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Italian Pages 360 Year 1992
AA. VV IL MEZZOGIORNO AGLI INIZI DELL ‘800 EDITORI
LATERZA
Nonostante l’alto livello del contributo meridionale al progresso della teoria economica, ben poco è stato fatto per illustrare il rilevante apporto recato dagli scrittori meridionali alla conoscenza della realtà economico-sociale del Mezzogiorno. La collana «Classici Meridionali» si propone di colmare questa lacuna e di sottolineare come invece questo apporto ha costituito una costante del pensiero meridionale. Luigi De Rosa
Costruire un’antologia di testi del Mezzogiorno al tempo dei francesi, proporre un’interpretazione del periodo — dieci anni, non di più, il «decennio» per eccellenza — suppone attenzione alle continuità, a una storia lunga che non riguarda solo le strutture materiali. «Si mie-
té, in quel decennio — scrive Benedetto Croce — la messe preparata da un secolo di fatiche, sul ter-
reno travagliato da più secoli di oscure lotte e contrastati desideri, bagnato di sudori e di lacrime; e si visse allora uno di quei periodi felici in cui ciò che prima sembra aspro di difficoltà si fa piano e agevole, l’impossibile o lontanissimo diventa possibile e presente». Anche solo a sfogliare le pagine qui raccolte, una cosa si avverte subito: che quanto viene fatto e detto
La collana «Classici Meridionali» nasce grazie alla collaborazione con la Caripuglia Spa.
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CLASSICI MERIDIONALI
Collana diretta da Luigi De Rosa
Opera promossa e realizzata con il contributo della Caripuglia Spa
AASVIVI
IL MEZZOGIORNO PIGEFNIZEDELL’'OTTOCENTO IL'DECENNIO ERANGESE a cura di Costanza D'Elia
Editori Laterza
1992
© 1992, Gius. Laterza & Figli
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel novembre 1992 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-4126-X ISBN 88-420-4126-2
A proposito degli scrittori napoletani del Sei e Settecento l’illustre economista austro-ungarico Joseph A. Schumpeter osservava che, mentre «non erano inferiori per zelo, nelle ricerche empiriche e per comprensione dei problemi concreti, ai tedeschi, erano per capacità analitica superiori alla maggior parte dei loro contemporanei spagnoli, inglesi e francesi». Lo stesso Schumpeter, del resto, come altri prima e dopo di lui, ha messo in risalto l’alto livello del contributo meridionale al progresso della teoria economica. Ben poco, invece, si è fatto finora per illustrare il rilevante apporto recato dagli scrittori meridionali alla conoscenza della realtà economico-sociale del Mezzogiorno a loro contemporanea e all’individuazione di rimedi atti a migliorarla. La collana «Classici Meridionali» si propone appunto di colmare questa lacuna e di sottolineare come uno sforzo di conoscenza dei fatti e di individuazione dei rimedi ha costituito una costante del pensiero meridionale.
La collana comprende testi che vanno dal Seicento ai giorni nostri, e che in grande maggioranza possono essere considerati oramai veri e propri classici. Attraverso le loro pagine, permeate di impegno e passione civile, è possibile cogliere, oltre che l’attenta e acuta analisi dell’arretratezza meridionale e la sofferta ricerca, con il ricorso talvolta a riflessioni ed esperienze di oltrealpi e oltremanica, di provvedimenti atti a rimuoverla, anche la testimonianza che la «questione meridionale» non nacque con
l'unificazione politica dell’Italia; essa affonda le sue radici dentro la storia del Mezzogiorno, e in un complesso coacervo di fattori che vanno ben al di là del comportamento dei meridionali. Le opere incluse nella collana consentono di ripercorrere le fasi e i momenti più rilevanti dell'evoluzione economica meridionale; mettono in evidenza i problemi che di volta in volta,
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Prefazione
per la loro gravità o per i riflessi di quanto altrove stava accadendo, furono al centro della generale attenzione; richiamano le politiche economiche adottate dai differenti governi e le critiche o i consensi che esse suscitarono; sottolineano come nel Mezzo-
giorno abbia sempre operato una classe colta, non di rado critica verso il potere costituito, talvolta legata all’Università o alla burocrazia, e che solo dalla seconda metà del Settecento fu chia-
mata a ricoprire incarichi di responsabilità o di governo. Accanto all’appello rivolto ai meridionali di adoperarsi fermamente per uscire dalla loro arretratezza economica e sociale, un altro leitmotiv di queste opere, il motivo che tutte le attraversa e le accomuna, è il convincimento che la rinascita del Mezzogiorno deve essere opera, prima che di altri, degli stessi meridionali e solo in via subordinata e di sostegno dello Stato.
La pubblicazione di queste opere, ricche di riflessioni, di dati e di riferimenti alla realtà nella quale furono concepite, è tesa,
pertanto, oltre che a richiamare i meridionali a una più documentata memoria del loro passato, e a una più generosa valutazione dei progressi tuttavia realizzati, a sottolineare a tutti la non eludibile necessità di un nuovo e più meditato impegno per la costruzione di un effettivo equilibrio economico-sociale tra le varie parti del paese. Che incidenza questa collana potrà avere sul concreto piano operativo per il raggiungimento dell’uno e dell’altro obiettivo è valutazione non rilevante in questa sede. Perché i suoi promotori — cioè gli Editori Laterza e la Caripuglia Spa — possano sentire di aver compiuto una scelta felice ed opportuna basta aver offerto alla riflessione su questi obiettivi un corpus organico di nuovo e stimolante materiale, finora scarsamente e malamente co-
nosciuto. La verità è che una concreta e feconda unità spirituale, morale e materiale del paese è più che mai indispensabile, ora che il processo di unificazione economica e materiale batte con sempre maggiore insistenza alle nostre porte. Luigi De Rosa
INTRODUZIONE Costruire un’antologia di testi del Mezzogiorno al tempo dei francesi, proporre un’interpretazione del periodo — dieci anni, non di più, il «decennio» per eccellenza — suppone attenzione alle continuità, a una storia lunga che non riguarda solo le strut-
ture materiali. «Si mieté, in quel decennio — scrive Benedetto Croce — la messe preparata da un secolo di fatiche, sul terreno travagliato da più secoli di oscure lotte e contrastati desideri, bagnato di sudori e di lacrime; e si visse allora uno di quei periodi felici in cui ciò che prima sembra aspro di difficoltà si fa piano e agevole, l'impossibile o lontanissimo diventa possibile e presente»!. Anche solo a sfogliare le pagine qui raccolte, una cosa si avverte subito: che quanto viene fatto e detto nel decennio costituisce un investimento ingente, reso possibile dall’accumulazione della cultura illuministica meridionale ed europea. Il decennio francese è un periodo di intenso impegno degli intellettuali meridionali; i testi qui offerti difficilmente hanno il tono dell’esercitazione accademica. Fra gli autori presenti in questo volume molti dei più noti — Cagnazzi, Cuoco, Monticelli, Onorati, Tupputi... — sono scrittori maturi quando vengono cooptati dal governo francese. Cuoco viene richiamato dall’esi-
lio. Dirige la «statistica murattiana» Cagnazzi, che nel decennio ricopre a Napoli l'insegnamento di economia politica introdotto da Genovesi. Tupputi, Monticelli, Nicola «Columella» Onorati preparano progetti di riforma dell’agricoltura meridionale. Di questi autori si presentano nei primi tre capitoli del volume accurate — e accorate — analisi dell'economia del Regno. Di Cuoco, impegnato in un’intensa attività pubblicistica, si sono qui inseriti anche alcuni brevi articoli di giornale. 1 B. Croce, Storia del Regno di Napoli (1924), Laterza, Roma-Bari p. 214.
1984,
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Introduzione
Giudizi e indagini «sul campo» si devono a scrittori meno noti, che risiedono in provincia, a volte figure di intellettuali imprenditori, come Rosati e Ungaro, per i quali l’analisi della struttura agraria del Mezzogiorno è anche strumento di difesa degli interessi della grande proprietà e di rilancio della sua funzione produttiva e sociale. Il calabrese Aracri esamina la decadenza della manifattura serica a Catanzaro. A tecnici come Ferrara e La Pira si devono altre diagnosi del settore industriale. Le analisi della situazione meridionale a cui sono dedicati i primi tre capitoli — tanto le visioni d’insieme quanto la delineazione di quadri regionali che compongono un sistema assai differenziato al suo interno — rappresentano nell’organizzazione del volume la ricostruzione del contesto. Gli ultimi due capitoli raccolgono testi relativi alla politica economica del decennio, alla sua capacità d’impatto e ai suoi limiti. Provengono direttamente dalle stanze del governo murattiano molti degli scritti contenuti nei capitoli IV e V: i rapporti del lucido Zurlo, presente sulla scena politica napoletana dal primo periodo borbonico, del generale Colletta, del ministro delle Fi-
nanze Roederer, di Davide Winspeare, rivelano le intenzioni e l'efficacia delle grandi riforme. Accanto a queste, le testimonianze di attori secondari dell’amministrazione permettono di osservare da vicino l’applicazione e i risultati minuti dei grandi e piccoli atti del dirigismo murattiano. Nelle pagine che seguono si avrà modo di entrare in familiarità con i testi e i loro autori. Al lettore si chiede di esercitare la sua sensibilità critica su materiali diversi per genere e produzione, dalle relazioni destinate a essere lette nelle accademie ai rapporti stilati da oscuri burocrati alla periferia del Regno. I testi qui raccolti (per quanto il genere antologico si presti a facili e univoche finzioni didattiche)? possono essere utilizzati in un gio-
co combinatorio di composizioni e ricomposizioni, guidato dagli interrogativi che a un tempo sollecitano la tradizione storiografica, i problemi del presente, le nostre curiosità intellettuali, i testi stessi: il gioco rimane sempre aperto, ma è possibile fermare e valutare di volta in volta le immagini apparse in fondo al caleidoscopio. ? Cfr. P.M. Bertinetto, La scuola dell'obbligo, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. II, Einaudi, Torino 1983, p. 952.
Introduzione
De
1. Perché i francesi hanno conquistato il Mezzogiorno? All’inizio di un’antologia sul Mezzogiorno nel decennio francese quest’interrogativo nello stile della più vieta histoire-bataille richiama grandiosi piani di guerra, le immagini letterarie e cinematografiche di Napoleone; ma può servire anche come un’arma — un’arma di latta — per cominciare a forzare una visione del decennio francese irrigidita nel contrasto fra innovazioni giuridico-istituzionali e immobilità delle strutture economiche e sociali. Intervenendo a un convegno sulla Toscana napoleonica, lo storico francese L. Bergeron ha osservato con una certa sorpresa che molti studiosi — toscani — tendono a dipingerla come «una sorta di malato, già grave da una ventina d’anni, al quale l’unione all'Impero francese avrebbe provocato un ulteriore e più grande trauma»?. Questa raffigurazione del passato in chiave di patologia è forse ancora più viva se ci si riferisce al Regno di Napoli: nel caso del Mezzogiorno, i mali trascorsi, ormai cronicizzati, sembrano saldarsi con quelli attuali, e ogni cesura della storia politica della modernità appare come un'occasione di rigenerazione perduta. In questa luce, anzi, il decennio francese sembra una delle
fratture meno fallimentari. Diverso è il tono di altre tradizioni storiografiche, che mettono con più forza l'accento sul carattere di conquista della dominazione napoleonica, e sulla capacità di risposta autonoma alle innovazioni, se non altro nei termini di una «modernizzazione difensiva», da parte dei conquistati. La tensione fra queste due valenze della dominazione francese si riflette nella tesi di una contraddizione fra l’ideologia e gli ideali dei conquistatori, portatori di una missione civilizzatrice, e le loro esigenze immediate di carattere militare e finanziario’. I francesi creano talora dal nulla stati modello, senza alcun 3 L. Bergeron, La société et les institutions, in La Toscana nell’età rivoluzionaria e napoleonica, E.S.I., Napoli 1985. Cfr. H.-U. Wehler, Deutsche Gesellschaftsgeschichte, Beck, Miinchen 19892,
vol. I, parte II, e ora l'importante lavoro di P. Nolte, Staatsbildung als Gesellschaftsreform. Politische Reformen in Preussen und der siiddeutschen Staaten 18001820, Campus, Frankfurt 1990. ? Per il Mezzogiorno sviluppano questa tesi soprattutto P. Villani, I/ decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, tomo II, Edizioni del Sole, Roma 1986; J. Davis, The impact of French rule in the Kingdom of Naples, in «Ricerche storiche», 1990; n. 2-3. Per l'Europa v. S. Woolf, Napoleon's Integration of Europe, Routledge, London-New York 1991.
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Introduzione
rispetto dei confini preesistenti, come hel caso della Westfalia$, e, soprattutto, cercano di introdurre dovunque lo stato modello.
I francesi — ecco la radice di quanto posteriormente appare una contraddizione, ed è anche eccesso di fiducia nella possibilità di instaurare in tempi brevi un nuovo ordine, di armonizzare razionalmente tutti gli interessi — attuano però anche una politica espansionistica, cercano risorse, cercano, in breve, colonie, e in
Europa: e qui la terra più simile per fertilità e fascino esotico a un’ignota terra d’oltremare è il Mezzogiorno d’Italia, un secondo e più accessibile Perù7. Nel sistema napoleonico il Regno di Napoli è più colonia che stato modello. Un Regno, che ha formato fin dai tempi della più rimota antichità l’oggetto il più interessante delle Nazioni: un Regno, che nell’origine, incremento, e sviluppo de’ grandi Imperj è stato sempre tenuto e reputato per la sorgente di tutte le risorse, onde finalmente prosperassero, ed ingrandissero a dismisura, questo Regno non potea certamente non formare uno de’ primi e più interessanti oggetti delle conquiste della Rivoluzione Francese, e più ancora dell’irrequieti, ed ambiziosi pensieri dell’usurpatore Buonaparte. Emulo, e scolaro della condotta, e delle intenzioni dei Romani; più ambizioso; e più esteso ne’ suoi progetti di Carlo Magno, avea assoluto bisogno di quel Regno per condurli felicemente al lor termine8.
Nell’interrogativo d’histoîre-bataille appena sollevato l’immagine di Napoleone si congiunge all’immagine, anch'essa disponibile in versione letteraria e cinematografica, di tesori nascosti, di inestimabili ricchezze sepolte. Nella visione di un Mezzogiorno terra feracissima e semivergine, condivisa da conquistatori e conquistati, dall’entourage murattiano e da quello dei Borboni esi° H. Berding, Napoleonische Herrschafts- und Gesellschaftspolitik im Kònigreich Westfalen 1807-1813, Vandenhoeck und Ruprecht, Géttingen 1973. 7 «C'est la terre promise... qu’au Peru al aller chercher l’or dans les entrailles de la terre e qu’è Naples on le trouve à la surface» (da un memorandum per il Conseil de commerce et industrie, in J. Davis, The impact of French rule, cit., p. 389). Su questa visione del Mezzogiorno cfr. anche A. Di Biasio, Alcuri aspetti dell'economia napoletana nel decennio francese, in «Critica storica», 1978, n. 2-3, pp. 153 sgg.; P. Villani, Il decennio francese, cit., p. 622. ® Memoria Storico-politica su i progetti ideati, ed incominciati ad eseguire da i Francesi nel Regno di Napoli, e su le infinite risorse, che quel Regno presenta; non meno che, su le ragioni politiche che richiedono, che la Sicilia sia sempre col Regno medesimo posseduta dal Suo Legittimo Signore Ferdinando IV Borbone scritta di real ordine da G.C., s.d., ASN, Archivio Borbone 266 (il fascio contiene documenti della corte borbonica, a Palermo durante il decennio).
Introduzione
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liati (da cui proviene il brano ora citato), vengono rielaborati e fusi, credo, un motivo antichissimo e persistente dell’immaginario europeo, quello dei tesori nascosti da ritrovare, e il riferimento alla Magna Grecia e alla Roma repubblicana, a un’antichità classica che rappresenta un modello tanto artistico e culturale, quanto civile, politico, economico. Gli scrittori meridionali mettono l’accento sull’antica fertilità del Mezzogiorno, che è prova delle potenzialità presenti dell'agricoltura meridionale. L’ottimista Tupputi esalta l’agricoltura della Magna Grecia e una prosperità rinnovabile in tempi brevi, e stigmatizza l’arretratezza tecnologica, la decadenza economica e quasi antropologica dei tempi presenti?. Tupputi è anche autore di una memoria sulla coltivazione del cotone!°: il progetto di rendere il Mezzogiorno una ricca colonia agricola fa perno sull’espansione del cotone, materia prima per l’industria tessile francese, tanto più preziosa nella situazione del «blocco continentale» contro le merci importate da navigli inglesi!!. Nella stessa prospettiva si colloca il saggio di Onorati sulla diffusione del cotone nel Regno!?. Fra un passato glorioso e un futuro altrettanto luminoso, il presente viene visto come un prolungamento dei secoli bui, e ridotto spesso a un elenco di mali: un esempio è l’inventario dei difetti dell'agricoltura meridionale redatto da G. Ungaro, interessante figura di intellettuale periferico, che condivide nell’esaltazione dell’originaria fertilità l'ottimismo di Tupputi!3. Al di là del topos della decadenza, l’agricoltura meridionale agli inizi dell'Ottocento si presenta già, come indicano bene i testi qui presentati, sospesa fra i vecchi mali, e i mali nuovi derivanti dallo scossone settecentesco, che con l’intensificazione dei rapporti con il mercato, l'aumento demografico, l'estensione della cerealicoltura ha portato con sé disboscamenti dissennati, degrado idrogeologico, crisi della pastorizia: mali nuovi la cui gravità e difficile reversibilità proprio ora appare del tutto evidente. Si ? Infra, cap. I. 1° D. A. Tupputi, Méroîre surlaculture du cotonnier, Peronneau, Paris 1807.
1! Sul problema delle materie prime nella Francia napoleonica sempre utile C. Barbagallo, Le origini della grande industria contemporanea (1750-1850), vol. I, La Nuova Italia, Venezia 1929, pp. 134 sgg. 12 Infra, cap. I.
13 Ibid.
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Introduzione
deve al pugliese Monticelli un’analisi penetrante di questa situazione nella memoria sulla pastorizia e in quella, di grande valore, sull’«economia delle acque» nel Regno di Napoli, di cui qui si riporta un ampio stralcio!4. Si stanno facendo grandi passi avanti nella delineazione di una mappa dettagliata dell’agricoltura meridionale fra Sette e Ottocento, di una tipologia dei rapporti con il mercato e delle innovazioni colturali. Lo stimolo della domanda estera sembra essersi propagato con intensità variabile a tutto il Mezzogiorno, rivelando le differenti sensibilità delle regioni economiche meridionali. L'agricoltura di sussistenza passa a uno stadio di maggiore complessità, come bene dimostra il caso molisano, paradigma della risposta povera allo scossone settecentesco nel Viaggio di Cuoco, qui ripubblicato!? — e in recenti analisi storiografiche!6. Nel decennio si consolidano in queste aree strategie di difesa dal mercato, destinate a essere soppiantate dall’esporta-
zione di forza lavoro a partire dalla migrazione transoceanica di fine Ottocento. Altre regioni elaborano la capacità di un inserimento più attivo nel mercato. Per le zone esportatrici di olio e vino il decennio e il blocco continentale rappresentano un momento di depressione. Costituiscono un caso a parte le piane a policoltura intensiva, come quella vicino a Napoli, privilegiata dalla domanda urbana; l’assetto produttivo della zona viene illustrato qui da un rapporto del marchese de Turris, membro del Consiglio d’Intendenza!”. La situazione di quest'area anticipa il lungo recupero otto-novecentesco della pianura, dovuto a un'iniziativa soprattutto statale di bonifica e di costruzione di infrastrutture che viene avviata in molti casi dalle opere pubbliche del decennio!8. A uno sguardo d’insieme, il decennio, pur comprimendo nel
periodo medio-breve le colture danneggiate dal blocco continentale, e favorendone altre come il cotone, si presenta per l’agri14 Ibid. Per i precedenti dell’analisi monticelliana cfr. B. Vecchio, I/ bosco negli scrittori italiani del Settecento e dell’età napoleonica, Einaudi, Torino 1974. !° Infra, cap. III. !° A. Massafra, Orientamenti colturali, rapporti produttivi e condizioni alimentari nelle campagne molisane tra la metà del Settecento e l'Unità, in Campagne e territorio nel Mezzogiorno tra Settecento e Ottocento, Dedalo, Bari 1984.
7 Infra, cap. III. 18 Cfr. infra, cap. V.
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coltura meridionale, più che come una cesura, come una tappa all’interno di un lungo processo di differenziazione delle regioni agrarie del Mezzogiorno in chiave senz'altro gerarchica!?. Ma già nel decennio i singoli gradi della gerarchia sono caratterizzati da forte dipendenza dall’esterno, e da virtuale isolamento reciproco. L'agricoltura — e l’esportazione di forza lavoro — si confermerà il destino del Mezzogiorno, ma nel segno dell’arretratezza e del dualismo?9, nonostante le immense potenzialità decantate dagli scrittori del decennio con una fiducia nella rapidità del riscatto destinata ad affievolirsi gradualmente nel secondo periodo borbonico. Anche nell’analisi del settore manifatturiero ricorre il motivo di un grande divario fra risorse e loro uso, ben presente nella relazione al governo di Gaetano La Pira sulle industrie impiantate e da impiantare nel Regno?!, che l’autore classifica, seguendo Genovesi, in necessarie, utili, di lusso. La memoria di Ferrara
— un tecnico — sul vetro?2, quella del canonico Aracri sulla produzione della seta a Catanzaro?3, lo stesso ottimismo forzato di Cuoco nella nota sull’esposizione industriale del 180624 eviden-
ziano da un lato la grave crisi dei settori protoindustriali come la seta, dall’altro l’estrema scarsità, arretratezza tecnologica e incapacità a competere delle manifatture meridionali. Sono note le oscillazioni della politica manifatturiera dei francesi, i forti contrasti fra Napoleone e Murat circa la protezione delle industrie napoletane??. Il regime francese si pone in buona fede il problema della crescita del settore industriale nel Mezzogiorno — la memoria di La Pira è una prova —, incoraggia gli imprenditori, soprattutto stranieri, come Lambert, Vallin, Egg?$, ricostituisce 12 Cfr. B. Salvemini, Note su/ concetto di Ottocento meridionale, in «Società e storia», 1984, n. 26, pp. 925 sgg.
20 Cfr. F. Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali d’interpretazione, in Storia d’Italia, Annali, I, Einaudi, Torino 1978, pp. 1196 sg. 21 Infra, cap. IL. Sulla relazione La Pira v. S. de Majo, Manifatture, industria e protezionismo statale nel Decennio, in Studi sul Buio di Napoli nel Decennio
francese (1806- IE Liguori, Napoli 1985, pp. 16 sgg. Ta, Ca fida sullae Aracri v. S. de Majo, Manifatture, industria e protezionismo, cit., pp. 18 sg.
24 Infra, cap. II. 2 V. S. de Majo, Manifatture, industria e protezionismo, cit., pp. 26 sgg.; J. Davis, The impact of French rule, cit., pp. 388 sgg. 26 Sul caso di Lambert v. L. de Matteo, Governo, credito e industria laniera nel
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Introduzione
la borbonica «Giunta delle manifatture»?? (di cui La Pira è consigliere, De Turris presidente). Questi tentativi sono rilevanti sul piano della politica economica murattiana, che aiuta lo sviluppo di microaree a incidenza industriale, ma per le dimensioni necessariamente limitate degli esiti e per la provenienza esterna degli stimoli, non costituiscono certo l’avvio di un processo di industrializzazione del Mezzogiorno. 2. Sulla prospettiva di un Mezzogiorno industriale i contemporanei erano assai dubbiosi. L’evidenza storica della antica prosperità agricola e l’esperienza chiara del grandissimo divario, di tecnologia e di costi, fra le sparute manifatture meridionali e le industrie inglesi, e anche francesi e tedesche, danno luogo a frequenti affermazioni della vocazione agricola del Regno. L’economia politica del decennio si esercita nel superamento del senso d’inferiorità meridionale, nella costruzione di un’identità economica salda per il Mezzogiorno, da elaborarsi con gli strumenti forniti dal nuovo assetto giuridico-istituzionale. Nel 1811 I’Accademia pontaniana premia con la pubblicazione nei suoi annali i tre saggi che erano risultati vincitori al «primo concorso economico pontaniano», indetto sul quesito «Sino a qual punto debbano proteggersi le manifatture in un paese
agricola»?8. Il problema posto contiene già una parte della risposta: il Meridione è un paese agricolo (anzi «agricola», di lavoratori della terra). Le argomentazioni, in verità alquanto astratte e vaghe, di P. Napoli Signorelli, di C. Della Valle, di V. De Ritis, esprimono diversi gradi di adesione alla vulgata liberista (massima in Della Valle); la necessità di dare la precedenza ai bisogni dell’agricoltura viene da tutti affermata, per quanto la tesi fisiocratica di una superiorità dell’agricoltura sulle altre arti suoni ormai fievole, e si sottolinei l'opportunità di sviluppare gli altri settori economici. Se l'opposizione industria-agricoltura non può avere la forza di un vero dilemma nelle condizioni del Regno, maggiore concretezza di analisi e di proposte si trova in uno «scrittor proMezzogiorno. Da Murat alla crisi post-unitaria, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli 1984, pp. 35 sgg. Decreto del 1° novembre 1808. Sulla Giunta v. S. de Majo, Manifatture, industria e protezionismo, cit., pp. 22 sgg.
28 «Atti della Società pontaniana di Napoli dell’anno 1811», vol. II, Stamperia di Vincenzo Orsino, Napoli 1812, pp. 163 sgg.
Introduzione
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vinciale» come Pasquale Liberatore, che propone per Chieti non l'introduzione di nuove manifatture, ma il miglioramento di quelle esistenti, al presente incapaci di sostenere la concorrenza estera??. Allo stesso modo un altro scrittore periferico, Ungaro,
sostiene che l'alternativa non sia da porsi fra agricoltura e industria, ma fra agricoltura e commercio, ricalcando la diffusa distinzione
fra nazioni
agricole, commerciali,
manifatturiere39.
L’alternativa posta da Ungaro viene decisamente risolta da Monticelli a favore dell’agricoltura3!. Dunque il riscatto del Mezzogiorno non può che fondarsi sull'agricoltura; ma in che modo? Il risollevamento della barbara e decaduta agricoltura e con essa dell'economia del Mezzogiorno può innanzitutto far leva su due tipi di risorse inutilizzate o sottoutilizzate, due «ricchezze nascoste»: le grandissime estensioni di pianura impaludata; i demani e i latifondi sottoposti a coltura estensiva. Le terre paludose sono un tesoro nascosto da riportare metaforicamente e letteralmente alla luce. L’analisi dell’impaludamento e delle sue cause, ultima in ordine di cronologia ma non d’importanza l’intensificazione dei disboscamenti da metà Settecento, è condotta con grande ampiezza e acutezza da Monticelli. Che la prospettiva di una rinascita produttiva del Mezzogiorno legata a un grande piano di bonifica non sia isolata, ma costituisca un tratto importante — legato in profondità al motivo del tesoro nascosto — della cultura economica meridionale sette-ottocentesca, è dimostrato anche dalla centralità attribuita a quest'opera pubblica nel rapporto di Colletta, direttore di Ponti e strade fra il 1812 e il 1815?3. Ma le paludi non sono le sole terre inutilizzate o sottoutilizzate del Mezzogiorno. Il caso dei pascoli demaniali del Tavoliere, dibattuto da un’ampia letteratura, diviene un modello negativo, l’esemplificazione dei mali dell’estensività?4. Nel suo saggio sulle 2? Infra, cap. II. 3° G. Ungaro, Prospetto economico-politico-legale del Regno di Napoli, Raimondi, Napoli 1808, pp. 43 sgg. 21 Infra, cap. I, p. 49, nota 9. Infra, cap. I. 3 Infra, cap. V. 34 Sul problema del Tavoliere nel decennio cfr. P. Di Cicco, Censuazione ed affrancazione del Tavoliere di Puglia (1789-1865), Roma 1964; S. Russo, Grazo,
pascolo e bosco'in Capitanata tra Sette e Ottocento, Edipuglia, Bari 1990, pp. 43 S88.
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Introduzione
campagne pugliesi Cagnazzi, grande confutatore di Malthus, preconizza un’intensificazione agraria che sia effetto, e anche causa, dell'aumento della popolazione?5. Al cuore della questione dell’estensività e dei demani sta il tema della piccola azienda contadina, che costituisce davvero un filo rosso degli atti e dei dibattiti della politica per il risollevamento del Mezzogiorno dai progetti di riforma dell’Illuminismo alla riforma agraria dei nostri anni Cinquanta. «I fondi ridotti in poche mani rendono meno che divisi in molte»36. Cagnazzi, che pure conosce Young, preconizza un’a-
zienda contadina simile al modello mezzadrile dell’Italia centrale, infatuazione, questa, condivisa da Cuoco?7. Molti sono i riferimenti alla problematica dei modi di conduzione e delle dimensioni dell’azienda agraria nei testi qui raccolti. Ungaro, ad esempio, rappresenta bene il ceto dei grandi proprietari con spiccate capacità imprenditoriali, in Puglia sempre particolarmente nutrito, e lo difende, proclamando la necessità di far coltivare — non distribuire — le terre38. Altri sono difensori della «grande coltura», delle ragioni economiche dell’estensività, come il pugliese Rosati3?. Prevale una posizione moderata, fondata sul rifiuto di una /ex agraria, anche fra i sostenitori della piccola azienda (e proprio Cagnazzi nel clima della Restaurazione avrà a difendere, contro le critiche di Sismondi, lo svuotamento delle leggi francesi per il Tavoliere). «Le leggi agrarie — scrive Cagnazzi — possono aver luogo in uno stato solamente nella ripartizione di nuove terre od in quelle di comune proprietà, ma senza attentare la proprietà altrui, perché sarebbe un rimedio assai peggiore del male. La proprietà è sagrosanta e su di questa poggia ogni base di pubblica economia». L'economia politica del decennio caldeggia una formazione di azienda contadina che si aggiunga all’assetto esisten?? Infra, cap. III; su Cagnazzi v. B. Salvemini, Econorzia politica e arretratezza meridionale nell’età del Risorgimento. Luca de Samuele Cagnazzi e la diffusione dello smithianesimo nel Regno di Napoli, Milella, Lecce 1981. °° L. de Samuele Cagnazzi, Elementi di economia politica, Sangiacomo, Na-
poli 1813, p. 128.
3? V. Cuoco, Platone in Italia, a cura di F. Nicolini, vol. II, Laterza, Bari 1924, p. 85 (prima edizione: 1804-1806). 9° Infra, cap. I. ?° Infra, cap. III.
1° L. de Samuele Cagnazzi, Elementi di economia politica, cit., pp. 131 sg.
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te senza travolgerlo. La proprietà contadina dovrebbe espandersi nell’immediato facendo ricorso alle ricchezze nascoste dei demani, delle «terre nuove», come le paludi da bonificare. In prospettiva lo stesso diritto di proprietà avrebbe prodotto ovunque l’intensificazione colturale e la scomparsa dei latifondi, aprendo un'originale via agraria alla prosperità del Mezzogiorno. Cagnazzi, che svolge un «ruolo eroico e solitario»! sulla scena dell’economia politica napoletana del primo Ottocento, e pubblica nel 1813 una ricca sintesi della materia, gli Elemzenti di economia politica, è un esempio illustre delle incertezze, per quanto ben mascherate dall’ottimismo agrarista, degli intellettuali meridionali circa la vocazione economica del Regno e il modo di uscire dall’arretratezza. Non si può pensare a un’autarchia agricola, i prodotti industriali sono necessari alle nazioni moderne, e nello scambio sono i favoriti, perché racchiudono maggior lavoro; e sono più scarsi*2. Ma, ponendo egli stesso il quesito «fino a qual punto convenga promuovere l’agricoltura in uno stato a fronte delle manifatture», quesito che rovescia quello proposto dall’ Accademia pontaniana qualche anno prima, afferma che ogni nazione deve seguire la sua vocazione naturale: «vale a dire se ha fertile territorio profittare nel commercio con generi grezzi, in altro caso profittare colle manifatture, e con quelle principalmente che sono di più facile esecuzione, e di maggior ricerca»43. In questo modo, mentre si confuta la fisiocrazia e si riconosce larvatamente la superiorità delle manifatture, non si vede però una soluzione rapida alla crescita industriale del Mezzogiorno e lo si risospinge al suo ruolo «naturale», e arretrato, nella divisione internazionale del lavoro. Il Mezzogiorno cerca la sua collocazione fra le nazioni europee, cercando di superare il senso d’inferiorità; l’elaborazione del dato dell’arretratezza meridionale si riflette nella proclamazione della necessità di un’economia politica originale, soprattutto nei confronti dell'imponente modello inglese. Anche il liberismo può essere sacrificato alle esigenze dell’agricoltura — e del resto, come Ungaro rimarca, il liberismo inglese è un luogo 41 F. Di Battista, L’emzergenza ottocentesca dell’economia politica a Napoli, Fa-
coltà di economia e commercio, Bari 1983, p. 43. 4 L. de Samuele Cagnazzi, Elementi di economia politica, cit., p. 51.
Solvii: po di9s
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comune prima che una realtà storica44. Se l'abolizione dei vincoli al commercio interno è sostenuta all’unanimità, meno lineare è la
questione delle tariffe. Su questo punto la posizione degli intellettuali, che hanno potuto leggere e meditare Smith in traduzione, può essere più astrattamente liberista di quella del governo. Nell’urgenza di emanare provvedimenti sull’esportazione dei grani, Pignatelli sostiene che la vulgata liberista inglese e francese non si addice al Regno: in generale, bisogna favorire la coltivazione, e lo smercio del grano; principio ammesso da tutti gli economisti tanto stranieri che nostri; ma nello stesso tempo sembra, che le nostre particolari circostanze non siano tanto favorevoli a questo ramo di commercio, quanto lo sono state in Inghilterra... Deve dunque il governo invigilarvi, e determinare a questa industria i confini che racchiudessero soltanto il nostro vantaggio, e n’escludessero i danni... Genovesi ha preteso sull’esempio dell'Inghilterra che basti favorire l’industria per assicurare la sussistenza... Abbiamo però fatto osservare che la nostra posizione è diversa.
Il concretismo di cui viene bollata l'economia politica meridionale dopo la ricca stagione illuminista mostra così uno dei suoi tratti più nobili nelle sperimentazioni e nelle aperture del decennio, nell’esigenza di trovare soluzioni originali per i problemi del
Regno, che si rivela preludio e non causa del soffocante amministrativismo della Restaurazione. Il superamento dell’arretratezza meridionale non si concilia con l’osservanza letterale dei dogmi liberisti — e neanche con un’applicazione puramente meccanica del modello statuale francese. Come si è detto, il regime francese mostra una forte capacità di cooptazione del ceto intellettuale. Cagnazzi, e Cuoco, e Monticelli, Colletta, Winspeare, per fare solo qualche nome, vengono
largamente utilizzati per l’impianto del nuovo regime e la soluzione dei problemi che man mano l'adeguamento delle cose alla geometria delle riforme pone. Un esempio: la memoria di Cagnazzi sull'andamento secolare dei prezzi nel Regno, a prima vista un pezzo di erudizione antiquaria, è finalizzata alla costituzione del nuovo catasto. Gli intellettuali alla ricerca dell’origi44 V. infra, cap. I, p. 20.
4 V. infra, cap. V, pp. 267 sg. 4° L. de Samuele Cagnazzi, Notizie de’ prezzi di alcune derrate per più di due
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nalità meridionale si sentono chiamati a collaborare ad un’opera di riadattamento del sistema francese alla realtà meridionale, e se
la tesi del riadattamento è anche un motivo propagandistico e apologetico*?, di certo il regime francese spende delle energie in questa direzione (si pensi alle ripartizioni amministrative, al dibattito sul Codice Napoleone, alle discussioni sulle tariffe): in primo luogo, fa uno sforzo ingente di approfondimento della realtà del Mezzogiorno. 3. «La statistica è la perfetta conoscenza dello stato attuale delle cose, che il ben essere della società e loro componenti risguardano... Da questa ne risulta la conoscenza esatta dello stato delle popolazioni, della loro indole, morale, istruzione, industria, sorgenti naturali di ricchezze, loro cambio e consumo, politica
costituzione, forze per terra e per mare, ed ogni altro che può concorrere all'importante scopo indicato»48. E la statistica lo strumento che deve permettere al regime murattiano di sondare le potenzialità e le specificità del Mezzogiorno, superando al tempo stesso la vaghezza delle immagini di un passato glorioso e l’astrattezza dell'economia politica. In queste parole di Cagnazzi la statistica si qualifica componente primaria della scienza dell’amministrazione, distinta dall'economia politica, della quale definisce l'oggetto concreto, e ad essa subordinata”. Se la statistica come pratica di amministrazione è una specialità francese, importata all’inizio dell'Ottocento in tutti i territori della dominazione napoleonica, l’attenzione a questo strumento è viva nel Mezzogiorno degli illuministi. Notevole è il ruolo di Galanti, che in fondo costruisce la sua Descrizione geografica e politica delle Sicilie come una grande inchiesta statisecoli, in Memorie dell’Accademia pontaniana, vol. I, Napoli 1810. Cfr. R. De Lorenzo, Proprietà fondiaria e fisco nel Mezzogiorno: la riforma della tassazione nel decennio francese (1806-1815), Centro Studi per il Cilento e il Vallo di Diano, Salerno 1984, p. 20, nota 19. 47 Cfr. [D. Winspeare], Voti de’ Napolitani, pp. 52 sgg., dove, mentre si inneggia alla grandezza del Codice civile francese, si amplifica l’opera di riadattamento alle esigenze napoletane permessa e promossa da Gioacchino con la partecipazione degli intellettuali napoletani (sui Voti v. infra). 8 L. de Samuele Cagnazzi, Elementi dell’arte statistica, Parte prima, Stamperia Flautina, Napoli 1808, pp. 14 sg. 4 Sul problema del confine fra statistica ed economia politica cfr. R. Romani, Quale statistica per il Risorgimento? Alcuni libri recenti sulla statistica napoleonica, in «Società e storia», 1991, n. 54.
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stica?°. Molteplici, e non solo di marca Francese, sono gli elementi che confluiscono in questa riflessione meridionale, il cui esito più cospicuo è l’opera di Cagnazzi, buon conoscitore della Statistik di Achenwall e Schléòzer, e autore degli Elementi di statistica pubblicati nel 180831. Il pensiero economico-politico meridionale si esercita in un'intensa fase di concretezza prima di giungere al concretismo (e qui il vizio non è intellettuale, ma piuttosto civile) della Re-
staurazione, e la riflessione sul concreto, l’amministrazione del concreto danno luogo a nuovi tipi di documento. L'indagine statistica è uno dei generi nuovi. Credo che al centro di questo mosaico sul Mezzogiorno al tempo dei francesi stia bene una riflessione sulle fonti, sui testi, per dirla con una metafora, sui «generi letterari», tanto più necessaria, quanto le scritture che si esaminano tendono ad autorappresentarsi come specchio senza distorsione e senza macchia della realtà (è appunto il caso della statistica).
L’impianto della statistica nel corpo dell’amministrazione è legato nel Mezzogiorno al nome di Murat. La compilazione della
«statistica murattiana» fu diretta da Cagnazzi, costituendone i suoi Elementi di statistica la base teorica. Come per la Francia, il motto di quest’impresa può essere «conoscere per amministrare»??, ma nei paesi conquistati l'esigenza di una ordinaria amministrazione ben calibrata e consapevole del suo oggetto è forse meno sentita dell’esigenza di una ricognizione delle risorse — delle ricchezze palesi e nascoste — a cui lo stato possa attingere. Il catasto che il regime francese si affretta a impiantare nel Regno è la risposta più diretta a questo obiettivo. Il desiderio di un inventario delle risorse meridionali, e soprattutto di quelle 2° G. Galanti, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, Gabinetto letterario, Napoli 1788.
721 V. Cagnazzi sulla scuola statistica tedesca in Elementi, cit., pp. 13 sg.; sull’apporto tedesco alla statistica di Cagnazzi v. A. Scirocco, Introduzione a S. Martuscelli, La popolazione del Mezzogiorno nella statistica di re Murat, Guida, Napoli 1979, pp. xm sgg. Sulla scuola tedesca cfr. anche G. Valera (a cura di), Scienza dello Stato e metodo storiografico nella Scuola storica di Gottinga, E.S.I., Napoli 1980. Sull’influenza tedesca sulla statistica francese, e sull’esistenza di una scuola continentale di statistica a impronta franco-tedesca, particolarmente rilevante nell’età napoleonica, cfr. J.-C. Perrot, S.J. Woolf, State and Statistics in France 1789-1815, Harwood Academic Publ., Chur 1984, pp. 4 sg. ?? Cfr. M.-N. Bourguet, Décbiffrer la France. La statistique départementale è l’époque napoléonienne, Ed. des Archives Contemporaines, Paris 1988, p. 97.
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meno appariscenti, sconosciute, è evidente in un precedente della statistica murattiana, l’inchiesta sulle «terre incolte, laghi, stagni e paludi esistenti nelle province» del 181053, esemplare per l’identificazione dei tesori nascosti del Meridione con le paludi, i demani incolti, le foreste. Si tratta di un documento rimasto poco utilizzato da parte degli storici. Opera di ampio respiro e di non immediata utilità per le finanze statali è la statistica murattiana, della quale sinora gli storici hanno fatto uso solo sommario: quasi per tutte le regioni del Mezzogiorno — tranne gli Abruzzi e il Molise, di cui già Liberatore rileva la posizione di terra incognita nel contesto meridionale>* — ne sono stati pubblicati ampi stralci, non sempre però adeguatamente interpretati, e usati semmai come fotografia del reale. Spicca lo studio di Ricchioni sulla Puglia, alla cui ricostruzione della genesi della statistica solo di recente si sono
aggiunti nuovi elementi?6. A uno sguardo anche rapido, la relazione su «sussistenza e conservazione delle popolazioni» dell’Abruzzo Ultra I (la provincia di Teramo), qui pubblicata, appare intrisa di ottimismo per quanto riguarda le risorse, di moralistico pessimismo per quanto riguarda i comportamenti degli uomini: in breve, di paternalismo misto a pedagogismo. Non vale nemmeno la pena di dimostrare che fonti come questa sono ideologicamente orientate e piegate alle esigenze e alle rappresentazio23 ASN, Ministero Interni, I inventario, fascio 2200. Cfr. V. Ricchioni, La «statistica» del Reame di Napoli del 1811. Relazioni sulla Puglia, Vecchi, Trani 1942, p. 95, nota, e Appendice, pp. 300 sgg. 24 Cfr. P. Liberatore, Pensieri civili economici sul miglioramento della provincia di Chieti, vol. II, Napoli 1806, p. 120, dove si sottolinea come Galanti trascuri gli Abruzzi nella sua Descrizione geografica e politica delle Sicilie. 2 0. Ricchioni, La «statistica», cit.; A. Zazo, Caccia, pesca ed economia rurale nel Principato Ultra, in «Samnium», 1946; L. Cassese, La «statistica» nel Regno di
Napoli del 1811. Relazioni sulla provincia di Salerno, Salerno 1955; U. Caldora, La statistica murattiana del regno di Napoli: le relazioni sulla Calabria, in «Quaderni di geografia umana per la Sicilia e la Calabria», 1960, V; T. Pedio, La statistica murattiana del regno di Napoli. Condizioni economiche artigianato e manifatture in Basilicata all’inizio del sec. XIX, Potenza 1964; C. Cimmino, Suolo, risorse, po-
polazione in Terra di Lavoro nell'età del Risorgimento, I, La statistica del Regno di Napoli nel 1811 su «caccia, pesca ed economia rurale» per Terra di Lavoro, Istituto per la storia del risorgimento italiano, Caserta 1978; Id., La situazione sociosanitaria di Terra di Lavoro nella statistica murattiana del 1811, in «Rivista storica di Terra di Lavoro», 1979, n. 1-2. 26 V. Ricchioni, La «statistica», cit.; A. Scirocco, Introduzione, cit.; La statistica del Regno di Napoli nel 1811, a cura di D. Demarco, tomo I, Accademia nazionale dei Lincei, Roma 1988, Introduzione.
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ni degli uomini dell’amministrazione, e che è difficile tracciare un rigido confine fra stato delle cose e cose dello stato?”. Presentano spesso una simile miscela di ottimismo, pessimismo, paternalismo, congiunti a maggiore o minore conoscenza
dei dati concreti e acutezza di giudizio, molte altre memorie e documenti prodotti in ambito amministrativo. La statistica murattiana non è impresa isolata: la Sezione di statistica dalla quale dipende è parte del Ministero degli Interni, che può essere considerato la chiave di volta nel nuovo sistema di amministrazione e nella produzione di conoscenze che vi sono connesse?8. I ministeri e il neoistituito Consiglio di Stato?? producono relazioni periodiche, come i rapporti del ministro degli Interni al re (assai rilevante quello per il 1810-11 a firma di Zurlo, che si riporta qui quasi per intero)6°. Ai nuovi gradi della piramide amministrativa dipendente dal Ministero degli Interni corrispondono testi nuovi: ad esempio, alle intendenze e ai distretti gli atti dei Consigli provinciali, d’intendenza, distrettuali6!. Nuovi generi, e nuovi scrittori, nella partecipazione delle province alla gestione della cosa pubblica che è uno degli aspetti più rilevanti del nuovo modello statuale, per quanto rigidamente convergente verso il vertices2. Pasquale Liberatore, autore di una ricca analisi sull'economia della provincia di Chieti, di cui si ri27 Analizza in profondità il problema F. Sofia, Una scienza per l’amministrazione. Statistica e pubblici apparati tra età rivoluzionaria e restaurazione, I, Carucci,
Roma 1988. Utili sul piano comparativo M.-N. Bourguet, Déchiffrer la France, cit.; Id., Dal diverso all’uniforme: le pratiche descrittive nella statistica dipartimentale napoleonica, in «Quaderni storici», 1984, aprile.
Sull’importanza del Ministero degli Interni v. A. de Martino, La nascita delle intendenze, Jovene, Napoli 1984, pp. 79 sgg.
?° Sul Consiglio di Stato v. P. Villani, I/ decennio, cit., pp. 585 e 590. Cfr.
anche L. Bianchini, Storia delle finanze del Regno delle Due Sicilie, a cura di L. De
Rosa, E.S.I., Napoli 1971 (ristampa condotta sull’edizione del 1859), pp. 458 sg. SO Infra, cap. IV. °! Alcuni studi sono disponibili sugli atti dei Consigli provinciali e d’intendenza, nell’insieme più attenti forse alla tipologia dei contenuti che alla dinamica di formazione del nuovo genere e dei nuovi organi: A. Scirocco, I problemi del Mezzogiorno negli Atti dei Consigli provinciali (1808-1830), in «Archivio storico per le province napoletane», 1970; R. De Lorenzo, Una fonte per la conoscenza del Mezzogiorno nel decennio francese: gli atti dei Consigli distrettuali del 1808, in «Archivio storico per le province napoletane», 1978; M.S. Corciulo, Sugli atti dei Consigli Generali e Distrettuali di Principato Citra durante il decennio francese (1806-1810), in «Clio», 1989, 1.
° Sul problema accentramento-decentramento v. J. Davis, The impact of the French rule, cit., pp. 373 sg.
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porta qui un ampio brano, proclama se stesso «scrittor provinciale»63: e questa categoria di intellettuali viene definita, riconosciuta e anche onorata dal regime napoleonico, e coinvolta in operazioni, appunto, come la statistica murattiana. Nel decennio vengono istituite in ogni provincia «Società d’agricoltura», poi «Società economiche», quasi un ulteriore prolungamento periferico del Ministero degli Interni, con cui, anche se formalmente indipendenti, sono in stretta corrispondenza. Infatti gli uomini sono spesso gli stessi, nei Consigli d’intendenza e di distretto‘, nelle società economiche, nelle accademie, nella
statistica murattiana: quella borghesia provinciale a cui il regime si apre soprattutto nella seconda metà del decennio85. I «provinciali scrittori», che continuano nei casi più cospicui a corrispondere con accademie italiane ed estere, sono ora inseriti in una
rete meridionale di istituti culturali strettamente legata al governo. Murat duplica Napoleone, che si costruisce un’immagine di grande protettore delle arti, delle lettere, delle scienzes6, fon-
dando accademie e «istituti d’incoraggiamento»®” che promuovano un sapere diverso e più concreto di quello delle vecchie «accademie d’antichità e di poesia»98 (e costruendo teatri)?: sfrut-
tando insomma l’ennesima ricchezza nascosta del Mezzogiorno, gli ingegni di cui in maniera speciale abbonda?0. È ancora in gran parte da studiare la politica culturale del regime francese; la carica innovatrice dei nuovi istituti sul piano del rapporto fra erudizione e discipline emergenti quali l’economia politica; i progressi nella specializzazione delle discipline; la relazione fra capitale e province, e fra Mezzogiorno ed Europa; 63 P. Liberatore, Pensieri civili economici, cit., vol. I, p. [iv].
64 Sul personale amministrativo dell’Italia napoleonica v. «Quaderni storici», 1978, 1, che contiene sul Mezzogiorno: G. Civile, Appunti per una ricerca sull’amministrazione civile nelle province napoletane; R. De Lorenzo, Il personale delle finanze nel Regno di Napoli durante il «decennio» francese; A. Scirocco, I corpi rappresentativi nel Mezzogiorno dal «decennio» alla Restaurazione: il personale dei Consigli provinciali. V. anche M.S. Corciulo, Arzrzinistratori e amministrati in Terra d'Otranto. Il decennio francese (1806-1815), Milano 1983.
> P. Villani, I/ decennio, cit., pp. 615 sg.
6° Cfr. F.W.J. Hennings, Culture and Society in France 1789-1848, Leicester University Press, Leicester 1987, cap. III, soprattutto pp. 83 sgg. ©? Qualche notizia in V. Ricchioni, La «statistica», cit., cap. I. 8 Infra, cap. I, p. 10. 9 Infra, cap. IV. 7° Cfr. P. Liberatore, Pensieri civili economici, cit., vol. II, pp. 124 sg.
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le intersezioni fra élites culturali, economiche, amministrative”);
la cristallizzazione di stili e generi nuovi, e la loro valenza ideologica. Sono poche le indagini sulla pubblicistica e sui giornali, che pure per altri paesi costituiscono un filone storiografico affermato??: eppure nel decennio si diffondono e fondano giornali («Il Monitore napolitano» e «Il Corriere di Napoli» ai quali collabora attivamente Cuoco?3, il «Giornale del Vesuvio», una
sorta di gazzettino di corte, il «Giornale degli annunzi» pubblicitari...), acquista peso l’«opinione pubblica» rispetto allo «spirito pubblico», il governo fa uso massiccio della stampa. Lo stesso grado e ambito di diffusione di documenti amministrativi come relazioni dei ministri, spesso a stampa, o la statistica murattiana, rimangono da studiare. Di certo il decennio costituisce
una cesura sul piano della produzione di testi e della creazione di generi: e questa cesura è parte del cambiamento più grande relativo alla quantità e alla qualità della presenza dello stato nella vita del Mezzogiorno.
4. La grandissima forza di rinnovamento che il decennio esprime nella rifondazione della macchina statale non ha bisogno di grandi prove: basta utilizzare la fonte più ovvia, la «Collezione degli editti, determinazioni, decreti, e leggi di Sua Maestà», dal 1807 «Bullettino delle leggi del regno di Napoli». Questo testo (mai analizzato a fondo nella sua interezza) restituisce il quadro delle riforme operate dai francesi con l’aridità dell’elenco e al tempo stesso l’efficacia di una retorica giuridica diversa dallo stile delle vecchie prammatiche. Nel giro di dieci anni si compiono i cambiamenti così lungamente discussi e sperati dagli illuministi (e la questione della continuità fra progetti del primo periodo borbonico e realizzazioni dei francesi sembra in verità porsi più spesso nella forma del processo alle intenzioni che in quella di un rigoroso giudizio storiografico). Alla fine del 1806 il nuovo regime può dirsi già posto sulle sue basi attraverso l'emanazione tempestiva di molti importanti provvedimenti. Alcune date: nel 1806, il 31 marzo viene istituito
il Ministero degli Interni, il 15 maggio il Consiglio di Stato, il 21 & V. G. Civile, Appunti per una ricerca, cit. 7? V. ad es. R. Darnton, D. Roche (a cura di), Revolution in Print. The Press in France 1775-1800, University of California Press, Berkeley 1989. ? Articoli di Cuoco tratti dal «Corriere» sono qui riportati nei capp.II, IV, V.
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maggio viene emanata la prima legge sul Tavoliere, 111 giugno la legge sui banchi privati di Napoli, il 25 giugno gli «arrendamenti», i vecchi appalti cioè delle imposte?4, vengono richiamati al Tesoro pubblico, il 2 luglio si dà avvio alla vendita dei beni nazionali, il 2 agosto si promulga la legge eversiva della feudalità, il giorno dopo si istituisce la fondiaria al posto di tutte le contribuzioni dirette, 1'8 agosto vengono costituite le intendenze e riordinata l’amministrazione delle province e dei comuni. Il lunghissimo «catalogo» dei diritti feudali stilato dal Winspeare nella sua Storia degli abusi feudali è di colpo cancellato?5. Nel 1807 e nella prima metà del 1808 viene decretata la quotizzazione dei demani (8 giugno 1807), sono emanate diverse disposizioni relative al debito pubblico, i comuni vengono inseriti nel nuovo quadro amministrativo, si riforma l’amministrazione della giustizia, si introduce il Codice Napoleone (tutti questi ultimi provvedimenti vengono presi fra il 20 e il 21 maggio 1808). In questo modo Giuseppe Bonaparte lascia a Gioacchino Murat, che gli succede il 15 luglio 1808, un assetto statuale già completamente rinnovato, ma anche le incombenze del passaggio dalle grandi riforme a un’ordinaria amministrazione gravemente condizionata dallo stato di guerra. V’è distanza fra la limpida geometria di una legge e la sua applicazione. Sulle resistenze e i malintesi derivanti dalla messa in opera della nuova struttura amministrativa si stanno producendo alcuni primi e interessanti studi, relativi all’impianto delle intendenze”$, e alla nuova ripartizione in province e distretti, atto di grande impatto anche simbolico, che si cerca in certa misura di adattare alle condizioni meridionali??. La microfisica del nuovo diritto di proprietà è ancora tutta da studiare. Dalla parte dei riformatori il cuore del problema è abolire la feudalità senza ledere la proprietà: al fondo, inserire la vecchia 74 Cfr. L. De Rosa, Studi sugli arrendamenti del Regno di Napoli. Aspetti della distribuzione della ricchezza mobiliare nel Mezzogiorno continentale (1649-1806), Napoli 1958. ? D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, A. Trani, Napoli 1811, nota 154 a pp. 151 sgg. © A. de Martino, La nascita delle intendenze, Jovene, Napoli 1984; v. anche Id., Stato e amministrazione a Napoli dal decennio agli anni Trenta, Jovene, Napoli L979Ì
7 V. A. Spagnoletti, Territorio e amministrazione nel regno di Napoli (18061816), in «Meridiana», 1990, maggio.
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struttura economica nelle coordinate del nuovo diritto di proprietà. Si è esaminata la posizione di Cagnazzi al riguardo. Per i politici come per gli intellettuali, abolizione della feudalità non significa promulgazione di una lex agraria. Per il ministro Zurlo, che nel 1810 illustra al re i risultati dell’eversione della feudalità e della divisione dei demani, sono «state in questa operazione bilanciate le ragioni dell’utilità comune, e quelle della giustizia individuale»; l’«idea non è stata il diminuire i latifondi nelle mani de’ ricchi, ma unicamente il mettere in valore gli estesissimi demanj, de’ quali il Regno era pieno»?8. La stessa Storia degli abusi feudali del Winspeare è un’opera propagandistica, di regime??, e sviluppa con logica persino circolare la tesi che con l’eversione ad essere eliminati siano stati gli abusi — e per definizione «abuso» è qualsiasi cosa si opponga al diritto di proprietà. La centralità della proprietà contadina nelle prospettive dei riformatori del decennio non corrisponde nei fatti alla sua diffusione, come si è detto. La creazione di una proprietà contadina viene affidata, ma con scarso successo, alle quotizzazioni dei demani. Nella storia della questione demaniale il decennio francese rimane un momento d’avvio e non di soluzione89. Non c’è allora molto da stupirsi delle rivoluzioni agrarie mancate del decennio: nessuno, né conquistatori né conquistati, voleva stravolgere la distribuzione della ricchezza e costruire una società di uguali8!. L’abolizione dei vincoli feudali assesta un colpo grave al potere economico ed extraeconomico della nobiltà, e si rivela necessaria all’accumulazione agraria che è precondizione dello sviluppo economico italiano nel lungo periodo82. Ci si può però chiedere se la
somma dei grandi e piccoli fallimenti e delle ingiustizie nell’idea78 Infra, cap. IV, p. 203. ? Zurlo parla inequivocabilmente di committenza regia: ivi, p. 199.
5° P, Villani, I/ decennio, cit., pp. 607 sgg.; E. Cerrito, Territorio, demani, comunità: per un’interpretazione della questione demaniale. Il caso di Principato Citra nel XIX secolo, in «Rivista di storia economica», 1988, n. 3.
V. su questi temi — oltre all’analisi di L. Bianchini, Storia delle finanze, cit., pp. 473 sgg. — L. De Rosa, Property Rights, Institutional Change and Economic Growth in Southern Italy in the XVII and the XIX Centuries, in «The Journal of european economic History», 1979, 3; P. Villani, I/ decennio, cit., pp. 602 sgg.; J. Davis, The impact of French rule, cit., pp. 384 sgg. Cfr. anche W. Mager, Agriculture, société rurale et modernisation, in H. Berding, E. Frangois, H.-P. Ull-
mann (a cura di), La Révolution, la France et l’Allemagne: deux modèles opposés de changement social, Ed. de la Maison de Sciences de l’Homme, Paris 1989. Il libro costituisce un interessante esempio di comparazione Francia-Germania.
? Cfr. F. Bonelli, I/ capitalismo italiano, cit., p. 1198.
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zione e applicazione di una legge che già Zurlo riteneva insufficiente — ci sono echi polemici nello stesso Rapporto al re qui riproposto, più espliciti nella memoria anonima sull’eversione della feudalità, inedita, forse anch’essa di penna di Zurlo8? — non abbia prodotto nel Mezzogiorno una lunga e grave eredità di risentimenti verso lo stato. Nell’immediato il nuovo diritto di proprietà ha funzione di
base del sistema fiscale: è strettissimo il nesso fra riforma dell'apparato giuridico-istituzionale e ricostruzione delle finanze pubbliche. L’introduzione del diritto di proprietà e la rapida redazione di un catasto sono le premesse per l’attivazione dell’imposta fondiaria e per una sua regolare e uniforme esazione. L’eversione
della feudalità,
l'incameramento
dei beni dell’asse
ecclesiastico debbono fornire allo stato un capitale cui attingere per le necessità correnti, e quelle straordinarie come la sistemazione della questione del debito pubblico, spinosa e importantissima per la credibilità del regime. Sono da tempo ben documentati gli effetti delle vendite dell’asse ecclesiastico, la loro scarsa capacità di incidere nella distribuzione della proprietà. In altri territori soggetti alla dominazione napoleonica le borghesie emergenti possono aver beneficiato in misura maggiore, e la media proprietà, non la piccola, può essere stata più incoraggiata85. In ogni caso, le vicende dei beni nazionali si dimostrano soprattutto variabile dipendente delle esigenze delle finanze statali, nel Mezzogiorno come in altri Paesi dell'Impero, e prima nella Francia rivoluzionaria8$. In un rapporto di cui si pubblica qui uno stralcio, il ministro delle Finanze Roederer esamina i provvedimenti del maggio 1808, che danno un assestamento alla questione del debito pubblico87. Sembra riduttiva l'affermazione di Bianchini che «il modo e gli spedienti di soddisfarlo [il debito nel decennio] non furono allora opera di studiato disegno, ma a mano a mano si 82 Infra, cap. IV. 84 P. Villani, La vendita dei beni dello stato nel Regno di Napoli, Banca Commerciale Italiana, Milano 1964. “Cfr. P; Notario, La vendita dei beni nazionali in Piemonte nel periodo napoleonico (1800-1814), Banca Commerciale Italiana, Milano 1980, e anche H. Berding, Napoleonische Herrschafts- und Gesellschaftspolitik, cit. € Cfr.F. Aftalion, L’économie de la Révolution francaise, Hachette, Paris 1987.
87 Infra, cap. IV.
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andarono praticando diversi spedienti per giungere al fine»88. Nello scritto del Roederer il rapporto fra debito pubblico e incameramento dei beni della Chiesa è esposto con chiarezza, così come la politica francese di soppressione dei banchi privati e di creazione di un banco unico statale. Al Roederer segue il conte di Mosbourg, autore dell’impopolare misura di una conversione del debito pubblico, dal 5 al 3%, che mai più i Borboni oseranno proporre. Si fanno grandi passi per il risanamento della finanza pubblica, producendo però anche in questo caso una scia di risentimenti.
I proventi ordinari dell'imposta fondiaria e, nel periodo in cui rimasero in vigore, della «personale» (tassa sui capofamiglia) e della «patente» (tassa sulle industrie), e quelli straordinari delle
vendite dei beni dello stato vengono utilizzati per la pace e per la guerra, per i pressanti impegni militari e per la prosperità della nazione che il regime di occupazione deve garantire come conseguenza della sua «conquista morale». Influenza il carico complessivo di tasse il mito della feracità meridionale8?. Non è facile stabilire in che misura nella storia delle finanze meridionali il decennio rappresenti una cesura anche sul piano delle quantità. A un rapido raffronto condotto in base a dati forniti da Bianchini, le entrate dello stato ammontavano nel 1790 a
circa 17 milioni di ducati, nel 1814 a 23 milioni? Se si guarda anche ai dati, più ricchi e dettagliati di quelli di Bianchini, offerti da un anonimo opuscoletto, i Voti dei Napolitanî?!, di cui si dirà fra poco, sembra forse corretto ricercare il cambiamento più profondo nella composizione del bilancio, in un aumento relativo dell’imposizione diretta rispetto a quella indiretta. Maggiori entrate, in ogni caso, e maggiori uscite, anche per quelle funzioni che in antico regime erano divise senza alcuna norma precisa fra stato centrale, autonomie locali, poteri feudali, élites economiche e che i francesi ereditano e razionalizzano tanto dal punto di vista dell’amministrazione che della regolarità della spesa. Settori come i lavori pubblici e la beneficenza ora — sta qui 88 L. Bianchini, Storia delle finanze, cit., p. 502. Per il ministro delle Finanze Roederer «Les resources du pays sont immenses» (A. Di Biasio, Aspetti, cit., p. 346). V. anche R. De Lorenzo, Proprietà fon-
diaria e fisco, cit., p. 18.
7° L. Bianchini, Storia delle finanze, cit., pp. 393 e 524. 21 Infra, cap. IV.
Introduzione
OX:
ed è notevolissima la cesura — si inseriscono in un quadro complessivo di gestione dell’economia nazionale dotato di regole, regolarità, corpi amministrativi. L'esempio dei lavori pubblici è illuminante: viene fondato il Corpo di Ponti e strade sul modello francese del Corps des Ponts et Chaussées?2; viene stilato un piano organico di opere in cui le bonifiche, che portano alla luce le ricchezze nascoste della feracità meridionale, hanno una posizione importante?; sul versante del finanziamento, l’aumento di spesa rispetto al primo periodo borbonico è consistente; il ricorso ai beni dell’asse ecclesiastico permette elasticità di bilancio ma si rivela un’arma a doppio taglio per la difficoltà della loro conversione in denaro. i Anche nel settore dell’assistenza i francesi operano un riordinamento: come sostiene Zurlo, sono aumentati coloro che la
«generosità» del sovrano assiste negli istituti di beneficenza e negli ospedali?4 (è nel decennio che scompare l’ospedale-ospizio, ed entrano nel Regno, anche con l’arrivo di medici francesi, i progressi d’oltralpe)??. Lo scritto di Rizzi, di cui qui si riporta un’analisi delle cause di povertà, è parte di un dibattito intorno all'opportunità di assistere i poveri, distinti artificiosamente in «poveri industriosi», mendici, vagabondi, che ha le sue radici in antico regime?6. La riorganizzazione dell’assistenza nel decennio ha una forte intenzione utilitarista: anche e soprattutto i poveri
senza lavoro sono «nascosti individui» — un’altra ricchezza nascosta, sprecata — da rendere operosi e «utili allo stato» (sono parole di Cagnazzi)??. Viene connessa così all'assistenza la pro-
mozione di manifatture di stato, o di privati che, per quanto in astratto utilissime, si rivelano non produttive e non hanno certo gran peso per la creazione di un’industria meridionale competitiva?8.
L’intervento per la povertà oscilla fra intenti produttivistici ?2 Decreto del 18 novembre 1808. 93 Infra, cap, V. 94 Infra, cap. IV. ? G. Botti, L'organizzazione sanitaria nel decennio, in Studi sul Regno di Naoli, cit. P035 Infra, cap. I; cfr. L. Valenzi, La povertà a Napoli e l'intervento del governo francese, in Studi sul Regno di Napoli, cit. 27 L. de Samuele Cagnazzi, Sbozzo dei Statuti della Società del ben pubblico, cit. in V. Ricchioni, La «statistica», cit., p. 44, nota.
98 Infra, cap. V.
Introduzione
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e intenti assistenziali; fra i doveri dello stato nei confronti dei sudditi, di tutti i sudditi, quello della garanzia della sussistenza in tempi di emergenza è il primo. Politica annonaria e politica doganale sono temi centrali nel decennio, dibattuti lungamente, e affrontati con urgenza nella carestia del 181099. In questa circostanza è consistente l’impegno del governo nelle misure annonarie!°, Il dibattito sull’estrazione dei grani che si svolge nel Consiglio di Stato (si è riportato sopra la posizione antigenovesiana di Pignatelli) indica l'orientamento del regime murattiano verso un liberismo temperato e soluzioni adatte alle condizioni del Regno, non troppo macchinose sul piano della gestione, attente alla sussistenza della «meschina classe». Nel governo dell'economia il decennio introduce atteggiamenti e strumenti che saranno conservati in gran parte dal dirigismo del secondo periodo borbonico. E invalidata l'equazione fra Ottocento e liberismo. In prospettiva di lungo periodo l’eccezione è rappresentata dalla breve stagione liberista postunitaria piuttosto che dalle varie forme di amministrazione dell’economia avvicendatesi a partire dall’impianto del nuovo modello di stato attuato dai francesi.
5. Dal problema della povertà — dai margini, e non dal centro della politica francese nel Mezzogiorno — si possono prendere le mosse per fare un ultimo bilancio di permanenze e mutamenti, per pesare ancora una volta il decennio nel lungo periodo della storia meridionale. L'attenzione verso il popolo sofferente, l’assistenza ai poveri «involontari» e ai malati, il soccor-
so in tempo di carestia — agli straccioni della capitale innanzitutto — sono percepiti come doveri, come obblighi morali dello stato, ora adempiuti in maniera sistematica all’interno di un sistema amministrativo ben più sviluppato. Nel passaggio al nuovo regime la rapida e quasi miracolosa costruzione di uno stato-macchina coerente in tutti i suoi ingranaggi non trasforma — se mai questo possa accadere — il governo del Mezzogiorno in pura meccanica. Il modello paternalistico, di antico regime, della nazione come famiglia e della sua economia come economia domestica, paradossalmente si avvicina alla 99 Infra, cap. IV. 100 Infra, cap. V. Cfr. P. Villani, Il decennio, cit., pp. 629 sg.
Introduzione
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realtà nel decennio, con uno stato che ha le capacità e le intenzioni di mettere in atto, nel quotidiano e non nell’emergenza, un’amministrazione minuta dell’economia nazionale. Il regime d’occupazione aggiunge alle obbligazioni tradizionali nei confronti dei sudditi, come il soccorso paterno in tempo di carestia, la necessità di giustificare se stesso e le proprie innovazioni. Al Winspeare si deve la stesura di alcuni scritti apologetici. Della ben nota Storia degli abusi feudali si è già detto; sono attribuiti al Winspeare, da una mano ignota della corte borbonica, nel 1832, i Voti dei Napolitani. Il libretto prende le mosse dalla reazione dei giornali siciliani del 14 e 17 ottobre 1814 alla Lettera di un inglese nel suo ritorno in Inghilterra da un viaggio in Italia nel mese di agosto 1814191, opuscolo redatto da un anonimo inglese che elogia grandemente la Napoli murattiana, e bollato dalla stampa siciliana come un falso a scopi propagandistici (episodio, questo, rivelatore della sensibilità della politica ai giornali). I Voti sviluppano una documentata comparazione fra le finanze della prima Restaurazione e quelle del regime francese a tutto vantaggio delle seconde, più eque ed efficaci nell’imposizione e nella spesa. Che fossero nei fatti problematica l'imposizione e difficile da giustificare un peso fiscale accresciuto, è dimostrato dalle proteste dell’intendenza di Teramo, che lamenta il livello troppo alto dei valori catastali e la non equa distribuzione dei pesi fra le province!02, All’interno delle province e dei distretti il compito della ripartizione della imposta era affidato ai Consigli provinciali e distrettuali, che con la loro assunzione di responsabilità venivano a svolgere un importante ruolo di legittimazione!°?. La stessa introduzione antifisiocratica della patente e della personale, simile al vecchio ed esecrato focatico, rappresenta un modo per alleggerire il grave peso sulle spalle dei proprietari fondiari. D'altra parte la persistenza delle imposte indirette deve aver reso meno netta la differenza con il vecchio sistema. La tassazione si presenta nel nuovo come nell’antico regime come un problema di economia morale — di equità, e ancor più di giustizia nei confronti dei poveri e di attenzione ai loro biso101 Napoli 1814 (una copia è conservata in Asn, Archivio Borbone, fascio 1988).
102 Infra, cap. V. 103 Cfr. R. De Lorenzo, Proprietà fondiaria e fisco, cit., pp. 17 sgg., 644 sgg.
SIONI
Introduzione
gni. Non è questo a cambiare nel decennio, né l’immagine della sovranità a essere dipinta in maniera radicalmente diversa. Il culto della persona di Napoleone viene osservato nei territori dominati. Si festeggia con grande accorrere di popolo il compleanno di Murat e della regina, il ritorno di Murat dalla campagna di Russia o dalla spedizione in Calabria... Il regime non manca di cercare consenso attraverso il ricorso a feste ed elargizioni!°*. La liturgia della dominazione francese nel Mezzogiorno è ancora tutta da studiare. Accanto al potere personale del re si instaura nel decennio con posizione egemone il potere impersonale della norma codificata; si fonda una monarchia amministrativa ben più complicata della precedente, dove i conflitti sono mediati e talora generati dal nuovo quadro giuridico e amministrativo. Il diritto di proprietà reinterpreta le divisioni sociali, senza rivoluzionarle. Il nuovo regime nasce nel segno della prudenza: questo è anche il senso delle svalutazioni della rivoluzione francese in cui spesso ci si imbatte negli scritti del periodo (Cuoco è il caso più noto), e che valgono anche da segnale di rassicurazione per le élites economiche meridionali!°. Si riaggiustano le demarcazioni sociali: se il cittadino viene identificato con il proprietario, i ribelli sono i non abbienti. Il brigantaggio, fenomeno importantissimo nella vita del decennio, viene interpretato dai contemporanei come la rivolta dei non proprietari!06. Ma non è l’introduzione del diritto di proprietà in sé, dato di difficile e lunga metabolizzazione, a determinare la cesura del decennio!0”, E il diritto codificato la grande novità, e la costruzione di un sistema amministrativo che dia corpo e sostanza alle norme. Non si intende però qui riprodurre il giudizio, assai diffuso nelle valutazioni complessive del decennio, di forti cambiamenti sul piano delle istituzioni, deboli cambiamenti sul piano delle strutture economiche e sociali. Questo giudizio è al fondo il prodotto — quasi un lapsus — di una mentalità storiografica ne Cfr. L. Bianchini, Storia delle finanze, cit., p. 463. ] ? V. anche D. Winspeare, Voti dei napolitani, cit., pp. 51 sg., dove si parla dei «mali e gli orrori della rivoluzione». Cfr. F. Diaz, L’incomprensione italiana della rivoluzione francese, Bollati Boringhieri, Torino 1989.
10° V. infra, cap. IV, p. 203; sul tema del brigantaggio v. F. Barra, Crona-
che del brigantaggio meridionale, Salerno-Catanzaro 1981.
i i Sulla recezione del nuovo diritto di proprietà cfr. L. Bianchini, Storia delle finanze, cit., pp. 500 sg.
Introduzione
XXXIII
tenacemente abituata a pensare in termini di contrapposizione fra struttura e sovrastruttura, fra storia del diritto e della politica e storia economico-sociale. La nuova centralità della legge si connette a una nuova e assai più intensa presenza dello stato nella vita economica, sociale, civile della nazione, gestita e controllata ora in maniera capillare e quotidiana dalla mano pubblica: questa è l’immagine più nitida restituita dal mosaico qui composto. A quale modernità ciò abbia dato luogo — quali costellazioni si siano andate man mano formando nei rapporti fra potere della persona e potere della parola codificata, fra stato e società, dal decennio francese in poi — è una questione ancora per molti aspetti aperta. Costanza D'Elia
Le note del curatore sono indicate con lettere, quelle degli autori con numeri arabi (si è cominciato da 1 anche nel caso di diversa nume-
razione dell’originale). La sigla ASN indica l’Archivio di Stato di Napoli. I valori sono espressi in ducati o in lire; un ducato equivale a lire francesi 4,40. Si desidera ringraziare: per la cortese assistenza all’ Archivio di Stato di Napoli, la dott.ssa Rosanna Esposito, e il dott. Fausto de Mattia, che è stato prodigo di utili indicazioni; per le informazioni preziose, il dott. Walter Palmieri dell’Istituto di studi sull’economia del Mezzogiorno nell’età moderna del CNR di Napoli; per l’informatica, Salvatore Cristadoro, che ha svolto con grande competenza le operazioni di text processing; per il gentile aiuto nelle traduzioni dal francese, la dott.ssa Adele Carbonaro.
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IL MEZZOGIORNO AGLI INIZI DELL'OTTOCENTO
IL TERRITORIO
E GLI UOMINI
1. L'agricoltura: potenzialità naturali e arretratezza A)
LA DECADENZA”
Quando si pone a confronto la situazione attuale del Regno di Napoli con quello che gli storici antichi riferiscono delle ricchezze e della popolazione delle provincie da cui è composto; si è subito tentati di giudicare i loro racconti menzogneri, o esagerati. Ma allorché si vedono tutti questi storici concordi nel dire che questa parte d’Italia era dai tempi più remoti la più fertile, la meglio coltivata, la più attiva nei commerci, la più popolata, colpiti da tale consonanza di vedute, si è costretti a giudicare veritiero ciò di cui si è prima dubitato. Il cittadino che ricerchi le cause di questa decadenza, non può attribuirle che ai vizi della legislazione, all’incuria dei principi, all’oziosità delle popolazioni, e all’ignoranza degli uni e delle altre; ma chi confidi nell’or-
dine delle cose che ora si viene a stabilire, vede l'agricoltura rifiorire sotto leggi nuove, e con l’agricoltura rivivere le arti e il commercio, la popolazione accrescersi, le campagne incolte dissodarsi, e canali aprirsi, manifatture stabilirsi, e villaggi fondarsi intorno a queste manifatture; già davanti ai suoi occhi Capua, * Da Domenico Tupputi, Réflexions succinctes sur l’état de l’agriculture et de quelques autres parties de l’administration, dans le Royaume de Naples, sous Ferdinand IV, Le Becq, Parigi 1807 (prima ed., 1806), pp. 1-1, 1-5 (traduzione del curatore).
A
Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
Taranto, Benevento, Cuma, Brindisi, Canusio, Crotone, hanno
riacquistato il loro antico splendore; Argirippa, Sibari, Metaponto, si sono rialzate dalle loro rovine, più luminose che mai. Que-
sto è il sogno della mia immaginazione: perché non dovrebbe realizzarsi? Perché i nostri discendenti non dovranno godere della stessa felicità di cui hanno goduto i nostri avi? Il nostro suolo è lo stesso, la nostra posizione geografica è la stessa, il nostro clima non è mutato: solo gli uomini, sotto il governo di leggi cattive, sono degenerati; ma sotto un buon principe, sotto la protezione di un eroe, ritorneranno quello che furono un tempo. Che dico? Questo popolo sarà più grande, più potente che mai! I discendenti dei Sanniti, dei Campani, dei Dauni, dei Lucani, dei Messapici, dei Locridi, dei Bruzi, popoli un tempo divisi e spesso in guerra fra loro, ora riuniti in una sola nazione, si trovano in una situazione più favorevole di prima, e senza dubbio mostreranno all’universo lo spettacolo imponente di ciò che può l'industria su un suolo naturalmente ricco, quando sia mossa da un unico motivo e diretta a un unico scopo. E questa la speranza che mi ha dettato la composizione di quest'opera [...].
Ci meraviglieremo che campagne così feraci siano state il teatro di tante guerre, che siano state tanto spesso sottratte ai loro abitanti? No, ma piuttosto sorprende che questo paese, una volta disseminato di tante città, sia così scarsamente popolato, così mal coltivato, e che, dopo una lunga pace e una lunga tranquillità, . produca oggi appena di che nutrire i suoi abitanti, mentre esso fu
nel passato il granaio dei Romani e dei Greci del Peloponneso, al tempo stesso in cui i Romani e i Sanniti lo devastavano, e le sue città erano in guerra le une contro le altre. Di tutte le città di queste antiche contrade, nessuna tranne Napoli ha conservato la pristina magnificenza. Bari, Taranto, Otranto non sono nulla al paragone di quello che furono. I Campi Flegrei non hanno perduto del tutto la loro fertilità; ma, coltivati senza cura, le loro produzioni non sono dovute, per così dire, che alla loro eccellente qualità. Le campagne di Puglia sono divenute secche e aride, da grasse e abbondanti quali erano. Falerno, Cales non sono più che villaggi senza nome, poi che le loro vigne sono mal coltivate, che i vini che producono, fabbricati senza intelligenza, non hanno più la qualità d’un tempo. A cosa attribuiremo quindi una così
I Il territorio e gli uomini
5
grande differenza nella fertilità delle campagne e nella loro coltivazione? Nessuna di quelle grandi rivoluzioni che la natura talvolta opera è venuta a cambiare la faccia di queste terre; ma,
come ho già detto, gli uomini non hanno più né la stessa attività, né la stessa intelligenza; oppresso a lungo sotto uno scettro di ferro, diretto da preti interessati a tenerlo nell’ignoranza, il popolo vive nell’incuranza dei suoi propri interessi. I fiumi che, diretti in letti costruiti dall'uomo, irrigavano e rendevano fertile la terra, l’inondano oggi e formano paludi sterili e pestilenziali. I porti di Crotone e Sibari, di Salapia, di Siponte, di Canosa non esistono più: il territorio di queste città un tempo così fiorenti è divenuto mortifero per i suoi abitanti. Il porto di Pesto, costruito con tanta arte dai Sibariti!, non è più praticabile, quello che si vedeva sul Sarno non esiste più. Pompei, una volta centro dei commerci di Nola, Nocera, Acerra, è stata sommersa, e le coste sono inabbordabili da quel lato. In
Daunia non resta più traccia del canale costruito da Diomede?, che, attraversando tutta la provincia, doveva trovar sbocco in mare; infine tutti i fiumi che i vascelli mercantili risalivano un tempo per cercare le mercanzie delle regioni interne, hanno oggi il letto ricolmo di sabbia e di fango, come il Matrino, l’Aterno, il Siri, il Launo, l’Ofanto, i quali, trasformati in torrenti impetuosi, devastano le contrade che un tempo arricchivano. Questi
sono gli effetti funesti della distruzione delle dighe, del colmamento dei canali e dei porti, che bisogna attribuire alla negligenza e all’ignoranza del governo. Non facessero questi torrenti nelle loro piene che rapire all’agricoltura qualche porzione di terreno: ma essi formano delle paludi che infettano l’aria. Non ci meravigliamo allora più della differenza fra la popolazione e la fertilità antica e attuale delle terre di questo Regno. La dolcezza del clima, la fertilità del suolo, fanno del Regno di Napoli uno dei paesi più fortunati. In nessun luogo la natura promette ai coltivatori delle ricompense più dolci e più facili da ottenere. Sembra che tutto la natura abbia fatto per l’uomo, e niente l’uomo per se stesso. Gli abitanti di queste contrade un tempo così fiorenti non conoscono tutte le risorse dell’agricoltura: coltivano le loro terre per vivere, e, per il resto, non cercano 1 Strabone, libro VI. ? Ibidem.
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
di migliorarle: non saprebbero nemmeno con che mezzi. Non essendo in grado di discernere le differenti qualità dei suoli, non sanno nemmeno apportarvi dei miglioramenti, né seminare in ogni specie di terreno le piante adatte: non conoscono che pochi strumenti agricoli. Per lavorare la terra impiegano la marra, la zappa, il bidente, e un aratro assai elementare. In verità quest’aratro è assai adatto
alla coltivazione degli alberi e delle terre pietrose, perché affonda poco nel terreno, ed essendo facile da maneggiare per la sua leggerezza, il coltivatore lo può dirigere dove vuole, ed evitare pietre e radici; ma per le stesse ragioni non è adatto alla coltivazione delle terre forti, argillose, o anche leggere, dove è tuttavia necessario impiegarlo, perché non se ne costruiscono di altri. La vanga si usa solo in alcuni luoghi particolari. Per il taglio del grano si usa il falcetto; la falce grande non si conosce che dove la natura produce spontaneamente il fieno. Per tagliare gli alberi da frutto, esiste una sola specie di accetta quanto alla forma; ma ve ne sono di differenti dimensioni. La sega e le cesoie non sono in uso; ci si serve della roncoletta per potare le viti; gli alberi di bosco si abbattono con l’ascia e la roncola. Per uso agricolo si impiega una sola specie di carro, che non è equilibrato, è assai pesante e di un’imperfezione notevole. Così, mentre tutti i popoli, nel disegno di perfezionare la prima e più utile delle arti, di rendere la terra più feconda e più produttiva, di facilitare e sveltire il loro lavoro, hanno moltiplicato gli strumenti agricoli, qui siamo ancora ridotti a qualche misero utensile conosciuto già agli albori della civiltà. Nella pratica dell’arte, non si segue che una cieca abitudine:
il figlio crede impraticabile quanto il padre non ha fatto prima di lui. Terre che dovrebbero essere in piena coltura, sono messe a pascolo: nei luoghi dove giardini dovrebbero mostrare una grande varietà di fiori e frutti, non si trovano che fiori e spine; si seminano legumi e grani minuti sulle coste più favorevoli alla vigna; non si lavora la terra tanto spesso e tanto profondamente quanto bisognerebbe. In Puglia, il granaio del Regno, non si fa che sfiorare un terreno che esigerebbe di essere lavorato in profondità. In alcuni luoghi si seminano delle praterie artificiali, e il prodotto è di qualità assai cattiva, perché il coltivatore ignora il me-
I. Il territorio e gli uomini
Vi
todo di coltura adatto, e non fa una buona selezione della se-
menza. Si semina per due anni di seguito la stessa specie di grano sullo stesso suolo, e così si esaurisce lo 447245, alimento principale della vegetazione. I coltivatori ignoranti credono di cambiare tipo di pianta quando seminano una varietà diversa della stessa specie; questo errore assai pregiudizievole non avrebbe più luogo se essi sapessero distinguere la natura dei vegetali. Allora farebbero seguire alle piante che sviluppano le loro radici orizzontalmente quelle che le spingono perpendicolarmente nel terreno; il primo strato di terra fornirebbe alle une il loro nutrimento nel corso del primo anno, e le altre lo cercherebbero a una maggiore profondità nel corso del secondo anno. Se essi alternassero in questo modo le colture, le loro terre si riposerebbero di anno in anno senza cessare mai di produrre. Ma cosa aspettarsi in agricoltura da un popolo che ne possiede a malapena le prime nozioni! Come meravigliarsi allora se questo paese il quale, nei tempi in cui fioriva la repubblica romana, produceva non soltanto di che nutrire i suoi abitanti, ma anche di che sovvenire ai bisogni di questa repubblica, manchi sovente oggi di alcuni oggetti di prima necessità che è obbligato ad acquistare presso gli stranieri? Una tale decadenza dev'essere senza dubbio attribuita all’ignoranza e all’incuria degli abitanti; ma questa ignoranza e questa incuria non sono forse l’effetto di una cattiva amministrazione e dello scarso interesse che l’antico governo aveva della felicità delle popolazioni? Si vede l’agricoltura prosperare dovunque i principi incoraggino i tentativi nuovi e ricompensino il lavoro e l’industria. La Francia ce ne dà la prova: da tempo l’agricoltura fa progressi, e sotto il regno di Napoleone la si sta portando al grado più alto di perfezione, per le ricompense e gli onori che questo principe si è compiaciuto di accordare ai coltivatori. Bel-
l'esempio senza dubbio, e che sarà seguito dal nostro nuovo Sovrano. In questo modo tutto lascia promettere che il Regno di Napoli non tarderà a giungere al punto più alto di prosperità a cui possa pervenire in rapporto all’agricoltura, che per perfezionarsi domanda solo di essere incoraggiata.
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
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UN INVENTARIO DEI MALI PRESENTI”
[...] Le terre di questo Regno sono per la maggior parte fertilissime, ma ciò nonostante non corrispondono le raccolte al merito delle stesse. Le cause che producono questi mali sono molte, ma si riducono le principali all’ignoranza dei nostri villani che coltivano per istinto e per abitudine, come tessono i ragni e come fabbricano i castori; perché i proprietari anche essi ignoranti abbandonano i campi alla discrezione di gente infedele per trasferirsi nella capitale, o aspirando di divinizzarsi coll’onore del libro d’oro, o per nascondere nella moltitudine e nella confusione le proprie debolezze che secondo il linguaggio dell’effemeridi piacevoli, si dice saper godere della vita!; e finalmente, perché nel nostro Regno, siccome diremo altrove, mancano gli uomini che sono il primo mobile dello stato; malgrado però queste cause e molte altre che altrove si accenneranno, noi abbondiamo, come ha dimostrato il nostro chiarissimo D. Giuseppe Galanti, di ogni sorta di biade, di vini, di oli, di cotoni, di lane, legumi, carne, formaggi etc. Il governo ha guardato sempre con indifferenza quell’agricoltura che ha meritato l’attenzione di tutte le culte nazioni; e se un fiorentino non avesse istituito nella nostra università una cattedra di commercio ch’è quello che vivifica l’agricolitura, questa scienza utilissima non avrebbe avuto una cattedra tra noi, né il meritevolissimo D. Antonio Genovesi ch’era uno dei primi metafisici dell'Europa, sarebbe stato tra noi un cattedratico. Con un tal metodo potea mai l’agricoltura far progressi nel Regno di Napoli? Se in pochi paesi ha ricevuto qualche miglioramento, debbesi questo ripetere dall’energia nazionale che ha cercato sempre di sbarazzarsi delle tenebre dell’ignoranza. [...] Se il governo vuol proteggere l’agricoltura in generale, dev’altresì essere precipua cura dello stesso di aumentare con una maggior premura la produzione di quelle derrate che meglio pro-
sperano nel nostro clima e nelle nostre terre, tanto più che queste derrate sono quelle di prima necessità. Nella produzione di esse * Da Gioacchino Ungaro, Duca di Montejasi, Prospetto economico-politicolegale del Regno di Napoli, Gaetano Raimondi, Napoli 1807, tomo I, capitolo VI Dell’agricoltura, SS XXI-XXXIV.
Anche Tacito nel suo Agricola, $ 21 parla così dei suoi tempi: Etiam habitus nostri honor et frequens toga: paulatimque discessus ad delineamenta vitiorum porticus, balnea, et conviviorum elegantiam: idque apud imperitos humanitas vocabatur,
cum pars servitutis esset.
I Il territorio e gli uomini
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colla metà del travaglio, non dovendosi coartare la natura con una doppia cura, si otterrà un vantaggio quadruplicato. Le piante esotiche fanno spesso la delizia dei giardini, ma le viti, gli oliveti, i gelsi, le biade, i cotoni possono dar la forza per armare degli eserciti e delle flotte che ci faran rispettare dalle altre nazioni. I Romani faceano poco uso del cotone, come rileva Robertson nella nota 24 sulle ricerche istoriche della conoscenza che avevano gli antichi delle Indie; ma l’uso di questo è fatto così universale, che gl’Inglesi soli nel 1769 introdussero negli stati di America, al dir di Shefield, sino a libre 446.643 di cotone. Qual danaro non si toglierebbe agl’Inglesi, se i tanti cotoni che nascono e che potrebbero nascere tra noi, si trasportassero su i legni nazionali in manifatture o grezzi dove più si conviene?? Mi piace qui annoverare gl’inconvenienti particolari che arrestano la fertilità delle nostre terre, proponendo dei mezzi per migliorare la nostra condizione, i quali poi nel secondo tomo di quest’opera vieppiù dettaglierò, riclamare in nome dell’umanità gli aiuti del felicissimo presente governo, senza le cui cure ogni sforzo indicherà ciocché dovrebbe farsi e quello che non si farà giammai. [...] Primo. L’ignoranza che, al dir di Aristotele, è il più gran-
de dei mali, è il primo e forse il maggiore ostacolo che inceppa la nostra economia rurale. A tanto male può riparare la pubblica educazione che somministrerà le cognizioni convenienti per tentare dei progressi. Gioverebbe a tal uopo ancora l’istituzione di più colonie accademiche agrarie nelle provincie, le quali dovrebbero comunicare coll’accademia madre esistente nella capitale. Queste accademie dovrebbero aver fondi corrispondenti al bisogno, e dovrebbe il governo accordare premi reali e premi politici, sempre che il merito degli accademici lo esigesse?. In una mappa ? Parmi che l’abate Mably non abbia tutta la ragione nel credere che le nazioni non potrebbero giovarsi dello stabilimento fatto dall'Inghilterra nel 1660, con cui s’interdissero tutti i porti britannici alle nazioni straniere, quando non portavano o le proprie manifatture o i propri prodotti, se queste nazioni non avessero gran flotte mercantili (Mably, Droit Publig. d’Europ., chap. II, $ 2). Io crederei che ogni nazione dovrebbe giovarsi di una tal disposizione, quando solamente avesse legni sufficienti per poter trasportare le proprie manifatture e le derrate nazionali altrove; ed indi condurre a noi le manifatture e le derrate di cui scarseggiano. Questa disposizione quando si adottasse dalle altre nazioni, farebbe la rovina dell'Inghilterra senza offendere i diritti delle nazioni. 3 Noi ci ridiamo di noi senza aspettare di esser derisi dai viventi dell’anno 2440 perché nelle nostre accademie per consuetudine si ricevono coloro che hanno dell'oro in luogo di merito e dei titoli in luogo di genio, come si esprime il
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
topografica della città di Taranto, che ‘anni sono scrissi per ordine del passato governo, quasi fui vicino a desiderare, per non udir più parlare di accademie di antichità e di poesia, di cui si è fatto tra noi tanto abuso, un collegio nel quale fosse proibito d’insegnare non solo le scienze, ma ancora a leggere ed a scrivere. Un collegio di simil natura fu istituito in Inghilterra da un genio sublime che mal volentieri soffriva il furore di far fortuna per mezzo delle lettere a danno della coltura delle terre, e... ma lasciamo un tal pensiero al Signor Linguet, ed al Signor Rousseau
che vorrebbero condannare tre quarti del genere umano a camminare a quattro piedi o a vegetare4, ed umilio al provvido governo il voto della nazione per unire alle accademie di antichità e di belle lettere quelle di agricoltura, come lo prescrive il Signor Bertrand, per far conoscere ai nostri villani imetodi migliori e le pratiche viziose, per così passare dallo stato dell’essere a quello del buon essere. [...] Secondo. I gran proprietari presentano un altro male alla Mercier [Louis-Sébastien Mercier, L’an deux mille quatre cent quarante. Réve sil en fùt jamais, Londra 1775 — N.d.C.]. Se i desideri dei buoni non debbono rimaner sempre nella classe dei desideri, quando dovesse istituirsi una simile accademia, il principe, il direttore della stessa non dovrebbe esser se non colui che ne ha il merito. Il passato governo formò nella capitale un’accademia di scienze, e per legge fissò che il maggiordomo maggiore pro tempore dovea esserne il principe. Quindi è che spesso avveniva che egli recitava il rosario nell’atto che gli accademici facean pompa del loro sapere. Un giorno si disputava su di un punto che riguardava il buon governo dell’accademia, e questo Signor principe non avendo né il coraggio né il talento da prender parte nella quistione, e volendo avere amici gli accademici divisi di sentimenti, dopo una perenne contraddizione di si e no, pieno di noia per quello che ascoltava senza capire, tra un perpetuo sbadigliare, licenziò la preclara adunanza con un motto latino, volendo anch'esso dar prova di talento, e disse con contegno magistrale ite rzissa est, come mi raccontava D. Michele Sarconi segretario di questa accademia. Tutto questo non mi fa meraviglia, perché quando era una necessità di far principe il maggiordomo maggiore, dovea essere ancora una necessità di fare che i maggiordomi maggiori non fussero scriberenescienti; ma è ben da farsi meraviglia, che anche in Francia in un’epoca a noi vicina sia stato direttore di quella celebre accademia il Vescovo di Senlis il quale non so quanto dovesse valere; ma so però che ho letto un di-
scorso così cattivo, pronunciato dallo stesso Vescovo in occasione di essere stato ammesso un nuovo socio in quella accademia per tanti titoli rispettabile, e che questo discorso forse potea valere quanto l’ite rzissa est del nostro maggiordomo maggiore. Tanto dee succedere laddove al piacere della pigrizia debbe unirsi nello stesso soggetto la ricompensa della virtù ecc. 4 Il Cittadino di Ginevra, meglio ragionando, emendò se stesso, e volle condannar l’abuso e non già l’uso dei talenti (Ezi/., tom. 4., artic. voyages). Il Signor Linguet volle andare più innanzi, e si allontanò dalla verità (Linguet, Du Pain, et du Bled, chap. 24).
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nostra agricoltura: questi alienati dai loro interessi e lontani dalle loro terre sono nell’ignobile necessità di affidar tutto a gente salariata; e chi non sa, come osserva il Signor Necker, che per quanto si adoperi il zelo delle persone che presiedono sul coltivo dei campi, un’amministrazione che ha per fondamento il solo dovere sarà sempre meno felice di quella in cui è impegnato l’interesse di un particolare? Il Signor Mirabeau ed Arturo Young sostengono il sentimento contrario, ma le loro ragioni non hanno altro appoggio, che quello del loro gran nome. Quantunque nel gran quadro che dipingo, io debba considerarmi come un punto a cui mancano tutte le dimensioni politiche, pure ardisco chiamarmi in esempio per sostegno della mia proposizione, e debellar col fatto e Young e Mirabeau; e quando si volesse dar luogo alla verità, resterà a mio favore decisa la quistione. In una gran tenuta, che io comprai non ha guari dal Regio Fisco allodiale, che per ridurre a coltura erano appena sufficienti le ricchezze di Creso, quando col sacrificio di un solo interessato se ne volea trar profitto, l’impossibilità di poter migliorare la parte più sterile di questa tenuta m’impegnò a profonde meditazioni, e queste mi obbligarono a farne tanti piccoli censi colli naturali dei paesi convicini. Scelsi a tal opera gente tre quarti ignuda sulla considerazione che chi nulla possedeva potea entrare solamente a quel gran cimento; animai questa gente, facendo concepire delle magnifiche speranze, perché è pur la speranza la panacea universale, e con delle promesse che dovetti realizzare per loro e per mio vantaggio. Questa gente, che beveva acqua putrida e si nudriva di frutti secchi, e che era infettata da tutti quei vizi che sono il corredo dei selvaggi, fu da me utilmente rigenerata, come dettaglierò nella seconda parte di questa memoria. Mercé questa vantaggiosa operazione,
circa mille e duecento moggi di terra che mi fruttavano appena duecento ducati annui, mi danno nello stato presente al di là di ducati duemila, e mi danno il piacere di veder sussistere per opera mia un migliaio d’individui che ho civilizzato?. In questa occasione potrei dir molto a proposito di quanto Attilio disse a ? Questi valenti agricoltori han fatto fertile un terreno affatto sterile, perché intieramente coperto di
pietre. Questi agricoltori si possono meritamente pro-
fondere di 1 stessi i. che danno gli storici agli antichi abitanti dell’isola di Egina: quest'isola egualmente sterile e petrosa, collo scavare il terreno e nettarlo di pietre, fu resa fertile, per cui gli abitanti meritarono il nome di Mirzidoni, che significa formiche (Arab., 1. VIII, p. 258).
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Cleobolo, a cui fa vedere il primo suo podere, come racconta Platone nel suo viaggio in Italia6. «Vedete egli disse quelle tre casette che sono sulla falda di quel colle che ci sta dirimpetto: sono esse abitate da tre famiglie, tra le quali ho diviso quel terreno che prima era tutto mio. Esse poi han fabbricato quelle case e quei muri di pietre senza calce, che servono ad uso di confini. Quel terreno era prima mal coltivato; io non ne ritraeva che scar-
so incerto prodotto, ed intanto nella mia patria vi erano molti uomini i quali per vivere non avevano bisogno, che di lavoro [...] operando in siffatta guisa io sono diventato ricco ed ho reso felici almeno cinquanta dei miei simili». Felici popoli, quando i gran proprietari possedessero l’incantesimo di saper arricchire nel tempo stesso i loro simili e le loro famiglie. Chi vuol far pompa di eloquenza e di erudizione per sostener il partito dei gran proprietari e non credere all’esempio addotto, vada egli pure nella provincia di Lecce; e quando vedrà tra i sassi dei giardini deliziosi, dica senza timor di mentire: questa è l’opra dei piccoli proprietari, e questa terra appartiene pure al Duca di Monteiasi8.
Laddove dalle stesse vedute è stato mosso il presente governo a censire il Tavoliere di Foggia, mi aspetto che la corona debba riportarne i vantaggi stessi, quando però in questo affare così importante si scansasse l’inconveniente di perpetuare le grandi ° Il mio degno amico D. Vincenzo Cuoco è l’autore di questo viaggio. Il suo cuore e il suo talento non sa occuparsi che del bene dell’umanità, e meriterebbe perciò la riconoscenza dell’uomo. La sua lontananza è un male per la patria; ed è il solo rimprovero che può farsi a questo uomo dotto ed onesto. Nell’atto che si trova sotto il torchio questo primo tomo, l’ottimo Signor Cuoco è ritornato a giovar la patria, ed il provvido governo l’ha promosso alla toga per premiare i suoi talenti e la sua onestà [l’autore si riferisce a Platone.in Italia di V. Cuoco, Pietro Giegler, Milano 1804-1806 — N.d.C.]. ? È celebre il racconto che fa l’amico degli uomini del discorso che tenevasi dai due viaggiatori, che giova qui rammentare. Scommetto, disse uno di questi guardando un terreno incolto, che questo appartiene al feudatario; ed un villano che ivi trovasi, avendo risposto di si, replicò il viaggiatore: Io lo avea supposto nel vederlo ricoverto di rovi e di spine. Il feudatario che tutto ascoltava da sopra un rustico terrazzo ne arrossì, e suddivise il terreno fra molti contadini i quali lo resero a perfetta coltura col vantaggio proprio e del feudatario. 3 L’Achille degli argomenti di cui si servono i fautori delle grandi proprietà, è il timor panico che moltiplicandosi troppo il genere umano, i poderi soffrirebbero tante divisioni finché giungerebbero le parti a frazioni. Questo danno, o non è da temersi, perché i mali fisici troncano spesso le speranze dell’accrescimento delle popolazioni, e perché i mali morali 0. nascere i bisogni per alienare le porzioni dei poderi, o questo danno deve temersi almeno da qui a cento anni, ed in questo tempo mi comprometto di trovare i provvedimenti opportuni per dissipare il timore che inquieta chi protegge le grandi proprietà.
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tenute nei gran proprietari; quando si pensasse di abolire le leggi enfiteutiche, perché simili alle feudali, e distruggere qualunque servitù e soggezione?; e quando finalmente il censo non sarà regolato dall’affitto delle terre date a pascolo, perché non può affatto ignorarsi essere stato quello il prodotto dei monopoli che in quella Regia Dogana vantano prescrizione!?. [...] Terzo. La mancanza di popolazione è il terzo male che affligge la nostra agricoltura, come dimostreremo laddove si parlerà della popolazione: questa colle continue cure di un provvido monarca potrebbe moltiplicarsi!!. Il Conte Verri, autore delle Meditazioni sulla pubblica economia, con molta ragione afferma che in ogni stato dove senza uno straordinario flagello del cielo la popolazione non si aumenta a proporzione della fecondità naturale, convien dire che vi sia tanto difetto di politica quant'è la distanza di quello ch’è a quello che potrebbe essere. [...] Quarto. L'abbandono in cui lasciano nelle provincie i piccoli proprietari e gli.agricoltori è un altro inconveniente che danneggia l’agricoltura: ivi, la classe più utile dello stato, lungi da esser protetta e premiata, è il bersaglio degli assassini, degli esattori fiscali, delle squadre dei tribunali, dei scrivani e della truppa che gira per la conservazione dell’ordine e delle proprietà. Sinora è stato per noi un problema, se più rovina portasse all’agricoltore un assassino o la squadra che l’inseguisse. Il grande Errico quarto ? Nel sistema fissato dal nuovo governo per la censuazione del Tavoliere di Puglia, la riserba del pascolo estivo è un arresto per la bonificazione delle terre. Un censuario delle stesse non potendole bonificare tutte in un tempo, dovrebbe dividere con sufficienti ripari le terre migliorate da quelle che non lo sono per serbarle dal pascolo delle ‘a che mangiano il pascolo estivo, e dal danno dell’uomo che le guida, e questi ripari porterebbero una spesa di conseguenza. E costante sperienza che l’uomo si occupa a render fertili le terre a proporzione della libertà che vi gode. Se scorrete la terra, dice il Montesquieu, vedrete dei vasti deserti nei paesi più benigni e fertili, o delle grandi popolazioni dove il suolo rifiuta ogni lavoro, perché le terre producono a misura ARTO libertà che vi gode l’uomo. 1° Il nostro chiarissimo Signor Delfico opportunamente osserva, in una nota apposta nella sua memoria per l’abolizione dei Regi Stucchi, che il nostro linguaggio economico esprime sempre la mancanza di libertà e lo stato continuo di monopolio e di coazione. 1! Federico Secondo colla protezione accordata all’agricoltura e alle fabbriche e mestieri di ogni sorta, stabilite in Berlino, in Potzdam, e in ogni grande e piccola città dei suoi Stati, in 45 anni del suo regno ha triplicato DI la popolazione, nonostante l’ingiuria del clima. Domenico Caminer assicura che nel 1784 i nati furono 59.162 più dei morti, e nel 1785 furono 53.126. Camminando di questo passo, si fa presto a moltiplicare la popolazione.
