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Italian Pages 416 Year 1993
AA. VV.
IL MEZZOGIORNO AGLI INIZI DELLA RESTAURAZIONE EDITORI LATERZA
Nonostante l’alto livello del contributo meridionale al progresso della teoria economica, ben poco è stato fatto per illustrare il rilevante apporto recato dagli scrittori meridionali alla conoscenza della realtà economico-sociale del Mezzogiorno.
La collana «Classici Meridionali» si propone di colmare questa lacuna e di sottolineare come invece questo apporto ha costituito una costante del pensiero meridionale. Luigi De Rosa
Alla fine delle guerre napoleoniche, le economie dei paesi europei andavano assumendo tratti sempre più accentuatamente capitalistici, grazie anche al dispiegarsi della libera concorrenza.
Questa fase si
rivelò particolarmente
critica nel
Mezzogiorno, dove le spinte inno-
vatrici manifestatesi nel corso del Decennio francese non poterono, per la presenza di pesanti vincoli di natura interna ed internazionale, dispiegare tutto il loro potenziale innovativo. I contributi pubblicati hanno diversa origine e natura. Accanto a fonti a stampa compaiono documenti archivistici, memorie, proteste, un mosaico variegato, dun-
que, che aiuta a gettare luce su un periodo troppo spesso sottovalutato dalla storiografia economica. La collana «Classici Meridionali» nasce grazie alla collaborazione con la Caripuglia Spa. In sovraccoperta: Ferdinando II visita a Melfi le popolazioni colpite dal terremoto. Dipinto di Anonimo.
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CLASSICI MERIDIONALI
Collana diretta da Luigi De Rosa
Opera promossa e realizzata con il contributo della Caripuglia Spa
AA.VV.
IL MEZZOGIORNO AGIIIINIZI DEEPNCSRESTAURAZIONE a cura di Walter Palmieri
Editori Laterza
1993
© 1993, Gius. Laterza & Figli
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel novembre 1993 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-4344-0 ISBN 88-420-4344-3
A proposito degli scrittori napoletani del Sei e Settecento l’illustre economista austro-ungarico Joseph A. Schumpeter osservava che, mentre «non erano inferiori per zelo, nelle ricerche empiriche e per comprensione dei problemi concreti, ai tedeschi, erano per capacità analitica superiori alla maggior parte dei loro contemporanei spagnoli, inglesi e francesi». Lo stesso Schumpeter, del resto, come altri prima e dopo di lui, ha messo in risalto l’alto livello del contributo meridionale al progresso della teoria economica. Ben poco, invece, si è fatto finora per illustrare il rilevante apporto recato dagli scrittori meridionali alla conoscenza della realtà economico-sociale del Mezzogiorno a loro contemporanea e all’individuazione di rimedi atti a migliorarla. La collana «Classici Meridionali» si propone appunto di colmare questa lacuna e di sottolineare come uno sforzo di conoscenza dei fatti e di individuazione dei rimedi ha costituito una costante del pensiero meridionale. La collana comprende testi che vanno dal Seicento ai giorni nostri, e che in grande maggioranza possono essere considerati oramai veri e propri classici. Attraverso le loro pagine, permeate di impegno e passione civile, è possibile cogliere, oltre che l’attenta e acuta analisi dell’arretratezza meridionale e la sofferta ricerca, con il ricorso talvolta a riflessioni ed esperienze di oltrealpi e oltremanica, di provvedimenti atti a rimuoverla, anche la testimonianza che la «questione meridionale» non nacque con
l'unificazione politica dell’Italia; essa affonda le sue radici dentro la storia del Mezzogiorno, e in un complesso coacervo di fattori che vanno ben al di là del comportamento dei meridionali. Le opere incluse nella collana consentono di ripercorrere le fasi e i momenti più rilevanti dell'evoluzione economica meridionale; mettono in evidenza i problemi che di volta in volta,
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Prefazione
per la loro gravità o per i riflessi di quanto altrove stava accadendo, furono al centro della generale attenzione; richiamano le politiche economiche adottate dai differenti governi e le critiche o i consensi che esse suscitarono; sottolineano come nel Mezzo-
giorno abbia sempre operato una classe colta, non di rado critica verso il potere costituito, talvolta legata all’Università o alla burocrazia, e che solo dalla seconda metà del Settecento fu chiamata a ricoprire incarichi di responsabilità o di governo. Accanto all’appello rivolto ai meridionali di adoperarsi fermamente per uscire dalla loro arretratezza economica e sociale, un altro leitrzotiv di queste opere, il motivo che tutte le attraversa e le accomuna, è il convincimento che la rinascita del Mez-
zogiorno deve essere opera, prima che di altri, degli stessi meridionali e solo in via subordinata e di sostegno dello Stato. La pubblicazione di queste opere, ricche di riflessioni, di dati e di riferimenti alla realtà nella quale furono concepite, è tesa,
pertanto, oltre che a richiamare i meridionali a una più documentata memoria del loro passato, e a una più generosa valutazione dei progressi tuttavia realizzati, a sottolineare a tutti la non eludibile necessità di un nuovo e più meditato impegno per la costruzione di un effettivo equilibrio economico-sociale tra le varie parti del paese. Che incidenza questa collana potrà avere sul concreto piano operativo per il raggiungimento dell’uno e dell’altro obiettivo è valutazione non rilevante in questa sede. Perché i suoi promotori — cioè gli Editori Laterza e la Caripuglia Spa — possano sentire di aver compiuto una scelta felice ed opportuna basta aver offerto alla riflessione su questi obiettivi un corpus organico di nuovo e stimolante materiale, finora scarsamente e malamente conosciuto. La verità è che una concreta e feconda unità spirituale, morale e materiale del paese è più che mai indispensabile, ora che il processo di unificazione economica e materiale batte con sempre maggiore insistenza alle nostre porte. Luigi De Rosa
INTRODUZIONE «Cadde Murat nel 1815; ma non seco leggi, usi, opinioni, speranze impresse nel popolo per dieci anni»!. Così Colletta commentava laconicamente la fine di un periodo, il Decennio francese, caratterizzato dal tentativo di tradurre in risposte concrete le spinte riformiste dell'illuminismo tardo settecentesco. Le novità poste in essere a partire dal 1806, com'è noto, riuscirono lì dove si era sempre fermata la politica borbonica del secolo precedente?: veniva sancita la liquidazione dell’antico sistema feudale e delle sue strutture giuridico-economiche. Si veniva in tal modo delineando una nuova formula di monarchia «amministrativa», di moderna macchina statale che si dotava di nuovi mezzi e strumenti con cui operare nella struttura socioeconomica. Con la nuova legislazione si postulava la possibilità di sostituire agli interessi particolaristici, interessi collettivi. «La ! P. Colletta, Storia del Reame di Napoli (1834), a cura di E. Barelli, Rizzoli, Milano 1967, lib. VIII, p. 701. ? Volendo sminuire la portata rivoluzionaria delle riforme del Decennio e al contempo legittimare ulteriormente la dinastia borbonica, fu abbastanza frequente il tentativo, dopo il 1815, di attribuire a quest’ultima il merito dei cambiamenti intervenuti. Nel novembre 1815, ad esempio, il presidente della Società economica di Basilicata Giovan Vincenzio Pomarici, riferendosi ai risultati positivi della legislazione murattiana, scriveva: «Non è stata già la passata occupazione militare che ci ha somministrati siffatti vantaggi, come forse potrebbe alcun sospettare. I di lei autori interessati ad aspergere d’un soave licore gli orli del vaso entro del quale ci facevano trangugiare le più amare e disgustose bevande, altro non han fatto che mettere in esecuzione i salutari progetti che l’ottimo nostro Sovrano Ferdinando IV avea già prima delle galliche invasioni adottati, ed in parte anche sanzionati» (Discorso recitato nella pubblica riapertura della Società economica di Basilicata, in Archivio di Stato di Napoli — d’ora in poi ASN —, Ministero Interni, II inventario, fascio 2572). Dello stesso tono sono alcune affermazioni dell’avvocato Benedetto Cantalupo, Quadro ed analisi degli atti del governo che costituiscono il sistema finanziero per le due Sicilie, tomo I, Tip. Marotta Vanspandoch, Napoli 1824, pp. 58-60. Su quest’argomento infine si veda il «so-
netto» pubblicato da C. De Nicola, Diario Napoletano. 1798-1825, parte III, Società Napoletana di Storia Patria, Napoli 1906, pp. 37-38.
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pubblica amministrazione, legata alla legge e ben distinta dal potere del sovrano assoluto, diveniva il centro di diffusione e di tutela dell’interesse generale». Nascevano in tal modo nuove figure istituzionali (intendenze, camere di commercio, consigli provinciali, Società economiche, etc.) con compiti che non erano riconducibili unicamente al mero controllo del territorio e gestione dell’esistente, ma che all’opposto erano più direttamente investite di funzioni di promozione e sviluppo; nello stesso senso, solo per citare un altro esempio, l'abolizione degli arrendamenti* restituiva allo Stato il dominio su uno strumento, quello fiscale, che poteva rappresentare una variabile strategica nella
conduzione dell’economia. Si creava in definitiva un corpus di norme che, dando un nuovo significato al rapporto tra Stato e sistema economico, apriva rilevanti possibilità di innescare e dirigere la trasformazione e la crescita.
1. Nonostante il clima di timore e di incertezza che si respirava a Napoli all'indomani della caduta di Murat?, non si dovette attendere molto per vedere confermato, tranne alcune eccezioni, l’assetto legislativo posto in essere durante il Decennio®6. Alla lu} R. Feola, Accentramento e giurisdizione. Il progetto amministrativo nel primo Ottocento napoletano, in «Archivio storico per le province napoletane», CIII,
1985, p. 451.
4 Sul problema degli arrendamenti si veda L. De Rosa, Studi sugli Asrendamenti del Regno di Napoli, L'arte tipografica, Napoli 1958. ? Di amnistia e pacificazione sociale trattavano alcuni proclami scritti da Ferdinando ancor prima del suo rientto a Napoli. Ma, nonostante ciò, ancora vivi erano i ricordi della reazione del 1799, e inoltre da più parti giungevano segnali che avvaloravano l’idea che l’adesione borbonica alle riforme francesi potesse essere solo temporanea. Il clima di incertezza fu inoltre incentivato da insistenti voci su una possibile divisione del Regno di Napoli dalla Sicilia. Su questi ed altri problemi legati alle prime fasi della Restaurazione cfr. A. Scirocco, Governo assoluto ed opinione pubblica a Napoli nei primi anni della Restaurazione, in «Clio», XXII, 1986, n. 2, pp. 203-224; Id., Il Mezzogiorno nell'età della Restaurazione, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1971, pp. 6-14; G. Addeo, La libertà di stampa nel nonimestre costituzionale a Napoli, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», CVIII, 1989, in particolare pp. 337-342; A. Zazo, La Restaurazio-
ne del 1815 e le «ciarle» murattiste per la separazione del Regno di Napoli dalla Sicilia, in «Samnium», a. VI, lug.-sett. 1933, n. 3, pp. 204-221; W. Maturi, La politica estera napoletana dal 1815 al 1820, in «Rivista Storica Italiana», serie V, vol. IV, 1939, in particolare pp. 226-238. 6 Per un’attenta disamina delle tappe di conferma delle riforme murattiane si rimanda al lavoro di N. Cortese, Per /a storia del Regno delle due Sicilie dal 1815 al 1820, in Il Mezzogiorno ed il Risorgimento italiano, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1965, pp. 328 sgg.
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ce di queste conferme sembra opportuno domandarsi se, e in quale misura, sia possibile interpretare il rapporto tra Decennio e Restaurazione in chiave di continuità. Se, in altri termini, l’accettazione delle riforme e finanche del personale del periodo murattiano sia sufficiente a giustificare una lettura dei primi anni dell'Ottocento borbonico come di una sorta di propaggine, di pro-
lungamento del tentativo di modernizzazione portato avanti dai napoleonidi. Posto in questi termini il quesito non può che ricevere una risposta negativa, ma necessita di alcuni chiarimenti. In primo luogo bisogna osservare che la spinta all'adozione dell’eredità francese fu dettata, più che da reale convinzione circa la validità del nuovo sistema, dalla coscienza dell’irreversibi-
lità dei mutamenti che esso aveva generato. Le leggi di eversione della feudalità avevano messo in moto processi redistributivi il cui fenomeno più evidente fu una crescita della proprietà borghese e contadina manifestatasi, seppur con diversa intensità, in tutte le province del Regno. La nuova classe dirigente sorta nel Decennio, inoltre, «aveva acquistato una precisa coscienza della sua forza, ed era ben decisa a non perdere le sue conquiste»?. In questo contesto diveniva sostanzialmente impossibile riproporre un ritorno all’ancien régime, tanto più che gli accordi siglati nell’aprile del 1815 con l’Austria e il successivo trattato di Casa-
lanza obbligavano — e questo fu solo uno dei vincoli internazionali all’interno dei quali il Regno fu costretto a muoversi — i restaurati Borboni a privilegiare quell’orientamento di pacificazione sociale che trovò la sua massima espressione nella politica dell’amalgama, in quel tentativo cioè di coniugare vecchio e nuovo che il governo Medici portò avanti sin quando lo scoppio della rivoluzione del 1820 non ne rivelò in pieno le intime contraddizioni. In questa prospettiva l’accettazione borbonica delle riforme francesi finì per essere un’accettazione passiva, priva di quelle tensioni ideologiche che l'avevano caratterizzata al loro sorgere. Appariva decisamente sopita la volontà di puntare in modo diretto sulla crescita e l'affermazione definitiva delle nuove forze produttive, e si tentò di omogenizzare alle loro esigenze le vec-
chie istanze di legittimisti e dei ceti colpiti dalle riforme france7 R. Romeo, Momenti e problemi della Restaurazione nel Regno delle due Sicilie (1815-1820), in Mezzogiorno e Sicilia nel Risorgimento, ESI, Napoli 1963, p. 56.
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si, con una politica fortemente ambigua che finiva con lo scontentare tutti8. In secondo luogo, ulteriore elemento di frattura col periodo francese era rappresentato dal fatto che con esso crollava anche il blocco continentale, ossia quell’artificiosa copertura protettiva all'ombra della quale molti paesi avevano attuato rilevanti trasformazioni del proprio assetto produttivo e altri, quelli già economicamente evoluti, avevano rafforzato ulteriormente la propria leadership. Usciva quindi allo scoperto un sistema economico internazionale con tratti sempre più marcatamente capitalistici; un contesto in rapida evoluzione in cui la concorrenza diveniva presenza costante e premeva, pena la marginalizzazione,
per l'adozione di nuovi modelli di comportamento economico. Una sfida quindi di natura diversa da quelle del passato, ma anche un Mezzogiorno con nuove potenzialità e nuovi strumenti a sua disposizione; ed è proprio sulla possibilità,di utilizzo di questa nuova strumentazione che il Regno gioca in questo periodo tutte le sue opportunità di riscatto. Ma, ed è questo il punto che occorre sottolineare con forza, anche prescindendo dalla diffidenza borbonica verso questi nuovi mezzi, questa possibilità di utilizzo finì con l'essere fortemente condizionata dalla presenza di un sistema di vincoli interni ed internazionali. Ostacoli di natura politica, ma anche e principalmente di natura economica, che inibirono la capacità di risposta, finendo con l’accentuare quelle caratteristiche che giustificavano una collocazione del Mezzogiorno tra le aree periferiche del mercato internazionale. Il periodo oggetto della presente indagine va dal 1815 fino al 1823-24. La scelta del termine ad quer è motivata dal fatto che, com’è noto, in quegli anni furono introdotte quelle tariffe che mutarono l’indirizzo della politica economica borbonica, inaugurando quella scelta protezionistica che non fu più abbandonata in seguito. Questa periodizzazione, se può apparire quanto meno inu8 Sulla politica dell’amalgama e sulla sua ambiguità di fondo si vedano, oltre ai già citati lavori di A. Scirocco, N. Cortese e R. Romeo, anche: L. Blanch, Luigi de’ Medici come uomo di stato ed amministratore (1830), in Scritti Storici, vol. II, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1945, pp. 3 sgg.; W. Maturi, I/ congresso di Vienna e la Restaurazione dei Borboni a Napoli, in «Rivista Storica Italiana», serie
V, vol. III, 1938, pp. 48 sgg; M. Dell’Aquila, L'ideologia e la coltura, in Atti del 3° Convegno di studi sul Risorgimento in Puglia. L’età della Restaurazione (18151830), Bracciodieta, Cassano Murge (Bari) 1983, in particolare pp. 37-44.
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suale alla luce della necessità, sottolineata efficacemente da parte della recente storiografia, di superare nell’indagine storico-economica finanche il concetto di Ottocento preunitario, si giustifica alla luce della convinzione che proprio in quegli anni siano rintracciabili numerose radici dei problemi che il Mezzogiorno sperimentò almeno sino alla crisi agraria degli anni ottanta?. Si è osservato del resto, riferendosi ad una periodizzazione simile a quella qui adottata, che, «quasi schiacciati tra il turbinoso periodo napoleonico e l'accelerazione del processo risorgimentale dopo gli anni trenta, questi anni attendono ancora una più attenta collocazione nel processo di edificazione di una società borghese in Italia e nel Meridione» e da qui sorge quindi «la necessità di una nuova periodizzazione che riconosca proprio in quegli anni un momento fondamentale»!9. I brani inseriti in questa antologia rappresentano uno spaccato di un corposo dibattito che in quegli anni, sulla scia della più celebrata tradizione settecentesca, poneva l’accento non solo sulla descrizione delle condizioni economiche del Regno, ma anche sull’individuazione e la rimozione dei limiti che ne ostacolavano la crescita; dibattito quindi ricco di fermenti intellettuali e, nella maggior parte dei casi, indicativo di un elevato grado di maturità e di coscienza circa i vecchi e i nuovi problemi che il Mezzogiorno affrontava in una nuova fase della sua storia. I contributi qui pubblicati hanno diversa origine e natura. Accanto alle fonti a stampa, particolarmente abbondanti soprattutto durante il nonimestre costituzionale!!, sono inseriti documenti archivistici. Compaiono sia celebrati autori dell’intelligencija napoletana, come ad esempio Paolo Nicola Giampaolo, Luca de Samuele Cagnazzi!? e Carlo Afan de Rivera, che si dimostrerà ? Cfr. B. Salvemini, Note sul concetto di Ottocento meridionale, in «Società e Storia», n. 26, 1984, pp. 917-945. 10 E, Iachello, Il Mezzogiorno nell'età della Restaurazione: nuove indicazioni di ricerca, in «Società e Storia», n. 29, 1985, p. 649. 11 Sulla concessione della libertà di stampa nel 1820 e sui suoi effetti cfr. G. Addeo, op. cit., pp. 352-380; A. Lepre, La rivoluzione napoletana del 1820-21, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 143-149; M. S. Corciulo, La stampa costituzionale durante la rivolta napoletana del 1820-21, in «Analisi Storica», a. III, 1985.
12 Sul rilevante ruolo ricoperto da Cagnazzi nel dibattito economico tra fine Settecento e inizi Ottocento, cfr. B. Salvemini, Econorzia politica e arretratezza meridionale nell'età del Risorgimento. L. d. S. Cagnazzi e la diffusione dello smithianesimo nel Regno di Napoli, Milella, Lecce 1981, a cui si rinvia anche per la bibliografia sull'argomento.
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di lì a poco la punta più avanzata della riflessione in tema di rapporto tra territorio e sviluppo economico, sia resoconti di amministratori locali, spesso intendenti, consiglieri provinciali, o membri delle varie Società economiche. A fianco ai documenti ministeriali sono comprese memorie e proteste, spesso scritte da
semplici cittadini, talvolta anonimi. Altra caratteristica del dibattito è la presenza delle «statistiche». Le indagini sul territorio e sui suoi aspetti socio-economici divengono una costante della letteratura ottocentesca. I lavori di Giuseppe Del Re ne sono un esempio evidente!?, e testimoniano che l’eredità del Decennio francese, oltre che per gli aspetti legislativi, è ben rilevante anche sul piano scientifico culturale. La famosa «murattiana», elaborata da Cagnazzi e avviata a partire dal 1811, continuò a rappresentare un referente obbligato su cui si plasmarono numerosi lavori, spesso a carattere locale!4. Si sono voluti presentare al lettore contemporaneo alcuni tasselli di un mosaico variegato, di un dibattito che, seppur scarsamente organico e non sempre sostenuto da una forte elaborazione teorica!5, presenta tuttavia notevoli spunti di interesse per la 13 Ci si riferisce ai Calendari che Giuseppe Del Re pubblicò su alcune province del Regno (cfr. infra, parte I, cap. II) e che probabilmente servirono di a ai diversi tomi della sua Descrizione topografica fisica economica politica de’ Reali dominj al di qua del Faro nel Regno delle due Sicilie, che furono editi a Napoli negli anni trenta. 14 Oltre ai resoconti sulle province (cfr. infra, parte I, cap. II), numerosi furono in questi anni i lavori «statistici» riguardanti piccoli territori. Molti di essi furono pubblicati sugli «Annali di Agricoltura Italiana»: A. Casazza, Statistica agraria del circondario di S. Giorgio la Montagna în Principato Ultra (tomo II, apr.giu. 1819, pp. 50-52); F.A. De Angelis, Statistica agronomica del circondario di Caramanico (tomo V, gen.-mar. 1820, pp. 193-233); G.N. Durini, Statistica agronomica dei circondari di Vasto e Paglieta in Apruzzo Citeriore (tomo VII, lug.-sett. 1820, pp. 230-247); D. Martucci, Statistica agraria del circondario di Bitonto in Terra di Bari (tomo VIII, ott.-dic. 1820, pp. 114-128); C. Cofone, Stato agronomico del circondario di Acri nella Calabria Cosentina (tomo IX, gen.-mar. 1821, pp. 132-159). Cfr. inoltre S. Di Lauro, Merzoria sul numero primo del programma della Società Economica di Calabria Citra per l’anno 1822, in «Atti della Società Economica di Calabria Citra», vol. II, 1822, pp. 35-66, che contiene una statistica sul territorio di Amantea. !5 A parziale ridimensionamento di quest’affermazione occorre però ricordare l’esistenza in questo periodo di economisti del livello del già ricordato Ca-
gnazzi o di Francesco Fuoco. Sul pensiero economico meridionale della prima metà del XIX secolo si rinvia, oltre che al classico T. Fornari, Delle teorie economiche delle provincie napolitane, Hoepli, Milano 1888, ai più recenti lavori di B. Salvemini, Econorzia politica e arretratezza meridionale nell’età del Risorgimento, cit., e F. Di Battista, L'emergenza ottocentesca dell'economia politica a Napoli,
Facoltà di Economia e Commercio, Bari 1983. Per un approfondimento sull’o-
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comprensione delle difficoltà in cui si dibatteva il Regno. Tutto ciò non deve evidentemente indurre a considerare i singoli brani come portatori di una presunta visione oggettiva della realtà meridionale. In molti di essi è particolarmente marcata l’appartenenza sociale dell’autore, e quindi una valutazione dello stato delle cose inevitabilmente condizionata da interessi settoriali. Ma questo non necessariamente rappresenta un limite, anzi con-
sente una duplice chiave di lettura: da un lato abbiamo una descrizione del Regno, una sua «fotografia», dall’altro la possibilità di osservare l’operatore che ha scattato quella fotografia, i filtri e gli obiettivi da lui utilizzati, di ricostruire cioè cause e motivazioni che si nascondono dietro quella descrizione o quella riforma proposta. 2. La conferma delle riforme del Decennio, unita alla fine del blocco continentale e ad una prospettiva di pace duratura, indusse in un primo momento più di un osservatore ad ipotizzare scenari di sviluppo. «Un’amministrazione savia e liberale — affermava il presidente della Società economica molisana — ha già rimossi quasi tutti gli ostacoli che si frapponevano ai progressi dell’arte primogenia. [...] Non più la promiscuità delle terre demaniali impedirà il miglioramento di esse; la divisione, e la censuazione, che sono state a quella sostituite, hanno già aumentato all’infinito il numero dei proprietari. [...] Un avvenire più felice già si apre sotto i nostri occhi, la sorte dell’agricoltore non sarà sì infelice come è stata per lo innanzi»!‘. Ma la realtà doveva ben presto smentire quelle speranze. A partire dal 1818 infatti si manifestarono in maniera dirompente gli effetti di quella che gli stessi contemporanei definirono «rivoluzione commerciale»!?. Nei paesi europei più avanzati, e prinpera di Fuoco cfr. B. Salvemini, V.M. Anzani, F. Di Battista, P. Barucci, Su/ classicismo economico in Italia: il «caso» Francesco Fuoco, Istituto di Scienze eco-
nomiche, Firenze 1979. 16 P. Petitto, Sullo Stato Agronomico della Provincia di Molise. Discorso pro-
nunciato nell’Adunanza Generale del 30 maggio 1818, in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo I, gen.-mar. 1819, pp. 194-195 e 204. Ci sembra interessante osservare che nella stessa rivista comparve appena qualche mese dopo un altro articolo dello stesso autore (Su/ mziglioramento dell'Agricoltura e della Pastorizia nella Provincia di Molise, tomo III, lug.-sett. 1819, pp. 193-207) dove, a fronte
della crisi intervenuta, erano scomparsi quasi totalmente i toni ottimistici. 17 Cfr. F. Sirugo, La «rivoluzione commerciale». Per una ricerca su Inghilterra e
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cipalmente in Inghilterra, la trasformazione in senso capitalistico delle strutture economiche rendeva possibile disporre di una produzione manifatturiera ed industriale di assoluta concorrenzialità sia sotto il profilo qualitativo che sotto quello dei prezzi. D’altro canto il tradizionale ruolo del Mezzogiorno di esportatore di prodotti agricoli — cereali e olio in primo luogo — veniva fortemente messo in discussione da nuove presenze sulla scena economica internazionale. Paesi come la Russia, ma anche gli Stati Uniti e alcune aree del Nord Africa, favoriti da incrementi demografici, messa a coltura di terre vergini, bassa pressione fiscale e altre particolari condizioni, furono in grado di produrre quantità rilevanti di grano ed altre derrate agricole a costi decisamente minori. Si determinò in tal modo un eccesso di offerta internazionale, spesso reso ancora più marcato — è il caso dell’olio di oliva — dalla contemporanea contrazione della domanda causata a sua volta dalla diffusione di prodotti succedanei (gas per illuminazione delle città, altre piante olearie per usi alimentari e industriali, etc.). Questi fenomeni causarono un lungo periodo di bassi prezzi accompagnato da una caduta nel livello delle esportazioni con evidenti riflessi negativi sull’attività economica del Regno. Tutti i fattori che connotavano l'economia meridionale del periodo napoleonico — assenza di concorrenza, prezzi elevati, domanda estera rivolta a nuovi prodotti come il cotone — assumevano ora un segno del tutto opposto. Insieme ai prezzi crollavano nel Regno, in un’allarmante concatenazione, anche profitti agricoli e valore delle terre. Nei documenti ufficiali, nella pubblicistica coeva, le lamentele per quella che viene definita «l’invasione dei grani del Mar Nero» divengono un motivo ricorrente a testimonianza di una crisi «palpabile», avvertita ovunque, e che finiva col porsi come freno al processo di consolidamento delle novità del Decennio. Gli effetti negativi, infatti, gravarono in primo luogo su quei piccoli proprietari terrieri che, da potenziale volano dello sviluppo, correvano addirittura il rischio di divenire ceto in dissoluzione. La situazione è lucidamente descritta da un funzionario borbonico in un rapporto in cui, analizzando gli effetti della crisi sulle diverse componenti sociali, si individua proprio nei «piccioli proprietari» la classe «in magmercato europeo nell'età del Risorgimento italiano, in «Studi Storici», 1961, pp. 267-297.
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gior disquilibrio». «L’avvenire sarà per loro sempre più tristo: inabilitati negli anni successivi a continuarne la coltura, le terre resteranno abbandonate, e la miseria si aumenterà»!8.
Il ciclo lungo di bassi prezzi inauguratosi nel 1818 non era l’effetto di una situazione congiunturale legata, come spesso avveniva in passato, alla presenza di annate particolarmente favorevoli da un punto di vista produttivo, ma il segnale evidente di profonde trasformazioni in atto nel sistema economico mondiale che obbligavano ad una ridefinizione del ruolo di ogni paese all'interno della comunità internazionale, non essendo più garantito il mantenimento di quelle tradizionali nicchie di mercato su cui il Mezzogiorno aveva fondato la propria economia e le proprie relazioni di scambio. Crisi, come si vede, con tratti decisamente diversi rispetto a quelli dei secoli precedenti; crisi che investe direttamente il problema della qualità della struttura produttiva e della sua capacità di riconversione. Ma poco prima che questo quadro si delineasse con tutte le sue implicazioni, il Regno si trovò ad affrontare un altro ostacolo. A partire dalla primavera del 1815 infatti iniziarono a giungere da molte province relazioni allarmanti sull'andamento del raccolto. Il fenomeno, generato principalmente da vicende meteorologiche negative, giunse a piena maturazione l’anno seguente per poi esaurirsi negli ultimi mesi del 1817!9. La drastica riduzione dei livelli di produttività agricola innescò quella classica dinamica che tante volte, nei secoli precedenti, aveva drammaticamente segnato l’economia del Regno. I prezzi subirono una decisa impennata verso l’alto raggiungendo livelli mai più toccati in seguito. La fame divenne un problema generale ed ebbe come classica appendice la diffusione di epidemie?° ed un aumento dei tassi di mortalità. 18 Infra, parte I, cap. I, pp. 37-39. Efficaci descrizioni della crisi sono inoltre presenti tra l’altro nelle AE di Giampaolo (infra, parte I, cap. III, pp. 133136), di Afan de Rivera (infra, parte III, cap. I, pp. 258-259) e di Biase Zurlo (infra, parte I, cap. II, pp. 71-73). 19 Sulla carestia del 1815-17 cfr. M. Palomba, La crisi agraria del 1815-17, in A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società, istituzioni, Dedalo, Bari 1988, pp. 149-165; G. Da Molin, Una crisi di mortalità nell'età della Restaurazione: la carestia e l’epidemia del 1816-17 in Puglia, in Atti del 3° Convegno
di studi sul Risorgimento in Puglia, cit., pp. 297-346. 20 Ancora nel maggio del 1817 C. De Nicola scriveva: «le febri epidemiche dette petecchiare continuano ad affliggere la capitale ed il Regno, e come le pulmoniache, che anche spesseggiano, sono causate dalla irregolarità della stagione che sembra tutto inverno; così le petecchiare sono causate dalla miseria e cattiva
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In realtà anche dopo il 1818, pur all’interno di un #rend discendente del livello dei prezzi, vi furono anni in cui, per motivi climatici o per altri fattori, i prezzi mostrarono una tendenza all'aumento, come ad esempio avvenne nel 1820-2121. Ma ciò che differenziò queste congiunture da quella qui descritta fu l’assenza di un così forte legame tra andamento dei prezzi e livelli demografici. Con le nuove opportunità offerte dall’allargamento dei mercati e dalla nuova organizzazione commerciale, le carestie divenivano fenomeni sostanzialmente anacronistici, ed uscivano
quasi del tutto dalla scena economica. La crisi del 1815-17 all'opposto, proprio per i caratteri appena descritti, può a pieno titolo essere definita una tipica crisi di ancien régime, ed il fatto che essa si verificasse quasi in contemporanea alle novità indotte dalla rivoluzione commerciale appare estremamente significativo di ciò che al fondo sembra essere uno dei tratti salienti dell’Ottocento borbonico ed in particolare del periodo preso qui in esame: una coesistenza tutt'altro che pacifica tra vecchio e nuovo, un conflitto che non era solo quello tra vecchi e nuovi ceti tradizionalmente messo in luce dalla storiografia, ma era anche, e soprattutto, la presenza di spinte contrapposte in ogni settore economico. Esistono però ulteriori motivi per cui questa crisi assume un significato particolare. Innanzitutto essa svela la presenza di una realtà economica non uniforme da un punto di vista geografico.
I suoi effetti «risultarono diversi a seconda della struttura produttiva e del grado di inserimento nel circuito commerciale delle province considerate»?2; particolarmente critica fu la situazione in Abruzzo, dove «l'isolamento e la grande miseria degli abitanti creavano gravi difficoltà nell’approvvigionamento dei paesi, soprattutto nelle zone più interne e montuose»?3. Una valida testiqualità del frumento di cui fa uso la povera gente che si muore di fame». Op. cit., Pielilo:
21 Non esiste unanimità di vedute circa le cause della crisi di alti prezzi manifestatasi durante il periodo rivoluzionario. Cfr. C. Rocco, La crisi dei prezzi nel Regno di Napoli nel 1820-21, in A. Massafra (a cura di), ap. cit., pp. 169-179 e, nello stesso volume, M. R. Storchi, Grani, Pei e mercati nel Regno di Napoli
(1806-1852), in particolare pp. 136-137. Sul problema si veda infine A. Lepre, Storia del Mezzogiorno d’Italia, vol. II, Liguori, Napoli 1986, pp. 246-248. 22 M. Palomba, op. cit., p. 150.
25 Ivi, p. 155.
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monianza in proposito è offerta dal segretario della Società economica chietina?4. In secondo luogo la fame e il timore di rivolte spinsero il governo a porre in essere una serie di provvedimenti. Sul piano interno fu creata un’apposita commissione annonaria e si impartirono direttive volte a far fronte alla situazione?5; sul piano in-
ternazionale fu emessa una serie di decreti che bloccavano le esportazioni e incentivavano, tramite esenzioni daziarie e premi, l’arrivo di cereali dall’estero26. Queste misure temporanee, se riuscirono nell'immediato ad assicurare una certa quantità di approvvigionamenti, risultarono nel medio periodo estremamente dannose in quanto alimentarono quelle forme di commercio spe-
culativo che costituivano uno dei mali dell'economia del Mezzogiorno, ed inoltre inaugurarono dei canali di sbocco a quei grani russi che di lì a poco avrebbero invaso i mercati. Così le stesse autorità locali che precedentemente avevano invocato i provvedimenti, tornarono decisamente sui loro passi?7. Il problema della crisi del 1815-17, in breve, fu che essa, con
le caratteristiche che la contrassegnarono, lanciò segnali totalmente distorti rispetto ai fenomeni in atto nel sistema economico 24 Cfr. infra, parte I, cap. II, par. 8. 25 «Conviene in primo luogo aver presente che in materia di annona bisogna
agire con tutta la prudenza per non allarmare i popoli e fare che i proprietari nascondano il loro grano, e rendano maggiore la carestia», scriveva il Ministro Tommasi in una circolare inviata a tutti gli intendenti il 24 luglio 1816 (ASN, Ministero Interni, I inventario, fascio 2085), e proseguiva: «Nei paesi, ove da sicuri riscontri sarete informato esserci bisogno di annona voi darete le disposizioni per misura speciale, e non per regolamento generale, che sia fatta nel seguente modo. Pria di tutto vedrete se ne piccioli comuni poco o nulla graniferi possa stabilirsi un appalto di panizzazione colle dovute regolarità e cauzioni [...]. Non potendo ciò aver luogo farete formare una riserva di grano, che non ecceda il consumo presunto di un solo mese e non più [...]. Qualora non vogliano divenire a ciò spontaneamente, disporrete che si formi colla massima equità e senza violenze ed odiose coazioni, un ratizzo tra tutti i possidenti di ogni genere». 26 Queste misure furono invocate a gran voce dalle province: «al quadro deplorevole della situazione attuale e futuro stato della provincia — scriveva l’intendente di Abruzzo Citra al Tommasi il 17 agosto 1816 (ASN, Ministero Interni, I inventario, fascio 2050) — ardisco ripetere alla sua saviezza di non esservi altro
riparo che far venire dall’estero una quantità sufficiente di grano e granone». Un elenco completo dei vari decreti che si succedettero fino al 1817 è in F. Assante, Mercato e congiuntura in Puglia dal 1815 al 1830, in Atti del 3° Convegno di Studi sul Risorgimento in Puglia, cit., pp. 203-204. Si vedano in proposito anche le affermazioni di L. Bianchini, Storia delle finanze del Regno delle due Sicilie, a cura di L. De Rosa, ESI, Napoli 1971, p. 624. 27 Estremamente significativo è, a questo proposito, quanto scrive il presi-
dente della Società economica salernitana. Cfr. nu parte I, cap. II, pp. 52-53.
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mondiale, impedendo e ritardando la loro comprensione e fornendo invece forti spinte per comportamenti economici la cui irrazionalità diverrà perfettamente leggibile solo nei mesi seguenti. 3. Ma quali furono, nell’ambito della ciclicità ora descritta, le difficoltà sperimentate dal settore agricolo? La maggior parte di esse affondava le proprie radici nei secoli precedenti. Si trattava di problemi che non nacquero né tanto meno si esaurirono in questo periodo, ma che in quegli anni, proprio a causa delle novità insorte, divennero tanto pressanti da richiedere — e l’ampio ventaglio di riforme proposte dal dibattito coevo lo conferma — urgenti misure di intervento. Le insufficienze della struttura agricola meridionale, già ampiamente denunciate nel secolo precedente, divenivano ora, se poste a confronto con l'affermarsi della
«nuova agricoltura» nelle aree dell'Europa nord-occidentale, un dato ancor più marcato e quantificabile, e questo confronto non era un mero esercizio teorico della pubblicistica ottocentesca, ma era determinato direttamente da un mercato internazionale che si poneva sempre più come arbitro e giudice assoluto delle capacità economiche di ogni singolo paese. Il Regno delle due Sicilie era troppo inserito in esso per sfuggire al suo giudizio e, al contempo, troppo frenato da vincoli economici e geografici perché da questa competizione potesse uscire a testa alta.
Per poter comprendere la natura di questi vincoli è necessario innanzitutto definire i caratteri di fondo del rapporto uomo-territorio. In tutti o quasi tutti i brani inseriti nella prima parte di quest'antologia compare una denunzia costante, ripetuta ossessivamente: disboscamento e messa a coltura di nuove terre. Il fenomeno non era nuovo e aveva interessato, sin dalla seconda metà del Settecento, vaste aree europee. All’origine vi fu, com’è noto,
una crescita delle pressioni sulle risorse, conseguente alle dinamiche di incremento demografico. Ma, mentre altrove ciò risultò funzionale al verificarsi di un processo di accumulazione grazie al quale fu possibile in seguito trasformare il tessuto produttivo, nell’Italia meridionale la dinamica degli eventi mostrò caratteristiche notevolmente divergenti?8. La distruzione dei boschi av28 Cfr. P. Bevilacqua, Catastrofi, continuità, rotture nella storia del Mezzogior-
no, in «Laboratorio Politico», n. 5-6, 1981, in particolare pp. 194 sgg.
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veniva nel Mezzogiorno principalmente su territori collinari e montuosi. Le cause remote vanno cercate in quell’antico processo di spopolamento delle pianure costiere generato dal timore di invasioni dal mare. I luoghi interni dell'Appennino rappresentarono quindi per più secoli una classica zona di insediamento al riparo dai rischi e, sotto questo profilo, neanche la maggiore sicurezza garantita dall’accordo con i barbareschi firmato nel 1816 poteva ormai invertire la tendenza??. Queste caratteristiche insediative, unite alla morfologia del territorio meridionale, avevano già da tempo prodotto vasti squilibri idrogeologici. Questi subirono poi una decisa accelerazione prima con la carestia del 1763-64 e poi nel secolo successivo. «Le devastazioni — ricordava Afan de Rivera — sono state di gran lunga maggiori in occasione di avvenimenti politici, come nel 1815, nel 1820 e nel 1821»?9. Non erano evidentemente gli avvenimenti politici in quanto tali a determinare la distruzione dei boschi; essi semplicemente rafforzavano un fenomeno imputabile prevalentemente a cause di natura economica. La presenza di una cerealicoltura povera su alture e terreni boschivi — cerealicoltura tra l’altro scarsamente produttiva, che normalmente comportava l’abbandono dei territori stessi dopo pochi anni — fu, sin dal Decennio francese, la risposta agli alti livelli di prezzo e all’aumentata domanda di grano. Le conseguenze sono note: «dilavamento» e «slamature», così come venivano definite negli scritti dell’epoca, e quindi alterazione dei già precari regimi idrogeologici, impaludamento delle pianure sottostanti e presenza di ulteriori limiti al loro utilizzo. Un «uso del territorio», come l’abbiamo definito nel primo capitolo di quest’antologia, con altissimi costi economico-sociali; e ce ne fornisce una triste conferma lo scritto di 29 I trattati con Algeri, Tunisi e Tripoli prevedevano, dietro l’ingente pagamento di oltre un milione di ducati, la fine delle incursioni delle navi di questi paesi nelle acque del Regno. Solo eccezionalmente ciò ebbe conseguenze sulla distribuzione territoriale della popolazione. Uno di questi casi è Amantea, nella Calabria tirrenica: «E cosa sorprendente poi il vedere come da pochi anni a questa parte — scrive un socio della locale Società economica nel 1822 — un sì gran numero di casette rurali siasi moltiplicato sulla nostra campagna, che al ATA si può benissimo rassembrare ad una estesa borgata. Le molestie cessate dei predatori barbareschi, che furono già l’ostinato flagello delle nostre marine, può dirsi esserne stata la causa». S. Di Lauro, op. cit., pp. 43-44.
30 C. Afan de Rivera, Considerazioni su i mezzi da restituire il valor proprio a’ doni che ha la natura largamente conceduto al Regno delle due Sicilie, vol. II, Stamperia del Fibreno, Napoli 1832, p. 43.
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Brogi nella sua descrizione di uno dei casi più macroscopici di dissesto ambientale: il lago di Fucino?!. Il disboscamento finì insomma con l’interessare l’intera superficie del Regno, sebbene esso assumesse particolare intensità principalmente nelle zone montuose interne. Ce ne fornisce una quantificazione Luigi Dragonetti che, relativamente alla provincia aquilana, espone una dettagliata statistica delle selve e dei luoghi atti al rimboschimento??, e chiude la sua memoria proponendo una serie di misure volte a frenare il fenomeno. Alla luce di questa diffusa consapevolezza circa i danni prodotti dalla distruzione dei boschi, può a prima vista apparire contraddittoria l’esistenza, nella pubblicistica coeva, di forti spinte per l’abolizione di quello che rappresentava il principale organo preposto alla vigilanza boschiva. L’amministrazione generale di Acque e Foreste, creata dai francesi nel 1811 e accolta nel 1819 nella legislazione borbonica, fu sottoposta, soprattutto durante il periodo costituzionale, a dure critiche: «a che giova quell’esito immenso a tant’impiegati ed all’intiera amministrazione delle Acque e Foreste? Quai laghi, quai boschi propri ha la nazio31 Cfr. infra, parte I, cap. I, par. 1. Numerosi furono in questo periodo gli autori che scrissero sul problema del Fucino fornendo progetti per una sua soluzione. Tra questi C. Afan de Rivera, Considerazioni sul progetto di prosciugare il lago Fucino e di congiungere il Mar Tirreno all’Adriatico, Tip. Guerra, Napoli 1818; C. Lippi, Lago Fucino, emissario di Claudio e canale di navigazione per l'unione dell’Adriatico col Mediterraneo, che potrebbe farsi colle acque di quel lago, Napoli 1818; G. Ceva Grimaldi, Quadro dello stato di amministrazione della provincia dell'Aquila, Tip. Ritelliana, Aquila 1816, pp. 29-30. Ma, tranne l’isolato e inefficace tentativo di un privato, tal Domenico Jatosti di Avezzano (cfr. i rapporti del Real Istituto d’Incoraggiamento in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo IV, ott.-dic. 1819, p. 169 e tomo V, gen.-mar. 1820, pp. 261-262), non vi fu alcun intervento di bonifica in questi anni. Un ulteriore e significativo caso di dissesto idrogeologico è descritto da E. Colapietro, Su le rovine della città di Vasto in Abruzzo Citeriore avvenute nel mese di aprile dello scorso anno 1816, in «Atti del Real Istituto d’Incoraggiamento di Napoli», tomo III, in particolare pp. 49-96. La drammaticità della situazione nella provincia è avvalorata da udita altre testimonianze. La locale Società economica in particolare, nella seduta del 5 gennaio 1817, rivolse la sua attenzione «alle rovine che minacciano molte contrade e terre abitate della provincia [...].
Queste rovine derivano principalmente dai pubblici trattoi, che sono privi di alberi, sui quali i coloni dei terreni confinanti fanno piombare abusivamente tutt'i canali Si i torrenti delle acque piovane». ASN, Ministero Interni, I inventario, fascio 2208. 32 Infra, parte I, cap. I, par. 2. Dati sul disboscamento sono forniti anche da Del Re (infra, parte I, cap. II).
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ne?»?3. Ed ancora: «Abolite quelle istituzioni trovate generalmente nocive e senza risultati. Fra questi vi tiene in primo luogo l’amministrazione forestale. Essa ha distrutto i boschi, ed ha spogliato il popolo»34. Era evidente che quest’organo non era stato in grado di reprimere il fenomeno, ma, dietro le richieste di una sua abolizione, si celavano motivazioni diverse. Vi erano innanzitutto le pressioni esercitate dalle fasce più povere della popolazione che, con la quotizzazione dei demani, si erano trovate spogliate della possibilità di esercitare quegli usi civici, tra cui appunto quello di legnare, che rappresentavano una fonte di sussistenza o di integrazione del reddito??. La quasi totalità delle critiche provenivano però dal ceto proprietario delle province, e vanno inquadrate in quella «reazione antiburocratica» che, come vedremo più avanti, si concretizzò in spinte per lo smantellamento del sistema amministrativo centralizzato ereditato dal Decennio, sistema che veniva accusato di soffocare e rendere angusti gli spazi entro i quali i proprietari potevano difendersi dalla crisi che li attanagliava?9. Non è possibile in questa sede fornire un resoconto dettagliato del dibattito sull’abolizione della Direzione di Acque e Foreste, e basti qui ricordare che tra le varie posizioni, di notevole interesse ci sembra quella espressa da Raffaele Netti secondo il quale la gestione del patrimonio boschivo, lungi dall’essere regolata dall’amministrazione forestale, avrebbe dovuto essere affidata interamente ai privati. Egli riteneva che il libero esercizio della proprietà avrebbe consentito un aumento della redditività 33 Infra, parte III, cap. III, p. 345. 34 T. Pascucci, Ai deputati al Parlamento Napoletano, Stamperia D. Grandoni,
Chieti 1820, p. 3.
35 «Lo sforestamemto che praticavasi pria della Divisione dei Demani nel 25 dicembre di ciascun anno — scrivevano le autorità di Novi in una memoria inviata al Parlamento nazionale — è l'oggetto commendabile che ardentemente bramano le popolazioni nelle miserie cadute. Perché loro non accordarglielo?». Riportato in A. Lepre, La rivoluzione napoletana del 1820-21, cit., p. 110. 36 In questo senso ad esempio Lippi propone di affidare la cura dei boschi ai consigli provinciali e di abolire la Direzione di Acque e Foreste «la quale nel mentre niente produce d’utile alla nazione, è all'opposto di vessazione ai proprietari dei fondi». C. Lippi, Prime idee concernenti il miglioramento delle nostre istituzioni, Tip. Sangiacomo, Napoli 1820, pp. 62-63. Analoga proposta compare in E. S., Osservazioni sulla riforma delle finanze e sui mezzi dipromuovere la pubblica istruzione, l’agricoltura, le arti ed il commercio, Tip. Francese, Napoli 1820, p. 80.
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dei territori boschivi ed in tal modo un diretto interesse dei proprietari a non proseguire nell’opera di devastazione. Una sorta di smithiana «mano invisibile» avrebbe garantito, una volta liberate le forze economiche dalla presenza regolatrice dello Stato, una coincidenza tra interesse privato e interesse collettivo??. Direttamente collegato al problema del disboscamento era quello della possibilità di sfruttamento delle risorse idriche. Quanto più il dissodamento segnava i fianchi di colline e montagne, tanto più, considerando anche l’assenza in questo periodo di interventi di bonifica38, aumentava l’impaludamento, e tanto più ciò incideva negativamente sul paesaggio agrario creando le premesse per l’autoperpetuazione del fenomeno. «Una rispettabile quantità di terreno — ricorda il segretario della Società economica di Capitanata — è nella Puglia rubata all’agricoltura dalle acque stagnanti, dalle inondazioni dei torrenti, e dalle varie sorgive, che da qualche tempo sono comparse in alcune contrade della stessa»3?. Il fenomeno non era certo limitato alle province pugliesi: «Grande estensione di terre si trova [...] coverta di pan37 Cfr. R. Netti, Discorso intorno all’Amministrazione delle Foreste recentemen-
te stabilita in questo nostro Regno di Napoli, Tip. del Giornale Enciclopedico di Napoli, 1820 [ma scritto nel 1814]. Le idee di Netti vennero fortemente criticate in un opuscolo anonimo intitolato Osservazioni sull’opuscolo intitolato del Sig. Netti intorno all’amministrazione delle Foreste recentemente stabilite in questo Regno di Napoli. Scritte per servire di seguito alla memoria diretta al Parlamento Nazionale, per dimostrare che la Direzione di Acque e Foreste non si deve abolire, in ASN, Archivio Borbone, fascio 2086/1. Molto critico nei confronti della legge del 1819 fu anche G. B. Gagliardo in una recensione comparsa su i suoi «Annali di Agricoltura Italiana» (tomo VIII, ott.-dic. 1820, pp. 184-189) al lavoro di T. Monticelli (Sull’economia delle acque da ristabilirsi nel Regno di Napolì). In difesa della legge e contro l'abolizione di «Acque e Foreste» si schierarono invece: D. Toro, Sull’Amministrazione delle Foreste, in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo IX, gen.-mar. 1821, pp. 99-131; M. Tondi, La scienza silvana ad uso de’ forestali, A. Trani, Napoli 1821; e P. Tortora (cfr. infra, parte I, cap. I, par. 3). Un resoconto del dibattito parlamentare tenutosi il 28 gennaio 1820 sull’approvazione del decreto di abolizione della Direzione di Acque e Foreste è riportato in A. Lepre, La rivoluzione napoletana del 1820-21, cit., pp. 297-299. 38 Le operazioni di bonifica iniziate nel Decennio vennero interrotte e, almeno fino al 1824, anno di nomina di Afan de Rivera a Direttore Generale di Ponti, Strade, Acque e Foreste, non vi fu, ad eccezione di qualche sporadico e non incisivo intervento, alcun tentativo di risolvere il problema. Cfr. R. Ciasca, Storia delle bonifiche del Regno di Napoli, Laterza, Bari 1928, pp. 104-117. Per ulteriori informazioni in tema si rinvia a P. Bevilacqua, Acque e bonifiche nel Mezzogiorno nella prima metà dell'Ottocento, in A. Massafra (a cura di), op. cit., pp. 337-359. 3° L. Trabucco, Rapporto letto nell’Adunanza generale del 30 maggio 1819, in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo V, gen.-mar. 1820, p. 227.
