Breve storia delle teorie della materia 8843026992, 9788843026999

Oggi nessuno nega la realtà degli atomi. All'inizio del Novecento, tuttavia, la loro esistenza non era affatto scon

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Italian Pages 128 [130] Year 2003

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Breve storia delle teorie della materia
 8843026992, 9788843026999

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LE BUSSOLE Chiare. essenziali, accurate: le guide di Carocci per orientarsi nei principali temi della cultura contemporanea

STORIA DELLE IDEE FILOSOFICHE E SCIENTIFICHE BREVE STORIA DELLE TEORIE DELLA MATERIA Oggi nessuno nega la realtà degli atomi. All'inizio del Novecento, tuttavia, la loro esistenza non era affatto scontata e molti scienziati li consideravano un'inutile astrazione. Fin dai tempi antichi tutte le civiltà hanno cercato di spiegare la costituzione della materia, elaborando teorie in competizione tra loro, talvolta inconciliabili, spesso legate a questioni di natura teologica e filosofica, oltre che scientifica. Il libro ricostruisce la storia delle teorie della materia, nella quale oggetti considerati reali a un certo punto si sono rivelati inesistenti e viceversa. Marco Ciardi è ricercatore in Storia della scienza presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Bologna.

È autore di L 'atomo fantasma

(Firenze 1995) e La fine dei privilegi (Firenze 1999). Per i tipi della Carocci ha pubblicato Atlantide. Storia di una controversia scientifica da Colombo a Darwin

ISBN

(2002).

88-430-2699-2

1 111111 11111 11 1 111 11 1111 1

9 788843 026999

LE BUSSOLE/ 100 STORIA DELLE l DEE Fl LOSOFICHE E SCI ENTIFICHE

la ©

edizione, luglio 2003 copyright 2003 by Carocci ed ito re S.p.A., Roma

F i n ito d i sta m p a re nel luglio 2003 per i tipi delle Arti G rafiche Ed ito riali S rl, U rb i n o ISBN

88-430-2699-2

R i p roduzione vietata a i sensi d i legge (a rt. 171 della legge 22 a p rile 1941, n. 633) Senza regola re a utorizzazione, è vietato riprodu rre q uesto volu me a nche parzialme nte e con q u a lsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso i nterno o d idattico. l letto ri che desiderano i nfo rmazio n i sui volu m i pubblicati da lla casa editrice posso no rivolgersi d i retta mente a:

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Visitateci sul nostro sito l nternet: http://www.carocci.it

Marco Ciardi

Breve storia deLLe teorie deLLa materia

Carocci editore

Indice Introduzione

7

1.

Dall'anti chità all'età moderna

1.1.

1.4.

Gli elementi 11 Numeri e punti 14 L'atomismo 16 L'alchimia 18

2.

La rivoluzione scientifica

2.1.

2.4.

L'universo e La materia 22 Filosofia chimica e filosofia naturale Storia naturale e flogisto 36 Fluidi imponderabili e affinità 39

3.

La rivoluzione chimica

3.1.

3.4.

La scoperta del terzo stato deLLa materia La chimica secondo Lavoisier 44 Un nuovo concetto di elemento 48 La fisica contro La chimica 51

4.

Atomi, forze e campi

4.1.

4.4.

Le combinazioni degli atomi 55 L'unità deLLe forze naturali 59 La fisica neLL'età del romanticismo e del positivismo La chimica, gli atomi, Le molecole 77

s.

La struttura dell'atomo

5.1.

Boltzmann, Mach e L'energetica 84 La scoperta deLL'elettrone e La radioattività

1.2. 1.3.

2.2. 2.3.

3.2. 3.3.

4.2. 4.3.

5.2.

11

22 32

42 42

55

67

84 86 5

5.3.

E i nste i n e L'es iste nza degli ato m i

5.4.

l quanti

6.

Meccanica quantistica, biologia moleco lare, massa ed energia 97

6.1.

L'i nte rpretazione di Cope naghen

6.2.

Da LLa c h i m ica qua ntistica aLLa scoperta del DNA

6.3.

Relatività e ne utro n i

6.4.

La bomba atomica

Bibliografia

104

118

Indice dei nomi

97

109

Conclu sioni. Ai confini deLLa materia?

6

89

92

124

114

101

Introduzione La storia della scienza è una disciplina presente oggi in quasi tutte le università italiane e fa parte di numerosi percorsi di laurea. Anche nel­ la scuola secondaria la richiesta di avviare gli studenti a una conoscen­ za della storia della scienza viene formulata con sempre maggiore fre­ quenza attraverso l'attivazione di progetti da realizzarsi parallelamente all'attività scolastica ordinaria. La divulgazione scientifica, inoltre, di­ mostra ormai una costante attenzione alle problematiche storiche rela­ tive allo sviluppo della scienza. Naturale conseguenza di questo cre­ scente interesse è la necessità di poter disporre di strumenti rigorosi, ma agili e di facile consultazione, che possano mettere in grado un' am­ pia gamma di lettori di avvicinarsi a questa affascinante disciplina. Scrivere un'opera di sintesi, ovviamente, comporta sempre grandi ri­ schi: la parzialità delle scelte, l'artificiosità delle generalizzazioni, l'i­ nadeguatezza della ricostruzione di fronte a una sempre (giustamen­ te) crescente specializzazione della disciplina. Si dovrebbe allora per questo motivo rinunciare all'impresa e continuare a produrre soltan­ to contributi di carattere settoriale e specialistico ? La risposta, evi­ dentemente, non può che essere negativa. Del resto, può benissimo esistere un momento per il contributo particolare (i cui vantaggi, na­ turalmente, sono comprensibili a tutti) e un altro per quello di carat­ tere generale. Le due esigenze non sono affatto incompatibili, soprat­ tutto se qualcosa della propria ricerca specialistica riesce a presentarsi (è la nostra speranza) come un elemento costitutivo del quadro d'in­ sieme che si va a realizzare. Le opere di sintesi, d'altra parte, conti­ nuano a mantenere inalterata la loro validità proprio perché consen­ tono di rimediare agli eccessi dello specialismo, il cui pericolo princi­ pale «è quello della perdita del senso dei problemi generali e della conseguente accettazione di immagini generali consolidate che ven­ gono sempre integrate da nuovi dettagli, ma mai rimesse seriamente in discussione» (Rossi, 1999, p. 133). Naturalmente una narrazione che affronti in breve un arco di tempo che va dall'atomismo antico alla meccanica quantistica rischia in qualche modo di essere caratterizzata dagli stessi difetti di un qualsia­ si manuale scientifico. Qualche anno fa (Avogadro, ed. 1995) abbia7

mo cercato di enunciare, sulla base di importanti e autorevoli studi, quali possono essere i pericoli insiti in una esposizione manualistica della scienza. Riteniamo che quelle indicazioni possano essere di vali­ do aiuto anche in questa occasione e invitiamo i lettori a tenerle ben presenti, al fine di valutare nella giusta misura i contenuti della breve storia che ci accingiamo a esporre: • il tentativo di individuare, partendo dall'analisi delle verità oggi accettate, dove, nel passato, quelle verità sono emerse, dimenticando così che, in un determinato momento storico, scienziati e studiosi potevano avere obiettivi o scopi diversi da quelli contemporanei; • la creazione dell'illusione che esista una via privilegiata e obbliga­ ta verso la verità, indipendente dalle scelte e dai processi creativi degli scienziati; • la tendenza a offrire un'immagine della scienza "pura", estranea a qualsiasi tipo di condizionamento esterno, teologico, politico, filo­ sofico, sociale; • la scarsa considerazione nei confronti delle teorie che, in un de­ terminato e complesso contesto storico, hanno avuto un identico (se non maggiore) valore rispetto a quelle in seguito risultate vincenti; • la dimenticanza dell'esistenza di tutto ciò che ha fatto parte dello sviluppo del sapere scientifico e che oggi viene generalmente classifi­ cato nella categoria "pseudoscienza". Alcuni tra i fondatori della storia della scienza come disciplina pro­ fessionale hanno precisato come un'opera di carattere generale non possa limitarsi a una discussione interna degli sviluppi tecnici di una particolare problematica, ma debba allargare il suo raggio d'azione verso situazioni e contesti assai più ampi. «Le storie particolari - ha scritto George Sarton - sono necessariamente più tecniche, mentre nella storia generale trovano molto più spazio gli elementi sociali ed umanistici» (cit. in Baldini, 1986, p. 82 ). La storia della scienza è inti­ mamente collegata alla storia della filosofia e delle idee, alla storia delle immagini del mondo e della natura, alla storia materiale e delle istituzioni. Difficile stabilire dove inizi una e dove finiscano le altre. Commetteremmo un grave errore se guardassimo allo sviluppo delle teorie della materia soltanto come a un lungo, ma inesorabile, cam­ mino verso le acquisizioni della scienza contemporanea. Gli oggetti della scienza non sono dati a priori: possono essere creati o distrutti, oppure trasformarsi nel corso del tempo. Alcuni di questi oggetti 8

(come, ad esempio, il flogisto) oggi non esistono più; eppure, nel passato, hanno costituito entità reali, del tutto logiche e razionali. Al contrario, oggetti la cui esistenza è per noi scontata (per esempio gli atomi) sono stati considerati per moltissimo tempo alla stregua di un prodotto, spesso per niente brillante, della fantasia umana. Compito degli storici, dunque, è quello «di mostrare che ciò che appare come ovvio e naturale è invece il risultato di processi complicati, di decisio­ ni difficili, di scelte operate in situazioni diverse da quelle attuali» (Rossi, 1986, pp. 2 5-6). Non meno complessa si presenta la storia delle teorie della materia sot­ to il profilo disciplinare. Anche la specializzazione delle discipline scientifiche, infatti, costituisce un prodotto storico: «poiché le scienze si sono costruite nel tempo, i criteri con cui connotiamo oggi la ricerca scientifica non possono essere estesi al passato senza danno, e il danno si misura con l'aumento della distorsione, pur inevitabile, con cui la ri­ costruiamo e la comprendiamo» (Mamiani, 1994, p. xvii ) . Per molti secoli, in effetti, la scienza moderna ha fatto riferimento ad ambiti di ricerca denominati storia naturale efilosofia naturale. La chimica e gran parte della fisica attuale, ad esempio, ne facevano parte, assieme a mol­ te altre discipline che oggi hanno uno statuto autonomo. Uno degli obiettivi di questo volumetto sarà dunque proprio quello di offrire una narrazione che tenti di superare (almeno nelle sezioni relative alla scienza moderna) una ricostruzione storica relativa a un unico percor­ so disciplinare. Se gli storici della scienza oggi non pensano più di ri­ condurre la rivoluzione scientifica e lo sviluppo della scienza moderna unicamente alla nascita di una visione meccanicistica del mondo o alle cruciali trasformazioni verificatesi in astronomia e in fisica, ciò è dovu­ to anche ai notevoli progressi compiuti negli ultimi decenni dalla sto­ ria della chimica, fino a non molto tempo fa considerata, nell'ambito della storiografia della scienza, come la Cenerentola delle discipline. È stata proprio la storia della chimica, infatti, a mettere in luce la possibi­ lità di raccontare storie della scienza diverse o di percorrere strade alter­ native rispetto a quelle tradizionali. Non esiste storicamente una linea continua che va dall'atomismo mo­ derno a quello contemporaneo (tanto meno da quello antico) rico­ struibile attraverso le strade battute dalla storia della fisica. Questa li­ nea, infatti, è tagliata ripetutamente, nei modi e nelle direzioni più di­ verse, dalla storia della chimica. Sarebbe perciò sbagliato stabilire una 9

netta demarcazione fra le visioni atomiche e corpuscolari della mate­ ria, l'alchimia e il vasto e complesso universo delle teorie chimiche. Questi mondi, infatti, hanno spesso dialogato fra loro. In ogni caso, per molto tempo l'atomismo tradizionale (quello di Democrito, tanto per intendersi) non è stato di nessun aiuto alla chimica, che ha conti­ nuato a strutturarsi secondo criteri e metodologie autonomi. I chimi­ ci, spesso e volentieri, hanno affidato la loro comprensione della natu­ ra della materia ad altri oggetti che non fossero gli atomi, quali gli ele menti della tradizione aristotelica o i principi dell'alchimia. Mentre la filosofia meccanica parlava di quantità, la filosofia chimica preferiva far riferimento alle qualità. E, tuttavia, è proprio per merito della chimica se la fisica è potuta giungere alla definizione dell'atomo contempora­ neo. Infatti, sarà la rivoluzione settecentesca realizzata da Lavoisier, che troverà un suo primo punto d'arrivo nella costruzione della tavola periodica di Mendeleev, a permettere il collegamento, fondamentale, tra il mondo degli elementi e la costituzione atomica della materia. Victor Weisskopf, uno dei protagonisti della ricerca scientifica del Novecento, ha avuto chiaramente la percezione dei debiti della fisica contemporanea nei confronti della chimica moderna: «Lo studio delle proprietà dei differenti elementi non era considerato significativo per la fisica: si lasciava ai chimici il compito di analizzarle e sistematizzarle [ ... ]. Non è che fossero ignoti i tratti specifici delle differenti specie di atomi, ma, ancora una volta, il loro studio era escluso dal campo della fisica ed era affidato ai chimici» (Weisskopf, 1990, p. 19). Questo libro intende dunque essere un'introduzione alla storia delle vicende che hanno portato alla dimostrazione dell'esistenza dell'ato­ mo (e di altre particelle elementari), cercando di evidenziare la ric­ chezza e la complessità delle tematiche ad essa connesse, molte delle quali continuano a essere attuali e significative. È evidente che, in questo racconto (che, comunque, non ha certo l'ambizione di essere una storia completa delle discipline prese in esame), la fisica e la chi­ mica avranno un ruolo primario, anche se non mancheranno molte­ plici e interessanti relazioni con i più disparati ambiti del sapere. Le scienze della vita, naturalmente, non saranno escluse dalla narrazio­ ne, ma la ricostruzione della storia delle teorie relative alla struttura, al funzionamento e al comportamento degli esseri viventi esula dalle finalità di questo volumetto e dovrà essere affrontata in un'altra sede e in base a una diversa prospettiva. ­

10

1.

Dall'antichità all'età moderna

1.1. Gli elementi L'idea che la complessità della natura sia ridu­ cibile a poche sostanze semplici (se non addirittura a una sola) è ap­ partenuta a molte civiltà del mondo antico. Numerosi schemi di classificazione della realtà sono stati fondati sulla distinzione tra gruppi di proprietà e qualità opposte. Nel pensiero cinese l'ordine universale è determinato dall'alternanza di due principi contrari: Yin e Yang. Nel mondo sensibile tali principi costituiscono rispettiva­ mente l'ombra e la luce, il freddo e il caldo, la passività e l'attività e sono responsabili di tutte le mutazioni alla base dei fenomeni natura­ li, come l'alternarsi delle stagioni, o del giorno e della notte. Tuttavia esistono anche dottrine più articolate, secondo le quali le sostanze materiali devono la loro origine alle trasformazioni di alcuni elemen­ ti fondamentali, come l'acqua, il fuoco, la terra, i metalli. In Egitto, ad esempio, sono individuabili simili concezioni relative alla struttu­ ra della materia ben prima della comparsa della filosofia ionica. Secondo la tradizione, fu Talete (62 4 ca.- 546 ca. a. C.), originario di Mileto, città dell'Asia Minore situata alla foce del fiume Meandro, a trasferire in Grecia le conoscenze accumulate nel corso dei secoli dal­ la cultura egizia e da quella mesopotamica. Talete sostenne che alla base dell'universo ci fosse una sostanza primordiale, l'acqua, princi­ pio dell'umidità. Dopo Talete, altri filosofi greci della scuola di Mile­ to cercarono di determinare il principio originario di tutte le cose (arché) . Anassimandro (6to ca.-546 ca. a.C.), probabilmente disce­ polo di Talete, pensò alla materia come a una sostanza indeterminata e indifferenziata (dpeiron), che conteneva al suo interno tutti i princi­ pi contrari, come il caldo e il freddo, oppure il secco e l'umido. Anas­ simandro ritenne anche che l'origine della vita dovesse essere ricerca­ ta nel mare e quella dell'uomo, in particolare, nei pesci. Per questo motivo la sua filosofia è stata interpretata come una concezione di tipo evoluzionistico. Anassimene (586 ca.-52 8 ca. a.C.), invece, rifiu­ tando l'uso di un principio astratto e indeterminato quale era quello di Anassimandro, preferì tornare sul piano degli elementi concreti, individuando nell'aria la fonte di tutte le trasformazioni materiali. 11

Anche Eraclito di Efeso (540 ca.-475 ca. a. C.), rifacendosi ai filosofi ionici, individuò il principio originario in un elemento, il fuoco, al quale si doveva il mutamento continuo e senza fine di tutte le cose. A Eraclito si oppose Parmenide di Elea (52 0 ca.- 440 ca. a. C.), la cui concezione filosofica dell'essere affermava, attraverso la critica del concetto di esperienza, l'illusorietà delle trasformazioni e del diveni­ re. Un importante tentativo di portare delle prove a sostegno della posizione di Parmenide fu quello di Zenone di Elea (490 ca.- ?), che elaborò una serie di argomenti e di paradossi volti a confutare il mo­ vimento e la pluralità degli enti. Empedocle (483 ca.-42 3 ca. a.C.), originario di Agrigento, cercò di dare una soluzione ai problemi posti da Eraclito e da Parmenide so­ stenendo che la realtà era dovuta al diverso modo di combinarsi di quattro elementi fondamentali, l'aria, il fuoco, l'acqua e la terra, sot­ to l'influsso di due principi o forze basilari, l'odio e l'amore. La dottrina dei quattro elementi è ben presente nell'opera di Platone (42 7-347 a. C.), le cui concezioni subirono anche l'influenza della tra­ dizione pitagorica (cfr. PAR. 1.2), e in quella di uno dei suoi discepoli, Aristotele (384- 32 2 a.C.). Nella cosmologia aristotelica la Terra, sede dell'imperfezione e del mutamento continuo, era posta al centro dell'universo. Secondo Ari­ stotele, il mondo terrestre o sublunare traeva la sua origine da una materia primordiale, che tuttavia esisteva esclusivamente in potenza. Soltanto l'unione della materia con la forma, responsabile di tutte le proprietà specifiche dei corpi, donava alla realtà un'esistenza vera e propria. Aristotele si contrapponeva così alla teoria delle idee di Pla­ tone, che aveva postulato l'esistenza di un mondo delle forme total­ mente distinto dal mondo materiale. I quattro elementi rappresentavano la manifestazione più semplice della forma. Aria, fuoco, acqua e terra possedevano particolari qualità a loro volta caratterizzate da coppie di specifici attributi, che permet­ tevano la trasformazione di un elemento nell'altro: il secco-freddo per la terra, il freddo- umido per l'acqua, l'umido- caldo per l'aria, il caldo-secco per il fuoco. Le modalità del mutamento degli elementi risultavano quindi ben evidenti: il fuoco poteva diventare aria per mezzo del calore, l'aria riusciva a trasformarsi nell'acqua grazie all'u­ midità e così via. I passaggi di stato potevano tuttavia avvenire anche per salti: ad esempio il fuoco, una volta perso l'attributo del secco, se 12

unito all'acqua, mancante della qualità del freddo, produceva aria (caldo- secco + umido- freddo caldo-umido acqua). Tali cam­ biamenti andavano comunque attributi alla forma, mai alla materia. Nella fisica aristotelica (secondo Aristotele la parola "fisica" indicava lo studio qualitativo di tutti i fenomeni naturali, senza l'ausilio di strumenti matematici) il movimento era strettamente dipendente dalla proporzione secondo la quale i quattro elementi si mescolavano in un determinato corpo. Infatti, l'acqua e la terra hanno la tendenza naturale ad andare verso il basso, l'aria e il fuoco verso l'alto. Se gli elementi non fossero stati mescolati fra loro, i quattro elementi si sa­ rebbero disposti in maniera ordinata in un universo in riposo, con una sfera di terra al centro, circondata in sequenza da una sfera d' ac­ qua, una di aria e una di fuoco. I movimenti terrestri, dunque, rap­ presentavano l'inclinazione dei corpi a raggiungere il loro luogo na­ turale attraverso un moto rettilineo verso il basso o verso l'alto, con­ cepiti come assoluti e non relativi. Quando un corpo assumeva una direzione diversa da quella prevista (ad esempio, una pietra scagliata verso l'alto), ciò era dovuto all'azione di una forza esterna alla natura dell'oggetto, che trasformava il movimento da naturale in violento. Quando la forza cessava, il corpo riprendeva il suo cammino (la pie­ tra cadeva a terra). Ben diversa risultava, invece, la situazione nel mondo celeste. La ma­ teria che componeva i pianeti, il Sole e le stelle era di natura comple­ tamente diversa da quella terrestre. Essa era costituita da un quinto elemento, la cosiddetta quintessenza, un etere solido, ma cristallino, incorruttibile e trasparente. Anche il movimento aveva una natura diversa nel mondo celeste. Al moto rettilineo, infatti, si contrappo­ neva quello circolare, perfetto, uniforme ed eterno. In assenza del concetto di gravitazione (cfr. PAR. 2.2.2), Aristotele spiegò il movi­ mento dei pianeti facendo ricorso al modello elaborato, in opposizio­ ne alla dottrina pitagorica, da Eudosso di Cnido (408 ca.- 355 ca. a. C.), il più grande scienziato della metà del IV secolo a. C. , ipotiz­ zando che essi ruotassero su sfere concentriche, fisicamente esistenti, formate di etere, una sostanza inalterabile e incorruttibile. L'ultima sfera, quella delle stelle fisse, o primo mobile, rappresentava il limite ultimo dell'universo, che era concepito come chiuso e finito. Il pri­ mo mobile trasportava le stelle fisse, producendo il movimento che si =

=

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trasmetteva alle altre sfere. Il motore immobile, invece, rappresenta­ va l'essere onnipotente che controllava il movimento dei cieli. Aristotele formulò anche una teoria specifica sull'origine dei minerali e dei metalli, dovuti alla mescolanza delle esalazioni secche e umide che si producevano nelle viscere della Terra. Il calore che si accompagnava alle prime era responsabile della creazione dei minerali, costituiti so­ prattutto di terra e fuoco, il vapore delle seconde dava origine ai me­ talli, i cui elementi prevalenti risultavano l'acqua e l'aria. Aristotele, in­ fine, non credeva all'esistenza del vuoto e pensava che la materia do­ vesse essere concepita come un continuo divisibile all'infinito. 1.2. Numeri e pu nti Oltre alla dottrina degli elementi si svilup­ parono in Grecia altre importanti concezioni della materia in netto contrasto con quella aristotelica. All'idea della divisibilità infinita del continuo si era opposto, ad esempio, Zenone di Elea. Supponendo che esistano due entità A e B - argomentava Zenone -, queste, per il fatto di essere distinte, devono essere separate da uno spazio interme­ dio C, distinto da A e da B. È evidente, dunque, che debbano esistere altri due elementi, D ed E, che separano C da A e B. Poiché il proce­ dimento può essere ripetuto all'infinito, postulando l'esistenza di al­ meno due elementi o entità, ne consegue la necessità di ammettere l'esistenza di infiniti elementi. Zenone cercò di spiegare come, am­ mettendo questa possibilità, essa conducesse a conclusioni illogiche poiché portava a negare l'esistenza di qualsiasi lunghezza finita. Nel tentativo di risolvere la questione, Zenone arrivò dunque a concepire lo spazio come composto da un numero infinito, continuo e non se­ parabile di punti indivisibili. Ciò, naturalmente, sarà ritenuto inam­ missibile da Aristotele: «è impossibile che qualcosa di continuo risulti composto da indivisibili» (Fisica, 2 31a 2 4; ed. 1991). Ancor prima di Zenone, Pitagora (570 ca.- 497 ca. a.C.), nativo di Sa­ mo, fu l'artefice di una concezione filosofica e scientifica estremamente originale, destinata ad avere un'enorme influenza nella storia del pen­ siero occidentale. Verso il 530 Pitagora si trasferì a Crotone, dove fondò una scuola destinata a porre le basi della sua dottrina. Sul finire del se­ colo la scuola, legata al partito aristocratico della città, fu sciolta dai de­ mocratici. Pitagora si rifugiò a Metaponto, dove morì non molto tem­ po dopo, ma vari centri pitagorici si svilupparono nel mondo ellenico, in particolare nella Magna Grecia. 14

Per il pitagorismo, il principio di tutte le cose deve essere ricercato nei numeri interi, concepiti come punti raffigurati spazialmente. La realtà è il prodotto del modo in cui i punti si strutturano fra loro: l'u­ no è il punto, il due la linea, il tre la superficie, il quattro il solido. Le leggi che regolano la composizione dei numeri sono dunque le stesse che governano la formazione della realtà. Secondo la tradizione dei contrari, la coppia fondamentale del pitagorismo è quella pari-dispa­ ri, dalla quale scaturiscono altre nove opposizioni; fra queste, quella luce-tenebre assume un carattere più marcatamente fisico. La tradizione pitagorica era contraria al postulato della fisica aristoteli­ ca della divisibilità all'infinito della materia. Anche l'astronomia pita­ gorica si opponeva a quella aristotelica, ammettendo l'esistenza di un fuoco centrale, immerso in una nebbia di tenebre, attorno al quale ruotavano dieci corpi: la Terra, l'Antiterra (invisibile), la Luna, il Sole, i cinque pianeti fino ad allora conosciuti (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno) e il cielo delle stelle fisse. Di particolare interesse è l'ammissione della rivoluzione della Terra, che avrebbe condotto Ari­ starco di Samo (310 ca. - 2 30 ca. a.C.) alla formulazione dell'ipotesi elio­ centrica, ripresa in età moderna da Copernico (cfr. PAR. 2.1. 1). Secondo la tradizione, Pitagora riuscì a stabilire anche i principali in­ tervalli musicali, studiando sperimentalmente il comportamento del­ le corde sonore. A Pitagora si attribuisce la formulazione in termini matematici della relazione tra la lunghezza delle corde e le altezze dei suoni emessi. La sensazione gradevole prodotta da due suoni simulta­ nei è massima in corrispondenza di rapporti numerici semplici tra le rispettive lunghezze delle corde. Viene definito "consonante" l'uni­ sono, ovvero l'intervallo corrispondente a un rapporto 1:1 tra le lun­ ghezze; seguono l'ottava (2 :1), la quinta (3:2 ) e la quarta (4:3). Secon­ do la dottrina pitagorica, la consonanza musicale non è altro che il ri­ flesso dell'armonia metafisica del cosmo. Questa idea sarà ripresa e sviluppata da Platone nel Timeo, opera in cui si fondono l'immagine geometrica e matematica dell'universo e la dottrina della materia fondata sui quattro elementi (53C-530; ed. 2 000): che fuoco, terra, acq ua e a ria siano corpi, è noto i n d ubbia mente a c h i u nq ue. Ma ogni genere d i corpo ha a nche p rofo nd ità. E la p rofo nd ità, poi, è necessa rio che com p renda la natu ra della superficie. Ma la superficie piana e retta è costituita da tria ngoli. E tutti i 15

tria ngoli deriva no da due tria ngoli, aventi ciascuno u n a n golo retto e due acuti. Di que­ sti tria ngoli, poi, alcu n i hanno da ciascuna parte u n a pa rte uguale d i a n golo retto deli­ m itata da lati uguali; a ltri, i n vece, h a n n o parti d iseguali d ivise da lati uguali. Po n i a m o d u nque che q uesto s i a i l p r i n c i p i o del fuoco e degli a ltri corpi, p rocedendo con i l ragio­ n a m e nto congiu nto con necessità probabile. l principi, poi, che sono a l di sop ra d i q ue­ sti, li conosce Dio e degli uo m i n i chi è a m ico di Dio.

Il pitagorismo esercitò una sicura influenza sulla filosofia di Platone. Platone, del resto, conobbe Archita di Taranto (430 ca.-360 ca. a. C.), fisico, matematico e musicologo che aveva fondato una celebre scuo­ la pitagorica, dal quale ricavò l'idea della natura matematica della realtà, poi elaborata nella celebre dottrina del mondo delle idee (dal greco idéa, forma, figura), luogo delle verità razionali, in contrappo­ sizione alla conoscenza sensibile, che lega l'uomo alle apparenze. La contrapposizione tra razionalità e sensibilità, che sarà criticata dal suo allievo Aristotele, risulta in gran parte dovuta all'influenza esercitata da Parmenide su Platone. Tuttavia, mentre per Parmenide l'essere è unico, Platone ritiene che esso sia composto da molteplici idee, che costituiscono i modelli puri delle cose sensibili, le quali "partecipa­ no" o "somigliano" alle idee. Soltanto la conoscenza intellettuale delle idee può fornire un sapere vero. Secondo Platone, gli uomini vivono come prigionieri incatenati al­ l'interno di una caverna, con le spalle rivolte alla luce che proviene dall'esterno. In questo modo sono in grado di vedere esclusivamente le ombre proiettate sulla parete da coloro o dalle cose che passano da­ vanti alla caverna. I prigionieri pensano che le ombre siano gli ogget­ ti reali; al contrario, sono mere apparenze. Soltanto liberandosi dalle catene, ovvero dal fardello dell'esperienza e della materialità, e uscen­ do all'esterno della caverna, gli uomini potranno conoscere le cose nella loro vera natura. Il celebre "mito della caverna" è contenuto nel vn libro della Repubblica. 1.3. L'atom i smo Un'altra grande concezione della realtà si era sviluppata in Grecia prima dell'affermazione della filosofia aristoteli­ ca, quella atomistica, ovvero l'idea che tutte le cose siano costituite dall'aggregazione di particelle indivisibili, dette atomi (dal greco dto­ mos, non divisibile), che si muovono nel vuoto. A causa della loro piccolezza gli atomi sono impercettibili ai sensi. 16

L'atomismo deve la sua origine al filosofo ionico Leucippo (460 ca.370 ca. a. C.) del quale si hanno pochissime notizie. Tuttavia, secon­ do la testimonianza di Diogene Laerzio (9, 5, 30-31; ed. 1976), Leu­ cippo rielaborò in senso atomistico la concezione della realtà come insieme di punti formulata da Zenone di Elea, di cui era stato disce­ polo. La concezione di Leucippo fu sviluppata dal discepolo Demo­ crito di Abdera (460 ca.-370 ca. a. C.), una città dell'Egeo settentrio­ nale. Pochi sono i frammenti disponibili dell'opera di Democrito, re­ lativi soprattutto a questioni di natura etica; una visione complessiva del suo pensiero, tuttavia, ci è nota in primo luogo, così come per molti altri filosofi greci, grazie all'esposizione che ne fece Aristotele. Democrito interpretò la realtà come un discontinuo. Secondo Demo­ crito, la possibilità che la realtà fosse divisibile all'infinito poteva essere ipotizzata soltanto dal punto di vista matematico, non fisico. La mate­ ria, dunque, non poteva che essere composta da particelle non ulte­ riormente scomponibili, ovvero gli atomi, i quali, dotati di moto spontaneo, si muovevano nel vuoto. Neli'atomismo, la concezione di uno spazio privo di materia risulta essenziale per spiegare la possibilità del movimento delle particelle, altrimenti inconcepibile. Gli atomi non sono differenti tra loro da un punto di vista qualitativo, ma sol­ tanto per la forma e le dimensioni. È tale diversità a dare origine alle varie forme della realtà. Gli atomi non sono stati creati, ma sono eter­ ni. Anche l'anima, secondo Democrito, è formata da atomi. La dottrina atomistica subì un'importante rielaborazione grazie al­ l'opera di Epicuro (341- 2 70 a. C.), nel periodo immediatamente suc­ cessivo alla morte di Aristotele. Sostanzialmente Epicuro accettò i punti fondamentali della teoria di Democrito, considerando la ma­ teria formata da atomi in movimento, i quali, grazie alle loro combi­ nazioni, davano origine a tutte le forme possibili della realtà. Anche l'anima continuava a essere ritenuta mortale, essendo nient'altro che un insieme di atomi, anche se più sottili e leggeri rispetto a quelli che costituiscono i corpi. Epicuro, tuttavia, si mostrò contrario al ri­ gido determinismo insito nella costruzione teorica di Democrito, formulando la dottrina della "declinazione". Egli attribuì così agli atomi una specifica peculiarità, giungendo ad ammettere l'esistenza del caso nel meccanismo che regola il movimento eterno degli ato­ mi, allo scopo di escludere il ricorso a ogni causa trascendente e vo­ lontaria. La possibilità di una spontanea deviazione degli atomi, che 17

ne spiegava l'incontro e l'infinità delle combinazioni, venne deno­ minata da Epicuro parénklisis, termine che Lucrezio (98 ca.- 55 a.C.) avrebbe tradotto in latino con clinamen nel suo poema filosofico De rerum natura, uno dei capolavori della letteratura latina, probabil­ mente composto fra il 6o e il 55 a. C., nel quale veniva esposta la dot­ trina materialistica di Epicuro sulla natura del mondo e degli uomi­ ni (Lucrezio, 11, 2 16- 2 2 9; ed. 2 000). La riscoperta del poema lucreziano nel Rinascimento eserciterà un'indubbia influenza sugli scienziati del Cinquecento e del Seicento (cfr. PAR. 2.1.2), contribuendo alla rinascita della teoria atomica nel­ l'età moderna. L'atomismo tradizionale ebbe comunque una sicura diffusione anche durante il Medioevo. Secondo l'inglese Thomas Bradwardine ( 12 90 ca.- 1349), uno dei principali esponenti della scuo­ la di Oxford, esistevano almeno tre concezioni fondamentali relative alla struttura della materia: • quella di Aristotele, per il quale la materia non era costituita da atomi, ma da parti divisibili all'infinito; • la teoria di Democrito, che riteneva la materia fatta di particelle indivisibili; • la concezione secondo la quale la realtà risultava composta da parti indivisibili, che tuttavia dovevano essere considerate come pun­ ti ( Rossi, 1998). In ogni caso, la maggior parte dei filosofi medievali, in linea con le argomentazioni di Aristotele, rifiutò l'idea che la materia fosse com­ posta da atomi o punti indivisibili. Tanto più che il rafforzamento e il radicamento della teoria aristotelica venne favorito nel Medioevo latino dalla diffusione di un'importante disciplina, l'alchimia. 1.4. L'a lchi m i a L'alchimia è una forma di sapere molto antica, che ha caratterizzato la storia di numerose civiltà, da quelle mediter­ ranee a quelle indiane e cinesi. A metà strada tra la scienza e l'arte, l'alchimia è sempre stata contraddistinta da una duplice valenza, ma­ teriale e spirituale; da una parte, ha ricoperto il ruolo di attività con­ creta volta al miglioramento delle tecniche relative alla preparazione delle pietre preziose, alla tintura delle stoffe e, soprattutto, alla lavo­ razione dei metalli; dall'altra, è stata concepita come un mezzo capa­ ce di condurre l'essere umano alla rigenerazione e alla salvezza. Tale duplicità è rappresentata in maniera emblematica dalla ricerca della 18

pietrafilosofale, una presunta sostanza dotata del potere di trasforma­ re i metalli vili (piombo, stagno, rame, ferro e mercurio) nei metalli preziosi (oro e argento), ma capace anche di donare all'uomo l'im­ mortalità. Per questo motivo, la pietra filosofale è talvolta conosciuta come elisir di lunga vita. L'alchimia raggiunse uno straordinario svi­ luppo durante l'età ellenistica (l'epoca che va dalla morte di Alessan­ dro Magno avvenuta nel 32 3 a.C., alla chiusura dell'Accademia di Atene nel 52 9 d. C.) presso la cultura bizantina e, soprattutto, nel mondo islamico. Non a caso, la parola alchimia deriva dal sostantivo arabo al-kìmiya, anche se diverse sono le interpretazioni dell'origine della parola kìmiya, per alcuni derivata da kmt o chem, nome arcaico con il quale gli antichi egizi indicavano la loro terra, per altri dal gre­ co chyma, corrispondente all'operazione relativa alla fusione e alla de­ purazione dei metalli. In ogni caso, anche altri termini fondamentali quali alambicco, alcool, alcali, derivano dall'arabo. Fu proprio tramite il mondo arabo che l'alchimia penetrò in Europa durante il Medioevo, assieme a gran parte del patrimonio scientifico conservato nell'lslam. Fra le molte altre cose è da ricordare, per la sua importanza nella storia del mondo occidentale latino, l'introduzione dell'algebra araba grazie all'opera di Leonardo Fibonacci (1180 ca.12 40), autore nel 12 02 del celebre Liber abaci. Grazie a un'imponente attività di traduzione, che avvenne in particolare in Spagna ( conqui­ stata dagli arabi nel 711), fu possibile recuperare tutto Aristotele, parte della scienza ellenistica e acquisire la cultura islamica. Fra i protagoni­ sti di questo periodo, bisogna ricordare un grande traduttore come Gerardo da Cremona (1114-1187). Gerardo fu a Toledo tra il 1134 e il 1178, dove tradusse numerosi testi scientifici dall'arabo al latino; fra questi, le opere mediche di Galeno (12 9-2 01), l'Almagesto di Tolomeo (100 ca.- 170 ca.) (cfr. PAR. 2.1.1) e il Canone di Avicenna (980- 1036). Importanti traduzioni non mancarono tuttavia anche in Italia. La data convenzionale per indicare la nascita dell'alchimia latina me­ dievale è il 1144, quando il monaco inglese Roberto di Chester com­ pletò la traduzione dall'arabo in latino del Li ber de compositione al­ chimiae di Morieno Romano: «Cosa sia l'alchimia e la composizione di essa, ancora ignote al mondo latino, io spiegherò in questo libro [ ... ]. E mi è sembrato buono, giovevole verso di me, porre il mio nome al principio della prefazione a evitare che chiunque altro possa attribuirsi la mia faticosa opera e contestarmi la lode e il merito, come 19

se fossero dovuti a lui» (cit. in Cortesi, 1996, p. 9). Uno dei più impor­ tanti fra i manuali di alchimia latina, la Summa perfectionis magisterii, attribuita a "Geber arabus" (anche se l'autore non risulta essere l' au­ tentico Geber, ovvero J abir Ibn Hayaan, bensì Paolo di Taranto, il più importante alchimista del XIII secolo), iniziò a circolare intorno al 12 80. Oggetto principale della Summa era la trasmutazione dei metal­ li, la cui natura, tuttavia, veniva descritta nei termini di una teoria cor­ puscolare, che costituiva una versione in chiave alchemica della dottri­ na scolastica dei minima naturalia, secondo la quale gli aggregati era­ no una composizione di piccole particelle non percepibili ai sensi. Per questo motivo, la Summa rappresenta forse l'esempio più importante di come, fin dal Medioevo, le visioni corpuscolari della materia e le dottrine dell'alchimia non fossero inconciliabili tra loro. Nella Summa si trovano anche descritti per la prima volta, in maniera ordinata, i procedimenti classici dell'arte alchemica, come la distillazione, l' ope­ razione diretta a separare da una miscela liquida varie sostanze aventi punti di ebollizione diversi, e la calcinazione (cfr. PAR. 2.3). Durante il Medioevo l'alchimia rappresentò non soltanto una disci­ plina specifica, ma anche un modello di riferimento per tutte le altre scienze, come teorizzato dal filosofo inglese Ruggero Bacone (12 14-12 92 ). Bacone divideva l'alchimia in speculativa e pratica; que­ st' ultima insegnava a produrre i metalli, i colori e molte altre cose «più o meno abbondantemente, per artificio», rivelandosi indispen­ sabile per «il pubblico bene» e di notevole appoggio per «la filosofia naturale e la medicina» (Di Meo, 1981, pp. 2 1- 2 ). Tuttavia, nonostante la sua popolarità, l'alchimia non riuscì a farsi ac­ cettare negli ambienti universitari. Degno di nota resta comunque il tentativo effettuato in questo senso dal domenicano tedesco Alberto von Bollstadt, più noto come Alberto Magno (1193 ca. - 12 80), una delle personalità più importanti di tutta la cultura medievale, maestro nelle principali università della Germania e a Parigi, dove ebbe tra i suoi al­ lievi anche Tommaso d'Aquino (12 2 4 ca. - 12 74), il quale a sua volta si dedicò alle questioni alchemiche. Promotore del commento di tutte le opere di Aristotele, Alberto Magno si interessò particolarmente a quel­ le scientifiche. Fra il 1250 e il 12 54 realizzò un importante De minerali­ bus, testo dal quale emerge chiaramente la natura sperimentale della ri­ cerca alchemica, frutto anche di esplorazioni e di viaggi nelle zone mi­ nerarie per poter avere esperienza diretta della natura dei metalli. 20