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non lasciò mai di occuparsi dal proteggere i contadini dalle soverchierie della truppa, inculcando sempre alla stessa di rispettare gli agricoltori, come quelli, egli dicea, che fanno il mantenimento della corona e della truppa: quest’inconvenienti che talvolta riducono in disperazione i campagnuoli non sono i soli che spopolano le campagne. Chiunque è tormentato dal furore di far fortuna o per liberarsi dalle ingiuste persecuzioni o per far valere i suoi diritti, deve trasferirsi nella capitale, e quivi con tutte quelle prostituzioni che son proprie della corteggianìa, studiare il mezzo per riuscire nel suo intento. L’immortal Chattelux non lascia mai di avvertire che la società è un campo immenso in cui non solo le ricchezze ed i piaceri, ma ancora i desideri e la speranza debbano circolare liberamente; e che ogni linea di tale separazione, ogni argine insuperabile diviene un ostacolo alla felicità del più gran numero. I tempi più felici della Romana Repubblica furono quando fu in pregio la tattica delle terre, e questa non giunse mai a tal punto di perfezione, se non quando fu tolto dalla campagna Cincinnato per esercitare la dittatura, e quando Marco Curio Dentato fu trovato dagli ambasciatori sanniti entro una casetta, assiso a un banco mangiando rape in un piatto di legno. Se l'agricoltura è la base della proprietà, perché mi si nega direzione, nudrizione e protezione, esclamò quel celebre Sforza che da disperato gittò la zappa, e da agricoltore divenne un gran generale di esercito!?. [...] Quinto. La mancanza dei soccorsi fa restare nelle provincie molte terre incolte e moltissime pessimamente coltivate. Il grande Errico quarto soleva dire che il governo è buono, quando non vi sono né uomini né campi inutili. Le cattive raccolte e
tante altre disgrazie volontarie ed involontarie fan sì, che per non lasciare i campi incolti debbasi ricorrere ai soccorsi che danno i negozianti; e quando si è venduto il prodotto del futuro raccolto a prezzi, così detti, alla voce, allora la rovina del proprietario e dell’agricola è già compita!3. Ognun sa che questi !? Il dotto autore del Ragionamento dei Direttori dell’istruzione agraria adattabile alla costituzione della Toscana, vorrebbe che la testimonianza di onore verso i possidenti coltivatori dovesse estendersi a farli distinguere nella promozione ai pubblici impieghi, qualora non manchi loro il resto delle necessarie cognizioni,
e porta in testimonio gli stabilimenti dei Cinesi. Senofonte abbondò pure nella stessa opinione dove propone distintivi lusinghieri ai migliori coltivatori delle campagne.
!? Il Cavaliere Child crede con molta ragione essere una delle cause della
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prezzi, detti alla voce, sono i risultati degl’intrighi e dei monopoli dei negozianti, che incontrano talvolta il sostegno dei magistrati; ma oltre di ciò il coacervo di quei prezzi coi quali vende un folto stuolo di bisognosi, sempre circondati dagli aspri esattori fiscali e da creditori inesorabili, non sarà mai il prezzo naturale ch'è quello con cui vende e compra l’uomo onesto. Quando si occupasse il governo di far trovar pronti i soccorsi agli agricoltori, saranno essi liberi dal giogo mercantile, e potran vendere e variare, come meglio loro conduce, le loro industrie ed i prodotti delle loro terre, cioè di vendere questi prodotti né più né meno di quello convenga, per pagare le loro tasse necessarie, la rendita del terreno, la mercede del travaglio, il profitto dei fondi impiegati alla sua produzione, la preparazione ed il trasporto al mercato ch’è quel prezzo che Smith chiama naturale. In questo caso dunque il venditore ed il compratore, livellando ciascheduno il suo interesse liberamente, faranno che il valore naturale divenghi, secondo dice lo stesso Smith, il valore centrale,
verso del quale gravitano continuamente i prezzi di tutte le derrate, senza che il bisogno ne alteri il valore. Da questi contratti oppressivi, che si dovrebbero eliminare da un paese dove la filosofia e l’umanità siede sul trono, nasce spesso la desolazione delle campagne e il depauperamento degli agricoltori e dei proprietari che producono la metempsicosi di tante famiglie di negozianti che, morte alla povertà, rinascono in seno delle ricchezze. La terra, fa dire al suo Belisario il gran Marmontel, è quella che alimentar deve gli uomini, ma principal cura devesi avere dal governo per alimentare prima quelli che la rendono fertile. Federico secondo re di Prussia istituì nella Slesia un monte per soccorrere gli agricoltori ed i proprietari, e la nazione divenne ricca. In Francia assicura il Signor Necker, che nel 1777 fu eretto un monte di pietà che col vantaggio dell’agricoltura distrusse in parte gl’infami contratti di usura!4. L'istituzione di simili monti, prosperità dell'Olanda il basso prezzo dell’interesse del danaro con cui è soccorso presso di loro il negoziante. Ivi, nell’epoca in cui scriveva quest’autore, il danaro si dava in tempo di pace a non più del tre per cento, ed al quattro in tempo di guerra. 14 Interrogato Catone, come ci fa sapere Cicerone nel libro secondo degli Offici: quid faenerari? Rispose, quid hominem occidere? L’usura è una vera fiamma che distrugge tutte le sostanze dei particolari, e questa fiamma arde da per tutto nel nostrò Regno, non ostante i fulmini scagliati dalla Chiesa e dalla legge. Gli avari non curano questi fulmini e san trovare le strade per farsi amici i giudici
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fondati nelle provincie con leggi convenienti che possono frenare l’avidità dei negozianti e l’impuntualità degli agricoltori e proprietari, produrrebbero anche fra noi gli stessi effetti felicissimi. Nel secondo tomo di questo breve travaglio esporrò i miei pensieri sulla istituzione di questi monti, e vedrà il governo che se non avrò avuto la fortuna di vantaggiare lo Stato, ho sempre abbondato in buone intenzioni per riuscirci. [...] Sesto. Se le società si son formate per garentirsi colla forza aggregata dagl’insulti del più forte, le grandi società sono poi distruttive di quella felicità che fu il fine di una tale unione: convengono e le nazioni che san calcolare i loro vantaggi e presso che tutti gli scrittori di pubblica economia su questo principio. Il Signor Pitt con somma avvedutezza chiama le grandi città le piramidi sepolcrali dei Regni: infatti nelle città grandi il vizio e il sucidume stanno nella ragion diretta della popolazione perché, come insegna l’autore del libro De /’Espriz, il vizio e la scostumatezza amano propagarsi nella moltitudine dove hanno l’occasione di nascondersi nell’infanzia e di non farsi pubblici nell’adolescenza; quindi è che il Signor Wallace ebbe a dire che il genere umano si sarebbe vieppiù moltiplicato, se il bisogno non avrebbe obbligato a fabbricare città!?. Il Signor Maillet, che moldella terra etc. I negozianti onesti sanno di non esser compresi in questa nota; ed io son sempre di accordo con me stesso, profondendo meritati elogi per coloro che sanno onestamente arricchire e loro stessi e la nazione con profonde speculazioni di commercio; e questi stessi non potranno non convenire con me essere
la grande usura l’argomento incontrastabile della pubblica povertà (Essay sur le Moeurs, tom. 2, chap. 39). !° Il Signor Vandermonde, professore dell’istituto nazionale di Parigi, crede che le grandi città e le metropoli inclusive non si debbono considerare come un ostacolo all’agricoltura, e si burla con qualche capriola di spirito del nostro Filangieri che sostiene il contrario. Crede il Vandermonde di sorprendere il Filangieri in contraddizione, e nell'atto che ha la bontà di annunciarlo per un autore chiaro e metodico, annovera fra i suoi meriti una tavola completa della sua opera, ottima per i pappagalli. Ecco in quali bassezze fa discendere la voglia di dir male; ma veniamo più da vicino alla quistione. Dice il dotto francese che il Filangieri, credendo le grandi città perniciose all’agricoltura, contraddice se stesso laddove nel capitolo XXVI del ID. 2 dice: Approssimate gli uomini fra di loro e li renderete industriosi ed attivi; divideteli e li renderete selvaggi ed incapaci ancora di avere l’idea della loro perfettibilità. L’aurea strada di mezzo che ha perduto di vista il francese, fa che debba incomodare con tanta poca grazia i pappagalli per iscrivere una critica insipida e puerile; e se egli riflettesse che il Filangieri voleva che si guardasse il governo dai mali opposti, avrebbe capito che le popolazioni grandi e il rendere pr isolato sono egualmente perniciosi; e che la verità di una proposizione non esclude la verità dell’altra. Invece dunque di addensare in una stessa città un mezzo milione di abitanti, vorrebbe il Filangieri che se ne
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ti anni ha dimorato in Egitto in qualità di console, dice che la fertilità di quel paese debbe rifondersi non tanto alla inondazione del Nilo quanto al gran numero delle popolazioni opportunamente distribuite. Ippotamo Milesio, uno dei più bravi politici e conoscitori della natura umana fra gli antichi, voleva che la città non dovesse contenere più di diecimila abitanti!6. Giovanni d’ Alberto, considerando i danni che produce alla popolazione un’aria spedissero nelle provincie per approssimarli alle campagne, quattrocentomila; ed io non veggo contraddizione nel nostro prefato autore su questo particolare. Egli il Vandermonde, conoscendo la poca ragione colla quale combatte il Filangieri, va mendicando il verisimile, non potendo trovare il vero; e credendo di ragionare, conchiude che se fosse vera la proposizione del Filangieri, l'Inghilterra dovrebbe essere la meno coltivata, perché A sua capitale vanta la popolazione più vasta delle altre città di Europa. Eresia in logica: che le grandi città siano di ostacolo all’agricoltura, e che dove ci sono città grandi non possa esserci agricoltura son due cose tra loro diverse. La coltura dell’Inghilterra si deve alla cura del governo, come altrove si è dimostrato. Lo stesso Vandermonde accenna di passaggio che in Inghilterra i gran proprietari si portano spesso sulle loro tenute; ed avrebbe perciò potuto concludere che se i gran proprietari trascinassero con loro nell’interno del Regno almeno due terzi della popolazione di Londra, potrebbero questi produrre ulteriori vantaggi, e Londra si disfarebbe almeno di tanti bricconi di cui se ne impiccano colà in ogni anno circa duecento e quasi tutti per ladri. Seguita il francese a far uso delle sue fallacie in danno del Filangieri, e vuole che adottando costui la massima dei discepoli di Quesnay, cioè di lasciar fare e di lasciar passare, si contraddica laddove dice nel Capitolo XXI del lib. 2, che il governo deve far consistere tutta la scienza nel conoscere quando deve ordinare e quando deve lasciar fare; e che in ciò il Filangieri si dimostra di buona fede. Se io non credessi che il mordere sia remoto dalla moderazione della mia natura, risponderei che quando il francese volesse ragionare colle leggi della buona critica, dovrebbe convenire per un argomento della sua buona fede che il lasciar passare ed il lasciar far tutto, non esclude che il non far cosa alcuna e il non lasciar passare cosa alcuna, non debba considerarsi per un male opposto. Tacito, parlando di Agricola dice che quel modello di ministri credeva convenirle omnia scire, et non omnia exequi, ch’è appunto quello che intende dire il nostro Filangieri. Errico quarto, quando si vide pacifico possessore del suo Regno, dichiarò apertamente ai nobili di volere che i medesimi si avvezzassero a vivere ciasche‘i nei propri poderi; e che in conseguenza sarebbe stato molto soddisfatto, giacché si Di della pace, che s’andasse a visitare le loro case ed a far fruttare le loro terre. Tutto il contrario s’è praticato fra noi. Lo stato della nostra legislazione e l’intiera nostra costituzione han fatto che si popolasse la capitale a danno delle provincie. Un napolitano non poteva esser compreso nella coscrizione militare; e si è creduto un utile privilegio far difendere i lazzaroni, sempre inutili e perniciosi alla società, col sangue degli agricoltori, cioè di coloro che li nudriscono. Nel 1505 ottenne la città di Napoli di non esser tenuta a pagare
nuova imposizione ex quacumque causa urgente urgentissima etiam se fosse pro statu Reipublicae totius Regni et pro conservatione ipsius. A chi dunque addossare questo peso? Agli agricoltori delle provincie? Che errore! I/ est inconcevable que
dans ce siècle de calculateurs, il n'y en aît pas un que sache voir que la France sarait
plus puissante, si Paris était anneanti (Emzil., tom. 4, lib. 5 des voyages). Giangiacomo dice una verità quando non intende passare dal rzassirzo di Parigi al minimo ripartimento dei baliaggi elvetici.
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corrotta, come per lo più è quella delle città grandi, fece educare Errico quarto nella campagna. Per le cause fisiche e morali succede appunto che nelle campagne l’uomo si moltiplica più agevolmente ed i matrimoni sono più numerosi: ivi un aere elastico e salubre e lo scampo del naufragio de vizi fanno che l’uomo sia chiamato allo stato coniugale dalle voci della natura e non già dalla immaginazione alla quale deve ricorrere l’uomo a cui il vizio ha spento l’energia della natura istessa; ed ivi è dove l’uomo prolunga la sua vita!7. La gente che muore nei paesi grandi e nei piccoli sta come 42 a 25, secondo ha dimostrato Giovanni Gynero in una sua dissertazione Su/ termine della vita, e Massange nelle ricerche Sur la popolation des Generalités d’Avergne, de Lion, de Roven!8. Non ostante l’innegabilità di queste ragioni, l’uomo fugge dalle campagne dove per il pregiudizio prevalente, secondato dal sistema politico del governo, si crede un servo della gleba, e corre in città anche per cercare per i suoi interessi quella giustizia che invano commetterebbe all’opera di un morto memoriale. E pure chi il crederebbe? Per vicenda di moda, l’uomo si premia per ragione inversa dell’utile che produce. Ferdinando secondo nel 1495 accordò alla città di Napoli che i rustici non potessero comprare fondi e che tutti si possedessero dai nobili. Un napolitano per privilegio paga su i beni che possiede nelle provincie meno di quello che pagano i naturali delle stesse. Che questi privilegi si accordassero quando si pensava per metà, è tollerabile, ma non è soffribile poi che nel 1806 vi sia chi insiste per la rinnovazione degli stessi. I privilegi non dovrebbero essere mai ereditari e perpetui; e quando questa regola dovesse subire eccezioni, non si dovrebbe accordare ad alcuno in danno dell’al-
tro; o pure accordarli solamente alla classe più utile dello stato, cioè alla classe dei produttori!?. Io non cerco distruggere le gran1” La vita occupata espone meno i campagnuoli ai vizi che sono l’appannaggio delle società numerose: Dasolitudine, i pochi bisogni, la vita pacifica rendono l’uomo onesto ed attaccato alla sua compagna; onde è poi che si favorisce la propagazione, e s’invita a rigenerarsi (Polztig. naturell., discours 7, $ 19).
$ Se Giuseppe Toaldo, celebre professore ed accademico paduano, e Fontana trovarono nelle di loro tavole di vitalità maggior mortalità nelle campagne che nelle città, essi stessi rifondono gli effetti alle cause morali delle quali ne parleremo altrove; ed io soggiungo alle fisiche ancora: ivi dove da per tutto è travaglio, da per tutto è miseria, perché per un disordine autorizzato dalla consuetudine, il prodotto degli agricoltori non si gode che nelle città, e si lascia nell’oppressione l’agricola. !° Il Signor Necker e l’amico degli uomini con qual enfasi non si spiegano su
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di città, rovesciando intieramente il sistema adottato in Europa;
e molto meno cerco di far eseguire questo piano con subitanee mutazioni che sogliono produrre terribili rivoluzioni, anzi mi dò l’onore di ricordare ai governi dell'Europa, coll’abate Mably, la moderazione e lentezza colla quale la plebe di Roma procedé a riparare i torti ricevuti dalla nobiltà per mezzo dei suoi privilegi, non ostante che avesse la forza in suo potere?0. Un gran politico osserva che un governo provvido ed illuminato dee cercare tutti i mezzi possibili per formare la felicità dello stato; e talvolta dee tacere il fine per cui si avvale di questi mezzi?!. [...] Settimo. Il legame che soffre fra noi il commercio
dei
grani avvilisce i prezzi di questa derrata; e questo avvilimento rovina e gli agricoltori e l’agricoltura. Io sono lungi da desiderare una libertà illimitata a questo commercio, per non lasciare la sorte di un popolo all’arbitrio e all’avidità dei mercanti e proprietari, ma vorrei che il governo in un affare così importante si occupasse per tutto l’anno, senza far conoscere
che si occupa per
poco; perché il far conoscere l’inquietudine del governo è lo stesso che preparare una carestia?2. Vorrei, dunque, che debba osservare chi ha la sorte dei popoli in mano, quanto succede in questo commercio, ed operare il meno che fosse possibile per non arrestare i progressi. Raynal, riprovando il sistema che tenevano i Spagnoli in America, dice: Car le tout gouverner, n’est pas le bien questo articolo? E forse un paradosso, dice il primo, voler che siano onorati i più necessari fra tutti gli uomini? Il più abile agricoltore, egli dice poco dopo, ed il protettore più illuminato dell’agricoltura sono, a cose per tutti i riguardi eguali i due primi uomini della società. Gerone solea dire, se ci era un uomo che facesse produrre due spighe di grano invece di una, lo preferirebbe ad Archimede. Swift, ripetendo lo stesso, disse che preferirebbe costui al genio più politico dell'Europa. 2° Mably, Osservazione sopra i Romani, tom. I, lib. I.
21 E canone in politica rispettare i pregiudizi quando sono universali. La pru-
denza in questi casi deve suggerire dei mezzi per riparare il disordine. Quando il popolo sarà illuminato sul suo vantaggio, benedirà e il principe e i mezzi di cui si è servito per rettificare la di lui opinione senza far uso della forza. L’amor proprio, il più potente seduttore dell’uomo, nel contrasto ingrandisce l'opinione che suol produrre funeste conseguenze; questa col disprezzo s’indebolisce e si distrugge con i lumi sino che si giugne a farla abominare. 22 Dice il Mengotti esatto osservatore di economia pubblica: «Che, a confusione del nostro orgoglio, le cure e le provvidenze per garantire gli stati dalla carestia, generano il più delle volte un effetto contrario». E deve succeder così perché il pubblico avvertito dall'operazione del governo, della probabile mancanza del pane, corre folla a provvedersi di grano, vendendo a tal uopo ancora i cenci; ond’è che il concorso fa incarire il genere, e lo fa ancora sparire: tanta è l'avidità del cuore umano!
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gouverner. Non ci è punto di economia politica in cui siasi tanto
scritto pro e contra, quanto sulla libertà del commercio dei grani. Il nostro Monsignor Galiani che fu ottimo scrittore ogni volta che gli piacque di esserlo, si distinse su questa materia??. Io lascio di tener dietro a questi autori colla memoria erudita, e colla massima brevità azzardo il mio sentimento, e poi nel II tomo farò pubblico il mio piano che forse sarà gradito dall’uomo di stato. Il Signor Conte Carli ha dimostrato con somma avvedutezza in una lettera scritta al Signor Presidente Neri, che in questo affare di tanta importanza debbonsi piuttosto esaminare le particolari circostanze dei rispettivi paesi, che adottare dei piani generali, così celebrati dagli autori, e che si smaltiscono come un capo d’opera di pubblica economia. In Inghilterra, dove si vuol far credere senza gran fondamento che il libero commercio dei grani abbia fatta ricca la nazione, pure non è poi ivi tutto libero questo commercio. Quell’illustre nazione che sa calcolare così bene i suoi
interessi, volle assicurare la necessaria quantità dei grani per i suoi abitanti, e credé di riuscirci con queste due leggi, cioè: primo, che quando il valore del grano oltrepassasse i quarantotto
scellini, ne fosse proibita l'estrazione. Secondo, che il grano non potesse esser caricato che sopra vascelli nazionali24. La prima prescrizione fu variata a proporzione delle circostanze; e quando vide quel governo che nelle terre dissodate per l'abbandono delle cacce e per l’abbattimento delle selve crebbe il prodotto del grano, nel 1699 per un atto del parlamento si stabilì un premio di cinque scellini per chiunque estraeva dal Regno un quartiere di grano. Nonostante tutto ciò, ha così aperto gli occhi l'Inghilterra in questo genere di amministrazione importantissimo che in molti anni ha proibita l'estrazione dei grani25. Il prelibato Conte Carli opina che una libertà assoluta di questo commercio è sostenibile dove il popolo agricola è servo della gleba; ed io sono di ?? Questo ingegno singolare scrisse un libro su tal proposito, che intitolò Dialogues sur commerce des bleds, a cui fu risposto con un Refutation de l’Ouvrage qui a pour titre: Dialogues sur non ha poi il merito del libro del nostro Galiani. 24 Presso a poco fu lo stesso praticato in Francia colazione nell’interno della Francia, ed indi nel 1764 gno.
altro libro che ha per titolo le commerce des bleds, che nel 1763 per la libera cirper la libera uscita dal Re-
? Questa proibizione dal 1693 sino al 1728 si verificò per otto volte; ed in alcuni anni di questi otto giunse il prezzo dei grani sino a scellini 78,6, e si rinnovò poi un’altra volta questa croibibione nel 1769.
I. Il territorio e gli uomini
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opinione che può ancora sostenersi dove ogn’individuo possiede terra da coltivare. Nel primo caso, dice il Carli, il padrone di questi schiavi dopo aver provveduto ai loro bisogni, estrae tutto il resto; e nel secondo, io dico, dopo che ciascheduno tiene del prodotto quello ch’è sufficiente per la sussistenza della famiglia, estrae il rimanente. Nel nostro Regno, dove non vi sono servi della gleba e dove i possidenti sono pochissimi, il governo dovrebbe escogitare degli espedienti per far libero il commercio dei grani donde scaturisce la ricchezza della nazione; e nel tempo stesso trovar dei mezzi per non far mancare la granaglia per la sussistenza del popolo quando o la malizia dell’uomo o il castigo del cielo potrebbe produrre una carestia: dovrebbe ancor esser sollecito il governo, acciò i prezzi di questi generi equilibrassero col fruttato che ricavano gli artieri e gli agricoltori dal rispettivo mestiere, senza però pensare neppur per ombra di ricorrere al rovinoso espediente delle assise. È massima in politica che, non potendosi scansare tutti gl’inconvenienti, un buon sistema si dice quello che ne ha meno; perché nella linea dei mali, il minor male si valuta per un bene; ond’è che un cervello calcolatore deve contentarsi sempre che per approssimazione si avvicini al suo intento. Il metodo sinora tenuto tra noi per l’estrazione dei grani è quello di accordar le tratte, metodo che sempre favorisce i monopoli, che sempre arricchisce gli agenti che han parte nella spedizione, che sempre favorisce il controbando, il quale sconcerta sempre l’idea del governo, triplicando l’uscita dei grani, eluden-
do così il fine per cui fu istituito, come diffusamente ha rilevato il Signor Melchior Gioia nella sua utilissima opera sul Corzzzercio
dei commestibili e caro prezzo del vitto, il quale unisce alle grazie dello scrivere l’esattezza nel dimostrare. [...] Se mi fosse lecito divenire autore di consigli, pregherei il
governo che, mettendo da parte ogni timor panico di carestia, lasciasse libera l’uscita dei grani nel nostro Regno, incoraggiando così l'agricoltura. Vedrà egli presto aumentato il genere a proporzione di quello ch’esce; saprà così sempre le vere quantità dei grani ch’esistono nell’interno, perché non ci sarà interesse ora di nasconderlo ed ora di farlo comparire il triplo. Un governo adunque illuminato deve saper tutto e veder tutto, e deve riserbarsi i mezzi per dare un pronto riparo a qualunque mancanza con quel-
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
la riserbatezza conveniente, come innanzi si è detto?6. Il Sindaco di Monteiasi che non conosce le distanze politiche, perché è un
cieco in politica, simile al cieco di Chefelden che non conosceva le distanze reali, come presagiva il Borkai dopo i sospetti di Molinery e di Locke. Questo Sindaco adunque propose in una sua relazione, diretta al Ministro delle Finanze, dei mezzi per riuscire in questa difficile operazione, tenendo dei pubblici magazzini sempre aperti per prevenire qualunque bisogno; ma quel villano indiscreto, con un perfetto silenzio, fu punito della sua temerità. Una lettera di un Sindaco di un villaggio che per la sua picciolezza ha saputo deludere la curiosità dei geografi sarà sempre in virtù del buon senso un attentato ai titoli di un Eccellen-
tissimo. Nel secondo tomo di questa opera si farà menzione di questo piano, il di cui autore, fa d’uopo prevenirlo, ha rinunziato alla prerogativa dell’infallibilità, prima che lo ideasse. Il pubblico interesse farà nascere dei contraddittori che saran sempre ringraziati, quando le controversie fruttassero il pubblico vantaggio; ma quando poi si facesse per voglia di quistionare, egli si protesta di non voler interrompere le utili operazioni della campagna per alimentare un litigio inutile con discapito del buon costume e dei suoi interessi. [...] Ottavo. Nei tempi in cui la filosofia ha dissipato le tenebre del pregiudizio, parmi che non sia affatto tollerabile di
doversi sostenere a danno dell’agricoltura il delitto proibitivo di caccia. Un tal diritto nel nostro Regno non riconosce più il suo fondamento dalle leggi, ma lo fan esistere la prepotenza e la soverchieria dei baroni. Il nostro Sovrano, con umanissime vedute, ha dato il buon esempio distruggendo alcune cacce reali, ma sarà poi questo esempio imitato? Sintanto che ci saran tra noi leggi dubbie e cavilli nei magistrati, seguiteranno ad esserci cacce proibitive nel Regno. [...] Nono. I boschi infruttuosi defraudano ancora il nutrimento all’uomo??. Per questi boschi, sian essi di comunità o di 2° Il signor Necker nell’elogio che fa del signor Colbert pretende che i re debbano gemere nel vedere uscire i grani dal loro regno; egli dice che gli uomini escono dal regno coi grani; ma io soggiungo, che debbono egualmente gemere nel veder incagliato il commercio dei grani, perché così perisce e l’agricoltura e l’agricoltore. ” Io qui parlo dei boschi infruttuosi, perché per i boschi utili non desidero che si coltivassero. Il Bielfeld vorrebbe, in uno stato ben regolato, né meno di un terzo né più di un quinto di boschi. Io sostengo che noi manchiamo di boschi
I. Il territorio e gli uomini
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particolari, dovrebbe usarsi la forza quando non si volessero rendere a coltura. Il Sovrano, dice il Burlemacchi, non dee soffrire che si acquistino grandi estensioni di campagne per trascurarle: i diritti che accordano ad un proprietario la libera disposizione dei
fondi che non sa formare e bonificare con vantaggio, come contrari ai beni dello stato debbono essere soppressi o limitati. La proprietà, egli prosegue, introdotta fra i cittadini, non toglie il diritto di prendere efficaci misure per far che la totalità del suo terreno fruttasse il più che fosse possibile?28. Nel nostro Regno la negligenza dei particolari e della comunità è favorita dalla legge, dando sopra un istesso terreno lo stesso o più diritti fra più comunità e particolari??. L’odierno arcivescovo di Taranto Monsignor Capecelatro, che io nomino con quei sentimenti di stima e di amore che sono le conseguenze della nostra amicizia e delle virtù sociali ed utili cognizioni di cui egli è adorno, incontrò gli ostacoli della legge per la bonificazione di vaste tenute che la Mensa possedeva in Basilicata. Questi ostacoli che avevano avviliti i suoi antecessori, e che per la via giudiziaria conobbe anch’egli insuperabili, colla moltiplicità degli espedienti di cui è fornito il suo talento, tentò un accomodamento coll’Università collitigante; e, rendendo a coltura le tenute in controversia, ha
fatto ricca e la Mensa e l’Università e lo stato. [...] Decimo. I giardini di delizia e i gran parchi del nostro Regno non formano un oggetto di considerazione, ma non è però soverchio ricordare ai signori che li posseggono, che risulterebbe utili, e che questi sono talmente male distribuiti che da per tutto scarseggia il legname di costruzione; ed in alcuni luoghi del Regno manca ancora il legname da fuoco. Il governo dovrebbe occuparsi della coltura dei boschi, e dovrebbe proteggere la scoperta e l’uso del litantrace di cui si giovano i governi bene organizzati. 28 Non è mio intendimento, io replico, che debbonsi i boschi distruggere, anzi desidererei fra noi quella stessa legge che obbliga i Tartari del Daghestan a piantare un dato numero di alberi per poter prendere moglie. Io intendo qui dire che questi boschi, quando fossero composti di alberi utili, si coltivassero senza essere abbandonati all’uso indiscreto dell’uomo avido e sciocco; e contenessero alberi servibili per costruzioni, o piantar questi alberi, terre a coltura quando la posizione fosse vantaggiosa. Il vantaggio boschi quando sono curati è massimo, come han calcolato i Signori
laddove non o rendere le che danno i Young, Mil-
fort, Stileman etc. ai quali mi riporto. 29 La propriété n'est point anterieure au pacte social; dice il Signor Vandermonde, c’est lui comme l’observe I. I. Rousseau, qui donne au citoyen la propriété de tout «ce qu'il posside». Le droît que chaque particulier a sur son propre fonds, ajoutet-il, est subordonné au droit que la communauté a sur tous.
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
a maggior loro gloria, se sapessero unire l’utile al magnifico, perché finalmente è la ragione che ci autorizza a dire con Fedro: risi utile est quod facimus, stulta est gloria. La veduta di un gran parco, dice l’autore dell’anno 2440, offende i miei sguardi, e non penso che con dolore alla mano malefica che ha renduto quelle terre incolte. [...] Raccolgo in un paragrafo il resto degl’inconvenienti che soffre la nostra agricoltura, in grazia della brevità, tanto più che io non dipingo che un quadro. Undecimo. I proprietari che vivono lontani dalle loro terre senza affittarle producono un danno all’agricoltura, non solo per la scarsa produzione dei frutti, come si è detto, ma ancora perché le spese di amministrazione assorbiscono una gran parte delle rendite. Le leggi dovrebbero favorire gli affitti, e specialmente gli affitti a tempo lungo, annullando la tacita riconduzione che talvolta dissuade ed avvilisce i proprietari assenti a stabilire gli affitti; e la validità di questi affitti non dovrebbe essere sciolta dal contratto di vendita, come
propone Arturo Young, per incoraggiare così gli affittatori. Duodecimo. La proibizione di chiudere i campi o con siepe o con mura o con fossati etc. per una certa comunità di pascoli e comunità di diritti, fa che questi debbano fruttar di meno, giacché è proverbio tra gli agricoltori, che produce più danno un animale in un’ora, e più di un animale un uomo malvagio, del bene che può produrre in un anno un agricola industrioso?°. Decimoterzo. I pubblici demani per esser di tutti, non fruttano ad alcuno, anzi sono essi il seminaio dei litigi rovinosi?!. Decimoquarto. Il poco riguardo che si ha dei contadini, obbligandoli a prestare degli animali per le pubbliche vetture, per cui Costantino, come rilevasi dal Codice Teodosiano, con una legge volle che fossero liberati da queste vessazioni. Decimoquinto. L’inesorabilità degli esattori fiscali e dei creditori, l’esorbitanza delle tasse e l’imprudenza con cui sono stabilite, la violenza del potere fiscale, come 2° Il vantaggio di chiudere i propri campi per difenderli dai ladri e dalle bestie è così conosciuto che tutti gli antichi han creduto consistere in questo il diritto più vantaggioso di proprietà. (Rozier, Corso di agricoltura etc., Parte I, Tom. 6, Delle siepe, e chiuse etc.). ?! Chi conosce l’anatomia del cuore umano riflette che nelle terre comunali succede quello che succede nelle cuccagne. L’avidità ch’è una delle malattie morali dell’uomo fa che ognuno debba escludere tutti gli altri nel profittare di questi terreni, e per conseguenza si fa del prodotto di queste terre un saccheggio, e ognuno sa che il saccheggio fa dei bricconi e non ù ricchi.
I. Il territorio e gli uomini
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sagacemente osserva il dotto Signore Arnould, Presidente della Sezione delle Finanze del Comitato in Parigi, esercitato dagli imperatori romani, trascinò seco la rovina del lor potere nelle Gallie, e, quattordici secoli dopo, la debolezza dello stesso potere, nelle stesse contrade, diede l’occasione alla più stupenda rivoluzione?2. Decimosesto. La mancanza dei mercati fissati in certe date distanze per poter somministrare le occasioni agli agricoltori di vendere il frutto dei loro sudori, e per poter esser provveduti d’istrumenti analoghi alla coltura delle terre e all’esercizio delle arti meccaniche?3. Decimosettimo. Il non rendere le strade rotabili e comode per facilitare l’interna circolazione delle derrate. Decimottavo. La lontananza che divide il giudice di prima istanza dal giudice di appello34. Decimonono. Il non permettere le occupazioni delle terre abbandonate, come con la legge prescrissero Valentiniano, Teodosio ed Arcadio. Vigesimo. Le assise, i
pregiudizi di nobiltà, i maggiorati ed i fedecommessi?5... ma ohimè! dove m’inoltro? I maggiorati ed i diritti feudali sono ancora fra noi tante divinità di cui è proibito il parlarne a noi miseri mortali. Se sul tempio di Epitagora sta scritto: L'ingresso di questi luoghi non è permesso, che alle anime pure: sta scolpito nel tempio di questa divinità, che il parlarne non è permesso che alle anime inette-®, 32 Il signor de Angeul rifonde a questi comodi la preferenza ch'egli dà all’agricoltura inglese sopra la francese. 33 Mr. Arnould, Histoire Générale des Finances de la France, à Paris, an. 1806,
p. 200.
34 Miserum, atque iniquum, ex sacro homines traduci in forum, ab aratro ad subsellia, ab usu rerum rusticarum ad insolitam litem, atque judicium, esclamò Cice-
rone fin dai suoi tempi nell’orazione contro Verre. 3° In un governo ben organizzato tutto dev'essere armonico. Il genio dei nostri tribunali per l’addietro è stato il genio dominante della nazione. Uno scrittore inglese credea, con molta aggiustatezza, che l'Olanda prosperava assai più dell’Inghilterra per molte cause, e mette in secondo luogo che ivi i figli tutti egualmente erano eredi del padre. Child, etc. La nostra legislazione su tal particolare è inconseguente. Punisce l’infanticidio, i delitti e le scostumatezze che sono le conseguenze dei maggiorati, e poi ne proscrive le cause. Ma distruggendo, dicon essi, i maggiorati, saran distrutte le famiglie nobili. E sino a quando, io rispondo, debbesi dare ascolto a queste inette filastrocche? Il governo non dev’occuparsi in primo luogo che della gran famiglia dello stato. Quando nella nobiltà di carta pecora si facessero il valore e le virtù ereditarie, il lustro ed il decoro della stessa crescerebbero sempreppiù. Le ragioni che si adducono in contrario non sono che deliri innalzati ai principi di filosofia. Chi pretende di farle valere in diritto, o che si obblighi di modellar l’uomo diversamente, o che si dichiari il distruttore dell’uomo o l'architetto che lo converte in un mostro. 36 Non posso terminare il capitolo dell’agricoltura senza ricordare il mio ami-
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Il Mezzogiorno agli inizi dell’Ottocento
2. La diffusione del cotone* Nullum lini genus huic candore, et mollitie praefertur (G.B. Portae, Vi/lae, L. XI., C. 54)
Scorsi son già anni sedici, dacché manifestai al pubblico! un onesto mio voto, cioè, che la coltivazion della bambagia, che da
secoli si fa allignare nella nostra Puglia?, si propagasse altresì re/la pianura di Eboli, in tutto il Cilento, nei campi marittimi di Terralavoro, e in altri molti della Puglia, e della Terra di Bari. Il mio desiderio è stato in parte adempito, veggendosi ora una tal pianta prosperamente vegetare, e in gran copia fruttare e nella Torre della Nunziata? miglia IX lungi da Napoli, e in moltissimi altri luoghi non discosti dalla regione medesima. Il profitto che si è cavato, e che tuttavia dagli agricoltori si trae per coltivamento siffatto, vendendosi oggi nella Torre un cantaio di bambagia separata dal seme, fino a ducati dugento, non che l’ottima qualità della stessa, da stare a fronte a tutte quelle di oltremare, ha indotto voglia a non pochi agricoli di volerla, cioè, coltivare nelle altre provincie del Regno. E poiché nella Torre, dove io soglio andar sovente a rusticare, molti errori ho notato su la coltura di questa pianta; e perché altri operar possa con i principi dell’arte, così ho stimato di far cosa grata agli uomini industriosi, scrivendo la presente memoria, la quale potrà servire per avventura non solo ad emendare i difetti che oggi comunemente si commettono co Giovan Battista Gagliardi che fa tanto onore alla sua patria e alla umanità, erché ha saputo rendersi utile coi suoi talenti. Le sue opere sull’agricoltura sono lapruova di quello che io dico in sua lode. Egli ci dà un giornale di agricoltura con tanto applauso dei filosofi. I buoni cittadini vorrebbero vederlo restituito alla patria e possa il Cielo secondare i loro voti. * Da Nicola Columella Onorati, Su/ coltivamento, e su l'industria della bam-
bagia nel Regno di Napoli, in «Atti del Real Istituto d’incoraggiamento alle Scienze Naturali di Napoli», Angelo Trani, Napoli 1818 (memoria letta il 9 dicembre
1810), pp. 1-2; 35-47.
tn ' Nel Vol. II, pag. 5 delle mie Cose Rustiche, ediz. prima, Napoli 1793, presso auto, 8.
? Satis rationem apud Appulos observavimus, ubi copiosissime seritur etc. Così il de celebre Giovan Battista della Porta, che fiorì nel secolo XVI (Villae, L. MCADA)L
? I primi ad introdurre quivi nel 1788 la coltura furono i sacerdoti D. Vincenzo Gargano e il P. Pacifico da Ceppaloni Minor Osservante: il primo nel suo podere irrigatorio, detto Mezza torre, e il secondo nel giardino del convento di S. Gennaro. Questo buon religioso portò seco la sementa da Castello dell’ Abate nel Cilento.
I. Il territorio e gli uomini
ZII
dai nostri villici su tal obbietto, ma bensì di norma a tutti coloro
che vorranno coltivarla nel paese proprio [...]. Comincerò a notare il prodotto della bambagia nella provincia di Napoli, prendendo la norma da quello della Torre; e quindi farò passaggio a quello delle altre provincie. E a procedere con l’ordine dovuto, segnerò prima le spese di coltura e di governo, con indicare il prodotto e il suo valore; e appresso sottraendo le prime dal secondo, avremo la rendita netta di un'dato spazio di terra. Conto delle spese per un moggio di terreno irrigatorio nella Torre della Nunziata.
per affitto per apparecchio del campo
35,00 06,00
per semina
00,60
per diradare le piante
00,30
per due sarchiature, e per cimarla
01,40
per tre irrigazioni
06,60
per sfondarla per coglier la bambagia
01,20 06,00 Dio
Si raccoglie tra annata fertile e infertile un cantaio e mezzo di cotone netto, che venduto nell’anno scorso 1809 ducati 180 il cantaio, sono 270,00
Dalla qual somma tolte le spese Più le altre spese per separarla dal seme restano di guadagno
Sugt0 15,00- 72,10 197,90
Si avverta in questo luogo che, non so a qual relazione il Signor Targioni appoggiato, abbia nelle sue Notizie scritto che la rendita netta di un moggio di terra irrigatoria nella Torre della Nunziata sia di ducati 100 all’anno. Conto delle spese per un moggio di terreno arbustato, e non irrigatorio nella Torre della Nunziata.
per affitto e per spese di apparecchio del campo per semina, per diradamento, per due sarchiature, per
25,00
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
cimare le piante, e per cogliere le noci mature, e immature 08,00
Si raccolgono tra stagion fertile e infertile rotola 50 di bambagia netta che venduta nell’anno scorso ducati 180 il cantaio, sono
più
Dalla qual somma tolte le spese
più per separarla dal seme restano di guadagno
90,00
i
25,00
08,00
04,00-37,00 53,00
Ed avvertiamo che se cade qualche pioggia nella fine di giugno o nei principi di luglio, la raccolta si fa maggiore. Di più avvertiamo che nella Torre da un rotolo di cotone /ordo si hanno once 8 in 9 di cotone netto. Similmente notiamo che lo stesso guadagno si ricava un di presso da un moggio di terra a cotone in Ottaiano, in Sarno, in Nocera, in Angri, in Gragnano, in Ca-
stello a mare, in Scafati etc. che sono paesi che spettano alla provincia di Salerno per la maggior parte. Di tutto il cotone poi che si raccoglie, il più forte, il più bianco, il più netto, o sia quello delle noci aperte naturalmente su le piante; si è venduto ducati 180 il cantaio, e fin a ducati 200; il mediocre, quello cioè delle noci aperte o al sole, o con altro mezzo, ducati 80, 90, e ancor
100; e l’infimo, o sia quello delle ultime noci mezzo guaste e imperfette, che serve per imbottire, o per lavori grossolani, ducati 40 in 50 il cantaio. Inoltre si avverta, che dalla sola Torre si sono estratti nel 1809 cantaia 2.000 e più di cotone netto e che dagli altri paesi ricordati sopra, se ne sono estratti cantaia
10.000, e ancor più. Nulla dico della quantità, che si è raccolta e nella Cava, e nella pianura di Salerno, e in Nola, e in altri luoghi delle due provincie, di Napoli cioè, e di Terralavoro. In ultimo
giova sapere, che nella Torre i prezzi del cotone, da anni 10 in qua, sono stati duc. 60, 70, 80, e 90 il cantaio; e solo da anni 3
fino al 1809, per lo concorso dei compratori francesi, sono arrivati a ducati 150, 180, e fino a 200 il cantaio. [...] E alle altre provincie del Regno facendo passaggio, noteremo, secondo le notizie che abbiamo ricevute, le spese e il guadagno per la coltivazione della bambagia. Nella Basilicata all’Ionio.
Per affitto di un tomolo di terra per 4 arature
02,00 02,40
I. Il territorio e gli uomini
per isvellere la gramigna per due sarchiature, e per cimare la piante per coglier la bambagia
29
00,60 00,80 01,20 7,00
Si hanno tra stagion fertile e infertile rot. 25 di cotone netto, che venduto carl. 10 il rotolo, sono
Dalla qual somma tolte le spese più per separarlo dal seme restano di guadagno
25,00
7,00 1,00-8,00 17,00
Si noti che nella Basilicata il fitto di un tomolo di terra non irrigatoria, secondo i luoghi, varia di prezzo, come da carlini 12 fino a 25. Nei paesi poi che godono del beneficio dell’irrigazione dei due fiumi Aciri e Siri come in Tursi, in Rotondella, in Montalbano, in S. Arcangelo etc. le spese per un tomolo di terra ascendono fino a ducati 20; e il guadagno netto arriva fino a ducati 50 in 60, giacché da un tomolo di terreno irrigatorio, che si dà a fitto ducati 4, si hanno fino a rotoli 80 di cotone netto. E diciamo lo stesso delle due provincie di Calabria, o sia di quei paesi, nei quali evvi coltivamento siffatto, cioè del cotone erbaceo. Non posso assicurare con certezza la quantità di bambagia che si raccoglie ogni anno nelle due Calabrie e nella Basilicata. Solo dico, con qualche verisimilitudine, che in 24 e più paesi bambagiferi della Calabria ultra si raccolgono cantaia 8.000 in circa di cotone, in quella di Cosenza, ove ristretta n’è la coltura, più di cantaia 300, e nella Basilicata cantaia 12.000 in circa, che si ricava da comuni 20, e ancor più. Nella provincia di Bari.
Per affitto di un tomolo di terra non irrigatorio Per 4 arature, e tutte le altre operazioni, indicate nel n. VIII*
Si raccolgono tra il più, e il meno rotola 30 di cotone netto, che venduto car. 10 il rot. sono Dalla qual somma tolti
5,00 8,20
30,00
N20
è Dopo l’aratura ordinaria, il terreno viene rivoltato in profondità e liberato dalle radici (cap. III, $ VII).
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
Più tolti Più per separazione dal seme Restano di guadagno
i
8,20 2,40-15,60 14,40
Questo calcolo si dee intendere per lo cotone erbaceo poiché il cotone turchesco, spezialmente quello a color isabella, si suole vendere un carlino, e ancora due più il rotolo. Dalle Notizie raccolte dal Sig. Targioni si rileva, secondo il rapporto di quell’Intendente, che nella provincia di Bari si raccolgono cantaia 766 di cotone proveniente da comuni 42, fra i quali si distinguono per tal coltivamento quei di Canosa, di Rutigliano, di Corato, di Noia, di Barletta e di Bari. Questo calcolo però si vuole rettificare. Il prelato di Canosa Monsignor Forges Davanzati mi assicurò che anni indietro entrarono in quel Comune circa ducati 24.000 per cotone venduto. Quindi la raccolta della bambagia nella Terra di Bari si può valutare per cantaia 12.000. Confesso che oggi per lo poco commercio di mare in tutte le provincie del Regno una tal coltivazione sia diminuita; ma per lo consumo nazionale, il prodotto non è sì scarso come da taluni si crede. E giova sapere che nella provincia di cui parliamo, da libbre 6 di cotone ordinario /ordo, se ne cava una libbra netta; e per lo contrario bastano per ottenere la stessa quantità d’una libbra, libbre 3 di cotone a color isabella. In genere il coton turchesco sì bianco che colorato ha più lana e meno semenza in paragone dell’erbaceo. La coltura della bambagia è molto estesa nella provincia di Lecce. Il metodo, secondo il Signor Biseglia, non differisce da quello della Terra di Bari. Non essendovi acqua da irrigare, possiam dire che il prodotto, o sia il guadagno, è lo stesso nelle due provincie lodate. La quantità però della raccolta si vuole dire maggiore nella Terra di Otranto, e che si può fare ascendere a cantaia 16.000, perciocché in essa le manifatture di cotone sono moltissime e varie, come si
dirà appresso. Sicché unendo insieme tutte le somme predette, che noi diciamo di approssimazione, avremo: Dalla provincia di Napoli e dagli altri luoghi vicini cantaia Dalla Calabria ultra Dalla Calabria citra
12.000 8.000 300
I. Il territorio e gli uomini
Dalla Basilicata Dalla Terra di Bari Dalla Terra di Otranto In tutto
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12.000 12.000 16.000 60.300
[...] E venendo alle qualità del nostro cotone, io ho osservato: 1, che la bambagia dei terreni non irrigatori è più forte di quella delle terre irrigue; 2, che una tal fortezza si scorge anche nel cotone erbaceo (che pur meglio riesce nei lavori) in confronto del turchesco sì bianco, che a color isabella; 3, che i terreni a base arenosa, come nella Calabria ultra, danno cotone debole, e non molto bianco; 4, che ove domina l’argilla bianca la bambagia prende un color cenericcio, e un color flavo ove domina l’argilla rossa, come avviene nella Basilicata, nella Calabria citra, e in Salerno; 5, che nelle terre a base calcarea, come in Bari e in Lecce, il cotone riesce aspretto al tatto, e il suo colore inclina al piombino; 6, finalmente, che nei terreni ove la cenere vulcanica unita a molto terriccio non manca, come intorno al Vesuvio e a qualche intervallo da esso, il cotone riesce bianco, leggiere, mor-
bido, e di giusta consistenza: esso conservato senza il seme in luogo asciutto, è difeso dalla polvere, acquista dopo un anno disposizioni tali ad essere impiegato nei lavori più fini e gentili. Ed avvertiamo in questo luogo, che alla poca bianchezza della bambagia delle nostre provincie concorre moltissimo il sistema di separarla dal seme dopo molti mesi, e talora dopo qualche anno, con tenerla anche ammonticchiata, e calcata in magazzini alle volte umidi, e ben spesso sorditi. [...] In quanto alle manifatture nazionali di cotone, nella Ter-
ra di Otranto si nominano con lode le felpe o vellutini di Taranto, le calzette di Francavilla, le coperte da letto di Nardò, le tele, la biancheria da tavola all’uso di Fiandra, e le mossoline e larghe e strette di Gallipoli, di Galatone, di Casarano, di Parabita etc. E se quelle rzossoline, che pur si vendono carlini 3 il palmo, non divenissero crespe (forse per la filatura del cotone a fuso), sareb-
bero di pregio maggiore. E si ricordano anche con lode nelle, o sia il filo finissimo di Monopoli, di Taranto, e altri paesi, un rotolo del quale si vende circa ducati 10, lo scottino, o sia fianzina, composta di bambagia, che stame, e di lana gentile, che serve di trama, di Tricase,
le ventidi molti non che serve di di Gala-
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tina, di Nardò, di Galatone etc. In detti paesi lodatissimi sono
altresì i guanti, le calzette, e le tele da fare giubboni, che si lavorano con bambagia unita ai peli di lepre o di coniglio. Nella Terra di Bari all’infuori del filo finissimo e bianco per ricamo, che viene anche in Napoli, con vendersi carlini cinque l’oncia, non abbiamo lavori di bambagia che sieno ricercati almeno dagli altri nazionali. Le varie manifatture, non escluse le stoffe di color isabella, servono per uso dei provinciali. Un tal colore poi, siccome il Canonico Giovene ne assicura, non solo resiste alla lesciva di cenere e al sapone, ma bensì gli alcali lo rendono più forte, e gli acidi, benché lo dilavino, pure lo fanno di aspetto migliore. La tinta in nero regge su di questa specie di cotone meglio assai che sopra tutte le altre di color bianco. In Basilicata si reputa la
fiannina o sia scottino (ch'è composto di lana gentile e di cotone come sopra) di Ferrandina, paese in cui è nata simil manifattura, e dal quale negli anni passati ne sono uscite in ciascun anno fino a canne 12.000; la tela di Pisticci, e di S. Arcangelo; e il filo sottile, come la ventizella, di Tursi, di Rotondella, e di Colobraro. Le matasse colà si appellano rzorsel/le. In Tursi si lavorano anche delle coperte da letto, che possono stare a fronte a quelle di Nardò. Nella provincia di Cosenza si ricordano con qualche lode le fasce per i bambini e la biancheria da tavola, ch’è tutta di cotone, della città di Cassano, come pure la saietta di Castrovillari, ch'è composta di lana e di cotone; e in quella della Calabria Ulteriore si lodano le coperte da letto di Parghelia, di Briatico, e di Tropea. Quindi a torto il Signor Targioni, non ben interpretando l’articolo dell’ Enciclopedia Metodica, attribuisce nelle sue Notizie le manifatture delle Calabrie alle due provincie, di Bari cioè, e di Otranto. Egli però riferisce una lettera dei 16 marzo 1808 del Signor Mario Amato, con la quale fa sapere di aver egli promosso in Catanzaro la fabbrica delle tele di cotone all’uso di Malta, con diversi concerti, e con colori differenti. Finalmente sono degne di tutta la lode le manifatture della città della Cava, che da tempo antico col cotone e netto, e filato di tutte le pro-
vincie bambagifere del Regno, ha lavorato, e lavora non solo biancheria da tavola all’uso di Fiandra, che si comprava fin anche dagl’inglesi, ma ancor tovaglie da asciugar le mani e la faccia, dobletti, frustagni, nankin, nankinetti, a color isabella rigatini, trapunti, e cose simili. In molte di tali manifatture ha luogo anche il lino. Negli anni passati si lavoravano in detta città fino a
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cantaia 25.000 di cotone. Finalmente per opera del Sig. Caparo si è introdotto in Napoli da alcuni anni in qua un filo finissimo di cotone, ottimo e per ricamo, e per farne calzette al telaio, le quali riescono bellissime. Nella capitale poi da tempo antico si fabbricano le tele bambagine fortissime per le vele tanto ad uso delle barche piccole che delle navi. Io confesso che tutte le nostre manifatture di cotone sono ancora nella loro infanzia. Presso di noi mancano le macchine per cardare e per filare. L’arte del tintore non ancora si è perfezionata. E noi speriamo che distendendosi nelle provincie i lumi delle scienze naturali dirette al miglioramento delle arti e dei mestieri, possano col volgere del tempo vedersi fra noi condotti a perfezione le mossoline, che si avvicinino a quelle di Bengala, e imalcati e i malcatini, uguali ai basen d’Inghilterra e di Francia, e i vellutini, non dissimili di quei di Roven, e di Amiens, e di tutti gli altri lavori nostri. Le nostre tele bambagine avrebbero maggiore spaccio nella nazione, se coloro che oggi fanno uso di camiciolette di lana a corpo nudo, sì nell’inverno, che nell’estate,
si determinassero a sostituire quelle di cotone, il quale assorbisce il sudore più del lino e della canapa, e tiene aperti i pori della pelle, che pur si conserva asciutta, con frenare le calde esalazioni che noi spiriamo. I più dilicati, potrebbero avvalersi delle tele bambagine tessute a metà col lino. Tutti gli Orientali, ed ancora gli Europei stabiliti nelle colonie, per biancheria da corpo non adoperano altro che manifatture di cotone, come i nostri provinciali in quei luoghi nei quali una tal pianta si coltiva. Dagli stracci poi di bambagia si potrebbe fabbricare la carta, imitando l’esempio dei popoli dell’ Asia, buona per scrivere, per lo disegno, per la pittura, per la stampa, per la decorazione degli appartamenti, e per sostituirsi ai vetri delle finestre. In somma noi abbiam un genere, che difficilissimamente si può coltivare, e nel restante dell’Italia, e ancor nella Francia, e che può formare buona parte della ricchezza nazionale. [...] Ora veniamo al commercio di cotone. In tempo che la navigazione non incontrava ostacoli, quasi tutta la bambagia di nove paesi della Calabria Ulteriore verso il Mar Ionio, e buona parte di quella delle due provincie di Bari e di Lecce, si trasportava in Trieste. Quella poi di Basilicata e dei paesi al mare opposto della stessa Calabria, con altra porzione delle due Terre di
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Bari e di Otranto, veniva in Napoli e nella vicina città della Cava; donde e grezza, e lavorata si distendeva nelle altre provincie del Regno, e per tutta l’Italia. I nostri Scillitani e i Tropeani commerciavano con Genova, con Marsiglia, e con Livorno, ven-
dendo da per tutto, e filo, e calzette, e berrettini, e coperte di cotone. Quasi tutta la bambagia poi della provincia di Napoli, e quella dei luoghi vicini, da alcuni anni in qua vien trasportata per terra nella Francia. Il prezzo di simil genere, superiore a quello di tutti gli altri prodotti del campo, ha determinato moltissimi a una tal coltura. Tutte le nostre terre lungo i tre mari cioè il Ionio, l'Adriatico, e il Tirreno, fino a certa distanza da essi, si vedranno ben presto coverti dalla pianta del cotone; e noi oltre al proprio comodo e consumo, e a quello di tutta l’Italia, saremo nella felice circostanza di somministrare abbondantemente cotone e bianco, e a color isabella alle fabbriche francesi di Roven, di Amiens, di Rubaix, di Caux, di Parigi con i suoi contorni, di Caen, di Alenzon, di Maine, e di Bearu. Dai quali paesi poi vengono a noi le mossoline, e calicut, e mollettoni, e frustagni, e fazzoletti, e basen, e piques, e trapunti, e crespogni, e nankin, e velluti etc.
3. Le acque e i boschi* L’acqua, sostanza tanto necessaria alla vegetazione ed alla vita, tanto utile agli uomini, ove sappiano impiegarla alle arti ed ai comodi cui in molte guise si presta, merita la più seria e costante attenzione di qualunque ben ordinato popolo; poiché se vien trascurata, con l’abbondanza e con l’impeto divien cagione di guasto e di rovine per le campagne e per le città; e se poi viene a mancare in qualche tempo dell’anno, fa languire la vegetazione e gli esseri viventi. Dobbiamo intanto con dispiacere confessare essere stata sì grande la non curanza dei nostri avi e la nostra intorno alle acque, che è già grantempo che siamo ridotti al deplorabile stato di soffrire tutti i mali, che dalla cattiva economia di questa salutare sostanza ove abbondi, o dalla sua penuria in alcuni luoghi si pos* Da Teodoro Monticelli, Merzoria sull'economia delle acque da ristabilirsi nel Regno di Napoli, Stamperia Reale, Napoli 1809, pp. 1-3, 8-15, 18-28.
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sano aspettare; e questi mali tanto più sono terribili e funesti, quantoché sotto un clima caldo come il nostro, la scarsezza dell’acqua è insopportabile, e l'abbondanza vi genera delle paludi che, infettando l’aria con i loro effluvi, tolgono il vigore e la sanità agli abitanti, ne accorciano miseramente la vita, e distruggono le intere popolazioni. Se tante sono le funeste conseguenze della negligenza dell’uomo intorno a questa sostanza, come io intraprendo a dimostrare; se questa negligenza è così generale nel nostro Regno, che non vi è in esso quasi alcun angolo che non ne risenta più o meno i tristi effetti; credo poter con ogni sicurezza affermare essere questa la cagione fisica delle nostre calamità, e di quella depressione in cui gemiamo da 20 secoli in qua rispetto alla popolazione, alla pastorizia ed alla agricoltura: depressione, nella quale resteremo, fintantoché gli sforzi della nazione e del governo non si uniranno a restituire a questo bel paese, con una saggia economia delle acque, la salubrità che vi si godeva nei secoli floridissimi della Magna Grecia, e del Sannio. Il nostro Regno è formato dagli Appennini che, venendo dall’Italia superiore, tendono in retta linea al mar Ionio e, biforcandosi all’estremità della lor lunga catena, scendono a fare sponda all’Adriatico, al Ionio stesso, ed al Tirreno, che lo circondano. Intorno all’eccelsa loro schiena questi monti ramificandosi serrano molte e ristrette valli; si diradano nell’allargarsi, e i colli già meno orgogliosi circoscrivono più spaziose ed amene vallate le quali si aprono finalmente fra le ultime ramificazioni dell’immenso tronco nell’estreme pianure attraversate da fiumi!, e bagnate dal mare. I ruscelli, che da ogni parte scendono dai monti, e riunendosi nelle pianure, formano dei fiumi, inaffiano un terreno fertile, il
quale dall’aria tepida del nostro bel clima è in tal modo vivificato, che vi si verifica strettamente quel che il Poeta cantò dell’Italia: Heic ver assiduum atque alienis mensibus aestas: Bis gravidae pecudes: bis pomis utilis arbor.
Questa felice nostra situazione non solo ci rende ricchi di 1 Le nostre pianure più ragguardevoli sono intorno ai fiumi o ai torrenti, ove sboccano in mare. Tra i monti ve ne sono ancora, ma meno estese. Avremo occasione d’indicarne le principali in appresso.
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esquisiti indigeni prodotti, ma ci permette di naturalizzare ancora fra noi molte piante e molti animali dell'Asia, dell’Africa e del nuovo mondo; ed il mare pescoso su tutte le nostre coste, trasportando sulle sue onde i nostri prodotti, ne promuove la riproduzione, rendendoci tributaria l'industria di quelle nazioni cui la natura è stata meno benefica. Come l’asta di Achille, che morte e vita insieme arrecava,
così la situazione ed il clima del nostro Regno, che la natura sembra aver accoppiati a bella posta per moltiplicarvi le ricchezze e la vita, ci espongono, se male li curiamo, a soffrire gli effetti di un calore molesto ed eccedente: gli effetti dei monti vulcanici e di quelli che rinchiudono miniere metalliche, tanto risguardo al suolo, che i primi spesso rovesciano con i tremuoti, quanto risguardo all’atmosfera, di cui con le loro svariate attrazioni elettriche rendono le vicende frequentissime, irregolari, dannose: gli effetti dei frequenti sensibilissimi passaggi dal caldo al freddo, e viceversa; quelli del grave soffio dei venti meridionali, e finalmente quelli dei bassi fondi presso del litorale che dall’impeto
dei marosi superati convertonsi in salmastre paludi, e delle altre paludi ancora che le acque correnti, o le pioggie formano ovunque, quando prive di argini o di scolo ristagnano. Da questi principali disordini, secondo le osservazioni dell’esatto Thouvenel, autore del Trattato sul clima d’Italia, coronato dall’ Accademia di Roma nel 1797, deriva il mefitismo dell’atmosfera nell'autunno
e nei mesi caldi in tutt’i paesi, la cui media temperatura eccede i dieci gradi del termometro di Reaumur, mefitismo, che si accresce in proporzione della gravezza delle cagioni da cui è generato.[cal: E perché non si credano esagerati poeticamente i nostri mali, scorriamo il litorale e le pianure del Regno, scorriamone le valli
ed i monti. Per ogni dove troveremo laghi e paludi: ovunque vedremo monti e colli interamente denudati di piante, o vicini ad esserlo, e nelle grandi pianure vedremo dei deserti aridi nell’estate, monotoni, infelici. Chiunque conosce il nostro litorale converrà di leggieri che sia assai più breve descriverne le parti salubri e non paludose, che enunciare le insalubri e ristagnanti. Si può anche con franchezza affermare che le sole parti ove la natura arresta la forza delle acque per essere montuose
o elevate siano rimaste asciutte e
sgombrate di stagni malsani. Non vi è luogo del litorale in cui la
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mano dell’uomo abbia con l’industria sottratto le terre all'impero delle acque, benché sarebbe stato facilissimo, non essendo le nostre maremme della natura di quelle della Toscana, e particolarmente del Senese, dove le paludi occupano immensi tratti per essersi con le arene formate altissime dune sul lido, le quali impediscono lo scarico dei fiumi nel mare: la parte più difficile a disseccar nel nostro Regno è quella appunto, che lo è stata tanto felicemente, parlo della bella pianura da Nola ad Aversa, la quale era una vasta palude renduta asciutta coll’incanalamento dei così detti lagni. Quest'opera, glorioso monumento del genio liberale del Conte di Lemos, è il più gran bene che a mio credere i Viceré, i quali ci fecero tanto male, abbiano arrecato alla provincia di Terra di Lavoro. Si può anche accertare, che nessun luogo paludoso del Regno presenta al suo disseccamento tanti ostacoli, quanti ne offriva quella pianura. Qual è dunque il litorale asciutto e salubre del Regno? Prescindendo dai bassi fondi del mare, e dai guasti che a danno del nostro suolo produce in alcuni luoghi, come può osservarsi sulle carte idrografiche, nella Campania godono di questo vantaggio la costiera di Gaeta, ed il cratere di Napoli dalla punta di Posillipo sino a quella della Campanella. Ai Bagnuoli però, cioè alle porte istesse della capitale, a Baia, a Cuma e per tutto il resto si respira nell’estate e nell'autunno la morte per l’aria palustre. Nel Principato Citeriore la costiera d’Amalfi e qualche punto del Cilento sono asciutte e salubri. Le risiere troppo vicine a Salerno aggiungono forza ai mali delle paludi che ne infettano le coste. Nella Basilicata e nelle Calabrie sul mar Tirreno da Maratea sino ad Amantea, nel breve tratto d’intorno al capo Vaticano, e finalmente da Scilla a Reggio non vi sono paludi e l’aria è salubre. Tutto il litorale poi di queste tre provincie sul mar Ionio, ad eccezione di pochissimi punti, deesi riguardare d’aere malsano in qualsivoglia luogo per copia d’acque, e per lo più per incuria di dar loro lo scolo. Nella provincia di Lecce, Taranto ed il Capo di Lecce né pur tutto, si posson considerare come salubri e senza paludi. L’Avetrana, la Limina, tutto il tratto da Otranto a Brindisi sino alla distrutta Egnazia formano una costa ripiena di paludi e malsana. La terra di Bari, come più popolata, e meglio coltivata specialmente sul litorale, dal quale si suol togliere l’alga per adoprar-
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la come concime nei campi, non soffre danno di paludi se non alla foce dell'Ofanto, ed in qualche altro piccolo punto dell’interno. Nella Capitanata, porzione del litorale del Gargano e l’estremità della provincia verso le foci del Tiferno sono soltanto asciutte e salubri. Presso le foci di Fortore, presso Lesina, Varano, Viesti, e sin sotto Manfredonia si respira la morte. Nelle coste finalmente degli Abruzzi le sole vicinanze di Vasto e di Giulianova non risentono i potenti effetti delle paludi che ingombrano quel lungo litorale fino al Tronto. Né le nostre pianure sono più felici delle coste. Quelle dell’Acerra, di Patria, di Castel Volturno, di Mondragone, di Vico di Pantano, di Sessa, di Fondi sono quasi sommerse. Le pianure del Teramano e della Pescara, la piana di Eboli, le pianure di Maida, di Rosarno, di Seminara, il Marchesato di Cotrone, le pianure d’intorno all’ Acri, al Siri, al Bradano, d’intorno a Brin-
disi, Otranto, Avetrana, e l’ampio Tavoliere di Puglia sono piene di acque ristagnanti, ed hanno laghi micidiali. I valli di Crati, di Cosenza, di Diano, di Capaccio, di Venosa e di Sulmona sono egualmente infelici. Non abbiamo fiume o ? Cerco scusa ai miei leggitori se li tratterrò qualche momento ad individuare l'estensione delle principali nostre pianure malsane, e se ricorderò i nomi delle principali floridissime Repubbliche, o città, che un tempo le covrivano. Servirà questa esposizione per farci comprendere quel che dobbiamo fare per ritornare alla pristina grandezza, e per conoscere la gravezza del male, che scioccamente tolleriamo senza darci riparo. Cominciando a scorrere il Regno dal suo confine settentrionale, abbiamo le pianure lungo il corso del Tronto, del Vomano, del
Salino, dell’ Aterno, del Trigno, del Sangro, le quali per lunghezza mediterranea si estendono per circa 90 miglia, ed hanno diversa larghezza, che può considerarsi di miglia tre in quattro circa. Queste nel Teramano sono tutte pestifere, e se tali generalmente non sono nella provincia di Chieti, non cessano di esser per lo più malsane. Teramo, Atri, Pescara, Lanciano, Vasto, Castel di Sangro cosa mai ora sono in paragone delle amplissime città Interamnia, Adria, Aterno; Anxano, Istonio, e Saro, che più non esiste? A Corfinio, a Valeria, ad Amiterno abbiamo sostituito villaggi piuttosto che città, e non avvene in quelle regioni alcuna che le uguagli. Non parlo dell'interno dei Marzi, e dei Peligni e dei Vestini; Boiano, Sepino, Telese, Alife, e tante altre città del Sannio nelle sue valli sono interamente distrutte o serbano i ruderi dell’antica grandezza. Succede agli Abruzzi ed al Sannio il gran Tavoliere di Puglia lungo 70 miglia e 40 largo. Coverto un tempo di forti, e popolose città, come Gorione, Erdonia, Teano, Buca, Gaudia, Betavio, Usconio, Ferentia, Argyrippa, Uria, che più non esistono, e di tante altre, che dell’antica opulenza serbano solo il nome, ci rimprovera la nostra oscitanza, e ce ne punisce coll’infezione dell’aere che vi si respira. Se la provincia di Bari si presenta in un aspetto più ridente e felice, pure intorno alla distrutta Salpe e lungo il corso dell'Ofanto risente i danni dell’aria palustre, né ha una città magnifica e grande, come l’antica Canosa e Rubo.
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torrente, che non formi delle paludi, o dei laghi, di cui alcuni crescono e si estendono, come il Fucino che sta per ingoiare l’intera bella valle di Celano, già in gran parte sommersa. Giunge la nostra oscitanza a tal segno, che ad Aquino, per non essersi allacciate le acque di un antico acquedotto, che vanno a sbaraglio, si soffre l’incomodo dell’aria palustre, come si soffre in tanti altri La così detta Terra di Otranto dai contorni di questa città per Valeso e Brindisi sino ad Egnazia ha una pianura sul mare, cui si può francamente dare la media larghezza di 6 in 7 miglia su 80 di lunghezza; infetta ove più ove meno di mefitismo, è derelitta e deserta. Egnazia, Valeso, Nereto, Basta ed altre illustri città la decoravano un tempo; e nell’interno Salento, Ruggie, Manduria, Oria e Vereto. Tutte queste città or più non sono, o appena meritano il nome di città; e la famosa e ricca Taranto è ristretta nel castello dell’antica città; Brindisi cade per vetustà ed abbandono; Oria non è più sede dei Re. Senza trattenerci a noverare le piccole pianure anche malsane nel Capo detto di Lecce, e quella dell’ Avetrana, passiamo alla Basilicata la cui gran pianura sul Jonio è lunga 24 miglia, larga 8 in dieci. Qui era Metaponto, ed Eraclea, e Pandosia Lucana, con due fiumi navigabili oltre del Bradano. Seguitando a scorrere per lo stesso litorale, da Albidona sino a Cariati si mostra la bella pianura di Sibari, oggi di Cassano; lunga 30 miglia sull’ampiezza di tre in circa, era la sede d’un’immensa, doviziosa e molle popolazione, od or appesta i viventi in essa e nei paesi circonvicini. L'ampia pianura di Cotrone detta il Marchesato ha 7 in 8 miglia di larghezza media, si estende per 60 miglia di lunghezza e, bagnata dal Nieto, dall’Esaro, dal Crotalo, è divenuta misera e malsana, quando nei tempi antichi era distinta per la sua salubrità egualmente che per la sede dei Pitagorici e per la sorprendente sua popolazione. Seguon Caulonia e Locri con le loro più ristrette adiacenze; niuno paragonerà a quelle il nostro Castel Vetere, e Gerace. Tralasciando poi i contorni felicissimi di Reggio, che dovremmo considerare come un dono particolare della natura, perché alla purità del clima risponde la fecondità del suolo ed una temperatura che non giunge mai al gelo, ond’esser potrebbe il semenzaio delle piante esotiche, ed il giardino dell’universo, tralasciando Reggio, e la piana da Hipponio, or Monteleone, che conserva la sua salubrità, non possiamo che rattristarci all’aspetto delle pianure di Seminara e di Maida: stendesi quella per 24 miglia sulla larghezza di circa 10, e questa per 20 miglia con la larghezza di 4; ambe sono così infette dal mefitismo, che dagli abitanti nell’estate e nell’autunno si ha forse egual bisogno della chinachina che del pane. Scomparvero da queste regioni Clampezia, Terina, Temessa, Lamezia, Pandosia ed altre città, mal rimpiazzate dalle languenti attuali popolazioni. Ov’eran Velia e Possidonia, nomi cari alla filosofia ed alle belle arti, per una pianura di 20 miglia e più, per sei o sette di larghezza media, non si vede altro che un deserto micidiale, e gli avanzi gloriosi di Pesto. Il Vallo di Cosenza, lungo 30 miglia e cinque in sei largo, la Piana d’Eboli e Capaccio con Persano, che ha un’estensione di 139 mila moggia, sono parimenti infette dal più nero mefitismo. Finalmente da Miseno a Baia, Cuma, Linterno, Volturno, Minturna, fino a Fondi, quante illustri città non mancano, e qual n’è la desolazione per le acque stagnanti? Pozzuoli, Acerra, Nola, e Capua cosa mai sono al paragone con le antiche? Se E su questa regione si è oltremodo ingrandita, non è che n’abbia assorbite le popolazioni. Gli ampi e feracissimi territori che le arricchivano esistono sommersi in parte, in parte paludosi, e mal coltivati. Potrei parlare del Piano di Venosa lungo 20 miglia, di quello di Marsico lungo 12, della Valle di Benevento, di Sulmone, di Carsoli etc., ma le addotte
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paesi, ove sarebbe agevolissimo il liberarsene con picciolo sforzo, e minore dispendio. Da tutti questi fatti indubitati per un calcolo di approssimazione credo poter dedurre, che quattro quinte parti almeno del nostro litorale sieno insalubri, e che delle nostre pianure appena una ottava parte sia dal mefitismo esente. Basta gettare un’occhiata sul perimetro del Regno per persuadersi che non esagero rispetto alle coste: e rispetto ai piani basta riflettere che la sola pianura di Monteleone e quella parte di Terra di Lavoro che giace tra Napoli, Nola e Caserta sono ordinariamente immuni da questo flagello di cui più o meno risentono i tristi effetti tutte le altre pianure di sopra enunciate?. All’opposto tre delle nostre migliori provincie, formanti la Puglia chiamata con ragione da Orazio sificolosa, sentono ad un tratto le funeste conseguenze delle paludi, provano in moltissimi luoghi nella stagion secca tal penuria d’acqua, che vi si vende e spesso non meno del vino. La natura non le ha dato, generalmente parlando, dei fiumi, ma dei torrenti, o se vi ha alcun fiume, come l’Ofanto, il Fortore, il Galeso (e se vogliam nominarlo) anche il piccol Idro, sono così miseri d’acque, che non bastano al
bisogno delle loro ristrette adiacenze, se pur nell’estate interamente non mancano. Quindi non vi è altr’acqua se non quella che cade dal cielo, di cui poi non si sa profittare in grande, o pur quella dei pozzi, che per la vicinanza del mare non è difficile di rinvenire; e con questi deboli mezzi si provvede ai bisogni dei viventi e della vegetazione nelle nostre estuanti provincie. Allo stato infelice delle nostre pianure corrisponde quello dei monti, che per la mancanza dei boschi vi hanno tanta influenza. Senz’affaticarsi di molto, la penuria pressoché generale di legna da fuoco, da opera, e da costruzione ci avverte di essersi finora
indiscretamente diboscato non solo nelle pianure, ma ben anche sui monti più erti. L’interramento del letto di molti fiumi un tempo navigabili, e quello delle pianure stesse, che tutto giorno pianure, che pre sono le più estese e le più infette, bastano a dimostrarci quanta gran parte del migliore nostro suolo sia Ri dall’aria malsana, senza contare l'influenza di questa nei colli e monti limitrofi, a seconda delle stagioni più o meno umide e dei venti. ? La generale esperienza delle Calabrie, della Puglia, dell’ Abruzzo marittimo gine questa verità nelle febbri intermittenti e perniciose che dominano nelautunno.
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ricovronsi di ghiaia e di sassi, ci avverte dell’inconsiderato diboscamento finora praticato, o dell'antica impotenza delle nostre leggi per impedirlo. Spesso ne siamo stati ammoniti con la rovina dei paesi interi tolti via dai torrenti, che si moltiplicano sotto i nostri occhi, ed acquistano sempreppiù un’energia desolante?. Con tutto ciò né pensiamo riparare il mal fatto con nuove piantagioni; né si è posto ancora un freno alla mania di diboscare. Son dodici anni che Giovan Filippo Delfico alzò la sua voce per richiamare l’attenzione del governo sui boschi del Teramano; e pur si è proseguito a distruggerli restando appena nei luoghi inaccessibili qualche prezioso avanzo delle selve di abeti che adornavano quei monti sino alle falde, ricche ancor esse un tempo di faggi, di pini, di quercie, che più non hanno. Poche e diradate selve non ancor interamente distrutte per l’alpestre loro situazione son rimaste nella così detta valle di Roveto dalla parte del Regno. I monti di Forca Carosa, di Ovindoli, di Luco, devastati continuamente, e non mai ristaurati, minacciano l’ultimo esterminio alla provincia dell’ Aquila esposta più delle altre per lo rigore del clima al bisogno del combustibile, e per l’ineguaglianza enorme del suo suolo agli alluvioni. Della selva Engizia presso il lago Fucino non vi è più vestigio, ed i monti che a quel bel lago fan corona, divenuti nudi sassi, con le torbide acque che vi mandano ne rialzano il livello a danni della pianura, e chiudono quei naturali meati, donde un tempo dentro le viscere della terra si scaricava l’acqua sovrabbondante. La provincia di Chieti ha pochissimi boschi, che già si sperimentano insufficienti al bisogno della popolazione. I monti Tifatini e gli altri che formano la fertilissima pianura di Terra di Lavoro, il Taburno, celebrato un tempo per le selve e per gli ulivi da cui era rivestito, i monti di 4 Basta riflettere agli effetti quotidiani delle piogge e dei torrenti che scendono dai nostri monti spogliati di piante, per persuadersi del grave danno che si reca ogni giorno alle pianure. A Nocera dei Pagani, a Cicciano, a Vignola, a Tufino, nei contorni di Lauro e di Avella, per lo diboscamento i sottoposti piani si veggono coverti di ghiaia a segno che s’entra nelle case dalle finestre, e intanto la nazione par che voglia tutto distruggere continuando a diboscare inconsideratamente. Ciò dimostra, che la nazione non è altro che l’espressione di un’idea astratta, val quanto dire, di una cosa che non ha occhi per vedere, né intelligenza per comprendere i suoi mali, e darvi riparo. Tutto deve fare il governo. ? In molti luoghi della Campania, del Sannio, delle Calabrie, degli Abruzzi ai giorni nostri sono accadute per le inondazioni, dietro l’inconsiderato diboscamento dei monti, tante, e sì frequenti rovine di paesi, di villaggi, di case di cam-
pagna, di tuguri, che avrebbero dovuto avvertire la nazione del suo errore.
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Avella, di Montevergine, di Ariano, di Nocera, della Costa d’Amalfi, del Cilento, o mancano interamente di selve, o ne scar-
seggiano in modo che comincia a farsi sentire presso le adiacenti popolazioni la penuria del combustibile; e sperimentano al tempo stesso nelle pianure e nelle valli frequenti e gravissimi danni dagl’impetuosi torrenti. Quasi tutto il Matese ed il Sannio sono da gran tempo a nudo per lo barbaro uso della cesinazione che fassi col fuoco. Simili ai selvaggi d’America, che recidono l'albero per raccoglierne la frutta, bruciamo cento alberi per raccoglierne dieci in carbone o in legna. A Piedimonte d’Alife non solo si soffre la penuria del combustibile e del legno da opera, ma ben anche si tollerano terribili o funesti alluvioni dentro la stessa città senza apporvi riparo di sorta alcuna. In S. Giovanni in Galdo è assai minorata la popolazione dopoché molti di quei paesani si sono rifugiati in Trivento, perché mancavano di legna da fuoco; fra poco queste mancheranno ancora in Trivento, e gl’Ingaldesi, e i Triventini insieme dovranno cercare altrove domicilio. Se la Basilicata conserva ancora delle foreste mal curate lo deve alla deficienza delle strade, ed al piccolo numero dei suoi abitanti rispetto alla sua estensione. La Sila di Calabria, antichissima nostra selva, che nei tempi del medio evo fornì di prodigiosi abeti, che ancor esistono, le più grandi basiliche di Roma, era per la metà distrutta prima delle ultime vicende; ma tra queste, e la Sila propriamente detta, e i boschi d’ Aspromonte e di altri luoghi ancora di quella provincia, e della limitrofa Ulteriore, non che del Cilento, e della Basilicata hanno infinitamente sofferto, e tuttavia
grandemente soffrono dal ferro e dal fuoco, che lor si dà impunemente non tanto per gli usi della vita, quanto per distruggere, come si crede l’asilo dei briganti, e degli assassini, ma distruggesi in realtà la prima sorgente della salubrità e della ricchezza del paese, e nuova cagione di disperato brigantaggio alle già note aggiunge. Le selve di Venosa e i boschi di Banzi decantati da Orazio sono scomparsi; né più in quelle potrebbero abitare gli orsi, che pur vi erano quando i gioghi del nostro Appennino una non interrotta catena di alte boscaglie felicemente formavano. Il bosco di Bovino, quello dell’Incoronata verso Foggia, e tanti altri che in quei contorni conservavansi ai tempidi Federico II e di Manfredi, più non esistono; e nella Capitanata si soffre tanta penuria di combustibile, che si è nella dura necessità di far uso dello sterco dei bovi per cuocere il pane. Il Monte Gargano, ce-
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lebre per la manna di quelli, Lecce, le
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i querceti che lo riparavano dai venti aquilonari, e per che dai suoi orni ricavasi, ha perduto la più gran parte e di questi utilissimi alberi. Nelle provincie di Bari e Murgie, così dette, ritengono poche selve mezzo con-
sunte presso Gioia e Martina, ed il bosco detto di Arnéo0; e se
l’ulivo non fosse colà assai moltiplicato in vari luoghi, si soffrirebbe dappertutto estrema penuria di combustibile, che pur si fa sentire in molti di quei paesi. Questo è lo stato fisico delle nostre provincie. Esaminiamone le conseguenze. Ripigliando il nostro discorso delle acque stagnanti, vi son molti tra noi che ben conoscono e per somma sventura hanno sperimentato gli effetti dell’aria palustre. Tutti di questa nell’estate e nell’autunno paventiamo, perché orrida madre delle febbri intermittenti, delle perniciose, e di quelle epidemiche o croniche malattie, che sì sovente affliggono le popolazioni da quella dominate, e le minorano da anno in anno. Osservate di grazia i volti squallidi ed i tumidi ventri degli abitanti di Castelvolturno, di Cancello, del Sesto, di Maida, di Rosarno, e di moltissimi altri luoghi consimili, e fate attenzione alla loro inerzia ed a quel languore che li tiene sempre oppressi, e li rende più che malsani, simili a gravissimi infermi; e non vi sorprenderà che ogni anno scemino le popolazioni situate in mezzo, o vicine alle paludi, e che quelle che poco se ne scostano soffrano in vero mali meno violenti, senza esser però esenti da periodiche epidemie o dalle febbri intermittenti. Tanto avviene per la Puglia, per le Calabrie, e per gli altri luoghi del Regno paludosi, o a ristagni di acque vicini. Variano i perniciosi effetti dell’aria palustre nel più, o nel meno, secondo la copia dell’esalazioni, la qualità del suolo, la posizione rispettiva delle abitazioni, dei monti, dei colli, dei boschi, che lor stanno d’intorno, e secondo la varietà dei venti e delle vicissitudini dell'atmosfera in quelle pericolose stagioni. Ma tutti conservano l’identità della specie e dell’origine. La classe la più utile e disgraziatamente la più vilipesa della nazione, cioè il ceto dei contadini, come coloro che all’aria palustre, e specialmente alla mattutina ed alla serotina, debbono per le loro occupazioni viver continuamente esposti, è precisamente quella che più d’ogni altra ne risente i tristi effetti. Avviene presso a poco lo stesso nell’Agro Romano, nelle contigue Paludi Pontine, e nel
Patrimonio di S. Pietro, e quel che noi crediamo e sperimentia-
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mo, credevano, ma sperimentavano fortunatamente molto meno di noi, anche gli antichi$, dagli autorevolissimi scrittori dei quali ci è stato trasmesso. [...]
Or se il mefitismo delle paludi da noi si rimovesse, qual aumento di vitalità e d’energia non isperimenteremmo tutti, e specialmente gli abitatori delle contrade ora infette? Quanti uomini non perdiamo pel mefitismo dell’aria? Quanti lungamente non se ne infermano ogni anno? Quanti menano una vita stentata e meschina, perché oppressi dalle lunghe febbri intermittenti, e dalle sequele terribili delle putride e delle perniciose? Il lodato Thouvenel riferisce che 50 mila uomini credesi che periscano di mefitismo in ogni anno nella Toscana, nello Stato del Papa, nel nostro Regno, in Corsica, Sardegna, e Sicilia. Se noi prenderem per noi la metà di questo numero, come abbiamo ad un dipresso la metà della popolazione di tutti questi luoghi, dovremmo inorridire nel considerare la grave perdita di gente che facciamo per incuria in ogni anno. Che se si potesse fare un conto di coloro che s’infermano per vedere quanta perdita di giornate di lavoro dalla classe più utile per questa cagione istessa si faccia, vedremmo, che alla miseria dei contadini soprattutto il mefitismo grandemente influisca. Tenendo poi l’aria palustre, per la tema di perdervi la salute e la vita, lontani dalle cure campestri tutti coloro che per l’agio in cui vivono, possono sottrarsene, giustifica e rende insuperabile quella generale avversione dei ricchi proprietari alle cure campestri, la quale ha influito assai più di quel che si può esprimere ad accrescere oltre il dovere le classi non produttrici tra noi; e abbassando sempre, e sempre restringendo la sorte ed il numero dei coltivatori, ha fatto abbandonare a poche mani misere, mercenarie ed ignoranti l’agricoltura e la pastorizia. Onde ° Il Cavaliere Vincenzo Cuoco nel suo elegante trattato di morale e di politica, cui ha dato il titolo di Viaggio di Platone in Italia, rileva la mollezza dei Sibariti, attestata da Atenéo. Evitavano l’ora mattutina e serotina per star bene, perché, situati tra due fiumi, l’aria n'era umida; val quanto dire, che l’aria di Sibari era umida, come l’è quella dell’odierna Cassano presso le rovine di quella antica città. Ma Sibari era popolatissima oltre ogni immaginazione, dunque era esente dal mefitismo che ora infetta tutta quella contrada, perché non si ha cura delle acque e si soffrono delle paludi che i Greci abborrivano. Quel che si dice di Sibari, si può dire ad un dipresso di tutta la superficie del Regno, che poche alterazioni ha sofferto nel corso dei secoli, e che aa potrebbe rimenarsi all'antico stato, se ritornassero gli antichi costumi, le antiche leggi, e la pristina popolazione.
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meraviglia non è se ad onta dei lumi del secolo, queste arti, che sole sarebbero capaci di portarci alla più grande opulenza e prosperità, gemono in uno stato di rozzezza e d’imperfezione degno dei secoli barbari a differenza delle più incivilite nazioni di Europa, presso delle quali han fatto rapidi progressi perché non isdegnano i nobili ed i ricchi di occuparsene, vivendo una parte dell’anno in campagna insieme coi contadini ed in seno agl’innocenti ed utili piaceri villerecci, i quali minorano al tempo stesso la dissipazione e le distrazioni nelle quali viviamo immersi nelle città; onde rendono i ricchi più sensibili, men orgogliosi, e più savi, e migliorano la sorte dei contadini rendendoli al tempo stesso più docili, industriosi ed onesti. Non restringonsi ai soli uomini i danni dell’aria palustre, si estendono ancora agli armenti; e benché non sieno su gli animali così visibili, pure vi è da sospettare con molto fondamento, che alcune epizootie, le quali affliggono di quando in quando i nostri armenti, dalle paludi direttamente o indirettamente provengono. Così nella provincia di Lecce comunemente si attribuisce il marcimento del fegato delle pecore all’acqua palustre bevuta calda pel sole. Nel sopracitato trattato sul clima d’Italia il dotto Autore dimostra che molte epizootie nell’alta e media Italia debbonsi attribuire al mefitismo delle paludi, da altre cagioni renduto ancor più energico. E forse se avessimo degli altri osservatori sagaci e diligenti, quanto lo sono i nostri chiarissimi Signori Giovene e Moschettini, cui oltre molti altri lumi dobbiamo le più utili ricerche sulla meteorologia e sulla nostra agricoltura, e se sì fatti osservatori in diversi punti del Regno unissero alle osservazioni meteorologiche quelle dei vegetabili, e le patologiche sì degli uomini che degli animali, forse verremmo ben presto a conoscere le vere sorgenti di molti malori e di molte disgrazie, che non sarebbe difficile di correggere, o di evitare interamente. Checché sia di ciò, egli è certo che le piante palustri danno scarso e non sostanzioso nutrimento agli animali; che tra questi, i nati e cresciuti in siffatti luoghi hanno meno vigore in generale, e particolarmente cattive unghie soggette al marcimento: finalmente che crescono lungo gli stagni, e presso le terre umide, molte piante ombrellifere velenose tanto per gli uomini che per gli animali; onde parmi dimostrato abbastanza, che anche agli armenti le acque palustri recano nocumento. Ma quando anche non recassero il minimo danno alla salute
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degli uomini e degli animali, sarebbe pur follìa il tollerarle, non solo perché c’infestano con nuvoli eterni di sozzi e noiosi insetti;
ma perché principalmente sottraggono all’agricoltura, ed alla buona pastorizia, la maggior parte? delle nostre pianure e delle nostre coste, le quali se venissero sottratte alle acque e coltivate,
come un tempo lo furono, (se è vero che la possessione si valuta dal fruttato) noi faremmo nel nostro proprio Regno, senza abbandonare il nostro patrio tetto, e senza spargere una goccia di sangue, la conquista di un nuovo reame, niente meno grande e ricco di quello che già possediamo. Che se poi oltre a ciò i nudi monti venissero ricoverti di piante, e nei luoghi aridi si avesse l’acqua per comodo dei viventi e della vegetazione, chi non vede che in premio di questa diligenza noi avremmo in pochi anni il doppio, ed il triplo dei prodotti cereali, degli armenti, e degli alberi di ogni genere? Così facendo, e regolati da savie leggi, noi potremmo in breve tratto di tempo raddoppiare la nostra popolazione e farla ricca di specioso numero di proprietari, senza dei quali la civiltà, la morale, e l’urbanità che si ammira nelle più
incivilite nazioni d'Europa, non succederanno mai alla goffaggine della nostra numerosissima plebe, che con ragione chiamar si può peregrina in casa propria. Allora aumentati, arricchiti, ed istruiti i discendenti dei Sanniti, dei Marsi, dei Pitagorici, richiameranno in questo Reame, come in lor propria e nativa sede, le muse che, liete dell’omaggio dei loro antichi cultori, lo torneranno ben presto all’antico splendore. Questa è l’impresa veramente gloriosa e grande, che un valoroso e saggio Monarca propor si deve, e questa è la conquista alla quale la natura stessa non desiste d’invitarci, e che per i lumi del secolo, e per la posizione politica della nazione più di ogni altra ci conviene, ed è ancor dessa la più facile e sicura. A farla, tre grandi cose debbono mandarsi ad effetto, cioè ? Niente di più infelice della nostra pastorizia. Si esercita in un modo barbaro, e non REA ai nostri più pressanti bisogni: manchiamo di carni, che spesso comprar dobbiamo dal limitrofo Stato Romano, manchiamo di cuoi, e di formaggi, che ci si portano dagli esteri. Somme ingenti escono in ogni anno dal Regno per questi oggetti, e si calcolano ascendere ad annui ducati un milione e trecentomila. Ci contentiamo di nutrire 100 bufali in un terreno sommerso, che potrebbe nutrire 1000 vacche; e nutriamo nei terreni aridi 100 vacche, ove ne potremmo con piccioli aiuti nutrire 400. Abbiamo bisogno del formaggio di Sardegna e di Morea, quando potremmo abbondare di formaggio all’uso di Lodi, di Svizzera, d'Inghilterra.
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con lo scolo delle acque ristagnanti restituire alle pianure ed alle coste l’antica salubrità; rivestire di selve e di piantagioni i monti e i luoghi ove si crederanno necessarie e giovevoli; e supplire con dei serbatoi all’aridità di alcune regioni. Per grandi che siano codeste imprese, le forze riunite della nazione, dirette da un governo illuminato, e costantemente rivolte a queste basi della nostra salvezza e della nostra prosperità, giungerebbero in due generazioni a compierle interamente. Esaminiamole ad una ad una. Gli ostacoli che si frappongono al prosciugamento delle nostre numerose paludi, sono piuttosto figli dell’incuria, e delle barbariche antiche leggi già abolite, che il risultamento di fisiche difficoltà locali, alle quali quanto pur sia facile di rimediare, i domestici esempi dimostrano8: onde se e il governo, prendendo $ Gli ostacoli, che si oppongono al disseccamento delle paludi e dei laghi, tra noi sono piuttosto morali e politici, che fisici. L'interesse dei privati opposto a quello del pubblico, le privative delle acque, l’incuria, e l’ignoranza ci fan conservare i laghi di Agnano, d’Averno, del Fusaro, di Licola, di Padria, di Pantano, di Mondragone, di Fondi, di Lesina, di Varano, di Salpe, quelli della piana di Eboli, del Fucino, ed altri. I possessori, che ne ritraggono con la pesca, con la macerazione delle piante tigliose, un fruttato, si oppongono al disseccamento, che sarebbe facile, sicuro, e utile allo Stato, ed alle popolazioni limitrofe. Noi non abbiamo dune sul lido, e per lo più i nostri laghi son superiori al livello del mare, o se in qualche luogo sieno inferiori, sarebbe facile di farvi entrare tanta copia di
acqua marina che li rendesse da ogni infezione esenti, o con le colmate appianarli. Il conte di Lemos prosciugò agevolmente l’ampia pianura di Nola ch'era una micidiale palude e la parte più difficile di Terra di Lavoro, e non vi spese che 38 mila ducati, ricavandone al tempo
stesso dai molini ad acqua che vi stabilì, e dai
fusari per macerare la canape ed il lino 4 mila ducati annui. Il Vallo di Diano con ispesa discreta fu renduto salubre mercé le provvide cure del Marchese Vivenzio. Il nostro onorato ed abile ingegnere Sig. Ignazio Stile diede scolo al lago di Cosoleto nella Calabria ulteriore, che si era formato tra i monti col tremuoto del
1783. Vi fece un emissario simile in alcun modo a quello di Claudio traforando un monte. L’emissario di Claudio, dietro le più diligenti indagini, aspetta di essere ripulito per restringere il lago di Fucino. La bonifica di Miseno, di Baia, del Porto e dei contorni di Brindisi, di Cotrone, di Otranto, di Barletta, Manfredonia, Viesti, e per dirlo in una parola, di tutte le nostre pianure, non esigono opere dispendiose e difficili, ma canali di facile costruzione, e livellazione. Il principe di Bisignano con dispendio tollerabile sta rendendo allo Stato ed a se stesso il ran vantaggio di dar la comunicazione col mare al lago di Salpe. Il Duca d’ARO quando era intendente della provincia dell'Aquila seppe animar tanto il patriottismo di alcuni Sulmontini che si è ristaurato l'antico canale di Corfinio senza la menoma spesa per parte del governo e col dare alle terre irrigate una decupla fecondità. Queste ed altre esperienze fatte in alcuni di questi luoghi, che tutti hanno ad un dipresso la stessa indole, ce ne persuadono ad evidenza. Ma diciamo, per esempio, di voler prosciugare il lago di Padria, la cui foce ogni anno si chiude a bella posta per la pesca dei cefali. La Mensa di Aversa che ne ritrae 12 mila ducati si oppone, e farà abortire gli sforzi dei ben intenzionati. Potrete
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seriamente di mira questo scopo, unirà'le sue cure alla forza della nazione, qual nuovo Ercole in pochi anni ci libererà da tante sorgenti di calamità, e la nostra sorte cangiando aspetto diverrà migliore. Non è già mio pensiero d’insinuare al governo l’intraprendere a proprie spese il prosciugamento e lo scolo di tanti laghi e di tante paludi che infestano tutto il Regno; e molto meno di ripiantare i boschi, e provvedere d’acqua con magnifiche piscine i luoghi aridi. Questo genere di bonifiche nascer deve dalla nazione stessa; e più dai privati, che dalle comuni. La mano del governo deve soltanto eccitare il desiderio di simili intraprese col renderle utili ed onorevoli ai loro autori; ed ove il caso lo richie-
desse per la sua importanza, porgere quelli aiuti, i quali consistono più in prestar l’uso d’alcuno di quei variatissimi e grandi mezzi, che il solo governo ha in suo potere, che nel consumo delle sostanze dell’erario. Quando il governo sprona gli uomini con la molla dell’onore congiunto all’utile privato e pubblico, le imprese più scabrose facilmente si compiono. Or se mal non mi appongo, io credo non esservi stato da venti secoli in qua momento più opportuno e propizio di questo, onde sperare ai nostri antichi mali sollecito ed efficace riparo. Abbiamo un Sovrano giovine, valoroso, forte, il quale riponendo la principal sua gloria nella felicità del popolo che governa, ed avendo conceputa l’importanza di sistemare le nostre acque e ripristinare i nostri boschi, all’uno ed all’altro di questi indispensabili oggetti ha cominciato ad attendere con una energia che non risparmia la sua stessa sacra persona, e sa sormontare gli ostacoli che l’ignoranza l’apatia o l’intrigo sovente oppongono alle più dimostrare quanto volete, che quei marazzi convertiti in salubri terreni daranno maggior rendita del lago in pochi anni; potrete enumerare gl’infelici che periscono ogni anno per mantenervi una pesca che il mare presenta da per tutto; non
persuaderete il possessore, che vuol godere del presente. Lo stesso accade pur degli altri laghi del Regno, perché l’interesse privato mal inteso, fa a calci col vero interesse dei privati, ch'è quello dello Stato. Cosa faremo? Imploreremo la paterna Sovrana autorità, e ne attenderemo le beneficenze a tempo opportuno. Pria di chiudere questa nota è bene osservare, che nella provincia di Lecce, e propriamente nella valle tra Barbarano e Monte Sardo, veggonsi ampie voragini dette vore le quali raccolgono le ridondanti acque, da cui quella regione sarebbe infettata nell’estate. O che sieno naturali, locché non è verisimile, o che sieno forse degli scavi formati per rifarli a serbatoio, o che senza farvi dei serbatoi, servissero sempre di veicolo alle acque superflue per non infettare il piano, sono PIL un altro argomento della cura dei nostri maggiori per non soffrire il meitismo.
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utili riforme. A ragione quindi ci lusinghiamo che nei molti anni, che gli auguriamo, del suo Regno, estenderà a tutte le provincie quelle bonificazioni che ha già intrapreso in alcune di esse: e sarebbe effetto delle sue benefiche cure il vedere crescere in tutte le provincie del suo reame, la popolazione e l’opulenza; con che vieppiù riscuoterà gli applausi e le benedizioni della nazione liberata dal vero e principal tarlo che rode la sua prosperità. Il Re sta rendendo salubri con benintesi lavori molti luoghi, facendo sistemare le acque del Savone, del Volturno, di Baia. Ha dato ordine per isterrarsi i porti, e già si è eseguito a Cotrone, si ese-
gue attualmente a Trani, e si eseguirà in Barletta ed in Brindisi; ed ha fatto per mezzo del cavalier Gussone piantare magnifico bosco di 500 moggia nella famosa Badia di Tre Santi nell’arida Capitanata: e si eseguono per lo stesso fine altri lavori nelle diverse regioni, specialmente in quella dei Marsi, ove già è stato spurgato l’antico e celebre canale di Fucino. La nazione stessa all’opposto, distrutti in gran parte i luoghi pii, i diritti feudali, i fedecommessi, e modificato alquanto il barbarico sistema del Tavoliere di Puglia: soppressi i Regi Stucchi, e i demani comuni, i Monti, i banchi, gli uffizi ed impieghi vendibili, ed estinte le partite d’arrendamento, ove solevano i nostri ricchi impiegare i sopravanzi delle loro fortune, onde placidi ed oziosi percepirne il desiato frutto; seconderà efficacemente le intenzioni del governo, impiegando nell’agricoltura e nella pastorizia i suoi capitali, anche per la ragione che il commercio esterno non fu mai, né sarà tra noi l’occupazione generale e dei nobili, e
dei capitalisti, i quali per la posizione politica dell'Europa non potranno mai da questo ripromettersi quegli stabili e sicuri vantaggi, che lor presentano le fecondissime nostre terre?: a queste dunque, e precisamente a quelle delle pianure come più fertili, benché malsane, dovranno rivolgersi, migliorandole e coltivan? Sembrerà a molti un paradosso quel che io qui asserisco intorno all’agricoltura ed al commercio, cioè, che quella tra noi sia da preferirsi a questo; ma chi rifletterà alla fertilità delle nostre terre, al valore dei nostri prodotti, ed al genere di commercio che a fronte di potentissimi popoli stranieri far potremmo, troverà vera questa proposizione, la quale per esser messa a portata di tutti, avrebbe bisogno di dimostrazione, da cui mi dispensano i limiti di questa memoria. Né è da sperarsi, che il commercio tra noi formi generalmente l’occupazione dei nobili, presso dei quali è la massima parte delle ricchezze dello Stato; perché l’attività del buon negoziante e gli azzardi del commercio non convengono al ricco, che ama di conservare più della vita i suoi titoli, la sua superiorità.
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dole con maggior intelligenza ed attenzione di quel che finora non fu fatto: ed a migliorarle ed a coltivarle si sarebbero di già rivolte le cure di molti nobili, e di molti ricchi proprietari del Regno, se non ne fossero stati distolti dall’indole tenebrosa, vaga, ed indeterminata del progetto adottato nel 1807 per la bonifica di Castel Volturno da tre diverse società a gara richiesta, indi abbandonata. Senza prenderci briga di quel che avvenne, e senza progettar decreti, il bene dello Stato, mio malgrado, m’induce a ripetere in brevi note cosa sia la bonifica di un territorio paludoso, e quali ne siano gli effetti per indi dedurne le condizioni con le quali dovrebbe procedersi a tali imprese, ove ci sia veramente a cuore la pubblica felicità, il vero interesse del fisco, e la gloria del Re.
Cosa è mai nel nostro clima la bonifica dei terreni paludosi? Strettamente parlando essa libera dalla peste i paesi che vi giacciono intorno, e rende salubri i luoghi che ne son poco rimoti: rende abitabili e fecondi dei latifondi deserti e sterili. Quali ef-
fetti terran dietro queste intraprese? La vitalità e l’energia degli abitanti si aumenterà, onde verrà a crescere la popolazione, prima forza e prima ricchezza di ogni Stato; si restituiranno all’agricoltura ed alla buona pastorizia, che tra noi è ancor ignota, ampie fertilissime pianure; e per tutti questi titoli le nostre derrate di prima necessità cresceranno, e con esse i dazi diretti ed indiretti a pro del fisco. Se tanti evidentissimi vantaggi derivano dalla bonifica dei nostri luoghi paludosi, qualunque ritardo, qualunque remora che vi si frapponga, dovrebbe esser considerata come un delitto contro l'umanità e lo Stato. E troppo grave e generale il male, di cui ci lagniamo, per non doverlo attaccare con tutte le forze possibili, e procurarne la guarigione con la massima celerità. Il nostro gran Federico II, per la sua magnanimità e prudenza superiore al secolo in cui visse, abilitò i suoi ministri a concedere i luoghi paludosi a dei privati che volessero bonificarli, e non appose altra condizione indispensabile a sì fatte concessioni, se non quella di conservare all’erario le rendite, che pantanosi pur davano: vetere tantum nihil imminuto. E questa stessa regola si vede adottata nel decreto del 1807 per Castel Volturno, quando si tratta dei fondi dei privati, il cui scolo fosse necessario alla bonifica di quel latifondo: si prescrive cioè doversene compensar i proprietari in ragione del valore attuale dei fondi. Questa generosità pel fisco
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non sarebbe una perdita, anzi un vantaggio, perché ove si accrescono le derrate e i sudditi dello stato, l’erario fa il massimo lucro, ed il lucro degno di un governo illuminato e benefico; dirò ancora, che in vano lo spererebbe dalle condizioni di riserba, che
lo rendan padrone di una parte di detti latifondi. Di fatto: supponiamo per un momento bonificato il latifondio di Castel Volturno, dandoli per ipotesi 60 mila moggia di terreno coltivabile. Supponiamo ancora, che dieci a dodici mila nuovi abitanti vi vivano, e lo coltivino. Attribuiamo a quella porzione dell’Agro campano facilmente irrigabile per l'abbondanza delle acque, una mediocre fertilità, cioè la rendita di dodici ducati per moggio. Avremo da tutto il fondo la rendita di 40 mila ducati annui, dei quali, assegnando il solo quinto di fondiaria al fisco, l’erario percepirà 124 mila ducati l’anno, e calcolando i dazi indiretti che ne ritrarrà, si può esser certi, che lo Stato da questa operazione percepirà una rendita di 155 mila ducati almeno, e vedrà aumentate le sue braccia, la sua forza e le sue ricchezze. Cotanta utilità in vano si spererebbe dalla vendita di quegli stessi terreni, ancorché bonificati e di pertinenza del fisco, poiché fino a che saran deserti, saranno inculti, o almeno di poco valore. Con ciò io non intendo di consigliare al fisco, che alla cieca consegni al primo offerente i latifondi paludosi del Regno; vi sono delle condizioni da esigere, e queste di doppio genere; alcune sono irremissibili e invariabili: altre son modificabili, e potrebbero esser interamente trascurate in qualche caso. Le condizioni irremissibili per me sono: 1. La certezza che l’opera sia condotta al termine. Senza questa non si deve far contratto alcuno, perché nel compimento dell’opera consiste e la salute ed il bene dello Stato, e non già nei tentativi. 2. La bonifica dei latifondi paludosi per essere stabile e per essere utile realmente all’erario deve essere accompagnata dalla ripopolazione di quei luoghi. In conseguenza dovrebbero gl’intraprenditori esser obbligati di formare in detti latifondi uno o più villaggi e chiamarvi dei nuovi coloni, che agevol fora ottenere dall’ Abruzzo soprattutto, e da quell’inospiti paesi che ci degradano, come sopra narrai. Potrebbero ancora trarsi dalla Marca d’ Ancona, dalla Toscana, dalla Dalmazia, dall’Epiro, dalla Grecia!°, ove venissero allettati 10 Dalla sola provincia dell’ Aquila passano ogni anno nello Stato Romano da 50 a 60 mila uomini dei più robusti coltivatori, perché da ottobre a giugno non
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coll’offerta di terre feconde, non insalubri, di comode abitazioni, e di quei soccorsi che sono necessari ad una nascente popolazio-
ne, la quale lottar deve contro l’umidità del suolo e contro la novità del clima. A questi villaggi, che potrebbero da per tutto riedificarsi sui frequenti ruderi delle antiche nostre città, potrebbe darsi l’illustre antico lor nome, combinato con quello della nostra dinastia per eternare la gloria del Sovrano benefico, che dopo 20 secoli di disgrazie conoscendo l’origine vera della pubblica miseria vi abbia apposto conveniente riparo. Essendovi dei boschi in questi latifondi, lungi dal permetterne il taglio secondo le nostre leggi, che non salvarono mai alcun bosco dalla distruzione, obbligar si dovrebbero gl’intraprenditori a conservarli, e perché manchiamo di combustibile e di legname; e perché i boschi minorano coll’aria vitale che schiudono nel giorno la pestifera qualità dell’aere dei pantani; e finalmente, perché sono spesso di argine alle acque istesse, o di diga contro il mare, come io credo, che sia stata un tempo la pineta così detta lungo la spiaggia del mare da Licola e Castel Volturno, dai nostri più rimoti antenati rispettata e conservata sotto il nome di Selva Gallinaria. Ma per esigere con giustizia queste condizioni si richiede la cognizione esatta dell’estensione e qualità dei terreni prosciugabili; e l’altra ancor più indispensabile dei lavori necessari alla bonifica e delle spese sempre incerte, e grandiose, quando si tratta hanno come impiegar le loro braccia nel proprio paese, e vanno ad affrontare le malattie, e la morte nell’Agro Romano, e nelle Paludi Pontine, ove ancor molti si domiciliano. Sarebbe difficile di farli scendere piuttosto in Terra di Lavoro, nel Tavoliere di Puglia, nella provincia di Lecce, ed arricchir noi stessi coi loro sudori? Sarebbe difficil forse di piegarli a coltivare ed abitar terre rendute più feconde e meno insalubri? Ra ancora chiamarsi gli esteri a popolare le nostre contrade. Ognun sa quanto siasi aumentata la popolazione dell’ America settentrionale dall’epoca della di lei indipendenza, e come ciò sia avvenuto è noto a tutti. Quei savi del nuovo mondo offrono agli stranieri terre, soccorsi, pace, e protezione, e le funeste vicende dell'Europa han fatto correre a centinaia di migliaia gli uomini, all’asilo che gli Americani hanno aperto agli sventurati. Perché non l’imitiamo noi? Abbiamo terre feconde ed inculte, il governo può accordare ai nuovi coloni soccorso e protezione se non possiamo presentar loro una stabilità
di pace, quanto può aversene in America, se abbiamo le paludi, che spaventano, se le nostre terre non giungono alla fertilità di quelle del nuovo mondo, non hanno qui a temere dei selvaggi, della febbre gialla, e di una lunga navigazione. Il gran Federigo accogliendo gli stranieri, fondando 300 e più villaggi e paesi nei suoi stati, ne accrebbe nel corso della vita sua la popolazione, la forza, e la gloria. I Russi oggi giorno richiamano nella Crimea gli Europei con simili mezzi. Ci è proibito si di far lo stesso?