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tani, e di fangosi roveti, come nelle pianure di Vico, di Capua, di Salerno, di Eboli, nella Valle di Crati, nelle sterpine così dette di Genosa, e in vari altri luoghi del Regno: terre tutte fertilissime ma tolte all’agricoltura»49. L’alterazione dei regimi idraulici, oltre a sottrarre vaste zone all’attività agricola, poneva anche serie ipoteche sulle opportunità di un utilizzo razionale dei rimanenti territori a coltura. Ne è una diretta testimonianza la limitata presenza di aree ad agricoltura irrigua4! più volte evidenziata dagli scrittori e dalle autorità provinciali4?, limitata presenza che è da mettere in diretta connessione col perdurare di problemi quali basse rese, scarsa diversificazione colturale, pratiche di rotazione agricola inefficienti, etc. L'insieme degli elementi descritti consente inoltre di fornire una prima risposta al perché la crisi economica, a differenza di quanto avveniva altrove, non riuscì a tradursi nel Mezzogiorno in spinte verso un’agricoltura intensiva. 40 E, S., Osservazioni sulla riforma della finanza, cit., pp. 54-55. 41 Sistemi di irrigazione erano ad esempio segnalati nella Calabria cosentina e più precisamente nel circondario di Acri dove «Colle acque dei fiumi si animano i molini, e con queste istesse e quelle dei ruscelli, che a dovizia si trovano sparsi in tutti i punti del territorio, s’irrigano i terreni destinati ad ortaggi». C. Cofone, op. cit., p. 134. Per l’identificazione delle aree ad agricoltura irrigua e, più in generale sul problema delle acque nel Mezzogiorno, cfr. A. Sinisi, Mutamenti colturali ed irrigazioni nel Principato Citra, in A. Massafra (a cura di), op. cit., pp. 103-120; P. Bevilacqua, Le rivoluzioni dell’acqua. Irrigazione e trasformazioni dell'agricoltura tra Sette e Novecento, in Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea, vol. I, Marsilio, Venezia 1989, pp. 255-318; A. Di Vittorio, Le acque continentali e le attività umane nel Mezzogiorno d’Italia nei secoli XVIII e XIX, in Atti del XXII Congresso Geografico Italiano, vol. II, Salerno 1975, pp. 41-70; G. Bruno, R. Lembo, Imigazione e bonifica in destra del Sele fra XIX e XX secolo, Salerno 1982. 42 «Perché tollerare che giaccino neghittosamente neglette le più fertili nostre pianure, innondate da fiumi e da torrenti? Perché non rendere navigabili i primi e canali d’irrigazione i secondi?». G. Andreatini, Pochi pensieri sulle amministrazioni finanziere e comunali, Nobile, Napoli 1821, p. 6. Nello stesso senso la Società economica chietina, invitata dall’intendente a fornire «progetti per l’avanzamento della pubblica industria», affermava, nella seduta del4 ottobre 1818: «Nella provincia si incontrano frequentemente delle vaste pianure [...] che potrebbero sottoporsi ad una perenne irrigazione, come sono le pianure che giacciono lungo il corso del fiume Pescara, del Foro, dell’Aventino, del Sangro, del Sinello, del Trigno oltre che di tanti fiumi minori. La formazione di canali che portino le acque su detti terreni [...] è da promuoversi assolutamente dal governo». ASN, Ministero Interni, I inventario, fascio 2208. Analogamente l’intendente dell'Aquila proponeva la costruzione di un nuovo canale «per la irrigazione dei campi di Bugnara, Introdacqua e Sulmona». G. Ceva Grimaldi, op. cit., pp. 2728. Gli esempi potrebbero continuare e testimoniano una diffusa consapevolezza circa l’importanza dell’acqua per lo sviluppo agricolo.
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La inadeguata disponibilità della risorsa acqua si poneva ad esempio come uno dei principali ostacoli alla diffusione di quelle colture foraggere che, come indicava la quasi totalità del dibattito, avrebbe consentito il superamento del conflitto fra agricoltori e allevatori nella ricerca di terre. Con la quotizzazione dei terreni demaniali e la messa a coltura delle terre marginali, le aree destinate al pascolo si erano progressivamente ridotte e la pastorizia transumante era quasi ovunque entrata in crisi senza che ad essa, però, subentrassero forme più avanzate di allevamento zootecnico. La crisi era inoltre acuita, per una larga por-
zione del Regno, dalle conseguenze della legge francese del 1806
sulla censuazione del Tavoliere43. Il successivo intervento legislativo del 1817, che ripristinava parzialmente alcune di quelle condizioni che avevano reso le vaste estensioni pianeggianti della Capitanata il fulcro principale attorno al quale ruotava il sistema della pastorizia transumante, fu oggetto di un aspro dibattito che vide su sponde opposte economisti della levatura di Cagnazzi e Sismondi44. In questo contesto l’unanime attenzione rivolta dagli scrittori ottocenteschi ai prati artificiali, e l'insistenza affinché essi 4 «Gli effetti di queste alterazioni nel sistema del Tavoliere — scriveva Ceva Grimaldi nel 1816 riferendosi alla legge del 21 maggio 1806 — sono state doppiamente fatali agli abruzzesi, la di cui principale industria è la pastorizia: fatali per la dissodazione progressiva del Tavoliere, la quale restringendo i pascoli ne cresce a dismisura Î prezzo, fatali perché a misura che la pastorizia deperisce s’inutilizzano le inculte montagne di Aquila, il di cui unico prodotto è l’erba estiva». op. cit., p. 38.
44 Cfr. infra, parte I, cap. II, par. 11. La posizione di Cagnazzi è ribadita anche in La mia vita, a cura di A. Cutolo, Hoepli, Milano 1944, pp. 135-139. Giudizi contrapposti circa la validità della legge del 1817 furono Te espressi da Giampaolo, De’ disordini si fisici che economici i quali han luogo nel sistema agrario del Regno di Napoli e de’ metodi riparatori di essi, G. De Bonis, Napoli 1822, pp. 11-13, e da L. Granata, Economzia rustica per lo Regno di Napoli, vol. II, Pasca, Napoli 1830, pp. 120-140. Ulteriore valutazione negativa è di P. Tortora: «La legge del 13 febbraio 1817, le interpretazioni date dagli esecutori, l’estensione emanata dal ministero apportarono la desolazione a quei miseri, e la morte all’agricoltura, ed all’industria in un suolo che nel breve giro di due lustri avea cangiato aspetto». Riflessioni su le finanze del Regno di Napoli, Napoli s.d. [ma 1820], p. 13. Per una ricostruzione del dibattito si veda B. Salvemini, Economia politica e arretratezza meridionale nell’età del Risorgimento, cit., pp. 97-101. Tra la vasta produzione storiografica in tema di Tavoliere cfr. A. Checco, L. D’Antone, F. Mercurio, V. Pizzini, Il Tavoliere di Puglia. Bonifica e trasformazione tra XIX e XX secolo, a cura di P. Bevilacqua, Laterza, Roma-Bari 1988; L. Martucci, La riforma del Tavoliere e l’eversione della feudalità in Capitanata, in «Quaderni storici», a. VII, fasc. I, 1972, pp. 253-283; R. Colapietra, La dogana di Foggia. Storia di un problema economico, Ed. Centro Librario, Bari 1972.
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entrassero stabilmente nei processi di avvicendamento agricolo4, era parte di un progetto più ampio rivolto a favorire il passaggio dalle tradizionali forme di allevamento ad un sistema integrato agricoltura-pastorizia dove la presenza stabulare di animali nell’azienda agricola avrebbe garantito sia una «fonte energetica» da utilizzare nelle varie fasi del processo colturale, sia concime con cui superare le deficienze nella fertilizzazione dei terreni46, sia infine un reddito aggiuntivo tramite la produzione di lana, carne, pelli, latte, etc. Un deciso mutamento di rotta veniva inoltre invocato dalla pubblicistica ottocentesca in tema di scelte colturali: «Copresi la più gran parte della superficie del Regno di civaie e cereali», affermava un autore anonimo; il quale, nel rilevare la riduzione dei prezzi agricoli, così proseguiva: «lo sventurato agricoltore è costretto sagrificare i suoi prodotti a metà del primitivo suo costo, se permanenti [e] non fuggitive sono le cagioni di queste sventure, a che voler durare in gittar opere e denaro dietro a prodotti che più non rispondono alle speranze, onde si avveri il faticare ad impoverire? Fia dunque gioco forse restringere cotal produzione».
Questo tipo di valutazioni non rappresentano affatto un’eccezione. La concorrenza dei grani esteri rendeva ormai evidenti le conseguenze negative derivanti dalla prevalenza di una cerealicoltura estensiva fortemente penalizzata dal mercato48. «Adattiamo la nostra agricoltura alle circostanze del commercio, a quel45 La quasi totalità degli autori inseriti nella prima parte di questo volume sottolineano questa necessità. Sono soprattutto le Società economiche che svolgono un’incessante opera di promozione. Cfr, ad esempio, A. M. Romano, Sulla necessità di stabilire dei prati artificiali a secco nella Provincia di Terra d'Otranto, in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo III, apr.-giu. 1819, pp. 104-117; S. Gatti, Del miglioramento de’ principali prodotti della Pastorizia in Puglia, ivi, tomo VIII, ott.-dic. 1820, pp. 129-144. Su questo problema cfr. P. Bevilacqua, Climza, mercato e paesaggio agrario nel Mezzogiorno, in Storia dell’Agricoltura Italiana in età contemporanea, cit., pp. 643-676. 46 Poco uso di concime organico, scarsa diffusione della pratica del sovescio, uesti ed altri erano gli errori denunciati dalla pubblicistica. Un’efficace sintesi diquesti problemi fu fatta in questo periodo da P. Giampaolo, Lezioni di Agricoltura, parte I, De Bonis, Napoli 1819, pp. 284-326, e da N. Columella Onorati, Gli opuscoli georgici, vol. II, Napoli 1820, pp. 330-360. 47 Cenni sulla necessità di conversione della industria regnicola, manoscritto in ASN, Archivio Borbone, fascio 732/III, fasc.lo 13. 48 Si veda quanto afferma per la provincia di Molise l’intendente Biase Zurlo, infra, parte I, cap. II, par. 7.
XEXVI]
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la dei nostri bisogni fisici ed economici»49. In linea con queste affermazioni, i nuovi indirizzi colturali suggeriti si incentravano principalmente su quelle produzioni come piante tessili, piante coloranti, ed in genere tutte quelle colture che avrebbero garantito una maggiore competitività grazie al loro impego nel settore manifatturiero e industriale. Anche chi, come l’anonimo estensore della Merzoria per i grani di Foggia?°, continuava a puntare
sui cereali, proponeva poi, come elemento di difesa dalla concorrenza internazionale, l'adozione di una «legge graduale d’immissione ed estrazione» che ricalcava per grandi linee le corn laws inglesi. Affinché queste trasformazioni potessero realizzarsi era però necessario intervenire su tutti quei comportamenti che frenavano il settore agricolo. Il dibattito così denunciava gli errori nelle tecniche agronomiche, il mancato rispetto dei calendari georgici, l’uso di una inefficiente strumentazione agricola?!, i limiti derivanti dalla diffusione di tipologie locative basate sull’affitto dei terreni a breve scadenza, spesso con canoni in natura.
La piccola proprietà contadina, benché accresciuta rispetto al secolo precedente, appariva agli occhi dei contemporanei ancora insufficiente. La necessità di una sua più larga diffusione continuava ad essere uno dei cardini su cui si basava la maggioranza dei progetti di rinascita agricola. Nelle relazioni delle autorità provinciali la sua presenza o la sua assenza diveniva il metro con cui valutare il grado di potenzialità economica. «Un'altra cagione della poca prosperità dell’arte agronomica fra‘noi — affermava il presidente della Società economica aquilana nel 1822 — è la mancanza della proprietà in coloro che coltivano la terra. Non vi è che la proprietà, la quale eccitando nel cuore di chi possiede una giusta e ragionevole affezione pei propri fondi, può destare un’egual premura di ben coltivarli per migliorarne la condizione [...]. In generale i nostri agricoltori poco o niente posseggono di terre. Per vivere sono essi costretti a prendere in fitto gli altrui terreni, 4° P. Giampaolo, De’ disordini, cit., p. 118.
50 Cfr. infra, parte I, cap. III, par. 3. 51 Un’accurata descrizione dei principali attrezzi agricoli in uso in questo periodo è in P. Giampaolo, Lezioni di agricoltura, cit., vol. I, pp. 267-287. Su questo problema cfr. A. Di Biasio, Gli «ordegni rustici» nell’agricoltura napoletana del primo Ottocento, in «Rivista di storia dell’agricoltura», a. XIX, n. 2, 1979, pp. 73-142.
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e pagare dei gravosi estagli ai possessori diretti. Qual cura dunque, che impegno, che zelo potranno essi prestare pegli altrui terreni?»52. Sono evidenti in queste posizioni gli echi della pubblicistica settecentesca, e questo legame appare più marcato in quegli autori che, accanto all’appoggio alla piccola proprietà, pongono l’accento sulla necessità di un incremento demografico visto come ineludibile fattore di sviluppo53. Ma l’analogia non deve essere spinta oltre. Il quadro economico mostrava che la piccola proprietà, lì dove era sorta, era destinata a soccombere se non fossero intervenuti ulteriori elementi in grado di sostenerla. L’attenzione in questa prospettiva si spostava sullo Stato, nella speranza di un suo deciso intervento per la rimozione di tutti | quegli ostacoli che condannavano gli operatori agricoli a perpetuare comportamenti di scarsa efficienza economica. Le frequenti richieste di interventi statali si scontravano però con una sostanziale latitanza del governo. L’esigenza di una riconversione colturale, ad esempio, ampiamente riconosciuta dagli stessi ministri?4, non portò nei fatti ad alcuna misura concreta. Una parziale eccezione fu una circolare emessa dal ministro Tommasi nel 1816 e diretta a favorire la diffusione della patata??. Ma, in questo come in altri casi, oltre ad affidarsi al generico «esempio dei grandi proprietari» e alle «istruzioni» dei parroci, investite del compito di promozione erano soprattutto quelle Società economiche che, non fornite di strumenti e di mezzi finanziari, finivano per essere, principalmente in questo periodo, incapaci di incidere sulla realtà economica. Così se la patata conobbe in quegli anni una certa diffusione, ciò fu dovuto, più che ai loro sforzi, agli effetti della carestia che spingeva per una sua adozione in quanto coltura caratterizzata da facile adattabilità 52 Chiarizia, Discorso sugli ostacoli della nostra agricoltura e su i mezzi di migliorarla, manoscritto in Archivio di Stato dell'Aquila, Intendenza, serie I, busta 1152/9/
.. M. Caracciolo, infra, parte I, cap. III, par. 2. Nello stesso senso cfr. V. Corrado, Ir difesa di Agricoltura e Pastorizia, in Notiziario delle particolari produzioni del Regno di Napoli, Stamperia del Giornale delle due Sicilie, Napoli 1816, II ed., pp. 143-159, dove inoltre compare un’anomala quanto significativa apologia circa presunti livelli di efficienza raggiunti dall’agricoltura meridionale. 54 Si veda ad esempio quanto scrive il Ministro degli Interni all’intendente di Principato Citra nell’agosto 1824, infra, nota b, p. 39. 355 Cfr. infra, parte I, cap. III, par. 4.
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ad ogni tipo di terreno, alti rendimenti ed elevato potere nutrizionale?6.
4. Per comprendere le linee di fondo della politica economica della Restaurazione è necessario ricordare che la riconquista del Regno aveva avuto dei costi molto elevati. Ingenti somme erano dovute all’ Austria per il suo esercito di stanza nel Regno. Ulteriori pagamenti furono erogati a titolo di indennità a vari esponenti politici per l'appoggio da loro fornito durante le trattative del Congresso di Vienna. Se a questo si aggiungono le maggiori spese per far fronte ad avvenimenti eccezionali quali la già ricordata carestia del 1815-17 o la peste di Noja del 181527, e le minori entrate dovute all'abolizione di alcune imposte come quella sulle patenti, si comprende come il quadro della finanza pubblica napoletana risultasse fortemente compromesso. La grave crisi finanziaria finì col condizionare pesantemente tutte le scelte economiche effettuate in questo periodo. «Il governo — accusava la Giunta provvisoria formatasi all'indomani della rivoluzione del 1820 — non si mostrò sollecito se non della sola Finanza»?8. Quella che risultò vincente fu una visione di breve periodo in cui l'esigenza di risanamento finanziario prevaleva su qualsiasi altra considerazione economica. Le politiche attuate finivano direttamente o indirettamente col sottrarre risorse all'economia ridu56 Il ruolo della patata come coltura atta a ricoprire un importante ruolo nella lotta contro le carestie era ampiamente noto sin dal secolo precedente. Ferdinando Galiani, ad esempio, alla luce dei risultati positivi che l'adozione di questa coltura aveva avuto in molti paesi europei, premeva affinché, durante la crisi del 1764, se ne diffondesse l’uso anche cul campagne del Mezzogiorno. Cfr. L. De Rosa, Introduzione, in F. Galiani, Dia/ogues sur le commerce des bleds, Ed. Banco di Napoli, Napoli 1987, p. xv. 5? Il successo ottenuto in quella occasione testimoniava, come ricordava L. Blanch (op. cit., p. 86), la maggiore capacità di intervento dell’amministrazione ereditata dal Decennio. Numerosi furono gli scritti dell’epoca che ricostruirono la vicenda. Tra questi V. Morea, Storia della peste di Noja, A. Trani, Napoli 1817, che contiene tra l’altro un’interessante statistica su quel territorio; A. D’Onofrio, Il dettaglio istorico della peste di Noja in Provincia di Bari, Napoli 1817; C. Della Valle, Ragguaglio istorico della peste sviluppata in Noja nell’anno 1815, Napoli 1816. Cfr, infine, C. Petraccone, La difesa contro lu peste: prevenzione e controllo dell'epidemia nelle pestilenze di Terra di Bari (1690-1692) e Noja (1815-1816), in «Archivio storico delle province napoletane», serie III, a. XVI, 1978, pp. 253280.
38 Manifesto della Giunta provvisoria di Governo al Parlamento Nazionale, Na-
poli 1820, p. 7.
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cendo i già scarsi capitali e rendendo in tal modo ancor più difficile qualsiasi tentativo di modifica della struttura produttiva. Particolarmente grave per l'economia del Regno fu ad esempio la tariffa adottata da Medici nel 1818. Con essa le esportazioni, soprattutto quelle di prodotti agricoli, venivano penalizzate dalla presenza di dazi elevati, mentre di converso le importazioni, a causa dei bassi dazi, erano sostanzialmente liberaliz-
zate. Una politica attuata, oltre che per garantire delle sicure entrate allo Stato, anche per assicurare il consumo interno contro eventuali fenomeni di carestia come quello appena conclusosi??. «Insomma un solo Stato, un solo punto in Europa allargava a suo danno la introduzione delle merci straniere, mentreché ovunque essa si chiudeva o si diminuiva»®0. Questa politica doganale mostrava con evidenza la scarsa sensibilità del governo nei confronti delle esigenze della propria economia. Ciò che occorre sottolineare è che l'innalzamento dei dazi doganali, nella realtà economica mondiale successiva al 1815, rappresentava un qualcosa di diverso dal passato. Per molti governi il protezionismo non era più un mezzo attraverso cui impermeabilizzare e garantire la sopravvivenza ai vecchi sistemi economici preservandoli dalle influenze esterne, ma lo strumento attraverso cui «adeguare strutture produttive e funzioni dell’organizzazione economica alle nuove necessità»6!. L'elevata presenza di barriere doganali nei paesi europei testimoniava in molti casi la volontà dei vari governi di concedere alle rispettive forze produttive degli spazi sufficienti per poter aumentare il proprio grado di concorrenzialità. In questo senso adottare una tariffa come quella del 1818 significava non cogliere la portata dei mutamenti intervenuti e quindi lasciare il debole organismo economico meridionale in balia della concorrenza internazionale. Anche se non mancarono autori che puntarono il dito contro le tendenze esterofile del consumo interno, la maggioranza del 59 La possibilità di ricorrere facilmente alle importazioni garantiva, anche in caso di cattivi raccolti, un’azione calmieratrice sui prezzi dei beni di prima necessità. «Poche furono le monarchie europee di questo periodo a mostrare una più acuta consapevolezza della stretta connessione esistente tra lo stomaco vuoto e la sommossa popolare». J. Davis, Società e imprenditori nel Regno borbonico, 18151860, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 61-62. 60 L. Bianchini, op. cit., p. 528. 61 F, Sirugo, op. cit., p. 267. Nello stesso senso A. Lepre, La rivoluzione na-
poletana del 1820-21, cit., pp. 11-12.
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dibattito sembrò mostrare consapevolezza del fatto che queste, più che un vezzo o una moda, erano una semplice conseguenza della situazione economica e che le responsabilità dell’eccessiva importazione andavano ricercate nella politica doganale adottata. In conseguenza le richieste per l'adozione di una tariffa protezionistica furono sempre più insistenti soprattutto, come si chiarirà più avanti, da chi riteneva che da essa dipendesse la pos-
sibilità di uno sviluppo manifatturiero. Forti pressioni vi furono anche per l’abolizione di un’altra misura doganale presa in questo periodo. Si tratta della cosiddetta clausola della nazione preferita. Nel marzo 1818, in sostituzione degli antichi privilegi di bandiera che prevedevano l’esenzione dalla visita doganale per le navi inglesi, francesi e spagnole, venne siglato un accordo che prevedeva una riduzione del 10% sui dazi di «tutte le mercanzie indigene delle mentovate tre potenze trasportate nei porti dei domini di qua del Faro sopra bastimenti della propria nazione»62. Già in questi termini l’accordo sarebbe stato notevolmente oneroso per il Regno; ma ulteriore aggravio fu causato dal fatto che, onde evitare che la riduzione venisse concessa anche ad altre navi che avessero trasportato prodotti dei tre paesi, fu accettata una interpretazione
restrittiva secondo la quale la diminuzione del dazio veniva applicata solo alle merci provenienti da bastimenti inglesi, francesi e spagnoli, senza neanche l’obbligo di presentare un certificato di origine sulla provenienza dei prodotti, per cui la quasi totalità del commercio marittimo finì con l'essere effettuata con le navi delle tre potenze; «il danno non si apprese in tutte le sue conseguenze [...]. La marina mercantile del Regno cadde perciò nel massimo languore»$3. Benché in questo caso non sembra che la misura fosse stata adottata per motivi di risanamento finanziario, pure essa assume un significato particolare in quanto testi-
monianza di un «potere coercitivo che il governo britannico esercitava su quello napoletano»64. In altri termini, essa consente di 62 Memoria del direttore dei dazi indiretti, manoscritto in ASN, Archivio Borbone, fascio 732/III, fasc.lo 15. Anche in fascio 669. 63 Ibidem. 64 B. Dawes, I mzercanti inglesi a Napoli dal 1815 al 1860, in «Società e storia», n. 50, 1990, p. 876. Su questo problema cfr. W. Maturi, La politica estera napoletana dal 1815 al 1820, cit., in particolare pp. 261-269; E. Pontieri, Sul trattato di commercio anglo-napoletano del 1845, in «Atti dell’ Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Reale di Napoli», Napoli 1942, pp. 14-16; A. Gra-
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rilevare come all’oggettiva condizione di inferiorità economica nei confronti delle principali potenze straniere, si venivano ad aggiungere forti tratti di subordinazione politica, in un intreccio tale che, sebbene il campo delle opportunità fosse stato formalmente ampliato ed irrobustito dalla legislazione del Decennio, esso finiva poi di fatto con l’essere fortemente limitato. Una conferma in tal senso fu la politica fiscale adottata, totalmente piegata alla necessità di sanare il deficit pubblico. L’agricoltura in particolare veniva penalizzata da un incremento in termini reali dell'imposta fondiaria. Introdotta nel Decennio francese in sostituzione delle numerose imposte dirette che prima gravavano sulla proprietà, già allora essa venne fortemente criticata in quanto basata su accertamenti catastali erronei che frequentemente portavano, come denunciato ad esempio dai cittadini di Antrodoco, ad una «ineguale ripartizione del tributo»S?. AI ritorno di Ferdinando non solo questi problemi non furono risolti, ma, con decreto 10 giugno 1817, venne stabilito che la
fondiaria non sarebbe più stata modificata fino al 1860; termine prorogato al 1880 per uliveti e boschi. Ogni fondo era così gravato da un’imposta fissa, indipendente dalle fluttuazioni economiche e, quindi, dalla capacità reddituale. È evidente che quando, dopo il 1818, si ridussero profitti e valore delle terre, la fondiaria finì per aumentare notevolmente la sua incidenza. Le lamentele per la fondiaria, già ampiamente presenti nei rapporti di intendenti e consigli provinciali nel quinquennio‘, divengono il leitmotiv della vasta pubblicistica degli anni 182021. Accanto a riflessioni che affrontavano il problema teorico ziani, Il commercio estero del Regno delle Due Sicilie dal 1832 al 1858, in «Archivio economico dell’unificazione italiana», Roma 1960, serie I, vol. X, fasc. 1, pp. 37-38. L’interpretazione degli accordi come un atto di subordinazione agli interessi stranieri è particolarmente sviluppata da A. Lepre, La rivoluzione napoletana
del 1820-21, cit., pp. 14-17. Di diverso avviso è invece N. Ostuni secondo il quale l’accordo fu stipulato nel «tentativo di coinvolgere la più larga fascia di me in grado di sostenere il commercio di esportazione e di allargarlo a tutte le merci prodotte nel Mezzogiorno». Cfr. N. Ostuni, Finanza ed economia nel Regno delle due Sicilie, Liguori, Napoli 1992, pp. 86-93. 65 Infra, parte III, cap. III, par. 6. 66 Di «reclami dell’ultimo Consiglio Provinciale intorno alla gravezza del contingente della Contribuzione Fondiaria» parlava ad esempio l’intendente della provincia aquilana nel 1816. G. Ceva Grimaldi, op. cit., pp. 35-36. Cfr. anche A. Scirocco, I problemi del Mezzogiorno negli atti dei consigli provinciali, in «Archivio storico per le province napoletane», serie III, a. IX, 1971, pp. 115-138.
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della sua equità$7, numerose furono le analisi in cui l’accento si spostava sull’eccessivo prelievo sul reddito che essa comportava. Tutti i progetti di riforma presentati dai vari autori, sottolineando l’esistenza di problemi quali ad esempio le modalità di esazione che non tenevano conto dei differenti tempi della raccolta nelle diverse provinces8 o gli errati catasti su cui si fondava®?, 67 Carlo Califano in un suo opuscolo (Ragionazzento sulla fondiaria, Napoli 1820) sottopone ad analisi critica le ipotesi che giustificano la presenza dell’imposta unica sulla terra. Affinché essa risponda al necessario requisito di pra glianza, osserva l’autore, è indispensabile che la terra sia l’unica ricchezza dello Stato e che essa sia ugualmente ripartita tra tutti i cittadini. L’evidente falsità di questi due presupposti, unita all’impossibilità per il proprietario terriero di trasferire l'imposta sul consumo a causa della concorrenza estera, lo porta a criticare la fondiaria e a richiedere una struttura fiscale che non colpisca solo la ricchezza territoriale ma tutta la ricchezza in genere. Forti accuse venivano mosse al fatto che «mentre da una parte i possessori di fondi sono oppressi dal peso dei tributi, esenti ne sono interamente i possessori di animali, i capitalisti, e coloro che esercitano professioni e mestieri» (E. S., Osservazioni sulla riforma della finanza, cit., p. 87). «Le contribuzioni — osservava l'anonimo estensore di una memoria intitolata Sull’ordinamento delle finanze nel Regno di Napoli (in «La Voce del Secolo», n. 10, 25 agosto 1820, p. 40) — perché sieno giuste debbono estendersi sui mezzi contributivi di tutti, e caricar ciascheduno in proporzione di quel che si possiede. La maggior parte dei dazi che sono in uso non soddisfano ad un tal requisito». Di qui la richiesta di un sistema contributivo che «cadesse indistintamente sopra tutte le produzioni e tutte le umane industrie in proporzione degli utili effettivi delle tre Had generali dell’ Agricoltura, Manifattura e del Commercio» (Progetto di abolizione dell’attual sistema di finanze come contrario ai principi della nuova politica ed economia nazionale, Tip. Cataneo, Napoli s.d. [ma 1820], p. 9). In questa ottica vanno lette proposte come quella del deputato Dragonetti (Discorso ai deputati sullo stato discusso per l'esercizio del 1821, in ASN, Archivio Borbone, fascio 2526/2) che prevedeva l'abolizione della fondiaria e la sua sostituzione con una contribuzione diretta «impartita ugualmente in ragione delle rispettive facoltà e ricchezze dei cittadini», o come quella di A.M. Sorrentino (Progetto per alleviare i cittadini da pesi ed accrescere l’erario pubblico per supplire a tutti bisogni dello Stato, Napoli 1820) che contemplava l’introduzione di una «tassa decimale» gravante cioè sulla «decima parte dell’effettivo annuale prodotto di tutto il territorio del Regno delle due Sicilie». Di fronte però alla ventilata possibilità di reintrodurre forme impositive sui capitali commerciali ed industriali vi furono forti opposizioni (Cfr. Memoria al Parlamento Nazionale delle due Sicilie in opposizione al ristabilimento delle patenti proposto nelle sedute de’ 4 novembre e del 5 dicembre, De Filippis, Napoli 1820) che continuarono anche dopo la parentesi costituzionale. Cfr. N. Ostuni, op. cit., pp. 176-182. 68 «In un paese tutto dedicato all'agricoltura sono moltissime le diramazioni, sono vari i prodotti; quindi diverse e determinate dalla natura sono l’epoche delle rendite, e La. ancora da una provincia all’altra. Non è egli contraddittoria la pretenzione di esigere in tutta la superfice del Regno ad uno stesso segnale, ad un punto, ad un’ora medesima [...]? Non è egli strano il forzare il pagamento del tributo imposto su i fondi quando i frutti non sono ancora maturi, non sono ancora raccolti, o non realizzati in valore?» [P. Tortora], Pensieri sulla contribuzione diretta, in Id., Riflessioni su le finanze del Regno di Napoli, cit., p. 12. 69 La necessaria modifica dei catasti stabiliti nel Decennio si scontrava però
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prevedevano una sua riduzione o una sua abolizione. Ulteriori critiche vengono mosse anche al sistema dei dazi indiretti ed alle altre imposizioni gravanti sull'economia del Regno?°. Quello che viene messo sotto accusa è l’intero organismo amministrativo ereditato dal Decennio. La denuncia del «sistema dispotico ministeriale», così come veniva definito da Lippi”!, si unisce ad una crisi di rigetto nei confronti di un apparato burocratico giudicato inefficiente, pletorico, talvolta corrotto, colpevole di sottrarre risorse all'economia, di vessare i proprietari”?. La critica investì tutta la struttura fino alle sue ultime propaggini locali. Come osservava il Bianchini «dall’abolizione della feudalità si vide che gran parte degli odiati proventi di questa, in luogo di esser riscossi dal barone, non altro cangiando che il nome del patrone, riscossi furono dal comune»??. con le enormi difficoltà connesse all’opera di revisione. Ciò indusse molti autori a rinviare il problema ad un periodo successivo: «Per determinare la ricchezza fondiaria — avvertiva Dragonetti nel suo progetto di riforma (Discorso ai deputati, cit., p. 4) — si avranno per ora presenti i catasti provvisori. Per lo avvenire ne formeranno base i catasti geometrici, che colle norme della geodesia debbonsi compilare». Sul problema cfr. infra, parte III, cap. III, par. 7. 7° Oltre agli scritti degli autori inseriti 2A RE capitolo di questa antologia, si veda, tra la numerosissima pubblicistica del periodo costituzionale: E. S., Osservazioni sulla riforma della finanza, cit., pp. 99-114, che sottopone ad analisi critica l’imposta di registro e bollo, i diritti riservati ed altre forme di entrate statali. Un interessante progetto di abolizione della privativa sui tabacchi è in Progetto al Parlamento Nazionale, s. d. [ma 1820], in ASN, Archivio Borbone,
fascio 2523, fasc.lo 15. Di notevole importanza è l’analisi critica svolta da P. Tortora in op. cit., pp. 49-67. Sul tema cfr. infine N. Salerno, Terapeutica o sia cenno metafisico-politico-legale delle malattie del corpo della Società, Napoli 1820; D.M., A’ Signori deputati del Parlamento Nazionale, G. B. Settembre, Napoli s.d. [ma 1820], e Del P. O., Brevi ricordi per li signori deputati che dovranno intervenire al Gran Parlamento Nazionale nel dî primo del mese di ottobre 1820, De Bonis, Napoli 1820, in particolare pp. 2-5. 71 C. Lippi, Prize idee concernenti il miglioramento delle nostre istituzioni, cit. Sin dalle prime pagine di questo saggio si colgono accenti molto critici: le istituzioni stabilite nel Decennio «fondat[e] sul despotismo, sulla rapina, sull’intrigo, sulla venalità, sulla corruzione» furono al ritorno dei Borboni «sovraccarica[te] maggiormente, e con nuovi sistemi di oppressione e di errori [che] gravitarono vieppiù sulla nazione». I ministri «han tutti agito da torcolieri, spremendo strettamente la nazione per accrescere la rendita del tesoro [...]. Nessuno di essi si è elevato a pensare che per avere latte in abbondanza conviene impinguare la vacca, e non affamarla e renderla scarnita» (ivi, p. 42). Per risollevare le sorti dell’economia viene quindi proposto il dimezzamento della fondiaria, del bollo, del registro e della il sull’olio e, al contempo, per risanare il bilancio vengono suggerite una serie di economie consistenti in una drastica riduzione del persoar e degli impiegati di tutte le amministrazioni. 72 Si veda quanto afferma G. Montella, infra, parte IMI, cap. III, par. 3. (228 DI Bianchini ODI, PIOIZ:
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Di qui le strazione, tori. Una razionali struttura
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richieste di smantellamento dei vari rami dell’amminidi riduzione del numero di impiegati ed amministrareazione antiburocratica con toni spesso violenti ed irche trovava il suo fondamento nel rifiuto verso una statale che, invece di proteggere, rendeva ancora più
precarie le difficili condizioni economiche delle forze produttive. Una reazione che era il segnale evidente dell’incapacità dello Stato amministrativo centralizzato di assicurare nuovi equilibri socio-economici in sostituzione degli ormai distrutti equilibri feudali. Ma il problema fiscale non era solo quello, pur rilevante, dell'eccessiva pressione in rapporto alle capacità contributive, ma anche, e principalmente, quello dell’utilizzo di queste entrate statali. «Il tributo — osserva con lucidità uno scrittore anonimo?4 — gravitando su i prodotti come peso, esercita una forza comprimente quando si impone, e convertito dopo la esazione in pubblica spesa, ritorna fra privati da cui si tolse, e vale di eccitamento a novella produzione. È sempre quindi una potentissima molla i di cui effetti divengono spesso più prodigiosi, che ben si può tenerne i movimenti invisibili allo sguardo di chi interesse avesse ad opporvisi. [...] Volgansi adunque decisamente tutte le forze di questa duplice molla alla conversione dell’industria regnicola». Il tributo avrebbe dovuto quindi prendere, nelle parole di questo scrittore, «mille nuove forme e mille vesti perché, de-
posto l’aspetto desolante di detrattore delle private facoltà, presenti quello di promotore d’ogni ramo della pubblica ricchezza». In questa citazione è racchiusa tutta l'essenza di una moderna concezione dello strumento fiscale, e quindi della presenza dello Stato nell’economia, che non fu, né probabilmente poteva essere, colta in questo periodo dal governo Medici. La voragine finanziaria, inghiottendo tutte le risorse dello Stato, finiva sistematicamente per eludere tutte quelle istanze di cambiamento che trovavano il loro punto di forza in una presenza attiva della spesa pubblica. La necessità di modernizzare le infrastrutture, c in particolar
modo la costruzione e la manutenzione di strade e porti, continuò così ad essere, nonostante i numerosi progetti presentati da 74 Cenni sulla necessità di conversione dell'industria regnicola, manoscritto in ASN, Archivio Borbone, fascio 732/III, fasc.lo 13.
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autori ed autorità??, uno dei nodi irrisolti dell'economia meri-
dionale. La politica seguita durante il quinquennio in tema di lavori pubblici fu ad esempio segnata negativamente da un drastico ridimensionamento sia finanziario, sia strutturale, di quel Corpo di Ponti e Strade che, istituito da Murat nel 1809, doveva costituire l’organo propulsivo preposto alla progettazione e al coordinamento delle varie iniziative in materia. Il peso del debito pubblico comportò inoltre un trasferimento di numerosi oneri sulle finanze comunali. Per pagare questi maggiori pesi i comuni utilizzarono i fondi destinati ad opere pubbliche. La situazione viene descritta con puntualità dal ministro Zurlo in un rapporto presentato al parlamento nel 182076, dove inoltre compare un’efficace sintesi delle principali opere eseguite nel periodo””.
5. Da quanto sinora descritto emerge con sufficiente chiarezza che lo sviluppo dell’agricoltura, e quindi dell'economia meridionale, era inceppato, oltre che da cause strutturali, da nuovi problemi generati sia dal contesto economico internazionale, sia dalla politica economica borbonica. Un complesso intreccio di fattori che inibivano le spinte al cambiamento e riducevano fortemente la convenienza all’investimento agricolo. La persistenza di pratiche agricole tradizionali deve essere vista pertanto, più che come una causa dell’arretratezza, come
l’effetto del quadro economico complessivo. Il dibattito a questo proposito mostra forti tratti di ambiguità. Da un lato l'accento eccessivo posto sul problema dell’ignoranza di contadini e proprietari, sul tradizionale mito della fertilità naturale del Mezzo75 Uno dei principali problemi era la differenza esistente nella struttura viaria tra il versante adriatico e quello tirrenico e la mancata integrazione tra i due. Un progetto di collegamento tra le due differenti aree meridionali fu proposto in questo periodo da Afan de Rivera tramite la costruzione di un canale Vola parte III, cap. I, par. 5). Significativa è anche l’analisi di Micheletti sulle strade abruzzesi (infra, parte III, cap. I, par. 2). Le proposte contenute in questa memoria miravano evidentemente a sfruttare, attraverso l'ampliamento della rete viaria,
la posizione di confine della regione per consentirle di accrescere l’attività commerciale. Particolarmente grave era infine la condizione di isolamento della più grande provincia del Regno, la Basilicata. La scarsità di fondi destinati alla costruzione di strade porta l’intendente della provincia a proporre addirittura il ripristino dei pedaggi (infra, parte III, cap. I, par. 3). 76 Infra, parte III, cap. III, par. 2. 77 Infra, parte III, cap. I, par. 1.
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giorno, sull'immagine del «tesoro nascosto»?8 che il perdurare di antiche abitudini impedisce di far emergere, maschera spesso una mancata comprensione di questo nesso di causalità. Dall'altro però, anche se in maniera non lineare, compare al contempo la consapevolezza che, data quella situazione economica, dati gli scarsi
capitali a disposizione degli agricoltori, data l’assenza di strutture creditizie provinciali??, i margini di rischio per qualsiasi innovazione erano talmente elevati per i produttori agricoli che, come affermava il segretario della Società economica della Calabria Citeriore, «quando anche qualcheduno tra essi volesse tentare qualche rettifica, viene arretrato dal timore che i suoi saggi mal eseguiti o mancanti lo buttassero nella miseria»89. Un'altra importante caratteristica del dibattito è che si incrinò in modo irreversibile l’idea che lo sviluppo economico dipendesse unicamente dal settore primario. La tesi fisiocratica dell’agricoltura come unica fonte della ricchezza veniva decisamente smentita dalla realtà. Di fronte ai nuovi fenomeni economici della Restaurazione, di fronte al crollo dei prezzi agricoli, di fronte allo sviluppo dell’industria in molti paesi europei, continuare a puntare unicamente sui prodotti della terra appariva ormai anacronistico e così persino un teorico dello sviluppo agricolo come Giampaolo non esitava ad affermare che «le industrie manifat78 Cfr. C. D'Elia, Introduzione, in Id. (a cura di), I! Mezzogiorno agli inizi dell'Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. x1 e passirz.
79 Se si esclude il contratto alla voce, sulla cui natura usuraia e sui circuiti speculativi che esso alimentava è stato abbondantemente scritto (cfr, ad esempio, P. Macry, Mercato e società nel regno di Napoli. Commercio del grano e politica economica del Settecento, Guida, Napoli 1974), l’unica forma di finanziamento
nelle campagne era ancora costituita dai monti frumentari che però erano caduti in disgrazia sin dal secolo precedente (cfr. A. Di Biasio, Il finanziamento dell’a-
zienda agraria nel Regno di Napoli. I monti frumentari agli inizi dell'Ottocento, in «Rivista di Storia dell’ Agricoltura», a. XXI, n. 2, 1981, pp. 135-204). Numerosissime furono in questo periodo le richieste di ripristino di questi istituti e numerosi furono anche i progetti per istituire delle «casse» nelle varie province. Se per quanto riguarda i monti frumentari vi fu una lenta ripresa, completamente inascoltati rimasero gli appelli per le casse provinciali. Un'importante novità in tema di credito fu l'istituzione nel 1818 di una Cassa di sconto a Napoli che teoricamente avrebbe dovuto funzionare come una banca di depositi e credito ma che fu invece utilizzata dal Medici come mezzo per facilitare le sue operazioni finanziarie (cfr. N. Ostuni, op. cît., pp. 108-115). Durante il periodo costituzionale fu proposto l'affidamento ai privati della Cassa di sconto e ciò suscitò un vivace dibattito (cfr. G. Gifuni, infra, parte III, cap. III, par. 10). 80 G. Silvagni, Rapporto dell’anno 1822, in «Atti della Società Economica di Calabria Citra», vol. II, 1822, p. 10.
Introduzione
XOGVINI
trici aument[a]no potentemente la ricchezza»8!, e che quindi fosse necessario promuoverle. In realtà non è corretto parlare di influenza fisiocratica neanche in riferimento al pensiero del secolo precedente. Come è stato sottolineato da Salvemini82, l'atteggiamento degli illuministi della seconda generazione fu infatti, nella maggioranza dei casi, quello di accettare il destino agricolo del Mezzogiorno e puntare su di esso, più che per adesione alle tesi di Quesnay, per la convinzione che, dopo ciò che la crisi di metà Settecento aveva evidenziato, non fosse più possibile pensare ad uno sviluppo economico «onnidirezionale» come quello proposto da Genovesi. La scelta agricola, in questa prospettiva, non dipese dalla preferenza accordata ad un modello teorico come quello fisiocratico, ma da un atteggiamento pragmatico in risposta alle circostanze econo-
mico-ambientali. Proiettando questo ragionamento per il nostro periodo è possibile sostenere che, con la crisi post-Restaurazione, quella fiducia sulle potenzialità dell’agricoltura, l’idea di assecondare il destino agricolo del Regno, subisca forti scossoni e quindi, seppure con un minor slancio ideale, la diffusione delle tesi circa la necessità di uno sviluppo manifatturiero risponda in fondo allo stesso «concretismo» che ispirava i riformisti settecenteschi. Anche in questo caso, più che un’elaborazione dottrinaria, questa posizione era una risposta ad una nuova situazione
economica da cui il Mezzogiorno usciva doppiamente penalizzato nei suoi rapporti di scambio con l’estero: «Fino a che i prodotti del nostro suolo e specialmente i grani erano [dallo straniero] comprati, egli medesimo ci forniva i mezzi come pagargli il prezzo dei suoi generi manifatturati; ma ora che lo smercio di quelli è scemato, nell’atto che ci è rimasto il bisogno di questi, l’acquisto se ne fa a denaro contanti con infinito discapito della nazione. Altro mezzo dunque non v’ha per uscire da questa dannosa dipendenza, che quello di estendere e migliorare le nostre manifatture»8?. Ma quali erano i tratti salienti caratterizzanti la manifattura meridionale? Durante il Decennio francese la situazione di blocco commerciale, com’è noto, aveva consentito la nascita di alcu81 P. Giampaolo, De’ disordini, cit., p. 114. 82 B. Salvemini, Economia politica e arretratezza meridionale nell'età del Risorgimento, cit., pp. 21 sgg. 83 Infra, p. 215.
XXXVIII
Introduzione
ne iniziative industriali soprattutto in campo tessile. Si trattava però nella maggioranza dei casi di iniziative effimere che non riuscirono in genere a reggere all’apertura dei mercati. L’attività manifatturiera del Mezzogiorno era, nella sua quasi totalità, delegata a iniziative domestiche svolte in condizioni di decisa arretratezza tecnica. Una produzione grossolana che, o era rivolta all’autoconsumo o, nel migliore dei casi, non superava gli stretti confini dei circuiti locali. Esistevano in tutte le province delle «fabbriche», come venivano definite nei rapporti di intendenti ed autorità locali84, molte delle quali vantavano una tradizione secolare, come ad esempio i lanifici di Avellino o la lavorazione della carta e del vetro nel salernitano. Si trattava di realtà economiche che, anche se più evolute rispetto alla semplice pluriattività contadina di tipo tradizionale, erano in ogni caso anch'esse tutt’altro che sviluppate. Il loro radicamento anzi, più che essere un vantaggio, finiva spesso con l’essere un pesante retaggio nella misura in cui ciò si traduceva in vincoli e legami
consuetudinari. La produzione manifatturiera nel suo complesso mostrava in definitiva tutti i limiti del tessuto economico di cui era parte. Le debolezze strutturali dell’agricoltura, unite ai circuiti speculativi alimentati dal debito pubblico, ostacolavano la formazione di surplus da investire nel settore secondario e quindi impedivano
che si manifestassero nel Mezzogiorno quelle dinamiche che in altri paesi stavano portando ad una rapida fioritura di iniziative industriali. Sulla necessità di emanciparsi da questa condizione di arretratezza concordavano ormai tutti i commentatori dell’epoca. Ciò su cui non vi era convergenza era sul come ciò sarebbe dovuto avvenire. Alcuni autori, non a caso quelli che scrivevano dalle province più povere, mostrarono interesse per una manifattura intesa prevalentemente come attività integrativa dell’a-
gricoltura. In tal senso Andrea Lombardi, riferendosi alla Calabria, pur auspicando che le arti e le manifatture venissero «incoraggiate e protette dapoiché aumentano le fonti della pubblica prosperità», affermava: «In una provincia agricola principalmente non è prudente, è anzi temerità, introdurre fabbriche che ri84 Cfr. le relazioni riportate in questa antologia, infra, parte II, cap I.
Introduzione
XOTE
chiedano l’impiego di molti capitali e la occupazione di numerose braccia di uomini»85. Accanto a queste visioni «ruraliste», tuttavia, comparvero con sempre maggior frequenza nel dibattito posizioni più oltranziste. Ciò che si auspicava non era solo una crescita delle manifatture tradizionali, ma un mutamento nelle linee di sviluppo del Regno. Veniva in tal modo messo in discussione il ruolo di semplice produttore di materie prime e l’accento si spostava sulla necessità di dotare il Mezzogiorno di un più moderno tessuto industriale. Nessuno però sembrava illudersi che ciò potesse avvenire autonomamente attraverso un naturale processo evolutivo e i riflettori venivano quindi puntati sullo Stato: era ad esso ché veniva demandato il compito di far nascere e sviluppare le industrie. Molteplici erano in questo senso le proposte. Il governo avrebbe dovuto fornire non solo istruzione tecnica, ma anche capitali, macchinari, locali. Molto frequenti erano inoltre le richieste di privative, anche se, a causa dei fenomeni monopolistici che esse generavano, si iniziarono ad esprimere forti dubbi sulla loro validità come strumento di sviluppo industriale8®. Ma l’attenzione generale era rivolta ad una modifica della politica doganale. La necessità di porre delle barriere alla importazione di manufatti esteri e al contempo di impedire la fuoriuscita di materie prime industriali rappresentò, sia prima, sia durante, sia dopo la rivoluzione del 1820-21, uno dei punti su cui, pur con qualche eccezione8”, la totalità degli autori trovò una sua
unità. In questo modo infatti si sarebbe ottenuto il duplice vantaggio di proteggere la manifattura dalla concorrenza estera e di aumentare il gettito delle entrate doganali, parte delle quali, co85 Infra, parte II, cap. I, p. 196. Analogamente il presidente della Società economica diMolise affermava: «Non vi ha dubbio che la nostra posizione naturale c’invita ad essere piuttosto agricoli che manifatturieri; ma abbiamo molti luoghi in cui le terre si negano alla coltura [...]. Ivi quindi sono necessarie le arti». P. Petitto, Sullo Stato Agronomico della Provincia di Molise, cit., p. 201.
86 Cfr. C. Prisco, infra, parte II, cap. II, par. 6. 87 Una linea liberista, almeno relativamente ai rapporti commerciali con la Francia, viene auspicata da un anonimo scrittore qui ripubblicato. Cfr., infra, parte III, cap. II, par. 5. Singolare è inoltre la posizione espressa dall’anonimo estensore sargià citato Progetto di abolizione dell’attuale sistema di finanze, il quale propone la totale abolizione delle dogane: «un sistema generale di libera circolazione interna ed esterna non può non produrre che il bene generale della Nazione, divenendo Porto franco tutto il Regno». Cfr. ivi, pp. 11-14.
Dali
Introduzione
me affermava Lippi88, si sarebbero potute destinare alla creazione di nuove industrie. La tesi protezionistica divenne così diffusa che persino il ministro degli Interni Zurlo8? propose nel 1820 una tariffa che, riprendendo le motivazioni degli autori filo-manifatturieri, anticipava per grandi linee quella svolta tariffaria del 1823-24 che aprì una nuova stagione nella politica economica borbonica. Walter Palmieri
In ogni brano, accanto alle note originali degli autori, indicate da numeri arabi (si è iniziato da 1 anche in caso di diversa numerazione
dell’originale), sono presenti delle note esplicative del curatore indicate da lettere alfabetiche. Sono particolarmente grato alla dott.ssa Costanza D'Elia ed alla dott.ssa Gabriella Corona per i preziosi suggerimenti e per la paziente collaborazione; ulteriore debito di gratitudine ho nei confronti del dott. Leandro Conte, sempre prodigo di consigli e di utili spunti critici, del dott. Gaetano Sabatini, e di Salvatore Cristadoro per le competenze informatiche messe generosamente a mia disposizione.
88 Cfr. infra, parte II, cap. II, par. 5. 89 Cfr. infra, parte III, cap. II, par. 1.
IL MEZZOGIORNO AGLI INIZI DELLA RESTAURAZIONE
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Parte prima
L'AGRICOLTURA
Il GLI USI DEL TERRITORIO
1. Un caso di dissesto idrogeologico: il lago Fucino* [...] Non [è] possibile che la penna possa descrivere le rovine, i mali, e i danni che il Fucino [ha] recato a queste contrade. Ad
ogni modo tutto ciò che potrà scriversi sarà un abbozzo della luttuosa catastrofe delle medesime. Prima di tutto la miseria in generale delle popolazioni di Avezzano, Luco, Trasacco, Ortucchio, Venere, S. Benedetto, Pescina, Collearmele, Cerchio, Aielli, Celano, Paterno, e S. Pe-
lino che accerchiano il Fucino, è massima per non esservi rimasto che il solo terreno sterile ed infruttuoso. Il lago si ha ingoiato quello che incoraggiava il colono, il quale ora appena ricava il doppio da ciò che semina. A quale oggetto non corrispondendo il fruttato alle fatiche, ed attraversata l’industria degli animali per la deficienza dei pascoli, egli vive in tutto l’anno immerso nell’indigenza e nel bisogno. E che sia così Avezzano, piccola città, una dei quattro capo-distretti della provincia del 2° Abruzzo Ulteriore che forma il decoro dei Marsi per avere un mercato in ogni settimana, ove accorrano le comuni vicine, ha perduto quasi ventiquattromila moggi” di terreno vignato, seminatorio, e ve-
stito di alberi di ottime pome. Ma il peggiore si è che la stessa * Da Tommaso Brogi, Su/ lago Fucino, e sue escrescenze: progetti per bonificarlo colle descrizioni dell’emissario di Tiberio Claudio; e sulla necessità di riaprirlo. Memoria del socio corrispondente Dottor Tommaso Brogi. Letta nell'adunanza de’ 9 gennaio 1816, in «Atti del Real Istituto d’Incoraggiamento di Napoli», tomo III, pp. 9-16, 36-37. è Il moggio è una antica misura di superficie pari a 0,33 ettari.