Nel corso del XIII secolo, soprattutto grazie alla tradizione religiosa ispirata a Francesco d'Assisi, la ricerca alchemica si collegò sempre più a problematiche di natura mistica, assurgendo al ruolo di arte ca­ pace di condurre alla rigenerazione e alla salvezza. In questa diversa prospettiva, lo studio delle sostanze materiali costituiva soltanto il tramite per accedere a un superiore ordine spirituale. Sicuramente l'alchimia latina, assumendo come base per la teoria della trasmuta­ zione la dottrina dei quattro elementi, integrata con la teoria dei principi di Avicenna (che aveva identificato le esalazioni secche e umide che si producevano, secondo Aristotele, nelle viscere della Terra, con lo zolfo e il mercurio), fu animata dalla convinzione di po­ ter trasformare il piombo in oro, essendo tutte le sostanze esistenti interpretabili come il risultato delle proporzioni in cui si combinava­ no i quattro elementi primari. Tuttavia gli alchimisti, spesso e volen­ tieri, non intendevano produrre concretamente l'oro, ma si riferiva­ no a un oggetto che metaforicamente rappresentava il simbolo di una realtà diversa e superiore. Tale indagine venne portata avanti soprat­ tutto per merito del medico catalano Arnaldo da Villanova ( 1 2 35 ca.1311), probabilmente il più celebre alchimista del Medioevo, il quale fu anche medico di Benedetto XI e di Clemente v. lntuendone le potenzialità eretiche, Giovanni XXII (papa dal 1316 al 1334), a partire dal 1317, soltanto sei anni dopo la morte di Arnaldo, proibì gli studi di alchimia. La fortuna della disciplina non accennò comunque a diminuire. La ricerca della quintessenza, ritenuta la par­ te più pura di una sostanza, ottenibile attraverso prolungate e ripetu­ te operazioni di distillazione, divenne uno degli elementi caratteristi­ ci dell'indagine alchemica. Questo nuovo indirizzo di ricerca trovò negli scritti attribuiti a Raimondo Lullo (12 35-1315) uno dei punti di riferimento più importanti. Nel 1330 Pietro Bono da Ferrara, con l'o­ pera dal titolo Margarita pretiosa novella, tornò a riproporre l'idea, sulle orme di Ruggero Bacone, che l'alchimia dovesse costituire la scienza generale della natura. Al di là della condanna papale, l'alchi­ mia presentava una serie di vantaggi notevoli sotto il profilo della concezione della materia, soprattutto perché era facilmente concilia­ bile con la visione aristotelica del mondo e, dunque, con i precetti fondamentali del cristianesimo. Non deve perciò sorprendere il fatto che, oltre a Tommaso d'Aquino, anche Dante Alighieri abbia ritenu­ to l'alchimia un sapere degno della massima attenzione. 21

2.

La rivoluzione scientifica

2.1. L'u n iverso e La materia

Gli astronomi hanno sempre saputo che il comportamento dei pianeti, osservato dalla Terra, è anomalo e curioso. La distanza dei pianeti dalla Terra, infatti, sem­ bra mutare; talvolta pare che si fermino, altre volte danno l'impres­ sione di tornare indietro e di mutare velocità. Per ricondurre tali anomalie all'interno del sistema aristotelico e mantenere fermo il principio della circolarità dei moti celesti, l'astronomo e geografo alessandrino Claudio Tolomeo (100 ca.- 170 ca.), uno dei più grandi scienziati dell'antichità, introdusse nella sua Sintassi matematica o A l­ magesto, composta intorno al 140, una serie di modelli planetari geo­ centrici, che facevano ricorso a complicati accorgimenti tecnici con cui calcolare e predire accuratamente le sempre mutevoli posizioni dei pianeti. Così facendo, Tolomeo delineò una fondamentale di­ stinzione tra l'astronomia, il cui scopo era quello di "salvare i feno­ meni", e la fisica, che spiegava la vera costituzione dell'universo. Du­ rante il Medioevo, il sistema aristotelico- tolemaico venne assorbito all'interno del mondo cristiano. L'universo descritto da Dante Ali­ ghieri nella Divina Commedia rappresenta una delle migliori esem­ plificazioni di questa integrazione, dove alle varie sfere celesti corri­ spondono le potenze angeliche. C'è da dire, comunque, che dopo la condanna, avvenuta nel 12 77 da parte del vescovo di Parigi É tienne Tempier, di numerosi punti di vista aristotelici, Jean Buridan (1300 ca.- 1358 ca.) e Nicola d'Oresme ( 132 3- 1382 ) iniziarono a discutere va­ rie questioni legate alla relatività del moto Terra- Sole o alla creazione di altri mondi o di uno spazio vuoto. La tradizionale struttura del cosmo venne messa seriamente in dub­ bio dalla teoria eliocentrica del polacco Niccolò Copernico (1472 1543), esposta nel celebre De revolutionibus orbium caelestium (pub­ blicato il 2 5 maggio 1543, proprio nel giorno della sua morte), che ripropose un'idea già avanzata da Aristarco di Samo nel 111 secolo a. C. Oltre a collocare il Sole al centro dell'universo, Copernico ipo­ tizzò un triplice moto per la Terra: rotazione intorno al proprio asse,

2.1.1. Astronomia e armonia del cos mo

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rivoluzione attorno al Sole, movimento rispetto al piano dell'eclitti­ ca. Naturalmente è bene ricordare che la cosmologia di Copernico era ancora fortemente legata alla tradizione aristotelica; infatti, se­ condo l'astronomo polacco, l'universo, benché più esteso di quello tolemaico, era finito e le sfere celesti dovevano essere considerate davvero come globi reali, e non come traiettorie matematiche. Anche a proposito della scelta eliocentrica, tuttavia, non mancarono in Copernico influenze di natura filosofica diversa, in particolare del­ la scuola pitagorica e di quella platonica. Del resto, grazie a Marsilio Ficino (1433- 1499), gli uomini del Rinascimento poterono avere a di­ sposizione la più vasta raccolta di testi non soltanto relativi a Platone (già riscoperto dalla filologia umanistica), ma anche al neoplatoni­ smo, tra cui le Enneadi di Plotino (2 05- 2 70 d.C.), e alla tradizione er­ metica, i cui scritti erano fortemente caratterizzati dalla presenza di temi alchemici, magici, mistici e astrologici, fondati sull'idea di un'antica e perduta sapienza. Ermete Trismegisto era un personaggio mitico che veniva identificato con Thot, il fondatore della religione egizia, dio della sapienza e della medicina. Il cosiddetto Corpus her­ meticum presumibilmente risale al 11-111 secolo d.C., ma all'epoca si riteneva fosse molto più antico. I greci ripresero dagli egizi tale divi­ nità e la fusero con Hermes (il Mercurio latino), mentre l'epiteto di Trismegistus (tre volte grandissimo) fu aggiunto all'inizio del periodo ellenistico. Platonismo e pitagorismo furono ben presenti anche nella visione del mondo di uno dei grandi sostenitori del copernicanesimo, ovvero l'a­ stronomo tedesco Johannes Kepler (1571- 1630), noto per aver formu­ lato le celebri leggi sul moto dei pianeti. Le prime due sono contenu­ te nella Astronomia nova, pubblicata nel 1609: le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei due fuochi; la velocità orbi­ tale di ciascun pianeta varia in modo tale che una retta congiungente il Sole e il pianeta percorre, in uguali intervalli di tempo, uguali por­ zioni di superficie dell'ellisse. La terza legge verrà enunciata dieci anni più tardi negli Harmonices mundi (1619): i quadrati dei periodi di rivoluzione dei pianeti sono nello stesso rapporto dei cubi delle ri­ spettive distanze dal Sole. Nel Mysterium cosmographicum ( 1596) Keplero aveva messo in rela­ zione il numero dei pianeti ( 6) e le dimensioni delle loro orbite con i 23

cinque solidi regolari o "cosmici": il cubo, il tetraedro, il dodecaedro, l'icosaedro e l'ottaedro. Negli Harmonices mundi, progettati fin dalla fine del Cinquecento, Keplero cercò di perfezionare la propria visio­ ne del cosmo attraverso uno stretto parallelo fra astronomia e musi­ ca, fra struttura del cosmo e intervalli consonanti. Keplero aveva una radicata fiducia nella perfezione della creazione e nell'esistenza di ar­ chetipi che custodivano le ragioni più profonde dell'opera di Dio. Il sistema solare costituiva per Keplero un sistema armonico, le cui pro­ porzioni (in particolare quelle relative alle velocità) si accordavano perfettamente con la visione copernicana dell'universo, attribuendo ad essa una inoppugnabile giustificazione geometrica e metafisica. Nel 1621 Keplero ebbe modo di esplicitare chiaramente la tradizio­ ne filosofica cui la sua ricerca aveva fatto riferimento: «il dogma del­ le cinque figure geometriche distribuite tra corpi celesti risale a Pita­ gora, dal quale Platone apprese questa filosofia» (cit. in Casini, 1998, p. 121). La convinzione che il cosmo fosse ordinato in maniera geometrica, sebbene priva delle connotazioni mistiche ed ermetiche che contrad­ distinsero l'opera di Keplero, venne condivisa anche da Galileo Gali­ lei (1564-1642 ). Così si esprimeva lo scienziato toscano in un celebre passo contenuto ne Il Saggiatore del 162 3 (ed. 1964, vol. 1, pp. 631-2 ), considerato il suo manifesto metodologico: La fi losofia è scritta i n q uesto grand issi mo libro che conti n u a m ente ci sta aperto i n na n ­ zi a gli occhi (io d ico l'u n iverso), ma n o n si p u ò i ntendere s e prima non s'i m pa ra a i n ­ tender l a li ngua e conoscer i ca ratteri, ne' q uali è scritto. Egli è scritto i n li ngua mate­ matica, e i ca ratteri so n tria ngoli, cerchi ed a ltre figu re geo metriche, senza i quali mezzi è i m possib i le a i ntenderne u m a n a mente parola; senza q uesti è un aggi ra rsi vanamente

per u n oscuro laberi nto.

In ogni caso il copernicanesimo, al di là delle sue giustificazioni filo­ sofiche, sembrava andare a colpire una delle certezze più importanti della fisica aristotelica, la distinzione fra mondo celeste e mondo ter­ restre. In realtà, gli astronomi considerarono, ancora per un certo tempo, la teoria di Copernico come una qualsiasi altra ipotesi mate­ matica (equivalente, sotto questo profilo, al modello tolemaico), che non intaccava le certezze fisiche del sistema aristotelico. 24

Fu proprio Galileo, all'inizio del Seicento, a fornire una serie di pro­ ve decisive sulla validità fisica del sistema copernicano. Neli'estate del 1609 Galileo, venuto a conoscenza che in Olanda si stava diffonden­ do un nuovo strumento ottico, capace di ingrandire fino a tre volte gli oggetti lontani (formato da una lente convessa e una lente conca­ va, montate alle estremità di un tubo lungo poco più di un palmo), dopo essersene procurato una copia, decise di costruirne personal­ mente un modello. Associando a lenti obiettive convesse poco effica­ ci delle lenti oculari concave sempre più potenti, Galileo riuscì ad au­ mentare sensibilmente la capacità d'ingrandimento dello strumento, costruendo cannocchiali da otto, venti e, forse, anche trenta ingran­ dimenti. In un primo tempo, lo scienziato toscano propose l'inven­ zione all'attenzione delle autorità politiche e militari della Repubbli­ ca di Venezia. Galileo, tuttavia, contrariamente a ciò che sosteneva la tradizione, era convinto che gli oggetti tecnici e meccanici non do­ vessero avere soltanto una finalità Iudica o pratica, ma potessero esse­ re utilizzati come formidabili strumenti di aiuto alla conoscenza scientifica. Egli, dunque, tra l'autunno e l'inverno del 1609, dette il via a una sistematica osservazione del cielo. Il 12 marzo 1610 Galileo pubblicò il Sidereus nuncius, dove presentò le scoperte realizzate con il cannocchiale: la morfologia della Luna, simile a quella della T erra, la Via Lattea come ammasso di stelle, l'esistenza dei satelliti di Giove (scoperti fra il 7 e il 13 gennaio) e di stelle invisibili a occhio nudo. Grazie a queste osservazioni, cadeva la millenaria distinzione fra mondo terrestre e mondo celeste, che non sembrava affatto costituito di quintessenza, ma risultava in tutto e per tutto formato da una ma­ teria simile a quella del globo terrestre. Le successive fasi della vicenda galileiana sono ben note. Il 2 4 feb­ braio 1616 il Sant'Uffizio condannò il sistema copernicano. Il 2 6 feb­ braio di quello stesso anno Galileo venne ammonito dal cardinale Roberto Bellarmino (resosi già artefice della condanna di Giordano Bruno, processato per eresia e arso vivo in Campo de' Fiori a Roma il 17 febbraio 16oo), che lo invitò a non sostenere la verità fisica del co­ pernicanesimo. Il 3 marzo, quindi, uscì un decreto della Sacra Con­ gregazione dell'Indice che sospese il De revolutionibus di Copernico, fino a quando non fosse stato corretto da un'apposita commissione. Nonostante ciò, Galileo andò avanti nel suo programma di ricerca e nel 1632 pubblicò il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il 25

suo capolavoro a sostegno del sistema copernicano. Il 13 aprile del 1633 iniziò a Roma il processo a Galilei da parte del Tribunale del Sant'Uffizio. Seguirono altre due udienze, il 30 aprile e il 21 giugno. Il 2 2 giugno venne letta la sentenza di condanna. Galilei, inizialmen­ te renitente, alla fine accettò di abiurare. Nel1638, comunque, egli ri­ uscì a pubblicare a Leida in Olanda i Discorsi e dimostrazioni mate­ matiche intorno a due nuove scienze, il testo nel quale vengono dimo­ strate le leggi fondamentali della caduta naturale dei gravi e dei moti parabolici. Contemporaneamente alla nascita di una nuova astronomia, che tornava a stringere un'alleanza con la fisica, l'età che va dal 1543 al 172 7, l'anno della scomparsa di Isaac Newton, e che prende convenzionalmente il nome di "rivoluzione scientifica", vide anche lo svolgersi di un'accesa controversia sulla teoria aristote­ lica della materia. Sicuramente la riscoperta, nel 1473, del De rerum natura di Lucrezio rappresentò un punto di svolta per l'attività dei naturalisti a partire dal Cinquecento. Ad esempio, il medico veronese Girolamo Fracastoro (1478-1553), nel poema in esametri dal titolo Sy­ philis sive de morbo gallico (scritto nel 1521, ma pubblicato nel1530), fornendo la prima descrizione completa della sifilide, spiegò la sua natura contagiosa attraverso un processo fondato sull'azione invisibi­ le degli atomi. La convinzione che la materia potesse effettivamente essere di natura corpuscolare si affermò con decisione nel Seicento. Opponendosi alla teoria degli elementi di Aristotele, che prevedeva l'esistenza di specifiche qualità per determinare le caratteristiche sensibili dei cor­ pi, i protagonisti della rivoluzione scientifica, pur nella diversità delle loro concezioni, credettero nell'esistenza di particelle dotate di pro­ prietà radicalmente diverse rispetto a quelle dei corpi macroscopici. Nel XVII secolo si diffuse progressivamente l'idea che le cose non fos­ sero così come apparivano ai comuni sensi degli uomini; un princi­ pio, questo, valido per l'osservazione astronomica come per quella m1croscop1ca. La filosofia meccanica, o meccanicismo, si venne infatti costruendo in­ torno a un principio fondamentale: la distinzione fra qualità oggettive e qualità soggettive dei corpi. Le qualità soggettive erano rappresenta­ te dai colori, i suoni, i sapori, gli odori. Le qualità oggettive, invece, 2.1.2. Il corpusco la rismo

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avevano a che fare con una realtà totalmente diversa, inaccessibile agli organi di senso, e costituivano le proprietà fondamentali della materia; tali qualità erano la dimensione, la forma e lo stato di movi­ mento delle particelle prime, ovvero gli atomi. Questa nuova conce­ zione della materia è esemplificata da Galileo ne Il Saggiato re (ed. 1964, vol. I, p. 778): Per lo che vo io pensando che questi sapori, odo ri, colori, etc., per la pa rte del suggetto nel q u a le ci par che risegga no, non siena a ltro che p u ri nomi, ma tenga no sola me nte lor residenza nel corpo sensitivo, sì che ri mosso l'a n i m a le, siena levate ed a n n ichilate tutte queste q u alità: tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo i m posti n o m i partico­ lari e d ifferenti da q uelli de gli a ltri p ri m i e rea li accidenti, voless i m o c redere ch'esse a ncora fussero vera mente e realmente da q uelli d iverse.

L'esempio più chiaro, da questo punto di vista, era quello relativo al calore (ivi, p. 781): inclino a credere che i l ca lo re sia d i q uesto genere, e che q uelle materie che i n noi p ro­ d ucono e fa n n o sentire i l caldo, le quali noi c h i a m i a m o con nome genera le fuoco, siano una moltitud i n e d i corpicelli m i n i m i, i n tal e ta l modo figurati, mossi con ta nta e ta nta velocità: li q u a li, i ncontra ndo il nostro corpo, lo penetri no con la lor so m m a sotti lità, e che i l lor tocca mento, fatto nel lo r passaggio per la nostra sosta nza e sentito da noi, sia l'affezzio ne che noi chiamiamo caldo, grato o molesto seco ndo la moltitu d i n e e velocità m i n o re o maggiore d'essi m i n i m i che ci va n n o p u ngendo e penetrando ...

L'influenza dell'atomismo sui protagonisti della rivoluzione scientifi­ ca è innegabile. Tuttavia, a differenza degli atomisti dell'antichità, i filosofi e gli scienziati del Seicento raramente furono disposti a pen­ sare il mondo come il risultato della combinazione casuale delle par­ ticelle. Fu in particolare il francese Pierre Gassendi (1592 -1665) a por­ re l'atomismo a fondamento di un sistema finalistico, cercando di conciliare Epicuro con la dottrina cristiana. Per Gassendi, infatti, gli atomi non erano eterni, ma risultavano generati direttamente da Dio, che aveva anche stabilito le leggi che presiedevano alle loro combinazioni. Questa idea fu chiaramente sostenuta anche da Ro­ bert Boyle (162 7-1691), uno dei promotori dell'attività della Royal Society di Londra, una delle prime accademie scientifiche europee 27

(venne riconosciuta da Carlo II nel 1662 ): «Quando parlo della filo­ sofia corpuscolare o meccanica sono lontano dall'intendere con gli Epicurei, che gli atomi, incontrandosi insieme per caso in un vuoto infinito, sono capaci da se stessi di produrre il mondo e i suoi feno­ meni» (cit. in Rossi, 1976, p. 2 68). Le concezioni atomistiche di Gassendi e di Boyle saranno sviluppate nel corso del Settecento dal chimico e fisico russo Michail Vas il' evi c Lomonosov (1711-1765). Negli Elementy matematiceskoj himii del 17 41 (tradotti in latino nel 1747 con il ti tolo di Elementa chemiae ma­ thematicae) egli avrebbe ribadito la convinzione che gli autentici ele­ menti chimici fossero le particelle ultime dei corpi, sostenendo una concezione della materia estremamente originale e moderna. Lomo­ nosov effettuò importanti esperienze sulla calcinazione dei metalli (cfr. PAR. 2.3), dimostrando che il loro aumento di peso dipendeva da sostanze esterne che si combinavano con essi. Egli arrivò anche a enunciare la legge della conservazione della materia nei processi chi­ mici. Così scriveva a Leonhard Euler (1707-1783) il 5 luglio 1748: «Tutti i cambiamenti che si incontrano in natura derivano dal fatto che se si aggiunge a qualcosa un certo quid, questo viene sottratto da qualcosa d'altro. Così quanta materia viene ad aggiungersi a un cor­ po, tanta ne perde un altro» (cit. in Fedorov, 1975, p. 314). Negli anni centrali del Seicento, il dibattito sul vuoto e sulla pressio­ ne atmosferica aveva rappresentato uno dei centri nodali delle discus­ sioni sulla costituzione della materia e sulla natura dell'universo. E proprio dalla dimostrazione sperimentale dell'esistenza del vuoto giunse un'importante prova a favore della teoria atomica. Sviluppan­ do le concezioni di Aristotele, alcuni autori medievali elaborarono la teoria dell'horror vacui: la natura, che aveva ripugnanza per il vuoto, cercava in ogni modo di impedire che esso potesse prodursi. Tale teoria cominciò a essere sempre più vivacemente discussa e contesta­ ta a partire dalla metà del XVI secolo. Anche uno dei massimi esponenti del meccanicismo e della filosofia moderna, René Descartes (1596-1650) negò l'esistenza del vuoto. La posizione di Cartesio è il più chiaro esempio di come si possano so­ stenere una filosofia e una scienza basate sul meccanicismo e il corpu­ scolarismo senza essere atomisti. In primo luogo, secondo Cartesio la materia era nettamente distinta dal pensiero (res cogitans) , assolu­ tamente inesteso. Il problema del collegamento tra le due sostanze 28

costituirà uno dei problemi cruciali del cartesianesimo. Creando l'u­ niverso, Dio ha dotato la materia, inizialmente inerte e passiva, di movimento, che si mantiene grazie al continuo urto fra le particelle. L'universo rappresenta dunque un gigantesco meccanismo messo in moto da Dio, dove la materia coincide interamente con l'estensione corporea (res extensa) e, dunque, con la totalità dello spazio. Per que­ sto motivo, il vuoto non esiste e la materia può essere considerata di­ visibile all'infinito. «l diversi moti, le diverse conformazioni e gran­ dezze, le diverse organizzazioni delle parti della materia», si legge nel­ l'opera postuma Le monde ou Traité de la lumière et L 'homme (pub­ blicata in diverse riprese tra il 1662 e il 1677), contribuiscono, agendo sugli elementi primari, ovvero "fuoco", "aria" e "terra", alla determi­ nazione di tutte le forme dei corpi «che i filosofi chiamano misti, os­ sia mescolati e composti» (Descartes, ed. 1983, pp. 46 e 47). Il vuoto non c'è neanche là dove la sua esistenza sembrerebbe eviden­ te, ovvero nello spazio interstellare. Al contrario, lo spazio è compo­ sto di una materia sottile, che si riunisce in vortici, i quali nel loro turbinare trascinano i pianeti intorno alle stelle. L'etere cartesiano è responsabile anche dei fenomeni che sono alla base della luce e del calore. Una svolta decisiva alla questione dell'esistenza del vuoto venne im­ pressa in questi anni dallo sviluppo delle attività sperimentali, legate al problema del peso dell'aria. Nella primavera del 1644, a Firenze, Evangelista Torricelli (1608-1647), che era rimasto accanto a Galileo nei suoi ultimi mesi di vita, effettuò un esperimento destinato a rive­ larsi decisivo. Torricelli riempì di mercurio un tubo di vetro aperto a una delle estremità. Poi, tenendo serrata con un dito l'estremità aper­ ta, rovesciò il tubo in una bacinella contenente anch'essa mercurio. Osservò allora che la colonna di mercurio scendeva solo parzialmen­ te, fermandosi a un'altezza di circa 76 centimetri. Egli si convinse così che lo spazio lasciato libero dalla discesa del mercurio nel tubo fosse vuoto e che il sostenimento della colonna di mercurio dipen­ desse dalla pressione che l'aria esercitava sul mercurio nella bacinella. Questo esperimento (che avrebbe condotto alla messa a punto del barometro e avviato lo sviluppo della termometria) sarebbe in segui­ to stato confermato da Blaise Pasca! (162 3-1662 ), dagli accademici del Cimento e da Robert Boyle. L'Accademia del Cimento, la prima società scientifica europea, fondata dal principe Leopoldo de' Medici 29

a Firenze nel 1657, restò attiva per dieci anni, annoverando tra i suoi membri personaggi del calibro di Vincenzo Viviani (162 2 -1703), Francesco Redi (162 6-1697) e Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679). La dimostrazione dell'esistenza del vuoto non fu comunque un moti­ vo sufficiente per mettere in crisi il meccanicismo cartesiano, che dal­ la metà del XVII fino ai primi due decenni del XVIII secolo rappresen­ tò in qualche modo un punto di riferimento essenziale per lo svilup­ po delle ricerche dei fisici e dei filosofi naturali. Durante il Seicento, a fianco del nuovo atomismo, continuò a essere ampiamente utilizzata anche la teoria dei punti che faceva capo a Zenone di Elea. Le teorie di Zenone, soprattutto nel Medioevo lati­ no e durante l'età moderna, continuarono a rappresentare un impor­ tante elemento per l'elaborazione di teorie della materia fondate sul­ l'idea di punti o di entità non divisibili all'infinito. Infatti, soprattut­ to nel Seicento, nonostante tutte le cautele che potevano essere uti­ lizzate, parlare di atomismo diventò molto pericoloso (in modo par­ ticolare nei paesi cattolici) a partire dall'agosto del 1632 , quando la Compagnia di Gesù proibì l'insegnamento della dottrina atomistica nei collegi e nelle scuole dell'ordine. I gesuiti erano preoccupati del fatto che attraverso l'adozione di tale dottrina non fosse più possibile spiegare, da un punto di vista razionale e scientifico, il fenomeno della transustanziazione, ovvero la presenza reale di Cristo nel sacra­ mento dell'eucarestia, attraverso il passaggio totale della sostanza del pane e del vino in quella del corpo e del sangue di Gesù, in virtù del­ le parole della consacrazione, pronunciate dal sacerdote durante la messa. La transustanziazione venne definita dal Concilio di Trento come «la conversione singolare e mirabile di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta la sostanza del vino nel sangue di Cristo, ri­ manendo immutate solamente le apparenze esterne» (cit. in Rossi, 1998, p. 378). Detto in altri termini, mentre il pane e il vino conti­ nuavano ad apparire come tali anche dopo la consacrazione, mante­ nendo la loro forma accidentale (accidente è in Aristotele il termine che designa i caratteri non necessari di un essere, che non apparten­ gono alla sua essenza), la loro forma sostanziale mutava nel corpo e nel sangue di Cristo. Secondo i principi della filosofia corpuscolare, al contrario, a un mutamento delle qualità primarie doveva necessa­ riamente corrispondere anche un mutamento delle qualità seconda­ rie. Ciò era stato chiaramente compreso dai detrattori di Galileo, che 30

mostravano di conoscere bene le pagine del Saggiato re (ci t. in Redon­ di, 1983, pp. 42 8- 9): Conclude che per desta re in noi i sapori, odori, ecc. non si richiede a ltro nei corpi, che son comunemente saporosi, odoriferi, etc. che gra ndezze, figu re, moltitud i n i; e che gli odori, sapori, colori, etc. non sono a ltrove che negli occhi, li ngua, naso, etc. di modo che, tolti via quegli orga n i, gli accidenti p redetti non si d isti nguano dagli atomi, se non nel nome. H o r se q u esta fi losofia d'accidenti si a m mette per vera, mi pare che gra ndemente d ifficulti l'esistenza degli accidenti del pane e del vino che nel S.mo Sacra mento sta n n o sepa rati da lla p ropria susta nza.

Per questo motivo, dopo il 1632 , molti studiosi ritennero di dover adottare una posizione più sfumata nei confronti dell'atomismo, proponendo teorie molto vicine alla concezione dei punti di matrice zenoniana, che permettevano di neutralizzare il problema posto da un'immagine della materia fatta da particelle fisicamente indivisibili, in contrasto con la tesi aristotelica della divisibilità all'infinito del continuo. In questo contesto grande rilevanza assunse la teoria della materia di Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716), secondo la quale il mo­ dello cartesiano non riusciva a spiegare in maniera adeguata la com­ plessità dei fenomeni fisici. In particolare, Cartesio non era stato in grado di fornire una spiegazione convincente del concetto di forza. Leibniz riteneva, infatti, che la forza e la sostanza fossero due aspetti della realtà che non potessero essere considerati in maniera separata. Leibniz, tuttavia, avversava anche l'atomismo perché temeva che esso potesse sfociare troppo facilmente nel materialismo. Egli arrivò così a teorizzare che la realtà fosse costituita da una molteplicità di sostanze immateriali, atomi di energia che dovevano anche essere considerati come centri di forza spirituale. Dal169o Leibniz attribuirà a tali so­ stanze il nome di monadi. Le monadi sono dotate di alcune proprietà caratteristiche degli atomi, ad esempio la molteplicità e l'indivisibili­ tà. Tuttavia, a differenza dell'atomo classico, le monadi non hanno materialità e si situano in parte al di là dell'esperienza. L'analisi di la­ boratorio, in ogni caso, non potrà mai pervenire a individuarle. A li­ vello materiale, ovvero all'interno delle possibilità dell'esperienza, l'a­ nalisi non potrà riuscire a scomporre i composti in parti semplici. 31

La concezione leibniziana eserciterà un'enorme influenza sulle ricer­ che fisiche e chimiche del XVIII secolo, in particolar modo in ambito tedesco, russo e anche italiano. 2.2. Fi losofia chi mica e filosofia natura le

Accanto alla visione meccanicistica del mondo, il Seicento vide l'affermazione di una concezione alternativa della materia che aveva già trovato, ben prima della rivoluzione scientifica, la sua matrice teorica nella filosofia chimica del medico svizzero Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim (1493 ca.1541), meglio conosciuto con il nome di Paracelso. Opponendosi alla tradizione che si rifaceva a Galeno e ad Avicenna (cfr. PAR. 1 .4 ) , Paracelso elaborò un nuovo metodo di indagine in medicina. Per Paracelso l'arte medica doveva fondarsi su quattro di­ scipline fondamentali : la filosofia, o conoscenza della natura intima della realtà; l'astrologia, che studiava l'influsso degli astri sulla salute del corpo; l'etica, alla base del retto operare del medico; infine l'alchi­ mia, alla quale spettava il compito di produrre medicamenti atti a ri­ pristinare lo stato di salute nel corpo umano. Legando l'alchimia alla medicina, Paracelso dette vita a una nuova disciplina, la iatrochimica, ovvero chimica medica, che rappresentò un momento di svolta ri­ spetto alle tradizioni alchemiche medievali. Infatti, pur accettando la trasmutazione dei metalli, Paracelso non riteneva che la ricerca della pietra filosofale dovesse rappresentare lo scopo principale dell'alchi­ mia. Egli indirizzò le sue ricerche verso la distillazione e l'analisi dei minerali, per la preparazione di rimedi farmaceutici efficaci, conian­ do il termine spagirica (dal greco, spdo, estraggo, e ageiro, raccolgo) per designare il nuovo indirizzo medico e terapeutico da lui impresso all'alchimia, fondato sullo studio dei corpi attraverso tecniche di ca­ rattere sperimentale. In sostanza, la chimica doveva essere una disci­ plina in grado di scomporre i composti per ottenere combinazioni e medicine più efficaci di quelle tradizionali. Sotto il profilo della concezione della materia, Paracelso propose di unificare la teoria dei quattro elementi con quella dei principi, af­ fiancando tuttavia allo zolfo e al mercurio una terza sostanza, il sale, alla quale andava attribuita la qualità della solidità. Sale, zolfo e mercurio sarebbero andati a rappresentare nel tempo i cosiddetti 2.2.1. Da Paracelso a Boyle

