con quello di Kant. Attraverso la critica al modello trascendentale, Herder prende le distanze dai fondamenti logicistici della grammatica generale, cioe` dalla sua vocazione aprioristica, non pero` dagli obiettivi di una grammatica universale (nella versione che ne aveva dato James Harris): la ricerca di cio` che e` comune a tutte le lingue, pur nel riconoscimento delle peculiarita` di ciascuna (cfr. Herder: 1984, 75). D’altra parte, che un filo rosso leghi la prospettiva della grammatica ragionata portorealista al programma kantiano e` lo stesso Kant a sottolinearlo, quando nella Logik (1800) traccia un parallelo tra una scienza interessata all’uso dell’intelletto in generale e la grammatica generale: come quest’ultima, «che non contiene altro che la sola forma della lingua in generale, senza le parole, che fanno parte della materia della lingua», la logica, cioe` la «scienza delle leggi necessarie dell’intelletto e della ragione in generale», si occupa «della sola forma del pensiero in generale», delle regole senza le quali non sarebbe possibile alcun uso dell’intelletto: Queste regole, pertanto, possono essere viste anche a priori, cioe` indipendentemente da ogni esperienza, perche´ esse contengono solamente, senza distinzione degli oggetti, le condizioni dell’uso dell’intelletto in generale, puro o empirico che sia. E da cio` segue pure che le regole universali e necessarie del pensiero in generale non possono riguardare che la forma soltanto e in nessun modo la materia. Percio` la scienza che contiene queste regole universali e necessarie non e` altro che una scienza della forma della nostra conoscenza intellettuale o del pensiero (Kant: 1984, 6).

Diversamente dall’impianto kantiano, normativo e antigenetico, per cui la logica si interroga non su come pensiamo ma su come dobbiamo pensare, non su come il bambino arriva ad elaborare i concetti e soprattutto le forme ma sulle condizioni dell’uso dell’intelletto in generale, valide per ogni esperienza, Herder argomenta a

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favore di una prospettiva genetica e naturalistica che pone al centro della ricerca proprio i processi di acquisizione delle forme del pensiero e del linguaggio: una fisiologia dei poteri conoscitivi dell’uomo (Herder: 1993, 26-7), una psicologia empirica.

3. Storia naturale della grammatica L’impostazione genetica segna lo scarto tra la grammatica generale e la psicologia linguistica: nel primo caso il parallelismo tra pensiero e linguaggio e` assunto come un presupposto, nel secondo va spiegato. La riflessione sul problema dell’origine del linguaggio favorisce una presa di distanza dai fondamenti logicistici della grammatica generale, in quanto obbliga a pensare le radici prelinguistiche del nostro rapporto con il mondo e a comprendere come si istituisce il legame tra pensiero e linguaggio. In Herder prima tappa di una grammatica generale ripensata in termini psicologistici e` il rifiuto della nozione sostanzialistica di mente, che stava invece a fondamento della Grammaire di Port-Royal, e la dottrina delle facolta` ad essa legata. Nozione originaria e` quella di un corpo oscuramente senziente (che si ritrovera` in Steinthal, cfr. Formigari: 1998) e dotato della sola Besonnenheit, capacita` specificamente umana di produzione simbolica, che consente di astrarre e di riconoscere nel continuum sensoriale «fenomeni ricorrenti ed entita` permanenti simili tra loro» (Robins: 1997, 161; Tani: 2005, 136-144). Qui, nella produzione interna di contrassegni, necessari all’esercizio della memoria e dunque in generale del pensiero, sta l’origine del linguaggio, un’origine psicologica perche´ non e` la ragione a guidare la formazione dei primi segni, da cui anzi dipende la sua possibilita` di operare attraverso l’astrazione (Herder: 1995, 100). Ma non e` neppure la convenzione sociale. Gia` a livello individuale, infatti, il segno svolge una funzione di orientamento, e` il punto di riferimento necessario allo svolgersi delle piu` elementari operazioni mentali, tanto nella sfera privata quanto in quella pubblica. La funzione del segno si stabilisce infatti allo stesso modo, indipendentemente dal numero delle persone coinvolte:

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Il primo contrassegno che io colgo e` per me vocabolo caratteristico e per gli altri parola di comunicazione (Herder: 1995, 70).

E` una stessa operazione, infatti, la produzione della generalita` («l’unificazione del molteplice per mezzo di caratteri evocatori»), a rendere possibile tanto il conoscere che il comunicare. Diversamente dalla grammatica generale, che aveva risolto il problema dell’accordo intersoggettivo ipostatizzando il possesso innato di regole logiche universali, per Herder il presupposto della comprensione e` solo la capacita` naturale di «fare segni», di produrre cioe` strumenti per l’esercizio delle operazioni mentali, che proprio perche´ vincolati alla strumentalizzazione dell’ambiente e del corpo non si lasciano spiegare alla luce della dicotomia tra interno e esterno. Il momento originario del linguaggio sta nella produzione del primo giudizio, ancora incerto e intriso della materialita` dei sensi, quel giudizio percettivo su cui tanto si interrogavano gli empiristi e che nella riflessione kantiana restava invece terra di nessuno (Eco: 1998, 26). E` questo il terreno della psicologia linguistica herderiana. Nell’esempio adottato da Herder per affrontare la questione, il mito del faraone Psammetico (quasi un luogo obbligato nel dibattito sull’origine del linguaggio) viene riformulato alla luce delle tematiche proprie dell’empirismo classico, con la cui tradizione egli qui certamente si confronta: Lasciate che davanti agli occhi dell’uomo passi un’agnella: nessun altro animale reagira` come lui [...]. Eccola proprio tal quale si manifesta ai suoi sensi: bianca, morbida, lanosa. L’anima dell’uomo che si esercita a divenire sensata cerca un contrassegno. L’agnella bela: e il contrassegno e` trovato. Ora entra in azione il senso interno. Proprio il belato, che sull’anima produce l’impressione piu` forte e che, svincolatosi da tutte le proprieta` visive e tattili, balza fuori e penetra piu` nel profondo, e` quello che in essa permane. L’agnella ricompare: bianca, morbida, lanosa. L’anima osserva, tasta, prende coscienza, cerca un contrassegno. Al belato la riconosce: «Ecco – sente interiormente – tu sei la creatura che bela» (Herder: 1995, 59; c.vi miei).

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La logica naturale del giudizio percettivo si manifesta come interpretazione di percezioni, che a loro volta interpretano sensazioni: alla base del linguaggio verbale sta dunque una semiosi dei sensi, e la predicazione e` l’atto che conferisce una prima determinazione a cio` che appare ai sensi ancora indeterminato. Di qui prende l’avvio una storia naturale della grammatica (cfr. Herder: 1995, 132) che cerca di spiegare la genesi delle parti del discorso a partire dalle funzioni da esse svolte nella strutturazione dell’esperienza. Diversamente dalla concezione empirista, il primo nucleo del significato non coincide qui con la formazione del nome: e` al verbo che spetta la priorita` genetica, i processi di nominalizzazione attestano infatti livelli successivi di astrazione. Un’idea, questa, che avra` fortuna nel XIX secolo, rafforzata dalle scoperte della linguistica storica sulle radici verbali di molti sostantivi (Elffers: 1999, 308). Al modulo logico della grammatica portorealista (Simone: 1996, 93), che presuppone in ogni lingua due classi fondamentali, quella dei nomi (in cui rientrano anche pronomi, participi, preposizioni e avverbi) e quella dei verbi (comprensiva di congiunzioni e interiezioni), corrispondenti a due ordini di entita` mentali, l’oggetto del pensiero e la sua forma, prima tra tutte quella del giudizio, Herder contrappone una concezione antimentalistica e pragmatica, che vede nella grammatica «un metodo dell’uso» del linguaggio, «una filosofia del linguaggio» (Herder: 1995, 101) che si va configurando solo lentamente come «tecnica del discorso». Dal punto di vista metodologico cio` comporta il rifiuto di una descrizione aprioristica delle parti del discorso, non pero` la negazione dell’esistenza di principi di funzionamento comuni a tutte le lingue, da cui dipende la loro organizzazione formale. E` proprio la possibilita` di svolgere funzioni e raggiungere obiettivi di importanza operativa primaria cio` che determina l’ordine di priorita` in cui le forme grammaticali si sono generate e vengono acquisite. Cosı`, se nel verbo Herder individua una categoria geneticamente originaria e` perche´ questa parte del discorso risulta intimamente connessa ad una funzione fondamentale del linguaggio, quella narrativa:

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Nulla interessa e, almeno linguisticamente, tocca tanto l’uomo quanto cio` che deve raccontare: fatti, azioni, circostanze (Herder: 1995, 101).

Di qui il legame tra radici dei verbi e preteriti: «il presente lo si indica, il passato bisogna invece narrarlo» (Herder: 1995, 102). Ma se «i primi inventori volevano dire tutto simultaneamente: non soltanto il fatto, ma anche il suo autore, il dove e il quando, il come era accaduto» (Herder: 1995, 103), solo quando all’interesse per l’azione umana e per l’accaduto si affianca la capacita` di stabilire e mantenere un ordine sequenziale, di rendere «lineari» eventi e stati, allora le parti del discorso gradualmente si smembrano e si forma la grammatica (Herder: 1995, 103) Proprio attorno a questo nodo della teoria linguistica ruota una parte importante della Metakritik. Voler stabilire a priori una tavola delle categorie, come insieme delle forme necessarie del pensiero, e` un ingiustificabile arbitrio perche´ la forma della lingua e` acquisita attraverso la prassi comunicativa e condizionata dalle modalita` primarie dell’interazione corporea con il mondo. Le strutture con cui diamo significato all’esperienza non esistono a priori, come forme universali di una razionalita` pura e atemporale, ma sono modelli derivati da schemi corporei preconcettuali, mediati linguisticamente e culturalmente, sedimentazioni storiche di primarie esperienze sensibili e cinestetiche. Le prime tre leggi grammaticali vengono percio` ricavate dalla conformazione del corpo umano e dall’esercizio dei sensi: la «legge di contiguita`» derivata dall’occhio, quella di «successione», data dall’orecchio, la «legge della forza e dell’effetto» (dell’agentivita`), data con l’esistenza stessa dell’organismo (Herder: 1993, 85). Queste tre regole di connessione, assieme alla categoria primaria dell’essere, legata all’idea fondante del riferimento, di cui spazio, tempo e forza sono le prime determinazioni, costituiscono lo «schema organico», la trama di tutte le lingue, perche´ ne fondano l’uso. Le ritroviamo in primo luogo nelle pratiche linguistiche ordinarie, dove prende forma la prima organizzazione discorsiva dell’esperienza, governata dalla modalita` narrativa (tempo) e descrittiva (spazio) del pensiero (Herder: 1993, 86; 1995,

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101). Di qui si sviluppano altri tre differenti tipi del discorso, quello analitico, governato dalla ricerca delle proprieta` degli oggetti, di cio` che li differenzia da tutti gli altri (in cui prendono forma diverse categorie grammaticali: aggettivi, nomi, articoli funzionali alla elaborazione cognitiva delle idee di classe, genere, specie), quello razionale-argomentativo, governato dalla ricerca delle cause e degli effetti (le forze), del fare e del patire (forme attive e passive dei verbi), quello matematico, governato dalla quantita` e dalla ricerca della misura dei fenomeni tanto esterni che interni (Herder: 1993, 87-94). La forma del discorso e` dunque intimamente corporea e funzionale, dipende cioe` «dalla piega che prende il giudizio a seconda della natura del contenuto, o secondo il contesto, insomma secondo le circostanze» (Herder: 1993, 61). Alla dimensione interna dell’origine, la produzione spontanea dei contrassegni, si salda cosı` la dimensione esterna che spiega il processo di grammaticalizzazione attraverso le regolarita` degli usi linguistici nella interazione sociale. Prende forma cioe` una fondazione della grammatica al tempo stesso naturalistica e discorsiva.

4. Dalla semantica rappresentazionale alla semantica dell’uso Se Herder critica il modello di Kant, non lo fa per contrapporre al suo oggettivismo un soggettivismo psicologico. Proprio nel confronto con Kant egli introduce argomenti che, ad un secolo di distanza, varranno come «antipsicologistici»: 1) il riconoscimento che gli elementi del linguaggio sono, almeno in parte, determinati non dal pensiero privato ma dalla situazione comunicativa; 2) la distinzione tra il significato e la rappresentazione mentale; 3) il passaggio da un’analisi centrata sul parlante ad una analisi che comprende l’interlocutore e il mondo esterno. Ma l’orientamento generale e` psicologistico, perche´ e` un tentativo di naturalizzazione della mente e del linguaggio. In gioco, oltre al decisivo problema delle categorie grammaticali, e` anche la questione delle categorie semantiche, che la tradi-

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zione gnoseologica aveva variamente affrontato attraverso il millenario dibattito sui generi e le specie. Diversamente dalla soluzione fornita da Locke, che ispira comunque l’orientamento teorico di fondo di questo capitolo della semantica cognitiva (Formigari: 2001, 161), per Herder la conoscenza non procede dal particolare all’universale ma comporta un continuo passaggio dall’indifferenziato al differenziato, dal generale al particolare. Particolare e` infatti l’unita` ottenuta per separazione dal generale, che colpisce come un tutto indiviso i sensi e l’intelletto. Se la generalita` non e` una forma separata e dotata di esistenza reale (come nel platonismo), e non e` il risultato di una ragione compiutamente sviluppata che astrae la forma dai dati sensibili (come nell’aristotelismo), non e` neppure il prodotto arbitrario dell’astrazione (come per Locke): e` innanzitutto il modo con cui una mente corporea, non ancora giunta alla chiarezza del concetto, si rapporta conoscitivamente al mondo. Non piu` risultato di una collezione di particolari, come nella concezione induttivistica di Locke, per Herder il primo livello di generalita` e` il tipo, il quale, diversamente dall’essenza nominale, resta riferito alla singola esperienza, che pero` viene investita di una funzione di esemplarita` che fa del tipo il rappresentante della specie. La generalita` del tipo si differenzia dalla generalita` logica perche´ l’esempio e` sensibile senza essere distinto, si riferisce all’esistenza e non all’essenza. Le prime parole sono cioe` legate a un’imperfetta capacita` di astrazione. Le designazioni generali precedono nel bambino quelle particolari e ogni procedimento astrattivo fino al pensiero libero si configura come un progressivo passaggio dall’indeterminato al sempre piu` determinato. Cosı`, il bambino di Herder ama generalizzare l’esperienza singolare, una sola percezione sensibile basta cioe` a formare un concetto specifico, pragmaticamente efficace sebbene cognitivamente provvisorio: Quando vede un elefante, crede di averli visti tutti; l’individuo, con tutte le sue particolarita`, diviene per lui il tipo della specie. Se l’elefante era grigio allora tutti gli elefanti devono essere grigi, fino

Psicologismo e antipsicologismo nello studio del linguaggio

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a quando non sente o non legge che esistono anche elefanti bianchi (Herder: 1993, 134).

Nel caso di un genere naturale, come l’elefante (o come le pietre, gli alberi, i cavalli, di cui si erano tanto occupati gli empiristi, o il cane, con cui si misura Kant nella trattazione dello schematismo dei concetti empirici), la competenza semantica che ne abbiamo e` costituita dall’insieme delle conoscenze cui il termine e` connesso e che e` in grado di attivare. Se in base alle prime fonti della conoscenza (sensibilita`, attenzione, memoria) mi costruisco il concetto di elefante, poi me ne servo come se tutti gli elefanti fossero come quello di cui ho avuto esperienza, e solo se sento narrare di elefanti diversi, arrivo a rielaborare quella prima ipotesi. Questo passaggio puo` compiersi solo in virtu` della condensazione del molteplice attorno a un «carattere evocatore», un segno, quale mezzo indispensabile alla formazione di livelli di generalita` sempre piu` distanti dal pensiero corporeo e dunque sempre piu` determinati concettualmente: Forse che l’uomo ha come prima cosa attribuito a ciascun individuo il suo nome? Data la somiglianza dei suoi membri, avra` chiamato l’insieme con un nome unico: pecore, alberi, stelle; ha visto il singolo nell’universale [...]. Cosı` e` nata la lingua umana; essa e` piena di termini generali che solo col tempo sono stati particolarizzati, di molti che ancora non lo sono, e di alcuni che non possono ne´ potranno esserlo mai. Davanti a un albero per l’uomo era piu` facile pronunciare la parola albero che non indicare ciascuna particolare specie di albero (Herder: 1993, 134).

Generale e particolare sono dunque concetti relativi, che possono definirsi tali solo in riferimento a stadi specifici dello sviluppo intellettuale (Herder: 1993, 135). Dei concetti empirici non si da` mai una sintesi compiuta, giacche´ la capacita` differenziante aumenta con l’accumulo dell’esperienza e con le pratiche discorsive, che ci spingono a modificare costantemente il nostro concetto di realta` e la nostra stessa lingua. Alle prime fonti della conoscenza se ne aggiunge allora una ulteriore, di natura sociale, il

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cui nesso con le prime e` garantito dalla parola. La parola media tra sensibilita` e intelletto non soltanto dal punto di vista genetico, in quanto produzione di un livello di generalita` intermedio, condizionato dall’attivita` sintetica dei sensi e condizionante la formazione del concetto, ma anche dal punto di vista funzionale, perche´ opera secondo due distinte direzioni: denotativa e ideazionale. Essa non ha alcuna valenza rappresentazionale nel senso di «stare per» l’immagine o l’idea (il particolare o l’universale) ma ha la funzione di tenere aperto il rimando alla cosa e di agevolare la formazione del concetto: Il nostro concetto non produce la cosa, ne´ sul piano del possibile, ne´ su quello del reale; e` solo una notizia di essa quale ci e` dato di averne, secondo il nostro intelletto e i nostri organi. Tanto meno la produce la parola, alla quale spetta solo di sollecitarci alla conoscenza della cosa, di conservarne e riprodurne il concetto; anche concetto e parola non sono dunque lo stesso. Questa puo` solo accennare a quello, non puo` mai diventarne la copia. Si inganna di gran lunga colui che si avvezza alle formule convinto di possedere cosı` i concetti; o ai concetti convinto di possedere la cosa; o chi confonde tutto questo e ritiene che le parole rappresentino concetti dell’intelletto (Herder: 1993, 109-110).

Contro Kant Herder porta cosı` a compimento la sua concezione del soggetto cognitivo, una concezione non internalista perche´ il significato e` comunque funzione del contesto sociale e pragmatico in cui si elaborano i processi mentali, ma neppure radicalmente esternalista, giacche´ le forme dell’esperienza non si impongono all’individuo dal di fuori. La critica al paradigma classico occidentale di una ragione disincarnata, distinta dalla percezione, dal corpo, dalla cultura, favorisce il superamento della rigida alternativa tra internalismo ed esternalismo nella genesi dei processi di categorizzazione, e dimostra la compatibilita` di due concezioni del linguaggio destinate in seguito a separarsi: quella psicologica e quella storico-sociale.

I segni naturali nella riflessione post-lockiana. Dalla protopragmatica alla pragmatica cognitiva di Maurizio Maione

1. Premessa: Il caso Reid Con il termine protopragmatica (Nerlich & Clarke: 1996) si vuole indicare una serie di riflessioni che nel Settecento sembrano anticipare teorie o questioni affini all’analisi del linguaggio ordinario e/o alla pragmalinguistica, cioe` a quei paradigmi che hanno segnato una cospicua parte delle scienze del linguaggio novecentesche. In questa prospettiva viene collocato Thomas Reid. Se e` vero che l’interesse che Reid nutre per gli usi ordinari del linguaggio e per gli atti linguistici si pone in questa direzione, e` pero` altrettanto vero che molte delle sue osservazioni non sono del tutto conformi a quella che soltanto oggi viene chiamata teoria degli atti linguistici. Reid non e` interessato ne´ ai cosiddetti atti linguistici infelici, a quegli atti che vengono eseguiti senza successo, ne´ a componenti quali le presupposizioni o implicazioni che assicurano l’efficacia dell’atto comunicativo. E nemmeno il tentativo – evidente in qualche sua pagina – di una prima tassonomia degli atti linguistici e` tale da giustificare un’interpretazione in chiave novecentesca della sua teoria. Senza alcune coordinate del dibattito settecentesco non si puo` comprendere pienamente la riflessione linguistica reidiana. Ne e` prova lo studio dei segni naturali che stabilisce importanti intersezioni non solo tra le questioni semantiche e la teoria degli atti linguistici ma anche tra quest’ultima e la filosofia della mente.

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La svolta pragmatica di Reid non risiede dunque nelle sole implicazioni teoriche dell’analisi del linguaggio e dei relativi usi della comunicazione; essa scaturisce piuttosto da una riflessione che, sebbene omogenea alle coeve teorie della mente, ne ridescrive la sfera d’azione proprio a partire dalla riabilitazione dei segni naturali e di alcuni concetti collaterali (intenzionalita`, nozione, concezione) che sono piu` funzionali all’intersoggettivita` della mente e della coscienza. Reid s’impegna pertanto in un progetto di naturalizzazione della mente (Maione: 2001, 2002) e in una filosofia del linguaggio che ridefiniscono alcuni principi e strumenti teorici della tradizione empirista che, insieme ai molteplici aspetti che potrebbero condurre alle teorie novecentesche, fanno indubbiamente della sua posizione un tipico caso di studio. Nel presente articolo mi propongo due obiettivi, uno storico e uno piu` marcatamente teorico: mostrare come la teoria degli atti linguistici di Reid si inscriva in una teoria dei segni naturali che, pur formatasi nel solco delle teorie della mente empiriste, affonda tuttavia le sue radici nella riflessione tardo-scolastica, segnatamente nella logica semiotica di Ockham; mostrare quindi come il nesso segni naturali-atti linguistici si giustifichi in nome di una teoria pragmatica della mente che fa della cognizione un modello unificato cui concorre – ridescrivendola e stabilizzandone i tratti – il linguaggio nella sua dimensione metaforico-qualitativa e contestuale. In tal senso, il caso Reid potrebbe risolversi piu` in una forma di pragmatica cognitiva che in una protopragmatica.

2. Semiotica e semantiche dell’uso: Ockham e la riflessione post-lockiana Nel suo ultimo libro Lia Formigari rivendica la natura teorica della storia delle idee linguistiche e la riconduce alla convinzione che una filosofia del linguaggio debba tradursi soprattutto in una «filosofia applicata» (Formigari: 2001, 10-11), cioe` in una di quelle teorie che individuino il loro oggetto nel linguaggio (o lingua) e nelle

I segni naturali nella riflessione post-lockiana

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condizioni biologiche e sociali che ne determinano le diverse funzioni (conoscitiva, comunicativa etc.). Si tratta di teorie non sempre ben identificabili: il «rapporto di permeabilita`» (Formigari: 2001, 11) che esse stabiliscono con diverse scienze che si occupano dello stesso oggetto si adatta alla necessita` di definire la natura complessa del linguaggio, l’essere insieme uno strumento conoscitivo-comunicativo e una componente della filogenesi. Uno dei meriti del libro di Formigari risiede nella ricostruzione storica di questa nozione di filosofia applicata, a partire dall’antichita` fino al dibattito novecentesco, e nel confronto tra la teoria di Ockham e l’empirismo inglese, nella formulazione da`tane da Locke. Oltre che confermare l’ipotesi, gia` avanzata da Ashworth (1980), della presenza nella riflessione filosofico-linguistica sei-settecentesca di una matrice medievale, questo confronto comporta un importante risultato: Ockham e Locke stabiliscono la centralita` del linguaggio nell’attivita` umana; essi esplorano adeguatamente il rapporto di osmosi che intercorre tra linguaggio e operazioni mentali riducendo cosı` la portata di ogni forma estrema di nominalismo e motivando un interesse tutto nuovo nei confronti dei processi di categorizzazione. Per Locke, l’universale conserva – nonostante il suo carattere semiotico – qualche elemento della tradizione aristotelica: e` un concetto (conceptus da capio) che, in quanto risultato di un processo astrattivo, assume – a partire dall’analisi dei dati primari della sensazione – la funzione mediatrice tra nome e cosa (cfr. Formigari: 2001, 117). Per Ockham, l’universale inteso come segno mentale (intentio) e`, invece, un atto intenzionale, un’attivita` della mente che rinvia direttamente alla realta`. Formigari riassume cosı` la posizione di Locke: «il segno mentale non e` prodotto da un atto intuitivo, ma dal diuturno lavoro di bricolage dell’intelletto sui dati dell’esperienza sensibile» (Formigari: 2001, 118). L’universale lockiano e` quindi il risultato di un processo di scomposizione/ricomposizione che l’intelletto esercita sui dati dell’esperienza sensibile. L’attivita` dell’intelletto non puo` pertanto che identificarsi con atti di comprensione strutturati in termini psicologici e pragmatici; il che segna la distanza dall’universale di Ockham che per buona parte si

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risolve ancora in una nozione logica. La continuita` che Formigari stabilisce tra la tradizione tardo-scolastica e l’empirismo lockiano riguarda soprattutto la natura semiotica dell’idea. Ma la presenza nei testi post-lockiani di un lessico del mentale poco omogeneo a quello lockiano e affine, invece, alla tradizione tardo scolastica mi incoraggia ad estendere la lettura di Formigari – inclusa la relativa cautela storiografica – al dibattito post-lockiano che ha i suoi maggiori esponenti in Berkeley, in Hume e in Reid. L’indubbio interesse che gia` Berkeley e Hume nutrono per il «potenziale pragmatico» (Formigari: 2001, 163) assume con Reid un impianto piu` coerente: si supera quella cesura tra riflessione linguistica e teoria della mente che l’analisi dell’astrazione di Hume necessariamente comporta, nonostante il ricorso a fattori come il custom. La sostituzione reidiana dei contenuti mentali (idea) con gli atti mentali e` alla base di una teoria pragmatica della mente la cui articolazione interna e` scandita dall’analisi dei segni naturali, del significato e degli atti linguistici. Ricostruiamo le fasi salienti di questo dibattito post-lockiano. La critica delle idee astratte di Berkeley segna una svolta nominalistica nell’empirismo e l’inizio della cosiddetta protopragmatica: verificata e rifiutata l’ipotesi lockiana delle idee astratte generali, i processi di generalizzazione trovano la loro spiegazione e realizzazione nell’attivita` linguistica, segnatamente nei termini generali e nel diversificato uso degli stessi. Il significato di una parola (termine generale) non e` quindi stabilmente determinato; estraneo a qualsiasi riduzione ontologica, esso rimane ancorato all’attivita` mentale che sottende all’uso dei termini generali, senza che cio` implichi il ricorso ad eventuali idee astratte che la mente non puo` assolutamente produrre. Berkeley ritiene che l’uso dei termini generali possa spiegarsi soltanto in virtu` dell’uso che si fa di un’idea o immagine particolare: le idee o immagini sono sempre particolari ma la funzione generalizzante che esse comunque assumono gli consente di confermare – anche se con scarsa enfasi – l’attivita` mentale nei processi semantici; attivita` che si riassume quindi in una produzione impropria delle idee generali.

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Questa funzione generalizzante pone le idee sullo stesso piano delle notions, di quegli atti mentali per mezzo di cui la mente puo` elaborare le diverse relazioni che successivamente vengono consolidate dall’uso dei termini generali e quindi dalle pratiche linguistiche in cui questi termini diventano operativi. Berkeley vede l’attivita` semantica come una relazione che ha i suoi elementi costitutivi nel segno, nel significato e nel parlante. E` la prova dell’intenzione da parte sua di definire le funzioni del linguaggio in senso pragmatico (Land: 1986, 79-130; Formigari: 2001, 162-63): il linguaggio consente ai parlanti non solo di comunicare i pensieri o idee ma anche di esprimere obiettivi, di suscitare emozioni e di produrre azioni (Berkeley: 1710). E` un risultato cui Berkeley perviene integrando il lessico tradizionale della teoria delle idee con l’introduzione delle idee generali non astratte la cui funzione e` quella di stare per alcune idee particolari, rinviando a queste in termini semiotici proprio come avviene per le notions. Resasi impraticabile una teoria delle mente interamente costruita sulla spiegazione genetica delle idee, Berkeley rafforza l’ipotesi di una teoria semiotica delle idee assimilando le ideas alle notions che egli non circoscrive piu` ai soli termini metafisici ma considera omogenee a qualsiasi tipo di relazione, anche a quella opaca e inconsapevole che la mente individua spesso tra le stesse idee particolari. Il superamento della spiegazione genetica delle idee e la soluzione teorica che esso comporta incoraggia il confronto con Ockham. Secondo Ockham, l’intuizione ha una duplice natura, sensibile e intelligibile (notitia intuitiva et abstractiva). Se non fosse sensibile, non sarebbe possibile l’accesso alla realta` dei cosiddetti enti singolari; verrebbe, cioe`, meno quel principio metafisico che, sebbene non interferisca direttamente con la logica semiotica a cui Ockham mira, ne costituisce tuttavia un presupposto fondamentale. Cosı` intesa la intuizione attiva in termini spontanei e innati quei processi che conducono all’universale inteso da Ockham come una forma di intenzionalita` semiotica (intentio): l’universale e` un segno naturale. Con una terminologia non occamista, si puo` sostenere che la categorizzazione interviene contestualmente all’esperienza sensibile del singolare, senza passare attraverso la scomposizione preli-

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minare di varie rappresentazioni (Normore: 1991). Si tratta di una posizione complessa cui Ockham perviene dopo aver confutato la sua precedente teoria del fictum e quella delle species e che gli consente di superare la tesi modista dell’isoformismo tra linguaggio e realta` a favore di una prospettiva che tenga maggiormente conto dell’attivita` del soggetto conoscente, della capacita` di quest’ultimo di organizzare l’esperienza cognitiva e, quindi, l’attivita` linguistica (Ghisalberti: 1976; Todisco: 1998). Ockham non spiega le fasi interne della produzione degli universali che rimangono per buona parte misteriose. L’intuizione sensibile e` l’evento mentale che mette in contatto il soggetto con un determinata realta` esterna (realta` singolare); e` quell’actus intelligendi che, rivolto ripetutamente alle realta` singolari, ne desume naturalmente e inspiegabilmente una serie indeterminata di relazioni; relazioni che l’actus intelligendi svincola (astrae) dall’esistenza di quelle realta` e rende funzionali all’esperienza cognitiva assumendo la funzione di universale (Ghisalberti: 1976, 18-21; De Libera: 1995, 405; Tweedale: 1991, 40-43). L’actus intelligendi rinvia pero` ad un soggetto che, non strutturato in termini psicologici, s’inscrive ancora nella tradizione logica malgrado l’introduzione dell’intenzionalita`. Le relazioni che consentono la formazione degli universali non possono che essere quindi quelle riconosciute da sempre dalla tradizione logica (ad esempio, la somiglianza). Anomalo appare invece il nesso con le parole (termini categorematici): Ockham intende l’universale come un segno naturale e le parole come segni artificiali; ma nel definire il significato di una parola, egli sostiene che, sebbene subordinato all’universale inteso come segno naturale mentale, esso debba risiedere nella realta` designata. L’esperienza semantica s’inscrive in un’attivita` cognitiva spontanea ma garantisce il riferimento non mediato ad una determinata realta` (realismo gnoseologico). Concludendo, gli universali di Ockham sono segni naturali per mezzo dei quali la mente intenziona la realta` senza rappresentazioni intermedie e senza inferenze; esibiscono, pertanto, tratti analoghi a quelli che Berkeley ascrive alle idee generali o notions. Senza indagare per il momento sulla possibilita` che esista realmente una linea di continuita` tra le due posizioni, si puo` individuare l’analogia

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piu` significativa nella definizione della natura semiotica dell’attivita` mentale: in Ockham, questa definizione risponde alla necessita` di esplorare l’intenzionalita` della mente rispetto a realta` rigorosamente singolari che, pur rimanendo tali, consentono tuttavia alla mente di organizzare il proprio dominio cognitivo; in Berkeley, essa si struttura in termini sempre piu` psicologici e pragmatici. Le relazioni sottostanti alle idee generali non sono piu` derivate dall’apparato logico: cominciano ad assorbire elementi piu` omogenei alla dimensione emotiva e qualitativa. Al di la` dei presupposti metafisici che caratterizzano la posizione di entrambi gli autori, ontologia del singolare (Ockham) e immaterialismo (Berkeley), comincia a prendere forma un approccio semiotico all’esperienza cognitiva che, nel caso di Berkeley, risulta alternativo a quello lockiano; un orientamento che diventa piu` esplicito nelle sue motivazioni teoriche soltanto in autori come Hume e Reid. In parte, la posizione di Hume scaturisce da quella di Berkeley; ne condivide la critica delle idee astratte di Locke ma la integra rivendicando la necessita` di un superamento della spiegazione genetica delle idee e, soprattutto, evitando qualsiasi implicazione metafisica. Secondo Hume, il divario che Berkeley individua tra un’accezione genetica ed una funzionale delle idee comporta una conclusione ancora piu` drastica: le idee particolari – le immagini mentali particolari – non possiedono alcuna funzione semantica; non sono in grado di riferirsi autonomamente ad una molteplicita` di individui. L’esperienza semantica richiede quindi una spiegazione che sia realmente in grado di riconoscere alla mente principi e processi diversi dalle semplici idee. Hume procede ad una revisione del lessico del mentale assimilando le idee ai thoughts o acts of mind, espressioni con cui egli ritiene di poter meglio individuare i reali processi sottostanti all’attivita` cognitiva e a quella semantica (Maione: 2001, 158-162; Maione: 2003, 423-427). Compromettendo in parte il lessico della “teoria delle idee”, Hume affida il compito della formazione degli universali a facolta` o atti mentali come l’immaginazione, l’abitudine e l’associazione. Ma, dato che normalmente si vede nella somiglianza uno dei criteri della formazione degli universali e dato che la somiglianza e` un principio (psicolo-

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gico) dell’associazione, Hume ritiene opportuno procedere ad una nuova definizione della somiglianza. L’attivita` semantica non puo` scaturire da una mera individuazione degli elementi in comune, di tutti i loro possibili gradi di quantita` e qualita` (Hume: 1739, 32). Le immagini mentali particolari «non sono realmente, di fatto, presenti alla mente, ma solo in potenza» (Hume: 1739, 33): la mente individua in maniera inspiegabile alcune proprieta` in comune e l’opacita` che investe tale attivita` dimostra l’impraticabilita` dei soli dispositivi logici e quindi la necessita` di riconoscere all’esperienza semantica una dimensione psicologica e pragmatica; i processi semantici si identificano con usi o forme di abitudine che possono realizzarsi pienamente soltanto nelle diversificate pratiche linguistiche: La parola sveglia un’idea individuale, e insieme con essa una certa abitudine; e questa abitudine produce ogni altra idea individuale, secondo che l’occasione richiede. Ma poiche´ la produzione di tutte le idee, alle quali il nome puo` essere applicato, `e cosa impossibile nella maggior parte dei casi, noi abbreviamo questo lavoro [...] (Hume: 1739, 33).

La formazione degli universali si realizza pertanto grazie all’abbreviazione, al dispositivo per mezzo di cui la mente associa piu` idee o immagini particolari alla parola consolidando l’atto della generalizzazione e subordinando questo all’occasione. Gli universali sono strutturati semioticamente non tanto per l’attivita` linguistica che li realizza quanto piuttosto per i processi mentali sottostanti (abbreviazione) che esibiscono un’intenzionalita` gia` marcata in termini pragmatici: l’atto di comprensione dell’uno in luogo dei molti e` subordinato ai diversificati contesti che la mente decodifica di volta in volta. Anche in Hume prende forma una riflessione che giustifica le pratiche linguistiche riconducendole a processi mentali di natura semiotica che richiedono una spiegazione alternativa alla teoria delle idee; una spiegazione che implica l’adozione di un lessico del mentale piu` orientato in senso psicologico ma omogeneo all’indirizzo gia` dato da Berkeley alla teoria della mente. Gli atti della mente cui Hume riconduce i processi associativi legati all’abitudine (immaginazione) hanno la stessa funzione semiotica

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assegnata da Berkeley alle notions: sono intesi come segni naturali. E` un’ulteriore conferma delle analogie tra l’empirismo inglese e il modello di Ockham; analogie che si fanno piu` evidenti quando si esamina la posizione di Reid.

3. Gli sviluppi reidiani La natura e la struttura della teoria del significato di Reid sono state gia` oggetto di un mio precedente lavoro cui rinvio per una loro maggiore ricostruzione storica e testuale (Maione 2001). Il presente articolo vi aggiunge soltanto qualche tassello di natura storiografica nell’intento di confermare il carattere pragmatico della teoria della mente di Reid a partire proprio dal nesso che intercorre tra segni naturali e atti linguistici; un nesso che consente a Reid di saldare la semantica alla pragmatica superando alcuni tratti tipici della protopragmatica del tempo e orientandosi verso una teoria piu` affine alla pragmatica cognitiva. Non sono molti gli studi che tendono a ricostruire le fonti medievali del Settecento filosofico anglo-scozzese. Gli studi di Ashworth si collocano certamente in questa direzione e forniscono una prima conferma dell’esistenza di una linea di continuita` tra la scolastica e Locke (Ashworth: 1980; 1985); il dibattito postlockiano non vi e` pero` incluso. Se limitatamente a Berkeley e Hume sono state quindi sopra invocate alcune analogie con il modello di Ockham, con Reid queste analogie si fanno piu` insistenti ed incoraggiano una ricostruzione storica delle fonti medievali del suo pensiero. Si tratta di una direzione gia` intrapresa da Haldane che in suo recente lavoro si propone di dimostrare la presenza nei testi reidiani di nodi problematici che rinviano direttamente a Tommaso d’Aquino (Haldane: 1989). Lo studioso prende in esame soprattutto la critica della teoria delle idee e la distinzione tra atti immanenti e transitivi. A suo parere, in Tommaso e in Reid, le species o immagini mentali non costituiscono gli unici contenuti della mente bensı` i mezzi con cui la mente raggiunge, pensa e

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conosce la realta` (realismo). Il realismo epistemologico di Reid potrebbe forse sostenersi proprio sul rapporto di somiglianza che Tommaso riconduce alle species di cui si avvale la mente – o intelletto – per cogliere senza riprodurla l’essenza o intelligibile di una determinata realta` (Haldane: 1989, 299). Ad integrare questa funzione delle species concorre anche la distinzione tra atti immanenti e transitivi che – osserva Haldane – Reid eredita ugualmente da Tommaso. Gli atti immanenti garantiscono il contatto con la realta` esterna in quanto non richiedono alcuna forma di rappresentazione o mediazione; consentono a Reid di stabilire la forza del realismo contro lo scetticismo humiano. Questi sono in sintesi i nodi dell’interpretazione di Haldane il cui merito risiede nell’aver sottolineato il ruolo delle fonti medievali non solo nell’articolazione interna della critica reidiana dello scetticismo di Hume ma anche nelle possibili ripercussioni di questa sul dibattito novecentesco, soprattutto rispetto alla teoria rappresentazionale della mente di Fodor. Si tratta di un’interpretazione che si puo` integrare proprio valorizzando alcuni aspetti che – a mio parere – potrebbero, invece, rinviare piu` alla logica semiotica di Ockham che a quella tomista. Valutiamone le motivazioni. Haldane riconduce a ragione l’intenzionalita` alla teoria dei segni naturali e ne tenta anche una giustificazione storiografica cogliendo i nessi con quella tradizione tardo-scolastica che, grazie ad un autore a noi pressoche´ sconosciuto, John Mair, viene a sedimentarsi in Scozia e Inghilterra nel XVI Secolo. E` questa una tradizione con cui – osserva Haldane – Reid si confronta facendo in qualche misura propria la teoria delle notions di Mair, in particolare la tesi che identifica la notion con un actus intelligendi che pone la mente in contatto con l’oggetto intenzionandolo direttamente senza ricorrere ad alcuna entita` di mediazione (rappresentazioni o immagini) o inferenza (Haldane: 1989, 291-298). Ma la notion di Mair e` un segno naturale e, in quanto tale, non puo` essere assimilata alla species tomista; la sua genesi non risiede tanto – come vorrebbe Haldane – nella tradizione tomista quanto piuttosto in quella occamista (Broadie: 1983, 4-6; 1990). Ci sono dunque tutti gli elementi per confrontare la posizione di Reid con quella di Ockham.

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Entrambi gli autori sono interessati a riconoscere alla mente processi che presiedano innatisticamente e spontaneamente all’organizzazione dell’esperienza cognitiva; per questa ragione individuano alcune operazioni mentali come l’intuizione (Ockham) e la sensazione (Reid) che garantiscono la compatibilita` tra mente e realta` esterna a partire da segmenti che o tendono verso una maggiore organizzazione, come avviene per la intentio di Ockham che si realizza pienamente soltanto nella proposizione mentale e linguistica (complexum), o che sono gia` strutturati come il giudizio naturale di Reid. La cognizione e` sin da subito organizzata: non richiede l’intervento di apprensioni semplici. In Ockham, essa si risolve nel carattere semiotico dell’universale che e` il primo elemento costitutivo dell’attivita` cognitiva; in Reid, nella conception – e` questo il termine con cui Reid designa l’universale – che e` uno dei livelli di organizzazione dell’esperienza cognitiva cui concorre l’intervento congiunto delle facolta` e della sensazione. Ma ad incoraggiare il confronto tra i due autori interviene anche la struttura delle rispettive trattazioni. Ockham perviene all’intentio dopo aver confutato due determinate tesi, quella che ammette la finzione dell’intervento di alcune entita` intermedie (teoria del fictum) tra soggetto e realta` esterna e quella che spiega invece il riferimento alla realta` esterna per mezzo di vestigia/species o immagini mentali secondo il modello della perspectiva (teoria della visione, ottica) (Corvino: 1978, 156; Todisco: 1998, 80-97). Reid rifiuta la cosiddetta way of ideas (teoria delle idee) che per molti aspetti appare come la versione seisettecentesca della perspectiva medievale: essa spiega l’attivita` mentale per mezzo di alcuni principi della fisiologia meccanicista che riproducono quelli dell’ottica geometrica identificando le idee con le immagini mentali visive (Maione: 2001). La tesi della natura semiotica dell’attivita` cognitiva – gia` sostenuta da Berkeley e da Hume – puo` dunque stabilire la continuita` tra i due autori soltanto nella misura in cui essa viene ricondotta a queste premesse epistemologiche. Reid accentua pero` la prospettiva psicologica: il soggetto conoscente e` dotato di una coscienza, strutturata in termini corporei, che interviene sin da subito nella definizione del giudizio naturale, in quel primitivo livello di cogni-

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zione che e` la sensazione intesa come un vero e proprio segno naturale quasi a individuare nei processi cognitivi l’intersezione di due piani, uno psicologico-qualitativo (coscienza) e l’altro semiotico (sensazione). Ma a caratterizzare meglio quest’ultimo piano e` la sua intrinseca struttura pragmatica a cui rinviano non solo l’attivita` semantica, cioe` la formazione degli universali, ma anche gli atti linguistici. Vediamone l’articolazione interna.

4. Semiotica, teoria della mente e atti linguistici Reid individua tre tipologie di segni naturali; oltre che sulle sensazioni-segno, egli pone l’accento su quei segni naturali che vengono conosciuti senza il ricorso all’esperienza o all’inferenza: sono segni strutturati in termini corporei che realizzano alcune operazioni cognitive come la ricognizione del viso e delle altre menti e l’espressione della volonta` e delle passioni. Essi si pongono tra le strutture primitive ma specifiche del cosiddetto linguaggio naturale umano; di quella serie di attivita` che determinano la teoria della mente di ciascuno individuo e che ne orientano quindi in senso intersoggettivo e pragmatico gli eventi mentali. La formazione degli universali scaturisce direttamente dal linguaggio naturale cosı` inteso: il bambino riconosce subito la sua balia, ne osserva le azioni e ne conosce i pensieri dallo sguardo; da questa situazione egli deriva la capacita` di imitare azioni e la facilita` di apprendimento (Reid: 1973, 30-1). Gia` prima che abbia un anno di vita egli e` in grado di stabilire con la propria balia una «relazione linguistica» (intercourse of language) apprendendo il significato dei suoni articolati grazie ai segni naturali resi disponibili dall’interazione sociale (Reid: AUL MS 2131/4/I/30, 14). La teoria della mente del bambino e` pertanto connessa alle strutture dominio-specifiche della comunicazione; il suo riconoscimento comporta per Reid una filosofia della mente piu` affine alla pragmatica cognitiva (Bara: 1999) che alla coeva way of ideas, malgrado la revisione interna di quest’ultima ad opera di Berkeley e Hume.

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L’attivita` mentale s’inscrive nelle strutture innate della comunicazione e queste informano le diverse operazioni mentali; il che stabilisce il carattere pragmatico dell’esperienza cognitiva e il nesso che intercorre tra la coscienza del singolo individuo e le altre menti: la coscienza corporea implica il radicamento della mente non solo nel corpo ma anche nello spazio che, determinato fisicamente, si traduce in un luogo di interazione con le altre menti e in un contesto per le azioni in tutte le loro tipologie, da quella corporea a quella cognitivo-linguistica. La semantica degli universali s’inscrive in questa prospettiva: l’uso dei termini generali rinvia alla abstract general conception (o complex notion) che viene esposta a continue ridescrizioni ad opera dei processi interpretanti della coscienza (Reid: 1785, 399-400). Si tratta di ridescrizioni qualitative e adattative: esse sono rispondenti ai bisogni, pensieri e desideri (Reid: 1785, 606) e si realizzano nel linguaggio ordinario che regola non solo l’uso flessibile dei termini generali ma anche le loro possibili proiezioni metaforiche. In merito ai termini generali: non ci si deve attendere che il loro significato sia piu` preciso di quanto e` necessario per i bisogni ordinari della vita [...]. La situazione del linguaggio e` talmente fluttuante che un nome generale muta spesso di significato a meno che la sua definizine non sia accolta da tutti (Reid: 1785, 610).