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Parte prima. L'agricoltura
trovasi in tale vicinanza al lago, che minaccia di volersela assolutamente ingoiare al più presto che possa credersi. Il comune di Luco è rimasto affatto privo di territorio, e le acque del Fucino che sono entrate nel suo abitato, coll’urto han fatto cadere la metà delle case. Or siccome questa popolazione è dedita alla pesca, quella che forma la sua sussistenza, così la preda del pesce è
divenuta rara per essere il volume del lago eccessivamente cresciuto. Trasacco, sperimentando il medesimo disastro, ritrae il
suo sostentamento dal legname da fuoco, che commercia colle vicine popolazioni. Ortucchio presenta la più lagrimevole situazione. Questa terra posta sopra di un’amena collina è divenuta un'isola perfetta in modo che tutto ciò che necessita ai comodi della vita dei suoi abitatori vi si conduce coll’aiuto delle barche. Le acque del lago hanno circondato il suo abitato nella maggior parte distrutto, e quel poco che vi è rimasto, è quasi tutto inondato. Gli abitanti per ricoverarsi nei piani superiori delle loro case sono nella necessità di salirvi colle scale, ed entrarvi per le finestre. La loro faccia è lurida, scolorita e cadaverica. Venere ha perduto il miglior territorio. S. Benedetto, che è succeduto all’antica Valeria, è privo egualmente di due terzi dell’abitato, e trovasi nell’evidente e prossimo pericolo di perdere l’altro terzo senza che vi rimanga orma della sua esistenza. La chiesa di questo villaggio, che fu una volta la casa di S. Bonifacio IV P.P., regnante nell’anno di Cristo 607, ed indi dal medesimo convertita in tempio consacrato a Dio, è situata tanto vicino al lago che i suoi abitanti affermano per certo che nel corso di un anno possa rimanere sommersa nelle sue acque. Questo fatto autentica vie-
più la verità dimostrata da noi che l’escrescenza attuale non abbia avuta l’eguale. Finalmente tutti gli altri indicati comuni sono nella dura e gravosa circostanza di piangere la loro barbara situazione per la perdita delle migliori terre fruttifere che sono rimaste allagate; e dirò meglio, che da un’ora all’altra a passi di gigante il Fucino minaccia d’inondare. Se a tanti mali, a danni così grandi, ed all'imminente pericolo di una escrescenza maggiore non si appresti un sollecito riparo, e se il nostro Monarca Ferdinando I P.F.A. Regnante, che il cielo renda sempre contento, non impiega la sua munificenza reale per riaprire l’emissario claudiano, o si vedranno queste misere popolazioni sommerse nelle acque del lago, o pure saranno elleno obbligate a cercare altro asilo ed abbandonare la loro patria. Infelici
I Gl usi del territorio
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abitatori dei dintorni del Fucino dove andrete raminghi a trovar ricovero, sprovvisti e nudi di tutto? Ecco il quadro numerico di questi infelici e sfortunati cittadini. Avezzano Luco Trasacco Ortucchio Pescina Venere S. Benedetto Collearmele Cerchio
abitanti _ —_ —_
ZA 1750 760 838
—
2.840
se —
1.080 993
Aielli
—_
1.027
Celano
—_
371075
Paterno S. Pelino
— —
Totale
orti
324 281
15.845
[...] L'attuale e quotidiana escrescenza del Fucino non si ri-
pete, se non da cause permanenti, reali e di fatto: e poiché le stesse sono moltiplici, le numereremo ordinatamente e con precisione. I. Non solo la soprabbondanza delle acque piovane, che da parecchi anni a questa parte sono state straordinarie e dirotte, ha prodotto e produce un afflusso insolito di acque nel lago, ma ancora l’aumento delle sorgive, per le quali il medesimo è cresciuto in altezza, e ne ha ampliata l’estensione. II. Sono memorabili i tremuoti avvenuti nella Calabria in febbraio e maggio dell’anno 1783. Non sembra strano, ma probabile l’opinare, che la materia elettrica con i suoi scotimenti, colà chiaramente funesti, per consenso avesse smosse le screpolature ed il vacuo del monte Salviano, sopprimendo l’attività dell’emissario di Claudio. Quindi pare che la stessa cagione lo abbia attualmente oppilato, se non in tutto, almeno in qualche sua parte.
III. Varie sono le specie di pesca che i comuni di Luco, Ortucchio, S. Benedetto e Celano fanno nel Fucino, per conseguire la preda del gambero, della tinca, del barbio, della scardova, e della
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Parte prima. L'agricoltura
lasca; poiché per la trota, pel capitone, e per la londra non si è ancora acquistata dai pescatori la maniera di prenderle. La pesca dei mucchi si pratica col gittarsi nel lago un’immensa quantità di legname in ogni anno. Esso infradiciandosi necessariamente forma un terreno tenace, che smosso dal fondo del lago, e dalle tempeste alle quali questo è soggetto, spinto nella descritta riviera del monte Salviano, ottura i meati naturali ed impedisce lo scolo ordinario delle acque, di cui la natura, come si è detto, lo ha provveduto. IV. Un'altra specie di pescagione è quella detta dei cofari. Consiste la medesima in centinaia di cofani ordinari, formati di pieghevoli vinchi, che empiuti di minuto legname col peso di uno o più sassi, dall’alto si gittano nel fondo del lago. Finita la stagione dell’uso dei cofani, il pescatore torna ad estrarli per avvalersene nell’anno seguente; e per non trasportare di nuovo i detti sassi distanti dalla riva, li precipita nel Fucino. Ecco perché in ogni anno buttandosi una quantità prodigiosa di essi nell’acqua, il lago necessariamente si dilata. Le cagioni sopra esposte relativamente a tale dilatazione possono valutarsi per secondarie, giacché l’altra che annunzio può chiamarsi primaria. V. Le pendici degli Appennini, declivi verso il Fucino che circondano, erano da prima vestite di alberi e di ceppaie macchiose, le quali, sostenendo il terreno nella sopravvegnenza delle piogge, avevano nel lago uno scolo semplice e naturale. Dall’e-
poca dell’inondazione, vale a dire da trenta anni in qua, non solo le cennate pendici, ma i monti finanche sono stati sommersi. La recisione degli alberi e l’estirpazione dei tronchi e delle loro radici hanno prodotto viepiù l’inondazione. Le piogge straordinarie ed eccedenti, che cadono da più anni a questa parte, raccolte sopra i monti, ed unite in torrenti, e questi scendendo precipitosamente ed accogliendo le terre nude, hanno trasportato nel Fucino terriccio, ghiaia ed altri corpi estranei, coi quali si sono incontrati. Testimonianza chiara di questa verità sono gli infiniti
avvallamenti e gli scavi profondi di terra che esistono all’intorno del lago, e che hanno contribuito al suo maggioi dilatamento, ed al trasporto dei corpi eterogenei nel medesimo. La conca del Fucino in sostanza per tali avvenimenti funesti si è ricolmata e gior-
nalmente più si aumenta di acque, e quindi il lago si è oltremodo accresciuto. In questo stato di cose non è possibile che si verifichi il riferito proverbio che «per sette anni il Fucino cresca, e per
I. Gli usi del territorio
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sette decresca»; poiché se è vero che la natura per rifarsi adopri quello spazio di tempo che pose nella perdita, è chiara la conseguenza che per sbarazzare la sua conca abbia ad impiegarvi più di trent'anni, quanti la stessa ne ha consumati nell’accumularla all'eccesso. VI. Le tempeste ancora contribuiscono a questo fenomeno, poiché smovendo il fondo del lago, spingono alla riva i corpi che vi stavano annidati. Questo per altro accade solamente allorché le piogge, continuando per la incostanza delle stagioni, accrescono altri corpi ed altra materia nella conca suddetta. In questo caso l’inondazione si farà maggiore; gli adiacenti comuni verranno sommersi nelle sue acque; le popolazioni dovranno fuggire; e i marsi fucensi cesseranno di vivere senza neppure rimanervi vestigio, o monumento di aver esistito. [...] Dimostrato quindi che l’attuale escrescenza del Fucino sia maggiore di tutte le antecedenti; conosciuto che questo lago, crescendo nel suo perimetro, minaccia d’ingoiarsi le popolazioni dei suoi dintorni; indicata l’antica strada per la quale altre volte con esito vantaggioso si è procurato lo scolo delle sue acque; non resta attualmente che l’esecuzione di un’opera, la quale, mentre da una banda toglierà dai più spaventevoli pericoli i marsi fucensi, renderà dall’altra commendabile nei fasti della storia dei nostri tempi l’augusto nome del nostro munificentissimo Monarca. La somma infine delle conoscenze idrauliche odierne farà evi-
tare tutte le disgrazie che potrebbero avvenire ai travagliatori colla improvvisa uscita delle acque dallo speco, durante tale manovra. A rendere l’opera molto meno pericolosa e di aggiunta alle altre di simil fatta tuttora esistenti, si abbiano presenti le restaurazioni degli emissari della Toscana, per molto tempo derelitti, ed ora in piena attività; e quella dell’emissario del lago Trasimeno in Perugia costrutto da Fortebraccio, e restaurato da Maffeo Barberini che in seguito fu Papa. La spesa per la restaurazione del sopraddetto emissario non sarebbe troppo eccessiva; poiché, tralasciandosi di pulire tutt’i pozzi ed i rispettivi cunicoli ed attenendosi al solo canale, si ridurrebbe a molto meno di quello che si crede. Ne valga di esempio la somma liberata da S.M. nel 1790 al 93 in 14.944 ducati; giacché la stessa fu versata pel soldo degl’impiegati pei quali si spenderono ducati 10.000, che oggi si potrebbero risparmiare in massima parte. I rimanenti 5.000 s’impiegarono per la compra di
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Parte prima. L'agricoltura
ferramenti, sarte, tavole, etc.; e ciò non ostante si vuotarono tre
pozzi, si ristorarono i cunicoli superiore e quello del pozzo grande, e si pulì il canale per cento canne”. I vantaggi infine che potrebbero risultare da tale opera si riducono all'acquisto: I. Di 60.000 moggi di terreno di spettanza dei proprietari, sui quali la Corte vanterebbe i dovuti diritti d’imposizione. II. Del terreno che si ottiene dopo l’esiccamento del lago di pertinenza del regio erario, che può computarsi per 60 miglia di estensione, quanta è la periferia del Fucino.
2. Il disboscamento in provincia dell’Aquila* [...] Nei tempi che la barbarie dei costumi e le incursioni del settentrione manomisero ogni italiana grandezza, la fiamma, il ferro, l'avidità, e la discordia rasero le colline e i monti, e tutto fu distruzione. Le posteriori generazioni hanno fatto sempre de-
boli sforzi onde riparare a tanta rovina, e quindi in ogni regione rimossa, direi così, la barriera delle immense foreste che la circondavano, e reprimeano la furia dei venti; i turbini e le tempeste, non trovando chi ne arrestasse il corso, hanno rasa la terra,
e seminata la miseria e lo spavento; le stagioni hanno preso un aspetto proteiforme e fatale al sistema della traspirazione, ed a tutta l’animale economia; cresciuta l’incertezza dei ricolti; nell’atto che il fuoco, articolo di estrema importanza fra i gelati Appennini che coronano questa provincia, è divenuto, direi quasi, un oggetto di lusso, cui la nuda povertà sospira invano presso l’estinto focolare, più dolente delle rigide membra, che del ventre digiuno e famelico. Intanto le circostanti montagne non presentano che lo squallore e l'abbandono, e la natura geme nell’incontrare in mezzo all’incantato giardino della fertile Italia l’aspetto minaccioso e terribile di un’Alpe infeconda, sulla quale > La canna è una misura di superficie di poco superiore ai 2 metti. * Da Luigi Dragonetti, Sulla necessità e maniera di ripristinare i boschi della Provincia di Aquila, manoscritto datato 1° agosto 1816, in Archivio di Stato dell'Aquila, Intendenza, serie I, cat. VII, busta 1132/2. Per facilitare la lettura, il nome dei luoghi e delle selve atte al rimboschimento è stato mantenuto, nell’ambito di ciascun comune citato, in corsivo, come nel testo originale.
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non fiorisce che il musco e la felce. I torrenti e le piogge seco sempreppiù trascinando la terra vegetale inerente alle rupi, ci tolgono per sempre la speranza di vedere su quegli sterili scogli sorgere di bel nuovo il faggio e la quercia, per dare un’ombra ospitale all’ardito cacciatore, e la gioia della fiamma al pastore che vi conduce la povera greggia per contrastare il passaggio ai venti, ed ai nembi, che non frenati da questa naturale barriera precipitano sulle nostre pianure a disperdere i bei doni di Cerere, di Pomona e di Bacco?. La Società economica-agraria di Aquila” non può rimanersi indolente all’aspetto di tanti disastri. Essa mi ha incaricato di analizzare questo ramo interessante della nazionale prosperità, onde, prima che i mali divengano tali da escludere ogni rimedio, possiamo alzare al trono di Ruggiero” le nostre voci, ed implorare dalla reale clemenza i soccorsi della paterna mano che regge i nostri destini, e la tutela di leggi più conformi ai nostri costumi ed al deplorabile stato delle nostre foreste. Il mio discorso presenterà nella prima parte lo stato attuale delle selve di questa provincia, additando quelle particolarmente che più han d’uopo, e più sono atte al rimboschimento; nella seconda i mezzi da ripristinarle nella primitiva floridezza, e da conservarle per lunga serie di secoli, onde i posteri benedicano la memoria di una generazione che ha riparato ai danni di venti età trascorse. L’unico pregio di questo non lieve travaglio, sarà lo zelo che mi ha diretto nelle indagini di così geloso argomento, degno di più illuminato scrittore, e di più perspicace ingegno. Tanto egli è vasto, operoso, e difficile. La nostra provincia in origine ricca di quasi 400 mila moggia di boschi, ne ha ora appena la metà, manomessa, e quasi anche vicina a perire. In meno di un secolo sono mancate 145.960 moggia alberate, che desolarono il ferro e l’avidità di un cieco interesse. Nei boschi del distretto di Aquila si contano 34.770 moggia di vuoti da rimpiazzarsi. In quelli del distretto di Sulmona, a Si tratta di 3 divinità romane legate all’abbondanza. La Società economica dell'Aquila (Abruzzo Ultra II), così come gli analoghi istituti stabiliti in tutte le altre province del Regno, fu creata, con scopi di promozione e sviluppo economico, nel Decennio francese (decreto 16 febbraio 1810 e 30 luglio 1812), e riconfermata dopo la restaurazione borbonica (26 marzo 1817).
“ Ruggero II d’Altavilla, incoronato re di Sicilia nel 1130, fu il primo sovrano di uno Stato che unificava l’intero Mezzogiorno d’Italia.
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Parte prima. L'agricoltura
che sono i migliori e che onorano l'economia silvestre dei Peligni, pur si contano 35.640 moggia atte per la maggior parte al rimboschimento. I monti di Avezzano, più soggetti alla distruzione, che sulle pubbliche e private proprietà segue le orme dell’ardito bisogno, ne presentano moggia 43.720. Nel distretto di Cittaducale, ove le selve sono in qualche onore, pur ve ne sono 31.830. Vengo ora ad un minuto dettaglio, affinché da questa mia rozza memoria possa a colpo d’occhio rilevarsi quali comuni siano precisamente più in istato di profittare dei soccorsi di un illuminato governo, che non può ulteriormente trascurare un oggetto, che per la sua importanza esige qualunque dispendio, e che peraltro lo indennizzerà di ogni spesa, mercé le immense risorse che presenta al suddito tributario, ed alla grande famiglia dello Stato. Distretto di Aquila
Circondario di Aquila. La macchia di S. Giuliano presenta un vuoto di 40 moggia. I Riformati, cui appartiene, dovrebbero obbligarsi ad un pronto riparo, e nel tempo istesso garantirsi rigorosamente dalle rapine dei vicini vignaroli, che in ogni anno la devastano con tagli irregolari e desolanti. In quest’anno detti religiosi vanamente hanno introdotto il giudizio contro alcuni di essi che ne aveano recise 1.300 piante dall’ime radici. Sono mancate le pruove, e l’impunità ha coronato il delitto. La picciola selva di Collebrincioni potrebbe ancora aumentarsi di una ventina di moggia cesinate per uso di pascolo. Roio offre al nostro sguardo una collina, che serba ancora le vestigia di un bosco atto a fornire dei combustibili a quel comune, ed in parte a quello di Aquila, che in mancanza dee trarne dai lontani circondari di Tornimparte e della Forcella. Centoventi moggia nel locale detto Malpasso, altre 50 a Monteluco, ed altrettante alla selva detta di Ocre, ci darebbero un bosco di quasi novecento coppe, se non sufficiente, almeno utilissimo ai nostri bisogni. Questo espediente sì vantaggioso alla silvestre opulenza, libererebbe i sottoposti vigneti dalle correnti, che non trovando nel declivio ostacolo alcuno, scendono rovinose a deludere le più care speranze del mi-
sero agricoltore. Tempera nel locale detto S. Artizzo e presso le Fontanelle potrebbe imboschire una trentina di moggia, e difen“ La coppa è un’antica misura di superficie aquilana pari a metri quadrati (IENE
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dere così le sue canapine dalle annuali inondazioni. Assergi e Camarda, su i di cui poggi prosperano il faggio e la quercia, hanno un vuoto di sopra 120 moggia, che di anno in anno aumentasi a motivo del poco zelo col quale sono custoditi questi preziosi retaggi di quelle alpestri comuni. Circondario di S. Demetrio. In Rocca di Mezzo dentro e fuori dei boschi detti Pezza e Natella, si contano 500 moggia di terreno abbandonato e non atto che al rimboschimento, sì necessario ad un paese che, coperto di eterne nevi, rassembra un villaggio svizzero sui burroni dell’ Alpe. Il Cerreto, proprietà dell’istesso comune, ha 150 altre moggia da occuparsi, regolando la piantagione in guisa che non si venisse a fabbricare un più sicuro asilo all’assassinio, ed un nuovo tempio alla Dea Laverna”, i di cui seguaci son ben più infesti alla società di quegli albigesi, dei quali si sparse il sangue con tanto furore”, quanto appena ne merite-
rebbero questi mediterranei corsari, il flagello dei viandanti, e la desolazione delle proprietà. Rocca di Cambio nel luogo detto il Campo di S. Felice presenta al rimboschimento circa 600 moggia ora addette ad una infelice coltura. Rovere, ov’esiste un bosco denominato Selvacanuta, ha destinate al pascolo 1.500 moggia di terreno già consacrato a Vertunno®. Lasciando un migliaio di coppe per uso civico di quel comune che ha pochissimo bestiame in confronto degl’immensi pascolari, potrebbero con sommo vantaggio di quel circondario rimboschirsi 500 moggia, ossiano coppe 2.000 in circa. Fontecchio ha il Carpineto, ch’è suscettibile di un aumento di circa altre 500 moggia. Valle Oliva e Valle Corridora presso il Tione hanno mille moggia nude di vegetabili, delle quali una buona metà potrebbesi rivestire di piante di alto fusto, come sono le rimanenti. Campana ancora ha una selva che può chiamarsi un boschetto, perché di recente restaurata, ma potrebbe anche avere un aumento di cento e più moggia. S. Eusanio, privo in tutto di legna, avrebbe a rivestire di alberi la deserta © Secondo la mitologia romana la dea Laverna era la protettrice dei guadagni leciti e illeciti, ed era quindi anche la protettrice di ladri e truffatori. I luoghi a lei consacrati si trovavano in boschi oscuri e mal frequentati. ‘Gli albigesi, seguaci di una setta religiosa di origine catara diffusasi nella Francia settentrionale nel secolo XI, furono sconfitti a Muret e Tolosa in una crociata ordinata contro di loro da Innocenzo III. Il trattato di Parigi del 1229 pose fine al conflitto. 8 Vertunno o Vertumno, divinità etrusca originaria di Volsinii, era considerato il dio dei mutamenti.
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Parte prima. L'agricoltura
collina del vecchio castello, chiamata Cerro, sulla quale potrebbero prosperare le più utili piante, stante la qualità della terra vegetale, che n’è la superficie. Ciò sarebbe della maggiore importanza per quel comune ove non si usano pel fuoco che le frasche delle così dette Scazzo/le, tanto utili per le fornaci e per le arti in generale, ed anche pel minuto bestiame, che l’inverno si pasce delle loro foglie. Nelle vicinanze del Tussillo vi sono molte colline, che potrebbero rivestirsi di alberi, e la selva detta il Fu-
solo, appartenente al comune, presenta un vuoto di sopra trenta moggia, che meriterebbe un pronto riparo. Il campo di Fussio e Bussi, ove ancora esiste una selva, offre il tristo spettacolo di 300 moggia nude di ogn’indizio di vegetazione, mentre mirabilmente prospera nei contorni il faggio e la noce. Circondario di Barisciano. Barisciano, altro comune assai bi-
sognoso di combustibili, offrirebbe un centinaio di moggia a rimboschire nel locale detto Costa Cicogna, ove già di tratto in tratto si scorge qualche tenera quercia. Nell’altro detto Sambuco potrebbesi fare altrettanto. Poggio Picenza ha una selva che dovrebbe aumentarsi di circa 300 moggia, abbandonate ed inculte. Lo stesso dirò di Picenza per una ventina di moggia da destinarsi alla coltura del cerro, che mirabilmente vi prospera. In Castel del Monte la Difesa ed il Campo Imperatore offrono un vuoto di 800 moggia. S. Pio delle Camere in Ronciglione ha uno spazio di 600 moggia bastevole ad arricchire di legna quel circondario. Circondario di Capestrano. La Valle Iannucci, selva di Capestrano, ha lasciate al pascolo 1.500 moggia di terreno, che in ogni conto dovrebbero rimboschirsi onde riparare le rovinose alluvioni che da questa collina scendono a desolare i sottoposti ubertosi vigneti. Qui mi fa d’uopo osservare di passaggio, che nei fondi destinati al pascolo comunale sarebbe d’uopo disporre le piante in guisa che non si chiudesse il varco agli armenti che debbono pascolarvi, ed al sole che dee fecondarne i vegetali e teneri alimenti. A tale oggetto dovrebbero farsi a zone le novelle piantagioni, alternando una zona di alberi per tener fermo il suolo, ed una di pascolo, o di terra a coltura. Così la pastorizia e la silvestre economia sarebbero pienamente di accordo, e non congiurereb-
bero che alla pubblica utilità. In questo ricco circondario sono immensi i fondi da destinarsi a questo doppio oggetto di comune vantaggio. Carapelle nella sua selva offre uno spazio di 300 mog-
I. Gli usi del territorio
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gia. Di cento e più Castelvecchio-Carapelle. Di 500 Ofena nel campo detto Imperatore. Di 400 nelle Ville di Santa Lucia. Di 300 Calascio nella Cenziera. Di 400 Santo Stefano. Di 380 Navelli sulla Costa Pagano. Di quasi 1.000 Colle Pietro nel Vallone, e le Cese. Di 300 Civita Retenga. Di 600 Caporciano nei locali detti Rosale, Turri, e Valle S. Pietro.
Circondario fana ove ancora del pari 100 in riano Valle nei
di Acciano. Acciano ha una selva denominata Moesistono 500 moggia di vuoto. Se ne rinvengono Rocca Preturo; 50 in Beffi, ed altre 500 in Golocali Cese e Pajo; 400 in Castel Subequo nella
Valle Acciara; 500 ancora in Castel di Ieri nelle Cese, Piana, e
Fratta; 300 in Molina nella Valle Angolina; Gagliano ne presenta anche 500 moggia nella selva detta Carale, come 600 Secinaro in Serento. E 300 Castelvecchio Carapelle nella Montagna. Circondario di Pizzoli. Nel monte di Cavallari potrebbero vestirsi di querce vive 160 moggia abbandonate allo squallore ed alla furia dei venti e delle alluvioni che ne lavano rovinosamente le balze. Barete, priva in tutto di boschi, potrebbe formarne uno, ove la denominazione di Selva ne fa supporre l’antica esistenza. In Forcella potrebbero rimboschirsi 700 moggia crudelmente cesinate nei locali Cizza del Gallo, Cerreto, e Monte la Foce. Cagnano potrebbe farci invidiare la sua silvestre ricchezza, procurando il rimboschimento di 2.450 moggia destinate al pascolo di pochissimi armenti, cui 300 sarebbero al di là dei bisogni. I locali che presentano questo spazio, condannato ad un ingiusto riposo ed involontaria sterilezza, sono sopra S. Peligno, sopra la Fornace, le Fosse, il Lago e Fossa Colella, il Rosaro, Appacino, Cardeto e
Valle lunga. Sulla montagna di Cagnano e nel luogo detto Va/lestatana si veggono ancora 1.500 moggia di vuoto. Forca di Penne di Castel del Monte ne offre del pari 280 moggia. Circondario di Sassa. Scoppito sulla montagna di Cannavinola ed in S. Angelo avrebbe a rimboschire 550 moggia. Sulle montagne di Tornimparte, ove l'avidità e l’agio del facile spaccio della legna fa di continuo devastare quelle ricche selve d’onde l'Aquila trae tutti quasi i combustibili, potrebbero provvidamente ridonarsi ai Dei Silvani 2.000 moggia di terreno usurpate dalla Dea
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Parte prima. L'agricoltura
Pale”, o piuttosto manomesse dal ferro distruggitore del privato interesse. Sul monte di Rocca S. Stefano hannovi ancora 300 moggia atte a rimboschirsi. Cerasolo ed altre grandi estensioni delle montagne di Lucoli ne offrono 3.000 moggia in circa, le quali sembrano domandare il soccorso dell’uomo per ispiegare la benefica pompa della mano creatrice, e colla tremula ombra del pino e dell’abete spargere di un sacro orrore i segreti antri dell’operosa natura. Venendo ora a parlare brevemente dei boschi dei particolari esistenti in questo distretto, dirò che la Ienca, Chiarino, Porcinaro, il Vasto, e Branconi offrono uno spettacolo veramente lagrimevole per chi ha caldo il petto di amor patrio, e sente come la perdita del retaggio di cento generazioni sia irreparabile e funesta. Queste selve, che generalmente portavano la denominazione di Porcinaro e Chiarino, erano sì folte di alberi di alto fusto, e di estensioni sì grandi, che potevano somministrare il combustibile ed il legname da costruzione, con tagli regolari, all’intiero distretto dell'Aquila. La sconoscenza dei proprietari ai doni del cielo e della fortuna, e l’indiscretezza degli affittuari, ebri dell’ingordigia di Mida, li hanno furiosamente distrutti, col mettere a precaria coltura la migliore e maggior parte, lasciandone il resto senza custodia ed in balia dei vicini villaggi. Quindi cade in acconcio di entrare nella discussione di una economica opinione sul nocumento che reca all’agricoltura ed al commercio il dissodamento di tante terre montuose e superficialmente feconde, sulle quali ora in vece della quercia e del faggio, che lottavano coi venti, appena sorge una debole spiga di grano per un lustro o due, per quindi vederle cangiate in nudi scogli e sterili felciaie. È questa a mio parere la non ultima cagione dell’aumento dei prezzi del frumento, mentre delle 100 mila tomola che pria rendevano il settuplo alla falce del mietitore seminate nelle fertili pianure che presentemente si consacrano tutte al lino, al canape, al fa-
giuolo ed al granone, ora se ne supplisce la metà nell’aride vene delle montagne e delle selve dissodate, ove nei più ubertosi raccolti si ha appena il triplo della semenza, e talvolta anche meno del doppio. Ciò chiaramente importa, che impiegando il medesimo capitale nella semina, e ritraendone poi una scarsa metà di prodotti, noi ci dimostriamo men saggi di quel tetrarca evange°° Divinità romana collegata all'allevamento.
I Gl usi del territorio
IL
lico che dopo un fatal esperimento ritolse i suoi talenti da coloro che li avevano sepolti per darli a chi seppe ricavarne un luminoso profitto; ed ostinandoci a confidare le nostre speranze ad una terra ingrata, ci esponiamo a sentire vivamente l’inopia di ciò che forma la sussistenza delle nazioni. Sia ciò detto per incidente, e per dimostrare quanta follia è il credere che giovi all’agricoltura il sostituire a cento alberi mille spighe sui monti e sulle colline che il Creatore ha destinate alla vegetazione delle piante robuste e frondose, come le valli e le pianure al lussureggiar delle messi dorate e di tutti i doni di Cerere. Tornando ai boschi dei particolari, e trasandando i piccoli boschetti che hanno le denominazioni di Selva di Collemaggio, Macchia del Sasso, Macchia Mingalti, ove in totale esisterà appena un vuoto di 80 moggia, renderò un tributo di lodi al Signor Marchese de Torres per la di cui selva di San Silvestro, ch’è uno dei boschi meglio custoditi della provincia e più gelosamente conservati e ben diretti. Le selve di Vigliano presentano 100 moggia di vuoto; quelle di Rocca di Corno 240, nei locali Rascino, Valle d’Inferno e Appacino. Quella presso il Poggio Santa Maria, denominata /e Finestre, appartenente a Sante Antonelli, 50. Centoquaranta quella del Conte Carli nel comune istesso sul Colle S. Salvatore ed il Castagneto. La selva di Co/lealto presso Cagnano 500. I querceti di Collemelasco, e di S. Nicola in Tornimparte 300. Feliciara, e il Fossato di Rocca S. Stefano 200. Vallepietra di Lorenzo Galli in Secinaro 50. L’Opaco del Marchese de Torres in Pizzoli 20. Altrettanto la Madonna delle Grazie in Coppito, e 500 il pascolo denominato il Terzetto di Simeonibus in Cagnano, e 80 le due selve di Antonelli presso la Forcella, antico lor feudo. Distretto di Sulmona
Siccome questo distretto è meno bisognoso di combustibili pel di lui clima e le sue grandi foreste, così non farò che rapidamente annunciarne i vuoti, a solo oggetto che la nostra Società li conosca, e possa nelle opportune occasioni curarne la riparazione
e col più minuto dettaglio presentare al governo come in un quadro i nostri bisogni su questo articolo di siffatta importanza.
Parte prima. L'agricoltura
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moggia Popoli nel locale Montagna, e Tre Monti Nell’altro detto Morelle, e Castiglioni S. Benedetto nella Montagna In Colle Conicchio Rocca Casale sulla Montagna Pratola sull’ Orsa Pentima in S. Croce Vittorito sul Fajeto Raiano nella Valle Nella Selva dei Frati Sulla Montagna e Decontra Prezza nella Selvagrande In Sterparo Pacentro nella Selvalunga, la Difesa, ed il Morrone Canzano nei locali la Difesa, Valle della Mazza, e Ranio Nella Valle degli Arcari Campo di Giove nel locale Cerrata In $. Antonio Pettorano in Pratocupo In Pietra maggiore In Versolina e Vallelarga
In Fascia grande, e piccola In Frevano In Valle della Bozza, e Carpineto
Nella Valle delle Tagliole In Macchialonga, e Mallone Rocca Valle Oscura sul Colle Paradiso In Pratella, Macchia lunga, Fossone e Cese
Introdacqua nella Pratella, e le Rivolte Bugnara in Rosigno Anversa in Cesa di Fiore Castrovalva nella Foce Frattura nella Difesa e in Rusigno Scanno in Giardino In Fovano, e Rocca di Pantano In Presaturo e Pantano In Riumesso
800 230 140 200 800 500 400 1.000 500 600 1.300 600 300 1.300 1.100 600 500 200 20 200 80 100 130 100 100 420 200 420 780 700 100 150 260 150 700 190 70
I Gli usi del territorio
Nei Sodi
IG,
moggia
In Ferraio, e Valle Orfana In Valle di Corte e Camporotondo Nel Campo In Ciciarello e Carapete In Terratta e Precio In Pagliaccio In Cavallomorto Sul Monte e la costa detta Madonna Villalago nella Macchia di Rosa In Cesa vecchia Nella Montagna grande Nelle Mietole e Prezioso In $. Pietro e Porto Castel di Sangro nei locali Monna, Pontone, e Scodanibbio Roccacinquemiglia in Camarda e la Difesa dei Buoi Alfedena in Acquarionero In Roccasecca Nei Tartari, e Biscari In Campitelli Scontrone nei locali Morrone, Monna, e Selverina Barrea in Sorriento e Lagovivo In Vallelonga e Vallecupella In Forcacaruso e Monte Iannuzzoli In Vallefredda e la Foce Villetta nella Difesa e Tagliola Nella Macchia, Decontra, Pescolungo e la Grotta Civitella in Codacchio e Vaccanera
200 1.000 900 200 910 900 800 100 380 400 300 500 400 350 _ .-400 500 50 150 200 130 310 300 250 440 180 350 580 800
Pescocostanzo in Monte Formoso, Monte Arcaro e la Difesa
dei Buoi Roccaraso nel Fonte dell’Eremita e Monte Maiore In Tecchete, i Colli e lo Schiapparo Pietransieri in Tocco In Promiscuo Revisondoli in Sciappano, e Selva nera Ateleta nel Monte della Secina In Ascinella
1.200 500 850 400 200 1.300 700 1.400
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Parte prima. L'agricoltura
Siccome la maggior parte di questi vuoti sono addetti al pascolo, così nel rivestirli di piante dovrebbe aversi, come ho detto di sopra, l'avvertenza di disporle colle regolari distanze, in guisa che lasciassero un agiato riposo agli armenti ed un libero campo alla minuta vegetazione dell’erbe. Distretto di Avezzano
La corona dei monti che circondano il lago di Fucino interessa vivamente la forestale economia. Lasciandone perire le selve che ancora vi rimangono, e non curando il rimboschimento del resto, la Marsica sentirà altamente la penuria dei combustibili, e le acque dei monti, prive di riparo scenderanno sempreppiù furiose ad aumentare l’immenso volume di quel lago che minaccia d’ingoiare tutte quelle ubertose e ridenti pianure, ed il di cui fondo ricolmano sempreppiù le spoglie e le rovine dei monti, che le pioggie e le nevi disciolte vi trascinano e che l’industria della pesca vi aduna. Queste montagne, che rammentano la famosa selva di Angizia, di cui cantò Virgilio, erano una volta tutte coperte di alberi, e ne fanno fede i densi virgulti che or le ricoprono, e che l’avida mano dei legnaioli andrà presto ad estirpare, se una sollecita provvidenza non viene a salvarli dal totale esterminio.
Incominciando dalla montagna di Cappelle, villaggio dei Marsi, questa isolata da ponente dalla gran pianura dei memorabili campi Palentini, comincia ad inalzarsi, da mezzodì ha il piano che conduce a Capistrello, e dal settentrione quello che circonda il Fucino, cosicché da questa pendice ha principio tutta la vasta catena dei monti che fan corona al lago. In essa il terreno argil-
loso, qualche coltura che raramente vi avevano messa in opra i terrazzani, e l’essere a settentrione rivolto l’aspetto della selva, tutto avea conferito a renderla un mediocre bosco. La prematura cesinazione lo ha degradato nell’infanzia, ed ora fa mestieri del più rigoroso sistema, e del più ostinato travaglio per ricondurla alla pristina floridezza. Il monte Salviano sopra il celebratissimo emissario di Claudio Nerone, monte per l’aromatica pianta, d’on-
de ha tratto il nome, famoso come il Taigete pel dittamo, panacea dei numi, è foltamente arbustato di radici di quercie, faggi, e cerri. Coltivando questi cespugli, e rivestendo di piante un 1.000 di moggia ignude, se ne otterrebbe un ampia e ricca selva, come lo era nei tempi antichi quando la gloria dei Marsi fioriva,
I. Gli usi del territorio
DAI
e quei popoli erano formidabili per dovizia e fortezza. Le montagne di Luco, Collelongo, Trasacco, Gioia, e Ortucchio, diverranno fra poco dei nudi scogli, stante la pesca del Fucino, detta dei Mucchi, la quale ne assorbisce un’immensa quantità di legname per l’abuso smoderato che si fa dai pescatori del taglio di frasche e cespi per la pescagione, e di tavole per le barche. Le altre montagne di Pescina, Celano, Paterno, S. Polino, Albe, e
tutte quelle che riguardano il mezzodì, compreso il monte Velino, il più elevato di tutti questi Appennini, non sono che aridi scheletri, ove non si veggono che acute rupi, infecondi pascolari, e poche zolle rimosse dall’infaticabile aratro; e queste sarebbero pur tutte suscettibili di grandi piantagioni di quercie, che diverrebbero il sollievo di tante popolazioni, cui preme l’urgenza dei combustibili, e che gemono di vedere tante circostanti miniere di ricchezza in un colpevole abbandono, e di tantaleggiare', direi così, col desiderio, mentre la natura ne offre per tutto i mezzi onde appagare le voci del più urgente bisogno.
Passando alle montagne della valle di Roveto, queste che sembrano sol consacrate all'albergo delle fiere sono quasi le sole che in questa regione siano d’ogni parte rivestite di quercie, di cerri, di faggi, e di castagne. Quindi è che dai monti di Capistrello, Civitella, Canistro, Morino, Rendinara, fino a Balzorano, la Marsica trae tutte le legna che si consumano a fuoco. Queste selve sarebbero una sorgente inesausta di sussistenza pei terrazzani della valle, se lo spirito di avidità e di esuberante cesinazione non ne devastasse a parte a parte ogni angolo, e non le facesse barbaramente sboscare, per rittarne di quattro in quattro anni una sterilissima raccolta di cattivo frumento, che mal compensa la metà del travaglio impiegatovi a seminarlo e coltivarlo a braccia di uomo. Ecco in un colpo d’occhio lo stato miserabile dei boschi marsicani. Ad alcanzare la monotonia in questo distretto ho sfuggito il particolare dettaglio, considerando che qualora nella Marsica si praticassero le più alte misure di rigore per i tagli irregolari e per le cesinazioni che devastano le selve di Cappelle, Collelongo, Trasacco, Gioja, Ortucchio, e le immense foreste della valle di Roveto, e colla cooperazione del governo si stabilisse un gran bosco ' Nel senso di sottoporre al cosiddetto supplizio di Tantalo. È, secondo la leggenda, la pena di chi è impossibilitato a fruire di ciò che è alla sua portata.
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Parte prima. L'agricoltura
sulla faccia rivolta a levante del monte Salviano, ora di non altro ferace che di bussi, lecini, e di altri inutili virgulti, mentre il suo
terreno fertile e profondo potrebbe in vece educare la robusta pianta, che pasce l’animale tanto infesto a Cerere quanto caro ad Apicio!; il pino sublime, che lotta coi nembi, e l’abete, che indura il fianco alle tempeste dell'Egeo e dell’ Adria: e se infine si fondassero altre due grandi boscaglie, la prima nelle deserte montagne di Luco, e l’altra in quelle di Castelnuovo, Albe e Forme,
questa doviziosa regione sarebbe al di sopra dei bisogni anche in questo ramo, come ora lo è in ogni altro di pubblica economia. Del resto anche di questo distretto potranno minutamente rilevarsi i vuoti che presenta ciascun locale, per più sicuro informo, dal quadro generale” che io presento alla Società, e che con infinito travaglio ho compilato colle vaghe notizie che da ciascun circondario ho ritratte, onde con precisione indicarvi i disastri dei boschi di tutta questa infelice provincia e quasi a dito mostrarvi dove il governo dovrebbe stendere la sua benefica mano e riparare alla desolazione di ciò che tanto dee interessare gli abitatori dei nevosi Appennini. Distretto di Cittaducale
Il Terminello, bosco di Cittaducale, presenta un vuoto di 600
moggia. Il monte di Petescia non lungi da questo comune è stato il campo delle industri rapine di un potente fittuario che, sordo alle voci del pubblico e del privato interesse dei confocolieri"” che un giorno furono i tiranni del circondario di Cittaducale, pria che il Duca di Calabria, Roberto, nell’anno 1343 fondasse questa città, ha sboscate colla fiamma desolatrice due in tre mila moggia di una selva, che dava annualmente diecimila tomola di ghianda, | Apicio indica per tradizione l’esperto nell’arte culinaria. "Il quadro generale, che compare in appendice sotto il titolo Stato generale delle selve, e dei vuoti di esse da rimboschirsi, non è stato qui riprodotto in quanto riprende, anche se con maggior dettaglio, i dati già presenti nel testo. Riproduciamo invece la seguente Collettiva dei vuoti in moggia che compare sempre in appendice: «Aquila Solmona Avezzano Cittaducale
34.770 35.640 43.720 31.830
Totale 145.960» " Letteralmente: coloro che hanno gli stessi fuochi, ossia coloro che si approvvigionano di legna nello stesso territorio.
I. Gli usi del territorio
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e che sembrava sfidare l’ira dei secoli e delle tempeste. Il Marchese de Torres come deputato dei boschi, e come confocoliere aggregato, ne ha vanamente riclamato. Una coltura che ogni anno si dilata ne fa temere la totale rovina, e mille capre che ne pascono i virgulti ognor rinascenti ne distruggeranno per sempre la vegetazione. Farebbe d’uopo sentire le rimostranze dei confocolieri di buon senso, garantirne i diritti, ed, eliminandone il distruttore, costringerli al rimboschimento di duemila moggia miseramente
cesinate.
Cimadimonte in Cantalice offre uno spazio inculto di 700 moggia. La montagna di Lugnano ne ha 500, ed altrettante quella di Lisciano. Mozza, e Vallemara di Antrodoco 700. Rocca di Fon-
di nel locale detto Nucra 400. Il Terzzinello di Micigliano 300. Il Monte opaco della Posta 200; ed il Monte oscuro 250. Le vene di Sigillo 400. La Forcella di Lionessa 300. Camposentino, la Difesa, Casanuova, la Vallolina, il Quartulano, V Albaneto, il Capo d’acqua, la Valle Mosagna, e Santogna, tutti locali di Lionessa, 2.800
moggia. Queste denominazioni riconducono il mio pensiero sul celebrato monte Tetrico, e fanno fremere sul deperimento di uno dei più famosi boschi dell’antichità. Il Patrignone, e la Pezza di Montereale danno uno spazio di 700 moggia. Santogna, Cafasso, e Mozzano del comune istesso, altrettante. La Montagna di Fucino in Campotosto 500. I locali di Mascione barbaramente chiamati Pratovoccolo, e Difensa, 550. Il bosco di Valle Mare 400. La Va/legrande ed il Prato lungo di Borbona 1.000 moggia. Il Pinaco, e la Serra di Ammone, la Preta, e S. Egidio in Amatrice 850. Cittareale nei diversi locali di Selvarotonda, Acquasanta, Acquasozza, Valle Amara, Mandravecchia, Maciniri, Colonnella, Valle Campagna, e Pezzode 1.800. Pacino, Patinara, la Valle, la Macchialeta, i Cupelli, Quarto, Scanno, Colletocco, e Pianocavallo in Acumoli 2.550. Nel Cicolano la Montagna di Mercato 600. Il Colle Alto di
Poggioviano 400. La Macchiola di Sambuco 300. Il Quartuccio di Radicaro 50. La Selva di Fiammignano 150, e 300 le Macchie propriamente dette la Montagna di Petrella; 600 il Pago; i Colli, la Marena, Puzzillo, il Colle dei lupi, le Coste della Corte, il Pagolino e Carpineto, Burno e Castel di Burno, le Piagge, e la Duchessa, tutti
boschi desolati di Borgocollefegato, offrono un vuoto spaventevole di 3.400 moggia. Fano, S. Mauro, Fornito, Caloa, Valle del Ferro, i Valloni di Castel Menardo moggia 1.230. Il Monte di Turano, e la Grotta, selva del comune istesso 350. La Duchessa, e
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Parte prima. L'agricoltura
Cartora, in S. Anatolia 1.300. Nel Corvaro la Duchessa, Vallemara, Garamante, la Foresta, la Pozzetta, il Cerro, Casabona, e Ce-
samena, ha spoglie di vegetabili 2.650 moggia. In Spedino in Petronello, il Loglio, la Macchia Resa, la Defensa, dietro i Colli, e Trattora, 1.260. Il Monte di Poggio Valle, 1.300. Il Monte di Nesce in Pescorocchiano, 500. Le Coste e Monte Frasso presso Torre di Taglio, 200. Girgenti nelle sue macchie offre ancora 600 moggia di squallido pascolare. Qui in fine mi è d’uopo far osservare che l’estensioni superficiali riportate come atte a rimboschirsi non sono il prodotto di una misura geometrica e precisa, ma bensì di un calcolo di approssimazione fatto dalle più istruite persone dei rispettivi comuni da me interrogate. Una buona parte di esse dimensioni non è suscettibile di rimboschimento, perché contiene sassi, dirupi, voragini, letti di torrenti e difiumi, ma io ardi-
sco asserire, che quasi 80 mila moggia sarebbero in questa provincia atte a fecondare le nuove piantagioni che debbono implorarsi dalla munificenza del Monarca e Padre che Iddio ha fatto erede della virtù e dello scettro di Alfonzo, e di Carlo®. [...] In quanto al legname di alto fusto, la penuria incomincia appena, che diviene gigante. Le piantagioni e le migliorazioni sono assai lente; fa d’uopo di 150 anni per formare un gran tronco di quercia! Chi dovrebbe portare il peso di queste riparazioni, non essendo destinato a goderne, volgerà naturalmente lo sguardo ad altri oggetti di rustica economia. Lo Stato solo riunisce l’interesse, ed i mezzi di conservare e riparare le grandi foreste. Qui mi è d’uopo ripetere che la conservazione dei boschi non solo è comandata dall’imperioso bisogno di ogni specie di legname, ma benanche è indispensabile per impedire la degradazione successiva della terra vegetabile che copre il nostro globo. Quasi tutte le ampie selve s’inalzano su dei piani inclinati dalle basse colline alle più alte montagne, coronate di larici e di abeti. Le radici di questi alberi mantengono, e le foglie accrescono, la poca terra
ubertosa che la successione dei secoli ha lasciata fra gli scogli di carbonato calcareo e di granito. Ma quando questi alberi non più esistono, le pioggie, i torrenti e le tempeste seco trascinano que-
sta terra, ed i monti più non presentano che delle rocche ignude ° Si riferisce ad Alfonso (1416-1458), re di Aragona, Valenza, Sardegna, Sicilia e, dal 1442 re di Napoli, e a Carlo III di Borbone (1716-1788), re di Napoli dal 1734 al 1759.
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e ribelli ad ogni coltura, inaccessibile asilo dei voraci augelli, che l’antichità finse ministeri dell’ira dei numi, l’uno per recare il fulmine del figlio di Saturno, e l’altro per pascere il cuore immortale dell’audace prole di GiapetoP. Una delle cause della degradazione dei boschi si è la moltiplicazione delle capre. Questi animali, esterminio della vegetazione, amano a preferenza i luoghi montuosi, e saltano con agilità di scoglio in scoglio: il terreno virgulto non ha un nemico più formidabile. Non solo esse ne divorano avidamente il germe, ma il dente loro velenoso e la caustica saliva ne dissecca le piante dalle ime radici. Il primo mezzo adunque di riparare alla degradazione dei boschi sia quello di eseguire rigorosamente le nuove leggi forestali contro questo quadrupede più melefico che vantaggioso, di cui già si trascura fra noi, e si lascia perire il prezioso pelo ed il setoso crine. Se il suo latte a preferenza leggiero è necessario all’igiene, se ne conservi al bisogno la specie, ma non gli sia permesso di pascolare liberamente come ora si costuma, a divorare le siepi, custodi dei campi ed i germogli delle rinascenti selve, benché vanti nella di lui prosapia la nutrice istessa di Giove. Cercando ora i mezzi onde ripristinare le nostre selve, a me sembra che quattro ne siano i principali, che vado brevemente ad esporvi. Infelicemente i boschi della nostra provincia sono quasi tutti comunali. Pur troppo nelle cose di comune proprietà ognuno cerca di trarre a sé quanto più gli è possibile. E sempre un guadagno lo acquistar subito assai, benché l’acquisto ed il lucro vada a cessare. Allo spirito pubblico adunque, ch’empie a mille la bocca, a dieci il petto, subentri nella custodia delle selve l’interesse priva-
to, Argo di cent’occhi, e Briareo di cento braccia!® E giacché la comunalità dei boschi ne ha prodotta la distruzione, la proprietà particolare ne sia il rimedio. La censuazione delle selve fu di già consagrata dalle utili riflessioni dell’illustre Marchese Palmieri, P Saturno era una divinità romana anticamente identificata con il dio greco Crono, padre di Giove. Giapeto invece era uno dei Titani della mitologia greca, e l’audace prole a cui si fa riferimento nel testo era costituita da Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo. 9 Secondo la mitologia greca, Argo, gigante dai cento occhi, era stato messo a guardia della fanciulla Io perché Zeus, innamorato di lei, non la raggiungesse; fallito il suo compito Argo da trasformato in pavone. Briareo era invece uno dei tre Ecantochiri (cento mani) che aiutarono Zeus a sconfiggere i titani che minacciavano l'Olimpo.
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nei di cui Pensieri economici" può vedersi lo sviluppo di questa importante verità che m’induce a proporvi questo mezzo, a mio
credere efficacissimo. Il censimento dovrebbe regolarsi in guisa che della selva già adulta e robusta si lasciassero libere al consumo dei circostanti villaggi tante moggia di bosco quante ne potrebbe il bisogno dei comuni e io stato delle foreste. Ogni censuario dovrebbe obbligarsi all’annuale piantagione di un dato numero di alberi, la di cui natura dovrebbe indicarsi nel contratto, giusta i regolamenti prescritti nell’insigne opera Des semis et plantations dell’immortale Duhamel, ed a norma delle giudiziose classificazioni che trovansi nelle migliori opere forestali dei moderni, quali sono quelle di Gledigsch, di Duroy, e di Burgsdorf, di cui ci ha data una così bella traduzione Giangiacomo Baudrillart®. | Il secondo mezzo sarebbe la formazione dei nuovi boschi negl’immensi vuoti da me indicati nella prima parte di questa memoria. A quest’oggetto il governo non dovrebbe impiegare che il tenue prodotto dell’ Amministrazione delle Acque e Foreste, di-
stribuendolo ai nuovi censuari in tanti premi biennali per coloro che a preferenza avessero rivestite di piante, oltre l’obbligo del contratto, le porzioni censite che ne mancassero. Questi premi dovrebbero esuberatamente compensare la spesa della piantagione, né al governo dovrebbe rincrescere la perdita di questo ramo di rendita, insignificante alle innumerevoli di lui risorse, che, col divenire eminentemente utile all'oggetto cui ha consacrato un’amministrazione, corrisponderebbe pienamente alle mire paterne che lo diriggono nell’aumentare il deposito, che dalla nostra individuale libertà e dalle nostre sostanze pre" G. Palmieri, Pensieri economici relativi al Regno di Napoli, Flauto, Napoli JPXSTE
° Le opere a cui si fa riferimento nel testo sono, con ogni probabilità, le seguenti: H.L. Duhamel du Monceau, Des serzis et plantations des arbres, et leur
culture; ou, Méthodes pour multiplier et élever les arbres, les plantes en massifs & en avenues; former les forèts & les bois, H.L. Guerin & L.F. Delatout, Paris 1760;
J.G. Gleditsch, Systema plantarum a staminum situ. Secundum classes, ordines et genera, cum characteribus essentialibus, Haude et Spener, Berolini 1764; B. Du Roy, Nieuwe kaart van den lande van Utrecht; volgens ordre van d’Ed. Mog Heree Staten van welgemelden lande doen meten en in kaart brengen, Còvens en C. Mortier, Amsterdam [c.a. 1740]; F.A.L. Burgsdorf, Nouveau manuel forestier. Traduit sur la 4° édition de l’ouvrage allemand et adapté à notre système d’administration, par J.J. Baudrillart, 2 voll., Paris 1808.
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leviamo, onde nelle mani di un Re padre questo ci sia garante della pubblica felicità e sicurezza! Dovrebbesi ancora a vie maggiormente incoraggire l’uomo ad un travaglio che interessa meno lui stesso, che coloro che lo verranno a rimpiazzare sulla terra, e quasi a rapirgli l’esistenza, per goderne a suo luogo; dovrebbesi dico stabilire una lieve franchigia fondiaria pel benefico concittadino che avesse allevate oltre il decennio 300 piante di qualunque specie. Queste tenui partite, andando in reimposizione, lungi dall’interessare il governo, sarebbero un dolce peso per l’accorto cittadino, il quale vedrebbe così premiata l’utile virtù e cangiati i tributi in sorgenti di ricchezza ed in istromenti di successiva e perenne felicità. E le medaglie, che distinguono il mestiere dalla distruzione, perché non debbono fregiare il petto di chi professa l’arte di Trittolemo, e tratta il vomere di Cincinnato?* Se non si mette in azione l’interesse, e l’amor proprio, virtus laudatur, et alget! Altrimenti saremo nella dura circostanza dell'Inghilterra che, lasciati perire tutti i suoi boschi, è ora obbligata a bruciare esclusivamente l’insalubre carbone di terra, come delle torbe è costretta a far uso l'Olanda. Sia dunque permessa quella che il decreto organico del 20 gennaio" e Bonafide con barbaro gallicismo chiamano espletazione. Ma la direzione ne detti gelosamente le norme, e ne prescriva rigorosamente i confini. Siano rispettate le giovani selve, e come le vergini, cui fa scudo il pudore, siano desse riserbate alla maturità in cui la natura le vuole feconde. Le cesinazioni non si permettano che negli antichi boschi, che già si rivestirono cento volte del florido onore di primavera. Queste poi o si facciano lasciando i tronchi delle piante, ed allora non
prima del decorso di un decennio si debbono rinnovare, ove una volta si sono fatte, o si pratichino tagliando gli alberi dal piede ed avvalendosi ancora delle grandi radici, il che dovrebbe permettersi in pochissimi casi, ed allora, lungi dal lasciare il terreno ad
una pericolosa e vana coltura di cereali, siano desse regolate sul € Trittolemo, secondo la mitologia greca, era una divinità con insegnare l’arte di arare e seminare i campi. Cincinnato era invece romano del V sec. a.C., famoso per la capacità di alternare ad alte Stato l’attività di agricoltore. “ Il riferimento è alla legge del 20 gennaio 1811 con cui venne
l’incarico di un senatore cariche dello
creata la Direzione Generale delle Acque e Foreste. Cfr. «Bullettino delle leggi del Regno di Napoli», II semestre.