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tria prima. Elementi e principi non rappresentavano sostanze con­ cretamente individuabili, ma soltanto matrici o archetipi di natura spirituale. Nonostante ciò, la filosofia chimica di Paracelso si inserì a pieno titolo fra quelle innovazioni culturali che caratterizzarono l'età del Rinascimento e che traevano la loro forza da un nuovo modo di interpretare la natura, fondato sulla sperimentazione e sul­ le pratiche di laboratorio. Nel corso del Seicento numerose furono le teorie della materia che si riferirono ai quattro elementi aristotelici o ai tria prima paracelsiani nel modo più vario possibile. Il medico belga J an Baptiste Van Hel­ mont (1579-1644), che svolse un ruolo essenziale nella storia della medicina e della fisiologia (soprattutto in opposizione al modello cartesiano), tentò di fornire una nuova base per la filosofia chimica. Egli rifiutò l'idea che la materia fosse composta di molteplici principi e ammise, sulla base della lettura della Bibbia, soltanto l'esistenza di una sola sostanza primaria, l'acqua. Non mancarono in questo periodo i tentativi di trovare un accordo fra filosofia meccanica e filosofia chimica. Il medico, filosofo e di­ plomatico inglese Kenelm Digby (1603-1665), dopo essersi avvicina­ to all'alchimia e alla chimica, studiò a fondo le opere di Cartesio e di Gassendi, giungendo a pubblicare nel1644 i Two treaties, un ela­ borato tentativo di fondare un sistema meccanicistico basato su principi alchimisti e vitalistici di ispirazione neoplatonica, grazie al quale cercò di dimostrare l'immortalità dell'anima. Diversamente da quello che si potrebbe comunemente pensare, non furono rare nel Seicento le concezioni della materia che univano l'atomismo con un'immagine vitalistica e qualitativa della natura. La filosofia natura­ le di Francis Bacon (1561-162 6), uno dei protagonisti della rivoluzio­ ne scientifica, riuscì a conciliare abilmente il corpuscolarismo con l'alchimia, i cui aspetti esoterici e iniziatici venivano rigettati in ma­ niera netta e precisa. Bacon, tuttavia, credeva nella trasmutazione dei metalli. Anche la teoria della materia di Gassendi non risultò esente da contaminazioni alchemiche. Il meccanicismo, naturalmente, come tutti gli ismi, presenta mille sfaccettature difficili da riunire in un unico paradigma. Robert Boyle, in particolare, cercò di fondare una nuova chimica, basata sui presupposti della filosofia meccanica, che fosse in accordo con l'alchimia, ma non quella propugnata dalla tradizione paracelsia33

na, sostenuta da «volgari chimici», contro i quali sferrò un durissimo attacco nell'opera dall'eloquente titolo The sceptical chymist, edita nel 1661. Boyle credeva nell'alchimia come arte della trasmutazione, la quale, a suo avviso, non era in contrasto con una visione meccanici­ stica della materia. Egli riteneva che corpuscoli di natura elementare - minima naturalia - (cfr. PAR. 1 .4) si legassero fra loro, dando luogo a concrezioni particellari - prima mixta - responsabili delle caratteri­ stiche dei corpi macroscopici. Boyle aveva ben presenti le concezioni sulla materia di Van Helmont e la fiducia nel corpuscolarismo non gli impedì di avviare un programma sperimentale (che tuttavia non fu esente da finalità di tipo teologico) volto alla ricerca di una sostan­ za materiale elementare. Egli si dedicò allo studio delle reazioni chi­ miche fra alcali e acidi, ritenuti, questi ultimi, uno strumento indi­ spensabile per effettuare la scomposizione dei corpi. Tutte le tematiche finora esposte confluiranno nella mirabile sintesi dell'opera di Isaac Newton (1643-172 7), i cui studi saranno alla base di gran parte delle ricerche scientifiche dei secoli success1v1. Nella fisica di Aristotele il movimento era strettamente dipendente dalla proporzione secondo la quale i quattro elementi erano mescola­ ti in un determinato corpo. L'acqua e la terra avevano la tendenza naturale ad andare verso il basso, l'aria e il fuoco verso l'alto. Durante il Rinascimento, questa impostazione venne progressivamente per­ dendo credito. Nel1590 il fisico e matematico olandese Simon Stevin (1548-162 0) dimostrò che, se fatti cadere nel vuoto, i corpi, sia leggeri che pesanti, cadono simultaneamente. Galileo non solo giunse alla stessa conclusione, ma dimostrò che un corpo in caduta si muove a una velocità proporzionale al tempo impiegato nella caduta stessa. Egli formulò anche una prima versione del principio di inerzia, asse­ rendo che ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto cir­ colare uniforme finché non intervenga una forza a modificare tale stato. Ciò in contrasto, ancora una volta, con Aristotele, che riteneva necessaria per il mantenimento del movimento di un corpo la conti­ nua azione di una forza. L'esatta formulazione del principio d'inerzia (ovvero che ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto ret­ tilineo uniforme) sarà realizzata da Descartes e da Newton. 2.2.2. Newton

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Nel testo di fondazione della fisica classica, i Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), Newton descrisse per la prima volta una legge matematica relativa alle proporzioni delle forze che regola­ no sia il moto degli oggetti sulla Terra sia il movimento dei pianeti, unendo così la fisica terrestre a quella celeste. Secondo Newton, esi­ steva una forza d'attrazione universale che agiva in linea retta fra due corpi qualsiasi. Tale forza, direttamente proporzionale al prodotto delle masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza, appariva contemporaneamente responsabile della caduta dei corpi verso il suolo terrestre e delle orbite attorno alle quali si muovevano gli astri. È la teoria della gravitazione. Newton, tuttavia, non si inte­ ressò soltanto ai problemi di quella parte della fisica relativi alla mec­ canica. Egli fu un ricercatore a tutto campo e si dedicò a lungo allo studio di numerosi settori della cosiddetta filosofia naturale, ovvero all'analisi della natura di fenomeni di difficile decifrazione, quali quelli elettrici, ottici e termici. La sintesi di queste ricerche è conte­ nuta nell'Opticks (prima edizione, 1704). Sostenendo l'idea che ogni corpo e, conseguentemente, ogni particella dell'universo esercitasse una forza sulle altre particelle, Newton riteneva possibile l'applica­ zione del concetto di attrazione a tutti i fenomeni esistenti in natura. Alcune delle sue concezioni relative alla chimica sono chiaramente esposte nelle Queries dell' Opticks della prima edizione in latino ( 1706) e della seconda edizione inglese ( 1717). In particolare, fu la xxxi Query ad assumere la forma di un vero e proprio trattato chimi­ co, diventando il punto di riferimento essenziale per tutti coloro che si dedicarono alla definizione e alla misurazione delle forze che agiva­ no a breve, insensibile distanza fra le particelle ultime del mondo ma­ teriale: «Le parti più piccole dei corpi non hanno certe potenze, virtù o forze per effetto delle quali agiscono a distanza, non solo sui raggi di luce per rifletterli, rifrangerli e fletterli, ma anche le une sulle altre, al fine di produrre una gran parte dei fenomeni della natura ?» (New­ ton, ed. 1977-78, vol. II, p. 581). Secondo i principi della filosofia meccanica, la reazione tra una so­ stanza acida e una alcalina, ad esempio, poteva essere spiegata sem­ plicemente ammettendo che le particelle degli alcali fossero dotate di pori, i quali permettevano la penetrazione delle particelle degli acidi, dotate di spigoli ed estremità acute. La neutralizzazione, dunque, era il risultato di particolari e determinati rapporti fra le misure dei pori 35

degli alcali e le asperità degli acidi. Newton, introducendo l'idea di forze che regolavano i fenomeni microscopici della natura, spostava la questione da un piano geometrico a un piano dinamico. Le combi­ nazioni diventavano una questione di maggiore o minore affinità tra le sostanze. L'idea che le reazioni chimiche non potessero essere spiegate soltanto sulla base di scontri fra corpuscoli rivela chiaramente i motivi dell'in­ teresse di Newton nei confronti della tradizione alchemica. Secondo Newton, infatti, il meccanicismo non era sufficiente a spiegare l'in­ credibile varietà dei fenomeni naturali e, in modo particolare, i pro­ cessi relativi al mondo organico, quali la generazione, la fermentazio­ ne o la putrefazione. Egli, tuttavia, affermava in maniera molto pre­ cisa che le forze attive a cui si riferiva erano tutt'altra cosa rispetto alle qualità occulte che tanto spazio avevano avuto nelle filosofie della na­ tura rinascimentali. 2.3. Stori a natu ra le e flogi sto La chimica, come scienza auto­ noma, nacque soltanto alla fine del XVIII secolo. A partire dal Rina­ scimento essa iniziò ad assumere la forma di un sapere emergente, ma caratterizzato da numerose tradizioni estremamente diversificate fra loro. Tecniche di tipo chimico sono individuabili in settori di ricerca che vanno dalla medicina alla storia naturale, dalla filosofia ermetica alle pratiche artigianali dei distillatori e dei tintori, dall'alchimia alla metallurgia. Come dimostrano due straordinari trattati di argomen­ to tecnico (che ebbero una notevolissima diffusione) - De la piro­ technia del senese Vannoccio Biringuccio (1480 ca.-1539), pubblicato a Venezia nel 1540 e L 'arte vetraria di Antonio Neri (1576-1614), edi­ to a Firenze nel 1612 -, la definizione del sapere chimico in questo periodo risulta assai complessa. Neri era un alchimista, convinto della possibilità di trasmutare i metalli in oro. Biringuccio, al contrario, ri­ fiutò con forza l'idea della trasmutazione. Egli, tra l'altro, fu tra i pri­ mi a notare l'aumento del peso del piombo dopo la calcinazione, ter­ mine utilizzato per indicare l'operazione che sottopone una sostanza a elevata temperatura per allontanarne tutte le sostanze volatili, op­ pure il processo applicato ai metalli per ottenere una calce (ovvero un ossido). Anche nel trattato di tecnica mineraria intitolato De re metal­ lica, composto dal tedesco Georg Bauer (1494-1555), meglio cono-

sciuto come Agricola, era contenuta una dura polemica contro l'al­ chimia, in particolare contro il suo linguaggio, oscuro e arbitrario. Da un punto di vista generale, la chimica, assieme alla mineralogia e alla botanica, ha rappresentato a lungo un capitolo della storia natu­ rale moderna. Tale disciplina fu introdotta a livello universitario da Ulisse Aldrovandi (152 2 -1605), il quale propose, nel1561, di inserire all'Università di Bologna una nuova materia dedicata alla philoso­ phia naturalis ordinaria de fossilibus, plantis et animalis. L'oggetto della storia naturale, subordinata all'insegnamento della medicina, era costituito dalla classificazione e dalla raccolta (che si tradusse nel fenomeno del collezionismo scientifico) di animali, piante e minera­ li osservabili in determinate aree geografiche. Il mondo e l'universo, in questo periodo, nonostante gli straordinari cambiamenti soprav­ venuti nell'ambito dell'astronomia e della fisica, sono ancora conce­ piti come immutabili, frutto di un mirabile disegno divino che è sotteso alle strutture fondamentali della natura, sia organiche che inorganiche. Soltanto a partire dalla seconda metà del Seicento, la nascita del di­ battito intorno alla natura dei fossili inizierà a diffondere l'idea che la Terra avesse avuto alle sue spalle un passato caotico e tumultuoso, una storia che aveva inciso profondamente sia sulla trasformazione delle sue strutture primarie sia sul destino di molte specie animali e vegetali appartenenti a quel passato, le quali avevano cessato di esi­ stere per sempre. Fino ad allora l'età della T erra, che coincideva an­ che con l'età dell'universo e dell'uomo (seguendo la Bibbia, la storia degli uomini e quella della natura venivano concepite come insepara­ bili), era stimata in circa 6.ooo anni, sulla base di una tradizione ese­ getica risalente a Eusebio di Cesarea (2 65 ca.-340 ca.) e a Girolamo (347 ca.- 42 0). Nelle università la chimica, come arte analitica sperimentale al servi­ zio della medicina, deve indubbiamente molto alla diffusione della filosofia chimica di Paracelso. Ecco, per esempio, che cosa riportava il Piano scientifico per l'Università di Pavia del 4 novembre1773: «Per esercitar bene, ed utilmente la Medicina, è necessario di conoscere l'indole, la natura, ed i caratteri dei rimedi, che si compongono, e che si danno. Per questo nella Medicina non si può far a meno della Chimica, per discoprire il mistero della varia unione, de' principj nella composizione de' Corpi» (cit. in Ciardi, 2 001, pp. 704-5). Non 37

è dunque fondata storicamente l'interpretazione che rintraccia esclu­ sivamente nel programma meccanicistico i presupposti per la fonda­ zione della chimica moderna come disciplina. Non è certo un caso che la teoria dominante nell'ambito della ricerca chimica nel XVIII secolo sia stata formulata da un medico. Nel 1697, in un lavoro sulla fermentazione dal titolo Zymotechnia fundamentalis, il tedesco Georg Ernst Stahl (1659-1734), professore di medicina all'Università di Halle, espose per la prima volta la sua teo­ ria sulla materia ispirata alla chimica paracelsiana. Stahl si rese conto che gli atomi e le proprietà meccaniche rendevano impossibile l'uti­ lizzazione in chimica di contenuti e metodi specifici in grado di spie­ gare la varietà e la composizione delle sostanze. Egli non negava in assoluto la possibilità di una natura corpuscolare della materia, ma ri­ teneva la sua esistenza di secondaria importanza per lo sviluppo delle conoscenze sulle proprietà chimiche dei corpi. Stahl, tuttavia, si spinse più in là della tradizione cui faceva riferimento, esemplificata, nella prima metà del xvi i secolo, dal Tyrocinium chimicum (1610) del farmacista francese Jean Beguin (1550-162 0), il manuale più diffuso dell'epoca. Quest'opera era costituita da una breve parte teorica, nel­ la quale erano elencati gli elementi dei corpi, che risultava essere avulsa dai successivi capitoli, dedicati invece alle tecniche pratiche di analisi delle sostanze. Al contrario, Stahl cercò di concentrare la sua attenzione su classi di fenomeni che potessero essere studiati grazie a una proficua unione fra l'analisi teorica e quella sperimentale. Avendo l'incarico di sovrin­ tendere ai distretti minerari della Turingia, Stahl si occupò attiva­ mente di numerose questioni concernenti la metallurgia. Egli propo­ se così l'impiego di un nuovo agente che denominò flogisto (dal gre­ co, phlogistos, der. di phlogizo, infiammo) in grado di spiegare in ma­ niera coerente e unitaria i processi di combustione e di calcinazione. Secondo Stahl, il flogisto abbandonava i corpi durante queste opera­ zioni, che costituivano quindi processi di scomposizione. La reazione in senso inverso, invece, quella che oggi viene comunemente indicata con il termine riduzione, costituiva, a suo avviso, una combinazione. Questo schema teorico si scontrerà tuttavia con una difficoltà speri­ mentale già ben nota ai chimici. Le calci (ovvero gli ossidi, così chia­ mati solo dopo Lavoisier) risultavano più pesanti dei metalli; dun­ que, alla perdita di flogisto (calcinazione) era associato un aumento 38

di peso, mentre la combinazione del flogisto produceva una diminu­ zione di peso. Tale problema sarà risolto soltanto durante la seconda metà del Settecento, nel corso della rivoluzione chimica (cfr. CAP. 3). In uno dei tanti manuali universitari del Settecento, le Lezioni sui fluidi elastici (1783-84) di Simone Stratico (1733 -182 4), professore di fisica sperimentale all'Università di Padova, è fornita una classica de­ finizione di questa particolare sostanza: « Il flogisto è una sostanza semplice elementare, omogenea immutabile unica in tutti i corpi atti a prender fuoco, e ad alimentarlo, la quale da essi si distacca nell'atto della combustione, e si diffonde nell'aria. Questa sostanza non è os­ servabile di per sé sola, perché tale non si trova giammai, ma sempre in combinazione a de' corpi» (Stratico, ed. 2 001, pp. 94-5). Le propo­ ste teoriche di Stahl misero in luce in maniera evidente le lacune del programma meccanicistico, che intendeva subordinare la chimica ai principi della fisica, e furono ampiamente condivise nel corso del xviiI secolo. 2.4. Fluidi i mpondera b i li e affin ità Nello Scholium generale, con il quale si chiudeva la seconda edizione dei Principia (1713), Newton aveva ipotizzato l'esistenza di una sostanza molto simile al­ l'aria, ma molto più sottile, attraverso la quale potessero esercitarsi le forze a livello microscopico, in ambito sia inorganico che organico (Newton, ed. 1977- 78, vol. I, p. 796): O ra sarebbe lecito aggiu n gere q u a lcosa circa q uello spi rito sottilissimo che pervade i corpi grossi e che i n essi si nasconde; media nte la forza e le azio n i del q u a le le particel­ le dei corpi a d ista nze m i n i me si attraggo no m utuamente; i corpi elettrici agisco no a maggiori dista n ze, ta nto respi ngendo qua nto attraendo i corpuscoli vici n i; la luce viene emessa, riflessa, rifratta, inflessa e riscalda i corpi; tutta la sensazione è eccitata e le m e m b ra degli a n i mali si m uovono a volo ntà, ossia, med ia nte le vibrazion i d i q uesto spi rito, si p ropaga, attraverso i filamenti solid i dei nervi, dagli o rga n i esterni dei sensi a l cervello e d a l cervello a i m uscoli.

Caratteristica dell'etere newtoniano era di possedere particelle quali­ tativamente diverse rispetto a quelle ordinarie e prive di peso, che si respingevano mutuamente, ma attraevano la materia ordinaria. Tut­ te le interazioni avvenivano sempre e comunque, in base ai principi 39

newtoniani, a distanza e in linea retta. Durante il Settecento questo tipo di spiegazione prese il nome di teoria dei fluidi imponderabili. Essa si rivelò un punto di riferimento importante per lo studio di nu­ merosi fenomeni appartenenti al complesso universo della filosofia naturale, quali quelli termici, ottici, elettrici e magnetici, non man­ cando di far uso della chimica (che pur continuava a essere una disci­ plina collocata nell'ambito della storia naturale) per lo studio delle forze agenti fra le ultime particelle della materia. Una svolta decisiva nella comprensione dei fenomeni elettrici fu rap­ presentata dall'invenzione, tra la fine del1745 e l'inizio del1746, della cosiddetta bottiglia di Leyda (una sorta di rudimentale condensato­ re), grazie alla quale venne scoperta la possibilità di immagazzinare una carica elettrica fra due conduttori separati da un isolante. Analiz­ zando il funzionamento di questo nuovo strumento, il celebre uomo politico e scienziato americano Benjamin Franklin (1706-1790) ipo­ tizzò, sulla scia delle suggestioni dell'opera newtoniana, che la causa dell'elettricità risiedesse in un fluido diffuso nello spazio e attraverso le sostanze materiali. I corpi risultavano elettricamente neutri quan­ do la concentrazione interna del fluido si presentava uguale a quella esterna; apparivano invece positivamente o negativamente carichi se la concentrazione era rispettivamente in eccesso o in difetto. La teo­ ria di Franklin si diffuse in Europa soprattutto per merito di Giam­ battista Beccaria (1716-1781), professore di fisica sperimentale all'U­ niversità di Torino dal 1748, i cui testi, tradotti anche in francese, permisero una rapida circolazione delle idee dell'intellettuale ameri­ cano. In quegli anni, tuttavia, si aprì un dibattito sul numero di Bui­ di in gioco nei fenomeni elettrici. Infatti, secondo Robert Symmer (1706-1763) l'esistenza di cariche negative e positive poteva essere spiegata soltanto ricorrendo all'ipotesi di due eteri imponderabili. Anche le teorie del calore furono sensibilmente influenzate dalle idee sui fluidi imponderabili. Nel corso del Seicento, la maggior parte dei filosofi naturali, opponendosi alla concezione aristotelica del calore come qualità primaria, lo aveva attribuito al movimento e alla forma delle particelle. Durante il Settecento, tuttavia, la diffusione della teoria del flogisto di Stahl permise il ritorno a una concezione dei fe­ nomeni termici che interpretava il calore come una vera e propria so­ stanza o elemento. Il fluido in questione, comunemente indicato con il nome di calorico, era costituito da molecole che si respingevano fra 40

loro, ma che, contemporaneamente, venivano attratte da quelle di materia ponderabile. Il modello di interazione fra i due tipi di mole­ cole prevedeva che quella ordinaria fosse circondata da un'atmosfera di calorico dell'imponderabile. Il termine molecula, già comune nel Medioevo latino, deriva dal latino moles (che significa massa) ed era utilizzato per indicare, a seconda della disciplina di riferimento, le più piccole unità di una sostanza capaci di esistere come tali separa­ tamente. Nel corso del Settecento si sviluppò un acceso dibattito intorno alla natura delle forze agenti nella materia a livello microscopico. Per mol­ ti interpreti, Newton non era riuscito a definire esattamente la natura delle forze agenti tra le particelle ultime della materia. Sembrava pro­ babile, tuttavia, che le azioni microscopiche, quelle chimiche in parti­ colare, non seguissero la legge di gravitazione universale, ma si eserci­ tassero grazie a forze di tipo non gravitazionale che agivano reciproca­ mente a brevissima distanza. In ogni caso, molti filosofi naturali, nel tentativo di dare una risposta alla questione, non esitarono a conciliare il programma newtoniano con la teoria dei principi riformulata da Stahl. A prima vista, la mancanza di adeguate cognizioni sui livelli ul­ timi della materia, che la visione meccanicistica del mondo non era in grado di fornire, sembrava rendere improbabile l'applicazione di mo­ delli di calcolo per la misurazione delle forze a livello microscopico. Tuttavia, facendo ricorso ai dettami filosofici forniti da Newton nelle Regulae philosophandi dei Principia (ed. 1977- 78, vol. 1, pp. 603-7) e sfruttando il presupposto che la natura operava sempre in maniera conforme a se stessa, risultava possibile definire il mondo delle parti­ celle partendo proprio dalla teoria dei principi. L'osservazione delle sostanze macroscopiche poteva fornire, in base a un criterio analogico, informazioni sul livello ultimo della materia. Le idee di Newton, dunque, andarono a far parte di un complesso programma antimeccanicistico in chimica. In questo periodo venne­ ro anche realizzate numerose tavole di affinità, che avevano lo scopo di ordinare e classificare le sostanze e le reazioni fino ad allora cono­ sciute. Nonostante ciò, i chimici non furono in grado, nel corso della prima metà del Settecento, di dar vita a un sistema che riuscisse a prevedere il comportamento delle reazioni chimiche. Per raggiungere questo obiettivo, era prima necessario costruire una teoria che per­ mettesse la quantificazione del livello macroscopico della materia. 41

3. La rivoluzione chimica 3.1. La scope rta del terzo stato della materia L'evento de­ stinato a rivoluzionare le teorie della materia nel Settecento fu la sco­ perta del terzo stato della materia, quello gassoso. In generale, la vi­ sione della materia dei chimici nella prima metà del XVI I I secolo con­ tinuò a basarsi sui quattro elementi di Aristotele e sui tre principi di Paracelso, che assumevano ruoli e caratteristiche diverse a seconda della teoria di riferimento. Obiettivo del chimico era quello di cerca­ re di ricondurre, durante le proprie operazioni di laboratorio, le so­ stanze complesse a tali elementi o principi. In linea di massima, la trasmutazione (e non la combinazione) degli elementi veniva am­ messa senza particolari riserve o perplessità. Alla metà del Settecento, Guillaume- François Rouelle (1703-1770), i cui corsi a Parigi (che eb­ bero uno straordinario successo) furono seguiti da personaggi del ca­ libro di Rousseau, d'Holbach e Diderot, oltre che da Lavoisier, trat­ tava senza alcun problema all'interno delle sue lezioni della pietra fi­ losofale e dell'elisir di lunga vita. I chimici settecenteschi conoscevano ben poche delle sostanze oggi note come elementi; molte di tali sostanze erano già conosciute nel­ l' antichità: rame, oro, argento, piombo, stagno e ferro tra i metalli, carbonio e zolfo fra i non metalli. Altri elementi, come zinco, arseni­ co, antimonio e bismuto furono individuati dagli alchimisti medie­ vali. Per il ritrovamento di un elemento collegabile direttamente con il nome del suo scopritore bisogna attendere il1669, quando l' alchi­ mista tedesco Hennig Brand (1630 ca.-1710), nel tentativo di rintrac­ ciare l'oro nell'urina, venne in contatto con una sostanza luminosa che denominò fuoco freddo. Il bagliore era naturalmente dovuto alla combustione spontanea del fosforo nell'aria. Fin dai tempi di Aristotele l'aria era stata considerata una sostanza di tipo elementare e primario. Nella nuova chimica di Stahl essa costituiva, assieme al fuoco, uno strumento del cambiamento chi­ mico, mentre soltanto l'acqua e la terra erano elementi (oltre al sale e allo zolfo). Nel 172 7, tuttavia, il medico inglese Stephen Hales (1677-1761), nell'opera dal titolo Vegetable staticks (172 7) dedicata allo studio della fisiologia delle piante, segnalò che l'aria poteva fis-

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sarsi nei vegetali, con i quali si combinava dando luogo a una modifi­ cazione chimica. Questo fatto, perciò, violava palesemente la teoria di Stahl. Hales non si rese ben conto della sua scoperta e non ritenne opportuno approfondire la questione. Nel 1752 il medico scozzese Joseph Black (172 8-1799) ritornò sull'ar­ gomento. Scopo delle ricerche di Black era quello di stabilire se la co­ siddetta magnesia alba (ovvero carbonato di magnesio, MgC0 3 ) po­ tesse costituire un rimedio efficace nella cura di problemi quali l'aci­ dità di stomaco o la "pietra", cioè il calcolo urinario. I risultati delle esperienze, descritti nella sua tesi di dottorato e nella memoria dal ti­ tolo Experiments upon magnesia alba, quicklime and some other alcali­ ne substances, letta nel 1755 alla Royal Society di Edimburgo, condus­ sero Black a una scoperta assolutamente rivoluzionaria: sottoponen­ do la magnesia alba a un forte calore, egli aveva ottenuto non soltan­ to una nuova sostanza, denominata magnesia usta (ossido di magne­ sio, M gO), ma anche una sostanza aeriforme specifica, diversa dall'a­ ria comune. Black la denominò aria fissata o fissa e ne descrisse le pro­ prietà (in sostanza, Black aveva scoperto l'anidride carbonica). Tale aria ( CO2 ) risultava coinvolta anche nelle trasformazioni della calce (carbonato di calcio, CaCO3 ) in calce viva, o quicklime (ossido di calcio, CaO). Ciò cominciò a far sorgere il dubbio che l'aria, così come la si era intesa sino ad allora, potesse costituire realmente una sostanza di tipo primario. La scoperta di Black suscitò immediatamente l'attenzione dei medici e dei fisici sperimentali, che si dedicarono con un'attenzione inedita allo studio dell'aria e del suo comportamento. Nei decenni successivi vennero scoperte rapidamente molteplici arie. Ciò determinò la na­ scita di un nuovo filone di ricerca, la chimica pneumatica. Nel 1766 il filosofo naturale inglese Henry Cavendish (1731-1810) presentò, sotto il titolo di Three papers containing experiments on foctitious air, una serie di ricerche grazie alle quali annunciava la scoperta di un'aria infiammabile (si trattava dell'idrogeno), che era riuscito a ottenere fa­ cendo reagire degli acidi con dei metalli. Cavendish riteneva, grazie alla scoperta di questa nuova aria, di essere finalmente riuscito a iso­ lare il flogisto, ovvero il principio infiammabile sul quale era costrui­ ta la teoria chimica di Stahl. Nel 1772 lo scozzese Daniel Rutherford (1749-1819) nella sua Dissertatio inauguralis de aere fixo dicto, aut mephitico, presentò la scoperta di una nuova aria, detta mefitica o flogi43

sticata (che oggi sappiamo essere l'azoto). Come per i casi precedenti, l'utilizzazione di tali nomi non deve sorprendere. Per i filosofi naturali del XVI I I secolo che operarono prima della rivoluzione chimica di Lavoisier, le nuove sostanze aeriformi non possedevano in alcun modo le caratteristiche che oggi la chimica contemporanea attribuisce loro. Infatti, per spiegare il comporta­ mento delle diverse sostanze aeriformi vennero formulate innume­ revoli teorie strutturate sull'esistenza del flogisto (ma non solo), che spesso andò a ricoprire una funzione ben diversa da quella che gli era stata originariamente attribuita da Stahl. In ognuna di queste teorie, infatti, la parola flogisto rappresentò oggetti estremamente diversificati fra loro. Sempre nel 1772 , un membro della Royal So­ ciety di Londra, il teologo e filosofo naturale J oseph Priesdey (1733-1804), presentò il primo trattato interamente dedicato all'esa­ me del nuovo, straordinario universo delle arie. Priesdey risiedeva a Leeds nei pressi di una fabbrica di birra e ciò gli offrì l'opportunità di ottenere con facilità grandi quantità di aria fissa, ovvero di anidride carbonica. Grazie a numerose e ripetute esperienze, nelle Observa­ tions on diffèrent kinds ofair (1772 ) Priesdey non solo presentò l'esa­ me delle caratteristiche chimiche e fisiche dell'aria fissa, infiammabile e flogisticata, ma descrisse l'esistenza di due nuove arie, acida ( acido idrocloridrico) e nitrosa (ossido nitrico). Fu intorno alla natura del­ l' aria fissa, in particolare, che si aprì un'accesa controversia nella co­ munità scientifica dell'epoca. Una controversia nella quale si inse­ rì anche un giovane chimico francese, Antoine- Laurent Lavoisier (1743-1794). 3.2. La chi m i ca secondo Lavoisier In un celebre passo della Prefazione alla seconda edizione (1787) della Critica della ragion pura, lmmanuel Kant (172 4-1804) attribuì a Stahl un ruolo determinante nello sviluppo del sapere chimico nell'età dell'illuminismo, parago­ nando l'opera del medico tedesco a quella di Galileo Galilei ed Evan­ gelista Torricelli (Kant, ed. 1991, pp. 15-6). Anche Lavoisier ebbe una grande considerazione dell'opera di Stahl, al quale riconobbe il meri­ to di essere stato tra i primi a tentare di riportare su un terreno comu­ ne la teoria e la pratica chimica. A Lavoisier, infatti, non sfuggì l'im­ portanza dell'approccio stahliano ai problemi della combustione e della calcinazione. La teoria di Stahl non soltanto offriva una spiega-

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zione molto semplice e plausibile di questi processi, ma risultava an­ che in grado di conciliare dati empirici con una spiegazione teorica di carattere generale. Fu questa consapevolezza, unita alla propensio­ ne a trattare le questioni chimiche con metodi e strumenti puramen­ te fisici e matematici, che consentì a Lavoisier di sfruttare in modo ri­ voluzionario le nuove scoperte nel campo della chimica pneumatica. Una consapevolezza acquisita fin dal suo primissimo incontro con la chimica, nel 1761: «Quando ho cominciato per la prima volta a se­ guire un corso di chimica, benché il professore che avevo scelto pas­ sasse per il più chiaro e il più accessibile per i principianti, benché si preoccupasse moltissimo di farsi capire, fui sorpreso di vedere di quanti punti oscuri fossero circondati quei primi inizi della scienza» (cit. in Daumas, 1967, p. 19). Nel1764 Lavoisier redasse l'abbozzo di un corso di chimica dal quale risultava chiaramente come egli fosse lontano da una visione qualita­ tiva della composizione e della struttura della materia, che rifiutò sempre di studiare attraverso un approccio di tipo aprioristico, basa­ to sull'esistenza di elementi o principi primi stabiliti a priori, prima di ogni esperienza. Non molto tempo dopo, Lavoisier dimostrò an­ che l'impossibilità della trasmutazione, tanto cara agli alchimisti. Un cambiamento di stato di un dato corpo, secondo Lavoisier, era dovu­ to a una combinazione o separazione di almeno due sostanze diverse, mentre pareva assurdo ( soprattutto dal punto di vista sperimentale) sostenere che, ad esempio, una massa d'acqua potesse «senza addizio­ ne, senza perdita di sostanza», trasmutarsi in una massa di terra (cit. in Beretta, 1998, p. 2 6). Lavoisier estese le sue analisi all'aria e al fuoco, giungendo ad analiz­ zare quei processi di combustione e di calcinazione sui quali Stahl aveva costruito la teoria del flogisto. Nel1772 egli si convinse che tali processi non potevano essere dovuti alla perdita di flogisto (un mo­ dello teorico che stava ormai abbandonando), ma piuttosto andava­ no attribuiti alla fissazione nei corpi di una specifica aria, sicuramen­ te diversa da quella atmosferica. Il primo novembre di quello stesso anno Lavoisier depositò all'Académie des Sciences di Parigi una nota sigillata, nella quale annunciava di aver scoperto che lo zolfo, sotto­ posto a combustione, aumentava di peso e si convertiva in acido vi­ triolico (in realtà biossido di zolfo, 50 2), assorbendo una notevole quantità d'aria che si fissava in esso e che era all'origine del suo au45

mento ponderale. Anche il fosforo si comportava allo stesso modo. Inoltre, era probabile che il medesimo fenomeno fosse alla base del­ l'aumento di peso dei metalli sottoposti a calcinazione. Proprio in quell'anno, tra l'altro, Louis-Bernard Guyton de Morveau (1737-1816), che pure aveva dimostrato in maniera inequivocabile, grazie ad accurate esperienze quantitative, che i metalli sottoposti a calcinazione aumentavano di peso, cercò di spiegare il fenomeno at­ tribuendo al flogisto un peso negativo (ci t. in Abbri, 1978, p. 134): i l flogisto, essendo più leggero dell'aria, deve d i m i n u i re i n q uesto mezzo il peso del cor­ po a l q u a le si u n i sce; [... ] q uesta d i m i nuzione deve essere considerata come i l p rodotto dell'eccesso della sua leggerezza rispetto a ll'a ria. [ ] l n ta l modo, benché ogn i addizio­ ...

ne d i materia a u menti i l peso assoluto d i u n co rpo, è possibile che i l flogisto, aggi u nto ai corpi, non a u menti il loro peso specifico, ma lo d i m i n u isca in un mezzo aerifo rme.

L'artificiosa spiegazione di Guyton de Morveau, incapace di andare oltre il modello del flogisto, non poteva certo soddisfare Lavoisier. Consapevole che la questione dell'aria fissa era destinata a produrre degli effetti rivoluzionari sugli sviluppi della chimica, il 2 0 febbraio del1773 egli annotò sul proprio registro di laboratorio un chiaro e lu­ cido piano di indagini sperimentali ( Lavoisier, ed. 1986, p. 40). I risultati iniziali di questo programma videro la luce nel primo gran­ de libro di Lavoisier, gli Opuscules physiques et chimiques, che appar­ vero a Parigi nel dicembre 1773, pur recando la data gennaio 1774. Lavoisier, tuttavia, non aveva ancora compreso la differenza tra l'aria che si fissava, ad esempio, nei carbonati e quella che aveva a che fare con l'aumento di peso delle calci metalliche. Ma la soluzione al pro­ blema non sarebbe tardata ad arrivare. Proprio nell'agosto di quello stesso anno Priestley, scaldando l'ossido rosso di mercurio sotto una campana rovesciata, raccolse un nuovo gas che aveva la capacità di mantenere in maniera vivace la combustione. Si trattava dell'ossige­ no, che egli avrebbe chiamato aria deflogisticata. Come seguace di Stahl, Priestley stava cercando di inserire tutte le nuove arie in un quadro teorico tradizionale. Nel frattempo, la stessa aria era già stata isolata, in maniera del tutto indipendente, dal farmacista svedese Cari Wilhelm Scheele (1742 -1786), il quale l'aveva chiamata Feuer Luft (aria di fuoco). 46

Lavoisier comprese rapidamente che le caratteristiche dell'aria deflo­ gisticata consentivano di risolvere la questione enunciata nella nota sigillata del novembre 1772 . Nella primavera del 1775 egli arrivò così a stabilire in modo preciso la differenza esistente tra le varie arie fino ad allora scoperte (fissa, infiammabile, flogisticata, deflogisticata ecc.). Il 2 6 aprile 1775 Lavoisier lesse all'Académie des Sciences una celebre memoria nella quale definì qual era l'aria responsabile del­ l'aumento di peso delle calci metalliche, ovvero degli ossidi (ci t. in Abbri, 1978, pp. 177- 8): i l principio che si u n isce a i metalli d u ra nte la lo ro calci nazio ne, che ne au menta il peso e che li costituisce nello stato di ca lce, non è a ltro che la pa rte più salu b re e più p u ra dell'aria. I nfatti, se l'a ria, dopo essere stata i n u n a combi nazione meta llica, ritorna libe­ ra è i n uno stato e m i nentemente respira b i le ed è più adatta dell'aria atmosferica a ma ntenere l'i nfia m ma b i lità e la combustione dei corpi.