E` questa una situazione comune tanto agli usi linguistici ordinari quanto ai linguaggi settoriali e scientifici, dove il significato dei termini generali viene stabilito all’interno di una pratica gestita dai cosiddetti esperti. Superando la necessita` del bricolage dell’intelletto lockiano e rinviando alla tradizione occamista dei segni naturali, interpretata pero` in senso psicologico e pragmatico, la teoria semantica di Reid non si limita a giustificare la funzione dell’uso e del contesto nella formazione degli universali. Essa non recide totalmente i legami con una certa tradizione che subordina la parola all’idea o pensiero ma tenta una terza via: il pensiero – a cui le parole continuano ad essere subordinate – non e` piu` inteso come la precondizione interna del linguaggio, bensı` come una serie di

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eventi mentali orientati filogeneticamente (segni naturali) in senso intersoggettivo e contestuale. Il modello semantico di Reid fa salva la relazione diadica pensiero-linguaggio ma ne rinnova la portata teorica individuando nel pensiero eventi che sono intrinsecamente situati e contestuali. Nel Brief Account of Aristotle’s Logic (1774) e nel primo degli Essays on the Intellectual Powes of Man (1785), Reid ribadisce il compito di una teoria del linguaggio, quello cioe` di giustificare tutte quelle espressioni linguistiche, come la preghiera, il contratto e la promessa, che non si pongono sullo stesso piano delle asserzioni o proposizioni logiche. Pur chiamando queste espressioni operazioni sociali della mente, le riconduce tuttavia alle diverse prassi linguisticocomunicative le sole che possano garantirne la piena realizzazione; insomma, individua in queste operazioni i tratti che oggi vengono normalmente assegnati agli atti linguistici. Queste operazioni sociali della mente o atti linguistici presuppongono l’esistenza delle altre menti e l’intersoggettivita` dei segni naturali. In quanto azioni e intenzioni, i segni naturali sono dotati di un carattere direzionale la cui meta s’identifica necessariamente con le altre menti: non ancora del tutto linguisticizzati, essi implicano una dimensione intersoggettiva e comunicativa che non puo` non incidere su quegli atti che Reid definisce solitari e che connette alla percezione, all’astrazione, alla memoria e all’apprendimento. Le conceptions sono eventi mentali penetrabili cognitivamente e qualitativamente in quanto tutte le esperienze connesse alla coscienza corporea, alla sensazione, ai contesti e all’impatto con le altre menti ne sono parte integrante; pertanto, non si possono piu` identificare i processi cognitivi con le cosiddette facolta` superiori (memoria, astrazione, generalizzazione, etc...). Atti sociali, significati, uso degli indessicali (io, qui, questo) sono da analizzare secondo una prospettiva duplice: mentale e linguistica; la componente pragmatica della prima si realizza nella seconda. Gli atti linguistici, che per Reid non sono piu` bipartiti – secondo il modello di Harris – in atti inerenti alla percezione (constatativi) e alla volizione (performativi), sono atti illocutivi aderenti di volta in volta alle diversificate esperienze qualitative dei parlanti; la relativa enunciazione (utterance), la forza della stessa, e` la

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prova che la mente, proprio nella misura in cui e` incarnata e situata spazialmente e intersoggettivamente, attiva processi comunicativo-linguistici che ne ridescrivono in unita` sempre piu` coerenti proprio la dimensione incarnata. L’intersoggettivita` che la natura qualitativa dei segni naturali realizza e` per Reid la matrice dell’esperienza cognitiva; la conoscenza presuppone la comunicazione intesa nei suoi caratteri dominio-specifici: Per natura la vera unita` linguistica e` la frase. Nessun uomo vuole dire meno quando parla; cio` che e` minore di una frase completa non e` linguaggio, bensı` una parte o parti del discorso (Reid: 1787, 71).

La frase o enunciato (sentence) costituisce la prima unita` linguistica e il filo conduttore dell’intera esperienza linguistica, in quanto imposta il processo di comunicazione-comprensione e ne articola i contenuti. Le parti del discorso rinviano invece ad una teoria che assolutizza la funzione logico-sintattica del linguaggio senza riconoscerne debitamente quella qualitativa e performativa (illocutiva) intrinseca agli atti linguistici. E` dunque quest’ultima funzione che riconduce – ridescrivendola in termini piu` coerenti – l’attivita` cognitiva alla dimensione intersoggettiva; un’ulteriore prova non solo del carattere non-cartesiano e non dualista della riflessione linguistica di Reid ma anche del fatto che la sua teoria del senso comune si risolve nella definizione di un modello unificato di cognizione in cui risulta costitutiva la relazione tra coscienza qualitativa e linguaggio inteso come un’esperienza compiutamente unificata che supera la polarita` interno-esterno e che non puo` essere identificato con le sole componenti sintattico-rappresentazionali.

Il metalinguaggio di Saussure fra vecchie e nuove scienze1 di Cristina Vallini

Biografia Nei quasi cento anni che ormai ci separano dalla morte di Ferdinand de Saussure, il grande “riformatore” della linguistica, la critica non ha certo mancato di sottolineare il suo costante sforzo per rendere autonoma questa scienza e per collocarla nel suo pro2 prio domaine . Ben nota e` la sua individuazione del primo compito

1

Abbreviazioni utilizzate nel presente saggio: CLG = La edizione ‘vulgata’ del Cours de linguistique ge´ne´rale (Paris, Payot 19161). DM = La traduzione italiana del Corso di linguistica generale, con l’introduzione e le note di T. De Mauro (Bari, Laterza 19671). E = La edizione ‘critica’ del Cours de linguistique ge´ne´rale, curata da R. Engler (Wiesbaden, Harrassowitz 1967-721 e 1989-902), citata secondo la numerazione delle frasi. ELG = La nuova presentazione di scritti inediti ed editi di Saussure pubblicata col titolo ´ crits de linguistique ge´ne´rale a cura di S. Bouquet e R. Engler (Paris, Gallimard 2002). E SLG = La traduzione italiana degli scritti inediti, curata ed annotata da T. De Mauro, Scritti inediti di linguistica generale (Roma-Bari, Laterza 2005). SM = Le ancora fondamentali Sources manuscrites du CLG de F.d.S. di R. Godel (Gene`ve, Droz 19571 e 19692). 2 Lia Formigari vede realizzato il programma innovativo saussuriano nella fondazione di una linguistica non psicologistica e non unilateralmente storica, che si caratterizza in un contesto scientifico in cui l’attenzione dei “filosofi” e` principalmente rivolta alle precondizioni psichiche del linguaggio, mentre i “linguisti” aderiscono ad un’impostazione storico-descrittiva. I punti forti per la realizzazione dell’alternativa di Saussure sono le famose dicotomie linguistica sincronica / diacronica e langue / parole, che gli permettono di fondare la nozione di valore.

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della linguistica proprio in questa “taˆche”: de se de´finir elle-meˆme3, spia di un’istanza innovatrice che peraltro coesiste con la devozione agli studi prediletti (linguistique historique, amusante) e che lo spinge a cercare straordinarie digressioni nelle terre incognite delle leggende e degli anagrammi. Questa complessa tensione si manifesta nel carattere frammentario del suo discorso, e nella ripetitivita` quasi ossessiva delle tematiche che caratterizzano le carte private, nel rarefarsi e cessare delle pubblicazioni scientifiche alla soglia del cambio di secolo. Con molto maggiore ordine, ma pur con notevole variabilita`, i temi ricorrenti ricompariranno nei tre corsi di Linguistica generale che, resi ormai leggibili in forma continuata, permettono di vedere ed apprezzare le differenze finora occultate dalla uniformita` del CLG. Di fronte all’innegabile difficolta` di riportare il pensiero di Saussure ad una linearita` deduttiva, che tuttavia continuamente si fa sentire, e a riconoscere i centri generatori della sua complessa problematica, alcuni dati della biografia scientifica possono forse venire in aiuto. Nella premessa al mio discorso voglio richiamarne due, non sempre tenuti in debito conto, per quanto risaputi. Il primo e` l’adesione al metodo di Bopp, completamente introiettato dal giovanissimo lettore della Vergleichende Grammatik. Non c’e` dubbio che proprio la prospettiva boppiana e` responsabile dell’attenzione predominante di Saussure per il sistema delle forme piuttosto che per il repertorio dei suoni, che spiega l’accoglienza scettica subito riservata al Me´moire da parte dei ‘capi’ della Scuola neogrammatica. La scelta di non attribuire un contenuto fonetico alle ‘diverse a indeuropee’, individuate nel gioco morfologico e designate con differenti espedienti grafici (a1~a2/A invece che *e/*o/*) persiste come impegno a non identificare le entita` riconosciute in domini diversi: in questo caso quelle scaturenti da considerazioni funzionali nel sistema delle forme, e quelle scatu3

CLG: 20 (fonte: 3˚ corso).

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renti da considerazioni fonetiche (in tal senso a1 non `e *e)4. La persistenza di questa problematica e` rivelata da quanto si legge in ELG al n. 3b (sezione intitolata dagli editori Linguistique et phone´tique): C’est ainsi qu’on ne cesse en linguistique de conside´rer dans l’ordre B des objets a qui existent selon A, mais pas selon B ; dans l’ordre A des objets b qui existent selon B mais pas selon A, etc.5.

L’impostazione boppiana rimane come costante nella attivita` scientifica saussuriana: la Zergliederung del maestro di Bonn diventera` analyse, e cioe` riconoscimento e interpretazione di articolazioni significative a partire dall’unita` primaria, la parola, e fornira` la base per l’impalcatura morfologica dello strutturalismo europeo che si 6 rifa` al CLG . Il secondo aspetto della biografia scientifica di Saussure che mi preme di sottolineare e` il carattere solitario della sua formazione, intimamente collegato al rifiuto istintivo delle tendenze a` la page; in tal senso non meraviglia che il suo ultimo saggio teorico, peraltro non concluso e quindi non pubblicato, fosse stato rivolto alla fi4

Qualcuno ricordera` che nel Me´moire Saussure aveva “trovato” la prova fonetica della presenza della e in sanscrito, notando il diverso comportamento dell’occlusiva velare che appariva come palatale solo davanti alle a sanscrite che corrispondevano ad e in greco e in latino. E tuttavia egli non utilizzo` in alcun modo questo dato fonetico per la ricostruzione del suo ‘sistema’ di valori. 5 ELG: 204-205. Si confronti anche quanto si legge in una nota autografa (N 9.1) non entrata nel CLG: «Au moment ou` nous de´cidons d’entrer dans le domaine des faits vocaux [1˚] y a-t-il pre´alablement quelque chose de dans un autre domaine? Absolument rien » (E 126). 6 Per Bopp le due sottounita` sempre presenti erano la “radice verbale”, portatrice del significato lessicale, e la “radice pronominale”, portatrice di quello grammaticale. La grammatica comparata, come lo stesso Bopp afferma nell’Introduzione, mirava a dimostrare l’identita` del sistema delle radici pronominali nelle diverse lingue confrontate. Per Saussure questo punto di vista fornira` la base per la differenza fra arbitrarieta` assoluta e arbitrarieta` relativa, proposta con grande chiarezza ancora alla fine del 3˚ corso, ad esempio nella contrapposizione di couperet, sintagma analizzabile di radice e suffisso e hache, unita` inanalizzabile.

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gura di un pioniere della linguistica ottocentesca, William D. Whitney, in occasione della morte di questi nel 18947. Proprio in queste pagine leggiamo una significativa dichiarazione circa il collegamento fra linguistica generale e grammatica comparata, che sembra rivolto a descrivere il proprio stesso metodo: [Whitney] est en date le premier ge´ne´ralisateur qui pas tirer des conclusions absurdes sur le Langage de l’œuvre de la gram[maire]. [...] Les deux choses, une bonne ge´ne´ralisation sur le langage, qui peut inte´resser qui que ce soit, ou une saine me´thode a` proposer a` la grammaire compare´e pour les ope´rations pre´cises de chaque [jour] sont en re´alite´ la meˆme chose8.

Nel lungo testo composto ‘per Whitney’, redatto a piu` riprese, in un vertiginoso variare del punto di vista, scorgiamo come in un caleidoscopio comparire e sparire i luoghi problematici del pensiero di Saussure. Proprio qui, ad esempio, possiamo leggere una delle piu` radicali formulazioni della teoria del valore: Il arrivera un jour, comme la croissance de deux ve´ge´taux – . [...] Schleicher, qui nous invite toujours a` partir de l’indo-europe´en, tre`s historien dans un sens, > que o et e en grec sont deux degre´s (Stufen) du vocalisme, comme γνυ compare´ a` geˇnu [...]. Pour Schleicher les degre´s o, e en sanscrit par aˆ, a; c’est comme deux ve´ge´taux qui croissent se´pare´ment et re´alisent les meˆmes formes, au lieu de dire qu’il y a une alternance o/e qui se transforme mate´riellement .

Questo brano, in cui sono rielaborati i problemi brillantemente 15

E 106-109: (testo III C 7). E 62-68 (2˚ corso, testo di Riedlinger). Altra redazione, piu` sintetica: «Ainsi Schleicher oppose´ aux degre´s o/e du grec les degre´s aˆ/a du sanscrit et s’en tenait la`. Il ne recherchait aucune raison concre`te a` cette alternance, laquelle il e´tait enclin a` croire existante en dehors de toute forme. C’est de l’absurdite´». 16

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risolti nel Me´moire, sembra additare in modo esclusivo la Storia come domaine della linguistica. Nello stesso senso si era espresso Saussure nelle prolusioni ginevrine del 1891, asserendo che “tutto nella lingua e` storia...”, ed operando una contrapposizione inequivoca fra termini appartenenti ai spazi scientifici contrapposti: [...] plus on e´tudie la langue, plus on arrive a` se pe´ne´trer de ce fait que tout dans la langue est histoire, c’est-a`-dire qu’elle est un objet historique et non d’analyse abstraite, qu’elle se compose de faits et non de lois, que tout ce qui semble organique dans la langue est en re´alite´ contingent et comple`tement accidentel17.

La lettera e il senso di queste affermazioni anticipano l’attacco a Schleicher contenuto nell’articolo per Whitney, in un brano entrato nell’ultima pagina del CLG, forse allo scopo respingere il determinismo implicito in certa tipologia18. Con i termini histoire e historique, in questi contesti, si rinvia all’idea di uno sviluppo non determinato da leggi fisse (crescita/decrescita), ma sottoposto al caso del mutamento fonetico. Questo antiteleologismo impone a Saussure di rifiutare anche gli pseudo-condizionamenti di una tipologia linguistica che viene, forse ingiustamente, riportata al pensiero di Schleicher: Le «ge´nie de la langue» pe`se ze´ro en face d’un seul fait comme la suppression d’un o final, qui est a` chaque instant capable de re´volutionner de fond en comble le rapport du signe et de l’ide´e,19 dans n’importe quelle forme de langage, pre´ce´demment donne´ [...] .

Ora, la scelta del ‘caso’ come determinante la struttura lingui17 E 3281; il testo si puo` leggere in forma continuata, anche se in redazione semplificata, in ELG: 143-156 18 E 3280: «En reconnaissant que la pre´tention de Schleicher de faire de la langue une chose organique e´tait une absurdite´, nous continuons, sans nous en douter, a` vouloir faire d’elle une chose organique dans un autre sens, en supposant que le ge´nie indo-europe´en ou le ge´nie se´mitique sans cesse a` ramener la langue dans les meˆmes voies fatales». 19 E 3280.

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stica appare inconciliabile con la dichiarazione della dimensione storica delle lingue che abbiamo citato piu` sopra. In realta` in questo secondo contesto Saussure ha in mente un problema diverso da quello, per lui risolto, di togliere la linguistica dal campo delle scienze naturali. Ancora l’articolo non scritto per Whitney ci rivela riflessioni in cui il problema e` quello di trovare il posto della linguistica in base alla natura del suo oggetto. Il quadro di riferimento e` il paragone fra la lingua e il gioco degli scacchi: in questo contesto vengono criticati sia i comparatisti post-boppiani, che avevano visto solo le posizioni, sia i linguisti “storici” che avevano tenuto in considerazione solo le mosse. Il punto di vista corretto e` quello che paragona la lingua all’idea completa della partita, a patto che il giocatore sia considerato del tutto assurdo e non intelligente “comme l’est le hasard des ´eve´nements phone´tiques”: Nous nous demandons alors si la nature de cette chose, en tout cas double, de son essence, est plus foncie`rement historique – ou plus foncie`rement d’une nature abstraite, e´chappant aux forces historiques en vertu d’une donne´e fondamentale incoercible qui est dans le jeu d’e´checs la convention initiale reparaissant apre`s chaque coup, et dans la langue l’action totalement ine´luctable des signes vis-a`-vis de l’esprit qui s’e´tablira de soi-meˆme apre`s chaque e´ve´nement, chaque coup20.

In questo contesto i termini histoire, historique traggono il loro senso metalinguistico non soltanto (e non soprattutto) dall’opposizione a nature, naturelle, quanto piuttosto dalla contrapposizione ad abstrait: Si tratta dell’individuazione del domaine semiologico, quello dominato non da “forze” naturali o storiche, ma dal dato “incoercibile”, dall’azione “ineluttabile” della convenzione, che mette l’e21 sprit sotto il dominio dei segni e dei loro valori .

E 1489 (6a colonna = 3297). Il paragone col gioco degli scacchi, non soddisfa a questo punto Saussure: infatti: «[ ] la valeur des pie`ces aux e´checs repose uniquement sur leur utilite´ et leur sort probable dans la suite, non sur [ ] [biffe´]» (E 1399). 20 21

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Esprit La coppia terminologica “concreto/astratto” nei testi saussuriani e` dunque connessa col problema dell’oggetto di studio che, nella linguistica (a differenza di quanto avviene in tutte le altre scienze, in quelle naturali come nella storia) non e` “dato”, “concreto”, “materiale”, “individuale”, ma va definito, riconosciuto attraverso un processo mentale: 1˚ Question des unite´s: a) dans la plupart des domaines qui sont objet[s] des science, cette question n’a pas meˆme a` se poser: ces unite´s sont toutes donne´es [...]. C’est que qu’on appelle une unite´ concre`te (c’est a` dire pas abstraite: n’a pas besoin d’une ope´ration de l’esprit pour exister). C’est la comparaison de ces 22unite´s , pas leur de´limitation qui fera objet de recherche [...] .

Questa problematica e` affrontata ripetutamente nelle carte inedite recentemente scoperte, in cui viene marcato ancor piu` il carattere astratto dell’oggetto di studio con l’affermazione, profondamente “anti-storica”, che in linguistica si deve partire dalla generalizzazione: Or il y a ceci de primordial et d’inhe´rent a` la nature du langage que, par quelque coˆte´ qu’on essaie de l’attaquer – justifiable ou non –, on ne pourra jamais y de´couvrir d’individus, c’est-a`-dire d’eˆtres (ou de quantite´s) de´termine´s en eux-meˆmes sur lesquelles s’ope`re ensuite une ge´ne´ralisation. Mais il y a D’ABORD la ge´ne´ralisation, et il n’y a rien en dehors d’elle: or, comme la ge´ne´ralisation suppose un point de vue qui sert de crite`re, les premie`res et les plus irre´ductibles entite´s dont peut s’occuper le linguiste sont de´ja` le 23 produit d’une ope´ration de l’esprit .

Le unita` linguistiche, dunque, sono astratte in quanto prodotte, 22

E 1745-50 (fonte 2˚corso). ELG 3a; si consideri anche quest’altro brano, perfettamente congruente: «[...] il devient impossible de raisonner sur des individus donne´s, pour ge´ne´raliser ensuite;[...] au contraire il faut commencer par ge´ne´raliser en linguiste, si l’on veut obtenir quelque chose qui tienne lieu de ce qu’est ailleurs l’individu» ELG: 33. 23

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fin dall’inizio da un’operazione cognitiva, mentale: in questo senso la linguistica deve adottare il metodo della matematica, quello per cui il rapporto fra il quadrato dell’ipotenusa e quello dei cateti non scaturisce dalla misurazione di tanti triangoli rettangoli individuali, ma dalla definizione della linea retta: S’imaginer qu’on pourra se passer en linguistique de cette saine logique mathe´matique [(de´finition pre´alable des termes) ], sous pre´texte que la langue est une chose concre`te qui « devient » et non une chose abstraite qui « est », est a` ce que je crois une erreur profonde [...].

La costellazione terminologica fin qui contemplata ci porta ormai a prendere in considerazione altri due termini di grande significato, e di assoluta rilevanza nel metalinguaggio saussuriano: esprit e conscience. Il primo dei due termini e` usato ripetutamente nel CLG: uno di questi passi mi pare particolarmente significativo, poiche´, a dispetto dell’apparente valore spiritualista, rivela come il pensiero di Saussure sia saldamente ancorato a definire il metodo di una scienza che e` sempre coinvolta con la duplicita`. La citazione presentera` prima il testo del CLG, poi il testo fonte, tratto dal 3˚ corso: Un e´tat fortuit est donne´: foˆt : fe¯t, et l’on s’en empare pour lui faire porter la distinction du singulier et du pluriel; foˆt: fe¯t n’est pas mieux fait pour cela que foˆt : *foˆti. Dans chaque e´tat l’esprit s’insuffle dans une matie`re donne´e et la vivifie24. Un e´tat fortuit est donne´ et on s’en empare: Etat = e´tat fortuit des termes. C’est la` une notion qui n’avait jamais acquise la grammaire traditionnelle. Rien ne sera philosophiquement plus important. Mais il faudra se´parer soigneusement l’e´tat des modifications. Dans chaque e´tat, l’esprit insuffle, vivifie une matie`re donne´e, mais il n’en dispose pas librement25. 24 25

CLG: 125 (1 III §3). E 1413-1414-1416-1417-1415 (5a colonna, III C 343-44).

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Riconosciamo, in questo luogo (certamente piu` profondo nella versione sintetizzata da Constantin) l’action totalement ine´luctable des signes vis-a`-vis de l’esprit qui s’e´tablira de soi-meˆme apre`s chaque ´eve´nement dell’articolo ‘per Whitney’, e la dimensione semiologica che pertiene allo stato di lingua, in cui lo spirito si appropria della materia, ma e` costretto a fare i conti con la forma casualmente determinata dagli accidenti ciechi della diacronia. E` quasi inevitabile, a questo punto, per determinare ulteriormente il valore di esprit e spirituel nel metalinguaggio saussuriano, proporre una nuova citazione, contenente una similitudine che merita, per la sua efficacia, di diventare famosa come quella del treno o del gioco degli scacchi: Les e´le´ments premiers sur lesquelles portent l’activite´ et l’attention du linguiste sont [...] des e´le´ment complexes [...] destitue´s dans leur complexite´ d’une unite´ naturelle, non comparables a` un corps simple chimique, ni davantage a` une combinaison chimique, tre`s comparable a` un me´lange chimique, tel que le me´lange de l’azote et de l’oxyge`ne dans l’air respirable. 1) l’air n’est plus l’air si l’on en retire l’azote ou l’oxyge`ne 2) rien ne lie la masse d’azote [...] a` la masse d’oxyge`ne 3) chacun de ces e´le´ments n’est sujet a` classification que vis-a`-vis d’autres e´le´ments, mais il n’est plus question d’air si l’on passe a cette classification 4) leur me´lange n’est pas impossible a` classer de son coˆte´. Les deux e´le´ments de l’air sont dans l’ordre mate´riel, et les deux e´le´ments du mot sont re´ciproquement dans l’ordre spirituel; notre point de vue constant sera de dire que non seulement la signification, mais aussi le signe est un fait de conscience pur26.

26

ELG: 19.

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Conscience Mi resta a questo punto, nel percorso che mi sono proposta di seguire, da riconoscere il valore pertinente di conscience, per collegare l’ultima citazione ad un luogo canonico del CLG, quello in cui viene definito il valore linguistico. Ricordano i lettori del Cours come Saussure affermi il carattere caotico del pensiero e della materia fonica, ma affermi altresı` che “la loro combinazione” implica la possibilita` di “divisioni” (come nel caso del contatto delle masse amorfe dell’aria e dell’acqua che creano le onde sulla superficie del lago). E` qui, nel dominio delle “articolazioni”, il terreno della linguistica. Il passo del 2˚ corso, tratto dalla famosa Introduction di carattere teorico, e` di quelli che si prestano, apparentemente, alla ricostruzione certa del discorso saussuriano: se non fosse per una discordanza del testo di Riedlinger, nel quale in luogo di valeur compare conscience27. CLG p. 156 On pourrait appeler la langue le domaine des articulations [...] : chaque terme linguistique est un petit membre un articulus ou` une ide´e se fixe dans un son et ou` un son devient le signe d’une ide´e

II R 38 Le terrain de la linguistique es le terrain < > commun des articulations, c’est-a`-dire des articuli, des petit membres la pense´e prend conscience par un son.

G 1.9a

B 24 Le terrain de la linguistique est celui ou la pense´ e prend valeur par un son

II C 32 Le terrain de la linguistique, c’est celui de l’articulation, des articuli, des petits membres ou` la pense´e prend valeur par un son

Qualunque sia l’opinione sull’aderenza del testo R alla parola di Saussure (certamente distorta in modo significativo nel CLG) e` certo che si tratta della stessa ‘coscienza’ che nella citazione fatta sopra era stata riconosciuta come base del segno, oltre che delle significazioni. Come e` vero che questo brano, in ogni caso di estrema importanza, indica in modo mirabilmente inequivoco e sintetico il campo di azione della linguistica, quello in cui non puo` esserci 27

E 1832.

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pensiero, e quindi significato, se non in una porzione di suono. Se puo` apparire assurda l’espressione prend conscience riferito al pensiero, si ricordera` che in una circostanza diversa Saussure aveva utilizzato la stessa espressione per un’altra affermazione paradossale: quando aveva affermato che attraverso la varieta` linguistica nello spazio tutti i popoli, anche i piu` selvaggi potevano prendre conscience de leur langue. Peut-eˆtre autrement ne s’apercevraient-ils pas qu’il parlent28. Ancora una volta il riferimento alla dimensione cognitiva serve a ricondurre la linguistica nel suo domaine, che e` quello del “non dato”, “non naturale”, ma mediato sempre dalla dimensione intellettuale della “differenza” senza termini positivi. Il nostro contributo non puo` concludersi senza ritornare alla straordinaria capacita` cognitiva della dimensione articolata del linguaggio. Lo faremo ancora una volta con la citazione di un brano del 3˚ corso, nel quale Saussure si sofferma in una vera “chiosa metalinguistica a proposito di un termine chiave della sua impostazione scientifica:” Par articuler nous entendons souvent profe´rer d’une fac¸on distincte. Langage articule´ (latin articulus: membre, partie) 1˚ On peut y voir les subdivisions dans les syllabes qui se succe`dent. 2˚ Il se peut qu’on fasse allusion a` la chaıˆne significative, au de´membrement des parties de la chaıˆne significative (“gegliederte ”)29.

Possiamo concludere questa nostra riflessione concentrandoci su questo nome dell’unita` articulus (assai piu` formale e densamente significante di segno), la cui essenziale concretezza scaturisce dall’essere “fatto di coscienza”, “fatto spirituale”, in quanto non dato in natura, ma scaturente dall’operazione di de´membrement des parties de la chaine significative. E` appena il caso di far rilevare che de´membrement e` la tradu28

E 2484 (fonte 3˚ corso). E 177-180. Il brano citato rispecchia il testo di Constantin fino al punto 1˚; il punto 2˚ e` citato secondo il testo di De´gallier. 29

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Cristina Vallini

zione esatta del termine essenziale dell’opera di Bopp, la Zergliederung di cui ho gia` fatto cenno. Proprio come Bopp, a cui il riconoscimento delle “radici” aveva aperto la strada della rivoluzionaria grammatica comparata, anche Saussure, col riconoscere l’articolazione della parola indeuropea in “cellule” centrate su un’unica vocale alternante, era giunto a prendre conscience della natura formale e non materiale del sistema linguistico, punto di partenza per la sua difficile e solitaria proposta di una nuova scienza.

Antipsicologismi a confronto. Saussure e Frege di Marina De Palo

Le teorie del linguaggio tra fine Ottocento e primo Novecento sono caratterizzate da una linea di tendenza antipsicologista (Formigari: 2001, 225). Censire questo spazio teorico ha due diversi obiettivi: a) documentare un senso comune ormai sbiadito (a causa degli esiti antipsicologistici del Novecento) che a fine Ottocento stabiliva uno stretto legame tra fenomeni linguistici, o meglio ancora semantici, e fenomeni psichici; b) delineare le diverse rotture di questa saldatura tra la psicologia e i fenomeni linguistici, e dunque le diverse strade dell’antipsicologismo. Queste rotture muovono non da un unico modello ma da rami diversi della riflessione psicologica e linguistica. Cerchero` di tracciare qualche contorno di questo panorama in relazione soprattutto alla riflessione saussuriana e, in controluce, a quella fregeana, nonche´ al contesto teorico entro cui esse si sono formate. Mappare questi anti-psicologismi implica individuare i modelli di psicologismo a cui essi si riferiscono e i nuclei teorici che hanno determinato gli sviluppi novecenteschi. Molte idee che circolano nella seconda meta` dell’Ottocento sono il riflesso di un sapere diffuso, di cui non sempre e` facile rintracciare le ascendenze perche´ in questo periodo si assiste a un proliferare di studi in campo psicologico, paragonabile forse al rilancio odierno per la psicologia e alla sterminata bibliografia contemporanea sui processi cognitivi e sulla filosofia della mente. Oggi questa tendenza, che si e` sviluppata come reazione all’atteg-

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giamento antipsicologistico dello strutturalismo e della semantica formale, viene presentata come una stagione senza precedenti nella storia delle idee. Viceversa il movimento strutturalista e quello della semantica formale dovevano affrancarsi da una considerazione appunto psicologista dei fenomeni linguistici. E non e` un caso infatti che la linguistica pre-saussuriana abbia suscitato negli ultimi anni l’interesse della linguistica di stampo cognitivista (Geeraerts: 1991) proprio perche´ sembrerebbe precorrere l’odierno studio soggettivista, psicologico e non autonomo del senso della semantica cognitiva. In questo contributo tentero` di delineare le diverse radici dell’antipsicologismo di Saussure e Frege (§1). Infatti, mentre Frege si riferisce alla psicologia oggettualista brentaniana, Saussure dialoga con quella rappresentazionale-humboldtiana, che ruota intorno al concetto di forma interna. A partire da questo rapporto di scambio con le ricerche psicologiche, Frege e Saussure, pur da diversi punti di vista, operano la cosiddetta svolta linguistica e svolta semantica. Si cerchera` di dare un quadro dentro cui collocare le considerazioni di M. Dummett, grande esegeta del pensiero di Frege, il quale in Origini della filosofia analitica [(1993) 2001], interpreta Saussure, tradizionalmente considerato paladino dell’antipsicologismo, come un rappresentante del cosiddetto psicologismo (§4). Le osservazioni di Dummett ci permetteranno di esplicitare alcune antinomie presenti nella semantica di Saussure e di Frege: in Saussure l’antipsicologismo e il conseguente avvio dello studio linguistico del significato si accompagnano all’interesse per i processi psichici e per la mente del soggetto (§2). D’altra parte alcuni tratti dell’antipsicologismo di Frege alludono a diverse vie di fuga (§3). Questi temi, adombrati dai due grandi maestri, messi a lungo in secondo piano, sono oggi di grande attualita`. Storicizzare autori come Saussure e Frege consente inoltre di osservare la produttivita` e l’evoluzione di concetti come quello di forma e di rappresentazione. L’avvento delle scienze cognitive non solo rende, in qualche modo, datati gli antipsicologismi in questione (basti pensare al concetto di rappresentazione nella filosofia analitica), ma impone il superamento del tradizionale scetticismo

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sul mentale e l’elaborazione di problemi e categorie espunte o spesso date per presupposte salvo riesumarle senza elaborarle (§ 5). Ad esempio nella linguistica di matrice saussuriana la nozione di soggetto parlante, tema chiave in materia di psicologismo vs antipsicologismo, rimane totalmente inanalizzata. D’altra parte la progressiva apertura dell’analisi logico-linguistica alla filosofia della mente e alle scienze cognitive ha rilanciato una nuova stagione psicologizzante che caratterizza la filosofia analitica recente.

1. Psicologismo e anti-psicologismo ottocentesco L’inizio dello psicologismo ottocentesco, seguendo la periodizzazione di Graffi (1991), puo` essere indicato nella sintesi operata da Steinthal della linguistica di Humboldt con la filosofia di Hegel da un lato e, soprattutto, la psicologia di Herbart dall’altro. Il punto terminale viene invece individuato nella polemica tipica della linguistica strutturale contro lo psicologismo e il mentalismo (Graffi: 1991, 15). Il panorama del dibattito e` molto complesso e investe i fondamenti della conoscenza e il rapporto tra logica e psicologia. Alla domanda fondamentale «come conosciamo?» si potevano dare almeno due tipi di risposte: 1) una psicologista, allora dominante negli studi logici, che sosteneva come fosse l’attivita` psichica spontanea dei soggetti a costituire il fondamento di ogni concetto e che si richiamava a Herbart e a J.S. Mill, accomunati da una reinterpretazione della concezione critica kantiana in chiave psicologica; 2) una logicista e dunque antipsicologista che difendeva la dimensione logicooggettiva della conoscenza e considerava le formazioni logiche come del tutto indipendenti dal carattere relativo e contingente degli atti soggettivi che pensano le cosiddette verita` logiche. Questi temi, relativi al rapporto tra logica e psicologia, innervano poi la riflessione di Frege, mentre la genesi delle idee di Saussure si inserisce nel solco del filone rappresentazionale steinthaliano in cui lo snodo fondamentale e` quello tra psicologia e linguistica.

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1.1 La psicologia rappresentazionale di stampo steinthaliano Steinthal puo` essere considerato l’iniziatore della linea di ricerca che fondava la linguistica sulla psicologia e che sarebbe sfociata nel movimento neogrammatico (Graffi: 1991, 21). Un punto rilevante per il nostro discorso e` la radice herbartiana del pensiero di Steinthal. In essa sta l’origine di quella psicologia associazionistica e rappresentazionale che caratterizza non solo Steinthal, ma anche Paul e Wundt. Tra le considerazioni di matrice herbartiana spicca l’ipotesi della cosiddetta meccanica psichica: tale meccanica e` costituita dal gioco e dall’associazione delle rappresentazioni, che si combinano tra di loro in maniere diverse, a seconda della loro natura e della loro reciproca somiglianza e differenza (Graffi: 1991, 29). L’Io e` il centro di una rete complessa di serie rappresentative: da questo deriva, secondo Herbart, l’illusione che l’Io esista anche in assenza di rappresentazioni e la tendenza a farne una sostanza autonoma dotata di facolta` originali o un concetto puro (Formigari: 1994, 181). La scelta di porre la teoria del linguaggio all’interno della psicologia, scrive Formigari (1994: 182), e` una conseguenza della nozione stessa di soggetto proposta da Herbart il quale critica non solo le forme trascendentali kantiane ma rigetta la concezione idealista dell’Io. Per riferirsi al soggetto, in termini psicologici e non trascendentali, Herbart usa il termine Seele, ovvero l’anima come centro potenziale delle rappresentazioni, fluttuante a seconda dello stato della persona e delle continue modificazioni delle cose (Formigari, 1994: 181). Non bisogna dimenticare che l’autore portante di questo filone e` Humboldt da cui Steinthal riprende diversi temi, tra cui il concetto di forma linguistica interna. In esso entrano in lotta due concezioni: una piu` precisamente psicologica, in base alla quale la forma linguistica interna e` uno stato del singolo parlante, ed una piu` logica, secondo la quale essa consiste nella riproduzione adeguata del contenuto ideale del pensiero. Questa ambivalenza del concetto di forma interna determina la sua grande produttivita` perche´ essa si presta sia a una interpretazione psicologica, sia a una logica: il logicismo, nella teoria linguistica, riduce la forma interna al signifi-

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cato; lo psicologismo, viceversa, riduce il significato alla forma interna (Parret: 1976, 765; Bu¨hler: 1983, 111). La linguistica saussuriana si innesta nel solco della filosofia del linguaggio di Humboldt [(1836) 1991], nel tema della innere Sprachform, che e` al centro del dibattito psicologico-filosofico di stampo steinthaliano (Bu¨hler: 1983, 59; De Mauro: 1994, 123). Ad esempio nel brano seguente tratto dall’Essai sur les langues du nouveau continent (1812), Humboldt scrive: La masse des ide´es et des choses repre´sente´es par une langue ne peut point eˆtre proprement de´tache´e d’elle, puisqu’il est impossible de s’en former, inde´pendamment du langage, une ide´e claire et distincte; [...]. Toutes les ide´es sont intimement lie´es ensemble, elles tiennent toutes l’une a` l’autre de´ja` par les rapports ge´ne´raux qui les font comprendre sous des classes plus e´tendues [...]. D’un autre coˆte´ les sons articule´s qui forment les langues, pre´sentent de meˆme des parties constamment contiguˆes (Humboldt: 1812, 321-2).

Come si vede, in questo passo al concetto di forma si collega il concetto di articolazione: formare vuol dire infatti articolare il pensiero mediante il suono e l’articolazione e` la vera essenza del linguaggio. Questo concetto ritorna in Saussure il quale potrebbe aver trovato in Humboldt una importante fonte di ispirazione1. Un punto rilevante per lo sbocco saussuriano e` quella svolta linguistica che Humboldt imprime alla filosofia, a cui allude Di Cesare (Humboldt: 1991, XXVI). Humboldt riconosce infatti «la profonda linguisticita` (storicita` e dialogicita`) della conoscenza e inserisce il linguaggio (che si manifesta come pluralita` di lingue particolari) nel quadro della filosofia kantiana» (Trabant: 2000, 314). La metacritica di Humboldt mostra che il linguaggio e` la condizione 1

Si veda anche Humboldt (1991: 44-5). Il tema della forma delle lingue e` poi cavalcato nello strutturalismo in modo unilaterale forse con la tacita aspirazione a depurare la lingua di tutto cio` che «dovendosi in essa ricondurre ad una soggettivita` storicamente e socialmente mediata, come tale si sottrae ad una oggettualizzazione scientifica» (Di Cesare, in Humboldt: 1991, LIV). Cfr. Trabant (2001: 286) secondo il quale, invece, il concetto humboldtiano di articolazione, pur essendo ripreso da Saussure, viene approfondito solo da Hjelmslev.

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della conoscenza e muta il tradizionale modello monologico della conoscenza in un modello dialogico per cui il superamento dello schematismo kantiano e` il superamento di tutta la metafisica da Kant a Hegel (Di Cesare, in Humboldt: 1991, XXXVI). Nel linguaggio la parola viene restituita dall’Io al Tu che e` realmente a sua volta un parlante e solo allora la sintesi puo` dirsi compiuta. «Il linguaggio infatti non puo` che appartenere necessariamente a due soggetti ed e` a dir vero proprieta` dell’intero genere umano» (Humboldt: 1991, 49)2. L’Io di cui parla Humboldt non e` la soggettivita` trascendentale, «non e` l’individuo astratto, separato dai rapporti interindividuali, rinserrato nel solipsismo monologico della metafisica, ma e` un individuo concreto, storico, inserito in una collettivita`, che si definisce e si dispiega nel dialogo col Tu» (Di Cesare, in Humboldt: 1991, XXXVII). Ma Formigari (1994: 28) osserva come questa dialogicita` del linguaggio sia sostenuta da una visione dell’idealistica soggettivita` che solo con l’avvento della stagione psicologista sara` pienamente ricondotta al livello della via empirica del soggetto. Saussure si trovera` proprio a svolgere questo passaggio dall’io trascendentale all’io empirico con tutte le implicazioni psicologiste che questo passaggio impone (cfr. Bu¨hler: 1983, 119).

1.2 La psicologia oggettualista di stampo brentaniano La scuola brentaniana pur nelle sue differenziazioni rappresenta una svolta rispetto alla psicologia rappresentazionale e una presa di posizione contro il movimento kantiano-idealistico. L’impostazione antiherbartiana di Brentano pone al centro della sua attenzione il rapporto tra atto psichico e oggetto. Questa impostazione oggettualista della psicologia viene quindi a contrapporsi a quella rappresentazionale di Steinthal. 2

Scrive Humboldt: «Sotto l’aspetto fenomenico il linguaggio, nondimeno, si sviluppa socialmente e l’uomo comprende se stesso soltanto nel tentativo di verificare la comprensibilita` delle sue parole per gli altri. L’oggettivita` viene infatti potenziata quando la parola creata dal soggetto risuona proferita dalla bocca altrui» (Humboldt: 1991, 43).

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La scuola intenzionalista di Brentano ebbe grande influenza nella storia della filosofia e della psicologia. Fra i suoi allievi troviamo Husserl, lo psicologo C. Stumpf e A. Marty. Si accese una disputa tra Brentano e Marty da una lato e Husserl dall’altro circa la questione dello psicologismo: il problema era di carattere gnoseologico e riguardava la necessita` di fondare una teoria pura della conoscenza, cioe` non facente ricorso a categorie psicologiche. In questo dibattito si possono collocare molte domande poste da Frege, fra cui il problema, per lui centrale, della separazione di logica e psicologia, tema che ha influenzato lo sviluppo del pensiero husserliano3 (v. Penco, in Frege: 2003, XXII e Penco: 1994, 29). Dummett (2001) ha contribuito notevolmente a delineare il sostrato psicologico e filosofico dell’opera di Frege esplicitando i legami teorici con Brentano e Bolzano e dando risalto allo snodo fondamentale dell’irruzione della psicologia nella logica (Coffa: 1998, 43-71, 142-9). Il contributo piu` celebre di Brentano alla filosofia fu l’introduzione, o meglio, la rinnovata introduzione, del concetto di intenzionalita`. Ogni atto psichico e` per Brentano: 1) cosciente e 2) rivolto a un oggetto ed e` pertanto intenzionale (Graffi: 1991, 85). I fenomeni mentali sono quei fenomeni che contengono intenzionalmente un oggetto al loro interno (Dummett: 2001, 41). In tale prospettiva, Dummett (2001: 41), ritiene che l’oggetto diventi intrinseco all’atto mentale. Ritraendosi dal modello rappresentazionale, Brentano si preoccupa di definire il rapporto tra atto psichico e oggetto. Egli considera l’oggetto di un atto mentale come intrinseco all’atto, ma esterno alla mente: nel senso forte del termine esterno un «oggetto esterno non e` un costituente della coscienza del soggetto, ma fa parte del mondo oggettivo che e` indipendente dal soggetto e dagli atti mentali ad esso diretti» (Brentano, in Dummett: 2001, 43). L’adesione finale di Brentano «all’idea che, quando l’oggetto 3

In tema di psicologismo si veda l’interessante carteggio tra Frege e Husserl, in Frege (1983).

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esiste attualmente, e` proprio l’oggetto e non una sua rappresentazione mentale ad essere l’oggetto dell’atto mentale», secondo Dummett (2001: 45) «concorda in tutto e per tutto con il modo in cui Frege concepisce il riferimento (Bedeutung) di un nome proprio». La filosofia del pensiero presentata da Frege, deve infatti prendere le distanze dalla psicologia filosofica assumendo una radicale posizione critica contro l’identificazione tra le leggi logiche del pensiero e l’attivita` psicologica del pensare. Si tratta dunque di perseguire l’estromissione dei pensieri dalla mente e ripudiare di conseguenza lo psicologismo. Questo passaggio si esplicitera` nella distinzione tra pensiero (der Gedanke) e pensare (das Denken) distinzione essenziale per la suddivisione tra logica e psicologia (Di Francesco: 1996, 113-5)

2. Il Saussure antipsicologista della vulgata strutturalistica L’interpretazione corrente ancora oggi del modello saussuriano, malgrado una lunga e ricca storia critica e esegetica del CLG, e` filtrata dalla ricezione strutturalistica. In effetti, lo sviluppo strutturalista delle idee saussuriane ha valorizzato la tesi dell’autonomia del linguaggio, conseguenza del principio di arbitrarieta` invocato da Saussure. Poiche´ il segno saussuriano sancisce la sua indipendenza dal mondo extralinguistico (referente) e dal mondo soggettivo, fisico e psicologico dell’utente (o meglio dalla mente del soggetto parlante), le unita` linguistiche e semantiche sono interpretabili come entita` puramente formali (differenziali) e correlative, prive di basi oggettive e soggettive. Nello strutturalismo la langue e` infatti un sistema astratto di valori relazionali puramente linguistici indipendenti dai processi psichici dei soggetti parlanti. Si possono riassumere cosı` i temi intorno a cui si definirebbe l’antipsicologismo di Saussure:

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1) il segno, e di conseguenza il significato, non e` di natura introspettiva, ma sociale e sistemica; esso non dipende dalla volonta` dell’individuo, ma e` il ponte dell’intersoggettivita`, il prodotto delle circostanze storiche e sociale; 2) il significato non e` un concetto, ma e` puramente differenziale poiche´ e` determinato dal contesto sintagmatico e associativo; 3) la lingua non e` una nomenclatura di oggetti precedentemente dati, ma una forma (un insieme di articolazioni) che si proietta sulla sostanza dei concetti (e delle idee) e dei suoni; 4) l’oggetto di studio della linguistica e` autonomo nel senso che lo studio della langue (come sistema di relazioni intralinguistiche) e` indipendente dallo studio della mente e dei processi psichici (oggetto della psicologia) e dallo studio della materia fisica e fisiologica dei suoni (oggetto, per esempio, della fonetica).