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metodo prescritto dal ch. M. Bidel, il quale esige che i vecchi tronchi cesinati si rimpiazzino senza indugio colle giovani piante del vicino vivaio che ogni bosco deve avere nel terreno più pingue e leggiero del fondo. Regolati con tal sistema i tagli, e proibitone severamente ogni altro modo, le cesinazioni cesseranno di essere il flagello delle foreste, della riproduzione dell’operosa natura.
3. Contro l'abolizione della Direzione di Acque e Foreste* [...] Noi diremo solamente che le devastazioni dei boschi suc-
cedute nei secoli precedenti sia per le vicende politiche, sia per la barbarie dei teinpi, sia per l'avidità degli uomini, han fatto cangiare aspetto alla superficie di questo Regno. Fiumi ch’erano già navigabili si veggono disseccati per mancanza di continuato e progressivo alimento. Ruscelli irrigatori che fecondavano le campagne convertiti in rovinosi torrenti per alluvioni non più ritenute dai boschi. Campagne infette da paludi occasionate dalla deviazione delle acque e dalla mancanza dei grandi vegetabili che un tempo coprivano quel suolo. Contrade desolate per difetto di alberi che poteano somministrare sufficiente riscaldamento d’inverno ed amica l’ombra nella estate.
Diciamo inoltre che il Regno sta soffrendo un commercio affatto passivo per il bisogno del legname d’ogni specie, e basta esaminare i registri delle dogane site lungo l’Adriatico onde convincersi delle immense immissioni che si fanno dall’estero nei nostri porti specialmente da Otranto sino a Manfredonia. Si faccia per approssimazione un calcolo dei carboni che si consumano nella capitale, e si troverà che siamo per questo consumo tributari dei romani, dai quali vien fatto un simile approvvisionamento, sicché si potrebbe ben dire con Geremia?: * Da Pasquale Tortora, Sulle Acque e Foreste e sul Pubblico Demanio, in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo IX, gen.-mar. 1821 (A. Trani, Napoli), pp. 227-235.
Geremia, secondo dei profeti maggiori dell’Antico Testamento, nacque verso il 650 a.C. e, secondo la tradizione, morì lapidato dagli ebrei in Egitto.
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Ligna nostra praetio comparavimus.
E tutto ciò non deve egli attribuirsi alla scarsezza dei nostri boschi, alla poca cura che n’ebbero i nostri avi, ed alla smania nei tempi meno remoti di dissodarli, onde metterli a coltura per l’avidità del lucro momentaneo e passaggiero? «È nemico dello Stato e della Patria colui il quale propone la libertà di disboscare i terreni» esclama il Gautieri?, nella scienza e nella economia forestale maestro. Eppure è meraviglioso il sentirsi che nel 1821 presso un governo costituzionale in cui il pubblico interesse è l’oggetto principale ed unico della legislazione, si voglia accordare ampia facoltà ai particolari di usar liberamente dei propri boschi, e di abusarne, tagliandoli ad arbitrio e dissodandoli, sotto l’ingannevole prestigio ed il vano pretesto di non doversi inceppare la libertà di usare ed abusare dei propri fondi, né impedire la libera disposizione dei propri beni, senza ricordarsi o riflettere con Beccaria° che la proprietà è figlia primogenita e non già madre della società, e che quindi l’individuo di uno Stato, qualunque ei siasi, non può avere dei suoi boschi che l’uso. Ed è più meraviglioso che si voglia abolire quell’istituto forestale che le più culte nazioni, profittando dei lumi del secolo, delle utili scoperte, dei provvidi miglioramenti, e delle dotte invenzioni, e coprendo d’obblio l'ignoranza dei tempi andati, hanno concordemente adottato; quell’istituto di cui i governi i più illuminati non han saputo trovar di meglio affidandone e commettendone l’esecuzione ad un corpo facoltativo di persone intelligenti colla dipendenza organica fra di loro, e tutt’insieme da un solo capo; istituto consigliato ed imposto dall’economia politica, dalla giustizia, dall’umanità; istituto che lungi dal nuocere alle stesse proprietà particolari, le sorveglia e le conserva, e solamente si oppone ai tagli inconsiderati, all’intemperanza dei tagli, ed ai rovinosi dissodamenti.
Tralasciando di considerare l’esistenza e conservazione dei boschi sotto l'aspetto dei vantaggi finanzieri e sotto i rapporti col b Si riferisce a Giuseppe Gautieri (1769-1833), autore tra l’altro di: Nozioni elementari sui boschi ad uso degl’impiegati de’ boschi, Milano 1812, e di Dell’influsso de’ boschi sullo stato fisico de’ paesi e sulla prosperità delle nazioni, Milano 1814.
© Cesare Beccaria, giurista ed economista (Milano 1738-1794). Famoso per il saggio Dei delitti e delle pene pubblicato per la prima volta nel 1764.
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commercio e colle arti, conchiudiamo che si potrebbe piuttosto immaginare un metodo da compensare i proprietari dei boschi ed incoraggiarli sia con premi, sia con alleggerimento di pesi in proporzione dei piccoli sacrifici che il bene pubblico esige dal loro privato interesse, col limitare la loro funesta libertà del disboscamento, e coll’assoggettarli ad una sorveglianza governativa che ne freni la licenza e ne regoli con saggi metodi l’uso, opponendosi soltanto all’abuso. Nemmeno pretendiamo che i terreni destinati all’agricoltura si ricoprano di selve, e che qualche porzione delle medesime, quando fosse opportuno, non sia ceduta per dissodarsi; ma sosteniamo che la piantagione ed il taglio, lungi dall’abbandonarsi all’arbitrio particolare, debba essere unicamente ed esclusivamente affidato ad un’autorità governativa e speciale, la quale consultando le leggi e i regolamenti, il bene pubblico o il male, la quantità, la qualità, e la situazione, l’auto-
rizzi o l’impedisca. La decisione del 28 gennaio” per la precipitanza con cui nacque e si emanò, non diede luogo all’importante discettazione di simili oggetti, e sciolse il freno al già conosciuto furore della devastazione e del dissodamento. Ben presto scomparirebbero dalla superficie del Regno 1.159.006 moggia quadrate di boschi, quante sono quelle che attualmente appartengono ai privati, indipendentemente da quelli delle comuni, dei pubblici stabilimenti già posti sotto il buon piacere dei corpi municipali (ciò che fa inorridire al solo pensarlo), qualora sventuratamente venisse sanzionata. Quindi le pubbliche speranze e la fortuna della presente e della futura età sono rivolte alla provvidente saggezza del consiglio dei Seniori ed all’amore patrio del Principe, cui diciamo anche noi con Zwierlein che «immortali saranno quei reggenti i quali sapranno condurre alla sua perfezione l'economia dei boschi». Si è creduto portar qualche riparo all’immensità del danno colle due eccezioni contenute nell’articolo 6 della risoluzione, nella quale si è proibito il dissodamento dei boschi siti nel pendio delle montagne e colline all’inclinazione al di sopra dei 15 gradi, e di quelli siti lungo le riviere. Dunque si potranno impunemente distruggere tutti gli altri che sono nelle pianure o su le colline ad “ Il 28 gennaio 1820 il Parlamento costituzionale propose l’abolizione delI’Amministrazione di Acque e Foreste, ed inoltre l’unione dell’ Amministrazione del Demanio pubblico con quella del Registro e Bollo.
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una inclinazione sino ai 15 gradi. Ma è appunto su di ciò che stimiamo necessario richiamare un poco le idee non molto esatte che se ne hanno. Si percorrano di grazia i quadri statistici dei nostri boschi. I migliori che abbiamo sono appunto nelle pianure e su i colli ad un’inclinazione spesso minore dei 15 gradi. A farsene un’idea generale scorriamo col pensiero le provincie del Regno. La Puglia per esempio, privata dei boschi di Bovino, dell’Incoronata, di Giardinetto, di Tremoleto, etc. come potrebbe esistere? Già, non
ostante i boschi attuali, manca giornalmente il bisognevole per gli usi del popolo, e si è ivi costretti fino a servirsi dello sterco bovino onde cuocere un cattivo pane. Se la Peucezia arrivasse a mancare dei boschi di Gioja, di Acquaviva, di Grumo, e di altri pochi, non basterebbe la stessa distruzione dei suoi oliveti e frutteti a provvederla del combustibile. Così del Salentino, poiché tutta quella ferace estensione di terreni non presenta che boschi alla pianura ed in siti assai al di sotto dell’inclinazione di 15 gradi, e la più gran parte di proprietà particolare. Pare similmente che in questo articolo si avesse avuto di mira di evitare gli scoscendimenti delle montagne senza curarsi di altro. Ma tutt’i più celebri autori appena si azzardano di opinare che una inclinazione di soli 10 gradi possa far evitare, generalmente parlando, gli sconscendimenti dietro il dissodamento dei boschi. Inoltre è sempre una grave imprudenza in fisica ed in legislazione il fissare per punto generale un’inclinazione qualunque, e sopra tutto quando se ne determina una maggiore di 10 gradi; perché la costruzione dei monti nei loro strati superiori è varia, per cui in alcuni si ha lo scoscendimento ad una elevazione maggiore ed in altri ad una minore; e per conseguenza è inevitabile che una tutela legale esamini le circostanze particolari, e faccia singolari prescrizioni in ogni caso diverso. In fine consultando la storia patria è facile il rilevarne che la massima parte dei boschi nelle alte montagne fu distrutta in quei secoli in cui le tante invasioni sofferte da questo Regno, scacciando le spaventate popolazioni dalle pianure, fecero rifuggirle su quegli alpestri asili. E da ciò si spiega perché sulle calve cime dei monti si veggono dei paesi, e sulle loro vette orti e giardini; e per conseguenza i pochi boschi rimasti, o vegetano sul piano, o sulle colline di piccola elevazione. Chi conosce il vallo di Bovino si farà chiara
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quest'idea, e più chiara sarà a colui che ha percorso il Gargano, l’antica Magna Grecia, e gli stessi Abruzzi. Oltre a ciò bisogna riflettere che quei boschi che ancora esistono sulle alte montagne non solo sono pochi, ma poco ancora possono supplire ai bisogni della vita, e sopra tutto alla marina mercantile e militare, al genio ed alle arti; anzi saranno affatto inutili agli usi della società. Noi non abbiamo strade carrettabili, né canali di abbassamento, né fiumi galleggiabili da mandar giù il legname col favore delle acque. Quindi le popolazioni, non potendo far uso del legname esistente sulle montagne inaccessibili, o accessibili solamente con gravissima spesa, saranno obbligate o ad emigrare, o a far venire il legname da lontani paesi con danno pubblico e privato, e con restare eternamente inutili i boschi superstiti sulle cime dei monti. Gli animali resteranno privi di pascolo nella stagione estiva, e non potendo andar a trovarlo in luoghi dirupati, uopo è che ne soffrano estremamente, o che si debba restringere questo ramo profittevole e necessario d’industria nazionale. L'agricoltura, non avendo pronta e facile la provvista del legname indispensabile per la costruzione e riparazione degli strumenti campestri, deve soffrire insieme colla pastorizia un avvilimento pernicioso. Le costruzioni tanto civili quanto militari e marittime, non trovando a provvedersi per i loro bisogni dai boschi siti o a livello del mare o almeno sulla pianura, saranno forzate ricorrere all’estero per averne. La mente rifugge ad una immagine così spaventevole! Ci fa solamente coraggio (e se l’augurano tutt’i buoni) che l’augusto Principe Reggente, che ama la nazione e conosce l’economia selvana, assistito dalle sagge meditazioni degli ottimi consiglieri di Stato opporrà alla poco meditata risoluzione il veto della ragione, e sosterrà l’amministrazione delle foreste, delle quali, chiunque ne sia il proprietario, l’esistenza e conservazione è tutta di pubblico dritto. Già grave ferita si è fatta sin dal 25 ottobre dell’anno scorso quando ebbe luogo la prima mozione per l’abolizione dell'istituzione forestale, e coll’averne differita la discussione sino al 28 gennaio ultimo. Già le voci sparse nelle provincie hanno incoraggiato nel decorso di un tempo così lungo i nemici e i devastatori dei boschi ad abbatterli e distruggerli a
man franca. Che sarebbe se si permettesse che, mercé la imma-
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tura risoluzione, venisse tolto ogni freno e si lasciasse libero lo slancio alla devastazione? Se l’attuale legge o sistema forestale ha bisogno di riforma, che si riformi pure. Se la riforma riguardo ai boschi dei privati cittadini si voglia in un senso più liberale, si faccia pure, non senza però considerar bene la legge attualmente in vigore, in forza della quale il dritto dei privati proprietari è rispettato poiché la custodia dei loro boschi è affidata ai guardiani da essi medesimi nominati e posti, e l’uso dei terreni e dei prodotti è per essi libero affatto, non riservandosi alla direzione generale che la sola sorveglianza e tutela per la regolarità e la moderazione dei tagli. Però riguardo ai boschi dei comuni, dei pubblici stabilimenti, e dei corpi morali, perché i temporanei amministratori usuari potrebbero essere per veduta di passaggiera comodità o di momentaneo interesse i più fieri nemici dei boschi, la riforma dovrebbe essere in senso di maggior rigore. La storia di tutti i tempi per tutte le nazioni del mondo, e l’esame delle nostre antiche leggi fino al bando del 1759“ sono, in quanto a noi, la prova di quel che abbiamo su questo proposito accennato. [...]
4. Il conflitto agricoltura-pastorizia* La pastorizia e l’agricoltura si sono riconosciute per l’esperienza di tutti i tempi due arti alleate al comodo dell’uomo, al progresso della società. Sono due sorgenti di bene, che somministrano gli elementi primi e più solidi alla prosperità delle nazioni. Dissimo due arti alleate, perché bisogna combinarle in una maniera avveduta, acciò si secondino a vicenda; altrimenti l’una
l’altra distrugge. © Con questo bando, analogamente a quelli che lo precedettero nel 1735, 1749 e 1752, si tentava di impedire che boschi e foreste subissero l’opera di devastazione. In particolare si vietava di cesinare, ossia di tagliare, quelle foreste che fornivano legname per costruzioni, e di mettere a coltura i boschi cedui. Cfr. Bando da parte della prefata Maestà e del suo Tribunale della Regia Camera, in L. Giustiniani, Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli, Napoli 1804, Prammatica III di quelle raccolte sotto il titolo De incisione arborum, pp. 190-195. * Da Paolo Nicola Giampaolo, Lezioni di agricoltura, Parte IV, Parlasi de’ prati, e del loro governo: degli animali che hanno un più immediato rapporto al buon andamento dell'agricoltura: e del modo migliore di nutrirli e conservarli sani, Lezione I, Vedute generali sulla Pastorizia del Regno di Napoli, G. De Bonis, Napoli 1820, PPS
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Che sarebbe in fatti la sola pastorizia divisa dall’agricoltura? Una occupazione di Tartari, quella di trascorrer la terra per impoverirla. E l’agricoltura che diverrebbe essa mai senza l’armento? Un lavoro penoso con pochi e ben infelici risultamenti. Chi non sa che la maggiore fertilità del terreno dipende in gran parte dalle correzioni che gli si danno? Cioè dal numero dei lavori opportunamente eseguiti, dagl’ingrassi ripartiti convenientemente; ciò che si ottiene col solo soccorso delle bestie. Esse assiston l’uomo nei travagli più penosi, esse lo arricchiscono di abbondanti letami. Invano altrimenti s’annaffia la terra col sudore degli agricoltori troppo deboli a vincere la sua durezza, ed a rinfrancarla di quei principi nutritivi dei quali la continuata vegetazione la impoverisce.
Le bestie per contrario, per esser utili, conviene che sieno ben nutrite, che non manchino di foraggio in tutti tempi; ciò che solo può somministrare un’avveduta coltivazione, avvicendata di erbe proficue. Così gli animali si moltiplicano in proporzione dei mezzi che appresta loro l'agricoltura; ed essi rivolgono la loro fatica, il loro deposito a vantaggio della terra. Or la nostra agricoltura è ben infelice sotto di questo rapporto, mentre manchiamo di bestie convenienti a sostenerla; e ne mancheremo fin che durerà il sistema di una pastura girovaga: fin che saranno nutrite di soli prodotti spontanei della terra, e pasciute senza metodo. Quando poche famiglie erravano sulla superficie del globo alla testa delle loro mandre, quando ritraevamo da esse quasi tutto il loro sostentamento, potevamo scotrerla ad arbitrio, profittando dei doni spontanei che in abbondanza offeriva. Ma poiché gli uomini si moltiplicarono, e conobbero il bisogno di riunirsi, avere delle sedi stabili, fissare delle proprietà, arginare i campi, attendere alla coltivazione di essi per la necessaria sussistenza, è agire in contradizione di tutt’i principi della buona economia il continuare il metodo d’una girovaga pastura. Chi non conosce le conseguenze funeste di questo sistema? Una terra calpestata dall’armento nelle varie stagioni dell’anno, specialmente allorché trovasi inumidita, si assoda, s’indurta in
modo da divenire restia ad una felice vegetazione. L'animale guasta più col piede, che non consuma colla bocca. Una vacca, la quale liberamente pascola di primavera in un prato, guasta col piede tre e quattro volte dippiù d’erbe, che non ne mangia. L’er-
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be annuali contrariate nella loro vegetazione, che non si lascian granire, non posson più riprodursi; e le vivaci, pelate continuamente, s’intristiscono per gradi fino a perire. L’esperienza ci mostra che se si tronchino i teneri germogli di una ceppaia appena spuntano, se più e più volte ripetasi un simile taglio, se ne contrista, il collo delle radici indura, si ostruiscono i canali del succo, e la vegetazione viene quasi ad estinguersi. Lo stesso possiam dire dell’erbe vivaci. Quindi l’animale in tali luoghi è costretto a trascorrere molto spazio per raccogliere in tutto il giorno pochi fili d’erba sparsi qua e là, che non giungono a fare la metà del suo necessario nutrimento; e magro e sparuto annunzia il risultato infelice di tale pastura. Pure questo metodo di nutrire l’armento è il solo che noi conosciamo, ed è la ragione per cui le terre non sono bonificate come conviene, e le industrie degli animali riescono poco profittevoli. Quindi con istupore vediamo nelle regioni di Cerere, e di Pane aver bisogno talora dei grani esteri, e sempre dei formaggi che tiriamo dalla Sardegna, dalla Svizzera, dall'Olanda, etc.!. Manchiamo di buone lane per la fabbrica di panni fini; e sono immense le somme le quali si erogano per l'immissione del coriame che si fa dall’estero. Tenaci dei nostri vecchi stabilimenti, sosteniamo ancora il
sistema del Tavoliere, che può dirsi l’invenzione più strana e bizzarra che immaginar si possa in una nazione colta. E la pastorizia dei popoli barbari: è quella che ebbe luogo nell’infanzia delle società. Perpetuarla ora che sono adulte, è un dichiararsi barbari o fanciulli. Essa è che inceppa l’agricoltura, il metodo dell’avvicendamento delle terre, la propagazione degli alberi, il progresso delle popolazioni; e la nostra Puglia n’è un esempio parlante. Pure questo sistema così rovinoso alla pubblica economia si è 1 Il Sig. Conte Dandolo, nella sua ultima opera Sulle cause dell’avvilimento delle nostre granaglie, calcola che in un anno tra il 1816 a 17 s’introdussero dal Mar Nero nel Mediterraneo, nell'Adriatico, e per sino nell'oceano duemila navi cariche di granaglie, portanti sopra i quattro milioni di moggi milanesi, che corrispondono circa alli otto dei nostri, i quali ad un valore medio di 30 lire a moggio, formano cento venti milioni di lire, senza tener conto dei profitti dei commercianti. ? Col nome di Tavoliere è indicata un’estensione di terra nella nostra Puglia di 15.600 carri addetta all’uso del pascolo. Il carro è di 20 versure, la versura di tre moggi. Il moggio pugliese si compone di 1.200 passi quadrati; il passo la millesima parte del miglio italiano.
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creduto il capo d’opera dei Romani e della sapienza di Alfonso di Aragona, che per secoli si è guardato con quel rispetto con cui guardansi i vecchi pregiudizi, senza ardire di chiamarli ad esame. Un celebre nostro economista, il Sig. Marchese Palmieri, nei suoi Pensieri economici osò di chiamarlo ad esame, e dimostrò quanto sia contrario ai principi della buona pastura, quanto al buon andamento della coltivazione delle terre, all’interesse del fisco, e dei privati. [...] Questa pastura vaga, tanto rovinosa per le fertili pianure della Puglia, non lo è meno per le altre nostre campagne. La massa dei beni comunali, questo risultato del governo feudale, e dell’epoca di barbarie, di spopolazione e di miseria, quando l’uomo, abbandonando ogni utile travaglio, si fissava qua e là da pastore, godendo dei doni spontanei della terra; questa massa, dico, è quella che più potentemente ha sostenuta la pastura vaga. Lasciate tante terre all’uso promiscuo dei cittadini, se ne consumava il prodotto col pascervi gli animali in ogni tempo senz'altro profitto. Mercé le savie leggi della divisione dei demani, una gran parte si è già divisa in quote, e data ad enfiteusi alla classe più povera dei cittadini. Sono rientrate tali terre nel sistema delle proprietà private e di una regolare coltura. Pure di questa misura di pubblica economia, che poteva slanciarci verso un avvenire migliore, e restringere o toglier anche una pastura vaga e mal combinata, non ha prodotto tutto quel bene che si sperava sotto questo rapporto. Molte terre ancora rimangono, che sono state riputate inca-
paci di coltura. Ma qual fondo non è suscettibile di una qualche coltivazione? Una quantità di quote furono anche rifiutate dai poveri contadini spaventati dalla gravezza del canone, che qualche commissario divisore credé conveniente d’imporvi per accrescere una male intesa rendita comunale, con quell’argomento certamente di pessima logica, che bisogna gravare gli agricoltori per obbligarli a far che la terra renda tanto più, senza pensare che questo sia il mezzo di fare odiare la terra e la fatica. Rimasta questa porzione di beni all'uso comune, più che mai si gareggia dagli armentisti in conquistarla, in abusarne. Non si è preso l’espediente neppure di migliorare i fondi divisi con delle piantagioni,
con dei prati artifiziali, coll’aumentare l’erbe proficue all’uso degli animali. Si voglion sostenere le stesse industrie, senza pro-
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porzionarle ai mezzi: quindi le violenze, i danneggiamenti son divenuti più frequenti. Il diritto che crede avere il cittadino di portarsi senza riserba a far uso dei pascoli comunali, ed abusarne ancora, gli empie l’animo di una falsa idea di libertà, lo dispone alla licenza; e quando non abbia che distruggere sul fondo comune, passa senza ritegno a danneggiare gli altrui possessi; e la buona fede, la lealtà, la morale vanno sempre più perdendo il loro impero. [...]
5. Crollo dei prezzi ed effetti economici* [...] Gli abitanti di questo Regno essendo tutti agricoli, sono i prodotti dell’agricoltura che ne formano la risorsa e vi mantengono l'abbondanza. I cereali, i vini, l’olio, le lane sono stati 0g-
getti di un attivo commercio con gli altri Stati, e lo spaccio di tali derrate ne aumentava i prezzi. Così il proprietario affittava vantaggiosamente le terre, i coloni s’impegnavano in grandi colture, i bracciali erano ricercati e ben pagati, il commercio era in attività, ed il numerario circolava dappertutto. Ma le vicende dell'Europa, il sistema continentale che per più anni arrestò il commercio*, occasionarono nelle vedute economiche di diverse contrade gravi variazioni, e si procurò di porre a profitto le risorse del proprio suolo per sottrarsi al bisogno di ricavare le derrate del nostro Regno. Mentre questo danno si preparava al Regno medesimo, si era abbagliato dal successo della coltura dei cotoni, il di cui commercio, quasi privativo per le circostanze dell’accennato patto continentale, offriva ricche risorse a tutte le classi nell’atto che si confermava la verità che il solo spaccio dei prodotti delle terre è il mezzo della prosperità delle popolazioni. Cessate le ricerche ed il commercio attivo dei prodotti delle * Rapporto dell’Intendente della provincia di Principato Citeriore al Direttore del Ministero della Polizia Generale. Duplicato per intelligenza di S.E. il Ministro Segretario degli Affari Interni, manoscritto datato 17 agosto 1824, in Archivio di Stato di Napoli, Ministero Interni, II inventario, fascio 450. è Con «sistema continentale» o «blocco continentale», si fa riferimento alle misure adottate nel 1806 da Napoleone, che prevedevano, in risposta alle analoghe iniziative prese in precedenza dall’Inghilterra, il divieto di commercio della Francia e dei suoi alleati, compreso il Regno di Napoli, con le Isole Britanniche.
38
Parte prima. L'agricoltura
terre, i prezzi delle derrate hanno avuto un ribasso enorme, e restan desse nei magazzini ad onta del vile prezzo che ne regola la vendita. Non fanno più oggetto alle speculazioni, il commercio relativo non offre risultati, i capitali soliti ad impiegarvisi sono ritirati, ed il numerario cessa di circolare. Conseguentemente i proprietari non riscuotono gli estagli dei loro terreni, i coloni veggono fallita la loro industria, e coloro che vivono col lavoro delle braccia non trovano facilmente ad impiegarlo o cominciano a riceverne minor mercede. Quindi il proprietario che vede minorate le sue rendite pensa a pagare i pubblici pesi ed a sussistere, e riseca sul lusso e sulle spese superflue. I piccioli proprietari avendo meno di spese riducibili, sono in maggiore disquilibrio. I coloni delusi nelle speculazioni agricole non più intraprendono grandi colture. I braccianti trovano meno ad impiegarsi. Tutte queste circostanze influiscono sulle arti e manifatture che hanno spaccio assai minore. La mano d’opera languisce, e la mercede degli operari va ad abbassarsi. Son queste le cagioni della miseria pubblica, e non si debba ricercarle nella depravazione morale, dappoiché si vive moderatamente, non predominano giuochi d’azzardo, non si osservano vizi dissipatori. Quale sia il grado cui la pubblica miseria si eleva, quali classi della popolazione maggiormente ne sono colpite, credo che possa definirsi come segue. I ricchi e principali proprietari di terre, nello stato attuale di
cose non soffrono che una diminuzione di rendite. Essi non sono ancora colpiti né da miseria, né da indigenza. I bracciali sono nella condizione meno deplorabile. Senza pesi, con pochi bisogni, comprando a tenuissimo prezzo tutti i generi di prima necessità esigendo dal loro lavoro quasi la solita non scarsa mercede, non risentono né povertà, né miseria.
I piccioli proprietari ed i coloni, classe la più numerosa, son quelli che già sono ammiseriti. I loro generi ristagnano inoperosi o sono venduti stentatamente a prezzi vilissimi. L’avvenire sarà per loro sempre più tristo: inabilitati negli anni sussecutivi a continuarne la coltura, le terre resteranno abbandonate, e la miseria si aumenterà. Trascineranno nella indigenza i bracciali; costoro
che vivono a spese dei coloni, questi falliti, resteranno inoperosi. Nei comuni marittimi, dove un commercio esiste, ed è basato
I. Gli usi del territorio
59,
sopra industrie locali, le popolazioni si trovano in condizione migliore. La mendicità aumentata non è una contraddizione a quanto ho asserito. Essa non è una misura esatta della miseria. La facilità di sussistere con pochi mezzi determina gli oziosi ad andar accattando in vece di lavorare, dappoiché pochi soldi bastano a soddisfare i bisogni della vita. Mentre pel momento vi è da rassicurarsi relativamente al vero grado della miseria delle popolazioni, deve riflettersi che le circostanze attuali progrediscono, avvilendosi ancor più l’agricoltura ed il commercio, si anderà rapidamente incontro alla miseria generale, che non ancora ci aggrava. Comunque possi meritare la sua compiacente adesione l’aggregato di queste poche linee, su di un oggetto non di lieve importanza, la prego ad essere convinto che è il risultato delle osservazioni, scevre al più che è possibile di pregiudizio, e di deferenza, per la voce di miseria che da tutti i lati con esagerazione si eleva?.
5 Nella risposta del Ministro degli Interni del 20 agosto 1824, contenuta nello stesso fascio, si legge: «La causa del ristagno dei nostri prodotti non è accidentale, ma proviene dai sistemi adottati dalle altre nazioni. Questo apparisce chiaro dall’espresse proibizioni che li principali governi di Europa han fatte della immissione dei generi esteri. Continuando dunque presso di noi lo stesso sistema di semina e di coltura, e ristagnando sempre i prodotti, si giungerà tra poco al punto che sarà totalmente "aaa la coltivazione delle terre, e per mancanza dei mezzi, e per la inutilità dei prodotti. Quindi prima che si giunga a questo stato converrebbe conoscersi, provincia per provincia, quali cambiamenti
sarebbe utile di adottarsi; se, per esempio, aumentare la pastorizia, giacché si osserva ancora una grande immissione di caci esteri; se aumentarsi la semina del cotone, poichè anche di questa ne viene parte dall'estero. In somma vedere d’introdurvi, o aumentare la produzione di quello di cui, o manchiamo e siamo suscettibili di produrre, o non ne albbia]mo a sufficienza. Queste non sono cose che si possono prescrivere forzosamente, ma per via di insinuazioni; per mezzo delle persone più accreditate della provincia potrebbero man mano farsi comprendere ai proprietari principali, o ai coloni. Bastaché da taluni se ne dia l'esempio; l’utile riportato da questi spingerà spontaneamente gli altri».
II RCONTESTETOCARI
1. Le province di Napoli e Terra di Lavoro* [...] Queste due provincie hanno portato in vari tempi il nome di Campi Laborini, di Campi Flegrei, di Campagna Felice, e di Terra di Lavoro. Quella che oggi appellasi provincia di Napoli non è che uno smembramento dell’antica con qualche territorio che apparteneva al Principato Citeriore. [...] La contrada che racchiude il distretto di Gaeta è tutta montuosa nell’interno, ed è tutta piana presso il mare ai lati del Garigliano e del lago di Fondi. Il suolo che siavi il più ferace di ogni sorta di vettovaglie è quello di Carinola e di Mondragone. Lo è meno l’altro di Fondi, il quale è tutto sottoposto alle acque che nell’inverno e nella primavera inondano più di 10.000 moggi. Se ne disseccano in giugno e luglio circa 6.000 che si seminano a granone e a fagiuoli, e che spesso sono distrutti dalle piogge. Da per ogni dove coltivansi a preferenza gli olivi e le viti. La delicatezza dei loro prodotti è abbastanza lodata dai poeti di Roma antica. La costiera, più d’ogn’altro luogo, abbonda di frutti squisiti, e specialmente di agrumi, di carrube e di melagrana. La coltura dei bachi da seta vi è molto estesa. La carne e i latticini vi sono eccellenti. La caccia vi è copiosa, e la pesca immensa. Sebbene la contrada del distretto di Sora sia molto ingombrata da monti, da colline, da balze, da pendici, da sassi, da valli * Da [Giuseppe del Rel, Calendario per l’anno comune 1819. Colla giunta di copiose notizie intorno allo stato fisico, storico, politico, amministrativo ed industria-
le de’ Reali domini al di qua del Faro, Stamperia del Giornale del Regno delle due Sicilie, Napoli s.d., pp. 71, 86-90, 94-96.
42
Parte prima. L'agricoltura
e da boschi, pure vanta le sue particolari bellezze, i suoi grani, granoni, biade e legumi, i suoi vini, i suoi oli, le sue frutta, i suoi
ortaggi, le sue canapi e le sue sete. I fiumi e i rivi che la bagnano, danno dei molti pesci; e i luoghi montuosi dei molti volatili e quadrupedi. Il Matese a settentrione, il Taburno a levante e i Tifati a mezzogiorno dominano la contrada del distretto di Piedimonte. Le terre che trovansi tra questi monti, bagnate dal Volturno, dal Torano, dal Calore e dall’Isclero, producono molta quantità di vettovaglie e di legumi. I loro oli sono in molta riputazione; i loro vini sono delicati, ma ne ha l’eccellenza il così detto Pellagrello di Piedimonte. I oe frutti sono abbondanti e saporosi; i fiumi e i torrenti contengono ricca pesca; il luogo della Spizosa racchiude, più d’ogn’altro, molta cacciagione. Non poche pianure sono racchiuse nella vasta estensione dei distretti di Capua, di Nola, di Casoria, di Napoli, e di Castellamare. Verso la parte orientale di S. Agata dei Goti apresi la pianura di Caserta e di Maddaloni, che a levante comunica con quella di Capua, e a mezzogiorno coll’altra dell’ Acerra. La prima si estende a settentrione sino alle colline di Roccamonfina, a mez-
zogiorno sino al mare, e a levante sino alla pianura di Aversa e di Nola; la seconda s’insinua a levante tra i monti ove è situato Arienzo, prendendo il nome di Valle Caudina, s’inoltra a ponente nelle terre di Nola, e si prolunga a mezzogiorno sino alla base del monte di Somma e del Vesuvio. Questa è tutta circoscritta da pianure che verso settentrione e ponente giungono sino a Palma, verso mezzogiorno sino a Castellamare, e verso ponente sino a Napoli, nelle cui alture orientali e settentrionali havvi un piano
che confina coll’agro aversano, e che conduce alla contrada di Pozzuoli. Napoli, capitale del Regno, unica nell'Europa per la dolcezza del clima, per la serenità del cielo, e per la fertilità del suolo, è situata in forma d’anfiteatro parte in piano, parte in collina. È cinta a ponente dalla collina di Posilipo, a settentrione da quelle di Sammartino, Capodimonte e Capodichino, a levante dal pla-
cido Sebeto quanto ricco d’onor, povero d’onde, € a mezzogiorno dalle rive del mare che vi forma un golfo, in cui sono l’isole di Procida, d’Ischia e di Capri, comprese tra il capo Miseno e la punta della Campanella. Pare che le divinità inventate dall’ingegnosa immaginazione
II. I contesti locali
43
dei poeti, per esprimere la fertilità della prodiga natura, siano tutte concorse ad arricchire le percorse pianure. Le loro terre, proprie ad ogni genere di vegetabili, non riposano mai. La mano dell’uomo v’impiega sempre il più bello ed il più utile della coltura; ed in premio ne riceve due raccolte l’anno. Più che altrove, il terreno dei contorni di Napoli è oppresso tutto l’anno da un eccesso di piante ortalizie, l’une succedendo all’altre senza intervallo. La vegetazione non vi è mai interrotta dalla più fredda stagione d’inverno; ch’anzi è sempre anticipata di molti giorni, specialmente in Pozzuoli ed Ischia, ove le viscere della terra sono animate da un perpetuo calore. Il grano è la derrata che si semina a preferenza e a profusione nell’agro campano, aversano, nolano, e nei casali di Napoli. Il suo prodotto è vario secondo la natura delle terre. Generale è la coltivazione del granone. Il suo maggior o minor ricolto influisce sempre sul prezzo del grano. I legumi, le biade, il lino, il canape occupano molte terre. Soprabbondanti sono le frutta d’ogni sorta in tutte le tenute e in tutti i giardini; ed immensi sono gli agrumi in Sorrento, in Arienzo, in Napoli. I bachi da seta coltivansi in tutti i luoghi, e in particolar modo nell’agro nolano, in Sorrento e nelle vicinanze di Napoli. Le cure per essi sono compensate abbastanza dalla triplice raccolta annuale, e dalla qualità del genere. Il tabacco, che faceva un tempo estraregnare ingenti somme, vedesi piantato in molte parti delle pianure di Terra di Lavoro. Gran pregio hanno gli oli delle colline orientali dei Tifati, di Avella, di Roccarainola, di Cicala, d’Arienzo, di Sorrento, di Vico Equense; non così i loro vini a fronte dei migliori di Ottaviano, di Somma, della Torre del Greco, della Torre dell’ Annunziata, di Gragnano, di Posilipo, di Pozzuoli, di Procida, d’Ischia e di Capri. Gli altri che si fanno altrove, non sono che leggieri o agretti come nell’agro campano e aversano, ove i pioppi e gli olmi presentano un prospetto di tre o quattr’ordini di viti. L’erbe odorifere di Sorrento e di Massa, e i pascoli copiosi dei piani di Capua, di Aversa, di Nola e di non pochi luoghi, rendono delicati i latticini, squisita la carne. Armenti di bovi e di bufali, razze di cavalli e di giumente errano nei così detti Mazzoni di Capua, e nei Regi Lagni. Le pianure e i monti racchiudono una caccia abbondante; i fiumi, i laghi di Patria, di Licola, del Fusaro, ed il mare, una pesca inesausta. Caserta, S. Leucio, Carditello, Portici con la Favorita, Quisisana e Capodimonte sono siti reali. [...]
44
Parte prima. L'agricoltura
La più famigerata fabbrica in seta trovasi stabilita da moltissimi anni in S. Leucio. È sorprendente il vedere come qui per mezzo di macchine animate dall’acqua si fanno nello stesso tempo molte e diverse operazioni: è vieppiù maraviglioso l’esaminare la natura e la qualità dei suoi velluti sopraffini, dei suoi fazzoletti damascati, a maglia, a righe, a fazione di casimiro, dei suoi zeffiri con fiori, delle sue verginie, dei suoi leuceidi, o abiti da donne di
maglie a punto di Berlino, delle sue stoffe a persigliè, ed in fine dei suoi gilè, calze, maglie, parati, saioni, veli, filosci, fimbrie,
sciarpe, etc. Non sono men rimarchevoli i lavori in seta del Real Convitto del Carminello, consistenti in reps, verginie, in velluti a friso, in follie a giorno, in coperte all’etrusca, in parati di orobesco, in tappeti, in drappi, in saioni. Lungo sarebbe far menzione di altre fabbriche in seta che danno pure delle singolari vaghe e diverse manifatture. I rapidi progressi che han fatto i lavori di cotone specialmente nelle fabbriche di Piedimonte d’Alife, di Caserta, e di Napoli, nel
Real Albergo dei Poveri, in S. Agostino degli Scalzi, in S. Giuseppe a Chiaia, si osservano nei mussolini fiorati o battuti, nei percals, nei cambrics, nei vagram stampati, nei reps, nei kalikut, nei calangà, nelle persie ad uso d’Olanda, nelle genevrine, nei nankins, nei fazzoletti balazzors a scorza d’albero, a fazione di casimiro con fiori in seta o in cotone, nei fazzolettoni stampati indelebili, o a fiamme, nei dubletti, nei gingam di differenti disegni, o in forma di filoscio, nelle calze, nelle tovaglie ad uso di Fiandra, nelle sciarle a diversi fondi, nei guanti, nelle filature, etc.
Rinomati sono tra gli altri lavori i finissimi merletti che si travagliano nelle scuole gratuite di S. Rosa, di S. Agnello, di S. Eligio, di S. Gennaro e Clemente, dello Spirito Santo, di S. Pietro e Paolo, di Buoncammino, di Pontenuovo, di Mondragone, etc. Le fabbriche in lana hanno di già acquistata maggior perfezione nell’Isola di Sora, in Arpino, in Piedimonte d’Alife. Vi si costruiscono dei buoni castori, castorini, casimiri, segovie: vi si
fanno anche, come in altri luoghi, dei panni, peloncini, londrini, coperte e tappeti. La pasta della porcellana che formasi in Napoli supera, dopo quella di Sassonia, tutte le altre d'Europa nella bianchezza, nel
suono e nella finezza. Le nostre più belle vedute, le più superbe miniature in oro, si veggono disegnate nei vari lavori con singolar
arte e con grande intelligenza. Per solidità e per vaghezza di for-
II. I contesti locali
45
me, di colorito e di dipinti può star a fronte delle migliori delle altre nazioni la finissima faenza della capitale, conosciuta sotto il nome di ferraglia. Vaghissimi sono i suoi lavori profondamente marmorati. Che diremo delle fabbriche e dei lavori di marmo, di acciaio, di bronzo dorato, di ottone, di pietre dure incise, di galloni e
ricami in argento, di mobili in legno forestiero, di coralli, di fiori a color naturale, di carrozze, di cappelli, di corde armoniche, di cuoia e pelli, etc.? Non sono che perfetti nel loro genere. [...]
2. La provincia di Principato Citeriore* [...] Il [...] Principato Citeriore ci chiama ora all’esame delle
singole parti. N’è la prima il distretto di Salerno, il quale dentro un perimetro di circa 83 miglia, cioè 56 mediterranee e 27 marittime, racchiude una superficie di 357 miglia quadrate, che danno 361.366 moggia, di cui 219.558 sono distribuiti in tanti coltivamenti, e 141.797 in tante rocce inculte, in tanti alvei di fiumi,
laghetti e paludi, in tante spiagge, in tante strade, in tanti abitati, etc. I terreni a coltivamento occupano una superficie piana in moggia 77.274, semi-piana in 64.904, montuosa in 77.380. Hanno i piani a seminatori semplici moggia 44.720, ad arbustati 15.724, ad orti 1.880, a vigneti 244, ad oliveti 1.264, a frutteti
808, a selve e boschi 1.954, a pascoli 8.472. Hanno i semi-piani a seminatori semplici moggia 14.452, ad arbustati 1.326, ad orti 687, a vigneti 7.436, ad oliveti 4.431, a frutteti 2.608, a casta-
gneti 3.425, a boschi e selve 7.339, a pascoli 11.275. Hanno i montuosi a seminatori semplici moggia 19.844, ad arbustati 2.031, a castagneti 5.815, a selve e boschi 22.380, a pascoli 27000)
Non è meno interessante del distretto di Salerno quello di Campagna, che su di una dimensione di 468 miglia quadrate contiene 473.710 moggia cioè 291.981 a colture diverse, e 181.729 * Da Giuseppe del Re, Calendario per l’anno 1823. Con la giunta di copiose notizie intorno allo stato fisico, storico, politico, amministrativo, ecclesiastico, pro-
duttivo, industrioso e commerciale della provincia di Principato Citeriore, Stamperia del Giornale del Regno delle due Sicilie, Napoli s.d., pp. 78, 97-98, 119, 142150.
46
Parte prima. L'agricoltura
ingombri di monti straripevoli di acque, d’arena, di strade e di abitati. Son divise le colture in moggia 118.875 tra piani, in 104.923 tra semi-piani, in 68.183 tra monti. Racchiudono i piani moggia 75.869 a seminatori semplici, 5.243 a seminatori arbustati, 858 ad orti, 748 a frutta, 5.362 a vigneti, 5.431 ad oliveti,
7.168 a boschi e selve, e 18.176 a pascoli. Contengono i semipiani moggia 54.950 a seminatori semplici, 7.419 a seminatori arbustati, 1.117 ad orti, 1.714 a frutta, 6.468 a vigneti, 7.092 ad oliveti, 1.591 a castagneti, 9.570 a boschi e selve, 15.502 a pascoli. Abbracciano i monti moggia 5.384 a seminatori, 2.980 a castagneti, 18.331 a boschi e selve, e 41.488 a pascoli e cespua ian Sormontate l’estreme rocce orientali dell’ Alburno, s'incontra
il distretto di Sala in gran parte formato dal Vallo di Diano. La sua superficie di 402 miglia quadrate, corrispondenti a 406.805 moggia, cioè 159.200 a colture diverse, e 247.605 tra luoghi alpestri, fiumi, laghi, paludi, strade, abitazioni etc., distendesi dal
sud al nord per 54 miglia, e dall’ovest all’est per 16. Vi sono nelle pianure moggia 44.720 a seminatori semplici, 1.766 a seminatori arbustati, 986 ad orti, 516 a vigneti, 1.940 ad oliveti, 864 a frutteti, 440 a castagneti, 5.479 a pascoli, 1.954 a boschi. Vi sono
nelle semi-pianure moggia 14.452 a seminatori semplici, 618 a seminatori arbustati, 898 ad orti, 5.781 a vigneti, 2.814 ad oliveti, 1.912 a frutteti, 775 a castagneti, 824 a pascoli, 6.329 a boschi. Vi
sono nelle montagne moggia 16.627 a seminatori, 2.403 a castagneti, 16.679 a pascoli, e 20.793 a boschi e selve. [...] Agevol cosa è il dedurre dalle singule parti geologiche finora esaminate la natura dei terreni a coltivamento. Cominciando dalle pianure, ci presenta l’agro nocerino una estensione di circa 13 miglia dall’est all’ovest, e di circa 4 dal sud al nord, circoscritta verso il nord dalle rocce di Sarno, verso l’est da quelle di Sanseverino e della Cava, verso l’ovest dall’ Albinio, e verso il sud dai dintorni del Vesuvio. La sua qualità suscettibile di qualunque coltivazione può paragonarsi ai fertili tenimenti della Campania. Molto fiorisce per la mano del colono che lo concima secondo il bisogno, e che senza riposo lo semina secondo la buona pratica dell’arte. Vantano gl’istessi vantaggi le contigue pianure di Angri e di Sarno, di Montoro e di Sanseverino. Trapassate le rocce all’est del Metelliano, principiano le campagne picentine, nome
II. I contesti locali
47
desunto dai fiumi Picentino, Battipaglia e Sele secondo le diverse ragioni dei tempi e partizioni della provincia. La loro lunghezza è di circa 26 miglia su di una larghezza di 6 a 12 in circa. Buona è la natura del loro terreno. Sino alla taverna di Picerna è ben coltivata; ma via facendo, s'incontrano contrade inculte sotto nome di difesa per lo pascolo degli animali. Eboli e Campagna hanno pianure di circa 6 mila moggia, e non tengono a seminati e a piantagioni che circa la metà coltivata non tanto dai loro coloni, quanto da quei che per una miserabile mercede vi si recano
ogn’anno dalla Basilicata, dalle Calabrie o dagli Abruzzi. Distendonsi di là dal Sele i piani di Capaccio, di Pesto, di Agropoli e di Velia, i quali più non ispirano quella dolce gioia che un tempo richiamava i Romani al godimento. Sono parziali le loro contrade, dove l’agricoltura fiorisce alquanto. Seguono dappresso alcuni piccioli piani del Cilento, traboccanti di arena e di pietre, ottimi alla coltura degli ulivi e dei fichi. Molta cura si ha dei generi che vi si seminano. Dal ponte di Campestrino si passa al Vallo di Diano, vasto e lungo di circa 20 miglia, addetto a vari coltiva-
menti. La sua fecondità è in ragione dei lavori che vi s’impiegano. Lo stesso è per i due piccioli piani ove appunto restano le campagne di Marsico. Di qua, inoltrandosi verso l’ovest attraverso di erte montagne, si rinviene il territorio di Ricigliano, ed una lunga valle denominata piani di Romagnano, che progredendo attraversa quello di Buccino. Alla loro mediocre natura corrispondono bene le varie colture che vi si fanno ogn’anno. Questa è tutta la parte piana. Havvi quella che si coltiva nei colli e nelle falde dei monti, ove la natura, quantunque sia stata men prodiga dei suoi doni, pure adoprasi molta cura nei lavori a semina e a piantagione di viti, di ulivi e di frutta. La maggior parte delle campagne del Cilento è coltivata con molta cura e
diligenza. Quella ch’è fra Castellabate ed il mare sembra un delizioso giardino. I terreni meglio solcati, divisi, rovesciati e preparati dall’aratro, dalla vanga, dalla zappa e dal zappello sono quelli dell’agro nocerino e d’Angri, ove la coltivazione è analoga alla loro qualità. Altrove si fa tutto con poca diligenza; non si danno ingrassi per rimettere i terreni dalla perdita già fatta colle continue annuali produzioni; non si semina che alla rinfusa; non si purgano i campi dall’erbe estranee; e non si migliorano le piante. La proprietà dei terreni è divisa piuttosto in grandi che in
48
Parte prima. L'agricoltura
piccole porzioni coltivate a conto dei possidenti, o in fitto o in società. Lo stato approssimativo dei seminati, dei ricolti, dei consumi
interni e dell’estrazioni* è un anno per un altro: Seminati
Ricolti
Consumati
Estratti
(in tomoli)
grani diversi
295.700
2.341.000
1.827.000
118.300
granoni
43.200
794.000
695.800
55.000
fagiuoli diversi
31.400
244.700
192.500
20.800
fave diverse
33.500
266.300
213.200
19.800
lenti[cchie]
750
8.700
7.100
850
ceci
850
10.200
8.450
900
1.100
16.500
14.100
1.300
cicerchie
650
8.700
7.850
200
veccie
380
5.500
4.970
150
Orzo
46.300
416.700
344.900
25.500
avena
35.400
297.200
243.100
18.700
489.230
4.409.500
BIDICSIZO
261.500
piselli
[totale]
Il prodotto dei grani è in alcuni luoghi dal 5 all’8, e in altri dal 10 al 14 per 1; e quello del granone è dal 12 al 16 e dal 18 al 30. I grani che per le diverse qualità di paste si consumano nella costiera di Amalfi pervengono in Salerno per il cammino di Avellino. Ad un presso sogliono seminarsi a lino moggia 1.800, a canapa 2.200, e a bambagia 1.600, dando i primi circa cantara 17.000, i secondi circa cantara 23.000, ed i terzi circa cantara 19.000.
Il coltivamento del riso che prima dell’occupazione militare era un ricco capo d’industria, è ora ristretto in poche contrades[$3]
Gli oli sono stati sempremai fonte di commercio e di ricchezza. Non se ne può fissar la quantità a motivo dei ricolti vari in tutti gli anni. Tutti sono di buona qualità; ne hanno maggior pregio quelli di Sarno, dello stato di Montecorvino, di Campagna, di Eboli, di Contursi e di alcune contrade del Cilento. Gli
oliveti non serbano alcun ordine, e non conoscono la potatura che in pochi luoghi del Vallo. Verso Policastro, Vibonati e Cuc® Ossia le esportazioni.
II. I contesti locali
49
caro crescono gli alberi sino ad un’altezza smisurata. Non si piantano colle radici, ma a tronchi senza rami e senza fronde, con produrre il frutto dopo cinque anni. AI di là del bisogno degli abitanti è il ricolto dei vini. In molti luoghi del distretto di Salerno i terreni a coltura son cinti e sparsi di viti sostenute da olmi o da pali di castagne detti asproni, dando vini alquanto acidetti. Di buona qualità sono quelli di Sarno, dello stato di Montecorvino, delle contrade di Salerno, di Eboli,
di Pattano, di Vibonati, di Acciaroli. Il Cilento ne produce gran copia di delicati e ricercati, e soprattutto il così detto Vernaccia da far onore alle grandi mense. Le frutta d’ogni genere sono abbondantissime da per ogni dove. Nel Cilento però la copia n’è più eccedente, e la squisitezza più delicata. Le campagne fra Castellabate e il mare sono tanti giardini ben piantati e coltivati di alberi. I fichi secchi e le uva passe dette zibibi, formano un ricco capo d’industria. Nel tenimento della Cava si conservano i fichi freschi sugli alberi sino a maggio. In molti luoghi del Cilento, in Auletta, Controne ed Abatina
si raccoglie molta manna. Se gli abitanti si rivolgessero con più cura verso un tal prodotto, se ne potrebbe ritrar molto profitto. In S. Marco, S. Giovanni e Porcili si è veduto allignar bene la piantagione del caffè, dello zuccaro e del pepe. Gran quantità di ottimo miele si raccoglie ogni anno nel Vallo di Diano e nelle contrade marittime del Cilento, dove le campagne sono per lo più coperte di rosamarina. Qua e là sono sparsi pochi alberi che producono buona pece. In Torchiara però sono in qualche copia. Talune contrade del distretto di Salerno contengono piantagioni di gelsi, che danno ogn’anno circa 50 mila libbre di seta; altre al di là di Eboli, e nel Cilento non ne producono che circa 15 mila. Tra boschi, colli e piani vegeta un gran numero di piante medicinali, astringenti, catartiche, risolventi, diffusive, diuretiche, emmenagoghe, espettoranti, narcotiche, sudorifere, toniche, antiscorbutiche e antelmintiche. Se ne ritrovano pure di quelle che danno vari colori, cioè il crispino e l’ornello per lo verdastro, lo zaffarano per lo giallo, la rubbia per lo rosso, il guado per lo cilestro, e la roseta luteola per lo verde, etc. [...]