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di dar lo scolo alle acque; e finalmente di quelle che occorreranno per l’edificazione dei villaggi anzidetti. Quando si faccian dei contratti alla cieca, potranno riuscire utili, ma è più facile ancora che riescano dannosi, o allo Stato, o agli intraprenditori, i cui
svantaggi ricaderanno sempre sullo Stato, perché questi abbandoneranno l’opera ove non sia lor profittevole e caderebbero in discredito le bonifiche. Le cognizioni di sopra indicate poi metterebbero il fisco in grado di aggiungere con giustizia delle condizioni proporzionate alla facilità o alla difficoltà dell’imprese; perché, ove la bonifica fosse facile, o d’immenso lucro, dovrebbe il fisco esser a parte dei terreni, o per onorarne i soldati emeriti, o per altro uso degno della reale munificenza; ed ove vi fossero grandi ostacoli a superare, dovrebbe il fisco istesso con onorificenze, e anche con altri mezzi che sono in suo potere, incoraggiare i privati all’impresa; e finalmente concorrere coi medesimi per una parte delle spese se il caso questo soccorso esigesse. Considerino i fautori dei rigori fiscali, qual sarebbe il prodotto della fondiaria dei dazi indiretti
della sola Campania, se in vece delle vaste pianure di Padria, Castello, Mondragone, Vico di Pantano, Fondi, or deserte e presso che sterili, perché più o meno paludose e sommerse, vi fusser delle popolazioni, e dei canali coi quali le terre si rendessero al tempo stesso irrigabili e non malsane; considerino, ripeto, di quanto si accrescerebbero le derrate di questa felice provincia, e qual numero maggiore di uomini potrebbe mantenere; e veggano, come per piccioli mal’intesi interessi privano, ritardando la
bonifica di tali luoghi, il governo di maggior potenza e gloria, e l’erario di un massimo perenne lucro. Certamente, che la Campania acquisterebbe un terzo dippiù di terre coltivabili, di prodotti, di popolazione, ed il solo commercio interno potrebbe farsi per canali, non dirò sino a Roma, come pur volea fare Nerone, ma sino ad Aquino, ed al Sarno. Un colpo d’occhio sulla carta topografica di questa bellissima provincia basterà a dimostrare questa verità.
Ma i canali per lo scolo dei terreni paludosi, l’arginamento necessario dei fiumi, la direzione dei torrenti, e le altre operazioni, che la bonifica delle nostre pianure esige, sarebbero di dif-
ficile conservazione, e non produrrebbero tutti quei felici effetti che se ne debbono attendere, senza la cura delle sorgenti; e per generalizzar meglio l’idea, senza la cura dell’atmosfera, da cui
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queste, e le altre acque traggono comunemente la loro origine; cioè senza la cura dei boschi che sono per così dire, l’anello che lega l’aria alla terra e coi quali possiamo in qualche maniera modificarla a vantaggio dei viventi e della vegetazione.
4. La pastorizia” Chiunque abbia qualche notizia del nostro paese, e per poco rifletta ai generi commerciali di cui ci provedono gli esteri, si
avvede dovervisi annoverare il cacio, le pelli, e le cuoia. Anzi è così considerevole la copia ed il valore di questi generi, che nei tempi di pace dalla Sardegna, dalla Morea, dalla Dalmazia, e sopratutto dall’Inghilterra siam soliti ritrarre, che secondo i registri doganali vi s'impiegava in ogni anno l’esorbitante somma di un milione e 300 mila ducati, che continua tuttavia a sborsarsi presso a poco, come prima, non ostante la guerra. Ciò basta a dimostrare che la nostra pastorizia, essendo insufficiente al bisogno di cinque milioni d’uomini, cui appartengono, oltre i sterili monti, i boschi, i fiumi, le strade, o le abitazioni, 16 milioni incirca di moggia di terra fertilissima e coltivabile! lungi dall’esser florida ed animata, sia da lungo tempo nell’avvilimento e nella più completa decadenza. Quindi mi è
venuto alla mente il pensiero di esporre brevemente della nostra pastorizia, non solo lo stato attuale, ma benanche i difetti e gli ostacoli che la mantengono nell’abiezione; e calcolando con dati sicuri ed incontrastabili i felici risultati, che meglio trattata e più estesa ci ripromette, cercherò di richiamare l’attenzione dei proprietari verso di quella, e accennerò in ultimo luogo i mezzi più facili a farla sollecitamente, come il nostro interesse esige, rifiorire.
Nel momento in cui sembra terminata la riforma delle nostre antiche e complicate leggi, e fissato completamente il nuovo sistema dell’amministrazione e degli ordini civili, il tentare di far * Da Teodoro Monticelli, Sulla pastorizia del Regno di Napoli, in «Atti del Real Istituto d’Incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli», tomo I, Angelo Trani, Napoli 1811 (memoria letta il 26 settembre 1810), pp. 361-383. ! Vedi Galanti sul commercio del Regno nella sua Descrizione geografico-politica. In questa somma non è compreso l'esito di denaro per panni o lana.
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risorgere tra noi una delle arti nutrici dell’uomo, che ci ripromette grande opulenza da noi soli dipendente, mi sembra degno della vostra attenzione. Tocca a voi rispettabili soci decidere se io abbia colto nel segno, e se debba meritare il vostro compatimento. [...] Stato attuale della pastorizia del Regno di Napoli
Molte sono le specie di animali, che l’uomo, è già gran tempo, apprese a soggiogare o domesticare. Benché tutte siano utili, ed interessanti, quelle però che agli altri prodotti accoppiano il latte, la carne, e la lana, riscossero mai sempre presso tutti i popoli della terra ben giusta preferenza. Le preferirò ancor io in questa memoria, onde mi restringo a parlare delle pecore e delle vacche?. L’emporio della nostra pastorizia è il così detto Tavoliere di Puglia. Le pecore di sei provincie, cioè degli Abruzzi, del Sannio moderno, della Capitanata, e della Basilicata al numero di un milione e mezzo vi si adunano per passarvi l’inverno, e dimorano l'estate nei monti. Nelle altre provincie del Regno esiste un altro milione di pecore, se vogliam prestar fede all’ Avvocato Galanti e, deferendo ad altri autori, il numero di queste benché sia maggiore non eccede quello del Tavoliere. Dividonsi le nostre pecore in sei specie principali, diverse fra loro per grandezza, per bontà, e per il color vario e pregio della lana. Abbiamo pecore gentili bianche e nere; bianche e nere di pelo lungo; dette di lana moscia; pecore carfagne e carapellesi?. Ciascheduna di queste specie varia ancor di grandezza e di lana a seconda della abbondanza e della qualità dei pascoli. La differenza più sensibile che distingue tra noi le varie razze, è senza dubbio tra quelle che viaggiano dai monti ai piani, e ? La superficie del Regno si crede essa di 23 mila miglia quadrate, ed in conseguenza di 35 milioni di moggia incirca: tolti 9 per i cennati oggetti, restano di terra coltivabile 16 milioni di moggia, che potrebbero ridursi presso a poco a quella fertilità, che osserviamo nella Campania, ed a nutrire di conseguenza un proporzionato numero di abitanti, se si trattassero con quella intelligenza e previdenza, che il nostro interesse altamente riclama, e come furon trattati dai nostri più rimoti antenati. ? Le nostre pecore gentili si credono discendenti dai merini di Spagna, che maltrattati degenerarono. Chiamiamo carfagne le pecore di lana ruvida mista di bianco, di nero e di bigio. Carapellesi poi diconsi quelle di lana nera pendente al bigio.
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quelle, che d’està e d’inverno rimangono sempre nella stessa regione. Le pecore di Abruzzo sono certamente di singolar bellezza, e le migliori di tutte rapporto alla lana alla di cui bontà si crede contribuir grandemente l’inveterato costume di farle svernare nei piani tepidi della Puglia, e trattenerle sui verdeggianti prati dei monti nei calori estivi, e sempre a cielo scoperto. I pascoli migliori in Abruzzo son quelli del Gran Sasso, e di fatti producono squisito latte, e la miglior lana. Sono ancora in pregio quei d’Ovindoli, e di Lucoli. In Puglia i migliori sono intorno a Foggia, Cirignola, Orta, e Ascoli. Quei di Lesina e di Apricena tengono il secondo luogo. Quei di Salpe poi, e della Trinità ricoperti di lentisco, e quei di Canosa e di Andria petrosi ed aridi sono i men estimati. Nelle pianure i nostri pascoli son più o men contaminati dalle acque stagnanti, ed in conseguenza ancora da erbe palustri ed ombrellifere4. Veggonsi poi da per tutto ricoperti di piante inutili, o poco utili al bestiame’, e spesso ancora di piante nocive®. L’erba predominante nei prati di Puglia e delle provincie piane del Regno è senza dubbio la gramigna di varie specie. Si osserva questa stessa nelle colline, e nelle valli tra i monti. Alle varie specie di gramigna mescolansi la cicoria, la bursa pastoris, l’antosanto odoroso, il cardoncello, la trigonella, o sia il fieno greco, la farfara, cioè la medica, il trifoglio a fior bianco, e a fior rosso, il fleo pratense, la sulla in alcune regioni della Calabria abbondantissima, il mille-foglio, la bellide maggiore e minore, la festuga rossa, ed ovina specialmente nelle alture, il timo nelle sabbie, il cartamo dei tintori, il rosmarino, la ginestra, ed altre erbe agli armenti utilissime. Ma ben più di queste vi abbondano le poco utili, e le affatto inutili, e sovente ancor le nocive nelle note da
noi riportate. Se nei colli, e nei monti tra il ginepro, le spine, il 4 L’erbe palustri, di cui abbondano tra noi i prati pantanosi ed umidi sono i giunghi, la canna palustre, l’equiseto, il carice, l’idrocotile aquatica, la lobèlia del fior prolungato, la pediculare palustre, la cicuta, varie sorti di solani etc. Piante inutili al bestiame, o pressocché inutili sono il giungo, il dauco ispanico, la canna arenaria, il convolvolo, l’imperato, l’echinofora spinosa, l’eringio marittimo, il corniolo, il bosso, l’agno casto, il ginepro, la salicornia fruticosa, il ranno alaterno, il pruno spinoso, l’evonimo europeo, il corbezzolo, la spina, il pero selvaggio, la saponaria, le ferule, il mirto, il lentisco, ed altre, di cui abbondiamo. ° Piante nocive al bestiame oltre le palustri di sopra accennate sono il titimalo, lo stimonio, l’ervo-rubiglia, la scilla, il tasso baccifero, i ranuncoli, l’anemone appennina, ed altre.
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bosso abbondano le festuche, la pimpinella, l’eufragia, la nepeta, la camomilla, la salvia, la valeriana, la carlina, la melissa, la gen-
ziana, i bromi, le agrostidi etc., e mille altre piante aromatiche, egli è un dono della natura, e del clima e non un prodotto della nostra industria. Noi non prendiamo alcun conto dei nostri pascoli. Son dessi perloppiù come ci furon trasmessi dai nostri padri, o al più rotti, e dissodati di quando in quando per coltivarvi i cereali. Non si pensò mai di liberarli dalle acque stagnanti, di svellerne almen le piante inutili e le nocive, di sostituirvene delle salubri e più utili. Non si sospetta né anche dai nostri proprietari, che siano suscettibili di bonificazione i prati della Puglia e dell’Abruzzo. La natura, la sola natura deve somministrar tutto per la sussistenza delle nostre greggi senza la menoma cooperazione dell’uomo”. Alcuni pregiudizi vengono in appoggio della generale oscitanza. Comunemente credesi che le pecore cangiando pascolo non solo vadano a degenerare, ma corrano rischio di morte, e che somministrando loro nell’inverno biada, fieno, o altro seccume, siano soggette agl’istessi inconvenienti, onde non si pensò mai a
procurargli cibo, che spontaneo non sorga sulla superficie del suolo, né si prese mai alcuna precauzione per supplirlo nell’intem-
perie delle stagioni. Come in Puglia, così nelle altre provincie vivono le pecore notti e dì esposte all’ingiurie del tempo, che nel nostro clima sono tollerabilissime, e questo costume giova alla bontà della lana. Vagano di giorno accompagnate dai pastori e dai cani per i campi, e di notte sono rinchiuse nei recinti formati di ferula e di paglia, o nei cortili di muro. Tutte riposano su i loro escrementi, anzi in Puglia serbansi alti e annosi strati di letame indurito perché di sopra vi giaccian asciutte le pecore, senza sospettare per poco, che la lana e la sanità ne debbano provare non lieve detrimento. I montoni si tengono alla rinfusa colle pecore in ogni tempo. Niuna diligenza si adopera rapporto all’accoppiamento dell’un sesso coll’altro, donde dipende la conservazione ed il perfezio? Nel Sannio e nell’ Apruzzo si usa dare alle pecore del seccume e della pl nell’inverno, onde chiamansi pagliarole; e sono senza dubbio le più infelici di quelle che abbiamo, ma niuno ha provato ancora se nudrendole nel corso dell'inverno con delle patate, colla radice di abbondanza, ed oltre le frondi, e la paglia, migliorassero la loro condizione, come deve succedere.
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namento delle razze. Se per conservare le razze delle pecore gentili si ha qualche cura, tenendole separate dall’altre, non se ne ha alcuna per migliorarne la lana. A caso vivono, a caso si uniscono e si propagano, a caso sono condotte e regolate. L’umidità nuoce grandemente a questi animali, ed il sale è efficace rimedio ad impedirne le tristi conseguenze. Il sale intanto non si dà alle pecore in molte provincie del Regno, ma nella Puglia, e nelle provincie dove si adopera, il di lui uso va restringendosi da giorno in giorno per l’arduo prezzo di questa derrata8. Nell'arte veterenaria quanto siamo alle più colte nazioni di Europa inferiori con rossgre il dobbiam confessare; ma per le
pecore affidate interamente alla classe più abietta e miserabile della nazione non vi è cosa che possa esprimere al vivo i frequenti mali contagiosi, e le molte infermità individuali da cui sogliono esser oppresse. Il solfo e la pece per i mali cutanei e la cavata di sangue, forman tutta la scienza dei nostri più sagaci pastori. Intanto la schiavina, la rogna, il capogirolo, il fuoco di S. Antonio, il ciammuorro, la diarrea, il piscia sangue, la torta?, il marcimento del fegato attaccano, e distruggono da per tutto con furore i nostri armenti. E di questi mali benché sappiamo doversene ripetere l’origine dall’erbe cattive o velenose, dall’acque putride e stagnanti, dal soverchio ardore del sole nell’estate, dal cattivo e scarso pascolo, e dalla neve e dal gelo, nemico sopratutto degli animali deboli e mal nutriti, pure non sappiamo assegnare le cause precise, né prevenirle o combatterle con opportuni rimedi. Oltre i cennati mali convien sapere, che le nostre greggie ne-
gli anni nevosi soffrono un flagello sconosciuto al resto dell’Italia e dell'Europa. Quante volte nella Puglia e nelle provincie meridionali del Regno cada la neve e per qualche giorno ricopra quelle apriche pianure, periscono a torme gli agnelli e le pecore, e tantoppiù n’è grande l’esterminio, quanto più sia stato scarso il pascolo nell’antecedente autunno. Il freddo precoce e la siccità di quella stagione non fa germogliare l’erbe da prato. La soverchia umidità autunnale, o corrompe l’erbe, di cui mai seconda lo sviluppo, o al meno la rende acquosa, e di poca sostanza. In questi 5 Il Governo somministrava ai Locati 18 mila tomoli di sale l’anno alla metà del prezzo ordinario di quella derrata per animare la pastorizia nel Tavoliere. Questo beneficio è andato in disuso, e l’alto prezzo sd sale ne va restringendo sempreppiù l’uso. Di questo morbo ancor si quistiona per saperne la cagione con accerto.
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casi se nell’inverno sovragiunge la neve, gli animali spossati e infievoliti dallo scarso o poco sostanziale nutrimento, essendo le campagne da neve ricoverte, vengono interamente a mancare di vitto, e dalla forza del gelo assiderati muoiono a folla. Suol perirne un quinto, un quarto, un terzo, ed anche una metà negli anni i più disastrosi. E queste mortalità più o meno grandi rinovansi sì di frequente, che non passa un decennio senza soffrirne una delle maggiori. Ognun sa, che le greggi somministrano carne, lana, latte, pelli, budella; mi si conceda scorrer brevemente per tutti gli accennati articoli. E da osservarsi però che in molte provincie del Regno non si fa il menomo conto del fimo pecorino tanto utile a fecondare la terra, e che da pertutto si trascurano le ossa, le cartilagini, le unghie etc. di questi animali, che pur sarebbero eccellenti a concimare le terre argillose e cretose di cui abbondiamo. La carne del castrato in Puglia e negli Abruzzi, specialmente in Caramanico, è ottima al gusto benché più leggiera della bovina; è poco piacevole poi nella Campania e nell’altre provincie, come l’è da pertutto spiacevole la carne di pecora e di montone. Ignorasi donde derivi cosiffatta differenza, alla quale certamente non poco influir deve la qualità dei pascoli. Sogliam tosare le pecore due volte l’anno a maggio ed a settembre; questa pratica, se porterà conto per la copia della lana, deve deteriorarne la qualità. La lana delle pecore gentili ha del merito, ma si stima più del dovere dai Pugliesi e dagli Abruzzesi. È dessa molto inferiore alla lana dei merini di Spagna, perché la migliore lana gentile presso di noi val circa 80 ducati il cantaio, mentre la lana di quei pochi merini che abbiamo in Puglia, e della di cui bontà perfetta si può muover dubbio, si vende succida a 100 ducati almeno, che val quanto dire lavata a 130 ducati il cantaio. I Romani, padroni un tempo di queste regioni e delle Spagne, non conoscevano lana migliore della Tarantina, della Lucerina, della Canusina. Il pecus tectum di Taranto doveva dar lana finissima e morbidissima, come rilevasi dalle cure che si adopravano per queste greggie singolari. La lana lunga, detta moscia, è mediocre per l’usò cui s’impiega, cioè per materasse; è però ancor essa assai inferiore alla lana di Tunisi. Né tampoco è da rammen-
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tarsi lana di altra specie dopo queste: appena se ne possono formare ruvidissimi arbaci e funi!°. Le pelli di agnello sogliono estraersi dai Romani e dai Levantini principalmente per formarne dei guanti, che potrebbero ben lavorarsi in Regno. Le pelli di pecora o di montone convertonsi in cartapecora; questa si forma in Regno, ma si suole raffinar in Roma, e di là si spande per l'Europa, come se noi non potessimo raffinarla tutta, e mandarla di là dai monti direttamente con maggior profitto. Le budella degli agnelli somministrano le corde armoniche, tanto usitate e pregiate di là dalle Alpi. Questo ramo di commercio ed industria dovrebbe riscuoter da noi maggior attenzione e buona fede. Portandole in Germania, in Francia, in Inghilterra,
si vendono all’istante, ed in breve tempo si triplica, e si quadruplica il capitale che vi è stato impiegato. Il latte degli animali somministra vari prodotti, tra i quali i principali sono la crema, donde si ritrae il burro o la manteca, ed il cacio. Qual sia il cacio comune!! delle nostre pecore ciascheduno di noi il conosce: duro, salimastro, spiacevole, di poca durata. Tratterò in particolari memorie del burro e del cacio, che meritano grande riforma presso di noi. Esposto quanto ha riguardo alle pecore, ci conviene descrivere lo stato dei nostri armenti bovini. V”ha chi pretende che il maggior numero delle nostre vacche
negli anni passati ascendeva a 700 mila. Ho delle ragioni da crederle presentemente ridotte a un terzo di meno!?, ma sia come si 1° I Veneziani, e i Francesi comprar sogliono nei tempi di pace circa tremila cantaia di lana a 50 o 60 il cantaio. Questo spaccio fa credere a tutti, che la nostra
lana sia eccellente, onde non si badò mai a renderla migliore. Ascrivesi ad imperizia la mediocre qualità dei panni, che ne formiamo, e non si ravvisa, che manchiamo equalmente di lana fina, che di scienza perché sia in ottimo panno convertita. Trovo nel bilancio del nostro commercio testé citato, che dall’estero in panni diversi, e lana grezza ci vien somministrato tanto, che non solo assorbisce il ritratto delle cantaia tremila di lana, ma dobbiamo rifondere all’estero in
ogni anno circa 27 mila ducati per questi soli oggetti. !! Il cacio di Marsico, di Maglie, e di molti altri luoghi del Regno per la bontà dei pascoli ha del merito. ? L'industria delle vacche va ogni giorno restringendosi in tutte le provincie, come l'agricoltura. Nelle Calabrie è mancata per molti. Nei poderi, che non han più padroni va a perdersi interamente. I Celestini mantenevano in San Severo e Ripalda 200 paia di bovi, 500 cavalli, 500 vacche, 600 bufale, due o tremila porci, otto, a dieci mila pecore. Tutti questi animali sono scomparsi, e appena vi si trovano 14 mila ducati di animali. Ab uno disce omnes.
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pretende da coloro che esagerano le nostre ricchezze, le vacche rapporto al vitto, al governo, ed alla custodia, sono presso di noi trattate perfettamente a livello dei lanuti, onde soffrono le stesse vicende e le stesse disgrazie negli anni nevosi, o di opportuno pascolo deficienti. Anzi tanto più vi soggiacciono, quanto più malagevole rendesi alle medesime il pascolar l’erbe corte attesa la grossolana struttura della loro bocca, e la difficoltà di gir vacando per ogni dove per la mole della loro machina, e per la lentezza del proprio movimento. Di cotesti animali non si ha positiva cura, si accompagnano semplicemente al pascolo, e si mungono nella stagione propria, la quale nella maggior parte delle nostre provincie si restringe a pochi mesi dell’anno, ed in molti poderi non si mungono affatto, perché abbiamo bisogno di molte vacche per averne un numero
sufficiente di partorite; e per il poco latte che danno abbiamo bisogno di molte vacche lattifere per farne il cacio. Di 100 vacche, appena 50 partoriscono nel corso dell’anno, ove l’industria va felicissima, e ove questa è men felice, ne partoriscono anche meno, e men se ne mungono quando le campagne presentano molto pascolo. Il latte ch’esse danno per 7 mesi dell’anno al più non eccede le 4 caraffe al giorno compensando i tempi propizi coi men fausti. Ma ciò avviene soltanto in alcuni pochi poderi della Capitanata, di Abruzzo, e di Calabria, in forza di particolari circostanze di quei luoghi privilegiati dalla natura che li fa abbondar più lungamente di erbe da prato. Ma nelle altre provincie, o le vacche non si mungono affatto, o si mungono solo nel mese di maggio e giugno, o ottobre e novembre, e danno pochissimo latte. Quindi la rendita di una buona vacca da latte presso di noi è da 4 a 8 ducati l’anno netta di spese, mentre in Sorrento con maggiori attenzioni si giunge a ritrarre dalle vacche 24 ducati a testa. Siamo soliti eziandio assoggettare le vacche in più luoghi alla tritura del grano e delle biade, penoso travaglio, che di rado va disgiunto da frattura di ossa, da lussazioni, ed altri funesti accidenti. A migliorare la razza, a sceglier le vacche di quella conformazione e di quella specie che a dar molto latte richiedesi, a conservarle lattifere colle cure riconosciute ormai da tutti popoli dell'Europa, par che non ponghiamo la menoma attenzione. Il sale,
che pur diamo alle pecore, si niega alle vacche, cui sarebbe egualmente giovevole e necessario; quindi non dee far meraviglia, se
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menano vita stentata, se danno pochi allievi, e men latte, e se
abbandonate al macello diano carne men buona dei bovi. Di questi il destino è alquanto migliore. Impiegati all’aratro ed al carro, vengono nutriti nelle stalle, non proprie però, né proporzionate al loro numero; quindi sono ancor essi soggetti ai crudeli epizoozie cui concorrano ancora tutte le altre cagioni, che parlando delle infermità contagiose delle pecore accennammo. Invecchiando sogliono i bovi esser meglio trattati per ricavarne carne migliore, e maggior profitto vendendoli a macellai. Dal latte di vacca far si sogliono diverse sorti di cacio, cioè il comune, il cacio cavallo, le provole, ossia grosse provature. Vedremo altrove qual sia il merito di queste varie specie di cacio, e come potrebbero migliorarsi. I nostri cuoi, le nostre pelli, ed il cacio vaccino, non possono star con vantaggio al paragone con quelli di Fiandra, d’Inghilterra, e di Francia, ed abbiamo veduto nel principio di questa memoria, che non sono sufficienti alla nostra ordinaria consumazione.
Questo è lo stato dei nostri armenti bovini e pecorini. La nazione però lotta incerta e divisa sul merito della pastorizia, e sinora par che ignorato abbia i mezzi onde combinarla coll’agricoltura. Vantano gli Abruzzesi il fruttato delle loro pecore da corno, affermando porger netti di spesa dodici carlini l’uno, quando però le stagioni corran felici. Ma computate le pecore non fruttifere, i montoni, e le infinite sciagure che sovente, ed in varie
guise opprimono questa industria, sparirà gran parte del preteso fruttato. Considerate oltre ciò l'ampia estensione dei terreni addetti a pascolo, paragonateli col numero degli animali che a stenti nutriscono, e riflettete al maggior prodotto che meglio coltivati, anche per uso di pastura, dar potrebbero, e vedrete come ogni calcolo che per essi facciasi, poggia sull’ipotesi della generale, ed inveterata oscitanza, come se fosse per noi impossibil cosa di far ciò, che popoli men favoriti dalla natura, e da noi poco rimoti felicemente costumano di fare. Rapporto all'industria delle vacche le pretensioni dei nostri armentari sono assai più ristrette. Il commercio più utile che con queste e coi bovi si faccia; è l’ingrassarle per il macello. Molti han dismesso, e dismettono alla giornata questa stessa industria; on-
de il Governo non prenderà le più efficaci misure per ravvivarla,
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vedremo sempreppiù diminuito e ristretto il numero dei bovi e delle vacche, con danni incalcolabili per l'agricoltura, e per lo Stato. Per persuaderci colla maggior possibile evidenza dell’infelicità dell’attuale nostra pastorizia, osserviamone il prodotto di molti anni. L’emporio di questa è senza dubbio il così detto Tavoliere di Puglia, piana e vasta regione, che sulla larghezza media di 40 si estende per 70 miglia. Esistono in Foggia, capitale di quella regione e centro di questa industria, i registri doganali, nei quali colle varie somme annuali dal governo ritratte sulle pecore e sulle vacche, sono segnate le ottime, le buone, le mediocri, le cattive, le più cattive, o le pessime annate. Or questi registri ci danno a vedere, che nel periodo di 50 anni, cioè dal 1750, sino al 1789, avemmo dai nostri armenti due annate di ottima rendita, cinque pessime, tredici cattive o più cattive, 15 mediocri, e altrettante buone, val quanto dire, diviso il prodotto di questi anni, l’ordinario e comune è men del mediocre presso di noi stessi. Ma quel che noi chiamiamo annata ottima rapporto agli armenti, nell’alta Italia, nella Svizzera, nella Fiandra, in Olanda, in Inghilterra non sarebbe che mediocre o anche infelice!. Nel principio di questa memoria ho riportata l’esorbitante somma, che per il cacio, per le pelli, e per le cuoia paghiamo in ogni anno agli stranieri, possedendo 25 milioni di moggia di fertilissima terra; altro argomento decisivo egli è questo dell’errore di coloro che credono esser prospera la nostra pastorizia. Finalmente la carne non entra per nulla nel vitto dei contadini o della
plebe, e la carne vaccina non entra nel vitto ordinario degli agiati e ricchi cittadini, se non nella Capitale, ed in quattro, o cinque altre città principali del Regno. Spesso ancora bisogna ricorrere all’Agro Romano, alle maremme di Toscana e di Ferrara, alle Marche di Fermo e di Ancona, e più in su ancora, perché non resti la capitale priva di carne vaccina!4. Resta adunque dimostrato, che la nostra pastorizia è in uno stato di languore, e di
decadenza. 13 L'uso dei prati artificiali stabilito presso queste nazioni industriose ha dato alla pastorizia un frutto sicuro e stabile almen quattruplo sul nostro. Per crederlo basta osservare quel che danno di frutto le vacche in Sorrento. 14 Nel 1807 si dové far venire dalle riferite regioni circa dieci mila bestie da corno per l’approvisionamento della capitale, che non si potea attendere dalla Puglia e dalla Calabria per la mortalità ch’ebbe luogo.
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Ma è forse il suolo o il clima che si oppongono ai progressi di quest'arte tra di noi? Son forse le leggi che finora l’abbian ritardati? Che il nostro feracissimo suolo sia oltremodo alla pastorizia idoneo, non troverassi per avventura chi lo voglia recar in dubbio, osservandosi poi sotto il nostro cielo i vari climi di Europa più analoghi alla vegetazione; rapporto alla pastorizia, nei nostri monti, dovremmo esser più felici degli Svizzeri, ed al pari dei Lombardi nelle nostre pianure, se per noi si usasse di quel regolamento, e di quelle diligenze, onde quei popoli industriosi guidano e governano i loro armenti, e le loro praterie. Arrecar si solea per iscusa dei tardi e lenti progressi della pastorizia e dell’agricoltura il governo feudale, la comunità, e la servitù dei pascoli, cose tutte di già per le nuove leggi abolite, senza riflettere che furono presso di noi molti paesi non feudali, scevri di ogni servitù di pascolo e di demanio comunale, e ciò non per tanto la di lor pastorizia si giacque sempre negletta, né unquemai divenne migliore. Ma qui fa d’uopo fermarsi alquanto, per divisare più generali ed esistenti cagioni, che, se non saranno efficacemente combattute e rimosse, renderanno vane le nostre lusinghe e i nostri sforzi. E cominciamo dal non arrossire indicando per la prima, e più potente cagione dei nostri mali, la generale oscitanza del popolo e dei proprietari. Questa, figlia in parte della mollezza del clima e della fecondità del suolo, che ambe ci spingono all’ozio, ed in parte della deficienza di publica istruzione e di spirito publico, ci rende inerti e quasi stranieri a noi stessi, allo stato, ed ai posteri. La mania di sboscare, e la tolleranza delle paludi in tutte le provincie del Regno, quanto influiscano ad ammiserire e restringere il frutto e la fecondità delle nostre terre, ed il numero dei nostri animali, lho dimostrato nella mia memoria sull'economia delle acque. Inoltre gli affitti a breve tempo, come tra noi usansi, vietan principalmente i progressi della pastorizia. Chi può pensare a mescolare la creta o l’argilla colla sabbia, ed a vicenda? Chi può pensare a prosciugare le terre paludose, o render irrigabili quelle che presso i fiumi si giacciono? Chi si occuperà mai a formar dei prati secondo le regole dell’arte, o a fare delle piantagioni nelle terre, che abbandonar dee dopo tre o sei anni al più? Niuno dei fittuati certamente. Sarebbe lo stesso che rovinar se stessi ed
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arricchire gli oziosi avidi proprietari, che non usano intraprendere siffatte bonificazioni per non privarsi della rendita attuale, e per non gravarsi di spese straordinarie. In Inghilterra non si ravvisa affitto che minor durata di 18 anni si abbia, quindi la pastorizia grandemente fiorisce, e vi si fanno le migliorie corrispondenti alla prosperità di questa industria, e dell’agricoltura. Aggiungete il tarlo corrosore dell’agricoltura, della pastorizia, e della pescagione tra noi, cioè quel contratto usurario, che la miseria dei contadini, dei pastori, e dei marinari ha da gran tempo stabilito sotto il nome di contratti alla voce, o a prezzo fatto dagli usurai istessi; e nella povertà forzosa delle classi più utili della nazione trovarete un altro potentissimo ostacolo alla prosperità della pastorizia, i di cui prodotti, come quelli della coltivazione, soglionsi vendere avanti l’esistenza, e maturità!?. Finalmente per un inveterato e generale pregiudizio noi vogliamo ritrarre dai lanuti, più che dagli armenti bovini la carne; ed a quelli diam tanta preferenza, che delle vacche da latte, le quali potrebbero esser mantenute, come a Sorrento si usa, in tutta la Campania e in tutt’i poderi delle altre provincie in grandissimo numero, ci curiamo assai poco; anzi ove le vacche abbian luogo nei nostri più fecondi poderi, son così trascurate, che cer-
tamente fruttan meno di un corrispondente valore impiegato nei branchi di pecore. Intanto l’esperienza, la ragione, e l'economia pubblica esigerebbero che si moltiplicassero per l’uso della carne e del cacio gli armenti, bovini, serbandosi principalmente per la lana i pecorini. L’esempio dell’alta Italia, della Svizzera, dell’Inghilterra etc. ci assicurano della verità, e dei vantaggi di questa nuova pratica, e la ragione e l’analisi li dimostra ad evidenza. La carne vaccina non solo è migliore al palato, ma è assai più nutri!> Nei secoli che chiamiamo barbari la religione, e la pietà dei privati, osò frapporre a tal vizio qualche argine, creando da pertutto monti frumentari a sovvenimento dei poveri industriosi. Io ne conosco circa 450, ma disgraziatamente né questi né l’altro formato sotto la passata dinastia colle sostanze delle chiese, che sono il patrimonio dei poveri, hanno il destino, che all’istituzione, ed al loro nome conviene. L’ottimo Marchese Palmieri a stenti riuscì a portar qualche riforma nel modo di far la voce, o sia il prezzo di generi venduti con anticipazione, ed il di lui consiglio di creare nuovi monti frumentari in ogni distretto è rimasto non solo ineseguito, ma si son perduti gli esistenti. Un abile ministro potrebbe ricuperare gli smarriti, accrescerli, o crearne dei nuovi dapertutto, ada i ricchi delle provincie a quest'opera salutare con delle condizioni utili ai fondatori, e con l’indipendenza. La religione potrebbe grandemente agevolare questo pio uso, combinandosi col governo.
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tiva della pecorina. Il latte di vacca dà cacio e burro di miglior qualità del pecorino, la vacca partorisce ad un dipresso in ogni 15 mesi, e quando sia ben nutrita dà latte sino all’ottavo mese di gravidanza, e dopo 40 giorni dal parto. La pecora nello stesso periodo partorisce due volte, manca di latte al terzo mese e allatta per più di due mesi il debole agnello, e mungendosi non dà lana buona. In ultimo luogo per pascolo della migliore vacca da latte presso di noi basta quello che s’impiega a dieci pecore, dalle quali nei tempi propizi potrete a stenti trarre quattro in cinque libbre di latte, mentre in questi stessi tempi, che son più lunghi per le buone vacche, ritraendone sole 4 caraffe, e non 12, e 20 come in Sorrento accade, si ha il doppio. Paragonate su questi
dati il prodotto delle pecore e delle vacche, rapporto al latte ed alla carne, ed avrete la dimostrazione la più completa, che il sostituire per le carni e pel cacio alle pecore gli armenti bovini sia cosa lodevole e vantaggiosissima per i privati e per lo Stato. Da quanto sin qui ho esposto, egli è manifesto, che la nostra pastorizia sia in uno stato di languore, e di miseria, ed esaminate le cagioni che l’infestano, chiaro è ed evidente non potersi perfezionare nella più bella parte d’Italia, se proprietari ed il Governo non gareggeranno a vicenda DIR loro rispettive forze e coi loro lumi ad estenderla e migliorarla. È poi la pastorizia, come dimostrerò, la prima tra le industrie campestri, che l’indole del nostro suolo, e le circostanze politiche della nazione richiamano a preferenza, e ne ripromettono al tempo stesso i più gran-
di e stabili emolumenti. E dessa indispensabile alla perfezione dell’agricoltura. E necessaria finalmente ad avvivare le nostre arti ed il commercio.
5. Le cause della povertà”
Noel
[...] Prima di additar i mezzi, stimiamo cosa utile di breve-
mente indagare quali sien le cagioni dell’esistenza di tanti poveri e vagabondi. La cognizione delle medesime somministrerà sul momento il modo di minorarne il numero. È più savio quel mee
Filippo Rizzi, Dissertazione sull'impiego de’ poveri, Napoli 1806, $ IV,
pp. 10-42.
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dico, che si applica a curare e prevenire nel tempo stesso le malattie, che quegli, il quale attende solamente a guarirle. Le cagioni dei poveri nel nostro Regno sono morali, e non fisiche. La fertilità e la estensione del suolo, non men che la dolcezza del clima, e il mare, da cui quasi per tutti i punti siam circondati, escludono le ultime. Tutto alle prime deesi rifondere. Ma meno male, perché volentieri riparasi; e spezialmente per lo fortunato cambiamento dopo una lunga serie di sciagure a questo Reame apportato dalle invincibili imperiali armi del primo Eroe dell’universo, e del più potente Sovrano della terra, Napoleone il Grande.
1. La prima cagione si è perché una moltitudine di persone tengonsi racchiuse in carcere. Altro non fanno, che studiare delle scelleratezze, e consumare, senza far niente, ciò che il contadino procaccia dalla terra. Da tante braccia, che restan inutili, nasce la carestia. Sono rei? E perché non si condannano all’opere pubbliche, a coltivar i terreni, o all’ultimo supplizio?! Se sono inno! Sebbene questa proposizione non sia ricevuta da alcuni dotti scrittori di giurisprudenza criminale, e in particolare dal celebre Beccaria, la preferisco però al sentimento di cotestui. Egli dice, che niuno può ammazzarsi. Il governo civile, essendo il risultato della cessione dei dritti di ciascuno individuo, non può punire colla morte, giacché non può rappresentare quei dritti, che gl’individui dello Stato non hanno. Tale opinione ha molti seguaci: volentieri illude a primo aspetto. Ma con più vivo lume chiamata ad esame si rinviene erronea. Da un principio assai differente di quello che suppone il prelodato Autore, nasce la facoltà nel governo di dare l’estremo castigo. E incontrastabile, che chiunque è indebitamente assalito ha il dritto di scampar la morte, anche uccidendo l’ingiusto assalitore. Quell’essere, che deteriora lo stato altrui, viola la legge dell’ordine. L’offeso, che ha il dritto di esistere e di conservarsi in quel rapporto, dove la natura lo ha posto, possiede conseguentemente il dritto di resistenza, ossia di difendersi, deteriorando eziandio l’essere nocivo. Questa ragione, quando l’uomo vien in città, passa nelle mani di colui che della pubblica volontà, e delle forze comuni è vindice e custode. Or questo è quel diritto che il sommo impero rappresenta per cessione fattagli da ogni uomo unito in società. Egli dunque si prende la cura della vendetta, d’onde il diritto delle pene ha la sua vera sorgente. Oltracciò preme Sigoverno ben organizzato di prevedere, ed allontanare i delitti. Non è da risparmiarsi la vita a chi una volta è stato nocivo alla comunità. È imprudenza alimentar un aspide, o coltivar la gramigna nei campi. Il loglio se interamente non si separa, il frumento tutto si guasta. Il lievito fa fermentare tutta la massa, cui si mischia. Le persone avvezze a delinquere corrompono il rimanente della società, e difficilmente si ravvedono. Sia comunque. E meglio che periscan le piante infette, che lasciarle tra le altre buone. Il timor della pena è un argine fortissimo, il quale tanto più si sperimenta valido, quanto maggiore è la pena istessa.
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centi, si faccian ritornare alle loro industrie. I carceri servono per rimediare al momento, non per luogo di pagar la pena. Che si può sperare da uomini, che si trovan detenuti per furti, omicidi, o altri delitti? L’ozio li rende più scellerati. Ai ministri addetti a tal uffizio s'imponga che disbrighino le cause in brevissimo determinato tempo. Se mancano di usare tutta la sollecitudine, severamente si gastighino ad esempio degli altri. Le leggi non servono a nulla, se non sono prontamente eseguite. I detenuti per cause civili si scarcerino. Si abolisca l’azione personale. Il carcere è fatto per custodire chi è reo. Qual delitto ha commesso quegli, che a tempo non ha pagato il debito, o non può soddisfare i creditori? O ha beni, e si proceda all’esecuzione reale: o non ne ha, e merita allora soccorso. Cercar l’acqua dalla pomice è follia. È cosa antipolitica e ingiusta incarcerarsi una persona per debiti2. Vale l’istesso, che ridurre la gente all’impossibilità di pagare, e privarla dei mezzi del sostentamento. Toglionsi di più allo Stato delle braccia, che gli appartengono, che gli son necessarie, e che su di esse il privato non ha dritto veruno. M’immagino di esservi altri che dica: Togliendosi l’azione personale, non si pagherebbe volentieri, o non si troverebbe denaro in prestito. L'opposizione è frivola. Non è luogo opportuno di qui dilungarmi. Accennerò solo, che i creditori sarebbero più cauti. La gente viziosa e prodiga, con difficoltà trovando a far debiti, non così facilmente dissiparebbe. Gli uomini tutti impareranno ad essere di buona fede e onesti per meritare l’altrui fiducia. Non intendo però parlare dell’istessa guisa per i negozianti di cambiali, o che fanno delle assicurazioni.
2. Consiste la seconda cagione in alcuni difetti della costituzione dei giudizi tanto criminali che civili. Uno principalmente riguarda le informazioni criminali che si commettono a subalterni. Questi per necessità, se non sono, diventano immorali. Fanno
l’innocente reo, e netto di colpa il delinquente. Il preside, gli uditori, i capi di officio, hanno dei ricorsi, sanno l’empietà che si ? Diodoro nota un errore in alcuni legislatori della Grecia, i quali vietavano di togliere per debiti agli agricoltori il loro cavallo, carro, o altri strumenti rurali; e permettevano di far prigioni gl’istessi agricoltori (lib. I, p. 71). Col capitolo del Regno, che comincia Pride: contra insolentiam, e colla prammat. 47, de Offic., Sacro Regio Consiglio, si proibisce di far l'esecuzione nei buoi aratori, strumenti di arare; e comanda, che si carcerino i debitori. Ma chi poi farà
uso di tali strumenti? L’accessorio vien ad esser migliore del principale.
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commettono; ma o fingono, o non posson impedirle. Ecco quante famiglie s'impoveriscono dalla rapacità di costoro, i quali, non avendo salario (conforme praticavasi nel passato governo) credono di aver il dritto, e di esser autorizzati a vivere sulle rovine altrui. Secondamente l’unità dei testimoni per legge non fa veruna pruova?. Il processo intanto si compila dal solo notaro della causa, ossia dallo scrivano, che a suo modo, e giusta il disegno che si ha formato, tesse il fatto fiscale, e le deposizioni dei testimoni. Malgrado ciò si vien da giudici a prestar fede a cotestui, ch’è un solo testimonio; testimone, della cui dislealtà il pubblico e il governo n’è convinto. Quindi ne segue, che potendo impunemente adoprar l'oppressione, trionferà l’ingiustizia e la povertà. Si eviterebbero i divisati sconcerti, se i testimoni delle parti querelanti e querelate contemporaneamente si ascoltassero dai giudici che debbon decidere. Il decreto è una conseguenza che nasce dal processo. Laonde colui che lo compila, profferisce la sentenza. L’altro si è, che i giudici sono ordinariamente in numero dispari. Ho ciò ancora osservato in molte altre nazioni colte. I votanti in qualunque giudizio civile, o criminale debbon essere in numero pari, val quanto dire quattro, sei, otto etc. I tribunali collegiati sono costituiti ad oggetto di far decidere le cause da più, e non da una persona. Uno facilmente è soggetto ad ingannarsi. Quante volte il numero è dispari, per esempio di cinque votanti, tre essendo di parere discrepante da quello dei
due, se eseguesi il voto dei tre, di grazia quanti sono i giudici, che profferiscono la decisione nella supposta causa? Si risponderà forse tre. Noi diciam di no: è uno. Da tre si tolgan due, che sono di contrari parere, resta uno. Ond’è che un solo giudice vien a decretare, ed il tribunale non è più collegiato. Ma se i votanti fossero in numero pari, o sono eguali i voti, o nel numero di più. Si supponga, che sien otto. Tre abbiano un sentimento il quale non sia uniforme a quello dei cinque. Si tolgan tre da cinque rimangon due di più. E se quattro inclinano verso l’una delle parti, e quattro per l’altra, allora la lite resta indecisa. È un chiaro segno che, siasi preso dell’abbaglio da un dei giudici, e l’affare merita considerazione. La verità è una. > Leg. 9, € 1, Cod. de test.
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Donde questa discrepanza? Il giudizio di uno solo non è sufficiente a decidere. Se il decreto è una conseguenza la quale nasce dalla legge e dal fatto, che ne formano le due premesse, il metodo da tenersi è, o si analizzi più attentamente la causa, o si aggiunga altro numero pari di giudici, per esaminare da qual principio derivi tal discrepanza, e in che difetti l’un dei raziocini. Dietro la determinazione dell’abbaglio il giudice giusto e virtuoso si sgannerà; e se non tutti di quel partito, almeno porzione, che basterà a fare il numero di più. x Non ci s’incolpi, se siamo entrati in questa disamina. E interessante, che la vita e le proprietà sien sicure. Questi sagri diritti vengono solamente garantiti da una saggia, regolare, e inalterabile legislazione, ch’è l'indice della civiltà di uno Stato. 3. La terza è la poca attenzione che si ha nell’insinuare il buon costume. Vizi, discordie, ozio, miserie, ed anco le rivoluzioni son effetti che dipendono dalla scarsa educazione. Ella è il
cardine, e l’esaltamento delle nazioni. E in somma la maga dell’universo, che giunge a migliorar la natura stessa. Dalla storia ci vien dimostrato, che dove non vi è buon costume, ivi i paesi, ancorché opulenti, son divenuti miserabili*. Se in alcune contrade la pubblica educazione ad altro non serve, che a conservar le naturali disposizioni, in questa nostra servirà a correggere la natura ed i costumi stessi. Per il che sono indispensabili in ogni paese le pubbliche scuole di educazione pei fanciulli dell’uno e dell’altro sesso fin all’età almeno di dieci anni. Conforme toccan il quinto anno, sien obbligati i genitori, i tutori, o in loro mancanza, i parrochi, di farli andare alle summentovate scuole per imparar i buoni costumi; giacché le massime apprese nell’infanzia ci seguon fin alla vecchiezza?. L'attenzione dei padri e delle madri non basta. Frequentemente per una cieca tenerezza ne divengon incapaci. Caronda formò una legge a quei di Turio, colla quale tutt’i figliuoli venivan obbligati d’istruirsi nelle belle lettere. A qual fine stipendiò dei lettori pubblici per la general istru4 Sin a quando regnò tra i Romani il buon costume, da pastori vagabondi divennero i padroni del mondo. Siccome cominciaron a rilasciarsi dall’antica severità e disciplina, s’immersero nei vizi, ricaddero nella mendicità e nel disprezzo. ° Natura tenacissimi sumus lorum, quae rudibus annis percepimus, ut sapor, quae
nova imbuat (Quintilian., lib. II, cap. 8).
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zione. Tutt’i politici convengono che l’educazione sia una parte essenziale del governo. In Persia n’era al pubblico addossato il pensiere. Tutto eravi regolarmente stabilito. Quindi i Persiani furon il modello della temperanza, della sobrietà, e di soffrir le più dure fatiche. Da Licurgo si considerava come il più importante affare di un legislatore. Appartenendo i figliuoli più allo Stato, volle che l’istesso ne avesse l’arbitrio. Quando i costumi non son regolati dalle leggi, ne addivien la sfrenatezza. Addimandato il Re Pausania, perché in Isparta non fosse permesso alcun cambiamento nei costumi, perché in Isparta egli rispose, /e leggi comandano agli uomini e non gli uomini alle leggi. A cotal
principio è dovuto il coraggio, e le virtù degli Spartani‘. Chi dirige l'educazione, prenda cura che si parli e scriva bene la propria lingua”. Soprattutto si badi che apprendano a ubbidire, pensar molto, pensar giustamente, e parlar poco. Di ciò assai si. vantavano i Cretesi. Non s’insegnino cose sopra il loro intendimento, altrimente diverranno tanti automi. I termini che ignorano impediranno di sottoporli alla ragione. Non è nostro disegno di comporre qui un’opera di educazione. Ne conosciam però il bisogno8. Le persone consagrate a sì grande impiego si attendano un giusto tributo di stima. 4. Alla trascurata agricoltura è da imputarsi la quarta. Il nostro Regno essendo agricola, la principale occupazione debbe cadere su di essa; tanto maggiormente ch’è la più degna, la più antica e conforme alla natura dell’uomo, quale comune nutrice di tutte le condizioni ed età. All’opposto campagne rase, folte in© Dic hospes, nos te hic vidisse jacentes. Dum sanctis patriae legibus obsequiamur (Cic., Tuscul. quaest., lib. 1, n. 10). È cosa vergognosa il non sapersi esprimere con purezza nel natio idioma, Non tam praeclarum est scire latine, quam turpe nescire, diceva Cicerone. Ordina-
riamente dal volgo nell’Italia (tranne l’Etruria) si parla male, e sì differentemente il proprio linguaggio. Pare, che quali duri nipoti dei gelati figli del Settentrione respiriamo ancora in questo qualche aura di barbarie. Presso i Greci era in vigore ogni genere di scienze perché si stimava e si studiava la lingua natia; la ha in ragion che si perfeziona, fanno dei progressi le scienze. 8 Ci manca in vero un’operetta di pubblica educazione per i figliuoli, che generalmente si dovrebbe a questi leggere dai direttori. Per non recar noia, e per facilitar la memoria, sia distribuita in tanti conti e dialoghi, che divertan quei di cinque anni egualmente che quelli di dieci, e di quindici. In essi contengansi delle massime morali. Spesso a bella posta si ripeta la venerazione dell'Ente Supremo, l’ubbidienza al Sovrano, alle leggi, e ai maggiori; che non vi sia cosa più vile, quanto l’andar in collera, mentire, esser infingardo, e avido. Possano gli eruditi prima di noi invogliarsi a quella utile impresa.
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fruttuose boscaglie, terreni incolti, corsi di acqua disordinati, acque rimpozzate, e macchioni si presentano all’occhio dello spettatore. Invano sulla nostra marca ha la natura prodigalizzato i suoi doni. In vece di profittarne, li ributtiamo. Guardo il mio patrio suolo, dove fu l’antica Velia?, e dal rossore son oppresso. Cerco il delizioso bosco di Trebazio!°, e di rovi lo trovo ingombrato. Se a Senofane, Parmenide, Zenone, Leucippo, Alcidaman-
te, e a Papirio fosse permesso di riveder la loro patria, da qual tristezza non sarebbero sorpresi, in mirandola coperta di rottami? Non ravviserebbero più i ridenti giardini, i fronzuti vigneti, alberi di squisite frutta, ed altre magnificenze. Si attristerebbero nell’udir il rauco mormorio delle ranocchie, succedute ad abitar
la più coltivata ed amena campagna, che formava l'abbondanza e il divertimento dei più degni cittadini romani. Ora puzzolenti acque stagnano in una parte di essa, dalle quali svolgendosi un gas azoto, rendesi insalubre quell’atmosfera che prima era tanto vitale!!., Non è minore la squallidezza di molte campagne dell’altre provincie. Dalla maggior parte si trascurano le cognizioni agra? Oggidì vien appellata Castellammare della Bruca. Questa rinomata città di Velia, situata in un ameno colle vicino al mare, è circondata da fertili terreni, cui attaccano dalla parte di oriente e di occidente due estesi piani feraci di biade, e propri per qualunque sorte di alberi. Ha un bello, e giulivo cratere con vastissimo orizzonte. Un dei suoi porti (portusque require Velinos, Virg., Aeneid.) immediatamente sotto il castello verso occidente ha dato origine a un piccolo lago, alle cui acque stagnanti per mezzo dei soffi aprendosi il corso, resterebbero eccellenti terreni per la seminazione, e l’aria deporrebbe quella qualità azota, che acquista nelle stagioni di state e autunno. L’altro porto verso oriente in distanza di un miglio circa viene ora denominato porticello; donde essendosi il mare discostato, ha lasciato un terreno fertilissimo. Quivi per la sua bontà o per la dolcezza del clima fisico, oltre delle saporitissime frutta, produce soprattutto degli squisiti limoni in tutte le stagioni. La prelodata città fu patria d’illustri filosofi, e di famosi guerrieri ancora: Et certe Eleatica schola literas simul, et arma pari bonore curae habuit. Sinesius in ser-
mone de dono astrolabii ad Paeonium. Platone da tali filosofi acquistò i migliori lumi: Quapropter inventa Parmenidis ac Zenonis studiosus executus, ita omnibus, qua admirationi sunt, suos libros explevit (Apulejus, de dogmeat. Platonis). Da un infelice avanzo di essa fu edificata Ascea, lontana poco più di un miglio; fondazione greca, siccome chiaramente si deduce dall’etimologia a xa, sine umbra: ed in realtà corrisponde alla cosa, essendo siffatto paese situato in una deliziosa collina esposta a tutt’i punti. !° Quamquam enim Velia non est vilior, quam Lupercale... Tu si me audies, paternas possessiones tenebis... nec Papirianam domum deseres, quamquam illa quidem habet lucum, a quo etiam advenae teneri solent (Cicer., epistol. 21, lib. 7). !! Deinde etiam tuam Domum, tuosque agros, caque remoto, salubri, amenoque loco: idque et mea interesse, mi Trebatii, arbitror (Ibidem).
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rie. Si pianta, si pota, si zappa, si semina, si raccolgono, e si conservano i prodotti senza alcuna regola, ed alla cieca, seguitando
la traccia di chi con poco avvedimento precede. Come le pecorelle escon dal chiuso. Ad una, a due, a tre, e l’altre stanno
Timidette atterrando e gli occhi e muso, E ciò, che fa la prima, e l’altre fanno. Addossandosi a lei, s'ella s’arresta Semplici, e quete, e lo perché non sanno.
La terra debb’essere ben lavorata, e le piante opportunamente trattate!? per riscuoterne del corrispondente frutto. L’agricoltura è la Dea ubertosa dei campi, l’unica sorgente di ogni ricchezza, la famosa educatrice, cui l’uom tanto è tenuto. Sgombra i fitti boschi, dà novella ridente faccia alla terra, procaccia il sostentamento a viventi. A questa l'Egitto è debitore della sua opulenza. Intanto in alcune campagne di Terra di Lavoro la fecondità di continuo si ravvisa, e in certe provincie meridionali della China sin a tre volte l’anno ricolgono dei risi; perché coltivano i terreni con arte. Si giugnerebbe facilmente a promuovere ed istruir la gioventù negli esercizi camperecci, se il governo determinasse che niuno possa ammogliarsi, se non avrà piantato, o fatto piantare
cento alberi fruttiferi: come ancora nessuno possa esser promosso agli ordini sagri, o vestir abito religioso, se non avrà piantato cinquanta di detti alberi. Prevedo, che questa sovrana deliberazione sarà con impegno secondata dai poveri, ricchi equalmente, che da nobili. Ciro il giovane più di ogni altra cosa ebbe a gloriarsi con Lisandro spartano, passeggiando in Sardi, ch’egli di propria mano avea piantato molti alberi che ivi vedeansi!3. Gelone re di Siracusa si prendeva piacere di comparire alla testa degli agricoltori. La principale massima politica, sopra la quale 12 S; riscontri la memoria sul tempo della potatura delle viti da noi nel prossimo passato mese di settembre stampata. 13 Cum Cyrus respondisset: Ego ista sum dimensus, mei sunt ordines, mea descriptio, multae etiam istarum arborum mea manu sunt satae; tum Lysandrum intuentem ejus purpuram, et nitorem corporis, ornatumque Persicum multo auro, multisque gem-
mis dixisse: Recte vero te, Cyre, beatum ferunt, quoniam virtuti tuae fortuna conjuncta est (Cicer., de senect., num. 59).
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dee calcarsi, è mettere in riputazione la coltura delle terre, ch’è
il più forte appoggio, e il vero sostegno dello Stato. Se qualcuno non avesse terreno, dimandi in enfiteusi una porzione di demaniali, o di quelli dei particolari, che incolti o in soperchianza ne tenessero!*. Per l’eseguimento s’incarichino i parrochi, i vescovi, ed altre dignità monastiche, che sotto gravi pene si astengano di spedire carte per contrarre matrimoni, conferire ordini sagri, e ricever alcun individuo nella comunità, se
prima non costi che abbian adempiuto la prelodata deliberazione. Stabilendosi le scuole per la pubblica educazione, gl’istessi lettori insegneranno l’elementali nozioni di agricoltura, essendo la maestra, e la scuola della temperanza, della giustizia, della religione, e di tutte le virtù. Ond’è che queste non vanno scompagnate tra essoloro. Da volta in volta faccian dell’escite in campagna cogli allievi per istruirli nell’innestare, potare, sulla diversità della terra etc. 5. Nella mancanza del commercio consiste la quinta. Con siffatto mezzo si apre un’ampia via alle ricchezze. Col traffico ritraggono tutt’i Genovesi e gli Olandesi la loro sussistenza. Quel poco, che siam per dire, basterà a rispondere all’opposizione, che forse si va ad incontrare. Taluni penseranno, ch’essendo questa regione agricola, il commercio recherà piuttosto del danno. Dappoiché è agricola, debb’essere via più favorito il commercio. In ragione ch’egli fiorisce, avrà luogo la fecondità della terra. Allorché il proprietario fondiario e il contadino trova facilmente ad esitare i prodotti delle sue tenute, avrà nell’anno appresso maggior impegno e possibilità di coltivarle. Ritardandosi la vendita 14 Ogni governo dovrebbe porre mente sulla sproporzionata acquisizione dei terreni. Con qual ragione un uom solo si appropria delle ampie aes e degl’immensi campi, che non misura il suo piede, la mano sua non occupa? Siccome fu utilissima la legge dell’ammortizzazione, così riuscirebbe assai più vantaggioso se si mettesse un fieno a quei che smodatamente posseggono dei beni stabili. Ai senatori romani era delitto di possedere più di 500 iugeri di terra. L’ineguaglianza eccessiva delle ricchezze avvilisce la misera plebe. Indarno sul popolo depresso il Sovrano cerca l'appoggio. Non potendo i ricchi possessori coltivar le vaste tenute che hanno, restano infruttuose col discapito d’innumerabili individui che periscono per non posseder nulla. Se l’autor del tutto vuole, che l’uomo viva e si nutrisca della terra, vuole benanche, ch’egli ne occupasse una porzione. La medesima dovrebbesi avere, come un sagro diritto, senza potersi affatto alienare.
S’ingannò Locke, allorché disse che, fissato il prezzo, gli acquisti eran illimitati. Ogni essere ha la sua sfera confinata. Colui, che vuole stendere la sua forza di là dei confini dell’istessa, commette un delitto d’invasione.
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delle sue derrate, si scoraggia, e rendesi impotente alle spese necessarie per la coltura. Ci asteniamo inoltrarci, mentre non evvi chi non sia convinto dall’esperienza. Non s’imputi a difetto, se siamo brevi in quelle cose che da molti vengon ripetute; tanto più che non è nostra incumbenza di far un trattato di commercio, di agricoltura, di educazione, o di altra materia. Noi, limitandoci a sciogliere i rapportati quesiti coll’enunciate individuazioni, ragioneremo solamente di quanto è sufficiente su tal proposito. La posizione di questo amenissimo Regno è tale, che circon-
dato dal mare Tirreno, Ionio, e Adriatico, presenta le più belle occasioni per lo commercio in grande. Sul mare si gettan dei ponti d’oro coll’aiuto dei quali si estrae il soverchio, e provvedesi a quanto manca. Le perle del seno Persico, e le stupende quantità dei merluzzi di Terra Nuova sarebbero inutili, se l'Europa non mandasse i suoi navigli. Se i nostri nazionali per mezzo del traffico marittimo estraessero le proprie derrate che soverchiano, profitterebbero del gran guadagno, che gli esteri fanno; e riporterebbero da quei luoghi rimoti degli articoli che a noi mancano. Il fatto si è, che non solo il commercio esterno, ma eziandio
l'interno è poco esteso. I dazi, le gabelle, la mancanza dei canali ed altro sono gli ostacoli per questo ultimo. Se vi fosse l’interna comunicazione, le provincie si somministrerebbero reciprocamente le loro particolari derrate, e i prezzi si livellerebbero egualmente che le acque del mare. La formazione di un canale almeno conferisce a facilitarla. Con questo si avvicinerebbero gli estremi di certi punti del nostro Paese, ai quali il tortuoso e naufragoso viaggio per mare allontana l’accesso. La considerazione dell’utile, che ricavano quelle contrade che godono di tal benefizio, mi anima a farne le premure; spezialmente perché avvi dei luoghi, donde prender le acque. La spesa non debbe atterrire. Qual impresa mai renderebbe immortale e più cara la memoria del Sovrano, che questa! Quant’infelici non si salverebbero in ogni an-
no dalle tumultuose spumeggianti onde, e dalla schiavitù dei barbari Africani! Se il governo fissasse più attentamente gli occhi sul commercio in grande, e se per ragion di stato e di politica proteggesse il traffico marittimo, concedendo dei premi a chi costruisse dei bastimenti ad uso del commercio, e delle franchigie a chi personalmente esercitasse i suoi navigli, arriccherebbe la nazione, preverrebbe i mendici. In oltre il distributore delle marche di onore
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conceda delle statue a quelli primi uomini, che avranno avuto il coraggio d’innalzarsi sopra il ridicolo pregiudizio che fa disprezzare il commercio, e l'agricoltura. A che mai debbesi attribuir il progresso del commercio in Inghilterra? Perché non si riguarda come una professione indegna della nobiltà. Un negoziante fedele può quivi a tutto pretendere. I Lord non si arrossiscono di trattar con essolui, e di usargli dei riguardi. L’avanzamento di tutte le arti utili dipende dai grandi. Una professione sarà più o meno seguita, coltivata e avanzata in conformità ch’essa proccurerà la fortuna e la considerazione. Quei, che pensano bene, si contentano di aver la metà meno di paga purché sien marcati della metà di più di stima. I Fabi, i Camilli, gli Scipioni si contentaron dei soli onori del trionfo. Euribiade e Temistocle rimasero soddisfatti della semplice corona di ulivo data loro in premio dagli Spartani. Gli onesti agricoltori, i laboriosi negozianti si ammettano nel rango dei primi gentiluomini. Si contrassegnino con distinti titoli di nobiltà e di onore. Siano dal governo considerati. I conti, marchesi, duchi, principi li ammettan alla loro amicizia, ai loro divertimenti, e si otterrà un egual successo.
6. La sesta cagione si è, perché molti non hanno un pezzo di terreno. Tutti quei, che non ne posseggono, si danno alla vagabondità: e non tenendo che perdere, non hanno amore alla patria!5. Afflitti dalla considerazione di essere coi loro figli, e ni-
poti schiavi additizi, si lascian in preda della mendicità. L’assegnamento di qualche porzione di terra anche contro voglia è il mezzo di utilizzare questa sorta di gente. Chi nulla possiede, nel caso che non vi sien demaniali nel proprio paese, si mandi nella Puglia, dove i vastissimi terreni conosciuti sotto il nome di Tavoliere, che si stende per sessanta miglia di lunghezza sopra a quaranta di larghezza offron loro acconcio ricetto e impiego. Uno sguardo della Sovranità a quel luogo apporterebbe i più vantaggiosi effetti. !° Gli Sciti Occidentali non ebbero patria finattantoché non cominciaron a coltivare i terreni. Gli Arabi, i Tartari menano continuamente una vita errante,
perché non sono possidenti fondiari. Nella Grecia, in cui tutti eran possessori di un pezzo di terra, l’amore della patria giungeva all’eccesso. I Greci del Peloponneso nel numero solo di quattromila fecero fronte all’esercito dei Persiani composto di tre milioni di uomini (Erodot., lib.7., cap. 238).
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Abbenché vi allignassero degli alberi di varie sorti!6, tuttavia si vede una campagna rasa. Dalla mancanza di essi alberi ne addiviene l’insalubrità, l’aridità, e la penuria delle piogge!?: causa di molte malattie, miserie, e di altri gravissimi mali. Colla piantagione dei boschi e di altri alberi gentili si verranno a migliorare tali inconvenienti della natura. Per condurre ad effetto sì importante impresa, dee darsi almeno qualche riforma all’attual sistema del divisato Tavoliere della Puglia. Non ignoriam gli oggetti, cui sono quelli terreni destinati. La divisione e l’ordine che tiensi per l’uso di essi, merita lode ed ammirazione. Colla più degna avvedutezza si fan successivamente servire alla seminazione, al pascolo dei buoi aratori, ed alla pastorizia, che nel tempo stesso senza ulterior travaglio somministra del concime alle terre seminatorie, donde la fertilità deri-
va. Da ciò comprendesi, che ne risulterebbe un danno, se interamente l’attual sistema!8 si volesse distruggere. i 1° Non mancherà chi si opponga, che nel Tavoliere della Puglia non vi appigli alcun genere di arbori. Conosco il valore di sì fatta contraddizione, in considerando una vasta estensione di terreno raso. Ciò non ostante sono di contrario avviso. Non intendo affatto tacciare i nostri maggiori, che noi abbiam avuto egual interesse, come noi di viver felici. Son persuaso però, che il tempo è il solo scopritore dei grandi arcani, e di molte verità, che a nostri avi furon nascoste. Al presente la nuova chimica, la fisica allo intutto differente da quella della passata età, han porto dei grandissimi lumi all’uom ragionevole. Il pregiudizio, l’impazienza, e il cieco rispetto per i nostri antenati sono ordinariamente cagioni di errori. Più a questo principio, che al suolo attribuisco la mancanza degli alberi nel Tavoliere. Realmente nei tempi di Federico II vi eran delle vigne, oliveti, ed altre piante fruttifere. Da autentici monumenti ne veniam assicurati. Rapporteremo qui alcune parole di un diploma del medesimo, dove si leggono alcuni suoi ordini, Magistro Massariorum suorum in Apulia... Exquiras etiam a singulis (massariîs)... si vinum in mundis, et bonis vascellis, et optimis rebonunt... Et quod per singulos requiras insuper eos de plantandis vineis, olivis, et aliis arboribus fructiferis... (Lettere di Pietro delle Vigne, lib. 3, Cap. 66). Tali terreni facciansi trattare da mano industriosa, e si commetta la soprintendenza, e direzione a persone fornite di cognizioni georgiche; poiché da matrigna, conforme, si suppongono, diverranno madre di abbondanti alberi, siccome in Orta, Ordona e in molti luoghi del Tavoliere ancora ve ne sono. 17 Se nel Tavoliere si piantassero de boschi, ed altri alberi, si richiamerebbero più frequentemente le piogge. Per formarsi la pioggia si richiede assolutamente il concorso del fluido elettrico, e di un certo grado difreddo. Gli arbori in virtù del continuo sudore ch’esalano temperano l’aria riscaldata: e coi loro rami, che terminano in tante punte, richiamano e fissano il fluido elettrico; il quale di unita con qualche temperatura di freddo, attraendo, ed unendo insieme i vapori dispersi nell'atmosfera, li condensa in nubi, e presto si sciolgono in acqua. Di fatto la scarsezza delle piogge in Puglia nel tempo di primavera, e di state altronde non è da ripetersi, che dalla mancanza degli alberi. 18 È fuor di dubbio, che si rovinerebbe uno specioso ramo di ricchezza na-
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
Non però di meno il Tavoliere essendo vasto assai, giova sommamente, che porzione di esso con tutt’i luoghi pii, e di quei terreni adiacenti di altri particolari, si destinino per la piantagione dei boschi, e diansi in enfiteusi con moderato annuo canone in derrate, colla condizione espressa, che l’enfiteuta per ciascun moggio di terra debba ordinatamente piantarvi un certo numero
di alberi fruttiferi in modo che la seminatura non s’impedisca. Conoscerà allora ogni contadino la necessità di fabbricarsi una comoda casetta per non restar esposto alle alternazioni dell’atmosfera, per non ispendere la metà delle forze nel cammino, e per non lasciar in abbandono la sua famiglia. Quelle disabitate diventerebbero il paese dei coloni. La popolazione, il commercio, l’industria, la fertilità crescerebbe; e cesserebbero quei malori,
che al presente si soffrono. 7. La inespertezza, e scarsezza delle levatrici costituisce la settima. Non vi è cosa tanto desiderata e frequente, quanto la riproduzione e perpetuità della propria razza. Sebbene appo di noi efficacemente si concorresse per virtù del clima, o di altro motivo a compiere tal giusto desiderio; niuna pena poi ci diamo, che si lascia una prole difforme, e immersa tra le miserie, in abbandonando le loro madri a nuove infermità e pericoli. Le donne gravide sono soggette agli aborti, a parti difficili, e ad altre penose malattie. Perché non prenderne cura? Padri! non siete voi testimoni dei vostri figli stroppi, e delle vostre care mogli oppresse d’acerbi patimenti per la mancanza, o inespertezza delle levatrici? Il governo viene a sostenere inutilmente tanti sudditi,
ed a perdere delle ottime madri di famiglia. Non altrimenti si allontaneranno questi tristi mali, che in ob-
bligando ciascun paese a far istruire delle donne nell’arte ostetricia secondo il numero delle anime. Le rispettive università sien tenute di mantenerle comodamente in qualche spedale. Ritornando alla loro patria, abbiam l'obbligo di gratis ammaestrar delle altre, proponendosi dei premi a chi meglio si distinguerà in detto mestiere. 8. L'introduzione delle manifatture estere è l’ottava cagione. zionale. Le abbondanti vittovaglie, le carni di varie sorti di animali, le lane, i formaggi, che si ritraggono, sono generi interessanti. Oltracciò porge la sicura sussistenza agli Abruzzesi. Queste provincie per la posizione del suolo tenderebbero alla desolazione senza la pastorizia. Uno dei principali scopi di sì grande opra fu di provvedere ai bisogni delle medesime.
I. Il territorio e gli uomini
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Se almeno si lavorassero da noi quelle che servono per la vestitura e per la comoda abitazione, non si manderebbero fuora ingenti somme, e moltissime famiglie non sarebbero afflitte dalla miseria per mancanza di fatica. Colle manifatture gli Svizzeri suppliscono ai loro bisogni. Tuttoché le nostre fossero inferiori, è interesse del governo proteggerne lo spaccio!? in procurando di ridurle a perfezione. Noi abbondiamo di lino, canapa, seta, lana, bambagia, e simili generi; ma contra ogni principio economico si estraggono per lo più grezzi, e poscia ritornano manifatturati. A questo si aggiunga la condiscendenza e la mania, che generalmente si osserva, di adottare delle usanze. Agli Egizi, che sono stati i popoli i più savi, ricchi, e i più politici, una nuova usanza era una meraviglia. La semplicità, che Ciro sempre usò nel vestire, serva a correggere la nostra vanità. Non si contaminò giammai di
alcun forastiero ornamento. 9. La stima, in cui son tenuti i mendici e vagabondi, serve
come final causa a promuoverli. Quelli, affettando vari rigiri, dalla legge non preveduti, ed abiti diversamente colorati, profittano della stupidezza del pubblico. Non contenti di vivere a spese dell’istesso, commettono dei vituperosi eccessi, autorizzati dal pregiudizio. Ecco il paese in cui sono venerati e rispettati i mal bigatti. Non è meraviglia, se ve n’ha un formicolaio. I lupi corrono dove trovano il pascolo. Giù proporremo le opportune deliberazioni, se il Governo vuol disfarsene. 19 Sembra che disconvenga alla libertà del commercio d’impedir l’immessione tanto direttamente che indirettamente. Gioverà però stabilirsi che tutto l’esercito vesta di panni nazionali, com’eziandio tutta la Real Corte coi Ministri anco nelle grandi gale.
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II LE INDUSTRIE
1. L'esposizione industriale del 1809* È questa la seconda festa che meriti il nome di nazionale: la prima fu quella delle bandiere. Nella prima il Sovrano premiò le virtù militari del suo popolo: in questa il popolo offre al suo Sovrano, per prova del suo attaccamento, nel giorno del suo nome, i prodotti della sua industria. Valore militare, scienze, arti: ecco ciò che forma la vera gloria dei popoli e dei sovrani! L’esposizione ha mostrato che questa nazione non era tanto scarsa di arti quanto mostravan di crederlo per rivalità nazionale gli stranieri e quelli tra nostri i quali mettevano lor gloria nel censurare la propria patria, mentre il primo dovere era quello di amarla, il secondo quello di conoscerla. Le nostre manifatture, simili a quei capitani vissuti prima di Agamennone, dei quali parla Orazio, mancavano di lodatore. Noi stessi ne ignoravamo l’esistenza. Era avvenuto di noi quello stesso che dei Romani corrotti: omnia graece, cum sit nobis turpe magis nescire latine. Ed il pregiudizio era giunto a tale che anche le nostre belle cose, riputate bellissime, finché credute straniere, sembravano brutte appena si conoscevano nazionali. So di una donna che chiese un tal lavoro in Inghilterra: il commessionato lo fece in Napoli, ma lo presentò come inglese e ottenne applausi infiniti. Allora credette il povero * [Vincenzo Cuoco], L'esposizione delle manifatture del Regno, in «Corriere di Napoli», 26 agosto 1809 (l'articolo, senza firma, è attribuito a Cuoco in Scritti vari, a cura di N. Cortese e F. Nicolini, Laterza, Bari 1924).
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commessionato che suo merito sarebbe cresciuto se avesse svelato il segreto, e si fosse dimostrato egli stesso l’autore. Chi non avrebbe pensato egualmente? Ma l’infelice s’ingannò. Svelato il segreto, tutto cangiò di aspetto; l’opera divenne bruttissima, gli fu restituita: egli non ottenne la gloria e perdé il premio delle sue fatiche. Perché questo? Perché queste erano le massime che avea ispirate alla nazione intera Acton, la massima fondamentale della di cui amministrazione fu costantemente quella di discreditare la nazione agli occhi dei Sovrani, e quasi agli occhi suoi propri. Vi era quasi riuscito. E perché no? Possunt qui posse videntur.
E perché non saremo noi artefici eccellenti? Non lo siamo forse stati altre volte? L'Europa non ha ricevute due volte da noi le arti al pari delle scienze? A noi la natura ha dato ingegno grandissimo per il disegno, ingegno per la meccanica. Dalla colomba mobile e dalla spola di Archita fino all’immensa tromba di fuoco che si ammira in Liverpool, la prima che sia stata costrutta in questo genere, il più gran numero delle macchine più importanti è d’invenzione italiana. Quando non sarà più, come lo era sotto il governo borbonico, un delitto lo studiar la chimica, né si cre-
derà che il Galvanismo sia qualche cosa simile al Calvinismo, e che con una macchina elettrica si possa atterrare il castello di S. Elmo!, quando in somma le cognizioni dell’utile chimica saranno più diffuse, chi ci impedirà di progredire nelle arti al pari di ogni altra nazione? È la prima esposizione che noi facciamo delle nostre manifatture: è la prima dopo tre secoli da che le arti erano state condannate all’obbrobrio o almeno all’obblio; è la prima in mezzo alla guerra e col nemico quasi alle porte. Nella prima esposizione delle nostre arti, le manifatture di seteria di S. Leucio, di cappelli del signor Pettinicchi, di terraglia del signor Vecchio, di coralli, di armi, di mobili di legno, delle pelli e dei cuoi, con particolarità della fabbrica stabilita recentemente in Castellamare, la nuova fonderia dei caratteri del signor ! Tutto ciò è avvenuto. Dove? In Napoli. Quando? Nei primi anni del decimonono secolo. E necessaria questa avvertenza perché alla prima lettura del fatto (ed il fatto è letteramente vero) si crederebbe esser avvenuto o in Algieri o nel duodecimo secolo. Tali erano i principali agenti della polizia dei Borboni. Sotto un tale dar non è meraviglia che la nazione non abbia progredito; è ben meraviglia però che non sia retrogradata fino al secolo nono.
II. Le industrie
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Berenger, i lavori di pietre dure, le sete grezze e i drappi formati colle medesime dal signor Petrucci, hanno eguagliato ed in qualche parte anche superato ciò che vi è di più eccellente presso gli esteri. Lo stesso si può dire delle filature dirette dal cavalier Capano, e per lui la gloria è anche maggiore perché la manifattura era quasi interamente nuova in questa capitale. Noi vorremmo poter rendere le debite lodi a tutti gli artisti: la brevità del tempo ce lo impedisce per ora; ma noi ci riserbiamo di farlo nei numeri seguenti con dettaglio maggiore. Parleremo anche delle operazioni e dei lavori della Giunta delle manifatture al di cui zelo ed intelligenza si deve gran parte del progresso delle manifatture nostre.
Il giorno dei 20 agosto farà epoca nella nostra storia. Il nome di Gioacchino sarà inseparabile dall’epoca del risorgimento delle nostre arti, come già lo è da quello della milizia nostra. E inesprimibile l'entusiasmo col quale il popolo vide i suoi Sovrani, quasiché mescolati con lui, applaudire al lavoro delle sue mani. Parevano le grazie ed il valore riunite insieme per giudicare e proteggere le arti. Così la favola narra che Minerva, la quale era al tempo istesso la dea delle grazie oneste, delle arti cittadine e del sapiente valor militare, scendea talvolta dall’alto del suo tempio a passeggiare per le strade del Ceramico ed animare alla nascente industria i suoi diletti Ateniesi.
2. Risorse naturali e manifatture* Tutte le manifatture, che formano uno degli oggetti più interessanti della pubblica felicità, si riducono a tre classi generali: la prima riunisce tutte quelle di prima necessità; la seconda riguarda le manifatture di forza per la nazione; la terza abbraccia tutte le altre di lusso. I primi generi necessari all’istituzione delle suddette classi di manifatture si riducono al cazape, al lino, al cotone, alla lana, alle sete, all'olio, ai tabacchi, a cuoî, alle pelli, all’erbe tintorie, ai minerali metallici e non metallici, ai legnami, alle peci, alle resine. * Prospetto di manifatture, di Gaetano La Pira, senza data, in ASN, Ministero Interni, II inventario, fascio 5067.
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Noi abbiamo tutti li accennati materiali nel suolo istesso della nazione il quale abbonda tanto di alcuni di essi, che se ne forma una continua estrazione; e se la nostra industria fosse meno in-
fingarda si farebbe egualmente continua estrazione degli altri. Abbiamo in massima quantità i canapi, e i lini per tutto il Regno di eccellente condizione; tutta la Terra di Lavoro ne abbonda poi particolarmente. Bari, Taranto, e tutta la provincia di Lecce producono in gran copia i cotoni.
Le lane di ottima specie si hanno in tutte le comuni del Regno; la Puglia però ne abbonda oltremodo. La seta non vi è provincia, che non ne abbia e di condizione,
più che buona: di questo genere in ogni anno se n’estrae gran quantità.
L’olio parimenti si ha in tutto il Regno: ne abbonda poi la Calabria, l’Abruzzo, e la Terra d'Otranto; l'estrazione di questo genere è anche consistente.
I tabacchi si piantano in quantità nella provincia di Lecce, in Atina sopra S. Germano, ma non vi è suolo, che se vogliasi non ne produca. I cuoî, le sole, e le pelli li abbiamo similmente nella nazione,
ed in prodigiosa quantità, la quale ha rapporto al gran consumo degli animali da macello, ed al gran numero destinato per usi militari, civili, e dell’agricoltura, per i quali tutti non abbiam bisogno dei soccorsi dell’estero. L’erbe tintorie sono poco conosciute e trattate: per lo rosso abbiamo la robbia che nasce naturalmente; per lo giallo il croco, il cartamo, la reseda; per lo turchino il guado che si coltiva in S. Donato vicino Sora dal quale può prodursi anche l’indigo; per
alcuni verdi l’alno, e molte altre erbe per le diverse tinte, ch’è inutile rapportarle in questo progetto. Le miniere metalliche e non metalliche che possono servire nelle manifatture, esistono anche nel Regno: nelle Calabrie abbiamo molte miniere di ferro, di piombo, di rame, di manganese, di piombagine, di carbon fossile, di quarzi, di argilla, di feldspato, di selci etc.; negli Abruzzi di ferro, di rame, di selci, di quarzi, di argille etc. Di legnami d’ogni specie il nostro suolo parimenti ne abbonda, e di ottima qualità, quando sappiansi abbattere le piante a tempo debito, e stagionare; basta il dire che finora questo gene-
II. Le industrie
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re, oltre di aver fornito ad esuberanza tutta la quantità necessaria per gli usi di combustione, per i comodi, e mobilia delle popolazioni, per gli arsenali di artiglieria e marina, n’estrae in ogni anno quantità significante. Terra di Lavoro, e le Calabrie sono i luoghi che maggiormente abbondano di legnami. Per la pece abbiamo in Calabria degli alberi di abete picea, dai quali se ne ricava molta pece, di cui ci serviamo in alcune circostanze. Per le resize in Calabria ed in Abruzzo vicino Pescara vi sono dei boschi di pino marittimo; né mancarsi dovrebbe finalmente di catrame avendo noi degli alberi di pino, e delle miniere di carbon fossile, e di gagate. Alla prima classe di manifatture che riunisce tutte quelle di prima necessità si appartengono le tele di ogni sorte, i panni, le sole, le pelli e loro rispettive conce, i saponi, i tabacchi, gli alcali, i vetri, il ferro, l’acciaio, i cotoni lavorati, alcune leghe tintorie, i legnami. La natura quantunque prodiga su queste regioni tutti gli anzidetti generi, come si è detto, pure non si sanno ridurre che in lavori grossolani alcuni dei quali neanche soddisfano la gente di campagna. Le tele di canape o di lino si formano in tutto il regno, ma di
quelle ordinarie, e subitoché vogliasi far uso di qualità alquanto migliori, conviene ricorrere alle tele forestiere con notabile estrazione di danaro. I panni si lavorano in Napoli, in Arpino, nell’Isola di Sora, in Piedimonte di Alife, in Cerreto, in Avellino, in Palena e quan-
tunque se ne lavorano delle ingenti quantità, che ne provedono tutto il Regno di Napoli e di Sicilia, tuttavia la loro condizione è molto ordinaria, e si deve alle attuali guerre, che hanno arrestato la concorrenza della sufficiente quantità dei panni esteri, il vedersi i panni del Regno ricercati dai Napolitani, e Siciliani; con tutto ciò i fabbricanti non ne hanno procurato il miglioramento. In Napoli ed in Sicilia si comprano generalmente i panni del Regno, ma per gli usi giornalieri, e per vestirne domestici, ma la classe più doviziosa che ama di vestire sempre con decenza maggiore fa ricorso a panni forastieri, e questi panni sono per lo più di quelle lane che i stranieri comprano da noi a discreto prezzo, e che tornandole lavorate vendonsi a quelle ardue condizioni, che niuno ignora. Le sole e le pelli per i tomai ed altri usi, si conciano in Napoli,
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in S. Maria di Capua, in Solofra, nel. Cilento, in $S. Germano, nella Guardia di S. Framondi, Montuoro, e nelle provincie degli Abruzzi; la loro concia però si fa colla mortella, che richiede lunghissimo tempo, e presenta alla fine degli infelici risultati. Si possono fare in più breve tempo le sole d'Irlanda i vitelli d’Inghil-
terra, e la concia dei cuoi dei porci, da cui si hanno sole e pelli di maggior durata. I saponi si preparano in Napoli, e negli Abruzzi; ma la soda, uno dei componenti dei medesimi si ritrae dalle nazioni estere. Dovrebbesi stabilire la piantagione della medesima, come altresì la produzione della potassa, altro componente per i saponi molli, e per i cristalli. Delle piante di tabacco che si disse coltivarsi in Lecce ed in Atina in abbondanza, non si fa altro uso che quello di polverizzarsi, prendendo il nome di Leccese, e di erba santa; queste piante però si dovrebbero dividere per le conce dei rapé, che dopo tanti anni ne ignorano il modo di farli, e non altrimenti ignorano la maniera di preparare i diversi tabacchi da furzo, e da masticare. Queste tre ultime preparazioni di tabacco formano l’umiliante necessità di una estrazione molto considerevole di danaro, che potrebbe, come si è detto, evitarsi. I vetri contro ogni buona economia si costruiscono nella sola capitale, ma di quelli verdi da formarne piretti, impagliati, picciole lastre, e simili lavori ordinari, quandoché si dovrebbero co-
struire nei boschi, ed in questo caso potressimo fare ancora dei cristalli, delle bottiglie nere, e tutt'altro che da questo genere si può ripetere, di miglior condizione e prezzo, senza esser soggetti a domandarli degli esteri. La manifattura del ferro, metallo necessarissimo alla società, senza l’aiuto del quale i progetti, e la volontà dei viventi rimarrebbero impediti, si esegue in Stilo di Calabria, piano d’Ardena,
provincia di Montefuscolo. I ferri che risultano dalle ferriere permanenti non riescono però della maggior soddisfazione né tali ferriere somministrano il metallo per ogni ispecie di bisogno. I lavori in lamina si ignorano; gli utensili per la coltura della campagna vengono per lo più da fabbri; il ferro atto alla costruzione delle canne per fucili da caccia finora si è fatto venire dall’estero. In Abruzzo non ha guari fu eretta una fabbrica di ferro per essersi colà scoperta una miniera molto estesa vicino ad una foresta di legno adattato, in cui scorrono non piccioli canali d’acqua, e
II. Le industrie
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dopo aver osato dei brillanti risultati, se ne trascurò il proseguimento. In dette ferriere si hanno anche gli acciari, ma questi riescono applicabili a lavori grossolani, e volendosi delle manifatture dilicate convien ricorrere all’acciaro d’Inghilterra. I cotoni si lavorano nei luoghi medesimi dove si è detto che si producono in molta copia, filandosi dilicatissimamente da farne anche dei musolini, basen, ed altri lavori, ma questi non gareggiando con quei degli esteri vengono poco o niente ricercati dai nostri naturali istessi, ed il profitto principale lo ricavano dalla vendita dei berettini, calze, coperte, ecc. Nella Cava si lavorano
ancora simili manifatture di cotone per oggetti però alquanto più grossolani di quei di Taranto e provincia di Lecce. Le leghe metalliche finora non si son fatte che nell’arsenale ed in qualche picciola bottega, non motivandosi lo stabilimento della Regia Zecca; quindi ogni sorte di bigiotteria fatta con metalli d’inganno, di cui le mode ne occasionano vendite immense, viene da fuori. La collezione e preparazione dell’erbe tintorie potrà stabilirsi vicino le fabbriche dei panni, telerie e seterie; ma come si è ac-
cennato non è molto conosciuta fra noi, e quantunque le droghe tintorie ci vengono per la maggior parte da fuori, nemmeno però vanno adoperate come conviensi, e vediamo da costante esperienza che ogni roba tinta in questo Regno subito cambia colore; altro motivo che fa ricorrere a robe forestiere. Il legname per uso di combustione, come si è detto, ne abbiamo in abbondanza, per mobili, macchine delle arti, e dell’agricoltura, per botti, ed altri recipienti per conservazione di liquidi, che qui si lavorano competentemente. Quando però vogliansi delle sedie, sofà, forzieri, tavolini, cornici, carozze etc. il cui lavoro meriti della soddisfazione compiuta, si fa ricorso al forestiere. La seconda classe delle manifatture definita manifattura di forza per la nazione, abbraccia l'esplosione delle miniere, e riduzione del minerale nelle diverse qualità di metallo che bisognano, i lavori delle diverse bocche a fuoco, ed arme bianche alla guerra, la produzione e raffinamento del nitro e zolfo, la fabbricazione della polvere, le leghe dei metalli per le artiglierie e monetazione, la costruzione di alcune macchine attinenti alla pubblica utilità, come molini ad acqua, a vento, centimoli ad olio, barche pesca-
recce.
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L'esplosione delle miniere e la riduzione dei minerali a metalli servibili non può in questo Regno finora aver luogo che per il solo ferro, stanteché non conosciamo mine d’altra natura; e quantunque dei zelanti amici del pubblico bene avessero fatto conoscere nel Regno miniere di rame, di piombo, di manganese, pure tali rimostranze non hanno avuto mai ascolto; le nostre miniere di ferro però si riducono passabilmente servibili per lavori grossolani: quindi per l’uso delle diverse macchine dell’artiglieria sono profittevoli, lo sono ancora per la costruzione dei legni marittimi, e di altri analoghi oggetti, per la fabbricazione delle armi militari però sono insufficienti, talché per canne di schioppi, di pistole, per lame di sciabole, di spade, si ricorre al ferro forastiere. I proiettili di ghisa, ed anche le palle di ferro battuto di ogni calibro nella ferriera di Stilo, son riuscite eccellenti; in questa ferriera si tentò, anni sono, fare un cannone di ferro colato che non riuscì trattabile da coltelli del bareno, allorché si volle forarne l’anima. I ferri filati anche riescono cattivi non men che gli acciari tantoché conviene che gli esteri ce ne provveghino; le manifatture anzidette del ferro ridotto si praticano in tutto il Regno, anzi nella Real Fabbrica della Torre le canne e le lame diverse che ivi si fanno meritano anche la stima dei forestieri. Il capitan di artiglieria De Felici ha formato una memoria sul ferro, che riunisce tutte le cognizioni necessarie ad esplotarlo, e lavorarlo. La polvere da guerra si prepara nella fabbrica della Torre dell Annunziata e le nostre polveri non sono inferiori all’estere; ma una maggior cura nella purificazione dei componenti, e nella loro combinazione dee senza dubbio renderla migliore. In detta fabbrica vi sono sei pile, che ogni due giorni battono cantara 24 e rot. 48 di polvere, e con tuttociò siamo stati obbligati qualche volta comprarla dagli esteri. Il nitro per detta polvere è tutto nostro, né vi è necessità provvederlo da fuori: è sotto i torchi una mia memoria che ri-
guarda la filosofia della nitrificazione, ed il modo di stabilire delle nitriere artificiali per tutto il Regno, e di rendere il nitro ben depurato, specialmente per uso della polvere a cannone, facendo rimanere quelle che attualmente trovansi nella capitale ed in altri luoghi. Lo zolfo sapendosi ben raffinare, lo potressimo ricevere dalla nostra so/fatara di Pozzuoli; disgraziatamente però mai si è pen-
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sato a questo articolo; quindi è che, non ostante fra noi esista una perenne ed abbondantissima sorgente di zolfo, pur tuttavia quello che necessita per la fabbricazione della polvere di guerra lo facciamo venire dalla Romagna o dalla Sicilia. La lega dello stagno e rame per lo bronzo dei cannoni nei nostri arsenali di artiglieria si pratica dai fonditori in modo sopportabile poiché non è abbastanza resistibile a causa dell’evasamento della lumiera. Si son fatte delle memorie per il miglioramento dei bronzi; ma l’indifferenza ha scoraggiato lo zelo, ed impedito il buon servizio. Per le leghe della monetazione è necessario farsi una corrispondenza colle monete estere, tanto nel valore intrinseco della lega, come nel valore ideale della monetazione, dovendo riunire per quest’oggetto uomini di fina intelligenza nella metallurgia, i quali dovranno presentare una tavola di rapporto di siffatte leghe non monetate e monetate per quindi aversi l’idea compita della moneta. La costruzione delle varie macchine di artiglieria, dei vari legni marittimi, militari, mercantili e pescherecci, quella dei carri a ruota per convogli militari, e per lo commercio, si è quasi sempre eseguita dai nostri nazionali, e non deesi da poco tempo in qua, che al poco interesse dei nostri ministri, nati in parti straniere, ed alla loro poca premura in vantaggiare i nostri nazionali, che siasi affidata la direzione in costruire i legni marittimi militari ad artieri non paesani. Le macchine per ultimo di pubblica utilità e comodo si costruiscono tutte nel Regno dai nostri stessi naturali. La terza ed ultima classe finalmente delle manifatture ha per oggetto quelle di lusso, e di commercio attivo, e passivo. Questa classe può essere riguardata sotto due vedute: nella prima possono annoverarsi quelle manifatture che punto non son necessarie bisogno dell’uomo ed agli usi della società: e nella seconda quelle altre che quantunque indispensabili, non vi è il bisogno di condurle alla dilicatezza, e perfezione eccedente una regolare decenza; nella prima delle due citate distinzioni possono esser riguardati gli oli essenziali per profumiere, gli acidi ed i sali per le diverse tinte peregrine, i vini dilicati, i liquori fermentati, o misti, i spiriti, le chincaglierie d’ogni metallo, le porcellane, le cretaglie studiate, e per conseguenza i colori, e l’oro per decorarle di dipinture, le diverse confetture, i servizi di tavola ed altri di ar-
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gento, o d’oro, i ricami, i merletti, i galloni, la brillantatura e ligamento delle pietre preziose in gioielli. Nella seconda van compresi i lavori dei panni fini detti castori, i lavori diversi di seta, quei di lino, canape e cotone di molta complicanza, e finezza, i
mobili a legno di ottima architettura, ed elegante disegno, le carrozze ed altri legni minori per fasto di città. Quanto necessita per le manifatture di queste due ultime distinzioni, necessita per quelle di prima necessità. Per le manifatture di prima necessità nulla manca fra i prodotti del nostro suolo, nulla dunque verrebbe a mancare per quelle di lusso, eccettuandone i metalli, le pietre preziose, e lo zuccaro. Si è detto che tutti questi generi vengono completamente manufatturati tra la capitale e Regno; anzi le porcellane, e cretaglie, la lega dei gioielli, le confetture meritano di già la stima universale, cosicché ne vengono dall’estero continue richieste. Rimane dunque per il dippiù delle nostre manifatture che quel competente grado a cui siamo finora giunti si spinga più oltre, dovendosi a questo effetto promovere fra le molte cose anche lo studio della chimica, e del disegno; ma ciò non è opera di poco tempo, né di un sol uomo; da mia parte, se il governo mi concederà la petizione umiliatagli, stabilirò le manifatture accennate nella medesima, cioè del nitro, delle vetriere, delle conce, delle sole ad uso d’Irlanda, e dei vitelli d'Inghilterra, la semina della soda e del guado, e su questo modello potranno poi moltiplicarsi nel Regno simili produzioni: per il rimanente impegnerò tutte le mie forze a disponerne delle memorie particolari, e darle quella ese-
cuzione che il governo e le circostanze locali mi permetteranno. D'altronde questo Regno è stato sempre fecondo di talenti, che hanno riunito le plausibili inclinazioni in poter essere utili allo Stato, ed in distinguersi; la condizione però di privato non può sola influire al vantaggio generale se il governo non protegge ed incoraggia. Questo ottenuto che sia una volta rimane il tutto facile a conseguirsi ed in breve tempo. Napoleone il grande che con un tratto di sua penna vincitrice segnando in Austerliz l’avventuroso destino di questi Regni, invia per governarci l’inclito suo germano Giuseppe! Chi sarà dunque quel napolitano ch’esiterà un momento in augurarsi che ben presto i nostri porti saran ripieni di legni d’estere nazioni, le qua-
li a gara correranno a depositarci il loro monetario, qual tributo
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che dovrassi alla lealtà dei nostri abitanti, alla squisitezza dei prodotti del suolo ed all’eccellenza delle manifatture?
3. L'industria del vetro * Fra i rami d’industria, onde la nostra nazione va tributaria
alla manifattura straniera, debbe annoverarsi quello dell’arte vetraria, che ne costituisce una mancanza veramente marcata.
Nel secolo passato la sua importanza non isfuggì le vedute di qualche sagace speculatore. In Monteleone, città della Calabria Ultra, venne instituito uno stabilimento di tal natura; un altro simile ne fu eretto dal Signor Baldassarre Monti in questa capitale, in cui vi concorse anche l’aiuto della reale munificenza, ed un altro finalmente in Castellammare. Questi stabilimenti fabbricarono cristallo, bottiglie nere, lastre, e vetro comune; ma il sistema irregolare tenuto dai direttori, la mal guidata garanzia, l’ordinaria indipendenza dei maestri, e la crassa ignoranza sui prodotti del nostro suolo così bene applicabili a tali operazioni, furono basi sì deboli, che produssero il crollo precipitoso di sì pregevoli intraprese. Un tal fatto destò nell’animo degli speculatori sentimenti così determinati di alienazione e di scoraggiamento, che, resa vana ogni risorsa, costituì di nuovo la nazione soggetta all’industria degli esteri. In questa capitale rimase confinata una branca di tal ramo, la quale tuttavia esiste, ed è solamente limitata a fabbricare vetro comune; ma perché non ha mai ricevuta, né riceve altra guida, che quella del nudo meccanismo, è stata perciò incapace di ri-
sorsa e di miglioramento. In fatti il fabbricato vitreo monta a tal grado d’imperfezione, che la nostra capitale non ha un cristallo, una lastra, o altro ge-
nere di tal sorta ben formato, se non le pervengono dalla Germania. Le nostre provincie del Levante sono obbligate a provvedersi da Venezia, e quelle di Abruzzo per una caraffa, per un bicchiere ricorrono a Roma. * Michele Ferrara, Dello stato dell’arte vetraria nel Regno di Napoli, in «Atti
del Real Istituto d’Incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli», Angelo Trani, Napoli 1811 (memoria letta il 23 agosto 1807).
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La cenere di soda, la silice, il manganese, le argille, il combustibile, sono i generi primordiali per tale industria. La nostra nazione n’è così doviziosamente fornita, che della cenere di soda ne fa commercio, del manganese n’è ricca la Calabria, le argille le
sono comuni, del combustibile ne abbonda, e della silice ne provvede Roma. E pure ad onta di sì benefica naturale influenza, paga a prezzo indiscreto, e con quella legge che all’estero piace imporle, siffatti generi d’industria, che risultano dalla manifatturazione dei suoi propri prodotti. Fisserai una volta, o illustre genio vesuviano, l’epoca atta a destarti dal vergognoso letargo del tuo avvilimento? Sarà forse fissata da quel giorno, e da quel momento medesimo, in cui trovasi segnata quella della instituzione di questo Istituto, dietro le provvide mire del governo? Io te l’auguro. Il non poter ricevere un vetro comune ben formato dalle nostre vetriere, e l'assoluta necessità di tal genere per la mia fabbrica di acido solforico, avendomi obbligato a stabilire una picciola vetriera per proprio conto, mi han fatto instituire dei saggi con i nostri prodotti. Quello delle bottiglie nere ha ottenuto tutto il suo effetto. La scoperta della terra selciosa, che costituisce la base al fondente, è commendabile;
l'immensa quantità che ne abbiamo, non richie-
de altra cura che quella di raccoglierla; la sua proprietà è a tal segno marcata, che bisogna impiegare il 30 per cento di più della proporzione ordinaria; il suo colore è tutto simile a quello delle bottiglie di Francia; ed ha finalmente il raro e prezioso vantaggio, che il suo rottame col mezzo della fusione ritorna allo stato di vetro, quandoché quello delle bottiglie estere è infusibile. Il saggio sul vetro a lastre di Germania mi ha dato delle pruove convincenti di approssimazione, ed è anche il risultato dei prodotti nazionali. Io che ho sempre protestato il dovuto filiale affetto alla mia nazione, e che determinatamente mi son dichiarato per i suoi vantaggi, non posso per conseguenza fare un mistero delle mie scoperte, anzi ascriverò a mia gloria l’appalesarle quante volte il governo a ciò mi autorizzasse.
Affinché possa pertanto cotest’arte ricevere le prime fondamenta di sussistenza nel nostro Regno, credo mio indispensabile dovere sommettere alla sana intelligenza di questo Real Istituto
II. Le industrie
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quale sia il suo stato attuale, e quali sieno i mezzi valevoli per la sua risorsa. Stato attuale dell’arte vetraia nel nostro Regno. In tutto il Regno vi sono otto fabbriche di vetro; sei nella capitale, la settima in Cardito, e l'ottava in Monteforte. Ognun vede che queste due ultime sono in piccola distanza dalla capitale medesima. Una di queste manifattura lastre a vetro comune, e bottiglie nere; la seconda solamente lastre anche a vetro comune; e le altre
sei fabbricano caraffe, piretti ed altri generi di bufferia col vetro medesimo. Ordinariamente quelle addette a bufferia fanno uso di poca cenere di soda, e di silice, quale combinazione chiamasi fritta, e s'ingegnano di raccogliere tutto il vetro rotto, con cui cuocendosi, o ricuocendosi, sostengono la manifatturazione. Si avvalgono esclusivamente non d’altra soda, o silice, che di quella della Sicilia, si provvedono delle argille da Montecalvo e per la costruzione della fornace si servono della pietra di Montesarchio. Adoperano il manganese del Piemonte, e da qualche anno praticano anche quello di Calabria. Il magistero non sa adattarsi che alle forme le più ordinarie; esso si tramanda da padre a figlio con un meccanismo il più meschino; ed i proprietari non agiscono, che con la sterile norma della tradizione. Il fabbricato vitreo possiede le seguenti difettose caratteristiche. Il suo colore è vario; dimostra al tatto della rugosità e dell’asprezza; è pieno di bolle; è facile a spezzarsi; ed ha finalmente pochissima tempera. Tale marcata imperfezione deriva: 1. Perché non lavasi il vetro rotto che raccogliesi per nettarlo dalle lordure e dalle terre, ond’è ordinariamente attaccato. Le prime, calcinandosi, rimangono incorporate all’ammasso vitreo, e ne alterano il colorito naturale. Le seconde, perché non incontrano il fondente, restano isolate sotto la forma di tanti minuti gruppi. 2. Dalla fornace, che non ha cenerario, e da ciò avviene che,
gittandosi le legna nel focolare con impeto, si dà luogo all’esalazione del polverio della cenere, e questa imboccandosi nelle padelle, ed essendo incapace di fusione, forma la grana nel vetro. 3. Dalla pratica che per lo più si osserva, di fondere il solo rottame, e rara fritta. Il rottame quando si fa cuocere così isolato, viene a perdere sempre una porzione di alcali, che n’è il com-
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ponente, e la silice, rimanendo per conseguenza scevra di questa parte salina, non può produrre che un vetro fragile e rugoso. È vero che il rottame è necessario nelle vetriere, ma dee considerarsi come il lievito per la fabbricazione del buon vetro, e la fritta come il frumento, conciossiaché l’alcali che trovasi sempre in una proporzione Soprabbondante nella combinazione della fritta, viene a surrogar quella che il rottame ha perduta per le fusioni sof: ferte. Più il sale marino ospitante nella cenere di soda, all’azione del calore intenso si decompone, il suo acido divenendo libero, attacca l'ossigeno del manganese, e risulta acido muriatico ossigenato. In tale stato questo esercita la sua azione sulla materia colorante della soda e delle lordure, se mai ve ne restano attac-
cate al rottame, e la distrugge, e l’alcali marino trovandosi isolato in parte volatilizza, ed in parte serve di fondente a quelle terre che sono sempre unite allo stesso rottame.