Nel Mémoire sur la combustion des chandelles dans l'air atmosphérique et dans l'air éminemment respirable (1777), Lavoisier offrì una chiara descrizione della composizione dell'aria atmosferica, stabilendo che essa era un miscuglio di gas, composto principalmente da ossigeno e azoto. La spiegazione proposta da Lavoisier non fu immediatamente accet­ tata. Essa ricevette l'immediato appoggio dei fisici, ma i chimici con­ tinuarono a considerarla come una delle tante spiegazioni proposte per risolvere la questione del comportamento delle arie. Identici dati sperimentali, infatti, potevano venire inseriti all'interno di immagini della materia completamente diverse fra loro e pochi chimici erano disposti ad abbandonare l'uso del flogisto nella spiegazione dei pro­ cessi di combinazione e scomposizione delle sostanze. Un contributo decisivo all'affermazione della nuova teoria chimica venne dagli esperimenti relativi alla natura composta dell'acqua. Nel 1783 Cavendish effettuò una serie di esperimenti relativi alla combustione dell'aria infiammabile con l'aria deflogisticata. Egli ar­ rivò così a concludere, l'anno successivo, che l'acqua era il risultato della combinazione delle due arie, inserendo la sua scoperta all'in­ terno di uno schema teorico fondato sull'uso del flogisto. Tra il 1783 e il 1785, Lavoisier ripeté gli esperimenti di Cavendish confermando 47

la natura composta dell'acqua. La sua spiegazione, tuttavia, fu di ben altra natura. Secondo Lavoisier, infatti, l'acqua costituiva il ri­ sultato dell'unione di due sostanze elementari, da lui denominate idrogeno e ossigeno, diverse da quelle indicate dalla tradizione; di tali sostanze egli riuscì a determinare anche le proporzioni: 85 parti di ossigeno e 15 parti di idrogeno. Anche l'acqua, dopo l'aria, cessava di essere un elemento. Ci vorrà ancora del tempo, comunque, prima che la comunità scientifica si converta alla teoria di Lavoisier. Nel frattempo il chi­ mico francese continuerà l'opera di sistemazione del suo nuovo edificio teorico, che troverà compimento in due straordinarie ope­ re, la Méthode de nomenclature chimique, pubblicata nel1787 assie­ me a Louis- Bernard Guyton de Morveau, Antoine- François Four­ croy (1755-1809) e Claude- Louis Berthollet (1748-182 2 ), e il Traité élémentaire de chimie, edito nel1789, non molto tempo prima dello scoppio della Rivoluzione francese. 3.3. Un nuovo concetto di elemento Fra le trasformazioni con­ cettuali che separano nettamente Lavoisier dalla tradizione chimi­ ca spiccano quelle relative all'idea di analisi e al concetto di elemen­ to. Fino a Lavoisier, il concetto di elemento come sostanza non ulte­ riormente scomponibile, più che costituire un'acquisizione di labo­ ratorio, si configurava come un assioma stabilito a priori. Gli ele­ menti di Aristotele o i principi di Paracelso si ponevano contempora­ neamente come punto di partenza e di arrivo di qualsiasi ricerca. La­ voisier, invece, riformulò il concetto di elemento ispirandosi ai criteri metodologici della filosofia dell'illuminismo, che imponevano l'espe­ rienza e il metodo analitico come punto di partenza per qualsiasi ri­ cerca nell'ambito delle scienze sperimentali. Secondo il fisico e mate­ matico francese (nonché uno degli editori dell'Encyclopédie) , Jean­ Baptiste Le Rond d'Alembert (1717-1783), i procedimenti d'indagine analitici (ovvero dal complesso all'elementare) erano particolarmente utili nel campo delle scienze sperimentali, ovvero nel caso in cui i principi primi di una scienza potevano essere individuati soltanto partendo dall'analisi delle proprietà macroscopiche delle sostanze. Raccogliendo i dati dell'esperienza in maniera ordinata era possibile, infatti, «disporli nell'ordine più naturale» e «ricondurli ad un certo numero di fatti principali» rispetto ai quali tutti gli altri apparivano

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«come conseguenze» (Alembert, ed. 1966, p. 6o). D'Alembert rifiuta­ va l'idea che i principi di una scienza sperimentale potessero essere individuati in maniera astratta e senza fondamento empirico, pro­ prio come avveniva nel caso della chimica. Sulla scia di queste suggestioni metodologiche, fra cui decisive risul­ tarono quelle derivate dalla lettura dell'opera filosofica di É tienne Bonnot de Condillac (1715- 1780), Lavoisier ritenne che la chimica non dovesse fornire, almeno in una prima fase, strumenti per deter­ minare l'intima struttura della realtà. La ricerca chimica doveva limi­ tarsi a indicare, utilizzando un procedimento di tipo analitico, quali erano le sostanze semplici determinabili sperimentalmente e in quale modo andavano a combinarsi. Mentre i principi della tradizione ave­ vano un carattere definitivo ed erano alla base dell'intera realtà, ma­ teriale e spirituale, gli elementi di Lavoisier possedevano un carattere del tutto provvisorio: «Ciò che si può dire sul numero e sulla natura degli elementi si limita secondo me a discussioni puramente metafisi­ che: si tratta di problemi indeterminati, che ci si propone di risolve­ re, che sono suscettibili di una infinità di soluzioni, ma delle quali è probabile che nessuna vada d'accordo con la natura» (Lavoisier, ed. 1986, p. 192 ). Lavoisier si rifiutò anche di stabilire un'analogia tra gli elementi e gli atomi (ibid. ) : Mi lim iterò d u nque a d i re che se col nome d i elementi i ntend iamo designare le moleco­ le semplici ed ind ivisibili che compongono i corpi è p roba bile che non li conosciamo. I nvece se colleghiamo a l nome elementi o principi l'idea del te rmine ulti mo al q u a le perviene l'a na lisi, tutte le sosta nze che n o n abbiamo a n co ra potuto sco m po rre sono per noi elementi; non perché possia mo assicura re che q uesti corpi che consideria mo se m ­ plici non siano essi stessi com posti d i due o persino d i u n più gra nde n u mero d i princi­ pi, ma perché q uesti p ri n c i p i non si sepa ra no mai, o piuttosto perché non abbiamo al­ c u n mezzo per sepa ra rli. Agisco no nei nostri confronti a lla m a n iera dei corpi semplici e non dobbiamo supporli com posti che a l m o mento i n cui l'esperienza e l'osservazione ci avra n n o fo rn ito la p rova che so no com posti.

Questi elementi avrebbero potuto cessare di essere tali, oppure au­ mentare, in base ai progressi delle analisi chimiche. Quest'ultima pre­ visione, che in effetti fu confermata abbastanza rapidamente, mise in evidenza come il sistema chimico di Lavoisier fosse strutturato sulla 49

base di un inedito collegamento fra la parte teorica e quella pratica, del tutto assente nei precedenti sistemi. La rapida scoperta di nuovi elementi continuò a suscitare scetticismo fra molti ricercatori, i quali ritenevano che in questo modo fosse messo in dubbio il principio fondamentale secondo cui la natura agi­ sce sempre nel modo più semplice possibile. Ma la battaglia di Lavoi­ sier era condotta proprio contro quei naturalisti o fisici che, per ra­ gioni diverse e contrapposte, volevano ricondurre l'intero sistema delle combinazioni chimiche a poche sostanze, negando contempo­ raneamente l'esistenza della chimica come disciplina specifica. Lavoisier non negò l'esistenza di principi ultimi della materia, ma criticò il fatto che questa idea si fosse trasformata in un dogma della ricerca chimica, la quale invece doveva riferirsi esclusivamente ai pro­ dotti finali dell'analisi sperimentale effettuata in laboratorio. Soltan­ to fondandosi su nuovi elementi, ottenuti attraverso procedimenti analitici, la chimica avrebbe potuto sperare di trasformarsi da sapere empirico in scienza. Contemporaneamente era necessario procedere a una nuova designazione degli elementi da un punto di vista lingui­ stico, ovvero alla creazione di una nuova nomenclatura, così come aveva fatto il grande svedese Cari von Linné (1707-1778), ovvero Lin­ neo, nell'ambito della botanica, che permettesse l'individuazione semplice e chiara delle sostanze. Norni quali «polvere di Algaroth, sale Alembroth, Pompholix, acqua fagedenica, turbith minerale, etiopi, colcothar», oppure «olio di tartaro per deliquio, olio di vitrio­ lo, burri di arsenico e di antimonio, fiori di zinco» andavano assolu­ tamente eliminati (cit. in Abbri, 1978, p. 216). La creazione di una nomenclatura semplice e univoca, tuttavia, non ha per Lavoisier un ruolo puramente strumentale. Essa rappresenta anche la ferma volontà di fare della chimica una disciplina non più interpretabile come parte di teorie generali di ispirazione metafisica o trascendente. Neli'ambito delle procedure dell'alchimista, infatti, lo studio delle sostanze materiali costituisce soltanto un pretesto per ac­ cedere a un superiore ordine spirituale. Fu così che Lavoisier espose nel Traité élémentaire de chimie, una Tavola delle sostanze semplici, le quali, designate secondo un nuovo linguaggio, venivano presentate come il risultato di operazioni di laboratorio puramente analitiche. Lavoisier ordinò trentatré elementi ritenuti semplici in quattro diver­ se classi: 50

sostanze semplici appartenenti ai tre regni e che è possibile considera­ re come elementi: luce, calorico, ossigeno, azoto; • sostanze semplici non metalliche ossidabili e acidificabili: zolfo, fo­ •

sforo, carbonio, radicale muriatico, radicale fluorico, radicale boractco; • sostanze semplici metalliche ossidabili e acidificabili: antimonio, arsenico, argento, bismuto, cobalto, rame, stagno, ferro, mangane­ se, mercurio, molibdeno, nichel, oro, platino, piombo, tungsteno, ztnco; • sostanze semplici salificabili, terrose: calce, magnesia, barite, allu­ mina, silice. Lavoisier non ebbe difficoltà ad accettare l'idea di Condillac che la nuova chimica dovesse dotarsi di una nuova lingua il più possibile vi­ cina al modello delle scienze matematiche. Fin dall'inizio della sua carriera Lavoisier si era mostrato convinto del fatto che la riforma della chimica dovesse passare necessariamente attraverso l'uso dei metodi e degli strumenti delle scienze matematiche e fisiche. Adesso questa convinzione trovava la sua massima espressione, nel1789, nel­ l'innovativa formulazione del principio di conservazione della massa (cit. in Beretta, 1998, p. 82 ): Si può po rre per principio che i n ogn i operazione si abbia una q u a ntità ugua le d i mate­ ria prima e dopo l'operazio ne; che la q u alità e q u a ntità dei principi è la stessa e che non vi sono se non alcu n i ca m b i a menti e a lcu ne modificazioni. Sopra questo principio è fo ndata tutta l'a rte d i fa re esperienze i n c h i m ica: i n tutte siamo obbligati a suppo rre u n a vera eguaglia nza, o equazio ne, tra i principi del corpo che si esa m i n a e q uelli che si traggono da ll'a na lisi.

3.4. La fisica contro La chi mica Il nuovo sistema lavoisieriano non venne recepito positivamente da quei filosofi naturali che ave­ vano come obiettivo primario lo studio delle relazioni tra i fenomeni e le forze della natura. Priesdey, ad esempio, non si convertirà mai alla nuova chimica e anche altri celebri personaggi lo faranno a fati­ ca; fra questi, Alessandro Volta (1745-182 7), il quale, nel 1776, rime­ stando il terreno dei fondi paludosi, aveva individuato un nuovo gas, da lui chiamato aria infiammabile nativa delle paludi, ovvero il metano (Volta, ed. 1967, pp. 2 41-56). Uno tra i primi ad appoggiare 51

la riforma lavoisieriana fu invece Lazzaro Spallanzani (172 9-1799), che vide nel sistema teorico e sperimentale del chimico francese, pe­ raltro stimato da anni, lo strumento finalmente in grado di risolvere il complesso problema della respirazione e di dare un nuovo assetto agli studi di fisiologia. Tuttavia, pur applicando strumenti quantita­ tivi alla chimica, Lavoisier fece anche comprendere che i fenomeni chimici erano troppo particolari e diversi per essere quantificati con gli stessi criteri della teoria meccanica. Per questo motivo, parados­ salmente, non tutti i fisici, che pure avevano elogiato le ricerche e la riforma di Lavoisier, furono disposti ad accettare facilmente tale prospettiva. Alla fine del Settecento, l'interesse dei fisici francesi fu sempre più in­ dirizzato verso l'ambizioso progetto di applicare in maniera universa­ le la scienza newtoniana. Nel 1785 Charles-Augustin Coulomb (1736-1806) affermò che le forze elettriche di attrazione e repulsione risultavano inversamente proporzionali al quadrato della distanza e seguivano perciò in tutto e per tutto la legge di Newton. Nel 1796, nell'opera dal titolo Exposition du système du monde e nei primi quat­ tro volumi del Traité de mécanique céleste, pubblicati tra il 1799 e il 1805, Pierre-Simon Laplace (1749-182 7) cercò di estendere la teoria meccanica a tutti i fenomeni della realtà naturale. La sua posizione, comunque, si articolò in maniera abbastanza complessa, propenden­ do talvolta per una spiegazione dei fenomeni microscopici fondata sull'esistenza di forze agenti a breve distanza tra le particelle, diverse da quelle gravitazionali. Chi invece non ebbe dubbi sull'universalità della forza di attrazione newtoniana fu Claude- Louis Berthollet, figura carismatica, assieme a Laplace, della scienza francese nell'età napoleonica. Durante la parte­ cipazione alla campagna d'Egitto (1798-99), Berthollet progettò una completa ristrutturazione della teoria delle combinazioni chimiche, che dopo la rivoluzione di Lavoisier sembrava essere giunta a un pun­ to di svolta. Grazie a Lavoisier, infatti, la chimica riuscì a compiere rapidamente notevoli progressi dal punto di vista teorico, che porta­ rono all'enunciazione di importanti generalizzazioni, quali la legge delle proporzioni definite (1794) del francese Joseph- Louis Proust (1754-182 6) e la legge delle proporzioni multiple (1808) di John Dal­ ton (1766-1804). L'idea, proposta per la prima volta da Proust nelle Recherches sur le bleu de Prusse (1794), che in ogni sostanza composta 52

le quantità in peso dei componenti si trovassero in un rapporto ben definito e costante, non era certo innovativa. Tale idea, infatti, si fondava sulla convinzione settecentesca che le affinità chimiche fos­ sero regolate da leggi stabili e costanti. Adesso, tuttavia, Proust aveva una base sicura sulla quale fondare la sua sperimentazione, la nuova teoria degli elementi di Lavoisier. Berthollet, al contrario, riteneva che la concentrazione dei reagenti non incidesse soltanto sulla velocità, ma anche sulle proporzioni del­ le sostanze che davano luogo a una combinazione. Per questo moti­ vo, egli era convinto che l'ambiente idoneo a evidenziare le reali ca­ ratteristiche di una combinazione chimica fosse quello delle sostanze poste in soluzione. La convinzione che qualsiasi dissoluzione fosse una vera e propria combinazione era già presente nella letteratura scientifica del XVIII secolo. Le particelle del solvente (allo stato flui­ do) si univano a quelle del soluto (allo stato solido) formando effet­ tivamente un composto. Sviluppando questo concetto, Berthollet giunse alla conclusione che, in soluzione, due sostanze potevano combinarsi in un numero infinito di proporzioni. Le reazioni si svol­ gevano, perciò, fra un limite minimo e un limite massimo di satura­ zione. Pur non intendendo cancellare l'esistenza di quelle combina­ zioni che effettivamente avvenivano in maniera irreversibile, così come era previsto dai sostenitori delle proporzioni costanti, la teoria di Berthollet intendeva proporsi come modello generale per qualsiasi tipo di reazione chimica. Le proporzioni costanti erano interpretate come manifestazione di casi particolari che avevano la tendenza a sottrarsi all'ambiente ideale di ogni reazione, cioè la soluzione. Non si manifestavano in proporzioni continue perché subivano l'influen­ za di fattori particolari. Nella visione del mondo di Berthollet, l'affi­ nità rappresentava una forza universale che si sarebbe manifestata li­ beramente, combinando le sostanze in qualsiasi proporzione, se la sua azione non fosse stata interrotta da condizioni fisiche specifiche. In particolare, le combinazioni tipiche dello stato solido e gassoso dovevano essere interpretate come casi chimici particolari di un siste­ ma fisico assai più generale. Così facendo, Berthollet riproponeva l'antico tentativo di ridurre la chimica ai principi della meccanica. In due opere fondamentali, le Recherches sur les lois de l'affinité (1801) e l'Essai de statique chimique (t8oJ), Berthollet sostenne con forza la differenza esplicativa tra la fisica e tutte le altre discipline. Soltanto la 53

fisica, infatti, era in grado di fornire un'unica legge generale in grado di spiegare l'incredibile varietà dei fenomeni esistenti in natura, com­ presi quelli chimici. Quella di Lavoisier, secondo Berthollet, costitui­ va una teoria, certamente rivoluzionaria, ma limitata a uno specifico settore dell'indagine naturale. Non molto tempo dopo, Jean- Baptiste Biot (1774- 1862 ) e François Arago (1786-1853) cercarono di applicare il programma di Laplace e Berthollet ai fenomeni ottici. La luce, come tutti gli imponderabili, era costituita, in base alle indicazioni fornite da Newton, da particel­ le diverse da quelle della materia ordinaria, ma comunque sottoposte all'azione di una forza pressoché identica. Nel 1808 É tienne-Louis Malus (1775-1812 ) scoprì che la luce poteva essere polarizzata per ri­ flessione. Ciò rafforzò indubbiamente la validità della teoria corpu­ scolare. Sempre di più ci si convinse della possibilità di una sua appli­ cazione universale secondo i principi della teoria newtoniana.

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4. Atomi, forze e cam pi 4.1. Le combi nazi o n i degli ato m i

Nonostante Berthollet, la chimica intra­ prese nel corso dell'Ottocento una strada per molti versi indipenden­ te dalla meccanica. Proust era un chimico analitico non particolar­ mente interessato a collegare le sue osservazioni a una filosofia gene­ rale della materia. Ben diversamente si comportò invece J ohn Dal­ ton. Gli studi del fisico inglese presero l'avvio da una serie di ricerche meteorologiche sulla composizione dell'atmosfera. Tra il 1793 e il 1802 egli cercò di mettere a punto una teoria che fosse capace di spie­ gare l'omogeneità dell'aria, giungendo a formulare la legge delle pres­ sioni parziali. Egli ipotizzò che le particelle di un gas, respingendosi fra loro, avevano la possibilità di diffondersi liberamente fra quelle di altre sostanze volatili, andando così a formare una massa omogenea, ma non interagivano con particelle di tipo diverso: «quando due flui­ di elastici, A e B, sono mescolati insieme, non esiste repulsione reci­ proca tra le loro particelle; cioè le particelle di A non respingono quelle di B, come fanno tra loro. Di conseguenza la pressione o peso totale su una particella qualsiasi deriva solo da quelle della sua specie» (cit. in Abbri, 1988, vol. 1 1 , p. 2 78). I gas restavano entità indipendenti e mostravano, considerando volu­ mi uguali e identiche condizioni di temperatura e pressione, densità estremamente differenziate e diversi gradi di solubilità. Secondo Dal­ ton, questi fenomeni potevano essere spiegati soltanto presupponen­ do che i diversi gas esistenti in natura fossero costituiti da particelle di grandezza diversa. Per giungere a un'esatta comprensione dei fe­ nomeni allo stato gassoso, il fisico inglese si propose così l'ambizioso compito di individuare un metodo per determinare il peso delle par­ ticelle relative alle singole sostanze aeriformi. Dalton era sicuro di poter esprimere misure quantitative che si rife­ rissero agli atomi indivisibili che costituivano la materia. Egli com­ prese che solo facendo assumere le proprietà caratteristiche dei corpi macroscopici a una serie di atomi indivisi bili, diversi fra loro, sarebbe stato possibile trovare un punto di collegamento tra la ricerca chimi4.1.1. Dalton e Gay- Lussac

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ca e quella fisica. Nell'ipotesi di Dalton, quando si analizzavano le caratteristiche di un elemento si poneva anche l'attenzione, in modo diretto, su un atomo inscindibile ed eterogeneo, e non su una parti­ cella indifferenziata, le cui proprietà potevano essere spiegate soltan­ to ricorrendo a un insieme di attributi generali della materia. Rifiu­ tando l'idea di una materia composta da infiniti livelli, Dalton pensò che la cosa più semplice da fare fosse pensare ogni nuovo elemento lavoisieriano come caratterizzato da uno specifico atomo, da conside­ rarsi indivisibile da un punto di vista non solo chimico, ma anche fi­ sico. Secondo Dalton, le combinazioni chimiche erano ovviamente dipendenti dal modo in cui gli atomi andavano a combinarsi fra loro. Rifacendosi alla prima delle Regulae philosophandi di Newton, il fisi­ co inglese riteneva che le reazioni fossero regolate dal meccanismo più semplice possibile. Dunque, se due sostanze, reagendo, davano origine a un unico composto, era ovvio, secondo Dalton, che gli ele­ menti di tale composto non potessero che combinarsi nel rapporto di 1:1. Questo era, ad esempio, il caso dell'acqua. Quando invece le so­ stanze formavano due composti si avevano due tipi di proporzione; nel caso di tre composti, uno era binario e due ternari, e così via. La teoria della materia di Dalton, esposta per la prima volta nella ter­ za edizione del System ofchemistry (1807) di Thomas Thomson (17731852 ), non venne accolta con entusiasmo in Europa. Benché la mag­ gior parte dei chimici credesse all'esistenza degli atomi, pochi erano disposti a fidarsi di una teoria speculativa priva di evidenze sperimen­ tali. All'atomo daltoniano vennero così attribuite qualità chimiche e non fisiche, come pretendeva lo scienziato inglese. Esso andò a coin­ cidere con la cosiddetta molecola integrante, ovvero la più piccola par­ ticella nella quale una sostanza poteva essere divisa, attraverso l'anali­ si sperimentale, senza perdere le proprie caratteristiche. Tale moleco­ la costituiva in pratica l'equivalente particellare dell'elemento lavoi­ sieriano. Il sistema di Dalton venne invece interpretato come un mo­ dello che avrebbe potuto essere utilizzato, se si fossero presentate condizioni adeguate, per calcolare i pesi relativi delle particelle. La traduzione in francese del System di Thomson venne seguita perso­ nalmente da Berthollet, che preparò per l'occasione un'ampia intro­ duzione contenente una serie di riflessioni generali sull'ipotesi di Dalton volta a integrare la teoria dello scienziato inglese nel più am­ pio contesto della dottrina delle proporzioni infinite.

Nel 1809 un giovane allievo di Berthollet, Joseph-Louis Gay-Lussac (1778-1850), nel Mémoire sur la combinaison des substances gazeuses, les unes avec les autres, presentò i risultati di una ricerca sul comporta­ mento dei gas, alla quale aveva partecipato per un certo periodo an­ che il grande Alexander von Humboldt (1769-1859). Secondo lo scienziato francese, tutte le reazioni fra volumi gassosi potevano esse­ re espresse, a parità di temperatura e pressione, secondo numeri pic­ coli e interi. Era la prima formulazione della legge sulla combinazio­ ne dei volumi gassosi. Gay-Lussac, comunque, sotto la pressione di Berthollet, che non credeva all'esistenza delle proporzioni definite, si affrettò a precisare che tali combinazioni rappresentavano un caso particolare nell'infinita varietà di reazioni possibili. Egli non trasse così dai suoi esperimenti alcuna conclusione in senso atomistico. Anche Dalton, tuttavia, fu costretto a rifiutare i dati provenienti dal­ la Francia, che pure avrebbero potuto fornire un appoggio importan­ te alla sua teoria. La teoria di Gay- Lussac mostrava che due volumi di idrogeno reagiscono con un volume di ossigeno per dar luogo a due volumi di vapore acqueo. Quindi, nel caso che due volumi identici di idrogeno e di ossigeno avessero contenuto, com'era del tutto logi­ co ipotizzare, lo stesso numero di particelle, il rapporto fra gli atomi previsto da Dalton per la molecola d'acqua (1:1) non sarebbe stato corretto. La conclusione era infatti inevitabile: il numero delle parti­ celle di ossigeno avrebbe dovuto essere doppio rispetto a quello del­ l'idrogeno, e tale raddoppiamento sarebbe stato giustificabile soltan­ to presupponendo la divisione degli atomi, fatto inammissibile per Dalton, che rigettò la validità sperimentale dei dati di Gay- Lussac. Secondo Dalton, i dati di Gay- Lussac potevano essere soltanto il frutto di errate sperimentazioni: «In verità io credo che i gas non si combinino sempre in proporzioni uguali o esatte; quando sembrano comportarsi in tale modo, ciò è dovuto alla scarsa accuratezza dei no­ stri esperimenti» (cit. in Ciardi, 1995, p. 144). L'ipotesi che uguali volumi contenessero lo stesso numero di particelle fu invece ritenuta ragionevole dal fisico torinese Amedeo Avogadro (1776-1856), il quale nel 1811 dette alle stampe il celebre Essai d'une manière de déterminer les masses relatives des molé­ 4.1.2. Avogadro

cules élémentaires des corps, et les proportions selon lesquelles elles entrent dans ces combinaisons, in cui espose per la prima volta la legge che 57

porta ancora oggi il suo nome: «La prima ipotesi che si affaccia a que­ sto riguardo e che pare essere la sola ammissibile, è di supporre che il numero delle molecole integranti in qualunque gas è sempre lo stesso a volume uguale o sempre proporzionale ai volumi» (Avogadro, ed. 1995, p. 39). Operando in un contesto autonomo rispetto a Dalton e a Berthollet e mantenendosi fedele alla metodologia strumentale di Lavoisier, Avogadro considerò l'atomo daltoniano come un modello utile a de­ terminare matematicamente (e non fisicamente) numero e peso delle particelle coinvolte in una reazione, e corresse i calcoli del fisico in­ glese alla luce dei dati sperimentali di Gay- Lussac. Avogadro non ebbe quindi difficoltà nell'ammettere, nel caso dell'acqua, la divisibi­ lità (per spiegarne il raddoppiamento) della molecola integrante d'ossigeno in due particelle più piccole, denominate molecole ele­ mentari. Avogadro, tuttavia, non attribuì una realtà fisica alle mole­ cole elementari, considerandole alla stregua di punti matematici. Da questo punto di vista egli fu indubbiamente influenzato da quella tradizione di ricerca, mantenuta in vita dall'opera di Leibniz e svilup­ pata, nel corso del Settecento, soprattutto dal gesuita di origine dal­ mata Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787). Boscovich pensò al suo sistema fisico come a un punto di mediazione tra il sistema di Newton e quello di Leibniz. Secondo Boscovich, la materia era costituita da elementi discreti, paragonabili a punti mate­ matici, privi di parti e dimensioni, che costituivano anche il centro di forze attrattive e repulsive, variabili in relazione alla distanza. Tale concezione, dunque, si poneva in contrasto con l'idea newtoniana di un'unica forza attrattiva che agiva sempre allo stesso modo in tutto l'universo. Avogadro evitò così di attribuire alle molecole elementari un peso re­ lativo definito, continuando ad assegnare il valore 1 non alla moleco­ la elementare di idrogeno, ma a quella integrante. Se Avogadro aves­ se pensato a una composizione rigidamente biparticellare di una qualsiasi molecola integrante, non avrebbe avuto difficoltà a stabilire i corretti pesi atomici relativi. Spesso, invece, egli ottenne valori al­ l'incirca dimezzati rispetto a quelli reali: «Quanto alla molecola del­ l'acqua, essa dovrebbe avere la sua massa espressa con 15 + 2 17 circa, prendendo per unità quella dell'idrogeno, se non vi fosse divi­ sione in due della molecola; ma, a causa di questa divisione, essa si ri=

duce alla metà, 81/ 2 o più esattamente 8,537» (ivi, p. 46). Le molecole prese in considerazione nel caso dell'acqua, inoltre, avrebbero potuto scomporsi, sempre da un punto di vista matematico e ipotetico, in frazioni molto più numerose, se nuovi dati sperimentali sui gas lo avessero reso necessario. La molecola integrante di un gas generico, infatti, non era costituita da un numero esatto di molecole elementa­ ri, ma soltanto da un «certo numero», mai precisato da Avogadro. Ancora nella Fisica de ' corpi ponderabili (1837- 41), un manuale scritto per i corsi universitari, Avogadro continuerà a sostenere che le mole­ cole integranti dei gas dovevano essere considerate come formate da un gruppo di molecole semplici, di cui tuttavia non si poteva indica­ re il numero, né accertare se esso fosse costante in tutti i gas elemen­ tari (ivi, pp. 95-131). Nel1814 il francese André- Marie Ampère (17551836) propose un'ipotesi sul numero di particelle contenute in volu­ mi uguali di gas del tutto analoga a quella di Avogadro, sostenendo di non essere a conoscenza del lavoro pubblicato nel1811 dallo scien­ ziato torinese. 4.2. L'u n ità delle forze natu rali

Per i filosofi na­ turali settecenteschi la scoperta di nuove arie aveva rappresentato so­ prattutto la possibilità di avere a disposizione ulteriori elementi spe­ rimentali utili a verificare la natura e il comportamento degli altri fluidi imponderabili, da quello elettrico al calorico. Era assai proba­ bile, infatti, che i vari fluidi non costituissero altro che la diversa ma­ nifestazione di un'unica e più generale entità imponderabile, ovvero il flogisto, come ad esempio andava sostenendo J oseph Priestley. Il tema dell'unificazione dei fenomeni naturali è ben radicato all'inter­ no della filosofia naturale del Settecento. Tale tema costituisce in larga misura un punto di riferimento essen­ ziale per quelle immagini della scienza che non concepiscono la natu­ ra sotto forma geometrica e matematica, ma la considerano, ispiran­ dosi anche alle concezioni filosofiche di Francis Bacon, alla stregua di un labirinto, oscuro e complesso. Un labirinto nel quale ci si può orientare non attraverso la guida delle scienze esatte, che risultano impotenti di fronte a una tale complessità, ma soltanto grazie all'au­ silio della paziente e costante ricerca sperimentale, come s1 evince 4.2.1. Elettroch i m ica, elettricità an imale, equ ivalenti

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dall'aforisma XLv dell'opera dal titolo De l'interprétation de la nature (1753), una delle migliori produzioni del filosofo francese Denis Di­ derot (1713-1784), editore, assieme a d'Alembert, dell'Encyclopédie (Diderot, ed. 1967, pp. 140-1): q u a n d o la fisica speri menta le sa rà p i ù p rogred ita, si rico noscerà che tutti i fen o m e n i, della gravitazione o dell'elasticità, dell'attrazione o del magnetismo o dell'elettricità, non sono a ltro che aspetti d ifferenti della stessa affezione. [ .. ] N o n è i m possibile in na­ .

tura, come è invece i m possi bile i n matematica, i l caso si ngola re i n cui la fisica speri­ mentale a forza d i fatiche, a rrivi a fo rmare u n la b i ri nto nel q u a le la fisica razionale, sma rrita e perd uta, si aggirerebbe senza tregua.

Lo scetticismo nei confronti del nuovo sistema di Lavoisier, non a caso, riguarderà anche questo specifico punto. La chimica non pote­ va, come pensava Lavoisier, distaccarsi dalla filosofia e dalla storia na­ turale. La sfiducia di poter quantificare fenomeni complessi come quelli chimici (come aveva dimostrato, tra l'altro, il sostanziale falli­ mento delle tavole di affinità) lasciò molti ricercatori perplessi di fronte alla proposta teorica del chimico francese. Lavoisier, al contra­ rio, aveva perfettamente capito che se si voleva procedere sulla strada cara ai filosofi naturali settecenteschi, era prima necessario giungere, attraverso la riforma della storia naturale, alla costituzione di una se­ rie di discipline autonome e indipendenti le une dalle altre, dotate di una struttura quantitativa e non qualitativa. Solo allora la scienza avrebbe potuto riprendere (come effettivamente avvenne) il cammi­ no verso l'ambizioso tentativo di unificare le forze fondamentali della natura, quali ad esempio quelle chimiche e quelle elettriche. I rapporti tra elettricità e affinità chimica furono al centro delle di­ scussioni e delle ricerche di quasi tutti i cultori di scienze sperimenta­ li del XVIII secolo, dando vita, soprattutto al di fuori della Francia, anche a un corposo insieme di modelli qualitativi. La prova che le forze chimiche e quelle elettriche erano strettamente legate fra loro giunse dopo una trentina d'anni di ricerche per merito di Alessandro Volta. Il 2 0 marzo 18oo, in una celebre lettera indirizzata a J oseph Banks (1743-182 0), presidente della Royal Society, Volta annunciò l'invenzione della pila, ovvero di uno strumento in grado di produrre quantità di corrente continua notevole, se paragonata a quella messa 60

a disposizione dalle tradizionali macchine elettrostatiche o dalla bot­ tiglia di Leyda. L'invenzione della pila era stata determinata dal coin­ volgimento di Volta nella polemica con Luigi Galvani (1737-1798)

sull'elettricità animale. Nel1791 Galvani, dopo aver rilevato che l'unione, attraverso un arco metallico, di due nervi del muscolo di una rana provocava una con­ trazione del muscolo stesso, aveva ipotizzato, nel De viribus electrici­ tatis in motu musculari commentarius, che gli animali possedessero nel loro organismo una specifica elettricità, indipendente da qualsiasi in­ fluenza esterna. La questione dell'unione tra fenomeni fisici e funzio­ ni vitali non rappresentava certo una novità alla fine del Settecento. Già Stahl aveva a più riprese sostenuto una visione vitalistica del cor­ po umano, cercando di mostrare come il tentativo di Cartesio di ri­ durre l'anatomia umana a un modello meccanico fosse destinato ine­ vitabilmente al fallimento. Anche lo Scholium di Newton (cfr. PAR. 2.4), in fondo, andava già in questa direzione. Merito di Galvani fu di riuscire a trasformare un'ipotesi scarsamente accreditata ed estre­ mamente speculativa, al limite della ciarlataneria, in un sistema spe­ rimentale sicuro e verificabile. Volta, tuttavia, dopo aver studiato at­ tentamente le esperienze di Galvani, offrì una diversa interpretazione del fenomeno: le contrazioni non andavano attribuite all'elettricità animale, ma erano dovute all'arco metallico, costituito da metalli differenti. L'invenzione della pila aprì la strada a una serie di incredibili esperien­ ze, che colsero di sorpresa lo stesso Volta, come egli testimoniava in una lettera scritta al fratello il17 novembre1801 da Parigi, dove si tro­ vava invitato da Napoleone: «mi stupisco come le mie scoperte vec­ chie e nuove del così detto galvanismo, le quali dimostrano altro que­ sto non essere, che pura e semplice elettricità mossa da contatto di me­ talli fra loro diversi, abbiano prodotto tanto entusiasmo» (Volta, ed. 1949-55, vol. IV, p. 92 ). Con l'ausilio della pila si riuscì a individuare nuovi e interessanti fatti sperimentali e l'elettrologia diventò il campo d'indagine privilegiato per tutti coloro che cercavano un filo condut­ tore per spiegare in maniera unitaria i fenomeni naturali. L'impiego della pila costrinse gli scienziati ad ampliare il raggio delle loro indagini, che non poté più limitarsi all'ambito dei feno­ meni elettrici. Ad esempio, i corpi chimici in soluzione, se sottopo­ sti all'azione della corrente elettrica, si decomponevano negli ele61

menti costituenti. Anthony Carlisle (1768-1840) e William Nichol­ son (1753-1815), due ricercatori inglesi, ottennero nel 1801 la de­ composizione dell'acqua e l'elettrolisi di molte soluzioni acquose di differenti sali, dimostrando l'esistenza di un preciso rapporto tra ef­ fetti elettrici e processi chimici. In breve, l'elettrochimica fece passi da gigante. Nel 1807 l'inglese Humphry Davy (1778-182 9), noto anche per l'invenzione della lampada di sicurezza dei minatori, iso­ lò il sodio e il potassio, utilizzando la corrente di una pila formata da 2 50 elementi, mentre l'anno successivo l'operazione riuscì per il calcio, il bario, lo stronzio e il magnesio. Tuttavia, nonostante que­ ste importanti scoperte, che contribuirono ad aumentare sensibil­ mente il numero degli elementi da inserire nella tavola di Lavoisier, Davy non ritenne opportuno aderire all'atomismo, che considerò sempre con molta diffidenza, preferendo abbracciare le idee del connazionale William Hyde Wollaston (1766-182 8), il quale, per ovviare alle implicazioni antologiche contenute nell'ipotesi atomi­ ca, mise a punto un sistema di calcolo esprimente rapporti numeri­ ci di carattere puramente empirico, introducendo, nel 1813, l'uso del termine equivalente per indicare la quantità in peso di un ele­ mento combinata con un grammo di idrogeno. Davy è il classico esempio di studioso dedito al perseguimento degli obiettivi della filosofia naturale settecentesca, approfittando della grande rivoluzione sopraggiunta nell'ambito della storia naturale alla fine del XVIII secolo e, soprattutto, in chimica. Egli, ad esempio, pur essendo un lavoisieriano, considerava la ricerca delle affinità come il vero obiettivo della scienza chimica. La sua immagine complessiva della scienza era in netto contrasto con quella dominante in Francia all'inizio dell'Ottocento. L'idea della materia di Davy (la cui opera venne influenzata anche da poeti come Coleridge e Wordsworth), era strettamente legata alla filosofia naturale del secolo precedente e, per certi versi, alle concezioni scientifiche e teologiche di J oseph Priestley. Priestley riteneva che lo studio della natura fosse semplicemente uno strumento per accedere alla comprensione spirituale, oltre che fisica, del mondo. Per questo motivo egli pensava, in antitesi alla scuola di Laplace, che la meccanica fosse una scienza superficiale e che la chia­ ve della comprensione della natura risiedesse soprattutto nelle scien­ ze, come la chimica e l'elettrologia, che potevano studiarne le forze 62

più profonde. Presentare la materia come esclusivo risultato dell'a­ zione di poteri di attrazione e repulsione, rifiutando i cardini della fi­ sica tradizionale, quali la solidità e l'impenetrabilità, serviva a giusti­ ficare, in metafisica, l'esistenza di una sola sostanza, contrariamente alla tradizionale interpretazione dualistica, di matrice cattolica e car­ tesiana. Dalla lettura della Bibbia, secondo Priesdey, era possibile de­ durre che corpo e anima costituivano una sola identità e dunque an­ che dal punto di vista fisico risultava necessario ammettere la sovrap­ posizione fra materia e spirito. Il che poteva essere garantito soltanto attraverso la concezione di una natura vivente, dotata di forze imma­ teriali, attive e organizzatrici. Priesdey ebbe un atteggiamento etero­ dosso dal punto di vista teologico e fu oggetto di numerose critiche provenienti dagli ambienti ecclesiastici. Il timore, infatti, era quello di un collegamento troppo stretto fra le sue tesi e lo sviluppo della fi­ losofia materialistica, che aveva trovato il suo massimo interprete nel barone d'Holbach (172 3-1789), autore, nel 1770, del Système de la na­ ture, ou des loix du monde physique et du monde morale, nel quale ave­ va cercato di dare un preciso fondamento scientifico al materialismo, attribuendo alla materia stessa qualità come l'affinità e la forza, o ad­ dirittura la generazione spontanea, ovvero la capacità di generare auto­ nomamente la vita, una teoria ancora ampiamente diffusa nell'ambi­ to delle scienze naturali europee dell'età dei Lumi, nonostante la confutazione seicentesca di Francesco Redi e quella, ben più recente, di Lazzaro Spallanzani, il quale nel1765 aveva dato alle stampe il fon­ damentale Saggio di osservazioni microscopiche concernenti il sistema dei signori Needham e Bujfon. Il naturalista inglese John Turbeville Needham (1713-1781) aveva riproposto con forza il tema della genera­ zione spontanea intorno alla metà degli anni cinquanta del Settecen­ to. Grazie alle sue ricerche sull'origine spontanea dei microrganismi delle infusioni, egli intendeva delineare gli studi sui fenomeni vitali secondo leggi proprie, ritenendo insufficiente l'immagine meccani­ ca dei fenomeni biologici. Georges- Louis Leclerc de Buffon (17071788), uno dei più importanti e influenti scienziati dell'età dei Lumi, teorizzò invece l'esistenza di specifiche molecole organiche, caratteri­ stiche della materia vivente, all'origine di tutti i processi vitali. Se­ condo Buffon, gli organismi viventi possedevano un'organizzazione speciale, che li caratterizzava sotto il profilo biologico. L'opera di Buffon avrà un grande influsso sul vitalismo ottocentesco, in partico-

lar modo su quello francese, e non mancherà di influenzare le conce­ zioni trasformistiche ed evoluzionistiche della natura, a partire da quella di Jean- Baptiste de Lamarck (1744-182 9). Nonostante le cautele di Wollaston, tut­ tavia, durante il secondo decennio dell'Ottocento si assistette a una continua proliferazione di sistemi per calcolare direttamente i pesi atomici. Un'ipotesi destinata ad aprire discussioni e nuove proble­ matiche fu, ad esempio, quella del chimico, medico e fisiologo in­ glese William Prout (1785-1850), il quale affermò, nel 1815, che tutti i pesi atomici erano multipli interi di quelli dell'idrogeno, al quale doveva essere attribuito il valore 1. Nel corso dei suoi studi, Prout stabilì sperimentalmente, nel 182 7, la prima classificazione moderna dei principi nutritivi, che egli divise in sostanze zuccherine, oleose e albuminose, ovvero proteine, glucidi e grassi, questi ultimi studiati ampiamente in quegli anni dal francese Michel-Eugène Chevreul (1786-1889). L'idea di un principio unitario alla base della costitu­ zione della materia rivelava il debito di Prout nei confronti della fi­ losofia naturale inglese, sia settecentesca che ottocentesca. Un debi­ to che sarebbe emerso anche nell'ambito dei suoi studi sui fenomeni vitali. Così si esprimeva nel 184o: «che il principio oleoso possa esse­ re convertito in molte, se non tutte, le materie necessarie per l'esi­ stenza dei corpi animali, sembra essere provato dal fatto ben noto che la vita di un animale può essere prolungata dall'appropriazione delle materie oleose o d'altro tipo contenute nel suo stesso corpo» (cit. in Cerruti, 1990, p. 6o). La teoria di Prout riscosse numerosi consensi, ma anche dure criti­ che, fra cui quella dello svedese Jons Jacob Berzelius (1779-1848), il più importante e influente chimico della prima metà dell'Ottocento. Berzelius aveva manifestato un forte apprezzamento per le ricerche sui gas di Gay-Lussac. Tuttavia, pur accettando i dati di Gay-Lussac, egli non si schierò dalla parte dell'ipotesi di Avogadro, ritenendo che volumi uguali di gas non contenessero lo stesso numero di molecole, ma di atomi. La natura di questa spiegazione è da ricercarsi nella con­ cezione elettrochimica dello scienziato svedese, secondo il quale alcu­ ni elementi, dopo l'elettrolisi, assumevano elettricità positiva, altri elettricità negativa. Ma se esistevano due gruppi fondamentali di ele­ menti elettricamente eterogenei, era impossibile che due particelle di