50
Parte prima. L'agricoltura
Sensibilmente si è aumentata la colura dei pomi di terra. I poveri ne fanno il cibo principale ed i ricchi quello di lusso. Pressocché una quinta parte dei monti è coverta di selve cedue, consistenti in querce, pioppi, cerri, carbini, faggi, olmi, frassini, aceri, tigli, bossi, tassi etc., i quali sono di molta mole e gran vetustà nei boschi di Persazo presso a miglia 35 di circuito, destinato per la caccia del Re, della Bruca, di Laviano e di Acerno, detto Polveracchio, Atizzaro, Torricello, Celica, Santoleo, etc.
I castagneti sono sparsi in più contrade. Il loro frutto e legname è ogn’anno un ricco capo di commercio. Si ha dai registri doganali che prima degli sconvolgimenti politici” si estraevano fuori Regno più di ottanta mila migliaia di cerchiette e cerchi da palmi 10 a 18, i quali fruttavano circa settecento mila docati. Si raccoglie nel Cilento una specie di castagna bislunga molto apprezzata per il suo sapore. Per quanto si estende il mare dalla punta di Minerva sino a Sapri, la pesca è oltremodo copiosa. Squisiti sono i pesci che pescansi presso le isolette dei Galli, soprattutto le cernie e le linguattole. Ricchissima è la pesca dei tonni, delle alici e delle acciughe nel mare di Acropoli, di Licosa, di Palinuro e di Camerota. Se ne fanno ogn’anno abbondanti salati che si spediscono in Napoli. Vicino alle imboccature dei fiumi si pescano dei grossi storioni, e presso Camerota e Praiano dei coralli. Molta corallina si raccoglie nei lidi di Castellabate. [...] Le strade consolari sono in buono stato. Più o meno cattive son le altre. Talune non possono mica trafficarsi nell’inverno. Quella dei due Principati lunga circa 15 miglia è prossima al suo termine. Dalle Cammarelle a Mercato è perfezionato un tratto di un miglio e quarto, ed un altro più esteso nella costiera di Amalfi sino a Minuri. E autorizzata la strada del Vallo. Il Cilento è quasi privo di comunicazioni interne a causa dei pessimi cammini. I luoghi marittimi fanno qualche traffico con Napoli e con altri pochi luoghi. Nei tempi trasandati era il suo commercio abbastanza attivo. I suoi porti accoglievano spesso dei bastimenti stranieri. I marinari sono abili e coraggiosi. Quel traffico che facevasi con i porti di Malta, Sicilia, Roma, Toscaina e Provenza è affatto spento. Le sue barche attuali da 8 a 14 tonnellate ascendono a un di presso a 50. E meno languido il commercio marit> Si riferisce probabilmente alla rivoluzione del 1820-21.
II. I contesti locali
Sil
timo della costiera di Amalfi. I suoi piccioli legni approdano spesso nei suddetti porti, e giornalmente in quello di Napoli. Più grandioso dell’attuale commercio è stato per lo innanzi quello delle due fiere che si tengono ogn’anno in Salerno, non che dei mercati settimanali. Vi si faceva un traffico importantissimo di generi stranieri e nazionali. Le merci straniere ascendevano in alcuni anni sino ad 800 mila docati, e le nostrali sino a 75 mila,
come si ricava dai registri doganali. I legni inglesi, francesi, olandesi, genovesi, maltesi e siciliani che vi approdavano non erano meno di 30. Attualmente appena consiste in vari generi esteri
che si spediscono dalla Gran Dogana di Napoli, ed in quelli che vi pervengono dai luoghi vicini. Salerno è l’emporio principale dei grani per i paesi situati sulla costiera di Amalfi, specialmente di quei che pervengono dal Principato Ulteriore. Nonostanteché gli abitanti abbiano felici disposizioni per il meccanismo delle arti e manifatture, purtuttavia i loro migliori lavori non offrono esattezza e perfezione. Le fabbriche sparse qua e là consistono in 57 di lana, in 19 di cotone, in 1.000 di lino e canape, in 42 di carte, in 212 di pasta, in 4 di ferro, in 2 di rame, ed in 1 di cristalli. Più d’ogni altra popolazione la cavese fiorisce per i lavori di tela in cotone a vari disegni per uso di tavola, in cotoncino bianco e grezzo, in fascie per i bambini, in dobletta a fascione, in tele fine di lino ed ordinarie di canape,
etc. Tiene in azione più di 500 telai che danno ogn’anno circa 10.000 pezze di mano d’opera. Un tempo le sue tele di lino erano in tal pregio che i re aragonesi se ne servivano per proprio uso. Le sue manifatture di seta son decadute dopo l’abolizione del dazio detto mzinutillo, poiché i compratori si dirigono più volentieri in Napoli per la miglior perfezione. I suoi panni sono dozzinali al pari di quei che si fabbricano in altri luoghi della provincia. Le drapperie di Giffuni avevano una volta qualche nome. Ora non si riducono che a lavori grossolani di coperte, ferrandine, arbasci e montipilosi. Buone non già perfette sono le cartiere della costiera e di Vietri. Se l’industria dei fabbricanti le migliorasse, non avrelm]mo bisogno delle carte della Toscana per dove si estrae ogn’anno molto danaro. Vi sono eccellenti fabbriche di pasta che spediscono per Napoli e per altri luoghi più di 112 mila cantara importanti circa 1.130.000 docati. Le ferriere e le ramiere non danno che circa tre mila cantaia di qualità alquanto buone. La fabbrica dei cristalli in Vietri fa sperare dei miglioramenti
DI
Parte prima. L'agricoltura
tali da non aver bisogno delle bottiglie e delle lastre che ci pervengono dall’estero. La fabbricazione dei chiodi in Puggerola presso Amalfi è di poco momento. Le concerie di Vallo e di altri luoghi forniscono alle contigue regioni mediocri qualità di pelli e sole. Altrove se ne potrebbe aumentare il numero e perfezionar la loro natura, onde evitare lo smercio dei cuoi per l'estero. Le faenze hanno da per ogni dove dell’ordinario. Le migliori son quelle della Cava. Vi è qualche buona fabbrica di cera e di sevo. I lavori di ferro, di acciaio, di ottone, di stagno, di rame e di
legno sono in taluni luoghi di qualche considerazione. Le tintorie sono tutte in cattivo stato. Esistono più fabbriche di cappelli fini in pelo leporino, ed ordinari in lana. [...]
3. L’agricoltura della provincia salernitana* [...] Senza punto lusingare l’aspettazione di chi ama la floridezza dello Stato e la prosperità dei cittadini dobbiam con dispiacere confessare, che l’agricoltura da qualche anno è andata a decadere da quella bontà in cui era giunta per le cure dei diligenti proprietari e degli accorti coloni: questi, istruiti dalle Società economiche stabilite nelle provincie dei vantaggi di una perfetta coltura, comprovati in seguito dall'esperienza, l'avevano a poco a poco portata a quella perfezione che non era da sperarsi in sì breve tempo. Alle ubertose ricolte si aggiunsero le richieste delle
estere nazioni di molti prodotti della terra, come sarebbe di grano, granoturco, civaie, olio, vino, canape e cotone, per cui i prez-
zi delle derrate erano da allettare il coltivatore, ed a dargli dei mezzi alla maggior perfezione. Nel mese di marzo dell’anno 1816 un panico timore di mancanza di sussistenza fino alla nuova raccolta allarmò le popolazioni, e si avanzarono delle dimande al governo, onde farle provvedere dall’estero di grani e di altre vettovaglie. Non mancò il * Rapporto del presidente della Società economica di Principato Citeriore, Luigi Rinaldi, all’Intendente della stessa provincia, manoscritto datato 26 settembre 1820, in Archivio di Stato di Salerno, Intendenza, busta 1727, filza I, fasc. 1. Riportato anche da D. Cosimato, Alcuni documenti sull’attività della Società Economica (1819-1821), in «Il Picentino», n.s., a. XVIII, marzo 1974, pp. 15-20.
II. I contesti locali
53
governo incaricare diversi negozianti di tal’importazioni, promettendoli anche dei premi. [Gli] speculatori non trascurarono profittare di questo rincontro introducendo delle annose granaglie, che se allontanarono il timore e la fame, introdussero pu-
ranche le malattie e la morte per le di loro cattive qualità. L’introduzione di tali grani non si arrestò quell’anno, ma ne fu prolungato il permesso fino all’anno 1824. Questa libertà, pregiudiziale al nostro commercio attivo, è stata la potente causa della decadenza dell’agricoltura; da ciò nacque l’avvilimento dei prezzi, e quindi l'abbandono dell’agricoltura; il proprietario, ed
il colono depauperato, non sa trovare dei mezzi onde accorrere alle spese di coltivazione. Il cotone fu uno dei prodotti del nostro suolo che arricchì i coltivatori; la buona qualità ne facilitava il commercio coll’estero; molti milioni in oro straniero si videro circolare nelle nostre contrade; ed i terreni, mediante questa col-
tivazione, divennero più fertili di cereali negli anni avvenire. Fu paralizzato questo commercio per le politiche rivoluzioni di Europa; il cotone non fu più estraregnato, che anzi, per detrimento dell’agricoltura, lo vediamo tuttogiorno a noi approdare dall’estero; abbandoniamo quest’industria, perché il risultato non ci compensa la spesa del coltivo. La coltivazione della pianta del tabacco fu sostituita a quella del cotone; la vessazione degli agenti del governo ne hanno in buona parte arrestata l'industria. Gli ottimi vini delle nostre fertili vigne non soddisfano il gusto dei grandi, e dei piccioli; [gli] spesosi vini del Reno, di Francia, e dell’Esperia, non tralasciando quelli delle Canarie e del Capo, forniscono le nostre mense; si fanno marcire i nostri vini
nelle cantine, ed a poco a poco si consumano i nostri arbusti: si è giunti anche alla mania di far uso nelle tavole degli oli oltramontani, che non hanno altro pregio che un costo maggiore. La seconda parte dell’economia rurale riguarda la pastorizia; questa è gemella dell’agricoltura, e si può dire la stessa. Il numero del grosso bestiame atto al travaglio dei terreni, aumentato in proporzione dei terreni rimasti a pastura, fa sì che ce ne avanzi di molto. Il superante è destinato al macello; la quantità ne rende più difficile lo spaccio anche a prezzo vilissimo, e a far dei conti, il massaro non si rimborsa della spesa del pascolo e della custodia. E pure in queste circostanze si son veduti degli animali cornuti esser introdotti da oltremare per maggior rovina dei proprietari. Le pecore una volta formavano la ricchezza delle nostre
54
Parte prima. L'agricoltura
contrade, e pure a poco a poco gl’industriosi se ne disfano per non trovarci il loro conto; le lane avvilite di prezzo per la decadenza delle manifatture in Inghilterra ed in Germania, che non ci fa commerciare coll’estero le lane grezze; le fattorie del nostro Regno imperfette per mancanza di macchine e di abili manifatturieri, ciocché maggiormente l’avvilisce [...]. L’altro prodotto che ci dà il grosso ed il picciolo bestiame è il cacio. Il nostro Regno n’è fornito abbastanza da supplire al bisogno: travagliato con diverso magistero, dà sapore diverso, ed è adattato a tutti gli usi delle cucine. I caciocavalli di Pollino e di Foi, i formaggi del Marchesato e della Basilicata hanno un gusto sopraffino; e pure non sodisfano il gusto dei fanatici, ed il solo cacio della Svizzera e di Lodi devono guarnire le loro mense con discapito delle proprie finanze e col discredito dei nostri prodotti. L'introduzione dunque di questi generi esteri ha prodotto l’avvilimento dei nostri formaggi, e per conseguenza può dirsi in decadenza la pastorizia.
Cosa poi diremo per le razze dei cavalli? Il gusto presente ne fa temere la distruzione. Innumerevoli cavalli inglesi, normanni, lusitani riempiono le scuderie dei grandi egualmente che dei medi, nella capitale non meno che nelle provincie, ed i nostri gene-
rosi cavalli avviliti di prezzo sono condannati alle forze ed al tiro delle carrette. Sarebbe stato più a proposito che questi cavalli fossero serviti per migliorare ed ingentilire le razze, e non già destinarli al fasto ed all’orgoglio; dall’accoppiamento ne risulterebbero forti e generosi cavalli come i nostri, e grandi e ben disposti, simili a quelli oltramontani. Da tutto ciò che si è accennato può facilmente dedursi che l'agricoltura e la pastorizia sono in decadenza; né potranno mai giungere a quella perfezione che si desidera, se non si allontanano gli ostacoli all'economia campestre nocivi, vietare l’importazione di molti generi, di cui ve n’è a sufficienza, ed esportare degli altri che ci soprabbondano, onde a mantenere un equilibrio di prezzo sopportabile dal consumatore, e proporzionato alle spese del coltivatore. Lo stomaco pieno fa nausea ed eccita il vomito, ed all’opposto si gusta il cibo quando è vuoto il ventricolo. [...]
II. I contesti locali
55
4. La provincia di Principato Ulteriore* [...] Il Principato Ulteriore, di figura quasi triangolare, confina al nord-ovest con il Contado di Molise, al nord-est con la
Capitanata, al sud-ovest con la Terra di Lavoro, al sud con il Principato Citeriore, al sud-est con la Basilicata. La sua circonferenza di 134 miglia racchiude in una lunghezza di 52 da Rocchetta a Cautano, ed in una larghezza di 35 da S. Marco dei Cavoti a Bagnoli una superficie di 1.205 miglia quadrate, pari a moggia 1.219.701, distinti in seminatori semplici con arbusti ad irrigamento con frutta con querceti con oliveti in orti ed in case rustiche in orti ad irrigamento in vigneti in nocelleti in selve castagnali fruttifere in selve cedue castagnali
434.626 89.158 2.345 1.202 952 5.678 2.381 398 28.641 3.389 33.467 4.453
in canneti in pascoli in boschi dei comuni dei demani dei stabilimenti pubblici dei privati
432 44.230 71.122 2, 2.367 1.340
in terre montuose, incolte e sterili
in abitazioni, strade e tratturi in fiumi, torrenti e laghi
[Totale] moggia
09509
278.215 SARO:
ZIONI
I detti moggia 1.219.701 sono divisi in tre distretti, e suddivisi in 32 circondari a un di presso come nei seguenti quadri: * Da Giuseppe del Re, Calendario per l’anno 1822. Con la giunta di copiose notizie su lo stato fisico, storico, politico, amministrativo, ecclesiastico, produttivo,
industrioso e commerciale della provincia di Principato Ulteriore, Stamperia del Giornale del Regno delle due Sicilie, Napoli s.d., pp. 42-44, 86-88.
Parte prima. L'agricoltura
56
Distetti
Perimet.
Superficie
in miglia di
in miglia
60 a grado
quadrate
84 95
SD) 419
89
411
Avellino Ariano
Cri
Numero
Moggi e
di
pas. quad.
abitanti
per ogni ab.
379.574 424.113
136.320 84.983
2-46 4-903
416.014
114.044
3-583
in moggi
S. Angelo dei Lombardi
Circondari del distretto di Avellino. Circondari
Perimet.
Superficie
Ea
in miglia di 60 a grado
in miglia quadrate
; ae
a
Numero
Moggi e
di abitanti
pas. quad. per ogni ab.
14.096
1-367
Avellino
15375
19.275
19.839
Mercogliano
23.174
31172
31050
Monteforte Solofra Serino Atripalda Chiusano
20.374 18.173 18.374 13.174 161175
DI2418: 24.174 24.273 17275 272
28.124 24.567 24.988 17.602 2753:
8.120 DUAL 7.867 7.831 6.470
3-406 4-238 3-159 2-2517 3-330
Montemiletto
17.374
24.172
24.820
8.994
2-683
Altavilla
2022/18
27.174
27.602
9.726
2-757
Montefusco S. Gio. la Montagna
24.172 23.173
34.273 31.174
SI3A4 0 31.652
113379 7.168
2-555 4-243
Vitolano S. M. Mag. Montesarchio Cervinara
22.174 50972 16.173
297172 39.174 215275
DISSI 39.650 21991
11.737 Wil2735, 1215929
2-579 3-341 2-677
3-83
Sono a coltivamento, ortaggio e vigneto moggia 176.568; a
castagneto fruttifero e ceduo, nocelleto, pascolo e bosco moggia 54.857. Tutto il resto è roccia inculta, luogo sterile, abitazione, strada, fiume, etc. Circondari del distretto di Ariano. Perimet. Circondari
Ariano Villanova Castello Baronia Grottaminarda Paduli Pescolamazza
S. Giorgio la Molara
in miglia di 60 a grado 30.273
29.174 5.117 2171072
38.374 DIAMO 232
Superficie in miglia quadrate
65.174 DOD ulelz2 42.172 78.174 56.172 45.173
in moggi
di abitanti
Moggi e pas. quad. per ogni ab.
65.989 60.236 72.417 43.061 79.249 DIC252 45.929
075 8.895 15.428 AZZIO7 SICES 10.698 10.765
3-762 6-695 4-627 5-477 7-886 5-316 4-239
Estensione
Numero
II. I contesti locali
DT
Sono a coltivamento, ortaggio e vigneto moggia 197.870; a
castagneto fruttifero e ceduo, nocelleto, pascolo e bosco moggia 63.970. Tutto il resto è roccia inculta, luogo sterile, abitazione, strada, fiume, etc. Circondari del distretto di S. Angelo dei Lombardi. Circondari
S. Angelo dei L. Frigento Paterno _ Montemarano Montella Vulturara Bagnoli Teora Andretta Carbonara Lacedonia
Perimet.
Superficie
E
Numero
Moggi e
in miglia di 60 a grado
in miglia quadrate
E
a se.
di abitanti
pas. quad. per ogni ab.
ESS) 26.374
41.374 36.273
42.259 DIA
l5y399 15.621
2-670 2-532
18.172 25925 24.174 25994 26.273 24.174
25.174 34.172 DIS 34.273 36.374 38.174
25:35 34.928 91415: 35.095 DULA9S 38.716
1822 6.110 7.602 1.572 8.066 6.610
2-145 5-496 4-155 4-597 4-557 5-771
56 32.374 DIA,
47.374 49.173 34.374
48.332 49.925 35.180
925 10.577 15.142
5-67 4-648 2-225
Sono a coltivamento, ortaggio e vigneto moggia 195.412; a
castagneto fruttifero e ceduo, nocelleto, pascolo e bosco moggia 57.741. Tutto il resto è roccia inculta, luogo sterile, abitazione, strada, fiume, etc. [...] Quasi da per ogni dove si elevano monti tramezzati da profonde valli per le quali scorrono copiose acque. Rivestiti sono di coltivazioni a causa del molto terreno che ne cuopre la loro superficie, e che continuo e con violenza è smosso dai terreni, e
portato via verso i piani. Che perciò i monti diverranno a poco a poco nude e scarne rocce, mentre fino alla metà dello scorso secolo vantavano foreste di alto fusto. Nelle parti meridionali ed occidentali sono i monti coperti di selve, e nelle orientali e settentrionali sono per lo più posti a coltura, o ridotti a pascolo. Ove hanno avuto luogo i tagli dei boschi, gli svellimenti dei ceppi, gli eccessi dei coltivamenti, non si osservano che scarne rocce, profondi valloni, enormi disfaci-
menti. Per effetto di che, i torrenti hanno a poco a poco strascinato nei piani sottoposti immensa quantità di terreni, di arene, di rapilli, di pietre, etc.; e le legna da fuoco e da costruzione sono divenute scarse ai bisogni dei vicini abitanti. Siffatti avvenimen-
58
Parte prima. L'agricoltura
ti sono più che altrove rimarcabili nelle contrade di Bisaccia, di Cedogna, di Andretta, di Rocchetta, di Zungoli, di Ariano, di Accadia, di Montecalvo, di Buonalbergo, di Montefusco, di S. Paolina, etc., luoghi tutti che nei tempi di pioggia, di neve e d’inverno non possono trafficarsi senza pericolo. Vaste ed amene campagne ad uso di difesa e di pascolo per gli
animali pecorini, vaccini, e cavallini verdeggiano sopra ed in mezzo alle colline ed alle montagne. I più feraci di erbaggi in tempo di està sono i così detti Campo di Sommonte, di Montevergine, di Serino, di Nusco e di Bagnoli. Più luoghi hanno dei prati o naturali o artificiali, i quali si talciano nelle pianure due volte l’anno, e nelle alture una sol volta.
Le pianure più estese sono quelle di Forino, Pianodardine, Montesarchio, Cervinara, S. Giorgio la Montagna, Valle Bene-
ventana nel distretto di Avellino, quelle del Cubante e di Camporeale nel distretto di Ariano; quelle di Frigento, di Taurasi e del Formicoso nel distretto di S. Angelo dei Lombardi. Tutte hanno una qualità di terreno migliore delle altre contrade. I piani confinanti con la Basilicata sono di natura cretacea, e quei di Avellino di natura arenacea. In moltissimi luoghi si fa uso degl’ingrassi vegetabili e dei letami senza cura e senz’arte nella mescolanza. Generalmente non conoscesi a dovere la coltura dei campi. Molto male si adoperano l’aratro, la vanga, la zappa e il zappello nel fendere, dividere, rovesciare e preparare i terreni. Non si fa buona scelta dei luoghi nelle semine e nelle piantagioni. Alla rinfusa e con perdita di una parte si spargono i semi. Non si purgano i campi dall’erbe estranee. Talvolta si miete fuori stagione. Si lascia tutto a discrezione dei coloni mercenari. Ad onta di tanta imperizia e negligenza il prodotto medio dei frumenti è del 5 al 7 per uno, e dove preparasi e coltivasi bene il suolo, giunge fino al 10. Piuttosto in piccole che in grandi porzioni è divisa la proprietà dei terreni, meno che nel Cubante e nella Valle Beneventana. I fondi appartenenti ai corpi morali, o ai ricchi proprietari, si affittano per la durata di tre o di sei anni. La maggior parte degli altri si dà in società. Per effetto di che i padroni forniscono una metà della semenza ed un’altra va a carico dei coloni assieme con le fatiche, sotto patto di dividere il ricolto in parti uguali. I contadini che vi travagliano hanno una misera mercede. Migliaia di altri vanno a lavorare nelle provincie limitrofe per taluni mesi
II. I contesti locali
DI.
dell’inverno e dell’està, e ritornano nei propri focolari con qualche danaro. La proporzione dei terreni destinata alla sementagione varia secondo le circostanze locali. I ricolti consistono in grano bianco, saragolla, caroselle, romanelle, granone, segala, spelda, fave, fagiuoli, ceci, piselli, lenti, cicerchie, veccie, orzo, avena, pomi di terra; e quelli delle piantagioni in vini, oli, castagne, nocelle, noci, frutta d’ogni specie.
5. La provincia di Basilicata* [...] La Basilicata, che un tempo facea parte più dell’antica Lucania che della Magna Grecia, è circoscritta all’ovest dal Principato Ulteriore per 22 miglia, dal Principato Citeriore per 66,174 e dal golfo di Policastro per 13; al sud dalla Calabria Citeriore per 57; all’est dal golfo di Taranto per 21, e dalla Terra di Otranto per 26,374; al nord dalla Terra di Bari per 58,172, e dalla Capitanata per 16,172. La sua superficie, che prolungasi dai confini meridionali di Rotonda ai settentrionali di Alvano per 73 miglia, ed allargasi dagli orientali di Matera agli occidentali di Brienza per 32, si valuta per 2.342 miglia quadrate corri-
spondenti a moggi 2.370.103, divisi in 4 distretti, suddivisi in 41 circondari, ripartiti in 120 comuni, e popolati di 402.367 abitanti, giusta i[l] quadr[o] seguentf[el. Divisione în distretti. Perimet. in miglia di 60 a grado
Superficie in miglia quadrate
persone Festa i i PE quadrati
Numero di abitanti
Moggi e pas. quad. per ogni ab.
Potenza
sd
SPIA)
564.358
146.910
3-654
Matera Melfi
143 107
710.172 453.173
719.026 458.773
75.314 81.674
9-494 5-555
Lagonegro
59
620.172
627.946
98.469
6-339
* Da Giuseppe del Re, Calendario per l’anno bisestile 1824. Con la giunta di copiose notizie su lo stato fisico, storico, politico, amministrativo, ecclesiastico, pro-
duttivo, industrioso e commerciale della provincia di Basilicata, Stamperia del Giornale del Regno delle due Sicilie, Napoli s.d., pp. 50, 57-58, 147-155.
60
Parte prima. L'agricoltura
[...] Da diversi stati di un quinquennio si ha il risultamento di 1.608.520 moggi in tanti terreni a coltivazioni di ogni sorta. Dal che desumesi che la rimanente quantità in 761.583, a compimento di 2.370.103 dell’intera superficie, è tutta divisa e dispersa nelle moltiplici parti che costituiscono i boschi, i pascoli, i fiumi, i laghi, i torrenti, le strade, le abitazioni, gli edifizi pubblici, e le
parti incolte dei monti, gole, valli e spiagge, cioè: nei distretti di
Potenza
151.584
Matera Melfi Lagonegro
266.318 190.398 153.283
Non vi è altra provincia del Regno che più della Basilicata abbondi di boschi per lo più di alto ceduo, molti proprii alla costruzione degli edifici, ed ai lavori dei falegnami, etc. Non ostante che da tempo in tempo se ne siano bruciati alcuni e dissodati altri, pur tuttavia i superstiti ascendono a moggi 578.087 cioè
comunali demaniali stabilimenti pubb. privati [Totale] moggi
264.482 212 41.297 272.096 578.087
Da per tutto i loro alberi con frutta, ed i loro suoli con erbe, danno nutrimento ad un immenso numero di bestiami grossi e minuti. [...] In generale, la coltivazione è in tutto e tutta regolata dalla consuetudine che i contadini hanno ereditata dagli antenati. Dessa consiste nella noncuranza delle preparazioni necessarie di cui han bisogno da tanto in tanto i terreni che dopo una o più raccolte lasciansi in riposo fino a tre anni; nella poca intelligenza dei fendimenti, delle divisioni e delle rivoltature dei terreni coll’a-
ratro; nella scelta spesso cattiva dei siti per le semine e per le piantagioni, nello sciocco uso dello spargimento dei semi alla rinfusa; ed in fine nell’abbandono dell’erbe parassite tanto nocive al
nutrimento dei campi. Per lo più è questo il metodo dei coloni mercenari. Diverso è là dove i possidenti adoprano cura e vigilanza. Da Pescopagano al fiume Bradano e da Melfi a Maratea non si vede che una coltivazione trascurata e cattiva. Le acque
II. I contesti locali
61
dei fiumi vi scorrono licenziose a danno delle contigue pianure. Gran parte delle contrade marittime è ricoperta d’acque stagnanti. Più di ogn’altra n’è quella di Policoro presso la foce del fiume Acri. La proprietà dei terreni è divisa più in grandi che in picciole porzioni. Per lo più sogliono darsi i campi o in fitto da 3 a 6 anni, o in prestazioni di generi, o in società. Ad un di presso se ne seminano moggi 576.959 in grani e granoni, 125.380 in orzo ed
avena, 61.500 in più sorte l’aratro se non nelle vallate i lavori campestri si fanno mento è triennale, cioè nel
di legumi. Non sono operati i buoi e e nei piani presso i monti. Quasi tutti colla zappa. In generale l’avvicendaprimo anno a maggese, nel secondo a
frumento, e nel terzo anche a frumento nelle terre forti, ed a
segale, orzo ed avena nelle terre leggiere. Circa una terza parte dei terreni a coltivamento resta ogni anno a riposo, ad eccezione di alcune contrade dove le popolazioni nulla vi rimangono inoperoso. Nelle maggesi si semina il frumentone ed in mezzo alle sue piante si spargono i semi di fagiuoli, e si perde una parte dei semi. I contadini che vi travagliano in tutto l’anno con una scarsa mercede ascendono a circa 48.000. I prodotti di questi generi sogliono esser maggiori nei terreni concimati e lavorati a zappa che in quelli non concimati e lavorati coll’aratro. Relativamente ai primi, se sono piani o marittimi, ogni tomolo di semina ne produce sino a 12 negli anni fertili, sino a 10 nei mediocri, sino ad 8 negli scarsi; e se mai sono montuosi, sino a 9 nei fertili, sino a 7 nei mediocri, e sino a 5 negli scarsi;
rapporto ai secondi, se sono piani, il suo ricolto è sino a 8 nei fertili, sino a 5 nei mediocri e sino a 4 negli scarsi. Gl’ingrassi si riducono soltanto al letame di stalla in piccioli campi vicino all’abitato, ed allo sterco delle greggi e delle mandre. I terreni più graniferi sono verso il mar Ionio. Quei che producono i migliori frumenti, tra i quali hanno il primato le saragolle, che secondo le annate sogliono dar il peso sino a rotola 56 a tomolo, sono nelle contrade di S. Mauro, di Stigliano, di Craco, di Salandra, di Montalbano, di Potenza, di Avigliano, di Oppido, di Acerenza, di Senise, di Pietrafesa, di Picerno, di Vignola, di Gorgoglione, di S. Chirico, di Calvello, di Genzano e di altre contrade. Da alcuni stati risultano le seguenti quantità di raccolti annuali.
62
Parte prima. L'agricoltura
Distretti di
Qualità di generi
Grani diversi Granone Orzo Avena Fave Fagioli Piselli Ceci Lenticchie Cicerchie
Potenza
Matera
Melfi
Lagon.
Totale
moggi
moggi
moggi
moggi
moggi
656.734 38.656 67.624 84.416 16.634 8.869 9.754 10.987 9.481 8.348
748.426 46.967 89.822 149.791 34.976 10.982 12.961 18.448 19.216 17.694
502.752 41.576 49.760 63.687 22.982 7.811 7.562 9195 8.844 7.920
691.341 49.837 TOEZ16 97.839 23.961 7.627 8.331 14.476 16.936 159352
2 0DDERII 175.036 280.412 BODIO 934 39289 38.608 53.106 54.477 49.284
Ad un dipresso ascendono ad un milione settecento cinquanta mila tomola i grani di ogni qualità che si consumano dagli abitanti, a cinque cento venti mila quei che si seminano, ed a trecento
ottanta
mila quei che si estraggono
per le provincie
limitrofe, per Napoli e per la costiera di Amalfi. Il dippiù che bisogna per il consumo dell’intera popolazione, vien supplito dal granone e dalla segale che consuma la gente povera. [...] La coltivazione della bambagia è uno dei ricchi capi d’industria in molti circondari, soprattutto nei luoghi di maremme e nelle vicinanze del golfo di Taranto, dove grasso e sciolto è il terreno. Ove se ne raccoglie in maggior quantità ed in miglior qualità, si è nei tenimenti di Montescaglioso, di Tramutola, di Ferrandina, di Salandra, di S. Mauro, di Craco, di Grassano, di Bernalda, di Grottole, di Pomarici, di Tursi, di S. Arcangelo, di Stigliano, di Montepeloso. Quando le piogge la irrigano secondo il bisogno, il suo ricolto annuale ascende a circa 1.000 cantara. Adoprasi più cura nei distretti di Potenza e di Lagonegro che in quei di Melfi e di Matera per le semine del lino e della canapa. Ad un dipresso se ne sogliono in ogni anno fare 6.000 cantara del
primo, e 5.000 della seconda. Tursi e Tramutola vantano il miglior lino. L’industria dei bachi da seta è parziale in alcuni luoghi, tra i quali si distinguono S. Mauro, Carbone, Chiaromonte, Teana ed
Abriola. Di rado la sua annuale quantità giunge a 1.000 libbre. Per lo più i vigneti son coltivati alla latina, e sostenuti da canne o da piccioli pali, ai quali le viti son legate a forma pira-
II. I contesti locali
63
midale ed a posizione orizzontale. In alcune contrade la loro superficie è tufacea, ed in altre argillosa-calcarea-quarzosa. Nelle annate medie si fanno più di un milione e duecento mila barili di vini, che in più luoghi sarebbero preferibili ai migliori che vantano le nazioni estere, se mai si adoperassero le debite cure nella coltura delle viti, nella fermentazione, nella depurazione, nel travasamento e nella conservazione dentro le botti. I più gentili ed i più spiritosi si hanno dalle sassose colline vicino a Maratea. Sono egualmente eccellenti quei di Montalbano, di Pisticci, di Marsico Vetere, di Cirigliano, di Ferrandina, di Laurenzana, di Pietrafesa, di Chiaromonte, di Maschito, di Barile, di Melfi, di Senise, di S. Mauro, di S. Arcangelo, di Rapolla, di Rionero, di Atella, di Stigliano, di Salandra, di Grottole, etc. Il più potente è quello che producono le falde del Vulture. Dicesi che quando si ripone mosto nelle botti, vi si mescola auctoritate Praetoris una parte di acqua. Non ostante ciò, ha bisogno, in tempo della perfetta maturità, di un’altra quantità per potersi bere. In Ferran-
dina ed in Melfi si fa dell’ottimo moscato. Le piantagioni d’olivo sono in poche contrade. Occupano terreni per lo più selciosi-sabbiosi su i pendii dei monti e su i poggi in faccia a levante ed a mezzogiorno. Cominciano a fiorire sullo spirar d’aprile. Di rado accade che non siano in pieno fiore nel corso di giugno. Durante l’estate, la siccità, le nebbie i gran colpi di vento e gl’insetti fan cadere gran parte del suo frutto. Quando queste cause non han luogo, il ricolto annuale è più di 50.000 staia*, quantità molto inferiore al bisogno dell’intera provincia, a cui se ne somministra la mancanza dai distretti limitrofi del Principato Citeriore, della Calabria Citeriore e della Terra di Otranto. Si danno i migliori oli dai territori di Baragiano, di Vietri di Potenza, di Balvano, di S. Arcangelo, di Marsico Nuovo, di Galliccio, di Armento, di Guarda, di Albano, di Tolve, di Acerenza, di Genzano, di Pietragalla, di Ferrandina, di Tursi, di Cirigliano, di Melfi, di Maratea, di Rocca Imperiale, di Aliano, etc. Nelle contrade presso il mar Ionio alligna molto la regolizia”, ma non si coltiva con estremo guadagno, se non in quelle di Poè Lo staio era una misura usata esclusivamente per l’olio. Lo staio napoletano era diviso in 16 quarti ed ogni quarto corrispondeva a circa 0,62 litri. Liquirizia.
64
Parte prima. L'agricoltura
licoro, di S. Basilio e delle Maremme. Ve ne ha in Bernalda una fabbrica. In più terreni leggieri, staccati, lapillosi e secchi anzi che grassi nasce spontaneamente
[lo] zafferano di cui non si ha veruna
cura. Gli aviglianesi potrebbero, più degli altri abitanti, formarne oggetto di speculazione, perché il terreno gli è molto proprio. Le piantagioni del tabacco, più che altrove eccellenti in Senise, erano molto estese prima del jus proibitivo°. Le loro frondi che ricavavansi dall’estensione di un moggio, convertite in polvere, davano il fruttato sino a ducati 100.
Il rosmarino, il lino ed il serpillo vegetano da per tutto. Ove si ha cura delle api, si fa miele ottimo ed odoroso. Son poche le montagne che non abbiano erbe medicinali antiscorbutiche, antelmintiche, astringenti, catartiche, risolventi, diffusive, diuretiche, espettoranti, narcotiche, sudorifiche, toni-
che, etc; non che piante per le tinte, cioè il crispino e l’ornello per il verdastro, lo zafferano per il giallo, la rubbia per il rosso, il guado per il celeste, e la roseda luteola per il verde. Le piante ombrellifere del curiandolo e dell’aneto finocchio nascono naturalmente in più luoghi. Vi sono talune contrade dove si coltivano con molto guadagno. Tutte le popolazioni soprabbondano di piante ortensi consistenti in varie sorte di cavoli, broccoli, lattughe, cardoni, carciofi, cicorie, cocuzze, meloni, cocometi, pomidori, bietole, carote, pastinache, selleri, finocchi, rapi, rafanelli, agli, cipolle, peperoni, acetoselle, borragini, etc.
La coltura dei pomi di terra si è talmente aumentata in alcuni luoghi, che forma il cibo giornaliero della povera gente. Da per ogni dove i fruttî sono copiosi e buoni. Vi sono taluni terreni che ne producono degli squisiti. Tali sono quei di Montalbano per le pesche, volgarmente percoche, di S. Arcangelo, Missanello, Pisticci, Ferrandina e Tursi per i fichi secchi; di Carbone, Castelluccio, Rivello, Teana e Trecchina per i frutti d’inverno; di Rocca Imperiale per gli agrumi. [...] “ Con una prammatica del 1637 entrò per la prima volta in vigore nel Regno di Napoli lo jus proibitivo del tabacco, con cui il fisco si assicurava una privativa fonte di rilevanti entrate. Con una prammatica del 14 dicembre 1779 si stabilì che il tabacco sarebbe stato sciolto daldiritto proibitivo a partire dal 1° gennaio 1780,e fu quindi creata una «Giunta per le imposte surrogate all’abolito diritto proibitivo del tabacco».
II. I contesti locali
65
La Basilicata è più d’ogn’altra provincia del Regno ingombra di boschi per lo più di alto e basso ceduo. Havvi ogni specie di alberi ed arboscelli forestali. Gli orni danno circa 30 cantara di buona manna nelle contrade di Accettura, Oliveto, Garaguso, e
Salandra. Gli abeti che in poco numero sono sparsi in più luoghi, scarseggiano di pece. Le querce ed i faggi soprabbondano di ghiande e faggiuole. Al di là dei bisogni delle popolazioni si hanno legna da fuoco e legnami da costruzione. Attesa l’immensità della parti montuose, i greggi hanno sempremai fresca ed abbondante pastura lungo il corso dell’anno nelle vallate, nelle falde e nelle alture. Ove più ove meno sono di eccellente qualità l’erbe ed i fieni naturali. Vi sono nei distretti di Potenza
pecore capre vacche bovi maiali cavalli da tiro, da soma e da sella
Numero 174.545 34.623 5.865 1256
43.550 1.278
muli
DITO
asini
5.782
Matera pecore
capre vacche bovi maiali cavalli da tiro, da soma e da sella
Numero 141.036
37.560 5.947 11.895 49.323 3.744
muli
1.628
asini
4.961
Melfi pecore capre
vacche bovi maiali cavalli da tiro, da soma e da sella
Numero 55.341 3.718
6.452 3.866 29.578 1.145
muli
982
asini
2.473
66
Parte prima. L'agricoltura
Lagonegro pecore capre vacche bovi
maiali cavalli da tiro, da soma e da sella muli asini
Numero 132.274 25.841 DIOLO Sr
45.932 PET9D 528 2.837
Impropriamente si dà il nome di razza all’unione di poche giumente e cavalli nelle contrade di Potenza, di Vaglio, di Pietragalla, di Matera, di Miglianico, di Pisticci, di S. Mauro, di Ferrandina, di Salandra, di Tricarico, di Montepeloso, di Barile, di Venosa, di Lavello, di Forenza, etc. Non v’ha che uno scarso
numero di cavalli e giumente gentili che danno buoni e forti puledri. Tutto il restante è adetto alla trebbia ed a servigi campestri. Si reputano i bovi di una grandezza maggiore degli altri del nostro Regno. I più eccellenti nascono e si allevano verso Potenza ed Avigliano. Per lo più sono di molta bianchezza. Giunti all’età di 12 anni son destinati al macello. Le lane che ricavansi ogn’anno in buona e mediocre qualità ascendono a più di 15.000 cantara*. Gli erbaggi sono da per ogni dove copiosi e buoni: ne hanno però maggior rinomanza quei del monte Pollino e del monte Pisterola presso Muro da cui si hanno i cotanto pregiati palloni che diconsi di Gravina. I formaggi di pecore e di vacche che si manipolano ogn’anno, sono ignoti nella quantità ma eccellenti nella qualità. I migliori sono quei di Potenza, di Craco, di Avigliano, di Muro, di Tursi, di Marsico Nuovo, di Dichagallà È Montextaglidso, di Pomarica, di Tito, etc. [...]
“ Il cantaio o cantara era pari circa a 89 chili.
II. I contesti locali
67
6. La provincia di Molise* [...] Pressoché triangolare è la figura della provincia di Molise, limitrofa al nord con l'Abruzzo, al sud-ovest con Terra di Lavoro, al sud con il Principato Ulteriore, e all’est con la Capitanata. La sua circonferenza è di circa 168 miglia; la sua lunghezza di circa 46 dall’ovest all’est; la sua larghezza di circa 42 dal nord al sud; la sua superficie di circa 880 miglia quadrate, pari a moggi 890.837, divisi in seminatori
semplici con arbusti
195.890 48.697
con quecetti
68.375
con oliveti in ortaggi in vigneti in pascoli in tratturi in boschi comunali demaniali di pubblici stabilimenti
1591639 3.873 14.151
in luoghi straripevoli, incolti e sterili in strade in fiumi, torrenti e laghetti
68.975 121.790 45.734
totale
890.837
di privati
5.780 35256 21355 12.768 8.266
111.808
[...] Non ostante che vi siano 286.468 moggi boscosi, pure in alcuni luoghi soffresi penuria di legname da fuoco e da costruzione. Per l'economia dei boschi vi è una ispezione divisa in circondari silvani, e ciascun circondario in comprese. I primi sono
affidati ai guardia-generali e le seconde a guardia-boschi. Due sono i così detti tratturi per il transito delle greggi: uno è lungo 30 miglia e l’altro 32; comincia il primo da S. Pietro * Da Giuseppe del Re, Calendario per l’anno 1821. Con la giunta di copiose notizie su lo stato fisico, storico, politico, amministrativo, ecclesiastico, produttivo,
industrioso e commerciale della provincia di Molise, Stamperia del Giornale del Regno delle due Sicilie, Napoli s.d., pp. 38, 117-120.
68
Parte prima. L'agricoltura
Avellana, e passa per lo Pizzo, la Cocozza, Colle Milucci, Spronasino, Salcito, Trivento, Civita-Campomarano, Lucito, Morcone, Ripa-Francone, S. Croce di Magliano; il secondo principia da Rionero, e va per Roccasicura, Pescolanciano, Civita-Nova, Ci-
vita-Vecchia, Torella, Castropignano, S. Stefano, Ripa de Limosani, Camposarcone, e Campo di pietra. Ambedue larghi 60 passi tengono diversi rami, con i quali occupano una superficie di 8.266 moggi. L’attuale stato della pastorizia è ristretto in pecore in giumente e cavalli di razze idem da soma e da sella
circa circa circa
300.000 950 2.800
in muletti ed asini in bovi e vacche
circa
4.900 7.050
in porci
85.000
Non in tutto l’anno le pecore pascolano nel proprio paese: vi sono dei mesi nei quali ne resta parte, e parte va in Puglia, o in Terra di Lavoro. La lana che ne danno in circa 45.000 cantara, non è di buona qualità. Più che in ogni altro luogo si hanno dei formaggi eccellenti in Pietracatella, Campo di pietra, Toro, S. Giovanni in Galdo, e
Castropignano, per l’ottima qualità dei pascoli. Le strade sono per lo più pericolose per i molti terreni, per le molte slamature, per le molte ascese e discese, per la molta mo-
bilità del terreno cretoso e sassoso. Ed è perciò che tarda, difficile, e dispendiosa è l’interna circolazione dei generi. Gli abitanti hanno un traffico attivo verso l’ovest con Terra di Lavoro; verso il nord con l'Abruzzo Citra, e verso il sud con
la Capitanata, consistente in grani, in pelli, in cuoia, in negri”, in vaccine, in polledri, in calze, in funi, in visco, in sacchi, in for-
maggi, in salami, etc. I tanti coloni ed artisti che vanno a travagliare soprattutto in Puglia, immettono molto danaro. Lo stato delle arti e delle manifatture è generalmente rozzo e negletto, meno dei superbi lavori di acciaio in Campobasso, in Ripalimosano, in Frosolone, in Longano, lavori che possono star a fronte dei migliori che ci pervengono dall’estero. Da per tutto si tessono pannacci per la bassa gente di lana nera o colorata. Il ? Ossia suini.
II. I contesti locali
69
dippiù vien fornito da Cerreto, da Cusano, da Piedimonte d’Alife e da Arpino. Agnone fornisce quantità immensa di rame lavorata. [...] Sogliono seminarsi ogni anno circa 250.000 tomoli di caroselle, di saragolle, di romanelle, di marzullo e di grano bianco. Il loro fruttato è circa il 6 per 1 in collettiva. Conseguentemente se ne raccolgono circa 1.680.000 tomoli. Si sa che la provincia di Molise è considerata come uno dei granai di Napoli, e Campobasso come uno dei sette mercati del Regno «Pragm. 2 de annona civitatis Neapolis»; si sa ch’essa estrae ogni anno i propri grani, specialmente delle caroselle e saragolle, per la via dell'Adriatico e di Terra di Lavoro; si sa che la gente bassa si nutrisce per lo più di frumentone; si sa in fin che circa 15.000 contadini vanno per più mesi dell’anno a lavorare nelle regioni limitrofe. Per sì fatte cagioni può assegnarsi per grado di approssimazione il consumo interno a tomoli? l'estrazione a tomola la riserba della semina a tomola
1.200.000 200.000 280.000
Molto estesa è divenuta da pochi anni la semina del granone; e molto diligente se n’è resa la coltivazione. Ove si gitta il seme alla rinfusa (purché la stagione estiva non sia estremamente secca) il ricolto ordinario è del 20 a 25 per 1, ed ove a solco, è del 40 al 50. Se ne sogliono seminare più di 30.000 tomoli, e raccogliersi circa 800.000, cioè per per per per
consumo della gente bassa tomoli l’ingrasso de’ porci tomola riserba della semina tomola estrazione tomola
670.000 70.000 30.000 30.000
I legumi che si seminano sono molto soggetti all’erbe parassite ed alle meteore estive. Presso a poco si raccolgono tomola di fave
120.000
idem di fagioli
25.000
idem di ceci
15.000
idem di piselli
12.000
idem di lenti[cchie] idem di cicerchie b Il tomolo (o tomola) è una misura pari a 56 litri.
4.000 5.000
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Parte prima. L'agricoltura
Non si hanno dati sull’annuo ricolto dell’orzo e dell’avena. Dal consumo che ne fanno gli animali da noi riportati, si può per approssimazione portare la quantità a tomola 90.000.
Dal 1817 si è cominciato a coltivare in moltissimi luoghi il pomo di terra, detto corrottamente patata. L’industria delle api è diffusa abbastanza. Dopo d’essersi raccolto il miele, delicato e soave, si ha il barbaro uso di ammazzar questi animaletti. Immenso è il ricolto del vino, abbandonato più alla natura che all’arte. Per lo più è di qualità bianca, leggiera e delicata. Porta il vanto di spiritoso e di eccellente quello di Fossaceca, Lucito, Mirabella, Montagano, Petrella, Toro, S. Giovanni in Galdo, Limosani, Campo di pietra, etc. Havvi del cattivo in molti luoghi, perché i vitami non sono adattati né al clima né alla qualità dei terreni. Il ricolto annuale suole ascendere a barili“ circa 1.400.000. Se ne fa da Isernia molto commercio con 1Abruzzo, e da molti paesi verso l’est con la Capitanata. Contansi poche contrade con piantagioni di ulivi, non ostante che molte basse colline al coperto del nord siano opportune per la loro coltivazione. Il poco olio che se ne raccoglie è di sapor delicato, specialmente quello d’Isernia, Macchia, Monteroduni, Petrella, Lucito, Castelluccio, etc. Quello che manca al bisogno della popolazione vien fornito dal Vasto, da Larino, da Venafro e da S. Giovanni della Molara.
Gli abitanti vanno tuttavia dolenti della dismessa coltivazione dei gelsi per le vessazioni che esercitavano dagli appaltatori del dritto proibitivo della seta. Oggidì fassi qualche industria in Macchiagodena, in Campochiaro, in Oratino, ed in qualche altro luogo. Abbondanti e delicati sono i frutti d’ogni specie. I così detti d’inverno hanno molta durata, molto sapore, e molto smercio in Capitanata.
Alla molta canape e al poco lino che qua e là si raccoglie manca il mezzo della macerazione, perché il raccolto è tardo, e perché le acque dei fiumi si raffreddano presto. La loro qualità dà lavori grossolani per uso della bassa gente. “Il barile napoletano era una misura di liquidi composta da 60 caraffe ed ogni caraffa corrispondeva a circa 0,73 litri.
II. I contesti locali
7A
T. Le cause della decadenza dell'agricoltura molisana: cerealicoltura e disboscamento* [...] Sono due anni che non tanto le raccolte felici, quanto le cambiate circostanze commerciali, han gittato in avvilimento quei prodotti che formavano l’unica risorsa del Sannio, parlo dei cereali. Che nell’anno scorso l’abbondanza avesse abbassato il loro prezzo non era da meravigliarsene; ma che nell’anno corrente, in cui la raccolta del frumento principalmente è stata piuttosto scarsa non in Molise solo, ma nelle altre provincie ancora, e che ciò nonostante i prezzi sieno avviliti anche dippiù, essa è cosa da far molta sensazione, poiché le altre provincie avendo diverse produzioni l’una può compensar l’altra, ma Molise, che sino a poco fa potea chiamar bruta la sua terra, non ha che questa sola. Degnato dalla clemenza sovrana dell’amministrazione della provincia in cui son nato, e premurato dal doppio dovere di suddito e di cittadino, io ho cominciato a guardare questo articolo da qualche tempo nelle segrete mie meditazioni. Una rivoluzione di lunga durata in Europa; una lunga chiusura dei mari, che ha obbligato diverse nazioni a rinvenire in loro stesse i mezzi di sussistenza, per evitar la necessità di trarli dalle
altre; le nuove agevolazioni di commercio che qualche parte di Europa ha ottenuto dietro la pacificazione generale, coll’apertura di quei mari che prima erano chiusi; terreni fertilissimi messi a coltura da popoli che non conoscevano che la pirateria; il commercio d’ America attivo dei nostri generi medesimi; e tante altre circostanze a voi note, tutto insomma dimostra donde dipenda il languore del commercio in quasi tutta l'Europa, e la degradazione decisa di tutto ciò che sinora ha formato la ricchezza delle provincie abbondanti di cereali, e di questi specialmente che ne han fatto finora l’unica nostra industria. Voi avete dovuto meco osservare come quasi ogni nazione, aumentando i prodotti di propria sussistenza, rifiuta gli stranieri e ne accoglie molto poco; ed avete sicuramente veduto che cessata la rivoluzione politica, sia in Europa succeduta una rivoluzione commerciale. Il cervello umano, messo alla tortura durante l’impedimento dei mari, non * Da Biase Zurlo, Sullo stato economico della Provincia di Molise. Discorso pronunziato dall’Intendente Signor Biase Zurlo nell'apertura del Consiglio Generale il dì 10 ottobre 1819, in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo V, gen.-mar. 1820 (A. Trani, Napoli), pp. 41-53.