4. Alle notate imperfezioni del nostro vetro comune concorre ancora la poca cottura, che ordinariamente riceve. L’acido carbonico naturalmente combinato con la silice, e con la cenere di soda, e l’aria atmosferica che rimane intercettata nel gittarsi il rottame, non avendo il tempo proprio a svilupparsi, producono le bolle nel vetro, e queste sono più o meno voluminose e rare a misura del maggiore, o minor tempo di cottura, che il vetro ri-
ceve. 5. La tempera, che si applica al nostro vetro manifatturato, si esegue in quel forno, che viene riscaldato dal fuoco medesimo che cuoce il vetro. In questo forno è picciolo lo spazio, che si frappone da quel punto in cui la temperatura è oltremodo calda, a quello in cui è già fredda; quindi ne avviene che i vetri lavorati, non potendosi gradatamente raffreddare, debbono perciò esser facili a spezzarsi. Finalmente tralascio di accennare l’ignoranza sulla conoscenza delle nostre argille, e l’inespertezza di depurarle dalle terre vetrificabili. Taccio la poca pratica nella formazione dei vasi, i difetti marcati nella costruzione del fornello da fusione, e la tra-
scuraggine nella preparazione della fritta. Non parlo del magistero così meschinamente limitato, della scarsa compensazione che gli artefici ritraggono dalle loro fatighe, e altre simili insufficienze, per le quali converrebbe formarsi un piano esteso d'’istruzioni.
Da quanto ho osservato chiaramente rilevasi, che il nostro
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fabbricato vitreo non può non risultare, che nel grado marcato d’imperfezione, ed il fatto lo conferma, perché conoscendosi per esperienza da tutti per difettoso, mette tutti ragionevolmente nella dura necessità di ricercarlo dall’estero. Più: sono già due anni da che i proprietari di quelle fornaci addette alla bufferia hanno fra loro adottata una convenzione avvalorata dal magistrato, in virtù della quale si ripartiscono il lavoro in modo che due di essi fabbricano per lo spazio di mesi sei, e gli altri due negli altri sei rimanenti mesi dell’anno. Più: i due proprietari, che sono in attività, corrispondono ducati 120 mensualmente a quelli che sono fuori esercizio, e ripigliando questi il loro lavoro, praticano la stessa corrispondenza. Tale convenzione riconosce la sua origine dalla viltà del prezzo con cui ognuno procurava far lo spaccio del proprio lavoro. Ciò faceva mettere in uso dei mezzi sempreppiù ruinosi, ond’erano impossibilitati a potere fabbricare un buon vetro, giacché il prezzo vile introdotto nol permetteva. Questo assurdo cagionava oltremodo l’avvilimento, e la deteriorazione dell’industria, ed affinché questa meschina branca non fosse stata nel cimento di vedersi affatto arrestata, convenne ricorre all’espediente della mentovata convenzione. Questo è lo stato dell’arte vetraria nel nostro Regno. Passo ora a rapportare i mezzi, che credo poter concorrere il suo miglioramento.
Mezzi di miglioramento. 1. Quante volte due delle quattro fornaci esistenti in questa capitale, ed addette soltanto alla buf-
feria non possono mettersi in attività, se non dopo che le altre due abbiano lavorato per mesi sei, e ciò per dar luogo allo spaccio dei generi manifatturati con prezzo convenevole, potrebbero due di esse rimaner sempre in esercizio in tutto l’anno nella capitale, ed obbligar le altre due a trasferirsi una in Abruzzo, e l’altra alle falde del Monte S. Angelo in Puglia. 2. Potrebbero a tal uopo prevenirsi due dei nostri soci corrispondenti, ed incaricarsi, con l’autorità del governo, della scelta
del locale pel facile acquisto così del combustibile che degli altri generi primordiali per tale manifatturazione. 3. Questi soci corrispondenti potrebbero stabilire una Deputazione con quelle istruzioni che loro si comunicherebbero, dietro l’approvazione del governo, per potersi più agevolmente som-
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ministrar quei mezzi che possono contribuire all'esito felice di tale operazione. 4. Questo Real Istituto costituirebbe una commessione di due Soci ordinari, che conferendo con i proprietari delle fornaci, potessero rilevare da vicino tutte le cagioni, le quali arrestano la risorsa di questa industria tanto interessante; conciliare i mezzi i più analoghi alle nuove istituzioni delle vetriere nel Regno; esaminare, se converrebbe o no la dismissione della porzione degli artefici, dei quali si avvalgono tuttavia, e riguardare finalmente il miglioramento del magistero. La suddetta commessione dovrebb’essere autorizzata a potere instituire dei saggi nei padellotti in quelle fornaci che si troverebbero in attività. 5. La situazione di siffatti padellotti non arrestando il corso della manifattura, e non esigendo spesa pel combustibile, somministrerà alla commessione tutta la facilità di eseguire gli esperimenti e di familiarizzarsi con la pratica dell’arte. 6.I materiali che occorreranno per i saggi, potranno proccurarsi da questo Real Istituto, tantoppiù che la loro spesa è tenuissima. 7. Cotesti saggi dovranno eseguirsi con i prodotti nazionali, ed avere per iscopo principale la formazione del cristallo, delle lastre a vetro di Germania, ed altro genere ricercato. 8. Così la commessione di Napoli, che quelle delle provincie, apriranno fra loro una corrispondenza, partecipandosi reciprocamente le idee, i fenomeni, e le scoperte. 9. Subitoché una delle commessioni avrà verificato col fatto la manifatturazione di quel genere vetrario che manca alla nazione, ne dovrà fare il rapporto a questo Real Istituto, acciò possa il medesimo consultare il governo, e proporre i mezzi sì d’incoraggiamento che di esecuzione. Con tal sistema verrebbe promosso questo ramo d’industria, che fa reale mancanza fra noi. La capitale e le provincie, che presentemente debbono ricercare i generi di tal manifattura dall'estero, sarebbero a sufficienza provvedute. Gli artefici, che in sei mesi dell’anno non sono in esercizio, e vivono a spese di quelle vetriere che sono in attività, avrebbero perenne la loro sussistenza dalle proprie fatiche. I prodotti del nostro suolo, che giacciono tuttavia sepolti nell’inerzia e nella sconoscenza, e che sono tanto bene applicabili a tale operazione, sarebbero ravvivati. L’e-
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strazione di somme non indifferenti che si esitano in ogni anno per tale oggetto sarebbe rinfrancata, e finalmente il governo, non
addossandosi altro interesse che quello della garanzia e dell’incoraggiamento, non farebbe che destare l’amore, e l’impegno per le scoperte, che costituiscono la vera gloria e la reale ricchezza delle nazioni.
4. L’industria della seta a Catanzaro * Non tutte le invenzioni utili all'umanità sono state il prodotto dei lumi scientifici e della civilizzazione delle nazioni. Molte ne sono avvenute nei secoli della barbarie e della rozzezza. Gli occhiali, la bussola nautica, l’arte della stampa, e molte altre si-
mili cose sono state nella nostra Europa ritrovate o per accidentale combinazione, o per lo sforzo di cert’ingegni sublimi, che .non di rado, a guisa di fuochi elettrici in tempo di oscura notte, hanno brillato nel buio dell’ignoranza fra i popoli più barbari. Tutto quello che nel tempo dell’anarchia feudale si facea dai baroni, tendeva alla infelicità dei popoli. Pure non pochi tra loro furono autori di buoni ed utili stabilimenti in quei paesi, sui quali essi signoreggiavano. I Normanni, conquistatori delle provincie che oggi formano il Regno di Napoli e della Sicilia, se sottoposero al loro giogo servile i popoli indigeni, se in tutt'altro non si allontanarono dai barbari costumi feudali, sono però commendabili per aver i primi introdotto nelle nostre regioni i bachi e le manifatture di seta. Tutta l'Europa ignorava affatto questo insetto, e il suo prezioso lavoro. Le persone più ricche e amanti del lusso compravano dai Veneziani o dai Genovesi, che soli agitavano allora il commercio del Levante, i drappi di seta che da Alessandria, o dai porti della Natolia essi portavano. Ruggiero re di Puglia e di Sicilia fece venire dall'Oriente le uova, chiamate serzenza, onde ne sbuccia il baco da seta. Con ispese non mediocri furono chiamate di là delle persone atte all’uopo; si piantarono i gelsi per nutrire quei vermi; fu insegnato ai paesani il modo di farli scovare, e di * Memoria sull'arte della seta di Catanzaro, di Gregorio Aracri, accompagnata da lettera datata 9 maggio 1806, in ASN, Ministero Interni, II Inventario, fascio 5066.
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nutrirli, e di governarli fino alla formazione dei bozzoli. Si apprese la maniera di trarne la seta, di tingerla, di formare dei drappi di varie specie. E come la nazione tuttoché rozza, non lasciava d’esser provveduta d’ingegni naturalmente atti ad apprendere le buone arti, in breve tempo si videro nel VII secolo, prima in Palermo, e poco dopo in Catanzaro, primaché in qualunque altra città d'Europa, stabilire delle fabbriche di tali drappi, e posti essi in commercio.
Quest’arte di là in poi fu coltivata sempre in Catanzaro il meglio che per le circostanze dei tempi si poteva. Il governo ne prese quando più, quando men diligente cura. I drappi d’ogni maniera si vendevano non solo nell’interno, ma ancora all’estero con sommo vantaggio della città e del Regno. Vi fu stabilita una fiera, incoraggiata e protetta dai conti Ruffo, già padroni di Catanzaro, e poi dai Viceré di Napoli. Essa tenevasi in una piazza innanzi al Monastero di S. Chiara, al quale si attribuirono i diritti che in tal fiera esigevansi. V’intervenivano, oltre agl’altri, molti mercanti della Turchia Europea; i quali trovavano maggior conto in provvedersi dei drappi fabbricati in detta città, che non di quelli dei quali abbondavano Damasco, Aleppo, Alessandria, ed altre città della Siria e dell’ Asia Minore. Questa fiera per gl’inganni usati dai fabbricanti nella manifattura dei drappi, e per nuove combinazioni politiche e commerciali, andò in disuso, e sono già quasi due secoli dacché più non esiste.
Quind’in poi l’industria di cui si parla è stata più o meno in fiore, secondoché il governo l’ha più o meno protetta, e l’arte dei fabbricanti si è adoperata in fare i drappi più o meno perfetti. Perché quest’arte tanto utile alla città e al Regno fiorisse, fu da diversi re fornita di privilegi; e furono dalla sovrana autorità stabilite certe leggi, secondo le quali dovesse la seta tirarsi, tingersi, e fabbricars’i drappi. E vi si ordinò un Consolato composto di maestri e di mercanti, i quali sorvegliassero sopra l'osservanza delle sudette leggi, chiamate Capitoli. Ma come avviene delle cose umane i privilegi insensibilmente si perdettero; e quelle leggi cominciarono ad andare in disuso, ed oramai alcuna quasi non se ne osserva. Consideriamo le vicende di quest'arte da circa cinquanta anni in qua. In questa epoca essa fu prima in grande splendore fino a circa venti anni addietro; di poi tratto tratto decadendo, si è al
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giorno d’oggi ridotta in uno stato deplorabile, quanto forse non fu mai nei secoli addietro. Fino all'anno 1784 si lavoravano in Catanzaro circa centomila libre di seta. Quas’il terzo della popolazione maestri, giovani, apprendenti, ragazzi, femmine erano impiegati a trarre, a cogliere, a filare lo strame, a torcere la trame, a tingere, a tessere amuerre, rasi, velluti, damaschi, fazzoletti. Valutata la seta a ducati due la libra, prezzo allora ordinario, e che talvolta diveniva mag-
giore, erano dunque impiegati circa due cento mila ducati. Sottosopra s'impiegano carlini dodici per convertire in drappo ogni libra di seta. Ecco altri ducati cento ventimila in quelle manifatture impiegati. Erano dunque applicati alle manifatture dei drappi circa trecento venti mila ducati. Ma oltre alla seta che impiegavasi alla fabbrica dei drappeggi, se ne impiegava ancora nove in dieci mila libre per farne seta da cucire, ed altre due in tremila per farne delle fettucce: in tutto circa dodici mila libre. Dunque alla sudetta ragione computata la seta, eran ancora per questo ramo di manifatture impiegati altri ventiquattro mila ducati. In tutto dunque raggiravasi in questo negozio la somma di circa ducati trecento quarantaquattro mila, della quale solo usciva di città quella parte che s’impiegava a comprare la seta grezza, e a pagare i dazi imposti dal governo; il resto tutto dentro la città si aggirava. Né tutta la seta, che si estraeva dai bozzoli in questa provincia o in quella di Cosenza, si manifatturava. Non picciola quantità si vendeva all’estero, specialmente alla Francia, e una porzione ancora ai fabbricanti napolitani.
Li drappi d’ogni maniera, e le fettucce, e la seta da cucire mandavansi parte in provincia, parte si portavano in Marsiglia
dai mercatanti di Parghelico, che vi facevano ancora il commercio delle coperte di cotone ivi lavorate, e degli spiriti di cedro e bergamotto, che facevansi in Reggio; gran parte si portava nelle Puglie da mercatanti catanzaresi, i quali passavano a venderla fino negli Abruzzi, e nello Stato Ecclesiastico; e parte finalmente da marinari di Scilla si portava in Venezia e in Trieste, ove smerciavasi.
Ma da circa venti anni in qua questa industria andò decadendo sensibilmente; ed ora è ridotta a ben poca cosa. I telai, in cui
fabbricavans’i drappi di ogni qualità, erano duecento settantadue, e sempre in attività. Ora sono ridotti appena a quaranta, e
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la più parte dell’anno stann’oziosi. La seta che allora s’impiegava alle manifatture era circa cento mila libre; ora appena arriva a venti in ventidue mila. La seta che si smaltisce per cucire e per fettucce non giunge a sei mila libre, tuttoché di essa faccia uopo a cucire gli abiti di panni di lana, e i velluti di cotone, che stanno già in moda. Sicché laddove prima in queste manifatture impiegavasi e raggiravasi la somma di ducati trecento quarantaquattro mila in circa, ora appena se ne trova impiegata la somma di ducati trentanove in quaranta mila, diminuito ancora per la mancanza dello smercio il prezzo della seta grezza da venti e più carlini la libra a quattordici, o quindici. Quindi il numero dei mercatanti, che fan fabbricare dei drappi, che prima era ben grande, ora è ridotto a pochissimi. I maestri che li lavorano appena giungono a trenta. Di damaschi solo vi è un telaio, di velluti appena ne sono due. E la gran quantità di uomini e donne, che vivevano applicati ai diversi lavori di seta, e alle diverse manovre necessarie alla fabbrica dei drappi, languiscono nella miseria; come vi languiscono i tintori, e i proprietari dei gelsi, dei quali molti sono stati costretti a tagliare questi alberi per trarre in altro modo profitto del lor terreno. Finalmente, vendendosi la seta a basso prezzo per mancanza di compratori, tante famiglie della città e provincia, che dall’industria dei bachi, e della seta grezza che ne traevano, procuravano ogni anno con che supplire ai loro bisogni, ora languiscono anch'esse prive di questa risorsa. Le cagioni della decadenza di quest’arte in Catanzaro, sono per quanto io veggo, le seguenti: I. La mancanza del numerario nel Regno di Napoli, da venti anni in qua mirabilmente accresciuta. II. L’essersi trasgredite in gran parte le leggi dai Capitoli prescritte alla manifattura e tintura delle sete. III. Le donne, che colgono le prime la seta grezza per pressarla ai filatoi, ove si prepara per esser poi tinta, per far presto la ungono con l’olio, né la rimondano bene dalle lordure che si sono lasciate nel trarla dai bozzoli. I tintori non bene la imbiancano poi col sapone. Nel coglierla tinta per mandarla al telaio, le donne per isbrigarsi, e per farla crescere di peso, la ungono ancor con olio; locché guasta poi mirabilmente i drappi e li macchia. I maestri non mettono nell’orditura delle tele tanta seta quanta ne do-
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vrebbero. Fatto il drappo lo ungono con acqua di gomma, perché sembri più forte e acquisti maggior peso. IV. La migliorazione delle fabbriche di seta della città di Napoli ha influito ancora alla decadenza di quella di Catanzaro. V. Nell’Italia inferiore si è ben migliorata la maniera di trarre la seta dai bozzoli per mezzo degli organzini. Qui tuttavia si tira con i mangani, come tiravasi cinque secoli addietro. Vien grossa e sporca, né se ne trae quanta se ne potrebbe trarre se si facesse uso degli organzini. VI. La gran luce ora mai sparsa in quasi tutta l'Europa dalla chimica ha penetrato fino nelle fumose officine dei tintori di lane e di seta dappertutto, fuorché in questa città. Quindi le nostre tinte, che prima passavano per mediocri, o anzi buone, oggi son divenute men che mediocri e spregevoli. VII. L’acqua corrente tanto necessaria alle tinte, qui manca affatto. Vi manca per uso dei cittadini. Si è fatto il progetto di condurre in città un'abbondante e buonissima acqua, che vi è in distanza di circa tre miglia. Si è imposto a tal oggetto grana quattro sulla molitura d’ogni tomolo di grano. Si è esatta, e si esige dai cittadini questa contribuzione. Nel presente diligente governo si spera veder presto compita questa tanto necessaria opera pubblica.
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ETTI
DI
LE REGIONI ECONOMICHE
1. Agricoltura e demografia in Puglia A)
COLTURE E INSEDIAMENTI” Hoc opus, hoc studium parvi properemus, et ampli, Si patriae volumus, si nobis vivere cari.
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psi
Vien divisa la Puglia in piana e pietrosa. La parte piana, ch’era l’antica Daunia, confinata verso il suo settentrione dalle mon-
tagne del promontorio Gargano nell’occidente e libeccio dalla catena degli Appennini, nel levante dal mare e dalle Murge!, si prolunga tra queste e le montagne di Basilicata fino al seno tarentino. In una mia memoria, che trovasi inserita nel XIII volu-
me della Società Italiana delle Scienze, io ho presentato le mie congetture di essere stata una tale pianura fino al detto seno tarentino sotto le acque lungo tempo dopo che gli Appennini e le Murge erano già discoperte, formando in conseguenza un isola del suolo pietroso che un tempo era abitato dai Salentini, Peuceti * Luca de Samuele Cagnazzi, Sulle campagne di Puglia, in «Atti del Real Istituto d’Incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli», tomo I, Angelo Trani, Napoli 1811 (memoria letta il 18 agosto 1810).
1 Senza credere che tali luoghi sieno stati un tempo dominati da Murcese diconsi Murge le colline pietrose della Puglia corrottamente da muricce, ammassi di pietre, perché tali sembrano nelle loro falde.
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e Calabri, ed oggi costituisce le due provincie di Bari ed Otranto. Per ben conoscere la qualità del terreno, e tutte le altre circostanze locali delle già distinte parti della Puglia, uopo è che in breve la loro litografia io ne faccia. Sono le Murge di un’indole tutta differente dagli Appennini, e dalla lunga catena di questi sono distaccate mediante l’indicata pianura, contra l'opinione di tutti i geografi che l’han credute una continuazione di essi Appennini. Queste Murge nel costituire le loro diramazioni sulla già detta estensione son poste in modo da indicare chiaramente la corrispondenza tra gli angoli sinvoi e quelli rilevanti. I strati che le costituiscono son di posizione orizzontale, o poco da questa differente, purché qualche straordinario accidente non li abbia turbati come avvi luogo a credere in vari siti. Son dessi di pietra calcare, o sia carbonato di calce, di una tessitura compatta, a segno che non può lavorarsi che con picconi e martelli, e serve alla costruzione di durevoli edifizi, e più di ogni altro a lastricare le strade; colla coltura conveniente si converte in buona calce. Questi strati non sono di egual grossezza, essendovene alcuni di più piedi, ed altri progressivamente di due o tre linee. E rimarcabile che gli strati di una rupe bene spesso corrispondono nella grossezza e tessitura con quelli dell'altra prossima, posti alla stessa direzione. Fra questi strati scorrer si vedono non di rado dei filoni di ossido di ferro, alquanto misto di marna, che in alcuni luoghi prende la consistenza di ematite. Questi solidi strati calcari sono i soli componenti delle Murge, né altro sasso ritrovasi, a riserba del tufo anche calcare di cui dovrò parlare. Questi strati sembrano prodotti non già da una lenta precipitazione di materie, ma piuttosto da una sollecita deposizione causata da esto acquoso. E da credersi però, che qualche spazio abbia dovuto passare tra la formazione ossia deposizione di uno strato ed il suo sovrapposto, giacché tra alcuni non essendovi altra materia frammezzo, se molle fosse stato il sotto-
posto, nell’atto che si deponeva il superiore, si sarebbe con esso unito, anche in forza del peso; si vede anzi in molti la superficie alquanto più dura. Il limo calcare che produsse questi strati considerandolo prodotto dai corpi organici marini, dové subire una poderosa azione dall’esto delle acque per più secoli, giacché le sue particelle sono assai assottigliate ed uniformi; oppure è da credersi primitiva questa terra calcare. Giova però sapere che in
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queste pietre le più dure e compatte si trovano non di rado dei residui di corpi animali. Queste osservazioni, unite alla monotonia che presentano nella loro interna costruzione le Murge, non che nell’esterna, la loro umile grandezza e forma tondeggiante per lo più, ci mostrano la loro formazione subacquea, ma differente però e non contemporanea a quella degli Appennini. Hanno questi per lo contrario l’esterna figura poco tondeggiante, e spesso alle falde dirupata e la costruzione interna confusa ed irregolare per i componenti e posizione dei strati, giacché la parte sassosa degli Appennini prossima alle Murge, che sono i monti di Basilicata, suol consistere in disordinati ammassi di cote arenaria, con qualche strato di petroselce, e qualche grosso strato di pietra calcare, non così bianca e pura della precedente, né della stessa tessitura. Avendo inoltre più volte livellato le più alte cime delle Murge, lho ritrovate tutte più basse di quelle degli Appennini; che perciò è da credersi che le Murge erano un tempo sotto le acque, quando al di fuori erano gli Appennini. In seguito poi che le acque restarono discoperte, le Murge più elevate dimorar dovettero per lungo tempo sopra strati di quella pietra calcare di livello inferiore alle falde di esse Murge; e nelle loro valli come anche nelle pianure intermediarie tra le Murge ed i monti Appennini, ch’è propriamente la pianura Daunia, che stendendosi fino alle radici del Vulture, va quindi a dilungarsi fino al seno tarentino. In questi fondi ricoperti di acqua, mentre gli Appennini e le Murge erano al di fuori, considerabile sedimento di residui di corpi marini si formarono, che costituirono il tufo calcare, dal quale è formato il suolo delle pianure. Questo sedimento o tufo calcare comincia presso a poco allo stesso livello all’intorno delle falde delle Murge, e siccome tra i seni di queste con più agio allignar vi poterono dei testacei ed altri vermi marini, quali non avendo sofferto un esito violento, non furono molto stritolati. Da ciò
avviene che il tufo delle gran pianure è di una grana più fina; mentre quello tra le Murge è di una tessitura più grossolana, e vi si ritrovano di nicchi ed altre spoglie più conservate e riconoscibili. Varia dunque la qualità del tufo pugliese da quella in un tessuto grossolano, ripeto, vicino le Murge, e di una consistenza alle
volte così forte a segno di non potersi lavorare con sega e mannaia, ma ha bisogno di martelli e piconi, fino a quello gradata-
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mente di un tessuto delicato ed uniforme, suscettibile di delicato travaglio. » Sono le Murge generalmente di leggier terreno, restando nelle cime qua e là discoperto il sasso. Egli è composto di terra vegetabile mista di quell’ocra marziale, che trovasi tra gli strati di quei sassi con dei frantumi di questi; nei fondi e valli ove l’acqua ha potuto radunarlo, questo terreno è molto atto alla cultura e qualche volte misto trovasi con della marna. Le pianure poi di suolo tufaceo son ricoperte ove più ove
meno di marna, in cui per lo più domina la parte calcare, ma bene spesso anche l’argilla in alcuni fondi. Ove la corrente nelle ultime epoche dell’inondazione ha avuto più azione, vi si trovano dei ciottoli silicei in essa marna. È notissimo che le gran masse argillose costituiscono le sorgenti perenni? e non essendovene di queste nella Puglia, non vi sono in generale scaturigini e ruscelli a riserba dei pozzi, che sogliono cavarsi nelle pianure, ove incontrandosi degli strati di marna argillosa vi depongono dell’acqua, quale per altro suol contenere molta terra in dissoluzione. Niun fiume dunque prende origine nella Puglia. La pianura daunia volgarmente detta Puglia piana dà passaggio a quattro fiumi, che sono il Candelaro, il Cervaro, la Carapella, e l’Ofanto, quali son prodotti dagli Appennini. Le due provincie di Bari ed Otranto, ossia la Puglia pietrosa né anche ha questo vantaggio. Dippiù se qualche filo d’acqua vedesi sgocciolare nelle pianure non in tutt’i tempi dell’anno da qualche ammasso o collina di marna argillosa, nulla di ciò vedesi nelle Murge ove non evvi che impermeabile sasso ricoperto di poca terra, e terra poi calcare, che facilmente depone l’acqua coll’evaporazione, per cui tali terreni furon detti asciutti. Per ben decidere dello stato di una regione conviene conoscere quello delle sue meteore, e ciò ad altro discorso riserbo per
non rendermi lungo: ma conviene pur dire che dalle osservazioni meteorologiche da me fatte da più di un decennio ho rilevato che la pioggia non è stata mai più dell'altezza pollici 22 e linee 7 negli anni piovosi, né meno di pollici 16 e linee 6 negli anni aridi e secchi, ma per solito può valutarsi 18 in 19 pollici. Non dissimile di ciò ha ritrovato colle sue osservazioni il chiarissimo nostro ? Si veggano i miei Elementi dell’arte statistica, part. I, sez. I, cap. IV, $ II
III. Le regioni economiche
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socio signor vicario Giovene. Questa pioggia è circa due terzi di quella che cader suole nelle montagne degli Appennini, come si ha dalle osservazioni del signor Zerella in Ariano, e del signor Notarjanni in Lenola. La privazione dei monti nella Puglia, e quella degli alberi per la maggior parte, impedisce il facile e silenzioso ristabilimento dell’equilibrio tra la terra e l'atmosfera dell’elettrico fluido, che per le metamorfosi dei vapori in essa alta regione suol naturalmente avvenire, per cui le piogge estive sogliono essere accompagnate quasi sempre da mosse elettriche. La parte calcarea predominante nel terreno pugliese permettendo la facile evaporazione, senza esservi per lo contrario assorbimento dagli alberi, fa che le rugiade sieno più che altrove abbondanti. Questo eccessivo umido notturno, che succede ad un’estrema aridezza del giorno, è la principale causa delle infermità endemiche nella state. In questa stagione queste campagne addivengono arse, al dire dell’illustre Zimmerman?, come quelle dell’ Africa, ed i raggi solari sono così molesti, che ben disse Orazio:
Nec tantus unquam siderum insedit vapor Siticulosae Apuliae?.
L’aspetto di desolazione che si sparge in tale tempo nelle nude campagne della Daunia, e nelle Murge addette alla pastorizia fa orrore. Si cammina per qualche ora senza incontrare un sol uomo, né bestiame alcuno, emigrando in questo tempo nelle montagne. Non si vede che il suolo vestito di arido fieno, e cielo. Tutto è silenzio. Gli uccelli stessi fuggono questi deserti, e solo qualche rettile striscia tra il fieno, che accresce lo spavento. Convien provvedersi di acqua per il viaggio perché la mancanza dei serbatoi, o l’essere per lo più vuoti, fanno restar deluso l’assetato viaggiatore.
Dall’indole già descritta del suolo pugliese ben si comprende perché dar possa ricetto alle cavallette impropriamente chiamate bruchi. Questo insetto (Gri/lus migratorius) è originario della Tartaria, propagato nell’Oriente e nell’Egitto, suol da tanto in tanto pervenire nelle nostre contrade. Egli ha l’istinto di deporre le sue 3 Viaggio alla nitriera naturale di Molfetta, Opuscoli di Milano, vol. XII. * Epodon 3 Ad Moecenatem.
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uova nel cader della state in un terreno incolto, piuttosto arido ed asciutto, qual è la marna calcare, e mon mai in quello argilloso, il quale, quanto duro e compatto nell’està, altrettanto è umido e fangoso nell’inverno. Così le sue uova non vengono offese. Per la ragione istessa detto suolo dà anche ricetto ai topi campagnoli (Mus arvalis). Questi animaletti si propagano in un modo prodigioso da anno in anno, finché giunto ad una straordinaria abbondanza una naturale epidemia li uccide, giacché la caccia che loro si dà non è sufficiente a distruggerli?. I limiti del loro domicilio sono gli Appennini, per essere di terreno piuttosto argilloso, in cui l’inverno vi starebbero assai male, e l’està non potrebbero comodamente perforarle. Da questa naturale descrizione delle campagne pugliesi ben si comprende quali piante lor convengano, e qual genere di coltura: ma il mio scopo è di parlare del loro attuale stato, lasciando a questa dotta Società suggerire le migliorie tecniche. La parte della Terra di Bari, verso il littorale Adriatico è ben coltivata. Gli ulivi, ed i mandorli costituiscono boschi, mentre la terra al di sotto è intenta ad altro prezioso prodotto. Tutti gli altri alberi fruttiferi sono ivi con diligenza coltivati. Nel modo stesso si pratica in molta parte della Terra d’Otranto. Il cotone vi si coltiva da tempo immemorabile. La cultura in generale in questi luoghi è ben intesa a riserba di quei raffinamenti, che non sono sperabili da ignoranti coloni, che la sola tradizionale pratica li guida. A ciò supplir potrebbe una semplice ma efficace istruzione, quale propagar si dovrebbe per mezzo dei curati di campagna, e di altri opportuni soggetti. Tutta la pianura daunia, molta parte della provincia di Bari, e di quella d’Otranto nude di alberi sono addette alla pastorizia, ed alla semplice semina di cereali e legumi. Di queste campagne, assai più estese e deserte, io mi accingo a parlare, meritar dovendo la nostra maggiore attenzione. La pastorizia, oltre di esser errante e mal intesa, è totalmente affidata alla discrezione delle stagioni. Niun ricovero generalmente si forma per garentire specialmente il bestiame da lana dai freddi invernali, e da calori estivi, per cui si è questa degenerata. Niuna speciale cura per pervenire i mali nelle greggi ed armenti ? Può vedersi il mio Discorso meteorologico dell’anno 1796, Vol. 4 del «Giornale letterario di Napoli».
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si usa, e poco provvedimento si fa di foraggi opportuni per l’inverno. Invece poi di essere la pastorizia e l'agricoltura associate, e di scambievole sussidio come precetta Varrone”, sono in continua opposizione. Finora la pastorizia è stata promiscua nei terreni, detti demaniali, ma mercé le cure dell’attuale illuminato Governo, si sono tolti tutti quei domini sovrapposti l’uno all’altro, e
tante servitù di pascolo che in pratica sono state sempre di danno assoluto. L’odio poi dei così detti /ocaz del Tavoliere di Puglia, garentiti dal Governo, erasi generalmente ridotto oppressivo per i coloni, e molto residuo ne resta, non ostante l'abolizione del
sistema doganale. L’avidità di non far arare, o altrimenti rompere un qualche terreno saldo, addetto alla pastorizia di esso Tavoliere, ove da qualche torma di cavallette venuta dall’ Africa si erano deposte le uova, ha tante volte preparato l’orrendo flaggello della messe e di altre coltivazioni per gli anni seguenti. L’agricoltura che si pratica nelle dette campagne della pianura daunia, ed in quelle nude di alberi nelle altre due provincie, è generalmente coll’aratro, val dire ir grande, seminandosi grano, biade, e legumi. Noioso sarei se discender volessi alle minute descrizioni degli ordigni che s’impiegano, o dei metodi che si usano, tanto più che variar sogliono da paese in paese. Devo però dire che quelle campagne non sono in generale ben coltivate; infatti al dir di Catone: Quid est agrum bene colere? Bene arare. Quid secundum? Arare; quid tertium? Stercorare; ed indi soggiunge; Agrum frumentarium cum ares bene et tempestive ares?. Benché ordinariamente si adoprino quattro arature nel maggesare, e da alcuni si faccia profondo solco, pure parmi generale l’inconve© De re rustica, lib. 1. . ? De re rustica, cap. 61. È ben noto dalla nuova chimica, che alcuni componenti immediati delle piante l’attraggono le terre dall'atmosfera con essere in riposo, e rimenate per qualche tempo, che dicesi rz4ggesare, o pure loro si comunicano col letame, valea dire coi residui dei corpi organici, che ne contengono a dovizia. Non giova dunque arar bene le terre più volte, ma bisogna farlo in tempo conveniente, affinché restino per un tempo opportuno in riposo, e non si spossino di tali materiali componenti, e che le loro parti sieno state quasi tutte al contatto dell’atmosfera per un tempo sufficiente, ecco perché gli antichi rustici guidati dall'esperienza, insegnano tutta la coltura consistere nell’impregnare le terre di tali principi componenti le piante, perché dopo la seminazione somministrar le possono con gli altri, che presenta l’acqua, e procurar così una pronta e vigorosa vegetazione alle piante utili, ch’è l’unico scopo di ogni cultura.
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niente di ararsi precipitosamente, credendo essi che basti il solo numero delle arature a ben preparare il terreno. La concimazione poi è relativamente ristretta e malintesa. Si
fa uso del solo letame delle stalle e degli ovili, quale senza farlo macerare all’aria secondo le buone regole dei rustici, si cava tuttavia fumante da tali luoghi, e si va a spargere nei campi, per cui la sua causticità non può certamente giovare alla vegetazione. Le
immondezze poi degli abitanti sono poco curate, e restano ad infettar l’aria. Vero è che a misura del bisogno del letame gli abitanti esser dovrebbero più netti; ma quando il vantaggio, che nel ricolto si ritrae dalla concimazione, può aversi col mettere a coltura terreni tenuti per più anni in riposo, ove abbondano, e che poco costa il loro fitto, si preferisce questo mezzo, per cui il letame non viene curato. Tutte le città di Puglia ricche più del bisogno di territorio sogliono essere perciò immonde. Non si conosce l’uso dell’erpice, né quello del seminatoio. La sarchiatura ai seminati per verità è fatta con attenzione. Si recide la messe con la picciola falce a sega, e per far ciò vi è bisogno di molta quantità di mietitori da altri paesi8. Si trebbia il frumento e le biade colle cavalle da razza, e questo molto influisce alla costoro degenerazione?. In Puglia più che altrove è penosa questa operazione, giacché non si tratta solo di separare i grani dalla paglia, ma di sminuzzar bene questa, giacché essendo ivi, forse per effetto del suolo, più grossa e dura, non potrebbe senza di ciò esser mangiata dagli animali. è Con molto risparmio di tempo usar si potrebbe la gran falce, che si pratica pel fieno, munita però di una banda da sostenere le spighe, ordinatamente da potersi fare i fasci senza alcuna perdita, come fu esperimentato dalla nostra estinta Società Patriotica di Milano. Con poco esercizio i contadini si addestrano a ben maneggiarla. Se ne può vedere la at nel IX vol. degli Opuscoli scelti di Milano. ? Varrone (De re rustica, lib. I, cap. 52) fa menzione della carretta punica per
trebbiare, ma assai imperfettamente la descrive: E spicis in aream excuti grana, quod fit apud alios jumentis junctis, ac tribulo, id fit e tabula lapidibus, aut ferro exasperata, quae imposito auriga, aut pondere grandi trabitur jumentis junctis, ut di-
scutiat e spica grana, aut ex assibus dentatis cum orbiculis, quod vocant plostellum poenicum. Ir eo quis sedet, ut agitet, quae trabant jumenta, ut in Hispania citeriore,
et aliis locis faciunt. Non sarebbe un soverchio amore per gli antichi costumi l’occuparsi ad investigare la vera costruzione della carretta punica, giacché da moderni non si è ben conosciuta. Molte altre macchine da trebbiare si sono inventate, ma con poco successo, aggiuntovi anche l’incomoda complicazione di alcune.
II. Le regioni economiche
Iibol
Il prodotto del grano mai si computa generalmente per raccolta media più del sei in sette per uno. Si è veduto che la grande estensione del territorio pugliese nuda di alberi, e scarsa di popolazione, è coltivata in grande, vale a dire coll’aratro. E ora bastantemente provato di esserci della perdita, quando una picciola porzione di un gran territorio fosse coltivata in piccolo, vale a dire a braccia colla zappa e colla vanga, restando il dippiù sterile!°. Dunque non altrimenti che coll’aratro coltivar si possono le predette spopolate campagne. Nell'agricoltura in grande vi si richiedono però dei capitali per le macchine e bestiame, quindi è che non può stare in mano di gente povera e mercenaria. Inoltre l'economia dell’agricoltura coll’aratro esige che il più meschino, che industria, non abbia di territorio men di quella estensione che si coltiva con un solo aratro, giacché se ne ha di meno, resta inoperoso il suo aratro per qualche tempo. Quest’agricoltura poi avendo bisogno di capitali, essendo in mano di piccioli proprietari ad ogni avversa vicenda delle stagioni o di altro si paralizza, giacché son dessi allora costretti a distrarre i loro capitali per supplire ai loro bisogni. La costante esperienza ha dimostrato che ovunque la coltura sia fatta in grande pian piano vassi a ridurre nelle mani di pochi proprietari.
Se in mezzo a grandi terreni, coltivati a seminazione con macchine animate dal bestiame, vogliasi da qualche misero colono coltivare a braccio un piccolo campicello anche a seminazione, sarà certamente meglio coltivato e produrrà dipiù riguardo all’estensione; ma per ragion naturale mettendo a calcolo la spesa maggiore impiegata, trovasi il prezzo naturale del prodotto al di sotto del prezzo cangiabile. Pare però contraddittorio il vedere in Puglia ed altrove in mezzo ad estese campagne, coltivato in grande qualche picciolo campicello dalle sole braccia dei meschini contadini. Se da vicino esaminiamo ciò, come mi è riuscito fare, a confessione degli stessi coloni troveremo che essi tengono il picciolo campicello ad uso
di semina per gliare ad altri, glio associano caso inoperosi
coltivarlo nei giorni in cui o non trovano a travao la mercede giornaliera è tenue, ed al loro travaanche quello delle donne e fanciulli, che in altro resterebbero.
10 Elem. dell’arte statistica., part. II, sezion. 3, $ 4.
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Da quanto ho detto pare che di poco successo esser possa la benefica disposizione di dividersi il vasto terreno comunale di Puglia in mano dei non possidenti, e ciò anche che ad essi usar si voglia la generosità di darli dei capitali convenienti per coltivarli coll’aratro. Io son di parere che se prima non si aumenta l’agricoltura pugliese, le picciole porzioni territoriali non tarderanno a passare in mano di potenti proprietari. Ma come mai può aumentarsi l'agricoltura se non si aumentano le braccia coltivatrici? Ecco l’unico mezzo di rendere floride quelle campagne, come furono nei remoti tempi. Sarà questa un’ardua o impossibile impresa! Facciamo qualche osservazione che ci possa indicare il modo il più facile e sollecito. Gli abitanti delle amene provincie pugliesi d’indole placida e quieta, molestate una volta da incursioni di feroci orde di malviventi delle montuose provincie loro confinanti, non che da corsari turchi che di notte tempo sbarcavano su quelle spiagge ovunque accessibili, videro la necessità di doversi radunare in numerosi abitati, ed ivi custodire le loro donne ed i loro effetti.
I coloni dunque o pernottano in questi abitati colle loro famiglie, e son costretti in ogni giorno ad andare e venire dalle campagne per coltivarle, o pure pernottano lontani dalle loro famiglie: l’uno e l’altro sistema è sempre dannoso all’agricoltura. Obbligato un operaio a dovere ben spesso perdere il sonno e quindi a fare più miglia a piedi pria di mettersi al travaglio, non può lavorare con forza, e robustezza; ed il suo pensiere intento di continuo a dover fare altrettanto di viaggio dopo il travaglio lo rende cauto a risparmiarsi e non istancarsi di molto. Ma anche che ciò ammetter non si voglia, o si suppongano tutti gli operai provveduti del loro asinello, e senza neanche ammettere le occasioni di remora, che si provano nell’uscir dall’abitato, e l’anzietà di ritornarci, il tempo che s’impiega al doppio viaggio vien detratto da quello del travaglio, che non è mai meno del quarto della giornata in ogni stagione. Questo è il sistema che si serba-nelte campagne più coltivate della Puglia, ma in quelle ove gli abitati distano tra loro di venti o trenta miglia sogliono, come ho detto, pernottare i coloni nelle campagne divisi dalle loro famiglie, ed andarle a ritrovare in ogni sette giorni, ed anche in alcuni luoghi in ogni quindici, e quando poi il bisogno dell’economia lo richiegga. Il viaggio da bassi ope-
III. Le regioni economiche
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rai fassi generalmente a piedi giacché non ostante che dai proprietari si concedono loro delle bestie, di queste sogliono avvalersene per condurre della legna per le loro famiglie. In qualunque modo però il sabato, in cui fassi il viaggio per andare in città, perdesi quasi intieramente per questo; il lunedì similmente per ritornare in campagna: ecco che i sei giorni di travaglio della settimana si riducono a quattro, senza contare le altre festività dell’anno, in cui fassi lo stesso. Questo inconveniente mi si potrà
dire si diminuisce, ove si permette l’accesso degli operai alle loro famiglie in ogni quindici ed anche più giorni, ma con ciò vassi incontro ad altro peggiore, come vengo a dire. Le donne abbandonate dai loro mariti per più giorni di buona fede crediamole caste. E ben vero che la rara venere è più prolifica, ma non già allorché sia forzata, giacché il punto della generazione risiede nell’incontro della favorevole disposizione di ambi i coniugati, che non è molto frequente. Quindi è che un tale sistema è una delle cause spopolatrici di quei paesi. Se poi suppor vogliamo, da maligni, che le donne prive dei loro mariti e della loro soggezione si dieno volentieri alla prostituzione, giacché non suol esservi termine medio negli amori impudici di femmine prive di morale educazione, allora avremo una maggior causa spopolatrice, ed origine di tante altre immoralità e delitti. Comunque creder ciò si voglia posso io assicurare che dai registri parrocchiali della popolazione di Altamura ho rilevato, che vi sono molto più figli generalmente nelle famiglie di quei contadini che ritornano quasi ogni sera nell’abitato, che nelle famiglie dei pastori e degli altri che pernottano sempre in campagna e veggono le mogli di raro. Se dunque per non perdersi tempo dal travaglio creder si voglia più profittevole la minor frequenza dei viaggi dei coloni agli abitati, allora si aumenta la già detta causa spopolatrice. Per riparare a tutt’i mali, il solo e semplice mezzo è di richiamare le famiglie ad abitare le campagne. Si toglierebbe così l’occasione dei viaggi degli operai per vedere le loro famiglie, o andare a pernottare nelle città, e si aumenterebbe il tempo del travaglio. Inoltre si accrescerebbero all’istante le braccia all’agricoltura, giacché le femmine che ora languiscono tra l’ozio e la mollezza nei numerosi abitati, o al più sono addette alla meschina arte del fuso, si adatterebbero volentieri ad aiutare i loro ma-
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riti e padri nel coltivare la terra. Le donnesche arti di prima necessità sono generalmente eseguite in Puglia con metodi stentati, quindi è che con macchine ben intese, e coll’impiego di tre o quattro abili artieri, supplir si potrebbe a ciò che si esegue ora nel tempo stesso per ogni centinaio di femmine. Esposte queste di continuo alle vicende delle stagioni nelle campagne, si renderebbero assai più robuste e capaci a sostenere il travaglio. Osserviamo ora che avvezze alla mollezza nell’inverno n’escono molto in tempo estivo nelle campagne per lo spicilegio incontrando non poche infermità pericolose per l’insolazione, e per altre violenti impressioni che risentono. Oltre delle infermità endemiche, quelle campagne sogliono produrre dei mali nervini, avendo la testa discoperta al sole, ed una incomoda
esalazione che si emana dalla messe recisa, che suol produrre un leggier furore o manìa, a cui va anche soggetto qualche maschio, guaribile colla musica e col ballo, che erroneamente si è creduto prodotto dal morso di una specie di ragno detto tarantola. Dalle tavole necrologiche di Altamura, che per vari anni colle osservazioni patologiche unii a quelle meteorologiche, ho costantemente rilevato, che i mesi di luglio ed agosto sono i più mortiferi per tali donne. In unione dei loro mariti sarebbero esse più oneste, e ciò assai influirebbe a migliorare la pubblica morale, non tanto perché più difficoltà incontrerebbero i maschi a dare sfogo alle loro prave passioni, ma perché sono le donne, che i primi sentimenti istillano a fanciulli; e per migliorarsi il costume, cominciar devesi da quello delle donne, come altrove ho dimostrato!!. Inoltre non solo la prolificazione si aumenterebbe, ma i fanciulli nella loro infanzia si accostumerebbero alle varie impressioni delle stagioni, da cui ne risulterebbe la loro maggior robustezza. Il massimo vantaggio di un tale sistema ridonderebbe poi, sebbene si rifletta, ad utile degli stessi operai. Quelli che pernottano nelle nude campagne pugliesi di altro non si alimentano di continuo, che di una semplice zuppa fatta col pane bagnato in acqua e sale, e condita con poco olio, e ciò per mancanza di chi
apparecchi loro dei cibi variati. Si sa che l’alimento misto è il più analogo all’uomo, e che il continuo vitto vegetabile non è proprio per la gente addetta al travaglio. Le mogli essendo allora in com1! Arte statistica, par. II, sez. 4, cap. 7, $ 3.
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pagnia continuamente dei loro mariti non mancherebbero occuparsi ad apparecchiar loro variati cibi, e penserebbero da vicino alla loro nettezza, principale modo di procurare la buona salute; rasciugherebbero al focolare in tempo di pioggia le loro umide vesti, che tante volte non depongono anche nel dormire; ed altri molti sussidi potrebbero dar loro. Ma come procurare la dimora delle famiglie in campagna da cui tanti vantaggi risultano? Io non propongo il precetto di Palladio: Ferrarii, lignarit, doliorum, cuparumque factores necessario babendi sunt, ne a labore solenni rusticos causa desiderandae urbis
avertat!?. Basta solo un molino, un forno, perché i pugliesi coloni possano rimanere in campagna. La nostra santa religione, a perfezionar la morale sommamente intenta, non si contenta che le famiglie nelle loro private mura solamente diano il dovuto culto alla divinità, come ai dei penati facevano gli antichi, ma esige che si congreghino nelle chiese nei festivi giorni per sentire la voce dei loro sagri pastori, e partecipare della sagramentale grazia; quindi è che il centro ed il richiamo delle famiglie sono presso di noi a ragione le chiese coi loro ministri. Ad onta di questa verità i giureconsulti che componevano la Real Camera di S. Chiara, a cui spettava impartire l’assenso in ogni erezione di ecclesiastico stabilimento, considerando che ogni erezione di nuova chiesa portava seco la dotazione di fondi, li quali vincolati eternamente restavano e fuori del civile commercio, anche che abolite venissero tali chiese, per una interpretazione estesa alle canoniche massime, renitenti erano nella concessione di ogni rurale chiesa. Ora che la ragion di stato è con saggia avvedutezza intesa, e non si hanno più questi riguardi, crederei che meritar dovesse il gradimento dell’illuminato Governo lo stabilimento delle rurali chiese, ove il bisogno richieda, per richiamarvi il domicilio delle famiglie, e popolare in tal modo le campagne della Puglia, e quelle che simili alle pugliesi sono anche deserte, ed aumentarsi così l'agricoltura, e procurare la nazionale floridezza. Quanto poi la meschina classe dei Pugliesi incapace sia di adattarsi ad altro cibo, che rimpiazzar possa il pane di frumento, come negli anni di estrema carestia si è osservato, altrettanto è 12 De re rustica, lib. I, tit. VI.
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dessa parca nel contentarsi di questo solo pane ed accessoriamen-
te di qualche altro commestibile.
i
Il solo stabilimento di un molino, e di un forno costituisce dunque l’essenziale bisognevole per l’alimentazione degli operari sparsi per le campagne. Io non dico con ciò che obbliati vengano tutti gli stabilimenti e sussidi per la miglior vita e conservazione di sì utile classe, ma questi non sono di una necessità la più pressante per i nostri moderati Pugliesi. Questi semplici stabilimenti sono sufficienti, come ho detto a trattenere le famiglie in campagna, ma non già a richiamarle. Non è certamente piacevole il passaggio oltre le abitudini delle
donne contrattate nella mollezza delle città. Per indurle a ciò qual miglior mezzo può escogitarsi, qualora non vi sieno ostacoli, che unire alla concessione delle porzioni dei territori comunali, l'obbligo di trasferire la loro dimora in campagna? I grandi proprietari si dovrebbero animare ad edificare una chiesa, un molino, un forno, e qualche ricovero nei propri poderi per le famiglie dei coloni. Non è più il tempo da temere l’estensione del giogo feudale in questo modo, ma la sola floridezza nazionale. Quando la popolazione sarebbe sparsa nelle campagne, allora sarebbe ivi confacente l’agricoltura in picciolo con sommo profitto. Altri mezzi non mancherebbero al nostro illuminato Governo da incoraggiare la campestre popolazione in Puglia, che di soverchio mio ardire sarebbe il proporli.
B)
LA DISTRIBUZIONE DELLA TERRA”
Un uomo solo non può coltivare tutta la superficie di una intera contrada, ed in dove vivono tanti altri uomini, perché non ha né forza, né potenza bastevole a poterlo eseguire; né deve
togliere il mezzo da occuparsi al lavoro agli altri uomini, perché siccome questi al par del primo hanno dritto di mangiare, perciò assiste loro anche il dovere di fatigare. Di qui segue, che il territorio di una contrada dovrà essere indispensabilmente diviso a più famiglie, affinché siccome tutti gli individui possono impie* Da Giuseppe Rosati, Le industrie di Puglia, Giuseppe Verriento, Foggia
1808, pp. 185-301.
III. Le regioni economiche
del
garsi alla fatica, così ciascuno ottiene dalla terra il suo mantenimento senza essere di peso agli altri. La questione che qui dovrà farsi ed esaminarsi consiste solo nel determinare se questa divisione di territorio debba farsi a picciolissime porzioni ed a ritagli assignati a ciascuna famiglia, o in porzioni estese, e grandi e maneggiabili dalla occupazione di meno numero di persone: se le terre agricole debbano coltivarsi da tutte le famiglie di un paese, o pure essere nelle mani di pochi individui. Questa grande questione non può avere una decisione generale, ma sarà esaminata secondo le circostanze fisiche ed economiche della Puglia, della quale noi abbiamo conoscenza senza brigarci delle altre provincie, ovvero di altri luoghi, le di cui circostanze fisiche, ed economiche saranno diverse [...].
La Puglia mercé le qualità del suo stato fisico si contentabile situazione di esercitare un commercio solo colle sue provincie, ma di presentare il necessario le sue industrie eziandio alle estere nazioni. La buona
trova nella attivo non frutto delqualità dei
suoi prodotti di prima necessità come le carni, il cacio, il grano, la lana hanno fatto bastevole fondo di attivo commercio, una
proporzionata opulenza dei suoi abitanti ed un soccorso alle volte ai pressanti bisogni della nazione. Di qui segue, che l’attuale situazione economica delle terre agricole e pascolatorie di Puglia, sebbene facessero un comodo contentabile degli agricoltori e dei pastori, e perciò il sicuro mantenimento della intera popolazione, pur tuttavia questa contrada si trova nello stato stazionario, non promettendo l’agricoltura istessa e la pastura maggiore accrescimento di prodotti di quello che offre col fatto. Or se i cambiamenti di sistemi agricoli debbano arrecare un sensibile accrescimento dei prodotti, ognuno per verità si fa un dovere di promuovere una mutazione cotanto ristoratrice; che se poi questi
cambiamenti non riuscissero a seconda della nostra contentabile opulenza, in questo caso si avrebbe il dispiacere di vedere deteriorare le nostre industrie, impiccioliti i nostri negoziati, debilitato il nostro potere, ed i nuovi mezzi da renderci più felici ci condurrebbero a conseguenze assai opposte alla felicità. Gli affari economici di Puglia, togliendo di mezzo ogni ampollosità, e riducendo ogni cosa al giusto livello, sono talmente connessi con l’attuale sistema economico per le derrate e pel commercio, che sarà sempre difficil cosa conservar tutto questo o renderlo migliore col mutare la sua pratica economia. Intanto è
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uopo di osservare, che alcuni pensatori filosofi esercitandosi per altro a darci i mezzi per renderci più felici, non han trascurato di far presente ai veri interessi della Puglia una mutazione di sistema, che tanto in apparenza crescerebbe la copia delle sue derrate, la estensione del suo commercio, il sollievo di tante industriose famiglie, la sicurezza maggiore della forza dello Stato, ed in conseguenza la ricchezza pugliese. Egli è vero, che l’attuale coltura del piano di questa contrada somministra una sufficiente quantità di grano, che faccia non solo il bastevole agli abitanti, la sicurezza di molte provincie, ed il fondo di uno stabile commercio esterno; non pertanto potrebbero tutte queste cose crescere a dismisura, mutando un poco la sua attuale economia. La degradazione apparente dell’agricoltura pugliese sembra di aver sedotto i nostri economisti pensatori, i quali perciò hanno inventato un nuovo sistema, onde rilevare non solo la presente industria dal suo avvilimento, ma di renderla eziandio più ubertosa. La scarsezza delle pioggie, l’aridità del territorio, la impossibilità di irrigare, la nudità del terreno, e la privazione degli alberi, e la non proprietà delle terre comeché tutte fittuali e precarie sono per costoro cagioni di niun peso; ma quello, che ha colpito grandemente la di loro fantasia, e che si assegna per unica e sola cagione degenerante, ella è la soverchia estensione dei territori posti a coltivo, e che si lasciano guidare dal potere di pochi coloni. Ella fu una massima degli antichi, non che creduta anche vera da moderni, che la coltura di grande estensione non potrà giammai dare a proporzione quel prodotto che si ottiene dal coltivo di un picciolo campo: dapoiché i prodotti in questo caso non seguono la ragione diretta delle superficie coltivate, ma una proporzione inversa assai svantaggiosa degli estesi coltivi in
paragone dei ristretti, per la ragione che non essendo l’uomo dotato di attività infinita, perciò potrà facilmente coltivare un picciol campo che perdersi infruttuosamente in un esteso. Per verità gli antichi avevano questa opinione. Virgilio nel libro 2 delle Georgiche così esprime: Laudato ingentia rura, exiguum colito. Questa massima virgiliana è stata con maggiore precisione con-
firmata da Plinio nel libro 18; capo 6, dove si mostra persuasissimo che i latifondi agrari fecero avvilire l'agricoltura italiana: Verumque constitentibus latifundia perdidere Italiam. Di qui i nostri moderni ne conchiudono che nella pianura di Puglia tutte le poderose famiglie, le di cui facoltà sono riposte nelle due enar-
III. Le regioni economiche
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rate industrie della pastura e dell’agricoltura, perciò essendovi di quelle che fanno uno esteso uso di semina, e per quella quantità, che forse non possono coltivare a dovere, mentreché poi restano dall’altra parte innumerevoli altre famiglie prive affatto di occupazione, si dovrebbe perciò diminuire la soverchia estesa e male eseguita coltura dalle mani degli attuali estesi agricoltori, e distribuirne poi in più famiglie coloniche la quantità delle terre, e così introdurre nella Puglia un più ragionevole coltivo in picciole porzioni e ritagli, per cui somministrando occupazione a più per-
sone ed alimentando più famiglie, si avrebbe la conseguenza che colla stessa quantità di terreno coltivatorio si avrebbe un prodotto di lunga mano superiore, che è l’unico fine al quale aspirano gli umani desideri. Questa distribuzione delle terre agricole si vorrebbe eseguita nel modo seguente. Ogni paese di Puglia dovrà considerarsi come un centro vicino a quale debbano assignarsi alle famiglie più povere le porzioni più picciole; ma a misura che da questo centro si allarga in giro così le porzioni diverranno più grandi ed occupate da famiglie più agiate, finché nell’ultima estremità o sia nella circonferenza più lontana saranno le porzioni più estese e date alle ricche famiglie. Intanto se le prime porzioni non sieno più estese di 2 versure, le ultime però non dovranno crescere oltre delle 300 versure, giacché questa ampiezza si stima comodissima al potere di un colono ricco della Puglia, ed in cui potrà bene esercitare questa industria e non dissiparsi infruttuosamente nelle migliaia di versure che la esperienza ha fatto vedere di essersi mal coltivate [...]. Tutte le terre agricole della Puglia sono già pienamente coltivate, possedute ed affittate da un gran numero di agricoltori, e distribuite ai medesimi in tante porzioni di disuguale grandezza secondo le di loro richieste, il di lor potere ed i di loro bisogni. Quindi non fa uopo di quivi crescerne la estensione totale, perché quella che attualmente sta in esercizio somministra il bastevole alla vivenza della intera popolazione pugliese, e somministra altresì l’altra sensibile parte da poterne rifondere alle altre contrade sempre proporzionata alle di loro limitate richieste. Questa estrazione e commercio del grano pugliese, oltre degli altri prodotti della pastura, costituisce un fondo di comodi tali, che rende questa contrada niente inferiore forse alle altre provincie di questo Regno.
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La quantità sensibilmente maggiore di una derrata importante è stata sempre desiderata da tutti gli uomini, non che cercati si sono mezzi possibili onde farne crescere la copia. Uno di sì fatti mezzi potrebbe essere l’accrescimento delle terre, e quindi la estensione del coltivo in maggior quantità. In Puglia questa operazione non è ragionevolmente praticabile, perché nella sua stessa proporzione s’impicciolirebbero i pascoli pecorini, e la pastura perciò ne sarebbe offesa e sensibilmente minorata; senza niente dire della scarsezza degli uomini lavoratori, che per un tale aumento mancherebbero assolutamente. Ma non facendo conto della diminuita pastura, cresce a questo modo la quantità del grano. Ora aumentato più assai dello stato ordinario questo prodotto commerciabile, ne avrebbe per conseguenza che siccome le richieste estere di grani pugliesi sono presso a poco sempre della stessa quantità, così questo di più resterebbe invenduto e stagnante, e ne farebbe per necessità l’avvilimento del prezzo della intera massa, mentreché ogni altra cosa resterebbe immobile nel suo valore. La massa intera adunque dei coloni di Puglia con un prodotto maggiore di derrata avrebbero minor guadagno e la spesa della industria sarebbe intanto la stessa. Dunque il crescere di quantità la coltura pugliese invece di arricchire gli agricoltori potrebbe essere un mezzo da condurli al certo fallimento. Per ovviare al disordine della diminuzione della pastura, e senza aumentare perciò la estensione delle terre agricole, si ottiene lo stesso risultato, ed anche cresciuto di molto colla sola distribuzione minuta ed a ritagli di quelle terre, che attualmente sono in grande spazio in mano di questi estesi agricoltori, ed assignarle a più numerosi coloni. Per eseguire adunque sì fatto sistema dei piccioli campi sarebbe inevitabile cosa di toglierne gran parte a ciascheduno di quelli che ne sono nell’attuale dominio per indi distribuirli a tutti coloro che non ne hanno. Quindi sospen-
dendo per ora lo esame se la minuta distribuzione possa essere più profittevole in Puglia, sarà mestieri di fissare per poco la nostra riflessione sulle famiglie agricole che ne sono nell’attuale funzione. Hanno tutte queste con gravi cure sempre atteso alla felicità di questa industria, ne hanno collocate in questa tutte le di loro sostanze, ne hanno migliorata la condizione dei terreni, ed hanno educata la di loro industriosa famiglia a coltivare sempre bene quella sorgente, dalla quale si spera nella breve carriera di
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questa vita la sussistenza ed il riposo. Vedersene adunque prive in massima parte è lo stesso, che ridursi in maggiori angustie, comeché, impiccioliti i prodotti, si procederebbe loro la impotenza ai grandi sforzi di questa industria, mentreché perderebbero le ingenti somme impiegate nel proporzionato governo della coltura, e vedrebbero i restanti di loro capitali restarne oziosi, comeché non applicabili a veruna altra industria. Queste morali riflessioni non debbano separarsi dal campo della nostra attenzione nella esecuzione di qualunque sistema. Cicerone nella orazione contro Rullo, descrivendo un caso pressoché simile al nostro, non poté dispensarsi di fare il seguente patetico discorso: $7 Campanus ager dividatur, exturbari; et expelli plebem ex agris, non costitui, et collocari. Totus enim ager Campanus colitur, et possidetura plebe, eta plebe optima, et modestissima; quod genus hominum optime moratum, optimorum aratorum ab hoc plebicola tribuno funditus eticitur. Atque illi miseri nati în illis agris, et educati, glebis subigendis exercitati, quo se subito conferant non habebunt. Ben inteso tutto quello che finora abbiamo esposto, egli è tempo di conoscere più da vicino la vera disputa che deve farsi, ed indi decidersi per questo importante articolo, la quale non è se i grandi ed estesi coltivi sieno più rettamente, o peggiormente eseguiti dei piccioli e ristretti, ma deve esaminarsi a tutto rigore se la divisione dei campi coltivatori, che induca la semina a picciole porzioni in preferenza delle estese colture, possa essere eseguibile, durevole e vantaggiosa alle famiglie, alla nazione ed allo Stato, il vantaggio del quale deve formare la vera legge nelle circostanze fisiche ed economiche della pianura di Puglia. Le nazioni più culte, che oggi fioriscono nella nostra Europa prosperando in tutti i rami di una ben intesa amministrazione, hanno collocato il margine maggiore della opulenza nazionale, e della potenza dello Stato negli effetti di un esteso e durevole commercio, il quale riconosce la sua origine o dalle manifatture degli uomini o dai prodotti naturali della terra, che la industria degli abitanti farà prosperare. Sarebbe cosa di poco momento se la Puglia fosse solamente nelle ordinarie circostanze di somministrare la sola e nuda vivenza ai suoi abitanti; ella fa assai di più, nonostante una decisa opposizione della natura. La copia contentabile dei suoi prodotti di prima necessità la solleva dal vile
fango della plebe e la innalza nell’ordine luminoso di una contrada imponente. Sono noti a chiunque sia informato degl’intri-
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ghi di questo mondo, quali mezzi le culte nazioni abbiano usati per far continuare il di loro commercio, adoperando per verità tutte le regole possibili per farne aumentare i prodotti. Ci sia di esempio lo stabilimento delle compagnie delle nazioni di Europa, che fanno tanto strepito nelle Indie orientali, ed occidentali. La prima base della di loro opulenza ella è l’ampiezza delle di loro facoltà ridotte in una massa rappresentante; giacché egli è chiaro il comprendere che se ciascuno dei componenti agisse da sé solo, lo commercio non ci sarebbe o presto andrebbe alla rovina. Egli è un principio ben chiaro nella fisica che una picciola potenza produca picciolo effetto; laddove poi una grande azione sia la somma di più forze unite insieme, somministrar deve un grande movimento, e tale, che sarà sempre maggiore di tutti gli effetti uniti insieme se si calcolassero divisi tra di loro. I piccioli negoziati non hanno fatto mai lo splendore di una famiglia, ma le grandi compagnie di Batavia, di Ponticherì, di Bengala, delle Molucche, della Guinea, delle Antille hanno fatta la grandiosità de-
gli Olandesi, degl’Inglesi, dei Francesi, i di cui stabilimenti sono divenuti gli empori del mondo. Ella dunque è assai facile cosa di persuaderci, che non solo nella Puglia, comeché territorio capace ad eseguirlo, sarà sempre necessario di promuovere non che proteggere e mantenere un commercio vivo dei suoi prodotti di primo genere, ma che questo istesso commercio e le sue derrate non potranno giammai essere nelle ubertose circostanze se saranno abolite le grandi masse, o sieno i grandi agricoltori, i quali mercé l’effetto della di loro proporzionata potenza possono raccorre, e mantenere in un sol punto di vista copia grandiosa di prodotti pugliesi e commerciarli colle circostanze le più favorevoli, dalle quali per verità dipende il vantaggio dei più utili negoziati. Pel contrario poi se ai grandi agricoltori si surrogassero i piccioli coloni, in questo caso mancando il dovuto tono al nostro commercio, giacché la di loro picciola copia di derrata non potrebbe vestirli del carattere della importanza, si vedrebbe che la Puglia colla stessa quantità di prodotti apparirebbe sepolta nello umiliante rango della meschinità e della vilezza. Sarà sempre alieno da questo nostro ragionamento il superfluo esame se ad altre contrade di questo felice Regno convenghi la estesa o minuta coltura dei campi. Ognuno calcola bene i suoi interessi e conosce le circostanze del suo paese. Per quanto la Puglia presentasse alla umana industria vasto campo ad eserci-
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tarsi, ella però non soffre un sistema di piccioli coltivi, ma ricerca indispensabilmente le estese colture. Procuriamo in queste ricerche di non farci abbagliare dai vezzi delle idee astratte e filosofiche, e stiamo sempre al fatto ed alla esperienza che è l’unica guida delle nostre azioni. Si è costantemente osservato nell’agricoltura di Puglia che il prodotto che ricava un picciolo colono dalle sue poche versure è nella stessa proporzione del prodotto che ottiene il gran colono dai suoi campi estesi. La ragione di questo uguale prodotto è manifesta. Imperciocché il prodotto della semina essendo sempre, ed in gran parte, l’effetto del coltivo, ponendo da banda per ora la differente natura dei terreni così ne nasce per conseguenza che supponendo terreni di uguale indole, e perché sono coltivati nel modo istesso, forza è che il di loro prodotto debba essere in ragione uguale. Ora ella è costante la pratica nella Puglia che il sistema di lavorar la terra sia sempre simile nei grandi campi;
giacché noi non conosciamo esservi differenza di manovra che usassero i piccioli coloni relativamente al lavoro impiegato dai grandi ed estesi agricoltori. Anzi vi è di più. I grandi coloni per l’effetto di maggior potenza mantengono a gravi spese numerose razze di bovi, e di giumente, le quali essendo con speciale cura ben governate possono nel tempo della fatica servire assai meglio per la più felice riuscita del coltivo. Non così per verità accade ai piccioli coloni, i quali per la mancanza dei comodi sufficienti o allevano con disagio scarsissimo numero di questi indispensabili animali o nel tempo del bisogno, come accade per lo più, ne prendono in affitto. Quindi è che noi potriamo a tutto rigore asserire non che provare col fatto, che in generale il gran colono solamente può lusingarsi di maggior copia di derrata in proporzione dei piccioli coloni, giacché nelle circostanze della Puglia il lavoro dei campi può sempre eseguirsi con una manovra più esatta dagli stessi agricoltori. In seguito di questo innegabile principio non vale l’opporre
l’esempio di qualche versuriere che abbia assai ricevuto dal suo campo ristretto nel tempo stesso che qualche gran colono di Puglia ottenga il suo prodotto in proporzione minore del suo campo esteso. Il fenomeno è facile a spiegarsi. Egli è da sapersi che seb-
bene la pratica del coltivo sia in tutti la stessa, pur tuttavia il terreno che veste lo esteso suolo della Puglia non è ugualmente fertile in tutti.i suoi punti, né della stessa natura, tantoché la sua
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diversità è così osservabile, che chiari segni di differenza si additano in ogni tratto. Si differenzia l’attività della vegetazione secondoché i vari prezzi dei territori si trovano situati o nelle vicinanze dei torrenti, o nelle poche depresse concavità, o nel-
le leggiere elevazioni. Si combina tutto questo o colla maggiore spessezza del terreno vegetabile, o colla sua mediocrità, o colla minima crassezza diversificando vieppiù le descritte circostanze la differente natura del terreno, dove più sciolto e polveroso, dove più crasso, tenace e coerente. Lo stesso campo del gran co-
lono, sebbene in un anno pare che abbia generalmente meno prodotto a proporzione di un picciol campo di un versuriere, si possono però additare i vari pezzi di un esteso campo, per le circostanze enunciate, che abbiano diversamente prolificato e sempre ritroveremo dei pezzi che abbiano prodotto assai più di un ugual picciol campo, altri nella stessa ragione, altri assai meno, e forse altri niente affatto. Sia un picciol campo che abbia 5 di estensione e 10 di prodotto, un campo quadruplo abbia 20 di estensione e dia 30 di prodotto. Essendo il primo alla sua estensione in ragion doppia, 0 sia due volte maggiore, ed il secondo alla sua in ragion sesquialtera, o sia uno e mezzo, si scorge chiaro che in
generale lo esteso campo pare che abbia profittato meno del picciol campo. Dividiamo il campo grande in quattro porzioni ciascheduna uguale al picciolo, noi sempre ritroveremo, che questi quattro pezzi non abbiano prodotto ugualmente, e supponendo che il primo pezzo abbia dato poca cosa, il secondo pezzo abbia dato 4 meno del picciolo campo il terzo pezzo darà 10 uguale al posto in paragone il quarto forza è, che dia 15 maggiore del dato in questione. Dunque non è la estesa coltura che dia minor prodotto a proporzione della ristretta, ma è la varia modificazione dei pezzi componenti i territori, i quali o si coltivano uniti insieme sotto la direzione di un solo colono, o ciascheduno dal suo, perché la pratica del coltivo è per tutta la stessa, perciò sempre daranno quel prodotto che sarà proporzionato alle circostanze del terreno. Di qui nasce, che la divisione minuta dei campi della Puglia non ci mena per niente al desiderato aumento dei suoi prodotti. La uguale proporzione dei prodotti degli estesi e dei ristretti coltivi non deve formar sorpresa a chiunque, dapoiché questo è un effetto nato dalla costanza delle leggi della natura, la quale agisce sempre ad un modo. Siccome la proporzione del prodotto
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è in parte l’effetto della qualità del terreno, ed in parte quello del coltivo, così ne nasce che essendovi la stessa ragione dei prodotti nei grandi e nei piccioli campi coltivatori della Puglia, forza è che conchiudiamo, che lo stesso travaglio ed attenzione proporzionata si debba impiegare dallo esteso e dal ristretto colono. Non è persuadibile che il picciolo colono impieghi maggior diligenza al lavoro del suo campo, ed il grande assai minore per la ragione che, siccome nessuno vuole la propria rovina, così ciascheduno
presta quell’assistenza al suo lavoro la quale sempre sarà proporzionata alla quantità della industria ed alla copia delle proprie sostanze, non che del proprio potere. Si suole esagerare e fondarsi sull’uso dell’attenzione, e si crede con questa insipida espressione che il gran colono ne impiega meno, ed il piccolo colono ne usa assai di più. Ora questo vocabolo attenzione non significando altra cosa che lo effetto della continua riflessione, perciò ne siegue esser cosa certa che tuttociò che ci addita di meglio questa riflessione sia sempre più eseguibile dallo esteso che dal ristretto colono, perché il potere del primo è sempre più grande del secondo. Oltre di che poi immaginarsi il contrario di questa innegabile verità sarebbe lo stesso, che rovesciare ogni ordine di raziocinio. La misura della nostra attenzione viene sempre determinata dalla grandezza dell’oggetto che si debba eseguire. Non si è giammai veduto Annibale, ovvero Alessandro, dare nella battaglia sbadigliando gli ordini alle schiere, ed un giardiniere poi essere tutto assorto nel coltivare le sue rape. Se l’attenzione dei coloni fosse in ragion inversa della estensione del coltivo, frequentissimi sarebbero stati i fallimenti dei gran coloni, e rarissimi poi dei piccioli, quale cosa è sempre accaduta tutto il contrario. La nostra Puglia non ha giammai mostrato fenomeni così contrari al senso comune, ma per l’opposto ha sempre nudrita gente che ha saputo adattare alle proprie facende la proporzionata attenzione, la quale consiste nello esatto adempimento delle regole pratiche della coltura, e per quanto ne permettono le circostanze fisiche ed economiche di questa contrada. 1 La sola grande ed estesa coltura nella Puglia può essere utile alle famiglie, e non già la picciola e la ristretta. In tutti gli affari umani, che si dirigono pel guadagno, noi misuriamo la quantità
dell’utile del solo prodotto netto detratte le spese che ricaviamo da qualsivoglia negozio. Questo guadagno netto egli è manifesto, che abbia un costante rapporto o sia una data proporzione colle
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spese adoperate per la esecuzione dell'affare. Or ella è cosa evidentissima, che questo guadagno netto cresce nella stessa ragione che la spesa diminuisce e diverrà pel contrario sempre più picciolo a proporzione che cresce la spesa. Non occorre il dimostrare, che nelle circostanze della Puglia a misura che il campo impicciolisce, nella stessa ragione cresce la spesa e minora il guadagno. Imperciocché il gran colono ed il picciolo non possono dispensarsi dei soliti agenti e custodi, e di tutti i capi di mestiere nelle di loro industrie, e questi individui sono necessari al grande ed al picciolo colono. Di più le numerose razze dei bovi e delle giumente, che allevano con tanta diligenza i grandi coloni per uso della coltura, porta seco un notabile risparmio posto in parallelo dello affitto che dovrebbero fare i piccioli coloni pel disbrigo del di loro coltivo dapoiché di grave molestia riuscirebbe loro il mantenimento di questi animali, per non dire la impotenza dei versurieri ad allevarli non che a custodirli. Inoltre la scarsezza dei pochi operai pugliesi, ed il bisogno che ci è degli stranieri lavoratori che qui si fanno venire dalle provincie di Lecce, di Bari, dal Principato, e dagli Abruzzi forma un altro articolo di risparmio per i grandi coloni non così per i piccioli, giacché i primi godendo di una maggiore copia di sostanze possono caparrare questa gente a tempo di minor necessità, e servirsene nel bisogno. Ora fatto il calcolo egli è facile di conoscere che il risultato sia in proporzione assai più picciolo per rapporto al suo prodotto netto di un campo esteso, ed in proporzione assai più grande nei piccioli coltivi onde avviene, che nella Puglia, quanto più si estende il campo coltivatorio per un solo colono, tanto più sarà grande il suo guadagno netto, e quanto più diminuisce tanto più sarà picciolo, per cui ne nasce altresì che, se un campo fosse picciolissimo, in questo caso il prodotto sarebbe tutto assorbito dalle spese, ed il guadagno si accosterebbe al zero. Un esempio assai chiaro in conferma di questo nostro teorema ce lo somministra la statistica. Ognuno sa, per poco che sia versato negli arcani geometrici, che a misura che una macchina si moltiplichi, tantopiù diminuisce la ragion della potenza al suo effetto e cresce questo ultimo a dismisura; laddove poi nella macchina semplice il rapporto della potenza al suo effetto è sempre maggiore. Così se una macchina semplice voglia 5 di potenza per dare 10 di effetto, in questo caso la ragione della potenza al suo effetto è per metà. Prendiamo tre di queste macchine semplici, e
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facciamone una composta, la quale sarà rappresentata da tre potenze di 5 e da tre effetti di 10. Ora per avere il risultato della potenza composta e dello effetto anche composto, si moltiplichino tra di loro le potenze, ed avremo 125 di potenza, e si moltiplichino tra di loro i tre effetti, ed avremo 1000 di risultato. Or in ragione di 5 a 10 nella macchina semplice sarà per metà, e la ragione della potenza 125 relativamente al suo effetto 1000 nella macchina composta sarà per una ottava. Cresce adunque la ragione della spesa al suo prodotto nei campi ristretti, e diminuisce poi nelle grandi ed estese colture. In conferma di quanto si è detto, sembrano essere preferibili grandi coltivi ai piccioli per la singolare condizione dei terreni di Puglia, i quali non somministrano altro dopo le fatiche di due anni, che un solo prodotto, e questo istesso non molto opulento.
Egli è mestiere di sapere che i terreni lavoratori di Puglia hanno questo di loro speciale natura, che se un anno si seminano, l’altro anno per lo più debbano stare a riposo, ad eccezione solamente di lavorarli, circostanza questa molto dura per gli agricoltori, i quali nell’anno del riposo ne debbano soffrire il peso e la fatica senza
percepire utile veruno. La ragione di questo alternativo riposo è manifesta. Imperciocché siccome le terre agricole di questa contrada sono poco dotate di terriccio vegetabile, perché campi sprovveduti affatto di alberi e di piante annose, e nel tempo istesso la vegetazione delle piante cereali ammagrisce il terreno per succhiarne ogni alimento a differenza delle piante leguminose, che lo impingua, perciò non possono soffrire la semina continuata di questo genere delle piante cereali, e forza è che si accordi loro il riposo. Dopo il travaglio adunque di due anni che da ogni colono s’impiega, il terreno di Puglia somministra un solo e semplice prodotto e niente più. Questa unità di cose porta seco indispensabile necessità di una estesa coltura per la ragione che la maggiore estensione esibendo un guadagno netto assai maggiore in proporzione della piccola e ristretta, è nel caso altresì di dare la sufficienza pel mantenimento della famiglia. L'esempio pratico di tutte le oneste ristrette famiglie pugliesi ci dimostra senza replica la verità dello esposto principio. Sebbene moltissime di queste sieno addette al lavoro dei piccioli campi seminatori, pur tuttavia non potendo ricevere da questa ristretta coltura tutto il bisognevole al di loro necessario sostentamento, sono costretti i
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capi di famiglia ad esercitare nel tempo istesso un altro mestiere pel fare il proporzionato soccorso ai domestici bisogni. Non vale porre in parallelo i terreni della Campagna felice o di altre contrade fecondissime con quelli della Puglia, giudicando gl’interessi di quest’ultima colla idea dei prodotti della prima. Quelle fertilissime terre in ogni anno generalmente somministrano quattro differenti prodotti, per non dire anche sei. Il prodotto degli alberi in frutta ed in legno, il prodotto delle viti in uva, in vino, ed in sarmenti, il prodotto della semina delle piante cereali d’inverno, e quello di state, senza dir cosa alcuna delle piante leguminose e delle tigliose. Non così certamente accade per i terreni in Puglia. Questi non esibiscono che un solo mediocre prodotto per ogni due anni donde segue, che per essere un territorio di Puglia nel caso di dare un valore uguale a quello delle descritte contrade, supponendo anche, che le spese sieno le istesse, il primo dovrebbe essere per lo meno otto volte maggiore del secondo, per non dire sedici o venti volte, per equilibrarne i profitti. Cessi adunque la meraviglia a tutti coloro i quali comeché niente informati della condizione della pianura pugliese non possono indovinare donde mai avvenga, che molte versure in questa contrada non possono soccorrere a tutti i bisogni di una ristretta famiglia, mentreché nella Campagna felice, ed in altri luoghi consimili poche moggia di terreno lo fanno godere di una decisa comodità. Grandissima difficoltà oppone alla divisione minuta dei campi agricoli la scarsa popolazione di Puglia. Sappiamo dai calcoli innanzi riferiti che la Puglia sia otto volte meno popolata della Campagna felice, donde nasce, che i paesi di Puglia sieno tra di loro situati a grandissimi intervalli. Or se in tale stato di desolazione qui si effettuisse la distribuzione minuta delle terre lavoratorie, riuscirebbe affatto inutile e precaria. Imperciocché la soverchia distanza dei piccioli poderi che forse spettarebbe a molti poveri coloni, giacché non tutti potrebbero situarsi nei contorni dell’abitato, unita poi alla mancanza dei comodi campestri di abitazione, di pozzi, di ripari, che pur sono di gravi spese e di altro necessario, la insufficienza del pascolo proporzionato agli animali indispensabili all’agricoltura, se pur ne avessero, gli renderebbe inabili a governare il di loro coltivo, non che a farlo prosperare. La frequentissima mancanza della di loro personale assistenza, comeché dimoranti in città, astretti ad altro mestiere
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per procacciarsi la sussistenza per i bisogni della famiglia, non potendo questa fissarsi nella campagna, perché il suo prodotto non basta ad alimentarne tutti gli’individui, la insuperabile difficoltà a custodire il campo per la spesa dei mercenari, dapoiché sono campi da per tutto accessibili, e finalmente la proporzione dello scarso guadagno netto bastevole a resistere alle sciagure, che di frequente accadono, fanno vedere col fatto la inutilità della minuta distribuzione non che la rovina certa dei ristretti agricoltori.
2. Foreste e campi in Principato Ultra* L’intiero suolo del Principato Ulteriore, secondo i libri censuari da me esattamente osservati, si estende per 774.099 moggia, ciascuno di novecento passi quadrati, distinti come siegue:
boschi castagnali
41.867
boschi di querce seminatorio vigneti incolto totale
61.102 487.776 III
124.227 774.099
Gli Appennini del Principato Ulteriore non offrono, per lo più, che un tristo scheletro di sassi calcarei provveduti di qualche albero e di scarse erbe miseramente vegetanti tra gl’interstizi delle pietre. La mano distruttrice dell’uomo vi ha portata la desolazione. Tagliati gli annosi alberi si è raso il terriccio vegetabile, e rimasta a nudo l’ossatura calcarea dei monti. Quanti secoli ci
vorranno a riparare un disastro, che la cura di brevi momenti avrebbe impedito! Fanno orrore il Taburno da Montesarchio e il Terminio da Serino. Il candore di quei sassi osservato da lontano offre l’illudente spettacolo di nevoso inverno nel cuore dell’està! Ai terreni di tal fatta a stento si è dato il valor capitale di un docato per moggio, e tante degradazioni reclamano la vendetta * Da Federico Cassitti, Discorso, in «Atti delle istallazioni delle Società di
agricoltura in tutte le provincie del Regno celebrate nel dì primo novembre 1810», Angelo Trani, Napoli 1811, pp. 11-21.
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della natura contro chi ha ardito distruggerla. Quanto di noi più saggi gli antichi attaccavano idee religiose alla conservazione dei boschi, e venerano gli alti monti come intangibili approssimazioni al seggio della Divinità! È necessario l’inganno quante volte l’errore riesce utile, o almeno quando non si ha tempo di sostituire la nozione del vero alla rimozione dell’errore istesso. Ma ai dì nostri si ha cura di spregiudicare il popolo senza istruirlo nei suoi veri interessi. Negli altri Appennini del Principato Ulteriore ancor la scure vi ha portata la desolazione; ma pur sonovi degli avvanzi dei boschi, la maestà dei quali è un rimprovero eloquente alla noncuranza dei magistrati che hanno altrove permesso il devastamento. Gli annosi faggi di Chiusano sul dorso più elevato del monte, ove dicesi Vene delle Rose atterriscono per la loro smisurata altezza e fusto regolare, in modo da confonderli facilmente coi pini. Tutto il monte Partenio, e Montevergine che comincia da Mercogliano e finisce senza interruzione alle famose Forche Caudine, oggi dette Forchia del Caudio, è coverto di belli boschi di castagni, aceri, faggi, carpini, e di una infinità di suffrutici, tra quali ho distinto la mzedicago arborea di Linneo o il citiso degli antichi ricercato per gli usi della pastorizia dal Cavalier Monticelli. Gl’immensi Appennini di Vitulano, costituiti da sette monti accavallati l’un sopra l’altro, sono in parte coverti di alberi; ma quei cittadini li distruggono tutto giorno per uso di carboni, dei quali ne fan commercio con Benevento e colle popolazioni vicine. Favoriscesi tal devastazione dall’accessibilità in ogni tempo delle strade che conducono sulle alture. Scavate quelle nel vivo sasso rendon le cime più elevate del monte permeabili agli animali da soma nel mezzo del più fangoso inverno. Dalla parte di Montesarchio su quei monti non ci è idea di vegetazione alcuna. Del Terminio non bisogna parlarne. Tutto quivi è devastato. Il Lacinio ha pochi alberi nella parte comunale, dove è dei privati vi sono dei bei boschi castagnali: confronto solito, e luttuoso. Tanti terreni incolti e boscosi, quanti ne ho descritti, dovrebbero nel Principato Ulteriore alimentare del buono e numeroso bestiame, ma disgraziatamente non ne abbiamo che poco e cattivo. E non sono i pascoli comunali esistenti nella provincia i nemici distruttori appunto della buona pastorizia? Con essi gli armenti si condannano ad un pascolo arabo e vagante, per alimentarli di residuali ceppaie di erbe, alle quali è impedita dal continuato abuso la facoltà di riprodursi. Oltre a ciò quasi per
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istinto gli animali rifiutano sino alla nausea gli alimenti tocchi e smozzicati dagli altri animali. La sola fame può costringerli ad usarne, ma non è perciò che ne provenga soddisfacente nutrizione. Le leggi del Re han minata la distruzione dell’uso civico, ed il confronto non infrequente nella provincia tra la tenuta del bestiame pasciuto con esso e quello nutrito nei prati artificiali faran decidere i nostri pastori ad eliminare quel mostro che fu la rovina
della nostra pastorizia. Non è ignoto, che un moggio di terreno seminato a prato artificiale dà alimento a tanti animali, per quanti ne alimentano dieci moggia di terreno addetto all’uso civico. Si confrontino i bovi di Morroni, del Cubante, delle pianure Beneventane, di Pietra dei Fusi, pasciuti nei prati artificiali, coi bovi di Ariano pasciuti nei pascoli comunali. Questi han figura di larve, nell’atto che quelli si vendono sino a docati trecento per paio. Lo stesso dicasi delle pecore, delle quali per altro ne abbiamo una pessima razza. Delle capre non vorrei che si parlasse in regioni nelle quali vuol migliorarsi la coltura degli alberi. In Solofra ve ne sono sino a tremila. Una capra sola in un’ora rimasta a sua libertà distrugge cinquecento cime di teneri arbuscelli. Per diminuire il numero di questi animali gli antichi ne avean fatto oggetto di sagrifizio a Bacco. Ma i nostri barbari pastori risparmiano loro la morte, allettati dai prodotti di un latte poco animalizzato, di allievi di basso prezzo, e di una qualità di letame poco, anzi quasi nulla, fertilizzante. Le capre, se voglian permettersi, debbon nutrirsi tenute in luoghi chiusi, e non bisogna accordar loro il pascolo libero e vagante, altrimenti lungi dal giovare ed essere utili, arrecano del danno incalcolabile. Dal fin qui detto non si ricavi che io per poco detragga i pregi della pastorizia, che io ho sempre tenuta come la base più salda dell’agricoltura. Bisogna proteggerla e rinvigorirla. Ciò consiste in bilanciare esattamente queste due arti germane, che ravviso
nei sacri libri con allegoria orientale personificate in Caino ed Abele. La smoderata coltivazione ombreggiata in Caino distrusse la pastorizia figurata in Abele, l’uno e l’altro germani fratelli, che
per legge naturale doveano egualmente entrare a parte del paterno retaggio.
I principali monti succedanei agli Appennini che sonosi da noi precedentemente enumerati presentano oggi una immensità
di slamature causate dalla disordinata intemperanza di coltivare, e dalla trascurata economia delle acque. Bisaccia, Accadia, Aria-
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no, Santapaolina alle falde di Montefusco non tarderanno ad essere le vittime dei divisati inconvenienti. Larghe e profonde voragini aperte da piccioli rivoli minacciano assorbirsi gli edifici di quelle sventurate popolazioni. I monti argillacei del Principato Ulteriore sono nelle prossimità dell’abitato migliorati a vigneti, oliveti, ed a varie sorti di frutta, e nel resto non trovansi che nudi terreni destinati alla
coltivazione dei cereali. La rigidezza del verno, che in quei locali si protrae più che altrove, non permette alle piante che un accrescimento limitato. Per questa sorprendente operazione della natura richiedesi una temperatura né tanto alta, né tanto bassa: a buon conto gli alberi crescono, allorché il tepore di primavera comunica alle piante un’energia tutta particolare, che con aggiustezza i nostri campagnuoli chiamano azzore. Ma nei monti che descrivo non sentonsi che gli estremi: l’inverno più rigido è seguito con brevissima degradazione da furioso calore estivo, ed ecco perché le piante han poco tempo per crescere. Ma non è per questo, che gli alberi non somministrino frutta abbondanti e di squisito sapore, tra le quali distinguonsi le uve. Una esposizione battuta per ogni lato dai raggi non interrotti del sole, il costume di tenersi a vigne le viti e le uve perciò esposte all’azione ed alla riflessione dei raggi stessi solari, di unita al colore non negro delle terre argillacee, che pochi ne assorbisce e quasi tutti li riflette tutto ciò non può produrre che le uve non maturino perfettamente, verificandosi che apertos Bachus amat colles. La qualità del suolo argillaceo-siliceo è molto favorevole agli ulivi. La silice di sua natura arida ed incapace di ritenere l’umido, opposta alla tenacità dell’argilla, che tardi permette l’evaporazione, costituiscono un misto di terre abili a dare giusto alimento agli ulivi. Questi alberi se ricevono nutrizione uguale agli altri, producon frutta soverchiamente mucilaginose e perciò sprovvedute di olio, nell’atto che i rami lussoreggiano in foglie. A buon conto in paragone di molte altre piante gli ulivi distinguonsi per la loro sobrietà. Da ciò dipende ancora la migliore condizione di olio, che producon le olive raccolte da alberi vegetanti in suolo così fatto. La scarsa quantità di alimento che passa nelle polpe, formando poca mucilagine, materiale ben facile ad ossigenarsi e corrompersi, è causa che l’olio espresso riesca più depurato nella sua separazione, nell’atto che
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per la poca umidità del suolo si attiva l’azione solare a ben modificare l'idrogeno e il carbonio, principi costituenti dell’olio. I vasti tenimenti dei monti argillacei che descrivo si destinano alla semina delle piante cereali in porzione, ed in altra servono al pascolo comunale. La coltivazione in essi è bastantemente infelice. Gli affitti alla più lunga sessennali e la naturale avidità dei coloni fan deteriorare da giorno in giorno quei campi, che conceduti a censo o coltivati a società, invoglierebbero l’industria degli agricoltori a migliorarli anziché a rimanerli al più che si può depauperati. Ci si aggiunga la distanza di più miglia che vi ha da tali fondi agli abitanti, non che la mala tenuta delle strade traversate sull’argilla perpetuamente fangose. Tutto ciò non permette, che la coltura si esegua con intelligenza. Di tali terreni costumano i coloni destinarne un terzo al riposo, ossia a quella pratica che favorisce la poltroneria. Qual riposo darsi ad una terra, le di cui perdite si riparassero e con concimi, e con coltivi? Ma questi due oggetti forman quivi nullità, ed io principalmente lo ripeto, perché i coloni temporanei non hanno il sentimento di proprietà. I terreni di queste contrade non ostante tanta negligenza producono alla ragione del cinque per uno prodotto medio. La qualità poi delle granaglie non può non corrispondere alla trista coltura. Grani profilati, leggieri di peso, e d’infelice aspetto sono la maggioranza dei prodotti di quelle campagne, tra le quali sono detestabili quelle di Trevico e di Frigento. E pure questo scarso e cattivo risultato degli annui sudori di quei poveri coloni è destinato ad empire i magazzini di pochi usurai. Questa classe di uomini è la principale ruina dell’agricoltura. Abusando essi dei bisogni di tanti infelici tassano a capriccio le derrate, che loro improntano, le introitano poi a buonissimo mercato, per venderle quindi 4 credenza a prezzi alteratissimi. Per questa fatta di scellerati non vi ha persecuzione che basti. I monti di sovvenzione per l'agricoltura, quegli stessi che sotto il nome di monti frumentari han soccorsa la povera gente saggiamente amministrati, rimessi nella provincia, diminvirebbero le occasioni alle usure. Ma per ottener questo ci è poco da sperare. In tal deficienza di mezzi, io propongo ai proprietari della provincia un metodo il di cui utile non tarderebbe a conoscere. In vece di dare in affitto i loro terreni abbandonandoli a coloni miserabili, ed essere costretti a
decorticarli vivi nel tempo del maturo per riscuoterne una meschina porzione dell’estaglio, invece di vedere i loro fondi desti-
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nati all’annua depauperazione, potrebbero, anzi dovrebbero, consultando i loro veri interessi, farli coltivare a società. In tal modo le anticipazioni per la semina andando a carico del padrone del fondo, non vedremmo errare tanti infelici mascalzoni per gittarsi nelle fauci degli ingordi usurai affine di ottenerne le semenze, e chi sa quali! In tal modo ancora si apporrebbe un qualche riparo alla mancanza dei monti di sovvenzione nella provincia, ed i coloni non maltrattati, non che i padroni dei terreni esposti egualmente alle vicende della raccolta, cospirarebbero alla buona tenuta dei fondi ed alla migliorazione dell’agricoltura. Son persuaso, che quanto si narra negli scritti d’oltremonti sulla prosperità della loro agricoltura non è applicabile che a poche tenute, che essi poi per vero spirito di nazionalità sogliono generalizzare. Ma quanto io dico della saggia coltivazione introdotta in Montella ed in talune pianure della nostra provincia, specialmente in quelle del Piano d’Ardani, della Valle Caudina, di Benevento, del Cubante, e di Serino, non è che una fedele pittura che io espongo innanzi a testimoni oculari. Quivi raccolte di vari generi su di uno stesso suolo in un anno, quivi irrigazioni, quivi scienza e pratica d’ingrassi sì animali che vegetabili. Bisognerebbe soltanto fissare l’attenzione dei coloni su due dati interessanti. Converrebbe dare ai loro campi una rotazione di coltura ed una alternativa più esatta. Nei luoghi non irrigabili, e ciò si dica ancora per tutte le altre terre della provincia, dovrebbe proibirsi la coltivazione del granoturco. Si pretende che questa pianta acquatica di sua natura vegetasse nei terreni, ove non vi è acqua, ed in una stagione quando le piogge o son rare o son nulle. Questo si chiama appunto importunare, anzi tiranneggiar la natura. Ne avviene che i campi aridi seminati a formentone, obbligati a fornire un alimento, che non hanno, restano isteriliti, e
tali son poi nel vegnente anno destinati alla semina del frumento. L’una e l’altra raccolta dovranno necessariamente mancare tra-
scinando un avvenire progressivamente declinante alla infertilità. Ristabilita la rotazione esatta colla distribuzione di due quinti in praterie, due altri quinti in grano, ed uno in legumi, si otterrebbe fieno abbondante pel bestiame, prodotto non minore dei legumi, e il frumento sementato sui terreni ove prima furono le praterie, o i legumi iistessi, darebbe più ubertose raccolte. È noto agli agronomi che le terre coltivate a prateria o a legumi restano naturalmente fertilizzate. Niente parlo dei vantaggi che con tal
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metodo si procurerebbero agli armenti per l’abbondanza dei fieni. Devo ancora avvertire, che il trifoglio, l’erba medica, la
sulla riescono prospere nei terreni grassi. Pei magri ed argillosi si semini la dolica, che in questi fruttifica meravigliosamente sino a dare un prodotto del quaranta per uno. L’altro oggetto, cui devon richiamarsi le cure dei coloni, specialmente delle indicate pianure, si è la coltivazione della bambagia. Oltre che è dimostrato per teoria, che pianta siffatta può prosperare sotto quel clima, io l’ho veduta in effetto nel migliore stato in Serino nel prossimo passato luglio. Ma qualcuno tra voi potrà dirmi, che le gelate e le brine, che in questa provincia durano alle volte fino a primavera avanzata, impedirebbero l’educazione di queste piante utilissime nel primo stadio appunto di vegetazione. Ancor tale pensamento io faceva, ma non compren-
do come non siasi pensato al seguente metodo che io propongo di buon grado. Si facciano nella stagione propizia alla germinazione dei semenzai di bambagia che con delle capanne si preservino dalle gelate, simili in tutto ai semenzai di tabacco che praticansi ovunque della nostra provincia. Allorché il tepore della primavera e lo scioglimento delle nevi su gli alti monti allontanano ogni rigidezza, si trapiantino a cielo aperto. Qualche cosa dovrei dire sulla migliorazione degli strumenti rurali. L’aratro in Ariano e nell’ofantina regione è piccolo, il vomero è quasi orizzontale, e di poca espansione in quei luoghi ap-
punto, ove la tenacità delle terre richiederebbe istrumenti che in miglior modo le aprissero. Io ne ripeto la causa dalla infelicità di quei pascoli e della inesistenza dei prati artificiali. Da ciò è che gli animali aratori crescono meschini, e che appena possono trascinare se stessi. E pure gli operai infingardi si appoggiano tutti su questi miseri aratri e si fan trascinare quasi in vettura da così deboli animali. La zappa generalmente ha un manico troppo lungo. In questo modo la vibrazione dell’istrumento, descrivendo un arco più lontano dal centro del moto, ed in conseguenza più curvo, non può molto profondarsi. Devo in fine presentarvi lo stato dei terreni coltivatori della provincia in riguardo agli alberi da frutto. Tutto è nullità nella regione ofantina, e nel ripartimento di Ariano. Scarse vigne, pochi oliveti e frutteti nelle vicinanze dei rispettivi abitati costituiscono le migliorazioni di quei locali. Ma si crederebbe che esi-
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sta nell’Italia, in questo Regno, in questa provincia una comune ove non conoscono alberi? E questa è la comune di Castelfranco, i di cui abitanti, favoriti dal clima non che dalla fertilità del suolo, si contentano comprare dalle convicine popolazioni e vino, ed olio, e frutta di ogni sorta. A buon conto la più punibile oscitanza trionfa su quel tenimento. La divisione dei beni comunali, cui in questa provincia ho avuto l’onore di cooperare, regolata dal genio di S. E. Monsignor Gianpaolo consigliere di Stato, ha agevolata l'occasione di promuovere la coltivazione degli alberi. Oltre alle cure prese per la coltivazione dei boschi, e per la ripristinazione di quelli tra essi che trovansi quasi distrutti, ha egli avuto in pensiero di apporre nella censuazione delle quote demaniali il patto speciale, con cui i novelli coloni sonosi obbligati a piantare dieci alberi almeno per ogni moggio di terra prescegliendone ad arbitrio del quotista i generi e le specie più adatte alla natura del suolo e del clima. Questo patto è stato rinvigorito dalla penale di un carlino per ogni pianta che a capo di un anno non si trovasse esistente, eccettuandone il solo caso della morte della pianta stessa. I sindaci rispettivi dovran vegliare per un decennio all’esecuzione di così vantaggioso provvedimento. Ecco, o Signori, condotto a termine il mio discorso. L’importanza degli oggetti che ho trattati, e la di loro varietà, nell’atto non mi permettevano di essere più breve, mi dan forte motivo per implorare da voi un benigno compatimento. Ma non è per questo, Colleghi ornatissimi, che io cesserò di spesso farvi sentire la mia voce. Impiegherò tutto me stesso ai doveri dove mi chiamano la fiducia del Governo, le aspettative della provincia, e la mia stessa inclinazione. Voi mi darete frequenti occasioni per ammirare le vostre saggie produzioni, e di vedere sotto le vostre accurate diligenze prosperare in questa nostra provincia l’arte la più bella, e la più utile, che nacque coll’uomo, e morirà coll’uomo.
3. Manifatture e commercio nella provincia di Chieti* Arti. Dopo l’agricoltura, ch'è la prima, formano le rimanenti arti la seconda sorgente delle ricchezze in una nazione: esse, * Da Pasquale Liberatore, Pensieri civili economici sul miglioramento della provincia di Chieti, Napoli 1806, vol. II, pp. 30-50, 60-69.
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oltre al rendere più agiata la vita, accrescono il consumo dei frutti della terra. La somma delle riproduzioni corrisponde sempre alla somma delle forze riproduttrici, e queste si moltiplicano nell'abbondanza, ed eccitano l’uomo al travaglio. Allora sorgono gli artefici che spandono colle ricchezze la vita nel commercio e la forza nei cittadini per accostarli al ben’essere. Debbono perciò ancora le arti promuoversi, infervorarsi in una nazione agricola come la nostra. Ma esse vi sono generalmente trascurate, e con rossore dobbiamo vedere l’esportazione delle materie prime che la natura ci ha date prodigamente, per ricomprarle manifatturate dall’estero. Io convengo che non può, e non dee trovarsi tutto in un paese, e l’istessa Provvidenza per unire ed affratellare le diverse nazioni ha ripartiti i doni della natura, e li ha separati da quelli dell'ingegno. Quindi se noi diamo alla Francia le lane, le sete, il lino, la canapa, ne riceviamo in cambio tutt’i lavori formati dal suo genio così ferace nel disegno e dalla sua attività così esatta nell’apparecchio. Se abbiamo nelle prime derrate necessarie all’uso della vita tanto di superfluo, che possiamo renderci tributaria una buona porzione dell’ Europa cui mancano, abbisognamo dall’altra parte dell’altrui piombo, ferro, stagno, acciaio, cuoio, droghe, e simili. E guai a noi se non avessimo questi bisogni, e che fossimo nello stato di non far che esitare i nostri generi. Ci entrerebbe è vero una gran quantità di denaro, ma questo rovescerebbe la nostra agricoltura; ed in breve tempo ci porterebbe alla miseria. Ma se vediamo tanta gente oziosa, tanti esseri non possidenti, tanta folla di mendicanti, tanti consumatori insomma, che col fanatismo, e colla cabala opprimono la classe produttrice, bisogna pensare ad uno stabilimento per costoro, acciò non siano a carico dello Stato, profittino per esso, e minorino l'enorme massa dei delitti, diminuzione che non dal rigore delle leggi, ma dall'estirpazione dell’ozio può solo ottenersi. Ecco il bisogno di favorire le arti, e toglierne gli ostacoli con quella prudenza che rispettivamente richiedesi. Di queste appunto ora parlerò, per adempire a quanto mi son proposto; ma brevemente, perché, avendo di mira la mia provincia, non avrò a toccare se non quei pochi oggetti che possono riguardarla, e riduconsi a migliorare quelle arti, che vi sono ben introdotte è che più le convengono.