2.1 Il Saussure psicologista L’opzione antipsicologista della svolta saussuriana, ovvero l’idea che il sistema della lingua sia indipendente dal soggetto parlante, dalla sua mente e dalla sostanza psicologica dei segni, si puo` inquadrare nella scissione tra lingua e soggetto operata dallo strutturalismo. Viceversa la linguistica saussuriana e pre-saussuriana si alimenta, soprattutto in relazione al tema del significato, del dibattito psicologico coevo. Il punto di vista che deve essere infatti riguadagnato, rileggendo Saussure, e` quello che lo colloca all’interno del dibattito psicologico di fine ’800 perche´ ci consente di recuperare temi poco valorizzati dallo strutturalismo. Il nesso tra psicologia e lingua e` analizzabile da vari punti di vista e qui mi limito ad elencare diversi temi che mostrano l’importanza della psicologia in Saussure:

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a) il segno saussuriano e` di natura psichica, cosı` come il significante e il significato; b) il soggetto parlante non e` espunto dalla linguistica, ma ne e` in qualche modo il garante epistemico in quanto da` una fondazione ai valori e alle identita` linguistiche. Non solo la langue non e` l’oggetto esclusivo della linguistica, ma essa si determina solo nella prospettiva del soggetto parlante. Saussure si riferisce reiteratamente alla coscienza (ma anche all’impression, al sentiment, all’esprit) del soggetto parlante (CLG/E 2779 N7) senza pero` tralasciare l’ipotesi del subconscio (§2.2). L’individuazione delle identita` linguistiche ha la sua base di legittimazione nei giudizi dei soggetti parlanti: «la me´thode est simplement d’observer, de conside´rer comme re´el ce que la conscience de la langue reconnaıˆt, ratifie, et comme irre´el ce qu’elle ne reconnaıˆt pas» (CLG/E 2163 IIR). I giudizi di identita`, in quanto capacita` cognitivo-semiologiche relativi alla produzione e alla ricezione dei soggetti parlanti si insediano nella facolta` del linguaggio umano nella sua realta` storico sociale (Ja¨ger: 2003, 213); c) gli elementi psichici insiti nel circuito della parole (su cui torneremo nel § 4 commentando le considerazioni di Dummett a questo proposito); d) la significazione e` determinata dal contesto dentro cui si colloca, ovvero dal contesto sintagmatico, associativo ed anche extralinguistico (De Mauro: 1994, 14). In relazione ai rapporti associativi Saussure ipotizza una facolta` psicologica di associazione tra gli elementi del segno e tra le unita` del sistema, riferendosi non solo ad associazioni linguistiche ma a «gruppi associativi puramente mentali» (CLG/E 2039. IIIC) che hanno sede nella memoria dei parlanti. Il significato non e` percio` di natura puramente differenziale e intralinguistica, come la lezione antipsicologista postula, ma sembra sostanziarsi di una dimensione concettuale e psicologica. D’altra parte i rapporti associativi rispondono a una esigenza di economia della lingua, di naturalita` in quanto

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costituiscono un vincolo cognitivo, che inerisce alla faculte´ du langage: senza il meccanismo associativo, senza questa capacita` della mente umana di associare il simile, l’acquisizione e il funzionamento della lingua sarebbero caotici (CLG/E 2038 IIR). La questione dei rapporti associativi richiama il tema della memoria, tema di grande interesse in molti studi della seconda meta` dell’ottocento (De Palo: 2001a, 101-119 e 2001b). Le cosiddette scienze della memoria prefigurano molti di quegli sviluppi contemporanei efficacemente sintetizzati da Di Francesco (1996: 45-7). Di grande rilievo e` il progetto di localizzazione, risalente agli studi di Gall e alla scuola dei frenologi: l’opera di Broca (Remarques sur le sie`ge de la faculte´ du langage articule´: 1861) viene poi continuata da Wernicke, il quale identifica un centro in cui sono immagazzinate le parole (o le immagini delle parole), indicando cosı` in una parte del cervello una specie di banca della memoria: il centro sensorio delle immagini uditive e` la sede dei Lautbilder, termine steinthaliano ripreso anche da Saussure nella image acoustique. Lautbild non indica il suono materiale, ma, come poi nel CLG, la traccia psichica del suono: «Residuen abgelaufener Erregungen» (Wernicke: 1874, 5, in Ja¨ger: 2003, 327). Il lessico e le nozioni utilizzate da Wernicke si basano su un modello associazionistico che filtra dunque nell’opera di Saussure, il quale non solo utilizza la nozione di immagine acustica e di rappresentazione, ma si riferisce alla base neurologica della langue e alla «de´couverte de Broca» della «faculte´ de langage localise´e dans la troisie`me circonvolution frontale gauche du cerveau» (CLG/E 182.IIIC). In effetti, la scuola associazionista, sulla scia di Hume, si sviluppo` anche nell’Ottocento attraverso John Stuart Mill e Alexander Bain, i quali esercitarono una notevole influenza sugli iniziatori della psicologia scientifica. Secondo la teoria della chimica mentale di Stuart Mill (Formigari, 2001: 230) le idee semplici nel costituire le idee complesse si comportano come gli elementi della chimica quando si uniscono tra loro per formare un composto (Picardi: 1994, 198-200). Questa teoria e i suoi corollari circolano nella letteratura della neuropsichiatria localizzazionista di Wernicke

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(Oliverio: 1995, 26-7) che costituı` una intermediazione con l’opera dei linguisti dell’epoca (v. §4). Al tema della memoria, di carattere squisitamente psicologico, sottendono implicazioni empiristiche: i termini rappresentazione e immagine acustica non esprimono tanto quell’esigenza di allontanamento dal sensibile spesso richiamato per caratterizzare la nozione di astrattezza e di psichicismo in Saussure (Di Cesare: 1998, 187), ma richiamano il ruolo del soggetto parlante plasmato all’interno di un modello rappresentazionale4. Circa il carattere unitario dell’Io, la critica avviata in Francia da Taine, Ribot, Bergson alla psicologia metafisica tradizionale, ancorata all’idea che esista un io perfettamente uno, semplice e identico, sfocia nella psicodinamica della memoria, nella psicoanalisi freudiana e nella nozione di personalita` multipla e dunque nella possibilita` di concepire la persona umana come aggregato di memorie compresenti. Saussure, che fu in contatto con i primi sviluppi della psicoanalisi a Ginevra attraverso la conoscenza di Flournoy, usa il termine e la nozione di subcosciente (CLG/E 2526 IR) e sembra rimandare all’ipotesi sviluppata da Janet, per cui al di sotto della coscienza si trova un’altra coscienza in cui si dispiegano i fenomeni subcoscienti. Nel soggetto saussuriano convivono i riflessi di diversi modelli psicologici di matrice rappresentazionale e associazionistica in cui si innesta l’influenza della psicodinamica della memoria. Tali riflessi delineano una complessa cartografia della mente e della facolta` del linguaggio dal punto di vista neuro-anatomico, cognitivo e memoriale. Ma il fine di Saussure non e` delineare i contorni di una mente linguisticizzata, ma avviare lo studio linguistico del significato e delimitare il pensiero linguistico. La lezione dell’autonomia del significato piu` che indicare un completo rigetto da parte di Saussure della componente psicologica dei fatti linguistici, porta a compimento la svolta filosofico-linguistica humboldtiana attraverso l’indagine della diversita` delle lingue e della diversita` dei comporta4

Sull’illusorieta` dell’Io in Saussure cfr. i Manoscritti di Harvard (1994, 111-5).

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menti linguistici individuali. In questa esplorazione la linguistica ci restituisce la mappa di un territorio eterogeneo in cui lingua e soggetto, forma e sostanza, langue e parole disegnano le linee di ricerca di una teoria della significazione.

3. Frege antipsicologista Se Saussure imprime una svolta autonomista alla linguistica, avviando cosı` la fondazione della moderna linguistica generale, la filosofia del linguaggio di Frege si contraddistingue proprio per una svolta linguistica e una svolta semantica5. La riflessione di Frege, si inquadra nella svolta linguistica che caratterizza la nascita della filosofia analitica. La natura dei pensieri puo` essere indagata attraverso la natura del linguaggio che e` il veicolo per eccellenza del pensiero (Picardi, in Dummett: 2001, VIII). Questa tesi costituisce, a fianco del rifiuto dello psicologismo in ambito logico ed epistemologico, l’asse portante de I fondamenti dell’aritmetica [(1884) 1965], in cui Frege cerca di distinguere il dominio della logica e quello della psicologia, dominio che godeva di un grande prestigio presso i filosofi empiristi dell’epoca. La riflessione di Frege, che muove dalla necessita` di fornire una fondazione logica della matematica, si rivolge ai contenuti di pensiero, alla loro comprensibilita`, comunicabilita` e oggettivita` piu` che all’attivita` psicologica del pensare. Una parte considerevole de I fondamenti dell’aritmetica di Frege e` rivolta contro la concezione dei numeri del filosofo empirista J. Stuart Mill. Secondo il metodo empirista i contenuti della mente sono riconducibili a impressioni sensoriali o a immagini mentali formate dalle tracce lasciate dalle impressioni sensoriali stesse. Ma secondo Frege (1965, 215) le oscillazioni e le indeterminatezze 5

Ringrazio per l’attenta lettura di una prima versione di questa parte A. Martone e M. Fucile. Naturalmente la responsabilita` di errori e lacune resta interamente mia.

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delle sensazioni e delle immagini sensoriali non hanno niente a che fare con l’aritmetica: «Una descrizione dei processi mentali che precedono l’enunciazione di un giudizio numerico, non puo` mai, anche se esatta, sostituire una vera determinazione del concetto di numero» (Frege: 1965, 255). Il richiamo al contesto che abbiamo gia` visto in Saussure e` invocato anche da Frege secondo il quale il significato di una parola non puo` essere spiegato isolatamente bensı` nel contesto di un enunciato. Bisogna «cercare il significato delle parole, considerandole non isolatamente ma nei loro nessi reciproci» (Frege: 1965, 219). «Solo in conseguenza di questo principio e` possibile evitare la concezione fisica del numero senza cadere in quella psicologica» (Frege: 1965, 345). Se ci si chiede qual e` il significato delle parole indipendentemente dal loro contesto enunciativo, se ne puo` tutt’al piu` dare la risposta delle teorie ideazionali del significato secondo le quali il segno evoca un’immagine mentale o un’idea. Eludere il principio del contesto ha come conseguenza quella di assumere «delle pure immagini interne, o degli atti delle singole coscienze come significato delle parole» (Frege: 1965, 219). Se si considerano «le parole isolate, e vogliamo trovare per ciascuna di esse, prese in se´, un particolare significato», siamo costretti a ricorrere al concetto di rappresentazione (Frege: 1965, 297). Il cuore dell’antipsicologismo di Frege si caratterizza cosı` come critica delle teorie ideazioniste del significato che identificano significato e rappresentazione e considerano le parole in isolamento senza analizzare il contesto di un enunciato (Penco: 2004, 145). Alla base del ragionamento di Frege (1965: 245) sta la critica al metodo induttivo e l’ipotesi che le leggi aritmetiche siano dei giudizi analitici, che avrebbero una fondazione simile all’ordine naturale leibniziano delle verita` di ragione: Non si prenda come definizione matematica la semplice descrizione del modo con cui si forma in noi una certa rappresentazione, ne´ come dimostrazione di un teorema il resoconto delle condizioni psichiche che devono trovarsi in noi soddisfatte perche´ ne possiamo comprendere l’enunciato. Non si confonda la verita` di una proposizione con il suo venir pensata! Occorre evidentemente ricordarsi bene di cio`: che una proposizione non cessa di essere

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vera, allorche´ io non la penso piu`, come il sole non cessa di esistere allorche´ io chiudo gli occhi (Frege: 1965, 216).

Come si vede gia` in questo passo, la svolta semantica si compira` attraverso il concetto di verita`. La concezione psicologica dei concetti invece «trascina tutto nel soggettivo, e finisce, se sviluppata nelle sue ultime conseguenze, col sopprimere la verita` » (Frege: 1965, 217). Il punto forte dell’argomentazione di Frege (1965, 258) e` la nozione di rappresentazione e la connessa polemica con Kant il quale ammetteva la possibilita` dell’intersoggettivita` della rappresentazione. Questa possibilita` di condividere le rappresentazioni si baserebbe sul fatto che i soggetti portatori di rappresentazioni siano dotati della stessa struttura mentale, grazie all’«unita` trascendentale della coscienza». Tutti gli esseri umani unificano i dati percettivi allo stesso modo anche se l’acquisizione di questi dati e` avvenuta nelle condizioni empiriche piu` disparate (Perconti: 1999, 307). Frege, pur riconoscendo una interpretazione oggettiva e logica del concetto di rappresentazione, si concentra su un’accezione soggettiva: intesa in senso soggettivo, e` cio` a cui si riferiscono le leggi psicologiche dell’associazione; essa e` di natura sensoriale, figurativa. Invece, in senso oggettivo, appartiene alla logica e risulta non sensoriale, sebbene le parole che denotano le singole rappresentazioni, posseggano spesso anche un significato soggettivo, che pero` non e` quello considerato. La rappresentazione soggettiva si rivela spesso diversa nei diversi individui; quella oggettiva al contrario `e identica in tutti. Le rappresentazioni oggettive possono venir suddivise in oggetti e concetti. Per evitare confusione, io usero` il termine ‘rappresentazioni’ soltanto in senso soggettivo. Poiche´ Kant lo uso` invece, ora in un significato, ora nell’altro, finı` col procurare a tutta la teoria filosofica una tinta fortemente soggettivistica e idealistica, e rese cosı` assai difficile l’esatta interpretazione di quello che e` il suo vero pensiero. La distinzione dei due significati non e` meno giustificata della distinzione tra psicologia e logica. Mi augurerei molto che queste due venissero6 tenue sempre ben distinte fra loro (Frege: 1965, 258-9; c.vo mio) . 6

Dello stesso segno sono le considerazioni di Coffa (1998: 29). La dibattuta questione

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Secondo Frege, la Vorstellung non e` mai veramente condivisibile in quanto essa appare in stretta correlazione con le sensazioni, di cui sono una specie di prolungamento. La rappresentazione si caratterizza per la sua dimensione soggettiva e si inquadra nella psicologia empiristica della filosofia inglese7. Ne I fondamenti dell’aritmetica si delinea dunque la matrice filosofica dell’antipsicologismo di Frege che prevede tre canoni fondamentali: 1) e` necessario distinguere cio` che e` logico e cio` che e` psicologico; 2) non bisogna cercare il significato di una parola in isolamento perche´ significherebbe assumere come significati delle parole le immagini mentali (principio valido anche per Saussure il quale rifiuta appunto di identificare il significato con l’idea o la rappresentazione mentale); 3) occorre sempre fare attenzione alla distinzione tra oggetto e concetto (Frege: 1965, 219). Un volta compiuta la svolta linguistica, l’unico cammino che porta all’analisi del pensiero passa attraverso l’analisi del linguaggio. Frege (1965: 257) identifica cio` che e` oggettivo e cio` che e` esprimibile mediante parole: «Oggettivo e`, qui, cio` che risulta conforme a leggi, cio` che e` afferrabile dai concetti, cio` che puo` venir giudicato, che puo` venir espresso mediante parole. Cio` che e` puramente intuitivo non puo` venir comunicato». L’oggettivita` e` intesa da Frege (1965: 258) come «una indipendenza dal nostro sentire, intuire, rappresentare, dal nostro formarci immagini mentali in base al ricordo di precedenti sensazioni, ma non una indipendenza dalla ragione». della nozione di rappresentazione in Frege e Kant riguarda la natura epistemica della matematica e della geometria. Per Frege (1965: 330) le verita` aritmetiche, a differenza di quelle della geometria, sono, non solo a priori, ma anche analitiche. Percio` egli critica la rappresentazione kantiana (Vorstellung) in quanto essa presenterebbe una dimensione sintetica (seppure a priori) che impedirebbe una definizione puramente logica del concetto di numero. D’altra parte non irrilevante e` stato il ruolo svolto da Frege nella lettura antipsicologizzante di Kant proposta da Strawson (Forgione: 2004). 7 I protagonisti del nuovo paradigma cognitivo (Bruner, Piaget, Paivio) hanno preso le distanze dalla tradizione associazionistica (che vedeva le immagini come forme residue della sensazione) accentuando il ruolo delle immagini come prodotti finali dell’attivita` simbolica e sottolineando la differenza di natura sussistente tra immagini e percetti (Ferretti: 1998, 58-9).

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La filosofia del pensiero si identifica con la filosofia del linguaggio o per meglio dire con la teoria del significato (Dummett: 2001, 144) e si delinea come settore autonomo emancipandosi dai legami con la filosofia generale della mente.

3.1 La svolta semantica In Senso e denotazione [(1892), Frege: 1973] l’antipsicologismo delinea invece i tratti della cosiddetta svolta semantica di Frege. Tra tutti gli usi possibili di un enunciato quello assertorio riveste per Frege una particolare importanza, poiche´ mette in primo piano il rapporto tra significato e verita`: il significato (o denotazione, Bedeutung) e` percio` essenziale nel discorso dichiarativo, dove coincide con il valore di verita` del pensiero che esso esprime. Qui l’antipsicologismo di Frege si coagula nella distinzione tra il senso e la natura soggettiva della rappresentazione (Vorstellung): mentre la nozione di senso e` una nozione logica, quella di rappresentazione e` psicologica. Il senso e` oggettivo (ovvero e` esprimibile in un linguaggio e afferrabile e condivisibile da tutti). Invece la rappresentazione (o immagine mentale) che si associa naturalmente a una espressione linguistica ha a che fare con la vita psichica, cambia da individuo a individuo ed e` destinata a rimanere chiusa nel privato della coscienza. Il senso (Sinn) e` cio` che «contiene il modo in cui l’oggetto viene dato», e` il pensiero relativo ad esso, non in quanto atto soggettivo del pensare, ma come contenuto oggettivo, che puo` essere possesso comune di molti (Penco: 2004, 44). Bisogna dunque tenere ben distinti i processi psicologici del pensiero, che in quanto tali sono soggettivi e appartengono alla psiche individuale, dal pensiero puro, di cui l’umanita` possiede «un patrimonio comune [...] che trasmette di generazione in generazione» (Frege: 1973, 12).

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3.2 Il ‘terzo regno’ Mentre la strategia adottata da Frege per arginare la minaccia psicologistica in Senso e denotazione e` semantica, quella che si trova ne Il pensiero [(1918-9), Frege: 1988] e` di marca ontologico-metafisica: i pensieri e i loro sensi costituenti formano un terzo regno, popolato da entita` atemporali e immutabili, la cui esistenza dipende dall’essere afferrati o espressi: Un terzo regno va riconosciuto [...] Cosı` il pensiero che articoliamo nel teorema di Pitagora e` vero atemporalmente, vero indipendentemente dal fatto che qualcuno lo ritenga vero. Non ha ` vero non soltanto a partire dal mobisogno di alcun portatore. E mento in cui e` stato scoperto – cosı` come un pianeta e` in un rapporto di azione reciproca con altri pianeti gia` prima che lo si scopra (Frege: 1988, 60).

Cosı` si ipotizza che i pensieri appartengano a un terzo regno, un mondo a se stante indipendente da quello degli oggetti del mondo esterno e da quello delle entita` psichiche appartenenti al mondo interiore della rappresentazione. Di fronte a una prospettiva psicologica del pensiero, Frege adotta una visione di stampo idealista e platonista che funge da garanzia ontologica del suo antipsicologismo. Se i pensieri non sono contenuti mentali, essi non possono essere analizzati nei termini di operazioni individuali e sono indipendenti dalle rappresentazioni soggettive. Il pensiero e` oggettivo e non ha nulla di psicologico; non vive nella mente dei soggetti: non e` qualcosa di creato nell’atto psicologico del pensare, ma qualcosa di sussistente in se´, «afferrato», ma non prodotto da colui che pensa (Di Francesco, in Frege: 1988, 9). Per Frege i pensieri – i contenuti degli atti di pensare – non sono dei costituenti del flusso di coscienza: essi non sono contenuti della mente o della coscienza, come lo sono le immagini mentali o le rappresentazioni (Vorstellungen) (Dummett: 2001, 33). Afferrare un pensiero e` un atto mentale attraverso cui la mente afferra qualcosa di esterno ad essa, qualcosa che esiste indipendentemente da essa. L’idea fregeana del pensiero puro svolge cosı`, secondo Penco (1994:

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30), una rottura decisiva con la tradizione iniziata con Cartesio, che con la sua visione centrata sul soggetto concepiva il pensiero come «tutte quelle cose che avvengono in noi, essendone noi coscienti». I pensieri si distinguono dalle rappresentazioni perche´ essi sono indipendenti dal portatore. In effetti, «non tutto cio` che puo` essere oggetto del mio pensiero e` una rappresentazione» (Frege: 1988, 67). I pensieri non sono ne´ cose del mondo esterno ne´ rappresentazioni (Frege: 1988, 60). Se consideriamo il pensiero che si articola nel teorema di Pitagora, si puo` osservare come esso non possa essere assimilato a una rappresentazione, ma in quanto «riconosciuto vero tanto dagli altri che da me» esso «non appartiene allora al contenuto della mia coscienza, e quindi non ne sono portatore: posso tuttavia riconoscerlo come vero». Se non fosse cosı` «non si dovrebbe in senso proprio dire «il teorema di Pitagora» ma «il mio teorema di Pitagora», «il suo teorema di Pitagora», e questi sarebbero differenti» e pertanto «il mio pensiero sarebbe un contenuto della mia coscienza, e il pensiero d’un altro un contenuto della sua» (Frege: 1988, 59). Le argomentazioni di Frege sono rivolte contro la psicologia rappresentazionale e tendono a mostrare come le proprieta` tipiche delle rappresentazioni soggettive quali l’origine sensibile, la relativita` a una coscienza (cioe` a un singolo portatore) non siano ascrivibili ai pensieri (Gozzano: 1997, 34). L’ipotesi del terzo regno, ovvero il mondo dei pensieri intesi come entita` ne´ psichiche ne´ fisiche staccati dalle forme di vita in cui si generano e in cui sono concretamente inseriti, viene proprio incontro alla necessita` di fondare il carattere oggettivo dei pensieri contro il rischio di vederli contaminare dagli aspetti soggettivi e privati, da quello che per Frege costituisce il pensare, cioe` il processo psicologico di comprendere i pensieri (Penco: 2004, 178). Afferrare il senso di un enunciato e` sapere a quali condizioni pronunciando assertoriamente l’enunciato diciamo qualcosa di vero (Picardi: 1994, 24). Le rappresentazioni dunque non possono costituire la base dell’intercomprensione. Infatti: se ogni pensiero ha bisogno di un portatore alla cui coscienza appartenere, e` un pensiero di questo portatore soltanto, e non vi e`

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mai una scienza comune a molti e alla quale in molti possano lavorare. Ma forse io ho la mia scienza, vale a dire un insieme organico di pensieri di cui sarei il portatore, e un altro ha la sua. Ciascuno di noi si occupa dei contenuti della sua coscienza (Frege: 1988, 59-60).

L’indipendenza dal portatore e` l’indipendenza dal soggetto, dalla sua mente e dai suoi processi psichici. Se tutto fosse rappresentazione, tutto avrebbe bisogno di un portatore senza il quale non avrebbe consistenza (Frege: 1988, 64). In questa ottica, scrive Frege, l’io che cosa sarebbe? solo una associazione di impressioni sensibili, una rappresentazione complessiva? Frege si sofferma sui problemi insiti nell’ipotesi di un Io inteso come centro di una rete complessa di serie rappresentative: come si costruisce il soggetto nella collezione delle idee e delle rappresentazioni? Viene evocata l’ipotesi di un centro dell’Io, lo «spettatore del teatro cartesiano», ovvero quello che Dennett oggi considera un’astrazione responsabile dell’illusione dell’esistenza di un centro dell’io. Ma nello stesso tempo Frege (1988: 67) pare indicare un io portatore di rappresentazioni non riducibile a una rappresentazione tra altre rappresentazioni e stigmatizzare il fantasma «di uno spettacolo senza spettatore» e l’esistenza «di un vissuto senza qualcuno che lo viva»8. Secondo D’Agostini (1997: 109), la mancanza di costitutivita` dell’io, interpretato quasi come un fattore di disturbo, nella spiegazione del significato, puo` essere dovuto al fatto che la nozione di soggettivita` adottata e` pretrascendentale, «ossia e` l’io puntuale, isolato, che sta alla base dell’empirismo classico humeano e del razionalismo cartesiano; e` l’individuo, l’io studiato dalla psicologia». Anche il porre l’accento sul momento intersoggettivo della comunicazione dovrebbe distrarre l’attenzione dalla privatezza del teatro interiore in cui si volge il giudizio (Picardi: 1994, 24). E di fatto «la riduzione del ruolo grammaticale del soggetto finiva per corrispondere anche a una riduzione del ruolo ontologico e metodologico del soggetto-Io, della coscienza» (D’Agostini: 1999, 45). Ma, come ve8

Cfr. a tale proposito le considerazioni di Engel (2000: 63).

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dremo, nel prossimo paragrafo questo allontanamento contiene molte antinomie.

3.3 Le vie di fuga dello psicologismo di Frege La filosofia del pensiero di Frege (1988: 49) si svolge nell’ambito del discorso dichiarativo e si concentra sugli enunciati assertori. Nell’ambito della definizione del pensiero Frege distingue diversi tipi di enunciati e specifica come il legame tra senso e verita` non riguarda gli enunciati imperativi, esclamativi o interrogativi (Frege: 1988, 48). Frege non solo si mostra dunque consapevole dei limiti di applicazione del concetto di verita` ma afferma la possibilita` di «esprimere un pensiero senza presentarlo come vero». La nozione di forza assertoria, distinta da quella interrogativa, introduce nella teoria del senso di Frege surrettiziamente una teoria dell’uso e del parlante, poi sviluppata da Austin e dalla pragmatica e che rimanda all’attivita` intenzionale del soggetto (Gozzano: 1997, 36). Questi usi non cognitivi del linguaggio si riflettono anche nella nozione di tono, ovvero in quegli elementi del significato che non possono influenzare la verita` o falsita` dell’enunciato, e dunque non appartengono alla logica. Con la scelta di privilegiare la capacita` di esprimere pensieri come «caratteristica essenziale dell’uso scientifico del linguaggio, in quanto veicolo di verita` (Di Francesco, in Frege: 1988, 19-20) e di mettere in secondo piano i sensi accessori, il tono e le significazioni connotative, Frege si ricollega alla dicotomia, che attraversa la storia del pensiero occidentale, tra senso proprio e senso figurato, senso letterale e senso accessorio che si declina in molte altre dicotomie riguardanti il significato: quella tra autonomia e non autonomia del senso, quella tra dizionario e enciclopedia, tra sociale e individuale e dunque quella saussuriana tra langue e parole. Questa separazione consente non solo di ordinare le idee in una metafisica, ma anche di preservarle dalla eterogeneita` che fatalmente implica la significazione. Inoltre, Frege (1988: 49-50) distingue tra l’afferrare il pensiero (il

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pensare), il giudicare ovvero il riconoscimento della verita` di un pensiero e la manifestazione di questo giudizio – l’asserire. Mentre i primi due sono atti o processi mentali, l’asserire e` un atto o processo linguistico. L’afferramento di un pensiero e` «il processo piu` enigmatico di tutti» perche´ e` quel processo mentale che permette di mettere in contatto il parlante col pensiero oggettivo e vero eternamente e atemporalmente. Si tratta di mettere in contatto un’azione psichica soggettiva con una realta` oggettiva (Penco: 2004, 102). Mentre il pensiero e` il senso oggettivo di un enunciato, il pensare e` il processo soggettivo del parlante (Penco: 2004, 175). La dialettica e la circolarita` tra afferrare un pensiero e il giudicarlo vero apre un’altra via di fuga. La differenza tra fassen (l’afferrare un pensiero assimilabile a un atto mentale) e urteilen (giudicarlo vero) e` da questo punto di vista illuminante: l’atto del giudicare presuppone quello dell’afferrare, ma non viceversa. Dobbiamo afferrare dunque un pensiero anche solo per cominciare a interrogarci sul suo valore di verita` (Frege: 1984, 69). Frege non puo` ne´ veramente espellere il soggetto pensante dall’ambito dell’analisi e della spiegazione dei significati ne´ rinunciare a termini di matrice mentalistica come fassen, Denkkraft, geistiges Vermo¨gen. Ma una via di fuga dello psicologismo di Frege e` individuata anche da Picardi (1994: 31) che identifica il terzo regno con la lingua intesa socialmente: in questa interpretazione il terzo regno, ovvero il mondo dei pensieri esterno alle menti individuali, sarebbe la lingua comune, la lingua che usiamo per comunicare coi nostri simili. Il ponte intersoggettivo e` la langue saussuriana? La soluzione offerta da Picardi e` in qualche modo di stampo wittgensteiniano. Come scrive Penco (1994: 34-5), Frege e` costretto a ipotizzare un terzo regno perche´ considera il pensare qualcosa di completamente psicologico e soggettivo. Wittgenstein mostra invece nelle Ricerche filosofiche come lo sbocco dell’antipsicologismo non possa essere il platonismo. Afferrare un pensiero o pensare non e` qualcosa di psicologico, non e` un misterioso processo mentale soggettivo, ma una capacita` oggettivamente osservabile e descrivibile: pensare e`

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usare segni (Penco: 1994, 35; v. anche Frascolla: 2001 e Marconi: 2001, 86-7).

4. Dummett e Saussure Dummett (2001: 148) critica Saussure attribuendogli «la concezione del linguaggio come codice» contrassegnando tale concezione come una prospettiva psicologista intrisa del modello associazionistico (cfr. Engel: 2000, 46). Questa presa di posizione e` interessante perche´, seppure in modo semplicistico (come spesso accade quando si analizza un autore a partire da un altro paradigma), essa profila un punto di vista molto diverso rispetto alla ricezione antipsicologista che Saussure ha avuto soprattutto attraverso lo strutturalismo. L’importanza della tesi di Frege circa l’estromissione dei pensieri dalla mente e la necessita` di respingere l’ipotesi che i pensieri siano dei contenuti di coscienza puo` essere apprezzata, secondo Dummett (2001), considerando la concezione saussuriana del linguaggio come codice (CLG/D:21). Il passo del CLG in cui Saussure schematizza il circuito della parole, e`, secondo Dummett, un resoconto del processo di comunicazione insostenibile: Esso imita la spiegazione associazionistica degli empiristi britannici: questi ultimi, pero`, identificavano i concetti con le idee intese tipicamente come immagini mentali. L’idea di un’associazione stabile tra immagini mentali e immagini acustiche o impressioni non e` assurda in se stessa: l’errore di queste dottrine risiede nella rappresentazione dei concetti – i significati delle parole – come immagini mentali. Capire una parola in quanto esprimente un certo concetto non puo` essere descritto dicendo che la parola richiama alla mente il concetto che vi e` associato, poiche´ non c’e` niente che assomigli alla mente di un concetto [...] La spiegazione cercata pero` non puo` essere quella semplicistica di Saussure. Anche se avere un concetto fosse come avere un dolore intermittente, nel senso che esso ci viene alla mente solo in determinate occasioni, avremmo ugualmente bisogno dı` chiarire che cosa si intende per applicare tale concetto (Dummett: 2001, 148-9).

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Secondo Dummett (1983: 29), lo stile empirista serpeggiante in Saussure configura il comprendere come una sorta di meccanismo che operi per immagini mentali e che fornisce invece solo un meccanismo psicologico per spiegare la nostra capacita` di associare un senso con una parola. Nella fattispecie quest’accusa di psicologismo coglie perlomeno in termini di stereotipi, di metafore e terminologia, un dato: l’armamentario rappresentazionale e associazionistico degli studi sulla la memoria e` un sostrato che filtra nella riflessione di Saussure (Bu¨hler: 1983, 110-1; v. §2.2). La eco di questi modelli in Saussure e` adombrato nella valutazione che Dummett, sulla scia di Frege, da` del circuito della parole senza che vengano richiamate le tesi fortemente antipsicologiste di Saussure e il rigetto delle teorie ideazionali del significato (§2.0). Dietro le parole di Dummett sta il problema della effettiva separabilita` tra cio` che e` logico e psicologico nel pensiero. Saussure cerca, in qualche modo, di spiegare nel circuito della parole quello che Frege definisce il «processo piu` enigmatico di tutti»: afferrare un pensiero e` un processo mentale soggettivo con cui entriamo in contatto con un mondo oggettivo» (Penco: 1994, 34). Questo pensare o comprendere si distingue dal pensiero il quale non e` percepibile, ma afferrato attraverso l’enunciato percepibile. Il pensiero, che come la langue saussuriana e` il ponte dell’intersoggettivita`, e` indipendente dal soggetto il quale puo` solo afferrarlo. Secondo Penco (2004: 146), mentre la filosofia analitica appare «orientata alla proposizione» e all’analisi degli enunciati, la filosofia continentale postkantiana9 ha invece assunto come tema centrale la rappresentazione e la coscienza dell’oggetto. Da questo punto di vista la rivoluzione di Frege si libererebbe invece dalla vecchia ontologia, non incentrandosi piu` sulla nozione di oggetto e di rappresentazione, ma sull’analisi del significato dell’enunciato avviando cosı` la semantica formale. Ma se si considera l’anti-psicologismo di Saussure un esito della filosofia humboldtiana postkantiana, si puo` osservare come, pur non implicando un rigetto del legame tra signi9

Sui limiti della contrapposizione tra analitici e continentali, si veda Formigari (2001: 22).

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ficato e soggetto parlante, anch’esso si ponga in posizione di discontinuita` con le teorie ideazionali in cui il significato viene inteso come l’interfaccia tra l’ego cartesiano e la realta` (Hacking: 1994, 68-72). L’antipsicologismo di Saussure non si connota in senso antirappresentazionale, ma punta sul concetto di forma, identificando alcuni elementi schematizzanti del linguaggio, e sul valore sociale del segno. Forse a Saussure sarebbe piaciuto l’interesse, oggi ricorrente nel dibattito contemporaneo, per il tema della comprensione (da lui schematizzato nel circuito della parole) e l’idea secondo cui i processi psichici non siano solo il regno dell’indeterminatezza e le immagini mentali non siano semplicemente il prolungamento delle impressioni sensoriali, ma esprimano anche elementi costanti10.

5. Conclusioni e prospettive Un passaggio determinante della separazione tra filosofia del linguaggio e linguistica sembra essere la pregiudiziale antimentalista e antipsicologista. L’antipsicologismo si configura come il prezzo da pagare perche´ la semantica linguistica e la semantica formale guadagnino la loro autonomia. Come scrive Violi (1997: 14) l’antipsicologismo di stampo saussuriano e quello di stampo fregeano hanno in comune un’esigenza fondativa nello studio del linguaggio. Questo tratto antipsicologista deve essere considerato determinante non solo nel passaggio dalla filosofia del linguaggio alla linguistica ma nel costituirsi di una linguistica del senso o piu` in generale di una semantica sincronica. Passaggio gravido di conseguenze e tuttora in divenire. La semantica, che nasce proprio dialogando con la psicologia, ha allentato poi questo dialogo stigmatizzandolo, quasi fosse il suo 10

A questo proposito segnalo quanto scrive gia` Meillet (1905-6: 230): «Les conditions psychiques de la se´mantique sont constantes; elles sont les meˆmes dans les diverses langues et aux diverses pe´riodes d’une meˆme langue».

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peccato originale, ed esigendo categorie nuove che le diano una legittimita` scientifica. Emerge dunque l’incapacita` di dare una elaborazione piu` complessa dell’io, soprattutto dopo la crisi maturata nella seconda meta` dell’Ottocento dell’autocoscienza cartesiana e idealistica (D’Agostini: 1997, 89). La svolta semantica e linguistica di Saussure e Frege e` una svolta in quanto consente una prospettiva linguistica del significato avviata da alcune scelte strategiche: a) mettendo in secondo piano lo studio del soggetto (bio-fisico e psicologico) rispetto all’analisi del significato linguistico; b) istituendo una gerarchia del pensiero, ovvero privilegiando il pensiero linguistico proposizionale alto rispetto all’inconscio e concentrandosi sulle fasi del pensiero in cui l’apporto linguistico-proposizionale e` ineliminabile (come nel ragionamento logico e nel linguaggio naturale; cfr. Frixione: 1996); c) dando un ruolo di primo piano allo studio della lingua come sistema di segni rispetto al langage (in Saussure) e, nel caso di Frege, mettendo al centro del suo interesse la nozione di verita`. Possiamo parlare di una sorta di orizzontalita` del significato che poggia in Frege sul principio del contesto, sul rilievo dato al piano dei valori linguistici e sull’indagine della struttura e delle relazioni sussistenti tra i pensieri, piu` che alla loro genesi o ontogenesi. Questa orizzontalita` contraddistingue anche la fondazione della linguistica generale di Saussure e il modello della natura articolatoria del linguaggio. Come scrive Merleau-Ponty, il concetto di struttura, indicando una strada fuori della correlazione soggetto-oggetto che domina la filosofia da Cartesio a Hegel, offre un fondamento filosofico ed epistemologico che ebbe un successo generale in tutte le scienze umane. Nella stagione strutturalista e post-strutturalista una visione eminentemente culturale del linguaggio (interpretato come un principio formativo assoluto in quanto tale disincarnato) ha contribuito a quella dissociazione tra uomo biologico e uomo culturale, ben descritta da Foucault, connessa all’avvento delle mo-

Antipsicologismi a confronto. Saussure e Frege

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derne scienze umane. L’immagine interamente culturale dell’uomo e la conseguente «dissoluzione della natura umana» delineava un mondo che «sembrava spopolarsi degli uomini per essere avvolti nella rete del linguaggio; un linguaggio senza parlanti» (Marconi: 2001, 130). Ma oggi il rinnovato interesse per la facolta` del linguaggio ci riporta al tema del soggetto parlante. La questione fondamentale per chi studia semantica (e per tutte le teorie semiotiche che debbano rendere conto della significazione), e` quella del soggetto parlante e, piu` in generale, del soggetto conoscente, soggetto che non puo` piu` essere semplicemente dato come presupposto, rifacendosi a un soggetto di tipo trascendentale, totalmente privo di alcuna specificazione corporea (Violi: 2003, 76). Se, come scrive Prieto (1971: 190), ogni scienza dell’uomo e` una epistemologia e trova il proprio oggetto in un soggetto che conosce, allora la conoscenza di questo costituira` questo oggetto. Il tema del soggetto parlante mi sembra percio` ineludibile per una riflessione che riguadagni quella trasversalita` dei dispositivi della significazione che oggi ci pare un’acquisizione recente ma che costituiva il punto di partenza della riflessione di Saussure e di Frege.

Il Della Certezza come critica al Della Certezza di Matteo Falomi

1. «Il significato di una parola e` il suo uso nel linguaggio» (RF I, 43). Secondo l’immagine corrente del pensiero dell’ultimo Wittgenstein, questa celebre affermazione esprime l’idea che i nostri concetti non rispecchino la costituzione della realta` esterna al linguaggio, ma siano al contrario determinati interamente dall’insieme di regole che governano la nostra interazione linguistica ordinaria1. Questa tesi e` stata talvolta intesa come un tentativo di delimitare l’ambito delle questioni filosofiche che possono essere sensatamente sollevate: non ha senso per il filosofo porre il problema della relazione tra i nostri concetti e la realta` ‘‘extra-linguistica’’, dal momento che tale relazione e` concepibile solo in un contesto in cui un’interazione linguistica si sia gia` costituita. In questa prospettiva, la filosofia di Wittgenstein e` riducibile dunque a una forma di idealismo linguistico, nel contesto della quale l’idea stessa di una realta` esterna al linguaggio e` destituita di senso2. Il Della Certezza e` stato spesso utilizzato per esemplificare le ricadute idealistiche del pensiero wittgensteiniano3. In effetti, alcune delle osservazioni che ricorrono nella parte iniziale del testo sembrano suggerire l’idea che Wittgenstein concepisse la nostra relazione con la realta` come mediata essenzialmente dal linguaggio, 1 2 3

Cfr. ad es. Bloor (1996). Cfr. Williams (1974); Lear (1982); Moore (1985). Cfr. Conant (2002: 65-73).

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Matteo Falomi

e piu` precisamente dalle norme del discorso ordinario (cfr. ad esempio la sequenza C 128-C 132). E` stato pero` anche notato, a proposito di quest’opera, che le osservazioni raccolte in essa appaiono nel loro insieme tutt’altro che coerenti: le vistose oscillazioni che segnano l’andamento della riflessione di Wittgenstein hanno infatti suggerito ad alcuni interpreti la conclusione che gli esiti di tale riflessione siano, in questo caso, sostanzialmente aporetici4. Questa constatazione fa sorgere un problema: com’e` possibile che Wittgenstein, nel Della Certezza, sostenga una determinata concezione filosofica (una forma di idealismo linguistico), quando non e` possibile estrapolare una dottrina coerente dalle sue affermazioni? E` bene scartare subito la soluzione piu` ovvia, che consiste nell’assumere che le idiosincrasie del ragionamento wittgensteiniano siano il mero prodotto di una serie di sviste casuali, e che pertanto esse non inficino nella sostanza la comprensibilita` e la coerenza della tesi idealistica che Wittgenstein vuole sostenere. Da un lato, la casualita` delle (presunte) sviste apparirebbe sorprendentemente sistematica; dall’altro, come vedremo, lo stesso Wittgenstein e` consapevole della tensione teorica che trapela dalle sue osservazioni, e in piu` di un passo collega tale tensione ad una difficolta` filosofica – una difficolta`, dunque, non meramente accidentale. Di quale difficolta` puo` trattarsi? Una prima indicazione puo` essere tratta da questa osservazione, che Wittgenstein avrebbe formulato nel corso di una lezione tenuta a Cambridge nel febbraio 1936: «I have never felt the temptation to realism [...] but I have been strongly tempted to idealism»5. Cora Diamond, che riporta l’osservazione, nota che, sebbene questa tendenza idealistica sia riconoscibile in molti scritti wittgensteiniani, essa non e` affatto assecondata da Wittgenstein, che anzi generalmente assume ri4

Cfr. Luckhardt (1978b: 304, trad. it.). Margaret Macdonald, appunti inediti sulle “Lectures on Personal Experience” tenute da Wittgenstein nel 1935-36. L’affermazione riportata e` tratta dalla lezione del 19 febbraio 1936. Cit. in Diamond (1991: 211-212). 5

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spetto ad essa una posizione critica6. Questa considerazione puo` essere utile per collegare i due dati che sono stati fin qui introdotti a proposito del Della Certezza – e cioe` la presenza nel testo di una linea di argomentazione riconducibile ad una forma di idealismo linguistico da un lato, e l’(apparente) incoerenza dell’esposizione wittgensteiniana dall’altro. E` proprio – si puo` ipotizzare – la dichiarata inclinazione di Wittgenstein verso soluzioni idealistiche a spiegare le continue oscillazioni e revisioni che segnano il procedere della riflessione wittgensteiniana: queste oscillazioni possono infatti essere intese – seguendo il suggerimento di Diamond – come l’espressione dell’attenzione critica di Wittgenstein nei confronti della propria propensione all’idealismo. In quel che segue, cerchero` di elaborare piu` dettagliatamente l’ipotesi interpretativa appena formulata: questo richiede in primo luogo di precisare il modo in cui la tendenza idealistica di Wittgenstein agisce nel testo, e in secondo luogo di individuare i luoghi in cui e` riconoscibile una critica a questa tendenza (parte II). La presenza di questa linea critica, d’altra parte, non implica di per se´ che Wittgenstein rifiutasse la concezione idealistica. Infatti, gli autori che hanno attribuito a Wittgenstein una forma di idealismo linguistico hanno in genere notato che il tentativo di formulare esplicitamente questa tesi ha esiti paradossali7; si potrebbe dunque pensare che l’autocritica che Wittgenstein compie nel Della Certezza esprima in realta` la sua consapevolezza dell’intrinseca paradossalita` della concezione idealistica: in questa prospettiva, Wittgenstein adotterebbe di fatto il punto di vista idealistico, e la sua critica sarebbe rivolta solamente contro la possibilita` di una formulazione esplicita di questo punto di vista. Nella parte III, cerchero` di mostrare come Wittgenstein non condividesse in realta` gli assunti dell’idealismo linguistico e come, di conseguenza, la difficolta` che egli incontra nel Della Certezza non debba essere ricondotta

6 7

Diamond (1991: 211-12). Cfr. Williams (1974: 296, trad. it.); Lear (1982: 383); Moore (1985: 137-38).

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all’impossibilita` di esprimere la concezione filosofica da lui sostenuta. 2. L’idea di certezza intorno alla quale ruotano le osservazioni di Wittgenstein e`, com’e` noto, quella elaborata da G.E. Moore nei suoi saggi A Defence of Common Sense e Proof of an External World. E` abbastanza evidente, sin dalle prime battute del Della Certezza, l’insoddisfazione di Wittgenstein a proposito del tentativo mooreano di articolare un’epistemologia realista facendo appello ai dati del senso comune (C 59); in particolare, Wittgenstein contesta a Moore il fatto che la sua descrizione della common sense view of the world sia fondata su un’immagine nel contempo problematica e semplicistica del nostro concetto di conoscenza: l’immagine per la quale il sapere e` paragonabile alla «percezione di un processo esterno per mezzo di raggi visuali, che lo proiettano, cosı` com’e`, nell’occhio e nella coscienza» (C 90). Sebbene Moore non si richiami in modo esplicito a questa impostazione mentalista, Wittgenstein ritiene ugualmente che essa sia presupposta dal modo di procedere di Moore. Moore, com’e` noto, contrappone al dubbio scettico la rivendicazione di conoscere per certa la verita` di alcuni giudizi di senso comune («La Terra esiste da piu` di 100 anni», «Io ho un corpo umano», etc.) senza pero` fornire alcuna giustificazione in supporto di questa convinzione8. Questo desta in Wittgenstein l’impressione che Moore concepisca il sapere come uno stato di coscienza: sono infatti le dichiarazioni circa i propri stati mentali che in genere non richiedono di essere giustificate (C 6; C 21; C 178). Se dunque Moore assimila il sapere ad uno stato mentale, il suo realismo riposa sull’incondizionata fiducia nel fatto che «i raggi visuali» che proiettano il dato esterno nella coscienza siano affidabili, che raffigurino l’oggetto «cosı` com’e`» in realta`. Tuttavia, nota Wittgenstein «sorge immediatamente la questione se anche di questa proiezione si possa essere sicuri» (C 90). Il realismo del senso comune di 8

Cfr. Moore (1925; 1939).

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Moore, dunque, piu` che dissipare i dubbi scettici, acuisce la nostra consapevolezza dell’inevitabilita` di questi dubbi (C 481). Ora, puo` sembrare che Wittgenstein nel Della Certezza si appropri di uno stratagemma tipicamente idealistico al fine di sottrarsi a questa oscillazione tra realismo e scetticismo9. L’idea e` che sia possibile sottrarre al dubbio certe proposizioni (nel caso del Della Certezza, i truismi di senso comune enumerati da Moore) rivendicando per esse la natura di regole del nostro metodo di rappresentazione. In questo modo, l’asserzione realista di una concordanza tra proposizione e realta` e la pretesa scettica di revocare in dubbio tale corrispondenza sono entrambe dissolte: il presupposto di questa disputa e` infatti che tali proposizioni siano trattate come proposizioni empiriche; se pero` queste proposizioni costituiscono non gia` enunciati su stati di cose, ma regole che rendono possibile il discorso sulla relazione tra gli enunciati e la realta`, non sara` dato di parlare sensatamente – come pure vogliono fare lo scettico e il realista – della relazione tra queste proposizioni e la realta`. In che senso, pero`, una proposizione come «La Terra esiste da piu` di 100 anni» puo` costituire una regola del nostro modo di rappresentazione? E in che cosa consiste, esattamente, il nostro modo di rappresentazione? Dal momento che l’idealismo che viene attribuito a Wittgenstein e` un idealismo linguistico, il nostro modo di rappresentazione dovra` essere identificato con cio` che Wittgenstein chiama «la prassi del giudizio empirico» (C 140), ovvero con il nostro gioco linguistico del trarre conclusioni dall’esperienza; di conseguenza, se le proposizioni di Moore costituiscono le norme del nostro modo di rappresentazione, esse funzioneranno come le regole grammaticali di questo gioco linguistico. In effetti, Wittgenstein nel Della Certezza ritorna spesso sull’idea che le proposizioni certe enumerate da Moore, pur presentandosi come giudizi empirici, abbiano in realta` la funzione di regole grammaticali (C 57-58; C 87; C 95; C 151; C 167). Questa considerazione richiede forse qualche chiarimento: in che modo una proposizione 9

Cfr. Moore (1925; 1939).