V2
Parte prima. L'agricoltura
si è limitato a questo solo: esso si è occupato a procurare nel seno della propria patria quelle produzioni che sembravano privative delle rimanenti parti del globo. Si è tentata la confezione di un zucchero tratto da tutt'altro che dalle canne; un processo raffinato ugualmente sulla manipolazione del guado fa avere per le tinte un indaco niente diverso dal genuino; si è tentato finalmente di creare una cocciniglia che prima la portava il solo commercio esterno. Se l’uomo coi suoi sforzi tenta di allontanare il bisogno di ciò che è esotico, procurandolo nel seno della propria patria e nelle sue regioni, che diremo dei prodotti che riguardano la sussistenza sola? Ci daranno o no i cereali, che sono i nostri,
ciò che occorre per procurarci quel che ci manca, e per supplire ai nostri pesi ed ai nostri esiti? Avremo o no tutti i mezzi da ottenere, pei pochi anni che restano, l’ultimazione delle opere necessarie al ben essere della provincia? Dopo la formazione di tutti gli stati di variazione che han richiamata la mia attenzione, io ho osservato con dispiacere qual minorazione fortissima d’introito presenta la massa delle rendite comunali. I prezzi dei cereali degradati; le terre comunali censite, ma poi abbandonate dai poveri coloni che più non ne traevano risorse; le rendite dei molini comunali abbassate per la costruzione di tante altre macchine simili, e per la cennata degradazione dei prezzi dei generi; gli erbaggi estivi per la minorazione delle industrie, o invenduti o venduti molto poco; gli affitti delle privative abbassati pel languore del commercio ne sono la visibile causa. Come supplire ai pesi che gravitano su i comuni? Il proporvi la soppressione o la minorazione di quelli che sono impiegati per l’istruzione pubblica, per le strade, e per altri necessari stabilimenti sarebbe un assurdo; dobbiamo anzi trarre forza dalla debolezza per portarle avanti. Un consiglio composto di persone tanto illuminate non ha bisogno né delle mie proposte, né di schiarimenti dalla mia parte per vedere se esiti debbano minorarsi, e quali, e ciò che far si debba per riparare al voto che essi presentano. Io son sicuro che esami sull’oggetto da voi fatti con maturo consiglio ed umiliati al trono del miglior dei Monarchi, di quello che considerandoci come figli suoi non desidera che il nostro bene, di quello di cui il Sannio ha tante pruove di clemenza e di grazie, non sieno con benignità accolte per la felicità e pel bene di questa parte del suo Regno. Io devo, mio malgrado, continuare a trattenermi sulle mede-
II. I contesti locali
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sime idee, e presentarvi spiacevolmente le mie riflessioni sotto una diversa veduta. Tace il commercio; le nostre uniche produzioni son degradate di prezzo; l'agricoltura comincia ad essere avvilita, anche dietro il calcolo minore di ciò che si raccoglie sopra quello che si spende, e questa degradazione sembra dover aumentare anche dippiù. Potrebbe stare che io m’ingann[i]; ma se quello di cui temo di verificasse, affideremmo rovinosamente il riparo al natural corso delle cose? Non penseremo prima a provvedere in modo che la crisi sia ovviata con quelle ben intese prevenzioni, che in parte sono nelle nostre mani? Io non voglio far l’indovino ma un calcolo mi porta a credere che la minorazione della semina, cui sono obbligati gli agricoltori, mentre metterà un’immensità di terre in rovinoso abbandono e nella inutilità, aggiugnerà il tristo effetto del bisogno nella deficienza delle ri-
sorse. Molise, provincia mediterranea, montuosa e collinosa, aveva una volta ben ripartito il suo territorio relativamente alle sue produzioni. Abbondavano i boschi, e questi presentavano l’oggetto di estesa industria di animali che ne formavano il comodo e la ricchezza. Una pastorizia diffusa e permanente presentava allora ad un popolo poco sviluppato nell’agricoltura, il concime di quelle terre che, scelte fra le migliori, servivano alla semina e ne davano abbondantissimo frutto. La razza bovina tanto utile all’uomo era dappertutto numerosa: essa minorava alle popolazioni il travaglio nel lavoro del campo, ed il tutto insieme di questo sistema abilitava tutti alla pastorizia, a raccolte ubertose, con infiniti comodi della vita, mantenendovi una ricchezza moderata,
e contribuiva alla morale, figlia delle semplici applicazioni dei crescenti individui delle famiglie. La carestia del 1763 avendo distrutto tutto questo bene il Regno intero, ed il Sannio con esso, timorosi di ricadere nel bi-
sogno e nella fame, non sapendo altrimenti trar cereali in abbondanza che dalle terre nuove, permisero da quell’epoca che si facesse man bassa sui boschi, distruggendo tutto per mania di seminare, e portando la zappa fin sulle cime degli Appennini. Quindi industrie di ogni specie minorate sino all’ultimo grado, e scemati di tanto gli animali bovini in questo distretto capoluogo, ed in quello d’Isernia, che possono dirsi scomparsi. Le picciole praterie che rendevano piacevole l’aspetto della nostra campagna, e conservavano intorno alle fabbriche rustiche gli animali
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crescenti, quasi più non esistono: la zappa ha guasto tutto; ciò che con picciola applicazione dell’uomo facevano i bovi, oggi fanno, con istento sommo, le braccia degli uomini, delle donne, e fin
dei ragazzi, con degradazione delle loro forze e della loro salute; e le tavole mortuarie segnano da un pezzo l'abbreviazione della vita della più utile classe della società. Terre resistenti alla coltura in poco tempo si sono sterilite: piante parassite, e quelle del frumentone specialmente, hanno estenuate le terre fertili, e quell'abbondanza di cereali che si aveva una volta da un ristretto numero di terre coltivate, se si ha anche adesso e dippiù, non è tanto l’effetto delle abbondanti raccolte, quanto della estensione immensa di tante terre messe a coltura. Una superficie cretosa, qual è la nostra, non presenta che lame dappertutto, specialmente in quei siti che la natura aveva destinati a boschi e che l’uomo ha voluto addire alla coltura. Gli alberi si son guardati come nemici; si son recisi con furore, e la provincia priva di boschi, come prima ricordava qual singolare avvenimento una gragnuola, ora la soffre spesso, e con essa la devastazione nella massima sua parte. Ricordava la provincia una volta in taluni suoi siti l'industria della seta, e ne alimentava i bachi colla fronda del ge/so zz0ro, che non poteva offrire un prodotto di molto buona qualità. Ma vi era questa industria comunque essa fosse. La mania pei cereali ha fatto trascurar tutto, anche dietro un vecchio sistema di dazio
imposto sopra quella derrata, dazio che colla vessazione affliggeva il contadino, e la piantagione del gelso è anche scomparsa. Quest’istessa mania ha sempre fatto dimenticar l’ulivo all’agricoltore; ed un principio volgare ha fatto levare il grido che questa pianta non alligni che in pochi luoghi, mentre picciola esperienza ha dimostrato che alligna quasi dappertutto; e se si è avanzata alquanto la coltivazione dei peri, dei meli, ed altri alberi, le di cui frutta nel nostro suolo riescono squisite, questa coltivazione è stata limitata al puro comodo delle famiglie ed al ristretto spaccio nell’interno della provincia, mai per un oggetto di commercio e di risorsa. Si è messa poi molta attenzione in portare sul nostro suolo delle piante esotiche, alla coltura delle quali è stata ed è rivolta l’attenzione e la cura di molti; e quindi lodi all’acacia e sua piantazione, all’ailanto, al papiro, ed a tante altre piante, la di cui
enumerazione è inutile; mentre ogni giorno si distruggono gli al-
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beri indigeni ed i lineari specialmente tanto utili e tanto necessari per le costruzioni e per articolo di commercio. Dopo aver distrutte le nostre campagne togliendo quelle piante che la provvida natura proporzionatamente ha distribuite nei rispettivi luoghi del globo secondo la qualità del suolo e i diversi climi, noi, contro le sue voci, c’impegniamo a farvi allignar quelle che son fatte per climi diversi dai nostri, e per altre terre; e che giusta i programmi della nostra Società economica, in gran parte sul nostro suolo periscono, e se vegetano lo è a forza di grandi cure con cattivo sviluppo. Posson queste esser permesse solo ai grandi nei giardini di delizie, nommai esser l’oggetto della cura degli agricoltori nelle attuali loro circostanze. Convien, signori, pensar seriamente ad un progetto che repristini i boschi, che riaumenti la pastorizia locale, che minori le terre a semina, cui la natura non aveale destinate; volger queste e qualche altra superficie a produzioni utili di quelle piante che insuperabilmente allignar non possono in altre parti di Europa, il di cui prodotto esser possa oggetto di nostro commercio attivo cogli esteri, per riparare al voto che sentir potremmo dal lato dei cereali. Questa deve essere a parer mio la nostra cura. Io non vi parlo in teorica. Ho avuto l’onore di dirvi che vi ho riflettuto e meditato con silenzio nel corso della mia amministrazione. Adesso ho l’opportunità di manifestarvi i miei pensieri. Le nuove leggi forestali han per oggetto la conservazione dei boschi e il di loro aumento. Ma qualunque ne sia la causa, nascente o dagli agenti di tal ramo, o dalla smania delle popolazioni in renderne frustranee le cure, o che i suoi stabilimenti non sieno
adattati a frenare efficacemente il libertinaggio del taglio, i boschi anzicché crescere minorano di alberi. E adesso uno dei primi interessi della provincia l’implorare dal Sovrano che esse vi portino la sua mano, vegliando sugli agenti boschivi e sulle popolazioni, e castigando amministrativamente su due piedi i contravventori: essendo questo l’unico mezzo da frenare i tagli e le devastazioni. Un uomo che taglia un albero, che per vedersi punito vi è bisogno del verbale di un guardabosco, quasi sempre venale, verbale che può impugnarsi e mettersi in discussione dall'imputato, quest'uomo, io dico, evade facilmente dal giudizio e dalla pena allorché l’affare è portato ai tribunali ordinari. Ma se una deputazione in ogni distretto, sotto la direzione dei rispettivi sotto-intendenti fiscalizzasse prima di tutto, e vegliasse sulla
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condotta degli agenti forestali; che in ogni quattro mesi facesse una visita forzosa dei boschi, versando su i tagli, sulle riscossioni e riduzioni nuove a coltura, e ne formasse dei verbali in unione degli stessi agenti forestali; e se con essi se le accordasse in visita la facoltà di condannare all'istante prima il sindaco ed il primo eletto ad una multa quadrupla dell’importo del taglio, da applicarsi una parte in beneficio dei comuni, e pel rimanente a beneficio dei deputati distrettuali e degli agenti boschivi, ed indi condannare i contravventori e i dannificanti alla pena della legge, da rivedersi solo e confermarsi dai Consigli d’Intendenza; se loro si accordasse la facoltà di ridurre nel momento tutto l’innovato al pristino a spese dei contravventori; l’affare, a parer mio, sarebbe ben diverso. Distinti allora i boschi dalla Direzione Generale delle Acque e Foreste, che non devono esistere in tutto o in parte in grazia della tranquillità pubblica ancora, da quelli che son fuori di questo caso, e repristinate a bosco quelle terre che lo erano una volta, e che lo meritano perché negate all’agricoltura, ed anche quelle che dai coltivatori andranno fra poco ad essere abbandonate, crescerebbe immensamente la speranza di riacquistar quel bene che un falso interesse dell’uomo ha fatto perdere da un pezzo. Se la conservazione dei boschi, se l'aumento di essi è ora indispensabile, se tocca l’interesse della nostra provincia specialmente, spetta a voi di esaminare ciò che dico, ed umiliarne a S.M. i vostri voti. L’olio sarà sempre una derrata sicura pel nostro commercio attivo cogli esteri. I gelsi, di cui appena in provincia vi ha vestigio, possono far ritornare fra noi la industria della seta. Le popolazioni al settentrione del Gargano traggono ricca risorsa dai loro agrumi e dalla soda; mentre il distretto di Larino sull’Adriatico, con migliore esposizione, ed in sito più caldo, non ne ha neppure una pianta. Avevamo i castagni specialmente da Cam-
pochiaro per Boiano sino a S. Massimo; ma le selve di questa utile pianta, che serve all'uomo per tanti usi, più non esistono. I Regni settentrionali sostengono il loro commercio cogli alberi di costruzione; e le nostre montagne che potrebbero abbondatne, e farne un oggetto di commercio, ne presentano molto pochi; e dove nel Matese allignavano da per loro, e si aumentavano colla caduta dei propri semi, sono stati distrutti. E ormai necessaria ed indispensabile la generalizzazione e riproduzione di queste ed altre simili piante tra noi col mezzo dei semi nelle già scoverte
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pendici dei monti; mettendosi i siti in bando pel tempo necessario. Son due anni dacché si son proposte a S.M. ed approvate le scuole di agricoltura pratica in vari comuni, ed alle quali aggiunsi in proposta l’anno scorso un’altra in Civitacampomarano. Non si possono a persone più intelligenti che a questi pubblici maestri affidare i vivai estesi delle piante utili di sopra espresse, onde diffonderle gratuitamente. I vivai saranno una delle loro pratiche lezioni, e lo sarà ugualmente il modo di trapiantare e coltivare le piante che si distribuiscono. Vedremo, dietro questo primo impulso, ciò che faranno i nostri concittadini pieni di riflessione e di buon senso; e vedrete, se nol potrò veder io, qual nuovo aspetto vi presenteranno le pianure, le montagne, e le colline del Sannio; e quanto piacere gusterete di aver immaginato ed umiliato da ora a S.M. tutte queste migliorazioni. Ciò ch’io propongo esige però una spesa. Ma non vi sarà articolo meglio applicato tra gli esiti della provincia che questo, che in parte può prendersi dai fondi addetti alle scuole stesse di agricoltura. Conseguente nelle sue intenzioni, l’Amministrazione non mancherà di concorrervi, di prestarvi la mano, e di aumentar gl’impulsi che già si danno pei vivai, e per la piantazione degli alberi da frutto, onde divenir possano oggetto di commercio. Avremo quindi anche i mezzi onde ottenere il repristinamento delle industrie e degli utili animali bovini, se a quest’oggetto potranno volgersi gli avanzi dei luoghi pii; e se un articolo nello stato discusso di ciascun luogo pio presenti una somma a ciò disponibile. Le industrie delle antiche cappelle procacciavano tanti allievi di ogni specie di animali e di giovenchi specialmente per l’aratro, che tutti i luoghi ne erano provveduti; ed un esteso numero di società sotto date regole aumentava le rendite di questo ramo di beneficenza. Se le industrie sono finite, vi è il mezzo onde dai fondi testé indicati si acquistino gli animali, si dieno a società sotto i provvedimenti del Consiglio Generale degli Ospizi, e con quei patti che lo stesso Consiglio potrà progettare; e colla facoltà altresì di separar sempre dal resto delle rendite i prodotti di queste società per invertirli nelle stesse compre con un continuo moltiplico. Voi potrete esaminar meglio ciò che propongo, sembrandomi questo il primo atto di beneficenza, cui possano i luoghi pii esser chiamati con aumento troppo necessario delle loro rendite. [...]
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8. La carestia del 1815-17
in provincia di Chieti*
Per un tratto luminoso della Divina Provvidenza suole d’ordinario avvenire che alle rivoluzioni fisiche e politiche succedono ben presto la calma ed il buon ordine. I filosofi politici si affrettano ad indagar le cagioni degli straordinari fenomeni, per prevenirne i funesti effetti, per quanto possa dipendere dall’ingegno umano in altri simili circostanze. Non per effetto tanto delle disordinate meteore, quanto per l’incuria dei proprietari, e per l'ignoranza dei contadini, giustacché annunziai col mio ordinario rapporto nella seduta generale del 1816, la desolante carestia spiegò con orribile faccia tutto il suo furore sull’infelice nostra provincia, e dirò ancora sul Regno intero. La morte, indivisibile sua compagna, ci privò con mano spietata di tanti industriosi agricoltori. L'inverno più dolce, le pioggie temperate di primavera, l’attività rianimata dei cittadini hanno mutata, per la Dio mercé la scena spaventosa, hanno ricondotta l'abbondanza, sotto il di cui manto lussureggia la salute. Ebbene forse all’aspetto lusinghiero della ridente campagna avremmo noi dovuto abbandonarci al riposo ed all’ozio sotto l’ombra del pacifico ulivo? No certamente. Era nostro dovere di indagare ancora le cagioni dei passati disastri, di distinguere con esattezza quali di essi è in nostro potere di prevenire e di riparare, e quindi di trovare e propagarne i rimedi. Dietro questa lodevole veduta fu principalmente da noi considerato che il motivo pel quale i comuni che giacciono sulle falde del monte Maiella erano rimasti privi della necessaria provvista del grano, era stato quello d’essersi infracidate e carpite le tenere piante del grano nei vasti campi sull’alto dei monti a causa delle nevi e delle persistenti gelate. Era d’uopo perciò che la Società si occupasse a determinare quali colture meglio convenissero a quei luoghi. Furono invitati i soci di quei comuni a presentare le loro osservazioni. Tra questi si distinsero i soci Sig. Michelangelo Paolantonio di Palena, Sig. Francesco Saverio Verlengia di Lama, Sig. Amodio de Vincentiis di Caramanico, e il Sig. Lorenzo Sca-
molla di Tocco. Si ebbe dal risultato delle accademiche e delle * Da Armidoro de (H)Oratiis, Rapporto de’ travagli eseguiti nel corso dell’anno agronomico. Letto nell’Adunanza Generale del 30 maggio 1818, in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo I, gen.-mar. 1819 (A. Trani, Napoli), pp. 91-95.
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pratiche discussioni che non tanto le nevi quanto le lunghe gelate producono questo disastro, il quale si mostra d’ordinario nelle terre esposte al settentrione. La cattiva coltura anche vi contribuisce, poiché non essendo ben preparate le maggesi, le radici delle tenere piante non possono estendersi. La semina del formentone in quei luoghi è un’altra potente cagione, giacché questa impedisce di farsi a tempo proprio quella del grano. Che perciò si è conosciuto che le terre che sono solite a rimanere sgombrate delle nevi a maggio ed aprile, vogliono essere preparate nell’està e nell’autunno, per seminarvi a primavera grano ed orzo marzuolo e le civaie solite a seminarsi in quel tempo. Pei terreni che vanno a scoprirsi più tardi, è convenevole la coltura dei pomi di terra e la semina della segala e del grano saraceno, di cui perciò sono state commesse le semenze in Trieste per mezzo del socio Sig. Domenico Nolli. Per taluni altri luoghi indicati nelle memorie dei soci si è giudicato essere di maggiore vantaggio il ridonarli alla riproduzione dei boschi, e lasciarli aperti al pascolo degli animali nella stagione estiva, invece di perdervi fatiche e semenze. Si hanno già rapporti, che il prefisso metodo comincia ad adottarsi, essendosi trovato di conosciuta utilità. Dalle notizie riunite, la Società venne a sincerarsi che la rac-
colta del grano era stata scarsa nella maggior parte dei comuni della provincia per mancanza delle semenze. Si è creduto di potersi riparare a quest'altro disordine con promuovere il ristabilimento dei monti frumentari*, su di che siamo molto tenuti alle cure del Consiglio Generale di Beneficenza, e con estendere vie più la seminazione del grano a solchi ch’è stato con tanta utilità adottato. Osservo però che non tutti gli agricoltori se ne sono convinti. In ciò invochiamo la vostra efficacia, ottimi e diligenti proprietari, se bramate di ottenere risparmio nelle semenze, raccolte abbondanti, e di vedere ben provvisti e nutriti i vosti coloni. =I monti frumentari erano delle particolari istituzioni sorte a partire dal XVII secolo, per far fronte all’assenza di istituzioni creditizie. La loro presenza consentiva a proprietari e contadini di reperire, con un modico interesse, grani per la semina. Caduti lentamente in disgrazia nella seconda metà del Settecento, furono gradualmente ripristinati nel corso della seconda metà del secolo successivo. Cfr. A. di Biasio, I/ finanziamento dell'azienda agraria nel Regno di Napoli, in «Rivista di Storia dell’ Agricoltura», a. XXI, n° 2, dic. 1981, pp. 135-204.
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Si è conosciuto che l’unico mezzo con cui erano stati salvati nelle annate penuriose gli abitanti della maggior parte dei circondari delle montagne in preferenza dei comuni marittimi, era stato quello dell’abbondante raccolta dei pomi di terra. Era perciò espediente di farne estendere la coltura in tutti gli altri. Il rigore insolito dell’inverno ha fatto perire negli scorsi anni greggi ed armenti; per cui le carni o sono state scarse, ovvero
insalubri: e può dirsi ch'era cessato quel commercio attivo che gli abitanti della provincia erano soliti di fare nelle fiere e nei pubblici mercati. Perlocché era importante di obbligare i proprietari ed i pastori a provvedere i loro animali di prati naturali ed artifiziali, acciò non avessero più a temere dell’inclemenza delle stagioni. Si è avuta la cura di provvedersi dalle altre provincie, e di distribuirsi fra i proprietari che ne sono stati desiderosi, le semenze della lupinella e dei navoni, che già prosperano nei nostri campi. Sono all’estremo contento in rimirare che quelle nude colline, che prima mostravano la faccia arida ed incolta, sono oggi rivestite delle verdi e fiorite piante di lupinella, che forniscono ottimo foraggio alle bestie senza veruna industria dell’uomo, ed ingrassano il terreno da renderlo poi suscettibile di qualunque coltura. Possa sì lodevole esempio venir eseguito dagli abitanti degli altri due distretti, i quali non ancora se ne convincono abbastanza! [...]
9. La decadenza dell’agricoltura nell’Abruzzo teramano* [...] Tra le passioni dell’uomo non è certamente la minore
quella di volersi distinguere dagli altri; passione indubitatamente lodevole, quando dalla ragione non dissenta, né si allontana dalla linea del vero merito; ma dove si fondi su di una opinione vana e frivola, le sue conseguenze non possono non essere perniciose alla società, e ruinose all’individuo che n’è attaccato. La deca-
denza dell’agricoltura ci dimostra questa verità. Fino a che i pro_* Da Generoso Cornacchia, Su/le cagioni della decadenza dell’agricoltura nella Prima Provincia di Abruzzo Ulteriore, in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo III, lug.-sett. 1819 (A. Trani, Napoli), pp. 98-104, 106-112.
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prietari dei beni fondi per loro stessi coltivarono la terra o presiederono personalmente ai lavori, e li diressero sotto i loro occhi, e sino a che si sostenne la giusta e sana opinione di non esservi cosa più degna dell’agricoltura né più convenevole ad un uomo libero, e che si stimò che la più alta lode fosse quella che un buon agricoltore valesse lo stesso che un buon cittadino, sicché l’attendere alla coltura della terra non solamente non degradava la nobiltà anzi la formava; onde si vedevano dirigere l’aratro i senatori, i consoli, i dittatori della eternamente gloriosa repubblica romana, e di ritornarvi carichi di onori, di allori, e di meriti,
l'agricoltura fu costantemente florida e prosperosa; ma non sittosto si adottò la frivola e vana opinione che per distinguersi dagli altri uomini, uopo fosse di ritrarsi in città, di abbandonare
la coltura delle terre a coloro che verun interesse aveano di migliorarla, si vide quella in decadenza ed in ruina. Su di ciò basta leggere il proemio delle immortali opere delle cose rustiche lasciateci dall’incomparabile maestro di esse Columella, né dispiacerà che ricordi la sensata osservazione del vecchio Plinio rispettabile storico indagatore della natura «la terra — disse egli — altre volte ci prodigava i suoi frutti, essa si dilettava che le si aprisse il seno dagli aratri coronati di allori, e riconoscente di questi onori ne moltiplicava i suoi doni. Qual differenza al giorno di oggi! L’abbandoniamo a fittaiuoli interessati, e vili schiavi la coltivano». E dove si voglian paragonare i tempi di Columella e di Plinio coi nostri non potremo non osservare con grave dispiacimento essere ai nostri giorni l'agricoltura nello stato assai peggiore. Era
allora affidata a i servi, ma questi eran siffattamente ordinati e disposti, giusta le notizie lasciateci da Ausonio, che le opere campestri ben potevano opportunamente adempiere via più che non mancavan loro i necessari mezzi di anticipazione, né era raro di trovare trai servi, dei dotti ed istruiti nelle cose rustiche; e si può conchiudere che la declamazione di Columella e le osservazioni di Plinio si restringevano alla sola mancanza dell’assistenza dei proprietari dei fondi. Ai nostri giorni l'agricoltura è assolutamente abbandonata a persone miserabili, ignoranti e caparbie, e generalmente i proprietari, assai più di loro ignoranti intorno l’agricoltura, non si accostano ai loro fondi che per farvi gozzoviglie, o per esigerne il poco raccolto, o per altro oggetto tutto estraneo e lontano dallo scopo di migliorarli. Ma come cancellare
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e fare sparire questa quanto stolta altrettanto invecchiata opinione? Premi ed onori distinti ai proprietari che coltivano per se stessi i propri fondi, o che presiedono ed invigilano incessantemente alla loro coltura; pubblico disprezzo ed avvilimento a coloro che senza giusta cagione se ne allontanano. [...] Ma passando alle particolari cagioni, onde nella provincia l’agricoltura non si vede risorta dalla sua decadenza, non posso non ravvisare di esserne una potentissima la confusione ossia mescolanza delle diverse colture. In un medesimo suolo si piantano viti, ulivi, pomi, ed altri frutti, e vi si fan crescere finanche le querce, nel tempo stesso che vi si coltiva il frumento ed altri cereali. Da ciò non può non avvenire che scarse sieno sempre le rispettive raccolte. Non vi ha pianta sia di alberi, sia di erbe cui non abbisogni un certo nutrimento. Or poste diverse specie di piante in un suolo, ciascheduna ne tira, e non essendo il nutrimento che quello può apprestare sufficiente a tutte, ciascheduna ne risente la scarsezza, né quindi produce il frutto che se ne attende.
Egli è vero che gli alberi tirano il loro nutrimento dal profondo della terra e le piante cereali dalla superficie, ma è vero del pari che dalle piante viene assorbito il gas acido carbonico tanto necessario alla vegetazione, il quale non trapelando nel fondo della terra non mai somministrar può a pieno il nutrimento che gli alberi ricercano. Sembrerà forse che diffondendosi esso su le piante cereali queste dovessero dare un pieno prodotto e così compensare quel maggior frutto che non si può avere dagli alberi. È questo certamente un inganno. Se le piante cereali godono il vantaggio di assorbire il meglio ed il più del gas acido carbonico soffrono l’incalcolabile danno di essere aduggiati dagli alberi che loro sovrastano. Quanto sia necessaria la luce onde potere le piante, di qualunque specie esse sieno, prosperare, non vi ha fisico che l’ignori; ed il volgare agricoltore stesso ben conosce la differenza che passa tra la vegetazione delle piante che sono all’aspetto del settentrione, e quella della piante che godono l’aspetto dell’oriente e del mezzogiorno. Il dotto Wallerius nei suoi elementi di agricoltura* c’insegna «che gli alberi impediscono coll'ombra loro l’azione dei raggi del sole sopra la terra, arrestano i ° Johan Gottschalk Wallerius (1709-1785), Agricolturae fundamenta chemica, Upsaliae 1761.
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venti, e con esso loro le parti elementari disperse nell’aria; gli alberi che trovansi in un campo per ciò privano le biade di altrettanti succhi nutritivi, e perché l'ombra che producono e le foglie che ne cadono affogano gli altri vegetali e rendono le terre acide per l’acqua che vi s’imputridisce». Un saggio osservatore toscano, FineschiP, nella stima dei predii rustici ci dice «che tenendosi mescolati tutt’i frutti, la terra viene ad essere spossata in tutti gli anni nel suo totale. Nel tempo stesso che la succhiano il grano e le altre biade, la succhiano gli ulivi, le viti, ed ogni altra pianta. Tali piante si levano il nutrimento a vicenda colle sementi. Quel concio che si dà alle sementi, e ch’è loro omogeneo, è spesse volte nocivo alle piante, e viceversa. Le piante impediscono alle sementi il beneficio del sole, e tutto viene peggio di quello verrebbe se fosse tenuto a parte». Ci avverte inoltre del grave danno che si reca, segnatamente col calpestio, al terreno seminabile o seminato; nel potarsi le viti, gli ulivi; nel dare a questi le altre necessarie colture, e nel raccoglierne i rispettivi prodotti. Vi ha di più, che ingombrato il terreno seminatorio dagli alberi, senza di nuocere a questi non si può dopo la messe incendiare la stoppia, onde si perde uno dei miglior ingrassi del terreno, ed il mezzo più efficace di liberarlo dagl’insetti divoratori delle biade. [...]
Preveggo che mi sarà opposto che nella provincia vi sono proprietari di piccoli e ristretti fondi insuscettibili di dividersi in diverse colture, e che tali proprietari volendo godere e raccogliere da quelli, e cereali, e frutti di alberi, fa necessità di adattarvisi
confusamente colture diverse. Su questo proposito mi sembra che il piccolo proprietario debba prendere in considerazione che non ogni terreno produce ogni frutto, da che ciò non solo è applicabile alla diversità dei climi e della qualità della terra, ma ben anche, forse con più ragione, alla diversità della estensione del fondo. [...] Se egli considererà il suo fondo più atto alla coltura dei cereali, esercitandovela, ne ritrarrà maggior rendita di quella che ne tirerebbe colla confusione delle colture diverse, e col di più b Vincenzio Fineschi, scrittore fiorentino della fine del XVIII secolo, autore tra l’altro di: Istoria compendiata di alcune antiche carestie e dovizie di grano occorse in Firenze, Firenze 1767; Memorie sopra il cimitero antico della chiesa di S. Maria Novella di Firenze, Firenze 1787; Notizie storiche sopra la stamperia di Ripoli, Firenze 1781.
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potrebbe acquistare i frutti degli alberi dei quali voglia godere. Le sue cure, le sue fatiche, saranno minori, e ciò non gli è di picciol vantaggio potendo ben impiegare in altre opere utili il tempo che gli avanza. Lo stesso accadrebbe dove il piccol fondo fosse più adatto alla coltura delle viti, o degli ulivi, o dei pomari. A persuadere, ed a convincere di questa verità i piccoli proprietari, non altro abbisogna che l’esempio ed il calcolo. Che se accadesse di trovarsi qualche proprietario di molti piccoli fondi separati, o dovrebbe costui procurare di unirli per mezzo di permutazioni, o adattare a ciascheduno fondo quella coltura di cui sia più suscettibile. La confusione e la mescolanza di diverse colture in uno stesso terreno potrebbe forse appagare e dilettare gli occhi, ma non mai riempire il granaio e la cantina. Si osserva poi in generale che i nostri agricoltori veruna cura prendono di conoscere le diverse qualità della terra, conoscenza tanto necessaria, che senza di essa l'agricoltura andrà sempre da male in peggio, e nell’ignoranza delle qualità della terra altro non si farà che di perdere il tempo e l’opera. Ma che si dovrà dire del metodo che si tiene nella provincia in coltivare le terre seminatorie? Pochissimi sono coloro che adoprano la vanga, la zappa, e il bidente, utilissimi istrumenti per lavorarle. Si adempie ciò con un difettoso aratro e presso che superficialmente. L’aratro a ruote, l’erpice, il rotolo, sono istrumenti quanto necessari, altret-
tanto ignoti. Del seminatore e del coltivatore, dai cittadini neppure si ha idea, e quanto questi sieno propri al risparmio della semenza ed all’aumento della raccolta non vi ha chi nol sappia. La buona agricoltura esige che i terreni in pendio, la cui inclinazione non sia pressoché insensibile, o non si possa ridurre a ciglioni, non mai debbano essere addetti a coltura di cereali, ma basta di guardare le nostre campagne per esser convinto che si seminano i terreni anche straripevoli, d’onde si osservano giornalmente accresciuti spaventevoli dirupi, irreparabili frane, precipitosi smottamenti, e quindi considerevolissime perdite di terreni, i quali addetti ad altra coltura, o anche rimasti inculti, sarebbero utili. Si coltivano terreni seminabili a vicenda, il che indubitatamente è utile e vantaggioso; ma si osserva che alla cultura del frumento si fa succedere immediatamente quella del grano marzuolo, dell’orzo, della scandella, o spelta, del farro, del frumentone, ossia del grano d’India, del panico e del miglio, ed indi vi
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si torna a seminare il frumento. E si potrà attendere ubertosa raccolta da sì fatto avvicendamento? Mai certamente. Non ha bisogno di dimostrazione che tutte le piante cereali spossano il terreno in modo che le piante che immediatamente succedono non vi vegetano, o debolmente. L’avvicendamento da farsi si dovrebbe restringere all’alternazione delle piante che hanno le radici orizzontali e quelle che le hanno fusiformi per le quali attirano i succhi principalmente dal fondo del terreno e non ne impoveriscono molto la superficie. Quindi nel raccomandarsi l’avvicendamento sarebbe da ricordarsi che alla coltura del grano, dell’orzo, della scandella, del farro, del formentone, del mi-
glio, del panico, si facesse succedere quella della fave, dei lupini, delle vecce, degli ervi, dei fagiuoli, dei piselli, dei ceci, dei prati artificiali. Nulla perde anzi utilizza evidentemente l’agricoltore coltivando gli orzi, la scandella, il frumentone, etc., nella stessa vicenda del grano, ed è un positivo inganno l’opinare ed il sostenere il contrario. I più dotti maestri di agricoltura sul proposito dell’avvicendamento ci fanno apprendere che per avere una buona raccolta di frumento si dovrebbe sì fattamente regolare, che almeno due anni d’intervallo passassero per ricoltivarlo nello stesso fondo; laonde si dovrebbe far succedere alla coltura del frumento quella delle piante leguminose come fave, piselli, vecce, e simili, ed a questa quella dei trifogli o di altre erbe da prato, o di patate, ed indi di nuovo il frumento, o l’orzo, o altri cereali.
Si opina di potersi supplire cogl’ingrassi; ma sono questi sì male impiegati che invece di produrne vantaggio ne cagionano evidente nocumento per lo più. Gl’ingrassi non mai s’impiegano stagionati, non in corrispondenza delle qualità delle terre, non si spargono su la terra, né la coprono che dopo di esserne state esaurite dal sole, dalle acque, da venti le patti più utili. La coltura dei prati artificiali si osserva pressoché generalmente trascurata. Quanto questa conduca all'aumento della pastorizia, la quale è da considerarsi a ragione come una delle basi dell’agricoltura, non vi ha chi possa ignorarlo. Merita la coltura dei prati di essere anche preferita a quella delle piante cereali; anzi non temo di asserire che senza i prati le cereali produzioni non saranno mai ubertose. Non mancano nella provincia terreni irrigabili, l'aumento che l’agricoltura può trarre dalle irrigazioni è certamente incalcolabile, ed il miglior pregio che possa avere un fondo qualunque è di
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essere irrigabile; ma è ben rincrescevole l’osservare che a questo tanto interessante ed evidente vantaggio poco o nulla si bada, e pare che le irrigazioni non sieno ad altro oggetto usate che alla coltura dei risi, la quale nel modo che nella provincia si esercita, quanto sia perniciosa alla sanità degli uomini, non vi ha chi col fatto nol conosca. Non si dovrebbe cessare d’incoraggiare i proprietari di tali speciosi e preziosi terreni, e raccomandare loro di sollecitamente disporre la irrigazione; né sarebbe mica fuor di proposito che la negligenza e l’oscitanza fosse premuta e stimolata con un’alterazione d’imposizione fondiaria proporzionata all’utile da essi trascurato!. La coltivazione delle viti, degli ulivi, di ogni altro albero da frutto per tutti i lati si osserva lontana dalle buone regole; non vi si ravvisa che negligenza, disordine, e capriccio. Non ci è neppure l’idea delle selve cedue tanto utili anzi necessarie per gli usi civili e campestri. Le case rurali sono incongrue e mal disposte. L’economia rustica è assolutamente trascurata. In breve non vi ha parte di agricoltura che non sia considerevolmente difettosa, e che non richiegga, o debba essere riformata.
10. Per una riconversione della pastorizia nell’Abruzzo aquilano* Dopo avere altra volta dimostrato che col mezzo dell’avvicendamento, ossia ruota agraria, si può da ogni possidente ricavare in ciascun anno tanto erbaggio, quanto sia sufficiente al mantenimento del proprio bestiame, vale a dire che ognuno può e deve tenerne quel numero che può nutrirne, chiaro ne viene che l’industria della pastorizia se in vece di continuarsi, come cominciossi ad introdurre nel tempo in cui Alfonso I di Aragona volle obbligare a mandare i nostri armenti in Puglia nell’inverno, ! Perché non sottoporre la coltivazione dei risi al sistema di Lombardia, ove le risaie alternano con i prati, per lo che ottengono i lombardi un prodotto superiore ad sr credenza? Quando sarà che nel Regno delle due Sicilie si vedranno stabilite le praterie artificiali, e con esse aumentata la pastorizia? * Da Isidoro Carli, Su/ modo di moltiplicare nella Provincia del Secondo Abruzzo Ulteriore l’industria delle pecore Pagliarole ossia Stalligne, in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo II, apr.-giu. 1819 (A. Trani, Napoli), pp. 182-190.
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per cui si restrinse nelle mani di pochi proprietari, si regolasse diversamente, diramandosi da per tutto, ne verrebbe per noi un vantaggio considerevole, poiché le lane che si tosano in maggio, i primi formaggi, gli agnelli, i castrati, e le pecore da scarto si venderebbero qui, e non in Puglia. Se volessero introdursi da noi i lanifici, come prima vi erano, non saremmo costretti andarne mendicando altrove le lane, come
fanno i frati Osservanti dell’Aquila, ed i Riformati di Capestrano, i quali son costretti [a] provvedersene dalla Puglia. Il letame, e particolarmente quello delle pecore, non che l’orina di esse, più utile del letame, non si perderebbe in vano, ma servirebbe per ingrassare e rendere più fertili i nostri terreni, che produrrebbero maggior quantità di cereali, civaie, e fieno. Se l’agricoltore potrà provvedersi di quantità sufficiente d’ingrassi, e tralascerà di accordare un riposo ai suoi campi, questi s'’impingueranno di nuove fertilizzanti particelle, colla stessa sollecitudine colla quale per le precedenti raccolte n’erano stati spogliati. Con questo sistema i nostri pastori non porrebbero a pericolo le loro vite nel lungo cammino che conduce in Puglia, ma resterebbero tra noi, e vicini sempre alle loro famiglie. Crescerebbe in tal modo al doppio la popolazione della provincia, e non più si vedrebbero abbandonate e deserte le campagne per l’assenza di tanti individui per due terzi dell’anno dal patrio suolo; e gli affitti delle nostre montagne anzicché minorare di rendita, aumenterebbero pel bisogno che avremmo dell’erbe estive. Che se sul nascere di questo sistema se ne vedesse qualche diminuzione, come in ogni principio delle nuove cose suol sempre accadere, essa sarebbe momentanea, e sino che una tale industria non sarebbe generalmente stabilita. In Barisciano col finir dei locati, che colà più non ve ne sono, e col passare alcune di quelle montagne dalle loro mani a quelle dei possessori di pecore pagliarole e di vacche, le rendite comunali son cresciute del doppio. E crescerebbero vieppiù se oltre
delle pecore e vacche si educassero ben anche le giumente ed i cavalli. Facciamo un conto approssimativo del numero delle pecore e degli altri animali che potrebbero mantenersi nella nostra provincia, paragonandolo con quello che attualmente esiste, com-
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presi gli animali che nell'inverno si mandano in Puglia e nell’agro romano. Nel 1806 vi erano da circa trecento mila pecore secondo l’enumerazione che ne fu fatta nell’officina delle Doganelle per la piccola fida di esse. Le pugliesi poi e quelle che si mandano nell’agro romano ascendevano al numero di 611.460, senza contar le capre, che sorpassavano il numero di sette mila, secondo si ha
dalle matrici del ruolo. Le pecore pagliarole, secondo la numerazione fatta nei verbali dei catasti provvisori, giungono a 147.383, ma io son sicuro che
superano i duecento mila. Il numero degli animali grandi dei locati era nel 1806 di 4.181, e quello che rimane in provincia, giusta la detta numerazione fattane per l’uso civico, ascende, senza contare i somari, a ZIETD94, i Vale a dire che abbiamo 758.843 animali lanuti, e 25.935
animali grandi. Se dovessimo perdere interamente gli animali dei locati, ossia dei grandi possidenti di pecore, il che non sarà mai, e se in vece di essi potessimo lusingarci che crescesse nelle mani della generalità la metà del numero suindicato in riguardo alle pecore, che sarebbe di 400.000, e se fermo rimanesse quello degli animali grandi a 26.000, son sicuro che doppio, ed anzi maggiore sarebbe il vantaggio, poiché si aumenterebbero gl’ingrassi, e con essi migliorerebbe l’agricoltura, dandoci più frutto cento animali che restano in provincia che mille di quelli che si mandano in Puglia. Ciò posto calcoliamo qual numero di animali potrebbe mantenersi in ogni comune della nostra provincia. Senza entrare in un dettaglio minuto dell’erba secca che abbisogna pel nutrimento di ogni animale in tempo d’inverno, in sussidio della verde che sempre trovasi e non manca mai nei fondi comunali, quando non sono coperti di neve, vado brevemente a stabilire, che se non coltivando che pochissimi terreni a prati artificiali manteniamo comodamente duecento mila pecore e ventidue mila animali grandi, introducendosi l’avvicendamento, potremmo sicuramente mantenere il numero suindicato di 400 mila pecore e di 26 mila vacche. La rendita netta di questi animali essendo, secondo i calcoli più ristretti degli economisti, di un ducato a pecora e di ducati
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dieci a vacca e giumenta, avremmo un milione e quattrocento
sessanta mila ducati. Si calcoli, oltre ciò, il profitto del letame, che renderebbe vie
maggiormente fertili i nostri terreni seminatori, che hanno l’estensione di 383.970 moggia napolitane, oltre i prati naturali, i terreni pascolativi e sodivi, i boschi, le vigne, i giardini e pometi. Si calcoli finalmente il vantaggio che ci darebbe la vendita delle carni, dei formaggi, e delle lane, oltre l'aumento di quelle del lino, del canape, dei cereali, e delle civaie superiori al consumo della provincia, e vedrassi chiaro che la nostra agricoltura migliorerebbe d’assai, ed il prodotto sarebbe incalcolabile; e non avremmo il dispiacere di vedere emigrare i nostri contadini, che vanno il più delle volte a perire fuori del patrio tetto. Ma come farassi per alimentare un numero sì considerevole di animali nella lunga stagione d’inverno in una provincia, qual è la nostra, ristretta tra monti, e dove le nevi ci tengono rinchiusi nelle case, ed ove i geli e le brine bruciano prati, seminati, alberi e vigne? Farassi quello stesso che si fa nella Svizzera, in Inghilterra, in Francia, in Danimarca, in Lombardia, ed in altri luoghi
d’Italia, ove l'industria degli armenti è maggiore della nostra. Ivi gli animali non mai si fanno errare da un luogo all’altro, ma nell’inverno tengonsi nelle stalle, e le pecore si custodiscono in ovili coperti ma ben aerati, difesi soltanto dalla parte del nord; le pecore così custodite e nutrite, vivono bene e rendono molto. Faremmo come fanno tra noi coloro che ne posseggono po-
che, e come fassi particolarmente in Arischia, Coppito, Cagnano, Amatrice, Monreale, Barisciano, Sanstefano, Calascio, Atleta, Castel di Sangro, Bagnara, Balsarano, Carsoli, ove si educano e governano molti animali lanuti, vaccini, e giumentini. Se in questi luoghi possan ora mantenersi da circa 4.000 pe-
core, e da 500 in 600 animali grandi, perché non se ne potrà alimentare un numero doppio coll’aiuto del sistema della ruota agraria e di altre diligenze che occorrono, procurando loro abbondanti foraggi quando il suolo è coperto di neve? Faremmo in sostanza quello stesso che si fa per le pecore che si mandano in Puglia. In conseguenza lungi di avere il dispiacere di vedere inutilizzata la considerevole estensione di 191.985 moggia di terreno che si lasciano ogni anno in riposo, che formano la metà di tutti i nostri terreni coltivabili, li vedremmo tutti coltivati, ed oltre i cereali e civaie in maggior abbondan-
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za, avremmo esuberantemente ogni sorta di foraggio e verde, e secco. Ma se in vece della metà ne coltivassimo un terzo a prati artificiali, vale a dire moggia 127.990, e gli altri due terzi a cereali, civaie, ed altri prodotti, ottenendosi da ogni moggio non più che dieci salme di fieno, ne avremmo un milione e duecentosettanta
nove mila salme; quantità eccedente per i nostri bisogni. Ma oltre ciò dovremmo moltiplicare gli olmi, i pioppi, i salici, i frassini, gli ornelli, e tutti quegli alberi, le cui foglie e verdi, e secche, tutte piacciono alle pecore ed alle vacche: e dovremmo inoltre trar profitto dai baccelli delle civaie, e più di ogni altro dalle patate, dai cavoli, e da tante altre erbe e tuberi, che oltre di formare un abbondante nutrimento, favoriscono l'abbondanza e
la qualità del latte. Assuefatte poi le nostre pecore fin dalla nascita ai nostri freddi, non avremmo il dispiacere di vederle perire come succede in Puglia, ove tante volte muoiono quasi tutte. Io ricordo con dolore che nel 1715 ne perdemmo 300 mila e tutti gli allievi; nel 1726 100 mila, oltre degli allievi; nel 1787 altrettante, e nel 1809 assai più; né posso passar sotto silenzio che non vi è anno in cui per le epizootie non perdansi e madri, e figli, per la ragione che colà ora regna una malattia, ed ora un altra, e particolarmente
quella denominata schiavina; malattie che qui in provincia non si conoscono. Dovremmo finalmente migliorare le nostre razze coi merini, e particolarmente le pecore di Barisciano e Lucoli, perché tra le pagliarole sono le più grandi ed hanno ottima le lana. Ed ottime anche sarebbero quelle che i nostri possidenti mandano in Puglia, perché oltre di esser grandi ed aver lana fina, lunga e bianca, sono indigene degli Abruzzi, e non furono già introdotte da Alfonso I come taluni erroneamente credono. Quel Re non fece altro che far conoscere ai pastori le diligenze che usansi nella Spagna coi montoni. Queste razze potrebbero addimesticarsi facilmente nel nostro clima. Eseguendo tutto ciò, chi porrà in dubbio il sommo vantaggio che la nostra provincia ritrarrebbe se si moltiplicassero le pecore pagliarole, e se si allevassero, e governassero negli Abruzzi quelle
pecore che ora si mandano in Puglia e nella Romagna? Persuadiamoci una volta. Niun’altra provincia del Regno può meglio di noi migliorare la pastorizia e con essa l’agricoltura.
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Queste due arti gemelle esigono buoni pascoli con erbe fine, sugose, e fresche nella primavera, està, ed autunno, e noi [le] ab-
biamo. Esigono abbondanza di acque, ed a noi non mancano. Esigono un nutrimento in inverno, e noi abbiamo paglia, fieno, patate, crusca, ed altri generi, e ne avremo ad esuberanza se in-
trodurremo la ruota agraria. Esigono comodi ed ampi ricoveri per l’inverno, e noi gli abbiamo. Esigono finalmente buoni ed esperti pastori, ed i nostri sono espertissimi. Con ciò per altro io non intendo sostenere che si abbia a distruggere la pastorizia che i nostri ricchi possidenti esercitano mandando le loro pecore in Puglia ed in Romagna. Proseguano pure, e l’accrescano se ’1 possono, come io glie l’auguro; ma non si manchi di migliorare e moltiplicare dagli altri l'industria delle pecore pagliarole.
11. I/ dibattito sul Tavoliere di Puglia A) LETTERA DI CAGNAZZI A SISMONDI*
[...] Alfonso I di Aragona, sovrano assai saggio, ritrovato avendo questo Regno sommamente decaduto sotto il lungo governo degli Angioini, occupar si volle ad accrescerne la industria. Rivolse pria di tutto le sue viste a migliorare le lane di Puglia, per richiamarle a quel pregio che negli antichi tempi, come sapete, godevano. Fece a tale uopo venire di Spagna delle pecore di razza gentile, che diede a pastori, i quali ei mise sotto la sua protezione. Venivano questi con ispeciale vigilanza garantiti dalle altrui malvagità e persecuzioni, principalmente nell’emigrare colle greggi da un pascolo all’altro; erano di più esenti dal pagamento del dazio che da tutti gli altri possessori di bestiame si pagava al reale erario. Assunse l’istesso sovrano la cura di provvedere dette pecore gentili dei necessari pascoli invernali ad un certo determi* Da Luca de Samuele Cagnazzi, Su/ tavoliere di Puglia. Lettera del Cavaliere Luca de Samuele Cagnazzi al Signore Sismondo de Sismondi (datata 2 ottobre 1819), in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo V, gen.-mar. 1820 (A. Trani, Napoli), pp. 99-116, 123. Riportato anche in G. De Rosa-A. Cestaro (a cura di), Territorio e società nella storia del Mezzogiorno, Guida, Napoli 1973, pp. 382-396.
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nato prezzo, prevalendosi a tale uopo dei pascoli della gran pianura Daunia, che erano di pertinenza del r. erario e di altri che acquistar volle da particolari. Ma, per impedire che l'aumento di tali pecore non venisse ad arrecare danno all’agricoltura di quel paese, volle che se ne coltivasse una data porzione di tali terre secondo un periodo che stabilì, in modo che con reciproco vantaggio si esercitasse la semina dei cereali e la cura del bestiame. Tutti tali terreni costituirono quello che dicesi Tavoliere di Puglia. I pastori, ossia possessori delle pecore gentili, che prendevano in locazione questi terreni per pascolo, furono detti locati. Per istabilire poi il buon governo delle dette pecore, la promessa garantita a pastori e possessori, l’annuo provvedimento degli erbaggi, e la ripartizione e periodo della coltivazione delle terre, formò esso sovrano varie leggi e regolamenti per servir di norma ai magistrati destinati alla cura di questo ramo di finanze che fu denominato Dogana della mena delle pecore di Puglia. Queste leggi subirono in prosieguo varie modificazioni, secondo le circostanze dei tempi. Tutto il Tavoliere di Puglia è dell’estensione di carri 15.600. Di questi 940 sono terre salde, ossia incolte; e carri 4.600 diconsi di portata, perché dal Re Alfonso furono appartati per potere essere anche coltivati come sopra ho detto. I possessori di questi ne potevano coltivare la metà in ciascun anno, restando l’altra in riposo per servire anche di pascolo ai locati. Di questa metà annualmente posta in coltivo una sua metà, ossia il quarto del totale delle terre di portata, si trovava seminata in frumento e biade, ed un altro quarto dovea prepararsi in maggese dal verno precedente. Oltre a questi, altri carri 1.600 erano addetti all’agricoltura a piacimento, ma potevano andarvi a pascolare i locati recisa la messe; e qualora fossero stati ridotti a vigneti e ad altra piantagione, erano (e sono anche) soggetti al pascolo dei locati durante il solo inverno. Da ciò nacque la distinzione del pascolo invernale, e del pascolo statorico, che in questi differenti modi si godeva dai locati.
L'estensione del detto Tavoliere non è tutia nella provincia di Capitanata, inoltrandosi porzione nelle finittime provincie, ! Il carro è di venti versure, la versura di tre moggia; il moggio di Puglia si compone di mille duecento passi quadrati; il passo è la millesima parte del miglio italiano di 60 a grado.