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Cominciando dalle lane che noi abbiamo in profusione, tutto che non corrispondenti al numero delle mandre, e d’una qualità la più infima, non ostante l’esagerato vantaggio dell’emigrazione delle nostre pecore in Puglia, si lavorano le medesime con massimo profitto in Palena, Torricella, Lama, Taranta, Fara S. Martino, ed in altri convicini luoghi alle falde delle nostre montagne. Si fanno i panni ordinari pel bisogno dei contadini tutti, e per un terzo degli artieri, pochi fini o soprafini che non bastano per le altre classi, e da poco in qua si sono lavorati panni migliori tinti in lana, che superiori per poco ai panni di quarto di Germania hanno però molto maggior prezzo. La guerra che ha impedito il commercio esterno ha molto contribuito a migliorare questi lanifici, e ben poco bisogna perché giungano al favore del prezzo, e ci tolgano così dalla dipendenza almeno della Germania per li suoi cattivi panni. Rendere libero dovunque l’uso delle acque, abolire le dogane interne, aumentare l’esterne sugli esteri panni, premiare con diversità di ricompense la maggior quantità smaltita e la qualità migliore dei nostri panni, tanto basta per ottenere l’estensione e la bontà delle di loro fabbriche, le quali potrebbero anche aver luogo, e con maggior vantaggio, in Casoli ed in quegli altri paesi vicini al Sangro, ed all’ Aventino. Le tele di canape e lino sono generalmente grossolane. Si fa questa industria in Lanciano, e nei vicini luoghi di marina, e vi s’impiegano le sole femine. Tutta la provincia è provveduta della tela lancianese, la quale è pessima, ma è al miglior mercato che in qualunque altro luogo. Poco però vi bisogna per migliorarla. Manca l'istruzione nel prepararne le materie componenti, manca l’ordegno per filarle a dovere, e manca l’arte dell’apparecchio. La sola volontà del governo messa in attività da una buona amministrazione dei comuni può ripararvi. Noi abbiamo il conservatorio di S.Chiara Povera istituito per ammaestrar nei lavori donneschi le ragazze d’ogni classe, e che nel fatto non corrisponde a tutte le mire della sua fondazione. Ma porta nel titolo la sua difesa; a questa casa pia, una delle più utili della città, manca il sostentamento. Or quand’anche non si volesse addirvi la rendita di qualche altro luogo pio inutile, odioso, e che neppure viene abitato, sarebbe necessario accrescer questa spesa alle comunitative, giacché trattasi di pubblica educazione, ma di vantaggio locale. Così potrebbe migliorarsi la condizione di questo conservatorio, e renderlo più vantaggioso al pubblico nell’addirlo spe-
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cialmente all’industria della canapa, del lino e della seta, facendo venire le necessarie maestre, e fornendole dei telai e degli altri ordegni opportuni, se pur questo picciolo oggetto di riforma non è reso inutile dal gran piano di pubblica universale educazione, che mercé le dotte cure dell’incomparabile nostro Ministro dell’Interno è nella vigilia della sua esecuzione. Gli altri lavori di canape, consistenti in corde e funi d’ogni specie, si fan pure quasi esclusivamente in Lanciano, e molte famiglie vi si sono dapprima arricchite all'ombra della sicurezza dell’antico commercio. Non sono però mai giunti allo splendore dell’antichità, quando cioè questi lavoratori formavano un collegio distinto ed avevano i protettori in Roma. Il marmo, ritrovato nel luogo appunto dove faticano attualmente i nostri funai, di un’ammirabile bellezza, e che conservasi dal martire delle patrie antichità il lodato sacerdote Uomobuono Bucachi, ci annun-
cia un collegio di Restiarii dedicato al Patrono Gneo Flavio Poro sotto il consolato di L. Elio e M. Servilio. Or facilmente potrebbero riportarsi all’antico lustro quando non venisse più vessata l’industria dai tributi, quando facile si rendesse l’impiego dei capitali colla libertà dell’interesse non fissato dalla legge, quando fosse ripristinata la navigazione senza tema dei corsari, e si ottenesse quella libertà dei mari che tutti desiderano, e per la quale il solo Eroe del secolo ha combattuto contro tutte le nazioni sedotte dal mercimonio inglese. L'impiego che si fa in questo mestiere di molte braccia, cominciando dal fanciullo di sette anni, la ben ordinata maniera come sono distribuiti i lavori, ed il lucro
non indifferente che produce promettono nel medesimo un sicuro aumento di perfezione. L’industria della seta è ben picciola in questa provincia, quando potrebbe essere la più rilevante dovunque nascono dei gelsi bianchi. Ma volgarmente si crede che i soli mori sien buoni per la seta, e perciò soltanto in Caramanico e nei circonvicini luoghi se ne fa qualche migliaio di libbre. Pure in questo ramo non manca che la volontà. Il solo premio potrebbe scuotere questa ributtante inerzia. I lavori di seta dovrebbero stabilirsi negli orfanotrofi, ed a carico di questi luoghi dovrebbe pure introdursi e
generalizzarsi il telaio per le calze, di cui non vi è idea in provincia, e che tanto gioverebbe per l’impiego della seta, del cotone, e del filo provvedendone ogni orfanotrofio, conservatorio e
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convento di monache, per uso delle religiose e dell’educande che vi si istruirebbero. Vi sono due cererie nella città di Lanciano, ed un’altra eravi
in Chieti, che prometteva molto dippiù, e che si è sospesa. Possono esse bastare al consumo delle cere lavorate per la metà del Regno, ma per lo più restano oziose. Intanto abbiamo bisogno delle cere lavorate estere, ed in ogni anno se ne intromettono in circa trentamila libbre in questa sola provincia. La mancanza dei capitali in una di esse, e l’eccessivo guadagno che si vuol fare dall’altra producono questo bisogno. Per altro proviene pure dalla piccolissima industria delle api, che incomberebbe moltissimo al governo di promuovere, giacché noi abbiamo bisogno di proccurar dall’estero ancora le cere zaure per sottaza non che per corzpimento. Ma liberata l’industria da tanti ceppi, soppresse le dogane interne, e favorito il commercio, si moltiplicherà la circolazione del denaro, ed allora il suo impiego nelle fabbriche utili sarà facilissimo ad ottenersi. Le concie sono da noi in pessimo stato pei medesimi motivi, e perché si sdegna, e perché s’ignora il mestiere. Siccome in Na-
poli abbondano i lavoranti ben’istruiti che mancano nelle provincie, così esse vi mandano tutte le loro pelli, e le ricomprano apparecchiate. Questo doppio trasporto, unito al prezzo della mano d’opra sempre maggiore, anzi triplicato nella capitale, evitar si potrebbe in beneficio delle fabbriche provinciali, se il necessario ed utile mestier del cuoiaio vi fosse a dovere promosso e perfezionato. Ma siamo sempre là. Vi bisogna del denaro, e quei che l’hanno s’impegnano di spenderlo nella capitale dove tutte le ricchezze confluiscono. Nelle provincie non restano che i soli miserabili, o quelli che non ancora giungono ad uno stato di ricchezze conveniente alla capitale. Questo stato infelice produce l’abbandono delle arti in provincia, e la concorrenza di esse in Napoli. Ma se si facesse desiderare il soggiorno delle provincie colle additate riforme, vi si fermerebbe il denaro, e s’impiegherebbe necessariamente per le arti. Più d’ogni altro ne profitterebbero allora le concie, e specialmente quelle di Atessa e di Lanciano, per l'abbondanza delle pelli, e pel buon prezzo dei viveri. Abbiamo nella nostra provincia delle rispettabili razziere in Agnone, città non dispregevole, ma resa infelice perché odiata dal passato governo. Esse sarebbero sufficienti al bisogno dell’intera provincia, se le strade di comunicazione non rendessero
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nell'inverno quella città quasi inaccessibile, se il passaggio del Sangro fosse assicurato da un ponte, se la continuata dimora dei fuorusciti in quei circondari non rendesse ancora pericoloso l’accostarvi. Da quest'arte molto adatta alle sue circostanze locali ha ricevuto Agnone uno splendore non atteso tra le boscaglie e l’orridezza degli Appennini. Essa vi ha chiamato il danaro, e seco tutt’i comodi della vita. Con un poco d’istruzione sarebbesi nobilitata; ma di già quei bravi artefici cominciano a trascurarla, e vedendo la gran considerazione del passato governo per gli oziosi, son in procinto di passare alla classe dei medesimi col procurare ai figli le lauree, e far consumare il frutto dei loro sudori nella capitale. Il presente governo dando la dovuta considerazione a quelli che sono impiegati nelle arti utili può trattener questa rovina, e nel tempo stesso attirar fra loro l'emulazione, inviandovi ordegni più propri per facilitare l'esecuzione, e modelli di gusto per disegnarne il lavorio. Le fabbriche dei cappelli sovrabbondano in Lanciano, e suppliscono al bisogno delle provincie vicine, ma non danno che i soli cappelli ordinari. Sarebbe desiderabile che fossero situate anche nei luoghi di montagna dove si occuperebbe con profitto la povera gente, e si avrebbero a più buon mercato le legna. Vi sono due fabbriche di cappelli fini, ed una evvene pure in Chieti, ma il prezzo di essi è molto al di sopra dei cappelli della stessa qualità
che vengono dalla Germania e dallo Stato Pontificio. Questa è sempre la sorte delle picciole fabbriche; grandi capitali danno gran guadagno, ma gli scarsi non lo producono neppure a proporzione. L’acquisto delle materie prime dalle proprie fonti darebbe un risparmio ch’entrerebbe all’utile, ma queste commissioni non possono farsi dalle picciole fabbriche. Quando però ritornerà in abbondanza il numerario, quando sarà caricata la manifattura estera e tolta da ogni dazio la nazionale, allora solo potranno sperarsi delle grandi fabbriche, che possano non solo concorrere, ma superare pel buon prezzo e per la qualità le straniere, atteso il miglior mercato dei viveri, e la maggior copia delle braccia. I lavori di ferro e di cuoio si facevano privativamente in Lanciano, ma si sono estesi per gli altri luoghi per mezzo degli stessi nostri, che continuamente emigrano da un paese dove devesi pagare testa, braccia, ed industria, dove il negoziante è oppresso da
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una dogana interna esorbitante, e dove la gente onesta non era troppo ben veduta dal governo, che vi fomentava la divisione e l'anarchia. Ciò non ostante non sono poche le botteghe dei ferrai e calzolai, che smaltiscono per tutta la provincia i di loro lavori. Ma son’essi tutti grossolani, non già perché manchi l’ingegno, ma per mancanza d’istrumenti, di disegno e di protezione. Parve obbrobrioso ai nostri maestri ricercarsi le maniglie, i candelieri e le serrature inglesi; vi si provarono, e vi riuscirono perfettamente su gli stessi modelli; ma obbligati a far essi tutto colla sola lima erano costretti a fissare un prezzo superiore a quello dell’estero, il quale, oltre agli ordegni, si avvale di diverse mani per un istesso lavoro, che sempre ripetuto si perfeziona, e fa impiegare il fanciullo, il giovane, il maestro. Vi sono due cartiere nella nostra provincia, una nella Fara di poco conto, e che appena somministra la carta /orda e la corrente, l’altra cominciata con grandi idee nel Borrello da quel Barone Mascitelli, la quale pure è andata peggiorando, e non ci dà carta né buona, né a buon mercato. L’avidità di voler nei primi anni ritrarre il profitto di tutto il capitale ha fatto decadere la cartiera del Borrello, che potrebbe facilmente ripristinarsi in floridezza. Si credé favorirla dal passato governo colla proibizione dell’estrazione degli stracci, e con un terribile dazio imposto sopra di loro. Ma gli stracci provinciali non sono adatti per le carte buone, giacché la povertà nostra non permette di far uso di tele fine, e l'aumento del dazio è servito ad impinguar la borsa del doganiere, non quella del fisco. La mancanza delle necessarie anticipazioni fa decadere ogni fabbrica. Ciò non può supplirsi che col denaro bene impiegato, e coll’attenzione dei padroni, che così renderebbero più utile al pubblico non meno che alle di loro famiglie. Non voglio omettere di parlare dei piccioli lavori di faggio, che con profitto si fanno nella villa di Petroro, consistenti in fusi, cucchiai, scatolette, forchette, e tutti gli altri piccioli comodi di cucina, mentre forma questo un ramo di esportazione pel Regno. Hanno quei naturali resa utile l'abbondanza del faggio nella loro montagna. Tutti vi sono impiegati, ed a lavori ripartiti; quindi vi si sono perfezionati se non rapporto al disegno, che manca generalmente tra noi a tutte le arti, almeno nella destrezza e nell’attiva sollecitudine con cui adoprano il torno. Ivi non vi sono oziosi, perciò di rado vi si sentono delinquenti. Sono però mise-
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rabili pel solo monopolio di pochi ricchi che loro danno il ricovero in tempo di bisogno per averne al prezzo minore della metà i lavori suddetti, che imbarcano per la Fiera di Sinigaglia. Sarebbe quindi molto espediente in quella terra un monte di carità per supplire al bisogno di una popolazione di artefici contadini, e potrebbe formarsi dalle cappelle o dalle vicine università le più ricche. Potrebbe tornare ad introdursi in Lanciano con facilità e vantaggio la fabbrica degli aghi, un tempo così celebre, e per la quale esistono inutili dei grandi sotterranei opifici. Sin dai tempi di Carlo III di Durazzo si era qui introdotta l’arte di far gli aghi, i di cui propagatori ricevettero poi ad istanza della città dei privilegi e delle immunità dal re Ladislao!. Crebbero in eccellenza questi artefici, e s'andava tuttavia con utile e credito aumentando la fabbrica, per cui se ne formò un collegio con particolari leggi e statuti approvati dal re Ferdinando nel 1488, con i quali veniva riguardata nobile una tal’arte, e da non potersi insegnare a persone vili. Questo fu che contribuì moltissimo alla perfezione dei nostri aghi sopra gli altri d’Italia a testimonianza degli autori nazionali e degli esteri: il Negrini, il Ciechi, il Glissenzio, ed altri che si possono riscontrare nell’ Antinori e nel Polidori?.
Apparisce da questa sezione che nella nostra provincia vi sono le arti, ed a riserba di una vetriera, che potrebbe occupare la popolazione di qualche luogo di montagna dove non vi è che far delle legna, non occorre pensare ad introdurvene delle altre. Bisogna però migliorare quelle che abbiamo, e fornirle dei mezzi che sovente ho ripetuti, e che riepilogo qui appresso, mentre potrebbero servire per canoni. I. Richiamare il denaro nelle provincie colla libertà del commercio, col favore dell’industria, colle casse dei monti, coll’abitazione dei potenti. ! N’esiste diploma in data del 17 Aprile 1412. 2 Il Negrini di fatti per lodare le vesti preziose di Vittoria Colonna mandate in dono DIC sposo RE d’Avalos le disse in epigrammi latino ricamate da nobil ago lancianese. Cristoforo Ciechi scrisse che i venditori d’aghi per accreditar la loro merce gridavano: — aghi di Lanciano. Francesco Ciechi cantò nel suo poema: Cabalao che prima vendea menole /Adesso va vendendo aghi da pomolo, / Ed,aghi da Lanzan per ste pettegole. Fabio Glissenzio si esprime così in una sua commedia: Due aghi di Lanciano pungenti e fini | Per due bezzi pigliai,... Si vegga per tutti la dissertazione del Polidori sui Frentani (19, de Arbitus etc.).
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II. Liberare le‘manitatture nazionali da qualunque peso di dogana. III. Aumentare, o per dir meglio esigere a rigore il dazio doganale sulle manifatture estere. IV. Inviare nelle provincie gli artefici abili, e proccurar loro gli ordegni, e le istruzioni necessarie. V. Favorire la classe degli artieri non solo liberandoli dalla capitazione e dal peso delle braccia, ma prendendo in considerazione quei maestri onesti, che meritassero per la miglioranza
delle di loro arti premio e ricompensa [...]. Commercio. Quantunque la terra sia il solo vero fonte delle ricchezze d’una nazione, pure essendo le qualità del suolo così diverse, così varie le sue produzioni, che dove abbondano, dove
mancano, perciò non possono esser queste valutate senza una vicendevole permuta del rispettivo superfluo, o che trovasi nazionali, o che si rintracci fra gli esteri. L’effettuire questa muta è quello che dicesi commercio, il di cui grandioso ed esame forma uno scopo delle considerazioni della pubblica
fra i perutile eco-
nomia.
Il commercio d’un paese fiorisce per le materie che vi si lavorano, per le produzioni che vi si esportano, e per le mercanzie che vi s’introducono, tutto a fin di guadagno. Il nostro Regno potrebbe godere di tutte e tre queste sorgenti di commercio perché ferace delle più belle materie per le manifatture, e perché situato fra due mari, che gli offrono la più vantaggiosa navigazione. Tuttavia non gode che del solo utile delle esportazioni, avendolo, dice un viaggiatore francese, la natura favorito di troppo perché non disprezzi tale ramo di commercio, che gli è restato. Senza tale vantaggio non potremmo soffrire le considerabili importazioni di stoffe, galloni, lane, tele, zuccaro, cera grezza, droghe d’ogni sorte etc. Difatti dall'Inghilterra ci vengono drappi, lana, piombo, ferro e stagno, cuoio, e salumi. Si va a domandare gli specchi in Venezia, i velluti in Genova, i drappi, le tele, il ferro, l'acciaio, i cristalli, le chincaglierie in Germania, la cera, il cottone, le droghe in Levante; in somma siè riflettuto che il Regno perdeva ordinariamente in ogni anno, in particolare coll’Inghilterra?, delle somme immense altrettanto più ingiuriose ? Il nostro commercio checché ne dica l’autore dell’ Abregé historique et poli-
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alla nostra nazione in quanto che potremmo dispensarcene nella maggior parte.
Il commercio interno languisce ancora come l’esterno. Il letargo introdotto per politica dal governo spagnuolo è ancora sensibilissimo. La corrispondenza delle provincie tra loro e colla capitale incontra moltissima difficoltà per motivo delle strade, degli assassini, e come se ciò non bastasse, si erano raddoppiate tante
barriere per maggiormente interdirlo, quanti sono i passi, le dogane interne, i dritti baronali etc. La comunicazione dell’ Adriatico col Tirreno tante volte progettata non fu mai eseguita. Questa grande operazione avrebbe fatta delle Calabrie le nostre Indie; ma i monarchi della Spagna vollero preferire le derrate coloniali, che costavano ai napolitani immensi sacrifici di uomini e di denari. L’impotenza di questo commercio interno è stata accresciuta dal distruttivo sistema di attirarlo nella capitale, per cui ne deriva, come si è divisato, che mancano gli artefici nelle provincie, mentre sovrabbondano in Napoli. Ma questi generali disordini, riescono più sensibili nella nostra provincia la più trascurata dai passati governi, tutto che la più adatta a fare risplendere, ed a spandere nel Regno questa sorgente così feconda di ricchezze, il commercio [...].
Strade. Le strade servono alla circolazione dei generi; quindi se sono cattive la rendono tarda, difficile, dispendiosa, e con ciò impediscono le ricchezze. Or la nostra provincia non ha veruna strada che possa dirsi buona, e ad onta di aver pagato al tique de Italie (Yverdon, 1781, tom. 4) è stato sempre attivo colla Francia, e
passivo coll’Inghilterra. Ecco il bilancio dato fuori dall'avvocato Galanti sul consumo esterno con dette due nazioni: Estraemmo per la Francia 2.803.898 e ne ricevemmo
1.692.124
Onde risultò il vantaggio di estrazione 1.111.774 Coll’Inghilterra al contrario l’immisione 835.000 l'estrazione 165.300 onde ci trovammo al di sotto 669.700 Ma dee computarsi nel commercio colla Francia quello che s’immetteva dai bastimenti genovesi, veneti, ragusei, e maltesi, siccome in quello dell'Inghilterra
aggiungersi l’immisione dei danesi, svedesi e toscani. Il DR sarà sempre difficile ed inesatto, e senza il vantaggio del controbando si troverebbe il Regno esterminato in numerario. Si è veduto infatti coll’impedimento di commercio sofferto in quest’ultimi anni l’interesse del denaro, che prima si offriva al 3 per 100, rialzarsi al 10 e fino al 20 per 100 e neppure si trova. Ma il Regno è agricola: bastano pochi arini di buon ricolto, e la libertà dei mari per ricuperare tutto il nostro numerario.
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fisco per tal oggetto da circa vent'anni più di 14 mila ducati l’anno4, non ha potuto vedere ancora un tratto di strada accomodato nel suo territorio. Più: se n'è vietata la costruzione anche a quelle università, che maggiormente abbisognandone volevano eseguirla a proprie spese. Ben diverso però è il vostro decreto, o Sire, dato a Cosenza, il quale assicura tutte le provincie, che questa imposizione non più confusa col prodotto del fisco sarà separatamente addetta all’uso delle strade, e ne verrà reso pubblico conto. Ora nella totale mancanza delle medesime nella nostra provincia, due le occorrerebbero le prime. Una che la facesse comunicare colla capitale; ma dovrebbe scegliersi la più breve, la meno dispendiosa, e tale non sarebbe il proseguimento della strada nuova. Quella che per la Villa S. Maria, vicino a cui sta il ponte sul Sangro, menasse in Agnone, e di là ad Isernia per un tratto che quella università propose inutilmente di accomodare a sue spese, e quella che fu anche senza interesse fiscale progettata per lo Vallo di Palena, e che ravvicinerebbe a Napoli non la sola Chieti ma tutta la provincia, sarebbero più acconce. Un ingegnere che non si facesse sedurre dalle offerte dei particolari interessati discifrerebbe praticamente questo problema che sulla carta corografica del nostro Abruzzo va ad essere risoluto colla sola misura delle distanze. L’altra strada di cui abbiamo più bisogno, e che più favorirebbe il nostro commercio, è la strada di Puglia: quella cioè che da Pescara portasse a Termoli, ond’essere quindi continuata per Foggia, o per Larino. Essa esisteva ai tempi della Repubblica Romana, ed era una continuazione della Claudia-Valeria. Traiano la rese più comoda e più breve, la fornì dei ponti necessari sui fiumi che l’intersecavano, e specialmente sul Sangro, la lastricò e le diede il suo nome». L'itinerario d’ Antonino ce ne assegna le man4 Vale a dire:
Università Baroni Luoghi pii
4.223,66 2.042,64 URIZUSA 14.194,11
? È confermata la denominazione di Claudia-Valeria e Traiana-Frentana dalla celebre lapide sepolcrale eretta a Marco Flavio curatore delle medesime dai Bucani lteramnati e dagl’Istoniesi, rapportata da Polidori nel suo manoscritto di Buca, e da Muratori (la sola prima parte) nel Teatro delle Iscrizioni, class. 15, n.
7, p. 1050.
III. Le regioni economiche
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sioni, segnate colle rispettive distanze tra loro dalla foce dell’Aterno fino a Larino6. E per questa marciarono Annibale e Cesare, quegli quando dal Piceno penetrò nelle nostre regioni, questi allorché da Corfinio, dove fe’ prigionieri i partigiani di Pompeo, si portò a Brindisi”. Disgraziatamente questa strada è rimasta soltanto nelle memorie degli scrittori. Esse ce ne additano l’antico sito, che non è certamente quello dell’odierna, ma quale ultimamente a motivo del passaggio delle truppe francesi s’era incominciato a ripristinare, e propriamente nel tratto da Ortona a
Lanciano8. Se ne fece l’apertura col consenso dei possessori di quei terreni che l’avevano occupata; ma si trovò quindi ostacolo nel march. Benedetti pel cui feudo di S. Apollinare dovea la medesima passare?, e l’opera restò interrotta. Ma la riapertura di tale via è necessaria tanto più che l’odierna è inaccomodabile, così perché sovrapposta a delle valli che sempre screpolano, come per lo passaggio del Moro, torrente pericoloso nell’inverno. Ora coll’antica si eviterebbe la pessima strada di Riparossa, la scesa e la salita del Moro, e la cattiva entrata in Lanciano. L’attuale incomodo passo di questo fiume non permette affatto un ponte, che con poca spesa si eseguirebbe nel luogo dell’altra via, ove esso va a restringersi. Non si riduce a cento passi quel tratto che dovrebbesi aprire in giusta linea per S Angolum —M.P.X. Ortona M.P.XI. Anxano M.P.XIIL Histonios M.P.XXV. Uscosio M.P.XV. Arenio M.P.XIV. ? Del primo assicura Polibio, lib. 3, nu. 88. Di Cesare si legge al suo lib. I de bello civili: per fines Marrucinorum, Frenianorum, Larinantium in Apuliam pervenit.
Con questa marcia egli non potea battere che la strada disegnata nei viaggi d’Antonino.
8 Ciò costa dalla descrizione antica dei confini di Lanciano, e da quella del feudo di S. Apollinare; dalla denominazione che è restata a un tratto di detta strada di Ortonese, e Salare forse perché vi si trasportava il sale da Ortona dopo che Lanciano perdé il suo fondaco in S. Vito; finalmente dal passaggio della posta per la medesima, come rilevasi dalla diruta chiesa rurale che dà il nome a quella contrada, e che nelle antiche scritture chiamasi S. Giacomo della Posta (Irst. Not. Nard. de Nard. Lanc, an. 1526, Ind. XV, in Arch. Cap. Anxan., num. 94).
? Io credo bene che l’essersi dirupata la detta via nel luogo chiamato le Murelle la fece abbandonare, e diede così il pretesto al possessore del feudo di rivolgerla nel sito'il più comodo ai suoi interessi e il più incomodo al passaggiere. Quindi ora la strada passa al di sotto del suo feudo mentre l’antica era al di sopra.
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riunirsi alla strada sa/are!0: il vicino abbondante rapillo molto faciliterebbe un tale accomodo. Ridotto così al primo stato il cammino da Ortona a Lanciano, non costerebbe gran fatto il proseguirlo dal piano della Fiera fino al Sangro per quell’istesso ch’oggi si batte. Basta renderlo stabile e permanente colla breccia e rapillo, e col deviamento delle sorgenti in beneficio degli ortagli vicini. Dal detto fiume si è già aperta una comoda strada che mena a Torino per opera di quei deputati. Di là dovrebbe continuarsi fino al Vasto, non per l’odierna che rende impossibile un ponte sul Sento, perché si passa presso la sua imboccatura, ma al di sopra dove propriamente era la Traiana, di cui restano i ruderi, una con quelli di un ponte
magnifico sul detto fiume. Tale strada, cui sempre si è opposta la potenza marchesale di quella sacrificata città, ridotta alla pristina forma gioverebbe al traffico dell’intera provincia. Il rimanente tratto di via fino al Trigno, come pure dalla parte opposta la porzione da Ortona all’Aterno, sono forse le migliori strade della provincia. Battute ed accomodate col rapillo, fornite dei necessari scoli d’acqua, e dei ponti sui torrenti che le tramezzano, non avrebbero bisogno d’altro. Una terza strada, che ci unisse alla provincia dell’ Aquila e ci accorciasse il viaggio a Roma, sarebbe l’ultima a desiderarsi, dopo ottenute le altre più urgenti. Essa non ci mancava nei tempi
più remoti, né potremo ammirare mai abbastanza l’utile magnificenza romana intorno ai cammini pubblici. La regione frentana n’offre un bell’esempio nelle tre nobili strade che l’arricchivano, la Traiana, l’Antonina, e la Claudia!!. Le due prime, che conti10 Su questo nome è disputa, e disparità di sentenze tra gli storici patri. Mi contento di riportare uno squarcio del lor corifeo, che val per tutti: Ir publicis decimi, ac undecimi seculi monumentis, apud Marrucinos, et nostrates Cisaterninum
incolentes tractum fere appellatur via salaria... A finitimis populis hanc extremam viae partem salariam dictam esse a propinquis salinis Aterni ad quas ferebat, multi non inepte censent. Et primae viae valeriae parfuit cognomentum ex Plinio lib. XXXI. cap. 7., quod nimirum per illam Sabini salem Romae conveberent; eaque de causa porta item quirinalis vel collina salaria nuncupata fuit... Lucas Holstenius Valeriam Provinciam illustrans, id nomen ab vetere via ductum novae perinde tribuit. Ne Holstenii probemus sententiam, non una suadet ratio. Salariam enim viam ipsam nusquam appellatam legimus aevo medio apud Marsos Pelignosque. Praeterea memoratae Aterni salinae salaria nominantur. Inde salariae litus: salariae planus: fossae salariae: salarii fundaci; districtus salariae. Sed fortasse vir doctissimus rem non nomen protractum intellexit. (Polid., de viis milid). !! Si ascolti il Polidori (dis. cit.): Romano vigente Imperio tres nobiles atque magnificae fuerunt in Frentanis viae, Claudia nimirum, et Trajana, utraque ducta ab
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nuavano una la Valeria l’altra la Flaminia, diverse soltanto nella distanza delle mansioni!2, erano parte del passaggio lungo 1’Adriatico d’Ancona a Brindisi, e toccavano i confini dei nostri Marrucini, Frentani, e Larinati. Quanto sia necessario riaprir l’u-
na o l’altra per agevolare il transito alla Puglia, che adesso facciamo per valli, boschi, montagne, dirupi e precipizi quasi impraticabili, credo averlo mostrato a sufficienza. Mi fermo ora sulla terza. Il suo nome ne manifesta l’autore secondo alcuni, o
più ragionevolmente il restauratore!3. La via Valeria esisteva nei floridi tempi della Repubblica!4 ed univa Roma alle ultime sponde dell’ Aterno passando per Tivoli!5, Cerfennia, Corfinio, Teate etc. Claudio, secondo la miglior lezione, riattò quel braccio della medesima, che facendo angolo coll’altro a Cerfennia, va lunghes-
so l’Aterno a finire nella Flaminia, onde si chiamò in progresso via Claudia, e per maggior distinzione Claudia-Valeria. Or questa antiqua Valeria, cujus partes erant, itemque Antoniana, omnes facilitate et opere
cum primis spectandae. 12 Trajanae viae tractus ab agro Teatis ad Frentonem octuaginta quatuor circiter
complectebatur passuum millia. Universus autem trames viae Claudiae quae Aterno Larinum ducebat ad octuaginta excurrebat milliaria. Quem Antonini itinerarium designat sub titulo Flaminia in itinere Ancona-Brundusium, hoc pacto: Aterni Ostia. Angolum etc. (come sopra). Itinerarium distantiam designat singulorum Oppidorum: at via Trajana publica, quemadmodum et aliae per illorum agros constitutae, illa non attingebat propius; adibantque viatores, ut alibi monuimus, per diverticula, quae ve-
luti quidam rami erant, pari fere opere et forma nobiles ac viae principes. Hinc fit ut liberalior in designanda cujusque loci distantia itinerarii auctor deprebendatur, nec viae universae tractui ac longitudini expressi in tabula milliariorum numeri omnino respondeant (Polid., l. c.). 13 Così il Polidori seguitando a parlare della Claudia: Prima auctorem five perfectorem habuit Tib. Claudium, qui publice nostratum, et aliorum commoditati prospiciens anno Imp. VII. J. C. 66, ear instruxit ab Oppido Cerfennia in Marsis ad Aterni Ostia trium et quinquaginta circiter milliariorum spatio protraxit, lato silice munivit etc... Nonnulli memoriae produnt viae nostrae Claudium auctorem fuisse, ob idque de suo nomine appellasse, alii emendasse, ac lapidibus stravisse censent... Quomodocumque se res habuerit, illud certum, et exploratum est ex reliquiis quae hodieque visuntur nobile opus fuisse ac praestans, dignum Romano principe ac magnificentia imperatoria.
14 Sappiamo da Febonio (Lit. Mars., lib. III) che fu essa costruita dal censore M. Valerio nell’anno di Roma 448, e propriamente quel trattoda Tivoli fino a Cerfennia. 15 Perciò ebbe nome di tiburtina quella strada da Roma a Tivoli, come dal marmo riportato da Grutero, p. 446, n. 9 in cui si legge CURAT. VIAE. TI. BURTIN. Questo nome si dimenticò nel decorso del tempo, e si disse Valeria tutta la strada da Roma ad Aterno, come si raccoglie da Strabone, che nel Lib. V. minutamente la descrive. Nell’itinerario d’ Antonino si comprendono le tre strade Tiburtina, Valeria, e Claudia nel nome di Valeria, e vi si unisce l’altro ramo fino ad Adria, che apparteneva alla Flaminia.
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sarebbe all’uopo indicato; ma è di terza necessità, né si dee preferirla a quella che ci riunisca alla capitale, ed all’altra, che ci meni alla Puglia [...].
4. L’economia della provincia di Napoli negli atti del Consiglio provinciale* Agricoltura e commercio. Osservazioni dell’anno 1808
Stato dell'agricoltura. L’agricoltura della provincia di Napoli sembra la più bene intesa ed eseguita; ciò non ostante riducendola in termini particolari soffre dell’eccezioni che la rendono soggetta ad essere in molte sue parti migliorata. Gelsi. La coltivazione dei gelsi era quasi distrutta per causa del dazio che pagavasi sulla seta. Questo trovasi ora felicemente abolito, ma ciò non basta rianimare questo ramo d’industria, e vi bisognerebbe qualche incoraggimento per chi facesse delle nuove piantagioni, di un piccolo premio per ciascun albero ridotto a stato di frutto.
Vivai. Mancano in questa provincia dei vivai d’ogni genere di piante per cui si deve ciascun provvedere in quelli di Terra di Lavoro, dove per mezzo di concimi ed acque si producono delli rampolli poco atti a questi territori, onde converrebbe per la maggior floridezza degli alberi in questa provincia, che i rampolli fossero indigeni, per cui sarebbe da promuoversi dei vivai. Boschi e selve. Questa provincia presenta molti boschi e selve, parte per uso di fuoco, parte per bottami ed altri usi economici, e come la rendita dei primi è molto tenue e quella della seconda è considerevole, così converrebbe anche per utile del commercio esterno ridursi i boschi a selve, specialmente perché si dovrebbe prendere in considerazione il cosiddetto Demanio di Vicoequense, le altre delle montagne di Castellammare, quelle del piano di Sorrento, e Massa. * Da memoria del Sig. Marchese De Turris, membro del Consiglio provinciale di Napoli, in ASN, Ministero Interni, I inventario, fascio 183/II.
III. Le regioni economiche
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Ciò ottener potrebbesi mediante un censimento di questi luoghi quasi abbandonati col rilascio nei primi anni del pagamento del censo purché li censuari li renderebbero alla retta coltivazione, e forse in qualche parte si potrebbero ridurre anche in altri generi di coltura. Viti. Le viti generalmente in questa provincia sembrano ben coltivate, ma nella manifatturazione dei vini si pecca quasi generalmente giacché nessuna attenzione si usa nella manovrazione, nella scelta delle uve, nella fermentazione, nella qualità degli ordegni, e nella conservazione. Con ispecialità tali difetti sono nei territori di Vico, Piano di Sorrento, Sorrento, Massa dove si potrebbero fare squisitissimi vini per l’ottima qualità delle uve. A questo bisogna aggiungere che il metodo d’imporsi, nelle comuni di detti luoghi, l’assisa del vino nei mesi di novembre e maggio col dritto proibitivo eguale sopra tutte le qualità, produce il maggior dei mali sulla deteriorazione sempre più della qualità, per la quale cosa converrebbe, che il governo senza perdita di tempo ordinasse che sia un tale abuso abolito, tanto più perché reclamato anche dal Consiglio Distrettuale. Converrebbe nel tempo stesso che il governo animasse degli esperti ed intelligenti cittadini a migliorare la detta manifatturazione, da servire di esempio agli altri.
Vini. I vini d’Ischia si potrebbero vendere della qualità di alcuni degli esteri, attesa la buona disposizione del terreno, a qual’oggetto potrebbe il governo mandare ivi quei manifatturieri di vini qui stabiliti, accordando loro qualche privilegio. I vini del territorio di Pozzuoli fino alla punta di Miseno meritano una delle principali considerazioni, essendo essi di qualità da resistere a qualunque navigazione, e di uso comune del Nord e di America. Se questi vini fossero fatti con maggior attenzione diverrebbero con la navigazione migliori dei vini rossi di Portogallo. A ciò forse si dovrebbero usare dal governo i predetti mezzi, con aggiugnervi anche la libera uscita senza dazio alcuno che è di poca conseguenza al Regio Erario. Per i vini del circondario del Vesuvio bisognerebbe farsi dei tentativi per conoscersi d’onde provenga quel senso disgustoso detto tanfa, ed il modo da toglierlo, che fa ributtarli nel commercio estero, mentre senza di esso sarebbero di molto pregio.
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Olivi ed olio. La provincia produce dei buoni olivi, benché la coltura sia bene intesa, la formazione degli oli manca per la qualità dei frantoi, strettoi, e per la loro succidezza, ciò non ostante gli oli non sono di qualità cattiva; ma se le provvidenze del governo si versassero a far togliere tali difetti sarebbero i nostri oli al pari di quelli di Provenza. Questa coltivazione meriterebbe ampliazione e con ispecialità nel territorio d’Ischia, dove quei naturali domandano la censuazione di un’agrimata di vasta estensione di circa quattrocento moggia, di cui finora per la insufficienza dei naturali non si è fatto uso alcuno, quantunque fosse suscettibile di una piantagione di olivi. Cotoni. La coltivazione è qui ben intesa al pari di Puglia, ed introdotta principalmente nei territori della Torre dell’ Annunziata e Castellammare. Per una economica vista converrebbe, che [diminuisse] tale coltivazione, giacché i predetti danno maggior
frutto con altri generi di coltura. Lo stato attuale di commercio comporta in essi luoghi la coltivazione del cotone, attesa la decadenza del prezzo per la mancanza di ricerche degli altri generi, ma equilibrato il commercio farà divenire a ciocché si è detto. Ad ogni buon fine la coltura del cotone merita di esser propagata non solo per questa provincia, ma per tutto ove comporta in que-
sto Regno, e così livellarsi da sé una tale produzione, con le altre da esser di utile nel generale. Delle due manifatture sarà appresso parlato. Lini e canape. Ilini e canape sono del pari ben coltivati, ma molto si pecca sulla macerazione. Si sa che la macerazione in acque stagnanti è sempre nociva ai fili, che alle volte rende poco resistenti, e costantemente poi di color bruno, oltre ai danni gravissimi che producesi all’aria, e con ciò alla pubblica salute. Sarebbe opportunissimo, che la macerazione dei lini e canape si facesse in acqua corrente per la miglior qualità. del filo, e per evitarsi i detti inconvenienti, e con ciò spedirsi in fiumi opportuni come si usa sotto le ispezioni del governo in altre nazioni. Ciò maggiormente merita considerazione, atteso che detta macerazione in lagni fassi nelle vicinanze di questa capitale. La loro coltivazione meriterebbe di essere aumentata, specialmente se la nostra marina sì regia che mercantile riprendesse il suo vigore. Rubbia
tintoria.
Merita tutta l’attenzione la coltivazione
III. Le regioni economiche
15S)
della rubbia tintoria. Fu questa introdotta un tempo dal Marchese de Turris in Castellammare, allorché aveva ivi stabilita una tintoria ad uso di Levante, ma dalla sua assenza si è estinto un tale ramo d’industria. La sua introduzione ci toglierebbe dal bisogno di farne acquisto dal Levante, e dagli Olandesi, tanto più che la nostra indigena riesce meglio di quella degli esteri. Un moggio coltivato a questo genere può dare a conto fatto cento ducati l’anno dove ci sia dell’acqua, e ciò deve servire di sprone alla detta coltivazione. Guado. La coltivazione del guado merita qualche considerazione, specialmente ora, perché ci minorerebbe del bisogno di un genere coloniale qual è l’indaco.
Seta. La provincia di Napoli ha per principale articolo la produzione della seta, questa tirata nel rozzo modo antico dà un prodotto di carlini 18 la libra, prezzo medio, quando se si tirasse all'uso di Piemonte, o sia all’organzino, potrebbe dare il doppio prodotto. Se n’era incominciata la introduzione, ma questa poco favorita non ha ottenuto la divulgazione, che avrebbe potuto rendere un prodotto così utile accresciuto e ridotto al doppio senza una spesa maggiore, e con l’applicazione di tante semine inutili. Per conseguirsi ciò in ogni paese ci sono i buoni cittadini che possono essere incaricati a vigilare ad una scuola. Piccioli soccorsi posson darsi dal governo, come dei manganetti, e qualche caldarino, per far conoscere coll’esempio al pigro produttore, che il suo vicino ha fatto libre dieci di seta, e lavorate a quel modo ne ha ricavato ducati trentasei, al contrario delle sue dieci libre ne ha prodotto ducati dieciotto. I lavori di seta sembrano di oggetto particolare di questa provincia, ma in generale sono al di sotto di quelli delle nazioni straniere. Le cause sono note. Mancano
le tinte, le macchine da
tiratura, come di sopra si è detto. Se il governo si obbliga a procurare gli stabilimenti suddetti, potrà conseguire il buon fine. Vi sono nei paesi come Sorrento, Piano, e Massa inclinate le femmine al travaglio delle sete. Un orfanotrofio in quei luoghi stabilito con tali principi formerebbe la fortuna di quelle buone, ma povere popolazioni. Tanti conservatori di donne povere della capitale, abbandonate all’inerzia, ed alla contemplazione perché non occuparsi ai travagli della seta con quei principi che possono migliorare l’arte?
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Pesca. Si esegue la pesca con metodi in alcuni tempi nocivi, a quell’effetto si desidera che si pongano in vigore i regolamenti emanati su tale assunto, ed implorarne dal governo la esecuzione predetta.
Si effettua poi questa industria da una classe di gente miserabile a segno di non potersi provvedere di ordigni opportuni. Onde va soggetta a gente denarosa non solo per detti ordigni, come per una tenue mercede, nel mentre che si espone a tanti pericoli, questa meschina gente, che serve di vivaio alla marineria regia e commerciale. Intanto fassi una specie di monopolio nella vendita del pesce da detta gente oziosa ed usuraia col pubblico detrimento. Bisognerebbe con qualche modo sollevare pria di tutta la classe operativa dei pescatori per non essere vittima degli oziosi usurai, ed alleviarli altresì da quel restante dazio che esiste sul pesce in questa capitale, e da ogni altro che possa esservi negli altri luoghi di questa provincia, giacché il pubblico potrebbe restare più contento pagando l’importo di tale dazio su di altri generi. Concerie di cuoi. Le concerie di cuoi per questa provincia esistono solamente in questa capitale con grave scandalo. Sono esse fissate sopra sistemi barbari, che oltre di produrre un’infezione nel loro quartiere per lo metodo sono al di sotto della qualità forestiera, e si rendono utili a pochi capitalisti, e di meschino alimento ad un'infinità di lavoranti, perché di lunga operazione, e per lo spesato maggiore che produce la capitale. Si era posta in Castellammare da un ginevrino una grandiosa fabbrica di cuoi col sistema di Seghen; la mancanza dei capitali e la poco accorta economia fece in poco tempo svanire tale stabilimento. Un provvido governo può rianimare una tal fabbrica con questi aiuti, che sono usi di accordarsi, e può riflettere se convenga riconcentrare tutte le fabbriche di cuoi in quel paese favorito dalla natura, e cacciarle dalla capitale ove producono una infezione, e non possono prosperare, come nelle gran capitali vengono tutte le fabbriche arretrate per le cause ad ogni economista [note].
Lana.
La fabbrica della lanà è tanto bassa nella capitale,
mancante dei primi elementi. Questa per rendersi estesa, utile, e vantaggiosa, necessita di artieri, macchine, tinte, gualchiere, e di
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gran società. Senza che il governo si occupi ad unire tutti questi elementi principali, sarà meglio contentarsi di migliorare la lana nelle provincie, che la producono colla introduzione di montoni di Spagna detti merini per venderla ai forestieri più cara, che impegnarsi a fare dei panni migliori di quelli che si fanno per uso basso, purché non voglia migliorare le fabbriche come un oggetto di importanza ed allora con la sua protezione e soccorsi può ottenere l’aumento. VÀ
Tele. Lavori di tele, canapi, lino, e cotone se ne fanno immensi ma con poca arte, e senza apparenza di miglioramento.
In S. Antimo si stabilì una filatura di filo la quale fu disgraziatamente dalle disavventure arretrata. Il Marchese di Montepagano con sodi principi introdusse un’altra filatura di lino capace a formare delle eccellenti tele, ma parimenti per le circostanze fu sospesa. Potrebbero ravvivarsi tali stabilimenti, e dovrebbesi nei conservatori introdurre l’arte
di ben filare con regolamenti e con basi sodi. Non è l’ultimo dei mezzi per ottenersi delle buone tele quello della filatura e della manifattura, ma forse la più essenziale è la biancatura e l’apparecchio, quindi è necessario che siano introdotti i metodi di bianchire secondo si pratica in paesi ove fiorisce l’arte delle eccellenti tele. Il reclusorio pel vantaggio dell’acqua della campagna, che potrebbe fornire una vasta prateria, sarebbe il luogo adatto. Tintoria. Le tintorie, di cui molte ne esistono, non sono che con processi antiquati, e non col soccorso della chimica come altrove si usa; quest'arte ha preso un incremento considerevole altrove. Noi abbiamo molti materiali tintori, senza aver bisogno degli esteri, ma poco conosciuti da nostri pratici. Altri possono con buon esito coltivarsi come il guado e rubbia di cui si è parlato. In Castellammare ne fu stabilita una significante dal Marchese de Turris per le tinture sopra coloni all’uso di Aleppo con grave
dispendio, ma si trova ben’anche arrestata dalle circostanze. Le tintorie converrebbe che fossero dirette da istruiti chimici, e potrebbesi animare di bel nuovo quella di Castellammare. Carta.
La carta di ogni spesa in questa provincia e in tutto
il Regno è al di sotto per qualità di quella forestiera, malgrado che la situazione di essa, il clima, l'abbondanza dei stracci lo ren-
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derebbe capace di mettersi a livello colla stessa. Una sola fabbrica esiste nella Torre dell’ Annunciata cattivissima. È ben facile promuoversi un nuovo stabilimento proprio, ed adatto sul fiume Sarno, secondo i principi dell’arte, per conseguirsi il fine enunciato. La proibizione della estraregnazione dei stracci, l’assortimento di essi, gli ordegni a proposito, l’acqua limpida, ed un solo artefice forestiero sono i mezzi per ottenersi la carta di ottima qualità. Se gli amministratori destinati dal governo per la manifattura della carta per lo bollo si fossero occupati a stabilire una cartiera colle regole anzidette, potevano bene conseguire due eccellenti effetti, l’uno di evitar le frodi, che si fanno nella carta per lo bollo, e l’altro della introduzione di una specie di carta all’uso forestiero.
Vetriere. Vi sono molte vetriere ma tutte non esistono dal bisogno dell’estero. Esiste una vetriera all’uso di Venezia, ma questa ha bisogno di miglioramento. Manca intieramente una fabbrica di bottiglie nere di lava, e manca parimenti uno stabilimento di cristalli. Tutti detti oggetti meritano un riguardo dal governo coll’impegnare il possessore della fabbrica dei vetri per finestre di rendere i vetri perfetti, e senza macchie, animare dei vari progettisti per istabilirsi una fabbrica di bottiglie ad uso di Francia con quelle facilitazioni che i materiali del Regno somministrano; mai però nella capitale, dove per la mano d’opera tanto eccessiva, e per lo combustibile tanto caro, rende i prodotti così alti di prezzo, che non trovansi a livello con i forestieri. Cappelli. Le fabbriche dei cappelli sono di molto migliorate in questa capitale, ma non molto sono di perfezione, come a quelli di Francia. Ora hanno spaccio tra noi, mancando questi pel commercio intercettato, ma attivate dal commercio non avranno
alcuna ricerca, che perciò sarebbe ora tempo da cercarne la migliorazione con dei tentativi. Faenze e terraglie. Le faenze dozzinali sono di mediocre perfezione, non così le terraglie. Queste si sono migliorate da qualche anno coll’industria dell’artista Vecchi, ma sono tuttavia lon-
tane da quella conveniente perfezione e consistente all’uso a cui s'impiegano, oltre il gravoso prezzo, che costano a segno, che se
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le terraglie forestiere non soffrissero il forte dazio del 60% costerebbero assai meno. Acquavita. Fabbriche di acquavita vi esistono in piccolo ed in grande, e sono ridotte ad un segno opportuno a dare utile a questa provincia come succederà col commercio attivo. Solfo ed alume. La occasione dei minerali della solfatara ha più volte dato motivo allo stabilimento delle fabbriche di alume e solfo, ma poco per lo innanzi hanno profittato. Ora mediante le cognizioni chimeniche del Sig. Michele Ferraro si profitta da queste fabbriche, e si è aggiunto anche la formazione dell’olio vetriolico, ossia acido solforico, di ogni buona qualità ed a migliore prezzo dell’estero. Tali fabbriche potranno fiorire di più coll’apertura del commercio.
Cera. Questa provincia ha industria di api. Ha bisogno però delle manifatture di cera specialmente all’uso di Dison e Venezia. In detti luoghi non evvi processo differente dall’ordinario nell’imbianchirla, e tutto il buon effetto nasce che a Dison si travaglia sopra una montagna altissima di roccia, ed in Venezia in mezzo al mare, nei quali luoghi non vi è polvere che ricader possa sulla cera esposta all’atmosfera per cui riesce così pura, e bianca.
Fabbrica di cotone. Si è parlato della coltivazione dei cotoni, il Consiglio Distrettuale di Castellammare ha stimolato per istabilire le dette filature in quella città facendo conoscere quanto sarebbe utile allo Stato ed a quella popolazione detta fabbrica di filatura, anche per animare semprepiù la coltivazione sud-
detta. Ciò dà motivo risolvere le vedute su di tali manifatture. Molte sete, e manifatture di cotone si eseguono ma di un modo assai rozzo, mentre che se la filatura corrispondesse potrebbe impiegarsi a miglior travaglio. Converrebbe assolutamente prendersi in mira di stabilire delle scuole e degli orfanotrofi per un’ottima filatura con questi sodi principi, che già si conoscono. Castellammare potrebbe esser un luogo dei principali per questi stabilimenti.
Prima del 1799 il Marchese de Turris con tanta fatiga e spesa avendo fatto venire da fuori delle maestre aveva introdotta la filatura con detti principi nel Conservatorio di Castellammare, e
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
corrispondeva felicemente all’idea il buon fine, ma partito da quella città tutto andiede in degradazione. Con tutti questi tentativi mai si è potuto ottenere di avere
dei lavori simili all’estero, e di egual prezzo. Necessitano delle macchine e deve considerarsi dal governo, come della massima importanza. La macchina di Master si dovrebbe procurare. Di questa ve n’era un modello in Caserta, se potesse ottenersi per mezzo di esse tale macchina, il fine sarebbe conseguito, non ottenendosi poi detta macchina per le circostanze converrebbe ricorrere e provvedervi di quella che si usa in Francia.
Disseccamenti. Se possibile fosse di disseccarsi il lago di Agnano con tutt’i stagni adiacenti si purificherebbe non solo l’aria di quei luoghi, giovandosi alla salute di quelle prossime popolazioni, ma si otterrebbe una considerevole estensione di terra da coltivarsi. Queste tali osservazioni hanno luogo più per mezzo delle società, che con altri modi, a quale oggetto si dovrebbe animare quei naturali a conoscere l’importanza, ed intavolare qualche società d’intrapresa. Una ispezione e perizia potrebbe additar la spesa prossima, e servir di confronto all’utile per detto incoraggimento.
Strade. Da Castellammare e Massa non evvi strada né rotabile, né per semplice, come essendo balze pericolose, sulle quali bisogna camminare con sommo timore a cavallo. Per mezzo del mare si provvede di molti generi di prima necessità alle comuni di Vico, Piano, di Sorrento, e Massa, e nei tempi burascosi man-
cano con danno di dette comuni. Questo bisogno è stato anche esposto dal Consiglio di quel Distretto.
Di grand’utile sarebbe almeno riattare detta strada per le semplici some, sperandosi in seguito la esecuzione del Regio Decreto che ordina la strada rotabile sino a Sorrento. Il Consiglio Provinciale ha esposto esser necessaria la formazione d’una strada a Pozzuoli, a Baia, proponendo diroccarsi l’an-
tica grotta di comunicazione che oltre esser nido di ladri è molto stretta ed incomoda. Il pregio d’antichità ceder dovrebbe all’utile pubblico, qualora non vi fosse altro modo di fare detta strada. Inoltre sarebbe necessario l’accomodo della strada che porta da Agnano in Pozzuoli, cominciata, ma sempre attrassata in danno di quelle popolazioni.
III Le regioni economiche
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Il Consiglio Distrettuale di Castellammare ha proposto doversi riattare la strada di Bosco che conduce ad Ottaiano, essen-
do resa poco praticabile. Queste strade è vero che sono di utile generale, ma essendo di massimo profitto delle comuni, giacché attirandosi il commercio si aumenta il prezzo delle loro derrate, perciò il governo dovrebbe ordinare la costruzione, e la rifazione di tutte le suddette,
occorrendo farne l’equa distribuzione della spesa alle comuni alle quali più incumbe. Acque e fiumi. Nella provincia non vi sono altri fiumi che quello detto Launo. Esso divide il territorio di Castellammare da quello della Torre dell’ Annunciata. Più volte è stato progettato di renderlo navigabile, ma senz’effetto. Se ciò si verificasse quantunque in apparenza di grande oggetto produrrebbe infinito vantaggio alla provincia di Napoli e porzione di quella di Terra di Lavoro e Principato Citra. Nel Piano di Sorrento vi sono molte sorgenti di acque, ma
trascurate, le quali se fossero [impiegate], il che sarebbe facile, potrebbero rendersi utili a dar moto a macchine, e specialmente i molini che vi mancano all’intutto e si debbono spedire per mare i generi alla Torre dell’ Annunciata per esser macinati, e tante volte che il mare è burrascoso, scorrono dei giorni che la popolazione è priva di farina. Questa provincia è fornita di acque minerali dai più remoti tempi, ed oggi dai più lontani paesi chiamano i forestieri per farne uso. Le principali conosciute sono di Castellammare, d'Ischia, Pozzuoli, e Napoli, e malgrado che a detti paesi producono un’infinità di vantaggi per il concorso dei forestieri, con orrore si vedono derelitte, sporche e senza riguardo mantenute con iscandalo di coloro che vi concorrono, ed in discapito di una nazione culta. Conviene dunque pregare il governo perché si degni di proporre i più pronti mezzi per mettere tali preziosi prodotti della natura in un’apparenza che possano far lustro alla nazione, e possano esser resi di maggiore utilità a dette popolazioni ed ordinarsi agli accademici adattare di formare gli analisi di tutte queste acque, onde con memorie stampate si faccia noto ai presenti ed alla posterità la qualità di esse.
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
5. Alimentazione e salute în provincia di Teramo secondo la statistica murattiana* Acqua. L’acqua di cui si fa uso in provincia non risulta dall’esatta proporzione dei suoi componenti, perché per lo più tiene in dissoluzione parti eterogenee, secondo che passa per i diversi strati di terre. Le acque di montagna sono per lo più pure per la pietra calcare, che loro serve di base; ma come discendono si caricano o di argilla, o di selinite, e le fontane scoverte per lo più si caricano di queste sostanze straniere. Nella parte mediterranea e marittima sono esse estratte da pozzi, e partecipano della soluzione delle terre, ch’esistono nei loro fondi, e non essendo aereate sono gravi e pesanti. E perciò, che sebbene sieno limpide e chiare non sono facili a bollire senza intorbidarsi, non cuocono
perfettamente i legumi, né disciolgono perfettamente il sapone. Le cisterne, cioè serbatoi di acque piovane, che vengono purificate colle spugne e colla breccia sono pochissime, e si trovano solo nei chiostri dei monaci, ed in qualche casa particolare, e queste acque sono pronte a bollire, spappano i legumi, e sono facili a digerirsi. Se queste ultime acque fanno il bene alla salute, le altre producono dei calcoli, e delle pietre, e degl’incomodi alla vesica, e sono pesanti allo stomaco. Cibo ordinario. Il cibo ordinario delle ultime classi del popolo e dei contadini è la carne salata di maiale, ed è il pane di grano, ma come questi ultimi sono distribuiti vicino ai luoghi abitati e delle città specialmente si servono anche delle carni di macello in qualche giorno della settimana. L'olio, i legumi, e le erbe ortensi, ed altre spontanee formano l’alimento di tutt’i giorni, e la loro salute non viene alterata da questi cibi ordinari, che anzi digeriscono bene, e non contraggono del mangiare i vege-
tabili quell’alcalescenza, che le carni troppo spesso adoperate produrrebbero nei loro umori. Il pane è ordinariamente di frumento anche per le classi meschine, e del frumentone si servono per pulenta, ed anche per una specie di focaccia, nelle quali non è sviluppato l’acido carbonico per inzupparsi col brodo. Negli anni piovosi il frumento è soggetto ad esser tagliato, come in * Rapporto a firma di Giovanni Thaulero, membro del Consiglio d’Intendenza d'Abruzzo Ultra I, Teramo, 1 novembre 1815, in ASN, Ministero Interni, I Inventario, fascio 2183. Il rapporto fa parte della terza sezione della statistica
murattiana, dedicata alla «sussistenza e conservazione delle popolazioni».
II. Le regioni economiche
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quest'anno, e ad avere il carbone. Ciascun individuo di campagna consuma ordinariamente sei tomoli di grano all’anno, ma le classi comode ne consumano cinque. Il prezzo ordinario del pane è di carlini cinquantaquattro la salma, composta d’intorno a 380 libre, ma negli anni di penuria, come in quest'anno, di otto ducati, o nove ducati. La carne di macello nella città è di un uso generale, e nella distribuzione locale degli uomini anche i contadini, come si è detto che hanno il loro domicilio vicino ad esse, la mangiano in qualche giorno della settimana. Queste carni sono o di vacche, o di castrato, o di capre, ma non di animali infetti, o morti, perché
le beccherie sono ispezionate da ufficiali di polizia municipale in tutti i luoghi della provincia. Agli alimenti quasi ordinari bisogna aggiungere il pesce che si pesca nell'Adriatico e ch’è facile trasportare nei punti estremi della provincia fresco, perché la maggior distanza del mare è d’intorno a venti miglia. Questo pesce il più ordinario e di consumo più generale è il merluzzo, la treglia, le teste grosse, i calamari, e le seppie, ed il prezzo che ad essi corrisponde è quello che risulta dalla loro maggior grossezza, e peso, perché un merluzzo, che pesa più di una libra si vende in piazza otto e dieci grani, vendendosi quattro e cinque grani quello di un peso minore. Si pesca in questo mare anche lo storione, ed altri pesci di qualità, ma il di loro prezzo viene fissato dal gusto, e dalla ricchezza dei compratori, e dalle diverse circostanze, che ne accrescono o ne di-
minuiscono le ricerche e le offerte. La facilità di acquistare questi oggetti di sussistenza non fa della pesca un mestiere al quale molta gente s’impieghi, e nel littorale Adriatico della provincia si può dire, che si peschi con alcuni piccoli legni che sono a Castellammare, e con quelli di S. Benedetto oltre il fiume Tronto. I mezzi che vi abbondano di sussistere per la bontà delle terre e le varietà dei prodotti vi rendono gli uomini neghittosi, poco attivi, ed incapaci di trar profitto dalle posizioni topografiche le più felici, eppure nella miseria, ch’è il prodotto dell’ozio e della pigrizia le stesse ultime classi piuttostoché le privazioni, partecipano dei godimenti e di tutt’i vantaggi che offre il suolo quasi spontaneamente o con poco travaglio. Con piccole reti, che si
chiamano petarole e che si gittano lungo il littorale, vi si fa la pesca delle alose, e delle mugelle vicino alle foci dei fiumi, specialmente di Salino maggiore, profittando del tempo in cui questi
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pesci ritornano da altri siti, e le anguille escono dalle lacune di Comacchio. Si fa uso di sardelle, e di anguille che si salano, ma in piccola quantità, senza regola e senza essere molto in commercio. Vino. Il vino di questa provincia non è cattivo, e se ne potrebbe migliorare di molto la qualità, quando si raccogliessero le uve escludendosi le uve strette e glutinose, che ammettano la necessità di cuocerne il mosto per timore che il vino non cada nel grasso. Questo è il motivo, per cui i vini apiri non si conservano in tutto l’anno, e si usano i vini cotti che son difficili a digerirsi, tartarosi come sono, e capaci di far dei calcoli alla vescica. Alla vendemmia succede immediatamente la fermentazione tumultuosa non già nelle tinaie, ma dentro le botti. Solamente a Castellammare, luogo in confine della provincia di Chieti, si fanno formare i vini nelle tinaie svinandosi allorché colla sottrazione della materia zuccherosa e lo sprigionamento dell’acido carbonico il vino è fatto, e si può imbottare. Comincia ad impiegarsi il gleucoenometro, e qualche regola enologica della fabbricazione dei vini. Tutte le classi ed anche i contadini nella provincia bevono vino in tutto l’anno, ma gli artegiani delle città ne fanno anche un abuso, cadendo nei giorni di festa specialmente spesso in ebrietà. Si può calcolare l’uso discreto a due caraffe al giorno, ma l’eccesso non ha misura. La salute ne soffre delle paralisia, ma questi uomini sono in pace con tutto il mondo, e sono incapaci di delitti reflessi. Il prezzo ordinario del vino è di carlini trenta la salma composta di cento venti caraffe. Questo è il prezzo del vino crudo o apiro, quello del vino cotto è doppio, ma in questo e nello scorso anno è stato il doppio e forse anche il triplo dell’ordinario per meteore desolatrici, specialmente per gragnuola caduta a più riprese in provincia, che hanno distrutte le piantaggioni di viti, e toltone il frutto.
Olio.
L’olio è abondante nel secondo distretto di questa
provincia, nel littorale, e nei siti medi; non nelle montagne, che ne mancano. La sua qualità segue la maniera di estrarlo, e la na-
tura delle terre addette alla piantaggione degli ulivi. Il migliore è quello che si cava da quella delle terre calde e di breccia, e si estrae senza che le ulive siano in fermentazione nei camini di frantoi, ma appena colte son messe sotto la macina nette di foglie e compresse da istrumenti ben lavati e nuovi. Il prezzo ordinario dell’olio è di carlini trenta il metro di caraffe trentadue, ma in
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quest'anno è di carlini sessanta per la scarsezza della raccolta nell’anno passato. È buono a condireicibi e per le arti, e non nuoce alla salute. Pochi latticini sono in questa provincia, perché vi sono pochi animali. Risultano per lo più da pecore in piccoli branchi e da capre. Sono di qualità mediocre, ma sono in un commercio di dettaglio, né se ne può determinare il prezzo. Legumi. Ilegumi sono buoni, ma non tutte le acque sono atte a cuocerli. Le erbe ortensi ed i frutti vi sono eccellenti. Le patate cominciano ad aver un uso generale nelle tavole e per gli animali. Ordinariamente due volte al giorno si mettono a mensa tutte le classi a mezzo giorno, e la sera o più presto o più tardi secondo le stagioni. Vestimenta. La foggia di vestire del basso popolo è una casacca, un calzone, ed una camiciola di lana, o lana e lino tinta a robbia, o altri colori vegetabili tinti in casa, perché i contadini per lo più si vestono di panni misti che le loro donne apparecchiano, e tessono nella miglior maniera che possono senza ricorrere a mercanti. Le loro biancherie sono nette abbastanza, gli artegiani però, e della città specialmente, si vestono di panni comprati, particolarmente per le loro donne, che tutte hanno qualche abito di seta o di cottone fino per i giorni di festa. Stabilimenti pubblici di vestire i poveri non esistono in provincia, ma la carità dei privati supplisce al difetto delle fondazioni pie. Abitazioni.
Ilbasso popolo in provincia abita nelle case, che
son fabbricate di pietre, mattoni, e calce, ond’esso vi ha comodo,
sicurezza, e salubrità. Nelle campagne soltanto si usano pinciaie a creta, dove spesso sussistono animali ed uomini, e queste danno luogo all’umido, al freddo, ed ai miasmi, che vi si sviluppano, per cui non sono perfettamente sani, specialmente alcuni, che non serbano la nettezza e la decenza che si richiede. Vi son quelli, che
vi tengono anche i polli ed altri animali di bassa corte. Il foculare non è fatto in maniera che non vi sia fumo in alcuno; ma la ma-
teria che vi si brugia è per lo più la legna e le frasche degli alberi. Nel foculare ordinariamente si cucina in pentole di argilla ed in caldaie di rame, e vi si brugia per far chiaro per lo più olio del prezzo ordinario.
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Cause dell’insalubrità dell’aria. Le.» cause della insalubrità dell’aria sono generali nella posizione topografica dei luoghi, nella loro altezza, esposizione per cui soffrono dei passaggi bruschi da un grado di temperatura a un altro, oppure della succidezza delle case, delle carceri, degli ospedali, o dalle chiese con sepolcri e cimiteri mal custoditi, o da letamai nell’abitato, o vicino alle acque stagnanti, e numerose stalle. Alle prime non vi è rimedio da opporre, ma a quelle cause che dipendono dalla volontà dell’uomo si può rimediare con rimuovere gli ostacoli alla pubblica salute, che l’uomo stesso oppone, e le leggi sanitarie, e quelle di pulizia municipale e rurale possono impedirne lo sviluppo e l’azione, così i cimiteri possono togliersi dalle chiese e dagli ospedali, i sepolcri, le strade fangose possono lastricarsi, e darsi lo scolo alle acque stagnanti, affinché non nuocono coll’idrogeno carbonato e coll’azoto, che si sprigiona da esse mediante la fermentazione putrida, che i vegetabili e gli animali che si decompongono emettono da loro corpi. Occasioni di nuocimento alla pubblica salute. Accadono tal volta incendi per poca vigilanza dei padroni ed anche per qualche vizio della di loro costruzione; ma inondazioni non hanno luogo nella provincia, se non in alcuni siti scoscesi ed in molto pendio ai quali manca la base, e che l’acqua costringe a perdere la legge di continuità. Ma questi casi son rari.
Impiegati alla guarigione. Molti comuni hanno i medici e cerusici condottati e pagati col pubblico denaro per curare ogni classe di persone. I loro soldi sono fissati nello stato discusso. Le corporazioni non tengono medici per i loro individui, e la classe meschina vien soccorsa nelle campagne specialmente dalla carità privata. Non si può dire che le ostetrici mancano alle popolazioni; ma questa classe è assai imperita, dove i medici e cerusici non assumano la cura d’istruirle. I salassatori non formano qui una classe separata da quella dei cerusici, sebbene per esercitare il loro mestiere sono notati nel sistema delle pubbliche istruzioni con carte separate autorizzanti. Presso a poco ogni comune ha qualche professore, che cura la salute pubblica. Patologia. Nella posizione topografica di alcuni luoghi, nelle toro altezze, nella qualità del loro suolo esistono le cause particolari delle malattie endemiche delle popolazioni, e nella ma-
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niera di coltivar le terre. Ve ne sono di queste che danno continuo passaggio giusto fra una temperatura, ed un’altra, ed a colpi di aria, che diminuisce spesso la traspirazione, ed in essi regnano molto le costipazioni, e le febbri terzane, e le pleuritidi. Le terre irrigate e seminate a riso, quando non sieno fuori della distanza di due miglia dall’abitato quale distanza viene prescritta dal governo, danno luogo allo sviluppo dell’idrogeno carbonato ed azotato, d’onde emane l’ammoniaco che fa le febbri putride, come in autunno di questo anno si osserva nelle risaie di questa provincia troppo vicine ai luoghi abitati, in contravvenzione dei reali ordini. A disinfettare queste terre ed a neutralizzarne l’aria non vi è riparo dopo che il male è fatto, e bisogna soffrire il danno alla pubblica salute. L'acido muriatico sarebbe buono, ma questo rimedio è platonico dove non è possibile di applicarlo. Malattie di mutazione si danno in questa provincia, allorché dalla montagna in autunno si vuol passare alla marina che sono due punti estremi che alterano la salute. La vaccinazione è bene inoltrata, e le popolazioni ne sentono il vantaggio, perché sebbene il contagio vaioloso non sia totalmente estinto, non si può dire però, che ne sia eccessivo lo sviluppo e gli effetti, ed il popolo è persuaso abbastanza dei suoi vantaggi, né conserva il pregiudizio, come in alcuni luoghi dello Stato limitrofo, dove la cura del vaiolo vien creduta un’opposizione alla divina volontà. I morbi venerei seguono in questa provincia il calor del clima e l’ozio delle classi improduttive. Le popolazioni ne risentono del danno, specialmente per non esser ispezionate abbastanza i due sessi sull’articolo della salute, dopo quello dell’educazione principalmente in riguardo all’impiego delle loro facoltà fisiche, intellettuali, e morali. La povertà aumenta l’infermità, ed impedisce la guarigione per la mancanza dei comodi tanto dalla parte degli alimenti quanto da quella dei rimedi richiesti, oltre non avere quella nettezza di biancherie per la persona, per i letti e per le abitazioni, che servono molto a diminuire i miasmi morbosi, non essendovi nella
provincia stabilimenti pubblici per alimentare e soccorrere gl’infermi e gli orfani, i quali sono raccomandati solo alla beneficenza privata.
I bastardi sono alimentati e curati dal governo, e le nutrici vi sono ispezionate sino agli anni sette; essendo poche le forze vi-
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tali, questi figli per lo più della pubblica incontinenza vanno a perire, non ostante le attenzioni che si usano con essi, essendo
destinati dal governo medici e cerusici a riconoscerne lo stato continuamente. Le asfissie, non anche i mali d’intormentimento, che costi-
tuiscono le morti apparenti sono rari. I medici conoscono le persone, che vi sono soggette, ed apprestano ad esse i rimedi opportuni rifrigeranti. La continenza, che l'educazione ispirasse ai due sessi, potrebbe servire a renderli prolifici; ma disgraziatamente si è andato in questa parte all’ultimo grado della corruzione, e le forze fisiche che ne soffrono impediscono la prolificazione. Questo però non fa che si vada a diminuire la popolazione, che anzi si accresce. Bisognerebbe che l’uomo fosse più abituato alla fatica metodica, affinché dasse uno stato più sicuro ai figli che nascono. Le pratiche che si usano nei parti sono le ordinarie, come quelle della nutrizione dei fanciulli. Nelle città vi è qualche professore che vi ha una cura particolare, ma nella campagna l’ostetricia è abbandonata a donne che non sanno nulla del mestiere, e fanno tutto per una cieca abitudine.
6. Viaggio in Molise* Il viaggio, che ho dovuto fare nella provincia di Molise per presedere quei Consigli, mi ha data l’occasione di fare alcune osservazioni che non credo inutile esporre al governo. Non parlerò di tutti gli oggetti, perché non tutti, in così breve tempo, ho potuti osservare: spesso però avverrà che, parlando di Molise, sarò astretto a ragionar di oggetti generali, perché da cagioni generali dipendono i beni e i mali particolari. Questa provincia di Molise ha continuato ad offrire l’esempio della maggior esattezza nel pagamento della fondiaria; è stata una delle più sollecite ad adempire al suo contingente della coscrizione; ed in questo anno è la meno inquieta per ragion di * Vincenzo Cuoco, Viaggio în Molise, 1812, in Scritti vari, a cura di N. Cortese e F. Nicolini, Laterza, Bari 1924, vol. II. Con [C.] sono indicate le note di Cuoco, con [Edd.] quelle dei curatori.
II. Le regioni economiche
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annona, poiché il raccolto dei commestibili in nessun’altra provincia forsi è stato tanto abbondante. Vi potrà essere alto prezzo dei generi per le richieste delle provincie vicine, ma scarsezza non ve ne sarà certamente. Il brigantaggio l’ha turbata fino al mese di novembre dell’anno scorso. Fu dissipato in brevissimo tempo, e pare che lo sia stato efficacemente, poiché per un anno appresso non è mai ripullulato. È degno di osservazione che, nel momento appunto in cui il brigantaggio maggiormente ardea, l’intendente Galdi si è trovato con una guardia civica non organizzata, senza truppa di linea e con un partito impegnato a far andar male tutte le di lui operazioni. Il suo gran mezzo fu quello di riunire intorno a sé tutti gli attaccati al governo, e quei volontari della prima guardia civica, che si era distrutta col decreto dei...! per sostituirle un’altra che si volle fatta dalla sorte in un tempo in cui eravi il massimo bisogno della scelta. Quel decreto fu fatale alla tranquillità di quasi tutte le provincie, e, se non ne produsse l’intero sconvolgimento, avvenne perché per buona sorte non fu mai interamente eseguito. I volontari e gli attaccati al governo fecero la prima resistenza; questa animò tutti i proprietari; si riunirono gli sforzi di tutti; ed i briganti furono sbaragliati e distrutti dalla sola energia dei provinciali. La vigilanza di Galdi e la diligenza del capitan comandante della gendarmeria Alò ne hanno estinti fino gli ultimi avanzi. Se si continua lo stesso sistema, la provincia continuerà ad esser tranquilla: se si abbandona, sarà turbata di nuovo, 0, almeno, ad impedire e riparare i disordini sarà necessaria molta truppa; il che non avvien mai senza molto danno della provincia medesima. Se le operazioni contro i briganti si faranno colla truppa, la provincia non pagherà più con esattezza la fondiaria. Tale è lo stato attuale della provincia: esaminiamo ciò che si potrebbe fare per il suo miglioramento progressivo. I. Confinazione e divisione dei circondari. Non mi tratterrò molto sulla nuova confinazione da darsi alla provincia intera. Le osservazioni fatte dal Consiglio sono ragionevoli. La provincia 1 In biarico nel ms. [Edd.].
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non sarà mai ben confinata se non si segue il corso dei fiumi Volturno, Calore e Fortore?. Questa nuova confinazione esigerebbe la creazione di un nuovo distretto, la di cui centrale potrebbe essere o Casacalenda o Serracapriola o Guglionesi3. Ma, o che si alteri o no l’attuale confinazione della provincia, sarà sempre indispensabile unirle sollecitamente Montepagano, Pontelandolfo ed alcune terre che, stando alla destra del Calore, pur vanno comprese nella provincia di Avellino; il che rende difficili le operazioni della polizia. E queste aggregazioni renderebbero necessaria una rettifica nei circondari di pace limitrofi, e sarebbe indispensabile crearne uno nuovo, la di cui centrale fosse Santa Croce, posto importante per la polizia, perché domina la strada che dal vallo di Fortore porta a Terra di Lavoro*. È necessità restituire interamente Montazzoli alla provincia dell'Aquila: Montazzoli, unita da tempi antichi all'Aquila per le finanze, e per inavvertenza a Molise per la giustizia. E necessità riunire alla provincia di Molise alcuni piccioli paesi del circondario di Colli, il quale oggi mal si trova unito a Terra di Lavoro. Finalmente è necessità rettificare i due distretti nei quali oggi è divisa la provincia, e togliere a quello d’Isernia, per restituire a quello di Campobasso, i circondari di Civita Campomarano e di Montefalcone, i quali sono a Campobasso molto più vicini, con buone strade, ed uniti con infiniti rapporti commerciali. Tutto, al contrario, li separa da Isernia: niun commercio,
strade del doppio più lunghe e per due terzi dell’anno difficilmente praticabili. Forse è anche necessario dividere le terre che si sono riunite
per l’amministrazione municipale. Questa riunione è mal tollerata dagli abitanti, si converte tutta a danno delle terre più picciole, ed accresce gl’incomodi e le spese dell’amministrazione. Vi sono alcune riunioni fatte senza avvertire che i paesi riuniti ap-
partengono a diversi circondari di giustizia di pace. Tale è la riunione di Sant’Agapito, Longano, ecc. In tutta la provincia non vi sono che la riunione di Santo Stefano ad Oratino e l’altra di ? Il Consiglio ha formato una carta della nuova confinazione e divisione della provincia. Si trova nel processo verbale degli atti del Consiglio medesimo [C.]. Si potrà interrogare nella provincia istessa. Ma da quali persone si sapranno i veri dettagli? [C.]. 4 Informarsi anche di questo [C.].
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Guardia Bruna a...° che sieno realmente necessarie, poiché soli Santo Stefano e Guardia Bruna realmente non possono sopportare le spese di un’amministrazione indipendente. Nella provincia si parla di un’ampliazione di circondari di giustizia di pace, diminuendone il numero. Da quanti oggi sono, si vogliono ridurre a quindici o sedici, portando il numero degli abitanti di ciascuno di essi a quindici in sedicimila. Ciò mal si sente dagli abitanti della provincia e produrrebbe sconcerti gravissimi. In Francia i circondari di giustizia di pace sono molto più piccioli dei nostri, e ciò non è senza ragione. Le funzioni di un giudice di pace sono tante e tanto interessanti pel popolo, che il circondario non si può ampliare senza renderle al tempo istesso difficilissime pel giudice, incomode per la popolazione. Presso di noi si fissò il minimo della popolazione dei circondari di pace dai sei ai diecimila abitanti; ed il desiderio universale sarebbe che tal numero fosse diminuito anziché accresciuto. E questo desiderio si è trovato tanto ragionevole e tanto analogo ai fatti, che colla legge dei...6 si è creato un aggiunto per ogni paese componente un circondario, e ad ogni aggiunto si è accresciuta la giurisdizione, ma per le picciole liti. Tanto è vero che si è creduto alle popolazioni riuscir incomodo il correre per le picciole cose fino alla residenza del giudice; al giudice impossibile di andar a trovar le popolazioni con quella sollecitudine che i piccioli affari richieggono!
Come ora potremmo parlar di ampliazione di circondari senza essere in contradizione con noi stessi? Che si spera mai da questa ampliazione di circondari? Attività maggiore nei giudici? No. — Risparmio di spesa? No. Se doppio diventerà il circondario, doppi diventeranno il soldo dei giudici, la forza e la spesa necessaria per l’amministrazione della giustizia. Si dovrà allora accrescere la giurisdizione degli aggiunti, accrescere la loro fatica, e dar loro qualche soldo che oggi non hanno. Oggi, le funzioni di costoro sono gratuite, perché pochissime: non potranno più esser tali quando assorbiranno tutta la di loro vita. In tal modo le spese, invece di diminuirsi, si accresceranno. Quale dunque sarà l’effetto di questa ampliazione di circondari? Nessun risparmio e 2 In bianco nel ms. [Edd.]. © In biarico nel ms. [Edd.].
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forsi dispendio maggiore per il governo: maggior lentezza nell’amministrazione della giustizia ed il massimo incomodo per le popolazioni. La divisione territoriale di un regno non è arbitraria. Essa deve essere adattata alle sue leggi ed alla sua organizzazione. Si è scelta l’organizzazione francese: dunque è necessario che la divisione sia quanto più si possa approssimante alla divisione della Francia. II. Popolazione, agricoltura e stato fisico della provincia. Io riunisco tutti e tre questi oggetti, perché, sebbene in apparenza diversi, pure sono dalla natura strettamente ligati insieme. La popolazione è il risultato dell’industria, che nella provincia di Molise restringesi alla sola agricoltura; e questa cangia la superficie fisica del suolo. La provincia di Molise è una delle più popolate del Regno, e la sua popolazione è sempre crescente, tranne in alcuni pochi luoghi infelicissimi. Da lungo tempo si era osservato il fenomeno che l’aumento della popolazione in Molise era più rapido che altrove. Galanti, che è stato il primo a fare tale osservazione, l’avea fondata sulle tavole statistiche dal 1770 al 1779. Ora è dimostrato che dal 1764 in qua l’industria in questa provincia ha avuto uno sviluppo rapidissimo, ed un progresso nell’industria ne ha prodotto un altro proporzionato nella popolazione. Questi due progressi si sono osservati nella provincia. È incredibile la differenza che tutti notano tra il modo di abitare, di vestire, di alimentarsi prima del 1764 e quello di poi. Tutto annunzia un aumento rapidissimo di ricchezza universale: lo dimostra l’aumentato valor delle terre e il diminuito interesse del denaro. Ma quale è stata l’industria aumentata dopo il 1764? Quella sola dei grani. Campobasso fin dai tempi viceregnali è annoverata tra le città riserbate a provvedere l’annona di Napoli; il che dimostra che fin da quell’epoca la provincia di Molise era riputata granifera. Lo smercio dei suoi grani per l’annona di Napoli allora doveva essere molto grande, perché mancava assolutamente il commercio marittimo. Dopo la venuta di Carlo terzo, il commercio marittimo si riaprì e crebbe; il che dovea produrre, e produsse realmente, un danno alla provincia di Molise. L’annona di Napoli fu provve-
III. Le regioni economiche
sega]
duta quasi interamente dai grani di Puglia e di Sicilia. Ma, dopo il 1764, il commercio marittimo dei grani aperto nei caricatori di Termoli e di Campomarino, e posteriormente la strada divenuta rotabile da Isernia a Napoli, diede una nuova facilità di smercio ai grani di Molise, e produsse una circolazione maggiore di denaro, un’attività maggiore nell’agricoltura. Ma quest'attività maggiore non è stata sensibile che nella coltura dei cereali. I boschi si sono distrutti, la pastorizia diminuita. La facilità di vendere il grano ad alto prezzo ha introdotta la coltivazione del frumentone: il popolo mangia questo onde poter vender quello, e crede di far guadagno, non ostante che la coltivazione del frumentone isterilisca le terre, ed il suo raccolto sia incertissimo e tenue in un suolo per lo più collinoso ed arido ed in un clima freddo. Continuando la cosa a questo modo, si può egli sperare che l'industria continui a crescere? Io credo di no, e ne ho le seguenti ragioni: 1. Qualunque sia per essere l’esito della guerra attuale, alla pace diminuirà certamente la vendita dei grani che questo Regno faceva all’estero. I nostri grani non possono, negli anni ordinari, passare lo stretto di Gibilterra, perché non reggono alla concorrenza dei prezzi dei grani del Settentrione e dell’ America. Circoscritto lo smercio entro i confini del Mediterraneo, chi ne sarà il compratore? Un tempo, molto ne comprava la Francia per sé e per le sue colonie. La Rivoluzione ha estesa in Francia la coltivazione del frumento, e le sue colonie potranno essere approvigionate dagli Stati Uniti. Lo stesso si dica delle colonie spagnuole. Alla Spagna per i bisogni propri, vinto una volta l’antico pregiudizio che la manteneva in perpetua guerra coi barbareschi, sarà più vantag-
gioso trarre i suoi grani dall’ Africa che da noi. Nello Stato romano, che pur era un gran mercato dei grani nostri, l’agricoltura è cresciuta: col cangiamento avvenuto nel governo, crescerà sempre più. E Roma da qualche anno, lungi dall’aver bisogno dei grani nostri, ce ne rifonde. Né è da temersi che l’industria del cottone assorba tutti i vasti e spopolati campi dello Stato romano. Questa industria esige molte braccia, e permanenti in cam-
pagna, precisamente quando l’aria dell’agro romano è più micidiale. Roma per lunghissimo altro tempo non avrà che semplice coltivazione di grano. Che rimane nel Mediterraneo? Genova e
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Livorno: piccioli mercati, quando sono limitati ai soli bisogni propri. Ed a tutte queste considerazioni si aggiunga che, comunque
la guerra attuale vada a finire, in questo istesso mercato del Mediterraneo noi avremo nuovi concorrenti. Durante la guerra della Rivoluzione, i bisogni della Francia, a cui le altre potenze di Europa negavano il grano, hanno suscitata l'industria dei greci e dei levantini. Colla pace, il passaggio del Mar Nero sarà aperto, ed i grani di Kerson e di Odessa inonderanno di nuovo i porti di Livorno, di Genova, di Marsiglia e vi si venderanno a miglior mercato dei nostri. A persuadersi di questa verità, basta osservare i giornali dei movimenti dei porti di Livorno e di Genova dell’ultimo decennio del secolo passato, e paragonarli ai precedenti. In questi i napoletani e siciliani erano quasi i soli a portarvi dei grani: in quelli sono gl’infimi per numero. Sembrerà strano che io, parlando della provincia di Molise, imprenda a parlare di tutta l'Europa; ma io credo che il nostro stato sia sempre relativo, e che noi non istaremo mai bene se non ci metteremo a livello di ciò che ne circonda. Credo importantissimo per la felicità economica di questo Regno che si pensi per tempo ad ordinare la sua agricoltura in modo che abbia la stessa quantità di grano che ha avuta finora, ma abbia, nel tempo istesso, altre derrate da dare all’estero. Ciò, se ci si pensa, si deve e si può ottenere. Si deve, perché, altrimenti, noi rimarremo o senza alimenti o senza commercio esterno. Il cottone, per esempio,
è e sarà una gran sorgente di ricchezze per questo Regno; ma la coltura del cottone richiede delle terre che si debbono togliere ai cereali. Coltiveremo o non coltiveremo cottone? Se ne coltiveremo, correremo rischio di mancar di cereali; se non ne coltiveremo, mancherà un grandissimo ramo di commercio. È necessa-
rio dunque ordinare le nostre cose in modo che una minore estensione di terre ci dia lo stesso prodotto. Ciò si può ottenere facilmente, cangiando in meglio la nostra agricoltura e la pastorizia nostra. 2. Ritorno alla provincia di Molise. Ho detto che da oggi innanzi il grano avrà meno smercio al di fuori. Ora aggiungo che vi saranno minori mezzi per coltivarlo al di dentro. Non vi saranno più, o saranno molto minori di prima, le anticipazioni che i grandi negozianti, specialmente della capitale, facevano ai coltivatori. Di tali anticipazioni, e del modo come si
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facevano, si è detto molto bene e molto male. Lo spirito di partito ha influito in questa disputa più che la ragione. Fatto sta che, con questo mezzo, la provincia è andata innanzi dal 1764 a questa parte ed ha prosperato. Ora la quistione diventa inutile, perché tali anticipazioni o non si faranno più o saranno scarsissime. I monti frumentari, che facevano anche essi delle picciole anticipazioni ai poveri coloni, si sono interamente distrutti. Non avevano che un miserabile capitale di grani, che prestavano nella stagione invernale per riaverlo nell’estiva con picciolissimo aumento. Nella provincia erano molto numerosi : si sono tutti soppressi. Che si è guadagnato colla loro soppressione? Io credo che non se ne sieno ritratti diecimila ducati. E per questo meschino prodotto si è distrutta un’opera fatta da secoli, e per formar la quale un governo, che intende bene i suoi interessi, ben volentieri spenderebbe cinquantamila ducati! Molte anticipazioni, finalmente, facevano i feudatari, consi-
derati come grandi proprietari. Sono anche esse interamente cessate, e, ciò che è peggio, tutte in un momento.
Ci vuol molto
tempo perché i nuovi proprietari e le nuove istituzioni sieno in
istato di supplire alle antiche, e, durante questo tempo, l’agricoltura, specialmente dei cereali, deve certamente languire. 3. Finalmente è da osservarsi che il prodotto dei grani diventa di giorno in giorno minore. Ho detto che questa coltivazione ha distrutte tutte le altre: ora aggiungo che, pel cattivo metodo col quale si è praticata, ha distrutta anche se stessa. Le terre coltivate a grano ed a grano d’India, senza concime, perché non vi è pastorizia, senza ruota agraria, si sono interamente sfruttate, ed oggi ce ne sono molte nelle parti montuose della provincia, le quali negli anni fertili danno il quattro o il cinque per uno: prodotto ben miserabile e che di giorno in giorno diventerà anche minore. Ha compiuta la rovina l’ostinata coltivazione del grano d’In-
dia, a dispetto di tutti gli elementi che si ricusano a tale derrata, tranne in alcuni luoghi piani ed irrigabili, quali sono le pianure di Sepino, Boiano, Carpinone, ecc.
L’ostinazione a voler coltivare sempre cereali, e soli cereali, e la mancanza di ogni buon metodo di agricoltura ha fatto sì che in questa provincia si tengano in gran pregio le terre nuove e non
ancora dissodate: quindi la smania di dissodare e di scuotere tutti li boschi, di smovere le terre di tutt’i monti. Pochi anni di fer-
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tilità illudono e producono una sterilità di molti secoli. Dopo cinque o sei anni, queste terre diventano simili a tutte le altre, e si debbono coltivare egualmente un anno a grano, un altro a grano d’India, ed un terzo si debbono tenere in riposo. Il grano nelle annate medie dà il cinque per uno: altrettanto negli anni medi si
può calcolare che dia il grano d’India, detraendone gli anni sterili, che nella coltivazione del grano d’India sono più frequenti che in quella del grano: talché il prodotto delle terre si può ragguagliare al tre e mezzo per uno, dai quali, dedotta la semenza, rimangono appena due o due e mezzo per uno. Questo calcolo sembra spaventevole, ma pure è vero. Per ragione di questa coltivazione, l'aspetto fisico della provincia si è interamente cangiato. Quasi tutti i boschi sono stati distrutti, e, quasi si avesse voluto operar sempre contro la natu-
ra, si sono distrutti più boschi nei monti che nelle pianure. La montagna di Frosolone, la seconda montagna della provincia dopo il Matese, cinquant’anni fa era folta di alberi: oggi non ve ne è neppur uno. La terra, rimasta senza il sostegno degli alberi, è trascinata dalle acque; da per tutto vedete rimaner nude le rocce primitive, come ossa di un cadavere di cui si sfacelino le carni. Il suolo, da per tutto cretoso, nell’estate si fende, s’imbeve d’acqua, e nell’inverno si smotta, si slama e va a render variabile,
incerto, rovinoso il corso dei torrenti e dei fiumi: donde poi nuovi danni e più gravi. Vi sono dei paesi ai quali non si possono dare più di altri cinquant'anni di esistenza: tali sono Lucito e Fossaceca. Insomma tutta la provincia tra un mezzo secolo sarà deteriorata a segno che una metà sarà trasportata nell’ Adriatico, e l’altra metà resterà inutile ad ogni coltivazione. Io non aggiungerò ciò che molti han detto, e non senza ragione, cioè che questo smoderato sboscamento abbia alterato l’ordine delle stagioni, rese più frequenti le tempeste, le gragnuole e finanche i terremoti. Tutto ciò è vero; ma io credo che ciò che è visibile ai sensi sia più che sufficiente a scuotere gli animi
degli abitanti ed a richiamar l’attenzione del governo, senza ricorrere anche a ciò che ha bisogno di argomenti. Tale è lo stato della provincia. Lasciarla in questo stato è lo stesso che volerla perdere. Quale è il mezzo di migliorarla? La stessa esposizione dei disordini lo indica. È necessità di rassodare le terre, attualmente troppo smosse; è necessità cangiare la coltu-
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ra, onde più non si smovano per l’avvenire. La prima parte si deve fare dall’amministrazione pubblica; la seconda dai privati. III. Alcuni oggetti dei quali si deve occupare l’amministrazio-
ne. Spetta all’amministrazione pubblica ripristinare i boschi distrutti e farne dei nuovi, ove ciò sia necessario. Spetta all’amministrazione pubblica far delle piantagioni e far dei tagli e dei fossi, ovunque ciò sia necessario. Ma tutte queste operazioni non si possono mai far bene in grande. E necessità discendere ad un dettaglio minutissimo. L’amministrazione generale conoscerà l’importanza di pochi punti principali della provincia; conserverà pochi boschi, regolerà alcuni fiumi principali, avrà cura di poche strade regie: ma, quando tutti gli altri punti minori della provincia saran rovinati, a che serviranno pochi punti principali, conservati come gli oasis nei deserti di Egitto o poche colonne tra le rovine di Palmira? Si fanno le strade regie: a due passi fuori da tali strade non si può più camminare né a piedi né a cavallo. La strada regia non rimane ella per due terzi inutile? Si ha cura di un gran fiume, ma nessuna cura dei torrenti: questi torrenti, a lungo andare, non distruggono le opere che si son fatte sul fiume? Io confesso che è più glorioso occuparsi dei grandi oggetti; ma è più utile occuparsi dei piccioli, senza la cura dei quali tutto ciò che noi potrem fare sui grandi non è che prestigio ed illusione. Or di questi piccioli oggetti è impossibile che se ne occupi l’amministrazione generale. E necessità affidarne la cura alle amministrazioni comunali. Ma, perché queste se ne occupino utilmente, è necessità che operino con un piano uniforme, il quale ancora manca. Ed io credo, e fermamente credo, che, con un piano bene immaginato, non solo si ripara a quei mali della provincia che abbiamo descritti finora, ma si accelera l'esecuzione di molte opere pubbliche, e si rendono più utili. Io desidererei che ogni comunità fosse obbligata entro un anno a formare la carta topografica del suo territorio. In questa carta dovrebbero essere indicate le strade che esistono e quelle che potrebbero formarsi, i difetti di quelle che vi sono, i modi di ripararvi, ecc. Indicherebbe questa stessa pianta i torrenti ed i piccioli fiumi, i ponti necessari, il modo di dirigerli e di arginarli, ecc. Indicherebbe i terreni smossi da lame, i tagli, i fossi e le piantagioni necessarie per impedirne i progressi.
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Si aggiungano a queste disposizioni alcuni regolamenti che oggi non abbiamo ancora: 1. Sulla larghezza delle strade comunali. 2. Sulla necessità di aver delle piantagioni d’alberi dall’uno e dall’altro lato. Queste piantagioni sieno, come in Francia, obbligatorie, in modo che o le faccia il possessore del fondo limitrofo in un dato tempo, o le faccia la comune, o anche qualunque altro interessato a di lui spese e danno. 3. Sull’azione solidale da darsi ai possessori dei fondi limitrofi per impedire il progresso delle slamature. Avviene che la falda di un monte s’incominci a smovere: di rado tutta questa falda è posseduta da un solo padrone; ma, tra li quattro o cinque che se ne dividono il dominio, un solo sarà intelligente, un solo prevede il pericolo, un solo ne conosce i rimedi; ma questo solo non potrà nulla, se non gli si dà il dritto di costringere anche gli altri a fare ciò che è necessario pel vantaggio comune. Questa azione solidale farà sì che l’intelligenza di un solo possa produrre il bene di molti. Né questa azione solidale, che io propongo, sarebbe ingiusta. Essa è fondata sui princìpi legali di tutte le nazioni. Nelli regolamenti agrari della Normandia il padrone di un fondo può obbligare il suo vicino a troncare le teste dei cardi. Presso di noi, qualche volta che un proprietario ha voluto costringere il suo vicino a cangiar coltivazione e far delle operazioni onde impedire il corso di una slamatura, lo ha ottenuto, ma con lunghe liti ed
infinito dispendio. Ciò che io propongo non serve ad altro che a facilitare il modo di ottenere ciò che è giusto ed utile. 4. Si dia alle amministrazioni comunali il dritto di poter fare la requisizione di una giornata di lavoro per ogni capo di famiglia per queste opere pubbliche. Questa specie di requisizione sarebbe poco gravosa, tra perché il popolo ne vedrebbe l’utilità immediata, tra perché non vi sarebbe modo di abusarne, dovendosi
stabilire per massima che essa non ammette commutazione. Un uomo deve dare una giornata di lavoro per tali opere pubbliche, che sono note; non deve dar più di una giornata: o va egli stesso o manda un altro; l’amministrazione municipale non ha né interesse né modo di ingannare. Questa specie di requisizione ha pro-
dotti tristi effetti in Francia sotto l’antico regime: 4) perché serviva per le opere pubbliche e non per le comunali, onde il popolo non ne vedeva l’immediata utilità; 4) perché non era certo ed
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inalterabile il numero delle giornate che un uomo doveva prestare; c) perché si ammetteva la commutazione dell’opera in prestazione pecuniaria. Quindi ne avveniva che s’imponeva a capriccio, e l'imposizione diventava gravosa. Presso i romani era diversamente regolata, né sappiamo che abbia prodotto inconveniente alcuno. Io son persuaso, e con me ne è persuasa la parte più sana della provincia, che, seguendo questo metodo, in due anni tutta la provincia cambierebbe d’aspetto. Ma, ripeto, è necessità seguire il metodo proposto, perché è il solo col quale si può ottenere la massima conoscenza dei dettagli, la massima attività colla minima spesa nelle operazioni e quella simultaneità di operazioni che è più necessaria della stessa attività. Se l’amministrazione centrale s’incarica essa direttamente di queste tali operazioni, farà dei bei programmi, verranno dei bei rapporti, e non si farà nulla: prima che s’istruisca, passerà molto tempo, molto tempo perché incominci, moltissimo perché finisca, e, prima che finisca la se-
conda operazione, sarà disfatta la prima. Con questa operazione la provincia avrà rotabili quasi tutte le strade interne. E che ci vuol mai per rendere rotabile una strada? Io ho osservato che possono con poco rendersi tali tutte le più disastrose della provincia. E famoso in essa il passo del Capello, che sta tra il Ponte dei Limosani e Lucito. Come oggi si trova, non vi è dirupo delle Alpi che faccia più spavento. Voi camminate sopra una strada non più larga di tre palmi: il suolo sul quale camminate non è piano, e dalla vostra dritta è un precipizio di dugento canne che finisce nel fiume. Perché tutto questo? Perché il padrone di quel feudo rustico non è stato mai obbligato a mantenervi una strada larga almeno otto palmi; perché l’irregolare coltivazione ha sboscata tutta la falda inferiore e superiore, e ne ha reso il suolo mobile e rovinoso. Ripiantate alberi dal fiume sino alla strada, fate che questa debba essere di una larghezza determinata, e, affinché sia sempre tale, piantate alberi dalla parte opposta, e tutta anderà bene. Oggi il feudo non si possiede più dalla famiglia De Attellis: lo ha rivendicato il comune di Lucito; ma, agli occhi della nazione, Attellis e Lucito sono gli stessi, ed essa non avrà guadagnato nulla, se al comune
sarà permessa la stessa trascuranza del marchese. Questa stessa osservazione potrei ripetere per dieci o dodici luoghi diversi e dei più difficili della provincia.
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Nulla è più facile che fare una strada rotabile. Il sottointendente d’Isernia ne ha fatta una da Isernia a Boiano con poco più di dugento docati di spesa, precisamente perché ha saputo mettere in moto lo spirito pubblico ed ha saputo avvalersi dell’opera dei cittadini nel modo che io propongo. Questa strada fu decretata dal re Giuseppe; ma, se si fosse fatta colli metodi ordinari, sarebbe costata quaranta volte di più e non si sarebbe ancora incominciata. Quando il sottointendente la intraprese, vi fu chi non la approvò: l’esito ha mostrato che egli aveva ragione. Quella strada non è ancora rotabile in tutti i tempi dell’anno: non importa. Lo è per otto mesi: un altro poco di cura, e lo sarà per dodici. E questa cura da oggi innanzi sarà maggiore, dacché già se ne è incominciata a gustare l’utilità. Insomma bisogna incominciare: bisogna imprimere alle popolazioni il movimento che le porti verso le cose utili. Impresso il primo moto, correranno da loro stesse. E da riflettersi che le strade comunali non han bisogno di quello strato tanto alto e tanto solido che è necessario nelle strade regie, perché il consumo, che si fa delle medesime per ragion del traffico, è picciolissimo. E se in noi si avesse l'avvertenza di minorare questo consumo coi regolamenti sulle rote, se s’imitasse la legge di Francia dei...” noi avremmo non piccola parte delle strade del Regno, anche regie, belle e fatte. Le provincie di Bari e Lecce, per esempio, hanno un suolo pietroso e di sua natura più duro di qualunque strato artificiale che si possa dare ad una strada. Ma dal non aver mai avvertito a regolar le rote dei carri ne è avvenuto che le strade sono state rovinate dalle profonde impressioni che per lunghi secoli vi han fatto queste rote che comunemente abbiamo, e che al peso del carico della vettura aggiungono, onde degradare più presto il suolo, tutta la forza del cuneo. Come mai è sfuggita quest’avvertenza? Essa sola basterebbe a ristabilir le strade in molti luoghi del Regno, ed in molti altri diminuirebbe per metà la spesa della conservazione, che si potrebbe impiegare utilmente in costruzione di strade nuove. IV. Operazioni dei proprietari. Ostacoli che vengono dalla divisione. E questo è quello che dovrebbe fare l’amministrazione. Vediamo ciò che dovrebbero fare i privati proprietari.
Essi dovrebbero cangiare interamente il sistema dell’agricol? In bianco nel ms. [Edd.].
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tura. Se ne dovrebbe adottare uno che concimasse meglio le terre, che abolisse la necessità dei riposi, talché lo stesso spazio di terreno fosse atto ad esser coltivato ogni anno, ed ogni anno rendesse un prodotto maggiore di quello che dà oggi. Sarebbe necessario che si stabilisse quella specie di podere che presso di noi non è comune, e nella quale, dividendo un fondo discretamente grande in varie parti, si destina ciascuna di esse a vari usi, in
modo che il fondo sia nel tempo istesso addetto alla pastorizia ed a vari rami dell’agricoltura, tutti disposti ed ordinati in modo che l’intero fondo basti solo a se stesso e ciascuna parte, così combinata colle altre, dia un prodotto molto maggiore che se fosse isolata. In tale agricoltura le terre danno sempre un prodotto maggiore, perché sono sempre ben concimate, per la ragione che alimentano esse stesse gli animali necessari al concime; per ragione
dell’alternazione delle varie specie di coltura, non sono mai sfruttate, né hanno mai bisogno di riposo. La pastorizia cresce, perché diventa sedentaria e meglio nodrita; i boschi si risparmiano, perché questa specie di agricoltura porta con sé la moltiplicazione degli alberi almeno da servire alla pastorizia ed agli usi ordinari dell’aria. E questo è necessario farsi non solo nella provincia di Molise, ma in tutto il Regno: altrimenti il Regno intero cadrà nella miseria. A far questo è indispensabile l'istruzione. Di già nella provincia si è stabilita un’accademia di agricoltura: i membri che la compongono sono colti ed attivi per il pubblico bene. Si sono stabiliti vari semenzai, ed il tempo farà il resto. Ma intanto è da avvertire che il sistema delle proprietà territoriali della provincia è minacciato di un cangiamento, che non solo impedirà questo utile miglioramento, ma distruggerà in gran parte anche l’agricoltura attuale. Io parlo della divisione dei demani delle comuni già occupati e coltivati dai cittadini. Essi si debbono togliere agli antichi coloni e metterli di nuovo in divisione in forza del paragrafo...8, delle istruzioni dei.... Si stabilì un principio falso nella legge dei... Si disse che nei terreni co.munali non si poteva acquistare la servitù della colonia, perché non si può acquistar servitù nel fondo comune. Con un equivoco facilissimo a disciogliersi, si confuse l’agro comune coll’agro della 8 In bianco nel ms. [Edd.].
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comunità o sia della città, il quale, quando è deserto, si può occupare dai cittadini a fine di coltivarlo, purché se ne paghi al comune un canone?. Anzi non solo la legge ciò permette, ma invoglia i cittadini a farlo, e ragionevolmente, perché qual legislatore ha avuto mai in mira di aver deserti nei suoi Stati? Né poteva essere altrimenti. Le comuni han preceduto gl’individui. Pochi uomini, che si sono riuniti nelle origini della società, han formato una comune. Ma certamente non hanno avuto
i mezzi di coltivare tutto il territorio, che allora era superiore al loro bisogno. Che ne è avvenuto? Ciascuno ne ha occupato quella porzione che poteva coltivare, ed il rimanente, rimasto incolto, è
rimasto alla comune. A misura che la popolazione è cresciuta, questo agro incolto è stato occupato e coltivato. Vi può esser titolo più legittimo di questo? Questi fondi comunali, così occupati e coltivati, formano un
terzo delle terre del Regno. Coloro che li hanno coltivati non sono baroni, non sono prepotenti: sono i cittadini più utili dello Stato, perché ipiù industriosi; son coloro i quali, siccome dicono gl’imperatori Valentiniano, Teodosio ed Arcadio, han saputo riunire l’utilità privata alla pubblica. Ebbene a costoro, ad un quarto della popolazione del Regno, oggi si dice: — Uscite da quelle terre che legittimamente avete acquistate, che legittimamente avete finora possedute e coltivate, che sono ancora bagnate dal sudore dei vostri padri! — Si sperava che il nuovo ordine di cose avesse convertita in proprietà quella che era semplice colonìa, che l’avesse esentata dalla servitù civica, che avesse convertita in
canone pecuniario la prestazione del terraggio, che insomma avesse protetta l’agricoltura e l’industria. Vani sogni! Per un quarto della popolazione del Regno: — Uscite! — I Gracchi, almeno, si limitavano a voler dividere i terreni usurpati, quei terreni per li quali i grandi di Roma non pagavano nulla al pubblico, ed avevano usurpato senza titolo. E pure i Gracchi con la legge agraria sovvertirono Roma; e le leggi agrarie sovvertiranno qualunque società civile. Oggi si fa di più: si vogliono togliere le terre occupate secondo le leggi, e non occupate ma quasi censite con una prestazione annua e riconosciuta per secoli! E perché? Per far dei nuovi proprietari. Ma, quando questi nuovi proprietari si fanno a spese degli antichi, allora si di? Codice Giustinianeo, titolo De omni agro deserto [C.].
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strugge l'antica e la nuova proprietà. Nasceranno gli altri che si troveranno senza terra, e vorran distruggere anche essi quello che abbiam fatto noi. Non vi è proprietà senza il principio fondamentale della presunzione nascente dal possesso. E perché poi far tutta questa sovversione di proprietà? — Per vantaggio delle comuni? No, perché coloro i quali attualmente possedono e coltivano i terreni, non li possedono gratuitamente, ma ne pagano al comune un canone; cosicché al comune importa poco che questo canone l’esiga dal vecchio o dal nuovo colono. — Per vantaggio del governo? No, perché, qualunque sieno le disposizioni che si voglia prendere sui demaniali delle comuni, subentrando il governo in luogo di queste, si troverà nella stessa indifferenza relativamente ai proprietari. Per fare un vantaggio all’agricoltura? Essa si distrugge interamente. Le terre passeranno, dalle mani di coloro che le coltivano, a quelle di coloro che non avranno mezzi per coltivarle. Passeranno le terre, ma non passeranno i capitali necessari a coltivarle. Che passerà dunque? Passerà un danno, perché danno è una terra che io non posso coltivare, e sulla quale intanto io son costretto a pagare un canone al proprietario ed una imposizione allo Stato. Prima, le terre demaniali dei comuni e dei feudi si desideravano, perché non erano soggette a veruna imposizione verso lo Stato, ed il canone che si pagava al proprietario pagavasi solo quando si seminava.