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come «La Terra esiste da piu` di 100 anni» puo` essere vista come regola grammaticale? L’ipotesi proposta da alcuni commentatori (ad esempio, C.G. Luckhardt) e` che Wittgenstein faccia qui implicitamente uso della nozione di paradigma (cfr. C 138-140)10. In questa chiave di lettura, le proposizioni di senso comune non sono applicazioni qualsiasi nell’ambito del gioco linguistico con le proposizioni empiriche, ma sono riconosciute implicitamente nell’uso come applicazioni paradigmatiche di questo gioco: ora, il nostro riconoscere queste proposizioni e non altre come paradigmi del giudizio empirico determina secondo Luckhardt l’identita` stessa dei concetti che utilizziamo per parlare della relazione tra linguaggio e realta` (come ad esempio i concetti di conoscenza, verita`, giustificazione, ecc). In questo senso si puo` dire che le proposizioni di senso comune funzionino come regole grammaticali: in virtu` della loro funzione di «determinazione concettuale» (C 138), e` per noi possibile discriminare quali applicazioni dei concetti di conoscenza, verita`, giustificazione, ecc. siano corrette e quali no. Ci si potrebbe a questo punto chiedere cosa giustifichi l’unanimita` pressoche´ totale con la quale siamo propensi a riconoscere giudizi del tipo «La Terra esiste da piu` di 100 anni» come paradigmatici. La risposta piu` immediata e` forse che il nostro accordo sui paradigmi sia spiegabile con la considerazione che convergiamo tutti su un’unica realta` oggettiva nella quale, appunto, la Terra esiste da piu` di 100 anni. Tuttavia, se si accetta l’idea che le proposizioni certe svolgano una funzione normativa, tanto la domanda quanto la risposta devono essere considerate insensate: come stabilire, infatti, che le proposizioni che esprimono il nostro concetto di concordanza con la realta` concordino a loro volta con la realta` senza richiamarsi al ruolo paradigmatico svolto da quelle proposizioni stesse? (C 130; C 191) Questa considerazione – nota sempre Luckhardt – sembra essere il presupposto di una della critiche piu` ricorrenti tra quelle 10

Cfr. Luckhardt (1978a; 1978b). Cfr. anche Stroll (1994: 115-18).

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che Wittgenstein indirizza a Moore: Moore sbaglierebbe ad applicare concetti come quelli di verita`, conoscenza, ecc. alle proposizioni di senso comune, dal momento che questi concetti servono per parlare della relazione che intercorre tra tali proposizioni e la realta`; ma di questa relazione, come abbiamo detto, non si puo` parlare sensatamente (C 116)11. E` dunque preferibile adottare una terminologia che sottolinei la constatazione che le proposizioni certe non rispecchiano alcun fatto del mondo ma esprimono soltanto le regole grammaticali che governano la nostra prassi del giudizio empirico: Vorrei dire: quello che Moore asserisce di sapere Moore non lo sa; ma e` incontestabilmente stabilito per lui come anche per me; il considerarlo dunque come qualcosa di incontestabile fa parte del metodo del nostro dubitare e del nostro ricercare. (C 151)

Questa linea di pensiero approda dunque ad una rappresentazione tipicamente idealistica dei rapporti tra linguaggio ed esperienza: la nostra relazione epistemica con la realta` e` resa possibile dall’esistenza della nostra interazione linguistica, che rende disponibili i concetti per articolare questa relazione; d’altra parte, le norme che governano l’interazione linguistica non possono in alcun modo essere fondate facendo nuovamente appello alla costituzione della realta`: tutto cio` che puo` essere detto in proposito e` che il riconoscimento di tali norme e` determinato dal fatto che i membri della nostra comunita` abbiano appreso certi giochi linguistici (C 128-C 132). Naturalmente, se cio` che determina la nostra incrollabile fiducia nelle proposizioni certe non e` la soverchiante quantita` di evidenze empiriche che le comprovano, ma il fatto che esse svolgono la funzione di regole nel contesto del nostro gioco linguistico, ne segue che esse non possono essere reputate, come credeva Moore, incondizionatamente certe: tali proposizioni sono tutt’al 11

Cfr. Luckhardt (1978a: 248).

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piu` certe «se pensiamo al nostro sistema» (C 108), certe nel nostro gioco linguistico. Molte delle osservazioni che compaiono nella prima meta` del Della Certezza sono impiegate da Wittgenstein per elaborare e sviluppare la linea di pensiero che abbiamo fin qui descritto, e appare chiaro che la possibilita` di dirimere la controversia tra realismo e scetticismo assumendo la posizione dell’idealista trascendentale eserciti, almeno inizialmente, una qualche attrattiva su Wittgenstein. Tuttavia, e` anche vero che Wittgenstein diviene rapidamente consapevole dell’instabilita` di questa concezione, e che, negli sviluppi successivi del testo, egli procede di fatto a una critica esplicita della tendenza idealistica che aveva ispirato le sue riflessioni iniziali. Una sequenza molto istruttiva a questo proposito e` quella riportata qui di seguito: Qui sono propenso a combattere contro i mulini a vento, perche´ non posso ancor dire quello che voglio dire davvero. Voglio dire: Del fondamento di tutto l’operare con i pensieri (con il linguaggio) fanno parte non soltanto le proposizioni della logica, ma anche certe proposizioni che hanno la forma di proposizioni empiriche. – Questa determinazione non e` della forma «Io so...». «Io so...» enuncia quello che io so, e questo non ha interesse logico. In quest’osservazione l’espressione: «Proposizioni che hanno la forma di proposizioni empiriche» `e gia` del tutto cattiva; si tratta di enunciati su oggetti. (...) Il dire, nel senso in cui lo dice Moore, che l’uomo sa qualcosa; che dunque quello che dice e` senz’altro la verita`, mi sembra falso. – E` la verita` soltanto nella misura in cui e` un fondamento incrollabile dei suoi giochi linguistici. Voglio dire: Non e` che in certi punti l’uomo conosca la verita` con sicurezza completa. Ma anzi, la sicurezza completa si riferisce soltanto al suo atteggiamento. Ma anche qui, naturalmente, c’e` ancora un errore (C 400-405)12.

La tensione filosofica che attraversa questo passaggio e` resa evidente dall’alternarsi di voci tramite il quale Wittgenstein esprime la sua difficolta`: da un lato, egli si dichiara propenso a sostenere 12

Secondo e quarto c.vo mio.

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un certo punto di vista; dall’altro, egli ammette di non poter ancora dire cio` che vorrebbe. Non e` difficile riconoscere, nella descrizione che Wittgenstein fornisce di cio` che egli si sentirebbe propenso a dire, i lineamenti di quella concezione che caratterizza le fasi iniziali del Della Certezza: Wittgenstein cita infatti l’idea che le proposizioni certe siano solo formalmente simili alle proposizioni empiriche, ma svolgano in realta` la funzione di determinazione concettuale propria delle proposizioni logiche; deduce da questo assunto la tesi che le proposizioni certe non possono essere oggetto di conoscenza; trae infine la conclusione idealistica per la quale la validita` delle nostre certezze non e` incondizionata, ma puo` essere asserita soltanto nella misura in cui queste certezze costituiscono i paradigmi del nostro gioco. Queste riflessioni, che suonano ormai familiari al lettore della prima meta` del Della Certezza, sono pero` contrappuntate, in questo caso, da una voce polemica: la forma d’espressione da lui usata – dice ora Wittgenstein – «e` del tutto cattiva», e prosegue affermando che nelle sue considerazioni «naturalmente, c’e` ancora un errore». In cosa puo` consistere l’errore di cui parla Wittgenstein? Il passo citato fornisce un’utile indicazione in proposito, proprio la` dove Wittgenstein si lamenta dell’improprieta` dell’espressione «proposizioni che hanno la forma di proposizioni empiriche» come definizione dei truismi di senso comune: Wittgenstein, come si e` visto, avverte qui l’esigenza di correggere questa espressione osservando che «si tratta di enunciati su oggetti». Non dovrebbe sfuggire il senso di questo ripensamento: come si ricordera`, infatti, una delle conseguenze dell’assimilazione tra proposizioni certe e regole grammaticali e` costituita proprio dalla dissoluzione della possibilita` di stabilire la concordanza tra tali proposizioni e il «mondo dei dati di fatto» (C 203). E` dunque plausibile che Wittgenstein, asserendo che le proposizioni certe sono «enunciati su oggetti», intenda suggerire che esse sono in qualche modo in rapporto con la realta` empirica, rinnegando cosı` l’assunto dell’ineffabilita` della relazione tra certezze di senso comune e stati di cose. Nella stessa direzione sembra andare anche la constatazione che «naturalmente, c’e` ancora un errore» nell’idea che le proposizioni certe sono «la

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verita` soltanto nella misura in cui [sono] un fondamento incrollabile dei [nostri] giochi linguistici»: questa tesi implica infatti l’idea che «la sicurezza completa» propria dei giudizi di senso comune non possa in alcun modo essere fondata nella realta`, ma sia appunto solo un tratto del nostro modo di condurre il gioco linguistico (del nostro «atteggiamento»). Ora, cosa spinge Wittgenstein a dire che le proposizioni di senso comune parlano in fin dei conti di oggetti d’esperienza, e che e` un errore assimilarle a regole grammaticali? Qualche indicazione in proposito puo` essere tratta da questo passaggio: [...] Noi tutti crediamo che sia impossibile arrivare sulla Luna, ma puo` darsi che ci siano uomini che credono che la cosa sia possibile e che un giorno o l’altro accadra`. Diciamo: questa gente non sa molte cose che noi sappiamo. E lascia pure che siano cosı` sicuri del fatto loro – sono in errore e noi lo sappiamo [...] (C 286).

Vorrei porre l’accento sul “Diciamo” che apre il secondo periodo dell’osservazione: Wittgenstein suggerisce con questa espressione che cio` che noi ordinariamente diremmo, di fronte ad una persona che non condivide le nostre certezze, e` che questa persona non sa cose che noi sappiamo, e che pertanto essa e` in errore. Ma questo significa che noi non siamo affatto disposti a ricondurre questo dissenso al fatto che la persona in questione ha appreso giochi linguistici diversi dai nostri, e che dunque essa riconosce altri giudizi come paradigmatici. Questo dissenso, in altri termini, ha per noi a che vedere con la rappresentazione oggettiva della realta`, non con le nostre regole grammaticali: infatti, dire di conoscere la proposizione che l’altro nega esprime in questo contesto l’idea che il giudizio espresso dalla nostra proposizione sia un giudizio che, semplicemente, e` giustificato in quanto concorda con la realta`. E` dunque plausibile che Wittgenstein, in questa osservazione cosı` come nei numerosi passaggi del testo in cui parla delle proposizioni vere come conoscenze vere rispondenti ai fatti, intenda dare voce all’idea che il nostro atteggiamento ordinario nei confronti

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delle proposizioni di senso comune (cio` che noi «diciamo») sia rappresentato in modo piu` esatto dalla considerazione che esse sono in qualche modo in rapporto con la realta` (sono «enunciati su oggetti»), piuttosto che dall’affermazione idealistica per la quale esse sono regole grammaticali (ovvero «il fondamento incrollabile dei [nostri] giochi linguistici»). Sembra anche che – come mostra la sequenza C 400-405 – questa constatazione stia all’origine dell’insoddisfazione di Wittgenstein a proposito dell’assimilazione tra certezze e regole grammaticali. Non e` un caso che, poco dopo C 286, Wittgenstein si chieda: «[...] Perche´ non devo dire che tutte queste cose le so? Non si dice forse proprio questo?» (C 288; corsivo mio): come questo passaggio suggerisce, cio` che induce Wittgenstein a mettere in questione l’idea che la relazione tra le nostre certezze e la realta` sia ineffabile e` proprio la constatazione che, ordinariamente, noi parliamo in modo sensato della relazione tra queste proposizioni e la realta`. E` dunque possibile, in prima approssimazione, stabilire una connessione tra il fatto che Wittgenstein senta l’esigenza di rivedere gli assunti della concezione idealistica da lui inizialmente esposta e il fatto che la nostra relazione ordinaria con le proposizioni certe sia meglio espressa dall’idea che tali proposizioni abbiano un qualche rapporto con la realta` empirica: se l’elemento idealistico del Della Certezza puo` essere riconosciuto nell’assimilazione tra certezze e regole grammaticali, allora il modo in cui Wittgenstein giunge a criticare la sua propensione idealistica deve coinvolgere, in un senso ancora da precisare, l’appello a cio` che noi ordinariamente diciamo quando esprimiamo conoscenze certe13. Nella prossima sezione, cerchero` di indicare come l’appello al linguaggio ordinario possa essere rilevante per comprendere la maniera in cui Wittgenstein critica la sua propensione all’idealismo. 3. L’ipotesi piu` immediata per spiegare il modo in cui l’insoddisfazione di Wittgenstein a proposito degli esiti idealistici della sua 13

Cfr. Luckhardt (1978: 248-49).

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esposizione sia connessa alla constatazione che tale esposizione non coglie alcuni aspetti importanti della nostra relazione ordinaria con le proposizioni certe e` forse la seguente: l’insoddisfazione di Wittgenstein dipende dal fatto che e` emerso un contrasto tra cio` che lui, filosoficamente, vuole dire («Non ha senso parlare di conoscenza a proposito delle proposizioni certe») e cio` che noi diremmo ordinariamente («Noi sappiamo che la Terra esiste da piu` di 100 anni»). Secondo l’immagine correntemente accettata della filosofia dell’ultimo Wittgenstein, la constatazione di questo contrasto giustifica di per se´ la conclusione che l’opinione filosofica sia insensata: dal momento che Wittgenstein vuole sostenere filosoficamente una tesi che contrasta con quello che ordinariamente diciamo e pensiamo, e dal momento che i limiti del discorso ordinario coincidono con i limiti del discorso sensato, ne segue che la tesi filosofica di Wittgenstein e` insensata. Questa argomentazione presenta evidentemente delle difficolta`. In essa, infatti, si sancisce l’insensatezza della tesi idealistica di Wittgenstein facendo appello alla premessa che i limiti del discorso ordinario coincidono con i limiti del discorso sensato, ma questa premessa implica a sua volta quella conclusione idealistica che si voleva rifiutare: infatti, se e` vero che i limiti del discorso ordinario coincidono con i limiti del discorso sensato, allora ogni tentativo di dire qualcosa sulla relazione tra il nostro discorso ordinario e la “realta` esterna al linguaggio” sara` un tentativo insensato di trascendere i limiti del discorso ordinario. Ma se la relazione tra le regole del nostro linguaggio ordinario e la realta` “extra-linguistica” e` ineffabile, allora la tesi idealistica sulle proposizioni certe e` corretta: a queste proposizioni – in quanto costituiscono regole d’uso – non si possono applicare sensatamente concetti come quelli di verita`, conoscenza, concordanza con la realta`, perche´ in tal modo si finirebbe con il parlare della relazione tra queste proposizioni e la realta`, con il dire cio` che non puo` essere detto; tutto cio` che si puo` dire in proposito e` che queste proposizioni esprimono le norme della nostra interazione linguistica ordinaria. D’altra parte, il riconoscimento della correttezza di questa tesi idealistica sembra riprodurre nuovamente quel contrasto con il lin-

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guaggio ordinario che dovrebbe, per ipotesi, essere sufficiente a dimostrare l’insensatezza della tesi idealistica stessa: se, infatti, una proposizione come «La Terra esiste da piu` di 100 anni» esprime una norma del nostro gioco linguistico con le proposizioni empiriche, allora e` una norma di questo gioco (una norma del nostro linguaggio ordinario) anche la constatazione che questa proposizione non costituisce meramente una regola grammaticale, ma e` una proposizione vera rispondente ai fatti, la cui verita` non dipende in alcun modo dalle pratiche linguistiche alle quali siamo stati addestrati. In breve, questa lettura rappresenta la filosofia di Wittgenstein come profondamente incoerente: Wittgenstein `e un idealista linguistico, ma non puo` esplicitare il proprio idealismo linguistico senza oltrepassare il limite del discorso sensato, ne´ puo` argomentarne l’insensatezza senza presupporlo. Non che questo fatto sia sfuggito a quegli autori che attribuiscono a Wittgenstein una forma di idealismo linguistico: B. Williams, ad esempio, ammette che il tentativo di formulare questa posizione filosofica entra problematicamente in conflitto con il linguaggio ordinario, e quindi sembra autodenunciarsi come insensato. Tuttavia, e` per Williams possibile attenuare la paradossalita` di questa conclusione assumendo che Wittgenstein faccia implicitamente appello, anche nella fase matura della sua riflessione, alla dicotomia dire/mostrare14: la verita` dell’idealismo linguistico non puo` essere detta sensatamente, ma puo` essere mostrata, ovvero trasmessa tramite una modalita` d’espressione peculiare alla filosofia e distinta dal linguaggio ordinario. In questo modo, la contraddizione dell’idealismo linguistico viene sciolta distinguendo tra due possibilita` di discorso, una interna ed ordinaria, l’altra esterna e filosofica: fintanto che siamo immersi nella prassi linguistica quotidiana, non possiamo non intendere le nostre certezze come conoscenze vere rispondenti ai fatti; tuttavia, se ci distanziamo dalla nostra prassi e assumiamo un’attitudine filosofica, le proposizioni certe ci si mostrano come semplici re14

Williams (1974: 296, trad. it.)

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gole grammaticali, la cui relazione con la realta` e` ineffabile (anche se quello che ci si mostra quando ci poniamo in una prospettiva filosofica non puo`, a rigore, essere detto sensatamente all’interno del gioco linguistico ordinario). La legittimita` di questa distinzione tra modalita` di discorso ordinaria e filosofica riposa sull’assunzione che ci sia comunque qualcosa di determinato, un qualche contenuto, che ci si mostra quando guardiamo le cose filosoficamente e che contrasta con le regole del discorso ordinario (del discorso sensato). Questa e` in effetti l’assunzione dalla quale siamo partiti, quando abbiamo ipotizzato che l’insoddisfazione di Wittgenstein a proposito degli esiti idealistici della propria riflessione potesse essere spiegata con la considerazione che tali esiti contrastano con il linguaggio ordinario: per poter contrastare con il linguaggio ordinario, la tesi idealistica deve infatti in qualche modo avere un contenuto, esprimere un senso. Abbiamo qui una certa immagine del modo in cui l’appello al linguaggio ordinario puo` servire per criticare cio` che dicono i filosofi: le proposizioni filosofiche esprimono un senso determinato, e noi, proprio perche´ comprendiamo questo senso, comprendiamo anche che esso contrasta con le regole del linguaggio ordinario (del discorso sensato), ovvero lo comprendiamo come insensato. Ma e` questa l’immagine che Wittgenstein ha in mente? Cio` a cui voglio arrivare si trova anche nella differenza tra l’osservazione occasionale «Io so che questo...» cosı` come la si usa nella vita di tutti i giorni, e questa stessa espressione quando viene dal filosofo. Infatti, quando Moore dice: «Io so che questo e`...» io vorrei rispondergli: «Tu non sai proprio nulla!» E tuttavia non darei questa risposta a un tizio che parlasse cosı` senza nessuna intenzione filosofica. Dunque sento (a ragione?) che queste due persone vogliono dire cose differenti (C 406-407).

La contrapposizione tra espressioni filosofiche e ordinarie presa in considerazione da Wittgenstein in questo passo e` del tutto particolare, dal momento che l’espressione filosofica sentita come illegittima (la proposizione di Moore) non contrasta con il linguaggio ordinario nello stesso senso in cui questo potrebbe essere

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detto della presa di posizione dello scettico (che implica una negazione di cio` che noi ordinariamente diremmo): sembra anzi che i truismi di Moore rispecchino alcune forme d’espressione proprie del senso comune. In che modo si puo` dunque parlare di un contrasto tra la proposizione di Moore e il linguaggio ordinario? Ad esempio, si puo` congetturare – seguendo l’interpretazione idealistica del Della Certezza – che l’asserzione di Moore entri in dissidio con le nostre regole d’uso, e risulti quindi insensata, perche´ in essa vengono combinate espressioni grammaticalmente incompatibili tra loro: una proposizione certa (ovvero una norma grammaticale) viene associata al concetto di conoscenza (che rimanda alla possibilita` di stabilire la relazione tra quella proposizione e la realta`). E` pero` importante ribadire che, per stabilire che la proposizione di Moore contrasta in questo modo con le regole del nostro linguaggio, io devo aver compreso quello che Moore vuole dire – devo, cioe`, aver compreso la proposizione di Moore come una proposizione in cui il concetto di conoscenza e` applicato ad un giudizio certo: ma questo significa che devo aver compreso questa proposizione come contrastante con le nostre regole grammaticali, e dunque come insensata. L’idea che la proposizione di Moore esprima un senso determinato, comprendendo il quale e` possibile riconoscere l’insensatezza della proposizione stessa, non collima pero` con la descrizione del non-senso mooreano che puo` essere ritrovata nel testo del Della Certezza: Wittgenstein infatti osserva, a proposito dell’uso filosofico di una proposizione come «Io so che questo e` un albero», che gli sembra di non comprendere affatto cio` che la proposizione vuole dire (C 347), e questo perche´ il senso delle parole di Moore «non e` determinato dalla situazione, ma ha bisogno di una tale determinazione» (C 348)15. Per precisare questa idea, Wittgenstein paragona il caso di Moore a quello di una persona che, all’improvviso e senza che le circostanze lo richiedano, dica le parole “Io sono qui” (C 348), oppure pronunci un “Salve!” nel bel mezzo di una con15

Cfr. Conant (1998: 238-44).

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versazione (C 464); in tutti questi casi – commenta Wittgenstein – noi siamo consapevoli del fatto che la forma d’espressione usata ha applicazioni in altri contesti, e tuttavia, nella situazione delineata, non comprendiamo immediatamente cosa la persona che parla voglia fare con le sue parole (C 349-352). La descrizione di Wittgenstein suggerisce alcune considerazioni. In primo luogo, essa e` di per se´ sufficiente a escludere l’ipotesi (implicata dalla lettura idealistica) che Wittgenstein concepisca il non-senso di Moore nei termini di un contrasto tra la proposizione asserita da Moore e le nostre regole grammaticali: se la proposizione di Moore non esprime alcun senso determinato, viene infatti a mancare uno dei due elementi necessari al generarsi del contrasto. Da questo segue anche che l’insensatezza non e` una proprieta` intrinseca del senso della proposizione giudicata insensata (una proprieta` che esso possiede in quanto contrasta con le regole d’uso); come si legge nelle Ricerche Filosofiche: «Quando si dice che una proposizione e` priva di senso non e` come se il suo senso sia, per cosı` dire, senza senso» (RF I, 500). Ma se non esistono sensi che – date certe regole d’uso – risultano intrinsecamente insensati, ne segue che e` impossibile determinare a priori quali sensi non possano essere conferiti a una proposizione (per compiere una simile determinazione, sono appunto necessarie regole di sensatezza). Di conseguenza, un’espressione puo` contare come nonsenso solo se la persona che l’impiega non e` riuscita, per un motivo qualsiasi, a conferire un senso alle sue parole. Nella prospettiva di Wittgenstein, come ha notato James Conant, l’origine del nonsenso non va dunque ricercata nella relazione tra la proposizione e le regole grammaticali, ma nella relazione tra la proposizione e la persona che la usa: nel fatto, cioe`, che la persona non ha dato un senso determinato alla forma d’espressione che ha scelto di impiegare; detto altrimenti, una proposizione e` insensata non perche´ il suo senso sia intrinsecamente insensato, ma perche´ nessuno le ha ancora assegnato un senso16. 16

Cfr. Conant (1998: 249-50).

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Naturalmente, il fatto che qualcuno dica qualcosa il cui senso risulta indeterminato agli occhi dei suoi interlocutori e` una possibilita` del tutto ordinaria del gioco linguistico: in casi del genere, nota Wittgenstein, e` sempre possibile chiedere alla persona che parla di precisare il senso delle proprie parole (C 349). Questa constatazione potrebbe far sorgere l’impressione che l’uso wittgensteiniano della nozione di non-senso come di uno strumento per criticare le proposizioni filosofiche abbia in se´ qualcosa di contingente: non sarebbe possibile anche per Moore precisare, nel modo ordinario, il senso della sua asserzione «Io so che qui c’e` una mano», e proseguire nell’esporre la sua filosofia? In che modo la nozione di insensatezza evocata da Wittgenstein ottiene lo scopo di dissolvere la modalita` di discorso filosofica, di riportare «le parole dal loro impiego metafisico indietro al loro impiego quotidiano»? (RF I, 116). In effetti, nulla per Wittgenstein impedisce che Moore, avendo espresso cio` che intendeva dire in modo ellittico o confuso, possa in seguito precisare il senso della sua asserzione – nulla, posto naturalmente che Moore avesse sin dall’inizio un’idea chiara di cio` che intendeva fare con le sue parole. Tuttavia, ed e` questo il punto, nella prospettiva di Wittgenstein e` Moore per primo a non sapere cosa vuole fare con le sue parole (C 468), perche´ ha dei desideri incoerenti rispetto al modo in cui esse dovrebbero venire intese; dunque, non c’e` in realta` nulla che Moore possa precisare. In che cosa consiste, per Wittgenstein, l’incoerenza dei desideri di Moore? Moore, in quanto filosofo, e` attratto da certe forme d’espressione non per quello che esse possono significare in questo o quel contesto d’applicazione, ma perche´ esse sembrano rivelare una verita` necessaria a proposito del gioco linguistico in generale – una verita` che esprime la condizione di possibilita` di ogni applicazione particolare all’interno del gioco. Ad esempio, come nota Wittgenstein, la proposizione di Moore «Io so che qui c’e` una mano» non ci appare filosoficamente interessante se pensiamo alle applicazioni ordinarie che essa potrebbe avere (C 622): la rilevanza filosofica di questa proposizione diviene chiara solo se siamo propensi a riconoscere in essa la scoperta che «E` impossibile

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che alcuni dei nostri enunciati siano falsi» e che pertanto «Dio e` vincolato al nostro sapere» (C 436). Il fatto che Moore non voglia proiettare la sua proposizione in nessuno dei contesti specifici che costituiscono il gioco linguistico ordinario, ma desideri esprimere con essa una verita` che in qualche modo trascende questi contesti, desta dunque in Wittgenstein l’impressione che Moore intenda dire qualcosa di diverso da cio` che i parlanti ordinari possono voler dire nell’usare quelle stesse parole («Dunque sento [...] che queste due persone vogliono dire cose differenti»; C 406). D’altra parte, e` essenziale al tentativo di Moore che egli non intenda le sue parole in alcun senso speciale, distinto da quello ordinario (come viene peraltro precisato dallo stesso Moore in A Defence of Common Sense)17. Infatti, la finalita` di Moore e` quella di mostrare come le tesi filosofiche che contrastano con quello che ordinariamente diciamo e pensiamo risultino a vario titolo incoerenti: ma se le proposizioni che – per Moore – hanno la funzione di esprimere cio` che ordinariamente diciamo e pensiamo non fossero in realta` intese nel loro senso ordinario, il contrasto tra tesi filosofiche e senso comune non si produrrebbe e, di conseguenza, l’incongruenza insita in quelle tesi non potrebbe essere rilevata18. In questo senso, per Wittgenstein, Moore non sa cosa vuole fare con le sue stesse parole: egli vuole intendere le sue parole nel modo in cui esse sono ordinariamente applicate e allo stesso tempo vuole che le sue parole significhino qualcosa di diverso da cio` che esse possono significare nel contesto di questa o quella particolare applicazione; egli vuole, per cosı` dire, porsi con le sue parole contemporaneamente all’interno e all’esterno del nostro gioco linguistico. E` interessante notare come Wittgenstein, nel Della Certezza, riconosca che la tendenza ad avere una relazione confusa con le proprie parole non caratterizzi solo la filosofia di Moore ma sia

17 18

Moore (1925: 26, trad. it.) Cfr. per queste considerazioni Cavell (1966: 168-72).

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significativamente presente nel suo stesso lavoro; si consideri ad esempio questa sequenza: Ma e` anche corretto usare le parole «Io so» nei contesti che Moore ` bensı` vero che io non cita, almeno in circostanze ben determinate? (E so che cosa voglia dire «So che sono un essere umano». Ma anche a quest’espressione si potrebbe dare un senso). Per ciascuna di queste proposizioni potrei immaginare circostanze che ne farebbero una mossa del nostro gioco linguistico; circostanze grazie alle quali il gioco linguistico perderebbe tutto cio` che e` filosoficamente sorprendente. Lo strano e` che in un caso del genere vorrei sempre dire (benche´ sia falso): «Lo so – per quanto si possa sapere una cosa del genere». Questo e` scorretto, ma dietro e` nascosto qualcosa di corretto (C 622-623).

E` plausibile che la propensione, confessata da Wittgenstein in questo passaggio, a ridimensionare la validita` delle conoscenze certe ordinarie apponendo ad esse una sorta di clausola cautelativa («Lo so – per quanto si possa sapere una cosa del genere») abbia in se´ «qualcosa di corretto» nella misura in cui essa cerca di contrastare la «sicurezza trascendente» (C 47) che caratterizza la posizione di Moore (per il quale «Dio e` vincolato al nostro sapere»; C 436). D’altra parte, tale propensione resta per Wittgenstein sostanzialmente fuorviante, perche´ essa induce a contrapporre alla ` impossibile che alcuni dei pseudo-necessita` individuata da Moore («E nostri enunciati siano falsi»; C 436) l’asserzione di un’altra verita` necessaria, non meno problematica della precedente: quella per la quale la nostra pretesa di conoscere non e` mai incondizionata, ma e` sempre vincolata al modo in cui noi possiamo conoscere, ovvero al nostro modo di rappresentazione. Come abbiamo visto, questa propensione idealistica agisce in maniera evidente nelle annotazioni iniziali dell’opera, la` dove Wittgenstein riconduce le nostre conoscenze certe alle regole che governano il nostro gioco linguistico del trarre conclusioni dall’esperienza. In questo modo, la posizione che Wittgenstein assume riproduce il tipo di confusione che abbiamo delineato sopra a proposito della filosofia di Moore: da un lato, infatti, Wittgenstein non e` interessato a usare l’espressione

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«Lo so – per quanto si possa sapere una cosa del genere» nello stesso modo in cui essa e` applicata in un contesto particolare (ad esempio, in un contesto in cui ci sia un motivo specifico per ritrattare la rivendicazione di conoscenza), ma egli vuole descrivere, con questa proposizione, una verita` necessaria a proposito del nostro uso del linguaggio; dall’altro, tuttavia, l’idea stessa che questa proposizione ci riveli un qualche tipo di verita` sul nostro gioco linguistico presuppone che Wittgenstein, con questa proposizione, non voglia dire nulla di diverso da quello che ordinariamente si vuole dire con essa. Anche Wittgenstein, dunque, fa esperienza della particolare illusione prospettica in cui spesso cade chi fa filosofia – l’illusione di un punto di vista che consenta di descrivere dall’esterno alcune verita` generali a proposito del nostro uso del linguaggio mantenendo pero` intatti i caratteri del gioco linguistico del compiere descrizioni per come esso e` praticato all’interno del nostro linguaggio. 4. Nel Della Certezza, dunque, Wittgenstein si confronta in realta` con (almeno) due tendenze filosofiche tra loro opposte: quella realista di Moore (per il quale la verita` di alcuni enunciati empirici e` assolutamente incondizionata) e quella idealistica da lui stesso evocata, che lo porta ad escludere la possibilita` di una conoscenza non condizionata dal gioco linguistico; queste due tendenze, come si e` visto, sono nella prospettiva di Wittgenstein ugualmente confuse. Solo alla luce di questa considerazione e` possibile tornare alla questione dalla quale siamo partiti: perche´ Wittgenstein contrappone alla tesi idealistica per la quale la relazione tra proposizioni certe e realta` e` ineffabile la constatazione che noi, ordinariamente, diciamo di conoscere i giudizi di senso comune, e dunque parliamo sensatamente di questa relazione? Qual e`, in altre parole, la funzione dell’appello al linguaggio ordinario nel Della Certezza? Come abbiamo detto, questo appello non ha la finalita` di far emergere il contrasto tra le nostre forme di discorso usuali e la tesi idealistica evocata talvolta da Wittgenstein: questa tesi, come la tesi realista di Moore, non esprime per Wittgenstein alcun senso determinato e dunque non puo` contrastare con il nostro lin-

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guaggio ordinario. Da questo segue anche che la tesi idealistica per la quale i limiti del discorso sensato coincidono con i limiti del linguaggio ordinario non rappresenta per Wittgenstein una concezione filosofica profondamente vera ma inesprimibile – infatti, in questo caso tale concezione dovrebbe avere un senso determinato (tale da poter contrastare con le regole che fissano i limiti dell’uso sensato del linguaggio). Ma allora perche´ Wittgenstein chiama in causa continuamente il ruolo che le espressioni di senso comune hanno nel «normale commercio linguistico» (C 260)? Questo aspetto del metodo di Wittgenstein puo` essere compreso se si tiene a mente che il nonsenso, nella prospettiva wittgensteiniana, scaturisce dalla relazione confusa che la persona che parla ha con le proprie parole. Nel caso particolare del filosofo, questa relazione confusa puo` esprimersi nel tentativo di intendere le proprie parole contemporaneamente nel loro senso ordinario e in un senso distinto da quest’ultimo e non ancora determinato. Di qui l’importanza delucidativa dell’appello all’uso ordinario: Wittgenstein, offrendo al filosofo una rappresentazione perspicua del modo in cui le forme d’espressione da lui impiegate potrebbero essere applicate in contesti ordinari, lo spinge a determinare la propria posizione rispetto a tali applicazioni. Come ha scritto James Conant, Wittgenstein pone in questo modo il filosofo davanti ad un dilemma: o egli accetta di conferire alle proprie parole il senso che esse hanno ordinariamente, e quindi rinuncia ad esprimere tramite esse quella verita` filosofica che egli si sentiva propenso ad affermare; oppure egli rifiuta di conferire alle proprie parole il loro senso ordinario, e ammette che ad esse non e` stato ancora attribuito alcun senso19. Prendiamo il caso delle proposizioni di Moore: Wittgenstein, descrivendo le circostanze in cui l’applicazione di queste proposizioni e` ordinaria, cerca di mostrare a Moore che le parole da lui usate («Io so che qui c’e` una mano», etc.) non sono solitamente impiegate per esprimere la convinzione che alcuni dei nostri enunciati non 19

Cfr. per queste considerazioni Cavell (1966: 168-72).

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possono essere falsi. Se dunque Moore vuole intendere – come egli stesso afferma – le sue parole nel loro significato ordinario, egli deve rinunciare al proposito di esprimere tramite esse la tesi che alcune proposizioni siano assolutamente esenti da dubbio o errore (cfr. C 553-554). Se al contrario Moore non vuole intendere le sue proposizioni nel loro senso ordinario, resta ancora da chiarire in quale senso queste proposizioni dovrebbero essere intese. Analogamente, questo metodo delucidativo puo` essere impiegato per dissolvere la tentazione idealistica confessata da Wittgenstein stesso. L’enumerazione degli usi regolari delle espressioni «Io so...», «E` certo che...», ecc., serve in questo caso a mostrare che tali espressioni non significano necessariamente «Lo so – per quanto si possa sapere una cosa del genere» (C 622), oppure «E` certo nella misura in cui e` un fondamento dei nostri giochi linguistici» (cfr. C 108; C 403-405): queste formule intese a ridimensionare l’attendibilita` della rivendicazione di conoscenza sono appropriate solo in certe circostanze, ma non sempre. Se dunque la nostra propensione all’idealismo ci fa avvertire l’esigenza di accompagnare con una di queste clausole cautelative tutti gli enunciati che esprimono una conoscenza certa, dobbiamo essere consapevoli del fatto che il nostro uso di queste espressioni e` diverso da quello ordinario – che non stiamo, in altri termini, dicendo ancora nulla di determinato sul nostro concetto di conoscenza; se al contrario vogliamo intendere le nostre parole attenendoci al loro uso regolare, dobbiamo rinunciare a vedere in esse la rivelazione di una pseudo-necessita` filosofica. C’e` dunque, nel Della Certezza e nella filosofia di Wittgenstein in generale, una grande considerazione dell’importanza del nostro uso ordinario del linguaggio: ma l’importanza che esso riveste – e` questa forse la lezione che si puo` trarre dal Della Certezza – non deve indurci a credere che le regole che governano la nostra prassi linguistica quotidiana costituiscano i limiti del discorso sensato; lo scopo dell’appello di Wittgenstein a cio` che ordinariamente diciamo e` anzi quello di farci perdere ogni attrazione nei confronti di questa immagine idealistica, mostrandoci come, quando ci sforziamo di articolarla, o non stiamo dicendo nulla di filosofico, o non stiamo dicendo nulla di determinato.

La psicomeccanica di Gustave Guillaume. Una filosofia della mente? * di Arturo Martone

1. G. Guillaume (1883-1960) resta per noi, lettori italofoni (ma pure anglofoni e germanofoni), ancora un autore poco piu` che sconosciuto. Qualche sparuto tentativo di immetterlo, almeno nel nostro territorio, in una circolazione delle teorie linguistiche del secolo appena trascorso, non pare abbia dato a oggi segni di una 1 rilettura o di un ripensamento della sua opera . Il tentativo cui si ispira questo saggio e` quello di segnalare la pertinenza dell’opera guillaumiana nel contesto di una discussione sul ‘mentale’ (sulla centralita` di questa categoria interpretativa tanto da parte filosofica che linguistica), assumendo tale categoria quale asse portante del lavoro guillaumiano medesimo. Provare a leggere qui la Psicomeccanica guillaumiana, quale proposta (fra le tante affacciatesi negli ultimi decenni) pertinente a una ridefinizione delle operazioni mentali che soggiacciono, e al medesimo tempo sovraintendono, alle attivita` linguistico-espressive (e ` qui gradito ringraziare il collega e amico Guy Cornillac, dell’Univ.di Chambe´ry, * E gia` vice-presidente dell’Association Internationale de Psychome´canique du Langage (AIPL), per aver discusso questo testo. 1 ` Si fa qui riferimento a AA.VV. (1996) e alla pubblicazione di Guillaume (PdLT). E qui opportuno menzionare anche, nello spirito invece di un segnale di attenzione fra e da parte di addetti ai lavori, lo studio di Manco (2004), interamente intesa a una piu` capillare ed estesa ricostruzione della Psicomeccanica guillaumiana.

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dunque di una filosofia della mente come tale)2, vuol gia` dire conferire a essa una modernita`, che nel contesto degli studi guillaumiani tuttora in corso non appare affatto scontata3. Resta vero nondimeno, almeno ad avviso di chi scrive, che una filologica restitutio ad integrum del testo (su cui va consumandosi da anni lo sforzo di una fitta schiera di studiosi)4, per quanto meritevole e insostituibile, resta solo un trampolino di lancio per dare piena visibilita` all’opera di questo linguista poco noto (e per niente agevole) e farle cosı` compiere per intero la sua traiettoria speculativa. Quanto si provera` qui a mettere in discussione, ben lungi dal presumere a una tale integralita`, verra` limitandosi a segnalare la emergenza di una problematica di tipo cognitivo (che fa del sapere comune e condiviso, ancorche´ talvolta spontaneo e inconsapevole, un punto di partenza insostituibile)5, una problematica che appare orbitare, indipendentemente da indebite «attualizzazioni» o «precorrimenti», intorno alla nozione di Psicomeccanica del linguaggio. Assumeremo dunque tale nozione quale punto di partenza di questo saggio (2.a-2.d), e cercheremo di isolarne alcune implicazioni di natura appunto cognitiva o tali da configurare l’ambito di una possibile filosofia della mente che appare peraltro, come si accennava sopra, in certo anticipo su tante discussioni a noi piu` vicine (3.a-3.b). 2.a Il termine Psicomeccanica (Psychome´canique), com’e` fatto osservare [Joly-Boone: 1996, 345], nasce solo nel 1945 e viene a sostituire, 2

Per limitarsi solo ai lavori piu` recenti (e in ital.), cfr. D. Marconi (2001); Nannini (2002) e Paternoster (2003). 3 Per restare alla sola letteratura di stretta osservanza guillaumiana, cfr. Joly-Boone (1996). Per una introduzione ai temi della Psicomeccanica, cfr. Valin (1954) e, piu` recentemente, Joly-Hirtle (1981). 4 Oltre a quelli citati, occorre qui menzionare l’opera costante di Lowe (2002), che va da anni dedicandosi a una capillare ricostruzione degli inediti guillaumiani (fra cui, Guillaume: PLL). 5 La letteratura sulla ‘cognizione’ e` divenuta, soprattutto negli ultimi anni, di una dimensione davvero immensa. Ci piace rinviare a Maturana-Varela (1985) e Varela (1987), considerati qui quasi come i ‘pionieri’ di tale indirizzo di ricerca.

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anche se non immediatamente, il piu` consolidato (o almeno tale ritenuto da Guillaume medesimo) Linguistique de position (ponendosi quest’ultimo, agli occhi di Guillaume, come un perfetto sinonimo del termine, anch’esso nuovo, di Psicosistematica (Psycosyste´matique). A conclusione della sua ultima lezione dell’anno 1944-45 all’Ecole des Hautes Etudes (dov’egli insegno` dal 1939 fino al 1960, data della morte), Guillaume cosı` afferma6: Tout dans le syste`me de la langue est mouvement et position [...]. La de´couverte de ces mouvements et des positions occupe´es en eux par l’esprit qui les intercepte, constitue la discipline particulie`re pratique´e ici depuis plusieurs anne´es et que progressivement nous mettons au point. Cette discipline attachante, nous la nommons tantoˆt psychosyste´matique (ou psychome´canique) – cette dernie`re appellation e´tant re´cente – et tantoˆt linguistique de position (Guillaume: LL/d, 109).

Prima pero` di questa nuova opzione terminologica, nel suo testo piu` importante fra quelli pubblicati in vita, Temps et verbe (TV)7, e` gia` presente l’adozione di una scelta di campo di tipo psicologico (anche se non psicologista)8, che viene a tenere assieme la «esplicazione meccanica» con quella appunto «psicologica». Com’egli scrive: 6

Data l’assenza di una vulgata italofona (cio` che avrebbe comportato la esplicitazione dei criteri adottati nella traduzione di questo o quel termine maggiormente connotato), e soprattutto per un Autore come Guillaume, creatore di molteplici neologismi, si e` ritenuto opportuno lasciare in originale i passi di volta in volta citati. 7 Fra gli altri suoi testi pubblicati in vita, occorre qui citare almeno il suo PdA. Per una esauriente bibliografia guillaumiana, si rinvia alla “Nota bio-bibliografica” a c. di A. Manco: (Guillaume: PdLT, 189-98). Per una esaustiva informazione bibliografica, cfr. il website dell’AIPL, http://www.fl.ulaval.ca/fgg, che viene tenuto costantemente aggiornato da R. Lowe e la sua ´equipe. 8 Su questa diversa valenza di una indagine di tipo psicologico si avra` modo di tornare in seguito. Per adesso, e per una prima scelta di campo, appare interessante questa osservazione di L. Havet: «[...] les linguistes sont ordinairement historiens. M. Guillaume est un linguiste psychologue. Un linguiste historien explique vache par le latin uacca, et taureau par un diminutif de taurus; un linguiste psychologue se demande pourquoi, dans l’espe`ce bovine, on distingue le maˆle et la femelle par un autre proce´de´ que dans l’espe`ce canine, et pourquoi la langue ne note pas le sexe du mulot ou de la souris». (Havet: 1919, 158-59).

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Ainsi, dans la partie formelle de la langue, ou` les signes se groupent en syste`mes, l’explication me´canique se double partout d’une explication psychologique, ce qui permet de recourir a` volonte´ soit a` l’une, soit a` l’autre (Guillaume: TV, 5).

Un’ultima citazione che consente d’inquadrare ulteriormente la specificita` di una indagine psicomeccanica del linguaggio, e che concerne la distinzione fra una visione logica del linguaggio e una invece in cui se ne manifesti la simmetria, introduce alla nozione, anch’essa qui di grande rilevanza metodologica, di meccanica intuizionale, la` dove si afferma: Le mot logique en matie`re de syste´matisation linguistique ne signifie a` peu pre`s rien, le mot syme´trie, au contraire, [...] signifie beaucoup. [...] La syme´trie que fait apparaıˆtre le dispositif est remarquable. Elle fait partie de cette me´canique intuitionnelle inscrite dans la langue – dans la morphologie surtout – et qui repre´sente une pre´science, une avant-science, institue´e en face de la science proprement dite, issue de la re´flexion conduite, dirige´e (Guillaume: LL/b, 131 e LL/a, 226).

Sulla base di questi passaggi metodologicamente chiarificatori9, 9

Ai quali occorrera` aggiungere quello che, per la sua ampiezza metodologica, appare come comprenderli tutti: «[...] le domaine de l’esprit [...] n’est pas celui de la pense´e pense´e, ou` les choses se pre´sentent conc¸ues et de´ja` forme´es, mais celui, plus profond, et en quelque sorte pre´existant, de la pense´e pensante, ou` les choses, encore en gene`se, n’ont pas assez de corps pour que la me´moire puisse les imprimer en elle. Au fond, toute la nouveaute´ de ce livre vient de ce qu’on a fait nettement le de´part entre ces deux domaines, se´pare´s l’un de l’autre par le langage meˆme qui, pour ainsi dire, fait muraille entre eux. De`s l’instant, en effet, que le langage est exprime´, ce qu’on a devant soi est de la pense´e pense´e. La pense´e pensante, qui a cre´e´ cette pense´e pense´e, est close, morte. Et le linguiste qui se fie aux seules ressources de l’observation directe arrive ine´luctablement trop tard pour s’en saisir» (Guillaume: TV, 133-34). Su questa impegnativa relazione fra il «pensante» e il «pensato», si tenga presente anche la seguente osservazione, che viene pero` convocata a porre la relazione fra significante e significato: «Il linguaggio fisicizza, se possiamo dire cosı`, il mentale. Il mentale fa appello, nel caso del linguaggio, al fisico che lo fara` divenire sensibile, tramite la visione o l’audizione, ricorrendo cioe` ad un mezzo sensoriale il cui ruolo, limitato, e` di produrre una rappresentazione fisicizzata del mentale, rappresentazione che non sara` mai un’immagine realmente fedele del mentale, al quale [il linguaggio] non fara` che adattarsi» (Guillaume: PdLT, 77).