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onde è, come vedremo, che né anche la metà di essa provincia è occupata dal Tavoliere. Convengo con voi che un tal sistema del Tavoliere di Puglia, nato nel decimoquinto secolo, non era che dannosissimo alla prosperità dell’agricoltura, ed altresì della pastorizia istessa per i vincoli che contenea; oltre che la temporanea locazione dei terreni non poteva mai produrre la loro migliorazione. Queste osservazioni però non isfuggirono nella patria degli Scaruffi, Serra, Turbolo, Broggia, Intieri, Genovesi, Galiani, Briganti, Fortunati, Palmieri, Filangieri, de Gennaro, Delfico, Galdi, etc. Il riparo a
questo e ad altri simili mali era impossibile sotto il governo viceregnale di questa nazione, come sarà da me pienamente mostrato in un’opera sullo stato della popolazione di questo Regno in ogni tempo?; oltre che allora non si badava ad altro che smungere i nostri popoli con replicate imposte?. Sotto il felice governo dei Borboni fu uno degli oggetti di somma considerazione il Tavoliere di Puglia, e si meditava censuarsi o vendersi, ma gravi
ostacoli si opponevano dai saggi magistrati. Il sistema doganale del detto Tavoliere era talmente connesso col generale sistema giudiziario, che abolire non si poteva senza riformare questo ed abbattere la feudalità. A far ciò si andavano già meditando dal governo le misure le più conducenti, le più dolci, e le più opportune ai tempi. Molti valenti uomini furono incaricati da Ferdinando a proporre le loro idee. La Reale Segreteria delle Finanze fu inondata di progetti per la censuazione e per la vendita delle locazioni. Vari di questi progetti furono dati alle stampe, dei quali con ispecialità meritarono attenzione quello del signor Galanti, che va inserito nell’appendice del secondo volume della sua dotta opera, Descrizione delle Sicilie; parimente quello del signor Targioni, inserito nei suoi saggi economici, pubblicati nel 1786, e dedicati al nostro Sovrano Ferdinando. Oltre a questi progetti, dal signor de Dominicis, magistrato di gran merito, che molto scrisse sul sistema della Dogana di Foggia, e da un certo Patini “ Cagnazzi si riferisce al suo Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia ne passati tempi e nel presente, la cui prima parte fu edita a Napoli nel 1820 dalla Tipografia di Angelo Trani, e la seconda fu invece pubblicata nel 1839 dalla Tipografia della Società Filomatica. Girolamo Brusoni nella storia d’Italia lib. 15 dice, che solamente dall’anno
1631 fino al 1644 si calcolò essersi da questo Regno spediti in Ispagna cento milioni di scudi.
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molto prima, si era proposto il sistema di censuazione del Tavoliere. Il Consiglio di Finanze, in cui vi sedeva l’illustre cavaliere Filangieri, fin dal 1788 era incaricato della discussione dei progetti di censuazione, e vedeva che questa novità non potea farsi isolatamente, ed eccone i motivi. Alfonso d’Aragona accordò, come ho detto, la sua sovrana
protezione ai possessori di bestiame che locavano i pascoli del Tavoliere. Creò dunque a tal uopo nel 1447 un magistrato, detto doganiere, e conferì a questo la piena giurisdizione sopra i detti possessori locati, e sopra i loro pastori, e sopra ogni altra persona addetta ai loro animali, affinché non fossero stati esposti alle violenze dei potenti particolari e dei baroni, le quali erano allora frequentissime, attesa la generale corruzione del costume. La trasmigrazione del bestiame da un pascolo all’altro, nella primavera e nell’autunno, non avrebbe potuto eseguirsi senza la speciale protezione del governo, e questa principalmente fu l’origine del Tribunale, che si fissò in Foggia, della mena delle pecore di Puglia. Oltre al doganiere fu destinato un credenziere, ossia un esattore delle rendite doganali, con un cassiere ed altri uffiziali opportuni; ed in fine con molti armiggeri, detti cava/lari, perché accompagnavano a cavallo le greggi nelle trasmigrazioni, e vegliavano alla loro sicurezza allorché erano nei pascoli. Vi era altresì un uditore, che poi furono due, destinati a giudicare le cause dei locati. Fu stabilito che tutte le costoro cause di qualunque natura, ed in esse o che fossero attori o rei, si dovessero decidere sommariamente,
ossia senza le formalità ordinarie del giudizio, e senza emolumenti dei giudici. Questa giurisdizione così ampia del Tribunale della Dogana di Foggia comprese poi non solo i proprietari locati degli animali doganali ed i loro custodi, ma ancora tutti gli altri ch’erano occupati a mestieri necessari a tale industria, come artefici di fiscelle ed utensili per la fabbricazione del formaggio, panettieri per uso dei pastori, etc. Erano inoltre soggetti al Tribunale istesso non solo gl’individui appartenenti ai locati e sudditi in qualunque modo della Dogana, ma anche i costoro domestici colle loro intiere famiglie. Per godere di questo esteso privilegio del foro vi erano moltissimi di tutte le altre provincie, che fittiziamente locavano una piccola porzione di terra del Tavoliere, di cui niun uso ne facevano, e furon detti locati fittizi. Tutti tali sudditi della Regia Dogana di Foggia, detti anche doganati, non potevano essere giudicati anche in comitiva d’altro giudice o tribunale, e potevano in
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ogni tempo reclamarne. Erasi questa giurisdizione estesa oltremodo, ed in più comuni vi era un giudice delegato per i locati. L’appello dal Tribunale di Foggia era nel Tribunale Supremo della Real Camera della Summaria in Napoli, che era la Corte dei Conti. Questa mostruosa giurisdizione, distaccata da quella ordina-
ria, era un asilo alle persecuzioni dei baroni, per cui veniva dal governo gelosamente conservata. Credo che vi sia noto che i baroni, ossia feudatari, aveano qui tutta la giurisdizione sopra dei loro vassalli, colla facoltà anche di comporre, ossia trasmutare le pene afflittive con danaro. Essi destinavano i giudici, ma questi per generale costume doveano consegnare nelle loro mani la rinunzia dell’impiego senza data, pria di ricevere la patente, affinché, quando non avessero voluto giudicare a piacere di essi baroni, avessero questi potuto deporli al momento, come fassi in Oriente. Finché non si fosse abbattuto
il gran colosso della feudalità, ch’era presso di noi il vero Status in Statu, definito da politici, era ben giusto che si fosse mantenuta la giurisdizione doganale del Tavoliere, per contr[ap]porre un inconveniente all’altro. Ecco la più gran remora che vi era alla censuazione o vendita del Tavoliere di Puglia già determinata. Ma perché non abbattersi subito, potrete dirmi, la feudalità? Già col fatto si cominciò ad agire fin dal felice governo di Carlo Borbone, e fu continuato dal suo augustissimo figlio con quella prudenza che si conveniva nelle politiche novità; intanto i tempi divennero pericolosi a qualunque politica operazione, onde si attendevano circostanze più favorevoli per compierla. La maggior parte dei baroni nel tiranneggiare i loro vassalli aveano avuta l’arte di far ad essi credere di essere i loro protettori e mediatori alle violenze del governo. Bisognava persuadere del contrario questa massa d’illusi, pria di dar loro la perduta libertà civile. In tale stato di cose da Giuseppe Buonaparte, dopo tre mesi del suo arrivo qui colle armi francesi, si volle la già meditata e progettata censuazione del Tavoliere di Puglia, ed a tale uopo nel dì 21 maggio 1807 ne fu emanata la legge. Questa, devo confes-
sare il vero, poteva essere fatta con migliori vedute e con maggior accorgimento. Tale verità non fu mai da me taciuta anche sotto la militare occupazione”. B Il termine «occupazione militare» o «governo militare» fu utilizzato, durante la Restaurazione borbonica, per designare il Decennio francese (1806-1815).
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In forza di essa legge furono esclusi dal poter censuare i terreni del Tavoliere coloro che non dimostrassero di aver pecore, e coloro che, essendo locati, fossero ancora proprietari di pasture limitrofe al Tavoliere di una estensione maggiore di carri cinquanta. Si conservò inoltre a pro di possessori delle pecore il pascolo statonico sulle terre che già lo soffrivano, come sopra ho detto. Da ciò ben si vede che, nel farsi la censuazione del Tavoliere, si ebbe pria di tutto in mira di sostenere il sistema di pastorizia in vigore. Non pochi furono gli abusi che si commisero nell’eseguirsi detta legge. Molti fecero comparire di aver pecore, e non l’aveano, per potere profittare della censuazione, e dispettare quelli che realmente l’aveano. Nei tempi di accesi partiti tutto era facile per coloro che galleggiavano. Tutti coloro poi che aveano seguito il loro Re Ferdinando in Sicilia non furono considerati, e restarono privi di tale beneficio. Fatta la censuazione infiniti clamori sursero, durante l’occupazione militare, per l’abuso che si faceva dai censuari della facoltà che aveano di pascolare nei terreni altrui, già coltivati e piantati ad uliveti, e vigneti. Dalle comuni di Barletta, Canosa, Trani, Corato, Andria, Bisceglie, Ruvo, Terlizzi e Bitonto, mol-
tissimi ricorsi furono per vario tempo inviati al Ministero dell’Interno, come ben mi costa, esponendo che dai censuari si devastavano gli uliveti, i vigneti, ed ogni altra piantagione colle pecore e capre, che vi portavano anche nella primavera. Siccome prima vi erano i cavallari, i quali, in origine, abbenché fossero posti per garantire i locati, furono però in seguito incaricati ad impedire loro ogni abuso nella facoltà di pascere gli altrui terreni, così, tolti questi colla censuazione, il male crebbe oltremodo. Tutte coteste doglianze venivano rimesse alla Commissione esecutrice della censuazione, e quindi all’ Amministrazione del Tavoliere, ma senz’alcun esito a favor dei coloni. Voi saggiamente avete fatto osservare nella vostra opera“ che ove la pastorizia fassi in pascoli spontanei si odia a ragione dai proprietari del bestiame ogni coltura. Il partita dunque dei proprietari di bestiame, ossia dei pastori contro gli agricoltori, ben ° Cagnazzi si riferisce a Nouveaux principes d’Economie politique, ou de la Richesse dans ses rapports avec la population, scritto da Sismondi nel 1819 e che conteneva, nel capitolo II, libro III, una critica alla legge sul Tavoliere del 1817. È proprio in risposta a questa critica che Cagnazzi scrive.
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vedete che ha dovuto avere, e tuttavia ha, molto accanimento nei terreni del Tavoliere di Puglia, e ciò durerà finché la nostra pastorizia non si riduca in pascoli sativi; ma ciò non è per ora, come vi dimostrerò. Allora potremo sperare che la pastorizia e l’agricoltura al dir di Varrone? vadano di accordo come due flauti armoniosi. Con questa animosità, dunque, alcuni censuari vollero acquistare le terre del Tavoliere di Puglia per farsi a vicenda la guerra. Avete veduto come dal partito dei pastori si offendeva quello degli agricoltori: da questi al contrario si posero immediatamente a cultura alcuni dei terreni censiti soggetti al pascolo comune, a solo oggetto d’impedire il passaggio delle greggi ad altri pascoli. In ogni modo però, lasciandosi libero campo ad ambi i partiti, si venne a ledere l’agricoltura di molti comuni da una parte, ed a turbare l’intiero ordine della pastorizia in tutta l’estensione del Tavoliere, non che alle altre adiacenti. Che esso sistema sia malinteso, io ne convengo; ma come abbatterlo di fatto senza fare un voto considerabile alla ricchezza nazionale? Conviene avere i pascoli sativi, si grida da alcuni; ma hanno essi consigliata l'economia dei proprietari del bestiame? La nostra pastorizia in pascoli sativi costerebbe, nello stato attuale, il triplo di quello che costa in pascoli spontanei, essendo le nostre terre in Capitanata assai più del bisogno. Io voglio ammettere che un sol moggio di pascolo sativo valga per dieci di pascolo spontaneo; ma è da badarsi ch’è più la spesa per l’annua formazione di un moggio di prato sativo in Puglia, che prendere in fitto dieci moggia di pascolo spontaneo. Volendo persuadere coloro del partito degli agricoltori che propongono ora i pascoli sativi per la pastorizia del Tavoliere, ho detto loro: perché non coltivate in ogni anno la stessa terra come fassi altrove, fertilizzandola col concime? Essi mi han risposto: questo non sarebbe della nostra economia, giacché la concimazione in Puglia costa più che il fitto di due anni delle terre che per tal tempo si tengono in riposo. Dunque si lasci a ciascuno di fare come la sua economia richiede!
Da quanto ho detto ben si vede che nella Capitanata mancano proporzionalmente le braccia alla coltivazione di quel vasto territorio, ma giova che io ve ’1 mostri con precisione. Ho detto che l’estensione del Tavoliere è di carri 15.600. Di
è Lib. I, Cap. IL
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questi secondo il signor Galanti* 3.259 carri sono nelle due prossime provincie di Basilicata e di Bari, talché in Capitanata il Tavoliere è di carri 12.341. Tutto il suolo della provincia di Capitanata, secondo l’attuale circoscrizione, è dell’estensione di miglia quadrate 2.359, che formano carri 32.763; tolti quelli appartenenti al Tavoliere, restano carri 20.422, ossia moggia 1.225.320 di libera disposizione di quegli abitanti. Oltre a ciò essendovi circa seimila carri di terre ripiene di cespugli nel Tavoliere, molto ne profittano quelle popolazioni. La popolazione attuale della Capitanata è di 258.927. Per la coltivazione delle terre di portata che, secondo il calcolo sulle nostre regole dell’arte, ammettano la seminagione di circa 90.000 tomoli di grano, e più di altrettanto di altre biade e legumi, vi bisogna, secondo le stese regole, il travaglio continuo di circa dieci mila operai, che formano colle loro famiglie una popolazione per lo meno di 40.000 individui. Per maggior certezza del calcolo io non considero i contadini addetti alla pastorizia, volendoli supporre tutti abruzzesi, il che non è. Or la popolazione della Capitanata riducesi a 218.927, che perciò ricade a ciascun individuo moggia 5 6/10. La provincia di Terra di Lavoro ha di estensione miglia quadrate 1.959, che fanno carri di Puglia 27.208 1/3, ossia moggia 1.632.500. La sua popolazione è di 575.490, onde ricade a ciascuno moggia 2 8/10, vale a dire la metà in punto di quanto ricade in Capitanata, non ostante la detrazione del Tavoliere. Per la provincia di Bari non vi può essere il bisogno di mettersi a cultura altro terreno appartenente al Tavoliere, che sono da circa mille carri, perché già tutti coltivati quelli che sono suscettibili di cultura, ed hanno la suggezione del pascolo invernale, come ho detto. Gli altri poi sono talmente sassosi che non possono ammettere alcuna regolare cultura. Per la provincia di Basilicata, essendovi 2.259 carri appartenenti al Tavoliere, qualunque sia il loro destino, niuna mancanza far possono alla sua agricoltura. L'estensione di questa provincia è di miglia quadrate 3.134, le quali fanno carri 43.627: onde ne restano 41.368 a disposizione libera degli abitanti; e questi essendo attualmente 398.582, ne ricade circa moggia 6 3/10 per ciascuno individuo. * Descrizione delle Sicilie, tomo II. Relazione dello stato della Capitanata.
II. I contesti locali
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E ben chiaro dunque che nello stato presente della popolazione delle provincie, ove trovasi il Tavoliere di Puglia, niuna
mancanza all'agricoltura forma lo stato attuale di pastorizia. Devo inoltre farvi osservare che col garantirsi il sistema attuale di pastorizia, non si vuole dal governo in conto alcuno scoraggiare coloro che avessero fatto delle piantagioni nei terreni censiti. Qualunque piantagione, o di alberi fruttiferi o silvestri, viene con somma gelosia protetta, ma semplicemente non si tollera una seminagione variabile annualmente, che da diversi si è intrapresa nei terreni censiti contro i patti della censuazione a solo oggetto d’impedire il libero esercizio della pastorizia ad alcuni, ed intorbidare il generale sistema di questa. Qui nasce un quesito a fare. Conviene nello stato attuale delle cose che il governo garantisca la nostra pastorizia a fronte della seminagione dei cereali? Certamente che sì! L’apertura del commercio col Mar Nero ha inondato il Mediterraneo di frumenti,
ed il prezzo cangiabile di un tale genere presso di noi è ora al di sotto del prezzo di produzione. Questo fa che da giorno in giorno la seminagione dei cereali vada indebolendosi, e conviene che i nostri proprietari divergano la loro industria ad altri rami di agricoltura. Le nostre lane per lo contrario sono ricercate in commercio, e formano al presente un ramo assai ricco di estrazione,
oltre a quelle che sonosi già cominciate a manifatturare con perfezione presso di noi. Venuto il Re Ferdinando in questi suoi domini ritrovò la censuazione fatta del Tavoliere di Puglia lesiva al regio erario, e con molti abusi commessi nella esecuzione, come ho fatto notare. Ritrovò altresì tante doglianze per parte di molti proprietari dei
terreni coltivati soggetti al pascolo degli animali dei censuari, ed al contrario molte doglianze dei proprietari del bestiame per gli abusi e novità commesse contro i patti stabiliti nella censuazione, i quali abusi venivano ad alterare ed intorbidare il loro sistema di pastorizia, e con ciò a ledere gl’intressi dello Stato. Con maturo consiglio dalla detta M.S. nel dì 13 gennaio 1817 fu emanata una legge, il cui preambolo è il seguente. «L'economia del Tavoliere di Puglia avendo richiamato le nostre cure, e la nostra particolare attenzione, abbiamo avuto luogo di osservare che i cambiamenti in esso avvenuti per effetto della già eseguita censuazione hanno alterato quel costante equilibrio tra l’agricoltura e la pastorizia, che l’imperiosa circostanza della posizione degli
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Abruzzi e della popolazione della Puglia vi avevano per annosa consuetudine stabilito. Essendo quindi nostra volontà di riparare ai disordini, che l’esperienza ha fatto riconoscere di aver cangiato il sistema del Tavoliere, e di prevenire i danni che ne risulterebbero contro la prosperità di una gran parte dei nostri sudditi, e volendo d’altronde estendere anche a quelle enfiteusi le benefiche disposizioni contenute nei Nostri Reali Decreti del 28 di febbraio e 18 di giugno 1816 per la censuazione dei beni dello Stato, abbiamo creduto giusto e prudente di adottare il mezzo di una generale transazione, la quale, sanando per effetto della pienezza della nostra sovrana potestà i vizi di alcuni di quei contratti, di altri correggendone gli errori, e conciliando gl’interessi dei particolari colle vedute di pubblica utilità, ristabilisca l'influenza del governo sull’economia del Tavoliere, e ripristini in favore degl’interessati la concessione di alcuni di quei privilegi, dal di cui esercizio il felice andamento della medesima specialmente dipende. E considerando che sebbene le azioni fiscali derivanti dalle lesioni che i contratti del Tavoliere generalmente contengono, potrebbero essere sperimentate fra lo spazio di trenta anni dalla loro data, uniformemente a quanto viene ordinato dai succitati decreti, attesa la di loro stipulazione avvenuta prima della pubblicazione del codice provvisoriamente in vigore, sia ciò non ostante proprio della nostra reale clemenza, e conducente al bene degl’interessati il compensare anche queste azioni colla suddetta transazione generale, siccome essi medesimi ne hanno avanzate le loro dimande ed offerte. Udito il nostro Consiglio di Stato abbiamo risoluto etc.» Con tale legge si vengono a confermare le censuazioni fatte mediante una transazione, richiamando pria di tutto in osservanza quanto fu il disposto nel 1806, che ebbe lo scopo di sostenere l’attuale sistema di pastorizia, non potendosi nello stato presente della nostra popolazione cambiare, come ho dimostrato. Fra le altre disposizioni che a tal uopo furono date, fuvvi quella di doversi lasciare la cultura in quelle porzioni di terre necessarie alla pastorizia. Questa produsse qualche malcontento per i fini già detti, onde alcuni, svisando questa giusta disposizione con ragio-
ni astratte, tacciar la vollero come barbara. Fu loro risposto che potevano benissimo dare sfogo al loro zelo per l'aumento dell’agricoltura, avvalendosi di moltissime terre salde che sono nel Ta-
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voliere di Puglia e fuori, senza toccare quelle che precisamente bisognano alla pastorizia, come era stato loro vietato nel contratto. Non contenti di ciò han voluto cogli stessi pretesti sorprendere qualche forestiere poco accorto, facendolo cadere in errore. Son queste le novità, signor Sismondi, che il nostro saggio Ferdinando odia, non già quelle che producono il bene dei suoi amati popoli! Da gran tempo egli amava conoscere tutt’i difetti ed abusi che esistevano, e meditava le attuali riforme. [...] Io son sicuro, signor Sismondi, che siate già ricreduto delle dette imposture costà spacciate, e che per onore della vostra pregevolissima opera ne renderete consapevole il pubblico. [...]
B) LA RISPOSTA DI SISMONDI”*
Illustrissimo Sig. Ho ricevuto ieri 2 gennaio la lettera su la polizia del Tavoliere, con cui mi ha onorato in data del dì 2 ottobre, e prima di tutto devo ringraziarla della maniera molto gentile con cui combatte dispareri o rileva errori. In un tempo in cui tutte le discrepanze di opinione sono esacerbate da infauste passioni, giova sempre l’esempio di uomini, che curando il bene pubblico per diverse strade, sanno onorare quelli che ne seguitano una diversa dalla loro propria. E infatti possibile che io sia stato indotto in errore sulle misure nuovamente prese relativamente al Tavoliere, non precisamente da viaggiatori, ma dai censuari stessi che io incontrai in altre parti d’Italia, non essendo entrato nel Regno da quindici anni in qua. Ella spiega molto bene nella sua memoria, come un interesse privato ha eccitato accanimento tra
i censuari e i proprietari di bestiame, onde i primi hanno potuto cadere in diverse esagerazioni. La disgrazia di un governo che non ammette veruna libertà della stampa, è ch’egli viene sempre giudicato sul dire dei soli suoi accusatori. Ella mi rimette a quel che hanno detto i giornali napoletani; ma non può ignorare che questi giornali non vengono mai letti fuori del Regno, ed assai poco dentro. Contengono, non ne dubito, documenti uffiziali degni di essere indagati; ma manca, e necessariamente deve mancare, la curiosità di sentire quel che dice uno, che non concede * Risposta del Signor Sismondi al Signor Cagnazzi, datata Pescia in Toscana, 3 gennaio 1820, in «La voce del secolo», n. 11, 29 agosto 1820, p. 45.
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che si gli risponda. Al giorno d’oggi i preamboli delle leggi ispirano di rado maggior fiducia. Da cinquant’anni a questa parte, tutti i governi europei hanno sentita la necessità di dare almeno buone parole, e bisogna confessare che i due opposti sistemi di governo che si sono combattuti dall’epoca della rivoluzione, restano del pari nell’arte di colorire misure oppressive con magnifiche parole. La legge di Giuseppe [Napoleone] del 21 maggio 1806 può molto bene aver portato un preambolo ripieno dei più magnanimi sentimenti, ed aver mancato non ostante di sane ve-
dute e d’accorgimento. Non resta dunque adesso che i fatti materiali, e mi rincresce assai di non aver potuto procurarmi il testo istesso dell’editto, che io domandai a Napoli. Io vedo dalla di lei lettera, che quello del 13 gennaio 1817 contenea infatti misure repressive sulla coltivazione, ed un accrescimento gravoso delle incumbenze date ai censuari, ma quello di cui mi era stato parlato, dovea essere anteriore di un anno, ed anche due, e provvisorio, ed era un possidente pugliese che mi assicurava ch’esso limitava la lunghezza del vomere dell’aratro. Se ella in parola d’onore m’assicura che un tal regolamento non ha mai esistito, pubblicherò la sua protesta nella prima ristampa della mia opera; se al contrario ha esistito infatti, ma con modificazioni tali da rendere al suo parere il regolamento savio e giusto, mi mandi il testo di quell’editto provvisorio, ed io metterò in nota gli articoli con una cortissima spiegazione di buona fede; ma se l’editto fu ridicolo, bisognerà pure o confermare il già detto, o almeno lasciar correre. Altrettanto direi dell’editto del 13 gennaio; e se ha
la gentilezza di mandarmene il testo, la storia molto elegante e molto chiara che ha tessuto delle circostanze anteriori e delle difficoltà da incontrare, mi metterebbe in grado di capirlo, ed io nel riprodurre una parte del testo in note, la spiegherei coll’istessa imparzialità. Suppongo dalla forma della di lei lettera, che fu destinata ad essere stampata, e forse lo sarà già a quest'ora, ma nella profonda solitudine in cui ho passati questi nove mesi e ne ho tuttavia tre altri da passare, io resto affatto al buio delle nuove letterarie d’Italia. Io non posso che sentirmi onorato del carteggio e privato e pubblico di un soggetto così distinto e così benemerito, e di nuovo ringraziandola, e dei lumi nuovi che ella mi ha dato, e della maniera di darli, passo a dichiararmi con perfetta stima.
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C) UNA VALUTAZIONE
CRITICA*
Nelle vaste pianure della Daunia dai più remoti tempi fiorì l'agricoltura e la pastorizia, né allora vi furono leggi restrittive. Distrutta la popolazione per l’inondazione dei barbari, e pei
mali che per molti secoli l'ignoranza versò a larga mano sul genere umano, le campagne rimasero deserte, e non offrirono che uno squallido pascolo agli armenti, che dalle montagne delle vicine provincie e particolarmente sull’ Abruzzo scendevano a dimorare nell’inverno. Questo stato di squallore non sarebbe stato durevole, giacché col progresso dei secoli, i tempi divenuti migliori, e dileguatosi a poco a poco lo stato di barbarie e d’ignoranza, se le altre provincie del Regno hanno in parte riacquistata l’antica prosperità e popolazione, maggiormente ciò avrebbe conosciuto la Daunia, che per la felicità e vastità dei suoi campi è stata dalla natura tanto più favorita; il sistema però del Tavoliere adottato da Alfonso primo d'Aragona ha opposto un ostacolo insormontabile, ed ha condannato quell’infelice paese ad un eterno squallore. Al-
fonso conoscendo che al suo tempo non si poteva sperare di trarre il maggior profitto dalle pianure della Daunia, che d’incoraggiare la pastorizia, si prefisse proteggerla: e se a ciò si fosse limitato, e se a quello scopo avesse fatto regolamenti e leggi idonee a ridurre l’effetto che si propose, la Daunia oggi sarebbe debitrice della sua prosperità, e non del suo misero stato. Certamente il primo passo naturale che fa l’uomo per trar profitto di una grande estensione di terreno consiste nel profittare del pascolo: colla prosperità, e moltiplicazione degli armenti ne viene il ben essere dei pastori, che divenendo agiati e ricchi si moltiplicano, ed allora divengono agricoltori. Prosperando la pastorizia insieme coll’agricoltura si giunge a quello stato di perfezione in
cui la prima diviene un accessorio della seconda; allora ove innanzi viveva un bove, si alimenta un armento. Chi volesse arre-
stare l’uomo al primo anello di questa naturale catena con leggi ristrettive, e stabilire l’ultimo grado dell’umano avanzamento in una pastorizia errante, condannerebbe la specie umana a vivere all'uso dei Tartari e peggio dei Tartari, perché costoro almeno * Articolo senza titolo ed anonimo, in «La voce del secolo», n. 8, venerdì 18 agosto 1820, pp. 31-32.
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non pagano né canone, né fondiaria, né render devono la passata per passar oltre. Il Tavoliere di Puglia comprende quasi tutte le terre poste nella vastissima pianura della Daunia: ha circa 70 miglia di lunghezza sopra circa 40 di larghezza. Fu istituito da Alfonso primo d’Aragona; per legge dovea rimanere incolto e servire da pascolo. Fu istituito sotto gli auspici della prepotenza e dell’ignoranza; della prepotenza giacché per formarlo Alfonso invase le terre dei particolari, e le censì per quel minimo canone che gli piacque; dell'ignoranza giacché limitò l’ultimo sviluppo dell’industria e prosperità umana, al sistema barbaro di una errante pastorizia. Figlia della violenza e dell’ignoranza, l’amministrazione del Tavoliere non ha, dalla sua istituzione fino ad oggi, in nessun tempo smentita la sua origine. Lunghissima e rivoltante sarebbe l’istoria delle vessazioni arbitrarie ed illegali, colle quali il capriccio, l’ignoranza, e la finanza ha sempre straziata l’infelice classe dei locati”. Se incredibili sono le leggi colle quali è stato retto il Tavoliere, più incredibile è certamente che queste giunte sieno fino ai nostri tempi; sono esse le prove le più luminose, ed il monumento il più parlante del modo come si perpetuano gl’errori ed i pregiudizi i più assurdi sotto i governi privi dei mezzi di conoscere la verità, o schiavi della loro tirannia. Noi ci limiteremo ad indicare qualcuno dei più assurdi regolamenti che facevano base al reggimento del Tavoliere, il di cui fondamentale principio fu di rendere inalienabile.il suolo, di modo che gl’infelici abitatori del medesimo furono condannati a non divenir mai proprietari, e ad essere per sempre privi di quei beni, di quella prosperità, e di quelle virtù che accompagnano costantemente la proprietà, furono condannati, dirò così, a vivere come estranei nella loro patria, e la Daunia divenne una colonia delle altre provincie. 1. Fu proibito sotto leggi severissime, che verun terreno incolto potesse mai coltivarsi; e non vi era in Puglia delitto più ! La passata è una specie di bolletta che si rilascia dall’amministazione del Tavoliere dai locati che hanno soddisfattoi pesi fiscali; senza tal bolletta non si possono muovere le greggi, né estrarre i prodotti della medesima. ? Si chiamano /ocati iproprietari degli armenti che pascolano in Puglia sulla terra del Tavoliere.
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rigorosamente punito quanto quello d’aver tirato un solco, d’aver piantato un albero, d’aver in somma coltivata la terra. 2.1 pochi terreni seminatori delle così dette portate, nei quali si tollerava la coltura (poiché anche i pastori hanno bisogno di pane) veniva permessa mediante mille restrizioni, e fra le altre era vietato di arare le terre prima del 17 gennaio; non si potevano lavorare che col piccolo aratro di Puglia, affinché l’erbe non fossero estirpate, e ciò ch’è più singolare, e che trapassa i limiti della credibilità, è che con bandi rigorosissimi era proibito di far uso del concime delle pecore per ingrassare i campi. Ogni anno uscivano da Foggia, commissari del governo con arrogante sbirraglia, non per perseguitare i malviventi, di cui quella provincia per l’indolenza e debolezza del governo è stata sempre pur troppo il nido, ma per inquietare e trattare qual delinquente quell’agricoltore che avesse tirato un solco profano sull’incolto terreno, o sparsa una soma di concime sulle smunte sue terre. 3. Gli erbaggi del Tavoliere si affittavano annualmente all'incanto, di modo che questo sistema rendeva impossibile la costruzione di verun riparo per difendere gli uomini e gli animali dall’intemperie, come impossibile si rendeva di far proviste di foraggi, di modo che negl’inverni rigorosi, come ve ne sono stati non rari e funestissimi esempi, si perdevano interi armenti, l'industria tornava al nulla, ed infinite famiglie cadevano nella miseria. 4. Si obbligavano i possessori di animali delle altre provincie del Regno a condurre le pecore nel Tavoliere, ed in caso che un proprietario avesse voluto ritenerle nelle proprie terre per averne il concime, e per consumare i propri foraggi, vero fine della pastorizia, pur tuttavolta pagar dovea la fida. 5. Finalmente inibito era ai proprietari del Regno di Puglia di vendere i loro erbaggi se prima il fisco affittati non avea i suoi. Condannata una provincia a simili leggi, questa potea mai uscire dallo stato di squallore, fosse anche più fertile della Daunia? Nel 1806 al principio del Decennio, il governo avendo conosciuta l'assurdità del sistema del Tavoliere, lo censì ai locati con canone redimibile, onde questi divennero proprietari utili, e potevano divenirlo anche diretti. Allora fu che la Daunia concepì la speranza di conseguire quella prosperità alla quale viene chiama-
ta dall’ubertosità e dall’estensione dei suoi campi. Quella saggia
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misura così liberale, e ben calcolata in se stessa non andò però disgiunta dalle vedute finanziere che la deturparono. La rendita del Tavoliere fu aumentata quasi del terzo, i censuari furono ingiustamente gravati di quella parte di fondiaria, che apparteneva al dominio diretto, ed in mille differenti modi vennero tassati, di maniera che fu loro fatto pagar ben caro il dritto di proprietà, e la facoltà di poter liberamente disporre del suolo; ciò non ostante però ciascuno dei locati, liberato dalle leggi restrittive che non hanno mai prodotto, e che non possono produrre il bene né lo scopo che si prefiggono, si trovò al caso di giudicar da se stesso, meglio dell’autorità pubblica, dell’uso che dovea fare della sua proprietà, e di ritirarne quel profitto, che più conveniva al suo interesse, e perciò al bene universale, giacché è assioma il più dimostrato, che il pubblico interesse si trova nella riunione degl’interessi privati. Di fatti nel Decennio si cominciò a vedere a colpo d’occhio crescere la prosperità nella Daunia, e principiò quasi per incanto a dileguarsi lo squallore di quelle incolte e disabitate campagne. Si cominciarono a costruire abitazioni, ripari per gli uomini e per gli animali, edifizi per l'agricoltura, si moltiplicarono i poggi, le vigne presero un rapido incremento, e l’industria tanto agricola che pastorale, il di cui interesse non può esser mai disgiunto, presero uno slancio, che in più breve tempo di quello che si crede avrebbero ridotta quella provincia in uno stato floridissimo, se i vecchi pregiudizi riuniti all’avidità finanziera non avessero prodotto la legge fatale del 13 gennaio 1817 che condannò nuovamente la misera Daunia allo squallore ed alla sterilità, e che pur troppo ne conseguì in brevissimo tempo il completo effetto. Questa legge condannò i locati e quella provincia alla miseria ed alla disperazione; estorse vari milioni di docati dalle mani le
più industriose del Regno, e tornò ad incatenarla con leggi restrittive; quindi quella provincia è stata la più ardente nell’operare la riforma politica del Regno, e la rivoluzione ivi non concertata, non premeditata, si operò con tanta rapidità che si propagò senza la minima esitazione, come i segni telegrafici, che ne annunziarono l’incominciamento; né può dubitarsi che questa
legge, la quale tanto insultò la giustizia, ed il senso comune, da impoverire la classe più produttiva del Regno, non abbia più di ogni altro colpevole errore contribuito al discredito del passato
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ordine di cose, e perciò al rovesciamento del ministeriale dispotismo.
Immaginaria sembrerebbe una tal legge, o frutto piuttosto dei secoli di barbarie che del nostro, se fatalmente non bastasse
aprire i codici delle nostre leggi per dimostrarne l’incredibile esistenza. In essa dopo essersi consagrata la massima, che le censuazioni del Tavoliere doveano considerarsi come le vendite dei beni dello Stato, di cui se n’era promessa l’inviolabilità, si dichiararono lesive; questa lesione, mediante la quale lo Stato avea di un terzo aumentata la rendita, si dichiarò, o piuttosto si asserì in forza di un decreto, e l’autorità giudice e parte non permise che i tribunali la prendessero ad esame; né che i censuari potessero ai medesimi rivolgersi. Dimostrata con questo facile modo la supposta lesione, l’infallibile ed onnipotente ministero decise nella legge suddetta essere in libertà del governo di riguardare come nulle le censuazioni; invece però di usare il rigore, a cui gli dava diritto una lesione così illegittimamente dimostrata, la legge stessa chiamò i decaduti censuari ad una transazione; risparmiò loro però la briga di nominare un procuratore per trattarla, giacché la stessa legge ne stabilì con moto proprio il tenore, e condannò quei censuari che si fossero ricusati d’accettare quest’atto di clemenza a perdere tutte le spese fatte per l'acquisto della censuazione. Mediante questa transazione così liberamente accettata dai censuari, vari milioni di docati sono stati estorti ai medesimi, tolti all’industria, e gettati nella voragine senza fondo delle finanze. La stessa legge (e chi potrà trattenere il riso insieme, e l’indignazione) dichiara illegittimi detentori, e decaduti da ogni dritto di proprietà, e perfino da quello di ripetere le spese erogate nell’acquisto dalla censuazione, quei devastatori dei fondi fiscali, tutti quelli censuari, che sulla buona fede del contratto, durante il Decennio, avevano messe a coltura le incolte campagne, di modo che lo stordito Regno sentì condannare come devastatore a perdere la proprietà, colui che l’avea irrigata coi suoi sudori, arricchita colla sua industria, resa produttiva coll’impiego della sua fortuna. Insomma l’uomo che avea trasformato un deserto in un giardino, si sentì per la prima volta al mondo per un tal delitto con-
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dannato alla miseria, ed alla taccia di devastatore, e perciò d’illegittimo possessore. Oh abberramenti incredibili dello spirito umano! Oh disgraziati sovrani trascinati ad onta delle loro rette intenzioni a sì fatte misure! Oh infelici popoli vittime della ministeriale perversità, della finanziera avidità, del forzato silenzio del pubblico, e dei vecchi pregiudizi! Ecco sino a qual punto può giungere un governo privo di lumi e dei mezzi per conoscere la verità. In somma l’agricoltore per forza di assurde e false opinioni miste alla moderna malizia fu riguardato qual devastatore nello stesso modo che l’uomo liberale che non vuole che l’ordine, le leggi, ed i limiti legali del potere, viene definito dalle teste ministeriali ed oligarchiche qual torbido fazioso infetto della più esaltata e pericolosa demagogia. Dopo tre anni d’incertezze e di palpiti finalmente i ministri, sempre per effetto di clemenza, perdonarono il delitto d’una coltivata terra, e mediante una fortissima penale abilitarono i censuari decaduti a formare i nuovi istrumenti. Tale fu la legge incredibile, uscita li 13 gennaio 1817 che ad eterno monumento della cecità dei governi assoluti afflisse ed impoverì la misera Daunia, ristabilì l’assurdo sistema del Tavoliere del 1450, e fece spargere lagrime di sangue agli uomini più utilied industriosi del Regno. E giunto finalmente quel tempo in cui i pregiudizi, anche i più consagrati dal tempo, scompariscano qual nebbia avanti il sole della sapienza pubblica; ed il nazionale Parlamento non tralascerà certamente d’occuparsi del Tavoliere, e del bene della più fertile provincia del Regno; bene ch’è così vincolato con quello dell’intera nazione e di questa popolata capitale, che in gran parte ne ritrae le sussistenze. AI Parlamento verrà presentata una memoria nella quale si dimostrerà. 1. L’assurdità del sistema del Tavoliere. 2. Quanto questo abbia nociuto nel Regno, ed in Puglia particolarmente, ai progressi ed al bene della pastorizia dal tempo in cui fu istituito fino a noi. 3. Come sia stata l’unica causa dello squallore attuale della Daunia. 4. Quali sieno i mezzi per far prosperare quella provincia, e per conoscere gli ostacoli che vi frappone il Tavoliere.
5. Si chiamerà ad esame finalmente la legge del 3 gennaio
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1817 tanto relativamente ai principi della sua giurisprudenza, che relativamente alle sue assurde asserzioni, ed al vero spirito che la promosse. 6. Finalmente coi principi i più savi della pubblica economia, e della scienza agraria, si ribatteranno tutti i sofismi vecchi e nuovi, diretti a canonizzare la tartara pastorizia nella Daunia, e principalmente quei riprodotti dal Sig. Cagnazzi nella sua lettera inserita nel fascicolo degli «Annali di Agricoltura» di Napoli nella quale si compiacque chiamare maleintenzionato colui che aveva narrati al Sig. Sismondi i semplici fatti della luttuosa ed incredibile storia autentica e moderna del Tavoliere; la quale denominazione di maleintenzionato tanto può convenire alla persona sudetta, quanto potrebbe applicarsi quella di bene intenzionato a colui che facesse servire la sua penna ai vecchi pregiudizi, ad adulare e confermare il potere nei suoi errori, ed a perpetuare i mali della sua patria per incontrare la grazia dei ministri.
12. L'economia di Terra d'Otranto * [...] Le terre difficili godono dei vivaci uliveti: e di ciò po-
tranno darti aperto segno i molti oleastri sorgenti in questo stesso spazio ed i campi coverti da silvestri bacche. Quelle che nutrono la felce odiosa ai curvi aratri, ti daranno fertili viti e copia di generosi vini!. Ed in vero il genere di coltivazione che meglio conviene alla Terra d'Otranto è l’ulivo e la vigna; l’ulivo cresce da per tutto spontaneo, ed i vigneti di Brindisi e quelli di Galatina nel promontorio di Leuca, ove le felci abbondano, producono tuttavia vini preziosi, che cautamente conservati per alcuni
anni gareggiano con quelli di Cipro. In molte parti della provincia, utile sarebbe per avventura il mischiar le viti tra gli ulivi; e questa è in fatti la maniera con la quale suole ivi formarsi un uliveto, che è nel suo nascere accompagnato sempre da un vigneto. Se non che, quando giungono gli ulivi a dare copioso frutto, * Da Giuseppe Ceva Grimaldi, Itinerario da Napoli a Lecce e nella Provincia di Terra d'Otranto, Porcelli, Napoli 1821 (ripubblicato, a cura di E. Panareo, Capone, Lecce 1981), pp. 153-165, 169-188.
! Virg. Georg. II, 179, et seqq.
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spiantansi le viti, le quali si crede che usurpino una parte del nutrimento a quelli necessario. Ma in Contado di Molise vedesi per esperienza il contrario; e gli ulivi in tal modo allevati danno costante ed ubertoso frutto. È tra i convinti che non tutte le terre della provincia convengono ai frumenti, ma egli è certo altresì che molte di quelle che vi sono atte si coprono di soli ulivi. Il nostro lodato Palmieri dava un problema che a prima vista sa di paradosso: formarsi cioè
un uliveto in un dato terreno, piantandovi gli alberi di cui fosse capace, ed in guisa che riuscissero più fruttiferi senza menomare l’uso della semina e del pascolo”. Facile è nondimeno la soluzione: non piantandosi gli alberi in tutto lo spazio del detto terreno, bensì nel solo perimetro di esso, giacché possono in tal maniera esser disposti in distanza minore di quella che al primo modo richiedesi. l Generalmente il suolo tutto della provincia ha poca profondità di terra vegetabile; i campi coverti di rosmarino e di timo ne hanno appena pochi pollici. La coltivazione si fa con la zappa; non si conosce la vanga; l’aratro è piccolo, tirato per lo più da un solo animale anche da un asino, ed il vomere ha la forma di una
lancia. La coltura del cotone che altre volte tanto vi prosperava è ora negletta perché son menomate le domande degli stranieri, particolarmente dei francesi, che si provvedono dalla Turchia; né le
manifatture patrie sono tali da occupar questa mancanza. L’industria della seta, che è nel maggiore avvilimento, fa trascurare in modo i gelsi, che diventeranno ben presto una curiosità nell’orto botanico di Lecce. Il tabacco forma vantaggioso oggetto di coltura; quest’erba d’ingratissimo odore, sconosciuta in Europa prima della scoverta dell’ America, vi è ora divenuta necessaria al pari del caffè, della noce moscata, della cannella, e di tutti i soavissimi aromi di cui le due Indie sono a noi prodighe. Checché ne sia, rispettiamo la voluttuosa sensazione che provano gli amatori di questa nauseosa polvere, e rallegriamoci colla provincia di Lecce che abbonda di tali piante e pone nella bilancia del commercio ui oggetto di uscita in nostro vantaggio. Le piante del tabacco sono di due specie: una detto cutaro, l’altra brasile; si coltivano ad innaffiamento ed ? [G.] Palmieri, Pensieri economici, pag. 45.
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a secco: il primo metodo è più profittevole, dà un genere di miglior qualità, e si vende una metà dippiù di quello prodotto a secco. Prima di stabilirsi una fabbrica di tabacchi in Lecce questa manifattura era esercitata dai soli frati mendicanti; la loro pazienza dava maravigliosi risultamenti; i tabacchi dei contorni di Lecce, di Francavilla, di Giuliano, del Capo imitavano perfetta-
mente quelli di Spagna. In Lecce si lavorano ora 440.000 libbre di tabacco, comprese 40.000 per fumare; e si vendono all’estero
circa 3.700 cantari di foglie. La fabbrica, che è per conto dello Stato, ha un vasto locale, e sembra che i frati che un tempo lo possedevano avessero preveduto l’uso al quale doveva addirsi; i magazzini ed i luoghi sotterranei sono di vastità sorprendente. La pastorizia non è molto in fiore; le pecore pascolano in prati naturali, quindi il loro buono o cattivo destino nell’inverno dipende dalla caduta delle acque d’autunno. Essendo intanto i fieni artificiali ignoti, e rarissimi gli spontanei, le vacche ed i buoi somigliano a tanti spettri ambulanti nella fredda stagione. Ai tempi dei Romani celebri erano i pascoli e gli armenti di queste contrade?: Virgilio loda quelli di Taranto e di Otranto. Non vi sono razze di cavalli meno che una in Mattino, in Martina l’altra; la prima di piccioli e vivaci cavalli, la seconda di poche ma belle giumente nate dalla mescolanza delle razze di Conversano e Martina. Gli asini sono belli; i più grandi tra essi ed i più vigorosi pagansi molto più dei cavalli, perché padri dei muli: servono anche ad uso di sella, e vanno al trotto ed al galoppo. Non vi ha sulla terra asini che meritino più gli elogi del Plinio francese: giovani eleganti non isdegnano di montarli andando a diporto nei vaghi contorni di Lecce, e potrebbe ad essi indrizzarsi il versetto dell’inno di Debora. Ob voi che cavalcate i belli asini. I muli leccesi sono dopo quelli di Spagna i più belli del mondo: al vedersi le loro gambe snelle e le superbe loro teste si crederebbero altrettanti alci; sono ricercati per tutto il Regno. Le api meritano tanto più distinta ricordanza quanto il miele leccese è tuttavia degno degli elogi di Orazio. Si raccoglie due, tre, e talvolta cinque volte l’anno; ma quello da maggio a setLibresil più prezioso e soavemente odorato. È abolito il barbaro costume, ancora in uso in qualche altra provincia, di uccider ? Virg. Georg., Lib. II.
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Parte prima. L'agricoltura
le api per prenderne il frutto: si allontanano bensì col fumo. Ogni alveare può produrre circa dieci rotola di miele e due libbre di cera; il miele sopravanza al largo consumo che se ne fa nella provincia. [...] L’ulivo. [...] Cresce spontaneo in quasi tutta la provincia; ma per averne un immenso bosco, particolarmente nelle vaste macchie di Brindisi, basterebbe custodire dalle capre e dai bovi i teneri ulivelli che spuntano da per tutto. L’olio forma la ricchezza della Terra d'Otranto quando la via del mare è aperta; la sua desolazione quando è chiusa. Durante l’ultima occupazione dei francesi, questa pianta benefica divenne oggetto di maledizione; il vilissimo prezzo dell’olio stancava le speranze dell’agricoltore; le ulive erano profanate sino a divenire il cibo dei più abbietti animali, e gran quantità ne marciva abbandonata sulla terra. Se questa sciagura fosse durata dippiù, la disperazione avrebbe forse portata la scure e la fiamma in quei ridenti boschetti che ora formano l’orgoglio della penisola. Ma non ostante che il commercio or sia fiorente, la coltivazione degli uliveti è negletta*'; una buona porzione è insalvatichita; appena alcuni godono qualche benefizio dall’aratro; la potagione in ogni tre o quattro anni negligentemente si esegue. Si aggiunge la devastazione che si fa di questi alberi, impiegandosi il legname per l’uso del fuoco. Gli ulivi di Taranto e Massafra sono i meglio coltivati, e danno costante ed ubertoso frutto. [...]
La pratica più generale nella raccolta delle olive è di aspettare che cadano spontanee sulle aie che formansi intorno alle radici
4 Le eccellenti opere del Presta e del Moschettini sulla coltivazione degli ulivi, lasciano poco a dire su di un oggetto tanto importante; ed io vi rimando i lettori miei. [Entrambi gli autori citati hanno dedicato più di un lavoro all’economia olearia. Più precisamente gli scritti di Giovanni Presta sono i seguenti: Memoria intorno ai sessantadue saggi diversi di olio e su della raggia di ulivo della penisola salentina, Napoli 1786; Memoria intorno ai sessantadue saggi diversi di olio presentati alla Maestà di Ferdinando IV ad esame critico dell’antico frantoio trovato a Stabia, Napoli 1788; Degli ulivi, delle ulive, e della maniera di cavar l’olio, Napoli 1794. Quelli di Cosimo Moschettini sono: Della coltivazione degli ulivi e della manifattura dell’olio, 2 tomi, Napoli 1704-1706; Della brusca, malattia degli ulivi di Terra d'Otranto, sua natura, cagioni, effetti, etc., Napoli 1777; Della rogna degli ulivi, Napoli 1790; Osservazioni intorno agli ostacoli dei trappeti feudali alla prosperità della olearia economia, Napoli 1792. N.d.C.]
II. I contesti locali
113
degli alberi; la pratica di Taranto è di coglierle; questi due diversi metodi hanno particolari vantaggi e particolari difetti”. Le olive che cadono spontanee, perché mature, contengono la maggior quantità di olio possibile; ma per la lunga dimora sugli alberi, per gl’insulti degli uccelli e per la mancanza di gente che le lascia marcire sulla terra, la quantità ne è menomata quasi d’un terzo. È esente da queste perdite la pratica di Taranto: le olive raccolgonsi tutte, ma contengono
minor quantità d’olio a proporzione
dei vari gradi di maturità; oltreché la pianta soffre sempre dalle scale, dagli uncini e dalla rustichezza degli agricoltori; ed è inevitabile che i teneri rami non rimangano spezzati. I mori lasciano giugner le olive a perfetta maturità, e ne estraggono in alcune conche di politissimo marmo, poste tra gli stessi uliveti, un olio limpido al pari della più pura acqua il quale ripongono all’istante nelle loro vaste anfore. Se quest’uso non scioglie il problema della più produttiva ricolta, svela almeno il facile segreto di ottenere una eccellente qualità di olio. Lungo ed ingratissimo studio richiedesi all’incontro per avere un olio cattivo, giacché fa d’uopo dimenticar le olive cadute sul terreno fino a che marciscano, e
poi raccogliendole mischiate con la terra gittarle nei lordissimi cammini°, ed infine portarle a macinare in lordissimi mulini. So che la negligenza, pigramente ingegnosa nel rintracciar delle scuse, dirà che ricercandosi l’olio nostro dagli stranieri per uso di manifatture, non vi ha differenza di prezzo tra il buono ed il cattivo olio. Ma ciò non è nemmeno vero: in Marsiglia il prezzo segue i gradi della migliore o peggiore qualità. [...] Manifatture. Le manifatture di questa provincia sono la
più sicura prova dell’ingegno vivace dei suoi abitanti. Le donne vi sono quasi sole applicate, e senza mezzi e senza macchine imitano talvolta felicemente le più belle opere straniere. Il cotone, che può dirvisi originario perché vi prospera dapertutto, è di eccellente qualità; ed i gelsi, che formerebbero tante foreste, ove se ne volesse aver cura, indicano le industrie che dovrebbero inco-
raggiarsi. Riguardo alla seta (abbenché in molti paesi se ne faccia ? [G.] Palmieri, Pensieri economici, pag. 36 e seg. © Per cammini s'intendonoi ripostigli ove ripongonsi le ulive prima di maci-
narle.
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Parte prima. L'agricoltura
commercio) nondimeno un piccolo villaggio verso il Capo, chiamato Giuliano, di 400 anime è il solo luogo ove si lavora: le donne vi fanno dei nastri durevoli assai, ma non lucidi ed una stoffa mista di lana e seta che tinta in nero serve agli abiti degli ecclesiastichi. E che cosa si è fatto dei gelsi? Si sono in gran parte
bruciati nei camini e nelle cucine. Le manifatture di cotone sono più comuni, ma non in florido stato”; e gran quantità di esso si estrae dal Regno o ir natura, o solamente filato, il che si chiama vendinella. Non ostante ciò, i prodotti delle fabbriche di Galatina, Gallipoli, Nardò e Galatone sono comparsi con onore nella solenne esposizione degli oggetti d’industria nazionale fatta questanno in Napoli. Le coltri di cotone di Nardò sono appena seconde a quelle d'Inghilterra; perché il cotone di Terra d'Otranto è meno bianco di quello del levante, più sottile però, più lungo, e più forte; in Lecce si lavoravano una volta finissimi merletti, ora mediocri. Manca però il soccorso delle macchine, al di fuori di poche per filare recentemente introdotte in Galatone con l’uso della navetta volante; ma nel rimanente della provincia la navetta è vibrata dalla mano della tessitrice, cosa che porta ingratissima fatica. Egli è invero mirabil cosa come il solo ingegno delle donne ed una naturale attitudine, abbia loro rivelati i mezzi di supplire alla mancanza di strumenti nell’arte che esercitano.