Allora ciascuno diceva: — Se pagherò, sarà segno che avrò potuto seminare, e sarà bene. Se non potrò seminare, non dovrò
pagare, e non sarà male. In ogni caso, il tenermi la terra non sarà mai male, e potrà essere un bene. — Oggi è costretto a ragionar diversamente. L’obbligo di pagare è certo; la possibilità di seminare incerta: dunque la terra diventa un male. E difatti nella maggior parte del Regno si ricusano quelle che si offrono. Intanto chi teneva dei capitali addetti alla coltura di una certa porzione di terre, perdendo queste, li disvierà; chi teneva animali li venderà; chi teneva case rurali le disfarà, perché gli diventeranno inutili; e così, perdendo i capitali accumulati da tanti secoli, retrograderemo verso la barbarie. Né ciò è tutto ancora. Il Regno s’immerge in una guerra civile. Che importa che questa guerra sia colla penna e non colla
spada? Non sarà men vero che una metà della nazione diventerà inimica dell’altra. Queste terre, possedute in buona fede per tanti secoli, si trovano pignorate, date in dote, vendute: quante liti
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tra venditori e compratori, tra creditori e debitori! Nella provincia di Molise il male è tanto maggiore, quanto maggiore è l’estensione delle terre dei comuni. È tanto più irragionevole il farlo, quanto la divisione della proprietà (quella divisione che si ci formare la felicità economica di uno Stato, mentre non la forma)
è massima. Il numero dei possidenti è di 45.553 sopra una popolazione di circa duecentomila abitanti. Si vede chiaro che non vi è un capo di famiglia il quale non sia possidente. Che si pretende di più? L’idea dell’ottimo è il peggior nemico del bene. Volesse il cielo che nel nostro Regno mancassero le terre! Ma questo Regno, che ha alimentati fino a dieci milioni di abitatori, appena ne ha cinque, e da per tutto i lamenti sono per la mancanza delle braccia e non delle terre. A chi mai, di quanti han voluto acquistar terre, è stato difficile acquistarle? Le terre feudali, le terre demaniali dei comuni sono state sempre aperte al primo che le ha volute, e forse troppo aperte. Chi non ne ha, è segno che finora non ne ha volute, e non ne ha volute perché non ha potuto coltivarle. Il marchese Palmieri, uomo di quella intelligenza che tutta l'Europa conosce, quando fu ministro delle finanze, pensò anche egli alla divisione dei demani comunali e la promosse. Ma promosse la divisione di quei demani che ancora erano indivisi ed incolti, in quei comuni nei quali si trovavano cittadini che ne volevano. Non spossessò gli antichi possessori, né violentò i nuovi. Ecco un’operazione da saggio. Se si eccede questo limite, lungi dal procurarci nuova agri-
coltura, si distrugge l’antica. GAME terre, per l'incertezza del donna sono state abbandonate per un quarto. È vero che a
questa dinimuzione difeeminals0no concorse altre cagioni; ma, quando tante altre cagioni operavano, era egli opportuno di aggiungerne un’altra, e potentissima? Già molti animali si dismettono. Tra poco si ruineranno anche le case rurali, perché non avranno quell’ampiezza di territorio che avevano quando furono fabbricate, ed in conseguenza, non potendo il padrone esercitar
l’antica industria, diventeranno inutili. E tutto questo perché? Non per fare un vantaggio ai comuni, non per farne uno verno, non per farne uno ai nuovi proprietari, molti dei saran costretti ad abbandonare le terre che loro si voglion Ecco dove ne conduce una falsa idea di ottimo, sempre, diceva Montesquieu, capital nemica del bene.
al goquali dare! come
II Le regioni economiche
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V. Opere pubbliche: ponti e strade. Le principali tra le opere pubbliche necessarie alla provincia sono: 1. La strada che da Napoli conduce a Campobasso e da Campobasso a Termoli per la via di Casacalenda; 2. La strada che da Isernia conduce al Vasto. Queste due strade scorrono però lungo i due confini della provincia, e pel commercio interno della medesima sarebbero indispensabili due traverse: una da Campobasso ad Isernia per la via di Boiano, l’altra da Campobasso al Vasto per la via di Trivento. Ho parlato della prima. La seconda è di più difficile e dispendiosa costruzione per la natura del suolo più ineguale e più lamoso. Ma io sono persuaso che, quando si adottassero i metodi praticati per la prima, quando si stabilisse quel piano uniforme di opere pubbliche comunali del quale ho già parlato, si otterrebbe questa seconda colla stessa facilità della prima. La traversa che si desidera non sarebbe altro che la continuazione delle varie strade comunali. Queste due traverse sono egualmente necessarie: la prima per la parte montuosa della provincia, la seconda per la piana. Una non può supplire all'altra. La seconda sopra tutto è necessaria pel commercio dei grani, perché apre il mercato di Campobasso, e quindi della capitale, alla parte più granifera della provincia. La strada regia che da Napoli va a Campobasso è già finita fino a Pontelandolfo. Il ponte sul Calore è al suo termine, ed è un’opera che fa molto onore all’autore. Manca ancora un piccolo ponte, ma indispensabile, sul torrente che passa a Pontelandolfo. A compiere la strada da Pontelandolfo a Campobasso occorrono altri ducati trentamila circa. Onde trarli per farla presto? All’epoca del Consiglio, l’intendente Zurlo, come presidente della commissione delle opere pubbliche, fece osservare che il re Giuseppe aveva donati alla provincia circa ducati quarantamila di fondi, per vendersi ed impiegarsi il prodotto a terminare la strada. Ma i tempi non permettono di sperare un compratore.
Voler finire la strada col miserabile prodotto dei fondi medesimi è lo stesso che non finirla mai: prima che si faccia una parte, sarà disfatta l’altra. Egli perciò proponeva di cedere i fondi alla provincia, la quale ne avrebbe pagato il prezzo in quattro anni alla ragione di diecimila ducati all’anno; e così in quattro anni si sarebbe avuta la strada, ed alla provincia sarebbe rimasto sempre
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un fondo che le dava circa duemila ducati all’anno per le spese provinciali. Il progetto era plausibile; ma la provincia è essa in istato di pagar diecimila ducati dippiù all’anno? Il Consiglio ha creduto che questo era impossibile, ed io lo credo al pari del Consiglio. Io proposi una tontina sui fondi medesimi. Allora si avrebbero trentamila ducati in due anni, e la strada si farebbe più presto, e, finito il tempo della tontina, i fondi ritornerebbero di nuovo a disposizione della provincia per disporne per qualche altra opera pubblica. Il progetto piacque al Consiglio. Forse tra li principali possidenti della provincia si troverebbe il numero sufficiente di azionisti, purché il progetto della tontina fosse organizzato sulle basi della buona fede e della sicurezza. Dopo le strade, le opere pubbliche più necessarie sono i ponti sul Biferno. Non possono essere opere comunali, perché la spesa sormonterebbe le forze delle comuni limitrofe. Esistono ancora i pilastri di un ponte antico nel territorio della Petrella. Perché non esaminare se possono servire alla costruzione di un nuovo?
Gli archi non avrebbero una corda molto lunga, e forse potrebbero farsi di legno. VI. Edifici pubblici. Pochi e meschini monasteri sono in gran parte diroccati dal tremuoto, e, ciò che è peggio, vanno di giorno in giorno in rovina totale per lo abbandono in cui restano. Forse era meglio conservarvi i monaci fino al momento in cui il governo ne poteva far uso. Per quanto pochi siano gli edifici pubblici, ve ne sarebbero abbastanza per allogarvi con non grandissima spesa un orfanotrofio, un liceo, una casa di educazione per
le donne, ecc. Dobbiamo dire come Socrate rispondeva a colui che gli rimproverava di abitare una picciola casa: — Volessero gli dei e la potessi riempire tutta di veri amici! — In generale gli edifici della provincia sono cattivi, e lo saranno sempre finché i cittadini non si coopereranno a costruir bene. Campobasso, per esempio, manca di case di abitazione, ove che
la residenza delle molte autorità ne ha reso il bisogno più grande; non ha strade interne, non una fontana per acqua da bere. Campobasso, diventata capitale di una provincia e centro di grandi affari, crescerà; ma crescerà in modo conveniente al suo nuovo
stato? Ma quanto più crescerà, tanto più sarà brutta e disadatta. Perché? Perché si accresce senza disegno, perché si lavora senza un piano generale.
III. Le regioni economiche
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Quanto poco costa il far bene! Si spende molto a fare un bell’edificio; e, quando questo si trova in mezzo a dieci altri cattivi, non contribuisce per nulla alla bellezza della città. Se si formasse un piano regolare della città intera, si avrebbe in poco tempo una città bellissima, con nessuna spesa del governo. Ai privati tanto costa il bello quanto il brutto: basta presentarlo questo bello e farlo eseguire. Sarebbe necessario che ogni città (non escludo
neanche Napoli), ogni terra, ciascuna secondo la sua grandezza, si formasse un piano stabile della sua costruzione interna, disposto in modo che riunisse la massima comodità, salubrità e bel-
lezza possibile. I cittadini sarebbero obbligati ad uniformarvisi tutte le volte che volessero costruire. Con questo metodo, tutto sarebbe rinnovato in meglio ed in poco tempo. Con questo metodo, Torino è divenuta una delle più belle città d’Italia. Questo
metodo si è adottato in Milano. Noi soli fabbricheremo sempre per isfabbricare, ed isfabbricheremo per non saper rifabbricare?
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IV IL NUOVO
REGIME
E LE GRANDI RIFORME
1. Una visione d’insieme: il resoconto del ministro Zurlo* Sire, il corso degli anni 1810 e 1811 ha sviluppato tutte le istituzioni che Vostra Maestà avea preparate, e di cui lo stato del 1809 non contenea se non le sole speranze. Rivolta all’amministrazione interna, ed agli studi della pace, Vostra Maestà ha incominciato, ha proseguito, ed ha perfezionato tutto quello che serviva a rimontare la macchina morale e politica della monarchia. Se ne presentassi i soli risultati generali, io nasconderei una dell’essenziali parti degli atti del vostro governo, e toglierei al prospetto di tutte le opere interne la parte più utile dello scopo a cui esso serve, qual è quello di additare a Vostra Maestà lo stato ultimo di ciascun ramo di amministrazione. Soffra dunque Vostra Maestà, che insieme coll’esposizione di tutte le istituzioni fatte nello spazio di questi due anni, io le presenti ancora quella parte di dettagli che possono rendere ragione dell’operato, o mostrare il punto d’onde debbano essere proseguite.
Amministrazione interna. Dopo il sistema dato da Vostra Maestà all’amministrazione interna col decreto dei 16 di ottobre 1809, l’amministrazione pubblica ha nei due scorsi anni esegui* Da [Giuseppe Zurlo], Rapporto sullo stato del Regno di Napoli per gli anni 1810, 1811 al Re nel Suo Consiglio di Stato dal Ministro dell'Interno, Angelo Trani, Napoli, pp. 3-30, 55-73. Il rapporto, datato Napoli, 20 aprile 1812, contiene ancora sezioni su Istruzione pubblica, Amministrazione della giustizia, Guerra e ma-
rina.
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
to, e perfezionato quello che trovavasi già ordinato. La formazione dei budjet di tutti i comuni non solo è stata compiuta nell’anno 1810, ma la di loro discussione annuale si è messa in corrente. È stata ugualmente fissata ed eseguita la norma per la contabilità comunale, e Vostra Maestà col decreto dei 26 settembre e colle istruzioni dei 26 ottobre 1811 ha assicurato l’esecuzione della legge che regola l’uso delle rendite, e che fissa la misura dei pesi dei comuni. Con queste due operazioni l’amministrazione comunale, così disordinata per lo stato in cui teneala il vecchio sistema, e per tutti icambiamenti sopravvenuti, è diretta da una regola semplice, ed è messa sotto l’immediata vigilanza del governo. Si è potuto con questo mezzo entrare nei più minuti oggetti dell'economia dei comuni. Si è fissato un modo regolare di percezione per le diverse rendite, delle quali il loro stato attivo si compone; sono stati discussi, ampliati o ridotti i loro diversi
esiti; si è finalmente conosciuto qual è lo stato di tutti i comuni del Regno, quali i miglioramenti dei quali la loro amministrazione è capace. Prodotto di questa diligente e penosa operazione è il seguente prospetto. Stato del 1810 Rendite patrimoniali Grani addizionali sulla
ducati
954.896,52
Lire
4.201.544,68
fondiaria, e personale
22350707825
981.539,81
Dazi di consumo Rendite straordinarie
1.701.846,04 IDSS55R0
7.488.122,57 696.762,48
Totale
Spese ordinarie
3.038.174,90
ducati
Straordinarie
1.666.317,84
13.367.969,54
— Lire
524.620,45
Imprevedute Totale
Avanzo
7.331.798,49 2.308.329,98
DISOSZIZO
2.3115.942512
2.730.470,59
12.014.070,59
307.704,31
1R95PESIZISD
Stato del 1811 Rendite patrimoniali Grani addizionali sulla fondiaria, e personale
Dazi di consumo
Rendite straordinarie Totale
ducati
1.425.306,53
Lire
6.271.348,73
240.835,42
1.059.675,84
1.368.676,18
530.629,58
610224175519 2.334.770,15
3.565.447,71
15.687.969,91
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
Spese ordinarie Straordinarie Imprevedute Totale Avanzo
ducati
189
1.535.020,89 1.012.438,25
Lire
6.754.091,92 4.454.928,30
529.983,86
2.331.728,98
3.077.443,00 488.004,71
13.540.749,20 2.147.220,71
La differenza fra le spese del 1810 e quelle del 1811 nasce da oggetti ed opere utili eseguite nel secondo anno. Del rimanente ciò che è importante per l’amministrazione interna è che le rendite patrimoniali dei comuni sono cresciute nell’anno 1811 di annui ducati 470.411, ossia lire 2.069.804, e che si sono tolti di dazi comunali, i quali gravitavano su i poveri, annui duc. 280.904,86, ossia lire 1.235.541,38. Quanto alle spese, sull’ar-
ticolo delle spese varie si è ottenuto un risparmio di duc. 197.274,57, ossia lire 868.008,10. Gl’Intendenti ugualmente che il Ministro conoscono ad ogni passo lo stato e l'andamento delle amministrazioni comunali, e possono fare rientrare nei loro doveri gli amministratori che si allontanassero dalle disposizioni dei budjet. La facilità di dirigere da lontano l'economia complicata di tutti questi corpi morali è risposta nei registri, e nel sistema di contabilità stabiliti presso ciascuna Intendenza, e presso il Ministero dell’Interno, il quale apre i conti sulle basi dei budjet, e conosce la spesa fatta con i bilanci che in ogni quadrimestre ed in fine dell’anno rimettono gl’Intendenti. Ma uno dei più grandi ostacoli a determinare i pesi dei comuni ed a fissare la regola della loro spesa era la gran massa dei conti arretrati dei comuni stessi, e degli stabilimenti compresi sotto l’amministrazione comunale. Questo disordine dipendea da vecchie cagioni. La complicazione dell’antico sistema di amministrazione, il rilasciamento di disciplina ch’erasi in questa parte introdotto per la mancanza di autorità locali e per l'impossibilità in cui era l’antica Camera della Sommaria residente in Napoli di provvedere alla buona amministrazione dei comuni e di vigilare al rendimento dei loro conti, aveano sempre rendute elusorie tutte le leggi del Regno, ed aveano fatto sì che cominciando dai conti dei comuni e discendendo a quelli di tutti i rami che ne dipendeano, v'era una serie di conti, o non dati, o non discussi. Le conseguenze di questo disordine, prese dal tempo più vicino a noi, imbarazzavano l’amministrazione corrente. Prescindendo
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
dal cattivo esempio che portava seco l’impunità abituale della malversazione, l’arretrato dei conti privava i comuni di molti avanzi certi rimasi nelle mani degli amministratori poco fedeli, ed in molti casi offendeva la giustizia, poiché creditori di somme certe e di denaro somministrato ai comuni nei tempi del loro maggior bisogno, ed amministratori fedeli che erano rimasi creditori in esito della loro amministrazione, erano defraudati del
rimborso loro dovuto. Per tali ragioni dopo di essersi dato sistema all’amministrazione corrente, si sono per mezzo di commis-
sioni straordinarie locali sottoposti a rendimento di conti tutti gli uffiziali municipali e gli amministratori di rendite e di stabilimenti comunali dall’anno 1800 a questa parte. Perché questa importante operazione si ottenesse nel più breve tempo possibile, Vostra Maestà divise in più sezioni i consigli d’Intendenza; destinò una di esse per molti distretti, ed in altri scelse per componenti delle suddette commissioni le persone le più distinte per probità e per intelligenza. Questi conti ch’erano nel numero di più di ventimila sono stati per la massima parte discussi, e non rimane col finire del 1811 se non una piccola parte di questo importantissimo lavoro, il cui risultato ha. sinora procurato il ricupero di circa ducati 500.000 d’avanzi a favor dei comuni, e la soddisfazione di circa ducati 400.000 di debiti ch’erano rimasi non soddisfatti. Un altro mezzo alla buona amministrazione dei comuni è stato l’avere agevolato l’interne comunicazioni delle provincie per la corrispondenza officiale colle diverse autorità, oggetto che sino a questo punto avea formato un articolo di spese straordinarie, le quali, essendo tutte arbitrarie ed accidentali, si faceano
ascendere a somme eccessive e sbilanciavano lo stato ordinario dell’amministrazione. Questo era il disordine di cui l’amministrazione stessa avea a dolersi, prescindendo dall’altro che ne risentiva il traffico ordinario e giornaliero delle popolazioni fra loro. Vostra Maestà ha fatto fissare con certo itinerario la corrispondenza periodica da luogo a luogo, e mercé una picciola retribuzione ammessa fra le spese ordinarie dei comuni gli ha preservati da esiti eccessivi, ed ha sotto l’aspetto dell’amministrazione e del traffico pubblico procurato un comodo indispensabile alla vigilanza dell’uno ed al bisogno dell’altro. L’ostacolo maggiore alla facile comunicazione delle diverse parti delle provincie fra loro nasceva dalla poca opportuna divi-
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
1iSAL
sione di queste. Il Regno traversato quasi per l’intiera sua lunghezza dalla catena degli Appennini presenta una divisione molto facile, a meno che non si volesse con la picciolezza della suddivisione supplire alle difficoltà dei siti, ed all’impervietà naturale delle parti montuose. Forse potrebbe questa difficoltà diminuirsi adottando un progetto di divisione più analogo all’andamento naturale delle montagne e dei fiumi principali del Regno, ma questi progetti incontrano sempre la resistenza delle relazioni già formate, e degli abiti contratti, i quali hanno vinto gli ostacoli della località, e prescindendo dalle ingenti spese che la moltiplicazione delle divisioni porterebbe seco, esse sconvolgerebbero in tutti i rami il sistema dell’amministrazione interna. Quindi l’espediente più prudente è quello di correggere in dettaglio i maggiori inconvenienti dell’antica divisione civile, e di sagrificare una parte della simmetria naturale e del comodo futuro possibile, al comodo attuale ed alla conservazione del sistema a cui i popoli sono accostumati. Vostra Maestà persuasa di queste ragioni e di queste difficoltà, dopo di avere discusso tutti i progetti fatti sulla nuova divisione di alcune provincie del Regno, ha creduto di doversi meglio attenere ad una suddivisione di distretti, e ad una migliore circoscrizione del loro territorio, suddividendone alcuni degli antichi, ed aggregandone altri a diverse provincie: lasciando sussistere la divisione principale delle attuali quattordici provincie del Regno, e rimettendo ad altro tempo l’esame della suddivisione di queste. Questa operazione fatta col decreto dei 4 maggio 1811 ha tolto gl’inconvenienti principali dell’antica suddivisione, ed ha agevolata la corrispondenza, e quindi l’amministrazione interna delle provincie. ch Dopo d’aver dato conto a Vostra Maestà delle operazioni generali che hanno migliorato lo stato morale di tutti i comuni del Regno, e quindi anche l’individuale dei loro abitanti, debbo mettere sotto gli occhi di Vostra Maestà le particolari disposizioni date per alcuni comuni, la condizione dei quali è stata così mutata dall’effetto di esse, che il loro nuovo stato merita di prender luogo fra le principali operazioni del tempo a cui appartengono. La città di Lucera, fondazione angioina, avea ricevuta una
ricca dote di terre che avrebbero dovuto distribuirsi con determinate proporzioni a ciascuno dei suoi abitanti, secondo la classe a cui apparteneva. Questa concessione era fatta sotto il vincolo d’una primogenitura, coll’obbligo della riversione al demanio co-
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
mune nel caso dell’estinzione dei chiamati, e con diverse altre condizioni, le principali delle quali erano la residenza necessaria dei concessionari in Lucera, ed il divieto di mutare la superficie delle terre concedute. La distribuzione agraria delle terre scadute, le usurpazioni che le classi superiori aveano commesso sulle inferiori, e le contravvenzioni agli statuti della concessione aveano formato il soggetto di liti secolari fra il ceto dei nobili e quello dei poveri. Il legame nascente dalla sostituzione fedecommessaria era risoluto dalla legge, le condizioni che restringevano l’uso
della proprietà e la libertà del domicilio erano contrarie all’interesse pubblico; il diritto di riversione per molte porzioni era prossimo a verificarsi. Tutte queste ragioni rendevano necessario il correggere una parte degli antichi abusi, ed il distribuire le terre scadute o prossime a scadere con più giustizia di quello che erasi sinora fatto. Quindi Vostra Maestà transigendo il diritto di riversione colla risega della quarta parte delle rispettive porzioni, e transigendo allo stesso modo alcuni altri abusi, che sebbene contrari alla condizione primitiva della concessione aveano in loro favore il lungo possesso, ha dichiarato libere proprietà delle attuali famiglie le porzioni rispettive, ha esonerato i possessori di esse da ogni restrizione, ed ha diviso così le antiche terre scadute, come quelle acquistate con le riseghe, a tutti i cittadini non possidenti. Non v'è stata operazione nella quale sieno tanto convenuti gli animi di tutti quanto in questa. Con una misura piena di giustizia e di prudenza Vostra Maestà ha soddisfatto i desideri di tutti i Lucerini, gli ha creati tutti proprietari, ed ha per la prima volta rendute utili le concessioni dei sovrani angioini, che lungi dal fare ricca Lucera, lo aveano renduto il paese più povero e meno industrioso della Puglia. Un provvedimento di diverso genere, ma ugualmente saggio
e generoso ha mutato lo stato del comune di Montesantangelo. Questo comune, non potendo sostenere le catene della feudalità, ricorrendo all’espediente che le leggi di quel tempo permetteano proclamò nel 1802 al regio demanio, o sia ricomprò se stesso per lo prezzo di ducati dugentoquarantatremila, dei quali rimase debitore allo Stato, obbligandosi a pagarli fra un determinato numero di anni colla garanzia dei suoi principali cittadini. L’abolizione della feudalità avvenuta pochi anni dopo, avendo fatto mancare molti dei corpi e diritti comprati, e l’amministrazione comunale avendo peggiorato lo stato della rendita e dei corpi
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
193
rimasi, si trovarono minacciati della rovina il comune e tutti i
principali cittadini obbligati per la soddisfazione del debito. Vostra Maestà ha dichiarato che non volea punito il comune di Montesantangelo per avere prevenuto gli altri nel desiderio di sottrarsi ai legami della feudalità, ha dichiarato risolute tutte le obbligazioni contratte dal comune collo Stato, gli ha rimesso il debito, ha fatto liquidare le proprietà comunali insieme con la parte d’accantonamento dovutagli per la divisione dei demani feudali, ha assunto in somma sopra di sé tutta la perdita avvenuta per le circostanze posteriori, ed ha messo Montesantangelo nello stato di tutti gli altri comuni del Regno. Una esistenza intieramente nuova ha dato Vostra Maestà al comune di Ateleta negli Abruzzi. Moltissime famiglie di antichi coltivatori stabilite in alcuni terreni feudali sosteneano da più di trent'anni una lite rovinosa con i loro ex-feudatari, che pretendeano di espellerli come ne aveano già espulsi altri stabiliti in altri contigui terreni. Essi aveano più volte impetrata l’autorità del governo per potersi unire in comunità, ma la loro domanda rimessa al tribunale della Sommaria avea, non si può intendere per qual ragione, meritato un voto negativo. La commissione feudale ha emendato una così lunga ingiustizia, dichiarando perpetui questi coloni, e riducendo le loro obbligazioni alla giusta misura del diritto. Vostra Maestà gli ha eretti in comunità, ha fatto costruire in una forma regolare la loro nuova città, ha dato loro un mercato, e gli ha esentati per cinque anni da ogni imposta fondiaria. Questi belli provvedimenti non sono se non l’esempio di ciò ch’è stato fatto quasi in tutt’i comuni del Regno, la sorte dei quali insieme con quella dei loro abitanti è stata intieramente cangiata, così colle provvidenze e con i benefizi particolari, come colle sovversioni dei diritti feudali, e coll’ordine stabilito nel-
l’amministrazione interna. Feudalità e divisione dei demani. Era stato prefisso alla commissione feudale il mese di agosto 1810 come il termine fra il quale essa dovea compiere il suo lavoro, e spedire tutte le decisioni sui gravami dei comuni contro ai loro ex-feudatari. Questo magistrato corrispose esattamente agli ordini di Vostra Maestà ed al fine della sua istituzione, e mercé le giuste direzioni, l’attività, e la perseveranza impiegate da Vostra Maestà per portare
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
al suo termine un’operazione così importante, sono finite in poco
tempo le liti secolari, e quasi coeve alla monarchia, che aveano tenuto sempre acceso lo spirito di partito fra le popolazioni ed i baroni, e che erano per lo più la conseguenza delle prerogative e dei privilegi odiosi accordati ai baroni stessi in detrimento dell'interesse generale della nazione. La collisione degl’interessi privati colla quale le decisioni della commissione sono state pronunziate richiedea che una mano ugualmente giusta e forte ne avesse diretta l'esecuzione, che questa esecuzione fosse fatta con uniformità e nel senso delle decisioni stesse; che si evitassero le controversie che sotto il pretesto d’interpretazione, o di eccesso di
esecuzione, avrebbero potuto rimenare innanzi ad altri giudici le dispute già terminate. E siccome l’esecuzione di molti articoli delle suddette decisioni coincidevano colla divisione dei demani, alla quale operazione Vostra Maestà avea preposto in ciascuna provincia un suo commissario speciale, così con sano consiglio Vostra Maestà determinò, anche prima che la commissione feudale giugnesse al suo termine, che gli stessi commissari, sotto la vigilanza del proccurator generale della stessa commissione, avessero fatto eseguire le suddette decisioni. Questa operazione non meno importante della prima è stata compiuta nel corso dell’ultimo anno; le proprietà degli ex feudatari sono state garantite; i loro diritti sulle terre demaniali sono stati separati da quelli dei comuni; le servitù e i diritti abusivi esercitati sulle proprietà pubbliche o private sono stati soppressi. Non potendo rivocarsi in dubbio la giustizia e la necessità di questa operazione, non il fine e le intenzioni benefiche e disinteressate del governo, potrebbe solo cadere in esame se i mezzi adoperati per giungervi sieno stati così plausibili, com'è il fine stesso che essi si proponevano. Fra due mezzi soli avrebbe potuto aggirarsi la scelta: o che una legge espressa avesse dichiarato estinto tutto quello ch’era la conseguenza dell’abolizione della feudalità, o che la mano del giudice fosse andata caso per caso sopprimendo quello che avesse riconosciuto abusivo e contrario sia alle leggi antiche, sia alla stessa legge abolitiva della feudalità. Fra questi due mezzi, astrazione fatta dalle circostanze particolari del Regno, non v'è chi non preferirebbe il primo come quello che contiene la sicurezza dell’effetto, che provvede alla uguaglianza ed all’uniformità dell’effetto medesimo, che tronca dalle loro radici le controversie particolari, requisiti tutti che in un’o-
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
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perazione generale entrano nel fine e nell’essenza della stessa legge. Ma una legge di questa natura conviene che fissi bene i dati necessari alla sua applicazione, e che tutto quello che si sopprime, o cada espressamente sotto disposizioni particolari, o sia in-
dicato per esempi i quali spieghino l’applicazione al fatto dei principi e delle disposizioni generali. Le leggi per l'abolizione della feudalità nell'Impero francese presentano gli esempi di questo diverso modo di ordinare. Le leggi dei 25 agosto 1792 e dei 17 luglio 1793, applicate con i posteriori decreti imperiali al Piemonte e agli Stati di Genova, di Parma, di Toscana e di Roma, dopo aver distinto le rendite fondiarie dalle feudali, dichiararono fondiarie quelle sole, che avessero per causa una concessione primitiva di fondi, quando una tal causa si facesse costare coll’atto primordiale d’infeudazione, o di concessione. Così fissato il senso dell’eccezione, rimasero definite tutte quelle ch’erano contenute nella regola generale dell’abolizione. Un diverso metodo, ma ugualmente chiaro, fu tenuto da S.M.I. e R. per l’abolizione della feudalità nei quattro dipartimenti della riva sinistra del Reno, fatta con decreto dei 9 vendemiale anno 13. L'Imperatore volle acquistare idea dei diversi diritti che gli ex-feudatari esercitavano nelle loro terre, e adoperata perciò una commissione di giureconsulti, dichiarò specificamente quali fossero le rendite che dovessero presumersi fondiarie, e perciò conservate; quali feudali e per conseguenza abolite. Un simile sistema ha seguito il decreto dei 9 dicembre 1811 per l’abolizione della feudalità nei dipartimenti delle bocche dell'Elba, delle bocche del Weser, e dell’Ems superiore. Leggi così fatte istruiscono gl’interessati nei loro diritti, e danno alle autorità pubbliche una norma sicura per applicarle. Ma la legge dei 2 di agosto 1806, sebbene un’esperienza di secoli avesse fra noi messi a giorno i flagelli della feudalità, non solo non definì ciò che essa aboliva, e quel che conservava, ma seguì una distinzione intieramente diversa. Distinse tutte le rendite e prestazioni in reali, personali e giurisdizionali; conservò le prime; abolì le seconde; abolì pure le terze, ma sottoponendo lo Stato all’obbligo d’indennizzarne i possessori. Più: lasciò i diritti litigiosi nello stato in cui erano prima della legge. Finalmente rinunciò a favore dei feudatari l’eminente o diretto dominio dei
feudi, ed il diritto della devoluzione. Senza entrare nei giusti motivi che dettarono questa legge, analizzandola solamente per i
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
suoi effetti, lo Stato si spogliò di tutto'il suo patrimonio, si sottopose al rimborso di tutto quello ch’era feudale, abolì solamente quello che era abusivo; ma l’abolì in principio, non in fatto, poiché restava classificare quello che dovea aversi, o che dovea presumersi per personale, o per reale. La qual cosa facea sussistere tutte le antiche liti, assicurava agli ex-feudatari i vantaggi dell’abolizione della feudalità, e relativamente alle popolazioni forniva agli stessi ex-feudatari un’arma di più per sostenere come reale anche quello che come personale la legge avea inteso di abolire. Anche in questo stato di cose una seconda legge avrebbe potuto spiegarlo; ma la saviezza del vostro Augusto predecessore, istruito dall'esperienza che qualunque altra dichiarazione generale sarebbe riuscita inutile, vedute le circostanze in cui si tro-
vava ancora l’amministrazione della giustizia, veduta la debolezza dei comuni e dell’amministrazione allora nascente, e l’ascen-
dente di cui godevano tuttavia gli ex-feudatari; conoscendo altronde la necessità di far decidere eziandio tuttociò ch’era da secoli litigioso, cumulando insieme l’uno e l’altro obietto, creò una commissione, la quale facesse eseguire la legge nuova, e per tuttociò che questa riconoscea come legittimo, avesse giudicato definitivamente e fra il termine di un anno le antiche controversie. E mia opinione che Vostra Maestà posta nel luogo del suo saggio Predecessore avrebbe adottato lo stesso espediente; ma qualunque sia il mezzo che avrebbe preso se avesse dovuto intraprendere per la prima volta questa operazione, avendola trovata così avviata nel tempo del suo felice avvenimento al trono, non v'era altro partito a seguire se non il perfezionare quello che trovavasi incominciato, ed il rendere efficace un provvedimento, che non ostante la decisa volontà sovrana era dai privati interessi contrariata. Io debbo, o Sire, chiudere l’articolo della feudalità
col prospetto dei motivi che l’hanno suggerita. Gli espedienti presi non solo non hanno derogato alle regole comuni dell’amministrazione della giustizia, ma sono stati fondati sull’esempio di quello che è stato per l’addietro praticato nella medesima materia, e sono stati suggeriti dalle ragioni le più urgenti di utilità pubblica. Se il vostro Augusto Predecessore dichiarò inappellabili le decisioni della commissione, inappellabili pure erano le decisioni del Sacro Consiglio e della Sommaria a cui per costituzione del Regno furono in diversi tempi delegati i giudizi dei
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gravami fra le popolazioni e i baroni; inappellabili furono le decisioni della commissione istituita da Carlo V nel 1536. Se le delegò non solo il giudizio delle gravezze feudali, ma tutte le liti fra i baroni ed i comuni di qualunque natura; ciò non solo è conforme a quello che è stato per l’addietro praticato, ma era assolutamente necessario, poiché tutte le liti che diconsi di proprietà si riattaccano colle gravezze ex-feudali. Il barone esigeva la decima sulle proprietà particolari, e sosteneva che aveva diritto di esigerla, perché i fondi erano stati da lui conceduti con questo peso. Si trattava dunque di vedere se i fondi gli erano o no appartenenti. Questa quistione era di proprietà, ma era insepara-
bile dal giudizio delle gravezze. Il barone esercitava diritti sui pascoli, e sui demani comunali, e gli esercitava in concorso coi comuni. Ciascuno diceva che i propri diritti erano figli della proprietà e del dominio. Per giudicare adunque anche della proprietà di questi diritti, bisognava conoscere a chi appartenesse la proprietà del fondo o del demanio in quistione. I baroni aveano occupato ora per ragione di credito, ora per altro pretesto i demani dei comuni. Una prammatica del 1650 gli aveva obbligati a rilasciargli. Questa per la maggior parte dei casi non fu eseguita. Una seconda legge fatta nel 1729 aveva ordinato la stessa cosa. Neppure fu eseguita ad eccezione di pochi comuni che poterono elevare la loro voce. Una commissione speciale creata dagli Austriaci fu incaricata di far eseguire queste reintegrazioni. La commissione fu sciolta per maneggio degl’interessati, allorché sopravvenne il governo dei Borboni. Queste erano liti di proprietà, ma di una proprietà distrutta da leggi attualmente in vigore, e ritenuta a dispetto del governo col mezzo della forza, e dell’abuso della giurisdizione. Vostra Maestà ha fatto eseguire una legge rimasta per la maggior parte dei casi ineseguita per due secoli. Queste sono le liti di proprietà che ha giudicate la commissione. Quando anche fossero state tutte vere quistioni di proprietà,
era della saviezza della Vostra Maestà di rendere una misura straordinaria, onde far terminare liti che duravano da secoli per la sola preponderanza di una delle parti. Se tutti i mezzi che per l’addietro il governo ha messo in opera per far terminare queste liti sono riusciti infruttuosi per secoli, dovea forse piegar la fronte in faccia all'abuso, e per non violare la proprietà degli occupatori, consentire alla rovina di tutti i comuni, cioè di tutto il patrimonio pubblico? Una delegazione particolare era in questo
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caso comandata imperiosamente dalle circostanze, tantopiù che infiniti esempi se ne trovano in tutti i tempi ed in tutti i dipartimenti per motivi assai meno urgenti di questi. Questi giudizi sono stati trattati con tutta la maturità, e con l'osservanza di tutte le forme essenziali. Il vostro Augusto Predecessore assegnò alla commissione il termine di un anno; Vostra Maestà lo ha prorogato insino al terzo. La commissione nel tempo del vostro avvenimento fu accusata di lentezza, e fu questo uno dei motivi per i quali si dubitò se essa poteva riuscire in tutto il lavoro commessole. Il primo argomento dunque della maturità con cui sono state pronunziate le sue decisioni è il tempo che la commissione stessa vi ha impiegato. Indipendentemente da questa presunzione i giudizi della commissione hanno meritato la fiducia di tutte le parti interessate, così per le persone che gli hanno pronunciati, come per i principi sui quali sono stati fondati. Quanto ai suoi componenti la commissione è stata formata dai più scelti fra gli antichi magistrati, che o per l’esperienza avutane nei vecchi tribunali, o per i loro studi furono riputati i più periti nella materia. Quanto poi al fondo di queste dicisioni, esse sono motivate ed impresse. Sarà per conseguenza permesso di
notare i principi forse malamente assunti, se mai ve ne siano; il tempo mostrerà che la commissione ristretta fra i limiti d’un giudice ha trattato per casi particolari e sotto un aspetto relativo ai diritti delle parti quello che una legge generale e l’interesse pubblico avrebbero ordinato in un senso anche più esteso. La collezione delle sue decisioni sarà un codice prezioso per la storia del Regno, e risponderà con i fatti permanenti e con i più ovvi principi della giustizia a tutto quello che potrebbe dirsi da qualche interessato, al quale fosse riuscita nuova l’imparzialità e la forza dei magistrati. In somma con questa operazione Vostra Maestà ha abolito tutti i diritti sulle persone e tutte le privative, che anche dopo l’abolizione della feudalità si possedeano dagli exfeudatari; ha sgravato al più gran parte delle proprietà private
dalle servitù e dai redditi feudali; ha conservato agli ex baroni quei diritti e prestazioni, che erano la conseguenza di un legittimo dominio; ha liberato specialmente le terre dalle innumerevoli servitù di pascolo che inceppavano e distruggevano l’agricoltura e la proprietà; ha separato i demani dei comuni da quelli
degli ex-feudatari; ha renduto la libertà alle acque, che la feudalità avea tolto all’uso comune, imprimendo loro una nota di ser-
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vitù; ha sgravato il patrimonio dei comuni da una quantità di prestazioni imposte loro dai baroni contro a tutte le antiche leggi del Regno, ha fatto finire tutte le liti, che la debolezza del governo avea fatte nascere, e che l’interesse dei potenti avea eternate. In somma questa è fra le vostre opere quella che ha riscosso la riconoscenza dalla nazione intiera, che ha formato il soggetto dei ringraziamenti di tutti i consigli provinciali, e che è stata terminata in modo che dei mali e delle vestigie della feudalità non ne resterà fra noi il nome se non per ricordarci del Principe che ce ne ha liberati. Una esposizione più compiuta sarà contenuta nella storia degli abusi feudali, che Vostra Maestà ha fatto scrivere, e di cui una parte è stata già pubblicata. Vostra Maestà che sa promuovere gl’ingegni come sa intraprendere e perfezionare le grandi opere, ha voluto che lo stato del Regno relativamente alla feudalità, ed i motivi che hanno regolata la condotta del governo fossero messi sotto gli occhi di tutta l'Europa; ha scelto per questo lavoro il magistrato di sua confidenza il quale ha diretto le operazioni della commissione. Questa produzione che è degna della stima di tutti i dotti, illustrerà presso la posterità l’importanza e gli effetti del beneficio che Vostra Maestà ha renduto alla giustizia ed alla libertà civile; le mostrerà che il popolo di Napoli dee alla saviezza del suo principe quello che in altri paesi è stata l’opera del tempo o degli accidenti, e fisserà il paragone fra Vostra Maestà, che ha compiuta questa grand’opera nei primi periodi del suo regno, ed i sovrani di tutte le precedenti dinastie che, mentre temeano più da vicino le conseguenze degli abusi della feudalità, sono stati sempre defraudati dei tentativi fatti per estirparli. L’elenco di questi abusi, quali questi erano anche dopo la pubblicazione della legge sulla feudalità che Vostra Maestà ha fatto pubblicare nella Storia della feudalità*, contiene la somma di tutte le ragioni di sopra esposte, ed è la più autentica dimostrazione dello stato del Regno e della necessità degli espedienti presi. Quanto alla divisione dei demani, una delle prime leggi che onorano il regno del vostro Augusto Predecessore è quella del 1806, colla quale si ordinò la divisione di tutti i demani del Regno, e l'accantonamento ai comuni di quella parte di demani feu® La Storia degli abusi feudali di Davide Winspeare, Angelo Trani, Napoli 1811.
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dali o ecclesiastici, che sarebbe corrisposta ai diritti che i comuni
stessi vi esercitavano. Questa legge ne diede l’esecuzione ai rispettivi consigli d’Intendenza di ciascuna provincia. Un altro decreto degli 8 giugno dell’anno seguente fece diverse spiegazioni alla legge precedente, e creò in Napoli una commissione di revisione per le operazioni dei consigli d’Intendenza. Un terzo decreto fatto da Vostra Maestà in data dei 3 dicembre 1808 risolvette diversi dubbi, che il paragone della prima e della seconda legge avea fatti nascere; fissò la procedura dell’esecuzione, e determinò che tutte le terre demaniali dovessero essere necessariamente divise nel corso dell’anno 1809. Tutte queste leggi non aveano fatto altro che rendere generale e necessaria la disposizione contenuta nell’editto della Sommaria dei 23 febbraio 1791, ma esse al pari della prima erano rimase ineseguite insino alla fine dell’anno 1809. Vostra Maestà vide per esperienza che conveniva vincere due difficoltà: l’inevitabile lentezza delle autorità ordinarie; la procedura troppo lunga e troppo complicata per la va-
lutazione dei diritti di diversi usuari e partecipanti. Vide pure che questa seconda difficoltà influiva anche nella giustizia dell'operazione, poiché, nella necessità di abbandonare ad arbitri e
ad esperti locali la valutazione, sarebbe stato impossibile l’evitare la parzialità e la disuguaglianza. Adunque, per ciò che riguarda l’autorità che dovea incaricarsi dell'esecuzione, nominò col Suo
decreto dei 23 ottobre 1809 cinque commissari speciali i quali facessero eseguire sotto i loro occhi la divisione di tutte le terre demaniali del Regno. Per ciò che riguarda poi la seconda difficoltà Vostra Maestà, prima di dar fuori un nuovo regolamento, ordinò che i commissari stessi si riunissero in Napoli prima della fine dell’anno, onde convenissero nel sistema che avrebbero dovuto seguire, e lo avessero sottomesso a Vostra Maestà per mez-
zo del vostro Ministro dell’Interno. Frutto di questa unione sono state le istruzioni approvate da Vostra Maestà col decreto dei 10 marzo 1810, le quali hanno fissato una scala di valutazione per i diversi diritti che i comuni rappresentano sui demani ex-feudali o ecclesiastici, assegnando a ciascuna classe di diritti una determinata quota di proprietà, togliendo così di mezzo la necessità delle valutazioni individuali di ciascun diritto. La divisione dei demani è stata con questo mezzo eseguita generalmente nel corso dell’anno 1811, e non rimangono se non piccioli avanzi di questa grande operazione, i quali saranno nei principi dell’anno nuovo
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intieramente terminati. Io supplico Vostra Maestà di permettermi che io coroni anche questa operazione con una esposizione
simile alla precedente. Io la farò risolvendo le due seguenti quistioni. L'interesse della proprietà è stato leso colla divisione dei demani? Le regole adottate sono state giuste? Quanto alla prima quistione non sarebbe necessario dimostrare in astratto quello ch’è fondato sull’esempio di tutte le leggi antecedenti, e che per conseguenza ha in suo favore la presunzione dell’esperienza. Ma chi può, anche nel senso della giustizia, dubitar del diritto che ciascuno dei soci o dei partecipanti ha a risolvere una comunione qualunque, che si trova stabilita per un tempo indefinito, specialmente se questa comunione sia nata non dal consenso, ma sì bene dal tempo, e dalla forza superiore degli avvenimenti? Chi nel senso dell’interesse generale dello Stato può dubitare dell’utilità di separare una comunione, quale condanna le terre ad essere perpetuamente inculte, diminuisce l’agricoltura, promuove l’inerzia dei coltivatori, e mantiene i condomini o i compartecipanti in uno stato di continua collisione? Ho detto che il sistema della divisione di queste terre è fondato sull’esempio di tutte le leggi antiche, perché, prescindendo dagli esempi della Francia, questo sistema si trovava già ricevuto dalla passata dinastia, e molti secoli innanzi lo avea adottato la sola autorità dei nostri tribunali. Tutti i nostri decisionisti sono pieni di esempi di giudicati, con i quali il Sacro Consiglio per dirimere le controversie che sorgevano fra i proprietari e i comuni usuari è ricorso sempre all’espediente di accantonare in proprietà ai comuni una parte di quell’intiero sul quale esercitavano la servitù di pascere o di legnare. Questo sistema era stato già generalmente adottato dalla camera della Sommaria, l’ultimo tribunale a cui per delegazione fu dal governo commesso l’esame di tutte le controversie fra i comuni ed i baroni. I tribunali francesi offrono moltissimi esempi di simili arresti dal decimosesto secolo a questa parte, e la stessa ordinanza del 1659 sulle acque e foreste, ammettendo una riserva pel bisogno dei comuni usuari, confermò quello che la giurisprudenza per una giusta applicazione dei principi del diritto avea fissato. Per ciò che riguarda poi la seconda quistione, della quale io mi sono proposto l’esame, se sieno giuste le regole adottate nella divisione, io non farò che ricordare a Vostra Maestà quello che l’è stato sottomesso allorché fu discusso il progetto d’istruzioni
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formate dai commissari riuniti in Napoli, in conseguenza del decreto dei 23 ottobre 1809. Tutta questa quistione si riduce a quella della quantità da assegnarsi per compenso dei diritti degli usuari. Gli esempi dei tribunali di Napoli sono vari, e l’ultimo stile di giudicare contenea, che si determinasse la quantità dell’accantonamento secondo il bisogno dei cittadini e lo stato delle loro industrie. Questa norma presa tutta dal fatto avea frequentemente prodotto che sino a tre quarti della proprietà fosse assegnata ai comuni, e diverse ultime decisioni di questa fatta furono allora tenute presenti. La giurisprudenza francese come la napolitana contiene molta varietà di esempi. Alcune decisioni hanno dato il quarto, altre il terzo, altre i due quinti, altre sono fondate sulla valutazione del bisogno attuale degli usuari. I commissari di Vostra Maestà nel progetto d’istruzione che le presentarono, proposero la distinzione per le diverse specie di diritti che i comuni rappresentavano. Dovendo essi dividere i demani soggetti a servitù secondo lo stato attuale del possesso, e senza conoscere l’origine dei diritti degli ex-feudatari, questa distinzione era fondata sulla più stretta giustizia. In alcuni casi i comuni non sono se non semplici usuari di fondi ex-feudali, in altri partecipano alla rendita o ai frutti, e con diversa proporzione. Sarebbe stato ingiusto il confondere insieme diritti diversi, e risolvere colla stessa regola comunioni che erano fondate sopra diverse proporzioni di partecipazione. Per i semplici usuari dunque proposero in ogni caso l'accantonamento del terzo, per i diritti di condominio, siccome essi non poteano per la loro varietà prevedersi, proposero una scala di valutazione ristretta fra un massimo ed un minimo. Ma Vostra Maestà considerò che anche nella classe degli usuari v’è una grande varietà di diritti, che il bisogno delle popolazioni, o che si voglia valutare dal numero degli abitanti, ovvero dalla quantità delle loro industrie, è sempre una circostanza che dee influire nel più o nel meno del compenso; che sovente su d’uno stesso fondo v’erano più comuni partecipanti, ai quali se si fosse inflessibilmente applicata la regola del terzo, avrebbero potuto derivarne due inconvenienti contrari al fine della legge, cioè, che il proprietario ricevesse più di quello, che nella separazione di diritti gli sarebbe spettato, e che la quota accantonata suddivisa fra i diversi partecipanti rendesse nell’effetto elusoria e dannosa la divisione. Parve dunque a Vostra Maestà dopo la più matura discussione, che le ragioni per
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ammettere una scala di valutazioni fossero comuni alla prima ed alla seconda classe di diritti. Discendendo perciò al di sotto del terzo proposto dai commissari, determinò che il menomo della prima classe fosse il quarto, ed il massimo la metà; che per la seconda classe la metà fosse il menomo, ed il massimo le tre quarte parti; che fosse nelle facoltà dei commissari il dare fra questi estremi stabiliti dalla legge quella quota che sarebbe loro sembrata corrispondente allo stato attuale dei diritti delle popolazioni. Quanto alle facoltà dei commissari era naturale che si stabilisse una tal forma di procedura, onde questa autorità straordi-
naria regolata dalla legge in tutte le sue operazioni non fosse inceppata dalle medesime difficoltà che aveano rendute inutili tutte le precedenti operazioni. Perciò Vostra Maestà permise che contro alle ordinanze dei commissari vi fosse un ricorso al consiglio di Stato, ma solamente devolutivo, e colla legge che il danno forse fatto colle ordinanze non potesse essere rimborsato se non in prezzo. La divisione è stata con queste regole generalmente eseguita, e pochi singolari ricorsi di ex-feudatari e di comuni ha sinora ricevuti il consiglio di Stato. Da questa breve esposizione Vostra Maestà rileverà come sieno state in questa operazione bilanciate le ragioni dell’utilità comune e quelle della giustizia individuale, e la Maestà vostra potrà scorgere nel quadro stesso delle sue operazioni che la sua idea non è stata il diminuire i latifondi nelle mani dei ricchi, ma unicamente il mettere in valore gli estesissimi demani dei quali il Regno era pieno. La separazione delle servitù e dei diritti promiscui è quella che favorisce
la chiusura delle terre, e le porzioni liberate da siffatti legami compenseranno con usura gli antichi possessori della sofferta risega. La divisione dei demani, Sire, io conchiudo, era una misura di necessità per lo stato del Regno. Privare le popolazioni degli usi e dei diritti dei quali godono sarebbe stato empio ed assurdo. Conservare gli usi e le servità nello stato attuale, sarebbe stato cosa distruttiva dell’agricoltura; avrebbe impedito l'aumento della proprietà, la cui mancanza ha creato ed ha fomentato nel Regno i delitti ed il brigantaggio; avrebbe resistito al sistema delle
imposte fondiarie, avrebbe tolto all’amministrazione interna i mezzi onde riparare allo stato depauperato dei comuni, in fine
avrebbe sagrificato l’interesse generale dello Stato, il dovere del
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governo, e tutti i principi dell’amministrazione pubblica, non all’interesse ma ai pregiudizi di pochi individui. Del rimanente anche stabilita la necessità di quest’operazione, non si sono seguite idee esagerate, né spirito di sistema, ma
l’esperienza e le circostanze locali sono state di guida all’amministrazione per adottare tutte quelle eccezioni che l’interesse pubblico e la giustizia particolare richiedevano. Le eccezioni fatte in grazia dell’interesse pubblico sono state per i monti e per i luoghi scoscesi, pei boschi, per i pascoli istessi, dove le promiscuità si sono giudicate indispensabili all'industria delle popolazioni. Quelle fatte in grazia della giustizia particolare risguardano per la maggior parte i soli ex-feudatari. I demani migliorati con profitto dell’agricoltura sono stati loro conservati; i redditi da essi costituiti colle colonie o con altri contratti legittimi sono stati loro salvati; le bonifiche, le arginazioni e tutte le altre opere simili si sono rispettate. Che se tolto di mezzo il danno reale, si credesse diminuita la fortuna dei grandi proprietari, perché diminuita di privilegi odiosi, sarebbe questo un danno che Vostra Maestà non dee valutare. Ella deve aver riguardo al bene generale. Questo è stato lo spirito di tutte le legislazioni e di tutte le monarchie; questo il voto di tutte le dinastie che hanno regnato fra noi; questo il fine di tutte le leggi del vostro saggio Predecessore e della Maestà Vostra. Se in altri tempi questo fine non si è ottenuto, la colpa era dei mezzi che l’ignoranza, o il pregiudizio suggeriva. Sarebbe stato ingiurioso per Vostra Maestà il voler meno di tutto quello che i suoi predecessori hanno voluto, o rinunziare in grazia dell’utilità o piuttosto dei pregiudizi privati a quei mezzi per conseguirlo, che la provvidenza ha per la prima volta messo nelle sue mani [...]. Industria e commercio. Molte operazioni utili all’agricoltura ed all'economia rurale sono state eseguite nel corso dei due ultimi anni. Le società di agricoltura in ogni provincia, composte dei più istruiti proprietari, sono il più utile passo dato nei progressi di quest'arte madre. All’istallazione di queste società sono seguiti d’appresso i tentativi di ogni genere, fatti senza alcuna altra influenza del governo oltre a quella delle sue direzioni. Questi tentativi sono stati specialmente secondati dalla formazione dei vivai, e dalla comunicazione dei semi delle più utili piante esotiche che le società hanno diffuso. Una istruzione pratica è
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stata pubblicata sull’arte di formare i vini, la quale è diretta a correggere una quantità di usi e di pratiche viziose fondate sull'esempio, e sull’abito dei coloni e dei vignaioli. La nuova legge che stabilisce una direzione forestaria è uno dei più grandi benefici che Vostra Maestà ha preparati al Suo Regno, non solo perché i boschi sieno conservati e divengano una sorgente di ricchezza, ma acciò le montagne non sieno ulteriormente degradate, e non si veggano più quei frequenti esempi della distruzione delle più belle culture nei piani, che aveano luogo per la negligenza e per i cattivi regolamenti che esistevano in questo ramo. La costruzione dei molini e delle altre macchine ad acqua, agevolata e promossa dopo le leggi che hanno restituita la libertà alle acque, è stata una nuova sorgente d’industria, la quale ha accresciuto l’agio e la ricchezza dei proprietari. Finalmente le cure che Vostra Maestà ha preso per l’esterminio di una causa distruttiva dell’agricoltura hanno preservato nell’anno 1811 alcune provincie dalla perdita di quasi tutti i loro prodotti principali. I bruchi, flagello a cui le provincie dell'Adriatico sono sì frequentemente esposte, aveano già devastato nel 1810 i prodotti in erba di diverse parti della Puglia piana, e renduti sedentanei in quattro provincie, minacciavano nella stagione seguente un
guasto più generale e meno riparabile. Gli espedienti opportunamente presi con gravi spese e con anticipazioni del Vostro tesoro e le istruzioni circolari sul modo di esterminarli hanno prodotto il più utile effetto. All’infuori di alcuni danni parziali, le provincie di Puglia mercé la saviezza di queste disposizioni sono state nel 1811 liberate dalla più grande calamità che poteano temere. Queste disposizioni si sono proseguite, e tutto fa sperare risultati anche migliori nella stagione corrente. Il nuovo codice rurale che Vostra Maestà vuole pubblicato ha formato ancora una delle Sue cure. Si è andato diligentemente raccogliendo i diversi statuti rurali dei comuni del Regno, perché possano i medesimi servir di base a tale lavoro. Questi statuti contengono da una parte utili leggi suggerite dall’esperienza e dalla natura delle terre e dei luoghi, e dall’altra usi e disposizioni erronee e contrarie ai principi dell’agricoltura, ed all’interesse dei proprietari. Gli uni e gli altri debbono esser tenuti presenti nella formazione della nuova legge; ed entrambi prendono luogo nel giudizio dello stato attuale dell’agricoltura, e delle cagioni delle quali questo stato è figlio.
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Mentre si è cercato di sciogliere l'agricoltura da tutti i legami che l’inceppavano, si è con non minor cura favorito il progresso delle arti. Una delle operazioni preliminari a tutte le altre era il governo interno delle arti medesime. Perciò, abolite tutte le antiche costituzioni e privilegi, è stato in ciascun’arte, ad imitazio-
ne delle leggi dei 3 luglio 1806, dei 20 luglio 1807 e degli 11 giugno 1808 pubblicate nell'Impero francese, creato il ceto dei priori (prudbommes), istituzione, la quale ne incoraggia i progressi provvedendo contemporaneamente all’ordine ed alla disciplina di esse. Per esecuzione di un articolo di questa legge la commissione delle arti e manifatture si sta attualmente occupando dell'esame di tutte le antiche capitolazioni, per poterle quindi applicare alla compilazione dei regolamenti di polizia e degli statuti da osservarsi per la subordinazione degli artefici, e per l’economia delle arti stesse. Oltre a queste disposizioni generali, molte arti particolari sono state migliorate e promosse. E stata stabilita nell’isola di Sora una fabbrica di panni all’uso di Francia, ed è stato perciò accordato al fabbricante l’uso gratuito di un edificio capace di contenerla. I primi prodotti di questa manifattura sono stati esibiti nella solenne esposizione dell’industria nazionale del 1811, e l’introduttore è stato onorato del premio di una medaglia d’oro. Una filatura a meccanica ed una manifattura di cotone sono state stabilite a Caserta, i cui progressi sono così celeri, che promettono fra poco la più grande estensione. I mussolini, i trapunti e le stoffe di diverso genere, che ha dati questa fabbrica fin dal suo nascere gareggiano cogli esteri nella qualità e perfezione del lavoro. Vostra Maestà non ha risparmiato alcun mezzo per l’incoraggiamento di tal fabbrica, avendo accordato al proprietario
di essa, oltre all’uso gratuito di alcuni locali, anche un’anticipazione in effettivo. Una tintoria per lino, cotone e seta è stata stabilita in Castellammare, e questa ha dato anche i suoi primi saggi di tutta perfezione nell’esposizione dell’industria nazionale. Vostra Maestà ha anche accordato al proprietario di questa fabbrica l’uso
gratuito dell’edifizio corrispondente, e molti utensili alla stessa necessari. La manifattura dei coralli alla Torre del Greco, e la concia e lustreria dei cuoi in Castellammare, che Vostra Maestà ha recen-
temente sostenuta e protetta anche con sagrifizi del Suo tesoro,
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sono stabilimenti già formati, ai quali il Regno dee nuovi rami d’industria superiori alla concorrenza, ed all’emulazione degli esteri.
La manifattura dei vetri, quasi sconosciuta in alcune delle provincie, è stata stabilita negli Abruzzi, avendo Vostra Maestà accordato all’introduttore di essa l’uso gratuito di un locale in Antrodoco. Finalmente per migliorare la tipografia, e per diminuire uno dei rami del nostro commercio passivo, Vostra Maestà ha fatto stabilire in Napoli una fonderia di caratteri, accordando al proprietario di tal fabbrica l’uso gratuito di un locale nel Carminello a Chiaia. Diverse opere sono state pubblicate con i tipi di questa nuova fonderia, e fra queste è la Flora Napolitana. Io non presento a Vostra Maestà se non il prospetto di quelle disposizioni che hanno avuto un successo. Ogni anno presenterà i nuovi ri-
sultati di quelle che si danno alla giornata. Mentre con tali incoraggiamenti si sono diminuiti, e si vanno tutto giorno diminuendo gli articoli del nostro commercio passivo, Vostra Maestà ha procurato di agevolare per ogni dove la libera comunicazione interna dei nostri prodotti. Oltre all’abolizione delle dogane interne, oltre alla facilità che presentano al traffico la costruzione e l’apertura delle nuove strade, il gran numero di fiere e mercati che si sono conceduti ai comuni, e che si sono distribuiti secondo l’opportunità dei siti e delle stagioni, ha stabilita una grande circolazione dei generi che servono al primo bisogno del Regno. Da queste e da altre giudiziose misure d’amministrazione riconosce il Regno l’avere scampato nel 1810 dalla penuria da cui era minacciato. Con un ricolto scarso, colla necessità di provvedere alla sussistenza delle isole Ionie, e di soggiacere alle perdite che la vigilanza dell’inimico ci facea soffrire, fra le inquietudini del brigantaggio che impedivano le comunicazioni le più importanti, fra l’allarme che cominciava a nascere in tutte le popolazioni, e le speculazioni dei granisti, Vostra Maestà senza alcuna misura che annunziasse il bisogno, provvide alla sussistenza interna, provvide a quella delle isole Ionie, deluse tutte le speculazioni del monopolio, e condusse l’annona del Regno in modo che si conseguì l'abbondanza, il contento e la tranquillità generale, e si tenne in equilibrio in ogni punto il commercio degli altri generi cereali.
L’esportazione dei principali articoli del nostro commercio
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attivo è stata la maggiore possibile, relativamente agli ostacoli attuali del commercio marittimo ed alle misure che suggerisce la necessità di distruggere una volta l'influenza del comune nemico, e le quali la Maestà Vostra ha fatto osservare con una severità inflessibile. Il traffico per terra coll’Impero francese ed il cambio dei vicendevoli prodotti acquistano ogni giorno una maggiore attività. A queste nuove relazioni commerciali è dovuto l’incoraggiamento dei cotoni, ed il prezzo rianimato delle nostre sete. La Maestà Vostra ha preparato un vantaggio più grande al traffico interno ed al commercio esterno colla introduzione delle monete e del sistema metrico di Francia. Cerca ancora di agevolarlo colla rettificazione delle tariffe doganali, e dei diritti sul cabotaggio. Questo lavoro è stato già preparato nel 1811, e presenterà i più felici risultati. In somma Vostra Maestà dopo d’aver assicurato l’agio e la ricchezza interna, ha tratto e trae dalle circostanze tutto il partito possibile in favore del commercio esterno, e cerca di compensare così i sagrifici che una necessità momentanea ed il loro vero interesse impone a tutte le nazioni del continente. Opere e lavori pubblici.
Le opere ed i lavori pubblici d’ogni
genere sono stati animati con un’attività senza esempio, veduto l’insieme delle cose che Vostra Maestà ha abbracciato. La capi-
tale, cominciando dal magnifico ingresso che le fa la nuova strada di Capodichino, può dirsi mutata d’aspetto. Questa strada la cui traccia è interamente aperta, e che sarà fra pochi mesi terminata, costeggiando la collina di Lautrecco presenta Napoli sotto il punto di veduta il più vago di quanti ne offra la sua deliziosa posizione, e l’adorna di un’entrata corrispondente alla natural bellezza ed all’interna di lei magnificenza. I lavori del corso Napoleone sono molto inoltrati, il passaggio per la grotta di Capodimonte è già tolto; la metà della strada che dalla città mena al ponte è già lastricata; l’allineamento della strada di Foria con quella del Largo delle pigne, ed il riempimento degli antichi fossi della città sono già terminati; l’intiera facciata dell’Albergo dei poveri ed i quattro lati del bello edifizio degli Studi, che servono quasi di scopo l’una alla strada di Capodichino, e l’altro a quella di Foria, si stanno attualmente scoprendo mediante il cavamento e la demolizione di alcuni ignobili edifizi ch’'erano ai medesimi attaccati. La facciata, il portico, le sale superiori, e le scale del teatro di S. Carlo sono intieramente compiute. Il grande spiazzo
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di Largo del castello non solo è appianato e livellato, ma è ornato di diversi ordini e divisioni di alberi, che costituiscono un’amena e comoda passeggiata nella città. E stata già da Vostra Maestà approvata l’ampliazione della Dogana coll’abbattimento delle càse e della chiesa del Piliero che l’ingombravano. Le strade della capitale sono state tutte riparate nel corso degli ultimi due anni, e sono state sgombrate dalle botteghe mobili, dalle opere di fabbrica fatte sul suolo pubblico, dai tavolati e tettoie che ne occupavano l’aria. L’opera del gran foro S. Gioacchino è vicina ad essere approvata. Intanto si sono intieramente eseguite le demolizioni dei monasteri e comprensori di S. Luigi, e di S. Spirito, e si sono costruite le basi del nuovo palazzo, che dee corrispondere a quello dei Principi. La real passeggiata di Chiaia è stata prolungata del doppio, ed attualmente si eseguono le piantagioni. E stata già aperta la traccia della nuova strada che da Mergellina mena ai Bagnoli, alla quale opera Vostra Maestà ha già dato un particolar fondo di ducati dugentomila. I mercati di Montoliveto e di Montecalvario sono già aperti. Un altro se ne forma attualmente nel sito dell’antica chiesa di S. Maria a Cappella. Un’uguale attività si è impiegata nelle strade e negli altri pubblici lavori delle provincie. La strada della Basilicata per Potenza è stata portata sino ad Avigliano. Si prosiegue efficacemente ed in diversi punti quella delle due Calabrie, a cui Vostra Maestà ha assegnato un particolar fondo di ducati 240.000 ossieno lire 1.056.000. Si sono ripigliati i lavori delle strade di Bari, di Lecce, di Melfi, di Campobasso, di Sora e Ceprano. Un fondo di ducati 240.000 è stato assegnato alla strada degli Abruzzi, ed il ceto dei negozianti impaziente di veder aperta una comunicazione più breve e più diretta pel traffico di terra ha offerto, e Vostra Maestà ha accettato, la sovraimposta del due e mezzo per cento sui dazi doganali. Diverse strade particolari o intermedie sono state contemporaneamente intraprese. Quella che dà agl’impervi paesi della Costa di Amalfi la comunicazione con Nocera è un’opera utile per se stessa e degna del genio di Vostra Maestà. Queste popolazioni mancavano spesso di generi di prima necessità, sopratutto nell’inverno, e si aveano quasi come segregate per la via di terra dal traffico di tutti i vicini paesi. La traccia principale che dà loro la
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comunicazione con Nocera è già aperta: Se ne sono disposte altre le quali dieno la comunicazione ai diversi paesi fra loro. Si lavora
già alla nuova strada da Napoli ad Ottaiano. Un’altra strada che congiunge Montecorvino alla strada consolare è pure incominciata. I progetti della strada di Pesto e del Ponte sul Sele sono stati già approvati da Vostra Maestà, e si sono dati i fondi a quest’ultima opera. Una quantità di altri progetti ordinati si trova rimessa all’esame del Consiglio dei Ponti e strade. Tali sono quelli della strada da Avellino a Salerno, e del nuovo ponte sul Volturno. Tutte queste opere saranno intraprese nel corso del nuovo anno, e così per accelerare questi lavori come per impiegare la più grande attività nelle opere in generale di questo ramo, la Maestà Vostra ha accresciuto il personale del Corpo dei Ponti e strade. Non si sono trascurate, Sire, le opere di disseccamento e di bonifica così necessarie al Regno, incominciando dalla più prospera e florida parte di esso, cioè dalla Terra di Lavoro. Le due importanti bonifiche della piana di Fondi e di quella di Mondra-
gone e Castelvolturno hanno acquistato fondi tali che non manca a queste due grandi opere se non la sola esecuzione. Le operazioni della piana di Fondi già in parte prosciugata sono state rallentate dal desiderio che Vostra Maestà ha avuto di ricevere un avviso definitivo del Consiglio dei Ponti e strade sulla parte del travaglio che rimane. Quelle di Castelvolturno hanno finora consistito nell’apertura di alcuni canali principali, giudicati necessari a diminuire le grandi inondazioni, ed a togliere i ristagni più perniciosi al paese. Il progetto generale dell’opera e la pianta a cui il Corpo dei Ponti e strade d’ordine di Vostra Maestà sta attualmente travagliando, Le saranno fra pochi giorni presentati.
Intanto si sta attualmente bonificando Coruoglio contiguo ai Bagnoli, e si è in Capitanata eseguito il disseccamento della vasta estensione di terreni conosciuti sotto il nome di Marana di Vignano. Diverse altre opere di questa natura sono ordinate nelle diverse provincie, come sono la bonifica delle paludi di Eboli e della Valle di Diano, quella della laguna presso Taranto, la bonifica dei laghi e delle lagune della Calabria Ulteriore e Citeriore, l’arginazione del fiume Carapella. Una carta particolare di tutti i laghi e maremme del Regno, a cui travaglierà assiduamente il Corpo dei Ponti e strade, mostrerà la topografia di tutti i luoghi
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sommersi e bonificabili, e servirà di guida al governo pel progresso di tutte queste operazioni, alle quali sono ugualmente necessarie la perseveranza e l’attività.
Finalmente Vostra Maestà ha veduto la necessità di estendere anche ai lavori comunali una parte della sua vigilanza. Conoscendo per esperienza che questi lavori spesso tanto utili o necessari, quanto lontani dalla cura del governo, mancano di riuscita o per difetto di direzione, o per abuso di amministrazione, ha fatto un regolamento di economia, che mette questi lavori sotto l'immediata ispezione degl’Intendenti, e dirige il modo dell’amministrazione e della spesa. La mancanza di un sistema d’amministrazione e di vigilanza ha privato per secoli le principali città e comuni del Regno delle opere pubbliche d’ogni genere, così di quelle che servono al bisogno della vita, come delle altre che servono alla cultura del popolo. V’è forse comune che non abbia da lunghissimi anni imposto a se medesimo dazi straordinari per avere una strada interna, un acquidotto, una fontana, un
cimitero, che soffra attualmente lo stesso peso, e che ne resti
tuttavia deluso per lo disordine che ha regnato nella sua amministrazione. Tutte queste opere hanno preso un novello vigore, e nelle
capitali delle provincie dei teatri ben ideati si vanno tuttodì costruendo. Nel corso del 1810 e 1811 l’insieme di diversi lavori eseguiti per conto dei comuni mostra di essere stati utilmente spesi circa quattro milioni di lire. Beneficenza e prigioni.
Lo stato degli ospizi è in generale mi-
gliorato relativamente alla situazione in cui era a tutto l’anno 1809. A misura che il nuovo sistema di amministrazione si è andato consolidando, e che i bisogni di ciascun luogo sono stati più minutamente conosciuti, si è andato tirando partito da tutto ciò che potea migliorare la loro economia, si è ottenuto tutto quel bene che lo zelo e la diligenza uniti insieme possono procurare in questa specie di amministrazione, e si è conosciuto quali erano gl’inconvenienti che il governo dee cercare di distruggere. Uno stabilimento utilissimo non solo all’ospedale degl’Incurabili, ma a tutti gli altri della capitale, è la farmacia centrale che v'è stata stabilita. Essa ha procurato nello stesso tempo una riforma di spesa quasi non sperata, e mercé lo zelo e l’intelligenza del collegio dei professori che la dirige, una regola a tutti gli ospe-
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
dali per la somministrazione delle medicine, ed una istruzione
chimica ai giovani in generale, ed in particolare agli alunni del Collegio medico-cerusico. Vostra Maestà ristabilirà fra poco questo Collegio ch’è stato in altri tempi il seminario dei primi professori di Europa. Finalmente un miglioramento anche maggiore nell’economia e nella cura degl’infermi si avrà dallo stabilimento delle Sorelle della Carità, che Vostra Maestà ha fatto venire di Francia, che ha dotate convenientemente, e che potranno servire
di mezzo a rendere utili alla cura degli ospedali ed anche delle prigioni una parte delle recluse negli orfanotrofi e nei conservatori poveri della città e del Regno. L’ospedale dell’ Annunciata è stato diversamente distribuito, e la sua interna distribuzione era di tanta importanza, che da questa sola operazione può dirsi cangiata la sorte dei proietti. I fanciulli ristretti nel più infelice sito di un locale, ch’era loro espressamente destinato, sono stati ripartiti in diverse sale, e fra queste si è fatta una distinzione per i sani e per gl’infermi, specialmente di febbri e di mali contagiosi: queste ed altre cure hanno diminuita la mortalità. L’ospedale dei Pellegrini comprende ora tutti feriti della città, e riunisce l’opera una volta data ai due ospedali dell’ Annunciata, e di S. Giacomo.
Il real Albergo dei poveri ha ricevuto sullo stato degli anni precedenti un grandissimo aumento nel numero dei suoi reclusi, e nello stato della loro educazione ed istruzione. Molte arti vi sono stabilite; le scuole di leggere e scrivere, e di disegno vi sono numerose. Finalmente Vostra Maestà vi ha destinata per tutti coloro che non mostrino una inclinazione per alcuna delle suddette occupazioni, la scuola dei tamburi, dei pifferi e delle trombe, la quale rende utili i reclusi, niuno escluso, ed evita il male
sperimentato per l’addietro in questi depositi, cioè di un avanzo di giovani, che si ricusavano a qualunque occupazione, e che ma-
le soddisfacevano nella loro vita civile il debito di riconoscenza che aveano contratto collo Stato. In generale lo stato degli ospizi si è molto esteso. Da quattromila, quante erano le persone nel 1809 alimentate dai diversi stabilimenti della capitale, il loro numero si è portato sino a 7200. Si è cercato di stabilire le arti da per tutto per quanto le circostanze lo hanno permesso. Un lanificio è stato introdotto nell’orfanotrofio delle fanciulle dell'Annunziata. Molti dei saggi del-
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
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l'industria nazionale esibiti nell'ultima esposizione sono stati il prodotto delle arti dei luoghi pubblici. La economia interna di questi luoghi va prendendo un migliore aspetto e Vostra Maestà goderà presto del felice risultato delle cure che profonde sulla classe degl’indigenti e degl’infelici. Tuttociò è dovuto non solo
alla vigilanza immediata che Vostra Maestà ha portato sull’amministrazione e sullo stato di questi luoghi, ma anche agli aiuti straordinari che ha loro accordati. Nulladimeno non bisogna dissimularlo, o sire, nuovi mezzi e nuovi soccorsi sono necessari, perché questi stabilimenti non solo si conservino e non periscano, ma pervengano alla perfezione che Vostra Maestà si è proposta. Dopo l’aumento dei reclusi, e degl’infermi, che la vostra generosità ed il bisogno della città hanno prodotto, dopo una esperienza di due anni ed una esatta discussione delle rendite, la necessità di trovare dei mezzi per aumentare i fondi è divenuta evidente. Si discute in questo momento colla ultima esattezza lo stato delle rendite e dei pesi per sottomettersi alla Maestà Vostra, che accorrerà senza dubbio al soccorso di stabilimenti che la sua protezione ha chiamati a nuova vita. Frattanto una delle più utili idee che si sieno mai adottate è stata quella di ridurre le dimostrazioni delle feste solenni dell’anno, e di tutte le feste pubbliche a sovvenzione di generi necessari alla sussistenza ed al bisogno degli ospizi. A questa idea umana e nobile è dovuta la provvisione di molti oggetti che si sono forniti agli ospedali della capitale.
Quanto agli stabilimenti di umanità e di beneficenza delle provincie, il miglioramento della loro condizione è unicamente l’effetto del nuovo sistema di amministrazione. Le commissioni amministrative locali, ed il consiglio generale degli ospizi in cia-
scuna provincia hanno tolto il governo di ciascun luogo all’influenza di tutti gl’interessi privati, hanno stabilita la regola e la disciplina dell’amministrazione, ed hanno fatto conoscere lo stato effettivo delle diverse opere, e dei miglioramenti di cui ciascuna di esse è capace. Il mezzo onde pervenire a questo fine era la formazione dei budjet di ciascuno degli stabilimenti. Sebbene
questa operazione fosse nata non prima della metà dell’anno 1811, pure a tutto il mese di dicembre ultimamente scorso si trovano già discussi più di 400 budjet. Nel corso dell’anno 1812 questa operazione da cui dipende il sistema definitivo di tutti i luoghi di beneficenza del Regno sarà interamente terminata. Vo-
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stra Maestà ha giustamente concepita la speranza di poter coll’avanzo di molti di questi luoghi, o colla riduzione di altri supplire a diverse istituzioni di questo genere che mancano nelle provincie. Intanto diversi spedali, monti dei pegni e monti frumentari si sono stabiliti o ripristinati; ma soprattutto la Maestà Vostra ha preso special cura dei proietti, come quelli il bisogno dei quali era più urgente, e la cui condizione avea di più disca-
pitato col cambiamento delle antiche amministrazioni.
Dopo
aver provveduto ai fondi necessari alla loro sussistenza, Vostra Maestà ha fatto formare le istruzioni per la cura che di essi dee prendersi, e finalmente considerando che questi aiuti accordati alla vita dei proietti tornerebbero tutti a danno loro e delle Stato, se non fossero secondati dalla educazione della loro età adulta, ha concepita l’idea di quattro orfanotrofi nella provincia di Terra _ di Lavoro, di Molise, del Principato Citeriore e di Calabria, dove riceveranno quella specie d’istruzione di cui essi si mostreranno più capaci. Ma quello che sopra tutti gli altri oggetti abbisognava di una pronta riforma erano le prigioni ed i loro ospedali. Questa riforma non poteva eseguirsi se non facendo precedere quella dei locali costrutti e mantenuti per lo addietro senza alcun principio di umanità. In tutte quelle provincie nelle quali gli antichi locali non presentavano la possibilità di ridurre le prigioni a case dalle
quali fosse eliminata l’insalubrità o la durezza della custodia, Vostra Maestà ha incominciato a farne costruire delle nuove, come
si è praticato in Aquila, ed altrove. Prescindendo dai miglioramenti nello spedale delle prigioni di Napoli, i nuovi ospedali di questo genere stabiliti in Cosenza, in Monteleone, in Aversa, in Capua, in Potenza, in Salerno, ed in Chieti, mostrano quanto il governo si sia occupato della sorte di quest’infelici. Un’opera ugualmente umana e benefica è l'ospedale delle prostitute fatto a S. Maria della Fede in Napoli. Quest’ospedale particolare contiene non solo un aiuto apprestato alle compassionevoli vittime dell’incontinenza e della miseria, ma anche una misura preservativa di polizia per tutta la classe più indigente del popolo. Messo in piedi nell’anno prossimamente scorso, è stato utilissimo fin
dal momento della sua istituzione. I professori più distinti della città ne hanno fatto il soggetto delle loro cure, e la pietà degli ecclesiastici i più esemplari ha trovato in questo stabilimento l’oc-
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
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casione di fortificare i precetti, e le ammonizioni della religione coll’esempio delle conseguenze del vizio. La beneficenza domiciliare esercitata dal comitato alla medesima preposto non ha mancato, e non manca di portare i suoi aiuti in tutti gli angoli della città dove la modestia, o l’estremo
abbattimento della miseria soffoca la voce degl’indigenti. Un sistema più utile di questa specie di soccorsi potrà essere presentato a Vostra Maestà allorché sarà riorganizzato il Monte della misericordia, e si saranno rettificati i suoi statuti, operazione che Vostra Maestà ha sollecitato, e che le sarà fra poco sottomessa.
Finanze.
L’amministrazione delle Finanze è stata diretta x
con una tale economia, e prudenza, che Vostra Maestà è riuscita
combinare insieme due estremi spesso fra loro inconciliabili, cioè quello di provvedere a tutto il bisogno dello Stato in tempo di guerra, e quello di non eccedere una misura tollerabile d’imposte. La situazione dell’esercito, lo stato della marina relativo alle nostre circostanze, le spese militari fatte negli ultimi due anni, e le opere interne che ha intraprese, giustificano la prima parte. La seconda è dimostrata dalla serie delle operazioni fatte nel 1810 e nel 1811 per diminuire alcune imposte e per uguagliarne la ripartizione. La contribuzione fondiaria si è meglio ripartita. Questa operazione si continua, e rende ogni giorno più facile la percezione. Vostra Maestà nel corso del solo 1810 ha rilasciato sulle contribuzioni arretrate del 1806 e 1807 alla Calabria Citeriore circa duc. 126 mila per compensarla delle spese che avea sofferte nel passaggio, e nello stazionamento delle truppe; alla Calabria Ulteriore tanto per la stessa ragione, quanto per aumento dei fondi di non valore circa duc. 311 mila; a tutte le altre provincie del Regno la somma di duc. 488.966. Similmente nel 1811 ha fatto un rilascio di altre particolari contribuzioni arretrate, e di diversi debiti di comuni e di particolari nella somma di ducati 565.382,35. Ha nel corso dei due medesimi anni abolita nel Regno la tassa delle industrie, arbitraria, e distruttiva della prosperità nazionale, surrogandovi opportunamente un diritto di patente; ha abolito ugualmente la distribuzione forzosa del sale cotanto gravosa alle popolazioni, e le officine delle dogane interne che recavano ostacolo alla circolazione dei generi, e delle der-
rate di ogni specie; ha diminuiti di un quarto i diritti doganali sull’olio che si sarebbe esportato per terra; ha fatto nella tariffa
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stabilita colla legge dei 24 febbraio 1809 una riduzione che l’esperienza avea dimostrata necessaria; ha diminuito il diritto di cabotagio sopra diversi generi. In somma mentre la Maestà Vostra ha migliorato tutti i rami di rendita del tesoro, mentre colla privativa dei tabacchi, e con altri mezzi che i principi di una ben intesa economia, e le circostanze del Regno hanno suggerito, ha stabiliti i fondi da supplire ai pesi dello Stato; dovunque poi ha veduto qualche cosa di troppo gravosa sia nella massa delle imposte, sia nelle loro qualità, sia nel modo di percepirle, si è affrettato a rettificarla qualunque fosse la necessità dello Stato. Vostra Maestà ha potuto combinare questo scopo principale col bene dei suoi sudditi unicamente mercé la regola, la severità, e la vigilanza che ha introdotto nella percezione delle rendite pubbliche e nella reddizione dei conti, mercé l’ordine che ha stabilito nell’amministrazione delle finanze, mercé la riunione di tutte le casse in un modo che ne rende facile la vigilanza e che impedisce qualunque inversione. Così la nazione ha corrisposto strettamen-
te quello che le circostanze del bisogno esigevano, ed ha avuto in tutte le operazioni del governo una perenne dimostrazione della necessità di ciò che si è imposto, e della economia con cui è stato
speso.
2. L’eversione della feudalità* Colpo d’occhio sulle leggi relative all'abolizione della feudalità ed alla divisione dei demani e sull’applicazione che n'è stata fatta nel Regno dal 1806 in poi Legge 2 agosto 1806.
Il 2 agosto fu pubblicata in Napoli la
legge eversiva della feudalità. Essa fu incompleta. Dividendo le rendite, e prestazioni dei feudi in reali, personali, e giurisdizionali, conservò le prime, abolì le seconde, del pari che le terze, coll’obbligo allo Stato, quanto a queste ultime, d’indennizzarne i possessori. Essa rinunziò a favore dei baroni, senza verun compenso, il diretto dominio dei feudi ed il diritto eventuale ma sempre _ * Ministero dell’Interno, la Divisione «Feudalità e Demani», memoria per il ministro dell'Interno marchese Tommasi, datata 17 luglio 1815, senza indicazione dell’autore, in ASN, Archivio Borbone, fascio 717.
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
ALTI
realizzabile della devoluzione. Così la legge, spogliando lo Stato di tutto il suo patrimonio, e sottoponendolo al rimborso di tutto quel che era feudale, tolse ai feudatari ciocché era solamente di peso nell’esercizio della giurisdizione, o odioso nelle angarie, o abusivo nelle privative; ma concesse loro in pieno diritto tutte le proprietà, colla sola riserba agl’interessati di potere sperimentare giuridicamente le loro ragioni sulle medesime. Ancora essa abolì in principio anziché in fatto tutto ciò che era abusivo, poiché tralasciò di classificare quello che doveva intendersi per personale, o per reale; e non contenta di lasciare i diritti litigiosi nello stato in cui prima si trovavano, forniva ai feudatari un’arma di più per sostenere come reale anche quello che come personale era caduto nell’abolizione. Legge 1° settembre 1806, e decreti 8 giugno 1807 e 3 dicembre 1808. Esistevano nel Regno molti demani. Questi erano comznali, feudali o ecclesiastici. La legge di settembre, nel salutare disegno di moltiplicare i proprietari, ne ordinò la divisione. Il decreto di giugno fece diverse spiegazioni alla legge precedente, e l’altro decreto di dicembre, risolvendo diversi dubbi che nascevano dal paragone della prima col secondo, fissò il procedimento della esecuzione. Tutte le enunciate leggi non fecero altro che rendere generale e necessaria la disposizione contenuta nell’editto della Regia Camera della Sommaria dei 23 febbraio 1792. Esse prescrissero che sui demani feudali o ecclesiastici si dovesse assegnare ai comuni una porzione equivalente al diritto rappresentato dalle popolazioni e che questa porzione si dovesse quindi suddividere in quote tra gli abitanti di ciascun comune. Alla divisione dei demani comunali i feudatari potevano anche essi partecipare in concorrenza degli altri cittadini. Decreto 11 noverzbre 1807. Le leggi eversive della feudalità avevano ridestato le annosissime cause sempre rinascenti e non
mai decise tra i comuni ed i feudatari. Si volle mettere un termine a queste liti. Una Commessione fu creata col decreto di novembre per giudicare inappellabilmente tutte le cause introdotte fino alla epoca della pubblicazione della legge di agosto 1806. Il suo disimpegno doveva trovarsi compiuto per tutto l’anno 1808; e mese per mese essa doveva render conto dello stato delle sue operazioni. Decreto 28 novembre
1808.
Le cause erano numerose;
la
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
Commessione non aveva potuto spedirne che una parte. Si sentì il bisogno di una proroga che fu quindi accordata per un altro anno col decreto di nov. 1808. La legge eversiva della feudalità aveva salvate le azioni a tutti gli aventi diritto sulle proprietà feudali. Sembrava che l’articolo 3° del decreto del dì 11 novembre 1807 avesse limitato le azioni discutibili presso la Commessione feudale alle sole preesistenti all’epoca della enunciata legge dei 2 agosto 1806. Un decreto dei 20 ottobre 1808 provvide alle azioni non dedotte, ordinando che i comuni potessero produrre, e proseguire le loro azioni nel corso della proroga accordata. Decreto 16 ottobre 1809. Le cause si succedevano ed era evidentemente impossibile di vederle tutte definite. Il decreto di ottobre 1809 mise l’ultimo termine alla deduzione delle azioni,
non che alla durata della Commessione. Essa prescrisse, a pena di decadenza, per l’ultimo termine a poter dedurre le istanze il giorno 31 dicembre
1809, ed ordinò in conformità di ciò che era
stato precedentemente stabilito con decreto di febbraio dello stesso anno, che la Commessione dovesse improrogabilmente terminare le sue operazioni al 1° settembre 1810. Decreto 27 febbraio 1809 relativo alle forme giudiziarie della Commessione feudale.
Questa è la serie dei decreti, che costi-
tuisce i poteri e la durata della Commessione feudale. L’ordine dei suoi giudizi fu da prima rivestito di tutte le formalità del vecchio rito. Si scriveva, si informava, si parlava, si cavillava, il tutto per guadagnar tempo, e lasciare perimere le azioni. L’inconveniente fu sentito, e corretto. Le cause feudali o contene-
vano la storia degli abusi del tempo, o erano relative a quistioni di proprietà. Gli abusi e le prerogative erano aboliti dalla legge, le proprietà contestate avevano bisogno di esame. La forma di discutere le cause di proprietà fu determinata dal decreto di febbraio 1809. Le cause ebbero tutte un ruolo generale, di cui non era permesso di alterare l'ordine. Le parti furono assegnate a giorno fisso per difendere i loro diritti. Le ragioni si producevano per via di memorie scritte; e le perorazioni degli avvocati si ridussero agli schiarimenti di fatto, o all’analisi dei soli punti di diritto ai quali dava luogo la controversia. Le sentenze furono dopo quell’epoca tutte motivate; ed esse si trovano per la maggior parte impresse, e depositate negli archivi dei tribunali e dei comuni.
IV. I{ nuovo regime e le grandi riforme
ZII)
Nelle cause dei feudatari il fisco poteva essere interessato come garante o come possessore attuale di feudi. Il decreto medesimo designò la persona del Direttore dei Regi Demani per rappresentare il governo nei mezzi di difesa. Gli avvocati particolari dell’amministrazione dei demani figurarono sempre in queste cause; e con essi gli avvocati delle famiglie istesse degli emigrati, o assenti, tutte le volte che fu questione di beni sequestrati o in confisca. i Istruzioni supplementari per tutti processi feudali fatti a diligenza del Ministero pubblico. Le cause feudali han formato in tutti i tempi una specie particolare di controversie, ove il diritto era desunto dalle antiche concessioni, o dalle memorie dei tempi che ne formavano l’equivalente. Era essenziale di conoscere la serie di questi documenti depositati e raccolti negli archivi. Per ciascun feudo in particolare, a diligenza del pubblico Ministero, ne fu ordinato l’estratto, per servire di base alle decisioni. Questi documenti erano sempre comunicati alle parti. Principi secondo i quali la Commessione ha costantemente giu-
dicato. I feudatari non possedevano che in forza di privilegio. Chi possiede a questo titolo ha l'obbligo di presentare l’origine del suo possesso. Questa origine si dovrebbe trovare rigorosamente nelle concessioni; ma non tutt’i feudatari sarebbero in ista-
. to di presentarne. In difetto di titolo primitivo, bisognava dunque attenersene all’equivalente. Gli equivalenti sono le reliquie delle carte angiovine; gli atti della Cancelleria aragonese; le informazioni, le tasse di adoa, gli apprezzi, i rilevi, le platee, le reintegre etc. Dalle carte angiovine si raccoglie appena l’esistenza di qualche diritto; rare volte vi si trova menzione di proprietà. Nelle concessioni aragonesi, ove per ampiezza di formola tutto è donato, niente sembra essenzialmente trasferito. Bisognava dunque necessariamente ricorrere agli atti primi-
tivi di possesso per ben fissare l’idea di un acquisto reale in proprietà.
I titoli universali non potrebbero concepirsi che sopra i feudi del tutto inabitati. Ove esiste una popolazione antica la sua preesistenza al feudo esclude ogni idea di universalità di diritto, a meno che non si comprenda sotto questo nome la giurisdizione. Le proprietà feudali nei paesi abitati non possono essere che
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
porzioni del demanio. Sul demanio i diritti delle popolazioni sono incontrastabili ed imprescrittibili. Quindi la costituzione delle difese non poteva esser presunta, ma doveva esser provata. Vi è la prammatica del 1538 che proibisce l'erezione del demanio in difesa. Quando la memoria della difesa preesisteva alla prammatica, la difesa doveva essere conservata; ma il demanio doveva ritornare alla sua natura, se la sua erezione in difesa si trovava posteriore a quell’epoca. Le difese sono temporali, o perpetue; antiche, o moderne. Le temporali non potevano riputarsi che come un demanio sul quale era maggiore il diritto del feudatario; ma ciò non escludeva la partecipazione agli usi civici. I feudatari avevano generalmente dissodato e migliorato le parti migliorabili del territorio del feudo. Dovea accordarsi un premio alla industria. La parte migliorata è stata loro rilasciata esente dall’uso a cui potevano aspirare gli abitanti. Sopra alcuni terreni feudali trovansi stabiliti dei coloni. La sorte di questi utili coltivatori è stata fissata; essi han cessato di essere amovibili a volontà dei feudatari, e la ragione ha consigliato di imporre loro una prestazione fissa. Ove esistevano concessioni documentate da atti autentici, si sono rispettate le convenzioni. Ove la colonia era di fatto, si sono fissate le prestazioni. La decima era determinata dalla legge sulle colonie costituite nelle terre del fisco; la decima si è presa quindi per misura comune di ogni prestazione colonica. I feudatari avevano sovente invaso il demanio comunale, ora per ragion di credito, ora per altro pretesto. Una prammatica del 1650 ed una legge fatta nel 1729 condannavano queste usurpazioni; esse in conseguenza non potevano essere sostenute dal suffragio dei magistrati. I beni usurpati sono stati quindi restituiti ai comuni, e la reintegra ha avuto luogo per solo ministero delle dette leggi. Le reintegre avrebbero dovuto naturalmente produrre la restituzione dei frutti; questo è il rigore della legge, la di cui pratica era sanzionata negli arresti della Sommaria. La Commessione però più indulgente di questo tribunale ha assoluto i feudatari dalla restituzione dei frutti. Molti feudatari rappresentavano dei titoli di credito contro i comuni. Alcuni di questi titoli sono stati conservati; altri mancando d’istrumenti radicali, o di pruova di pagamento, sono stati aboliti. L’indebito esatto non si è messo
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
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giammai in linea di conto, ciò che è stato un favore per i feudatari. In molti feudi i baroni hanno scientemente occupato per migliorare i demani stessi comunali. Là dove la vigna e l’olivo erano stati piantati, si è favorita l’industria degli occupanti, e la proprietà è stata loro aggiudicata sotto la corrispondenza di un canone. Nei feudi altra volta disabitati sono stati conservati al barone tutti i diritti universali, del pari che le difese che vi si sono trovate stabilite. Un feudatario ha potuto prescrivere a chi ha voluto stabilirvisi quelle leggi che gli sono sembrate convenienti; soltanto si è presa in considerazione la proprietà attuale degli abitanti, ritenuto il principio istesso della loro ammessione. Chi vuole il fine deve anche volere i mezzi senza dei quali il fine non può essere conseguito. E come il barone ha dovuto consentire alla sussistenza degli abitanti che egli attirava nel suo feudo, era giusto, anzi necessario di rendere meno precaria la loro sorte, affrancandoli da un servaggio incompatibile colla legge e realizzando con una divisione i diritti accordati loro all’epoca del primo stabilimento. I feudi distinti e separati si sono considerati generalmente come proprietà libere dei possidenti; e là dove vi si sono incontrati usi civici, non se n’è accordato il compenso che con tutte le limitazioni della valutazione. Decime nella provincia di Lecce. La feudalità nella provincia di Lecce era riputata di un ordine singolare; e l'articolo della sua decisione aveva formato un caso a parte nella legge dei 2 agosto 1806. L’esperienza col concorso di tutte le carte antiche ha provato l’errore di una consuetudine accreditata nel foro. Le decime dell’olio sono state conservate nei paesi ove il possesso ne autorizzava la percezione; si sono soppresse nei luoghi che ne erano esenti. Altrove si sono divisi dei demani che si supponevano inesistenti. In qualche parte si sono aperte ancora della difese. Da per tutto poi le decime si sono ridotte ai generi della principale coltura nel senso di un decreto che fu in proposito emanato a 16 ottobre 1809. Abolizione del diritto dei corsi. Una particolare specie di proprietà esisteva nelle Calabrie sotto il nome di corsi, o terre corse. Si possono definire «una estensione di terre possedute alternati-
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vamente da due o più proprietari, da ciascuno per un certo spazio di tempo». Ma l’alternativa del possesso era variabile all’eccesso. Per alcuni fondi era annuale; e mentre il barone godeva del frutto degli alberi e del pascolo delle erbe, l’abitante seminava e raccoglieva sul medesimo suolo. Per altri, l’abitante era assoluto padrone per tre o quattro anni, ed il barone lo era al suo giro per un eguale o maggiore spazio di tempo. Per lo più negli anni delle vicende, quando gli abitanti lasciavano riposare le terre, il barone profittava del pascolo. Nella storia dell’abuso della forza, e dei capricci degli uomini è difficile di trovare altri esempi di organizzazione di proprietà più bizzarra di questa, e più contraria ai progressi dell’agricoltura ed ai vantaggi stessi dei possessori. Ma l’utile apparente in queste strane associazioni era dal lato del barone; e questo bastava perché per secoli la ragione cedesse alla forza. Queste leonine società, di cui fu conosciuta l’abusiva ori-
gine, furono abolite in tutte le cause che si presentarono alla Commessione, ma in fine furono proscritte per punto generale con decreto dei 29 maggio 1810. Fu ordinata ed eseguita la divisione delle ferre corse tra i possessori a misura dei diritti di ciascuno. Abolizione delle così dette terzerie negli Abruzzi. In tutto il contado di Aquila i feudatari esigevano le così dette terzerie. Era questa una tassa di quattro carlini a fuoco, e sembra che rimpiazzasse le rendite giurisdizionali di bagliva, e di giustizia civile e criminale. La legge comprendeva senza dubbio nell’abolizione generale le terzerie; ma si cavillava la legge. La Commessione dichiarò nei casi particolari, che erano comprese nell’abolizione; ed il governo lo stabilì pure per punto generale con risoluzione dei 12 agosto 1809, inserita nel Bullettino della Commessione feudale.
Decreto dei 16 ottobre 1809. I feudatari avevano transatto in molti luoghi il diritto di fida e diffida. Altrove essi esigevano dei diritti di pascolo sulle terre libere dei privati; il più delle volte per tali abusivi diritti esigevano dalle università delle somme convenute. Ben spesso questi stessi diritti trasformati esigevansi an-
cora per capitazione a fuoco, sotto il titolo di prestazione di erbatica, carnatica, di giornata di latte, di stagli, affida, ragioni etc. Era evidente che queste prestazioni non potevano essere soste-
nute per diritti reali, e che non dovevano garantirsi come pre-
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
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stazioni personali. Esse furono annullate dalla Commessione nei casi particolari; ma furono assolutamente proscritti per punto generale con i decreti dei 16 ottobre 1809. Questi decreti abolirono ugualmente la capitazione conosciuta sotto il titolo di casalinaggio, che il feudalismo senza verun titolo esigeva nella provincia di Lecce sotto il nome di censi mnuti, e sotto diversi nomi nelle altre parti del Regno, sopra tutto tra le popolazioni greche ed Albanesi, disseminate nelle due Calabrie, in Basilicata, in Molise, in Abruzzo Citeriore, e nella stes-
sa Terra di Otranto. Altro decreto dei 16 ottobre 1809.
La Commessione feudale
aveva osservato che la maniera di decimare era sovente odiosa, e
spesso ingiusta. La decima si esigeva talvolta fino sul letame che si spandeva nei campi per fertilizzarli. La Commessione trovò ragionevole che la decima si limitasse alle colture principali dell’anno; ed i suoi principi, veri sotto il rapporto della equità, furono proclamati con un decreto di ottobre 1809 come punti di evidenza in materia di giustizia. Decreto dei 10 marzo 1810, che contiene le istruzioni per icom-
messati incaricati di eseguire i giudicati della Commessione feudale e le leggi sulla divisione dei demani. È questo presso a poco il
transunto delle massime nel senso delle quali ha giudicato la Commessione feudale. Il suo incarico era al termine. Bisognava far eseguire le sue decisioni. Non era possibile di riportarsene allo zelo delle autorità ordinarie delle provincie, la materia non essendo loro familiare. Bisognava per ciò stabilire un’autorità straordinaria, che non fosse distratta da altre cure e riunisse le cognizioni necessarie. Dei commessari furono quindi nominati, ed ebbero le istruzioni contenute nel decreto di marzo 1810. Queste istruzioni possono chiamarsi il sommario sperimentale di tutta la materia feudale ridotta in teorema. Si era osservato nel
corso delle cause discusse presso la Commessione feudale che gli usi civici sopra i demani feudali o ecclesiastici erano classificabili per la di loro importanza. Essi furono dunque divisi in essenziali, che riguardavano lo stretto uso personale necessario alla esistenza dei cittadini; utili, che comprendono, oltre l’uso personale, una parte eziandio d’industria;
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
dominicali, che contengono partecipazione ai frutti, ed al dominio del fondo. A ciascuna di queste classi fu assegnato il suo equivalente. Per gli usi essenziali il compenso poteva estendersi dal quarto alla metà del demanio divisibile. Per gli usi utili e domzinicali il compenso dalla metà poteva elevarsi fino ai tre quarti del demanio stesso. Le istruzioni marcarono i punti fissi tra gli estremi, cioè il minimum ed il maximum nella scala dei compensi. Fu quindi lasciato alla prudenza dei commessari di usare della latitudine stabilita nella legge a seconda delle circostanze che si presentavano nell’applicazione. Una popolazione numerosa priva di territorio, molte piccole popolazioni esercitando un diritto simultaneo sulla medesima superficie dovevano far naturalmente alzare la scala graduale dei compensi. I commessari erano assai intelligenti per ponderare e motivare le diverse circostanze che incontravano nell'esecuzione. Contro le operazioni dei commessari fu riserbato il ricorso al Consiglio di Stato. Comunque questa disposizione fosse regolare, essa conteneva un estremo favore per i feudatari. Per una di quelle bizzarrie inesplicabili nella storia dei governi, i baroni formavano essi soli i tre quarti dei voti nel Consiglio; né essi si fecero mai scrupolo di giudicare in causa propria. Il ricorso contro le ordinanze dei commessari era soltanto devolutivo. Se si fosse accordato sospensivo, le operazioni demaniali sarebbero rimaste tutte paralizzate; l’idolo spirante del feudalismo ne avrebbe intrigata in modo la discussione, che non se ne sarebbe veduto mai il termine. D'altronde la morale dei commessari era tanto sperimentata e le loro operazioni erano così
semplici, da allontanare ogni sospetto di parzialità, o di errore. Nelle stesse vedute fu prescritto che là dove un’ordinanza in materia di divisione dei demani venisse riformata dal Consiglio di Stato in seguito di ricorso, gli interessati ottenessero una indennizzazione in prezzo, esclusa la restituzione delle terre cadute in divisione. Queste terre suddivise in quote formavano già il patrimonio dei nuovi possessori. Come spogliarneli senza discreditare la più salutare operazione, e senza compromettere l’ordine pubblico? In questo alla condizione dei baroni era uguale quella dei comuni, i quali non potevano più pretendere parte dei demani, ma l’equivalente in prezzo, quando a loro ricorso una or-
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
225
dinanza del commessario che negava la divisione fosse stata annullata dal Consiglio di Stato. Esecuzione data.
I commessari eseguirono conformemente
alle istruzioni le divisioni in mappa dei demani tra i baroni ed i comuni usuari. Essi procederono ancora alle suddivisioni tra cittadini di quella parte dei demani che era dichiarata di spettanza dei comuni. In fine essi sciolsero tutte le promiscuità risolvibili tra comune e comune, assegnando a ciascuno in libera proprietà quella porzione di demanio promiscuo che gli spettava in ragione degli usi che vi esercitava. Essi regolarono pure in questa circostanza le confinazioni dei comuni limitrofi, mettendo così un termine ad una immensità di liti annose, e dispendiosissime. Ciò che essi non poterono finalizzare nella strettezza del tempo loro assegnato fu delegato agl’Intendenti, ai quali furono deferite le medesime attribuzioni dei commessari. Essi hanno ultimato il resto delle divisioni in massa, ed han continuato con successo le
suddivisioni tra cittadini. Affari sospesi. Rimangono però prive di esecuzione alcune ordinanze relative ai beni riuniti all’amministrazione dei demani dello Stato; sotto questa classe si comprendono ancora alcuni beni ecclesiastici. E da notarsi in proposito di demani ecclesiastici, che non sono stati realmente divisibili e divisi che i beni delle Mense, e delle Badie di patronato regio, di cui la natura era comparata ai feudi o erano feudi essi stessi. Il rimanente, riguardato come il prodotto di pie largizioni di privati, o di acquisto a titolo burgensatico, ha conservata la sua natura di allodio; e nella risoluzione dei diritti di compascuo è rimasto esente da divisione. Per questi affari sospesi, che ascendono a circa 95, i Ministri
dell’Interno e delle Finanze si dovevano mettere di accordo a fine di determinarne l’esecuzione. Ma questo concerto non ha avuto luogo finora; e 95 comuni attendono con impazienza il momento che li metta nel possesso di quei benefici che una legge generale ha accordati a tutto il Regno. Questo ritardo diviene sensibilissimo per la rivoltante parzialità di cui è il risultato. La legge si è eseguita finché non è stata in contatto cogl’interessi del governo; essa si fa tacere col danno di popolazioni intiere al momento in cui colpisce le proprietà dello Stato. Egli è per altro vero che a tutto agosto 1811 la legge non soffrì eccezioni, e fu
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
eseguita così sui beni dello Stato, come su quelli della stessa Casa Reale. Solo alla detta epoca se ne arrestò il corso per i beni dello Stato, perché venne in mente al Ministro delle Finanze di voler esaminare prima della esecuzione egli stesso col Ministro dell’Interno le ordinanze che colpivano il regio demanio. Ma quest’esame non ebbe mai luogo. I cattivi esempi sono contagiosi; quello del regio demanio fu invocato da sette o otto tra gli ex-feudatari, i quali all’ombra della influenza che avevano in Corte, ottennero direttamente dal
Sovrano ordine di sospensione per le ordinanze che colpivano i loro demani. I diritti delle popolazioni essendo innegabili, le sospensioni in favore così del Regio demanio come di qualche feudatario particolare non avevano altro oggetto, che di accordare il più tardi che fosse possibile il 721172477 fissato nella scala dei compensi. Intanto le popolazioni dei comuni interessati esecrando queste ingiuste parzialità, non cessavano mai di reclamare l’esecuzione della legge generale. Esse l'avrebbero senza meno ottenuta tra poco, poiché il Ministro dell’Interno ne aveva già spianata la materia. Or se le popolazioni non si possono meglio attaccare che colla giustizia, soprattutto quando le circostanze fanno apprezzare in essa un beneficio, è della saviezza e della politica stessa del nostro governo di accordare questa a più di cento comuni che la reclamano, e l’attendono a buon diritto. Sua Maestà con un picciolo, d’altronde dovuto, sacrificio di terre demaniali, e col far cessare una rivoltante parzialità, comanderà l'ammirazione ed una riconoscenza illimitata in più di cento popolazioni del suo Regno.