4.2.2. La materia orga n i ca

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uno stesso elemento, dotate di elettricità identiche, potessero essere riunite in una sola molecola. Così Berzelius preferì affidarsi alle espe­ rienze di Pierre- Louis Dulong (1785-1838) e Alexis-Thérèse Petit (1791-182 0), i quali nel1819 stabilirono che il prodotto del peso ato­ mico di molti metalli per il loro calore specifico è costante. Berzelius sostenne anche le ricerche di Eduard Mitscherlich (1794-1863), il quale scoprì che l'identica struttura cristallina di molti composti po­ teva essere utilizzata per determinare il peso molecolare di sostanze la cui formula era ignota, ma non la forma del cristallo. L'autorità di Berzelius esercitò un ruolo decisivo anche nel nuovissi­ mo settore delle ricerche sui composti organici, proponendo nel 1807 l'uso della definizione chimica organica per designare lo studio di tutte le sostanze derivate da organismi sia vegetali che animali. L'aumento pressoché incontrollabile, favorito dalle nuove basi epi­ stemologiche fornite dalla rivoluzione lavoisieriana, di sostanze or­ ganiche, dotate di formule assai più grandi rispetto ai corpi inorga­ nici, costrinse i chimici alla produzione di teorie interpretative sem­ pre più elaborate e raffinate. Celebre la lettera di Friedrich Wohler (1800-1882 ) a Berzelius, scritta nel1835, che sintetizza efficacemente la situazione in cui si vennero a trovare i chimici di fronte agli straordinari progressi della chimica organica: «La chimica organica è oggi tale da condurre un uomo fuori di senno. Essa produce in me l'impressione di una foresta tropicale primitiva, riempita di cose in­ teressanti, e di una mostruosa e illimitata vegetazione dalla quale è impossibile districarsi e in cui è pauroso entrare» (cit. in Di Meo, 1994, p. 40). Gay- Lussac e Jacques Thénard (1777-1857), sviluppando le analisi di Lavoisier sulle sostanze animali e vegetali, ipotizzarono che gli zuc­ cheri fossero formati da carbonio, idrogeno e ossigeno e scrissero le formule empiriche di alcuni zuccheri semplici. Inoltre, studiando le proprietà dell'acido cianidrico ( H CN), i due scienziati focalizzarono anche l'esistenza di un gruppo CN, trasferibile allo stesso modo di un atomo singolo (ad esempio di cloro), che venne detto radicale. A questa teoria aderirono numerosi e importanti chimici, fra cui Berze­ lius, il quale considerò il radicale come la parte elettropositiva di una molecola. Secondo il chimico svedese, le sostanze organiche erano di natura completamente differente da quelle inorganiche, e quindi non riproducibili in laboratorio. Berzelius riteneva che l'essenza dei 65

corpi viventi risiedesse in una particolare forza vitale, estranea alla materia e dovuta a un'intelligenza superiore. Nel 1821, invece, Avo­ gadro sostenne che la diversità fra i due ordini di sostanze era deter­ minata soltanto da una diversa organizzazione degli elementi. Su questa linea si sarebbe mosso anche Jean- Baptiste-André Dumas (18oo-1884) nel suo Essai de statique chimique des etres organisés (1844). La convinzione di Berzelius fu incrinata quando nel 182 8 Wohler, riscaldando del cianato d'ammonio, ottenne la sintesi di un composto organico, l'urea, CO(NH 2)2 • Tuttavia, l'idea che esistesse una specifica forza che caratterizzava la materia organica rispetto a quella inorganica continuò a rappresentare una convinzione diffusa nell'ambito della chimica della prima metà dell'Ottocento. Naturalmente non tutti i chimici pensavano che la forza vitale fosse necessariamente esterna alla materia ordinaria. Per J ustus von Liebig (1803-1873), ad esempio, che riteneva la fenomenologia del vivente irriducibile a quella del mondo inorganico, la forza vitale (ancora tutta da determinare) avrebbe potuto in linea di principio essere defi­ nita chiaramente così come era stato fatto per le altre forze naturali. Anche per Liebig, comunque, la specificità della forza vitale avrebbe generalmente reso impossibile la produzione artificiale delle sostanze organiche a partire dai componenti elementari della materia. L'urea, pur appartenendo al mondo organico, era un composto semplice, e quindi sintetizzabile. Ma composti e procedimenti più complessi, che caratterizzavano in maniera specifica il vivente, sfuggivano a que­ sta possibilità. Dopo essersi laureato nel 182 2 , a soli diciannove anni, presso l'Università di Erlangen, dove ebbe come insegnante Schel­ ling (cfr. PAR. 4.3.1), Liebig, grazie anche alla raccomandazione di von H umboldt, lavorò per un certo periodo a Parigi nel laboratorio di Gay- Lussac. Questo periodo influì fortemente sulla concezione della ricerca scientifica del chimico tedesco. Nel 182 4, infatti, dopo aver ottenuto, sempre grazie a Humboldt, la cattedra di chimica presso l'Università di Giessen, Liebig fondò uno straordinario e in­ novativo laboratorio di ricerca (destinato ad acquisire fama mondia­ le), dove praticamente si formarono i maggiori chimici dell'epoca. Gli studi di Liebig, il quale mise a punto i metodi di analisi per deter­ minare i componenti elementari (carbonio, idrogeno, azoto, ossige­ no) dei composti organici, erano destinati ad aprire la strada a nume­ rosissimi ambiti di ricerca. 66

Nel 1840 Liebig espose compiutamente la sua teoria della concima­ zione, basata sull'uso di fertilizzanti chimici, in base alla quale ogni terreno poteva essere reso fruttifero se gli fossero stati resi i compo­ nenti necessari allo sviluppo delle piante. Egli dimostrò che le piante hanno bisogno per il loro sviluppo non soltanto dei componenti or­ ganici dell'humus, ma anche di sostanze inorganiche quali fosforo, ammoniaca, potassio, magnesio, azoto. Nel momento in cui i pro­ cessi di coltivazione sottraggono ai terreni tali componenti, diventa necessario, secondo Liebig, intervenire con l'azione di concimi rein­ tegrativi. Nel 1842 , invece, nell'opera intitolata Die Thierchemie oder

die organische Chemie in ihrer Anwendung aufPhysiologie und Patho­ logie (La chimica animale ovvero la chimica organica nella sua appli­ cazione alla fisiologia e alla patologia), Liebig stabilì che i principi ali­ mentari appartenevano a due grandi categorie, quella degli alimenti respiratori, ovvero gli zuccheri e i grassi, che nel lento processo di combustione fisiologica fornivano il calore animale, e quella degli ali­ menti plastici, corrispondente alle proteine animali e vegetali. È da ricordare (come spesso avviene nella storia della scienza), che il ter­ mine proteina venne proposto una decina d'anni dopo la classifica­ zione di Prout dal chimico olandese Gerrit Johannes Mulder ( t8o2 -188o). Le ricerche di Liebig stimoleranno gli studi sulla fer­ mentazione, sugli enzimi e sul metabolismo, aprendo la strada alla nascita di una nuova disciplina specifica, la biochimica, ovvero la scienza che tratta della conformazione chimica degli organismi vi­ venti e della dinamica dei processi chimici vitali. 4.3. La fisica nell'età del rom a nticismo e del positi vismo

Avogadro, erede della grande tradizione della filosofia naturale settecentesca, che ebbe due dei suoi grandi in­ terpreti in Giambattista Beccaria e Alessandro Volta, fu particolar­ mente interessato allo studio delle relazioni tra le forze naturali, da quelle elettriche a quelle chimiche, da quelle magnetiche a quelle ot­ tiche. Il suo grande merito fu tuttavia proprio quello di aver compre­ so che lo studio di questi settori non poteva prescindere dai risultati ottenuti dalla nuova chimica di Lavoisier. I fisici, finalmente, dopo molto tempo, avevano a disposizione uno strumento che consentiva, in maniera chiara, sistematica e attraverso un linguaggio universal-

4.3.1. L'e lettromagnetismo

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mente accettato, di poter utilizzare la quantificazione del livello ma­ croscopico della materia per indagare i fenomeni del mondo micro­ scopico e, in modo particolare, le affinità chimiche. Nel 1803 Avoga­ dro presentò all'Accademia delle Scienze di Torino un Essai analyti­ que sur l'électricité, in cui offrì un contributo originale alla trattazione dei problemi relativi alla natura elettrica degli isolanti, giungendo a delineare chiaramente il fenomeno della polarizzazione del dielettri­ co. Egli affermò, infatti, che gli strati molecolari di un isolante, sotto l'influenza di un corpo elettricamente carico, non opponevano sol­ tanto una resistenza passiva, come voleva la tradizione, ma risultava­ no sensibili all'induzione elettrica, induzione che si manifestava at­ traverso forze a corto raggio, diverse dall'attrazione gravitazionale. Nel 1811 Avogadro consegnò all'Accademia un nuovo manoscritto dedicato all'elettrologia che conteneva ulteriori elementi di originali­ tà, tali da mettere in discussione lo stesso modello newtoniano di for­ ze agenti a distanza in linea retta. Il manoscritto, allora rifiutato dagli accademici torinesi, sarebbe stato poi pubblicato da Avogadro nel 1844, costringendo Michael Faraday a chiedersi (e a consultarsi su questo punto con il giovane William Thomson, futuro Lord Kelvin) quanto le sue idee sulla polarizzazione fossero analoghe a quelle dello scienziato torinese. Che l'opera fisica di Avogadro sia stata considera­ ta con attenzione nel mondo anglosassone e germanico, dove si sta­ vano elaborando modelli alternativi a quelli della fisica francese, non è affatto sorprendente. Quello di Avogadro, infatti, fu uno dei tanti filoni di ricerca teorica e sperimentale che in quegli anni si sviluppa­ rono, in maniera originale, accanto al programma di ricerca di Lapla­ ce. Gli anni venti dell'Ottocento videro il progressivo declino della fisica meccanicista e della tradizione dei fluidi imponderabili. Uno dei settori che contribuì a mettere in crisi questa tradizione di ricerca fu sicuramente quello degli studi di ottica. Come per gli altri ambiti della filosofia naturale settecentesca, è bene ricordare che, anche nel campo degli studi di ottica, i modelli fondati sulla fisica newtoniana non dominarono incontrastati. La teoria del mezzo, ad esempio, che nel xvn secolo aveva trovato in Christiaan Huygens ( 162 9- 1695) il suo massimo esponente, conti­ nuò ad avere nel Settecento numerosi seguaci. In Germania, fra il 1750 e il 1790, circa i due terzi dei ricercatori adottarono la teoria ondulatoria elaborata da Leonhard Euler nella Nova theoria lucis et 68

colorum del 1746. Fu proprio la teoria di Euler, del resto, a esercita­ re un'influenza decisiva sull'opera del fisico e medico inglese Tho­ mas Young (1773-182 9), noto anche per i suoi tentativi di decifra­ zione dei geroglifici (prima dell'elaborazione dell'interpretazione di Champollion, formulata nel 182 2 ), al quale viene solitamente attri­ buita la rinascita della teoria ondulatoria della luce ai primi dell'Ot­ tocento. Dopo la Restaurazione, nonostante le ricerche di Malus, Young trovò un prezioso sostenitore in Francia in Augustin Fresnel (1788182 7). In particolare, quella di Fresnel era una costruzione matema­ tica fondata sulla teoria ondulatoria che evitava di fare riferimento a qualsiasi modello molecolare basato sull'esistenza di fluidi. La fi­ sica degli imponderabili stava iniziando il suo lento, ma inesorabile declino. Negli ultimi decenni del XVIII secolo l'analogia tra fenomeni elet­ trici e fenomeni magnetici era data per scontata. Ciò non signifi­ cava, tuttavia, che gli effetti dell'elettricità e del magnetismo po­ tessero essere ricondotti a cause e principi comuni: «Sebbene il fluido magnetico sia soggetto alle stesse leggi del fluido elettrico», sottolineava René-J ust Hatiy (1743-182 2 ) nel suo Traité de minéra­ logie del t8ot, «ne differisce tuttavia per la sua natura e le sue pro­ prietà, per lo meno allo stato attuale delle nostre conoscenze» ( cit. in Ciardi, 1995, p. 33). Tuttavia, tra la fine del 1819 e l'inizio del 182 0 Hans Christian Oersted (1777- t85t), professore di fisica al­ l'Università di Copenaghen, scoprì un fenomeno rivoluzionario, destinato ad avere un'influenza enorme sui futuri sviluppi della scienza e della tecnica: la corrente elettrica era in grado di esercita­ re un'azione sull'ago magnetico di una bussola. Oersted descrisse i risultati della sua scoperta in un opuscolo, redatto in data 21 luglio 182 0, dal titolo Experimenta circa effectum conflictus electrici in acum magneticum. Gaspard De La Rive, direttore della rivista "Bi­ bliothèque Universelle" di Ginevra, non appena ricevuto, nei pri­ mi giorni d'agosto, l'opuscolo di Oersted, ne ripeté le esperienze alla presenza di Arago, il quale le riferì all'Académie des Sciences di Parigi il 4 settembre e le replicò nella seduta della settimana successiva. Oersted non era certo uno sconosciuto a Parigi. Il fisico danese, in­ fatti, vi aveva soggiornato nel1802 , durante un viaggio fondamentale 69

per la sua formazione scientifica che lo aveva condotto precedente­ mente in Germania. Qui, com'è noto, venne in contatto con gli am­ bienti della Naturphilosophie, anche se fu soprattutto la collaborazio­ ne intorno alla natura del fluido galvanico portata avanti con J ohann Wilhelm Ritter (1776-1810) a stimolare in lui l'idea dell'identità delle forze alla base di tutti i fenomeni naturali. La scoperta della pila non aveva messo fine al dibattito fra i sostenitori di Volta e quelli di Gal­ vani. Al contrario incentivò, oltre alle ricerche sui fenomeni del gal­ vanismo, anche le attività di terapia medica attraverso l'elettricità. Il galvanismo ebbe grande successo, ad esempio, in Inghilterra, trovan­ do fra i suoi sostenitori anche il medico, filosofo naturale e poeta Erasmus Darwin (1731-1802 ), nonno di Charles, il quale sostenne l'impiego terapeutico dell'elettricità per varie patologie. Darwin, inoltre, nell'opera Zoonomia or the laws of organic !ife (1794- 96) ap­ poggiò senza riserve la teoria della generazione spontanea. Tale con­ testo scientifico non mancò di influenzare la letteratura del tempo. L'idea che nella materia fossero presenti forze vitali legate soprattutto all'elettricità è un tema che servirà di ispirazione a Mary Shelley per la realizzazione del suo Frankenstein; or, The modern Prometheus, come si può leggere nell'Introduzione all'edizione definitiva del rac­ conto, pubblicata nel 1831: «Forse si sarebbe potuto rianimare un ca­ davere; il galvanismo aveva dato speranze in questo senso; forse era possibile fabbricare, mettere insieme e dotare di calore vitale le parti che compongono un essere vivente» ( Shelley, ed. 1994, p. 30). In Germania la filosofia della natura di Friedrich Wilhelm J oseph von Schelling (1775-1854) diffuse sicuramente l'idea che fosse neces­ sario cercare di dare una spiegazione unitaria ai vari fenomeni natu­ rali, da quelli meccanici a quelli chimici e biologici. Oersted, espo­ nendo le idee di Ritter, riproponeva il concetto dell'unità dei feno­ meni naturali vista dalla parte del vivente. Per Volta, che era stato da poco celebrato a Parigi, i fenomeni galvanici erano identici a quelli elettrostatici e a quelli della pila. Ritter, ribaltando la prospettiva, in­ terpretava il galvanismo all'interno di una visione vitalistica della na­ tura. Nel 1813 l'edizione francese di un testo di Oersted stampato quattro anni prima a Copenaghen, e tradotto con il titolo Recherches sur l'identité des forces chimiques et électriques, ottenne un discreto successo. Ciò parrebbe indicare che anche in certi settori della fisica francese si stesse affermando un'immagine della natura più sensibile 70

agli stimoli, in maniera specifica, della filosofia idealista tedesca, e più in generale, di una visione romantica del mondo. In una lettera del 2 ottobre 182 0, Dulong riferiva a Berzelius che inizialmente «le esperienze di Oersted sulla relazione da lui scoperta tra il magneti­ smo e l'elettricità» erano state giudicate come «un'altra fantasticheria tedesca», tuttavia, non appena annunciato che il fatto aveva una sua consistenza tutti vi si erano «gettati a capofitto» (ci t. in Ciardi, 1999, p. 95). Ampère, il quale in effetti dimostrò un certo interesse per la filosofia di Schelling, fu tra coloro che più si impegnarono nello studio dei nuovi fenomeni rivelati da Oersted. Egli aveva ben chiaro il motivo per cui la scoperta dell'elettromagnetismo non era avvenuta in Fran­ cia: «N e è la causa l'ipotesi di Coulomb sulla natura dell'azione ma­ gnetica. Si credeva a quell'ipotesi come a un dato di fatto; essa scarta­ va assolutamente ogni idea di azione fra l'elettricità ed i pretesi fluidi magnetici» (Ampère, ed. 1969, p. 573). Ampère, comunque, pur muovendosi su una linea di confine, non riuscì a staccarsi completa­ mente dai fondamenti della scuola laplaciana (così come non ci riu­ sciranno né Avogadro né Carnot) e cercò di ricondurre i fenomeni elettromagnetici all'interno di una teoria matematica basata sul prin­ cipio dell'azione a distanza in linea retta. Nel frattempo la scoperta di Oersted stimolò la ricerca di altre even­ tuali relazioni tra i fenomeni naturali. Nel 1831 l'inglese Michael Fa­ raday (1791-1867) scoprì l'induzione elettromagnetica, ovvero l'effet­ to opposto a quello individuato da Oersted. Tuttavia, ne fornì una spiegazione in contrasto con i principi basilari della scienza francese. Faraday aveva iniziato la sua carriera come assistente di Humphry Davy presso la Royal lnstitution di Londra (fondata nel 1799 per iniziativa del chimico e fisico Benjamin Thomson, conte di Rum­ ford), un'istituzione a cui rimase legato per sempre. I rapporti fra Davy a Faraday non possono certo essere trascurati, data la loro co­ mune avversione per i modelli meccanici della scuola di Laplace. Se­ condo Faraday, le forze elettromagnetiche sembravano comportarsi in modo diverso da quelle di tipo newtoniano. Ad esempio, un polo magnetico che si muoveva intorno a un filo percorso da una corrente aveva la tendenza a produrre un moto rotato rio, evidenza dell'azione di una forza che non si esercitava in linea retta. Influenzato dai mo­ delli qualitativi proposti per la spiegazione del comportamento dei 71

fluidi imponderabili nella seconda metà del Settecento, Faraday so­ stenne che per comprendere i fenomeni elettromagnetici era necessa­ rio analizzare con attenzione il mezzo in cui si esercitavano le forze e non l'interazione tra particelle appartenenti a diversi fluidi imponde­ rabili. Faraday riteneva che lo spazio intorno a una corrente fosse co­ stituito da forze magnetiche che si disponevano in linee curve chiuse. Lo scienziato inglese estese questa interpretazione anche alle forze elettrostatiche. Contrapponendosi ai tradizionali modelli della fisica newtoniana, egli prese così le distanze dalla dottrina atomica, da con­ siderarsi come un'ipotesi sulla verità della quale non era possibile as­ serire alcunché. Lo spazio, secondo lo scienziato inglese, era sostan­ zialmente una struttura formata da linee di forza, all'interno della quale gli atomi sembravano avere le caratteristiche di un fenomeno specifico e particolare rispetto alla realtà dell'universo fisico. L'opera di Faraday fu fondamentale per l'affermazione di una visione unitaria della natura e delle forze agenti in essa. Verso la metà del se­ colo, Kelvin (182 4-1907) interpretò le linee di forza con una legge matematica che rispondeva alla legge dell'inverso del quadrato. Tut­ tavia, è a J ames Clerk Maxwell (1831-1879) che va attribuito il merito di aver descritto in una teoria unificata di campo l'intera gamma dei fenomeni elettrici, magnetici e ottici. Il Treatise on electricity and ma­ gnetism (1873), che contiene i fondamenti della teoria dell'elettroma­ gnetismo classico, costituisce uno dei capolavori assoluti della scienza moderna, paragonabile al Dialogo di Galilei o ai Principia di New­ ton. Egli dimostrò che il campo elettromagnetico si propaga nello spazio come un'onda, di cui la luce è una forma. Una delle conse­ guenze più rilevanti della teoria di Maxwell fu la deduzione che le oscillazioni elettromagnetiche dovevano produrre nell'etere onde si­ mili a quelle della luce, differendo da esse soltanto per la frequenza e la lunghezza. Nel 1883 Heinrich Hertz (1857-1894) dimostrò speri­ mentalmente in laboratorio l'esistenza di queste onde, che non mol­ to tempo dopo sarebbero divenute la base delle radiocomunicazioni. Nel 1893 Augusto Righi (1850-192 0) iniziò lo studio delle proprietà delle onde elettromagnetiche, mentre due anni più tardi, nel 1895, Guglielmo Marconi (1874-1937) effettuò i primi esperimenti con il telegrafo senza fili, inviando, per mezzo di onde elettromagnetiche, dei segnali fra due punti distanti l'uno dall'altro un chilometro e mezzo. 72

Nonostante la formalizzazione matematica effettuata da Maxwell, comunque assai difficile restava ancora la comprensione della natura dell'elettromagnetismo, che continuava a rappresentare un fenome­ no dovuto a una causa sconosciuta. Per questo motivo, pur conti­ nuando a pensare che dovesse esistere un substrato materiale alle spalle del campo elettromagnetico, Hertz propose che la teoria di Maxwell andasse considerata solo come la struttura matematica delle sue equazioni, al di là dei modelli e delle interpretazioni. Anche lo studio dei fenomeni termici, nel corso dell'Ottocento, abbandonò progressivamente l'uso dei modelli meccanici. Già negli ultimi decenni del Settecento, alcu­ ni ricercatori avevano iniziato a interpretare il calore con spiegazioni alternative a quella fluidistica. Nel celebre Mémoire sur la chaleur, let­ to in due sedute all'Académie des Sciences di Parigi il 18 e 2 5 giugno 1783, Lavoisier e Laplace (ed. 1995, pp. 4- 5) presentarono con estre­ ma chiarezza due opzioni teoriche: • la concezione del calore come fluido materiale; la teoria che attribuiva le variazioni di temperatura all'energia ci­ • netica delle particelle dei corpi. Lavoisier e Laplace (ivi, p. 6) evitavano di prendere posizione sull'u­ na o sull'altra delle opzioni, collocandole su un piano di assoluta pa­ rità: «Noi non decideremo affatto fra le due ipotesi precedenti; nu­ merosi fenomeni sembrerebbero favorevoli all'ultima, quale, ad esempio, quello del calore prodotto dall'attrito fra due corpi solidi; ma ve ne sono altri che si spiegano più semplicemente con la prima; forse hanno luogo entrambe contemporaneamente». Nel Traité de physique (1803), il manuale di fisica più diffuso nella Francia del pri­ mo Ottocento, René-J ust Hatiy contribuì a diffondere notevolmente questo tipo di interpretazione. A partire dal 1807 Jean-Baptiste-Joseph Fourier (1768-1830) iniziò ad affrontare la trattazione del calore in maniera indipendente da ogni ipotesi sulla natura del calore stesso. Egli si propose di trasformare la termologia in una teoria di tipo matematico, evitando di far uso di modelli meccanici e rappresentazioni ipotetiche della realtà. La sinte­ si delle ricerche di Fourier è contenuta nell'opera dal titolo Théorie analytique de la chaleur (182 2 ). Questo modo di concepire la ricerca scientifica avrà grande influenza sulle concezioni filosofiche di Augu4.3.2. La conservazione dell'energia

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ste Comte (1798-1857), uno dei padri del positivismo, le cui idee co­ stituiranno un importante punto di riferimento per la scienza france­ se dopo il 183o. Nei primi decenni dell'Ottocento lo studio dei fenomeni termici fu sempre più associato al problema dello sfruttamento delle macchine a vapore, legato alla diffusione della rivoluzione industriale che aveva preso il via in Inghilterra a partire dagli anni settanta del XVIII seco­ lo. Infatti, soltanto una piccola parte del combustibile bruciato risul­ tava utile al funzionamento delle macchine, mentre una gran quanti­ tà di esso andava perduta sotto forma di calore di scarico. Nel 182 4 Sadi Carnot (1796-1832 ), figlio del grande Lazare Carnot, scienziato e uomo di stato, nelle Réflexions sur la puissance motrice du feu et sur les machines propres à développer cette puissance, cercò di analizzare in che modo il calore si trasformasse in lavoro, dimostrando che la massima efficienza di una macchina a vapore dipendeva dalla differenza di temperatura tra il vapore al massimo del suo calore presente nella cal­ daia e l'acqua al massimo della sua freddezza nel condensatore. La potenza motrice del calore traeva origine proprio da questo passag­ gio. Studiando il ciclo di trasformazioni subito dal vapore in una macchina termica, Carnot aveva quindi stabilito non solo che la po­ tenza motrice del calore risultava legata alla differenza di temperatura nella macchina, ma anche che era indipendente dalla sostanza che compiva il trasporto del calore. La memoria di Carnot si fondava an­ cora sulla nozione di calorico. Nonostante egli avesse molte perples­ sità sulla validità di questa teoria, le espose soltanto in alcune note manoscritte (di cui si ebbe conoscenza nel 1878) nelle quali era con­ tenuta anche la prima affermazione dell'equivalenza tra calore e la­ voro. Nel frattempo il problema delle relazioni esistenti tra il calore gene­ rato dalla combustione di carbone e la forza motrice che essa poteva produrre andò a intrecciarsi con il problema più generale dell'unifi­ cazione dei vari fenomeni e forze della natura. Nel 1843 J ames Pre­ scott Joule (1818-1889), che si ispirava al programma di ricerca avvia­ to da Faraday, giunse alla determinazione del cosiddetto equivalente meccanico: quali che fossero le modalità di trasformazione, realizzate attraverso un gran numero di esperimenti, una quantità fissa di lavo­ ro meccanico finiva sempre in una quantità fissa di calore. Nel 1847, 74

uno dei protagonisti assoluti della ricerca scientifica ottocentesca, Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (1821-1894), attraverso una serie di studi di fisiologia relativi alla respirazione e al calore ani­ male, nella fondamentale memoria intitolata Ober die Erhaltung der Kraft (Sulla conservazione della forza), formulò per la prima volta in maniera chiara e consapevole il principio di conservazione dell'ener­ gia nell'ambito della meccanica newtoniana. In effetti, sin dal 1841 il medico e fisico tedesco Robert J ulius von Mayer (1814-1878), studiando a sua volta la questione del calore ani­ male, aveva ipotizzato l'esistenza di un principio di conservazione per le forze. Tuttavia i suoi lavori erano più vicini alla filosofia che alla scienza e non poterono essere utilizzati concretamente in fisica, an­ che se non mancarono di esercitare un'importante influenza. Helm­ holtz, al contrario, dimostrò matematicamente che il principio della costanza della forza era esprimibile come costanza della somma tra la forza viva (energia cinetica) e la forza di tensione (energia potenziale). Applicando questo principio a una incredibile varietà di fenomeni fi­ sici, egli dimostrò che, in termini generali, la quantità di energia to­ tale nell'universo era costante e non poteva essere distrutta, ma solo trasformata. Gli studi sulla conservazione dell'energia non tardarono a ricadere sul problema delle relazioni fra calore e forza motrice, dalle quali in parte erano derivate. Dieci anni dopo la pubblicazione del lavoro di Sadi Carnot, nel 1834, Beno!t- Paul- É mile Clapeyron (1799-1864) diede una veste matematica alle Réflexions, favorendone la diffusione. Fu Kelvin il primo a riconoscere l'importanza del Mémoire sur la puissance motrice de la chaleur di Clapeyron, che lesse durante i quattro mesi e mezzo passati a studiare fisica sperimentale nel laboratorio di Victor Regnault (1810-1878) al Collège de France. Ne applicò i principi in una memoria pubblicata nel 1848. Kelvin fu anche il pri­ mo a utilizzare il termine energia. Sussisteva tuttavia un problema. Infatti, mentre Carnot aveva sostenuto che in una macchina termica che produceva lavoro meccanico il calore veniva conservato, J oule aveva affermato che una quantità di calore proporzionale al lavoro prodotto non poteva essere trasformata in lavoro, ma andava in qual­ che modo perduta. Ciò sembrava contrastare con la legge sulla con­ servazione dell'energia. 75

Nel 1850 il fisico tedesco Rudolph Julius Emanuel Clausius (182 2 -1888) dimostrò che, in realtà, ciò si verificava in qualsiasi tra­ sformazione energetica: parte dell'energia andava sempre persa sotto forma di calore, che non poteva essere trasformato in nessun altro tipo di energia. Di conseguenza, esisteva un fenomeno di degradazio­ ne dell'energia in calore. In sostanza, Clausius aveva enunciato il se­ condo principio della termodinamica. La prima organica e generale sistemazione della nuova scienza venne fornita da Kelvin nello scritto On the dynamical theory ofheat (1851) nel quale vennero enunciate le prime due leggi della termodinamica (Kelvin, ed. 1971, p. 191). Nel 1865 Clausius introdusse il termine entropia (dal greco en, den­ tro, e tropé, rivolgimento, mutazione) per caratterizzare il secondo principio della termodinamica (cit. in Bellone, 1978, pp. 2 44- 5). Le conseguenze ricavabili da tale principio andarono rapidamente a col­ legarsi con le questioni relative all'origine dell'universo e all' evoluzio­ ne della Terra e delle specie viventi. Nel 1859 Charles Darwin (1809-1882 ) aveva pubblicato la fondamentale opera dal titolo On the

origin ofspecies by means of natura! selection, or The preservation offo­ voured races in the struggle for !ife, in cui aveva proposto una nuova teoria dell'evoluzione basata sul principio della selezione naturale. Secondo Darwin, tale evoluzione aveva avuto bisogno di tempi molti lunghi per realizzarsi. Nel1862 Kelvin, che stava studiando il proble­ ma dell'origine dell'energia solare, utilizzò le leggi della termodina­ mica per tentare di determinare anche l'età della Terra (e la futura morte termica). Secondo le sue stime, l'età del Sole non poteva supe­ rare alcune decine, o al più un centinaio, di milioni di anni. I fossili, dal canto loro, non potevano avere più di 2 0 milioni di anni, il che rappresentava una cifra assai ridotta rispetto a quella richiesta dalla teoria dell'evoluzione. Egli si oppose quindi decisamente al darwini­ smo, che avversava anche sulla base di motivazioni religiose. Secondo Kelvin, infatti, la teoria dell'evoluzione era un pericoloso strumento di diffusione del materialismo. Solo con la scoperta della radioattivi­ tà (che dimostrava l'esistenza di una fonte di energia terrestre diversa dal calore residuo dovuto al progressivo raffreddamento del globo) i calcoli di Kelvin si rivelarono inadeguati. Tuttavia la sua opera con­ tribuì a dimostrare come la fisica e le concezioni evoluzionistiche in ambito biologico fossero indissolubilmente legate fra loro. 76

4.4. La chi m ica, gli atomi, Le molecole

Grazie alla diffusione del positivismo in ambito scientifico, si venne affermando la convin­ zione che fosse necessario rifiutare l'uso di modelli per la compren­ sione della realtà. Ciò determinò l'affermazione del sistema degli equivalenti, almeno nel campo della chimica inorganica, per molti decenni. Per questo motivo, prima della formulazione della legge pe­ riodica, come avrà modo di affermare Mendeleev, nella Faraday Lec­ ture ( questa celebre iniziativa si teneva alla presenza dei membri della Chemical Society presso la Royal lnstitution di Londra) intitolata The periodic la w of the chemical elements (1889), i pesi atomici degli elementi rappresentarono spesso numeri puramente empirici. Gli equivalenti riscossero grande successo soprattutto negli ambienti francesi, dove l'atomismo chimico fu giudicato carico di spiacevoli implicazioni metafisiche. Celebre, a questo proposito, la frase di Jean-Baptiste-André Dumas a proposito dell'atomo: «Se tanto io po­ tessi, cancellerei dalla scienza questa parola, persuaso che nelle sue at­ tribuzioni vada oltre i limiti dell'esperienza, la quale noi ci dobbiamo studiare di non mai oltrepassare» (Dumas, 1842 , p. 2 85). Tuttavia, nonostante lo scetticismo di molti, l'idea di atomo sopravvisse so­ prattutto nell'ambito dei chimici appartenenti alla tradizione lavoi­ stenana. Nel182 4 Gay- Lussac ipotizzò che atomi identici potevano disporsi in una molecola in maniera tale da originare sostanze con la stessa com­ posizione chimica, ma dotate di proprietà differenti, per esempio una diversa solubilità. Berzelius, inizialmente scettico, dopo aver stu­ diato in particolar modo l'acido tartarico e quello racemico (dal lati­ no, racemus, grappolo), un nuovo acido, scoperto nel 1819, che si ri­ velò dotato delle stesse proprietà biochimiche dell'acido tartarico (lo ribattezzò racemico paratartarico), accettò l'ipotesi, coniando per queste sostanze il nome di isomeri. Di lì a poco, tuttavia, Dumas di­ mostrò che era possibile sostituire nei radicali degli idrocarburi l'i­ drogeno con il cloro, fatto che violava apertamente la teoria elettro­ chimica di Berzelius. Assieme a uno dei suoi allievi, Auguste Laurent (18o8-t853), Dumas iniziò a sostenere che le proprietà dei composti dipendevano esclusivamente dalla disposizione dei loro elementi, formulando la teoria della sostituzione, che fu tuttavia rifiutata da 4.4.1. I l Sunto di Ca n n izza ro e La stereoc h i m ica