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siamo dunque in grado adesso di reperire forse meglio la specificita` di una indagine psicomeccanica, mettendo in valore i seguenti tratti pertinenti: i. La visione del linguaggio intorno a cui e` imperniata la Psicomeccanica prevede che si tenga conto tanto dei suoi tratti rappresentativi (che sono a carico di una sistematica della langue), quanto di quelli espressivi (che sono da reperire nei concreti e sempre mutevoli atti di parola o di discorso): se questi sono descrivibili in quanto costituiscono un sistema, quelli lo saranno in quanto definiscono invece un sistema di sistemi. ii. Affermare che «On n’exprime qu’a` partir de ce qui a e´te´ pre´alablement repre´sente´» (Joly-Boone: 1996, 345), non vuol dire che il locutore sia ogni volta cosciente della/e rappresentazione/i mentale/i di un effettivo atto di parola o di discorso, bensı` indica che tale/i rappresentazione/i dovranno costituire, in primo luogo, un’attitudine del linguista, e che essa e` intesa al superamento di quella che Guillaume chiama psicosemiologia (psychose´miologie), vale a dire la semplice relazione, nel segno linguistico, fra significante e significato. iii. Questa relazione e` sicuramente importante, ma resta ancorata unicamente al momento espressivo. Sara` compito della indagine psicomeccanica istituire una connessione consapevole (e plausibile) fra gli atti di parola o di discorso (emessi affatto coscientemente per il raggiungimento di questo o quello scopo) e le rappresentazioni mentali (affatto non coscienti) che soggiacciono, e al medesimo tempo sovraintendono, a quei tratti espressivi. iv. Le rappresentazioni mentali essenziali alla emissione di ogni atto di parola o di discorso sono quelle dello spazio e del tempo, deputate rispettivamente alla discriminazione del Nome (in quanto sostantivo) e del Verbo (in quanto nome di un’azione). 2.b Quel che risalta da tali tratti pertinenti, concerne proprio il diverso statuto delle categorie linguistiche, a seconda che queste siano espresse/rappresentate dal locutore ovvero dal linguista. Se nel primo caso l’impiego dell’immenso repertorio offerto da una

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lingua storico-naturale e` solo parzialmente cosciente al locutore (egli esprime qualcosa di cui e` sı` cosciente, senza pero` essere allo stesso modo cosciente dello statuto mentale di quel materiale reso oggetto di espressione), nel secondo caso, invece, il lavoro del linguista sara` improntato a portare all’espressione proprio un tale statuto mentale che soggiace ed e` sotteso a (ma che pure sovraintende alla elaborazione di) quel materiale espressivo. E` dunque qui in gioco un diverso atteggiamento (locutore vs linguista) nei riguardi del contenuto delle rappresentazioni mentali che soggiacciono e sono sottese, e che al medesimo tempo sovraintendono, al lavoro espressivo: se il locutore di fatto ignora il contenuto di queste rappresentazioni mentali (ne´ puo` non farlo), cio` non sara` invece concesso al linguista (ancorche´ lui stesso, in quanto locutore, ne sara` affatto ignaro), essendogli invece richiesto di farne oggetto di osservazione, e di portarle con cio` all’espressione. La Psicomeccanica del linguaggio: ci invita cosı` a concepire le parole non come delle unita` costituite, pronte all’uso in qualche modo, ma come delle unita` da costruire nel pensiero, nel tempo dell’effettuazione, attraverso i microoperatori che sono le parti del discorso. (Cornillac: 2004, 253-54).

Niente appare come piu` estraneo a tale prospettiva che il considerare il materiale espressivo (fonemi e morfemi, ma anche sintagmi, frasi e/o discorsi) come qualcosa per cosı` dire di stoccato in una sorta di deposito, in cui le unita` lessicali e/o morfo-sintattiche se ne stiano come gia` da sempre pronte all’uso. Resta qui invece decisivo, con l’assunzione di un punto di vista eminentemente cognitivo (cio` che L. Havet definiva atteggiamento da psicologo), trattare quel materiale espressivo come una realta` incessantemente dinamica (cinetica la dira` Guillaume): essendo come trattenuto (ma pure incessantemente elaborato) dal pensiero, quel materiale sara` chiamato a produrre volta a volta l’effetto di senso adeguato a una certa situazione di discorso10. 10

E` qui in discussione una visione della lingua quale dinamismo e creativita`, in opposi-

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In virtu` di questa inseparabilita` dei tratti rappresentativi del linguaggio da quelli espressivi (una inseparabilita` che viene a disaggregarsi solo in funzione della esigenza di un sapere metalinguistico), occorre anche aggiungere che la Psicomeccanica si mostrera` molto attenta agli aspetti enunciativi di una teoria del linguaggio. Se infatti i concreti e sempre mutevoli atti di parola o di discorso sono sempre volti a produrre un effetto di senso (solitamente, secondo Guillaume, quello di influenzare il punto di vista dell’interlocutore), non potra` allora non venire in scena il ruolo del locutore quale soggetto parlante, e quello del suo allocutario quale soggetto ascoltante11. Ma pure per quanto attiene alla disamina della temporalita` linguistica, di cui vedremo adesso alcuni tratti salienti, Guillaume si e` sempre mostrato attento a reperire il momento di parola a partire da cui viene emesso questo o quell’enunciato. 2.c Al fine di mostrare il concreto funzionamento della indagine psicomeccanica, faremo adesso una breve sosta sulle due rappresentazioni mentali, essenziali alla emissione di ogni atto di parola o di discorso, quelle dello spazio e del tempo, deputate rispettivamente alla discriminazione del Nome (in quanto sostantivo) e del Verbo (in 12 quanto nome di un’azione) . Scopo di questa breve sosta sara` infatti zione a quella di una lingua quale nomenclatura. Se il nome di Wittgenstein puo` essere qui speso, da questo punto di vista almeno, sul medesimo fronte di quello di Guillaume, non potra` del pari tacersi il fatto che se al secondo l’opera di risalimento verso la fonte mentale di tutti i processi linguistici appare come ricca di promesse e di scoperte, al primo questa psicogenesi si mostra come disperante se non proprio come una cattiva metafisica. 11 Sin dal primo testo guillaumiano teoricamente orientato (Guillaume: PdA), quest’attenzione enunciativa e` chiaramente presente. In Guillaume (PdLT), poi, si possono leggere passi come questi: «Il discorso risponde a una intenzione [vise´e] di effetto: intraprendere un’operazione di discorso significa, evidentemente, voler agire, produrre un effetto su qualcuno. In assenza di una tale intenzione non c’e` discorso» (Guillaume: PdLT, 102). Quanto a una primogenitura di una teoria della Enunciazione (fra Guillaume e Benveniste), cfr. Martone (1996). Per un apporto piu` complessivo della Psicomeccanica alle teorie della Enunciazione, cfr. Joly (1980; 1984) e Cervoni (1987). 12 Com’e` fatto osservare da Cornillac (1994), la distinzione fra la nozione guillaumiana di parola (intesa nella sua specificita` particolarizzante, e dunque in quanto mot) e quella di sostantivo/verbo consiste nella differenza, rispettivamente, fra discours e langue. Cio` che ritroviamo in langue sono degli schemi operativi, dei supporti affatto vuoti di qualunque

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quello di mostrare il legame interno fra le operazioni mentali (che gravitano intorno a queste due rappresentazioni) e le concrete emissioni discorsive (imperniate intorno alle due categorie linguistiche fondamentali, quelle appunto del Nome e del Verbo)13. Una prima dichiarazione, per cosı` dire programmatica (e comunque esemplificativa di uno stile di pensiero psicomeccanico), e` la seguente: [...] on est amene´ a` distinguer marcher de marche: sous marcher le temps se pre´sente imme´diatement spatialisable et conse´quemment e´vocable comme tel, alors que sous marche le temps se pre´sente imme´diatement non spatialisable, non e´vocable comme tel, ce qui ne laisse a` la disposition de la pense´e que la seule image-espace, image qui est la limite d’entendement du nom et non pas celle du 14 verbe, qui est l’image-temps (Guillaume: LL/c, 148) . apporto di significazione (sostantivo, verbo, aggettivo, articolo, ecc.), ognuno dei quali corrisponde a un diverso «itinerario mentale particolare» che solo la vise´e de discours s’incarichera` di specificare e particolarizzare: tale specificazione e particolarizzazione costituiscono per c.d. l’atto di nascita della parola in quanto mot, appunto. 13 E` qui opportuno aver presente che le operazioni mentali di cui si occupa la indagine psicomeccanica sono quelle, per c.d., inscritte nella lingua, e che pertengono di diritto alle elaborazioni concettuali del pensiero comune (affatto non coscienti), le quali si differenziano da quelle altre operazioni mentali, appartenenti invece al pensiero co´lto (pense´e savante), e che consistono nelle elaborazioni concettuali (affatto coscienti) della filosofia, della fisica o della matematica (e potremmo qui aggiungere a quelle della linguistica). E tuttavia, nella misura in cui tali operazioni mentali hanno bisogno di fare ricorso alla espressione discorsiva, richiederanno anch’esse delle elaborazioni concettuali di cui quelle espressioni di pensiero co´lto non saranno affatto coscienti. E` per questa ragione che la Psicomeccanica, a buon diritto, si occupa solo di quelle operazioni mentali che trovano nella espressione discorsiva il loro momento per c.d. conclusivo (o risultativo), il quale a sua volta (ma stavolta dal punto di vista del linguista) costituira` il prius di ogni interrogazione. 14 A una tale distinzione rappresentazionale (di Tempo e Spazio) il locutore non pone mente (ne´ e` tenuto a farlo), egli pero`, secondo Guillaume, non puo` pensare se non grazie a essa: «La se´paration de l’espace et du temps [...] n’est pas a` proprement parler, dans l’e´tat actuel de notre subjectivisme de puissance, quelque chose que nous pensons ni meˆme a` quoi nous pensons, mais quelque chose avec quoi nous pensons [...]. La discrimination, inconsciemment – je serais enclin a` dire: subsciemment – ope`re en nous, elle conditionne la totalite´ de nos actes d’intellection, qui sont ce qu’elle permet; meˆme ceux, je crois, qui, reprenant sciemment ce qui a e´te´ fait subsciemment, sont un examen critique de l’antinomie naturelle de ces deux notions» (Guillaume: TdM, 1).

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Che vuol dire dunque che lo spazio e` il «limite di intendimento» del Nome (in quanto sintagma nominale), mentre del Verbo (in quanto sintagma verbale) lo e` il tempo? Posto che la temporalita`, dal punto di vista dei concreti atti di parola o di discorso, e` sempre in gioco sia per il Nome che per il Verbo in quanto mots (per quanto breve sia il momento della selezione di questa o quella parola ai fini della produzione di questo o quell’effetto di senso, e per quanto questa durata brevissima sia anch’essa non cosciente al locutore, occorre del tempo, appunto, per operare tale selezione – una durata che sara` chiamata da Guillaume tempo operativo), quando invece ci trasferiamo dal piano del discours a quello della langue, non sara` piu` questione di durata, lunga o breve che sia, ma di rendere operative le due rappresentazioni mentali. E inoltre, se dal punto di vista degli atti di parola o di discorso la temporalita` in questione e` di natura extra-linguistica, le due rappresentazioni mentali saranno invece sempre intercettate a partire dalle forme linguistiche che sono, come ci diceva Guillaume, «evocative» di quelle rappresentazioni. Lo statismo (statisme) del Nome e il cinetismo (cine´tisme) del Verbo traggono queste proprieta` dall’essere, rispettivamente, lo spazio rappresentabile come affatto immobile e il tempo come un movimento continuo15. Questa differenza fra immobilita` (spaziale) vs movimento (temporale) sara` pensata da Guillaume anche come opposizione fra infinitezza (spaziale) vs finitezza (temporale), o anche come universalita` (spaziale) vs particolarita` (temporale). Com’egli afferma: La pense´e humaine est en perpetuelle agitation entre la repre´sentation du fini et celle de l’infini, et les deux repre´sentations s’y re´pliquent l’une a` l’autre de sorte qu’a` la vision d’infinitude re´plique 15

Da cui la impossibilita` di una percezione del tempo che non lo preveda gia` come spazializzato, fatta cioe`, almeno, di un prima e di un dopo, laddove la percezione dello spazio e` gia` sempre supportata da se stessa (avanti/dietro, sopra/sotto, destra/sinistra, dentro/fuori). Questa ‘purezza’ (quale trasparenza) dello spazio rispetto a una certa ‘opacita`’ del tempo potrebbe autorizzare qui una lettura tale da cogliere una supremazia, o quanto meno una sorta di primogenitura, del primo rispetto al secondo – una lettura a cui pero` Guillaume, e fin da TV, si mostrera` alquanto recalcitrante.

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une vision de finitude, et a` une vision de finitude une vision d’infinitude. C’est dans le jeu de cette re´plique [...] que se sont fonde´es les notions d’espace et de temps repre´sente´es, dans les langues tre`s e´volue´es, par les cate´gories du nom et du verbe (Guillaume: LL/f, 199-200).

Ora, se questa natura contrastiva del pensiero umano consente la distinzione, in termini di Lingua ancor prima che di Discorso, fra Nome e Verbo, la concreta costruzione di entrambi, invece, attraverso dei mots che cercano di produrre un effetto di senso (e dunque dal punto di vista dell’atto di parola o di discorso), li vedra` accomunarsi, se non identificarsi. Com’e` stato gia` richiamato in precedenza, infatti, tanto il Nome quanto il Verbo, considerati in langue, altro non sono che schemi operativi, dei supporti affatto vuoti di qualunque apporto di significazione: a entrambi si richiedera`, parimenti, di riempirsi di quella significazione che li renda disponibili a funzionare in discours. Come avviene dunque il passaggio dallo ‘schematismo’ puramente virtuale di queste forme alla loro operativita`, al loro concreto uso discorsivo? 2.d Tanto il Nome quanto il Verbo esistono dunque, in langue, come semplici forme, adatte a qualunque uso il discours decidera` di destinarle, con cio` differenziandosi radicalmente fra loro nel momento in cui ciascuna di esse, divenendo segni materiali (dotati cioe` di un corpo significante), assumera` appunto una funzione discorsiva specifica. Lo studio puramente formale di queste categorie di langue definira` l’ambito di cio` che Guillaume chiamera` ontogenia (ontoge´ nie) o anche lessigenesi (lexige´ne`se, con riferimento alla relativa operazione di pensiero), cui si opporra` lo studio della loro materializzazione a fini discorsivi, che Guillaume denominera` prasseogenia (praxe´oge´nie) o prasseogenesi (praxe´oge´ne`se, con riferimento alla relativa emissione discorsiva). Senza qui entrare in alcun dettaglio relativo a una ricostruzione di questa peraltro delicata e complessa distinzione terminologica16, 16

Se ne vedano alcuni dettagli in G. Guillaume, “Comment se fait un syste`me gram-

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diremo soltanto che per quanto riguarda il Nome, il Discorso provvedera` ad attribuirgli, in una durata di tempo come s’e` detto tanto breve da risultare impercettibile, un genere, un numero e dunque una funzione a seconda dell’effetto di senso ch’esso gioca in una concreta occorrenza enunciativa, il che contribuira` a modificare sensibilmente anche il semantema di quel Nome, ovvero il significato materiale di esso (significato puramente dizionariale potremmo dire, e dunque astratto). Per quanto invece riguarda il Verbo, che ha ricevuto da Guillaume un’attenzione specifica sin dal 1929, con il suo lavoro gia` citato e forse piu` noto (TV), la sua esplicazione e` legata sostanzialmente alla nozione di cronogenesi (chronoge´ne`se), cui si oppone quella di cronotesi (chronothe`se). Al pari della formazione discorsiva del Nome, anche quella del Verbo richiede da parte del locutore una durata di tempo, e come quella, anche questa sara` tanto breve da risultare impercettibile: questa durata sara` deputata alla formazione 17 della cronogenesi . Come per il Nome, anche qui si trattera` di rendere discorsivamente efficace la formazione di questa immagine tem18 porale, secondo le diverse esigenze del locutore , il che configurera` il passaggio dalla cronogesi alla cronotesi. 3.a Questa schematica illustrazione per punti (2.a-2.d) di alcuni fra gli aspetti essenziali della Psicomeccanica, priva com’e` di qualunque esaustivita`, e` stata qui proposta, come gia` dichiarato nella parte introduttiva di questo saggio (1.), al fine di isolarne alcune implicazioni di natura cognitiva, o tali da offrire configurazione matical” [1939], e “Observation et explication dans la science du langage (2)” [1958], entrambi in Guillaume (LSL: 108-19, 272-86). 17 Osserviamo di passaggio che la mancanza di un analogo termine per designare la genesi dell’immagine-spazio, sembra indicare una maggiore astrazione di questa (a causa di quella immobilita` o statismo di cui si diceva nel testo), quasi che non si potesse trovare alcuna immagine di esso, laddove il cinetismo temporale, a fronte dello statismo spaziale, costringerebbe a farsene una immagine, come si diceva, quale gia` sempre spazializzata. 18 Riportiamo qui di seguito uno degli schemi piu` utilizzati al riguardo (G. Guillaume, “La repre´sentation du temps dans la langue franc¸aise”: LSL, 186):

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all’ambito possibile di una guillaumiana filosofia della mente19. Tutta la Psicomeccanica e` in fondo costruita a partire dalla tensione (in quanto opposizione e contrasto) fra operazioni mentali e produzioni linguistiche, e dalla idea (a) della inaccessibilita` delle prime indipendentemente dalle seconde, e (b) della piu` che esauriente conoscibilita` delle seconde che sono pero` appena in grado di predisporre un quadro conoscitivo poco piu` che approssimativo delle prime. Senza il supporto del Linguaggio (di cio` che Guillaume chiama semiologia)20, che pure va interrogato per cogliere

dove gli assi orizzontali designano il tempo come verbo gia` formato (e dunque la cronotesi), mentre la freccia verticale designa i diversi momenti di formazione della immaginetempo (e dunque la cronogenesi) Per alcune questioni connesse a una ricostruzione del sistema temporale del Verbo in tale prospettiva, cfr. Cornillac (2004) e BenningerCarlier-Lagae (2000). 19 Il sintagma parla qui di un abuso linguistico – di tale sintagma il francese, ancor oggi, essendone privo. Ancor oggi il lessico di questa lingua, notoriamente refrattario ad anglicismi o stranierismi in genere, per quanto attiene al campo semantico del mentale, oscilla infatti fra il sost. esprit (che ha curvature e torsioni non sempre adeguate a tradurre il termine mente) e l’agg. mental (col suo corrispettivo mentalisme) che ancora appare alquanto distante dalle connotazioni cognitiviste di cui si propone qui una contaminazione. 20 Questo supporto, la cui elucidazione resta nondimeno, secondo Guillaume, inscritta interamente nella linguistica tradizionale, appare a lui sempre come assai istruttivo per una conoscenza del linguaggio. Quanto e` nell’ordine del semiologico resta sempre come un rivestimento sensibile, immancabile e necessario peraltro, di cio` che sensibile non e`, e

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in esso l’apporto della incessante operativita` del Pensiero, niente di questo ci sarebbe accessibile, e tuttavia quel che egli, dopo una esplorazione piu` che trentennale, ritiene di aver isolato e definito di quella operativita`, altro non e` che la scoperta di quella durata puramente mentale, ma impercettibile alla coscienza, che realizza volta a volta delle vise´es de discours ovvero dei pensieri incarnati in parole. Le operazioni mentali non sono dunque conoscibili in quanto tali, indipendentemente cioe` dalle emissioni discorsive, e anche grazie a queste, quelle restano poco piu` che individuabili. Niente dunque di piu` lontano dagli orizzonti psicomeccanici che vedere in essi un intento psicologistico: pur avendo precedentemente sottolineato la vocazione psicologica di quest’orientamento teorico-linguistico, resta affatto distante dai suoi interessi (come pure dalla sua metodologia) l’intento di pervenire a una compiuta descrizione di quelle operazioni mentali, e a maggior ragione di fornire di esse una descrizione in termini di operazioni private o 21 individuali . Le forme linguistiche poste sotto osservazione dalla viceversa, una elucidazione dell’apporto delle operazioni di pensiero, operazioni segrete e nascoste, trovano in quel supporto il loro punto di raccordo e di (parziale) esplicazione. Com’egli afferma: «La congruence entre le se´miologique, sensible, et le syste´matique, secret, est la re´sultante, en effet, non pas d’une accommodation a` sens unique qui plierait le se´miologique aux exigences du syste´matique, mais d’une accommodation a` sens double, selon laquelle, d’une part, le se´miologique se conforme au syste´matique, cependant que, d’autre part, pour autant que cela lui est possible, le syste´matique se conforme au se´miologique» (Guillaume: LL/e, 50). 21 Per una eloquente quanto autorevole testimonianza di un punto di vista esattamente contrario a questo, da parte di un ricercatore che da anni promuove ricerche nel campo della simulazione dei comportamenti (tanto individuali quanto sociali), si tenga presente la seguente affermazione: «Come fenomeno da studiare, la vita mentale pone dei problemi particolari alla scienza. I dati empirici della vita mentale di una persona sono privati, accessibili in modo diretto soltanto a quella persona, mentre la scienza e` abituata a che fare con dati pubblici, ugualmente accessibili a chiunque. Inoltre, i dati empirici della mente sono poco quantificabili e misurabili, mentre la scienza privilegia il linguaggio dei numeri e delle quantita` perche´ e` piu` preciso e obiettivo. E tuttavia dalla scienza ci aspettiamo che prima o poi essa riesca a risolvere questi problemi e a chiarire la natura della vita mentale» (Parisi: 1999, 21). La questione sollevata testimonia di un’avvedutezza non facilmente soddisfacibile: sembra infatti una semplice petitio principii quell’aspettativa rivolta alla Scienza, fintanto almeno che il quadro di riferimento del

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Psicomeccanica, se qualcosa ci insegnano, e` proprio il fatto che in esse e` sedimentato un sapere diffuso, un sapere che e` ben reperibile sul medesimo piano di quello del senso comune. Al riguardo, e` stata in precedenza richiamata la importanza della opposizione o contrasto fra le prestazioni discorsive del locutore, in quanto materiale in cui e` ravvisabile una sua attivita` cosciente (mirante cioe` alla produzione di questo o quell’effetto di senso), e le operazioni mentali in quanto affatto non coscienti, ancorche´ cooperanti a quel raggiungimento (una non-coscienza che non si fa rischiarabile a dispetto di ogni insistenza psicomeccanica). In questa tensione pare ravvisabile uno sforzo che, analogamente, venne messo a tema, proprio in quegli anni, dal linguista J. Damourette (1873-1943) e da suo nipote, lo psichiatra-psicoanalista E. Pichon (1890-1940), in un loro similare e piu` che trentennale lavoro (Damourette-Pichon: 1983 [1911-1950])22. Questi due approcci, pur nelle differenze di accenti e di aspettative che restano mentale resti interamente configurato da queste strategie interpretative di tipo ‘privatistico’. Se la vita mentale e` un affare soltanto privato, accessibile soltanto al suo ‘proprietario’, allora non sembra facilmente soddisfacibile, appunto, il modo in cui due grandezze cosı` disomogenee (quella fra il linguaggio della vita mentale e il linguaggio della Scienza) possano trovare un punto di incontro. 22 Negli anni in cui opera Guillaume, e` dato assistere a un fiorire massiccio e insistente di lavori che mettono a tema una ricognizione di tipo morfologico, in particolare in tema di grammatica francese. Lasciando da parte i pur molteplici lavori che tematizzano sintassi e semantica, e per avere una idea, sicuramente parziale, di questa insistente attenzione, cfr. almeno: Brunot (1905-1937); Nyrop (1913); Brunot (1922); Radouant (1922); Lanusse-Yvon (1925); Engwer-Lerch (1929); Regula (1931); Hermant (1932); Brunot (1932); Michaut-Schricke (1934); Gaiffe et al. (1936); Grevisse (1936); BlochGeorgin (1945); Gougenheim (1938); Dauzat (1947); Galichet (1947); Cayrou-LaurentLods (1948); Brunot-Bruneau (1933-1949-1956); Laurence (1957). Questa diffusa insistenza sugli aspetti morfologici della lingua, in particolare di quella francese (su cui e` interessante consultare anche il sito http://www.bibl.ulaval. ca/ress/manscol/grille/manuels_francais_grammaire.html ), potrebbe gia` da sola fornire qualche indicazione probante sul contesto culturale nel quale insiste Guillaume. Un contesto nel quale, e nel solco della secolare tradizione francese, retorica prim’ancora che semantica, il concevoir resta la operazione privilegiata per la costruzione di ogni sapere linguistico. Su tali questioni, relative a una inseparabilita` dell’assetto sintattico da quello semantico (e in particolare nella tradizione culturale di lingua francese), ha efficacemente richiamato l’attenzione Formigari (2005).

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sicuramente notevoli, sembrano condividere una preoccupazione costante: valorizzare al meglio il deposito di quelle operazioni non coscienti che, sia all’uno che agli altri, appaiono come responsabili di ogni prestazione linguistica23. In Damourette e Pichon, secondo un intento che potrebbe definirsi come illuministico, tale deposito appare, anche se non immediatamente, come rischiarabile e forse persino conoscibile. Com’essi affermano: [...] si par d’autres me´thodes on peut espe´rer connaıˆtre ce qu’il y a d’individuel dans l’inconscient, la grammaire, seule, paraıˆt pouvoir nous e´claircir sur cet inconscient national, collectif qui s’appelle le ge´nie d’un peuple. Et meˆme peut-eˆtre, comme en re´alite´ il n’y a pas deux personnes dont le parler soit rigoureusement identique, peut-on espe´rer que [...] les particularite´s spe´ciales observe´es chez tel ou tel individu pourront contribuer a` e´clairer son inconscient individuel (Damourette-Pichon: 1925, 257; c.vi miei).

Di la` dal bizzarro aggettivo “national” (ma Pichon aveva aderito alla fede nazionalistica di C. Maurras!), e` qui evidente non solo quell’intento illuministico di cui si diceva (consistente nella fiducia di riuscire a rischiarare il deposito inconscio delle nostre conoscenze come quello dei nostri comportamenti), ma anche la curvatura soggettivistica, se non pure individualistica, di siffatta intrapresa, e con cio` la qualita` affatto diversa (rispetto a quella guillaumiana) di questo inconscio (inconscient) che viene a inscriversi di diritto in quella tradizione psicoanalitica che a Pichon importa rivitalizzare alla luce di una teoria saussuriana del linguaggio, ancorche´ riveduta e corretta. Non sara` questa, dunque, la direzione di marcia ch’essi condividono con Guillaume, nel quale la opposizione coscienza/noncoscienza resta irrimediabile e irrisolvibile, cosı` come ai suoi occhi non si danno peraltro a vedere forme di operazioni mentali dotate di particularite´s spe´ciales. Se alla condivisione di una preoccupazione co23

Per una comparazione di queste due tendenze, cfr. Joly (1982-83).

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stante puo` qui aver senso fare riferimento, si tratta di una sensibilita` comune intesa a valorizzare al meglio quelle operazioni noncoscienti che, a entrambi, appaiono come responsabili di ogni prestazione linguistica, e che fanno gravitare la ricerca linguistica proprio intorno a quelle operazioni: tanto per l’uno quanto per gli altri il linguaggio esprime in forma di coscienza del parlante rappresentazioni mentali non-coscienti. A mo’ di esempio, si tenga presente la seguente affermazione: Le langage laisse voir en lui deux e´le´ments: d’une part, un mate´riel d’ide´es pouvant s’accroıˆtre inde´finiment; d’autre part, un certain nombre d’ide´es directrices servant au classement sommaire des ide´es-mate´riaux et a` leur mise en oeuvre dans le discours. Les ide´es du premier genre, qui n’ont pas de valeur spe´ciale dans la texture du langage, ont rec¸u de nous le nom de se´mie`mes [...]. Aux ide´es du second genre, qui servent de charpente au langage, nous donnons le nom de taxie`mes [...]; les notions taxie´matiques, perpe´tuellement pre´sentes dans l’inconscient du sujet parlant, y deviennent comme des questions implicites pose´es a` propos de tout ce qui s’e´nonce (Damourette-Pichon: 1925, 239).

Anche qui, dunque, la prestazione linguistico-discorsiva altro non e` che un indicatore sempre attivo, una spia sempre vigile di una duplice quanto inseparabile attivita`: rappresentativa (di una serie di operazioni inconsce) e affettiva ovvero espressiva (di quelle medesime operazioni). E anche qui, inoltre, il discorso persegue un solo scopo, quello di produrre senso. Com’essi affermano: Le langage existe tout a` fait quand le locuteur destine a` l’allocutaire les sons qu’il e´met, avec le de´sir de provoquer une re´action chez celui-ci. De`s son aube, la langue a donc une valeur exte´rieure double, repre´sentative et affective; ces deux valeurs sont, a` vrai dire, inse´parables (Damourette-Pichon: 1925, 241).

E infine, come si e` avuto modo di vedere per Guillaume, anche per Damourette e Pichon la loro teoria del linguaggio sara` ben orientata a sottolinearne gli aspetti enunciativi, facendo venire in scena il locutore in quanto soggetto parlante, come del resto la

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persona delocutiva in quanto colui di cui parla il locutore. Essi affermano infatti: Quand la notion du monde exte´rieur arrive a` s’introduire dans le psychisme du locuteur, naıˆt la troisie`me personne, celle dont on parle, le de´locute´. Le locuteur arrive a` se situer lui-meˆme, ainsi que l’allocutaire, dans ce monde dont il parle. Les trois personnes, locutive, allocutive, de´locutive, ne sont plus que des choses dont le discours raconte l’histoire (Damourette-Pichon: 1925, 241).

3.b Sul versante di un dichiarato antipsicologismo guillaumiano, proveremo a mettere adesso in gioco un’altra voce, distante da Guillaume sia sul piano della cronologia materiale che su quello delle preoccupazioni e delle finalita` che lo muovono, quella di G. 24 Frege (1848-1925) . Si trattera` dunque di un bilancio che si articola, a differenza di quello con Damourette e Pichon, piu` per consonanze ideali (e oggettive) che per supposti quanto improbabili influenzamenti (soggettivi). Provando a rileggere alcuni dei passaggi fregeani, peraltro ben noti, della sua prima delle tre Ricerche logiche, quella che ha per titolo “Il pensiero” (Frege: 1988), e che si conclude con la celebre difesa del «terzo regno» quale luogo di una esistenza oggettiva del Pensiero, cercheremo di reperire quella consonanza privilegiando essenzialmente il comune fronte antipsicologista. Riarticolando la ormai attestata distinzione fra senso (Sinn) e significato (Bedeutung) in direzione di un enunciato assertorio (quello che prende posizione nei confronti del mondo, e di cui e` plausi25 bile dunque reperire i «valori di verita`») , secondo cui il significato 24 Per una informata (e ben orientata) ricostruzione di queste tensioni antipsicologiste, cosı` tanto diffuse peraltro in quegli anni, cfr. Engel (2000). Dove, pur ignorandosi affatto il mentalismo guillaumiano, bene si mostrano le mediazioni culturali e le implicazioni discorsive, talvolta palesi e talvolta sotterranee, che ancora inscrivono quelle tensioni dentro scenari che restano nondimeno fortemente orientati dalla Psicologia (su sui cfr. De Palo: 2005). 25 Per questi e altri scenari fregeani, cfr. Dummett (1983: 150-202; 2001: 33-38, 71-90, 99-126).

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di esso e` dato appunto dal valore di verita` da esso asserito, mentre il senso consistera` nel pensiero che quell’enunciato esprime, Frege sviluppa e radicalizza questa distinzione (giungendo fino a quella opposizione del terzo regno, secondo termini che mostrano, rispetto al nostro tema, interessanti punti di convergenza. Com’egli afferma: [...] non tutto cio` che puo` essere oggetto del mio pensiero e` una rappresentazione. Io stesso, in quanto portatore di rappresentazioni, non sono una rappresentazione. Niente mi impedisce ora di riconoscere anche altri simili a me come portatori di rappresentazioni. [...] Non tutto e` rappresentazione. Percio` posso riconoscere come indipendente da me anche il pensiero che pure altri possono, come me, capire. [...] Abbiamo un pensiero ma non al modo in cui abbiamo un’impressione sensibile; ma neppure vediamo un pensiero nel modo in cui vediamo una stella. E` percio` consigliabile scegliere qui un’espressione particolare, e per questo ci si offre la parola «afferrare». All’afferrare pensieri deve corrispondere una particolare disposizione spirituale [mentale], la facolta` di pensare. Col pensare non produciamo pensieri, ma li afferriamo. [...] Non tutto e` rappresentazione. In caso contrario la psicologia conterrebbe tutte le scienze, e dominerebbe sulla logica e sulla matematica (Frege: 1988, 67-69).

In questo passo, in cui si esprime in forma sintetica, fra l’altro, l’approdo idealistico del lavoro di Frege, sono contenuti anche i termini essenziali della sua posizione antipsicologista, che in questo breve ma intenso testo perviene a posizioni se non piu` radicali, di certo piu` articolate rispetto ai suoi precedenti lavori. In particolare, e per quel che importa qui, la peculiarita` attribuita a quell’afferramento di pensieri trova riscontro in uno dei 26 termini-chiave della Psicomeccanica guillaumiana, quello di saisie . Pur avendolo in precedenza gia` incontrato, e prima di riprendere le linee-guida della posizione fregeana, ne richiameremo qui alcuni 26

Sembra pertinente far qui osservare che nella edizione fr. di alcuni scritti di Frege, fra cui le Ricerche logiche (Frege: 1971), il termine fregeano «afferrare» (fassen) e` tradotto letteralmente con quello di saisir, e il sost. «afferramento» (die Fassung) con quello, appunto, di saisie.

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tratti essenziali. Con tale termine, che in Guillaume (PdLT: XVI, nota 10) si e` proposto a suo tempo di tradurre con quello di intercettazione27, Guillaume definisce il processo nel corso del quale il pensiero viene a incontrare, intercettare appunto (saisir), la lingua. In particolare, tanto nella costruzione del Nome quanto in quella del Verbo, essa si mostra come quella operazione mentale deputata a una duplice attivita`: (a) quella di «punto d’incontro», o di «intercettazione» dei due diversi piani (solitamente quello in cui il Pensiero, intercettando se stesso, intercetta la Lingua), ma anche, e secondo il significato piu` abituale, (b) quella di intercettare (da parte della Lingua) il risultato di quella intercettazione mentale. Valgano al riguardo le seguenti e molto efficaci precisazioni di Guillaume: la prima concerne (a): La langue est absolument inde´pendante de la pense´e elle-meˆme, mais elle tend a` s’identifier avec la puissance qu’a la pense´e de saisir en elle-meˆme sa propre activite´, quelle que soit celle-ci. [...] Ce que l’observateur attentif de´couvre dans la langue, conside´re´e en soi, sur son plan propre, sont les me´canismes de saisie de la pense´e par elle-meˆme (Guillaume: LL/h, 14).

E la seconda concerne (b): [La pense´e] existe en nous, s’agite en nous, inde´pendamment de la langue, mais ce n’est que sous la saisie linguistique que nous en savons ope´rer, qu’elle se fait lucide et, comme re´fle´chie sur un miroir, devient dans notre esprit un objet livre´ a` notre conside´ration. [...] Une pense´e qui ne se saisirait pas habilement elle-meˆme en elle-meˆme serait une pense´e existante peut-eˆtre, mais impuissante. Or une pense´e impuissante serait-elle une pense´e ? Et peut-on se´parer une pense´e de sa puissance? (Guillaume: LL/h, 230-31). E` lo stesso Guillaume, del resto, ad autorizzare questa scelta, in quanto nel medesimo testo, afferma: «Non esistono sostantivi: nella lingua esiste una sostantivazione intercettata (intercepte´e) piu` o meno presto. Non esistono aggettivi, esiste un’aggettivazione, piu` o meno avanzata in se stessa nel momento in cui la mente la intercetta (saisit)» (PdLT: 150). 27

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Se dunque per Guillaume il Pensiero esiste (e al limite, anche indipendentemente dalle concrete produzioni linguistiche) solo in quanto e` capace di intercettare se stesso (anche se al fine di questa intercettazione la Lingua sara` tutt’altro che estranea e indipendente), per Frege il senso espresso da un enunciato assertorio sara` solo l’atto di afferramento di questo o quel Pensiero, ma non l’atto di produrlo (e ancor meno il suo giudicarlo vero o falso). Resta nondimeno per entrambi assodato il fatto che le operazioni di pensiero non sono operazioni individuali, non sono rappresentazioni psicologiche; detto ancora piu` perspicuamente: le operazioni di pensiero non sono identificabili, tanto per l’uno quanto per l’altro, con le attivita` di una coscienza del locutore, e se esse valgono qualcosa, sara` solo perche´ ci forniscono l’attestazione di una conoscenza condivisa (o almeno condivisibile) da parte dei parlanti. Cio` non toglie che tanto per l’uno quanto per l’altro l’apporto del locutore in quanto soggetto parlante resti l’unica attestazione deputata a decidere, per Guillaume, delle sue produzioni discorsive (e dunque delle sue operazioni mentali) in quanto osservabili scientificamente, e a mettere in valore, per Frege (avendo qui egli ben presente il rischio del solipsismo), il contenuto oggettivo di un Pensiero28, di cui sia dato discorrere pubblicamente. Un’ultima citazione fregeana varra` a fare da ricapitolazione conclusiva su quanto si e` provato qui a mettere in una relazione comparativa. Nell’affrontare il residuo di temporalita` inscritta in ogni atto di enunciazione, Frege si trova a dover prendere partito fra la qualita` (per lui intrinsecamente soggettiva) di questa temporalita` enunciativa, e la natura affatto atemporale di ogni verita` (per quanto asserita, enunciata o afferrata sia essa):

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Questo rompicapo, com’e` noto, per Frege si decide (o si avvia a soluzione) introducendo la differenza fra il pensiero espresso dal locutore (la occorrenza della parola ‘io’) e il medesimo pensiero (sempre che tale pensiero resista a questo esperimento) espresso da qualcun altro che sostituisca a quell’io parlante il nome proprio di esso (cfr. Frege: 1988, 53-59). Questo medesimo argomento e` stato ripreso, con analoghe finalita` argomentative da Kripke (1979).

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Il presente verbale di ‘e` vero’ non accenna al presente del parlante ma e`, se ci e` consentita l’espressione, un tempo della non temporalita`. Se utilizziamo semplicemente la forma dell’enunciato assertorio, evitando la parola ‘vero’, occorre che distinguiamo ancora due cose: l’espressione del pensiero e l’asserzione. La determinazione temporale in qualche modo contenuta nell’enunciato appartiene solamente all’espressione del pensiero, mentre la verita`, il cui riconoscimento e` insito nella forma dell’enunciato assertorio, e` atemporale (Frege: 1988, 71-72).

Per ogni volta che enunciamo un pensiero, sembra qui dirci Frege, siamo tenuti a enunciarlo temporalmente, ma la vita di questo pensiero se ne resta immune da tale enunciazione temporalizzata, godendo di una sua propria atemporalita`. Anche per le operazioni mentali di cui ci parla Guillaume, che si avvalgono di porzioni di tempo impercettibili alla coscienza, occorre essere ben accorti nel distinguere cronogenesi da cronotesi: se questa si avvale di un ben evidente registro temporale, quella sembra avvenire di certo nel tempo, ma la genesi di questa temporalita` resta per lui affatto inattraversabile, imperscrutabile, come insomma interdetta a qualunque espressione discorsiva, per quanto scientificamente orientata. Il mentale di questa guillaumiana ‘filosofia della mente’, per quanto inscritto nelle mutevoli costellazioni della temporalita` discorsiva, non pare dunque voler lasciarsi impigliare in esse, prestandosi volentieri a fare da specchio a una inaggirabile atemporalita`, facendosi quasi volentieri rimirare sub specie aeternitatis. Per concludere, diremo dunque che: (a) il mentalismo appare una costante di questa teoria linguistica; (b) esso non si presta volentieri a una lettura di tipo psicologico (e ancor meno psicologista); (c) la lettura di questo mentalismo, eminentemente linguistico, non si lascia ridurre (ne´ ricondurre) a una sua lettura esauriente (e tanto meno esaustiva); (d) nonostante questa irriducibilita` o opacita` dell’attivita` mentale, il suo parziale rischiaramento resta il fine ultimo di una teoria linguistica. A partire da queste prese di posizione, che paiono mantenersi inalterate lungo il corso della sua elaborazione, la Psicomeccanica

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guillaumiana sembra inclinare a un dialogo possibile con analoghe e piu` moderne posizioni teoriche, che nel corso del nostro tempo si mostrano (o si sono mostrate) pronte a scommettere in direzione di una filosofia della mente.

Compromettersi con le parole. Irreversibilita` e perlocutivita` degli atti linguistici di Massimo Prampolini

1. La tesi che proponiamo in questa nota si riassume in due punti. Primo, chi entra nel discorso si compromette; in pratica non sempre (in teoria: mai) e` possibile tornare indietro e ricollocarsi 1 prima delle parole proferite. Secondo, tutti gli atti linguistici sono azioni e comportano conseguenze ed effetti; ragione per cui la 2 perlocuzione puo` ridefinirsi per la forza di compromissione e d’irreversibilita` che un atto produce, piuttosto che attraverso una classificazione materiale di effetti particolari. In questo modo gli atti perlocutivi non si caratterizzano per le conseguenze o per tipologie del fare che sarebbero assenti negli atti non perlocutivi; e se costituiscono una classe a se´ questo e` dovuto a una differenza di grado, non di qualita`. Per le stesse ragioni – e per evitare tassonomie rigide nell’analisi pragmatica del discorso – sarebbe corretto parlare di atti perlocutivi sapendo che ci si riferisce ad atti a dominante (saliente) valenza perlocutiva, e

1 “Atto linguistico”, “discorso”, “atto discorsivo”, “proferimento”, “testo” sono usati come sinonimi, salvo precisazioni contestuali. Sull’uso di utterance, in riferimento a Austin, si veda Sbisa`: 1978, 62, n. 2. 2 “Forza” e` usato in queste pagine nel senso ordinario d’intensita`; non ha, quindi, il significato che, a partire da G. Frege, attraverso Dummett (1973), e` passato alla linguistica pragmatica per indicare il tipo illocutivo di atto linguistico.

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che la linguistica pragmatica tratta categorie vaghe o definite per rassomiglianze di famiglia, piuttosto che categorie decidibili. I due enunciati di pragmatica linguistica (il primo lapalissiano) che abbiamo enunciato possono risultare piu` interessanti se riformulati come segue: (a) compromissione: sempre un atto linguistico compromette i partecipanti, chi parla come chi ascolta. Chi parla si espone, proferisce parole che comportano l’adozione di un atteggiamento (attitude) 3 che caratterizza l’azione discorsiva, e a propria volta condiziona chiunque a qualunque titolo (destinatario, testimone intenzionale o occasionale) vi prenda parte. Anche chi ascolta e` indotto ad assumere un atteggiamento su quanto proferito, contribuendo a propria volta a determinare gli effetti di compromissione indotti dall’azione discorsiva. La cooperazione al testo implica, tra le sue condizioni preliminari, il concorso alla istituzione di un legame di compromissione; (b) irreversibilita`: l’atto discorsivo, una volta proferito, comporta comunque un grado d’irreversibilita` degli effetti. Sono effetti d’ogni genere: cognitivo, comportamentale, emotivo, pratico, di ruolo sociale. L’atteggiamento che sempre accompagna un atto linguistico entra nella memoria; e rispetto alla memoria puo` svolgere funzioni di conferma, di variazione, di sovversione dei rapporti esistenti tra coloro che all’atto hanno partecipato. Di nuovo, non solo chi parla ma anche chi ascolta concorre a determinare il grado d’irreversibilita` del proferimento verbale; (c) perlocuzione: poiche´ sono sempre caratterizzati da un grado d’irreversibilita`, tutti gli atti linguistici sono in certa misura perlocutivi. Perlocutivita` e` un termine di significato complesso. Nelle accezioni con cui e` stato introdotto da John Austin, questa parola assume almeno tre valori distinti. Con il termine perlocuzione Austin si riferisce in primo luogo 3

Sulla nozione di atteggiamento (attitude) e sulle sue valutazioni quantitative si rimanda ai lavori di riferimento di Likert (1932) e Arcuri-Flores d’Arcais (1984). Sul rapporto tra le funzioni e i contenuti attitudinali delle illocuzioni, Cresti (2000).

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agli effetti pratici, non linguistici che un atto discorsivo puo` produrre. In secondo luogo puo` indicare atti i cui effetti si possono ottenere solo attraverso pronunciamenti linguistici. In fine, non sono rari i casi in cui l’espressione «atti perlocutivi» viene usata da Austin per riferirsi non a una caratteristica che in modo piu` o meno dominante e` presente in tutti gli atti discorsivi, ma per denominare una classe molto particolare di atti a se stanti: uso che e` invalso successivamente in modo quasi esclusivo. Non sono infrequenti nella letteratura i manuali o i saggi che recitano la classificazione degli atti linguistici in locutivi, illocutivi e perlocutivi, considerati come categorie alternative e decidibili piuttosto che di aspetti compresenti e costitutivi di ogni atto discorsivo4. Nella prospettiva che si assume in queste note, la perlocutivita` indica la forza (dominanza, salienza) di compromissione e d’irreversibilita` del discorso. Siamo sempre nella dimensione degli effetti; ma considerati in ambito intrinsecamente comunicativo. Le parole producono effetti comunque; e gli effetti (qualunque siano materialmente) sono tutt’uno con la compromissione e la relativa irreversibilita` di cui l’atto discorsivo si carica. Ne consegue che le perlocuzioni non sono atti linguistici intrinsecamente diversi dagli altri e non determinano una classe a se´ per qualche esclusiva marca formale (l’esibizione di certi verbi, una particolare enfasi intonativa, ecc.); si contraddistinguono invece per la forza delle implicazioni che comportano e il legame che producono tra gli interlocutori; (d) intenzione: il discorso puo` rinforzare o contrastare le intenzioni degli interlocutori. Si parla e si ascolta nell’orizzonte del senso; e il senso e` indirizzo, direzione, vettorialita` di riferimento. 4

Cosı` fa, per es., il pur pregevole testo introduttivo di Lycan (2000: 181) che riporta anche una lista di verbi intrinsecamente perlocutivi (alarming, amusing, deceiving, ecc.). Al contrario, un’accezione di perlocutivita` affine alla tesi che qui si propone e` sinteticamente riportata da Bazzanella, che descrive le nozioni austiniane come “aspetti o livelli dell’atto linguistico” (1994: 2.4.2., n. 69), non come classi. Perplessita` e provvisorieta` delle proprie classificazioni erano espresse del resto dallo stesso Austin nelle sue lezioni (1955-1962: 111).