Pagamento delle bonatenenze. Il governo che dopo l’arrivo di Carlo III travagliava nel Regno all’abolizione del feudalismo, aveva ordinato colle sue istruzioni catastali del 1741 che i beni posseduti in burgensatico dai feudatari, numerati per le once, entrassero nel calcolo delle contribuzioni. Comunque questi beni fossero da per tutto accatastati, in nessun luogo essi soggiacquero
ai pesi imposti. Vanamente il Tribunale della Sommaria cercò di avocarveli con i suoi arresti; tempo ormai di rendere alle che esse avevano sopportato sione feudale, uniformandosi
essi rimasero sempre immuni. Era popolazioni l'equivalente del peso per i beni dei baroni. La Commesalle leggi, ha da per tutto pronun-
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
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ziato il pagamento della bonatenenza. Le liquidazioni han dato utile risultato; ed il loro prodotto è tornato a profitto dei comuni e del pubblico. La bonatenenza dovuta dal Duca di Tucina e Massanova in ducati 34 mila circa costituisce in fatti la dotazione del Liceo di Reggio. Quella dovuta dal Principe di Angri è stata applicata alla costruzione di un ramo di strada, che unisce il circondario di Montecorvino alla via consolare. Il nuovo ponte sul Sele è stato imposto col prodotto di varie bonatenenze. Quelle liquidate nella provincia di Basilicata sono addette alla costruzione della strada che unisce la capitale della provincia alla via consolare. Dovunque esse han potuto estinguere in via di compensazione dei capitali dovuti dai comuni, si è autorizzato, anzi prescritto. Da per tutto infine questi fondi accumulati han servito talvolta all’ornamento e sempre all’utile delle popolazioni. Le liquidazioni delle bonatenenze non sono ancora terminate. Esse sono state e sono preparate da quattro razionali della Regia Corte dei conti a ciò delegati, i quali vi procedono con la scorta dei catasti esistenti nell’archivio generale, ed intesi i baroni debitori. Indi sono rimesse ai Consigli d’Intendenza, i quali, intesi gl’interessati, le rendono esecutive. Contro i provvedimenti dei Consigli d’Intendenza era aperto alle parti un ricorso devolutivo al Consiglio di Stato. Per le bonatenenze dovute dal governo, rappresentato dal Regio demanio, come possessore di feudi, si trova adottata la stessa misura parziale che ha avuto luogo per la divisione dei demani; le liquidazioni sono state sospese. E parimenti della giustizia del governo di riparare a questo torto. Idea totale delle operazioni. Il più gran passo che siasi fatto in Europa verso la perfezione della vita civile è senza dubbio l’abolizione della feudalità. Tutti i governi tendevano da più secoli a questo grande oggetto, ma niuno osava attaccar di fronte il vecchio idolo del baronaggio; e mentre l’esistenza dei feudi era proscritta dai progressi dei lumi, dal voto e dall’interesse delle nazioni, i governi si limitavano a minarla lentamente, e quasi di soppiatto. Vari tentativi di questo genere fatti nel nostro Regno sotto diverse dinastie che vi dominarono; varie commessioni erette, particolarmente quella formata da Carlo V nel 1536, provano che la resistenza a quell’epoca vinceva l’azione. Se dunque si voleva ai nostri tempi eseguita una legge sospirata da secoli che
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
da sé sola sarebbe rimasta inefficace, era necessario di farvi concorrere gli sforzi di una Commessione suprema specialmente delegata, e di sostenerli in tutti gli istanti coll’autorità irresistibile del governo, onde allontanarne la preponderanza dei baroni. Come giudicare, se non esclusivamente, di circa tre mila processi, antichi quanto la nostra monarchia, che si erano moltiplicati in una mole immensa di volumi? Le sedute di questo tribunale delegato dovevano dunque essere permanenti; i termini abbreviati; il processo, le forme semplici, come i principi. Su queste basi fu fondata la Commessione feudale. Senza derogare alle regole comuni della giustizia, esse erano indicate dalle più urgenti ragioni di utilità pubblica, e sostenute dall’esempio di ciò che è stato costantemente praticato nel Regno sulla stessa materia. Se inappellabili furono dichiarate le decisioni della Commessione feudale, tali non erano forse i decreti del Sacro Consiglio, gli arresti della Sommaria, a cui erano delegati i giudizi di gravami tra le popolazioni ed i baroni? Tali non eran pure le sentenze della Commessione istituita da Carlo V nel 1536? Se la Commessione feudale ha proceduto con un rito breve, con forme semplici, le stesse forme non erano state prima prescritte da Carlo V per la Commessione da lui eretta? Questa doveva procedere sommariamente, senza contesa, senza forma o figura di giudizio, e per la sola verità e notorietà del fatto. I baroni avvezzi per secoli a colorare l’abuso e le angarie col sacro diritto di proprietà, trovano ora ingiusto, eversivo di ogni principio di diritto comune che la Commessione feudale abbia giudicato non solo delle gravezze feudali, ma di ogni altra lite fra feudatari e comuni. Questo però non solo è conforme a ciò che è stato per l’addietro praticato, ma era assolutamente necessario perché tutte le liti che i baroni dicono di proprietà si attaccano colle gravezze feudali. Il barone esigeva la decima sulle proprietà particolari, e sosteneva che aveva diritto di esigerla, perché i fondi erano stati da lui conceduti con questo peso. Si trattava dun-
que di vedere se i fondi gli erano o no appartenenti. Questa questione era di proprietà, ma era inseparabile dal giudizio delle gravezze. Il barone esercitava diritti sui pascoli e sui demani comunali, e li esercitava in concorso con i comuni. Ciascuno diceva
che i propri diritti erano figli della proprietà e del dominio. Per giudicare adunque anche della proprietà di questi diritti, biso-
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
229
gnava conoscere a chi appartenesse la proprietà del fondo. La prammatica del 1650 e la legge fatta nel 1729 obbligavano i baroni a rilasciare i demani comunali abusivamente occupati. I baroni si mantennero nelle usurpazioni; i comuni reclamarono il beneficio delle leggi. Ecco delle liti di proprietà; ma esse riguardano una proprietà distrutta dalle leggi, e ritenuta dai baroni a dispetto del governo, col mezzo della forza e dell'abuso della giurisdizione. Queste sono le liti di proprietà che la Commessione feudale ha giudicate. Le cause feudali portate alla decisione della Commessione sotto l’aspetto di proprietà non presentavano che quattro o cinque specie tutto al più: Qualificazione di possesso, Reintegre di demani usurpati, Costituzione legale o illegittima di difese, Diritti di superficie, più o meno generali, Capitali censi bene o mal costituiti. Ciascun caso era determinato da una serie di prammatiche, che richiamavano sempre gli stessi principi in osservanza. La loro applicazione era facile, perché semplice la interpretazione. La Commessione non ha eretto in tesi alcuna dottrina novella. Se vi è uniformità nelle sue decisioni, ciò non è che l’effetto della uniformità dei capi che si sono offerti al suo esame. Come portare in materie simili una opinione differente? Le sue decisioni sono uniformi ai giudicati del Sacro Consiglio, e della Sommaria, perché così le une come gli altri sono formati sul tipo della stessa legge. Se queste decisioni fan gridare ad una voce, questo è che i feudatari mal avvezzi per secoli a schivare giudizi imparziali della legge ne sono stati una volta simultaneamente colpiti. I clamori elevati in altri tempi contro la Sommaria non erano parziali se non perché i suoi arresti ferivano parzialmente. Ma si faccia per poco astrazione delle nude irragionevoli querele: si troverà che la legge eversiva della feudalità è stata favorevole ai baroni in ciò che è stato loro rilasciato senza compenso il diritto di devoluzione, che in altri Paesi si è estimato al 5° del
valore effettivo del feudo, più favorevole in ciò, che non fu domandato ai feudatari il titolo del loro possesso attuale, circostanza ricercata altrove, ed anche nel Regno, per non privare l’erario delle sue risorse. Così rimasero estinte senza compenso tutte le risulte fiscali cui erano esposti i feudatari. La Commessione feudale secondando le vedute del governo,
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
che voleva conservare il loro splendore alle antiche famiglie per quanto la ragion di stato, e l'interesse generale della nazione il permettesse, abbandonò ai feudatari le rendite ingiustamente percepite sulle proprietà comunali usurpate, e tutto il prodotto delle somme indebitamente esatte. Essa ha fissato l'incertezza del possesso delle proprietà, determinandone la natura. Per i suoi principi, tutt’ beni burgensatici sono stati considerati sacri ed inviolabili. Le proprietà feudali hanno ugualmente conservato la loro qualità. Solo i possessi inquisiti han subito la loro diminuzione, nel che la Commessione è stata l’organo passivo delle leggi patrie. Quanto alla divisione dei demani, tutto ciò che si è fatto in
questa materia è fondato sull’esempio delle antiche leggi del Regno, ed ha quindi in suo favore la presunzione della esperienza. Sempreché si è trattato di controversia fra proprietari e comuni usuari, si è costantemente accordata in proprietà a questi una
parte di quel fondo sul quale essi esercitavano le servitù di pascere, di legnare, etc. Questi principi, proclamati da prima nei decreti del Sacro Consiglio, erano stati negli ultimi tempi adottati per sistema generale dal Tribunale della Sommaria. La divisione dei demani è inoltre sostenuta dalla più stretta
giustizia non meno che dall’interesse generale dello Stato. Nel senso della giustizia, chi potrebbe dubitare del diritto che ciascuno dei soci o dei partecipanti ha a risolvere una comunione qualunque che si trova stabilita per un tempo indefinito, specialmente se questa comunione sia nata non dal consenso, ma sì bene dal tempo, o dalla forza superiore degli avvenimenti? Nel senso dell’interesse generale dello Stato, chi potrebbe dubitare della utilità di separare una comunione la quale condanna le terre ad essere perpetuamente incolte, diminuisce l'agricoltura, promuove l'inerzia dei coltivatori, e mantiene i condomini o i compartecipanti in uno stato di continua collisione? I demani sono stati, egli è vero, in qualche parte smembrati per i compensi delle servitù e del condominio; ma ciocché è stato tolto per effetto di una divisione necessaria, non può senza abuso di termini chiamarsi perdita di proprietà. Chi riscatta una servitù non diminuisce punto la sua proprietà; e chi riprende dalla comunione la quota di sua spettanza non può deplorare la perdita della parte che spetta al suo associato. Ecco la vera idea della divisione dei demani. Quando i baroni volessero una volta essere di buona fede, essi
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
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non potrebbero non convenire che la loro fortuna sotto il rapporto dei demani è realmente aumentata pel seguito della divisione. La giurisdizione, questo diritto abusivo, sempre ferace d’ingiustizia, non è l’ultimo che i baroni deplorino. Ma potrebbero essi reclamarne il ristabilimento, senza attaccare la monarchia
nella sua essenza? Tutto ciò che sarebbe loro accordato in poteri sarebbe tolto realmente alla forza del sovrano. Ormai è di evidenza che il goticismo feudale è incompatibile colla unità centrale del governo. Ma i baroni si sforzano a reclamare la repristinazione dei loro diritti reali. Quali sono mai questi diritti? Possono onorarsi di tal nome le capitazioni e le angarie di qualunque nomenclatura o forma fossero esse mai rivestite? Possono chiamarsi diritti quegli abusi che il favore o la forza avevano strappati alla venalità, al timore, alla ignoranza? Si tollererebbero ora come profitti legittimi le transazioni un tempo convenute per la fascia, per le balie, pet le strene, per quieto vivere? Potrebbero imporsi ancora ai comuni dei tributi per soddisfare il prezzo delle camere riserbate? Eppure è della perdita di simili prestazioni che i baroni si querelano! Quando si cesserà di essere ingiusto? L’abolizione della feudalità ha prodotto il vantaggio inestimabile di liberare tutte le popolazioni da una quantità immensa di prestazioni e di gabelle. Or quale politica soffrirebbe che per fare un beneficio a pochi particolari si immolasse loro la massa intiera della nazione? E le popolazioni, liberate una volta da questi pesi, ne riassumerebbero esse volentieri il sacrificio? Oltre gli enunciati vantaggi, l’abolizione della feudalità ha prodotto nello Stato i seguenti cangiamenti che sarebbe ingiusto, impolitico, impossibile di alterare. I nove decimi della superficie del Regno, per cui la feudalità esercitava altra volta il suo impero, si sono trovati sbarazzati dai vincoli feudali; la proprietà di ciascun possidente ha acquistato con ciò il suo prezzo; l'industria vi ha spiegato liberamente la sua attività. Or con quai mezzi si otterrebbe che i possessori, sensibili sempre in tutte le parti della di loro fortuna, sottomettevano di nuovo le loro proprietà alla supremazia feudale? I coloni altra volta feudali trovansi ora elevati al rango di enfiteuti, col diritto di riscattare i canoni a loro volontà. Il numero dei coloni è immenso in tutte le provincie; la sola di Basilicata ne conta sulla sua
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
superficie circa 33.000. Come mai si tenterebbe di reimporre loro il servaggio, del quale essi e le loro terre sono stati affrancati? I fondi in cui i comuni sono stati reintegrati, i demani accantonati a loro favore nelle divisioni in massa, sono stati nella massima parte ripartiti tra bracciali laboriosi, di cui si è in tal modo costituita la fortuna. Essi si sono attaccati alla proprietà, che, fecondata dalla loro industria, ha migliorato la loro condizione. Il numero di questi nuovi proprietari è immenso, al pari anzi maggiore di quello dei coloni in tutto il Regno. Fin dal 1812 la provincia di Calabria Ulteriore ne aveva circa 8.000; quella di Principato Ulteriore, circa 16.000; quella di Principato Citeriore, circa 20.000; e così in proporzione le altre. Quale forza umana potrebbe spogliare della loro proprietà più di 200.000 poveri padri di famiglia? La contribuzione fondiaria è livellata sul giusto valore che le terre hanno acquistato, per l'abolizione delle servitù feudali e per la divisione e suddivisione dei demani.
Or per poco che si volessero toccare queste operazioni, ne seguirebbe l’incertezza del valore delle proprietà, ed in conseguenza della contribuzione. Il governo vedrebbe mancarsi sotto la mano la base principale del suo sistema finanziario che ha costato otto anni di travagli, e sacrifizi immensi allo Stato. Il prodotto delle terre divise forma da più anni uno dei cespiti principali delle rendite comunali. Questo cespite non può essere diminuito senza ricorrersi all’espediente oneroso delle gabelle. Il popolo che sopporta sempre con impazienza quelle alle quali è accostumato non vedrebbe tranquillamente accrescere le sue imposizioni. Il popolo non è facile a persuadere; la sua politica, la sua filosofia è nell’utile presente; chiunque voglia strapparglielo sotto qualunque titolo, potrà opprimerlo colla forza, ma non otterrà mai che senta ragione e che ceda di buon grado.
Se alle infinite difficoltà di ritornare sopra una operazione necessaria ed evidentemente utile allo Stato si aggiunga l’ingiustizia di annientare l’effetto salutare dei giudicati, che costituiscono presso tutti i governi il Palladio della sicurezza, si concepirà senza pena che l’interesse pubblico, la prudenza, la giustizia, e la più sicura politica consigliano ad un tempo di rispettare le operazioni fatte senza portarsi il menomo attentato. No, la feu-
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
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dalità, una volta distrutta, non è fatta per risorgere; essa è incompatibile con i diritti imprescrittibili delle popolazioni, e con i diritti stessi della Sovranità. I lumi dell'Europa, dopo di averne svelati e deplorati i mali, ne hanno segnato irrevocabilmente l’abolizione nel codice del diritto pubblico europeo. Certamente meriterà la riconoscenza della generazione presente e l’ammirazione della posterità quel governo che metterà una pietra sepolcrale sulla voragine in cui si trova precipitato il mostro feudale del nostro Regno. La saviezza e la giustizia del governo non dovrebbe limitarsi però a niente innovare, ma dovrebbe fare in oltre tutto ciò che rimane per completare perfettamente la più importante, la più salutare delle operazioni. Si è detto che rimangono sospese un centinaio di ordinanze, in cui è interessato il demanio dello Stato, come feudatario o possessore di feudi; si è detto pure che un ingiusto favore fa sus-
sistere la stessa sospensione per rapporto a sette, o otto baroni. Si è detto in fine che contro le ordinanze dei Commessari ripartitori era aperto il ricorso devolutivo al Consiglio di Stato. Ciò posto, quando il governo volesse dare l’ultima mano agli affari feudali e demaniali, e rendere le leggi imparzialmente ugua-
li per tutti, dovrebbe 1°. solennemente pronunziare che i decreti che dichiarano irretrattabili le leggi e gli atti eversivi della feudalità e della promiscuità dei demani saranno sempre considerati ed osservati, come leggi fondamentali ed inalterabili dello Stato; 2°. togliere ogni sospensione precedentemente ordinata, e lasciar libero il corso alla giustizia in tutti gli affari pendenti; 3°. nominare una commessione che possa rimpiazzare il Consiglio di Stato nella discussione e nei giudizi dei ricorsi prodotti, o che potranno prodursi contro le ordinanze dei commessari ripartitori. È nella scelta di questa commessione che il governo dovrebbe manifestare la sua più raffinata saviezza. Soggetti di probità sperimentata, forniti di cognizioni positive e familiari in materia, non educati o nutriti all’aura dei feudi, incapaci di essere commossi da una mal’intesa venerazione verso il vecchio idolo del baronaggio o influiti dalla sua artifiziosa preponderanza, soggetti in fine che non transigano mai né coll’interesse generale della nazione né colla gloria del governo: ecco gli elementi di cui si
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
dovrebbe comporre la enunciata Commessione. Guai! se si errasse in questa scelta; si vedrebbero ravvivati i più assurdi principi, sovvertite le migliori leggi; l’intrigo baronale, e l’ingiustizia in trionfo; in fine tutto sarebbe compromesso, finanche l’ordine pubblico, e l’onore stesso del governo.
3. La riorganizzazione delle finanze A)
IL VECCHIO E IL NUOVO SISTEMA*
Rendite del Regno in tempo del Re Gioacchino. [...] troiti sono contenuti nelle seguenti mappe:
Gl’in-
Stato degli introiti portati nei budjet stabiliti dal Re per gli anni qui appresso dettagliati, cioè: 1809 Natura degli intr.
1810
1811
1812
1813
Fondiaria Personale Patente
7.000.000 0 0
6.200.000 800.000 0
6.200.000 1.000.000 300.000
6.150.000 9.540.000 400.000
6.765.000 1.045.000 440.000
Demani e registratura
1.100.000
1.100.000
500.000
1.250.000
1.363.636,73
500.000
500.000
500.000
500.000
Ron e dazi 1 consumo
2.350.000 di
2.440.000
2.600.000
3.000.000
3.022.727
Dritti riservati
1.750.000
1.012.000
2.200.000
2.750.000
DIRAITE
Tavoliere
Monete
0
0
0
Poste Lotterie
0 0
0 286.000
0 400.000
11.363,64 409.091
11.363,64 454.545,46
Percezione i
0
300.000
300.000
161.663,64
DIDO
12.638.000
14.000.000
15.681.818,28
Doc.
12.700.000
0
534.090,91
0
16.590.909,12
* Da [Davide Winspeare], Voti dei Napolitani, risposta ai giornali di Sicilia dei 14 e 17 ottobre 1814, Napoli, ILE: 55-73, in ASN, Archivio Borbone, fascio 1994 (opuscolo a stampa, senza indicazione dell’autore; reca nella prima pagina una nota manoscritta: Passato da S.N. per legarlo come opera di Winspeare Sett. 1832).
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
255
Stato degl’introiti resi effettivi negli anni qui appresso distinti, quali introiti devono servire di comparazione a quelli portati per approssimazione nei budjet degli anni medesimi. 1809
1810
1811
7.000.000 0
6.200.000 1.078.037,18
1812
1813
Natura degli intr. Fondiaria Personale Patenti Demani e registr. Tavoliere
0 1.100.000
0 1.239.775,46
6.200.000 1.000.000 450.000
6.150.000 950.000 400.000
1.480.460,37
1.477.360,41
6.768.000 1.045.000 440.000 1.336.204,53
437.134,81
423.751,51
465.411,08
475.307,41
539.415,48
Ro
2.398.228,84
3.880.297,62
3.547.841,26
392.533,50
3.306.264,14
Diritti riservati
1.034.997,41
1.824.037,37
2.234.513,52
= 2.636.275,90
Dogana e dazi
Moneta
Poste Lotterie Percezioni div. Grani province.
0
0
4.500
0
285.356,50
609.474,76
2.003.888,89
1.747.559,82
0
120.175,91
0
0
2.586.561 6.235,90
15.366,16
39.097,85
8.360,75
660.120,65
594.491,29
483.304,25
(211619992
1.296.008,13
1.272.033,15
222.350
421.658,54
715.860
750.000
747.296,32
Decimo per i creditori
1.177.028,71
1.013.424,91
1.093.963,54
dello Stato Grani di percez.
Totale
291.109,81
439.693,99
15.752.244,97
18.576.225,53
130.000
18.277.828,10
461.707,82
474.613,69
19.644.440,85
19.729.199,73
Questo calcolo dimostra che la rendita veramente percepita dal governo passato, negli ultimi tempi, è superiore di quella che si percepisce attualmente nella somma di ducati 2.146.860,09. Si sono nel calcolar la rendita attuale aggiunti i fruttati del decimo per i creditori dello Stato, i grani addizionali per le spese di percezione ed i grani addizionali provinciali. Oltre ai fondi provinciali portati nel calcolo, ve ne sono altri per opere particolari, a beneficio di alcuni distretti. Questi vengono sotto il no-
me di fondi speciali, e non formano un grande oggetto. Non sono stati portati in mappa, perché non riguardano né il Tesoro, né l'utilità generale, ma l’utile solo dei contribuenti. Anche il governo passato, avea queste tasse speciali, come la strada di Sora, di Campobasso, ed altre simili, e nei presenti calcoli non se n'è tenuto alcun conto. Parimenti i due centesimi per alcune provincie, ed un centesimo per alcune altre, spesi per l’estirpazione dei bruchi, non sono stati qui riportati. Sotto l’antico governo il Tesoro anticipava le somme necessarie per queste operazioni, ma le ripeteva
poi dalle provincie. Così conviene riguardare questa spesa singo-
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lare, e straordinaria come un ramo tutto particolare e separato.
Egualmente non sono compresi nel calcolo i grani addizionali per li non valori: queste somme non formano una rendita separata, ma suppliscono solo quella che non si percepisce. Inoltre, queste somme prima non andavano a carico del Tesoro per la spesa che facevano i comuni per l’oggetto medesimo. Finalmente non si sono compresi i grani addizionali comunali, perché servono a supplire alle spese dei comuni, in mancanza di rendite patrimoniali, o di gabelle. Questo stesso si praticava anche ai tempi del governo passato colla differenza, che ora non si possono imponere che tre centesimi, e prima potevano imporsi somme maggiori. Siccome queste somme non si trovano comprese nella rendita antica, così non si comprendono né anche nell’attuale, e questo calcolo se volesse farsi sarebbe in vantaggio
dell’attuale amministrazione. Noi aggiungiamo una mappa che riassumendo tutto, mostrerà a colpo d’occhio, il risultato di tutt’i calcoli. Sinora si sono conteggiate solo le rispettive somme d'’introito versate nelle casse fiscali, per le spese dello Stato. Ma se si voglia fare attenzione ai pesi che gravitano sul popolo, il paragone farà sentire in una maniera più evidente i vantaggi che si hanno dall’attuale sistema.
Arrendamenti dei consegnatari compresi nelle rendite attuali, mentre prima erano separati, ed aumentavano ilpeso delpopolo. Dei dazi conosciuti fra noi sotto il nome di arrendamenti, alcuni erano in mano della Corte, altri erano o in mano della città di Napoli, o
in mano di un corpo di particolari possessori che li amministrava, e ne percepiva le rendite. Questi arrendamenti sono stati incor-
porati al Tesoro ed essendosi fatto una sola massa di tutto, si è a questo caos di amministrazioni, surrogata una sola amministra-
zione. Così nelle rendite che attualmente percepisce il Tesoro, vi sono compresi i prodotti di tutti questi arrendamenti. I medesimi sono stati liquidati, e la loro rendita ascende a ducati circa 2.604.803,37, dai quali dedotti duc. 360.000 che si
pagano alla città, ed agli ospizi, rimane sempre una somma di più di ducati 2.244.863. In questa somma vi sono gli estagli degli arrendamenti che pagava la Regia Corte, e che si portano in introito, ed in esito nel conto del 1805, vi sono dei fruttati appartenenti alla stessa Regia
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Corte ai diversi titoli. Nulladimeno resta sempre una somma grandissima appartenente ai consegnatari, o sia alla città ed ai particolari a cui perveniva direttamente dall’amministrazione ch’era nelle loro mani; siccome l’entrare in questi calcoli sarebbe lungo, e noioso, e dall'altra parte noi intendiamo di seguire sempre il sistema di mettere in calcolo le menome somme possibili, noi stabiliremo qui la parte che ricadeva direttamente sui particolari solo ad un milione di ducati. Alcuno non dirà certamente che un tal calcolo sia esagerato per gli arrendamenti di Corte e di città. Questa rendita, perché il paragone sia giusto, o dee esser detratta dai prodotti attuali del Tesoro, che più innanzi sono stati indicati, o dee essere aggiunta a quelli del governo passato. Così alla somma che abbiamo fissata pel 1805, e che come abbiamo detto, era la rendita dell’anno, ed il coacervo degl’introiti straordinari di undici anni, si è fissata a duc. 20.542.847,90 Aggiungendo di più il peso in favore dei consegnatari dei di-
versi arrendamenti in duc.
1.000.000
Si avrà la somma totale di duc. 21.542.817,90 Quest'ultima somma, essendo compresa nell’introito attuale
del Tesoro, risulta che la nazione era prima gravata di duc. 1.000.000 di più, che non lo è adesso. Osservazione simile sui fondi del demanio. La medesima ragione milita per una parte delle rendite addette al demanio. Tutto quello che si ritrae dai beni dei monasteri soppressi, non era prima fra gl’introiti ordinari del Tesoro. Non facendo ascendere questa differenza, che ad annui duc. 500 mila (ed è forse maggiore), questa somma nel paragone dee essere o tolta dagli attuali introiti, o accresciuta agli antichi, e farà risultare a favore dell’attuale governo, la diminuzione dei pesi del popolo, in confronto degli antichi a ducati 500.000!. ! È questo il luogo opportuno di dir qualche cosa dei beni di tutti imonasteri soppressi. Certamente questi hanno costituito un fondo importante in favore del governo attuale. Ma sotto il governo di Ferdinando se n’era profittato ugualmente. La Cassa Sagra, l’amministrazione dei monasteri soppressi, tanti pesi im-
posti sui luoghi pii, tante soppressioni fatte in dettaglio, avevano diminuita la massa immensa dei beni ecclesiastici forse della metà. Tutti questi fondi non hanno avuto risultato alcuno. Sotto il governo attuale hanno servito a togliere il debito dello Stato, a migliorare lo stato del Banco, ad arricchire la Cassa di ammortizzazione, istituzione importante, e di cui il tempo farà sentire gl’immensi vantaggi, ed a costituire dei maggiorati che sono il patrimonio dello Stato, a cui
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Diminuzione di imposte fatta dal Re Gioacchino. A questo si aggiungono le diminuzioni fatte dal Re Gioacchino nel corso dell’anno corrente. Le medesime si trovano indicate nel Monitore delle Due Sicilie num. 1180. Noi non sceglieremo fra le somme contenute in quel quadro, che le seguenti.
Rilascio degli avanzi dei luoghi pii laicali annue lire 220.000 Abolizione della contribuzione personale lire 5.267.000 Abolizione della decima sul bollo, sul registro, e sulle ipoteche 600.000 Lire 6.087.000 Che ridotti in ducati sono ducati
1.383.409,09
Questa somma di 1.383.409,09 ducati diminuisce ancora i
pesi, di cui il popolo è gravato nell’attuale amministrazione, e rendono più grande la disproporzione con i pesi precedenti. È chiaro, che quando anche non si volesse comprendere nel calcolo, la somma, che il governo passato ha introitato in undici anni, pure la rendita attuale non si troverebbe maggiore dell’antica. Diminuzione di altri pesi esatti dall'attuale governo e vincoli da cui l’agricoltura è stata sciolta. Che se oltre alle prestazioni dovute al Tesoro, si voglia gittar l’occhio sopra aggravi di diversa natura, si troverà che le popolazioni sono state allegerite da una massa enorme di prestazioni feudali, che l’agricoltura è stata liberata da tanti ostacoli pel suo miglioramento, e che la chiusura delle terre aperte, e la divisione delle terre comuni, è una sorgente di prosperità, di cui il tempo farà sentire l’importanza. Lungi da noi idea di professare un partito. È possibile che la novità delle imposte attuali le renda qualche volta sensibili: che la loro natura, o il modo di percepirle, le renda onerose: se questo sarà confermato dall’esperienza, e dall'esame severo che fa ora il governo di tutti i rami di amministrazioni, si può confidare sulla sua saviezza, che lo porterà a prendere tutte le misure convenienti, tantopiù, che non potrebbe incontrarvi alcuna difficoltà. Ma chiunque conosca da vicino, i rami di finanze del Regno di sono riversibili, e che contengono una istituzione necessaria ad una monarchia. Il rimanente è portato in introito dal Tesoro, ed è più che compensato dal pagamento delle pensioni, che la Cassa delle rendite fa sopra un fondo speciale ai religiosi, ed alle religiose.
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Napoli, o chiunque voglia applicarvisi, e che abbia i mezzi di averne una vera conoscenza, sarà convinto che i pesi dei quali il popolo era gravato nel passato governo, insieme presi, non erano minori degli attuali. Paragone dei sistemi dei due governi nel modo di imporre. Passiamo ora a vedere la differenza del sistema tenuto nel tirar dalla nazione le somme necessarie alle spese. Una delle risorse principali del governo passato è stata quella dei banchi. È inutile di estenderci molto a discutere il merito di una misura a cui naturalmente non si è dovuto ricorrere che per l’assoluta necessità. Noi ci limiteremo solo ad osservare, che moltiplicate le carte di banco, senza deposito alcuno, o con picciolo deposito nelle casse, le medesime soffrirono subito un aggio, e diminuirono di valore: così i particolari si trovarono di aver diminuiti tutti i loro capitali più o meno secondo l’altezza del cambio che nei diversi tempi si elevò ad un taglio assai grave. La Regia Corte spendendo quelle carte ha dovuto soffrire ugualmente una perdita enorme, ed allorché ha creduto di ripararvi con far di suo conto dei negoziati, comprando in carta a prezzo maggiore, e procurando di compensar questa perdita col guadagno nelle rendite, si è involta in operazioni più dannose ancora, e sconvenevoli al governo. Le operazioni fatte nella moneta di rame, servirono ad aumentare i prezzi nelle minute contrattazioni, e fecero peggiorare la condizione dei poveri. Inoltre stabilirono un aggio considerevole, fra i diversi metalli. La peggior moneta spendendosi sempre in preferenza, era naturale che non si vedesse sulla piazza, che carta o rame, che l’argento divenisse raro, e l’oro rarissimo. Le altre imposizioni straordinarie fissate sotto diversi titoli, non hanno alcuna base di ragione, né presentano un’uguaglianza fra i contribuenti, e l'osservanza dei principi che devono regolare lo stabilimento dei tributi. Quello che è più rimarchevole ancora, è che le operazioni dei banchi, degli argenti, ed altre simili, obbligando poi ad un interesse, e ad un debito annuo, rendevano in gran parte inutili le nuove imposte. Il governo non avea stabilito, e non potea forse stabilire un fondo di ammortizzazione. Così lo sviluppo delle circostanze, ed il corso del tempo, rimenando la necessità di nuove risorse, e di nuove spese, non si sa come vi si sarebbe supplito, e sino a qual punto le gravezze si sarebbero
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elevate, se la conquista del Regno non avesse messo un termine
a quell’amministrazione.
i
Questo riguarda le risorse straordinarie, o speciali. Quanto alle rendite ordinarie, se si considera il dazio diretto, non è necessario di confutare le differenze di beni feudali, e burgensatici, tante franchigie, e tante esenzioni, la poca esattezza dei catasti che non erano né veri, né approssimativi, e finalmente la gravez-
za del peso del testatico che formava una parte della imposta. Sembra parimenti inutile dimostrare l’assurdità della divisione dei pesi, per l’antichissima divisione dei fuochi, ed il sistema di
amministrazione che lasciava ai comuni mal vigilati la facoltà di accrescere le contribuzioni dirette, pressoché a loro arbitrio. Tutti questi disordini erano conosciuti dalle persone che aveano lumi, e noi crediamo che coloro che sono stati preposti all’amministrazione di questo ramo, avrebbero sempre avuto nell’animo di cambiarlo, se la natura di quel governo lo avesse permesso. Il peso attuale pel dazio diretto, non è maggiore di quello che era nel governo passato, se vi si comprendano gli aumenti fatti nel 1805. Ma allora erano i comuni che pagavano. Quel comune che avea rendite patrimoniali, che si avea imposte gabelle, pagava con questo mezzo la tassa fondiaria dei suoi cittadini. La sola decima era pagata direttamente dai particolari. Inoltre i feudatari, e tanti altri luoghi privilegiati, erano esenti non a danno del Tesoro, ma a danno degli altri contribuenti. Questa differenza rendendo ora la loro partita maggiore, fa credere più grave il carico. Molti individui o corporazioni erano caricate di più, e questo carico è giusto che si divida ugualmente sopra di tutti. Ma con tali differenze, nell’antico sistema si metteva un’ineguaglianza sul peso delle terre anche vicine fra loro. Due proprietari finitimi, che aveano fondi della medesima natura, e del medesimo prodotto, solo perché appartenevano al territorio di due diversi comuni, soffrivano un peso differentissimo, ed in conseguenza non poteano vendere i loro prodotti al medesimo prezzo. Un altro inconveniente che risultava da questo sistema, è la mancanza di ogni mezzo per l’amministrazione comunale, e pel miglioramento di ciascun comune. L’interesse dei cittadini essendo quello di esonerarsi dai pesi sul patrimonio comunale, non era possibile di pensare ai miglioramenti. Quindi lo stato di squal-
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lore nella maggior parte dei paesi, e la mancanza di ogni opera necessaria, fino per le strade interne, e per le acque. Quindi la mancanza di istruzione, nella impossibilità di aver fondi per li maestri primari.
Quanto al dazio indiretto, il peso del sale era fissato a dodici grani il rotolo: ed ora è fissato ad undici grani. La differenza è anche in favore dell’attuale governo per le dogane. Il così detto sistema continentale aveva obbligato alle tariffe, ed ai metodi voluti alla Francia, ed aveva quasi distrutto il commercio, ed in conseguenza i prodotti doganali. Il Re Gioacchino è stato il primo ad abolirlo. È in questo momento che le nuove tariffe, ed i nuovi metodi si stabiliscono col voto del commercio, colla guida dell’esperienza, e sulla base della protezione della in. dustria. Tutte le disposizioni già emanate spirano la saviezza e l’amore per li sudditi, e fanno prevedere abbastanza il loro sviluppo ulteriore per il bene dei popoli. Altre osservazioni, e giustificazioni în favore dell’attuale sistePrima di lasciare questa materia, noi faremo alcune altre osservazioni importanti. 1°. Il corso ordinario delle cose ha forzato tutti i Governi di Europa a fare un accrescimento dei pesi. Una rivoluzione come quella da cui usciamo, ha fatto un cangiamento generale: non solo sono cresciute tutte le spese militari e civili, ma per cause
ma.
che non possono essere cambiate, tutti i prezzi essendo aumentati, le medesime somme colle quali prima poteva supplirsi, non possono essere più bastevoli ai bisogni dello Stato. L'economia e la saviezza, e più di tutto una pace solida e durevole, possono riparare una parte di questo inconveniente: ma per certo non si troverà un popolo solo, che non abbia veduto crescere i suoi pesi,
ed in queste circostanze, ed in questi momenti è consolante di vedere nel paragone fra le vecchie e le nuove finanze, i vantaggi che il Re Gioacchino ha prodotti al suo Regno. 2°. La mancanza totale del commercio, le leggi a cui si è soggettato, hanno obbligato il governo a contare su di altri rami. Tutto promette un avvenire migliore: tutto promette che quello che dee formare una delle principali sorgenti della prosperità del Regno, sia ugualmente la sorgente dei mezzi per supplire alle spese del Tesoro.
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3°. In momenti così critici per ogni paese, lo stato non si è
caricato di nuovi debiti. I suoi pesi sono in gran parte vitalizi. Le sue risorse sono intere: può applicarle ai suoi bisogni, ed a sostenere la sua indipendenza, se questo è necessario; può diminuirli, e sgravare il popolo, se questo è possibile. È questa una posizione forse unica in Europa, e che non ha costato sacrifizi: e certamente non vi è sacrifizio, che non si sarebbe creduto leggiero per ottenerla. 4°. Una differenza enorme vi è fra le idee liberali e generose del Re Gioacchino, e quelle dei passati principi. Questi ultimi attaccati alle loro abitudini, non sapendo misurare gli effetti dei cambiamenti, incapaci di prepararli, non avendo abbastanza di forza per eseguirli, lasciavano l’amministrazione in un letargo, e toglievano ogni speranza di miglioramento. Ma il Re Gioacchino non pensa, e non si occupa che del bene e della felicità del suo popolo; e ne ha già dati i primi saggi. Tutto è in questo momento sotto l'esame il più severo, ed il più accurato, quantità d’imposte, loro natura, metodi di percezione. Se tutto si troverà conveniente, sarà conservato: se vi sono errori a correggere, o migliora-
menti a fare, questi saranno certamente operati dalla saviezza del governo. Paragone del sistema dei due governi quanto all’ordine nell’amministrazione delle finanze. Si passi ora al secondo oggetto di esame, cioè al paragone dell’ordine nel ramo di finanze. E troppo noto, e noi lo abbiamo già più innanzi osservato, che tutte le parti dell’antica amministrazione del Regno, non erano se non un ammasso di ordini particolari, fatti da diversi governi che si erano succeduti, non solo non diretti da alcun piano generale, ma in parte inosservati, ed in parte deteriorati da quegli abusi che formano il carattere di un governo debole ed indolente. Le amministrazioni fiscali erano secondo il vecchio sistema separate fra loro, così per la percezione, come per la spesa, in guisa che il Tesoro dello Stato non solo percepiva e non riuniva la spesa di tutti i rami particolari, ma in certi casi ne raccoglieva la menoma parte. La Tesoreria generale, allora così detta, non raccoglieva se non gli avanzi delle rendite ordinarie delle provincie, ogni ramo di finanze era caricato di esiti in sé particolari; di questi esiti disponevano non solo esecutori diversi, ma sovente anche Ministri diversi da quello delle finanze. Gl’introiti stessi nascenti da
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prestazioni fisse, non erano certi, ed il governo non poté mai riuscire nel progetto di avere uno stato generale esatto delle sue rendite, siccome si è occupato per lunghissimi anni dell’idea di stabilire un piano di amministrazione e di contabilità che rendesse il Tesoro centro di tutta la spesa dello Stato, ma non vi poté mai riuscire. Questo era lo stato d’ordine che regnò nei tempi felici della
monarchia di Napoli, sino all'anno 1798; e questo periodo comprende lo spazio di quarant’anni di Regno. Succeduta la rivoluzione, e poi ripristinata la monarchia, al disordine naturale ed inerente al governo, vi si aggiunse quello del tempo. I saccheggi antecedenti, e posteriori all’entrata delle truppe, la mancanza di archivi pubblici, il vecchio abuso di rendere conservatori delle carte pubbliche di ciascun ramo, gli stessi impiegati; la morte, o le altre sciagure di costoro, involsero l’amministrazione in disordini, dei quali è facile di raccogliere le conseguenze. Questo male era così conosciuto, che negli ultimi tem-
pi, sino all’anno 1805, gli sforzi delle persone, a cui la cura delle finanze era commessa, non furono diretti, che ad introdurre, se
era possibile, un sistema migliore, che riparasse ai vecchi errori,
o stabilisse l’ordine e la regola. Per l’opposto il metodo che oggi regna nell’amministrazione, l’unità delle spese, l’ordine del Tesoro sono tali, che mettono in ogni istante il governo nello stato di misurare i suoi bisogni, e di regolare l’imposta e la spesa di ciascun anno. Questo vantaggio
sebbene secondario per la nazione, influisce però nell'economia, e nel retto uso delle rendite. Paragone dei due governi quanto all’uso delle rendite pubbliche. Quanto a quest’ultima parte, fatti ugualmente notori, e che non abbisognano di dimostrazione, formano il paragone fra l’una epoca e l’altra. Tutto l’assorbente della spesa sotto la vecchia Corte, come più innanzi abbiamo detto, si versava sopra lo stato militare. Le amministrazioni erano concentrate in un Tribunale unico, residente a Napoli, a metà giudice, ed a metà amministratore. Questo Tribunale non avea nelle provincie alcuno agente intermedio, e le sue determinazioni erano eseguite da due uniche autorità che rappresentavano il governo, i percettori e le udienze. Gli uffizi tutti amministrativi e finanzieri, si vendevano sotto
l’asta al più offerente. L’ordine giudiziario era ristretto ad un
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Collegio di giudici inferiori, che risedea in ogni provincia, con pochissime facoltà. Decadenza di tutti gli stabilimenti, e di tutte le opere pubbliche
sotto il passato governo.
I tribunali di Napoli erano per costitu-
zione i giudici di appello generali, e divennero per abuso i giudici di prima istanza di tutto il Regno. Dell’istruzione pubblica non solo non esistea alcuna ombra, ma l’Università degli Studi di Napoli, corpo scientifico del Regno, era caduto, per diffidenze e per la non curanza del governo, in uno stato d’inazione e di scoraggiamento. I pochi Collegi detti Gesuitici, che rimasero sciolti dopo la rivoluzione, non furono più repristinati, e solo un anno prima del cambiamento del governo si credé opportuno di ammettere nel Regno l'Ordine dei Gesuiti: qualche scuola locale secondaria, non fu più ristabilita. I professori rimasi sub iudice per le inquisizioni di Stato, non furono più abilitati al proseguimento delle loro funzioni. Le strade furono abbandonate, e le imposte che le provincie pagavano per questo ramo, furono versate nel Tesoro, ed impiegate ad altri usi. Niun’opera pubblica degna di memoria ha distinto il Regno di Ferdinando. Neppure la statua preparata al Re suo padre, al fondatore della sua dinastia, fu eretta nella piazza per essa destinata. Gli edifizi grandiosi incominciati dal Re Carlo, rimasero nello stato in cui egli li lasciò. Il grande Ospizio di Napoli, e tante altre opere di un ordine secondario, mostrano l’epoca della partenza del Re Carlo da Napoli. Loro restituzione ed accrescimento sotto il Regno di Gioacchi-
no.
Il Regno di Gioacchino offre un risultato assai diverso. La
sua bella capitale ha raddoppiata la sua bellezza con opere sem-
pre desiderate, e la di cui speranza sembrava chimerica. Le antiche strade sono state ristorate, e molti milioni sono stati spesi per accrescerle, e per rendere facili le comunicazioni in tutto il Regno. I siciliani possono aver notizia di una strada sola che da Napoli va sino ai lidi opposti di quell’isola. Quest'opera creduta impossibile, è fatta in gran parte, e basta a far giudicare di tutte le altre. Infinite altre opere di un diverso genere, sono state eseguite. L'istruzione pubblica si è non già aumentata, ma fondata; l’Università degli Studi fiorisce, un Orto botanico, una Specula,
gli spedali clinici, collezioni di ogni genere, facilitano lo studio ed il progresso della gioventù. Nuove biblioteche si sono stabilite:
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quasi ogni provincia ha collegio, o un liceo, molte scuole secondarie sono fondate. Ogni comune ha la sua scuola primaria. Il minuto popolo non sapeva prima né leggere, né scrivere, ed ignorava sino i doveri religiosi. Questo male diminuisce ogni giorno, ed i risultati delle cure del governo si veggono già sensibilmente nella gioventù. L’amministrazione sempre presente, e sempre vegliante mi-
gliora ogni giorno le provincie, ne accresce la coltura, ne addolcisce i costumi. Un deposito di merinos è stabilito per migliorare la razza delle pecore: un deposito di stalloni è stabilito per migliorare le razze dei cavalli, degenerate e quasi perdute. La pastorizia cresce da per tutto, per essersi l'industria esonerata da ogni dazio. Una scuola di veterinaria va a stabilirsi, dopo essersi mandati fuori gli alunni ad apprendere quest'arte a spese del governo. L'istituto di vaccinazione tenuto quasi di nome prima, è stato protetto e prov-
veduto di fondi, in modo da dare i migliori risultati per la popolazione: quanto le circostanze hanno permesso, tutto si è fatto per le opere di beneficenza. Noi crediamo superfluo di entrare in più lunghi dettagli, e di ripetere qui, quello che è stato pubblicato nei rapporti annali ed officiali del governo, che sono sotto gli occhi di tutti, e della di cui verità qualsisia persona che vegga il Regno, rimarrà convinta. Tutto quello che il Tesoro riscuote oggi dalla nazione è impiegato ad un esercito di più di ottantamila uomini che le circostanze hanno renduti necessari. Ma questo esercito, e lo stabilimento di una marina, oggetti che altre volte rovinarono la monarchia, e ne assorbirono tutte le forze, è stato dal Re Gioac-
chino combinato con tutte le istituzioni interne, che possono far prosperare un Regno.
Finalmente i giornalisti di Sicilia soliti a parlare di fatti che ignorano, ed a calunniare quelli che sono loro conosciuti, attaccano l’amministrazione tenuta dal Re Gioacchino nei dipartimenti Italici.
Condotta tenuta dal Re Gioacchino nell’amministrazione provvisoria dei dipartimenti italici. Il Re di Napoli avendo convenuta colle potenze alleate, l'occupazione dell’Italia sino al Po, onde avere i mezzi di sostenere le spese straordinarie della spedizione, appena in Italia, ha abolito le imposte di guerra, che vi erano
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stabilite, ha diminuito molti dazi indiretti, ha abolito molti diritti imposti sul consumo, ha mantenuto tutte le spese necessarie all’amministrazione, ha protetto le arti e le scienze, ha restituito
e migliorato l’antico porto-franco di Ancona, ha portato da per tutto la dolcezza, che è il suo carattere, come la crudeltà è il carattere di Ferdinando. Gli atti principali della sua amministrazione sono pubblicati: che i censori di Sicilia li leggano, e che consultino poi i popoli governati: essi troveranno in tutte le persone ragionevoli impressi i sentimenti di amministrazione e di
amore, e dovunque sono state fatte prima le spedizioni da Ferdinando, troveranno stabilita la differenza dei due governi, e ri-
stabilita la gloria e l’onore del nome napolitano. Allorché ha consegnato il Ducato di Toscana, Gioacchino vi ha lasciato grandi arretrati da esigere, e cinque milioni di franchi di arretrati sono stati lasciati al Papa nei Dipartimenti Romani. Conclusione. Ecco dunque i titoli, per i quali vorrebbe Ferdinando risvegliare la memoria dei napolitani. Un regno di quarant’anni passato nel sopore dei piaceri, e delle private passioni; l'incapacità contratta da lui e dal Principe suo figliuolo, per educazione e per abito, d’ogni occupazione pubblica; il loro cuore crudele, diffidente, chiuso alla liberalità, ed alla generosità, e pronto ad abbandonarsi al primo che venga a rilevargli dal peso e dalla responsabilità degli affari. Ferdinando ricorda ai napolitani i benefici loro renduti, cioè il non aver perfezionato, o l'aver
distrutto le istituzioni incominciate dal suo genitore; l’avere agitato la nazione con i partiti della sua Corte, di averla depauperata colle misure prese per aver fondi straordinari; l’averla esaurita col maggior peso delle imposte allora possibili; l’aver creata una marina inutile, anzi distruttiva del suo commercio, per poi con-
segnarla alle fiamme; l’aver due volte formato un esercito per disonorar la nazione; l’esser ritornato col ferro in mano per vendicarsi della nazione che egli avea abbandonata; l’averla infine dopo una seconda fuga consegnata alle stragi dei briganti e degli assassini. Sarebbe pur disonorante pel Sovrano che regola oggi il Regno con genio, e con forza, il paragone di due uomini, e di due amministrazioni così eterogenee fra loro. Se il voto dei Sovrani e delle nazioni, è la pace; se il principal fine di questa pace è il restituire alle nazioni l’equilibrio, e la calma delle loro passioni, come si potrebbe turbare lo stato di un
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popolo che dopo le sciagure della rivoluzione, ha sortito un governo, il quale soddisfa tutti i suoi voti? Sarebbe pericoloso in uno stato costituito l’andar rintracciando la vaga ed incerta opinione dei popoli, per decidere dei diritti dei Sovrani. Alla stabilità di questi diritti è attaccata la sorte delle nazioni, ed una ragione di reciproco interesse dee rendere inviolabili questi patti sociali. Ma sarebbe assurdo e mostruoso il rovesciare un diritto legittimo di sovranità, combattendo il voto e l’interesse di una nazione. Diritto più che legittimo di sovra-. nità è quello che parte da un giusto titolo di conquista, seguito dalla ricognizione di tutte le potenze, e dalla loro alleanza per una causa comune. Ferdinando di Sicilia si sovvenga, che ai felici risultati di quest’alleanza, al bene della quale il Re Gioacchino ha contribuito per quanto i suoi mezzi gli hanno permesso, egli è debitore della conservazione di quel Regno, e se in vece della riconoscenza, e della moderazione che debbono ispirargli l’esempio delle altre nazioni, e la propria esperienza, egli volesse tentare ancora le affezioni dei napolitani, sappia che quell’esperien-
za la quale parla al cuore di tutti, rende così determinati i napolitani in favore del loro attuale Sovrano, che se mai potesse la fortuna arridere alle sue armi, dopo aver egli superato un esercito assai diverso di quelli del 1798 e del 1806, risoluto di vincere, o di morire per suo Augusto Sovrano, e per la sua patria, egli vedrebbe fuggire innanzi ai suoi piedi la nazione intera, e vedrebbe abbandonato questo suolo a quei briganti soli che egli ha scelti per lo passato per apportatori dei suoi benefici, e delle sue pro-
messe. Questi sono i voti dei napolitani. B)
LA «GRANDE QUESTIONE DEL DEBITO PUBBLICO»*
Sire, Vostra Maestà con il decreto del 12 gennaio ultimo ha riunito al demanio dello stato i beni di dodici conventi di religiose della città di Napoli, dove ne restano ora ventisei. * Da Pierre-Louis Roederer, Rapport fait au Roi, par le Ministre des Finances le 15 mai 1808. Imprimé par l’ordre de Sa Majesté, pour servir à l’exposition des motifs des Décrets rendus le 20 du méme mois, concernant la Réunion des Biens des Reli-
gieuses de Naples, l’Abolition de la Banque des Particuliers, la Fixation des Rentes qui seront payées par l’Etat, la Dotation de la Caisse d'Ammortissement, le Paiement de l’Emprunt de Hollande, etc., Imprimerie Frangaise, Naples 1808 (traduzione del curatore).
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Questi dodici conventi erano i più ricchi; possedevano all’incirca tante rendite quanti gli altri ventisei. Sopprimendo i dodici conventi, Vostra Maestà ha ordinato l’incorporazione delle religiose ivi rinchiuse alle ventisei case rimaste, presumendo che le rendite di queste sarebbero bastate per il sostentamento delle religiose che vi abitavano e insieme di quelle incorporate. i L’esperienza sembra aver insegnato che non bastano. E certo che dopo l’incorporazione tutte le religiose si sono lamentate della sproporzione fra il loro numero e le loro rendite attuali. Hanno domandato che lo stato o restituisca loro una parte dei beni riuniti, o riunisca al demanio tutti i beni delle ventisei case conser-
vate, rimpiazzandone le rendite con pensioni inscritte sul Gran Libro; alternativa che prova, Sire, la fiducia che hanno ispirato il vostro carattere e i vostri istituti per la garanzia del debito pubblico. Vostra Maestà ha incaricato i suoi ministri del Culto, degli Interni e delle Finanze di farle rapporto su queste richieste: Ella ha osservato che la questione non doveva esser decisa con un semplice esame del bilancio delle case soppresse, e che la soluzione dipendeva meno dal valore dell’attivo che esse potevano presentare, che dall’importanza delle operazioni a cui questo attivo potesse dare agio, mettendo a disposizione delle finanze una più grande massa di beni di diversa natura. In conseguenza, Vostra Maestà ha indicato il piano che doveva essere seguito nel lavoro che ha ordinato: Vostra Maestà ha voluto rivedere nel loro insieme gli impegni e le disposizioni prese per assicurarne il compimento, al fine di riconoscere come i beni e i debiti delle case delle religiose potessero entrare nelle combinazioni del sistema generale già adottato e seguito con successo per l'estinzione del debito pubblico. Io cercherò, Sire, di soddisfare le intenzioni di Vostra Mae-
stà; ma poi che Ella vuole rivedere il sistema intero della liquidazione del debito pubblico, completarlo, assicurarlo, garantirlo, le chiedo il permesso di far entrare nella memoria che mi ha domandato il progetto di un’altra riunione che mi sembra preparata da gran tempo dalle circostanze, e che è necessaria per allargare le basi del credito pubblico: è la riunione dei beni e dei carichi del Banco dei particolari, e l'abolizione di questo Banco. Oggi esso è nei fatti annientato, e il suo servizio potrebbe essere com-
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
249
piuto dal Banco reale, se Vostra Maestà l’autorizza a ricevere dei depositi e fare dei pagamenti per conto dei particolari. [...] Il risultato del lavoro che è stato messo sotto gli occhi di Vostra Maestà è: che il 30 aprile ultimo solo il debito perpetuo e il debito vitalizio si trovavano perfettamente garantiti; che i beni dello stato a quell’epoca non bastavano a saldare completamente il debito esigibile e il prestito d'Olanda; che gli stabilimenti d’istruzione pubblica ordinati da Vostra Maestà non potevano prender vita per mancanza di fondi per il loro mantenimento;
che le case di carità non potevano, per la stessa ragione, sperare di veder cessare il loro attuale languore; che la Cassa d’ammortizzazione, senza mezzi propri di attività, non può avere che un'esistenza fittizia, una vita d’accatto, e una consistenza limitata; ma che la riunione dei beni e dei carichi delle religiose e del Banco dei particolari ha cambiato vantaggiosamente lo stato delle cose e ha fatto cessare ogni imbarazzo. Per questa riunione, per le operazioni che favorisce, tutti gli impegni sono soddisfatti, gli istituti più utili al paese, più gloriosi per Vostra Maestà, si elevano e prosperano, il credito si estende e si rafforza, l'estinzione totale del debito pubblico viene portata a compimento in meno di sei anni. Mettendo così termine alla grande questione del debito pubblico, Vostra Maestà deve compiacersi di ritornare su quello che ha fatto per raggiungere questo scopo, di volgere il suo sguardo sul punto da cui è partita, e su quello a cui è giunta, di misurare l'intervallo che separa questi due punti, e mettere a confronto i tempi e i mezzi che ha impiegati per colmarlo. Salendo al trono, Vostra Maestà ha trovato quasi la metà delle rendite dello stato alienate ai creditori, diventati i re dell’imposta. Ella ha fatto ritornare queste rendite al Real Tesoro, ne ha affidata la percezione a rappresentanti del potere sovrano. Salendo al trono, Vostra Maestà ha trovato le sue province spoglie di stabilimenti d’istruzione pubblica, gli stabilimenti di Napoli incompiuti e miserabili, un intero sesso privato dell’insegnamento. Ella ha fatto dono a ciascuna delle sue province di due case d’educazione. Ritirando l'imposta dalle mani dei creditori dello stato, Vo-
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
stra Maestà ha riconosciuto il loro credito; riacquistando i diritti della sua sovranità, Ella ha riconosciuto le loro proprietà. Ed Ella ha presentato loro tre mezzi di risarcimento: in beni immobili; in rendite costituite sul Gran Libro;
in capitali in denaro, depositati in una Cassa d’ammortizzazione.
È il creditore saggio, economo, buon padre di famiglia? Preferisce egli una rendita limitata, ma solida e sempre crescente, più o meno accompagnata da godimento di interessi dolce e tranquillo, a una rendita più elevata, ma sempre decrescente come il valore del denaro, e sempre dipendente dagli avvenimenti? Vostra Maestà gli dà dei campi, dei prati, dei boschi, delle case, al prezzo antico di questo genere di proprietà.
Ha il creditore un capitale troppo limitato per acquistare un fondo, oppure, poco economo e previdente, ha più fretta di godere dei frutti? Preferisce egli il cinque per cento del suo capitale, correndo il rischio del deprezzamento del denaro, al due o tre per cento con possibilità di accrescimento? Preferisce egli pa-
gamenti regolari e periodici presso una cassa pubblica della capitale agli imbarazzi di una riscossione talora litigiosa, a distanza dal suo domicilio? Vostra Maestà gli offre una cassa di rendite formate dal prodotto di una contribuzione aggiunta a tutte le altre, una cassa separata dal tesoro pubblico, al riparo dai suoi bisogni, riguardata come proprietà dei creditori, depositata nelle mani e sotto la sorveglianza di un conservatore indipendente dai ministri, distinto per rango e proprietà; Ella gli paga, in una parola, al posto degli arrendamenti particolari, un arrendamento generale, che lucra al detentore delle rendite un reddito esattamente equivalente. Delle speculazioni particolari fanno desiderare ad alcuni creditori di convertire il loro credito in denaro contante? Vostra Maestà offre loro una Cassa d’ammortizzazione che ha per oggetto il riscatto dei titoli di credito, che ha sempre fondi di riserva per quest’oggetto, che ha per dovere impedire il deprezzamento di questo genere di proprietà.
E questa Cassa di ammortizzazione tori, non potrà lavorare per loro senza per l’intera nazione, poiché riscattando stinzione, e prepara o la soppressione
così favorevole ai credial tempo stesso lavorare il debito ne consegue l’edell’imposta istituita per
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
251
alimentare la Cassa stessa, o l’impiego dei suoi frutti per lavori profittevoli allo stato e alle proprietà private. Mi sembra, Sire, che sarebbe difficile immaginare un sistema più equo e meglio confacente a tutti gli interessi. Già questo sistema ha ricevuto la sanzione dell’esperienza: su cento milioni di ducati, somma a cui s’elevava il debito anticamente costituito, cinquanta sono stati ammortizzati. La Cassa, che è stata ogni giorno rifornita a partire dal primo gennaio, ha aperto i pagamenti del primo quadrimestre il primo maggio, e
ben presto 14 milioni saranno consolidati. La Cassa di ammortizzazione,
per quanto
non
ancora
dotata,
ha già ricevuto
500.000 ducati di fondi cauzionali, cosa che garantisce la percezione dell’imposta: il ricevitore che anticipa il suo denaro per ricevere quello dello stato non lascia languire la sua riscossione. Se Vostra Maestà considera le fonti a cui Ella ha attinto i suoi mezzi di riscatto, troverà nuove ragioni di compiacersi e di contare sulla riconoscenza pubblica. La grande malattia dei paesi caldi, dove la terra è prodiga, e l’uomo ha pochi bisogni, è l’ozio. Qui tutte le istituzioni che assecondano il clima in luogo di combatterlo sono viziose. Fra tutte le istituzioni che favoriscono l’ozio, la monarchia è la più potente. Nata essa stessa dall’influenza del clima, essa l’aumenta, la raddoppia, vi aggiunge l’influenza dell’ esempio. È una parte dei beni della monarchia che vi ha fornito i vostri mezzi di spesa. Così Voi, o Sire, avete rifatto il patrimonio della corona, e
creato una moltitudine di patrimoni particolari, con una porzione del patrimonio dell’ozio; avete restaurato le vostre finanze attaccando un vizio pubblico, avete servito in uno la politica e la morale. Questo sistema appartiene per intero, Sire, ai vostri lumi,
alla saggia fermezza del vostro carattere. Il soccorso dell’industria finanziaria, le combinazioni e i metodi non sono serviti che
ai dettagli dell'esecuzione. Felici i ministri che non devono dedicarsi che all’esecuzione di volontà giuste, grandi e forti! Felici i popoli sottomessi a dei principi illuminati, applicati e vivamente occupati dalle cure di un governo paterno! Sono con il rispetto più profondo di Vostra Maestà, Sire, l’umilissimo, obbedientissimo, e fedelissimo servitore Roederer.
Da?
Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
C)
LA SOPPRESSIONE DEI BANCHI PRIVATI”
L’ammontare delle polizze del Banco dei particolari che si trovano in circolazione non è possibile al momento d’indicarlo a punto determinato; si può valutare però prudenzialmente a circa D. 660.000, si può nondimeno dire con precisione, ch’elleno non eccedono punto la summa di D. 700.000, ben inteso, però, che le antiche polizze del Banco S. Giacomo non sono comprese nell’anzidetto totale. Le indicate polizze trovansi disseminate in varie mani; esse però non hanno il medesimo tipo: ciascun banco aveva il suo particolare. Il decreto con cui sono restati soppressi i quattro banchi, le di cui polizze trovansi in giro, non ha privato però i medesimi del tempo necessario onde poter finalizzare tra essi ed il pubblico il bilancio dei rispettivi loro conti. Di vantaggio la disposizione compresa nell’articolo 3° del citato decreto, disposizione mediante la quale tali summe saranno ricevute in pagamento dei crediti attivi del banco durante lo spazio di tre mesi a datare dalla pubblicazione della legge, finalmente i riguardi dovuti ai proprietari delle polizze, già da lungo tempo discreditate, formano tanti oggetti i quali esiggono un sistema di ritiro, il quale abbia un’esecuzione semplice e facile, e che riunisca insieme i vantaggi delle celerità e dell’economia. Ecco dunque il piano, che la Commessione ha giudicato il più suscettibile onde metter d’accordo tutti questi interessi tra di loro opposti. Questo piano è tratto da quello publicato nel 1800 con l’editto del 8 maggio in una circostanza presso a poco simile, e per ammortizzare una summa di 23 milioni di ducati; esso garantisce il governo da qualunque riserbo che potrebbe derivare dalla confusione e dalla falsità; egli mette nelle mani dell’esibitore delle polizze, invece di un valore soggetto a tante formalità, un effetto il quale ha un corso regolato e uniforme; egli tende finalmente alla durata la più corta di quel tempo che sarà indispensabilmente necessario alle quattro casse del Banco dei particolari per assoggettare tutte le loro polizze alle operazioni di riscontro, per lo di cui canale l’uso e il buon ordine esigono di passare. * Sul ritiro delle Polize al Banco dei particolari, rapporto della Commessione temporanea di Liquidazione al Ministro delle Finanze, Napoli, giugno 1808, senza indicazione dell’autore, in ASN, Ministero Finanze, fascio 1883.
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
Proposizioni.
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I possessori di polizze del Banco dei partico-
lari, cioè Pietà, Spirito Santo, Poveri, e S. Eligio, i quali vorran-
no profittare del beneficio loro accordato dall’articolo 3° del decreto dei 20 maggio passato, sia per estinguerne debiti con i banchi, sia per farsi inscrivere sul Gran Libro, oppure per acquistarne e pagarne beni dello Stato, elasso che sarà il termine accordato per sottrarsi dagli obblighi con i banchi, dovranno prima d’ogni altro presentare e depositare le loro polizze alla Commessione temporanea del Banco dei particolari. La Commessione consegnerà a ciascun esibitore di polizze un bullettino di deposito, nel quale verrà enunciata la quantità delle polizze che il medesimo avrà depositate, vi saran distinti i banchi dai quali esse traggono origine, col dettaglio dell’ordine e valore di ciascuna polizza, e fisserà ivi la summa totale del deposito. La Commessione verserà in ciascun banco le polizze che le saranno state depositate, ciascuna cassa dei banchi ne farà la verificazione, e darà credito alla Commessione della corrispondente summa sulla di lei madrefede. Avutone credito, la Commessione rilascerà delle ricognizioni definitive, che saranno ammisibili in pagamento delle nature di debito che il Ministro delle Finanze avrà determinato, ed esse
valeranno come cedole, spirato che sarà il termine fissato dalla legge dei 20 maggio passato?. Le ricognizioni del ritiro delle polizze, acquistando un valore simile alle cedole, dovranno esser vistate dal Ministro delle Finanze, oppure da quel controloro ch'egli vorrà destinare. Tutte le ricognizioni saranno suscettibili d’essere divise e diminuite quante volte eccederanno la summa che un debitore sarà ammesso a pagare. Le ricognizioni od i loro cuponi saranno abili ad estinguere li crediti dei quattro banchi indistintamente. La Commessione dovrà tenere due registri: il primo di deposito, il secondo di tutte le ricognizioni rilasciate in rimpiazzo delle polizze ammortizzate. Essa farà apporre sopra ciascuna polizza in presenza dell’e2 Il decreto del 20 maggio 1808 «col quale, sopprimendosi il Banco de’ particolari, e riunendosi i suoi crediti alla cassa di ammortizzazione e gli altri suoi beni al demanio, si regola l’indennizzamento dei suoi creditori, e si abilita il banco di corte a supplirne il servizio».
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
sibitore un impronto ove sieno marcate le seguenti parole: polizze presentate all’ammortizzazione. A misura che queste saranno riconosciute e passate a banchi ve ne sarà apposto un altro con le seguenti: polizze ammortizzate.
Verrà posto a ciascuna polizza il numero del registro sotto del quale sarà stato fatto il deposito in Commessione, affinché ella possa restituire agli esibitori quelle polizze che i banchi avranno o per una causa, o per l’altra, ma sempre ben fondata, scartate o rifiutate. In caso di falso, falsificazione o di revindica per causa di furto, ed in ogni altro caso suscettibile di arrecar pregiudizio agl’interessi pubblici o privati, le polizze saranno restituite alla Commessione la quale le terrà, e prenderà gli ordini dal Ministro delle Finanze sul fatto che sarà stato presunto o riconosciuto. Un avviso uffiziale istruirà il publico della necessità di rimettere le polizze del Banco dei particolari alla Commessione temporanea, per far partecipare a ciascun possessore di tutti li vantaggi assicurati dalla legge. La Commessione opina che le polizze che non saranno state, o che per ragioni di fatto dei particolari non avranno potute essere convertite in ricognizioni, nel termine prescritto dovrebbero, incorrere nella perdita del dritto, ed a questo titolo esser dichiarate d’avanzo e di nessun valore.
D)
LA LEGGE DEL 4 MacgcIO 1810*
Il governo viceregnale aveva oppresso questo Regno con una mole di debito dalla quale non rimaneva più né anche la speranza di potersi un giorno liberare. I creditori dello Stato erano divenuti proprietari di quei fondi dai quali doveano trar l’interesse del loro capitale; e così, con gravissimo danno della industria na-
zionale, metteasi in mano dei privati una grandissima parte della pubblica amministrazione. * [Vincenzo Cuoco], Osservazioni sulla legge del 4 maggio riguardante il debito pubblico, in «Corriere di Napoli», 30 maggio 1810 (l’articolo, senza firma, è attribuito a Cuoco in Scritti vari, a cura di N. Cortese e F. Nicolini, Laterza, Bari
1924). Si tratta della «Legge che prescrive mezzi di garanzia del debito costituito, e la soddisfazione del debito non inscritto, collo impiego delle cedole in acquisto sì di censi che di fondi demaniali».
IV. Il nuovo regime e le grandi riforme
255)
Un tal disordine non avrebbe avuto mai fine senza quella felice rivoluzione che ha messo a disposizione del governo una nuova quantità di fondi da potersi surrogare a quella che i creditori avevano in loro potere. Si era rimesso all’arbitrio dei creditori medesimi o di continuare a rappresentare un credito contro lo Stato, facendosi iscrivere sul gran libro, o di comprare dei fondi a condizioni vantaggiose. E moltissimi di questi eransi venduti col doppio vantaggio, di diminuire il numero dei creditori, e di accrescere quello dei possessori di terre. Erasi però osservato che incomodava non poco i creditori quel quarto del prezzo che si richiedeva in contanti, e ne avveniva che non tutti potendo fornirlo, o le compre erano rare, o si facevano non già da veri creditori ma bensì dagli agiotatori, ai quali quelli erano costretti a cedere le cedole, e colle cedole tutti i profitti che nelle vendite loro si offrivano dal governo. Erasi osservato ancora che il metodo delle subaste, sebbene il
più legale di tutti, per alcune circostanze particolari era divenuto dannoso egualmente ai veri creditori e al governo; perché, quelli potevano essere di rado essi stessi i compratori, e dovevano cedere le loro cedole agli agiotatori: questi sempre pochi, sempre di accordo tra loro, erano i soli che realmente disponevano, a danno del governo, di un contratto che in apparenza sembrava libero. Colla legge di cui parliamo si è voluto al tempo istesso confortare la fede pubblica nei creditori dello Stato, e rendere quanto più si possa facile il pagamento del loro credito. Si è proibita ogni nuova iscrizione sul gran libro, se non sia preceduta da un assegnamento di nuovi fondi sufficienti ad assicurarne il pagamento: ciò deve per necessità far crescere il va-
lore delle iscrizioni, di già molto ricercate, e migliorare la condizione di coloro che hanno prescelto di rimanersene nella condizione di creditori dello Stato. Si sono messi in vendita tutti i fondi dei Reali demani; si è fatto più; si è permesso di redimere con cedole tutti i canoni dovuti sia ai demani, sia a qualunque istituzione ecclesiastica, d’istruzione, di beneficenza. Così non vi sarà nessun creditore a cui non sia vantaggioso il comprare. Non a tutti accomodava il comprar dei fondi: non tutti avran la somma di cedole necessaria per acquistar fondi di gran valore: spesso, per la loro distanza degli altri fondi del creditore, non sempre era opportuno l’ac-
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
quisto; ma pochi sono i fondi i quali non sieno soggetti ad un canone della natura di quelli che abbiam detto di sopra; questi canoni per l’ordinario son piccioli, sicché ogni picciola somma di cedole sarà sufficiente, ed in conseguenza moltissimi saranno coloro i quali e vorranno e potranno ricomprazrli. Si è fissato alla ricompra di canoni ed alla compra di fondi un prezzo vantaggioso al creditore. Imperciocché paragonando il valore attuale delle cedole e quello del denaro si viene a comprare ad una ragione che è tra il nove e il dodici. Si è tolta la necessità della subasta, come quella che era per lo più cagione di monopolio. Si è detto che si possa seguire la norma delle locazioni, dell’imposizione fondiaria, dell’apprezzo, della subasta; e ciò quasi sempre ad arbitrio dei compratori. Si è detto a buon conto: io voglio pagarvi, ed al più presto possibile: il modo sia quello che meglio sembrerà agli stessi miei creditori: U inter bonos bone agire oportet. Ecco il vero spirito della legge che noi analizziamo: l’averla esposta è lo stesso che averne fatto l’elogio. Ve ne sono poche altre che contengono più giustizia e più buona fede.
V L’AMMINISTRAZIONE
DELL’ECONOMIA
1. Pressione fiscale e reazione delle provincie A)
LE IMPOSTE DIRETTE DEL 1814*
Sire, umilio alla Maestà Vostra un progetto di decreto relativo alle contribuzioni dirette del venturo anno 1814. La somma totale di questo ramo delle pubbliche entrate vi è riportata come per l’anno corrente a 33 milioni di lire in principale. I bisogni del Tesoro reale, niente diminuiti dagli anni precedenti, domandano ancora le stesse risorse. La proporzione nella quale le tre contribuzioni stabilite nel Vostro Regno dovran concorrere a fornire i 33 milioni sarà parimenti quella che dal decreto degli 8 agosto 1812 fu fissata per l’anno corrente, vale a dire la
Contribuzione fondiaria La personale
L. 27.060.000 L. 4.180.000
Le patenti
L. 1.760.000 L. 33.000.000
Nel ripartire tra le provincie 27.060.000 di contribuzione fondiaria, ho creduto indispensabile di proporre a Vostra Maestà un cangiamento diretto a migliorar la sorte di quelle di Napoli, * Ministero delle Finanze, Rapporto e Progetto di Decreto sulle contribuzioni dirette dell’anno 1814, a firma del ministro conte Mosbourg, in «Rapporti del Consiglio di Stato dal 1812 al 1815», s.n.d., s.n.l.
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
Terra di Lavoro, e Calabria Citeriore. Un disgravio in favore della prima è indispensabile, sì per la gravezza evidentemente riconosciuta e fortemente sentita dei contingenti assegnatile negli anni passati, come pel considerevole aumento di pesi provinciali ch’essa ha ricevuto, e per la somma di L. 880.000 esigibile in 4 anni votata dall’ultimo consiglio generale, e per la recente disposizione che mette a di lei carico la spesa della prefettura di polizia che prima pagavasi dalla sola capitale. Un avanzo dell’antica ineguaglianza di ripartizione che aggrava ancora molte comuni dei Distretti di Sora, di Gaeta, e di Rossano, non che la diminuzione di rendita che risulta da molti catasti di Terra di Lavoro e di Calabria Citeriore è il motivo della diminuzione che mi sembra doversi operare sui loro contingenti. Con queste ve-
dute, dalle somme imposte quest'anno alle tre provincie suddette, ho separato L. 394.000 e le ho divise fra le altre undici [...]. Bisognava dare alle comuni che si rettificano secondo il Real Decreto dei 12 agosto 1809 una prova solenne che l'aumento di rendita che sui loro catasti può produrre questa grande operazione serve unicamente ad equilibrare per esse il peso della imposta, e non già ad aumentarlo. L’art. 3 del progetto dispone che le comuni le quali si troveranno rettificate, alla riunione dei consigli generali saranno tassate sulle basi dei loro contingenti attuali, che uniti in massa per ogni provincia saranno tra le comuni che le compongono ripartiti ad una ragione uniforme pro rata dalle rendite dei catasti. L’esperienza ha troppo dimostrato quanto sia difficile il percepire la contribuzione personale tal quale si trova imposta nella città di Napoli e sugl’impiegati del governo. La vastità, la numerosa popolazione di una metropoli, la mobilità degli abitanti, la facilità colla quale ciascuno vi si può nascondere all’azione dell'autorità, rendevano per lo più vana in Napoli una imposizione pagabile direttamente dalle persone, siccome da un’altra parte l’abuso che molti dei pubblici funzionari potevano fare della loro indipendenza dai percettori facea cadere in non valori le quote che avrebber dovuto percepirsi le prime, e più facilmente. Credo che alla contribuzione personale della città di Napoli si debba sostituire un dazio del 2 per cento sui fittuari ed inquilini di ogni specie. Imposto insieme colla contribuzione fondiaria per esser anticipato dai padroni dei fondi, esso sarà introitato infallibilmente dal governo, e i padroni non avranno difficoltà per rimborsarsene, riscuotendolo insieme colle rate dei loro affitti. Que-
V. L’amministrazione dell'economia
250)
sta specie di contribuzione non è nuova nella città di Napoli, dove per diversi anni si è in tal maniera riscossa la tassa dell’uno per 100 destinata al casermaggio. Convertito così il contingente della capitale, non poteva esso esser maggiore della somma che si è calcolata come il prodotto del 2 per 100 sugli affitti, e perciò si è fissato a lire 220.000. La contribuzione personale caricata ai pubblici salariati si riduceva ad un precapimento sul loro soldo. Io propongo di convertire in ritenzione quel che finora è stato pagamento diretto, e così il risultato sarà lo stesso, e si eviteranno gl’inconvenienti annessi al modo attuale. La tariffa graduale che ho stabilita per le ritenzioni è analoga alla classificazione dei soldi contenuta nel decreto dei 29 settembre 1809. Benché si dovrà ritenere agli uni 1'1 e mezzo, agli altri il 2 e mezzo, e ad altri il 4 per 100, ho valutato il prodotto di tali ritenzioni come se fossero tutte del 2 e mezzo, e perciò l’ho riportato per lire 280.000, somma presso a poco equivalente a quella risultante dal 2 e mezzo destinato alle pensioni. Diminuito così di lire 500.000 l’importo della contribuzione personale propriamente detta, ho ripartita la rimanente somma di lire 3.680.000 fra le provincie, esclusa la capitale, in proporzione dei loro attuali contingenti dopo dedottane la parte che equivaleva alla tassa degl’impiegati [...]. Nei tre primi anni la contribuzione delle patenti è stata una imposta eventuale. Effetto di questa condizione, per altro necessaria nella novità dello stabilimento, è stato che l’importo delle patenti sia ogni anno visibilmente diminuito. Calcolato approssimativamente per lire 1.760.000 tra le contribuzioni dell’anno 1813, appena essa è arrivata in realtà a lire 1.592.151, quando nel 1812 era stata di lire 1.735.237, e nel 1811 di 1.782.937. E tempo di ridurre le patenti, come sono in Francia, ad imposizione di somma fissa e ripartibile anticipatamente. Quando i patentabili di una comune sapranno che tocca a loro pagare il peso a cui si sottraggono i loro confratelli saranno essi i primi a non soffrirne l’occultazione. Ho lasciato l'importo delle patenti come pel 1813 a lire 1.760.000 in principale, ed a ciò sono stato indotto dal considerare che i ruoli dell’anno 1811 sono stati in principale di lire 1.782.937. Per la ripartizione [...] ho conservato la somma dei ruoli del 1813, aggiungendovi il compimento fino alle lire 1.760.000 in proporzione delle differenze in meno che essi presentano paragonati a quelli del 1812.
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
Niuna novità ho proposta circa il modo di ripartizione delle contribuzioni fondiaria e personale tra le provincie e fra i distretti, niuna a riguardo dei centesimi provinciali e comunali. Utile cangiamento potrà esser quello di abolire il fondo di disgravio che finora è stato a disposizione delle provincie, riducendo così a tre i cinque centesimi addizionali imponibili a questo titolo. I tre centesimi saranno intieramente a disposizione di Vostra Maestà, e serviranno a soccorrer le provincie percosse da qualche flagello. I disgravi, le moderazioni, e soprattutto i rilasci collettivi sui reclami dei percettori, tutti del pari che già lo sono i discarichi e le riduzioni, saran materia di reimposizione. Le comuni e i loro rappresentanti interessati a non far crescere la massa dei non valori non ammetteranno da ora innanzi senonché quelli che saranno evidentemente tali; e questi son sempre pochi. Il Regno comincerà a goder della esenzione certa di un peso addizionale del 2 per 100, e potrà tra breve sperar dallo zelo rianimato degli amministratori di non aver più senonché poco o nulla da pagare per reimposizione. Alcune disposizioni regolamentarie circa i reclami collettivi seguono quella che sostituisce la reimposizione ai due centesimi aboliti. Gl’introiti del Tesoro Reale han molto vantaggiato in seguito del decreto dei 9 luglio 1812, che ha ridotto a 4 l’epoche del pagamento delle contribuzioni personale e delle patenti; non minor vantaggio ne han ricavato i contribuenti, per molti dei quali infelicemente le coazioni sono un peso abbastanza penoso. Il buono stato della percezione della contribuzione fondiaria e delle patenti permette di estendere maggiormente il detto benefizio a pro dei contribuenti più poveri nella tassa personale, ed io mi fo un dovere di suggerirne il modo alla Maestà Vostra. Esso consiste nel permettere che la prima e la seconda classe di tali contribuenti paghino solamente un quarto della lor quota dal 1 fino al dì 15 di gennaio e che non siano molestati per gli altri 3 quarti fino al dì 15 di agosto, tempo in cui le raccolte spargono in tutte le mani le ricchezze prodotte dal suolo ed in cui è più che mai
facile il pagamento. Finisco supplicando Vostra Maestà che si degni rimettere il presente rapporto coll’annesso progetto all’esame del Consiglio di Stato.
V. L’amministrazione dell’economia
B)
261
UN RECLAMO PER LA RIDUZIONE DELLA FONDIARIA”
Le comuni di questo distretto di Teramo chiedono nelle forme legali tanto la riduzione della quota dei 160.000 ducati per l’anno venturo, quanto la diminuzione dell’anno corrente 1808. Le ragioni sono le stesse per l’uno e l’altro anno, e poggiate su basi di fatti evidenti, notissime all’illuminatezza e saviezza del
Sig. Intendente. I°. La trasgressione della legge della fondiaria accaduta in tutte le sue parti. II°. L’irregolare tariffa formata sul prezzo dei generi, o sia titolo di valore, per essersi coacervati i prezzi di un decennio di consecutive carestie, per cui n’è risultato un prezzo medio elevatissimo, quale è quello di ducati cinque e carlini sei la salma del
grano. E stata santa l’intenzione del Sovrano, ma dovea l’esecutor
della legge riferire al legislatore il caso strano che accadeva in questa coacervazione di dieci anni di non interrotta penuria, perché la giustizia sovrana avrebbe presi quegli espedienti necessari all’uopo. È noto che la maggior parte delle terre di questo distretto si trovan date a colonia parziaria dove al tre, dove al quattro di porzione dominicale. E noto ancora che nelle annate di abbondanza la riproduzione annua si giudica essere quella che un tomolo di grano ne riproduce quattro con lo stesso seme. In tale circostanza il prezzo era sempre al di sotto di carlini trenta la salma all’incirca, quando non ne correvano circostanze di commercio che avesse potuto alterarlo. In questo ultimo decennio, vale a dire dal 1798 sin’ora, non vi è stata ombra di commercio per extra Regno; ciò nonostante, i prezzi sono stati sempre sommi con fermezza, e ciò a ragione della scarsa riproduzione, che
invece di andare alla quattro, come si è espressato di sopra si è ristretta a molto di meno, dimodocché neppure le spese di agricoltura si sono rinfrancate e da questa scarsezza dei prodotti ne * Memoria che il Consiglio Distrettuale presenta allo spettabile Sig. Intendente della Prima provincia di Abruzzo ultra su i Riclami delle Comuni del Distretto di Teramo tanto per la diminuzione della quota dell’anno prossimo, che per una riduzione per l’anno corrente a tenore dell'art. 41 del Decreto dei 16 Febrajo, a firma di Gian Bernardino Delfico, Teramo, 10 Ottobre 1808, in ASN, Ministero Interni, I Inventario, fascio 183/2. Il decreto del 16 febbraio 1806 prescriveva «il metodo col quale dovranno ammettersi e giudicarsi i reclami contro la ripartizione della contribuzione fondiaria».
262
Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
è derivata l’arduità dei prezzi. Essendo dunque i prezzi in ragione reciproca colla riproduzione ragion vuole, ch’essendosi fatta la coacervazione dei prezzi per prendere il comune si avessero dovuto coacervare anche per un decennio di una serie di carestie e scarse raccolte avute, ed allora si avrebbe veduto che non era
affatto adattabile per la valutazione dei generi la tariffa stabilita sul prezzo medio del coacervo desunto da tali circostanze. III°. Questa tariffa è stata assolutamente arbitraria, formata
dal solo Direttore secondo un suo mal’inteso spirito fiscale; e quello che è più da rimarcarsi, si è che in alcune comuni, essendo
stata fatta una tale tariffa colle formalità prescritte dalla legge, e firmata dallo stesso Direttore Thomas, il medesimo non ha vo-
luto poi osservarla, rigettandola ed organizzandola egli a suo capriccio; da che n’è nata una imposizione sproporzionata alle forze di questa piccola provincia. IV°. La classificazione delle terre è stata anche tutta ideale, perché adossata a persone incapaci, che senz’aver vedute le terre le hanno classificate, mancando anche della misura e confinazione per la fretta loro imposta. Ed inoltre con sorpresa di tutta la provincia si è veduto che in questa classificazione non si è dato alle terre l’anno del riposo, per lo che è risultato un prodotto annuo doppio di quello che in sostanza lo sia. Questa verità è patente e risulta dalle stesse operazioni della fondiaria, ed ha perciò prodotto quella enorme imposizione a cui è stata tassata questa provincia.
V°. La legge fondiaria stabiliva di doversi tassare il quinto sulla rendita netta; ma il Direttore facendosi superiore alla legge non ha voluto affatto dedurre le spese di agricoltura ed altro, come dalla legge dei 8 novembre 1806. E questo è stato un altro motivo di somma gravezza per il distretto, e provincia; anzi per farne risultare una maggiore rendita dai terreni di ogni comune, lo stesso Direttore si è servito di norma degli affitti i più eccessivi, come pure delle compre e vendite per alterarne piucchemai
la rendita di ogni fondo. E lo stesso e forse maggior disordine risulta dal valore datosi alle tasse delle case. VI°. Sarebbe un sollievo delle povere comuni, che dopo fatta da Consigli distrettuali e provinciali la distribuzione delle rispettive quote di contribuzione ad esse comuni vi formasse da loro razionali la ripartizione tra i cittadini senza dipendere dalla Direzione, poiché con poca o niuna spesa si formerebbero essi me-
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desimi i loro ruoli, che altrimenti importerebbero moltissimo, se si dovessero ricevere dalla Direzione. VII®. Recherebbe anche un vantaggio a dette comuni se l’esazioni si facessero, come per lo passato, dai propri loro esattori,
dai quali, mediante l’accensione di candela, potrebbero ottenere un sensibile ribasso sul dritto di esazione. VIII. Essendosi osservato nel corso dell’anno, che il pagamento mensuale della contribuzione fondiaria riesce gravoso ed incomodo alle popolazioni, sarebbe anche necessario che lo stesso pagamento si facesse in ogni quattro mesi; il primo a fine di aprile; il secondo a fine di agosto; ed il terzo a fine di dicembre; che sarebbero i tempi più propri per la facilità della percezione; e ciò anche in forza delle Istruzioni sulla partizione della contribuzione fondiaria dei 24 settembre 1808; e solo sarebbe qui d’avvertirsi, che nelle montagne non può eseguirsi detta esazione di quatrimestre, perché gli abitanti delle medesime sono assenti la maggior parte dell’anno per procacciarsi il vitto ed il denaro per li pagamenti fiscali. Questa riflessione mosse anche il passato governo ad abilitare detta povera gente a fare i pagamenti fiscali
nei mesi diversi dalle altre popolazioni, e potrebbero ora stabilirsi tra i mesi di maggio ed ottobre. Da quella virtuosa proiezione che il Sig. Intendente ha sempre mostrato per la verità e per la giustizia, che sono le due gran basi fondamentali della società per il bene dei sudditi e per la felicità del Sovrano, si augura questa provincia che si degnerà di prendere in considerazione i surriferiti motivi con altri che la Sua saviezza può somministrarle, acciò i pubblici voti di questa provincia siano accolti dalla Sovrana Beneficenza con accordare alla medesima un giusto ribasso sulle quote dell’anno corrente e venturo, e con ordinare un nuovo censimento a norma dell’antico
catasto sotto la direzione dei Signori Intendenti, e Consiglieri dell’Intendenza del Regno, eliminando quelle affamate locuste,
che han prodotto finora la desolazione di questa provincia.
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
2. Commercio dei grani e annona A)
LA LIBERALIZZAZIONE
DEL COMMERCIO
DEI GRANI”
Sire, la Commissione di Consiglieri di Stato scelta da Vostra Maestà per esaminare le tariffe doganali ha rassegnato alla Maestà Vostra un progetto pel sistema da tenersi onde fissare l’estrazione dei grani e per regolare i diritti di estrazione. La medesima ha proposto di togliere ogni privilegio esclusivo nell’estrazione, di accordar l’uscita, quando è permessa, ai primi grani che si presentano. Ha ugualmente proposto di lasciar sempre libera la tratta sinoché il prezzo non sia giunto a quattro ducati il tomolo, e di fissare un diritto di uscita graduale, e che sia minore a misura che i prezzi sono minori. Io non posso che applaudire alle prime due proposizioni, poiché ogni privilegio esclusivo ed ogni concessione speciale devono essere esclusi. Ma io ho ben delle difficoltà sul rimanente del progetto. È redatto nei principi adottati in Francia ed in Inghilterra, nazioni che per la loro situazione così politica che territoriale hanno avuto occasione di esercitare i più grandi talenti del loro paese in questa parte: ma oltreché le loro circostanze sono interamente diverse dalle nostre, sarebbe facile il dimostrare che il loro sistema non è senza inconvenienti, che questo è inevitabile in una materia così astratta e difficile, e che bisogna scegliere in ciascun paese il sistema più adattato alle sue circostanze e che abbia minori inconvenienti. Il Regno di Napoli ha delle provincie molto abbondanti in grani; ne ha delle altre che suppliscono appena ai loro bisogni nelle annate le più abbondanti o che non bastano assolutamente a loro stesse. Nel nostro commercio e nei nostri mezzi, trove-
remmo difficilmente di che soccorrere ai bisogni in un anno di carestia: è necessario adunque di ben combinare il permesso di esportazione onde assicurare il genere alle provincie che ne mancano, e conservare i prezzi ragionevoli ed utili per l’agricoltura per i paesi che ne abbondano. * Ministero dell’Interno, Rapporto sull’estrazione dei grani, a firma del Ministro dell’Interno Giuseppe Zurlo, datato Napoli, 12 maggio 1813, seguito da un rapporto sullo stesso argomento delle Sezioni riunite di finanze e dell’interno, a firma del Consigliere di Stato Pignatelli, in «Rapporti del Consiglio di Stato dal 1812 al 1815», s.n.d., s.n.l.
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Il sistema di lasciar l’estrazione libera sino a che il prezzo del grano non giunga ad un taglio fissato non mi sembra conveniente, poiché qualche provincia che manca di grani potrebbe arrivar subito al prezzo fissato dal divieto; allora le altre provincie abbondanti resterebbero comprese in un divieto diametralmente opposto alla loro industria e sarebbero interamente sagrificate al comodo delle altre provincie del Regno. Sarebbe inutile 1’opporre a questa difficoltà, che si potrebbe esportare dovei prezzi sono minori. È impossibile di ammettere che in un picciolo regno in alcuni luoghi si estragga, ed in altri no; e ciò menerebbe ad inconvenienti senza numero e potrebbe esporre il Regno a mancar di genere estraendone da porti e da provincie, ove per accidente o per artifizio i prezzi fossero riusciti bassi. Le mercuriali mancano di esattezza a fissare i veri prezzi: esse possono dar luogo a mille abusi, il riparare i quali, o non sarebbe possibile, o condurrebbe a delle formalità, delle cautele, e delle
liti, che incomoderebbero il commercio e renderebbero tutto incerto. E poi come fissare nei prezzi la varietà nella qualità dei generi? È il prezzo medio in tutto il Regno o quello di ciascuna provincia che dovrebbe scegliersi? E come evitare che nello spazio di un mese fra un coacervo e l’altro non si estraesse tale quantità di grano da mettere in pericolo la sussistenza del Regno? Un'altra cosa estremamente difficile è il fissare il taglio al quale bisogna chiuder l’estrazione. Se si fissa un prezzo basso si compromette l’industria; se si fissa un prezzo alto si compromette la sussistenza delle popolazioni del Regno. Io non saprei stabilire una base sicura: almeno questa base sarebbe estremamente variabile, e converrebbe cambiarla da tratto in tratto. Ora le migliori leggi sono quelle che hanno bisogno dei minori cambiamenti possibili. La commissione ha fissato che il taglio da fermar l'estrazione dovrebbe essere di quattro ducati il tomolo. Questo prezzo è evidentemente troppo alto. L’immaginazione delle popolazioni ne sarebbe percossa, e questa immaginazione è un oggetto troppo importante in affari di grani. Similmente il sistema di una scala di proporzione nel diritto di sortita non può convenire al Reame di Napoli. Oltre alla poca esattezza delle mercuriali, esse sarebbero soggette a tante formalità, a tante lungherie, a tante quistioni sulla qualità dei generi
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che potrebbero esser fatte nelle dogane, che il commercio potrebbe esserne incomodato, oltre al non poter avere un fondamento certo per le speculazioni in una continua variazione di dazi che crescendo a misura che cessa il prezzo potrebbe qualche volta rendere la speculazione poco utile o dannosa. Il diritto graduale presenta a prima vista il vantaggio d’incoraggiare l’estrazione quando il prezzo dei grani è basso, pagandosi un minore diritto, e di renderla più difficile quando i prezzi sono alti. Ma è facile di vedere che il diritto stabilito sui prezzi bassi non avrà mai luogo: sarà difficile che il grano sia ad un prezzo che porti un dazio minore di una lira o tomolo. Quanto all'aumento, non è tale da impedire l’estrazione, se l’estero ha bisogno; e se non ha bisogno, il cattivo effetto dell’estrazione non può temersi. In fine questi incoraggiamenti, o questi ostacoli
nascenti dalla tariffa sono troppo piccioli per incoraggiare o impedire un commercio fondato sopra veri bisogni delle altre nazioni. Tutti questi motivi ed altri che io potrei lungamente addurre mi fanno pensare che convenga adottare un altro sistema. Il governo che conosce il bisogno delle provincie, la quantità del raccolto e le riserve può secondo la sua prudenza fissare in ogni anno in tempo opportuno una tratta, o illimitata per un certo tempo, o in una quantità determinata. Questa quantità potrà essere esposta indifferentemente in qualunque punto del Regno, e dai primi che si presenteranno, poiché, come ho detto, ogni privilegio esclusivo deve cessare. Quanto al diritto di tre carlini a tomolo, col rilascio di un carlino per i bastimenti nazionali, è comprovato dall’esperienza ed è il più conforme alla nostra posizione. Il medesimo ha il dop-
pio vantaggio di dare al commercio un punto fisso e di evitare le cure e l’attenzioni che gli altri sistemi esigono dalla parte del governo, che malgrado la più grande vigilanza potrebbe nei suoi calcoli cadere in errori che oltre al danno del commercio esporrebbero il regno a mancare di un genere di prima necessità. Io supplico la Maestà Vostra di sottomettere queste idee al giudizio ed alla saviezza della commissione. Io insisto che siano adottate; ed in ogni caso io osservo che il maximum di quattro ducati fissato dalla commissione mi sembra assai alto e che dovrebbe esser fissato, anche nel sistema che vorrebbe adottarsi, in
ogni anno o in un breve termine dall’amministrazione.
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Io non parlo del privilegio che vorrebbe accordarsi ai grani di Terra di Lavoro, e a quelli condotti nei caricatori di qui. L’annona di Napoli non ha bisogno di questi mezzi; l'eguaglianza delle condizioni deve regnare in tutte le provincie, è questa ugua-
glianza che può aumentare solo la coltivazione ed i prodotti, unico mezzo da assicurare l’approvvigionamento della capitale. Sono col più profondo rispetto, e venerazione di V.R.M. Umilissimo fedelissimo servitore e suddito Giuseppe Zurlo
Sire, La Vostra Sezione di Finanze, incaricata di nuovo del
travaglio delle tariffe doganali, rivolse da principio la sua attenzione sui regolamenti dell’estrazione del grano. Questo oggetto, divenuto famoso per le discussioni di tutti gli economisti, richiama al maggior segno le cure del governo nelle circostanze del nostro Regno. Il Ministro delle Finanze approvò l’idea della Sezione, ed incominciò essa allora ad occuparsi di questo interessante travaglio. Volendo la Sezione presentare la questione dell’esportazione del grano nel suo grande aspetto, ha creduto dover cominciare dal farsi il seguente quesito. Fino a qual punto bisogna favorire l'estrazione del grano nel nostro Regno? Un tal quesito, che sembra strano a prima vista, considerato da vicino non è assolutamente trascurabile. In molti paesi del nostro Regno per parecchi mesi dell’anno il pane è il solo mezzo di sussistenza, ed in molti altri manca a segno questa derrata che il pane che mangia il popolo è, o mescolato col granone, o di puro granone. Ma ciò ch'è più importante si è che noi siamo circondati da contrade ugualmente fertili in grano che le nostre. La Marca ne somministra una gran quantità; altra ne fornisce pure il Levante; ed in alcuni anni la Sicilia, malgrado il difetto abituale della sua coltivazione, può darne pure in copia sufficiente. Noi dunque abbiamo molti rivali in questo ramo di commercio e come l’uso di questa derrata non si può accrescere indefinitamente, come si fa delle mercanzie per mezzo del lusso, così questa concorrenza di altri popoli agricoli deve arrestare spesso il nostro commercio di grani ed alle volte sopprimerlo del tutto. Non è però che in molti anni vi possono essere delle richieste di grano dall’estero, le quali animerebbero tutti i rami dell’industria nazionale. Da ciò si deduce che in generale bisogna favorire la coltivazione e lo smercio del grano,
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principio ammesso da tutti gli economisti tanto stranieri che no-
stri, ma nello stesso tempo sembra che le nostre particolari circostanze non siano tanto favorevoli a questo ramo di commercio quanto lo sono state in Inghilterra, che ha uno smercio sicuro del suo grano in Olanda, ed in altri paesi settentrionali che spesso ne mancano. Esso quindi non sarà per noi sempre vantaggioso e dovrà seguire le variazioni delle raccolte nei paesi graniferi che ci circondano. In altri termini; il commercio del grano è sicuramente utilissimo, ma non sempre le nostre circostanze permetteranno che sia esso molto esteso. Deve dunque il governo invigilarvi e determinare a questa industria i confini che racchiudessero soltanto il nostro vantag-
gio e n’escludessero i danni. Per ottenere questo intento, gli oggetti a considerarsi sono due. Il primo di favorire l’industria, il secondo assicurare la sussistenza. Genovesi ha preteso sull’esempio dell’Inghilterra che basti favorire l’industria per assicurare la sussistenza. Di fatti egli dice, quando lo sbocco dei grani sarà sicuro, allora tutti coltiveranno, e vi sarà perciò sempre una porzione bastevole che ne resta presso di noi. Abbiamo però fatto osservare che la nostra posizione è diversa. In alcuni anni difatti gli esteri potrebbero avere poco bisogno dei nostri generi, ed allora ne avremmo abbastanza pel nostro uso. In altri anni la scarsezza dei grani nella Morea potrebbe far crescere le domande ed il prezzo offerto dagli stranieri, ed allora tutto il nostro grano potrebbe uscire in un momento, quando l’estrazione fosse totalmente libera. Altre vedute importanti richiamano pure la considerazione del governo. Prima di favorire l’estrazione all’estero bisogna agevolare il commercio interno dei grani. Distribuendo ugualmente questa derrata, il corpo politico acquisterebbe un vigor uguale e più vero, e la nazione sarebbe tutta ugualmente felice. Se al contrario alcune provincie estraggono il loro superfluo, mentre alcune altre provano i danni o i timori della penuria, il male reale sarebbe più grande del vantaggio apparente. Convien dunque che il grano circoli agevolmente nel Regno: quello che supera ai bisogni di tutte le provincie sarà allora mandato con somma utilità agli stranieri. Ma è chiaro che il conseguimento di quest’oggetto dipende come tutte le altre ruote dell’amministrazione da altri stabilimenti più generali. La costruzione e la facilità delle strade, i regolamenti doganali ben diretti sono i mezzi per facilitare il
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commercio interno. Dopo che lo avremo incoraggiato, potremo concepire la speranza di un utile commercio estero il quale riposi sopra basi sicure della pubblica gioia ed agiatezza. Bisogna quindi che il governo invigili all’uscita di questo genere. Ma quale sistema adottare per fissare il dazio? Qual sistema per decidere della quantità da esportarsi? Il piano concepito dalla Sezione fu il seguente. I privilegi particolari sono odiosi, ed arrestano l’attività generale. Si abolisca adunque ogni favore. L’estrazione dei grani sia libera a tutti i cittadini in generale, come lo è la di loro coltivazione, ed il commercio riceva la spinta salutare, che fa imprimere negli affari economici l’eliminazione di qualunque impedimento. Abolizione quindi di ogni privilegio, libertà assoluta di estrarre i grani: furono questi i primi progetti della Sezione. Ma per favorire il commercio non deve mettersi a rischio la sussistenza di tutta la nazione. Convien ritenere presso di noi, con i mezzi i più opportuni, un genere che i bisogni delle altre nazioni ci potrebbero disgraziatamente togliere. La Sezione raccomandò perciò due misure capaci di adempiere ad un tale og-
getto. La prima fu quella di fissare il prezzo di ducati 4 a tomolo come limite oltre il quale fosse vietata l’estrazione in dodici provincie del Regno, ed il prezzo di ducati 5,50 per le due rimanenti provincie di Napoli e Terra di Lavoro, essendo questa la differenza che passa fra i prezzi di queste due provincie e quei delle altre. In tal modo la nostra sicurezza non sarebbe stata mai incerta, ed il movimento sarebbe cessato tostoché si fosse giunto al punto prefisso. La seconda misura di preservazione era riposta sulla quantità variabile del dazio. E ormai conosciutissimo che le imposizioni hanno una invariabile influenza sulle operazioni del commercio. La Sezione dunque adattava questo mezzo di favorire e di arrestare l’estrazione del grano secondo le circostanze. Avrebbe dunque dovuto stabilirsi una tariffa graduale. Quando il prezzo del grano fosse stato tenue si sarebbe pagato o un picciolissimo, o niun dazio. A misura che il prezzo fosse cresciuto, il dazio si sarebbe nello stesso tempo aumentato gradatamente. Da tali disposizioni ne sarebbe nato l’incoraggiamento dell’estrazione nei tempi d’abbondanza, per la facilità di concorrenza con i grani delle altre nazioni, e l’impedimento dell’estrazione istessa nei tempi di scarsezza, poiché allora il dazio maggiore
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avrebbe fatto incarire anche più i nostri grani ed avrebbe costretto gli stranieri a cercarli altrove. Ma come conoscere quando il prezzo del grano fosse giunto al grado di massimo incarimento, come seguire le sue variazioni per applicare i dazi differenti della tariffa? Una Commissione composta dall’Intendente della provincia, dal Consiglio d’Intenden-
za, dal Procurator Regio del tribunale di prima istanza, dal Direttor delle Dogane e dal Sindaco della comune dovea riunirsi in ogni mese nella capitale di ciascuna provincia, e dopo di aver raccolto le notizie dei principali mercati, dopo di aver ponderato gli avvisi particolari e le rimostranze degl’interessati, doveva mettere una mercuriale che facesse conoscere il prezzo dei grani. Questa mercuriale, comunicata agli agenti doganali, dovea regolare l’applicazione della tariffa per lo spazio di un mese. In questa guisa si regolava il dazio graduale, e si era nella certezza di non ignorare quando il prezzo fosse giunto al mzaxi2ur2 fissato.