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Berzelius. Dumas, intimorito dai violenti attacchi dello svedese, ab­ bandonò la teoria della sostituzione. Laurent continuò invece la sua battaglia, proponendo la teoria dei nuclei, affermando che le moleco­ le organiche, la cui forma era dipendente da quella dei cristalli analiz­ zati all'inizio dell'Ottocento da Haiiy, erano costituite da nuclei fon­ damentali che si univano, di volta in volta, con diversi tipi di radicali, privi tuttavia di proprietà elettrochimiche caratterizzanti. Venivano così a formarsi famiglie o tipi di molecole organiche strutturate intor­ no a nuclei identici. Laurent, inoltre, aderì all'ipotesi di Avogadro per il calcolo dei pesi atomici. Introducendo indubbiamente un pro­ fondo sconvolgimento nell'ambito dei criteri di classificazione delle sostanze organiche, la riforma di Laurent non abbandonò la necessità di avere a disposizione dati ponderali fondati sulla teoria atomica. Se­ condo il chimico francese, infatti, prima di definire la posizione degli atomi nei corpi composti, era necessario conoscerne il numero e i re­ lativi pesi. Morto Berzelius, nel 1848, la teoria di Laurent, fino ad allora avver­ sata, prese quota. Charles-Adolphe Wurtz (t817-1884) studiò le am­ mine, strutturate sul tipo ammoniaca, mentre Alexander William Williamson (182 4-1904) individuò gli eteri, una famiglia costruita sul tipo acqua, in cui l'ossigeno rappresentava il nucleo e gli ato­ mi di idrogeno i radicali da sostituire. Charles- Frédéric Gerhardt (18t6-1856) propose quindi il sistema unitario: la molecola di un cor­ po doveva essere considerata in maniera globale e non come un insie­ me di parti. Egli individuò quattro tipi fondamentali: idrogeno, ac­ qua, acido cloridrico e ammoniaca; tuttavia, nel Traité de chimie or­ ganique (1853), rifiutò il modello fisico di Laurent, precisando come la sua teoria escludesse qualsiasi speculazione di tipo molecolare. Nel 1858 il chimico italiano Stanislao Cannizzaro (t82 6-1910) cercò di ricomporre la situazione con la pubblicazione del celebre Sunto di un corso difilosofia chimica. Egli utilizzò nuovamente l'ipotesi di Avo­ gadro (ma questa volta attribuendo il valore 1 all'atomo di idrogeno), per giungere all'unificazione della chimica organica con l'inorganica e alla definizione di un metodo uniforme per la determinazione dei pesi atomici ( Cannizzaro, edd. 1991 e 1994). Le idee di Cannizzaro, pur già circolanti, dopo la pubblicazione del Sunto, a livello interna­ zionale, avranno la loro massima risonanza durante il congresso che si svolse a Karlsruhe dal 3 al 5 settembre del t86o. Neli' occasione 78

Cannizzaro distribuì un estratto del suo opuscolo e riuscì a far accet­ tare la seguente proposta: «Si propone di adottare concetti diversi per molecola e atomo, considerando molecola la quantità più piccola di sostanza che entra in reazione e che ne conserva le caratteristiche fisi­ che e intendendo per atomo la più piccola quantità di un corpo che entra nella molecola dei suoi composti» (cit. in Solov'ev, 1976, pp. 177-8). Nel frattempo, sempre alla fine degli anni cinquanta, altre grandi in­ novazioni teoriche e sperimentali contribuirono a modificare in ma­ niera decisiva la ricerca chimica. Friedrich August Kekulé von Stra­ donitz (182 9-1896) operò una sintesi concettuale di straordinaria im­ portanza, unendo i dati sulle valenze degli elementi con le nuove concezioni sulla struttura delle molecole organiche. La teoria della valenza, ideata tra la fine degli anni quaranta e l'inizio degli anni cin­ quanta da Hermann Kolbe (1818-1884) ed Edward Frankland (182 5-1899), dimostrava, ad esempio, che un atomo di antimonio, o di azoto o di fosforo, si combinava sempre con tre o cinque radicali organici, mentre uno di mercurio, o di zinco o di ossigeno con due, e che il potere di combinazione di un atomo era indipendente dal ca­ rattere degli atomi che si univano. Archibald Scott Couper (1831-1892 ) propose un sistema di visualizza­ zione bidimensionale della struttura delle molecole, evidenziando con un semplice tratto i legami esistenti fra gli atomi. Fu il chimico russo Aleksandr Mihajlovic Buderov (182 8-1886) a introdurre, nel 1861, il termine struttura per indicare il nuovo modo di rappresentare le for­ mule delle sostanze. Kekulé propose inizialmente il valore 4 per indi­ care la valenza del carbonio e, nel1865, scrisse la formula del benzene, caratterizzata da sei atomi di carbonio legati fra loro in modo da for­ mare un anello a configurazione esagonale (caratterizzante tutti gli idrocarburi) con legami doppi e singoli alternati, che sarà alla base di fondamentali sintesi organiche nel settore dei farmaci, dei coloranti, delle materie plastiche e degli esplosivi. Kekulé arrivò così a definire la chimica organica come la chimica dei composti del carbonio. Le formule di struttura bidimensionali non erano in grado di dar conto di un particolare fenomeno messo per la prima volta in luce da J ean- Baptiste Biot (cfr. PAR. 3.4), il quale, studiando la deviazione della luce polarizzata da parte di alcuni composti organici, osservò che tale deviazione non poteva essere attribuita al loro stato di aggre79

gazione o di cristallizzazione. Egli quindi ipotizzò che il fenomeno fosse dovuto a qualche proprietà strutturale delle molecole. Fu il gio­ vane Louis Pasteur (182 2 -1895), il celebre microbiologo e immunolo­ go che avrebbe confutato per l'ennesima volta la generazione sponta­ nea, a dimostrare che alcune sostanze potevano esistere in due forme cristalline asimmetriche non sovrapponibili, delle quali una è l'im­ magine speculare dell'altra. I risultati di Pasteur, il quale aveva inizia­ to la sua carriera scientifica occupandosi di chimica e di cristallogra­ fia anche grazie all'incoraggiamento di Laurent, vennero confermati sotto la diretta osservazione di Biot. Sembrava abbastanza evidente che tali proprietà fossero da attribuirsi alla disposizione degli atomi (almeno per coloro che ci credevano) nelle molecole in uno spazio tridimensionale. Modelli del genere, tuttavia, non furono disponibili prima del1874· In quell'anno il chimico olandese Jacobus Hendricus van't Hoff (1852 -1911), il quale stava studiando la questione delle valenze nel car­ bonio, sostenne che i quattro legami dell'atomo di tale elemento si di­ sponevano nello spazio tridimensionale verso i vertici di un tetraedo regolare, il cui centro era rappresentato dallo stesso atomo di carbonio. In questo caso, i legami dell'atomo di carbonio erano disposti in modo simmetrico intorno all'atomo. Se le valenze venivano saturate da quat­ tro gruppi differenti, si introduceva l'asimmetria. Dunque era alla pre­ senza di un atomo di carbonio asimmetrico che andava attribuita la di­ versità di proprietà ottiche riscontrata da Biot e da Pasteur. Contemporaneamente a van't Hoff, il chimico francese Joseph­ Achille Le Bel (1847-1930) formulò un'analoga teoria. Questi studi, certamente rivoluzionari, dettero inizio a un nuovo campo di ricerca, la cosiddetta stereochimica (dal greco stereos, solido), che costituirà uno dei settori più importanti per lo studio della struttura e delle pro­ prietà della materia. Il tedesco Emil Hermann Fischer (1852 -1919), uno dei più grandi chimici organici dell'Ottocento, riuscì a stabilire la configurazione stereochimica di tutti gli zuccheri noti, riuscendo a predire i possibili isomeri. Fischer scoprì anche il tipo di legame che lega gli amminoacidi (termine coniato da Berzelius) ovvero i componenti fondamentali delle proteine. Dimostrando che la parte aminica di un amminoacido era legata alla parte acida di un altro, egli determinò il cosiddetto legame peptidico; sulla base di questo ri­ uscì a sintetizzare i dipeptidi, tripeptidi, fino ai polipeptidi. La steBo

reochimica aprirà la strada a inaudite scoperte sia nell'ambito della chimica organica, sia nei futuri settori di ricerca della chimica delle macromolecole, alla cui elaborazione concettuale darà un contributo decisivo il tedesco Hermann Staudinger (1881-1965), e della biologia molecolare (cfr. PAR. 6.2) Su un altro versante di ricer­ ca, invece, nel 1859, Gustav Robert Kirchhoff (182 4-1887) e Robert Bunsen (1811-1899) misero a punto uno spettroscopio a registrazione, segnando l'avvio della spettroscopia come disciplina volta all'analisi chimica. Le basi per l'analisi spettroscopica erano state poste da Newton grazie a una serie di celebri esperimenti, che trasformarono le idee tradizionali intorno alla natura della luce e dei colori, ritenuti sino ad allora modificazioni accidentali della luce bianca. Scompo­ nendo mediante un prisma la luce solare nei colori dello spettro, Newton dimostrò come la luce bianca non dovesse essere più consi­ derata come una sostanza elementare, ma eterogenea. Nel 1814 Joseph Fraunhofer (1787-182 6) scoprì, invece, attraverso un esperimento effettuato con lenti acromatiche, che lo spettro conti­ nuo del Sole era interrotto da centinaia di righe scure, dotate di lun­ ghezze d'onda specifiche. Secondo Fraunhofer, tali righe non erano provocate dallo strumento utilizzato per osservarle, ma dipendevano esclusivamente dalla luce solare. Grazie all'invenzione di Kirchhoff e di Bunsen fu possibile chiarire che ogni elemento possedeva specifi­ che frequenze di risonanza. Se riscaldato, l'elemento emetteva righe luminose caratteristiche; se raffreddato, assorbiva le stesse frequenze. Lo sviluppo della spettroscopia permise non soltanto di dare l'avvio all'analisi chimica delle stelle, ma fu determinante per lo sviluppo della conoscenza delle sostanze che sarebbero andate a comporre, di lì a poco, la tavola periodica degli elementi. Alcuni chimici presenti al congresso di Karlsruhe, dopo aver aderito alla proposta di Cannizzaro, si dedicarono alla ricerca di un metodo in grado di stabilire una classificazione degli elementi chimici. Fra questi, spicca ovviamente il nome di Dmitrij lvanovic Mendeleev (1834- 1907), che faceva parte della delegazione russa (fra i membri della delegazione c'era anche il celebre musicista Aleksandr Porfir'e­ vie Borodin, il quale era un ottimo chimico). Nel 1869 Mendeleev iniziò a sostenere che la costruzione di un sistema fondato sul princi4.4.2. La tavola period ica degli e lementi

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pio della grandezza del peso atomico degli elementi avrebbe potuto rivelarsi sufficientemente affidabile. Proprietà come quelle ottiche, elettriche e magnetiche non avrebbero potuto costituire un fondamento utile per il sistema, perché uno stes­ so corpo esibiva a questo riguardo notevoli differenze. Soltanto i pesi atomici erano in grado di mettere a disposizione una relazione nu­ merica che fosse in grado di stabilire un razionale sistema delle so­ stanze elementari. Analizzando l'elenco dei pesi in ordine crescente, Mendeleev individuò variazioni progressive delle valenze, che davano luogo a periodi. Il primo periodo era quello dell'idrogeno, a sé stante. Poi venivano due periodi di sette elementi ciascuno. Quindi Mende­ leev ordinò altri periodi con più di sette elementi. La periodicità fu stabilita in base al fatto che gli elementi che occupavano la stessa co­ lonna verticale nella tavola erano contraddistinti da una notevole so­ miglianza. Mendeleev stava cercando di portare a compimento quel­ la rivoluzione alla quale, circa un secolo prima, aveva dato vita Lavoi­ sier, definendo la chimica come disciplina autonoma. Fedele inter­ prete della filosofia illuministica, egli rifiutò una caratterizzazione antologica della sua tavola, teorizzando l'inutilità di pensare agli ele­ menti ottenuti attraverso l'analisi come ai principi ultimi della mate­ ria. La legge periodica, infatti, era stata sviluppata indipendentemen­ te da qualsiasi concezione riguardo alla natura delle particelle ultime della materia e non aveva niente a che fare con «le idee di Prout, degli alchimisti, di Democrito, riguardo alla materia prima». Lo scienziato russo era perfettamente consapevole della tradizione all'interno della quale la sua opera si muoveva: «Nel connettere con nuovi legami la teoria degli elementi chimici alla teoria delle proporzioni multiple di Dalton, cioè alla struttura atomica dei corpi, la legge periodica ha aperto alla filosofia naturale un nuovo e vasto campo di speculazio­ ne» (Mendeleev, ed. 1994, pp. 110- 2 ). La teoria di Mendeleev venne inizialmente accolta con diffidenza. Del resto molti chimici utilizzavano ancora il sistema degli equiva­ lenti. Ma, nel giro di breve tempo, vennero individuati altri tre ele­ menti, denominati gallio (1874), scandio (1879) e germano (1885), che andarono a collocarsi esattamente negli spazi della tavola periodica lasciati vuoti da Mendeleev. Queste scoperte contribuirono sicura­ mente all'accettazione del sistema periodico, che tuttavia andò in­ contro a un momento di difficoltà nell'ultimo decennio dell'Otto82

cento, a causa della scoperta di una nuova categoria di sostanze aeri­ formi. Nel 1892 , John William Strutt, Lord Rayleigh (1842 - 1919), nel corso di una serie di esperimenti sulle densità dei gas volti a verificare la consistenza dell'ipotesi di Prout sulla composizione dei pesi atomi­ ci, scoprì che la densità dell'azoto presente nell'atmosfera era mag­ giore rispetto a quella ordinaria. Separando l'azoto dall'aria atmosfe­ rica, Rayleigh ottenne un residuo che mostrava uno spettro scono­ sciuto. Le sue ricerche attirarono ben presto l'attenzione di William Ramsey (1852 -1916). Due anni più tardi, nel 1894, i due scienziati co­ municarono la scoperta di un nuovo gas elementare, pressoché inerte dal punto di vista chimico, che costituiva circa l'1o/o del volume del­ l'atmosfera. La sua densità, invece, superava di due volte quella del­ l'azoto. Diedero al nuovo gas il nome argon (dal greco arg6s, inerte). In seguito Ramsey isolò altri elementi appartenenti alla famiglia dei cosiddetti gas inerti: l'elio, nel 1895, il krypton, lo xenon e il neon, nel 1898, questi ultimi in collaborazione con Morris Travers (1872 1961). La scoperta delle nuove sostanze fece subito emergere il problema della loro classificazione nella tavola periodica, impresa resa difficile dalla complessità di determinare i pesi atomici di elementi così scar­ samente reattivi. Tuttavia, grazie a una serie di minuziose e accurate esperienze, tali elementi poterono essere collocati fra gli alogeni e i metalli alcalini, confermando ancora una volta la validità della teoria di Mendeleev.

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s. La struttura deLL'atomo 5.1. Boltzma n n, Mach e l'e nergeti ca Negli ultimi decenni dell'Ottocento alcuni settori della fisica, come la teoria cinetica dei gas, che intorno al187o aveva raggiunto un alto grado di formalizza­ zione, si basavano sulla teoria atomica e sull'idea di una struttura di­ screta della materia. Uno dei problemi concernenti la teoria era stato quello di trovare un modo per prevedere, a livello macroscopico, il comportamento del grandissimo numero di molecole costituenti un gas. Clausius e Maxwell riuscirono a risolvere questo problema attra­ verso l'impiego di metodi statistici. Tuttavia fu con l'opera di Lud­ wig Boltzmann (1844-1906) che lo studio della struttura dei gas di­ venne un sistema teorico raffinato e complesso. Boltzmann viene ge­ neralmente considerato come il fondatore della meccanica statistica, la disciplina che studia insiemi di particelle sottoposte alle sole leggi della meccanica razionale. Boltzmann, in particolare, giunse a deter­ minare con esattezza che anche l'aumento dell'entropia era da consi­ derarsi sotto il profilo statistico. La natura, in linea di massima, ten­ deva ad andare in una certa direzione; tuttavia non si poteva esclude­ re, almeno per brevi periodi, che essa potesse effettuare delle inver­ sioni di rotta. Nonostante i successi della teoria cinetica dei gas, comunque, i fisi­ ci, nella maggior parte dei casi, continuarono a trattare le proprietà della materia facendo riferimento a costanti come l'elasticità, la compressibilità, il calore specifico, la viscosità, evitando di ricorrere alla teoria atomica. In altri casi era il tradizionale concetto di ato­ mo a essere rifiutato. Kelvin, ad esempio, formulò la teoria dell'a­ tomo-vortice in correlazione a una concezione elettromagnetica della natura che si opponeva al meccanicismo, rifiutando «la mo­ struosa assunzione di pezzi di materia infinitamente duri ed infini­ tamente rigidi», la cui «esistenza» veniva affermata «in termini di ipotesi verosimile da alcuni dei maggiori chimici moderni nelle loro sconsiderate proposizioni introduttive» ( Kelvin, ed. 1971, pp. 52 5-6). Secondo Kelvin, più adeguata poteva risultare invece l'uti­ lizzazione del concetto di atomo come centro di energia proposta a suo tempo da Boscovich, una soluzione che meglio si confaceva

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alle recenti acquisizioni sulla conservazione dell'energia e sui prin­ cipi della termodinamica. Negli ultimi due decenni dell'Ottocento la polemica contro l'atomi­ smo venne portata avanti soprattutto nell'ambito della dottrina del­ l' empiriocriticismo. Questa concezione, che per alcuni aspetti si ri­ chiamava al positivismo di Comte, si affermò in Germania grazie al­ l'opera del fisico e filosofo Ernst Mach (1838-1916). Mach sosteneva che la scienza aveva un valore esclusivamente soggettivo, relativo al punto di vista dell'osservatore e agli strumenti di osservazione; essa, perciò, era dotata soltanto di un carattere pratico e strumentale. Il vero scienziato, secondo Mach, doveva rinunci are a cercare le cause dei fenomeni. La fisica, in particolare, non era altro che un sistema di leggi dirette a organizzare l'esperienza. La meccanica, conseguente­ mente, non aveva le carte in regola per presentarsi come base fonda­ mentale per l'unificazione dei fenomeni naturali. Al tempo stesso, si doveva porre fine all'abitudine, impropria e fuorviante, di costruire teorie che facevano ricorso a enti non osservabili, come appunto era­ no gli atomi (Mach, ed. 1992 , p. 478): Gli ato m i non posso no esse re percepiti dai sensi, poiché, come tutte le sosta nze, so no enti mentali. Anzi, si attri bu isco no lo ro a lcu ne prop rietà che contradd icono q uelle fino­ ra osservate da tutti. Certo, le teorie ato m iche posso no a nche servire a esporre u n a se­ rie di fatti. Ma gli scienziati, per i quali sono valide le regole metodologiche newto nia­ ne, considera n o teorie d i q uesto genere come espedienti provvisori, e cerca no d i sosti­ tui rle con a ltre più vicine a lla natura.

Non si deve tuttavia pensare che la filosofia di Mach si risolva tutta nella polemica contro l'atomismo, e per questo motivo vada giudica­ ta negativamente. Al contrario, il suo pensiero esercitò una notevolis­ sima influenza positiva in campo sia scientifico che filosofico. La sua critica alla meccanica tradizionale, ad esempio, influenzerà anche l'e­ laborazione della teoria della relatività di Einstein, il quale non man­ cherà di riconoscere il suo debito verso Mach. L'idea che gli atomi fossero le particelle ultime della realtà fisica fu duramente contrastata anche dalla corrente dell'energetica (o energe­ tismo), guidata dallo scienziato tedesco Friedrich Wilhelm Ostwald (1853-1932 ), premio Nobel per la chimica nel1909 e fondatore della 85

chimica fisica insieme allo svedese Svante Arrhenius (1859-192 7), noto per aver formulato la teoria degli ioni in soluzione, ovvero la teoria della dissociazione elettrolitica, alla base della chimica delle so­ luzioni acquose. Per Ostwald l'energia, non la massa, doveva essere considerata la grandezza fisica fondamentale dell'universo. L'energe­ tica, dunque, costituiva lo sviluppo della concezione secondo cui tut­ ti i fenomeni della natura dovevano essere concepiti e rappresentati come operazioni compiute sulle diverse energie. Sulla stessa linea di pensiero si mosse Pierre Duhem (1861-1916), fisico ed epistemologo francese, nonché uno dei padri fondatori della storia della scienza contemporanea. Secondo Duhem, le teorie fisiche non fornivano spiegazioni della realtà, ma avevano soltanto lo scopo di "salvare i fe­ nomeni" (come, in sostanza, si diceva un tempo per l'astronomia to­ lemaica). Duhem concentrò fin dall'inizio della carriera i suoi inte­ ressi sugli sviluppi della termodinamica. «Il suo obiettivo teorico avrebbe scritto Louis-Victor De Broglie (1978, p. VI I I ) - consisteva nel costruire una sorta di energetica generale (comprendente la mec­ canica analitica classica come caso speciale) e di termodinamica astratta». La teoria di Boltzmann divenne così, anche da un punto di vista con­ cettuale e filosofico, il principale bersaglio delle critiche di tutta quel­ la parte della fisica ottocentesca contraria alla meccanica, che rifiuta­ va i modelli e preferiva attenersi allo studio dei fenomeni, e che guar­ dava alla termodinamica e all'elettromagnetismo come alle teorie ideali. Boltzmann, al contrario, difese con forza una concezione reali­ stica della conoscenza. In un famoso congresso tenutosi a Lubecca nel 1895, egli si confrontò proprio con Ostwald, sostenendo l'impos­ sibilità di poter ridurre la meccanica a un insieme di nozioni energe­ tiche. Ostwald ebbe la sensazione che i sostenitori dell'atomismo fos­ sero numerosi e agguerriti: «Nel corso della discussione mi trovai di fronte ad una serrata opposizione. [ ... ] Fu quella la prima volta che mi trovai personalmente a confrontarmi con una tale unanime banda di categorici avversari; successivamente ripetei più volte questo gene­ re di esperienza» (cit. in Maiocchi, 1988, p. 12 ). 5.2. La scope rta dell'elettrone e La radioattività Una svolta determinante si verificò nel settore degli studi relativi all'interazione fra elettricità e materia, in particolare quelli legati all'osservazione del

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comportamento dei gas rarefatti in presenza di scariche elettriche, le quali producevano radiazioni luminescenti (di colore blu scuro) in­ torno al catodo. Nel1869 Johann Wilhelm Hittorf (182 4-1914) giun­ se alla conclusione che dal catodo venivano emessi raggi di natura ignota che si propagavano in linea retta (si definisce zona di Hittorf la zona oscura esistente nei tubi a elettroluminescenza). Nel 1871 Cromwell Fletwood Varley (182 8-1883), sulla base di un'interpreta­ zione corpuscolare della materia, sostenne che la luminescenza era dovuta a particelle cariche negativamente. Nel1876 Eugen Goldstein (1850-1930) attribuì a tale radiazione il nome di raggi catodici. Non molto tempo dopo, William Crookes (1832 -1919), cercando di forni­ re un'interpretazione del fenomeno nell'ambito della teoria cinetica, ipotizzò che i raggi catodici potessero essere dovuti alle molecole del gas che nell'urto con il catodo acquistavano una carica negativa. L'i­ potesi corpuscolare venne ritenuta altamente plausibile anche da Helmholtz: «Se accettiamo l'ipotesi che le sostanze elementari siano formate da atomi, non possiamo non arrivare alla conclusione che anche l'elettricità, tanto positiva che negativa, sia formata di determi­ nate porzioni elementari, che si comportano come se fossero atomi di elettricità» (cit. in Solov'ev, 1976, p. 2 75). Il dibattito si protrasse fino al1895, quando le esperienze di Jean-Baptiste Perrin (1879-1942 ) dimostrarono la natura corpuscolare dei raggi catodici. Nel 1897 il fisico e matematico inglese J oseph J ohn Thomson (1856-1940) scoprì che era possibile deflettere i raggi catodici grazie all'azione di un campo elettrico. Valutando l'orientamento della de­ viazione, Thomson riuscì a dimostrare che tale radiazione consisteva di particelle cariche negativamente. Egli chiamò tali particelle elettro­ ni, utilizzando il nome che l'irlandese George Johnstone Stoney (182 6-1911) aveva proposto nel1891 per designare l'unità fondamen­ tale della carica elettrica. Grazie all'intensità della deviazione, Thom­ son fu in grado anche di calcolare il rapporto tra la massa e la carica elettrica delle particelle costituenti i raggi catodici. La massa dell'elet­ trone risultò circa 1.6oo volte più piccola della massa dell'atomo di idrogeno. Comunque, nonostante Thomson, che aveva compreso l'importan­ za di riunire la fisica con la chimica, l'elettrone non diventò imme­ diatamente una particella associata all'atomo. Per molti fisici, infat­ ti, tra cui l'olandese Hendrik Antoon Lorentz (1853-192 8), il quale 87

formulò una teoria elettronica della materia e studiò l'elettrodina­ mica dei corpi in movimento, punto di passaggio obbligato per la teoria della relatività di Einstein del1905 (cfr. PAR. 6.3. 1 ) , il fatto che la materia contenesse cariche elettriche era funzionale all'obiettivo di unificare la meccanica con l'elettromagnetismo e di spiegare le interazioni fra la materia e le onde elettromagnetiche. Questo obiet­ tivo non implicava l'esistenza di un particolare interesse per la strut­ tura dell'atomo. L'idea di associare l'elettrone all'atomo venne facilitata dagli studi, che si stavano eseguendo proprio in quegli anni, sulla radioattività delle sostanze. Sul finire del 1895, il tedesco Wilhelm Conrad Ront­ gen (1845-192 3), studiando la capacità dei raggi catodici di rendere fluorescenti diversi materiali, scoprì l'esistenza di un nuovo tipo di radiazioni capace di attraversare la materia, che chiamò raggi X, uti­ lizzando il simbolo indicante una quantità incognita in matematica. Sulla scia di questa incredibile scoperta, che suscitò interesse e stupo­ re in tutto il mondo, il fisico sperimentale francese Antoine-Henri Becquerel (1852 -1908) cercò di capire se le radiazioni emesse dalle so­ stanze fluorescenti sulle quali stava lavorando avessero potuto com­ prendere anche i raggi di Rontgen. Studiando la fluorescenza di un particolare sale d'uranio, scoprì che esso emetteva una radiazione (raggi Becquerel) capace di annerire le lastre fotografiche. L'uranio, uno degli elementi più importanti nella storia della fisica novecente­ sca, era stato scoperto dal chimico e mineralogista Martin Heinrich Klaproth (1743-1817), uno dei primi sostenitori dell'opera di Lavoi­ sier in Germania, al quale si deve anche la scoperta dello zirconio (1789), del titanio (1795) e del cerio (1803). La ricercatrice polacca Marie Sklodowska (1867-1934), che viveva a Parigi dal1891, su consiglio del marito, il fisico francese Pierre Curie (1859-1906), sposato nel1895, approfondì le osservazioni di Becque­ rel, dimostrando che tale radiazione era sempre proporzionale alla quantità di uranio presente nei diversi composti da lei studiati. Le ra­ diazioni erano di tipo positivo e negativo. Quelle positive, sicura­ mente più massicce, vennero chiamate raggi alfa; quelle più leggere a carica negativa, raggi beta. Nel1898 Pierre e Marie Curie dimostraro­ no che anche il torio (un metallo pesante come l'uranio) produceva radiazioni. Venne così coniato il termine radioattività. Altri elementi che emettevano radiazioni maggiori rispetto a quelle derivate dall'u88

ranio vennero scoperti nello stesso anno: a luglio, il polonio (nome assegnato in onore del paese natale di Marie), a dicembre il radio, così chiamato per la sua forte radioattività. A causa della loro devia­ zione in presenza di un campo magnetico, le particelle beta sembra­ vano assomigliare agli elettroni. Ciò venne dimostrato da Becquerel nel 1900. In questo modo gli elettroni, finora associati unicamente alla presenza di correnti elettriche, diventavano una particella costi­ tuente degli atomi, riscontrabile attraverso la misurazione della ra­ dioattività. La dimostrazione dell'esistenza degli elettroni coincise con la dimo­ strazione dell'esistenza degli atomi, i quali, paradossalmente, diven­ tavano un'entità reale proprio nel momento in cui si accertava che essi non erano le particelle ultime e indivisibili della materia. Natu­ ralmente, così come è sempre accaduto nel corso della storia della scienza, la comunità scientifica non si convertì completamente e im­ provvisamente all'atomismo. Ad esempio, nel 1903, Pierre Duhem, insistendo sulla necessità di costruire una «meccanica fondata sulla termodinamica», sosteneva che tale impresa era il miglior modo di «reagire alle teorie atomiche e cartesiane», e di proporre un salutare ritorno «ai più profondi principi delle dottrine aristoteliche» (cit. in Ciardi, 1996, p. 693). In relazione a questo specifico punto, il chimi­ co italiano Aldo Mieli (1879-1950), uno dei fondatori della storia del­ la scienza come disciplina specifica a livello istituzionale, avrebbe di­ chiarato di possedere una «attitudine» simile a quella di Duhem (al quale attribuiva il merito di aver affrontato con coraggio «il proble­ ma sollevato nella scienza dall'uso e dall'abuso delle teorie meccani­ che») e di voler continuare a mantenerla, «nonostante l'effimera at­ tuale voga, nella mente della maggior parte dei fisici, delle idee ato­ mistiche, trasformatesi adesso in elettroniche» (ibid. ) . Queste parole sarebbero state pronunciate nel1917. I percorsi che portarono all'af­ fermazione dell'atomismo nel primo Novecento furono assai com­ plessi e diversificati fra loro, anche dal punto di vista dei contesti na­ zionali, dove si erano affermate, durante il XIX secolo, differenti tra­ dizioni di ricerca, sia in chimica che in fisica. 5.3. Ei nste i n e L'esi stenza degli atomi In ogni caso, ulteriori studi contribuirono, all'inizio del Novecento, a convalidare definiti­ vamente l'esistenza degli atomi. Fra questi spicca, senza dubbio, la Bg

spiegazione in termini atomici del moto browniano, effettuata da Al­ bert Einstein (1879-1955) in una delle tre famose memorie (Einstein, ed. 1988, pp. 136-47) pubblicate nel XVII volume degli "Annalen der Physik" (pp. 549-60), e intitolata Ober die von der molekularkineti­

schen Theorie der Warme geforderte Bewegung von in ruhenden Fliissig­ keiten suspendierten Teilchen ( Il moto delle particelle in sospensione nei fluidi in quiete, come previsto dalla teoria cinetico- molecolare del calore). Nelle altre due memorie Einstein formulò l'ipotesi sui quanti di luce (cfr. PAR. 5.4) ed elaborò la teoria della relatività ristret­ ta (cfr. P AR. 6. 3.1 ). Nel 182 6 il botanico scozzese Robert Brown (1773-1858) aveva deter­ minato che gli ovuli delle conifere non sono racchiusi in un ovario, ma vengono esposti al polline, contribuendo così a chiarire la distin­ zione fra angiosperme e gimnosperme. Inoltre, nel corso delle sue ri­ cerche, Brown aveva osservato al microscopio che i granelli di polline si muovevano incessantemente nel liquido in cui erano in sospensio­ ne. I risultati di queste osservazioni vennero pubblicati nel 182 8. Suc­ cessivamente, Brown riscontrò il fenomeno anche in casi in cui il polline veniva sostituito da altre particelle, purché sufficientemente piccole. Nei decenni seguenti, le ricerche di Brown furono al centro delle attenzioni di numerosissimi scienziati: fisici e chimici, biologi, fisiologi e geologi tentarono di fornire una spiegazione adeguata del fenomeno riscontrato da Brown, contribuendo a mantenere viva l'at­ tenzione sulla questione. Sin dall'inizio della sua carriera scientifica Einstein si mostrò convin­ to della validità del programma atomistico di Boltzmann e lo studio del moto browniano gli offrì la possibilità di dare un considerevole appoggio a tale programma. Einstein stabilì che al decrescere della grandezza delle particelle corrispondeva un moto di maggiore inten­ sità, dal quale si poteva dedurre che le particelle erano soggette all'a­ gitazione termica delle molecole del liquido nel quale erano sospese. Gli studi di Einstein contribuirono a far cambiare idea a molti dei più strenui oppositori dell'atomismo, anche se, come si è visto, egli non riuscì a convincere tutti. Nel 1908, comunque, Jean-Baptiste Perrin determinò le dimensioni degli atomi, che risultavano avere un diametro di circa un centomilionesimo di centimetro. Perrin stabilì in maniera esatta anche il cosiddetto numero di Avogadro ( 6,02 217 x 2 10 3 ), che in precedenza era stato calcolato, nel 1865, dal chimico augo

striaco Joseph Loschmidt (182 t-1895). Perrin confermò anche la teo­ ria einsteiniana del moto browniano e, con essa, l'ipotesi atomica sul­ la costituzione della materia. Una sintesi delle sue ricerche è conte­ nuta nella splendida opera dal titolo Les atomes pubblicata nel1913. Progressivamente i fisici iniziarono a rendersi conto dell'importan­ za dello studio dei pesi atomici per chiarire la comprensione di al­ cuni fenomeni di difficile spiegazione. Infatti, «se è vero che dopo la scoperta dell'elettrone da parte di J oseph J ohn Thomson nel1897 si poteva avere la convinzione che gli elettroni dovevano essere una componente essenziale della struttura atomica, la fisica come esiste­ va allora non poteva dare alcuna indicazione di quale genere di struttura ci si dovesse attendere di trovare all'interno degli atomi» (Weisskopf, 1990, p. 19). Nel1906 il fisico inglese Charles Glover Barkla (1877-1944) dimostrò che i raggi X erano radiazioni elettro­ magnetiche, stabilendo anche che maggiore era il peso molecolare dei gas, maggiore risultava la dispersione dei raggi X. In sostanza, l'emissione di raggi X caratteristici era una proprietà fondamentale dell'atomo. Barkla dimostrò, inoltre, che elementi con pesi atomici elevati davano luogo a una radiazione ancora più penetrante. Quin­ di distinse due tipi di raggi X, la radiazione K (maggiore) e la radia­ zione L (minore). Nel 1913 l'inglese Henry Gwyn Jeffreys Moseley (1887-1915) dimo­ strò che la radiazione X diminuiva di lunghezza d'onda e aumentava di frequenza con il crescere del peso degli elementi. In base a questo principio, se gli elementi fossero stati disposti in ordine crescente di carica nucleare, avrebbero trovato la loro giusta collocazione all'in­ terno della tavola periodica di Mendeleev. Egli confermò così speri­ mentalmente l'idea dell'uguaglianza fra carica del nucleo e numero d'ordine, formulata precedentemente da Antonius Van der Broeck. Secondo Moseley, dunque, era la carica del nucleo che andava a rap­ presentare il numero atomico: «per l'atomo esiste una grandezza fon­ damentale che aumenta regolarmente nel passaggio da un elemento a quello vicino. Questa grandezza può essere solo la carica positiva del nucleo centrale» (cit. in Solov'ev, 1976, p. 2 86). Stabilendo che le proprietà chimiche erano governate dal numero d'ordine dell'ele­ mento, Moseley definì anche chiaramente quali fossero i numeri de­ gli elementi chimici ancora da scoprire (sette), compresi fra quello dell'idrogeno (t) e quello dell'uranio (92 ): 43, 61, 72 , 75, 85, 87, 91. 91

Nel 1916 il chimico americano Gilbert Newton Lewis (1875-1946) diede invece un contributo fondamentale allo sviluppo della teoria delle valenze. Considerando la disposizione degli elettroni negli ato­ mi, egli osservò che tali disposizioni sembravano particolarmente sta­ bili quando il livello esterno ne conteneva otto (oppure due come nel caso speciale dell'elio). Egli così riuscì a sviluppare il concetto del le­ game di coppia, che venne elaborato in maniera indipendente anche da un suo connazionale, lrving Langmuir (1881-1957). Essi ipotizza­ rono, ad esempio, che nella molecola del cloro ( Cl2) ciascun atomo mettesse in comune un elettrone che andava a completare la configu­ razione del loro livello esterno, dotato di sette elettroni. Le formule elettroniche si affiancavano adesso alle formule di struttura. 5.4. l qua nti La dimostrazione che l'elettrone doveva essere con­ siderato parte integrante dell'atomo fece emergere l'ipotesi dell'esi­ stenza all'interno dell'atomo di una corrispettiva carica positiva. Tale ipotesi fu rafforzata dalla relazione esistente fra struttura degli atomi e radiazioni. Le particelle radioattive iniziarono a essere utilizzate come proiettili per la realizzazione di esperimenti sulla natura della materia. Nel 1907 il fisico inglese, nativo della Nuova Zelanda (che aveva lasciato nel 1895), Ernest Rutherford (1871-1937) e il fisico te­ desco Hans Geiger (1882 -1945), che allora si trovavano a Manchester, stabilirono il rapporto fra la carica elettrica e la massa delle particelle alfa, determinando che tale valore era pari a quello di un atomo di elio privo di due elettroni. In sostanza, le particelle alfa erano nuclei di elio. Grazie a una serie di ulteriori esperimenti condotti utilizzan­ do le particelle alfa, Rutherford riuscì a stabilire che nell'atomo esi­ steva una piccola parte dotata di una grossa massa. Veniva così con­ fermata l'ipotesi che il nucleo atomico dovesse possedere una carica positiva per controbilanciare quella negativa degli elettroni. Nel 1911 Rutherford propose un modello di atomo simile a un siste­ ma solare (che si andava ad affiancare a quelli proposti negli anni precedenti da Kelvin nel 1902 , Lenard nel 1903, Nagaoka e Thomson nel 1904), dove gli elettroni erano rappresentati come ruotanti attor­ no a un nucleo, ammesso comunque in forma del tutto ipotetica. In quello stesso anno, tra l'altro, il fisico americano Robert Andrews Millikan (1868-1953) scoprì le dimensioni assolute della carica dell'e­ lettrone (oggi 1,6 X 10-19 coulomb). Rutherford offrì una spiegazio-

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ne del suo modello secondo i principi della meccanica classica. Una simile interpretazione, tuttavia, poneva dei problemi di difficile riso­ luzione. Infatti, in un sistema atomico considerato come un sistema solare in miniatura, tenuto insieme grazie all'attrazione elettrica fra nucleo ed elettroni invece che dalla gravità, gli elettroni, muovendosi circolarmente, avrebbero dovuto irradiare onde luminose che tra­ sportavano energia fuori dall'atomo. In questo caso, però, la perdita di energia da parte degli elettroni avrebbe implicato la loro caduta sul nucleo, il che, tuttavia, era in palese contraddizione con i dati speri­ mentali. Nel 1913 il fisico danese Niels Bohr (1885-1962 ), evidenziando l'ina­ deguatezza della fisica classica per descrivere i fenomeni atomici, pro­ pose un'interpretazione assolutamente rivoluzionaria del modello atomico di Rutherford, associandolo all'ipotesi dei quanti proposta da Max Planck (1858-1947) nel 1900 per risolvere l'enigma dello spet­ tro del corpo nero, che si era proposto all'attenzione dei fisici quasi mezzo secolo prima. Nel 1859 Kirchhoff (cfr. PAR. 4.4.2) aveva svolto una serie di analisi spettroscopiche sulla luce solare, allo scopo di sta­ bilire la relazione fra l'emissione e l'assorbimento della luce e del ca­ lore da parte di diverse sostanze. Così facendo, egli era riuscito a de­ terminare l'esistenza di una dipendenza tra lo spettro di assorbimen­ to e lo spettro di emissione del sodio, ponendo al tempo stesso la co­ siddetta questione del corpo nero, ovvero di un corpo ideale in grado di assorbire radiazioni di tutte le lunghezze d'onda senza rifletterne alcuna. La simulazione sperimentale del suo comportamento veniva così spiegata da Kirchhoff: «data una cavità con pareti a temperatura omogenea, attraverso le quali non possa passare alcuna radiazione, ogni fascio di radiazione all'interno della cavità risulta costituito, quanto a qualità e intensità, come se provenisse da un corpo nero ideale alla stessa temperatura» (cit. in Peruzzi, 2 002 , p. 5). Quella del corpo nero era una questione particolarmente complessa, perché costituiva un problema nuovo che coinvolgeva insieme mec­ canica, elettromagnetismo e termodinamica. La sua formulazione matematica, tuttavia, sfuggiva ai tentativi di determinazione teorica, anche se doveva essere di tipo universale, in quanto dipendente sol­ tanto dalla frequenza e dalla temperatura della radiazione, ma non dalla natura del corpo emittente. Planck (ed. 1964, p. 74) pensò di 93

considerare la materia come costituita da un insieme di oscillatori elettrici elementari: Mi pa rve particola rmente adatto a q uesto scopo l'oscillato re lineare d i Hertz, d i cui lo stesso H e rtz aveva da poco svilup pato completa mente le leggi d i em issione per u n a de­ termi nata freq uenza di oscillazione. Se i n uno spazio cavo, circondato da pa reti riflet­ tenti, si trova un certo n u mero di osci llatori di H e rtz, q uesti sca mbiera n no energia fra di loro emettendo ed assorbendo onde elettro magnetiche, a n a loga mente a dei d iapa­ son o risuo n atori acustici.