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Ma la mossa non garantisce ne´ l’univocita` ne´ l’esito della direzione. La parola proferita e` solo apparentemente un servo fedele, pronto a condurre il senso e le intenzioni nella direzione desiderata dagl’interlocutori. Inaspettatamente puo` rendere un infedele servizio a chi vi ricorre. Sono ugualmente padroni delle parole chi parla e chi ascolta: entrambi destinati a essere serviti o traditi dal testo. La perlocutivita`, come forza di compromissione, puo` prendere di volta in volta nel discorso segno opposto, indurre conferma o smentita dell’intesa e delle intenzioni che il testo e gl’interlocutori perseguono: ma consenso e dissenso, comprensione e fraintendimento delle aspettative implicano di nuovo pari compromissione nella risposta e pari forza d’irreversibilita`. Consideriamo piu` in dettaglio i quattro punti enunciati. 2. La riformulazione (a) dice che il discorso ha sempre agenti: c’e` un testo che tiene la scena, qualcuno che ne pronuncia le parole (mittente o locutore) e qualcuno che le riceve (destinatario). Il discorso e` un gioco tra dichiaranti e intelligenti – almeno cosı` si vorrebbe. La compromissione dei partecipanti al discorso non e` un’astrazione, ma il complesso di conseguenze, d’implicazioni che il discorso comporta: chi parla induce credenze, comportamenti, stati emotivi, conferme e smentite. Chi ascolta e` indotto a propria volta a compiere azioni, acquisire conoscenze, rispondere, gestire emozioni e affetti. Ma non c’e` solo chi parla e chi ascolta, perche´ non ci sarebbero interlocutori senza testo, come non ci sarebbe partita senza scacchiera e una configurazione di pezzi su di essa. La compromissione e` una relazione di reciprocita` tra gli agenti, una relazione a piu` termini che s’istituisce tra il testo e l’insieme degli interlocutori. Nella forma piu` semplice (due interlocutori) la compromissione e` una relazione tra tre termini: testo, mittente, destinatario. Chiunque partecipi all’azione discorsiva, a qualunque titolo (anche di destinatario casuale e involontario), e` compromesso e concorre al senso del discorso. L’idea che si comprometta solo chi parla e` ingenua. E` ugualmente compromettente, come quella del parlante, la figura dell’ascoltatore: con le possibili reazioni, le

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(dis)approvazioni, i silenzi, le ironie, gli stupori. Anche il testo, nella relazione di compromissione, e` non meno costitutivo, non meno necessario; anch’esso compromette ed e` compromesso: ne e` prova l’inesauribile dinamica delle interpretazioni che pone in essere e di cui diviene oggetto nel tempo. Il testo, in quanto fautore dell’atto discorsivo, e` agente al pari di coloro che di esso fanno scambio. Nel discorso ogni agente e` soggetto e oggetto rispetto agli altri agenti presenti; hanno ugual peso e sono parimenti compromettenti e compromessi sia le parole che corrono, come chi le pronuncia e chi le ascolta. In questo quadro, il termine illocuzione, cosı` come e` stato introdotto e usato da John Austin, indica i differenti tipi di atti linguistici, cui corrispondono altrettanti modi di compromissione che si attivano nella relazione tra testo e interlocutori. Come la perlocutivita` indica la forza della compromissione, l’illocutivita` ne indica la qualita`, descrive su cosa ci si sta compromettendo, a quale particolare situazione e` diretto l’atto (una domanda, una descrizione, un’ingiunzione, un’emozione, una scommessa, ecc.). 3. La riformulazione (b) dice che il discorso si caratterizza per appartenere agli eventi che hanno la proprieta` di essere in varia misura irreversibili. Qui per irreversibilita` si deve intendere la resistenza che l’atto discorsivo pone al proprio annullamento, la resistenza cui sono sottoposti gli agenti del discorso a procedere come se l’atto non fosse avvenuto. Dall’atto discorsivo, in qualche misura, non si puo` recedere. Per un verso, un atto linguistico condivide la condizione d’irreversibilita` comune a ogni altro evento: di nessun evento accaduto e` data la possibilita` di tornare alla condizione precedente al suo accadimento. Questa condizione ineluttabile ha contribuito a consolidare la nozione di tempo oggettivo e l’idea del tempo come dimensione vettoriale irreversibile (la metafora della «freccia del tempo», ecc.). Ma non e` certo questa irreversibilita` temporale o materiale, cui ovviamente anche un proferimento verbale e` sottoposto, quella che interessa le nostre considerazioni. E` per un altro verso che queste osservazioni si muovono. Da

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dove viene la resistenza all’annullamento dell’atto discorsivo? Che natura ha questa difficolta` a procedere da parte degli agenti come se l’atto non fosse avvenuto? La risposta a queste domande e` nel valore che intrinsecamente contraddistingue un atto linguistico. Il quale, abbiamo visto, si caratterizza per produrre effetti. Che consistono nel dare direzione e orientamento al senso; nell’alimentare conferme o smentite nell’ordine dei giudizi, degli affetti, delle credenze; nel corroborare o contraddire aspettative e saperi. Parafrasando R. Barthes, possiamo dire che ogni atto linguistico costituisce un rischio per la continuita` o la discontinuita` dei nostri vissuti5, tanto nelle situazioni piu` abitudinarie e minute che in quelle straordinarie e rilevanti. Nessun atto che abbia avuto la funzione di mantenere o cambiare i nostri equilibri e orientamenti del senso puo` essere annullato: per gli effetti materiali (non linguistici), ma anche per quelli di compromissione sociale e individuale indotta. Si tratta, dunque, di un’irreversibilita` intrinsecamente pragmatica, e differente dall’idea d’irreversibilita` dei fenomeni naturali6. Le parole, pur quelle leggere, sono a loro modo difficili da cancellare, spesso sono indelebili e — sia lecito il calembour — lasciano il segno. Lasciano il segno del mittente, che si compromette nell’atto discorsivo; lasciano il segno sul destinatario che si trova comunque immesso nell’atto ed esposto alle sue implicazioni. Di tutto questo, la compromissione misura la forza, il grado di coesione che l’atto instaura tra gli agenti, tra testo e interlocutori. All’opposto, la coesione puo` venire meno per cedimento anche di uno solo degli agenti, di uno solo dei termini della relazione che regge la compromissione. Puo` cedere il testo (falso, alterato, diversamente presupposto, materialmente incompreso), puo` cedere il 5

Barthes (1966; 1969: 20, trad. it.). L’irrevwersibilita` dell’atto (nei confronti degli agenti) non esclude, ovviamente, la reversibilita` dell’enunciato nella sua funzione rappresentativa (nei confronti del riferimento). E` il caso, diffuso, dell’uso simulativo del linguaggio, adottato per figurare scenari fittizi o ipotetici: “Lascio il bicchiere da questa altezza, cade e si rompe”. L’esperimento verbale (reversibile, perche´ fittizio) sostituisce quello fattuale (irreversibile). 6

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locutore (inattendibile, diverso da quello presupposto, inesistente), puo` venire meno il ricevente (improprio, indifferente, inadeguato). Nella pratica discorsiva, l’irreversibilita` e` immediatamente percepita nei casi marcati, quelli in cui maggiore e` la difficolta` di annullare o stemperare l’effetto del proferimento testuale: l’offesa, la battuta ironica, l’asserzione conclusiva, la domanda, ecc. Sono atti linguistici che nel discorso segnano punti di crisi, di rischio, luoghi del testo in cui chi parla, come chi riceve, deve necessariamente condurre un confronto, manifestare un atteggiamento di accordo (o disaccordo) per proseguire nella comunicazione. La linguistica pragmatica del testo deve assolvere anche questo compito: individuare i luoghi della compromissione marcata, la relativa forza d’irreversibilita` che induce, le strategie di gestione della compromissione emersa. In natura l’irreversibilita` ha manifestazione esemplare nei processi entropici, considerati complessivamente destrutturanti e dispersivi; i fatti naturali si caratterizzano per andare – almeno cosı` dicono le scienze naturali – irreversibilmente nella direzione dell’entropia crescente. Gli atti comunicativi in genere, quelli linguistici in particolare, sembrano invece andare nella direzione opposta: verso la compromissione crescente dei partecipanti, in un processo di cumulazione e strutturazione. Il testo, chi parla, chi ascolta, configurano ciascuno se stesso, corroborando o mettendo in crisi la stabilita` propria e quelle condivise con gli altri agenti. E in molti casi e` difficile (in alcuni, impossibile) tornare indietro, riconfigurarsi come si era prima che le parole trascorressero. 3.1. Esempi di discorso marcato – nel senso della perlocutivita`: una parola di simpatia, un’improvvisa manifestazione d’affetto (verbale o non verbale), una dichiarazione d’amore. Ma anche: parole sgarbate, discorsi ostili, un insulto. E ancora: la comunicazione del bilancio nell’assemblea dei soci, la formulazione dell’ipotesi avanzata dall’oratore, l’ultima cifra dichiarata dal battitore d’asta. E poi: la battuta di spirito (felice o maldestra), il comando (in)tempestivo, l’istruzione (in)appropriata.

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Impossibile tornare indietro, riconfigurarsi come si era prima che le parole trascorressero. Ci si puo` correggere, si puo` chiedere scusa; e correzioni e scuse potranno anche essere sinceramente e fattivamente accettate. Della ritrattazione restera`, ancora una volta, la traccia di una prima compromissione, cui se ne aggiunge una seconda in contraddizione. L’effetto complessivo non sara` un’elisione, un azzeramento; ma la memoria di un atto infelicemente compiuto e non del tutto reversibile. La perlocutivita`, come compromissione e irreversibilita`, investe tutti i contenuti, tutti i generi: il discorso affettivo, la dimensione personale e privata, quella istituzionale e pubblica, la comunicazione funzionale e pratica, quella creativa ed espressiva. La perlocutivita` si declina con varia intensita`: sia nel confermare che nello smentire certezze, simpatie, doveri, condotte, conoscenze, progetti. La conclusione sembra inevitabile: verba non volant. Ma non e` solo questa pesante solidita` delle parole, non e` solo la tenacia dei lacci in cui il discorso ci avvolge l’obiettivo di queste note. Si pongono, pur brevi, osservazioni di altro genere: nella pragmatica sono inevitabili implicazioni di carattere etico, anche dando a questo termine significati diversi. Colpisce, in particolare, la natura meccanica della perlocutivita` nei confronti delle relazioni sociali che instaurano. La meccanica perlocutiva opera indipendentemente dai contenuti del discorso. Le parole costruiscono e rafforzano indifferentemente alleanze o conflitti, con la stessa capacita` di compromissione, con la stessa irreversibilita`. Il feed-back della perlocutivita` non conosce la distinzione tra consenso e discordia, e puo` alimentare e amplificare entrambe. La comunicazione, dal punto di vista perlocutivo fa comunita`, ma non e` dato sapere a priori se il contatto sara` simpatetico o di antipatia. Al livello perlocutivo, la comunicazione e` garanzia di contatto, non d’intesa. Cooperazione e conflitto si perseguono sul piano dei contenuti, appartengono al senso, alla semantica della comunicazione; mentre la perlocutivita` e` condizione generica dell’attivita` comunicativa, e` il legame pragmatico pronto a coordinarsi a ogni senso, a ogni semantica. In questa prospettiva, crescita dell’informazione e opulenza co-

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municativa non sono, da soli, sufficienti a garantire l’intesa tra soggetti, la cooperazione tra culture e realta` sociali diverse. L’idea che dall’irreversibile big bang comunicativo e nella ragnatela della societa` telematica scaturisca la comprensione e l’abbraccio globale, dando corpo a una societa` integrata e cooperativa (armonizzata), e` l’ultima espressione dell’ingenuita` storicista. Torniamo ai nostri punti di riformulazione. 4. La riformulazione (c) del §1. mette in questione la nozione di perlocuzione, per la quale e` necessario un confronto piu` diretto con Austin, che a ragione va considerato il padre dell’ambito di concetti in cui ci muoviamo7. Cominciamo dal nodo cruciale. Negli scritti di Austin e in buona parte della letteratura che li ha recepiti, la perlocuzione risulta essere ora una condizione costitutiva e comune a tutti gli atti discorsivi, ora una categoria di atti particolarissimi. E` opportuno focalizzare alcuni punti nell’articolazione delle idee austiniane. Una teoria degli atti linguistici deve chiarire l’identita` del proprio oggetto; in qualche modo deve dire che cosa si debba intendere per atto linguistico. Allo scopo non e` necessaria, specie in via preliminare, una definizione formale, tantomeno e` necessaria una descrizione esauriente, alla quale si puo` arrivare a percorso teorico compiuto. In questo senso, Austin procede verso le teorie forti con la cautela che contraddistingue buona parte della tradizione filosofica anglofona. Il primo passo di Austin, quello che egli considerava il punto di vista innovativo di maggior pregio, e` stato di partire dalle manifestazioni direttamente esperibili del linguaggio (atti di proferimento, persone che parlano) considerando quelle manifestazioni alla stregua di azioni. Ma qui s’incontra la prima zona opaca. Che cosa intendeva – o perlomeno che cosa ha inteso in piu` momenti della sua indagine 7

Il lavoro di Austin sugli atti linguistici si affianca, per alcuni aspetti, a quello che in contesti diversi sono stati condotti da Bu¨hler (1934-1965), e da Jakobson (1960) sulle funzioni del linguaggio. Anche in questi autori l’esito e` stato quello di produrre classificazioni.

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– Austin con la nozione di atto linguistico (linguistic act)? Attenendosi ai suoi scritti e` ragionevole assumere che questo termine non abbia mantenuto un significato costante. Warnock (1973; 1978: 104, trad. it.) insiste su questo punto osservando che, specie nelle prime fasi delle sue riflessioni, gli acts verbali cui Austin prevalentemente pensava e si riferiva erano asserzioni pronunciate in contesto giuridico; dichiarazioni rilasciaste nell’aula giudiziaria, atti testimoniali, asseverazioni verbali fatte a notai e a pubblici ufficiali, nonche´ atti di pratica comune ma con funzioni analoghe a quelle di tali contesti; dunque atti marcati da una situazione rituale e istituzionale particolare. E` evidente che una tale nozione non coincide con quella di speech act di J. Searle (osservazione che Warnock fa esplicitamente), e neppure con la nozione di atto linguistico che e` propria dello strutturalismo continentale di origine saussuriana. Lo speech act, l’utterance, l’atto di parole coincidono con l’esecuzione (Saussure), con il proferimento (Searle), con la manifestazione (Hjelmslev) di un qualsiasi atto verbale senza limitazioni di contesto. Anche l’idea di azione, nelle accezioni austiniane, risulta particolare; e risulta generalmente ristretta rispetto a quella che la linguistica pragmatica si sarebbe abituata a concepire in seguito. Con atti linguistici di tipo declaratorio, come quelli pronunciati in contesti giuridico-legali, si possono compiere azioni limitate a una famiglia ridotta di contesti azionali. Viceversa, per personalita` come L. Wittgenstein e L. Prieto l’equazione tra discorso e azione si spinge fino diventare l’equazione tra linguaggio e tecnica (linguaggio = tecnica per operare con particolari strumenti comunicativi come le parole)8. Per Wittgenstein, come per Prieto un atto linguistico e` un’agire tecnico e l’impiego delle parole e` pari ad atti come piantare un chiodo, fare un nodo con una corda, aprire un ombrello. Anche questi atti hanno grammatica, richiedono regole, hanno articolazione, morfologia, sequenzialita` di esecuzione, una sintassi e sicuramente producono effetti: ma hanno finalita` diverse da quella comunicativa. 8

Wittgenstein (1953: §§ 1-45); Prieto (1991: 123-58).

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Appare, dunque, in piu` luoghi una differenza rimarchevole tra l’idea originaria di atto linguistico austiniano e quella che la linguistica pragmatica, e la tradizione linguistica in generale, avrebbero poi assunto e consolidato. C’e` un’aporia che nella varieta` dei testi che discutono sull’argomento puo` risultare piu` o meno latente: o tutti gli atti linguistici sono azioni, nel senso generale che a questo termine hanno dato linguisti, filosofi analitici, autori continentali – ma allora le argomentazioni e gli esempi proposti da Austin risultano inadeguati; ovvero i concetti e gli esempi austiniani vanno presi alla lettera, e nell’accezione primaria – e allora la tesi per cui gli atti linguistici sono azioni non puo` essere estesa oltre alcuni contesti rituali. C’e` un ulteriore parte dell’impianto austiniano in cui un’analoga aporia sembra riproporsi. 4.1. Una volta stabilito che il discorso e` un genere di azione, il passo successivo di Austin e` stato quello di indicare la specificita` delle azioni linguistiche, concepite come atti effettuati per finalita` comunicativa. Anche in questo caso, la specificita` non e` stata definita formalmente ne´ descritta analiticamente (sarebbe equivalso a produrre un trattato di linguistica generale). Essa e` stata indicata quasi tautologicamente, senza ulteriori specificazioni: le manifestazioni del linguaggio sono azioni o atti di tipo locutivo, e manifestarsi con il linguaggio vuol dire manifestarsi in azioni locutive, cioe` in azioni realizzate per comunicare con le parole; azioni diverse, per esempio, da quelle condotte con altri mezzi e altri organi del corpo per scopi di manipolazione, di costruzione, di prestazione fisica, ecc. Le azioni locutive si giustificano – di nuovo siamo di fronte a mere constatazioni e indicazioni – perche´ assolvono attraverso la voce funzioni sociali, valgono e si attuano nello scambio comunicativo tra i membri della comunita`. In che cosa consistano questi scambi viene ricondotto alla nozione di illocuzione (sopra, §2.). Anche questa nozione e` introdotta da Austin intuitivamente, limitandosi a indicare cio` che e` comunemente esperibile, senza teorie esplicative. L’illocuzione indica, tra le possibili azioni locutive, quella che si

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esercita nel discorso in atto. Il tipo di illocuzione, (il racconto, la domanda, l’esclamazione, l’augurio, lo scongiuro, ecc.) fa di un atto discorsivo l’azione che svolge la specifica funzione sociale comunicativa. L’insieme delle illocuzioni costituisce la pragmatica linguistica. Fin qui la mappa concettuale sembra svilupparsi in modo lineare. Ma l’ombra, che abbiamo visto rendere aporetico il modo con cui Austin sviluppa l’equazione tra atto linguistico e azione, va adesso ad allungarsi su una coppia di concetti fondamentali nella teoria pragmatica del linguaggio, quella che oppone constativo a performativo. Constativo e` l’atto in cui il dire coincide con una constatazione, che linguisticamente si attua in un enunciato dichiarativo; e` l’atto a dominante funzione referenziale (Jakobson), retto dal principio di bivalenza e definito dal valore di verita` (Frege); performativo e` l’atto in cui dire equivale a fare: domande, esortazioni, auguri, ecc. Ora, l’opposizione tra le due categorie, cosı` come viene esposta, sembra inequivocabilmente stabilire che gli atti constativi non abbiano il carattere dell’azione, del fare linguistico. E qui la questione andava esplicitata (teorizzata) da Austin con piu` approfondimento. Non e` evidente la ragione per cui una descrizione a parole non sia un fare, rispetto al fare di chi sempre a parole domanda, comanda, ecc. Chi produce enunciati dichiarativi o fa descrizioni si esibisce nella performance di riferire circa cose che sa, che ha visto, di cui puo` riportare aspetti differenti. Ma non e` affatto pacifico il presupposto che nella descrizione non debba esserci una forma di azione, un agire comunicativo, posto che negli altri atti linguistici questa forma viene invece riconosciuta. Neppure l’ipotesi che la distinzione tra constativo e performativo si regga, quanto al suo valore di azione, sulla produzione di effetti e` pertinente. A pari condizioni di circostanze, di felicita` o di carita`, descrivere qualcosa produce sicuramente effetti sugl’interlocutori, riscontrabili anche in senso comportamentale, proprio come ne puo` produrre una domanda, un rimprovero, un invito ecc. E tuttavia nel modo in cui Austin pone la distinzione tra constativo e performativo, il primo risulta un atto linguistico a valenza esclusivamente intellettuale, ov-

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vero sembra costituirsi esclusivamente secondo un’adaequatio, un rispecchiamento tra enunciati e stati di cose, di natura sicuramente non azionale. E questo porta di nuovo ad avvalorare l’ipotesi che, dal punto di vista austiniano, gli atti linguistici non siano tutti azioni – limitando la forza e la peculiarita` dell’approccio pragmatico. Viceversa, se si mantiene la tesi che il discorso equivalga sempre al compimento di un’azione, non si comprende la necessita` di distinguere tra constativi e performativi in base alla presenza o meno dell’azione (Warnock: 1973; 1978: 104, trad. it.), mentre sara` sufficiente riconoscere differenti generi di atti illocutori. 4.2. Quello che sembra tradire le aspettative, proprio secondo l’approccio pragmatico, non e` il fatto che s’identifichino i constativi o che si oppongano ad altri tipi d’illocutivi. Non vanno per altro dimenticati gli studi e i corsi di lezioni che Austin tenne su Frege, la rilevanza che nella sua prospettiva assumono comunque le proposizioni uniformate al principio di bivalenza e al sapere descrittivo. Piuttosto, induce perplessita` il fatto che i constativi – secondo una concezione confacente piu` al Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus che alla pragmatica linguistica – siano considerati atti linguistici caratterizzati per il valore meramente referenziale, di duplicazione e di rispecchiamento dei fatti che descrivono, omettendo la condizione costitutiva di ordine pragmatico, che un constativo comporta tanto nelle premesse che nelle conseguenze. Queste opacita`, queste incongruenze sembrano acuirsi nell’identita` della terza e ultima categoria, quella della perlocutivita`. Qui il dire e` tutto sbilanciato sulla dimensione del fare, identificato attraverso la produzione di conseguenze e di effetti. E di nuovo prevale il punto di vista riduttivo, per il quale la perlocutivita` non e` una condizione di produzione del discorso ma una classe particolarissima: quella degli atti perlocutivi, determinati da una famiglia di verbi (i noti: battezzare, giurare, ecc.); atti che consistono in azioni verbali con conseguenze di ordine non piu` linguistico (Austin: 1955-1962; 1978: 61-80); un agire che solo il proferimento linguistico permetterebbe di effettuare; anzi un agire per proferimento che gia` in se´ contiene gli effetti che puo` determinare. E`

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sufficiente infatti dire “giuro!” perche´ il giuramento sia insieme enunciato ed effettuato. E certo, il grado di compromissione e d’irreversibilita` di chi giura, o di chi presiede ad atti istituzionali e rituali come un battesimo, una sentenza, una proclamazione, ecc. e` alto. Ma le condizioni per cui un giuramento o a una formula battesimale hanno un forte grado di compromissione e d’irreversibilita` non sono esclusive di tali atti. Le conclusioni di un articolo scientifico sono altrettanto compromettenti e vincolanti per l’autore come per la comunita` di studiosi che l’accoglie. Se l’atto perlocutivo si definisce per essere azione esclusivamente linguistica (per giurare bisogna pronunciare parole)9, che produce effetti che hanno valore sociale pratico, a maggior ragione i constativi saranno atti perlocutivi. Quale azione e` piu` intrinsecamente linguistica di una dichiarativa, di una descrizione, di un racconto? E quanti effetti pratici immediati e remoti, di micro e macro scala individuale e sociale un constativo e` in grado di produrre! 5. La riformulazione (d) del §1. dice in modo esplicito che il discorso e` un gioco o un negoziato d’intenzioni, che si manifestano nella significazione del senso e dei riferimenti. In queste note di pragmatica linguistica con intenzione s’intende l’orientamento del senso prodotto nell’atto linguistico. Propone le proprie intenzioni il locutore attraverso il discorso; contrappone a sua volta le proprie l’interlocutore, attraverso il modo con cui il discorso viene recepito; si fa mediatore vincolante delle intenzioni in gioco il discorso o testo con le sue esplicitazioni, con i contenuti impliE` necessaria la prospettiva semiotica, oltre quella linguistica. Atti rituali come il saluto, il giuramento, l’insulto, segnali di partenza e di attacco, segni di deferenza, di rispetto, ecc. si svolgono ache con semiotiche gestuali, posturali (inchini, genuflessioni), non verbali. Molti di questi atti hanno dominante valenza perlocutiva, sia nelle accezioni austiniane (effetti), sia nell’accezione qui proposta (compromissione, irreversibilita`). Un esempio emblematico e` la stretta di mano davanti a testimoni, negli atti di compravendita, in contesti (mercati, fiere) che non contemplano un atto scritto e firmato (Graff: 1987). 9

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citi, con le ineliminabili ambiguita`. Luis Prieto definisce il senso di un atto linguistico «l’influenza che il mittente intende esercitare sul destinatario». Questa definizione e` vera in parte. Il senso di un atto linguistico, nella sua compiutezza, non e` il risultato di un gesto unidirezionale e solitario, ma quantomeno quello di una partita tra due giocatori. Il senso di un atto linguistico e` l’influenza che le intenzioni del mittente vanno a determinare nell’incontro con quelle del destinatario. Ancora una volta e` opportuno richiamare l’attenzione sul fatto che il testo non e` un mero latore delle intenzioni del locutore; esso ne e` il mediatore, il primo interprete e come tale da` visibilita` alle intenzioni in gioco. Ma nulla garantisce che il discorso rispecchi in modo sufficientemente adeguato le intenzioni del mittente. La quantita` di fattori grammaticali e pragmatici che concorrono alla produzione dell’atto discorsivo, da quello intonativo a quello lessicale; la complessita` e la ricchezza di scelte possibili dei modi verbali; delle complementazioni avverbiali; delle costruzioni sintattiche; queste ed altre risorse e potenzialita` espressive possono divenire altrettanti luoghi di aberrazione, di alterazione, fino a paradossali effetti d’inversione delle intenzioni esibite dal testo, rispetto a quelle progettate dal locutore. Il tragico puo` sfociare inesorabilmente nel comico; un umile richiesta assume la veste di un’intimazione; un consiglio prende il tono inequivocabile di una minaccia; una domanda si trasforma in un ordine; le parole aggressive dell’ingiuria possono significare insicurezza e paura. A queste possibilita` di lapsus, d’incongruenza tra gli scopi del mittente e la messa in scena del testo, si devono aggiungere la cooperazione e l’interpretazione, a loro volta aleatorie e non garantite, del ricevente. E comunque vada l’atto discorsivo, qualunque sia la felicita` dell’esito nel gioco delle intenzioni, si determinano le compromissioni e il complementare grado d’irreversibilita`. Una somma di ragioni puo` portare al fraintendimento piu` o meno intenzionale. Al pari dell’abusata immagine della pallottola, che per le inderogabili leggi della balistica e` certo come procedera` ma non e` facilmente prevedibile cosa andra` a colpire, cosı` non e`

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prevedibile in quali condizioni il discorso lascera` chi parla come chi ha avuto la sorte di ascoltare. Sono in gioco questioni di codice, ma anche piu` forti condizioni contestuali e circostanziali (Umberto Eco), di carita` (Donald Davidson), di felicita` (John Austin) e di presupposizioni (Oswald Ducrot) intrinseche all’atto discorsivo, che possono portare il discorso secondo ma anche oltre le intenzioni dei parlanti. Come dire – e` una vecchia storia – che non e` pacifico stabilire quanto parliamo e quanto viceversa siamo parlati e agiti dal linguaggio. Currenti verbo (et calamo), gli interlocutori possono tramutarsi da attori, padroni della scena e del testo, in marionette azionate dalle loro stesse parole. 6. La tesi con cui abbiamo aperto queste note – ogni atto linguistico comporta una compromissione e una certa irreversibilita` per tutti i suoi agenti (testo e interlocutori) – che poi abbiamo esplicitato e riformulato a piu` riprese, puo` aiutare a chiarire un altro luogo in cui la pragmatica linguistica si muove con ambiguita`: quello della distinzione tra l’unita` linguistica e la sua funzione. Questa ambiguita` investe i termini introdotti da Austin e ripresi dagli autori del dibattito che ne e` seguito (Sbisa`: 1978; Harnisch: 1994). Parole come constativo, performativo, illocutivo, perlocutivo, e ancora verdettivo, commissivo, ecc. sono state usate frequentemente in duplice senso. In alcuni contesti si riferiscono alla funzione: intendendosi con questo termine l’«atto sociale» (Bianchi: 2003, 67), lo scopo comunicativo, il tipo illocutivo cui un atto discorsivo appartiene. In altri contesti quelle stesse parole sono state usate per riferirsi alle unita` linguistiche, alle classi d’identita` grammaticale cui le singole espressioni appartengono. In questo modo si da` per implicita l’identita`, la corrispondenza biunivoca tra un’unita` linguistica e le sue funzioni. Vediamo di capire dove si annida l’ambiguita`. Gli atti linguistici sono occorrenze o tokens, la cui identita` e` data dall’appartenenza a unita` linguistiche, che sono classi o types: a segni, avrebbe detto Saussure; a classi di equivalenza distribuzionale, avrebbe detto Bloomfield. Ma un’unita` linguistica, un type

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(classe, segno) riceve identita` da specifiche forme grammaticali. In italiano la frase interrogativa sara` in genere contraddistinta da una particolare marca intonazionale; in inglese, oltre all’intonazione, l’interrogativa e` contraddistinta da una particolare marca sintattica (inversione tra soggetto e verbo) e dalla presenza di una marca lessicale (l’ausiliare to do). Se la nozione di unita` linguistica e quella di funzione coincidessero, come avviene nell’interrogativa dell’italiano e dell’inglese, potremmo individuare le classi di funzioni degli atti linguistici individuando le rispettive unita` linguistiche o types grammaticali. In base a questa ipotesi, constativi, performativi, verdittivi, ecc. dovrebbero avere ciascuno la propria marca o forma espressiva. Ma le cose non stanno in questo modo; quantomeno non secondo una corrispondenza biunivoca, costante e coerente, che renderebbe l’ipotesi operativamente interessante. Anche su questo tema dobbiamo tornare alle indicazioni lasciate da Austin. 7. Austin tratto` a piu` riprese la questione. Il primo obiettivo che si era posto era stato quello d’individuare la classe degli atti performativi, in opposizione a quella dei constativi. Per questo scopo cercava una procedura adeguata e aveva pensato inizialmente di risolvere il problema attraverso l’unico criterio linguisticamente corretto: trovare le forme grammaticali che identificano i tratti performativi di una frase. In breve, la sua strategia era quella d’individuare la classe di verbi il cui contenuto, la cui composizione semantica, fosse condizione necessaria e sufficiente per determinare il valore performativo dell’intero atto linguistico. Ma dovette rendersi conto che la risoluzione per quella via era limitata e insoddisfacente. In apertura di How to Do Things with Words (Austin: 1955-62; 1978: 61), egli scrive «non siamo riusciti a trovare un criterio grammaticale per i performativi, ma abbiamo pensato che ogni performativo possa in linea di principio essere ricondotto alla forma di performativo esplicito, e quindi che si potrebbe riuscire a compilare una lista di verbi performativi. In seguito pero` abbiamo scoperto che

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spesso non e` facile essere sicuri se un enunciato e` performativo o meno, anche quando e` apparentemente in forma esplicita». In sostanza, Austin dovette rinunciare all’idea di trovare nel lessico o in altre pieghe della grammatica le forme della performativita`, quelle che avrebbero dovuto indicare il carattere di azione, la natura di performance verbale di un atto linguististico. Quanto meno dovette rinunciare all’idea di arrivare a determinare tali forme in un paradigma chiuso o, come preferiscono dire i logici, in un insieme lessicale decidibile. Da una parte, la presenza di verbi performativi (il cui elenco definitivo da Austin non fu compilato) non e` condizione sufficiente per stabilire la performativita` di un’espressione; per altro verso, quei verbi non sembrano costituire neppure una condizione necessaria: potendosi dare atti a dominante valenza performativa anche senza il verbo che li marca. A ben vedere, quella che viene smentita e` l’ipotesi che la funzione di un atto discorsivo sia identificabile con una specifica unita` linguistica, caratterizzata da una propria marca grammaticale (qui grammaticale equivarrebbe a lessicale)10. 8. Emerge da queste considerazioni la differenza tra un’unita` linguistica e le sue possibili funzioni. Un atto linguistico puo` svolgere una funzione perche´ denotato da specifiche marche; ma puo` svolgere la stessa funzione anche in forza di particolari condizioni di contesto e di circostanze. Torniamo alle dinamiche di significazione che abbiamo visto sopra: nel testo, una descrizione (funzione di base constativa) puo` avere funzione di comando, di rimprovero, di esortazione; un proposizione performativa puo` avere funzione constativa; una variante intonazionale puo` trasformare una descrizione (funzione constativa) in un atto perlocutivo; una proposizione condizionale (marca del modo condizionale nel verbo) puo` svolgere funzione ottativa; ecc. 10

Strawson (1964) e` tra i primi a mettere in evidenza la differenza tra unita` linguistica e valore funzionale dell’atto discorsivo. Netta la posizione di Searle (1975: §§ 2. e 6; 1978: 196). «E` per questo – raccomandava – che dobbiamo distinguere accuratamente la tassonomia degli atti illocutori da quella dei verbi illocutori».

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L’esempio della frase interrogativa, in cui funzione e caratterizzazione grammaticale coincidono, non costituisce la norma e puo` risultare riduttivo e ingannevole. Cio` che ad Austin sembrava potersi realizzare con un procedimento di tipo commutativo (presenza/assenza di verbi che producono appartenenza/nonappartenenza degli enunciati al paradigma dei performativi), non trova nella pragmatica del discorso procedimenti univoci. Per cui, di volta in volta sarebbe spettato al linguista giudicare intuitivamente – ricorrendo alla propria competenza – a quale funzione, in un dato contesto, un atto linguistico dovesse appartenere. 9. La trasformazione di un atto implicitamente performativo in un “performativo esplicito” merita qualche osservazione. Il processo di traduzione di un’espressione linguistica in un’altra, considerata come suo modello normale o di base, implica l’adozione di un razionalismo linguistico che ipostatizza canoni formali di base o a priori. Senza entrare nel merito di questo tema, che investe gran parte della linguistica del secondo Novecento, si deve rilevare che Austin – e successivamente con scelta ancora piu` drastica Searle – limitano i performativi espliciti (i) alle proposizioni in cui occorre un verbo performativo, (ii) alle proposizioni che esibiscono il performativo nella prima persona dell’indicativo presente. In questo modo, un’espressione come “ti ordino di uscire” e` un performativo. “Esci! ” non lo e`; e sfugge alla classificazione, a meno di opportuna trasformazione in forma normale (esplicita). In che cosa consiste l’analisi pragmatica, se si limita alle forme esplicite per fare coincidere forma grammaticale e funzione? Quali obiettivi persegue l’analisi pragmatica se esclude, dalle forme grammaticali pertinenti, il modo imperativo del verbo e l’intonazione? Cosı` resta proceduralmente non decidibile una quantita` di atti che, in conformita` con quello che Austin propone, sono a dominante valenza performativa; atti in cui “dire qualcosa puo` essere fare qualcosa”: esortative (“In piedi! ”, “Silenzio! ”), locuzioni avverbiali (“Dietro-front! ”), invocazioni (“Aiuto! ”), forme di futuro prescrittivo con funzione perlocutiva (“prendera` la prima a destra! ”). Con la limitazione ai performativi espliciti, restano esclusi atti

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linguistici che delle azioni hanno il carattere proprio dell’effettualita`, di determinare situazioni di compromissione tra gli interlocutori, con un grado significativo d’irreversibilita`: dare un comando, fare un complimento, ingiuriare, ecc. In particolare, la condizione d’esplicitazione, fa perdere la possibilita` di registrare parte rilevante dei performativi, a chiara valenza perlocutiva, in cui non e` presente una forma verbale11. Sulla riduzione dei performativi alla forma normale (una determinata classe di verbi, in prima persona, nel modo indicativo, nel tempo presente) Searle assume posizione radicale. La sua procedura si basa sul presupposto che nella trasformazione dalla forma implicita a quella esplicita non si perda nulla, quantomeno del generico contenuto di performativita`; mentre la prova di sostituzione con la forma normale offre la garanzia che si e` realmente di fronte a un atto performativo. Cio` che si puo` trasformare nella forma normale (esplicita) e` performativo, cio` che non si trasforma non lo e`. Nella prospettiva proposta da queste note non si mette in dubbio il «valore di prova» della riduzione a forma normale; si mette invece in discussione cio` che nella riduzione si perde, cui si da` intrinseco valore performativo (di azione) e perlocutivo (compromissione e irreversibilita`). Come avviene nelle procedure che impongono la «riduzione a forma normale», si declassano e si escludono proprio quei mezzi linguistici (di genere grammaticale o contestuale) che caratterizzano la particolare funzione comunicaE` interessante notare, di nuovo, come gli atti a dominante valenza perlocutiva abbiano un comportamento analogo agl’indicali. Entrambi creano una sorta di corto circuito: gl’indicali con il contesto, che ne determina il riferimento; i perlocutivi con gli agenti che ne determinano compromissione e irreversibilita`. Entrambi sono token riflessivi (Bianchi: 2003, 46); richiedono, come postula Searle, il tempo presente (questo spiega l’attacamento al verbo, che coniuga nelle nostre lingue il tempo), che garantisce la simultaneita` tra proferimento ed effetto. Non e` un caso che Searle chiami questa condizione di simultaneita` “the present present ”, il “presente presente”: dove l’iterativo sta ad indicare la flagranza d’azione in concomitanza con l’enunciazione, o anche “the dramatic present ”, ad indicare la messa in scena che il discorso attua. Ma cio` che e` costitutivo e` il presente non il verbo. 11

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tiva, la particolare forma illocutiva, e quindi la sua specificita` linguistica. 10. Chiudiamo queste note con un riepilogo. Primo. Sulla linea di una tradizione che vede insieme personalita` e ambiti d’indagine molto diversi, da Wittgenstein a Prieto (e ancora in indirizzi piu` diversificati, da Ong (1982) a Habermas (1981) gli atti linguistici sono considerati azioni. I discorsi appartengono all’agire pratico e tecnico in genere, e sono caratterizzati dalla finalita` comunicativa. Questa prima caratterizzazione (parlare equivale ad agire, il linguaggio equivale a una tecnica) giustifica e precisa in che cosa debba consistere l’adozione del punto di vista pragmatico. Se non in tutto, questa idea condivide in buona parte il punto di vista da cui muove anche Austin. In accordo con la terminologia da lui introdotta, possiamo denominare la specificita` dell’agire linguistico con il termine locutivita`, e definire gli atti linguistici atti locutivi. Secondo. Tutti gli atti locutivi si caratterizzano per indurre effetti di compromissione e d’irreversibilita` sugli agenti che concorrono al loro costituirsi: gli interlocutori e il testo. Tali effetti, costitutivi di tutti gli atti linguistici, possono essere indicati con il termine di perlocutivita`, che indica la resistenza indotta dall’atto linguistico a far tornare interlocutori e testo nella condizione precedente al proferimento dell’atto. Analogamente a quanto vale nell’uso di Austin, la perlocutivita` e` inerente all’effettualita`. Diversamente da quanto avviene in Austin, tale effettualita` non s’identifica con effetti o tipi di azione particolari, ma con il grado di compromissione e d’irreversibilita` che comunque l’atto linguistico istituisce. Di conseguenza, la perlocuzione non e` una classe di atti discorsivi, ma un aspetto presente con varia forza in ogni discorso. Terzo. Si puo` ancora parlare di atti perlocutivi, ma sapendo che si usa questo termine non per una classificazione materiale, ma per gli atti in cui la compromissione e l’aspetto d’irreversibilita` sono dominanti.

Le nozioni di spazio e di tempo in prospettiva linguistica e filosofica. Alcuni spunti di lettura di Alberto Manco

1. Premessa 1.1. Se, come rilevava Greimas qualche anno fa, «la semiotica dello spazio cerca ancora la sua strada» (in buona misura la constatazione si conserva attuale), anche quella del tempo deve cercarne una. Quelle di spazio e tempo restano questioni poco esaminate, nonostante un padre fondatore come Bopp avesse richiamato l’attenzione su spazio, tempo e gradazioni affettive quali cardini interpredicativi di qualunque esperienza linguistica. Di certo si puo` obiettare che spazio e tempo sono stati innumerevoli volte tematizzati. Ma di solito non si considera che si contano due visioni di massima del tempo: quella universalistica dei parlanti, secondo la quale ogni parlante che verbalizzi l’esperienza del tempo lo fa in un modo che e` valido solo e soltanto nella lingua che egli parla (e tuttavia egli pone questo modo, sia pure senza saperlo ne´ volerlo, appunto come universale); e quella relativizzante di taluni linguisti, che mostrano come la verbalizzazione dell’esperienza della temporalita` cambia a seconda delle lingue (fatto al quale i filosofi non dedicano tuttora la necessaria attenzione). Tuttavia, tra gli stessi relativizzanti, ai quali va ascritto il merito di aver fatto notare la cosa, manca la visione tendenzialmente oggettiva della temporalita` alla quale aspira la fisica.

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1.2. I linguisti, specie pre-cognitivisti, che hanno fatto incursione nel campo dello spazio e del tempo non sono moltissimi, e tra coloro che hanno maggiormente valorizzato la nozione di tempo e` da annoverare il francese Guillaume, la cui insistenza su quei temi sembra voler recuperare alla Linguistica un orizzonte originario mai sufficientemente indagato. Del resto, gia` le soluzioni localistiche mature nel corso dell’Ottocento esponevano un piano complesso degli eventi che invitava a non limitarsi alla descrizione del visibile, ma a spingersi a una considerazione dei principi che, incardinati nella storia stessa della Linguistica, ne devono costituire, esplicitandola, l’essenza. Quelle soluzioni proponevano cioe`, a loro modo, di dedicare attenzione alla distinzione fra quanto e` percepibile (dai sensi) e quanto e` invece concepibile (in quanto oggetto di esperienza mentale). Ma le diverse definizioni dello spazio e del tempo che dizionari, manuali di linguistica e testi filosofici contengono, riescono sistematicamente a fare a meno di notare i numerosi e talvolta radicalmente diversi modi di verbalizzare lo spazio e il tempo. Se pure, pero`, questo sembra rendere implicita una fede universalista nel modo di concepire il tempo, il perche´ di questa fede resta del tutto inesplicato. In realta`, e` la necessita` stessa di una esplicazione a sfuggire del tutto. 1.3. Gli schemi a cui si fa di solito riferimento quando ci si occupa di spazio e di tempo, sono composti da linee ideali disposte lungo un asse su/giu` (o viceversa), oppure avanti/indietro (o viceversa), o infine destra/sinistra (o viceversa). Secondo taluni linguisti queste tre disposizioni di base risponderebbero a una precisa gerarchia concettuale, dove il primato dell’asse su/giu` sarebbe peraltro garantito dall’analogia con l’assetto gravitazionale terrestre. Tale tradizione risalirebbe per qualcuno a Kant, la filosofia del quale, basata sul sistema spaziale newtoniano assoluto, fonda gli eventi a partire da un posizionamento egocentrico universalizzante. (Resta tuttavia da chiedersi come venisse concepito, a parere di questi studiosi, l’asse su/giu` prima di Kant.) Questo comporta una considerazione del tempo anch’essa spazia-

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lizzata quasi immediatamente, in quanto esperienza modellata su quella dello spazio: ‘domani’ sta avanti, ‘ieri’ sta dietro. Ma gia` questo, come vedremo, e` messo in crisi definitiva da alcuni studi che mostrano come ‘ieri’ possa lessicalizzarsi in accordo con il posizionamento ‘avanti’, e ‘domani’ in accordo con dietro. 1.4. Altro invece sarebbe lo scopo di attuare quella esplicazione di cui appena detto, mirante alla riduzione delle epoche temporali ad ipostasi della concepibilita` stessa del tempo. Questo in ragione del fatto che il futuro e` la dimensione temporale del non ancora giunto, e pertanto assente; le caratteristiche di volta in volta particolari di rappresentazione direzionale linguisticamente attribuite a tale dimensione sarebbero qui da considerare secondarie: il futuro e` ipostasi di cio` che non e` ancora giunto, sia che le lingue lo rappresentino come retrostante sia che lo rappresentino come antistante. Stessa ragione per il passato, che ipostatizza in ogni lingua cio` che e` trascorso – come che lo si rappresenti e dunque lessicalizzi quanto a direzionalita`/posizionalita`. Il tempo come istanza mentale riguarda dunque processi di memorizzazione che si categorizzano sotto la cifra passato o di calcolo previsionale che si categorizzano sotto la cifra futuro. L’oggettivazione di un’epoca passata o futura – che, considerate oggettivamente, sono degli inesistenti temporali – avviene in base a processi mentali di memorizzazione e di immaginazione. In tale prospettiva il momento attuale e` l’unico ad avere statuto di esistenza, ancorche´ inafferrabile, mentre il resto e` ricordo o congettura. 1.5. Anche se tutto questo viene normato in maniera particolare da lingua a lingua, non bisogna farsi disorientare dal fatto che talune lingue rappresentano il futuro come non visibile (cioe` dietro nello spazio) e il passato come visibile (cioe` avanti nello spazio). Secondo la teoria guillaumiana, in queste lingue il movimento del tempo oggettivo continua infatti a funzionare come altrove nonostante che in esse gli schemi memoriale e previsionale modifichino i parametri maggiormente diffusi. In altre parole, indipendente-

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mente dalla lingua parlata e dagli schemi che essa comporta, il susseguirsi degli eventi si esperisce ovunque allo stesso modo. Una simile esperienza sarebbe il piano permanente rispetto al quale i bisogni temporali di volta in volta caratteristici delle lingue si costituiscono come puro epifenomeno, correlandosi ad esso in un rapporto che, quando esse esprimano l’istanza temporale addirittura in direzione inversa rispetto ai risultati della grammaticalizzazione, pare improntato a un principio di arbitrarieta`. In sintesi, esisterebbe un principio universale di ordinazione degli eventi nel pensiero. A un tale principio, del tutto mentale, si opporrebbe quello imposto dal tempo fisico, che procede secondo Guillaume in senso esattamente opposto, realizzando gli eventi col suo procedere dal passato verso il futuro. In sintesi, cio` che viene vissuto come proveniente dal futuro e volgente al passato, se potesse essere esperito nella sua dimensione autentica apparirebbe cosı` come realmente procede, e cioe` dal passato verso il futuro. Ne consegue che qualsiasi lingua si attiene, piu` o meno in profondita` e secondo diverse modulazioni, sia al primo movimento del tempo sia al secondo.