Tali erano i primi risultati del travaglio e delle riflessioni della Sezione quando Vostra Maestà volle occuparsene. Fu allora che il Vostro Ministro dell’Interno trovò a modificare qualche parte di questo sistema. Egli in un suo rapporto manifestò a Vostra Maestà alcune difficoltà che si possono opporre; tanto intorno al prezzo maximum, che impedisce l’uscita del grano, quanto al dazio graduale. In rapporto al primo oggetto egli fa osservare, che sarebbe rischioso l’aspettare che il grano arrivi al prezzo di quattro ducati nelle dodici provincie, e nelle altre due a ducati 5,50 per quindi vietarne l’estrazione. Il grano allora sarebbe sommamente caro, secondo ciò che suole ordinariamente pagarsi. L’immaginazione dei popoli vedrebbe già in un tal prezzo il timore di una vicina carestia, e l’immaginazione del popolo in affari di sussistenza dev’essere rispettata. Oltre a ciò come impedire che nello spazio di un mese non esca tanta quantità di grano da non compromettere la nostra salvezza? Se il mzaxîmzum è basso si arresta l’industria; se alto si compromette la sussistenza. Niuna base sicura, e sopra tutto niuna base invariabile può regolare cose tanto variabili. Le nostre provincie danno una quantità diversa di grano. L’estrazione avrebbe dovuto evitarsi in una mentre si accordava in un’altra. Non sarebbe stata una sorgente di disordini in un Regno come il nostro non molto esteso? Quindi che o il maxizzuz avesse dovuto fissarsi ad un prezzo minore degl’indicati, o che
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ZIA
un tale sistema avesse dovuto cambiarsi con l’altro di una libertà limitata o dal tempo o dalla quantità. In rapporto poi al dazio da pagarsi nell’estrazione, il Ministro non divide l’opinione di stabilirsi una tariffa. Dice egli che il dazio graduale spesse volte può togliere ai possessori il piccolo guadagno che senza di esso avrebber fatto. L’incertezza è somma nello stabilire il prezzo del grano. La Commissione progettata nelle provincie per le mercuriali avrebbe incontrato mille ostacoli insormontabili nell'esecuzione, e l’industria sarebbe stata scoraggiata dal timore di pagare un dazio troppo forte. Il vantaggio attribuito alla tariffa, quello di arrestare sempre più l’uscita del grano quando il prezzo è alto, non esiste in gran parte poiché, ove gli stranieri avessero bisogno del nostro grano, lo pagherebbero a qualunque prezzo. Per tutte queste considerazioni adunque il Ministro dell’Interno consiglia di rivenire al dazio fisso di tre carlini a tomolo ed al ribasso di un carlino pei legni nazionali. Egli opina nello stesso tempo non lasciar nulla all’azzardo in un affare tanto importante. Il governo dovrebbe in ogni anno accordare l’estrazione o illimitata in un tempo designato o in una quantità determinata. Due sono adunque i punti in cui differiscono le viste del Ministro da quelle della Sezione. Deve stabilirsi un maximzum qualunque, il quale arresti la libera estrazione, ovvero il governo deve ogni volta fissare il tempo e la quantità dello stesso? E questa la prima discussione da farsi. Il dazio dev’esser fisso, o pure deve seguire le variazioni del prezzo? Questa è la seconda discussione. La Sezione di Finanze e quella dell’Interno, anche con l’intervento dei due Ministri, han voluto sentire quattro dei principali negozianti della capitale; e dopo di aver lungamente ed a parte a parte scrutinati i due soggetti di discussione, credono dover rapportare il paragone che han fatto di essi. Il fissare un maximum che arresti l'esportazione sembra un espediente liberale e favorevole all’industria. I coltivatori troverebbero in esso la sicurezza o di vendere i loro grani all’estero quando il prezzo fosse basso, o di venderlo nel Regno ad un prezzo alto; lo che per i particolari è assolutamente lo stesso. L’industria sarebbe sommamente animata da questa libertà che deve produrre o l’una o l’altra di queste due vicende ugualmente favorevoli.
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Ma le Sezioni in questo esame han creduto dover applicare le riflessioni esposte nel principio del presente rapporto. Sembra ancora un problema, come si è detto, se debba favorirsi l’estrazione nel nostro Regno al più alto grado, possibile. In uno Stato come il nostro, ove il commercio è limitato, sarebbe da temersi
una esportazione troppo abbondante. Aumentando il prezzo del grano si diminuirebbe di altrettanto, come è chiaro, il valore della moneta. Ora sono da evitarsi queste variazioni; e sopra tutto
quando esse siano rapide ed istantanee. Mosse da queste vedute, le due Sezioni han creduto doversi accostare al progetto del Ministro. La libertà illimitata dell’estrazione, s'è opportuna ad animare l’industria, può, e sopra tutto nei primi tempi, nuocere alla sussistenza. Il sistema di accordare ogni volta dei permessi inceppa sicuramente l’industria, la quale non ama di vedersi incontro ostacoli qualunque. Ma questo stesso inceppamento, questa stessa restrizione può essere utile alle nostre circostanze. Le Sezioni quindi condotte dai loro principi sono venute a consentire nel progetto del Ministro che il governo, profittando degli avvisi dell’Intendente in quanto alla fertile o infertile raccolta, prenderà da essi norma per fissare la quantità da esportarsi; questa decisione essendo della più alta importanza e meritando perciò il più accurato esame potrebbe ancora Vostra Maestà degnarsi di rimettere il rapporto dei Ministri al Vostro Consiglio di Stato, ove, trovandosi riuniti i primi personaggi di tutte le provincie, potranno questi umiliare alla Maestà Vostra le utili idee onde le decisioni siano sempre dettate dalla più accurata prudenza. Passando poi alla seconda questione, le Sezioni proponevano il sistema del dritto graduale come quello che seguendo per l’imposizione del dazio la variazione del prezzo rendeva il tributo più applicabile alle circostanze. Questa veduta viene convalidata dai mezzi stessi che si proponevano per mandarla ad esecuzione. Una Commissione stabilita per ogni provincia dovea conoscere in ogni mese il prezzo del grano, ed il di lei giudizio, mentre regolava da una parte l’applicazione della tariffa, serviva a mostrare se il grano fosse arrivato a quell’altezza di prezzo che dovea arrestarne l'uscita. La tariffa era poggiata sopra basi che in parte somigliano
al famoso atto adottato in Inghilterra per l'estrazione dei grani. Quando il prezzo di essi è al wzirizzum, allora il governo o nulla esige per dazio, o dà anche a particolari una gratificazione. Ciò
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deve animare sommamente l’industria che anche nelle peggiori circostanze è sicura di trovare o un soccorso del governo, o uno sbocco commerciale da nulla impedito. Quando il prezzo del grano si aumenta allora cessa il bisogno di questo soccorso, ed allora gradatamente si stabilisce un aumento di dazio proporzionale. Le Sezioni eran convinte però che questa imposizione dovea esser
sempre la più piccola possibile perché il primo scopo si è quello di ‘ animare il commercio. Un popolo straniero che fosse nella penuria non avrebbe potuto tanto facilmente cercare il suo bisognevole presso di noi a nostro danno, poiché non solo sarebbe stato costretto a pagare il grano ad un prezzo alto, ma avrebbe dovuto pagare altresì ildazio più forte. Egli allora hi andato a cercarlo altrove. È vero che, quando il bisogno dell’estero fosse stato assai vivo, egli ur comprato i nostri grani a qualunque costo. Ma tali casi sono molto rari, e nel corso ordinario delle
cose la tariffa sarebbe sempre stata un ostacolo non lieve all’estrazione eccessiva. Da un’altra parte però il dazio fisso presenta altri vantaggi. Esso, è vero, non è proporzionale a valor della derrata; ma non vi è bisogno che lo sia. In questo caso bisogna consultare non le leggi di una giustizia privata, ma i principi economici. L’uso ha convalidato il dritto fisso. I popoli non saranno spaventati da una novità, e troveranno nel dazio antico un motivo di fiducia: non è questo un peso da gravitare sopra tutto il popolo, e che escluda qualunque disuguaglianza; è un benefizio del governo, e quanto esso sarà più piccolo, quanto meno spaventerà i particolari, altrettanto favorirà l’industria. Le Sezioni quindi conchiudono tanto per la libertà da accordarsi ogni volta dal governo, quanto per lo stabilimento del dazio fisso; e trova nel suo primo progetto una parte utilissima da applicarsi al presente. Le Commissioni provinciali sarebbero state incaricate del pericoloso officio di determinare il sempre incerto prezzo dei grani. Collo stabilimento del dritto fisso si toglie loro un tale assunto. Ma continuino pure a riunirsi, raccolgano gli avvisi di tutte le parti delle provincie, stabiliscano ad un di presso il prezzo del grano, e ne avvisino il governo. Questi dopo la raccolta potrebbe sapere approssimativamente quanto grano vi è nel Regno, regolandosi su i prezzi del medesimo, quindi secondo la diversità delle annate accorderebbe il permesso di estrazione per una maggiore o minor quantità di grano. Il permesso dovrebbe darsi al primo che lo domandi: questo permesso non esaurirà
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tutta la quantità esportabile in una volta sola; la prudenza potrà dividerlo, per accordarne un secondo ed anche un terzo con certi dati intervalli. L’epoche dei permessi potrebbero essere, la prima a luglio, la seconda tra ottobre e novembre, e la terza tra gennaio e febbraio. La prima, benché sembri troppo vicina alla raccolta, pure è nella stagione favorevole alla navigazione. Sarà in oltre della prudenza del governo incominciare con piccole quantità. Se dunque per la prima discussione han convenuto le Sezioni che il governo fisserà dopo un certo dato calcolo la quantità del grano ad esportarsi; per la seconda convenendo per il dazio fisso, opinano che quelle mercuriali, che quegli avvisi che le Commissioni daranno, elevando i prezzi dominanti del grano, aiuteranno il calcolo da farsi per l'esportazione. Sopra queste basi le due Sezioni si danno l’onore di presentare il corrispondente progetto di decreto, sperando che Vostra Maestà si compiaccia d’impartirvi la Sovrana sanzione. Iddio feliciti l Augusta persona della Maestà Vostra per lunga serie di anni. Cav. Pignatelli Pres.
B)
L’APPROVVIGIONAMENTO DELLA CAPITALE IN TEMPO DI CARESTIA*
Signore In data dei 14 novembre scorso anno V. E. si compiacque manifestarmi la Sovrana approvazione al mio rapporto del 10 detto, col quale le proponevo d’intraprendere un negoziato di grani acquistandoli in Puglia, e trasportandoli nel mercato di Gioacchinopoli per venderli al prezzo che ricadeva, e così mantenerne il giusto valore che la malizia degl’incettatori alla giornata faceva crescere a dismisura. V. E. mi autorizzò così a formare un fondo di ducati 12 mila, da prendersi su i superi delle comuni o dai grani addizionali della provincia. Mi prevalsi del primo credito, non trovando disponibile il secondo; e mentre ne feci succedere * Rapporto dell’Intendente della provincia di Napoli G. Macedonio al Ministro degli Interni, a data 18 maggio 1811, in ASN, Ministero Interni, I Inventario, fascio 2166.
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l'incasso presso il cassiere pagatore di questa comune di Napoli, nei budgets delle rispettive comuni ne feci marcare il credito all’introito dell’anno corrente, come V. E. potrà rilevare dall’annesso notamento. Invece della vatica, che domandavo prendersi dal servizio del treno di artiglieria, fui necessitato impiegarci un vaticale al quale era ignoto il segreto, poicché solo fu confidato al negoziante di Gioacchinopoli Giuseppe Russo, al quale feci passare il fondo di ducati 12 mila. L’operazione ben sostenuta e maneggiata con integrità e zelo del detto Russo ha avuto il suo felice risultato di moderare i mezzi delle vettovaglie, che da tale epoca in poi, anzicché crescere, sono ribassate, o sonosi sostenute a prezzi competenti.
Malgrado che l’estrazione per le Isole Ioniche ne alzasse il prezzo in Puglia, in questa provincia sonosi mantenute ad un prezzo non proporzionato a quello, soffrendosene qualche leggiera perdita dai vaticali, che sono gli agenti di tale commercio,
e che perciò han dovuto limitare i prezzi di trasporto a quel tanto necessario all’alimento degli animali delle proprie vatiche. Non si è trascurato di acquistare con detto capitale quei grani che, venuti nel mercato, dagl’incettatori si volevano ricusare, affin di disgustare i vaticali stessi, che, come ho detto, sono i veri agenti di tale negoziato. In Napoli in quattro magazzeni di pasta del detto negoziante Russo si sono costantemente mantenut’i prezzi al ribasso di mezzo grano a rotolo, onde non permetterne l’incarimento; ed in fine non si è lasciato mezzo oscuro ed indiretto per giungere all’intento, che felicemente è riuscito. La costanza e saviezza di V. E. in mantenere libera la circolazione dei grani nel Regno, la riserba di 50 mila tomoli disposta nella capitale, e finalmente l’operazione ordinata, e da me eseguita per mezzo di detto onesto e benemerito cittadino Russo, per mantenere a freno le interessate e maligne operazioni dei specolatori sulle calamità pubbliche; han certamente fatto sparire un disastro da tutti previsto, e che manteneva in disturbo l’animo
del governo e dei governati sudditi. Le perdite fino a tutto marzo sul capitale di ducati 12 mila sono state di poco momento, come potrà V. E. rilevare dal bilancio che ho l’onore di accluderle; ma in aprile e maggio ritro-
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vandomi una riserba di 611 cantaia, o sia di tomoli 1400 circa, ed
essendosi i prezzi prodigiosamente bassati di giorno in giorno è convenuto perdersi ducati 2.306,90 in modo che la perdita totale è stata di ducati 3.068. Il Russo nel rimetterne il bilancio mi ha domandato un compenso per i suoi agenti subalterni, nonché per lui, il quale da novembre in qua ha dovuto sospendere le sue private speculazioni, e perciò rinunziare, come in effetti ha eseguito, ad ogni benefizio particolare che in tali circostanze favorevoli tanto al commercio di tal genere avrebbe potuto ritrarne. Per i suoi agenti e spese minute occorse, credo dovessegli bonificare la somma di ducati 232, giacché questi vengono da lui e non dal governo ricompensati. Per sé poi mi ha fatto sentire che la somma proporzionata sarebbe stata di ducati tremila; ma io, facendogli comprendere che il servizio prestato allo Stato non è suscettibile di compenso pecuniario, credo potersi ridurre a ducati 2.000. Nel caso che V. E. approvi tale mia riduzione, l’intiera perdita sarebbe di ducati 5.300. In questo caso devesi al detto Signor Russo una lettera riservata di gradimento per parte di Sua Maestà promettendogli di aversi presente nell’occorrenza di qualche impiego proporzionato alle sue circostanze. Se poi vorrà annuire alla sua domanda, e del tutto disobbligare il governo dal servizio reso, credo che potrebbe aumentarsegli l’indennizzazione, ed allora la perdita intiera farla montare a ducati seimila. Intanto sarei di sentimento, se altrimenti V. E. non istimi, ratizzarsi la detta perdita su tutte le comuni della provincia, qualora non voglia confonderla colla perdita già considerevole pel riserbo della capitale. In questo caso dovrebbe compiacersi di autorizzarmi ad un tale ratizzo, da eseguirsi su i superi di ciascuna comune, non minore del decimo delle rendite di ciascuna di esse, giusta il disposto nella sua circolare. Ben inteso però, che la comune di Napoli ne dovrebbe essere esente come quella che altro danno va a riportare per quest’oggetto. Le riprotesto i sensi della mia perfetta considerazione, ed alta
stima.
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ZA]
3. Le opere pubbliche: le bonifiche* A S.M. Gioacchino Napoleone Re delle Due Sicilie Principe e Grande Ammiraglio di Francia Sire, sono appena due mesi, Vostra Maestà combatteva tra i geli di Russia, e riempiva il nemico di spavento, l'Europa di ammirazione! Or siede tranquillo fra cure amministrative, e fra le arti di pace. Allora, guerriero, fondava col suo braccio la gloria dei Napoletani; ed ora Padre di popoli, fissa colla mente la prosperità nazionale. Perciò i Vostri sudori ed i Vostri consigli son sempre rivolti alla nostra grandezza, ed i sagrifizi, che per essa fate, son men di Re che di cittadino. Dopo ciò, qual esser debbe la riconoscenza dei Vostri sudditi? Sire, qual essa è, illimitata nel sentimento, costante fra le vicende. I popoli che Voi governate conoscono il merito dei Vostri sagrifizi, e corrispondono coll’amore al Vostro amore. Quanti prodigi non promette alla mia patria questo accordo di passioni, di desideri, e d’interessi! Son questi, o Sire, i sentimenti universali dei Napolitani, ma
quanto più vivi non deggiono alimentarsi nei petti degl’ingegneri di Ponti e Strade, che Voi avete fatti gli strumenti della Vostra gloria di pace, affidando loro il benefico ramo delle pubbliche opere; e di cui rammentaste in Posen, tra i piani di una difficil
campagna, ed in Maltuzewo fra gli strepiti della guerra?. Dei primi consigli, che si riuniscono in Vostra presenza, vi è quello di Ponti e Strade. I consigli finanzieri, e gli amministrativi di qualunque altra specie, sono i secondi per Voi. Di questa distinzione, fatta alla nobiltà del soggetto, noi vi dobbiamo i più devoti ringraziamenti. Accettateli, o Sire; e condonateci, se l'apertura del travaglio è stata una dichiarazione di affetti, più che il prologo conveniente alla materia di cui tratteremo. Gl’Italiani son così fatti dalla natura: non san cominciare, che dal sentimento [...]. * Dal rapporto di Pietro Colletta sull’attività del Corpo di Ponti e strade, di cui è direttore dal 1812 al 1814 (ASN, Ponti e strade, II Inventario, fascio 47, fascicolo 26). Il rapporto contiene il consuntivo dell'annata 1812, i progetti per l'annata 1813 e un grande piano di nuove opere. Se ne stralciano alcuni brani relativi ai lavori di bonifica, che hanno particolare rilievo nell'economia del rapporto; le altre parti sono dedicate agli edifici pubblici e alle strade. 2 Colletta si riferisce alla partecipazione di Gioacchino alla campagna di Rus-
sia.
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[Bonifiche eseguite nel corso del 1812] Regi Lagni.
Non sono stati eseguiti tutti i lavori progettati:
le frequenti piogge di ogni stagione ne hanno spesso interrotto il corso. Ciò però che vi si è fatto non è senza un utile risultato. Alcuni cavamenti eseguiti nel gorgone hanno di molto facilitato lo scarico dei canali che in essi immettono, preservando così dagli allagamenti le adiacenti campagne. Il compimento dei lavori sospesi, e l’esecuzione degli altri, che proporrò all’approvazione di Vostra Maestà per la nuova campagna, compiranno l’intero si-
stema di riduzione di quei moltiplici canali.
Real riserva della Olla. Paludi di Napoli. Bonifica dei Bagnoli. La riserva della Olla e le paludi di Napoli non hanno richiesto che il consueto espurgo, che vi si è praticato nei tempi, e modi prefissi. La maremma dei Bagnoli poicché colmata per mezzo di non molti e dispendiosi lavori, or offre all’agricoltura piccola sì, ma certa e fertile estensione [...].
Bonifica di Fondi. La mancanza di un piano di bonifica e la ristrettezza dei fondi disponibili hanno impedita l’esecuzione di qualunque nuovo lavoro. Il solito espurgo dei fiumi e canali esistenti, la riattazione di qualche argine rotto dall’urto delle acque, il ristabilimento e la manutenzione di alcuni ponti, sono stati i soli lavori della scorsa campagna. Tratterrò Vostra Maestà lungamente su questa opera parlan-
do dei nuovi progetti. Bonifica di Castel Volturno. Non è stata ugualmente sterile di lavori e di risultati la bonifica di Castel Volturno; ma come di questa dovrò ragionar lungamente sotto il titolo del prosieguo delle opere intraprese, Vostra Maestà mi permetta ch’io mi riserbi di parlarne tra poco. Bonifica di Coruoglio.
Questa doveva eseguirsi di conto del-
la municipalità di Napoli. Le circostanze dell’amministrazion comunale non han mai permesso di rilasciare alcun fondo per il prosieguo dell’opera, ma le buone intenzioni degli amministratori han fatto sperare delle risorse da giorno in giorno. Si uscì d’ogni speranza in ottobre; ed allora rammentando il giusto interesse di Vostra Maestà per questa opera, e vedendo compromessi i lavori in parte eseguiti, richiesi a Sua Maestà la Reggente
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il permesso di un imprestito dai fondi generali di lire 15.400, quante da Vostra Maestà erano state assegnate nel Consiglio di Amministrazione. L’imprestito fu dato e così proseguirono i lavori nei mesi difficili dell’alto autunno e dell’inverno. Ella sa che il metodo di bonifica per quella laguna era la colmata con trasporti a braccia, ma quindi i tagliamenti eseguiti per la nuova strada di Posilipo, e le terre conseguentemente smosse resero più copiose e più torbide le acque di una lava che scende dalla sopraposta collina. Si è profittato di questa circostanza temporanea, e si è eseguita parte della colmata con i depositi di questo torrentuolo. Se Vostra Maestà vorrà permettere che con i fondi generali di Ponti e Strade si prosegua la spesa di questa opera, io le ne prometto il compimento in maggio di questo anno, cioè innanzi la stagione in cui sviluppansi i miasmi nocivi alla salute. Bonifica del Vallo di Diana. Questa opera sollecitata dagli interessi e dai voti di numerose popolazioni non avrea un pro-
getto; e tal mancanza sembrerebbe imputabile al Corpo dei Ponti e Strade se la importanza, le difficoltà, e l'estensione della ma-
teria non ne facessero la scusa. Vostra Maestà accoglierà queste discolpe or ora che tra i nuovi progetti le sarà presentato quello in quistione.
Frattanto nell’anno scorso sono stati eseguiti dei lavori primordiali, della cui riuscita non era permesso di dubitare, ed è stata conseguenza di questi lo scolo facile delle acque appantanate e la sicura coltivazione dei vasti territori di Sala, Buonabitacolo, e S. Arsenio: in tutti gli altri anni quei territori istessi sono stati seminati tre o quattro volte successivamente, perché alcune delle semine s’infradicivano sotto una dimora troppo lunga di acque stagnanti: ma nel 1812 e nell’inverno corrente, in cui le piogge sono state né meno abbondanti né più rare, una sola
coltivazione è bastata. Però l’opera non può dirsi compiuta, o assicurata, benefici che deggiono attendersi dalla piena esecuzione del progetto. Bonifiche del Pascone e del Pasconcello. Con decisione di Vostra Maestà del dì 4 aprile 1812 furono ordinate le due sopraccennate bonifiche, ed invero allora faceva onta al lustro di una gran capitale l'aspetto delle lagune quasi fra le sue abitazioni; ed
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ora si rimane sorpreso in considerare come per lungo tempo que-
sta ingiuria è stata sofferta. I mesi di primavera e di està passarono in progetti. I lavori furono intrapresi in ottobre per il Pasconcello, e più tardi per il Pascone: i primi terminarono in dicembre, e gli altri nel seguente gennaro. La riuscita è stata completa, le consegne dei terreni prosciugati sono state fatte ai proprietari nei mesi più alti dell’inverno in giorni piovosissimi, preceduti da lunghe e dirotte piogge. Vostra Maestà può Ella stessa assicurarsene riguardando quei siti da sulla strada del Campo; ma in grazia non li confonda con terreni ad essi vicini, che sebben coltivati, e di un livello superiore veggonsi allagati ne tempi di pioggia perché i fossi di scolo sono malamente costruiti. Bonifica della Marana in Capitanata. Di questa d’interesse privato, fu incaricato il Corpo dei Ponti e Strade con decisione di Vostra Maestà. L’anno 1812 si è passato in lavori; ma perché l’opera mancava di quei raffinamenti, che il nostro progetto e l’onor del Corpo richieggono, non si sono ancora consegnati asciutti i terreni per lo innanzi inondati. Onde supplire alla mancanza di consegna, e presentare a V. M. non semplici assertive, ma dimostrazioni di fatto, invitai con mio foglio il Marchese di Rignano, proprietario di quella laguna,
a darmi conoscenza dei risultati ottenuti dai nostri lavori. Mi accordi il permesso di dar lettura della sua risposta. «Napoli 17 febraro 1813 Signor Direttor generale, la bonifica della Marana di Rignano e sue adiacenze è perfettamente riuscita. Quei terreni son ora così asciutti, che la tangente di mia spettanza ne ha 520 moggia
seminate in grano e fave, oltre 40 d’ottimo pascolo: le moggia 50 del signor Freda sono a pascolo, e giornalmente vi si veggono degli animali: le moggia 150, che vi confinano, conosciute sotto il nome della colmata, altre volte sotto acqua, sono da vari particolari di Rignano tutte seminate in grano. E portentoso, come opere di fresca data abbian potuto ispirare tanta fiducia da consigliare un coltivo. Gli alluvioni sopravvenuti nell’anno passato, e quelli di questo anno, non avendo arrecato il menomo danno, assicurano sempre più l'animo dei possidenti sulla riuscita dell’opera. Non era essa una delle ordinarie lagune: i sbocchi di due prin-
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cipali torrenti di Puglia, Sassola e Candelaro, erano sì frequenti ed abbondanti, che ci ritenevano nell’inverno le acque sino all’altezza di 5 palmi, le quali nell’està non si asciugavano intera-
mente, in modo che la qualità dei suoi pesci, e la loro grandezza facevano considerarla come un lago. La sua pesca era divenuta un oggetto, e posso assicurarle di averne ritratto in agosto del 1811 lire 5.000.
Ora, ripeto, quel lago non esiste più. Le malattie, causa della spopolazione delle sue vicinanze nell’està, son cessate: nel passato agosto non si è avuto nelle mie masserie un sol colono ammalato. Gli insetti che rendevano incomoda la dimora in quelle campagne sono scomparsi: una nebbia dannosa nella primavera allo sviluppo degli oliveti contigui, non si è più vista; e l’agricoltura, e la pastorizia hanno acquistato circa 750 moggia di ottimi terreni. Eccole, signor Direttore generale, il chiestomi risultato della bonifica della Marana di Rignano. Non mi rimane ora, che pregarla di dare degli ordini all’ingegnere dipartimentale di ispezionare con quel zelo che merita la perfezione e manutenzione dei lavori tanto interessanti». Sire, quanto finora ho esposto dà indubitata dimostrazione, che le bonifiche tentate dal Vostro Corpo di Ponti e Strade sono di già riuscite, e della loro riuscita più non si dubita. Dimostra del pari che a fronte di questi vantaggi non possono controporsi dei progetti errati, o delle spese inutilmente fatte. Risultati così decisivi erano purtroppo necessari in un paese ove queste intra-
prese erano discreditate dalla inutilità d’innumerevoli precedenti operazioni, e la universale diffidenza si spingeva sino a crederne, e a proclamarne l’impossibilità, spregiando i calcoli degli idraulici, e nulla curando l’osservazione, che in altri tempi erano asciutti quei siti istessi, a cui ora si contrastava la possibilità di
divenirlo. Grazie ai lumi e alla saviezza dell’attuale governo, queste voci universali non sono state sentite [...]. [Progetti per il 1813: bonifiche di Castelvolturno e di Fondi] Prosieguo della bonifica di Castel Volturno. Più volte nel Consiglio di amministrazione dei Ponti e Strade si è fatta parola della bonifica di Castelvolturno; ma non mai le circostanze han permesso di presentare i progetti generali, e di far conoscere con dimostrazione i benefici che vi è diritto a sperare. A questi do-
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veri or si adempie, sommettendo a Vostra Maestà in riassunto i
risultati di diverse discussioni del Consiglio sulle idee e le osservazioni degli ingegneri direttori dell’opera. I lavori finora eseguiti sono stati parzialmente approvati dalla Maestà Vostra, perché riconosciuti di sicura utilità, e concorrenti al sistema generale, verità quindi confermata dall’esperienza.
L'estensione che s’intraprese a bonificare è quella designata nella pianta che or le presento”. Gli allagamenti eran dovuti agli sversamenti del Volturno in Santa Maria la Fossa, in Arnone, e
lungo la sponda dagli Schiavetti a Castello; a simili sversamenti dei Lagni in tutti i punti ove gli argini sono bassi; e finalmente alle acque della gronda superiore, che senza regola, e senza scarico si spandevano sui terreni della piana. Le lagune di Fiumemorto, Fiumitello e Fossapiena sembravan dovuti a cagioni particolari, ma quindi osservazioni più mature, ed operazioni geodetiche esattamente fatte, han dimostrato che le cause sono le stesse, e che un piano unico di lavori basterà al prosciugamento. Questi consistono
1. In una diga che parte dai siti alti della piana, e mette termine nei lagni, percorrendo una linea obliqua: così le acque sversate da Arnone, S. Maria la Fossa, e dai Lagni stessi non penetrano nella piana, e si raccolgono, come in un imbuto, per essere scaricate, cessato il periodo delle piene. 2. Nell’arginazione della sponda sinistra del Volturno da Schiavetti fino a Castello, destinata a contenere le acque di questo fiume orgoglioso nelle sue massime piene. 3. In quattro canali di scarico in Fiumemorto, Fossitello, Fossapiena e Duna, che han per oggetto di scolare le acque che si raccolgono nei siti più bassi della piana, di ordinario per piogge, e straordinariamente per qualche rotta, che avvenir potrebbe nella diga sui Lagni o negli argini del Volturno. 4. In altrettante cateratte per mezzo delle quali i canali sud-
detti posson comunicare ad arbitrio col Volturno e coi Lagni, e le comunicazioni possono interrompersi. Senza questo ripiego, le acque dei due fiumi penetrerebbero per i canali, ed un lavoro di bonifica diverrebbe motivo di allagamento. > La pianta dea: trovarsi nell’incartamento relativo alla bonifica di Castelvolturno indicato in Ministero Lavori Pubblici, serie Registri, n. 1.
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5. In un sistema di controcanali per riunire le acque della
pioggia, e versarle nei bacini a tal uso destinati. Di tai lavori, sono stati eseguiti a tutto il 1812 la gran diga, una porzione dell’argine sinistro del Volturno, ed i quattro canali in Fiumemorto, Fiumitello, Fossapiena, e Duna. Per effetto della diga, la piana è stata salvata dagli sversamenti di Arnone, S. Maria la Fossa, e dei Lagni, onde l’inondazione, che negli altri anni cominciava in settembre, nel 1812 ha avuto luogo in dicembre per una piena masssima del Volturno. E per effetto dei canali di scarico, le acque, che dimoravano lungo tempo appantanate sul terreno, sono state restituite ai fiumi in gran parte, e il saranno
interamente fra due altri mesi, onde anticiperà di molto tempo il prosciugamento generale, che per lo innanzi aveva luogo in luglio avvanzato. La combinazione di questi due benefici ha poi prodotto un miglioramento nell’aria, di modo che nell’està e nell’autunno dell’anno scorso (stagioni pericolose alla salute) le malattie degli abitanti di Castello sono state rare ed innocenti, onde alcun uomo
non ne è morto. Non però quell’aria è bonificata, ma il miasma pestifero ai suoi gradi, e ogni miglioramento val cento vite. I lavori che deggiono eseguirsi in questo anno sono il compimento dell’argine sulle sponde del Volturno, le cateratte sui quattro canali di scarico, e il sistema dei controcanali per regolare la acque di pioggia. A ciò si travaglia, e con un’attività che lascia sperarne il compimento nel prossimo maggio. Allora la bonifica di Castelvolturno sarà perfezionata, e Vostra Maestà sarà compiaciuta in considerare che un’opera desiderata per secoli, e tante volte inutilmente tentata, è stata eseguita sotto le prime intraprese, in due anni del suo regno. I fondi richiesti col progetto ascendevano a ducati 56.000. Quelli spesi finora si elevano a ducati 26.426,24. Resterebbe a ricevere la somma residuale di ducati 29.573,26, ma l'economia
di alcuni lavori, e la massima diligenza portata su tutti dan ra-
gione a sperare che possa farsi il risparmio di ducati 9.000 sulla totalità dell’opera; ond’io domando a Vostra Maestà per l’anno corrente la somma di ducati 20.573,26. In essa non è inclusa la
spesa dei controcanali per le piovane, giacché questi deggiono costruirsi dai proprietari dei terreni, e la Direzione dei Ponti e Strade dovrà solamente invigilare all'esecuzione, perché corri-
spondono agli oggetti generali dell’opera.
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Non posso fare a meno di supplicare caldamente Vostra Maestà ad ordinare che i fondi richiesti sieno somministrati per tutto il prossimo maggio. Sono gli ultimi sagrifici che si dimandano alla Provincia di Terra di Lavoro, dei quali sarà con usura compensata nei benefici dell’opera [...]. Bonifica di Fondi. Questa opera, famosa per tanti progetti, tanti lavori, e tante querele, è stata in tutt’i tempi riguardata sotto aspetti vari, perché l’occhio e l’arte dell’osservatore han voluto decidere esclusivamente della causa dei mali di cui si dolevano l'agricoltura, e la pubblica salute. Infatti gl’ingegneri, e ciascuno a suo modo, l’han riconosciuta nell’abbondanza delle
acque, e nella sregolatezza dei fiumi: i medici nella lordura del paese, nelle esalazioni sepolcrali, nella cattiva qualità delle acque potabili, e nei metodi erronei da curar le febbri. Perciò la bonifica dai Fondi è stata l’arena su cui ciascuno ha
disputato il merito singolare della riuscita. Ma trattando di opere idrauliche, la ragione e l’esperienza suggeriscono di non riguardarle da un sol lato, o crederle in rapporto con una o poche cause semplici. Per mio avviso gl’ingegneri ed i medici avrebbero ragionato più conseguentemente se avessero estesa la serie delle cause del male, e rintracciati i rimedi non esclusivamente nell’arte propria, ma nei lumi e nelle conoscenze riunite. Di questa verità persuaso, esporrò brevemente la parte del progetto relativa agli espedienti che la medicina ha suggeriti; e quindi mi fermerò sull’altra che riguarda i lavori idraulici. La macerazione della canapa si è fatta finora nei pantani prossimi al paese, e quindi la battitura della canapa macerata è seguita nell’interno del paese istesso. Si propone di far eseguire la macerazione suddetta ad acque correnti, a distanza non minore di quattro miglia dall'abitato, e di non permetterne la battitura che a distanza di un miglio. I sepolcri, a numero di due soli, son situati in due chiese centrali alle abitazioni. Si propone di trasferirli nella chiesa di San Francesco fuori l'abitato, sino a che non sarà permesso di costruire un camposanto a distanza anche maggiore. Si propone parimenti di allontanare dalla città i macelli, le di cui immondezze or restano ammucchiate nei siti principali della città stessa. Finalmente si progetta di condurre nell’abitato le pure acque
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di Vitruvio, che dopo aver servito all’uso degli abitanti, andranno a nettare i fossi della città, destinati dal bisogno e dalle abi-
tudini a raccogliere le immondezze di tutta intera la popolazione. Ognuno di questi oggetti è stato particolarmente trattato nel piano di bonifica, e tutti unitamente richieggono la spesa di circa lire 4.400. La loro influenza sulla pubblica salute è di una utilità senza contrasto, ond’io supplico Vostra Maestà di approvarne l'esecuzione come di lavori di bonifica. La seconda parte del progetto, io diceva, riguarda i lavori idraulici. Perché quelli che si propongono si riconoscano dipendenti dalla natura delle cose, è necessario di rilevare che tutti gli ingegneri osservatori della Piana di Fondi, al numero di sette, e ciascuno di merito distinto, hanno avuto per opinione comune che gli allagamenti sono dovuti a ringorghi del lago, e alla straripazione di 6 fiumi che scorrono in quei piani: che i ringorghi del lago han causa dalla abbondanza delle acque che in esso immettono i fiumi suddetti, dalle numerose sorgive naturali, dalle piovane di una gronda vastissima, e dalle somministrazioni del mare nei tempi di burrasca: finalmente che le straripazioni dei fiumi son dovute
alla bassezza, e talora alla mancanza degli argini laterali. Per opporsi alle cause di questi mali, chi tra gli ingegneri propose l’arginazione del lago e dei fiumi; chi la deviazione di questi ultimi, senza punto curare il primo rimedio; chi l’uno e l’altro. In mezzo ad opinioni tanto differenti gli ingegneri di Ponti e Strade han profittato dei lumi degli architetti che li han preceduti, ed hanno accresciuto questo prezioso nuovo patrimonio delle loro
nuove conoscenze, acquistate in tre anni di studio e di osservazioni. Era questa la posizione delle cose quando il Consiglio di Ponti e Strade ha intrapreso a esaminar l’affare nelle questioni principali da cui dipendeva la soluzione del gran problema. Le opinioni diffinitive del Consiglio sono contenute nell’incartamento che io presento a Vostra Maestà, dilucidate da una pianta del sito in cui figurano i lavori progettati”. Tra questi son due i principali: l’uno è un gran canale, che ha origine in Monticelli, e termina in mare al sito detto di S. Anastasio; è l’altro la costruzione di due cateratte nelle due attuali foci
del lago. © La pianta potrebbe trovarsi nell’incartamento relativo alla bonifica di Fondi indicato in Ministero Lavori Pubblici, serie Registri, n. 1.
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Il canale è destinato a raccoglier le acque dei fiumi Monticelli, S. Magno, Acquachiara, e Vetere, quelle d’innumerevoli fiumicelli e fossi secondari, ed infine le piovane della gronda superiore al canale. Tante acque così riunite non andranno a scaricarsi nel lago, come per lo innanzi, ma saranno tributate al mare con una foce loro propria. Le due cateratte agli emissari del lago han poi l’oggetto d’impedire che le acque marine nelle burrasche stabiliscano una corrente sul lago, e conseguentemente elevandone il livello, dieno causa a quei ringorghi che l’interesse dell’opera vuol distrutti. Tolti al lago tanti tributi, le sue acque resteranno a quell’elevazione innocente in cui mostransi in ogni està e mostraronsi
anche nell’inverno del 1779, quando per bizzarria di meteore le piogge furon discrete e rarissime. L’andamento del nuovo canale, la sua sezione variabile di
tratto in tratto nella luce e negli argini per l’incontro di altre
acque; un sistema di canali di scolo per raccoglier le piovane; un sistema di ponti per comodo del commercio e dell’agricoltura; i metodi i più propri per la costruzione delle cateratte nelle due
foci del lago; altre cateratte nell'incontro del nuovo canale cogli alvei abbandonati dei fiumi, onde rinfrescare il lago in està, met-
tere ad asciutto nuovo, ed esercitar facilmente le irrigazioni... Sono stati questi gli oggetti di arte importantissimi, di cui il Consiglio si è occupato in molte successive discussioni. La spesa dei lavori progettati è di lire 236.083,40; però la deviazione di un solo fiume (acqua chiara) e le due cateratte alle foci del lago, bastano a produrre una bonifica parziale, la più interessante, perché la più vicina al comune di Fondi. Questi soli lavori, eseguibili nel corso di un anno, richiedono la spesa di lire 79.300,87.
Dopo ciò prego Vostra Maestà di approvare il progetto. Il suo cuore dev’esser soddisfatto in considerare che questa opera interessa la salute e la fortuna di 12.000 abitanti, quanti ne sono nei comuni che circondano la Piana di Fondi. Né la vostra gloria governativa non dev’esser compiaciuta in considerare, che nel Vostro Regno s’intraprende la bonifica di Fondi, mentre quella già eseguita in Terracina si perde per abbandono [...]. [Nuovi progetti]
Sire, la Vostra gloria militare non vi dimanda ancora conquiste: i Vostri allori sono cresciuti all’Oriente in Egitto, all’Occi-
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dente in Spagna, al Nord della Russia, ed al Mezzogiorno dell’Italia: non vi ha dunque contrada in Europa che non rammenti una Vostra vittoria. Ma la gloria della pace vi presenta ancora estensioni vastissime di terreno, ove da lunghi secoli è stabilito il nemico del Vostro popolo: la costa del Tirreno da Reggio a Fondi, gran parte della costa dell’ Adriatico, le maremme di Brindisi e di Taranto, le pianure di Rosarno e di S. Eufemia, i Valli di Cosenza e di Diano... sono i campi d’onde soffia la morte i suoi fiati micidiali e distrugge gli abitanti delle vicine contrade. Bonificate, o Sire questi luoghi impaludati; conquistateli alla natura, e come il vostro costume nelle conquiste, con pochi mezzi, ma con costanza, e con intrapresa.
Vago di un pensiero sì bello, esporrò in questo capitolo del mio rapporto diverse idee sulle bonifiche. Il Corpo dei Ponti e Strade ha tanto più diritto alla fiducia del pubblico e di Vostra Maestà quantoché di sei operazioni intraprese non alcuna è mancata: le paludi dei Bagnoli, del Pascone, del Pasconcello, di Marana sono sparite, quella di Coruoglio sparirà anch'essa tra pochi mesi, e la piana di Castel Volturno è prosciugata in parte, e il sarà interamente in questo anno. Le scienze idrauliche sono italiane, e questa proprietà si è conservata tra gli innumerabili furti scientifici, che le nazioni oltre monti han fatto all’Italia. Or dunque Vostra Maestà Italiano Re deve proteggere questa bella figlia, e darle quasi ricetto nei suoi Stati, or che sembra scacciata dal Piacentino e dal Ferrarese, sue un tempo favorite dimore. La costa del Tirreno dai Bagnoli a Fondi è la parte paludosa la più interessante sotto il doppio aspetto della popolazione e della agricoltura. Per poco che si volge lo sguardo sulla carta del Regno si osserveranno in questa estensione sette accidenti principali. 1° Lago di Agnano 2° Mare Morto ed altre lagune ai circondari di Baia 3° Lago di Licola 4° Lago di Patria 5° Piana di Castelvolturno 6° Laguna dei Bagnoli e Piana di Mondragone 7° Lago e Laguna di Fondi. Ho già trattenuto Vostra Maestà sui progetti di Castel Volturno e di Fondi: esporrò le mie idee sulle altre cinque contrade. Il lago di Agnano non ha foce: le sue acque in superficie sono
appena superiori al livello del mare, mentrecché il fondo ne è
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assai sottoposto: lo circondano colline dette di Agnano, di S. Germano, e di Lucullo; e dimostrano all’osservatore che quel lago è il cratere di un vulcano estinto. Le boscaglie foltissime che ricoprono le colline suddette non permettono che le acque piovane trasportino materie nel recipiente: esse perciò vi arrivano pure, e per conseguenza nello stato
attuale delle cose non è permesso di sperare alcun beneficio dalle colmate naturali. E dunque necessario di usar dei ripieghi per rendere quelle acque stagnanti innocenti alla salute degli abitanti, ed alla coltura dei terreni vicini. I ripieghi di cui parlo esser potrebbero i seguenti. 1° Dovrebbero riunirsi in un tronco molti rivoli delle colline soprapposte al lago onde raccogliere un corpo di acqua capace a trasportar seco le materie che incontra nel suo cammino. 2° Le acque riunite dovrebbero farsi scorrere su di uno strato di lapillo, materiale opportuno alle colmate, e di cui abbondano i Colli Flegrei.
3° Dovrebbero così ricolmarsi le sponde del lago ove le acque rigurgitate occupano estensioni vaste di terreno.
Ristretto in questa guisa il recipiente ai limiti, dirò così, naturali, si riconquisteranno le terre inondate; si dimezzerà la su-
perficie delle acque stagnanti, si ridurranno queste in siti profondi, ove le erbe palustri non possono germogliare, ed in conseguenza si distruggerà la sfera delle esalazioni pestifere, e i mali dell’infezione; poiché i nuovi lumi del secolo hanno vinte le false opinioni che si avevano su i laghi, ed han dimostrato che ogni terreno interamente e competentemente ricoperto di acqua non
è mai malsano. Esso nol diventa che quando l’acqua che lo ricopre si evapori, lasciando esposto all’aria il fango del suo fondo; o allorché non è coperto di acqua per l’altezza necessaria ad impedire le nocive evaporazioni. Per conseguenza di questi principi il detto autore dei climi d’Italia suggerisce la bonifica di una palude, restringendo le sue acque in un lago: Or detruit egli dice d’une maniere aussi sure la putridité d’un marais quelconque en le changeant en lac qu’en terre ferme [...].
Piana di Castel Volturno. Fra i cespiti della Cassa suddetta progettati nell’anno scorso, e da Vostra Maestà approvati, figuravano principalmente i prodotti dei terreni prosciugati dalle
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operazioni generali. Ecco perché dimando a Vostra Maestà che le rendite di Castel Volturno nella sola estensione per lo innanzi allagata e non rendibile, ed or bonificata dai nostri lavori, sieno addette alla Cassa Generale delle Bonifiche. Ciò val parimenti per le bonifiche dei Bagnoli e di Coruoglio. La prima è già terminata, e l’altra è prossima al compimento. S’ignora il proprietario dell’una, forse perché da lungo tempo allagata è stata per secoli in abbandono; il proprietario dell’altra sarebbe la municipalità di Napoli, giacché il Duca di Miranda, dichiarando di non voler soggiacere alla spesa dell’opera, rinunciò espressamente al beneficio della proprietà. Ma come la municipalità essa stessa non ha somministrato alcun fondo ed i lavori sono stati eseguiti con i mezzi imprestati dalla Direzione Generale, così io propongo a Vostra Maestà che si faccia dono alla bonifica di D 4.600, importo dell’opera, e che i terreni prosciugati diventino di proprietà della Cassa Generale delle Bonifiche. Non ragiono del Pascone, del Pasconcello e della Marana, perché i proprietari han fatto la spesa dell’opera, e sono in possesso di quei beni. Ma da oggi innanzi, e dopo lo stabilimento di una Cassa Generale, gl’interessi di questa e la giustizia esiggono che i vantaggi prodotti a proprietà private non restino senza compenso. Perciò
a misura che il compimento di una operazione avrà prodotto dei benefizi a dei particolari proprietari, la Direzione di Ponti e Strade avrà cura di presentarne l’analisi, e progettare il ratizzo* dei compensi da ricevere; in quest'opera campeggi principalmente la
generosità del governo. Tanti mezzi riuniti quanti ne ho finora enumerati non bastano al bisogno. Ecco perché propongo l’impiego di un fondo straordinario, quello stesso di cui vado a ragionare. Mentre in settembre dello scorso anno il Consiglio Generale della provincia di Napoli indirizzava a Vostra Maestà le sue suppliche per la costruzione della strada di Posilipo, Ella intenta sempre alla felicità dei suoi popoli ed al lustro della sua capitale decretava in Maltuzewo che quell’opera fusse intrapresa con i mezzi che la sua generosità avea preparati. I fondi sono perciò somministrati dalla Casa Reale, e la strada di Posilipo darà ben d Il «ratizzo» è una tassa proporzionale al beneficio ottenuto o atteso dall’opera pubblica.
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presto ai Napoletani un nuovo motivo.di riconoscenza verso l’Eroe che li governa. Ma l’offerta della provincia di Napoli di somministrare D. 170 mila per quell’opera è stata accettata da Vostra Maestà per rivolgersi ad altri oggetti degni della sua grandezza, e produttivi dei più considerevoli vantaggi alla popolazione della capitale. Uno di tali oggetti esser potrebbe la bonifica dei terreni impaludati. Io perciò dimando a Vostra Maestà che D. 70 mila di 170 mila offerti dalla provincia di Napoli sieno versati nella Cassa Generale delle Bonifiche, e particolarmente addetti alle opere di questa specie nel territorio della provincia istessa. Per misurare l'interesse di questo progetto convien rivolgere lo sguardo intorno; a pochi passi da noi si vedranno abbandonate vaste ed ubertose estensioni: i Camaldoli, Santo Strato, e tutta la parte occi-
dentale della bellissima collina di Posilipo sono contrade spopolate, ed i pochi abitanti che vi dimorano sono malsani, ed in-
felici. Augurando a me stesso che Vostra Maestà voglia accogliere le mie proposizioni relative alla Cassa Generale di Bonifica, gliele ripresento in un progetto di decreto. Art. 1° Sarà formata una Cassa Generale per le bonifiche da eseguirsi lungo la costa del Tirreno da Napoli a Portella. Art. 2° I fondi ad essa destinati saranno 1° Le rendite risultanti da terreni prosciugati di Bagnoli e di Coruoglio. 2° Le rendite della Bonifica di Baia, ora amministrate dalla Giunta di Fortificazione. 3° I prodotti delle pesche dei laghi di Agnano, di Licola e di Patria. 4° Le rendite della bonifica di Fondi. 5° Le rendite derivanti dai terreni prosciugati in Castel Volturno per i lavori di bonifica eseguiti dal Corpo di Ponti e Strade. 6° Ducati settantamila dei D. 170 mila offerti dalla provincia di Napoli, con indirizzo del Consiglio Generale convocato in settembre ultimo, e non accettati per quell’opera che si sta costruendo con i fondi della Casa Reale. 7° Le rendite che risulteranno dai terreni che saran bonificati con i mezzi della Cassa Generale, sino a che tutte le opere saran compiute.
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Art. 3° Saranno intraprese al più presto quelle bonifiche che promettono risultati sicuri e più solleciti: i lavori che trovansi eseguiti in diversi siti da bonificarsi saran manotenuti con i fondi della Cassa, di preferenza ai lavori di nuova costruzione. In un 4° articolo dovrebbe fissarsi il metodo di amministrazione della Cassa suddetta; ma in una materia sì delicata io non
oso far proposizioni, e mi attendo che Vostra Maestà decida se vuole che sia dessa soggetta al sistema generale del Tesoro, o piuttosto specialmente amministrata sotto altre forme. Solamente ho il dovere di rammentare alla Maestà Vostra che l’interposizione del Tesoro darebbe alla Cassa la perdita del 6 per 100 per dritto di esazione dei percettori e ricevitori; che ciascun fondo addetto alla Cassa ora è amministrato particolarmente; e che il Consiglio di provincia nel far l'offerta dei D. 170 mila per la strada di Posilipo supplicò Vostra Maestà a permettere che quei fondi fossero esatti ed esitati col metodo di un’amministrazione speciale, indipendente dal Tesoro. Tutto ciò potrebbe dimostrare che la Cassa Generale delle Bonifiche, a cui principalmente contribuisce l’offerta della provincia di Napoli, dovesse essere amministrata col metodo richiesto dal Consiglio. In ultimo se Vostra Maestà crede che prima di deciderne sentir debba il Suo Ministro delle Finanze, il 4° articolo del decreto
potrà esser redatto come segue. Art. 4° Il metodo di amministrazione della Cassa sarà fissato con particolari regolamenti. Così dò termine alle mie idee sul soggetto interessantissimo delle bonifiche; ed imprendo a trattare un soggetto compagno di eguale o di più grande importanza, che ha per titolo: /o stabilimento delle colonie nei siti bonificati, e la erezione di una casa di mendicità, e di arti. Stabilimento delle colonie nei siti bonificati, ed erezione di una
casa di mendicità ed arti.
In fisica, come in politica, non basta
conquistare; convien conservare le conquiste. La conservazione
fisica è tanto più difficile nei terreni già inondati quanto che la loro elevazione sul mare è quasi insensibile, la protrazione delle spiagge è costante nel Mediterraneo, e gli effetti dello sboscamento dei monti si lascian sentire sempre più fortemente nelle pianure.
A tante minacce ed a tanti mali si oppone il solo braccio del-
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l’uomo. Questo in Venezia ha edificato una città sulle lagune, ed in Olanda ha obbligato l'Oceano a ritirarsi, e quasi spregiando la forza dei suoi flutti ha riunito popoli numerosi in siti sottoposti al suo livello. Perciò se voglion conservarsi le terre bonificate, e non vederle rioccupate dalle acque è necessario di stabilirsi dei paesi e abitare da nuove colonie. Ivi la vita sia comoda e sicura: gli esercizi di religione, gli usi e persino i pregiudizi innocenti di società si trovino in quei ricinti. Bentosto gli abitanti poveri, gli speculatori dei vicini comuni verranno a stabilirsi in questi paesi nascenti e la popolazione prospererà da anno in anno. Ma come riunir le colonie? Quali mezzi suggeriscono la ragione e l’umanità? Ecco il bisogno di ragionar per poco sulla casa di mendicità e di arti per quindi ritornare sul primo soggetto. In tutte le nazioni ove la pubblica amministrazione è saggia, la classe dei poveri è ristretta; e dove la civilizzazione ha fatto dei progressi, i poveri sono soccorsi: in somma la mendicità è una
pianta che il governo ha cura di non far nascere, ma comunque nata delle sue paterne cure la circonda. Le salutari leggi di Vostra Maestà sulla divisione dei demani feudali ed ecclesiastici, creando nuovi ed innumerevoli proprietari e distruggendo la demarcazione odiosa fra i troppo ricchi ed i troppo poveri ha diminuito la massa di questi, e forse sarebbe sparita dal suo regno se altre concause di miseria umana non l’avessero alimentata, e se gli effetti delle sue leggi avessero potuto spandersi in breve tempo fra tutti i membri della società. Rivolga perciò il suo pensiero ai poveri che ancora rimangono, e li renda strumenti di pubblica felicità e di arti. L’edifizio del Reclusorio, cominciato nel passato secolo, non compiuto, e lasciato anzi in istato di degradazione servir potrebbe di riunione ai mendici tutti del Regno, o a un gran numero di essi: vi si unirebbero i vagabondi, i proietti pervenuti ad una età più che infantile, i soldati ancora giovani resi invalidi alla guerra e gli uomini condannati a pene correzionali. In un grande stabilimento provveduto di macchine e saggiamente amministrato non vi ha uomo che non guadagni il suo parco sostentamento, quando anche non gli rimanga del corpo che un braccio ed un piede. Questa opinione se mi sarà contrastata, presenterò l’esempio delle attuali case di Baviera, ove i reduci delle stesse specie enumerate bastano al loro mantenimento, dan-
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no in ogni anno un aumento di rendita allo stabilimento, e cumulano un patrimonio individuale che ciascuno porta in società all’uscir dalla casa di beneficenza. Nel suddetto deposito generale di uomini si tireranno le colonie per i nuovi paesi. Delle giovani che ora vivon in altre case d’arti come nel Carminello, Spirito Santo, S. Eligio, S. Pietro e Paolo e che vi sono condannate alla sterilità dovrebbero far parte dell’assortimento. Ad ogni famiglia o piuttosto ad ogn’individuo dovrebbe assegnarsi una estensione di terreno da coltivare.
Dei preti vi si stabilirebbero facilmente: la religione detta a costoro dei sacrifici; ed il governo potrebbe unire i loro vantaggi personali a questi doveri di coscienza. Un medico, un cerusico, un salassatore si troveranno senza
dubbio nei luoghi di pena, condannati per un tempo determinato alla detenzione o ai ferri. Ve ne ha purtroppo di quelli, che trascinati al delitto dall'impero delle circostanze hanno il cuor buono, degno della società. Se a questi si propone di passare il tempo della loro pena in uno dei paesi di novella creazione si crederan fortunati; e dopo alcuni anni la forza insuperabile delle abitudini li riterrà nei luoghi istessi. Ma qui si osserva che nei nuovi paesi vi saranno uomini di
ogni specie, ma non agricoli, cioè quelli che principalmente sono opportuni alla conservazione delle bonifiche. Potrei rispondere che lo diventano facilmente degli uomini comunque educati alle arti cioè all'impiego giornaliero delle forze fisiche; potrei sog-
giungere che nell’assortimento delle colonie potranno prescegliersi quegli individui, che poco utili allo stabilimento delle arti, han disposizioni pronunziate per l'agricoltura; ma non fonderò su queste basi incerte la conservazione e la prosperità delle nostre opere, e dirò solamente che io non ripongo nelle colonie le sole speranze della coltivazione, ma principalmente richieggo da esse le forme ed il nocciuolo di una popolazione onde gli agricol-
tori delle vicine contrade vi si possano stabilire; ed i travagliatori di Abruzzo che or van vagando nei regni altrui, vengano a versare i loro sudori sul terreno della loro patria. La ristrettezza di un rapporto non permette che tutte le mie idee sieno pienamente sviluppate; ma qualora queste meritassero l’approvazione di Vostra Maestà allora il soggetto istesso sarebbe trattato diffusamente nel piano di esecuzione.
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Dopo aver premessa questa selva di pensieri, esporrò con pochi articoli le mie principali proposizioni. 1° I terreni bonificati sieno animati da colture, da strade, da acquidotti, e da popolazioni: si elevino in mezzo ad essi dei paesi ove la vita sia comoda e sicura. 2° Sieno i paesi suddetti abitati da nuove colonie. 3° La base di queste sia presa da un deposito generale di uomini riuniti dalle classi dei mendici e dei vagabondi, dei proietti pervenuti ad una età più che infantile, e dei soldati giovani resi invalidi alla guerra, e dei condannati a pene correzionali. Le case di donne sotto il nome di Carminello, Spirito Santo, S. Eligio, e
S. Pietro e Paolo somministrano il loro contingente. 4° Il deposito sia nell’edifizio del Reclusorio ove coll’impiego delle macchine si stabiliscano delle arti, così potrà sostenersi con i mezzi propri.
5° Ducati 70 mila, sufficienti al compimento dell’edifizio, e ducati 30 mila, più che bastanti al primo stabilimento per macchine e per utensili, sieno somministrati dai fondi offerti dalla provincia di Napoli per la strada di Posilipo. Queste nuove destinazioni simpatizzano con quelle dell’offerta, poiché contribuiscono al bello della città ed all’utile della provincia intera. Sire, i siti da prosciugare, considerati in questo rapporto, si estendono lungo la costa del Tirreno da Baia a Portella. Perciò i nuovi paesi sarebbero situati sulla stessa linea; e la strada che si unirebbe caminerebbe sulle antiche tracce della Domiziana. Ognuno dei nuovi paesi creati dal genio di Vostra Maestà portar dovrebbe un suo nome, o il nome di una sua vittoria. Così su di un piccolo spazio si ripeterebbero le voci di molte contrade di Russia, di Germania e di Egitto! E Voi o Sire, dar non potreste di questo argomento più parlante e più durevole ai viventi ed ai futuri popoli della Vostra grandezza in guerra ed in pace. Ma bonificare vaste estensioni di terreno, stabilirvi nuovi
paesi, crear novelle popolazioni, soccorrere i mendici del Regno, utilizzare i vagabondi, compiere un grande edifizio, organizzare
grandiosi stabilimenti di arti... sembrano idee gigantesche suggerite meno dal calcolo dei mezzi che dalla fantasia del progettista. Si dirà che i tronchi principali delle strade del Regno non son compiute, che alcuni antichi stabilimenti di arti e di pietà han bisogno di soccorsi; che l’impiego di spese così grandi potrebbe divenir più utile; che opere tanto vaste esser deggiono
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intraprese negli anni di lunga pace; Sire, in questo suolo istesso sono appena 60 anni gli uomini mediocri biasimavano la sconsigliatezza di Carlo III per la costruzione del nuovo teatro di S. Carlo e degli acquidotti e palazzo di Caserta l’uno opera di piacere, e gli altri diretti alle sue delizie e non al pubblico bene. Ma or di quel principe non più si ricordano le strade dei cammini Reali e di Puglia; e si parla tuttavia e si parlerà sempre delle opere allora biasimate. Ciò prova che i piccioli risultati non sono i metri con cui la gloria misura le azioni; e che i calcoli dei negozianti non giungono sino a lei. Infine o Sire innanzi alla sublimità del Vostro genio non vi è intrapresa che possa dirsi grande; e non vi è ostacolo che debba arrestarsi.
4. Manifatture di Stato e beneficenza A)
CRITICHE ALL'INTERVENTO PER L'INDUSTRIA”
[...] se il cessato governo dei Francesi in Napoli, in luogo di oc-
cuparsi a stabilire alla Torre del Greco una fabbrica di lavori in corallo la quale, quantunque non disapprovabile, non si raggira però che su di oggetti di puro lusso, avesse pensato ad introdurre e proteggere in qualcuna delle provincie più opportune delle grandi manifatture di telerie di lino o di cotone di cui siamo tanto bisognosi, non saremmo ora nella necessità di spendere tre o quattro milioni l’anno per provvederci di quelle della Germania, delle Fiandre, e molto più dell’Inghilterra. Siffatte manifatture per riuscire esiggono molte cognizioni, molti fondi ed una decisa protezione per parte del governo. Anni addietro cercarono alcuni particolari d’introdurre nel Sannio le fabbriche di tele all’uso di Olanda. Si fecero a tale oggetto venir da fuori delle macchine e dei lavoranti fiamminghi d’amendue i sessi, e si spese molto denaro nei preparativi necessari. Era da credere che i lavori sarebbero riusciti al di là d’ogni aspettazione; ma la fabbrica si arrestò sul meglio. L'enorme spesa avea spaventato e disanimato i proprietari. Essi amarono piuttosto rinunciare al loro utile progetto * Da G.M: Olivier-Poli, Brevi osservazioni d’economia politica sulle arti e manifatture, Angelo Trani, Napoli 1816, nota c di p. 33.
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e perdere i capitali anticipati, che continuare a spendere per un'impresa, la quale, sebbene allora non promettesse molto, pure non avrebbe mancato di essere coronata da un esito felice, se si
fosse pazientato qualche altro anno, o se il governo avesse dato delle facilitazioni e un forte incoraggiamento. Lo stesso è accaduto pressappoco a delle fabbriche di altri generi che si erano stabilite nel seno o nei contorni della capitale. Bisogna eccettuarne quella di mussolini eretta dal Signor Egg di Zurigo in Piedimonte d’Alife, la quale dà delle grandi speranze, anche perché il Re ha degnato onorarla della sua speciale protezione.
B)
L'ISTITUTO DI BENEFICENZA DI S. PIETRO MARTIRE”
Avendo il R. Decreto dei 26 aprile 1808 combinato nello stabilimento di S. Pietro Martire una Casa di educazione e d’istruzione in manifatture di cotone nuove per questo Regno a favore di orfane che sono a carico dello Stato, la commissione è di parere che possa avere luogo solamente lo stabilimento di una casa di manifattura, escludendone la casa di educazione di orfane a carico dello Stato. E determinata a ciò la commissione da supporre necessaria per tale casa di educazione per sole 75 orfane la
spesa di annui Duc. 6.010 secondo un quadro dimostrativo, finora ignoto a questo Ministero, il quale asserisce, essa conforme
alle vedute più economiche della soprintendenza. In questo quadro si portano D 1.246 di soldi, D 3.021 di cibarie, D 500 di spese vestiarie, D 14,3 di spese di biancheria, D 300 di spese diverse, D 60 di oratorio ed infermeria, D 60 di gasti della razionalia e segreteria. Nel rapporto che diede occasione al R. Decreto dei 26 aprile fu dato per dote a questo stabilimento la somma di D 6.647 per una sola volta, supponendo che dopo un anno la manifattura potesse dare alla Sig. Isouard i mezzi di continuare interamente a suo carico quello stabilimento, con sgravare lo Stato del mantenimento di 75 orfane che erano a di lui carico. La commissione crede che non vi sia speranza che essa possa supplirvi col prodotto del lavoro delle 75 ragazze perché per li primi anni poco si * Rapporto della Commissione per S. Pietro Martire, a data 29 settembre 1808, senza indicazione dell’autore, in ASN, Ministero Interni, II Inventario, fascio 5066.
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può contare su braccia inesperte che, avendo bisogno di apprendere, non daranno di lucro nemmeno quanto basta alla pura sussistenza. Pare che la commissione non abbia avuto presente che nello scegliere le orfane per tale nuovo stabilimento nel R. Albergo dei Poveri la signora Isouard si era specialmente occupata di prescegliere quelle già iniziate o istruite nella fabbricazione delle manifatture paesane di cotone, e che l’essersi assegnata in maritaggi entro il termine di cinque anni la restituzione dei D 2.000 anticipati, concorreva a fare credere che la signora Isouard potesse
trovare il suo conto nell’adempimento del R. Decreto dei 26 aprile, qualora avesse capitali corrispondenti ad un tale stabilimento. Questo era stato dichiarato all’articolo 3° dovere essere a di Lei
conto, con darsi allo articolo 5 per provvisionale il numero di settantacinque orfane da ammettervisi, mentre quel locale è suscettibile di un molto maggiore numero di giovane artigiane. Quando la signora Isouard avesse avuto capitali con l’adempimento esatto del R. Decreto dei 26 aprile il R. Albergo dei Poveri, l’Annunciata di Napoli, e l'Annunciata di Aversa averebbero avuto il disgravio del mantenimento di 75 individui su quei tre luoghi pii. Neppure il R. Erario averebbe sofferto alcuno aggravio per il nuovo stabilimento se ad esso fossero state assegnate per delle rendite delle case contigue a quel Monastero in compenso di altrettanta rendita di arrendamenti spettanti a quei luoghi pii, come avevano proposto a quello ispettore Luigi Targioni nel suo Rapporto dei 22 agosto, o ancora senza tale compensazione, come aveva io opinato nel mio Rapporto a V.E.
Deposta l’idea di una Casa di educazione di orfane, conviene la commissione della utilità grande di stabilire in S. Pietro Martire una fabbrica di manifatture di cotone di qualità superiore a quelle che sogliono fabbricarsi per spaccio in questo Regno e della convenienza di darsi a tale oggetto uno incoraggiamento alla signora Isouard, tanto più che questo si trova promesso con il R. Decreto dei 26 aprile. Questo incoraggiamento la commissione progetta che si riduca alla destinazione del locale, ad un qualche capitale per le spese di primo stabilimento, ed all’anticipazione del valore delle macchine. Conviene essa che del locale di S. Pietro Martire debba esserle fatta-la consegna con inventario alla signora Isouard, esclu-
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sa quella parte che si trovi attualmente di avere sortito altra destinazione, e che se le debba ingiungere la condizione di non poterne affittare ad estranei dovendo servirsene per lo solo uso
della manifattura, con dovere essa supportare tutte le spese di riattazione in compenso della pigione che dovrebbe al governo. Siccome si trova già dato con inventario alla signora Isouard dall’Intendente di Napoli quel locale che ora essa occupa, pare che possa tenersi fermo questo inventario, e così precludere la strada a tutti quelli equivoci che potessero nascere da certe successive temporarie destinazioni di porzione di esso le quali, dando occasione di spargersi molti estranei per tutto il locale, renderebbero malsicura la economia della manifattura. Siccome è manifesto che la signora Isouard è nella necessità di ammettere soci in questo stabilimento, pare opportuno che sia dichiarato che la proibizione di affittare ad estranei non esclude che essa possa dare alloggio gratuito a soci e ad impiegati in quello stabilimento. Potrebbe in tale occasione avvertirsi che attualmente e la spezieria ed una congregazione residenti in S. Pietro Martire pagano
una pigione, la quale potrebbe essere dall’Intendenza di Napoli erogata in supplire in parte agli esiti della economia interna della soprintendenza di S. Pietro Martire. Per i duemila ducati di anticipazione promessi alla signora Isouard, la commissione trova giusto che sieno dati ad essa i D 1.197 che con i D 803 che essa ha ricevuti formano la sudetta somma di D 2.000, che in vece di esigerne la restituzione in maritaggi dietro il termine di cinque anni, cessata con la casa di educazione l’occasione dei maritaggi, propone che nel termine stabilito la Sig. Isouard restituisca in contanti i D 2.000. Su tale articolo c’è da avvertirsi che la signora Isouard con i D 803 ha dovuto pagare D 34 agl’impiegati, onde di questa partita pare che essa non debba fare restituzione. Per l’anticipazione del valore delle macchine la commissione riferisce che signora Isouard dimanda 2.700 ducati per dieci macchine a filare e due macchine a cardare e 1.200 ducati per cento telai, e propone che, invece di liberarsi alla medesima la somma
richiesta, E. V. incarichi la Sopraintendenza di servirsi dell’opera di un macchinista per farle precedentemente esaminare ed indi pagare secondo il valore dal medesimo estimato, con dovere tali macchine restare di proprietà regia, e non potersi queste amuovere da quel locale. Credono la Sopraintendenza e la com-
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missione che con tal metodo si avrebbe qualche risparmio sulla somma richiesta dalla signora Isouard. Essa ha già intrapreso a far costruire tali macchine da un macchinista forestiero che essa ha fatto venire da fuori per questo oggetto, ma per mancanza di denaro ne ha sospesa l’ultimazione, onde potrebbe essere incaricata la Sopraintendenza di far visitare i lavori fatti e, trovatili regolari, ordinare il pagamento del macchinista con una anticipazione di cinquanta ducati per i lavori da continuarsi, e coll’obbligo di far verificare il prezzo dei nuovi lavori fatti prima che egli possa pretendere altre anticipazioni, con la espressa dichiarazione che per tali macchine non debba eccedersi la somma di D 3.300 equivalente alle somme richieste, con la deduzione della spesa di nolo, assicurazione e commissioni, date in nota al Sig. Giraud che si esibiva di fare venire di Francia tali macchine. Ammette con prelazione la Commissione il richiesto incoraggiamento di ducati venti a telaio di opera grossa e ducati venticinque a telaio di opera fina per lo spazio di quattro anni, incoraggiamento da decrescere di 1/4 per anno fino all’estinzione. Per questo oggetto, nel rapporto originario del Decreto dei 26 aprile fu assegnata la somma di D 500 per premi di D 25 per ciascuno da accordarsi alla fine del primo anno per i primi venti
telai di nuove manifatture che si trovassero allora in costante attività. I soldi dell’impiegati che nel R. Decreto dei 26 aprile all’articolo 7 furono posti a carico della signora Isouard; la commissione propone che debbano essi rimanere a carico del governo. Questi sono in D 25 mensuali allo ispettore, ed in D 9 mensuali
al rettore ecclesiastico. Ammettendo le proposizioni della Commissione nel modo esposto, il R. Erario erogherebbe in questo stabilimento per una sola volta D 5.800, dei quali i D 500 per premi di telai non occorrerebbero che alla fine del primo anno dello stabilimento, e D 3.300 per costruzione di macchine assicurerebbero un capitale mai alterabile a danno del R. Erario che dovrebbe trovarlo intatto allo scioglimento della fabbrica dopo che averebbe servito a dare a tutti il comodo di istruirsi nella costruzione di macchine utilissime; e finalmente D 2.000, dopo essere rimasti infruttiferi per cinque anni per il R. Erario, tornerebbero in esso in termine non più lungo di cinque anni. Goderebbe per altro il R. Erario il
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vantaggio che senza suo dispendio sarebbe conservata una cospicua fabbrica quale è quella di S. Pietro Martire. Con il R. Decreto dei 15 aprile 1808 sul budget generale di questo Ministero fu fatto un supplemento di ducati 4.500 sull’articolo delle manifatture per accorrere alle spese del nuovo stabilimento progettato dalla signora Isouard, e nel rapporto che diede origine a tale Decreto fu specificato che per questo stabilimento, oltre i suddetti 4.500, restavano pure addetti D 735 avanzati nella dote già fissata prima per detto budget nel ramo delle manifatture. Vi si ebbe pure presente che sulla fissata dote si avrebbero potuti avere pure D 1.500 per il trasporto e le riparazioni delle macchine di Caserta, per gli incoraggiamenti da darsi a D. Marino Conte, per far venire di Francia gli attrezzi ed istrumenti necessari per la formazione delle macchine e dei cardi; oggetti tutti che non hanno più luogo con la nuova sistemazione di questo stabilimento. Vi sono adunque D 6.935 per far fronte ai D 5.800 che occorrono per il nuovo stabilimento: e di tal somma è stato provveduto finora solamente per D 803. Resta bensì da provvedersi per i soldi degli impiegati a carico del R. Erario. Per assicurare l’utilità dello impiego di tali denari propone la commissione che la signora Isouard, prima di ricevere i proposti incoraggiamenti, debba garantire al governo l’esecuzione di un’opera nuova, la quale debba rimanere sotto la ispezione del governo per promuoverne la perfezione. A questo proposito è da avvertirsi che la signora Isouard ha dato campioni che assicurano che essa e le persone di sua compagnia sanno fare manifatture all’uso inglese, ma queste non possono mettersi in esecuzione in grande, senza l'assortimento delle macchine da filare e da cardare e dei telai, onde la costruzione di tali macchine deve precedere l'esecuzione dell’opera nuova; e però l’incoraggiamenti che debbano porre la signora Isouard in grado avere tali macchine devono essere precedentemente dati con le cautele proposte. Eseguite le macchine potrà esigersi ciò che la commissione progetta, cioè
1. che almeno due terzi dei telai della signora Isouard debbano essere occupati per opere fine di cotone all’uso d’Inghilterra e di Francia; 2. che essa debba assicurare il governo di continuare la ma-
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nifattura almeno per quattro anni, acciò vi sia il tempo di formare manifatturieri; 3. che la signora Ioni e la sua società debbano dare ou cautela al governo; 4. che la direzione economica per l’articolo 3 del R. Decreto dei 26 aprile alla signora Maria Isouard sia affidata in unione dei soci che potrà riunire; 5. che s’intenda riserbata al governo la ispezione delle opere e la designazione di una parte dei lavori da eseguirsi; 6. che il governo eserciti la sua ispezione per mezzo della Sopraintendenza già stabilita, senza però che la signora Isouard sia tenuta a pagamento di verun soldo per quest’oggetto che interessa solamente il governo; 7. che la signora Isouard debba esibire alla Sopraintendenza in ogni sei mesi lo stato dei lavori eseguiti, e sia dovere della Sopraintendenza di verificare, esaminarne la qualità e sottometterne i campioni a V. E. con un suo rapporto dettagliato sullo stato, i progressi della manifattura, ed i mezzi di perfezionarla.
C)
I POVERI INDUSTRIOSI*
Regolamento di sollecitazione al pubblico per favorire i poveri industriosi di Napoli e suoi borghi, all’occasione della solenne esposizione delle manifatture nazionali l’anno 1810 approvato con dispaccio dei 25 luglio
I. Nella bottega addetta alle manifatture del Real Albergo dei Poveri, giacché non vi potranno essere raccolte in abbondanza manifatture vendibili fatte in quel luogo, vi sarà persona idonea destinata a ricevere le commissioni di manifatture di poveri reclusi da chi volesse concorrere all'attivazione dei lavori di quello stabilimento. Tale persona potrà essere autorizzata a ricevere ancora i generi da manufatturarsi ed i danari che potesse occorrere di esigere per cautela delle commissioni e per anticipazione di spesa per esse. Alla Commissione Amministrativa degli stabilimenti di beneficenza apparterrà la destinazione di tale persona e la fissazione dell’istruzioni per la medesima, nell’intelligenza * Regolamento del 25 luglio 1810, opuscolo a stampa in ASN, Ministero Interni, II Inventario, fascio 5067.
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che tutti i danari di anticipazione nel termine di 24 ore dopo incasso dovranno essere stati già passati per banco coll’indicazione della causale dell’introitato danaro.
II. Nella stessa bottega potrà tenersi fissa, esposta al pubblico in luogo facilmente visibile, una picciola cassa da limosine per sollievo di poveri orfani o in educazione per le arti fuori del Real Albergo o di figli di artisti non ancora ammessi al Real Albergo. Questa cassa dovrà essere chiusa a tre chiavi, delle quali una sarà tenuta dal presidente del Comitato centrale di pubblica beneficenza o da persona da esso destinata, altra sarà conservata dal presidente della Giunta delle manifatture, e la terza sarà in mano del tesoriere del Comitato centrale di pubblica beneficenza. Ogni sera si aprirà la suddetta cassa alla presenza di tre rappresentanti i suddetti consegnatari delle chiavi o di essi medesimi, si conterà il danaro immessovi, se ne prenderà triplicato registro, e se ne farà la consegna al tesoriere suddetto a di cui carico ne resterà la conservazione. Esso nel primo successivo giorno di banco l’introiterà in fedone a parte del Comitato centrale per erogarlo solamente in soccorsi ad orfani delle due classi sopraindicate, secondo le disposizioni che saranno date. III. Per quelle manifatture le quali, per vestiario ed altro, potrà occorrere di procurare agli orfani per i suddetti soccorsi, dovranno essere preferiti i lavori fatti nel Real Albergo dei poveri per quanto sarà possibile. Nell’atto della consegna delle manifatture ne sarà fatto per partite di banco il pagamento al Real Albergo dal fedone indicato nell’articolo 2.
IV. Il Comitato centrale proporrà centoquaranta orfani delle classi indicate all’art. 2 da esporsi alla bussola o sorteggio per essere ammessi al godimento degli indicati soccorsi. Questa bussola si eseguirà nel Comitato centrale di pubblica beneficenza colla solita solennità e coll’intervento del presidente della Giunta di manifatture. V. Ciascun soccorso non potrà esser minore del valore di trenta carlini né maggiore di trenta ducati, o in danaro o in manifatture o in attrezzi per manifatture. Il numero sì degl’uni, che degl’altri sarà proporzionato al quantitativo del danaro incassato. Non potrà accordarsi un soccorso maggiore di tre ducati, qualora non vi sia già denaro sufficiente per dare trenta di essi.
V. L’amministrazione dell'economia
303
Il trentunesimo soccorso dovrà essere di tutto l’avanzo sopra i trenta preceduti, purché questo non ecceda trenta ducati. Compito questo si farà altrettanto per tutt’i successivi fintanto che vi sarà denaro da distribuire. Nel caso che la generosità del pubblico avesse dato mezzi per maggiori soccorsi, si farà altro notamento simile di altri centoquaranta orfani per esporli alla stessa sorte.
VI. I centoquaranta orfani da proporsi dal Comitato Centrale dovranno essere nominati nel seguente modo: 10 dalla Commissione amministrativa dei stabilimenti di beneficenza. 10 da monsignor presidente del Comitato centrale di pubblica beneficenza Gran Vicario di Napoli. 14 dal signor Sindaco di Napoli di concerto cogli eletti. 10 dal signor Presidente della Giunta di manifatture di concerto con i membri di quella Giunta. 10 cioè, due per ciascuno, da cinque membri ordinari del Comi-
tato centrale di pubblica beneficenza, esclusone il Presidente ed il Sindaco di Napoli. 82 dai quarantuno comitati particolari di pubblica beneficenza di Napoli e suoi borghi, ciascun dei quali dovrà nominare un’orfano ed un’orfana. 4 da prendersi fra gli orfani liquidati i più meritevoli di soccorso nelle mappe liquidate e rettificate nel Comitato centrale di pubblica beneficenza, qualunque sia la loro Parrocchia, purché non siano stati compresi nelle altre nomine [...]. Le nomine dei maschi dovranno essere dello stesso numero di quello delle femmine. VII. Nessuno organo potrà essere ammesso a questa bussola se non sarà stato prima riscontrato che esso sia compreso in una
delle mappe di indigenti fatte in osservanza dei dispacci dei due maggio e sei giugno 1810.
VIII. Il pubblico sarà anticipatamente avvisato del giorno e dell’ora fissata pel sorteggio degli orfani suddetti. IX. Ciascun comitato particolare di pubblica beneficenza invigilerà sul buon uso da farsi di tali soccorsi dagli orfani del respettivo circondario. X. Sarà ‘aperto in questa bottega un libro di soscrizione a fa-
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
vore dei giovani poveri addetti alle manifatture per procurare loro incoraggiamenti per abilitarsi all’esercizio utile delle loro arti, ed ancora per dare maritaggi ad individui poveri, o maschi o femmine, addetti alle manifatture con successo felice per l’arte. Queste soscrizioni saranno ricevute o per incoraggiamento di ma-
nifatture in generale o per incoraggiamenti di una determinata classe di essi. In questo libro sarà permesso ad ognuno di soscriversi per quella somma che più gli piacerà di assegnarvi, o in rate annue o in rate mensuali o in pagamenti condizionati. L’amministrazione e distribuzione di questi incoraggiamenti e maritaggi sarà affidata ad una commissione di cinque individui, oltre un segretario, scelti a pluralità di voti dai contribuenti, secondo le istruzioniche saranno preventivamente fissate perla commissione.
XI. Questo regolamento per tutto il tempo della fiera o esposizione starà affisso all'ingresso della bottega sopraindicata.
5. Gli interventi per la capitale A)
ILLUMINAZIONE E PICCOLA POSTA”
Supponiamo contemporanea l’esistenza di questi due fatti: del dottor Jenner che annunzi all'Europa la scoperta della vaccina, e di una modista parigina che abbia, nel numero infinito delle combinazioni, con cui un nastro può esser diversamente piegato, trovatane una non ancora osservata. Quale di queste due cose credete voi che farà più presto il giro dell'Europa? Non siate in dubbio. Le amabili inventrici delle mode non hanno mai dovuto tremare per la riuscita delle loro interessanti scoperte; ma le invenzioni utili al genere umano hanno dovuto combatter degli anni per trovare in qualche angolo men barbaro della terra un asilo o un protettore, che ha pagato spesso pene amarissime della sua protezione. Il Fracastoro ha ancor dei nemici: l’inoculazione non cessa di averne. La vaccinazione il ciel sa pi [Vincenzo Cuoco], Lagnanze nuove contro stabilimenti vecchi, in «Corriere di Napoli», 27 dicembre 1806 (l’articolo, senza firma, è attribuito a Cuoco in Scritti vari, a cura di N. Cortese e F. Nicolini, Laterza, Bari 1924).
V. L'amministrazione dell'economia
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per quanti anni sarà ancor combattuta! Ma la moda che si sta forse in questo momento immaginando a Parigi, è indubitato che in tre settimane le belle del Tamigi e del Neva l’avran commentata, arricchita e illustrata, malgrado che la guerra non permetta tra queste nazioni attualmente altra comunicazione che quella del ferro e del sangue. Ma qual è il motivo di differenza sì strana nel destino di cose sì diversamente importanti? Le ragioni son molte; ma son troppo gravi per un foglio volante. Questi fatti son certi; e chi avesse dubitato della lor verità avrebbe potuto prenderne un’intima convinzione a Napoli son pochi giorni. Tutte le città le più civilizzate e le più popolate di Europa si erano avviste che nelle notti buie ci volevan dei lumi per evitar i pericoli rinascenti ad ogni passo e il tumultuoso correre delle genti, il rapidissimo incrociare delle carrozze, e l’arrivo di tanti altri accidenti presentavano a ogni momento contro la vita degl’infelici pedoni. Napoli, che ha 500 mila abitanti, e la di cui popolazione è quasi sempre per metà sulle vie, che ha poche strade spaziose, diverse migliaia di vetture che non san che fuggire, malgrado gli ordini della polizia che lor comanda di carzzzinar solamente; Napoli, che ha 365 notti l’anno ben contate come la maggior parte dei paesi della terra, e che è troppo meridionale per potere sperare delle aurore boreali; Napoli, ripeto non conosceva, non desiderava neppure l’illuminazione che ha diradato le tenebre, scemato i pericoli e accresciuto la vaghezza delle sue ridentissime notti. Ma vi è di più. Come le parti più lontane della terra aveano da gran tempo sentito il bisogno di avvicinarsi artificialmente tra loro per la via delle poste, la stessa necessità aveano modernamente provato quasi tutte le città grandi dell'Europa, le di cui parti troppo vicine per non essere nella necessità indispensabile di una giornaliera comunicazione, si trovano nel tempo stesso tra loro troppo lontane per poterla facilmente e rapidamente eseguire. Così Parigi, Vienna, Londra, Lione aveano da gran tempo credo nel loro seno una piccola posta, che, modellata su i principi della più grande, incatena per così dire le membra troppo diverse di quella città, come l’altra incatena quelle del mondo. Di questo utile stabilimento a Napoli generalmente non se ne aveva nep-
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pure il sospetto, e in nessun altro luogo e spazio eguale, ve n’era maggiore la necessità, perché Napoli è formata in triangolo, ed il triangolo è tra le figure geometriche quella, che, in area eguale, offre punti di distanza maggiore che ogn’altra. Le invenzioni che accrescono i comodi della vita han finalmente cominciato a passare il Garigliano, malgrado che manchi ancora di un ponte. Lo stabilimento della piccola posta è succeduto a quel dei lampioni, e noi possiamo la notte comunicare fra noi con minor pericolo, ed il giorno più facilmente che innanzi. Ma i vantaggi che ha dato la picciola posta ve ne sono in Napoli alcuni di più che nelle altre città ov’essa è già stabilita; vantaggi relativi al disordine del sistema che regnava nella distribuzione osservata nell’antica unica posta che vi era. Questo vantaggio deriva dal porto che si fa di ogni lettera alla casa di abitazione di quello a cui è indirizzata. Siccome doveano giungere inevitabilmente alla posta molte persone che non sapean leggere, un uomo ingegnoso, dice il sig. Kotzbue!, avea fondato sopra questa per lui fortunata ignoranza, in Napoli più comune che altrove, una speculazione da cui traeva una comoda sussistenza. Arrivate appena le lettere, i ministri della posta aveano il noioso inutil dovere di far una nota numerata dei nomi a cui esse eran dirette. Questa nota quindi era esposta; vicino ad essa sedeva lo speculatore ingegnoso con in mano una quantità di piccole carte. Quello che avea bisogno del suo soccorso gli dava il segreto del nome per averne quello del numero in contraccambio, che, scritto sopra uno dei piccoli fogli, era l’indicazione che presentava alla posta per ricevere la lettera corrispondente. Poco importava che la lettera fosse veramente alla sua direzione, purché ne pagasse l'importo. Che un s’immagini i disordini che la malizia spesso e l’incontro casuale dei medesimi nomi dovevano necessariamente cagionare.
Questo disordine colla piccola posta è finito. Nessuno potrà ricevere le lettere di un altro, e ai comodi del trasporto vi sarà unito questo inapprezzabile della sicurezza. Ma la disgrazia di giunger tardi, di camminar lentamente non è sola che abbiano gli umani utili stabilimenti. Ve ne è una seconda a cui sono per lo più riserbati, ed è quella delle male accoglienze che gli uomini loro fanno, allorquando sono finalmente ! Kotzbue, tomo 2, p. 169.
V. L’amministrazione dell'economia
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arrivati. Contraddizione bizzarra e non nuova fra gli uomini, che si annoiano delle cose usate, e che combaitono con ostinazione per conservare le vecchie abitudini. Vero è però, bisogna esser giusti, che talvolta i nuovi stabilimenti, appunto perché son nuovi, hanno nel principio della loro istituzione dei difetti che vanno perdendo nel proseguimento del loro corso. I lampioni sono spenti quando più dovrebbero essere accesi, gridava l’altra sera a una pioggia dirotta un povero uomo caduto per terra, al lampanaio, che rispondeva — Signore è il plenilunio —, «E plenibuio», rispondeva l’altro che cercava il cappello perduto, e che non poté ritrovare tanto era la luce che dava la luna nella sua pienezza coperta di nubi da tutte le parti. — Così è l’uso di altrove — Ma qui non si potrebbe far meglio che altrove? Ma le accuse contro la piccola posta son molto più gravi come apparisce dalla lettera seguente che i compilatori del giornale han ricevuto colla preghiera di pubblicarla. «Signori compilatori, To sono una donna che vivo in una numerosa famiglia. Amo il divertimento benché i miei costumi sien puri. Ho molte conoscenze, ho gran società, vivrei felice se il miglior dei mariti, amandomi teneramente, non mi rendesse colla sua gelosia insopportabile la vita. Io non credeva che il bello stabilimento della piccola posta dovesse aumentare i miei affanni da questo lato. Solevano i miei amici lontani e vicini indirizzarmi spesso delle loro lettere, che per diminuir dei sospetti non per celar degl’intrighi, andava a riscuotere io stessi dalla posta colle mie proprie mani. L’altr’ieri tutti questi segreti sono caduti in potere di mio marito, segreti che, come pensate, la gelosia non ha voluto trovare innocenti. Non vi parlerò dei miei dispiaceri. Amerei d’interessarvi a preferenza per quelli di trenta altre mie amiche che si sono trovate negl’istessi imbarazzi per cagione di quel maledetto portatore di lettere della piccola posta. Ma non è tanto in nome dei rerdez-vous sconcertati, delle corrispondenze segrete interrotte, dei fracassi domestici suscitati che io vi prego di impiegare la vostra penna, quanto anche per l’utilità del governo a cui siam debitori di questo utile stabilimento, al quale se manca questo genere di corrispondenze, mancherà una gran parte, se non è la maggiore, della sua rendita giornaliera».
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Il Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento
B)
I NUOVI MERCATI”
Sire, l’Augusto Predecessore di Vostra Maestà con suoi Reali Decreti dei 30 giugno e 7 agosto 1807 determinò di doversi costruire cinque mercati in questa capitale, il primo nella piazza di Montecalvario, il secondo nel giardino del soppresso monastero di Monte Oliveto, il terzo dove attualmente esiste la chiesa cadente di S. Maria a Cappella, il quarto al largo delle Pigne, ed il quinto a Montesanto.
L’oggetto primario di questa sovrana determinazione fu quello di sgombrare Toledo e le altre più belle strade di Napoli dai venditori di commestibili di ogni sorta, che le deturpano in una maniera al maggior segno indecente.
Lungo sarebbe ed inutile il riepilogare tutto ciò che ha avuto luogo in questo affare dopo l'emanazione degli additati sovrani decreti. Mi restringerò soltanto a rassegnarne a Vostra Maestà lo
stato attuale, e proporle quelle misure che io credo doversi necessariamente prendere per evitare i seri inconvenienti che per i motivi, che vado ad indicare, ne son risultati. Il mercato di Montecalvario fu eseguito con fondi che si erano potuti economizzare sul capitolo del budiet Edifizi Pubblici. Quelli di S. Maria a Cappella, largo delle Pigne, e Montesanto non furono mai intrapresi per mancanza di fondi. Il mercato nel giardino di Monteoliveto fu intrapreso con ducati 7.000, che il Corpo municipale di Napoli diede ad imprestito dai fondi della fortificazione e basolata della città, da rimborsarsi colle rendite delle botteghe dei mercati medesimi. Molti dei venditori di commestibili che ingombravano la strada di Toledo aveano già locate alcune botteghe nei mercati di Montecalvario e Monteoliveto, e l'operazione progrediva regolarmente allorché l'esenzione accordata ai pizzicagnoli, cacio, ed olio, e fruttaioli ne paralizzò i risultati. Fu quindi d’uopo di av-
valersi dei mezzi di coazione cogli altri, ed in tal guisa riuscì di appigionarsi una parte delle botteghe per annui ducati 2.661. Da tal prodotto e da quello del rimanente locale dovea eseguirsi. 1° Il rimborso del Corpo municipale dei sopradetti ducati 7.000. * Ministero dell’Interno, 4 Divisione, Rapporto del 22 dicembre 1809, senza indicazione dell’autore, in ASN, Ministero Interni, II Inventario, fascio 4782.
V. L’amministrazione dell'economia
309
2° La soddisfazione al partitario del residuale importo dei lavori fatti nei detti mercati. 3° L’indennizzazione ai padroni delle case contigue occupate pel mercato di Monteoliveto. 4° Il pagamento dei terreni occupati in S. Maria degli Angioli alle Croci pel giardino delle piante che prima esisteva in Monteoliveto, i di cui proprietari reclamano ogni giorno con somma ragione. Mentre credeasi prossima la completazione degli affitti, i venditori implorarono ed ottennero da Vostra Maestà, che cessasse ogni coazione contro di essi. I mercati rimasero allora del tutto vuoti, la strada di Toledo
ingombrata al pari di prima, svanì la rendita presunta, e con essa ogni mezzo da soddisfare i debiti contratti. Dall’Intendente, e dal Sindaco di concerto col Ministro di Polizia si propose una tassa da gravitare sopra le Cappelle delle rispettive arti, ma questo progetto, passato al Consiglio di Stato, si preintende che non sia stato approvato. Intanto per l’urgenza degli accennati oggetti, non essendovi luogo a dilazione, e dovendosi ad ogni modo rendere abitabile il mercato, e perciò fruttifero di una rendita capace se non ad estinguere almeno a minorare tanti debiti contratti che si debbono onninamente soddisfare, l’Intendente, essendosi posto d’accordo col Sindaco, questi gli ha fatto osservare le seguenti difficoltà. 1. I venditori ricusano di portarsi nei mercati di Monteoliveto e Montecalvario perché, non potendovi tutti esser compresi, è diverso il lucro di quelli che obbediscono, da quelli che restano esclusi. 2. Si deve rifare il portico del mercato di Monteoliveto, il quale rovinò per essersi con troppa precipitanza sformato. In ordine alla prima parte, han convenuto d’accordo di prescrivere l'obbligo a quei venditori che più offendono la decenza, di evacuar Toledo, la Galitta, Porta dello Spirito Santo e Pignasecca, cioè ai venditori di ogni sorta di carne, ai pizzicagnoli, cacio ed olio, e verdummari. Si lasceranno in Toledo i fruttaioli, panettieri, pasticcieri, maccaronari, cantinieri, locandieri, alcuni
macellai, ed i tavernari, ma questi saranno obbligati per ora, e finché non verrà costrutto l’altro mercato a S. Maria a Cappella, a passare in un vico superiore a Toledo a tenore dell’acchiuso quadro formato dal Sindaco.
310
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Per siffatta esecuzione pensa l’Intendente di dirigersi al Prefetto di Polizia, acciò ne riscontri i padroni delle botteghe singolarmente ed i venditori, riserbandosi il Sindaco di prevenirne i Consoli, mettendo d’accordo l’interesse dei venditori che dovranno andar nei mercati coll’interesse di quelli che avranno da passare nei vicoli superiori a Toledo, ed occorrendo impiegare il sorteggio tra essi. In quanto poi al 2° articolo della rifazione del Portico hanno stabilito che il Sindaco esigerà un terzo o un semestre anticipato dagli affittatori delle botteghe nei mercati, e con questo danaro se ne solleciterà la ricostruzione. Io trovo regolare la misura proposta dall’Intendente e dal Sindaco come quella ch’è dettata dall’imperiosa necessità di sistemarsi prontamente questo affare, ed è analoga all’oggetto che si ebbe in mira dall’ Augusto Predecessore di Vostra Maestà negli accennati suoi Reali Decreti; e perciò mi uniformo pienamente, e supplico Vostra Maestà ad autorizzarmi a disporne la esecuzione, meno che pel terzo e semestre anticipato che il Sindaco propone di esigere dai venditori, non potendosi costoro per giustizia obbligare a tale anticipato pagamento, sempre che nol vogliano fare spontaneamente. Dovrebbe quindi l’Intendente ed il Sindaco proporre altri espedienti per accorrere all’accennata ricostru-
zione.
CENNI BIOGRAFICI SUGLI AUTORI DEI BRANI RIPRODOTTI
ARraCRI GREGORIO, Stallettì (Catanzaro) 1749-1813. Nel 1763 veste l’abito cappuccino con il nome di P. Fedele da Stallettì. Fra le opere: Lezioni elementari dell’etica, composte dal Rev. P. Lettore Fedele da Stallettì Cappuccino (1781); Elementi di diritto naturale (1787), poi Elementi di diritto naturale e sociale (1808); Relazione della pioggia di cenere avvenuta in Calabria Ulteriore nel dì 27 marzo 1809 (1810). CAGNAZZI Luca DE SAMUELE, Altamura (Bari) 1764 - Napoli 1852. Nel
1800 professore di Economia politica a Firenze, dal 1801 di nuovo a Napoli, dove occupa la cattedra di Statistica e dal 1806 quella di Economia politica. Nel decennio francese diviene consigliere del governo per l'economia e la statistica; dal 1810 dirige gli uffici di agricoltura, commercio e statistica del Ministero degli Interni. Fra le opere: Elerzenti dell’arte statistica (1808-1809); Elementi di economia politica ad uso
della R. Università degli studi di Napoli (1813); Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia nei passati tempi e nel presente (1820 e 1839).
Cassitto FEDERICO, Bonito (Avellino) 1776-1853. Ricopre vari incarichi nel decennio francese; è segretario dell’ Accademia agraria di Avellino, quindi Società economica, dalla sua istituzione al 1814, e di nuovo dal 1835 al 1847. Fra le opere: Descrizione delle industrie campestri bonitesi, seguite da considerazioni sulla migliorabilità economica della Sicilia citeriore (1834); Rapporto sul viaggio intrapreso verso il N. O. della Provincia [di Principato Ulteriore] (1835). Varie memorie nel «Giornale economico del Principato Ulteriore». CoLLETTA Pietro, Napoli 1775 - Firenze 1831. Militare, partecipa alla repubblica del 1799. Svolge diversi incarichi di carattere amministrativo e militare durante il decennio francese; nel 1809 viene nominato intendente di Calabria Ultra, nel 1812 direttore generale di Ponti e strade, nel 1815 primo ispettore del Genio. Dopo i moti del 1820, si stabilisce esule a Firenze. Fra le opere: Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825 (1834); Alcuni pensieri sull'economia agraria della Toscana (1825).
Altri scritti sono pubblicati in Opere inedite 0 rare (1861).
3A?
Cenni biografici sugli autori dei brani riprodotti
Cuoco Vincenzo, Civita Campomarano (Campobasso) 1770 - Napoli 1823. A Milano dal 1800, dirige dal 1803'il Giornale italiano; a Napoli dal 1806, collabora alle riforme francesi e svolge un’intensa attività pubblicistica. Fra le opere: Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1801); Platone in Italia (1804-1806); fra i rapporti inediti del periodo 1806-1815: Rapporto al re Gioacchino Murat (sulla riforma della pubblica istruzione); Rimzboschimenti e bonifiche; Viaggio in Molise (ora raccolti in Scritti vari, a cura di N. Cortese e F. Nicolini, Bari 1924).
Ferrara MicHeLe, Cardinale di Mugnano (Avellino) 1763 - Napoli 1817. Chimico della Regia accademia militare. Fra le opere: Istituzioni di farmacia chimica (1805); Dello stato dell’arte vetraria nel regno di Napoli e de’ mezzi per migliorarla (1818); Rapporto della classe chimica del regio istituto d’incoraggiamento sulle memorie risguardanti l’indaco estratto dal guado (1818).
LA Pira GAETANO MARIA, di Foggia. Membro nel decennio francese della Giunta delle manifatture e dell’ Amministrazione generale delle polveri e dei salnitri. Fra le opere: Saggio di materia medica (1794); Istituzioni di farmacia per uso delle Due Sicilie (1803); Riflessioni che possono condurre a facilitare l’impresa di dare lo scolo alle acque del Lago Fucino (1807).
LiseraToRE
PasquaLe,
Lanciano
(Chieti) 1763 - Gragnano
(Napoli)
1842. Esercita l’avvocatura; nel 1814 è nominato procuratore generale presso la Gran Corte criminale di Napoli. Fra le opere: Saggio sulla giurisprudenza penale del Regno di Napoli (1814); Della feudalità. Suoi diritti e abusi nel Regno delle due Sicilie. Della sua abolizione e delle conseguenze da essa prodotte nella nostra legislazione (1834); Del commercio nel Regno delle due Sicilie. Sue vicende e sue legislazioni (1837). MonriceELLI TEODORO, Brindisi 1759 - Conversano (Lecce) 1845. Professore di Filosofia morale a Napoli e segretario perpetuo dell’ Accademia delle scienze. Fra le opere: Sull’economia delle acque da ristabilirsi nel regno di Napoli (1808); Sulla pastorizia del regno di Napoli (1807); Descrizione dell’eruzione del Vesuvio, avvenuta nei giorni 25 e 26 dicembre dell’anno 1813. OLIvIER-PoLI GioAccHINO MARIA, Molfetta (Bari) seconda metà XVIII
sec. - Napoli 1856. Partecipa alla rivoluzione del 1799. Esule in Francia, milita nell’esercito napoleonico; riceve diverse promozioni sotto Murat. Fra le opere: Cenzo storico su la rivoluzione dell’Italia Meridionale în luglio 1820 (1820); Continuazione al nuovo dizionario istorico degli uomini che si sono renduti più celebri per talenti, virtà, scelleratezze, etc. (1824-
1826); Abbellimenti della città di Napoli (1839). ONORATI NicoLa, detto «Columella», Craco (Basilicata) 1754 - Napoli
Cenni biografici sugli autori dei brani riprodotti
313
1822. Veste abito francescano. Nel 1788 professore di agricoltura a Salerno, quindi a Napoli. Fra le opere: Delle cose rustiche, ovvero dell’agricoltura trattata secondo i principi della chimica moderna (1803); Dell’educazione de’ bachi da seta (1817); Memorie su l'economia campestre e domestica, che possono servire di supplemento all’opera delle cose rustiche (1818); Gti opuscoli georgici (1820).
Rizzi FiLIpPo, di Ascea (Salerno). Socio dell’Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali nel decennio (dal 1809), posteriormente anche dell'Accademia pontaniana. Autore di numerose memorie: Merzzoria sul tempo della potatura delle viti (1802); Dissertazione sull’impiego de’ poveri (1806); Ptocologia (1832).
RosaTI GrIusEPPE, Foggia 1752-1814. Dal 1805 professore di agronomia in Foggia. Fra le opere: La geografia moderna, teoretica, istorica e pratica
(1785); Elementi di agrimensura (18022); Le industrie di Puglia (1808). Tuppuri
DomeNICO
ANTONIO,
Andria
(Bari) 1763
- Bisceglie (Bari)
1852. Partecipa alla rivoluzione del 1799 e ai moti del 1820. Emigra nel 1799 in Francia, dove si dedica a studi agrari. Fra le opere: Mémoîre sur la culture du cottonier, adressée à S. Ex. le Ministre de l’Intérieur (1807); Réflexions succintes sur l’état de l’agriculture et de quelques autres parties de l’administration dans le Royaume de Naples, sous Ferdinand IV (1807).
Ungaro GioaccHINO, duca di Montejasi, discendente da cospicua famiglia della nobiltà tarantina. Fra le opere: Prospetto economico-politicolegale del Regno di Napoli (1807); Raccolta di memorie agrarie, politiche, economiche, legali riguardanti particolarmente il Regno di Napoli (1813). WinspEARE DAVIDE, Portici (Napoli) 1775 - Napoli 1847. Nel 1807 viene nominato procuratore generale della Commissione feudale, nel 1812 avvocato generale presso la Corte di Cassazione; partecipa alla riforma del Codice penale. Dopo la Restaurazione si dedica all’avvocatura. La sua fama è legata alla Storia degli abusi feudali (1811). ZurLo Giuseppe, Baranello (Campobasso) 1759 - Napoli 1828. Ministro delle Finanze sotto Ferdinando IV, ministro dell’Interno nel decennio francese, e nei moti del 1820. Fra le opere: Relazione officiale sulla Sila (1792, pubblicata nel 1832); Rapporto sullo stato del Regno di Napoli per gli anni 1810 e 1811 (1812); Rapporto al Parlamento nazionale di Napoli sulla situazione del Ministero degli affari interni (1820).
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INDICE Prefazione di Luigi De Rosa Introduzione di Costanza D'Elia
VII
Il territorio e gli uomini 1. L’agricoltura: potenzialità naturali e arretratezza: A) La decadenza (D. Tupputi), p. 3 - B) Un inventario dei mali presenti (G.
Uncaro), p. 8 - 2. La diffusione del cotone (N. COLUMELLA), p. 26 =Sadhe acque e i boschi (T. MonticELLI), p. 34 -4. La pastorizia (T. MonticeLLI), p. 54 - 5. Le cause della povertà (F. Rizzi), p. 66
iCR
Le industrie
81
1. L’esposizione industriale del 1809 (V. Cuoco), p. 81 - 2. Ri-
sorse naturali e manifatture (G. La Pira), p. 83 - 3. L'industria del vetro (M. FERRARA), p. 91 - 4. L’industria della seta a Catanzaro (G. ARACRI), p. 97
III.
Le regioni economiche
103
1. Agricoltura e demografia in Puglia: A) Colture e insediamenti (L. pe SamueLe CAGNAZzZI), p. 103 - B) La distribuzione della terra (G. Rosati), p. 116 - 2. Foreste e campi in Principato Ultra (F Cassrrti), p. 129 -3. Manifatture e commercio nella provincia di Chieti (P. LiseratoRE), p. 136 - 4. L’economia della provincia
di Napoli negli atti del Consiglio provinciale (De TURRIS), p. 150 - 5. Alimentazione e salute in provincia di Teramo secondo la statistica murattiana (G. TtauLero), p. 160 - 6. Viaggio in Molise (V. Cuoco), p. 166
DV.
Il nuovo regime e le grandi riforme 1. Una visione d’insieme: il resoconto del ministro Zurlo (G. Zur-
LO), p. 187 - 2. L’eversione della feudalità, p. 216 - 3. La riorganizzazione delle finanze: A) Il vecchio e il nuovo sistema (D. Win-
spEARE), p. 234 - B) La «grande questione del debito pubblico»
187
316
Indice
(P.-L. RoeDERER), p. 247 - C) La soppressione dei banchi privati, p. 252 - D) La legge del 4 maggio 1810 (V. Cuoco), p. 254
L’amministrazione dell’economia
23
1. Pressione fiscale e reazione delle provincie: A) Le imposte dirette del 1814 (Mossourc), p. 257 - B) Un reclamo per la riduzione della fondiaria (G.B. DeLFICO), p. 261 - 2. Commercio dei
grani e annona: A) La liberalizzazione del commercio dei grani (G. ZurLo), p. 264 - B) L’approvvigionamento della capitale in tempo di carestia (G. MaceponIo), p. 274 - 3. Le opere pubbliche: le
bonifiche (P. CoLLETTA), p. 277 - 4. Manifatture di stato e beneficenza: A) Critiche all’intervento per l'industria (G.-M. OLIvIERPot), p. 295 - B) L'istituto di beneficenza di S. Pietro Martire, p.
296 - C) I poveri industriosi, p. 301 - 5. Gli interventi per la capitale: A) Illuminazione e piccola posta (V. Cuoco), p. 304 - B) I nuovi mercati, p. 308
Cenni biografici sugli autori dei brani riprodotti
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nel decennio costituisce un investi-
mento ingente, reso possibile dal-
l’accumulazione della cultura illuministica meridionale ed europea. Costanza D’Elza
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88-420-4
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