Utilizzando questo procedimento sarebbe stato possibile «Stabilire nello spazio cavo la radiazione nera corrispondente alla legge di Kirchhoff» (ibid. ) . Inizialmente Planck provò a risolvere la questione nell'ambito della teoria del campo elettromagnetico. Insoddisfatto dei risultati ottenuti, si rivolse alla termodinamica, dove trovò un ter­ reno più idoneo per sviluppare le sue riflessioni e gli strumenti teorici per giungere a una soluzione del problema. Il 14 dicembre 1900, Planck presentò ai membri della Deutsche Phy­ sikalische Gesellschaft una comunicazione nella quale veniva intro­ dotta la celebre ipotesi dei quanti, unitamente alla presentazione di una costante di natura, la costante h, poi nota come costante di Planck (Planck, ed. 1973, p. 138): Bisogna considera re la d i stri buzione d i energia su ogni tipo d i risonatore; i n na n z itutto la d istri buzione di energia E su N risonatori con freq uenza v. Se si considera E i n fi n ita­ mente d ivisibile, è possibile un n u mero i n fi n ito d i d istribuzio n i d iverse. Noi però consi­ deriamo, e q uesto è il pu nto essenziale, che E sia com posta da u n determi nato n u m e ro d i parti uguali e fi n ite, e ci serviamo per la lo ro determ i nazione della costa nte natu rale h

=

6,55 x 10 - 27 (erg x s). Questa costa nte moltiplicata per la freq uenza v del risona­

to re dà l'elemento d i energia

E

i n erg; d ividendo E per E , otte n i a m o i l n u mero P d i ele­

menti di energia che devono essere d istri bu iti sugli N riso natori.

Con questo passo Planck introduceva l'ipotesi in base alla quale l'e­ nergia della radiazione non era distribuita in modo continuo nello spazio, bensì discontinuo, essendo riunita in quanti, che possono es­ sere emessi o assorbiti dalla materia sempre per intero. Egli, tuttavia, non si rese ben conto di quali avrebbero potuto essere le conseguenze 94

fisiche della sua proposta sull'impianto della scienza contemporanea. Non a caso, la considerò per diversi anni come un'assunzione provvi­ soria e puramente formale; il quanto, infatti, avrebbe potuto rappre­ sentare benissimo «una grandezza fittizia»; se così fosse stato, la dedu­ zione della legge di irradiazione andava considerata come «illusoria in linea di principio», nient'altro che «un giochetto di formule senza contenuto» ( Planck, ed. 1964, p. 93). La comunità scientifica non riservò particolari attenzioni nei con­ fronti dell'ipotesi dei quanti. Einstein fu tra i primi, nella memoria intitolata Uber einen die Erzeugung und Verwandlung des Lichtes be­ trejfenden heuristischen Gesichtspunkt (Un punto di vista euristico re­ lativo alla generazione e alla trasformazione della luce) pubblicata nel XVII volume degli "Annalen der Physik" (pp. 132 -48), sempre nel cruciale anno 1905, a dimostrare che la proposta di Planck, puramen­ te strumentale, poteva essere utilizzata per la spiegazione fisica di nu­ merosi fenomeni di difficile comprensione relativi alla radiazione elettromagnetica (Einstein, ed. 1988, pp. 118-35). Einstein postulò dunque che la luce fosse considerabile, a livello microscopico, come un insieme discreto di quanti, ognuno con energia proporzionale alla frequenza v, ovvero E h v, dove h è la costante di Planck. Nono­ stante Einstein, comunque, ancora per diversi anni molti fisici conti­ nuarono a pensare che il comportamento quantistico si manifestasse soltanto nei corpi materiali, e soltanto alle scale di grandezza in cui i processi di scambio di energia tra il campo e gli ipotetici oscillatori elettrici costituenti la materia diventavano rilevanti. Del resto, oltre all'evidente e sconcertante fatto che gli scambi di energia fra materia e radiazione avvenissero in maniera discontinua, l'ipotesi dei quanti dava sicuramente una mano all'affermazione di un'interpretazione corpuscolare della realtà. Planck aveva le idee molto chiare su questo punto (cit. in Hermann, 1975, p. 540): =

Penso che nei confronti della teoria corpuscola re della luce sia d'obbligo la massima ca utela. [ ... ] La teoria della luce regred i rebbe n o n d i dece n n i, ma d i secoli. E tutti q uesti risu ltati che si a n novera no tra i più lusinghieri successi della fisica, a nzi delle scienze naturali in genera le, dovrebbero essere lasciati cadere per a m o re d i a lcu ne osservazio­ n i a n co ra contesta bilissime? C i vogliono a rtiglierie ben più pesa nti per fa r vacillare l'e­ d ificio della teoria elettro magnetica, le cui fo ndamenta dopo tutto sono molto solide.

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L'ipotesi di Bohr contribuì sicuramente a incrinare ulteriormente tali fondamenta, anche se lo stesso fisico danese continuò per un certo periodo a lavorare su modelli che prevedevano la compresenza di una concezione continua e discontinua della materia. In ogni caso, Bohr ritenne plausibile supporre che anche gli elettroni irradiassero ener­ gia sotto forma di quanti. Secondo Bohr, gli elettroni non potevano essere descritti tra un'orbita e l'altra, ma "saltavano" da uno stato energetico all'altro. Bohr riuscì a calcolare i livelli di energia di un elettrone in un atomo; tali livelli potevano essere espressi in funzione di numeri quantici. Per ragioni di semplicità Bohr ritenne di doversi attenere a un modello nel quale le orbite elettroniche fossero perfet­ tamente circolari, anche se era noto che esse dovevano essere ellitti­ che per forze elettrostatiche che, come quelle gravitazionali, dipen­ dono dall'inverso del quadrato della distanza. Il fisico tedesco Arnold Sommerfeld (1868-1951) trattò per primo il caso ellittico non appros­ simato al circolare.

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6. Meccanica quantistica, biologia molecolare, massa ed energia 6.1. L'i nterpretazione di Cope naghe n Era del tutto evidente come il nuovo modello atomico, nonostante i tentativi di trattarlo alla stregua di un caso speciale della meccanica classica, venisse a scontrarsi con i principi della fisica tradizionale, fondata sul postula­ to della continuità delle trasformazioni naturali. A complicare la si­ tuazione contribuirono, nel 192 3, le ricerche dello statunitense Ar­ thur Holly Compton (1892 -1962 ) e del francese Louis-Victor De Broglie (1892 -1987). Compton determinò che le onde costituenti la radiazione elettromagnetica potevano essere considerate anche sotto forma di particelle, ovvero fotoni, termine utilizzato per la prima vol­ ta da Gilbert N ewton Lewis, poi adottato nel corso del quinto Con­ gresso Solvay, nel192 7, per indicare quelli che Einstein aveva chia­ mato quanti di luce. (Le conferenze Solvay, fondate da Ernest Sol­ vay, l'inventore del metodo di produzione industriale del carbonato sadico, si tenevano a Bruxelles e duravano circa una settimana; ad esse partecipavano una trentina di fisici, che discutevano un tema prestabilito.) De Broglie, dal canto suo, ipotizzò come ogni particel­ la, incluse quelle subatomiche, fosse caratterizzata anche da proprietà ondulatorie. Celebre la battuta del fisico inglese William Henry Bragg (1862 -1942 ) sulla situazione convulsa di questi anni: «Insegnia­ mo la teoria corpuscolare il lunedì, il mercoledì, il venerdì, e la teoria ondulatoria il martedì, il giovedì e il sabato» (cit. in Solov'ev, 1976, p. 2 94). Nel 192 4 il fisico teorico indiano Satyendra Nath Bose (1894-1974) riuscì a ricavare la legge di Planck supponendo che i fotoni fossero sottoposti a una distribuzione statistica differente da quella classica. Bose inviò l'articolo in cui aveva proposto la sua idea (di cui non ave­ va colto in realtà tutte le implicazioni) a Einstein, il quale ne curò la traduzione in tedesco. L'anno successivo Einstein rielaborò la stati­ stica di Bose nella sua forma definitiva. Per questo motivo essa viene normalmente definita come statistica di Rose-Einstein. Tuttavia, è

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bene specificare che soltanto dopo la nascita della meccanica quanti­ stica fu possibile rendersi conto che il fondamento della nuova stati­ stica consisteva nell'impossibilità di distinguere le particelle nel caso di funzioni d'onda completamente simmetriche. Einstein, con la memoria del 1905 sui quanti di luce, aveva in qualche modo contri­ buito a dare il la alla fondazione della teoria atomica quantistica, pur non volendolo, dal momento che il suo obiettivo era quello di co­ struire una teoria corpuscolare meccanica classica della luce. Egli, in­ fatti, nutriva grosse perplessità in merito alla teoria dei quanti di Bohr e non mancò di esporre il suo dissenso in numerose occasioni. Nel 192 6 l'austriaco Erwin Schrodinger (1887-1961) cercò di costrui­ re una teoria, denominata meccanica ondulatoria, che riuscisse a spiegare i fenomeni microscopici all'interno di una visione determi­ nistica della realtà. Schrodinger cercò così di descrivere un'equazione di propagazione delle onde, basandosi sui metodi matematici tradi­ zionali impiegati nell'ottica e nella meccanica razionale classica. Ben diverso fu invece il progetto, già dal 192 5, del tedesco Werner Hei­ senberg (1901-1976) per fornire una rappresentazione adeguata del comportamento della natura a livello subatomico. Heisenberg ab­ bandonò i modelli, ritornando all'uso delle equazioni matematiche, in esclusivo accordo con i dati empirici. Consapevole che nell'ambito della teoria dei quanti non risultava possibile fare in nessun modo previsioni deterministiche ma soltanto probabilistiche, egli, in colla­ borazione con Max Born (1882 -1970) ed Ernst Pascual Jordan (1902 1980), i quali lo aiutarono a riscrivere le sue tabelle di valori numerici in termini di matrici, mise a punto un nuovo sistema di calcolo, de­ nominato meccanica delle matrici, utilizzato per rappresentare gran­ dezze fisiche come la posizione e l'energia. Dal momento che il pro­ dotto di due matrici dipendeva dal loro ordine, ciò significava, come Heisenberg mostrò nel192 7, che il risultato di due misurazioni rela­ tive a una stessa particella poteva cambiare in base all'ordine in cui erano state effettuate. Nel192 5 il fisico teorico svizzero di origine austriaca Wolfgang Pauli (1900-1958) giunse alla formulazione del principio di esclusione, in base al quale due elettroni non potevano mai occupare lo stesso stato quantico. È il principio in base al quale gli elettroni tendono ad avere una distribuzione ben ordinata, che spiega anche la forma della tavo­ la periodica di Mendeleev. Gli elettroni, man mano che vengono sa98

turati gli strati a livelli energetici inferiori, vanno a occupare i livelli energetici più alti. Aumentando il livello energetico, gli elettroni di­ ventano sempre più debolmente legati al nucleo e danno luogo alla valenza chimica. Nel 192 6 Enrico Fermi (1901-1954), seguendo Pauli, mise a punto una nuova statistica per spiegare il comportamento degli elettroni nelle molecole di un gas perfetto. Nello stesso anno, Max Born ela­ borò un metodo statistico per cercare di calcolare il comportamento dell'elettrone determinabile attraverso un'interpretazione probabili­ stica delle onde introdotte da Schrodinger. Questa serie di ricerche sperimentali ed elaborazioni teoriche culminò nella formulazione da parte di Heisenberg, nel 192 7, del famoso principio di indetermina­ zione, in base al quale non è possibile misurare precisamente la posi­ zione e la velocità di una particella; e più è precisa una misura in un senso, maggiore diventa l'indeterminazione nell'altro. Per interpre­ tare l'indeterminazione di Heisenberg, Bohr enunciò il principio di complementarità, che specificava come l'aspetto corpuscolare e ondu­ latorio della natura non fossero in contraddizione, perché in realtà tali aspetti, sebbene necessari, non si manifestavano mai contempo­ raneamente. I principi di Heisenberg e di Bohr completarono la na­ scita di una nuova disciplina, la meccanica quantistica, e furono alla base della cosiddetta interpretazione di Copenaghen. La fondazione della nuova teoria, com'è facile immaginare, scatenò accesi dibattiti all'interno della comunità scientifica, non solo di na­ tura tecnica, ma anche, e forse soprattutto, di ordine filosofico. In ge­ nere si tende a dire che la rivoluzione portata in fisica dalla meccanica quantistica riguardò l'introduzione di leggi statistiche e probabilisti­ che al posto di una visione del mondo causalistica e deterministica quale era presentata non solo dalla meccanica newtoniana, ma anche dalla teoria della relatività. In realtà, la questione non riguarda sol­ tanto i concetti di probabilità e statistica, ma è più profonda. La ne­ cessità di introdurre metodi statistici all'interno della ricerca fisica era nota da tempo alla comunità dei fisici. Ben prima di Boltzmann, ad esempio, tale esigenza era stata sostenuta da Laplace. Il calcolo delle probabilità, tuttavia, continuava a essere inserito in una visione deterministica del mondo. Secondo Laplace, infatti, l'impiego dei metodi statistici era reso necessario dall'impossibilità di esaurire tutti i dati dell'osservazione; tuttavia, in linea di principio, 99

non si escludeva l'idea di un progressivo avvicinamento della cono­ scenza scientifica alla spiegazione complessiva di tutti i fenomeni. Con la meccanica quantistica, invece, i metodi statistici venivano in­ seriti in una visione del mondo che, oltre ad abbandonare l'idea di continuità dei processi fisici, non consentiva una determinazione contemporanea delle proprietà caratteristiche delle cose, a causa dei mutamenti introdotti dall'intervento dell'osservatore nel processo da esaminare (Heisenberg, 1966). Conoscere, dunque, secondo l'inter­ pretazione di Copenaghen, non significa tanto descrivere in maniera oggettiva e realistica la natura, quanto cercare di fornire un'immagi­ ne la più adeguata possibile del nostro rapporto con essa. Einstein si rifiutò di aderire a questo nuovo tipo di fisica, convinto che in futuro la meccanica quantistica sarebbe stata riassorbita all'in­ terno di una visione del mondo deterministica. T ale convinzione è sintetizzata in una delle sue frasi più celebri, contenuta in una lettera indirizzata a Max Born il 4 dicembre 192 6: «La meccanica quantistica è degna di ogni rispetto, ma una voce interiore mi dice che non è an­ cora la soluzione giusta. È una teoria che ci dice molte cose, ma non ci fa penetrare più a fondo il segreto del gran Vecchio. In ogni caso, sono convinto che questi non gioca a dadi con il mondo» (Einstein, ed. 1988, p. 709). Einstein dedicò gli ultimi trent'anni della sua vita alla ricerca di una teoria unificata che raccordasse la teoria della rela­ tività generale con l'elettromagnetismo e che rendesse parziali e cir­ coscritti a casi particolari i risultati della meccanica quantistica. An­ che il dibattito con Bohr sui fondamenti di questa nuova visione del mondo fu praticamente ininterrotto, a partire dalle discussioni che si svolsero durante il convegno Solvay del192 7 e che trovarono una pri­ ma definizione nell'articolo del 1935 intitolato Can quantum-mecha­ nical description ofphysical reality be considered complete?, firmato da Einstein, Podolsky e Rosen (Einstein, ed. 1988, pp. 374-82 ) al quale Bohr rispose con un articolo dallo stesso titolo, sempre nel1935. Il di­ battito Bohr-Einstein rappresenta il miglior modo per ricordarci quanto le immagini del mondo e della natura, così importanti nel­ l'ambito della nascita e dello sviluppo della scienza moderna, siano state influenti sulla fisica della prima metà del Novecento e continui­ no probabilmente a esserlo anche sulla ricerca scientifica contempo­ ranea. Nel dopoguerra, fra gli altri tentativi è degno di nota quello di David Bohm, il quale ha cercato di proporre, a partire dal 1952 , 100

un'interpretazione alternativa della teoria quantistica che fosse non solo coerente e in linea con i dati empirici, ma anche in grado di of­ frirne una visione deterministica. Tale interpretazione, tuttavia, non è riuscita a soppiantare quella di Copenaghen. 6.2. Da lla chi m i ca q u a ntistica a lla scoperta del D N A Men­ tre la fisica atomica stava progressivamente giungendo alla formula­ zione della meccanica quantistica, grandi furono i progressi nell'am­ bito delle relazioni tra fisica e chimica. Nella costruzione del suo mo­ dello relativo al legarne chimico, Lewis (cfr. PAR. 5.3) non aveva fatto ricorso alla teoria dei quanti. Nel 192 7 Walter Heinrich Heider (1904-1981) e Fritz Wolfgang London (1900-1954) dimostrarono che il legame chimico della molecola di idrogeno dipendeva direttamente dai principi della meccanica quantistica. Sviluppando queste ricer­ che, il chimico statunitense Linus Cari Pauling (1901-1994) pose le basi per la moderna teoria del legame chimico, precisando, fra molte altre cose, la natura dei legami chimici forti e deboli - che erano stati scoperti dal fisico olandese Van der Waals (1837-192 3) e che vengono anche chiamati con il suo nome -, delineando, all'interno di quelli forti, il meccanismo del legame covalente e di quello ionico, e illu­ strando la coordinazione tetraedrica del carbonio ( Perutz, 1998). Nel 1939 Pauling avrebbe pubblicato The nature ofthe chemical bond, and the structure ofmolecules and crystals, la prima grande sintesi delle sue ricerche, sulla quale si formò un'intera generazione di chimici. Sarebbe tuttavia un grosso errore pensare che la chimica, dopo le ri­ cerche di Pauling, sia diventata una semplice appendice della fisica quantistica. La complessità degli oggetti e degli argomenti, in ambito sia inorganico che organico, con cui si sono confrontati i chimici nel corso del Novecento, sfugge a qualsiasi logica di tipo riduzionistico. Come hanno sempre fatto nel corso della loro storia, i chimici anche oggi rivendicano giustamente l'autonomia della loro disciplina. La meccanica quantistica, infatti, che pur rappresenta l'ovvio e ineludi­ bile sostrato dei fenomeni chimici, non riesce a rendere pienamente conto del comportamento della materia su scala molecolare. Nurne­ rosi fenomeni chimici riescono a essere spiegati soltanto al livello in cui sono osservati. Le sostanze più tipiche e importanti dei tessuti viventi sono costituite da molecole gigantesche, o macromolecole composte di centinaia, di migliaia e talvolta anche di milioni di 101

atomi. Tipici esempi di macromolecole sono le proteine (cfr. PAR. 4.2.2), che hanno a che fare con la natura intima dei processi vitali, e le cui funzioni non sono spiegabili in termini puramente fisici. È proprio dagli studi sulle proteine che si è giunti alle sorprendenti e rivoluzionarie scoperte sulla struttura del D N A , grazie ai fondamen­ tali contributi del chimico inglese William Thomas Astbury (18891961) - al quale praticamente si deve l'avvio del programma di ricerca che portò alla fondazione della biologia molecolare - dello stesso Pauling, del chimico austriaco, poi cittadino britannico, Max Perutz (1914- 2 002 ) e di John Cowdery Kendrew (1917-1997), noti per aver determinato, mediante la tecnica della diffrazione dei raggi X, le pri­ me due strutture proteiche, quelle dell'emoglobina e della mioglobi­ na, ovvero le proteine che assorbono ossigeno, rispettivamente, dal sangue e dai muscoli. Nel1946 Perutz e Kendrew fondarono a Cambridge la Medicai Re­ search Council Unit for Molecular Biology, diretta dallo stesso Pe­ rutz, presso il celebre Cavendish Laboratory, l'istituto di fisica allora guidato da William Lawrence Bragg (1890-1971), succeduto a Ru­ therford. Fu proprio all'interno di questa struttura che si sarebbero sviluppate le ricerche di James Dewey Watson (n. 192 8) e Francis Harry Compton Crick (n. 1916) relative alla costruzione di un mo­ dello dell'acido desossiribonucleico, che dimostrava come il D N A fos­ se costituito da una lunghissima molecola, portatrice di un codice ge­ netico, formata dalla successione di quattro elementi, detti basi o nu­ cleotidi: adenina (A), guanina ( G), citosina ( C) e timina (T). Laureatosi in fisica presso lo University College di Londra nel1931, Crick aveva iniziato a interessarsi alle questioni di biologia molecola­ re anche grazie alla lettura del saggio di Schrodinger dal titolo What is life? pubblicato nel1944, nel quale il fisico austriaco aveva sostenu­ to che una delle caratteristiche fondamentali della vita era rappresen­ tata dalla capacità di immagazzinare e trasmettere informazioni, gra­ zie a un codice di natura chimica. Il saggio di Schrodinger, dal quale emergeva la consapevolezza dello scarso contributo offerto fino ad al­ lora dalla nuova fisica allo studio del vivente, ebbe del resto una note­ vole influenza su tutto l'ambiente scientifico del tempo. Una volta giunto a Cambridge, Crick, insieme a Watson, iniziò a interessarsi agli studi che si stavano effettuando sulla struttura fisica delle mole­ cole grazie alla tecnica di diffrazione dei raggi X (se si bombarda un 102

qualsiasi tipo di cristallo, i raggi X rimbalzano sugli atomi creando sulla pellicola fotografica il disegno della struttura delle molecole che compongono il cristallo). Watson e Crick utilizzarono, in particola­ re, i risultati sperimentali ottenuti in quel periodo sugli acidi nucleici da Rosalind Elsie Franklin (192 0-1958), uno dei cristallografi più im­ portanti a livello mondiale, la quale lavorava presso il King's College di Londra, dove si trovava anche il neozelandese Ma urice H ugh Fre­ derick Wilkins (n. 1916), uno dei primi, a partire dal1946, a studiare la struttura molecolare dell'acido desossiribonucleico, una volta di­ mostrato che il D N A era il costituente dei geni. Fino ad allora, infatti, si riteneva che i geni fossero delle proteine. Fra i due gruppi di ricerca si scatenò una serrata competizione per giungere alla scoperta della struttura del D N A (dando origine a una serie di complesse e delicate questioni sui meriti effettivi dei perso­ naggi coinvolti nella storia e sugli scambi di informazioni che inter­ corsero in quegli anni fra i vari ricercatori). Nel frattempo, nel1950, il chimico austriaco (naturalizzato statunitense) Erwin Chargaff (n. 1905) aveva fatto una scoperta fondamentale: indipendentemente dalla specie studiata, anche se le proporzioni delle quattro basi della molecola del D N A variavano da specie a specie, il numero di molecole di adenina era uguale a quello di timina; lo stesso si poteva dire per i rapporti fra guanina e citosina. Nel1951, inoltre, Pauling, che già dal­ la fine degli anni trenta aveva affrontato il problema della determina­ zione della struttura degli amminoacidi grazie alla tecnica di diffra­ zione dei raggi X, era riuscito a determinare la cosiddetta configura­ zione ad alfa-elica, caratteristica di molte strutture proteiche. A questo interessantissimo scenario si aggiunse quindi, nel 1952 , gra­ zie agli studi di Alfred Day Hershey e Martha Chase, la prova che il D N A era la molecola responsabile della trasmissione dei caratteri ere­ ditari. Dopo alcuni tentativi non riusciti, Watson e Crick, sul finire del febbraio del1953, proposero il loro modello, a spirale elicoidale a doppio filamento, nel quale comparivano appaiate a coppie le basi adenina- timina e citosina-guanina. La notizia della scoperta venne pubblicata il 2 5 aprile di quello stesso anno sulla rivista "Nature" con l'articolo intitolato A structure for deoxyribose nucleic acid: «Desideria­ mo proporre una struttura per il sale dell'acido desossiribonucleico ( D N A ) . Questa struttura possiede alcune caratteristiche inusuali di considerevole interesse biologico» (cit. in Judson, 1986, p. 2 73). 10 3

6.3. Relatività e neutro n i

Nel 1914 Rutherford giunse alla con­ clusione che i raggi alfa formati da nuclei di idrogeno erano i più pic­ coli possibili. Il nucleo di idrogeno risultava così, a sua volta, la più piccola particella esistente in natura dotata di carica positiva. Per questo motivo venne denominato protone (dal greco protos, primo). Il nucleo degli atomi era dunque composto da un insieme di proto­ ni ? Questa ipotesi, del tutto plausibile, presentava, tuttavia, una serie di complessi problemi. Come era possibile, infatti, tenere insieme fra loro particelle tutte dotate di carica positiva ? I chimici avevano da tempo insistito sull'importanza di costruire una teoria degli elementi che prendesse in considerazione il peso atomico. Ora risultava ben chiaro, tuttavia, che gli elementi potevano essere contraddistinti non solo dalla massa dei rispettivi atomi, ma anche dalla carica dei relativi nuclei. Essendo gli atomi neutri, la carica nucleare doveva controbi­ lanciare la carica totale negativa degli elettroni. Si poteva ipotizzare che gli elettroni fossero presenti nel nucleo in numero tale da equili­ brare la carica dei protoni. Del resto, gli atomi emettevano anche particelle beta che sembravano provenire proprio dal nucleo. Ad esempio, nel caso dell'azoto (massa 14, carica elettrica 7), sembrava ragionevole sostenere che nel nucleo fossero contenuti sette protoni e sette coppie protone-elettrone. Questo dato, però, poneva altri problemi. Le particelle beta, ad esempio, rispetto alla perdita di massa prevista nel caso si fosse tratta­ to di elettroni, uscivano dall'atomo con energia minore, spesso im­ prevedibile, ma sicuramente diversa da quella ricavabile dall'equiva­ lenza generale tra energia (E) e massa (m) stabilita da Einstein all'ini­ zio del secolo. Nella terza delle straordinarie memorie (cfr. PARR. 5.3 e 5.4) del1905 pubblicate sul xvn volume degli "Annalen der Physik" (pp. 891- 921), intitolata Zur Elektrodynamik bewegter Korper (L'elettrodi­ namica dei corpi in movimento), Einstein sottopose a una profonda revisione i concetti tradizionali di spazio e di tempo nel tentativo di risolvere i contrasti fra le teorie di Newton e di Maxwell, che si con­ trapponevano su un elemento decisivo: mentre nel sistema di New­ ton era previsto che le azioni fra i corpi si manifestassero istantanea­ mente, qualunque fosse la distanza, nell'elettromagnetismo le forze si 6.3.1. L a teoria de LLa relatività

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propagavano con una velocità finita, ovvero quella della luce. Nel tentativo di giungere a una unificazione fra le due più importanti teorie fisiche della scienza moderna, Einstein giunse alla formulazio­ ne della relatività ristretta o speciale (ovvero limitata a un principio di relatività legato ai soli moti rettilinei uniformi). La teoria della relati­ vità ristretta si può assiomatizzare attraverso due postulati: • le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali, ovvero che si muovono di moto rettilineo uniforme l'uno rispetto all'altro; detto in altri termini, le leggi che regolano i feno­ meni fisici, sia meccanici che elettromagnetici, sono indipendenti dallo stato di moto rettilineo uniforme dell'osservatore (principio di

relatività); la luce ha una velocità limite, costante (circa 3 0 0 . 000 chilometri al secondo) nel vuoto, che è indipendente dal moto rettilineo unifor­ me sia della fonte di luce che dell'osservatore. In sostanza, secondo la teoria della relatività ristretta, non si poteva più parlare di simultaneità a distanza di avvenimenti in senso classico (o assoluto), perché era necessario stabilire rispetto a quale sistema di coordinate spaziali tali fenomeni si presentavano come simultanei. Gli intervalli di tempo, inoltre, come le distanze o lunghezze spaziali, dipendevano dal sistema di riferimento dal quale erano misurati. Con la teoria della relatività, spazio e tempo diventano indissolubil­ mente legati; avvicinandosi a velocità prossime a quelle della luce, il tempo si dilata (ovvero scorre più lentamente), mentre lo spazio si accorcia nella direzione del moto. Relativamente a tale questione, Paul Langevin (1872 -1946) avrebbe enunciato il celebre paradosso dei gemelli: se uno fra due gemelli avesse la possibilità di intrapren­ dere un viaggio nel cosmo a velocità prossime a quelle della luce, e l'altro rimanesse sulla Terra, al momento di un loro eventuale incon­ tro, dopo qualche anno, il primo sarebbe molto più giovane del se­ condo. Un altro effetto ricavabile dalla teoria della relatività ristretta ri­ guardava l'aumento della massa con la velocità. Anche l'inerzia, dunque, cessava di essere una quantità costante. Non solo. La teoria prevedeva anche che se a un corpo che si muoveva con velocità prossima a quella della luce veniva fornita una certa quantità di energia, la sua velocità sarebbe aumentata di poco, mentre la sua massa avrebbe subito un incremento effettivo. La massa, dunque, •

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era in qualche modo una forma di energia. In una successiva nota, pubblicata nel volume XVIII degli "Annalen" del1905 (pp. 639- 41) e intitolata 1st die Tragheit eines Korpers von seinem Energieinhalt ab­ hangig? (L'inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto di ener­ gia ?), è contenuta l'enunciazione (che venne formulata anche da Poincaré) di quella che è diventata una delle equazioni più celebri del mondo, ovvero E mr. Nel 1905 il matematico ed epistemologo francese Henri Poincaré (1854-1912 ), che aveva seguito con attenzione gli sviluppi dell'elet­ trodinamica di Lorentz, arrivò a elaborare una teoria che, dal punto di vista matematico, era equivalente alla relatività ristretta di Ein­ stein, pur differendo da essa sensibilmente sotto il profilo fisico. Egli presentò i suoi risultati in un articolo dal titolo Sur la dynami­ que de l'électron; l'anno successivo avrebbe pubblicato una memoria assai più lunga, ma con lo stesso titolo, nei "Rendiconti del Circolo matematico di Palermo". In ogni caso, il bagaglio di tecniche che i matematici riuscirono a sviluppare tra la fine dell'Ottocento e l'ini­ zio del Novecento fu determinante per lo sviluppo delle ricerche einsteiniane. Ad esempio, nel1900 Tullio Levi- Civita (1873-1941) e Gregorio Ricci Curbastro (1853-192 5) posero le basi del calcolo dif­ ferenziale assoluto, che costituirà la base matematica della teoria della relatività generale. La teoria della relatività generale, ovvero estesa anche ai sistemi di ri­ ferimento con moti accelerati, venne proposta da Einstein nel 1916. Attraverso l'equivalenza tra accelerazione e gravitazione, Einstein ipotizzò che lo spazio, in prossimità di una massa stellare, dovesse in­ curvarsi determinando la deviazione delle traiettorie dei corpi e an­ che della luce. Lo spostamento delle immagini stellari, causato dalla deflessione dei raggi luminosi in un campo gravitazionale, avrebbe potuto essere osservato durante un'eclissi totale di Sole. Un fenome­ no simile si sarebbe verificato il 2 9 marzo 1919. La Royal Society e la Royal Astronomica! Society di Londra, tramite un comitato presie­ duto da Arthur Eddington (1882 -1944), organizzarono due spedizio­ ni in zone molto distanti fra loro, ma incluse nel cono di eclissi tota­ le: una nel Sobral, nel nord del Brasile, l'altra nelle isole Principe, nel golfo di Guinea. Il 6 novembre 1919 le due società annunciarono congiuntamente che i raggi di luce erano stati effettivamente deviati così come previsto dalla teoria di Einstein. =