2. La verbalizzazione dello spazio 2.1. Il modo diverso (e talvolta persino inconciliabile tra una lingua e l’altra) con cui lo spazio e` concepito, si manifesta non appena se ne esaminino le molteplici possibilita` di verbalizzazione. Il basco esprime ad esempio lo spazio mediante diversi casi locazionali e posposizioni che permettono una complessa intersecazione di sfumature spaziali che spesso pongono problemi di polisemia difficilmente risolvibili. A questo proposito, Ibarretxe-Antun˜ano (2001) ricorda che ai casi locazionali del basco corrispondono tre significati spaziali prototipici (locazione nello spazio nel locativo vero e proprio, fonte del movimento nell’ablativo e obiettivo del movimento negli allativi) capaci di formare, assieme alle loro estensioni,

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un complesso network lessicale che copre anche le determinazioni temporali per mezzo di metafore. Da quest’ultimo punto di vista, la metafora prestata dal locativo comporta che la locazione nello spazio diventi locazione nel tempo; nell’ablativo il significato ‘periodo di tempo’ si basa su una metafora del tipo ‘un periodo di tempo e` un percorso completo’, mentre nell’allativo il significato di scopo come obiettivo e dunque direzione e` dato da una metafora secondo la quale gli scopi sono destinazioni, e percio` riguardano la progettualita` tipica del futuro. Le cose cambiano quando si analizzi la semantica spaziale del thai. Secondo Zlatev (2003) una teoria della semantica spaziale deve considerare la possibilita` dell’interazione tra le espressioni in cui siano coinvolte le closed-classes e quelle in cui lo siano le openclasses anziche´ guardare soltanto alle prime nella determinazione di una semantica spaziale delle lingue. Una lingua come il thai mostra che una closed-class come quella preposizionale non pone differenze qualitative rispetto a una tipica open-class come il verbo rispetto alla propria semantica spaziale. Questo discorso va letto alla luce della tipologia talmiana, che stabilisce la distinzione tipologica tra verbframing languages come ad esempio lo spagnolo, con paths espressi da verbi e manners espressi da altri mezzi, e satellite-framing languages, dove i verbi esprimono modi e particelle o prefissi che fungono da paths. Ma il thai annovera sia path-verbs che manner-verbs, tra i quali secondo Zlatev e` difficile stabilire se siano dominanti i primi o i secondi. Egli propone cosı` un approccio alla semantica spaziale che consideri l’enunciato e non la parola isolata come suo principale oggetto di analisi. Il riferimento a Talmy e` necessario quando si tratti di verbalizzazione dell’esperienza spaziale. Nel 1983 egli pubblico` un articolo in cui proponeva che il linguaggio schematizza lo spazio sulla base di schemi di riferimento sufficienti che consentono di lasciare da parte fattori secondari nella determinazione (verbale) di una immagine verbale – una determinazione che in sintesi ne permette un apprendimento condiviso senza calarsi nella descrizione di mille particolari (Talmy: 1983; 1999). Questo significa che quando si usa un termine spaziante come ‘attraverso’ si fa riferimento a un in-

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sieme di schemi prefigurati che escludono alcune informazioni di dettaglio come ad esempio la forma di cio` che attraversa o di cio` che si attraversa, e la misurazione del percorso. In un processo di generalizzazione condiviso, ad ‘attraverso’ e` dunque sufficiente la cosa che attraversa e la cosa attraversata: A attraversa B (cfr. Zlatev: 2003). Talmy aveva focalizzato dunque sui closed-class terms piuttosto che sulle macro-strutture linguistiche, privilegiando cosı` elementi e categorie grammaticali, parti invariabili del discorso e strutture sintattiche. Ma secondo questo autore non e` soltanto a livello linguistico che lo spazio ottiene le sue schematizzazioni; a farlo sono anche percezione e cognizione. Per quanto riguarda la percezione, essa riceverebbe sı` input dall’esterno ma agirebbe anche su dati gia` elaborati. Se cosı` non fosse, l’attivita` percettiva (ri)comincerebbe in ogni momento la propria attivita`, organizzando continuamente da zero i suoi dati. Anche il linguaggio, al pari della percezione, focalizzerebbe sulle figure e le inquadrerebbe entro schemi spaziali, e, selezionando una porzione di scena, esso la descriverebbe inoltre in relazione ad un’altra. Talvolta, a questi due riferimenti primari (figura e sfondo) se ne aggiunge un terzo, creando cosı` una diversa condizione di relativita` spaziale fra i tre riferimenti. E, sebbene la figura sia semplice e lo sfondo complesso e la prima sia magari anche soltanto un punto, e` proprio lo sfondo, perlopiu`, a dover essere ridotto – grazie alle closed-classes – a schema essenziale e prestabilito assicurato dalle preposizioni: a = monodimensionalita`; su e per = bidimensionalita`; dentro, attraverso = tridimensionalita` (Talmy: 1983; 1999). Ma bisogna ancora fare i conti con le diversita` con cui le lingue verbalizzano l’istanza spaziale. Analizzando diverse lingue secondo una interessante prospettiva, Boroditsky (2001) fa notare che gli inglesi distinguono tra il porre le cose in un contenitore o su una superficie (into, on), mentre i coreani tra il porre una mela in un cesto o una lettera in una busta distinguono tra la larghezza del cesto e la strettezza della busta. Per definire la relazione tra il posizionamento e la natura degli oggetti nei quali le cose vengono collocate essi usano cosı` due termini diversi, nel primo caso nehta

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e nel secondo kitta. Inoltre, essi usano kitta sia se devono mettere la lettera in una busta sia se devono mettere una calamita su un frigorifero, facendo dunque prevalere l’idea di contatto tra gli oggetti – idea meglio garantita appunto da kitta (Boroditsky: 2001). E` evidente, in un simile caso, che la relazione che stabilisce la determinazione posizionale degli oggetti in questione passa per una cognizione diversa da quella usuale in lingue come ad esempio l’inglese o l’italiano, dove sarebbe del tutto prevalso il rapporto posizionale tra gli oggetti, qual e` assicurato da una serie di proposizioni. Che la differente percezione delle relazioni spaziali crei diversita` fra i parlanti inglesi e quelli coreani si evince anche da alcuni esperimenti condotti da Mc Donough et al. (2000). Agli intervistati vengono mostrati il disegno di un oggetto stretto e quello di un oggetto largo. Il risultato e` che mentre i coreani vedono immediatamente la relazione stretto-largo, agli inglesi essa sfugge del tutto. Inoltre, quando vengono mostrati piu` disegni di oggetti tra i quali uno solo di essi e` largo, soltanto i coreani colgono l’eccezione. A proposito della lingua tzeltal Boroditsky ricorda poi, riferendosi a esperimenti iniziati da Levinson (descritti in Levinson: 2003), che essa stabilisce le relazioni posizionali mediante riferimenti di tipo assoluto simili ai punti cardinali nord/sud – cosa che ben di rado accade in lingue quali l’italiano o l’inglese, dove primeggerebbero sistemi di riferimento relativi e corpo-centrici indicati con destra/sinistra, avanti/indietro ecc. Poiche´ inoltre secondo Levinson nello tzeltal i sistemi relativi mancherebbero del tutto, mancherebbero di conseguenza anche le parole per indicarlo. Levinson ha appunto testato le abilita` posizionanti di parlanti nederlandesi e tzeltal in alcuni esperimenti, in uno dei quali ai nederlandesi e agli tzeltal venivano mostrate tre sagome di animaligiocattolo disposte davanti ad essi su di un tavolo. A questo punto nederlandesi e tzeltal ruotavano di 180˚ e dovevano disporre su un tavolo vuoto – che avevano anche in questo caso davanti a se´ – gli oggetti gia` visti nella stessa posizione in cui erano stati posizionati poco avanti sul primo tavolo. Il risultato era effettivamente sorprendente. I nederlandesi disponevano le sagome secondo un

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criterio relativo, mentre gli tzeltal le disponevano secondo il criterio assoluto. Questo significa che i primi le dirigevano verso il lato precedente (ad esempio destro), seguendo dunque un criterio relativo, mentre gli tzeltal li dirigevano verso la polarita` cardinale, e, dunque, in base a un criterio assoluto. Di conseguenza, sul secondo tavolo le sagome guardavano – a seconda dei parlanti che le avevano sistemate – ora in una direzione (ad esempio destra) ora nell’altra (ad esempio nord). Il risultato era, evidentemente, che esse venivano orientate in modo diverso. Ma altri (Li-Gleitman: 2002) sostengono che sia stato il contesto a determinare il risultato dell’esperimento condotto da Levinson, che di conseguenza non sarebbe da considerare attendibile. Li e Gleitman rilevano che gli tzeltal erano stati testati all’esterno, nei pressi di una grande costruzione, mentre i nederlandesi erano stati testati in un ambiente interno con, per di piu`, le tapparelle abbassate; nel primo caso l’edificio avrebbe avuto la funzione di polarita` di riferimento; nel secondo caso, in assenza di riferimenti esterni, gli intervistati avrebbero invece fatto ricorso ai riferimenti relativi determinati dal loro stesso corpo (destra/sinistra). A riprova di cio` Li e Gleitman hanno testato un gruppo di inglesi all’interno e all’esterno, mostrando in questo modo le ragioni del loro argomento, poiche´ a loro avviso essi avrebbero reagito allo stesso modo agli stimoli. 2.2. Un capitolo oltremodo interessante della questione della semantica spaziale riguarda proprio i sei direzionamenti di base (su/giu`, avanti/indietro, destra/sinistra) considerati come a se´ stanti. Tra essi, soltanto uno, su/giu`, sembrerebbe conservare un valore assoluto nel senso della verticalita`, mentre gli altri due, orizzontali, e in particolare la coppia avanti/indietro, sembrerebbero prestarsi, sia pure in maniera non sempre visibile, a una commistione con i caratteri della verticalita`. Secondo Kataoka, espressioni come «Look who’s coming down the street» e «She walked right up to me» si spiegano col fatto che nel primo caso la base di intendimento e` la strada, in se´ orizzontale, che e` vista come scena del fatto di cui si parla. Nel

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secondo caso il locutore e` invece attore protagonista, e prevale rispetto alla orizzontalita` ben ipostatizzata nel concetto di strada, che e` qualcosa che sta a terra, e che gli sta sotto. La verticalita` del locutore, il suo stare piu` in alto dell’oggetto-scena di cui si parla, funzionerebbe in un simile caso come polarita` assoluta, o quantomeno dominante. Tutto cio` ha innegabili affinita` col fatto che non tutti esprimono la stessa identica nozione quando dicono ‘avanti’. Per taluni ‘avanti’ e` un’indicazione spaziale che parte da un punto sı` ben preciso ma non per tutti lo stesso: ora si trattera` della punta del naso, ora della bocca, ora della fronte, ora del viso genericamente inteso, ecc. E ancora, se si dice a qualcuno «vieni avanti», si intende solitamente che costui debba muoversi verso chi parla. Ma, per altri, ‘avanti’ puo` essere una vaga nozione che comprende una gamma di direzioni difficilmente concepibili se non e` accompagnata da opportune specificazioni. Ancora altrove, sara` possibile che ‘avanti’ non indichi come riferimento spaziale, prima di altro, il corpo di chi parla, ma quello di chi ascolta, con quanto ne consegue. Puo` darsi, ancora, che siano esclusi sia un corpo che l’altro e che ‘avanti’ si regoli sempre su un posizionamento assoluto, come ad esempio tutte le direzioni possibili comprese nel raggio di 180 gradi che sta ‘davanti’ a chi parla, e/o a chi ascolta, o, semplicemente, sempre e soltanto il Nord. In questo caso, il parlante dovrebbe specificare meglio quale direzione indica quell’‘avanti’: se ad esempio ‘avanti (un po’ a destra)’ o ‘avanti (un po’ a sinistra)’. Questo appunto perche´ le lingue rappresentano lo spazio con criteri non sempre interscambiabili. Come se non bastasse, abbiamo visto che la classificazione linguistica dello spazio varia non soltanto da lingua a lingua, ma anche da linguista a linguista. La letteratura specialistica riconosce la differente resa linguistica che la differente percezione dello spazio pone, ma diversifica sensibilmente i modi di illustrare i motivi di tale differenza, le ragioni della quale conducono a contrapposizioni che vorrebbero da una parte il pensiero a determinare il linguaggio, e dall’altra il contrario. Nel caso di Levinson, peraltro, il riferimento alla teoria sapirwhorfiana e` esplicito.

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3. La verbalizzazione del tempo 3.1. L’analisi delle lingue storico-naturali mostra che l’esperienza del tempo viene verbalizzata servendosi dello stesso bagaglio linguistico solitamente utilizzato per esprimere l’esperienza dello spazio. Alla questione delle marche linguistiche temporali elaborate per analogia con concetti spaziali, Haspelmath ha dedicato un lungo studio basato proprio sulla convinzione (diffusemente condivisa) che le lingue esprimano le nozioni spaziali e temporali in modo similare (Haspelmath: 1997). Haspelmath considera il tempo qualcosa di molto semplice dal punto di vista semantico. A suo avviso lo si puo` rappresentare come una sequenza di punti allocati lungo una linea immaginaria, cioe` come un asse temporale (time axis). Ma la complessita` celata dietro la semplicita` apparente dell’immagine lineare emerge non appena si rivolga l’attenzione al dibattito dei fisici e di taluni filosofi sulla natura dello spaziotempo. Ancora una decina di anni fa, quando la teoria delle stringhe non era stata sviluppata come si e` fatto in seguito, S. Hawking era ad esempio convinto che lo spaziotempo dovesse avere un inizio e una fine; ammetteva cosı` l’esistenza di regioni dell’universo inaccessibili all’osservazione la quale da` origine a sua volta al concetto di entropia gravitazionale come misura di cio` che non possiamo conoscere (Hawking-Penrose: 2002, 14).

A giudicare da quanto emergeva dalla analisi di Hawking, tempo e spazio arrivano prima o poi a configurarsi come domini non piu` in linea con le semplificazioni ideate dal senso comune, che hanno intrinseca funzione predittiva, efficace finche´ si viva nel mondo in cui sono state create. In altre parole, quando si ritiene di poter far coincidere la semplicita` di cio` che non si vede con la struttura interna di cio` che si vede, e` come se si volesse far funzionare l’attuale scienza fisica sulla base delle nozioni euclidee che hanno orientato le certezze fino a un’epoca relativamente molto vicina all’attuale, oramai insufficienti in contesti specialistici

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come ad esempio quello a cui si riferiscono Hawking e Penrose. Se ne ricava che l’evidenza di un’immagine semplice puo` essere condivisa da tutti (almeno quando si abbia una cultura da condividere), sebbene non tutti riescano a penetrare la strutturazione dei fatti che l’hanno condotta ad essere cosı` com’e`. Questa breve digressione ci riconduce cosı` alla necessita` di distinguere tra percepibile e concepibile. L’asse temporale e` sı`, infatti, la piu` semplice e credibile struttura di elaborazione dell’esperienza temporale – dell’esperienza, cioe`, di qualcosa di intrinsecamente complesso (e tanto piu` tale per il fatto di avere natura irrimediabilmente intrinseca), purche´ si tenga presente che il modello di elaborazione temporale dei fisici non pare immediatamente sovrapponibile a quello linguistico e fonda (o orienta), a seconda di come lo si consideri, l’una o l’altra prospettiva filosofica. Detto in maniera ancora piu` semplice, l’asse temporale e` una struttura (o l’immagine di una struttura) del tutto euclidea, cosa di cui, se non deve tener conto il normale parlante, deve essere tenuta presente dal linguista. Un punto di vista diverso e` espresso dalla posizione che privilegia un approccio intersoggettivo o comunicativo come quello mostrato di Radden (2003), che la oppone a quella bio-lakoffiana secondo la quale il ricorso alle metafore nella verbalizzazione dell’esperienza della temporalita` sarebbe dovuto al fatto che mentre i sensi hanno detectors per l’esperienza della spazialita`, non ne hanno per il tempo (Lakoff: 1993). Radden apre il discorso a un isomorfismo (diciamo: linguistico) tra spazio e tempo che tiene conto anche per quest’ultimo dello statuto dimensionale di volta in volta tipico, a seconda delle lingue, del primo. Cosı`, quando una lingua usa le stesse preposizioni per esprimere la mono e la tridimensionalita`, essa fa lo stesso a livello di espressione del tempo. Radden fa l’esempio della differenza tra due lingue vicine come inglese e tedesco, rilevando che la prima possiede preposizioni per ciascuna delle tre dimensioni, e che questa suddivisione favorisce anche la espressione verbale della temporalita`. Il tedesco accorperebbe invece nelle stesse preposizioni sia la monodimensionalita` che la

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tridimensionalita`, col risultato di avere due corpi preposizionali per l’espressione del tempo e dello spazio (Radden: 2003). Contrariamente a quanto sostiene Haspelmath, Radden ricorda inoltre che in cinese la rappresentazione verticale del tempo e` usuale, tantoche´ sha`nyue`, il mese prossimo, significa letteralmente ‘il mese sopra’. Egli sembra attribuire importanza al criterio geologico nel processo di concettualizzazione delle polarita` spaziotemporali, che si motiverebbe con la straordinaria importanza che lo Yangtze avrebbe avuto per i cinesi. Yu (1998) farebbe invece risalire il nodo ‘su’ = ‘avanti’ all’esperienza infantile del gattonare, nella quale la testa (che rappresentera` in futuro il ‘su’) rappresenta per una fase fondamentale dell’apprendimento l’‘avanti’ inteso come direzione del movimento compiuto. Ne conseguira` che la fronte assumera` il significato di ‘avanti’ conservando anche quello primario di ‘su’. Aggiungiamo che da una simile proposta dovrebbe conseguire che l’‘avanti’ sara` in seguito collegato al movimento, mentre il ‘su’ funzionera` piuttosto come polarita` assoluta o posizionale statica, sebbene dovremo accennare, tra poco, a importanti eccezioni che dissuadono dal considerare questa come una condizione universale. Radden ricorda del resto che gia` Svorou (1993) aveva prestato attenzione, per quanto con metodo differente, al fenomeno descritto da Yu. Ricordiamo anche l’attenzione rivolta alla questione da Kataoka (2002a), dove si focalizzava tuttavia sullo spazio. L’impostazione di Kataoka (2002a; 2002b) ritorna in Radden a proposito del tempo, dove l’espressione della temporalita` e` data dal modello antropomorfico di osservazione del mondo a partire dalla prospettiva verticale del parlante. A sua volta, Richardson et al. (2003), che partono dal chiedersi perche´ di una persona rispettata si dica che sta piu` su di noi, arguiscono che l’origine della prototipicita` di ‘su’ debba essere fatta risalire alla visione dal basso che da bambini si ha degli adulti. Ma la prospettiva che fonda la concezione eurocentrica di spazio e di tempo, e che si pone come universale, si trova contraddetta da importanti eccezioni. Quella cinese e` forse la piu` nota, anche se entrambe (cinese ed eurocentrica) sembrano d’accordo sul fatto che al futuro spetti un direzionamento dato dalle ipostasi

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spaziali dopo-sotto-avanti mentre al passato ne spetti uno fondato su prima-sopra-indietro (ma gia` un parlante italiano avverte bene l’ambiguita` posizionale di ‘prima’ e di ‘dopo’). Questo dipenderebbe dal fatto che, stando alla prospettiva del parlante, il presente lo fanno per cosı` dire gli occhi, tanto che si e` solitamente d’accordo nel considerarlo quale discrimine tra le due epoche, trascorsa e ventura. Se infatti il cinese presenta accostamenti alla rappresentazione eurocentrica della temporalita` linguistica, ci sono al contrario casi le cui divergenze prevalgono sui punti di accordo. In Miracle e Moya (1981), Klein (1987) e Dahl (1995) sono descritte alcune lingue che verbalizzano l’esperienza del tempo in maniera esattamente inversa rispetto a quella occidentale prevalente. Questo accade ad esempio in aymara`, lingua parlata da una numerosa popolazione insediata specialmente vicino alle rive settentrionali del lago Titicaca, tra Bolivia e Peru`. Una simile visione del tempo dipende dal fatto che si considera il futuro alle spalle perche´ del tutto ignoto, cosa che fa apparire sensato porlo dove non ci sono occhi, cioe` dietro la testa. Il passato, al contrario, e` una scena che si conosce, e che sta bene davanti agli occhi, poiche´ lo si vede e lo si ha presente. Anche in toba, lingua sudamericana parlata nel Gran Chaco (regione compresa tra Argentina, Bolivia e Paraguay), the notion of facing is just the reverse of that noted for English. In Toba one faces the past; in English, one faces the future (Klein: 1987, 180).

Stessa visione della temporalita`, fa notare Klein, in lingua quechua, per il fatto che un evento gia` accaduto lo si ha davanti agli occhi, mentre un evento futuro non lo si puo` guardare e di conseguenza se ne lessicalizzano i riferimenti considerandolo come retrostante, cioe`, anche qui, dietro la testa. Sostanzialmente simile alle due lingue appena ricordate appare l’impostazione spazio-temporale del malgascio (lingua di grande diffusione nel Madascar), dove il passato, a differenza del futuro, anche sta davanti agli occhi. Quando un negoziante malgascio fa

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un’ordinazione di merce per il suo negozio vuoto, secondo Dahl (1995), non sta seguendo una programmazione per il futuro ispirata a un’immagine lineare del tempo, ma sta prendendo atto che il negozio e` vuoto e pertanto bisogna rifornirlo, cosı` come e` stato sempre fatto in passato; parimenti, un autobus parte quando e` pieno e non a una certa ora prefissata; anche in un meeting di persone la discussione inizia quando tutti ci sono. 3.2. Radden e` d’accordo col fatto che per la verbalizzazione dello scorrimento del tempo c’e` bisogno di uno sfondo piu` o meno mobile che determini il movimento stesso in quanto tale e il grado di consistenza con cui dovra` essere verbalizzato. E` cioe` evidente che le scene di movimento temporale siano del tutto improntate a quelle spaziali. Egli allude in pratica a una distinzione, piuttosto diffusa in letteratura, tra il moving-time model e il moving-ego model (distinzione che sarebbe utile mettere a confronto almeno con la teoria della verbalizzazione dello spazio formulata da Levinson): il moving-time model concorderebbe con la visione cara al senso comune di un tempo che scorre. Quando questo movimento va dal futuro verso il passato, il senso comune si trovera` tuttavia spiazzato, poiche´ la versione usuale vorrebbe una direzione inversa. Il principio e` che, sebbene il soggetto del movimento sia perlopiu` il tempo stesso (come in ‘il tempo passa’, dove l’azione muove dal passato verso il futuro), si da` il caso di situazioni in cui prevalga il mondo come oggetto che si muove nel tempo. In pratica, anche in lingue che prevedono che il futuro stia davanti e muova verso l’anteriorita`, si puo` immaginare (e dire) che l’anno nuovo sta ‘venendo’. Il moving-time model permette di collegare il tempo in movimento a un piano fisso rispetto al quale la figura chiave e` l’osservatore rispetto al quale gli eventi vanno o vengono. E` importante notare che Radden deriva questo schema dall’impostazone newtoniana. Nel moving-ego model, al contrario, e` l’osservatore a muoversi nel tempo, considerato paesaggio stazionario. In questo modello prevale la soggettivita` dell’osservatore, rappresentata sul piano

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storico-linguistico dall’universo cognitivo racchiuso nel verbo ‘andare’.

4. Osservazioni conclusive L’analisi delle nozioni di spazio e soprattutto di tempo dovrebbe cercare una sua maggiore capacita` di sintesi, tenendo criticamente conto di universalismi e relativismi. Tenuto conto dei contributi dei vari autori passati in rassegna, appare evidente che – nonostante le profonde differenze tra di loro – le analisi sulla natura dell’esperienza dello spazio e del tempo sembrano costantemente rimandare a uno schema bipolare, fondato su un ‘qui’ e un ‘la`’, su un ‘prima’ e un ‘dopo’, su un ‘avanti’ e un ‘dietro’: insomma, su coppie minime di elementi mentalmente contrapposti. A tale proposito, va notato che il richiamo al movimento mentale bipolare obbligatorio per il perfezionamento linguistico dell’esperienza dello spazio ricorrerebbe proprio negli studi fondanti della tradizione linguistica moderna, sebbene molti linguisti sembrano rifarsi, peraltro piuttosto improblematicamente, a una presunta fondazione kantiana della usuale concezione dello spazio, restandovi incagliati a causa della mancanza di strumenti linguisticamente autonomi. Se, al contrario, si volesse problematizzare la genesi della nozione di spazio in Kant (dalla quale emerse, e soltanto dopo decenni, l’esplicazione di quella di tempo), si profilerebbe forse un altro modo di intendere la questione del rapporto di Kant con il linguaggio. La questione della verbalizzazione dello spazio e del tempo e` insomma ancora poco o nulla esaminata dai filosofi, mentre i linguisti, quelli almeno qui passati in rassegna, senza forse sempre saperlo, offrono con le loro incursioni materia di problema ai filosofi, purche´ costoro se ne sappiano far carico senza calarsi nei panni dei maıˆtres a` penser. Dal suo canto, la proliferazione di tesi proposte dai linguisti offre sı` un fondamentale contributo, per quanto, appunto, di per

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se´ piuttosto intricato. Cio` non toglie che bene sarebbe innanzitutto prendere conoscenza di un simile contributo, e, in questo caso anche da parte linguistica, acquisire una qualche prospettiva che tenga conto della tradizione strettamente fisica (o, se si preferisce, scientifica) dello spazio e del tempo, cosa che, al momento (salvo le sempre rare eccezioni), pare che resti per lo piu` intentata.

Lo statuto del fonema di Federico Albano Leoni

Il fonema e` stato per buona parte del Novecento una categoria cardinale della linguistica e, per di piu`, una delle non moltissime sulle quali c’e` stato un accordo di fatto molto vasto, almeno in superficie. Da qualche anno, come vedremo, il quadro e` parzialmente cambiato. Qui presentero` qualche considerazione collegata alla domanda, non nuova (formulata, p. es. in Martinet: 1955, 25), se il fonema sia una categoria primitiva della lingua, e dunque un suo elemento costitutivo, o se sia invece una categoria che, per vari motivi, e` stata adottata, tra le altre possibili, come rappresentazione di un livello della lingua. Nel trattare del fonema prendero` in considerazione una sua caratteristica, persistente attraverso i cambiamenti dei modelli teorici, secondo la quale il fonema e` una unita` minima della langue sul piano del significante e non ha significato. Questa caratteristica ricorre costantemente, indipendentemente dal fatto che venga o no menzionata esplicitamente, che il fonema sia considerato un’entita` psichica, o un’entita` relazionale del sistema, o il rappresentante di una famiglia di speech sounds simili, o che venga chiamato fonema o unita` di seconda articolazione o segmento, o che esso venga analizzato come fascio di tratti distintivi, o come matrice binaria di tratti acustici e/o articolatori, e indipendentemente da come vengano risolti i problemi del rapporto tra forma e sostanza. Kemp (1994) e Fudge (1994) forniscono sintetiche ma efficaci storie rispettivamente del fonema (dai primordi di Kazan al generativismo) e della fonologia.

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In margine presentero` anche qualche considerazione sulla sua funzione distintiva (per lo piu` individuata attraverso la prova di commutazione) e sul rapporto tra dimensione segmentale e dimensione prosodica, dal quale potrebbe venire qualche spunto per una riflessione sulle unita` minime della lingua.

1. Brevissima storia del fonema Va osservato preliminarmente che la categoria del fonema non nasce gia` pronta e perfetta in un punto del tempo e dello spazio ma e` il risultato del progressivo agglomerarsi di componenti diverse intorno al concetto di pars minima. La sua storia puo` essere divisa, schematizzando molto, in quattro fasi: a) una preistoria, di lunghissima durata, nel corso della quale la cultura linguistica occidentale interiorizza, fin quasi ad assiomatizzarlo, il concetto di pars minima, identificato con la lettera, dalle origini greco-latine fino alla crisi di questa identificazione, verso la meta` dell’Ottocento; b) una fase dei primordi, molto piu` breve, che va dal periodo ‘psicologistico’ di fine Ottocento fino alle tesi di Praga; c) una fase strutturalista, da Praga fino al 1968 (ma che, nella sua vulgata e nel senso comune proseguira` anche oltre); d) la fase generativista, dal 1968 ad oggi. Di queste fasi non traccero` le complesse vicende, neppure in modo sommario (rinviando ancora a Kemp (1994), Fudge (1994) e, per gli anni fino al 1966, a Lepschy (1966) che rappresenta sempre la migliore presentazione della linguistica del primo Novecento), ma mi limitero` a tentare di metterne a fuoco i rispettivi punti salienti.

1.1. Il fonema come unita` minima Il concetto di unita` minima, come ipotesi di segmentazione del continuum fonico, accompagna la cultura occidentale fin dall’antichita`, ed e` il risultato della messa a punto e della diffusione di scritture alfabetiche. La produzione di testi scritti in forma alfabe-

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tica, cioe` come successione lineare di elementi grafici discreti e (dopo la loro canonizzazione) tendenzialmente invarianti, corrispondenti ciascuno a un segmento fonico, e` il frutto di un lavorı`o durato molti secoli e che ha visto il succedersi, l’alternarsi e l’intrecciarsi di scritture ideografiche, sillabografiche, miste, alfabetiche. Piu` in particolare, il concetto di unita` minima risale alle definizioni e alle riflessioni greche di e su γρμμα e στοιχεον (Laspia: 2001) e ai succedanei latini littera e elementum (Desbordes: 1990). Secondo la interpretatio latina che, nonostante la sua poverta` teorica, ha pesato molto piu` di quella greca nella storia europea, la pars minima della lingua articolata e` la littera1. Non si vuole evidentemente affermare che i Greci, i Latini (e i Moderni fino a meta` Ottocento) fossero cognitivamente incapaci di distinguere un evento grafico da un evento fonico, come alcuni sembrano paventare (Auroux: 1994, 32 nota 21). Si vuole solo ribadire che il γρμμα e la littera sono stati, in quanto visibili e persistenti, i sostegni sostanziali della concettualizzazione della unita` minima, alla quale hanno anche, per molti secoli, fornito il nome2. E` largamente noto che questa rappresentazione ha avuto conseguenze profonde sulla riflessione linguistica occidentale: Qualsiasi forma di riflessione sulla natura fonologica del linguaggio e dei suoi elementi (cui contribuiranno i grammatici di eta` ellenistica con la rappresentazione grafica degli accenti) supponeva la consuetudine con la scrittura alfabetica, il cui sistema era stato 1

L’aporia insita nel denominare un’unita` fonica con un termine che inequivocabilmente designa un’unita` grafica e` risolta, in ambito latino, elevando la littera a ente specificato da tre accidenti: il nomen, cioe` come e` chiamata (a, bi ecc.), la figura, cioe` come e` tracciata (, ecc.), la potestas, cioe` come e` pronunciata [a], [b] ecc.). 2 Ancora Grimm, Rask, Bopp sono in questa tradizione, che comincia a incrinarsi, timidamente, con Schleicher, grazie agli incipienti studi di fonetica, p. es. di von Raumer (Morpurgo Davies: 1996, 229-34, 406-08). A titolo di curiosita`, citiamo anche Chomsky (1957, 13): «[...] ogni lingua naturale ha un numero finito di fonemi (o di lettere nel suo alfabeto) e ogni frase e` rappresentabile come una sequenza finita di questi fonemi (o lettere) [...]», dove si osserva se non una identificazione, certo un accostamento basato su una equipollenza tra la classe delle lettere e quella dei fonemi.

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elaborato agli inizi del primo millennio e che era praticata nei maggiori dialetti greci. Nella coscienza linguistica degli antichi l’articolazione e` messa in relazione con la scrittura: articolata, afferma un grammatico latino citato da Desbordes (1986, p. 340), «e` la voce che si puo` scrivere». Sul modello della scrittura si costituisce la catena combinatoria in cui le lettere si uniscono a formare la sillaba, le sillabe a formare la parola, le parole a formare l’enunciato (Formigari: 2001, 43).

Leopardi, in pagine dello Zibaldone di grandissima suggestione, vedeva nell’alfabeto il principio fondante delle unita` foniche che, senza di esso, sarebbero inconoscibili: L’alfabeto e` la lingua col cui mezzo noi concepiamo e determiniamo presso noi medesimi l’idea di ciascuno di detti suoni. Quegli che non conosce l’alfabeto, parla, ma non ha veruna idea degli elementi che compongono le voci da lui profferite. Egli ha ben l’idea della favella, ma non ha per niun conto le idee degli elementi che la compongono [...] Ma per determinare gli elementi della voce umana articolata, l’unica lingua, come ho detto, e` l’alfabeto (Leopardi: 1998, 48-54).

Che il fonema sia il figlio legittimo della littera, limitatamente alla sua natura di pars minima, e che, senza la littera, forse non sarebbe nato, e` stato osservato piu` volte (Abercrombie: 1949; Lu¨dtke: 1969; Faber: 1992 lo ribadisce con argomenti di grande efficacia). Va pero` osservato che nonostante la apparente ovvieta` del concetto di pars minima, e nonostante il consenso universale che lo accompagna nel mondo occidentale, la sua natura assiomatica e` dimostrata dal silenzio, o quanto meno dalla reticenza, circa il problema centrale della insegmentabilita` fisica del continuum e dei suoi eventuali riflessi sulle teorie fonologiche. Certo, in conseguenza della impossibilita` di individuarne i confini, i segmenti risultano essere degli a priori.

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1.2. La fase psicologistica L’equazione lettera/suono, con i corollari della invarianza dell’unita` minima e della sua automatica individuabilita` segmentale, si incrinano verso la meta` dell’Ottocento con Schleicher (v. supra, nota 2), e si dissolvono alla fine dell’Ottocento (a parte qualche sopravvivenza sporadica), quando gli sviluppi della fonetica, articolatoria e acustica, mostrano in maniera inconfutabile le caratteristiche fondanti del significante fonico, cioe` la sua enorme variabilita` e la 3 mancanza di confini oggettivi tra i (presunti) segmenti . Questa crisi avvia la ricerca di una nuova reductio ad unum, nel momento in 4 cui la lettera si rivela inservibile . In Paul e Saussure, per fare due nomi emblematici, la consapevolezza di queste difficolta` e` molto presente. Sulla impossibilita` della segmentazione Paul scrive: Eine wirkliche Zerlegung des Wortes in seine Elemente ist nicht bloss sehr schwierig, sie ist geradezu unmo¨glich. [...] Aus dieser Kontinuita¨t des Wortes aber folgt, dass eine Vorstellung von den einzelnen Teilen nicht etwas von selbst Gegebenes sein kann, sondern erst die Frucht eines, wenn auch noch so primitiven, wissenschaftlichen Nachdenkens, wozu zuerst das praktische Bedu¨rfnis der Lautschrift gefu¨hrt hat [prosegue con il discorso della memorizzazione di impulsi neuromotori simili: la reductio ad unum e` dunque nel singolo parlante e non nella lingua in se´] (Paul: 1920, §§34-6).

Sullo smarrimento conseguente all’abbandono della rappresentazione alfabetica Saussure dice:

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Gli anni tra fine Ottocento e primo Novecento vedono un grande fervore di studi fonetici: ricordo, un po’ alla rinfusa, i nomi di Passy, Sweet, Vie¨tor, Sievers, Jespersen, l’esperienza del Maıˆtre Phone´tique, la nascita degli alfabeti fonetici. 4 Su questo rapporto di causa ed effetto alla base della nascita del fonema concordano personalita` scientifiche e culturali profondamente diverse, come il bloomfieldiano Twaddell (1935: 5-6) e Prieto (1969: 186-88). Questo punto di vista e` condiviso ancora oggi (Se´riot: 2002 [2003]).

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Quando mentalmente si sopprime la scrittura, chi e` privato di questa immagine sensibile rischia di non percepire piu` niente altro che una massa informe di cui non sa che fare. E` come se si levasse il salvagente a chi sta imparando a nuotare5 (Saussure: 1922, 44[55]).

E` qui che comincia, per usare le efficaci parole di Boe¨ (1997; 1997b), la storia di una continua rinegoziazione tra dati empirici e modelli teorici, tra sostanza e forma. Alla storia scritta da Boe¨ bisognerebbe forse aggiungere, o mettere in piu` forte evidenza, un punto di rilievo, peraltro ben noto, cioe` il tentativo di risolvere il problema teorico posto dall’emergere dei nuovi dati sperimentali con il ricorso a categorie psicologiche, che in quegli anni erano molto presenti nel dibattito linguistico (Graffi: 1991, 9-118; Formigari: 2001, 215-222; De Palo: 2005), senza tuttavia rinunciare esplicitamente alla visione della lingua come successione lineare di foni discreti, troppo profondamente radicata nella coscienza metalinguistica occidentale. Compaiono cosı` sulla scena il Lautbild, l’image acoustique, la memorizzazione di impulsi neuromotori (Bewegungserinnerung), la trasformazione (individuale) della percezione in rappresentazione. C’e` in quegli anni una linea, magari tortuosa e in parte discontinua, che unisce Steinthal, Paul, Baudouin, Kruszewski, Saussure (con 6 qualche eco fino a Sapir) . Cito un passo di Baudoin de Courtenay che mi sembra rappresentativo: L’aspetto fisico della lingua e` rappresentato in primo luogo dalla pronuncia dei suoni che vengono uditi. Tuttavia i veri elementi della lingua dotata di esistenza permanente, e cioe` della lingua indi-

5 Altrove peraltro (1922, 53-54) Saussure sembra ancora convinto della efficacia dell’alfabeto greco come strumento di segmentazione. 6 Sul termine fonema e la sua storia fra Baudoin de Courtenay, Saussure e Trubeckoj si vedano sempre le osservazioni di De Mauro (1968, nota 111) e di Lepschy (1966, 60-65). Sugli sviluppi russi del pensiero di Baudoin e sulla psychophone´tique si veda il recente lavoro di Simonato-Kokochkina (2003).

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viduale, possono essere solamente realta` psichiche; percio` nell’ambito della fonetica gli elementi non saranno gli effimeri lavori fisiologici, ma solo i loro riflessi psichici, cioe` le rappresentazioni che corrispondono loro [...]. Dal punto di vista psicologico invece del termine “suono”, che designa solo uno degli stadi della fuggevole, temporanea manifestazione di cio` che esiste solo sul piano psichico, introduciamo il termine fonema. Il fonema e` la riunione in un gruppo compatto di rappresentazioni delle rappresentazioni dei lavori eseguiti dagli organi fonatori e delle rappresentazioni dei riflessi acustici collegati con quei lavori, delle rappresentazioni ricondotte a unita` dalla rappresentazione della contemporaneita` dell’esecuzione di quei lavori e della percezione delle impressioni ricevute da quei riflessi acustici. (Baudoin de Courtenay: 1915, 168-69).

Il celebre passo del Cours che qui riporto rappresenta una sintesi del senso comune di quegli anni in merito all’immagine acustica. Il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica. Quest’ultima non e` il suono materiale, cosa puramente fisica, ma la traccia psichica di questo suono, la rappresentazione che ci viene data dalla testimonianza dei nostri sensi. (Saussure: 1922, 83-84)

Come si vede, queste categorie sono vaghe e mal definite, ma hanno il vantaggio di essere elastiche e, cosa non trascurabile, di non richiedere che si prenda posizione circa l’estensione dell’unita` minima (che puo` essere anche la sillaba) e circa le sue caratteri7 stiche, e di non essere subordinate al problema dei dettagli fisici .

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Una rassegna delle posizioni psicologistiche, malevola come c’e` da aspettarsi, ma utile, e` in Twaddell (1935); sempre utile e` anche la rassegna delle definizioni in Trubeckoj (1939, 49-55).

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1.3. Il periodo strutturalista La fase strutturalista nella storia del fonema si apre, come e` noto, con le Tesi di Praga del 1929 e trova la sua canonizzazione nei Grundzu¨ge di Trubeckoj, del 1939, e in una fortunata evoluzione binaristica con i Fundamentals of Language (Jakobson-Halle: 1956). Il processo di agglomerazione che ho evocato prima si manifesta qui in maniera abbastanza evidente. Alla pars minima, mai messa in discussione, arricchita della dimensione psicologica (che conoscera` poco dopo una lunga eclissi), si aggiungono ora il valore (contributo saussuriano) e la dimensione funzionale (contributo di Bu¨hler, ripreso da Trubeckoj e sviluppato poi da Jakobson): il Lautbild non e` piu` dunque un’immagine meramente psichica, ma e` un’immagine che svolge una funzione distintiva e che si colloca in una rete strutturata di relazioni con le altre unita`. Il passo che segue mi sembra contenere tutti gli elementi a cui ho accennato: Necessita` di distinguere il suono come fatto fisico oggettivo, come rappresentazione e come elemento del sistema funzionale. La registrazione, mediante strumenti, dei fattori acustico-moto`ri oggettivi delle immagini acustico-motorie soggettive e` preziosa in quanto indica le corrispondenze oggettive dei valori linguistici. Tuttavia, questi fatti oggettivi hanno solo un rapporto indiretto con la linguistica, e di conseguenza non si puo` identificarli con i valori linguistici. D’altra parte, le immagini acustico-motorie soggettive sono elementi di un sistema linguistico solo nella misura in cui esse assolvono, in tale sistema, una funzione differenziatrice di significati (significations). Il contenuto sensoriale di tali elementi fonologici e` meno essenziale delle loro relazioni reciproche all’interno del sistema (principio strutturale del sistema fonologico). Compiti fondamentali della fonologia sincronica. 1) Occorre caratterizzare il sistema fonologico, cioe` stabilire il repertorio delle immagini acustico-motorie piu` semplici e significative in una lingua data (fonemi), specificando obbligatoriamente le relazioni esistenti tra i suddetti fonemi, vale a dire tracciando lo schema di struttura della lingua considerata [...](Garroni-Pautasso: 1979, 25).

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Le tesi di Praga rappresentano la svolta che dominera` per i decenni centrali del Novecento8. Gli aspetti psicologici, ancora avvertibili in Trubeckoj (Friedrich: 2002 ha recentemente richiamato l’attenzione sulla forte presenza di Bu¨hler nel linguista russo), si attenuano fino a sparire anche nello strutturalismo europeo (in quello americano la posizione psicologista di Sapir e` del tutto isolata). Nel passo che segue, Martinet riepiloga succintamente i termini della questione e dichiara la sua scelta: La storia della fonologia indica, all’incirca, una progressiva disaffezione per l’ipotesi realistica degli inizi, e una crescente preferenza per la teoria «strumento di conoscenza»: si parte dalla «intenzione fonica» di Baudouin de Courtenay; si passa ben presto alla definizione del Projet [de terminologie phonologique standardise´e del Circolo di Praga], fondata in realta` su cio` che si chiamera` piu` tardi la commutazione; sotto la pressione delle critiche formalistiche s’intraprende la caccia allo psicologismo, poi al foneticismo, cioe` agli elementi piu` considerevoli del realismo iniziale, e si finisce per non vedere nel fonema nulla piu` che un concetto utilitaristico. [...] Rimane dunque preferibile sceverare criteri formali puramente linguistici come quello della  . Tale criterio e` facilmente maneggevole ed e` scelto in modo da fornire delle unita` la cui lista non differirebbe sensibilmente da quella delle «intenzioni foniche» del Baudouin, ma che sono indipendenti, in teoria, da ogni realta` psicologica o neuro-muscolare. [...] Esiste dunque in pratica una coincidenza tra il fonema operazionale della descrizione fonologica e una certa realta` psico-fisiologica. Ma questa realta` il descrittore, una volta che si sia rinchiuso nella sua teoria, puo` ignorarla. La validita` della sua descrizione non risulta dalla sua conformita` con la realta` umana, bensı` con la teoria. Orbene, tale teoria e` stabilita dal linguista, per cosı` dire, «in consulto» con la realta`, ma sovranamente e senza appello. (Martinet: 1955, 25-26)

Possiamo considerare che si sia a questo punto consolidato il 8

Non sollevero` qui la questione degli sviluppi glossematici, ne´ quella del complesso intreccio tra epistemologia e semiologia rappresentato da Prieto, ne´ le elaborazioni di Sˇaumjan, perche´ non incidono su quanto sto dicendo qui.

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fonema dello strutturalismo europeo, coincidente in parte con quello dello strutturalismo distribuzionalista americano9 (diverso nei presupposti teorici ma convergente nella superficie) che ancora oggi concorre a formare la base del senso comune (manuali, enciclopedie ecc.).

1.4. Il fonema dopo il 1968 La quarta fase inizia convenzionalmente con il 1968, anno di pubblicazione di Sound Pattern of English, di Chomsky e Halle. Questo libro e` considerato un punto di svolta negli studi di fonologia. Cio` non significa naturalmente che i risultati delle riflessioni precedenti in merito al fonema vengano improvvisamente azzerati, perche´ a un livello che potremmo chiamare istituzionale, rappresentato da manuali di linguistica generale o di fonologia, da enciclopedie e repertori di vario genere, concepiti e scritti ben oltre la soglia del 10 1968 , il fonema e` presentato in sostanza nella sua forma classica, con i caratteri che ho ricordato prima. Del resto, almeno per la questione che qui stiamo considerando, cioe` la questione delle partes minimae, la svolta di SPE e` solo apparente. Infatti, dopo una dichiarazione programmatica radicale: We will make no further mention of “phonemic analysis” or “phonemes” in this study (Chomsky-Halle: 1968, 11),

ne seguono altre che attenuano molto la portata della precedente,

9

Mi limito a riportare un passo di Bloomfield (1933:79): «Among the gross acoustic features of any utterance, then, certain ones are distinctive, recurring in recognizable and relatively constant shape in successive utterances. These distinctive features occur in lumps or bundles, each one of which we call a phoneme». Twaddell (1935), che prende le distanze tanto dalle posizioni psicologistiche, quanto da quelle realistiche, rimane sostanzialmente senza seguito. 10 Ricordo, a titolo di esempi rappresentativi, Akmajian et al. (1995, 85-112, 454), Beccaria (1996, s.v.), Crystal (1987, 160-168), De Mauro (1998, 29), Kenstowicz (1994, 66-69), Laver (1994, 41-42), Nespor (1993, 44), Simone (1998, 103).

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che alla fine appare piuttosto come una mera sostituzione di termini: We will refer to the consonants and vowels that constitute a formative as its “segments” (Chomsky-Halle: 1968, 28). The phonological components accepts as input a structurally analysed string. As output it provides the “phonetic representation” of this string. The phonetic representation consists of a sequence of “phonetic segments”, each of which is nothing other than a set of “phonetic features specification”. [...] In short, a phonetic representation is a “phonetic matrix” in which the columns correspond to segments and the rows to features and in which each entry states the extent to which a given segment possesses the corresponding features (Chomsky-Halle: 1968, 164).

In effetti, la portata innovativa di SPE fu piuttosto nel costringere a pensare le questioni fonologiche nell’ambito di domini piu` ampi del singolo fonema e in rapporto con gli aspetti prosodici. E` da qui che nasce un filone di ricerca in cui si manifesta con forza il disagio generato dall’assioma della linearita` e dalla separazione tra segmenti e prosodia (lo stesso termine soprasegmentale, del quale e` cosı` difficile liberarsi del tutto, ribadisce implicitamente il primato dei segmenti minimi). Mi sembra che nella grande varieta` e ricchezza di posizioni espresse dalle fonologie degli ultimi anni, due siano quelle che hanno affrontato efficacemente almeno il problema della linearita` e in parte della invarianza. La prima e` la cosiddetta fonologia articolatoria (BrowmanGoldstein: 1990) e la seconda e` la cosiddetta fonologia metrica autosegmentale (Goldsmith: 1990). Ambedue contengono elementi di sostanziale novita` ma anche elementi di continuita`. Riportero` per ciascuna un brano che mi pare significativo. In Browman-Goldstein, nel cui modello la dimensione articolatoria e` prevalente, rispetto a quella acustica e a quella uditiva, si legge tra l’altro:

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[...] we assume that continuous movement trajectories can be analysed into a set of discrete, concurrently active underlying gestures. And finally, the discrete, abstract, dynamically defined gestures are further organized into gestural scores in the linguistic gestual model [...]. Yet, because the gestures are also inherently spatiotemporal, it is possible for them to overlap in time. Such overlapping activation of several invariant gestures results in contestvarying articulatory trajectories, when the gestures involve the same articulators, and in varying acoustic effects even when different articulators are involved (Browman-Goldstein: 1990, 342).

L’elemento di relativa novita` e` qui il ricorso alla categoria del gesto articolatorio (dico relativa perche´ il ritorno alla prospettiva articolatoria, a scapito di quella acustica e uditiva, e` una caratteristica della fonologia generativa, rafforzata dal diffuso consenso di cui gode la cosiddetta Motor Theory) come unita` minima; piu` rilevante e` invece l’assunzione della sovrapponibilita` nello spazio e nel tempo dei gesti stessi, perche´ in questo modo si tenta di dare ragione degli aspetti coarticolatori del parlato, cioe` di una delle maggiori difficolta` delle fonologie basate sulla linearita` e sulla discretezza delle unita` (v. infra). In Goldsmith si legge invece: The term segment [che l’autore usa al posto del fonema] unfortunately has a good deal of history to it that we do not want to carry over in every instance. The term was introduced into phonology in an era when it was taken for granted that the goal of phonological analysis was the slicing up into successive segments of the speech event. The resulting segments were units in time with a finite and identifiable length [...] The term segment is still used in current phonological theory, but with a quite different meaning. The phonological analysis which we shall be engaged in is aimed primarily at providing a model of what the speaker or hearer knows. [...] What we shall find, as we proceed through this book, is that the image that we naively hold of such events being a sequence of simply ordered events is wrong. There is something right about it, of course, and alphabetic writing would not be as successful as it is if there were nothing right about it. But what we shall see is that the individual gestural components of articulation – the features of modern phonology – each have a quite separate live of their own,

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and an adequate theory of phonology will be one that recognizes this, and provides a way to understand the linkage between individual gestures of the tongue, lips, and so forth, and larger units of organization, such as the syllable. Thus we will use the term segment in the way that it has come to be thought of in more recent parlance: as a term for an indivisible unit, ultimately a mental unit of organization (Goldsmith: 1990, 9).