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Tornando al1905, l'equazione di Einstein relativa all'equivalenza fra massa ed energia aveva contribuito a mettere in crisi un assioma ben consolidato, quello della conservazione della massa. Tale equazione, infatti, implica che l'energia e la massa siano equivalenti. La massa può essere trasformata in energia, l'energia in massa, ovvero in una determinata quantità di materia. Un qualunque tipo di trasformazio­ ne che comporti una piccola riduzione di massa deve liberare una grande quantità di energia, a causa dell'elevato valore della velocità della luce. Effettivamente alcuni chimici, come ad esempio il tedesco J ulius Lothar Mayer (1830-1895), al quale si deve, tra l'altro, una ta­ vola degli elementi realizzata contemporaneamente a quella di Men­ deleev, si erano già chiesti se in alcune reazioni non potessero verifi­ carsi mutamenti di peso, dovuti al fatto che un certo numero di par­ ticelle sfuggiva alla combinazione. Lo svizzero Hans Landolt (1831-1910) studiò a lungo questo proble­ ma giungendo tuttavia a una conclusione negativa: «La verifica speri­ mentale della legge sulla conservazione della massa si può considerare conclusa. Se esistono eccezioni a questa legge, si deve trattare di quantità inferiori al centesimo o al millesimo di milligrammo» (cit. in Hermann, 1992 , p. 13). Ciò non deve sorprendere. In una trasfor­ mazione chimica ordinaria, la massa di un atomo rimane sostanzial­ mente invariata. Era evidente che le modificazioni della massa cui egli si riferiva non potevano essere osservate nelle normali reazioni chimiche, ma soltanto in quelle nucleari. La soluzione al problema posto dalle particelle beta, che sembrava in qualche modo violare l'equazione di Einstein, si presentò qualche anno più tardi. Nella primavera del 1931 Wolfgang Pauli ipotizzò che l'emissione nel decadimento beta non fosse formata da una sola particella, ovvero l'elettrone, ma anche da un'altra, di natura sconosciuta. Secondo Pauli era probabile che l'e­ nergia proveniente dall'atomo si ripartisse in modo casuale fra l'elet­ trone e questa particella. La carica elettrica della particella, inoltre, doveva essere nulla. Tale ipotesi venne riproposta da Pauli nell'otto­ bre di quell'anno al Congresso internazionale di fisica nucleare di Roma, voluto da Fermi per fare il punto della situazione sulle nume­ rose questioni ancora irrisolte nell'ambito della fisica nucleare. Nel 192 7 Fermi aveva vinto il concorso per la prima cattedra di fisica teo6.3.2. La scoperta d e l ne utrone

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rica in Italia, grazie al fondamentale appoggio del fisico e uomo poli­ tico Orso Mario Corbino (1876- 1937). I due decisero di trasformare l'Istituto di fisica di Roma, situato in via Panisperna, in un avanzato centro di ricerca capace di competere a livello internazionale. Tra il 192 7 e il 192 8 Franco Rasetti ( 1901-2 001), Emilio Segré (19051989), Edoardo Amaldi (1908- 1989) ed Ettore Majorana (1906-1938?) costituirono i primi allievi della scuola di Fermi, che in seguito sareb­ be stata nota come gruppo di via Panisperna. Al congresso del 1931 parteciparono tutti i più importanti fisici dell'epoca. Fu in questa oc­ casione che Fermi, per denominare la particella ipotizzata da Pauli, coniò il termine neutrino. Nel frattempo, nel corso del 1930 il fisico tedesco Walther Wilhelm Georg Bothe (1891- 1957) aveva bombardato il berillio con raggi alfa, dando luogo alla produzione di un nuovo tipo di radiazione corpu­ scolare. T ale radiazione era difficile da studiare, perché si manifestava assolutamente priva di carica. Nel febbraio del 1932 l'inglese James Chadwick (1891-1974) riuscì a dimostrare la natura del fenomeno: i raggi alfa spingevano fuori dal nucleo alcune particelle, la cui massa era vicina a quella del protone, che erano assolutamente neutre. Per questo motivo le chiamò neutroni. I neutroni potevano sostituire le coppie di particelle protone-elettrone, la cui esistenza era stata ipotiz­ zata per cercare di spiegare in che modo il nucleo atomico potesse mantenersi in equilibrio. Adesso, per spiegare la costituzione del nu­ cleo dell'azoto, era sufficiente ipotizzare l'esistenza di 7 protoni e 7 neutroni. La scoperta del neutrone risolveva però anche altri proble­ mi, quale quello dell'esistenza degli isotopi, ovvero degli atomi con uguale numero atomico, ma diverso numero di massa. Il termine iso­ topo (dal greco isos, uguale, e topos, luogo) era stato coniato dal chi­ mico inglese Frederick Soddy (1877- 1956) per spiegare l'esistenza di un numero di sostanze radioattive assai superiore ai posti disponibili nel sistema periodico degli elementi. Soddy ipotizzò che il sistema periodico potesse ospitare in una data posizione due o più sostanze simili e distinguibili fra loro soltanto per le proprietà radioattive. Il chimico e fisico statunitense Theodore William Richards (1868192 8) estese quindi il concetto di isotopo al di fuori degli elementi radioattivi, dimostrando l'esistenza di vere e proprie varianti nel peso atomico di una stessa sostanza, ad esempio nel piombo. Pri­ ma della scoperta del neutrone, si riteneva che gli isotopi fossero do108

vuti al diverso numero di protoni ed elettroni presenti nel nucleo. Ora, dopo le ricerche di Chadwick, la natura degli isotopi poteva es­ sere spiegata, molto semplicemente, grazie alla presenza di un nume­ ro maggiore di neutroni nel nucleo rispetto al numero atomico origi­ nario. Il numero di protoni ed elettroni restava invece naturalmente lo stesso. Subito dopo la scoperta di Chadwick, Ettore Majorana svi­ luppò l'idea, che ricevette l'apprezzamento di Fermi, di un nucleo composto da protoni e neutroni, elaborando anche una teoria delle forze nucleari che legavano tali particelle, note poi come forze di Majorana. Nell'ottobre del 1933, al settimo Congresso Solvay, Pauli ri­ propose con maggior forza la sua concezione. Fermi, quindi, elaborò la celebre teoria della radioattività beta che spiegava esaurientemente l'ipotesi di Pauli: un neutrone si trasformava in un protone, produ­ cendo una relativa emissione di un elettrone e di una particella neu­ tra, il neutrino. Essendo privo di carica e quasi del tutto di massa, il neutrino sarà osservato sperimentalmente soltanto nel 1956. 6.4. La bom ba ato m i ca La scoperta del neutrone mise a dispo­ sizione degli scienziati un nuovo strumento per lo studio dei nuclei atomici. I neutroni, essendo privi di carica, venivano assorbiti più fa­ cilmente, anche a basse velocità, dai nuclei, che si frantumavano. Nel 1934 i coniugi Jean- Frédéric Joliot (1900-1958) e lréne Curie (18971956), la figlia maggiore di Marie, utilizzando il bombardamento dei nuclei atomici con neutroni scoprirono la possibilità di pro­ durre la radioattività in maniera artificiale, rendendo radioattiva una certa quantità di alluminio, un elemento non radioattivo. L'e­ sperimento diede così luogo a un nuovo elemento, un isotopo del fosforo. Chi comprese le straordinarie possibilità di analisi legate all'uso di radiazioni formate da neutroni fu soprattutto Fermi, alla guida del gruppo di via Panisperna. Fermi scoprì che erano soprattutto i neu­ troni lenti a penetrare con facilità nei nuclei. Sottoponendo la mag­ gior parte dei nuclei conosciuti all'azione di neutroni rallentati da uno strato di acqua o paraffina, Fermi riuscì a ottenere un gran nu­ mero di isotopi radioattivi artificiali. Nel 1934 Fermi bombardò il nucleo dell'uranio nel tentativo di creare l'elemento numero 93· Grazie a questo e ad altri esperimenti, il 10 dicembre 1938 Fermi ricevette a Stoccolma il premio Nobel per la fisica per «la scoperta di

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nuove sostanze radioattive appartenenti all'intero campo degli ele­ menti e per la scoperta [ . ] del potere selettivo dei neutroni lenti» (cit. in De Maria, 1999, p. 56). In realtà, Fermi aveva prodotto la scissione dei nuclei atomici, ma ci vollero alcuni anni prima di giun­ gere all'interpretazione corretta delle ricerche italiane. Furono i tedeschi Otto Hahn (1879-1968) e Fritz Strassmann (1902 1980), proprio nel dicembre del1938, a dimostrare che Fermi, con il bombardamento dell'uranio, aveva prodotto in realtà un isotopo ra­ dioattivo del bario, caratterizzato da un peso atomico (56) che era circa la metà di quello dell'uranio. Nel giro di qualche giorno, l'au­ striaca Lise Meitner (1878-1968) venne raggiunta in Svezia dalla no­ tizia della scoperta, prima ancora della sua diffusione ufficiale. La Meitner era stata per molti anni una delle più strette collaboratrici di Hahn; tuttavia, dopo l'Anschluss (ovvero l'annessione dell'Austria alla Germania, avvenuta nel marzo del 1938), le leggi razziali promul­ gate dal regime nazista divennero applicabili anche al suo caso (Ein­ stein, ad esempio, aveva già lasciato la Germania nel 1933). Insieme al nipote, Otto Robert Frisch (1904-1979), che era andato a trovarla per il Natale di quello stesso anno (profugo anch'egli dal 1934, Frisch vi­ veva a Copenaghen e collaborava presso l'ormai celebre Istituto di fi­ sica teorica di Bohr, fondato nel1921), Lise Meitner elaborò la spie­ gazione teorica del fenomeno: il nucleo dell'uranio, dopo essere stato colpito da un neutrone, si spezzava in due parti uguali, dando luogo a ciò che in seguito venne chiamata fissione nucleare (dall'inglese fis­ sion, scissione). Il saggio in cui veniva descritto il processo di fissione, destinato a modificare le sorti dell'intera umanità, apparve sulla rivi­ sta "Nature" nel febbraio del1939. Le conseguenze della scoperta furono subito chiare agli occhi degli scienziati e, in primo luogo, a Niels Bohr, che proprio all'inizio del 1939 si era trasferito per un certo periodo negli Stati Uniti (sarebbe rientrato a Copenaghen pochi giorni prima dell'occupazione tedesca della Danimarca, avvenuta il 9 aprile 1940). Dal momento che nella fissione si verificava una piccola perdita di massa, in base all' equazio­ ne di Einstein, essa doveva generare un'enorme quantità di energia. Inoltre, l'atomo di uranio che si spezzava in due emetteva anche due neutroni. Questi neutroni avrebbero potuto, in linea di principio, andare a colpire altri due atomi di uranio, provocandone la fissione e liberando una nuova, enorme quantità di energia e quattro nuovi .

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neutroni, che sarebbero andati a colpire altri quattro atomi di uranio, in una reazione a catena capace di trasformarsi in una esplosione di incalcolabile potenza. Leo Szilard (1898-1964), un fisico ungherese emigrato negli Stati Uniti sempre a causa dell'avvento del regime nazista, non appena in­ formato da Bohr degli esperimenti avvenuti in Europa, cercò di con­ vincere le autorità americane che le nuove scoperte potevano essere utilizzate a scopo bellico per combattere la Germania nazista. Del re­ sto, Szilard era stato proprio uno di quei fisici che all'inizio degli anni trenta avevano indicato la possibilità teorica di realizzare una reazio­ ne a catena. Uno dei primi a conoscere il progetto di Szilard, che la­ vorava presso il laboratorio di fisica della Columbia University di New York, fu Enrico Fermi. L'occasione del premio Nobel, nel di­ cembre del 1938, era servita al fisico italiano per programmare il suo trasferimento negli Stati Uniti. Anche in Italia erano state promulga­ te le leggi razziali. Il Manifesto della razza, nel luglio del 1938, aveva dato il via alla campagna antisemita e la moglie di Fermi, Laura Ca­ pon, era ebrea. Fermi e la sua famiglia sbarcarono a New York il 2 gennaio 1939. Lo scienziato italiano venne accolto presso il Dipartimento di fisica della Columbia University, la stessa struttura dove lavorava Szilard, con il quale iniziò ben presto a collaborare. Scriverà in seguito Fermi (cit. in De Maria, 1999, p. 59): U n fatto cu rioso rigua rdo a q uesta fase del lavo ro fu che a llo ra per la prima volta ebbe i n izio l'uso del segreto su ll'a rgomento, segreto che poi doveva affliggerci per d iversi a n n i: si noti che contra riamente a ll'o p i n ione p robabilmente più d iffusa, i l segreto non fu inventato dai generali, né dagli agenti del controspionaggio, ma fu inventato dai fisi­ ci. E l'uomo che più determ i n ò l'i n izio d i q uesta p ratica, certa mente nuova per dei fisici, fu Leo Szila rd.

Tra l'aprile e il luglio del 1939 Szilard tentò di convincere le autorità che la bomba atomica dovesse essere costruita prima che i tedeschi fossero stati in grado di produrla a loro volta, ma i suoi tentativi furo­ no infruttuosi. Egli decise così di rivolgersi ad Albert Einstein, che abitava a Princeton. Il 2 agosto 1939 Einstein scrisse una celebre lette­ ra al presidente Roosevelt (Einstein, ed. 1988, pp. 106-7). 111

Signor p residente, la lettura d i a lcu n i recenti lavori d i E n rico Ferm i e Leo Szila rd, com u ­ n icati m i sotto fo rma d i m a noscritto, m i ind uce a ritenere che, tra b reve, l'u ra n i o possa d a re o rigi ne a una n uova e i m p o rtante fonte di energia. Alc u n i aspetti del p roblema, p rospettati in tali lavori, dovrebbero consigliare a ll'A m m i n istrazione la massi ma vigi­ lanza e, se necessa rio, un tem pestivo i ntervento. Ritengo q u i n d i mio dovere ric h i a m a re la Sua atte nzione su a lcu n i dati d i fatto e suggerimenti.

Nonostante la lettera di Einstein, fu soltanto dopo l'attacco giappo­ nese a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, che il governo statunitense decise di perseguire seriamente il progetto di costruzione di una bomba atomica. Nell'estate del1942 venne creato un nuovo distretto del Genio (strettamente dipendente dall'esercito), al quale venne af­ fidato il compito di sviluppare il programma nucleare, noto da quel momento in poi come Progetto Manhattan. La militarizzazione del progetto venne sancita dalla presenza del generale Leslie Richard Groves, che prese il comando delle operazioni. Il coordinamento scientifico fu affidato al fisico statunitense Robert J ulius Oppenhei­ mer (1904-1967), nominato direttore dei laboratori, che nella massi­ ma segretezza iniziarono ad essere costruiti in un'area isolatissima del Nuovo Messico, la mesa di Los Alamos. I primi scienziati iniziarono ad arrivare nella località nel marzo del1943. Fermi intraprese a Chi­ cago, sotto le gradinate dello Stagg Fields, uno stadio da qualche mese in disuso, la costruzione di un reattore nucleare a uranio natu­ rale e grafite. La pila di Fermi entrò in funzione il 2 dicembre 1942 . Nel 1944 lo scienziato italiano si trasferì presso i laboratori di Los Alamos per lavorare alla realizzazione della bomba atomica; nell' am­ bito del Progetto Manhattan saranno anche coinvolti, tra i fisici ita­ liani, Emilio Segré e Bruno Rossi (1905-1993), il fondatore della scuola fiorentina di fisica dei raggi cosmici. La pila di Fermi si basava sul fatto che l'uranio naturale contiene, seppur in una piccolissima percentuale, un isotopo (uranio 235) che è soggetto spontaneamente a fissione. Negli anni seguenti, tuttavia, venne anche messo a punto un sistema per utilizzare il plutonio 239, fissile come l'uranio 2 35. Il plutonio, ovvero l'elemento numero 94, era stato scoperto da Glenn Theodore Seaborg (1912 -1999) nel 1940. Per verificare il funzionamento della bomba al plutonio venne effet­ tuato un esperimento, che si svolse ad Alamogordo, nel deserto del 112

Nuovo Messico, il 15 luglio 1945. 11 6 agosto, alle ore otto, sedici pri­ mi, otto secondi, la prima bomba a uranio 2 35 (denominata Little Boy), sganciata poco meno di un minuto prima dal B- 2 9 chiamato Enola Gay (era il nome della madre del comandante della missione, Paul W. Tibbets), esplodeva su Hiroshima. Su una popolazione di 350.000 abitanti, circa 30.000 persone furono uccise all'istante. Alla fine i morti sarebbero stati oltre 70.000. Molte altre persone sarebbe­ ro morte in seguito a causa degli effetti delle radiazioni. La bomba di­ strusse qualsiasi cosa nel raggio di due chilometri. Il 9 agosto una bomba al plutonio (Fat Man) venne sganciata su Nagasaki, provo­ cando 75.000 morti. I problemi di coscienza degli scienziati erano ap­ pena cominciati. Ma questa è un'altra storia.

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Conclusioni. Ai confini della materia? Una volta dimostrata la natura complessa dell'atomo, nel corso della seconda metà del Novecento i fisici hanno aperto una vera e propria caccia alla ricerca della particella ultima della materia. Straordinarie scoperte hanno permesso di approfondire lo studio delle strutture e delle forze subatomiche. Al tempo stesso, tuttavia si sono generati numerosi problemi di difficile risoluzione. Formulando la teoria della radioattività beta, Fermi aveva dimostrato che nel processo di trasformazione di un neutrone in protone, con la conseguente creazione di un elettrone e di un neutrino, era coinvolta una forza simile a quella elettromagnetica, ma molto più debole. Per questo motivo tale forza avrebbe preso il nome di interazione nucleare debole. Restava tuttavia aperta la questione di come i protoni potesse­ ro stare uniti fra loro all'interno del nucleo. Si ipotizzò, quindi, la presenza di una forza necessariamente più forte di quella repulsiva che si esercitava tra protoni. Nel1935 il giapponese Hideki Yukawa (1907-1981), sulla base di un'analogia con la teoria quantistica delle interazioni elettromagnetiche (dove viene emesso o assorbito un foto­ ne) , teorizzò l'esistenza di una forza a breve raggio d'azione più in­ tensa sia dell'interazione debole che di quella elettromagnetica, tale da vincere la repulsione dei protoni così da tenerli insieme. Questa forza sarà perciò denominata interazione nucleare forte. Secondo Yu­ kawa, tale interazione avveniva tramite la mediazione di una specifica particella. Nel1937 Cari David Anderson (1905-1991) e Seth Henry Neddermeyer (1907-1988) ritennero di aver scoperto tale particella di scambio, che venne chiamata mesone (dal greco mésos, medio). Il me­ sone, tuttavia, non mostrava alcuna tendenza a reagire con i nuclei e non poteva essere la particella ipotizzata da Yukawa. Ci volle ancora qualche anno, però, prima di giungere a questa consapevolezza. Nel frattempo i fisici continuarono a operare sulla base della teoria di An­ derson e Neddermeyer. Nel 1945, a guerra non ancora terminata, Marcello Conversi (1919-1988), Ettore Pancini (1915-1981) e Oreste Piccioni (1916- 2 002 ) realizzarono a Roma un celebre esperimento 11 4

sulle particelle penetranti della radiazione cosmica, che segnò la na­ scita della cosiddetta fisica delle alte energie. I tre fisici italiani deter­ minarono che il mesone di Anderson non aveva niente a che fare con la particella di Yukawa. In realtà, Anderson aveva individuato la par­ ticella in seguito nota come muone, coinvolta nell'interazione debole. Nello stesso anno Cecil Frank Powell (1903-1969), il brasiliano Cesa­ re Lattes (n. 192 4) e Giuseppe Occhialini (1907-1993) - che fu in Brasile dal1937 e in Inghilterra dal1944 -, presso il Wills Laboratory della Bristol University, grazie a una serie di avanzati procedimenti fotografici applicati al microscopio, posero le basi per l' individuazio­ ne della vera particella di Yukawa, il mesone Pi, in seguito denomina­ ta p ione, contribuendo così anche alla chiarificazione dell'esperimento

di Conversi-Pancini-Piccioni. Dopo la definizione delle caratteristiche del muone e del pione, la ri­ cerca sugli elementi fondamentali della materia sembrò aver raggiun­ to un ennesimo punto di arrivo. Tuttavia, all'inizio degli anni cin­ quanta furono scoperte nuove particelle subatomiche coinvolte nei processi di interazione forte. Con il passare degli anni, il numero dei cosiddetti adroni (dal greco hadr6s, duro, forte) arrivò a superare il centinaio, fatto in netto contrasto con la supposta natura elementare di tali particelle. All'inizio degli anni sessanta, presso il California ln­ stitute of Technology ( Caltech), Murray Gell-Mann (n. 192 9), che da anni si stava dedicando alla questione del numero degli adroni, notando che essi possedevano proprietà simmetriche, propose di or­ dinarli in otto gruppi, dando origine a diagrammi che ricordavano la classificazione periodica degli elementi di Mendeleev. La stessa idea venne proposta in maniera indipendente da Yuval Ne'eman (n. 192 5), che all'epoca lavorava in Gran Bretagna. Il metodo venne de­ nominato eightfold way (ovvero via dell'o ttetto o ottuplice via), pren­ dendo spunto da un precetto contenuto nella dottrina di Buddha per giungere al distacco dal mondo materiale (il santo sentiero ottoparti­ to, cioè: retta cognizione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto sapere, retto raccoglimento). Successiva­ mente, nel1964, lo stesso Gell-Mann e George Zweig (n. 1937), allo­ ra al C E R N ( Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire) di Gine­ vra, ipotizzarono che gli adroni fossero costituiti da particelle ancor più elementari. Gell-Mann chiamò queste particelle quark, termine ricavato da una frase di un'opera di J ames J oyce, Finnegans wake (La 11 5

veglia di Finnegan, 1939). Zweig, invece, li chiamò aces (assi), un ter­ mine poi caduto in disuso. Secondo Zweig gli assi erano entità reali. Gell- Mann, invece, pensò inizialmente ai quark come a modelli ma­ tematici, in maniera simile a come Avogadro aveva concepito le mo­ lecole elementari all'inizio dell'Ottocento. Allo stato attuale delle ricerche, i quark (se ne conoscono sei tipi) sono considerati una delle famiglie di particelle fondamentali della materia, la cui combinazione, ad esempio, permette la formazione dei protoni e dei neutroni. L'altra famiglia di particelle elementari, quella dei leptoni (dal greco lept6s, leggero, sottile), comprende l'elettrone, il muone, la particella tau (scoperta nel 1975) e tre corrispettivi neutrini. A ogni quark e a ogni leptone è associata un'antiparticella, che ha la stessa massa, ma valore opposto di alcuni numeri quantici, come ad esempio quello della carica elettrica. La prima antiparticella, il positro­ ne (il corrispettivo positivo dell'elettrone) è stata scoperta nel settem­ bre del 1932 da Cari David Anderson studiando i raggi cosmici. Paul­ Adrien-Maurice Dirac (1902 -1984), uno dei più importanti scienziati del Novecento, aveva infatti supposto che l'equazione d'onda che de­ scriveva il comportamento relativistico degli elettroni dovesse essere caratterizzata da stati energetici sia positivi che negativi. I fisici hanno inoltre cercato di costruire un modello generale (oggi noto come modello standard) che comprenda le quattro forze fondamentali esistenti in natura: la forza gravitazionale, la forza elettromagnetica, l'in­ terazione debole e l'interazione forte. Ecco un recente punto della situa­ zione fatto da uno dei protagonisti della ricerca contemporanea, Steven Weinberg (n. 1933), premio Nobel per la fisica nel1979 (2 001, p. 2 8): Abbiamo a llo stato attuale u n'idea abbasta nza chiara d i come le i nterazio n i forti possa­ no essere u n ificate con la teoria delle i nterazio ni deboli ed elettro magnetiche, ma l'u n i ­ ficazione d i q ueste forze c o n l a gravità si p resenta d iffici le. I n genera le, si ritiene c h e le d ifferenze apparenti tra q ueste forze siano state causate da eventi avvenuti i m med iata­ mente dopo i l big bang, ma non si è in grado d i segu i re i dettagli della sto ria cosmica i n q uei prim issi m i ista nti senza d ispo rre d i u n a m igliore teoria della gravità e delle a ltre forze. Esiste la possibilità che q uesto lavo ro di u n ificazione venga completato entro il 2050, ma a l momento d i q uesto non possia mo essere certi.

Una delle grandi sfide della fisica contemporanea è dunque rappre­ sentata dal tentativo di costruire una teoria quantistica della gravita116

zione che sia unificabile con le altre teorie delle forze fondamentali. La gravità, infatti, è l'unica forza fisica fondamentale che non ha an­ cora ricevuto una formulazione quantistica compiuta. In ogni caso, oggi i fisici più avvertiti si esprimono con una certa cautela di fronte alla possibilità di costruire una teoria onnicomprensiva della materia e dell'universo. Più volte, nel corso della propria storia, la fisica ha avuto la sensazione che la ricerca fosse davvero giunta a un punto di arrivo definitivo. E regolarmente è stata smentita nelle sue aspettati­ ve. Alcuni ricercatori contemporanei sembrano aver fatta propria tale consapevolezza. Almeno così la pensa Gerard 't Hooft (2 000, p. 195), premio Nobel per la fisica nel 1999: Non può d a rsi che n o n esista .. u n a struttura più p iccola d i tutte"? Appu nto perché nella sto ria già d iverse volte si è riten uto di essere a rrivati a l l i m ite u ltimo della fisica, e poi­ ché q uesto non e ra mai vero, generalmente ormai si accetta che u n a teoria fo ndamen­ ta le u n iversale n o n sarà m a i possibile. Ritenere che la .. pietra fi losofa le", per chi voglia raccoglierla, sia lì p ronta a portata di m a n o sarebbe p rova di sca rsa saggezza.

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Bibliografia Letture consigliate Questa sezione è rivolta a chi intenda dedicarsi a un primo approfondimento delle tematiche affrontate nel volume, in aggiunta ai testi segnalati nei Riferi­

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Bellarmino Roberto, 25

Alberto Magno (Alberto von Bollstadt) ,

Benedetto

papa, 21

Berthollet Claude-Louis, 48, 52-8

20 Aldrovandi Ulisse, 37 Alembert Jean-Baptiste

XI,

Berzelius Jons Jacob, 64-6, 71, 77-8, 8o Le

Rond

d',

48-9, 6o Alessandro Magno, 1 9

Biot J ean-Baptiste, 54, 79-80 Biringuccio Vannoccio, 36 Black J oseph, 43

Alighieri Dante, 21-2

Bohm David, 100

Amaldi Edoardo, 108

Bohr Niels, 93, 96, 98-100, 110-1

Ampère André-Marie, 59, 71

Boltzmann Ludwig, 84, 86, 90, 99

Anassimandro, 11

Bonaparte Napoleone, 61

Anassimene, 11

Barelli Giovanni Alfonso, 30

Anderson Carl David, 114- 6

Boro Max, 98-100

Arago F rançois, 5 4 , 69

Borodin Aleksandr Porfir' evi c, 81

Archita, 1 6

Boscovich Ruggero Giuseppe, 58, 84

Aristarco, 1 5 , 2 2

Bose Satyendra N ath, 97

Aristotele, 12, 13-4, 1 6-21, 2 6 , 28, 30, 34,

Bothe Walther Wilhelm Georg, 108

48

Boyle Robert, 27-9, 33-4

Arnaldo da Villanova, 21

Bradwardine Thomas, 18

Arrhenius Svante, 8 6

Bragg William Henry, 97

Astbury William Thomas, 102

Bragg William Lawrence, 102

Avicenna, 19, 21, 32

Brand Hennig, 42

Avogadro Amedeo, 57, 59, 64, 66-8, 71,

Brown Robert, 90

78, 90, 1 1 6

Bruno Giordano, 25 Buffo n Georges-Louis Ledere de, 63 Bunsen Robert, 81

Bacon Francis, 33, 59

Buridan J ean, 22

Bacone Ruggero (Roger Baco n ) , 20-1

Buderov Aleksandr Mihajlovic, 79

Banks J oseph, 6o Barkla Charles Glover, 91 Beccaria Giambattista, 40 , 67

Cannizzaro Stanislao, 78-9, 81

Becquerel Antoine-Henri, 88-9

Capon Laura, 111

Beguin Jean, 38

Carlisle Anthony, 62

12 4

Carlo

11

Stuart, 28

Descartes René, 28, 31, 33-4, 61

Carnot Lazare, 7 4

Diderot Denis, 42, 6o

Carnot Sadi, 71, 74-5

Digby Kenelm, 33

Cavendish Henry, 43, 47

Diogene Laerzio, 17

Chadwick J ames, 108-9

Dirac Paul-Adrien-Maurice, 1 1 6

Champollion Jean- François, 69

Duhem Pierre, 86, 89

Chargaff Erwin, 103

Dulong Pierre-Louis, 65, 71

Chase Martha, 103

Du mas Jean-Baptiste-André, 66, 77-8

Chevreul Miche!-Eugène, 64 Clapeyron Benoit-Paul-Émile, 75 Clausius Rudolph J ulius Emanuel, 76,

Einstein Albert, 8 5 , 8 8 , 90, 9 5 , 97-8, 100,

84 Clemente

Eddington Arthur, 106

v,

papa, 21

Coleridge Samuel Taylor, 62

104-7, 110-2 Empedocle, 1 2

Compton Arthur H olly, 9 7

Epicuro, 17-8, 27

Comte Auguste, 74, 8 5

Eraclito, 1 2

Condillac Étienne Bonnot de, 49 , 5 1

Ermete Trismegisto, 23

Conversi Marcello, 114-5

Eudosso, 1 3

Copernico Niccolò (Nikolaj Kopernik) ,

Euler Leonhard, 28, 68-9

1 5 , 22-4

Eusebio di Cesarea, 37

Corbino Orso Mario, 108 Coulomb Charles-Augustin, 52, 71 Couper Archibald Scott, 79

Faraday Michael, 68, 71-2, 74

Crick Francis Harry Compton, 102-3

Fermi Enrico, 99, 107-12, 114

Crookes William, 87

Fibonacci Leonardo, 1 9

Curie Iréne, 109

Ficino Marsilio, 23

Curie Pierre, 8 8 , 109

Fischer Emil Hermann, So

Curie Sklodowska Marie, 88-9, 109

Fourcroy Antoine- François, 48 Fourier Jean-Baptiste-Joseph, 73 Fracastoro Girolamo, 26

Dalton John, 52, 55-8, 82

Francesco d'Assisi, 21

Darwin Charles, 70, 76

Frankland Edward, 79

Darwin Erasmus, 70

F ranklin Benjamin, 40

Davy H umphry, 62, 71

Franklin Rosalind Elsie, 103

De Broglie Louis-Victor, 86, 9 7

F raunhofer J oseph, 81

De L a Rive Gaspard, 69

F resnel Augustin, 69

Democrito, 10, 17-8, 82

Frisch Otto Robert, 1 1 0

12 5

Galeno, 19, 32

Joule James Prescott, 74-5

Galilei Galileo, 24-7, 29-30, 34, 44, 72

Joyce James, 1 1 5

Galvani Luigi, 61, 70 Gassendi Pierre, 27-8, 33 Gay-Lussac Joseph-Louis, 57-8, 64-6, 77

Kant Immanuel, 44

Geber Qabir Ibn Hayaan) , 20

Kekulé von Stradonitz F riedrich August,

Geiger Hans, 92 Gell-Mann Murray, 1 1 5-6 Gerardo da Cremona, 19

79 Kelvin Lord (William Thomson), 68, 72, 75-6, 84, 92

Gerhardt Charles-F rédéric, 78

Kendrew John Cowdery, 102

Giovanni

Kepler J ohannes, 23-4

xxn ,

papa, 21

Girolamo, 37

Kirchhoff Gustav Robert, 81, 93-4

Goldstein Eugen, 87

Klaproth Martin Hein rich, 8 8

Groves Leslie Richard, 112

Kolbe Hermann, 7 9

Guyton de Morveau Louis-Bernard, 46, 48 Lamarck J ean- Baptiste d e , 64 Landolt Hans, 107 Hahn Otto, 110

Langevin Paul, 105

Hales Stephen, 42

Langmuir Irving, 9 2

Haiiy René-Just, 69, 73, 78

Laplace Pierre-Simon, 5 2 , 5 4 , 6 2 , 68, 7 1 ,

Heisenberg Werner, 98-9

73, 99

Heider Walter Heinrich, 101

Lattes Cesare, 1 1 5

Helmholtz Hermann Ludwig Ferdinand

Laurent Auguste, 77- 8 , 8 o

von, 75, 87 Hershey Alfred Day, 103

Lavoisier Antoine-Laurent, 1 0 , 3 8 , 42, 44-54, 5 8 , 6o, 62, 65, 67, 73, 82, 88

Hertz Heinrich, 72-3, 94

Le Bel Joseph-Achille, 8o

Hitto rf J o han n Wilhelm, 87

Leibniz Gottfried Wilhelm von, 31, 58

Ho l bach Paul-Hein rich-Thiry barone d',

Lenard Philipp Edward von, 92

42, 63 Hooft Gerard 't, 117

Leopoldo de' Medici, 29 Leucippo, 17

Humboldt Alexander von, 57, 66

Levi-Civita Tullio, 106

H uygens Christiaan, 68

Lewis Gilbert Newton, 92, 97, 101 Liebig J ustus von, 66-7 Li n né Cari von (Linneo ) , 50

Joliot Jean-Frédéric, 109

Lomonosov Michail Vasil'evic, 28

Jordan Ernst Pascual, 9 8

London Fritz Wolfgang, 101

126

Lorentz Hendrik Antoon, 87, 106

Oresme Nicola d', 22

Loschmidt Joseph, 91

Ostwald Friedrich Wilhelm, 85-6

Lucrezio, 1 8 , 26 Lullo Raimondo, 21 Pancini Ettore, 114-5 Paolo di Taranto, 20 Mach Ernst, 8 5

Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim), 32-3, 37, 42, 48

Majorana Ettore, 108-9 Malus Étienne-Louis, 54, 69

Parmenide, 12, 16

Marconi Guglielmo, 72

Pascal Blaise, 29

Maxwell James Clerk, 72-3, 84, 104

Pasteur Louis, 8o

Mayer J ulius Lothar, 107

Pauli Wolfgang, 98-9, 107-9

Mayer Robert Julius von , 75

Pauling Linus Cari, 101-3

Meitner Lise, 110

Perrin Jean-Baptiste, 87, 90-1

Mendeleev Dmitrij

lvanovic,

10,

77,

81-3, 91, 98, 107, 1 1 5 Mieli Aldo, 8 9

Perutz Max, 102 Petit Alexis-Thérèse, 6 5 Piccioni Oreste, 114-5

Millikan Robert Andrews, 92

Pietro Bono da Ferrara, 21

Mitscherlich Eduard, 65

Pitagora, 14-5, 24

Morieno Romano, 19

Planck Max, 93-5, 97

Moseley Henry Gwyn Jeffreys, 91

Platone, 12, 1 5-6, 23-4

Mulder Gerrit Johannes, 67

Plotino, 23 Podolsky Boris, 100 Poincaré Henri, 106

Nagaoka Hantaru, 92

Powell Cecil F rank, 115

Neddermeyer Seth Henry, 114

Priestley Joseph, 44, 46, 51, 59, 62-3

Needham John Turbeville, 63

Proust Joseph-Louis, 52-3, 55

Ne'eman Yuval, 115

Prout William, 64, 67, 83

Neri Antonio, 36 Newton lsaac, 26, 34-6, 39, 41 , 52, 54, 56, 5 8 , 61, 72, 8 1 , 104 Nicholson William, 62

Ramsey William, 83 Rasetti Franco, 108 Rayleigh Lord Oohn William S trutt) , 83 Redi Francesco, 30, 63

Occhialini Giuseppe, 1 1 5

Regnault Victor, 75

Oersted Hans Christian, 69-71

Ricci Curbastro Gregorio, 106

Oppenheimer Robert J ulius, 1 1 2

Richards Theodore William, 108

127

Righi Augusto, 72

Thénard Jacques, 65

Ritter J ohann Wilhelm, 70

Thomson Benjamin

Roberto di Chester, 19

(conte di Rum-

ford) , 71

Rontgen Wilhelm Conrad, 88

Thomson Joseph John, 87, 91-2

Roosevelt Franklin Delano, 1 1 1

Thomson Thomas, 56

Rosen Nathan, 1 0 0

Tibbets Paul W. , 113

Rossi Bruno, 1 1 2

Tolomeo Claudio, 19, 22

Rouelle Guillaume-François, 42

Tommaso d'Aquino, 20-1

Rousseau Jean-Jacques, 42

Torricelli Evangelista, 29, 44

Rutherford Daniel, 43

Travers Morris, 83

Rutherford Ernest, 92-3, 104 Van der Broeck Antonius, 91 Sarton George, 8 Schede Cari Wilhelm, 46 Schelling Friedrich Wilhelm Joseph von, 66, 70-1 Schrodinger Erwin, 98-9, 102 Seaborg Glenn Theodore, 112

Van der Waals Johannes Diderik, 101 Van Helmont Jan Baptiste, 33-4 Van't Hoff Jacobus Hendricus, 8o Varley Cromwell Fletwood, 87 Viviani Vincenzo, 30 Volta Alessandro, 51, 60-1, 67, 70

Segré Emilio, 1 0 8 , 1 1 2 Shelley Mary, 70 Soddy F rederick, 108 Solvay Ernest, 97 Sommerfeld Arnold, 96 Spallanzani Lazzaro, 52, 63 Stahl Georg Ernst, 38-46, 61 Staudinger Hermann, 81

Watson James Dewey, 102-3 Weinberg Steven, 1 1 6 WeisskopfVictor, 10 Wilkins Maurice H ugh Frederick, 103 Williamson Alexander William, 78 Wohler Friedrich, 65-6 Wollaston William Hyde, 62, 64

Stevin Simon, 34

Wordsworth William, 62

Stoney George Johnstone, 87

Wurtz Charles-Adolphe, 78

Strassmann Fritz, 110 Stratico Simone, 39 Symmer Robert, 40

Young Thomas, 69

Szilard Leo, 111-2

Yukawa H ideki, 114-5

Talete, 1 1

Zenon� 1 � 14, 17, 30

Tempier Étienne, 2 2

Zweig George, 1 1 5- 6

128