Gli elementi di novita` sono l’abbandono dell’assioma della linearita` a favore di una rappresentazione a piu` livelli collegati intrinsecamente (cosa di cruciale importanza per l’analisi delle lingue a toni, per le cui esigenze e` stato elaborato questo modello). Gli elementi di continuita` sono invece la persistenza del segmento, cioe` di una «indivisibile unit, ultimately a mental unit of organization», formula che peraltro ricorda abbastanza Baudoin de Courtenay, nella quale si ha la giustapposizione della pars minima e del 11 Lautbild .

1.5 Conclusione provvisoria A conclusione di questa rapida rassegna, sembra che si possa dire che, estintosi il vivace dibattito dei decenni centrali del Novecento, oggi il fonema sembra non tanto negato quanto sostanzialmente accantonato. Ne rimane pero`, come dato incontrastato, la sua caratteristica di pars minima, dalla quale era partita la sua vicenda.

11

Questa continuita` e` molto forte, nonostante tutto, e di questo avviso e` anche Kemp (1994, 3036): «[...] later models of phonology (see Lexical Phonology and Morphology) recognize the significance of a level of representation almost identical with the classic phonemic representation». In Kenstowicz (1994, 66-69) il fonema e` menzionato marginalmente, ma il segmento e` ben presente (passim). Nella cosiddetta Optimality Theory, (McCarthy 2002, passim) e` piu` frequente il ricorso al concetto di contrast, ma il segmento e` sempre presente. Anche quando si decreta ufficialmente la sua morte (Kaye: 1989,

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2. Le controevidenze In questo paragrafo passero` in rassegna alcuni argomenti che non sostengono la visione corrente del fonema. Mi sembra infatti che ci siano elementi che inducono a cercare di vedere meglio se tracce del fonema siano veramente anche nella natura delle cose.

2.1. Il segmento rappresentato dalla lettera e` un primitivo? Certo, ci si puo` domandare: l’alfabeto e` cosı` com’e` perche´ in un dato momento qualcuno ha intuito che la lingua e` una successione di fonemi, o la lingua e` rappresentata come una successione di fonemi perche´ cosı` vuole la rappresentazione alfabetica? Facendo ricorso alle note categorie della scoperta e della invenzione (p. es. Lo Piparo: 1998), si potrebbe dire che nella prima ipotesi l’alfabeto sarebbe stato una scoperta (e dunque il fonema sarebbe un’unita` reale della lingua), nella seconda una invenzione che avrebbe portato quindi a una economica ed efficiente rappresentazione della lingua come successione lineare di elementi discreti (e dunque il fonema sarebbe una proiezione della littera e dunque un’unita` della metalingua). Esempi di posizioni a favore della prima ipotesi (anche se vi ricorre il termine invenzione) sono nelle seguenti affermazioni, a partire da quella celebre di Meillet: Gli uomini che hanno inventato e perfezionato la scrittura sono stati dei grandi linguisti, e sono stati loro a creare la linguistica (Meillet in Auroux: 1998, 20); l’analisi fonetica si sviluppa iuxta propria principia, e da essa consegue la stessa invenzione della scrittura (Laspia: 2001, 202); [...] e` evidente, per esempio, che l’adattamento della scrittura consonantica fenicia per farne un alfabeto del greco presuppongono 149-165), di fatto lo si sostituisce con il segmento, definito come un «pronunceable feature packet».

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un’analisi fonologica e una coscienza della struttura della lingua greca estremamente fini (Auroux: 1998, 31).

Affermazioni di questo genere, al di la` della terminologia, non sarebbero pero` facilmente accolte dagli storici contemporanei della scrittura (Cardona: 1981; Coulmas: 2003; Harris: 1998), che, nonostante profonde divergenze, concordano sul fatto che la scrittura, qualsiasi scrittura, non nasce come rappresentazione del parlato, e tanto meno nasce da un’analisi fonetica12, ma nasce come strumento di comunicazione e di conservazione13. L’analisi fonetica, quando c’e`, arriva alla fine14. Infatti, in lavori recenti e` stato messo in discussione proprio il punto centrale della lettera alfabetica come riflesso dell’unita` minima fonologica: In this book, a great importance is attached to Gelb’s [il rappresentante di una linea evoluzionistica che si concluderebbe nella perfezione dell’alfabeto latino] observation that writing became a means of expressing language, but his contention that an inevitable teleological evolution was thus initiated is were we part company. Recording information by graphical means is a basic function of writing that is never narrowed down [ridursi] entirely to the representation of sounds. Writing can not and should not be reduced to speech. Saussure above-quoted observation that ‘language and writing are two distinct systems of signs’ must always be kept in mind, but the second part of his definition, that writing exists for 12

Personalmente non riterrei molto probabile lo sviluppo di una fonologia orale su base segmentale, come quella che suggerisce Auroux (1994, 33) a proposito dei miti quileute (dove, mi sembra, la base e` in realta` la sillaba piu` che il fonema). Infatti, il tratto saliente della scrittura e` che essa crea unita` che nel parlato non hanno nessuna autonomia e spesso (come nel caso delle occlusive) nessuna consistenza. 13 L’atteggiamento di Vachek (1977) e` invece congruente con posizioni di storici della scrittura, come Cohen (1958) e Gelb (1963), che vedono nella scrittura una rappresentazione del parlato e ne interpretano la lunga e complessa storia come un cammino verso la scrittura alfabetica vista come il risultato di una analisi fonetica. 14 Curiosamente, nelle discussioni sulla scrittura le finalita` pratiche, gli aspetti tecnici, le condizioni d’uso e i contesti sociali in cui questa si determina sono menzionati di sfuggita, se non del tutto ignorati. Tralascio qui il problema delle implicazioni culturali e cognitive della scrittura, aperto da Havelock, Ong, Olson ecc.

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the sole purpose of representing speech [Cours: 36 [45]), must be rejected, for writing follows its own logic which is not that of speech (Coulmas: 2003, 16)15.

Bisogna infine ricordare che la questione che stiamo discutendo, cioe` la natura linguistica o metalinguistica del fonema, ha trovato di recente una risposta intermedia attraverso l’utilizzazione del concetto di epilinguistico (Auroux: 1998,15-34 e passim, ripreso da Culioli), che rappresenterebbe una sorta di sapere primario sul linguaggio proprio di ogni parlante: «il sapere inconsapevole che ogni parlante ha della propria lingua». La scrittura alfabetica sarebbe dunque la materializzazione di un sapere epilinguistico che percepisce la scomponibilita` della lingua in unita` minime e le individua. Auroux (1998, 32-34) vi fa ricorso per risolvere un problema delicato: non si puo` presupporre che alla base della scrittura alfabetica vi sia la nozione di fonema perche´ questa e` stata messa a punto tra XIX e XX secolo: ` piu` ragionevole pensare che il preliminare della scrittura sia la E conoscenza epilinguistica del fonema [...] e che, al contrario, sia la scrittura ad essere largamente responsabile della costruzione metalinguistica del concetto di fonema (Auroux: 1998, 32).

Comunque, per quanto riguarda il problema che qui stiamo discutendo, cioe` la natura primitiva o non del fonema, non sembra che il concetto di epilinguistico possa fornire una risposta certa: non 15

Un ultima osservazione: molte culture hanno sviluppato descrizioni e analisi delle rispettive lingue, ma le categorizzazioni a cui arrivano sono diverse e in parte legate al sistema di rappresentazione grafica di cui si servono. Un caso molto evidente e` quello della riflessione linguistica cinese, rappresentata con un sistema logografico, che, per quanto riguarda il piano del significante individua naturalmente sillabe, rime, assonanze, omonimi, toni ma nulla che assomigli a una pars minima (Malmqvist: 1990). Sorvolo sulle linguistiche del Vicino e Medio Oriente (Reiner: 1990) perche´ la documentazione e` troppo frammentaria per poterne trarre conclusioni. Ma e` una sorprendente coincidenza che la riflessione indiana, condotta su una lingua rappresentata con una scrittura che e` sı` a base sillabica ma che grazie a un complesso sistema di diacritici e` in grado di rappresentare perfettamente i foni, ha portato alla individuazione della pars minima.

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solo, infatti, i suoi confini sono sfuggenti, (epilinguistico e metalinguistico sono in continuita`), ma, cio` che piu` pesa, la competenza epilinguistica e` una proprieta` interiore del parlante, e viene ad essere non molto diversa dalla competenza del parlante ideale, priva di spessori storici, sociali, culturali, individuali. Infine, prescindendo anche da queste considerazioni, gli esempi addotti da Auroux non dimostrano mai in modo cogente che questa forma di intuizione ingenua arrivi fino al fonema e tutti potrebbero essere letti come esempi di conoscenza sillabica. Non sembra quindi facilmente dimostrabile che la creazione di un alfabeto (la sua scoperta) sia da vedere come una sorta di materializzazione di una conoscenza epilinguistica della pars minima. Concludendo, il contributo che viene dagli storici e dai teorici della scrittura non sembra offrire conferme della natura primitiva del fonema.

2.2. Il problema della sostanza Le analisi fonetiche strumentali hanno mostrato da piu` di un secolo che a) la sequenza parlata e` estremamente variabile, caduca, insegmentabile; b) la lingua, attraverso pervasivi fenomeni fonetici (cancellazioni, sostituzioni, sonorizzazioni, desonorizzazioni, fricativizzazioni, centralizzazioni, approssimantizzazioni, assimilazioni di gruppi consonantici, monottongazioni, incertezza dei confini tra foni, tranne che nel caso del silenzio dell’occlusione e nell’esplosione, quando ci sono)16 non rispetta le regole dello spazio fonologico strutturale; c) la pertinenza di un tratto nella matrice di un fonema non e` un attributo permanente, almeno nella comunicazione parlata naturale. L’osservazione di questi fenomeni ha dato origine a riflessioni di grande rilievo teorico (p. es. in Perkell-Klatt: 1986) e ha portato 16

Per una esemplificazione italiana della indeterminatezza fonica del parlato rinvio a Albano Leoni-Clemente (2005).

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alla nascita di modelli complessi del funzionamento fonico della lingua (p. es. Lindblom: 1986; 1990), alla sempre maggiore rilevanza degli aspetti pragmatici nei modelli di riconoscimento del parlato (ormai sempre piu` legati a una prospettiva top-down e sempre meno a una prospettiva bottom-up). Infine, sembra ragionevole pensare che non esista una quantita` fissa di distintivita` necessaria per la comprensione, ma che questa quantita` sia variabile (Bonnot: 2001, 280-281) e possa arrivare anche a zero. In questo contesto acquista un rilievo notevole la questione della intrinseca insegmentabilita`. La impossibilita` a trovare confini certi tra i foni (e i fonemi) pone problemi teorici molto seri, sia per quanto riguarda la definizione di unita` che, si ritiene, sono caratterizzate anche da una estensione temporale, sia per quanto riguarda la distribuzione della informazione fonica nella stringa che non e` affatto lineare come dovrebbe. I motivi della insegmentabilita` sono molto semplici e non risie17 dono in limiti tecnici dell’analista , ma dipendono dal fatto che ogni prodotto vocale, diciamo il presunto segmento, e` il risultato della cooperazione in parallelo di diversi articolatori (come laringe, lingua, velo palatino, labbra) le cui rispettive attivita` non hanno la stessa estensione temporale. Mi riferisco evidentemente alla coarticolazione, fenomeno di portata vasta e pervasiva. Basterebbe pensare al ruolo delle transizioni vocaliche per il riconoscimento delle consonanti occlusive, o alla estensione della nasalita`, per cui un segmento viene riconosciuto grazie a proprieta` che risiedono in un altro segmento, o al fatto che un segmento viene ‘percepito’ anche quando e` fisicamente assente (esempi italiani in Albano LeoniMaturi: 1991). In realta` il problema teorico della segmentabilita` e` stato accantonato e non entra mai a far parte, in modo esplicito o implicito,

17

L’analista puo` al massimo, come suggerisce Salza (1991), proporre protocolli condivisi per le operazioni pratiche di segmentazione a fini applicativi.

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delle trattazioni fonologiche18. Le sottili indagini microscopiche sui fenomeni coarticolatori (p. es. Hawkins-Smith: 2001) mostrano invece con grande chiarezza che l’unita` informativa e` a volte piu` piccola del fonema e a volte piu` grande, estendendosi alla sillaba o al cluster19. Dalla materia fonica non sembra dunque venire alcun sostegno 20 alla natura primitiva del fonema come pars minima .

2.3. La psicolinguistica e il riconoscimento di unita` La questione che abbiamo discusso a proposito del rapporto tra scritture alfabetiche e fonemi e` molto presente nel dibattito psicolinguistico, nel quale si ricorda che tests di riconoscimento dei fonemi manifestano risultati significativamente differenti a seconda che i soggetti siano alfabetizzati o analfabeti o, quanto meno, a seconda del grado di padronanza della scrittura alfabetica, mentre 18

A mero titolo di esempio, tra i moltissimi possibili, ricordo che di recente Boe¨ (1997: 31-36) tratta ampiamente, e con ricca documentazione, della segmentation impossible, ma, curiosamente ne trae conseguenze solo sul piano del trattamento automatico della lingua e non su quello delle conseguenze teoriche sulle fonologie e sul piano dei rapporti forma/sostanza. 19 Questi aspetti hanno invece un certo rilievo per psicologi e patologi del linguaggio (p. es. Chevrie-Muller: 2001, 189-90: «Un pas fut franchi lorsque la proce´dure expe´rimentale fut e´tendue a` la discrimination et au rappel de l’ordre de pre´sentation de la se´quence pour deux syllabes de synthe`se /ba/ et /da/. Les enfants TSDL [Troubles Spe´cifiques du De´veloppement du Langage] e´taient de nouveaux moins performants que les enfants controˆles dans la discrimination et le rappel de l’ordre de pre´sentation [...] de ces deux syllabes [...]; mais la capacite´ de discrimination e´tait significativement ame´liore´e lorsque, dans ces syllabes de synthe`se, la zone de transition formantique, porteuse de l’information ‘‘critique’’ pour l’identification de la consonne, e´tait porte´e de 43 a` 95 ms». 20 Quanto vengo dicendo ha un altro risvolto non trascurabile: la segmentazione in fonemi ha come conseguenza la generazione di unita` assolutamente inconsistenti dal punto di vista articolatorio e percettivo (le consonanti occlusive), di unita` articolabili e percepibili ma non combinabili in maniera autonoma (le consonanti continue). Queste difficolta` si ricompongono naturalmente nell’ambito della sillaba (come del resto sapevano bene i grammatici latini che assumevano proprio la sillaba come principio di classificazione delle consonanti in mutae e semivocales.

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queste differenze si attenuano, fin quasi a sparire quando il segmento da riconoscere sia la sillaba (esperimenti sull’italiano in Albano Leoni-Cutugno, Laudanna: 1999; Manfrellotti: 2001). Sempre in ambito psicolinguistico, una scarsa salienza del segmento e` mostrata da esperimenti di shadowing (Albano Leoni-Cutugno: 2001) nei quali si ha un aumento della difficolta` a riconoscere parole quando i vincoli contestuali sono allentati o soppressi (le stesse parole che in contesto sono riconosciute). Questi e altri argomenti, sui quali non mi soffermo ulteriormente, non sembrano andare nella direzione del fonema come unita` minima della lingua e vanno invece nella direzione di quei modelli di riconoscimento del parlato, di tipo top down, nei quali il ruolo del fonema e` molto piu` marginale di quanto non sia in altri modelli (di tipo bottom up)21.

3. La funzione distintiva, le coppie minime e la prova di commutazione La difficolta` a trovare tracce linguistiche del fonema induce, come vedremo nel prossimo paragrafo, a cercare unita` foniche superiori (fino a ipotizzare una prospettiva olistica, fisiognomica nel riconoscimento delle parole), e di conseguenza a domandarsi se la prova di commutazione attraverso coppie minime, strumento principe delle fonologie, sia una procedura linguistica (che cioe` riflette i procedimenti conoscitivi dei parlanti) o, ancora una volta, un gioco metalinguistico. Infatti, non si puo` non osservare che il peso probatorio assegnato alla commutazione (it. para, pe´ra, pira, pe`ra, pura, 21

Uno spunto molto interessante in questa direzione, segnalato da Friedrich (2002, 28), viene gia` da Bu¨hler (1934, 271-290) che, in un capitolo dal titolo Das Klanggesicht und das phonematische Signalement der Wo¨rter, valorizza una prima forma di riconoscimento lessicale di tipo fisiognomico, olistico, gestaltico, sulla quale tuttavia si innesta il Signalement, cioe` l’opposizione distintiva (lo spunto e` fuggevolmente menzionato anche da Trubeckoj: 1939, 45-46). Anche qui rimane aperta la questione se il Signalement appartenga alla lingua o alla metalingua. Personalmente propenderei per la seconda ipotesi (un accenno in Albano Leoni: 1998, 14).

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e simili) e` la conseguenza di una visione per cui tutta l’informazione e` contenuta nel segnale, anzi in una porzione del segnale (peraltro di statuto molto incerto), e la lingua e` osservata in un gioco che si svolge nella condizione innaturale del confronto tra parole isolate22. Non appena il contesto viene ripristinato il contrasto si sdrammatizza e, tranne che in casi particolari (appunto metalinguistici: hai detto pe´ra o pe`ra?)23, svanisce come opposizione fonematica e si diluisce nella plausibilita` significativa dell’intera sequenza. E` certo comunque che tra il fonema e la coppia minima esiste una relazione di presupposizione reciproca per cui se uno dei due termini svanisce, svanisce anche l’altro.

4. Conclusioni Ma se la scrittura alfabetica non mostra incontrovertibilmente di essere il risultato di una analisi fonologica, se la competenza metalinguistica sembra essere determinata dall’alfabeto e quella epilinguistica e` piu` una suggestiva ipotesi che una competenza accertabile, se la materia fonica non rivela incontrovertibilmente tracce di segmentabilita` fonemica, se gli apparati produttivi e piu` ancora percettivi mostrano piuttosto coarticolazione e percezione integrata, se i meccanismi psicolinguistici della comprensione del parlato mostrano piuttosto il ruolo di unita` piu` ampie del fonema se 22

Il gioco e` antico («inter malum et maˆlum hoc interest [...]» ricordava l’anonimo maestro della Appendix Probi), ma non per questo piu` naturale: i grammatici antichi erano immersi, non meno dei linguisti moderni, nella prospettiva metalinguistica. Alla stessa categoria appartengono giochi scolastici come lat. mari meri miri mori muri [accidit]. 23 Sarebbe interessante indagare, a questo proposito, sulla reale incidenza e dinamica delle richieste di chiarimento, come quella esemplificata nel testo, nelle pratiche comunicative naturali e sull’eventuale loro distribuzione in funzione, ancora una volta, del livello di istruzione e dunque del grado di competenza metalinguistica esplicita dei parlanti. Voglio dire che non mi sentirei di escludere che la domanda nel testo se la possano fare due fonologi, mentre due persone normali si direbbero al massimo “Scusa, che hai detto?”, chiedendo cioe` una migliore definizione dell’icona fonica complessiva, piu` che l’enfatizzazione del tratto [+ high]. Ma tutto questo sarebbe naturalmente da verificare.

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non addirittura un riconoscimento fisiognomico delle parole, allora su quali basi solide riposa il fonema? Si torna dunque al giro vizioso di partenza: la sola base su cui riposa il fonema e` il nostro immaginario metalinguistico irreversibilmente determinato da quasi tremila anni di alfabeto. Ma molte delle difficolta` incontrate si appianano se si cambia il punto di vista e si assume come base la dimensione prosodica, peraltro ormai riconosciuta come parte integrante (e non extrafunzionale) della comunicazione parlata: non solo infatti essa e` portatrice di significato ed e` capace di distinguere significati24, ma ha anche una posizione di primato nella comunicazione parlata nel senso che mentre ogni manifestazione fonica articolata, anche la piu` neutra, ha obbligatoriamente un suo contorno prosodico, il contrario non e` vero perche´ sono possibili modulazioni prosodiche significative senza nessun contenuto segmentale. Ora, la prosodia e` caratterizzata dal fatto che le sue unita`, a tutti i livelli, sono costituite e delimitate da fattori naturali. Cosı` le unita` tonali, legate ai ritmi respiratori, sono delimitate da fenomeni di declinazione dei parametri della altezza, intensita` e velocita` e, non sempre, da una pausa (e al loro interno sono articolate in base alla dinamica degli stessi parametri); le sillabe, dominio proprio di tutti gli eventi prosodici, sono costituite e delimitate dall’alternarsi di picchi e valli di sonorita` intrinseca (a loro volta funzione del diverso conformarsi del diaframma) che ne garantiscono 25 la distinguibilita` e la percettibilita` . Il principio di base del continuum fonico, che ne garantisce producibilita` e percepibilita`, e` infatti quello del ritmo: alternanza fra arsi e tesi, tra lungo e breve, tra 24

Lo strumento della differenziazione e` diffuso nel contorno e solo raramente e` puntuale. E` certamente questo il motivo per cui e` ancora di fatto irrisolta la questione cruciale, che poneva gia` Lepschy (1966, 67-68), di come trattare in una fonologia le differenze di significato portate dalla prosodia. 25 Bu¨hler (1934, 259-71) scrive pagine ancora estremamente attuali a proposito del Pha¨nomen der Silbe, riprendendo gli studi di Sievers e di Stetson. Sintetiche ma sostanzialmente simili e basate sulle stesse fonti sono le formulazioni di Jakobson-Halle (1956, 94-96). Non sono stato purtroppo in grado di verificare in che consista il sillabema di Polivanov, menzionato da Jakobson-Halle (1956, 94).

Lo statuto del fonema

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picchi e avvallamenti di sonorita` intrinseca. Nessun segmento, nessun tratto sono definibili in se´ ma hanno senso solo in relazione al contesto. Questa prospettiva in un certo senso consente di reinterpretare, sul piano del significante, la affermazione saussuriana secondo la quale nella lingua non vi sono se non differenze. Ma queste differenze non sono statiche bensı` dinamiche perche´ l’analisi della prosodia mostra che tutti i valori che la determinano (altezza, intensita`, velocita`, sonorita` intrinseca) sono sempre relativi, interpretabili cioe` solo in rapporto ai valori delle porzioni di segnale adiacenti a quella osservata. La sillaba diventa cosı` un candidato autorevole al ruolo di pars minima del parlato perche´ e` il luogo in cui si risolvono tutte le difficolta` incontrate a proposito del fonema: la naturalezza, la percepibilita`, la sua accessibilita`26. Concludo osservando che e` ormai largamente riconosciuta la posizione sovraordinata della sillaba rispetto al segmento. Tutta la cosiddetta fonologia metrica e autosegmentale e` basata su questo presupposto. Forse la questione residua e` solo quella di abbandonare la visione della sillaba come agglomerato di fonemi (o come comprehensio litterarum, come dicevano gli antichi)27 e vedere invece in essa l’unita` naturale primitiva di base della comunicazione parlata.

26 Non sembra reale il problema, spesso sollevato, dell’eccessivo ingombro mnemonico causato dal fatto indubbio che il numero delle sillabe possibili e` certamente di gran lunga superiore a quello dei fonemi di qualsiasi lingua. Faber (1992, 113) ricorda che ad esempio il carico implicato da un inventario di mille unita` non sarebbe eccessivo. 27 Una delle conseguenze negative della scrittura alfabetica e` stata proprio quello di cancellare la sillaba come unita` e di rappresentarla come una aggregazione di lettere.

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Indice dei nomi*

Abercrombie, David, 308 Adorno, Francesco, 29, 29 Agostino di Ippona, Aurelio, 55, 56, 57, 58, 60, 61, 62, 63, 65, 66, 67, 68, 69, 70 Akmajian, Adrian, 314 Albano Leoni, Federico, 321, 322, 323, 324 Alberto Magno, 77, 79 Alfieri, Vittorio 84 Alici, Luigi, 67, 68 Alighieri, Dante, 71, 74, 75, 76, 77, 78, 78, 79, 79, 80, 81, 81, 85, 86, 87, 89 Allen, Colin, 73 Anassimandro, 39 Anolli, Luigi, 62, 64, 65 Apel, Karl Otto, 112 Arcuri, Luciano, 268 Aristotele, 34, 35, 39, 40, 41, 43, 44, 44,

52, 59, 71, 72, 73, 76, 82, 82, 83, 84, 86, 88, 89 Ashworth, Earline Jennifer, 165, 171 Auroux, Sylvain, 8, 47, 51, 139, 142, 143, 146, 151, 307, 319, 320, 321 Austin, John Langshaw, 215, 267, 268, 269, 269, 271, 275, 275, 276, 277, 278, 279, 282, 283, 284, 285, 287 Ax, Wolfram, 74 Badaloni, Nicola, 110 Bain, Alexander, 205 Bara, Bruno, 175 Barthes, Roland, 272, 272 Basile, Grazia, 8, 61 Battistini, Andrea, 95 Battlori, Miguel, 133 Baudoin de Courtenay, Jan, 310, 310, 311, 313, 317

* Sono stati registrati in questo Indice soltanto i Nomi propri di Autori e/o Curatori di testi (o comunque utilizzati per tali), e sono stati invece omessi quelli di personaggi storici, biblici, mitologici e letterari; sono stati del pari omessi i Nomi di stampatori ed editori, quelli adoperati in funzione metalinguistica e quelli menzionati in Bibliografia generale. Dei Nomi riportati, i numeri delle pagine in tondo rinviano all’occorrenza del Nome nel corpo del testo, mentre il corsivo rinvia all’occorrenza in nota. Nei casi di menzione di un Nome tanto con la grafia originaria quanto con quella italianizzata (Descartes e Cartesio), le pagine sono state riferite alla prima mentre la seconda e` stata del pari conservata con in parentesi la sola indicazione di quella originaria. La redazione di questo Indice e` stata curata dalle dr.sse Maria Clara Petrillo e Mara Springer, che qui vivamente si ringraziano.

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Indice dei nomi

Bazzanella, Carla, 269, Beauvais, Vincenzo di, 79 Beccaria, Gian Luigi, 314 Bekoff, Marc, 73 Bembo, Pietro, 84, 84 Benelli, Beatrice, 65 Beneke, Friedrich, 152 Benninger, Ce´line, 256 Benveniste, Emile, 251 Bergson, Henry, 206 Berkeley, George, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 173, 175 Bernhardi, August, 19 Berrettoni, Pierangiolo, 33, 40, 43 Bianchi, Claudia, 282, 286 Bianco, Franco, 4 Bloch, Oscar, 258 Bloomfield, Leonard, 282, 314 Bloor, David, 223 Boccadiferro, Ludovico, 81, 82 Bo¨e, Louis-Jean, 310, 322 Bohl, Samuel, 97, 99, 99, 102, 103, 104 Bolzano, Bernard, 201 Bonnot, Jean-Franc¸ois, 322 Bonomi, Andrea, 86, 89 Boone, Annie, 246, 246, 249 Bopp, Franz, 180, 181, 186, 194 289, 307 Bordoli, Roberto, 103 Boroditsky, Lera, 294, 295 Bouquet, Simon 179 Brentano, Franz, 200, 201, 202 Brisson, Luc, 44 Broadie, Alexander, 173 Broca, Paul, 205 Browman, Catherine P., 315, 316 Bruneau Charles, 258 Bruner, Jerome, 64, 68, 210 Brunetto Latini, 80 Bruni, Francesco, 82 Brunot, Ferdinand, 258 Bu¨hler, Karl, 199, 200, 218, 275, 312, 313, 324, 326 Burkert, Walter, 51 Burnett, James, Lord of Monboddo, 7 Caman˜o, Joaquı´n, 131, 132, 133, 134, 135,

136, 137, 138, 139, 143, 144, 145, 146, 147, 148 Canto, Monique, 40 Capizzi, Antonio, 4, 24 Cardona, Giorgio Raimondo, 319 Carlier, Anne, 256 Cartesio (vedi Descartes) Caselli, Maria Cristina, 58 Casertano, Giovanni, 33 Cassin, Barbara, 34, 35, 35, 36, 37, 37, 38, 38, 39, 40, 40, 41, 41, 42, 43, 43, 44, 45 Cassirer, Ernst, 61, 110 Castelli, Enrico, 5 Castelvetro, Ludovico, 86 Cavell, Stanley, 240, 243 Cayrou, Gaston, 258 Cerri, Giovanni, 24, 26, 27, 28, 44 Cervoni, Jean, 251 Charles, Se´bastien, 44 Chevrie-Muller, Claude, 323 Chomsky, Noam, 13, 14, 15, 16, 19, 307, 314, 315 Ciancaglini, Claudia, 50 Clarke, David, 163 Clemente, Giuliana, 321 Coffa, Alberto, 201, 209 Cohen, Marcel, 319 Colletti, Lucio, 4 Colli, Giorgio, 24 Conant, James, 223, 238, 238, 243 ´ tienne Bonnot, Abbe´ de, 17, Condillac, E 131, 132, 133, 134, 137, 139, 140, 141, 142, 143, 146, 147, 148, 154 Copernico, Niccolo`, 7 Corbinelli, Jacopo, 88 Cornillac, Guy, 245, 250, 251, 256 Corti, Maria, 76, 81 Corvino, Franco, 173 Cotugno, Francesco, 323 Coulmas, Florian, 319 Cresti, Emanuela, 268 Cristofolini, Paolo, 112 Croce, Benedetto, 4 Crystal, David, 314 Cubeddu, Italo, 4, 5, 6, 9 Culioli, Antoine, 320

Indice dei nomi D’Acquapendente, Fabrizio, 87 D’Agostini, Franca, 214, 220, Dahl, Øyvind, 301, 302 Damourette, Jacques, 259, 260, 261 Danesi, Marcel, 122 Darwin, Charles, 7 Dauzat, Albert, 258 Davidson, Donald, 282 De Gaetano, Armand, 86 Deleuze, Gilles, 38 De Libera, Alain, 168 De Mauro, Tullio, 59, 112, 127, 127, 179, 199, 204, 310, 314 De Palo, Marina, 205, 261, Graffi, 197, 198, 201, 310 Dennett, Daniel, 214, Derrida, Jacques, 38 Desbordes, Franc¸oise, 307, 308 Descartes, Rene´, 110, 113, 213, 220 Diamond, Dora, 224, 224, 225, 225 Diano, Carlo, 23 Di Cesare, Donatella, 8, 112, 199, 199, 200, 206 Diels, Hermann, 24 Di Francesco, Michele, 202, 205, 212, 215 Diogene Laerzio, 59 Dixsaut, Monique, 45, 46 Ducrot, Oswald, 282 Dummett, Michael, 196, 201, 202, 204, 207, 211, 212, 217, 218, 261, 267 Ebbinghaus, Hermann, 151 Eco, Umberto, 112, 156, 282 Egidi, Rosaria, 4, 5 Elffers, Els, 150, 151, 157 Empedocle, 28, 28 Engel, Pascal, 151, 214, 217, 261 Engler, Rudolf, 179, 182, 184, 185 Engwer, Theodor, 258 Epicuro, 59, Eraclito, 23, 24, 26, 28, 29, 30, 31, 39 Faber, Alice, 308, 327 Fauconnier, Gilles, 9 Ferretti, Francesco, 210 Flores d’Arcais, Giovanbattista, 268

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Flournoy, The´odore, 206, Fodor, Jerry, 172 Fogel, Martin, 106, 106 Forgione, Luca, 210 Formigari, Lia, 3, 4, 5, 18, 47, 58, 59, 69, 70, 89, 89, 91, 93, 109, 110, 111, 112, 118, 137, 140, 142, 143, 149, 151, 155, 160, 164, 165, 166, 167, 179, 195, 198, 200, 205, 218, 258, 308 Fortuna, Sara, 112, 127, 129, 129 Foucault, Michael, 220 Frajese, Attilio, 51, 52 Frascolla, Pasquale, 217 Frege, Gottlob, 53, 151, 196, 197, 201, 201, 202, 207, 207, 208, 209, 210, 210, 211, 212, 213, 214, 215, 216, 217, 218, 220, 221, 261, 262, 262, 264, 264, 265, 267, 278, 279 Friedrich, Jeannette, 313, 324 Fries, Jakob F., 152 Frixione, Marcello, 220 Fua`, Giancarlo, 4, 5 Fucile, Maria, 207 Fudge, Erik, 305, 306 Gabelentz, Georg von der, 151 Gaiffe, Felix, 258 Galichet, Georges, 258 Gambarara, Daniele, 9 Garroni, Emilio, 312, Geeraerts, Dirk, 196, Gelb, Ignace, 53, 319, 319 Gelli, Giovan Battista, 86, 86 Gensini, Stefano, 8, 34, 72, 76, 92, 101, 102, 103, 103, 111, 145 Georgin, Rene´, 258 Germani, Gloria, 25 Gessa Kurotschka, Vanna, 127 Ghisalberti, Alessandro, 168 Giannantoni, Gabriele, 4 Giaquinto, Alberto, 4 Gleitman, Lila, 296 Godel, Robert, 179, 184, 184, 185 Goldsmith, John, 315, 316, 317 Goldstein, Louis, 315, 316, Gorgia, 36, 37, 40, 44, 45, 46, 46

380

Indice dei nomi

Gougenheim, Georges, 258 Gozzano, Simone, 213, 215 Graff, Harvey, 280 Graffi, Giorgio, 150, 151, 197, 310 Grazzani Gavazzi, Ilaria, 68 Greimas, Algirdas Julien, 289 Grevisse, Maurice, 258 Grimm, Jakob, 307 Grote, George, 33 Guggenbu¨hl-Craig, Adolf, 126 Guillaume, Gustave, 245, 246, 248, 248, 249, 250, 251, 251, 253, 253, 254, 254, 255, 255, 257, 258, 259, 260, 261, 263, 265, 290, 292

Hume, David, 166, 169, 170, 171, 172, 173, 175, 205 Husserl, Edmund, 201, 201 198, 201, Ibarretxe-Antun˜ano, Iraide, 292

247, 252, 256, 263,

247, 252, 256, 264,

Habermas, Ju¨rgen, 287 Hacking, Ian, 219 Haldane, John, 171, 172 Halle, Morris, 312, 314, 315, 326 Harnisch, Robert M., 282 Harris, James, 154, 176 Harris, Roy, 319 Haspelmath, Martin, 298, 300 Havelock, Eric, 319 Havet, Louis, 247, 250 Hawking, Stephen, 298, 299, 322 Hawkins, Sara, 322 Hegel, Georg Wilhelm Friederich, 5, 33, 197, 200, 220 Heidegger, Martin, 35, 38, 39, 44 Heinekamp, Albert, 92 Herbart, Johann Friedrich, 197, 198, Herbert of Cherbury, 13 Herder, Johann Gottfried, 7, 18, 19, 20, 149, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 161, 162 Hermant, Abel, 258 Herva´ s y Panduro, Lorenzo, 132, 133, 145, 147 Hirsch-Pasek, Kathy, 64 Hirtle, Walter, 246 Hjelmslev, Louis, 60, 199, 276 Huffman, Carl, 51 Humboldt, Wilhelm von, 131, 133, 148, 197, 198, 199, 199, 200, 200

Jakobson, Roman, 275, 278, 312, 326 Ja¨ger, Ludwig, 204, 205 Janet, Pierre, 206 Janik, Dieter, 134 Jespersen, Otto, 309 Johnson, Mark, 93, 101 Joly, Andre´, 246, 249, 251, 259 Jungius, Joachim, 106 Kant, Immanuel, 5, 18, 19, 20, 200, 209, 210, 290, 303 Kataoka, Kuniyoshi, 296, 300 Kaye, Kenneth, 55, 317 Kemp, John, 305, 306, 317 Kenstowicz, Michael, 314, 317 Kerferd, George, 35, 39 Klatt, Dennis, 321 Klein, Harriet, 301 Koerbagh, Adrian, 103, 104 Koerbagh, Johannes, 104 Kranz, Walther, 24 Kripke, Saul, 264 Kruszewski, Mikolaj, 310 Lacan, Jacques, 38 Lacorte, Lino, 4, 5, 6 Lafrance, Yvon, 44 Lagae, Veronique, 256 Lakoff, George, 93, 101, 123, 299 Lami, Alessandro, 24 Lamy, Bernard, 16 Land, Stephen K., 167 Langacker, Ronald W., 9, 15 Lanusse, Maxim, 258 Laspia, Patrizia, 307, 318 Laudanna, Alessandro, 323 Laurence, Jean-Marie, 258 Laurent, Pierre, 258 Laver, John, 314 Lear, Jonathan, 223, 225

Indice dei nomi Lecina, Mariano, 132 Leibniz, Gottfried Wilhelm, 91, 92, 93, 93, 94, 95, 95, 96, 97, 98, 99, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 104, 105, 105, 106, 106, 107 Leonardo da Vinci, 23 Leopardi, Giacomo, 308 Lepschy, Giulio, 306, 310, 326 Lerch, Eugen, 258 Le Roy, Georges, 133 Lessing, Gotthold Ephraim, 129 Levinson, Stephen, 295, 296, 298, 302 Li, Peggy, 296 Likert, Rensis, 268 Lindblom, Bjo¨rn, 321 Locke, John, 6, 91, 92, 98, 105, 107, 139, 160, 165, 169, 171 Lods, Jeanne, 258 Lo Piparo, Franco, 7, 58, 60, 74, 81, 318 Lo Verso, Pippo, 5 Lowe, Ronald, 246, 247 Lucidi, Mario, 4 Luckhardt, Grant, 224, 228, 228, 229, 233 Lucrezio, Tito Caro, 59 Lu¨dtke, Helmut, 308 Lycan, William, 269 Macdonald, Margaret, 224 Mainardi, Danilo, 72 Maine de Biran, Franc¸ois-Pierre-Gonthier, 7 Maione, Maurizio, 164, 169, 171, 173 Mair, John, 172 Malmqvist, Go¨ran, 320 Manco, Alberto, 245, 247 Manfrellotti, Olga, 323 Marazzini, Claudio, 89 Marconi, Diego, 56, 217, 221, 246 Marigo, Aristide, 75, 78 Marrone, Caterina, 8 Martinet, Andre´, 305, 313 Martone, Arturo, 207, 251 Marty, Anton, 201 Maturana, Humberto, 246 Maturi, Pietro, 322, Maupertius (vedi Moreau)

381

Maurras, Charles, 259 Mazza, Mario, 7 Mazzara, Giuseppe, 37, 38, 38 Mazzotta, Giuseppe, 126 McCarthy, John, 317 Mc Donough, Laraine, 295 Meillet, Antoine, 183, 183, 219, 318 Mengaldo, Pier Vincenzo, 75, 79 Merker, Nicolao, 7 Merleau-Ponty, Maurice, 220 Meyer, Lodewijk, 103, 103, 104 Michaut, Gustave, 258 Michmick Golinkoff, Roberta, 64 Mignucci, Mario, 52 Mill, John Stuart, 197, 205, 207 Miracle, Andrew Jr., 301 Moerbeke, Gugliemo di, 77 Monboddo (vedi Burnett) Montaigne, Michel de, 86 Montoya, Antonio Ruı´z, 143 Moore, Adrian, 223, 225, Moore, George, 226, 226, 227, 227, 229, 230, 236, 237, 238, 239, 240, 240, 241, 242, 243, 244 Moreau, Pierre Louis, de Maupertuis, 7 Morpurgo Davies, Anna, 307 Moya, Juan de Dios Yapita, 301 Nannini, Sandro, 246 Nardi, Bruno, 78, 82 Neri, Demetrio, 7 Nerlich, Brigitte, 163 Nespor, Marina, 314 Newton, Isaac, 7 Nietzsche, Friedrich, 33 Nizolio, Mario, 93, 99 Normore, Calvin, 168 Novalis (Friedrich von Hardenberg), 36 Nuessel, Frank, 123, 123 Nyrop, Kristoffer, 258 Ockham, William of, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 171, 172, 173 Olevano, Alessandra, 132, 145 Oliverio, Alberto, 206 Olson, David, 319

382

Indice dei nomi

Omero, 49, 71, 117 Ong, Walter, 287, 319 Pagliaro, Antonino, 4, 6, 8, 9 Paivio, Allan, 210 Palmer, John, 44 Pannain, Rossella, 147 Parisi, Domenico, 5, 257 Parmenide, 23, 24, 25, 27, 28, 29, 30, 31, 36, 36, 39, 44, 44 Parret, Herman, 199 Passy, Paul, 309 Paternoster, Alfredo, 246 Paul, Hermann, 151, 198, 309, 310 Pautasso, Sergio, 312 Paw, Jan Cornelis de, 132 Peck, Arthur Leslie, 71 Penco, Carlo, 201, 208, 211, 212, 213, 216, 217, 218 Penrose, Roger, 298, 299 Perconti, Pietro, 209 Perkell, Joseph S., 321 Petrilli, Raffaella, 8, 50, 52, 52 Piaget, Jean, 210 Picardi, Eva, 205, 207, 213, 214, 216 Pichon, Edouard, 259, 260, 261 Piemontese, Manuela, 8 Pindaro, 30 Pinker, Steven, 13 Piro, Francesco, 94, 95, 106 Pirotti, Umberto, 82 Pitagora, 30, 212, 213 Platner, Ernst, 153 Platone, 34, 35, 35, 39, 41, 42, 43, 44, 44, 48, 49, 51, 52, 52, 91 Plutarco, 48, 49, 85 Poli, Diego, 132 Polivanov, Evgenij Dmitrievic, 326 Pomponazzi, Pietro, 84 Prampolini, Massimo, 8 Prieto, Louis, 221, 276, 276, 281, 287, 309, 313 Protagora, 39, 43 Pugliese Carratelli, Giovanni, 25 Quintiliano, Marco Fabio, 49

Radden, Gu¨nter, 299, 300, 302 Radouant, Rene´, 258 Rask, Rasmus Kristian, 307 Raumer, Rudolf von, 307 Regula, Max, 258 Reid, Thomas, 163, 164, 166, 169, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 177 Reiner, Erica, 320 Ribot, Theodule, 206 Richardson, Daniel, 300 Riedlinger, Albert, 183, 186, 192 Robins, Robert, 155 Rousseau, Jean-Jacques, 107 Rutherford, Daniel, 92 Sabazio, Leonardo, 78 Salza, Pier Luigi, 322 Samuels, Richard, 82 Sanchez, Francisco, 106, 106 Sapir, Edward, 310, 313 Saumjan, Sebastian Konstantinovic, 313 Saussure, Ferdinand de, 38, 53, 179, 179, 180, 181, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 188, 192, 193, 194 196, 197, 199, 199, 200, 202, 203, 204, 205, 206, 206, 207, 208, 210, 217, 218, 219, 220, 221, 276, 282, 309, 310, 310, 311 Sbisa`, Marina, 267, 282 Scaligero, Giulio Casare, 93, 93, 106, 106 Scaratti, Giuseppe, 68 Scarcia, Bianca Maria, 7 Schleicher, August, 184, 186, 186, 187, 187, 307, 309 Schmit-Regener, Irena, 151 Schricke, Paul, 258 Schoppe, Kaspar, 106 Schulenburg, Sigrid von der, 92 Scioppio (vedi Schoppe) Searle, John, 276, 284, 285, 286, 286 Se´riot, Patrick, 309 Sesto Empirico, 45, 50, 77 Siciliano, Enzo, 5 Sievers, Eduard, 309, 326 Silvestri, Domenico, 24 Simon, Richard, 106

Indice dei nomi Simonato-Kokochkina, Elena, 310 Simone, Raffaele, 69, 157, 314 Smith, Rachel, 322 Socrate, 39 Sorella, Antonio, 82, 83, 84, 85, 87, 88, 89 Sperone, Speroni, 84, 84 Spinoza, Baruch, 102, 103, 103, 106 Spirito, Ugo, 4, 5 Stammerjohann, Harro, 8 Steinthal, Heymann, 151,155, 197, 198, 201 Stoppe, Kasher, 106 Storni, Ugo, 132 Strawson, Peter, 210, 284 Stumpf, Carl, 201 Suarez, Francisco, 97 Svorou, Staoria, 300 Sweet, Henry, 309 Taine, Hippolyte Adolphe, 206 Talmy, Leonard, 9, 293, 294 Tani, Ilaria, 18, 152, 155 Tavoni, Mirko, 75, 75 Teocrito, 87 Thornton, Anna, 8 Todisco, Orlando, 168, 173 Tommaso d’Aquino, 77, 78, 171, 172 Tonelli, Angelo, 30 Totaro, Pina, 114 Trabant, Ju¨rgen, 6, 110, 110, 112, 113, 118, 123, 199, 199 Tricot, Jacques, 71 Trissino, Gian Giorgio, 83 Trubeckoj, Nicolai, 310, 311, 312, 313, 324 Turgot, Anne-Robert-Jacques, 7 Twaddell, Freeman, 309, 311, 314 Tweedale, Martin, 168

383

Valentini, Francesco, 4, 5 Valin, Roch, 246 Valla, Lorenzo, 93 Varela, Francisco, 246 Varchi, Benedetto, 71, 74, 81, 82, 82, 83, 83, 84, 84, 85, 85, 86, 86, 87, 87, 88, 88, 89 Vecchio, Sebastiano, 60, 65, 68 Vedovelli, Massimo, 8 Vegetti, Mario, 71 Velotti, Stefano, 114, 119 Venn, John, 105 Venturino, Riccardo, 5 Vico, Giambattista, 105, 107, 109, 110, 110, 111, 112, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 128, 129, 129, 132 Vie¨tor, Wilhelm, 309 Violi, Patrizia, 219, 221 Voghera, Miriam, 8 Voltolini, Alberto, 55 Vonk, Frank, 151 Vossius, Gerhard, 95, 106, 106 Warnock, Geoffrey, 276, 279 Wegener, Philipp, 151 Wernicke, Carl, 205 Whitney, William, 182, 187, 188, 191 Widmaier, Rita, 106 Williams, Bernard, 223, 225, 235, 235 Wittgenstein, Ludwig, 52, 55, 57, 58, 63, 68, 128, 129, 129, 130, 216, 223, 224, 224, 225, 226, 227, 228, 229, 230, 231, 232, 233, 234, 235, 236, 237, 238, 239, 240, 240, 241, 242, 243, 244, 251, 276, 276, 279, 287 Wundt, Max, 151, 153, 198

Uriarte, Jose´, 132

Yu, Ning, 300 Yvon, Henri, 258

Vaccaro, Domenico, 112 Vachek, Joseph, 319

Zilli, Marisa, 5 Zlatev, Jordan, 293, 294