Alle manifatture di felpa® in Taranto sono addetti gli uomini, perché vi si esige molto vigore; la filatura del cotone necessario ne è affidata alle donne. Per felpa s’intende colà quel drappo tessuto a somiglianza del velluto col pelo corto, ma i cui fili sono di cotone, mentre quelli del velluto sono di seta. Ve ne ha in Taranto circa 300 telai, e pochi in Francavilla e Massafra. Le felpe si travagliano a due e tre peli, e se vi fossero macchine, e se si conoscesse il conveniente artificio, questa ultima qualità potrebbe gareggiare coi velluti di cotone inglese; ma intanto sono buone appena per le ultime classi del popolo; la quantità che se ne fa in un anno ascende circa a 90.000 canne. Anche l’arte di conciare i cuoi, quantunque comune, è poco perfetta: in Grottaglia, Francavilla, Galatina, Maglie, Tricase,
Martina vi si conciano non solo i cuoi della provincia, ma quelli Esse decadono anzi sempre dippiù, atteso il vile prezzo d’ogni maniera di lavori di cotone stranieri. ; Questo nome è in vero usurpato ad un drappo di seta col pelo più lungo del FA
velluto.
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PES
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II. I contesti locali
I”)
ancora che vengono dalla Terra di Bari e dalla Calabria. Ma se si domanda quale ne sia la qualità, si può rispondere che le classi agiate fanno solo consumo dei cuoi stranieri, ed è da notarsi che il mirto ed il lentisco vi nasce da per tutto. Che cosa diremo dei lavori di lana? Celebri nell’antichità eran le lane tarantine, in particolare per la loro morbidezza. Marziale dopo aver detto che la sua amata Arozio superava nel canto i cigni morenti e nella bianchezza i gigli, soggiunge che nella morbidezza della carnagione vincea le agnelle tarantine?. Le lane sono ora inferiori assai a quelle di Puglia, che tuttavia ricordano le cure d’ Alfonso d'Aragona; e se non cominciasi dal migliorare gli armenti, le manifatture di lana di Terra d’Otranto serviranno come ora appena agli usi più rozzi della vita, tanto più che manca l’arte di purgarle dall’olio. In Manduria si fanno grosse coverte da letto, delle quali grande è il consumo nel Regno: non vi sono gualchiere; sodansi bensì i panni lani battendoli in riva ai fiumi ed ai fonti, come nella prima infanzia delle arti; vi è qualche tintoria, ma del pari negletta. Altra volta eravi in Laterza una fabbrica di stoviglie che si vendevano con profitto in Grecia, imbarcandole a Taranto; ma ora solo da Brindisi si mandano nelle isole Jonie e nell’Albania solidissime e vaste anfore di creta. L’agave americana, comune tanto che serve in questa contra-
da ad uso di siepi, somministra con le sue foglie macerate una specie di filo che potrebbe convertirsi in molti utili usi. Si pretende che i PP. Alcantarini abbiano i primi cominciato a servirsene in Oria, per le corde con le quali cingono le loro tonache. Oria è la sede di questa manifattura limitata a far funi e fiori artificiali; le funi sono utilissime perché a vil prezzo, e perché nell’acqua più durevoli di quelle di canape; poco vantaggio danno i fili in matasse, quantunque potrebbero servire a nastri, a veli, ed a mille usi. In Taranto si trae profitto dalle belle conchiglie di cui quei mari abbondano, per farne quadri a musaico di gentile esecuzione, fiori e deser; ed è ancor questo donnesco lavoro. La manifattura della lana di pinna marina, comunemente lana pesce, è parimenti in Taranto eseguita dalle sole donne che ne formano finissimi guanti e leggierissimi e vaghi scialli!°. ? Marziale, lib. V, epig. 38. l 10 Questa manifattura è antichissima e si era conservata in Italia, anche nei
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Parte prima. L'agricoltura
[...] Commercio. Gli abitanti delle rive del mare sono dalla natura invitati al commercio: la penisola di Otranto lo è tanto dippiù, e per la sua posizione essendo bagnata da due mari, e perché ha prodotti superflui. Non ostante non coltivasi questa sorgente di ricchezze; all’infuori dei tarantini, i quali anche di rado escono dal[lo] Jonio, Corfù e Zante sono le colonne d’Ercole di questi modesti navigatori; una sola barca tarantina ha osato far non ha guari qualche viaggio a Malta. Si aggiunge che le loro navi sono di picciola portata a riserva d’una di 78 tonnellate, che un naufragio spinse in quel lido. Le tavole statistiche della provincia portano in Taranto circa 150 marinari, ma nel rimanente della medesima, a riserva di Otranto che ha un picciolo giornaliero traffico con le isole Jonie, non è possibile trovare altri uomini di mare fuorché pescatori, dei quali eziandio, ad eccezione di Taranto, è scarso il numero. Gallipoli non conosce altro nolo che dal lido alla rada. Il chiarissimo Palmieri deplora questo fatale languore, infatti egli dice: «Se il commercio di trasporto non conviene egualmente a tutte le nazioni, non vi è alcuna, le di cui terre sieno bagnate dal mare, che possa esentarsi di avere quei bastimenti che sono necessari al trasporto delle sue merci. Altrimenti soggetta all’arbitrio degli stranieri tutto il suo
commercio, e lo grava di più della spesa del noleggio»!!. Noi fino dai primi tempi della monarchia avemmo una marina guerriera ed una mercantile assai fiorente. Molte truppe dei crociati scelsero i porti della provincia d'Otranto ad imbarcarsi per terra santa, e Federico II in particolare. Chi non sa qual fosse l’antico stato di Brindisi e di Taranto? Chi ignora essere stata tale a quei tempi la gelosia del commercio che per un espresso trattato con i Tarantini, i Romani eransi obbligati a non oltrepassare il promontorio Lacinio?!? Basta dunque che i leccesi vogliano esercitar la mercatura, la Calabria vicina fornirà i materiali di costruzione
per le navi, ed i marinari sorgeranno ad un tratto dalla terra,
come gli uomini seminati da Cadmo. Puerile sarebbe poi il timore che l’agricoltura potesse soffrirne, imperocché non richiedesi tempi più infelici. Francesco da Barberino che fiorì nel XIII secolo, prima di Dante cantò: «La nova veste di lana di pesce». Del reggizzento dei costumi delle donne, parte V, pag. 100, Roma 1815. !! Della Ricchezza Nazionale, pag. 161. !? Polibio rapporta che in Taranto terminava la navigazione di molte nazioni; e Silio Italico dice lo stesso di Brindisi.
II. I contesti locali
rl,
per lo commercio marittimo un gran numero d’individui, bensì in primo grado i capitali e l’industria: due cose che favoriscono anzi l’incremento della popolazione. Alla fatale epoca dei decreti di Berlino e di Londra, di gravissimo danno fu la mancanza di navi nazionali: il porto di Gallipoli rimase deserto; Brindisi fece un poco di negoziato con Trieste. Ma chi il crederebbe? L’utile maggiore ne cadde in mano degli stranieri: alcuni mercanti ragusei e montenegrini vennero a stabilirsi in Brindisi!?. La pace restituita, e la protezione che il governo concede al commercio, lo richiama già a nuova vita: l’olio intanto ne forma la principal ricchezza. L’olio delle provincie di Bari e Lecce è richiesto principalmente dagli stranieri per uso di fabbriche di panni, di saponi e di pelli; giacché quello di Spagna e di Francia, eccellente pel vitto, non è così atto alle manifatture, per essere meno pingue del nostro, e perché nei climi freddi più facilmente cade in rancidezza. Tre sono i caricatoi di questo genere nella provincia!*: Brindisi, Taranto e Gallipoli. Gli oli che si caricano in Brindisi, come negli altri porti dell'Adriatico, sono per l’ordinario diretti a Trieste, donde vengono trasportati nell'interno della Germania. Questo commercio è maggiore quando per le guerre è impedita la navigazione per l'Oceano Atlantico; allora gli oli trasportati a Trieste passano nella parte più settentrionale dell’ Allemagna, e anche al di là. Il porto di Brindisi vien frequentato dai veneziani e dai greci delle isole Jonie. I veneziani per lo più portano tavole d’abete, ferri ed acciai, e caricano oli e vini per Trieste; i greci vengono a comperare pelli ed utensili di creta, e portano quei piccioli 13 I negozianti di Brindisi sono nondimeno i soli nella provincia che fanno per conto proprio qualche caricamento di oli e di vini per Trieste. 14 Con la legge del 5 settembre 1815 furono classificate le dogane del Regno 1. in dogana d’imzzrissione, asportazione, e cabotaggio; 2. in dogana d’asportazione, e cabotaggio; 3. in dogana solo di cabotaggio. La dogana di S. Cataldo, spiaggia poche miglia lontana da Lecce, fu dichiarata di solo cabotaggio; per questa ragione non vi si fanno in atto imbarchi per l'estero; nel porto di Cesarea siccome non vi è dogana non si fa nessuno imbarco, neppure per l'interno. Il porto di S. Cataldo è frequentato dai bastimenti nazionali pel traffico delle Puglie e di Napoli: vi approda qualche legno estero di passaggio, ed in occasione di tempeste. In Cesarea siccome non vi è commercio così il porto non è frequentato da alcun bastimento, meno che da qualche piccola barca, che nel tragitto da Taranto a Gallipoli vi si ricovera; essendo il detto porto molto sicuro ma con poca profondità, sopra tutto nell’entrata dove vi sono dei banchi di arena. Il porto di Villanova sotto Ostuni si trova nelle medesime circostanze di quello diCesarea.
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Parte prima. L'agricoltura
e vivaci cavalli di Albania e di Epiro, che poi si spargono in tutt’il Regno.
In Taranto s’imbarcano oli per la Francia e per Genova, e se ne imbarcano pure per Napoli, quando però scarsa ne è la raccolta in Calabria. Gallipoli è però il centro principale dell’imbarco dell’olio di Terra d'Otranto e della parte contigua della Terra di Bari, che si dirige ai porti della Francia e dell'Inghilterra, ed anche in America. Il porto più sicuro è quello di Brindisi, indi di Taranto; quello di Otranto è pericoloso quando spirano i venti del settentrione, ma Gallipoli ha piuttosto una rada che un porto, ed una rada mal sicura in tutt’i tempi, maggiormente nell’inverno. A che deve dunque Gallipoli la ricchezza del suo commercio? Alle posture.
i
Le posture dette anche pozziche sono fosse scavate a guisa di pozzi per conservare l’olio nell’ammasso di carparo!, che forma l'isola sulla quale è fabbricata Gallipoli. Questi pozzi sono situati sotto i magazzini e coperti d’una volta, fabbricata con la stessa pietra; ed in questa volta si fanno le bocche, che restano al piano del magazzino. Se nel luogo ove si costruisce la postura, il carparo non ha fessure, basta per conservare l’olio rivestire le pareti della fossa di un intonaco composto di morchia dello stesso olio, e di crusca grossa di grano; se poi vi si trovano fessure, allora si ri-
vestono le pareti medesime di mattoni cotti uniti con calce, e vi si passa l’intonaco indicato. Le migliori posture, e le più calde, sono quelle che non hanno bisogno di questa veste di mattoni; la profondità loro è di 10 a 20 palmi. !° Carpo, o carparo tufo terreo-giallognolo, sparso di particelle bianche e di qualche punto splendente. Aspro al tatto e «bo Più duro del tufo. Granelloso quando si frange. Bibulo. Umettato col fiato manda forte odore argilloso. Solubile con viva effervescenza nell’acido nitrico. Pochissimo soggetto al tarlo. Analisi d’un esemplare di Carpo: Calce Silice
61 13
Allumina, e poco ossido di ferro Magnesia
12 2
Gas acido carbonico [Totale]
12 100
Contiene in copia frantumi di conchiglie e di litofiti, a segno che talvolta ne sembra un ammasso non interrotto. Cenni Geologici sulla Provincia di Terra d’Otranto del Conte Michele Milano [Tipografia del Consiglio di Stato, Napoli 1815].
II. I contesti locali
(LIS)
E tale il calore delle posture che l’olio r20st0!°, quando non è guasto, dopo otto o dieci giorni al più che vi è stato riposto, si trova interamente purificato e lampante, in guisa che si può subito imbarcare; gli oli guasti hanno bisogno di più mesi per esser depurati, oltre che non acquistano mai il conveniente grado di limpidezza. Da Gallipoli si estrae anche molta quantità di tabacco in fronda e cotone anche filato; i generi che gli stranieri v’introducono, come anche in Brindisi e Taranto, sono zuccari, caffè, salumi, ferri, legnami, abeti, acciai, ed ogni maniera di mani-
fatture. Gl’inglesi, i francesi, i danesi, gli olandesi, gli svedesi, gli americani!’ frequentano il porto di Gallipoli; i negozianti del paese abbandonano loro la parte attiva del commercio dell’olio, e si limitano a conservare il genere ed a consegnarlo, e al più a far delle speculazioni che non mai oltrepassano il porto. Resta a dire della misura di cui si fa uso nel commercio dell’olio, giacché in Gallipoli come in tutta la provincia non si contratta a peso, ma in misura di capacità. La sa/zz4 di Gallipoli, con la quale si regolano tutt’i contratti d’olio, è una misura di capacità che si suddivide in dieci staia: il peso di questa sa/rz4 dev’essere per conseguenza diverso, secondo il peso specifico dell’olio che si misura. Ordinariamente la salzza d’olio mosto è del peso di rotola 180 e quella d’olio chiaro di rotola 173, maggiore in rot. 8 della salma napolitana che è di staia 16, ognuno dei quali del peso di rotola 10 1/3. Questa è la così detta misura di magazzino con la quale si compera e si vende in Gallipoli, e nella maggior parte della provincia; ma nel distretto di Taranto la misura della sa/zz4 è maggiore, di modo che il suo peso in olio mosto giunge sino a rotola 196. Vi è però un’altra misura che si chiama di caricamento, ossia le Regie pile; ognuna di queste pile è di figura parallelepipeda, ed ha le sue pareti di marmo bianco: la sua capacità effettiva è di staia 104, misura di magazzino di Gallipoli; ma nei contratti d'imbarco per Napoli e per l'estero si fa valere per undici sa/zze napolitane, che corrispondono a staia 105 e due rotola di Gallipoli. Questa differenza d’uno staio e due rotola sopra ogni pila, ignorasi se abbia avuta origine dall’altera16 Chiamasi zzosto l’olio non ancor ben purificato. !? Da pochi anni a questa parte gli americani frequentano il porto di Gallipoli. Vi si fanno ora dei caricamenti in particolare per il Messico.
IZU
rarte prima. L agricoLtura
zione della misura della pila avvenuta col tempo, o pure sia uno degli elementi del prezzo dell’olio nei contratti, e si trascuri apparentemente quella frazione per ridurre le staia 104 di Gallipoli ad un numero intero di salme napolitane. In ogni contratto d’estrazione d’olio si mette la clausola: m2isura di caricamento. Or chi non vede da tutto questo imbroglio, quanto sia necessario stabilire nel Regno misure uniformi, giacché da una città all'altra sono così differenti. Conchiudiamo quest'articolo con una utile osservazione. Palmieri, che pubblicò le sue immortali Opere Economiche nel 1787,
esprimea i suoi timori che le crescenti piantagioni di ulivi nello Stato Pontificio, nella Toscana, nella Spagna e nella Francia avessero portato un colpo fatale al nostro commercio: ora è avvenuto tutt’il contrario. In ordine al valore dell’olio, il prezzo medio che 20 anni fa era di circa 25 ducati la salma può ora calcolarsi circa a 36 ducati, ma in questi ultimi anni si è elevato sino a 60!3. In ordine alla quantità, dalla sola provincia di Lecce si sono estratte, per domande di stranieri, all'incirca annue salme 24.000, e ciò
oltre l’olio diretto a Napoli: calcolo anche minore dell’effettivo, giacché in una così estesa spiaggia facilissimo è l'imbarco furtivo
13. La provincia di Calabria Citra* Sarà forse vero che il suolo di Calabria collo scorrer dei secoli siasi invecchiato, e reso perciò sterile ed infecondo? Allorché il lusso s’impadronì di Roma ed i primi magistrati di quel grand’impero sdegnarono di maneggiare l’aratro, anche essi si lagnavano, come noi, della sterilità dei loro terreni. Fu allora che Columella s’impegnò a provare che non l’incostanza del clima, né l’infecondità dei campi, ma l’abuso introdotto tra i romani di abbandonare la coltura del loro territorio ai servi, era la vera
cagione delle loro querele. !* Durante il blocco continentale ribassò a ducati 12, e nei piccioli paesi in tempo della raccolta sino a duc. 8. * Da Gabriele Silvagni, Stato della Provincia di Calabria Citra, in «Annali di Sgeia Italiana», tomo V, gen.-mar. 1820 (A. Trani, Napoli), pp. 124-125,
II. I contesti locali
121
La terra non invecchia giammai. La pigrizia dei proprietari, la loro ignoranza, e l'abbandono totale della coltura dei loro terreni ai coloni, sono, come lo furono una volta presso i romani, le
vere cagioni della sterilità del nostro suolo. Il sistema feudale e dei fedecommessi, la mancanza delle strade rotabili e di commercio interno, e finalmente, confessiamolo con rossore, l’ubertosità istessa del nostro suolo, anche esse au-
mentando la nostra pigrizia, diminuendo il numero dei proprietari, e rinserrando le ricchezze nelle borse di pochi, hanno attrassato i progressi della nostra agricoltura. Ma ora che la feudalità non più esiste, che i beni comunali sono stati ripartiti, che le strade si formano, che il commercio è libero, che si è fissata e stabilita con savie leggi l'uguaglianza dei dritti tra cittadini, e finalmente la protezione accordata agli agricoltori ed alla nostra Società economica, sono delle forti ragioni da farci sperare che, nati in un clima dove dal fronzuto pino sino all’odoroso arancio tutto vegeta a dovizia, divenir potrà il nostro paese il più ricco dell'Europa. [...]
Il totale della popolazione e dell’estensione dei territori di ciaschedun distretto della provincia, e la proporzione del numero delle anime a quello dei moggi di terreno coltivabile che ad essi corrispondono, si rileva dal quadro qui appresso?.
SI
Cosenza Rossano Castrovillari Paola Totale
eri
Mogg. di
Idem di
Idem di
Totale di
1% classe
2° classe
3° classe
moggia
177.430 136.456 203.179 60:52
470.380 443.795 384.710 144.751
590.030
1.443.636
99.191 151.618 141.341 67.528 154.265 153.014 96.621 74.439 109.092 MO 28OMN23 28 9A 31549 342.679
403.611
449.661
Ripartizione delle moggia per anime
3
moggia
passi
4 6 3 1
668 518 873 741
E
palmi
4 6 4 6
Da ciò si deduce che la popolazione di ciascun distretto, non solo non è proporzionata alla qualità e quantità dei suoi terreni, ed al maggiore o minore travaglio che sarebbe necessario per coltivarli, ma nemmeno al totale delle moggia di terreno coltivabile esistenti nei medesimi. 2 Nella colonna «popolazione» di 2? classe» e alle «moggia di 3 degli addendi. Si è però preferito ie non essendo possibile sapere
e analogamente in quelle relative alle «moggia classe», il totale non corrisponde alla somma riprodurre la tabella come compare nell’origise il refuso è nel totale o in uno degli addendi.
ì
122.
Parte prima. L'agricoltura
Tale è in abozzo, ed approssimativamente, la posizione di questa provincia, nella quale la coltura è varia a norma dei climi, delle differenti nature dei suoli, del commercio, e degli abitanti. I coltivatori del distretto di Cosenza, uno dei più popolati della provincia, travagliano quasi tutta la valle del Crati e la maggior parte della Sila. Questa vasta estensione di terreno destinato alla rinfusa alla pastorizia ed alla semina, appena offre in qualche piccola parte gli avanzi degli antichi boschi che un tempo l’occupavano interamente. E comecché il dissodamento dei terreni non è stato eseguito colle dovute regole, ma secondo gl’interessi
dei privati, così spesso vi si osservano delle colline destinate alla semina, e delle pianure fertilissime addette alla pastorizia o boscose. Ciò farà che tra breve le colline, non avendo più terra vegetabile, diverranno sterili rocce calcaree, ed i boschi saranno,
come lo sono alla giornata, cambiati in terreni seminatori. Allora questi, privi dei ripari che le foreste oppongono alle tempeste ed agli uragani, non che della terra vegetabile che viene annualmente trasportata nei piani sottoposti, diverranno anche essi sterili ed inculti. Sempreppiù ignoranti dei nostri veri vantaggi ci lusinghiamo trovare nei terreni scoscesi, ed alle falde della Sila, quelle ricchezze che colà non sappiamo raccogliere. Io parlo delle coste dei così detti casali, che un tempo boscosi formavano la nostra ricchezza. In quel tempo la terra vegetabile trasportata dalle colline nei piani sottoposti, formava la fertilità dei medesimi, mentre la quantità delle castagne e delle ghiande che si ritraeano da quelle falde boscose, ci arricchivano per l’ingrasso del bestiame. Ora le piante cereali vi vegetano molto male, e le acque scorrendo a torrenti per tutti i colli coltivati, trascinando seco la terra, le pietre, gli alberi fruttiferi, e talvolta anche le case istesse, tra
poco li cambieranno in rocce calcaree, o in sterili massi arenosi. Ciò accade ugualmente nelle coste dei bacini del Sibari e dell’Ocinaro, non che in quelle della marina dell’ovest, dove i torrenti sono più rapidi, e l’humzus ch'è trasportato dai medesimi va a perdersi nel mare, senzacché alcuna parte di terreno ne resti fecondata. Taluno vorrebbe farmi credere che se le nostre coste, dopo la
coltura, si sono deteriorate, le nostre pianure sono divenute più fertili, e che il nostro Crati come un altro Nilo feconda i terreni del vallo, a proprorzione della terra vegetabile che trasporta. Ciò
II. I contesti locali
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non è interamente falso, ma è forse un vantaggio per l'agricoltura il distruggere delle grandi estensioni di terreno per rendere più feconde poche moggia di pianura? E poi chi non sa che i torrenti, trasportando perennemente la terra sul piano, ed inalzando i loro letti alla giornata, inondano essi i luoghi vicini, e cambiano i terreni seminatori in paludi, ed i piani in malsani ed incolte lagune? I Ferramenti di Tarsia contestano la mia assertiva. Questa vasta estensione del vallo di Cosenza, che trenta anni fa dava al Principe di Tarsia mille tomola di grano-turco e trecento di legumi, adesso è divenuta una palude, intralciata di folti piante, ed appena accessibile al grosso bestiame che vi si conduce al pascolo. Frassia del Principe di Bisignano anche esso da terreno coltivato è divenuto nella sua maggior parte una laguna. Le foci del Coschile e del Savuto col tempo ci presenteranno gli stessi risultati, e se la nostra Società non si affretta a proporre dei mezzi al
governo, onde rimediare a tanti danni che ci sovrastano, collo scorrere degli anni tutto il vallo di Cosenza non sarà che una sola laguna. Coteste verità sono state conosciute da più secoli, e se i nostri
antenati avessero vegliato all'esecuzione dei decreti dell’Imperatore Carlo V e di Filippo II, con i quali sin d’allora si proibirono i sboscamenti a molte miglia di distanza da Cosenza, al presente le nostre coste non sarebbero deteriorate, il nostro vallo non sa-
rebbe minacciato, e non saremmo obbligati a respirare un'aria malsana. La situazione alpestre del suolo dei distretti di Cosenza, Castrovillari e Paola, non che il numero maggiore degli abitanti, e la ristrettissima estensione del territorio, proporzionato a quello del distretto di Rossano, sono un’altra, e forse la più gran cagione per la quale i cittadini, contro i loro propri interessi, forzati dalla necessità, hanno coltivato, e tuttavia coltivano le più scoscese colline. Com'è possibile che i cittadini del distretto di Paola, il quale contiene 11.761 abitanti dippiù di quello di Rossano, ed il suo territorio proporzionato a quello di quest’ultimo distretto è minore di 79.289 tumulate, possono sussistere senza coltivare le montagne? Cotesti inconvenienti meriterebbero le più serie attenzioni della Società e del governo, e colui che volesse darci una statistica esatta di cotesti luoghi, e proporre dei mezzi onde rimediare a così fatti inconvenienti al più presto possibile, meriterebbe la riconoscenza dell’intera provincia.
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Parte prima. L'agricoltura
La costa dell’est, il cui suolo è il più fertile, ed il più piano della nostra provincia, potrebbe essere per noi un’altra sorgente d’inesauste ricchezze, ma essa è destinata per la maggior parte alla pastorizia. In quel distretto gl’individui che potrebbero coltivare la terra appena montano al quinto dell’intera popolazione; così ne siegue che ogni travagliatore dovrebbe coltivarne circa trentaquattro tumolate, lo che assolutamente è impossibile, sopra tutto in un suolo argilloso come quello del distretto di Rossano. I proprietari dei terreni sono per tal cagione nel bisogno di far coltivare le loro terre dai travagliatori dei limitrofi distretti, e questi chiamati a tal uopo ne abbandonano la coltura in tempo di està, allorché riportano il loro bestiame nelle montagne; ed è perciò che spesso quel fertilissimo territorio resta destinato al solo uso di pascolo. Tale è l’infelice stato di coltura di questa vasta e ricca provincia, pel cui miglioramento si dovrebbe reclamare l’esecuzione del decreto del 2 luglio 1810 e render la Sila abitabile”. Si potrebbe allora introdurre colà la semina dei prati artificiali, e custodirvi gli animali anche in tempo d’inverno, nutrendoli alla stalla; darsi delle disposizioni acciò le colline ritornino all’antico stato di foreste, ed i boschi siano gelosamente conservati; incanalare il fiume Crati; far dissodare e coltivare tutti i terreni della costa di levante e destinare alla pastorizia quelli di ponente. Si potrebbero in tal caso impiegare i travagliatori del distretto di Paola alla coltura dei fertili territori della costa dell’est, impetrando per essi la grazia di poter censire una porzione di quei demani comunali che nel distretto di Rossano restano tuttavia inculti. [...]
> Cfr. Decreto contenente le disposizioni per alienazioni a rendita perpetua 0 censo redimibile, e per concessioni nel territorio detto la Regia Sila nelle Calabrie, in «Bullettino delle leggi del Regno di Napoli», a. 1810, II semestre, pp. 1-18.
III
PROPOSTE DI CAMBIAMENTO E TENTATIVI DI TRASFORMAZIONE
1. Un disegno di trasformazione* [...] La nostra agricoltura è qual era nella sua infanzia, ridotta ad un’arte meccanica di rivoltar la terra, rappettarla material mente per favorire la vegetazione di poche semente che le si affidano. Niuna cura mettiamo nel variarle, nel combinarle perché abbiano il miglior successo possibile. Niuna previdenza a saperle mettere in rapporto con i movimenti del commercio, con i bisogni della nazione. E mentre i slanci dei lumi, l’attività dei popoli che ci circondano, e più gli andamenti politici minacciano lo spaccio dei nostri oli, dei nostri cereali, dei vini, noi ammiseriamo sulla coltura di essi, quasi questa terra non fosse d’altro capace; quandoché, e per la fertilità del suolo, e per l’attività del clima, e pel genio anche degli abitanti, pottemmo contendere, e di gran lunga superare le altre nazioni agricole nell’abbondanza, nella varietà, nella qualità dei prodotti. [...] E per prima ciascuno sa, come l’agricoltura sia fondata sopra tanti elementi, e legata a tante conoscenze, che difficilmente potrebbe un uomo solo posseder tutte. Nella parte teoretica è divenuta la più vasta delle scienze per l'estensione e varietà degli oggetti che abbraccia. Essa è legata alla fisica, alla chimica, alla botanica, all’architettura civile, idraulica, alla meccanica, etc., * Da Paolo Giampaolo, De’ disordini si fisici che economici i quali han luogo nel sistema agrario del Regno di Napoli e de’ metodi riparatori di essi, Parte II, De’ metodi riparatori de’ disordini di sopra annunziati, G. De Bonis, Napoli 1822, pp. SIENA 2
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Parte prima. L'agricoltura
ciascuna delle quali somministra degli elementi al buon successo della medesima. Or perché i lumi di queste scienze si combinino al vantaggio dell’agricoltura, non vi è di meglio che promuovere lo spirito delle associazioni accademiche; cioè che dei scienziati di varie classi si concertino a comunicarsi le loro osservazioni, le loro scoverte,
i risultamenti delle loro sperienze, e trasfonderle alla classe coltivatrice, la quale non ha che la parte meccanica nell’esecuzione. Quale servigio in fatti non renderebbe un chimico alla sua provincia, se si occupasse dell’analisi delle terre; indicasse quali sieno le dominanti nelle diverse contrade che abita; formasse delle mappe, dei quadri, per quanto è possibile, d’indicazione; dasse all’agricoltore le regole pratiche per distinguerle, e gli suggerisse il modo migliore, il tempo più opportuno per coltivarle? Costui ara perché è il tempo di arare, senza conoscere che metter l’aratro in una terra argillosa quando sia molto umida, in tempo di pioggia, è un rovinarla. L’azione dell’aratro allora la stringe, l’assoda, l’indura, ed il suo lavoro riesce inutile o nocevole. L’agri-
coltore saprà in generale, che collo smuovere frequentemente la terra si accresce l'influenza delle meteore; quindi si affretta a replicare i lavori. Ma smuovere frequentemente una terra sabbiosa, una terra calcarea, è lo stesso che impoverirla di quel poco umido che ha. Quando dunque questo agricoltore fosse istruito teoreticamente o praticamente della natura dei suoi terreni, non
farebbe dei lavori inutili, e spesso perniciosi. Il botanico che si occupasse della conoscenza delle piante, le quali meglio in una regione riescono, renderebbe all’agricoltura il più utile servigio. La contea dei Kent in Inghilterra era la più infelice; un genio vide che vi riusciva il sano-fieno hedissarum onobrichis!, e quella contrada cambiò aspetto. Un fisico che calcolasse sull’influenza dominante di talune meteore in una regione, potrebbe avvertire l’agricoltore che vi abbia del tempo più proprio alla semina di taluni vegetabili, di
quelli che meglio vi resistono; e quando accelerar si dovrebbe, e quando ritardar la seminagione, la potatura delle viti, di tanti alberi fruttiferi. Qual pro, per esempio, occupare di piante tem! Pianta di una radice a fittone lunghissimo, con steli alti circa un braccio, con foglie pennate pari, guarnite di 18 a 20 foglioline cuniformi, lisce: vegeta nei terreni più aridi, nei montuosi sterili. Sarebbe un ottimo foraggio per i nostri Appennini, per le Puglie.
III Proposte di cambiamento e tentativi di trasformazione
li27)
pestive una contrada dominata da meteore intempestive? Sarebbe un combattere infelicemente contro l'influenza malefica di esse. Lo stesso può dirsi del vantaggio che potrebbe arrecare un idraulico che calcolasse sul modo migliore di regolare le acque che spesso rovinano talune contrade; un meccanico che perfezionasse gli strumenti, le macchine agrarie che più comunemente si adoperano. Si screditano gli scienziati, come quelli che mancano di pratica, perché non prendono mai in mano la stiva di un aratro. Ma son essi che possono osservare i fatti e dirigere la mano dell’agricoltore al miglior uopo. Il meccanico solo può dire a chi si affanna curvato sul suo aratro come sarebbe facile diminuir la fatica del suo lavoro avvicinando di alcuni pollici la linea del tiro dei suoi bovi. Ecco l’opera degli scienziati nelle provincie, che dovrebbero essere apprezzati, onorati, allettati, perché rendono miglior servigio di tanti commessi civili, militari, politici, moltiplicati senza numero, e bene spesso inutili. Con questi titoli si acquista la riconoscenza, il rispetto, l’amore delle nazioni; e non in altro modo furono Numi nell’antichità, e Cerere, e Bacco, e Stecurzio
stesso. La classe agricola bisogna dunque che sia ammaestrata nella sua arte. Romolo che la prese in considerazione istituì i fratelli Arvali, collegio di sacerdoti, che col pretesto di regolare le facende religiose in tempo della semina e del ricolto, ammaestravano gli agricoltori del tempo più opportuno, del modo più conveniente ai lavori del terreno, alle occupazioni campestri. Scuole ed ammaestramenti di simil fatta non si moltiplicano mai bastevolmente in un Regno agricolo. Nei collegi, nei licei, nelle parrocchie, nelle case stesse religiose, si dovrebbero stabilire delle scuole di agricoltura. E quale più bella occupazione per un ecclesiastico di ammaestrare gli uomini nell’arte di cibarsi di un pane nel sudore del volto, ch’è la sola pena che qui in terra Dio diede all’uomo in emenda dei suoi disordini? Si potrebbe offendere la religione di questi ammaestramenti, quando Gesù Cristo stesso non istruiva più frequentemente che con parabole tirate dall’agricoltura? Le associazioni agrarie istituite in Inghilterra fin dal principio del passato secolo han reso il più interessante servigio all’agricoltura di quell’isola; e fin d’allora cominciarono a vedersi i
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Parte prima. L'agricoltura
più utili miglioramenti. Esse fecero dei saggi, li pubblicarono, e l'agricoltore e il proprietario ne furono istruiti. Esse decretarono dei soccorsi, degli incoraggiamenti, dei premi. Così fu regalata di una medaglia d’oro la Contessa di Rutland per un successo particolare ottenuto nelle sue piantagioni. AI Duca di Bedfort ne fu decretata un’altra per la coltura della quercia. Tutta l’Europa ha seguito questo esempio, specialmente la Francia. La Società di agricoltura istituita in Parigi nel 1771 ci ha dato delle più interessanti memorie, e teoretiche, e pratiche, su molti oggetti campestri. Essa fece dippiù. Celebrò in ogni anno li comizi agricoli, dove si portavano i risultati degli esperimenti fatti dai proprietari, dai coloni, per conoscere quali fossero più profittevoli, più economici, più adattati. Là sedeva l’agricoltore che arava, e lo scienziato che lo istruiva. Là il gentiluomo senza fasto, ed a fianchi il fittuario delle sue terre. Il segno della riconoscenza erano le mani incallite; l’araldo che l’annunziava, non imponeva coi titoli. L’agricoltore così onorato imparava ad
apprezzar la sua arte. Vedeva che non era l’ultimo degli uomini. Gli si apriva l’animo alla riconoscenza, all’emulazione, all’impe-
gno di distinguersi, di esser utile: apprendeva con docilità: si confondevano quelle linee di divisione che separano spesso le classi a pregiudizio del pubblico bene. Si generalizzava in questi comizi quella civilizzazione che crea i geni, ed avviva e fissa lo spirito al buon andamento politico. Non abbiam mancato ancor noi di seguire quest’esempio. Si sono anche tra noi istituite delle Società agrarie nelle provincie. Vi si trovano riuniti gli uomini più distinti. Ma infelicemente non si limitano finora che a qualche memoria scientifica, la quale muore tra le pareti dell'adunanza. Le Società sono senza energia, perché senza incoraggiamento. In fatti chi si è occupato mai di rilevare la mappa provinciale, e far conoscere la natura delle terre dei diversi distretti e di quale agricoltura migliore sieno capaci? Chi ci ha fatto conoscere i metodi particolari di coltivazione, delle spese, dei prodotti netti, per vedere quali sieno più profittevoli, quali converrebbe promuovere, quali sopprimere? Chi ci ha dato almeno la statistica degli animali domestici, del modo come nutricansi, come curansi, e dei metodi di migliorar le razze che sono così degradate?
Io non derogo allo zelo dei miei compatrioti: sono essi animati dal miglior sentimento; sono consapevole del loro impegno,
III Proposte di cambiamento e tentativi di trasformazione
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dei loro lavori. Ma converrebbe che i travagli di queste Società si centralizzassero in un burò, il quale si occupasse di pubblicarli, di darne gli estratti, di farvi delle osservazioni, perché gli utili saggi venissero adottati, imitati, perfezionati. Quello poi che più interessa, sarebbe di stabilire in ogni distretto dei campi sperimentali, che servissero all’istruzione ed al tempo stesso alla imitazione, persuasi che Segnius irritant animos dimissa per aures, quam quae sunt oculis subjecta fidelibus. La classe coltivatrice, che è tutta senso, non si persuade se non di ciò che vede e tocca, e per abbondare anche di senso, è la più imitatrice. Essa non si arresterebbe a darsi tutto il movimento necessario dietro di tali esempi. Senza di ciò voi ripeterete in vano tutti gli elogi che fa[nno] Columella, Senofonte, Cicerone
dell’agricoltura: direte in vano che l’imperatore della China tiri di sua mano ogni anno un solco: fate, se volete essere imitato. |. Si dirà che noi manchiamo di questi stabilimenti nelle provincie perché le nostre Società agricole sono sfornite di fondi sufficienti, di mezzi. Io vi convengo: ed ecco appunto ciò che desta la mia sorpresa. Quanti vortici non hanno assorbito nei passati anni tanti avanzi di rendite comunali che potevano a quest’oggetto utilmente impiegarsi? Infandum jubes renovare dolorem. Mentre i bugetti delle comunità hanno tanti titoli per spese militari, civili, di amministrazione, di giustizia, per giornali, per feste, etc., non se ne vede uno che provved[a] alla formazione di uno o più campi sperimentali, i quali d[arebbero] delle utili lezioni in un’arte che può sola sostenerci. Né poi le spese di questo genere sarebbero molte, sarebbero perpetue. Dopo pochi anni
questi fondi darebbero col loro profitto il modo come rifarsi delle anticipazioni, e come farne delle nuove. Vi rapporto ciò che ebbe luogo in Chiavasco, paese del Regno Lombardo-Veneto. Un campo di novemila pertiche (cioè di circa duemila moggi nostrali) ritagliate dai fondi comunali fu dato alla Società pastorale per coltivarlo secondo i metodi migliori. Dopo pochi anni presentò lo spettacolo soddisfacente di vedervi nutrite ottomila pecore spagnuole, trecento vacche, cento buoi da lavoro, e dare la sussistenza a trecento individui colà stabiliti. Nel mentre undici altre mila pertiche a fianco delle prime non nutri-
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Parte prima. L'agricoltura
vano che qualche migliaio di animali sparuti?. Quale esempio migliore! Un vivaio di pochi moggi di alberi indigeni od esotici dopo tre anni darebbe migliaia e migliaia di pianticelle di ogni genere, le quali, vendute pure a basso prezzo, compenserebbero la spesa dello stabilimento, e rivestirebbero le campagne delle provincie rese quasi deserte, inaridite per la mancanza degli alberi. Da questi campi sperimentali si potrebbero avere anche le migliori semenze, specialmente di erbe delle quali manchiamo per le praterie, come della medica, del trifoglio, del sano-fieno, etc.; di tante piante oleifere come del colsat, del ravizzone; e
promuovere la coltura di esse nelle provincie che mancano di quella degli ulivi. Una sezione delle Società agricole prenderebbe annualmente i conti di questi stabilimenti, ne farebbe i rapporti nelle sedute, li pubblicherebbe per farne conoscere i vantaggi, e condurrebbe quasi per mano il proprietario e l’agricoltore alle più utili intraprese. Questo mezzo è pur efficace a stabilire e promuovere le conoscenze necessarie al progresso dell’agricoltura. Ma ben più ef-
ficace sarebbe quello che potrebbe venire dall’esempio dei proprietari, se rivolgessero seriamente le loro cure, i loro capitali, a vantaggio dei propri fondi. Oltre di stabilire essi solidamente la loro fortuna, si circonderebbero di quella gloria che si acquista solo con i servigi utili resi all'umanità. La terra è un capitale, una proprietà, che il padrone deve impiegare, deve, diciam così, manufatturare perché valga, altrimenti resterà infruttuosa e di peso. In vece di affidare il governo di essa a degli uomini mercenari ignoranti, dovrebbero i proprietari essere essi gli avveduti economi dei loro fondi, se vogliono vederli brillare sotto dei loro occhi; ed a ciò aveva riguardo il detto degli antichi: Optimza stercoratio est gressus domini. Plinio colpito dal contrasto che vedeva tra l’antico suolo romano, e quello dei suoi tempi, andava domandando a se stesso quale fosse la cagione di tanta diversità. «Questo suolo — diceva egli — dava un giorno grande abbondanza di prodotti che oggi non dà più. La terra par che sentisse allora il piacere di essere coltivata da mani trionfali, da uomini cinti di alloro, e faceva tutti gli sforzi di corrispondere a sì bel vanto. Oggi non è più ? Vedi Dandolo nella [...] sua opera postuma [Su//e cause dell’avvilimento delle granaglie e sulle industrie agrarie riparatrici dei danni che ne derivano, Milano 1820].
III. Proposte di cambiamento e tentativi di trasformazione
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così, perché, affidata a dei mercenari fittaiuoli, a dei servi, par
che si risenta dell’oltraggio che le si fa». Questo linguaggio enfatico dell’agronomo romano c’istruisce abbastanza della differenza che vi è tra una coltura diretta, animata dalle cure del proprietario, e l’altra affidata a dei subalterni, che faticano senza accorgimento e senza impegno.
Da noi si ha la terra come di un peso di cui ciascuno cerca al più presto sgravarsene, contento di un miserabile affitto. Molti non conoscono neppure le loro proprietà territoriali, affidando tutto ad un fattore, che non ha altro interesse che di profittarne, senza curarsi che il fondo rovini. Io non so donde nasca quel falso onore che affligge poca considerazione alla rustica economia. Catone la collocava tra le qualità primarie che onorano l’uomo libero; e Cicerone ci lasciò scritto nel suo Libro della vecchiezza, che di tutto ciò che onora un uomo ingenuo, niente vi sia di migliore, di più giocondo, di più degno quanto l’agricoltura. Se i proprietari fossero pienamente penetrati da queste considerazioni, se si dassero essi un movimento per simili intraprese, quale impulsione non si comunicherebbe alla classe coltivatrice? Di quale accrescimento non si vedrebbe capace la nostra agricoltura? Ed in vece di essere degli inutili consumatori, diverrebbero la molla animatrice dell’industria, della fatica, di ogni bene. [...] Prendendo dunque i ricchi possidenti l'impegno di far valere le loro terre, essi potrebbero portarvi quelle dotazioni in animali, in strumenti rurali, in semente, che sono necessari. Le anticipazioni di questo genere non disquilibrano, ma accrescono la loro fortuna, quando anche vi si dovesse supplire colla distrazione di
una parte del fondo. Vale meglio coltivare dieci moggi di terra secondo le regole dell’arte che venti col metodo ordinario il quale finora ha avuto luogo tra noi. Due buoi in una estensione di otto o dieci moggi con gli altri arredi convenienti possono portare la spesa di ottanta, cento ducati. Or duplicare i prodotti del fondo vale cinque e sei volte dippiù dell’interesse che potrebbero cagionare le spese di dotazione; e si assicurerebbe una vita attiva, una vegetazione permanente alla terra, la quale va perdendola, e degradando senza tali soccorsi. Quale impiego più lucrativo del denaro? La difficoltà potrebbe nascere per le piccole coltivazioni moltiplicate grandemente tra noi dopo la divisione dei demani (operazione salutare, che ha liberati tanti terreni dalle servitù, dalle
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Parte prima. L'agricoltura
promiscuità, che sono in aperta opposizione col miglioramento di ogni genere). I proprietari di queste piccole coltivazioni non tutti hanno i mezzi convenienti a fornire le dotazioni proposte. Se si volesse suggerire ad essi di supplirvi con dei prestiti in denaro, non tutti forse ne avrebbero i mezzi; e nella carezza anche con
cui oggi si mutua il denaro, e nelle angarie con cui la durezza dei mutuanti aggravano la condizione dei mutuatari, l'economia di costoro ne sarebbe ben presto sconcertata. Per contrario, ad essi sopratutto conviene che si rivolga l’attenzione del governo, mentre è la classe più operosa, più interessante dello Stato. Sparpagliate le nostre proprietà in tante piccole frazioni, possiam dire che in massa formino nelle provincie i due terzi della possidenza territoriale. A prestare una mano ausiliatrice ad essi non trovo di meglio che lo ristabilimento dei Monti di soccorso, dei Monti frumentari, che prima tra noi erano senza numero. I sentimenti della religione ci avevano procurato questo bene. Fssa non aveva mai tanto meglio dirette le opere di pietà che coordinandole al soccorso della classe agricola, della classe produttiva. ln ogni chiesa vi erano delle cappelle, dei titoli, che avevano una dote in animali specialmente bovini, un capitale in frumento. Questo si distribuiva annualmente ai coloni, che lo cercavano per soccorso della semina. Si restituiva nella stessa quantità senza usura di prezzi, pagandosi solo un piccolo aumento per le spese dell’amministrazione. Gli animali si locavano con qualche estaglio in frumento, il quale serviva a rimpiaz-
zare quelli che deperivano, ed aumentarne anche il numero. Così i proprietari delle piccole coltivazioni trovavano come mandare avanti le loro industrie. Siffatti capitali erano amministrati religiosamente sotto l’ispezione degli ecclesiastici. I vescovi ne pren-
devano i conti nelle visite, ne regolavano gli andamenti. Un tribunale supremo volle mischiarvisi e prenderne l’alta ispezione; ed allora la tela di questa amministrazione cominciò ad intrigarsi. Le inversioni di vario genere; le vicende funeste che hanno avuto luogo tra noi finirono di confondere questa tela, e tutto fu assorbito dal vortice che disperde. I poveri coloni si videro allora spogliati di queste risorse, privi dei mezzi di portare avanti le loro industrie, e l'agricoltura da quell’epoca decadde a colpo d’occhio. Questa mancanza fece sorgere una classe di monopolisti detti incettatori di grani alla voce, cioè al prezzo che se ne fissava al tempo del ricolto. Costoro portarono nei contratti le più sofi-
IMI. Proposte di cambiamento e tentativi di trasformazione
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sticate speculazioni usurarie a danno dei coloni. Anticipavano qualche somma per caparra dei grani, ed esigevano l’usura sul denaro, un ribasso sul prezzo della voce: usavano tutti gli artifizi, i complotti, perché il prezzo della voce riuscisse basso: apponevano condizioni durissime alla consegna; determinavano il luogo, il tempo, la qualità, il peso del frumento: e chi aveva la disgrazia di non corrispondere esattamente a tutte le sofisticherie usurarie, trovava in poco tempo un accumulo d’interessi e di moltipliche che impoverivano un infelice colono. Io ne ho veduto rovinati moltissimi con questi usurari artifizi. Si domanda dopo ciò miglioramenti e prosperità di agricoltura? I lumi, l’attività del governo, potrebbero rielementare questi Monti di soccorso. I fondi di beneficenza non sarebbero giammai meglio impiegati. Alle chiese già si è nuovamente data la facoltà di acquistare: sieno i loro acquisti piuttosto in questi mobili che in terre, delle quali non saranno sempre le più esatte amministratrici. In Inghilterra una cassa di sconto supplisce a questo bisogno. Ogni provincia ne ha: il colono può prendere delle somme equivalenti ad un terzo, ad una metà del prodotto probabile dei suoi fondi; e trova così come fare delle anticipazioni, come le bonifiche che la buona coltura addomanda. Perché non imitarla? Favorita così la nostra agricoltura dai lumi delle Società agrarie, dal genio e dalle risorse dei proprietari, sussidiata dai Monti di soccorso in animali, in semente, in anticipazioni, potrebbe riprendere tutta l’energia della quale è capace, e che oggi non ha. Or perché il movimento e la vita che verrebbe con questi soccorsi a rispandersi nelle nostre campagne tornasse al maggior vantaggio possibile dell’agricoltore, è di bene ch’egli intraprendesse la coltura di quelle piante che riescono più profittevoli; che le variasse, e le attemperasse alle circostanze locali, ai movimenti del commercio, ai rapporti economici in cui vive. Che vale l’ab-
bondanza di un prodotto se non sia commerciabile, se l’agricoltore non vi trovi un compenso alle sue fatiche, se non lo rinfran-
chi delle spese necessarie? Quando l’agricoltura di uno Stato abbia coi suoi prodotti assicurata la sussistenza degl’individui, tutto il dippiù diviene un affare di commercio, che bisogna attemperarlo agli andamenti di esso. Noi abbiam poggiato fin ora quasi esclusivamente sulla coltura dei cereali. Questo prodotto riuscì vantaggioso quando i nostri grani erano ricercati in Francia, in Spagna, in Inghilterra, pel
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Parte prima. L'agricoltura
commercio delle farine in America. Ma ora che l'America manda a noi le sue farine, oggi che l'Egitto, le coste di Barberie, la Grecia, e molto più i porti del Mar Nero inondano di grani i mercati del Mediterraneo, di qual profitto sarà più per noi la coltura così estesa delle granaglie? I trattati della Russia colla Porta nel 1782 e 84, la cessione
che questa fece della Crimea e dell’immenso territorio tra il Bog e il Niester, furono i primi forieri che minacciarono l’industria dei nostri grani. La libera navigazione pel Mar Nero, l’apertura dello stretto di Caffa, poterono consolare il commerciante, che vide spezzate quelle catene di ferro, le quali per più secoli tennero inceppato il commercio dell'Oriente, della Persia, delle Indie; ma non ebbe gli stessi motivi di consolarsene l’agricoltore italiano, che prevedeva il turbine minacciante la sua industria. Infatti dopo la pace del 1803, centinaia e centinaia di navi si videro far vela per i porti del Mar Nero a commerciare granaglie, [e] ne immisero nel Mediterraneo circa quattro milioni di moggi. Nuovi dissidi politici attraversarono ben presto quella pace, e il coltivatore italiano potette respirare per qualche tempo sulla sua industria. Ma ricomparsa con migliori auspici nel 1814, ci v[edemmo] nuovamente inondati dai grani dell'Oriente, e nel 1816
e 17, che furono per le provincie meridionali dell'Europa anni di disdetta, più di dodici milioni di moggi di granaglie si commerciarono in Oriente, i quali si cambiarono col nostro oro, che servì
ad accrescere l'industria agraria di quei luoghi. Or quale sconvolgimento non è per la nostra agricoltura questo sbocco perenne di granaglie dal Mar Nero e da altri luoghi? Perché l’agricoltore porti avanti la sua industria bisogna che nei prodotti trovi il valore naturale di essi, il quale si compone di
tutti gli elementi necessari ad ottenerli; altrimenti i suoi capitali si consumano per gradi. Or calcolando gl’interessi capitali dei nostri fondi, i carichi diretti che sopportano, la mano d’opera, un moggio di frumento tra noi non ricade meno di carlini venti?. Venderlo a minor prezzo è venderlo in perdita. Nell’Ukrania al contrario, nella Crimea, presso i russi del Bog, del Niester, i fondi costano pochissimo, si danno a buonissimo affitto, si donano ? In Puglia la coltura di una versura di terra, cioè di quattro moggi, si computa a cinquanta docati. Il ricolto di 25 tomoli a versura si reputa vantaggioso. Nelle altre provincie ove si travaglia colla zappa, la spesa è anche maggiore.
III. Proposte di cambiamento e tentativi di trasformazione
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anche per incoraggiare l’agricoltura. I tributi prediali sono quasi che sconosciuti. La coltura si fa dai popoli robusti, frugali, di pochissimo bisogno perché mezzo barbari; quindi la mano d’opera è mercata. Si aggiunga la fertilità naturale del suolo che non dà meno del dodici, del quindici, del venti di sementa; per cui il valore naturale dei prodotti ricade bassissimo. Nei porti di Odessa trovano quei popoli il loro conto vendendo il grano a carlini sei il tomolo. Quando vi si aggiungesse altrettanto per lo trasporto, per dazi d’immissione, per assicurazione, quei grani potrebbero vendersi un terzo meno dei nostrali. Come dunque ne sosterremo la concorrenza? Ecco il colpo fatale delle nostre granaglie*. Or in che modo ci difenderemo da esso? In due modi: prima col perfezionare la nostra agricoltura; secondo col far prendere altra rotazione, altro avvicendamento alla nostra industria agraria, e renderla feconda di nuove produzioni più commerciabili, più preziose di quello che sieno le granaglie. Abbiam calcolato il valore dei nostri grani negli elementi della loro produzione a carlini venti, fissandone il ricolto ordinario al cinque per sementa. Ove colla rotazione, [...] colle bonifiche delle terre, [...] il ricolto potesse fissarsi al sette, all’otto, al dieci
per sementa, allora il valore naturale minorerebbe; e noi potremmo contendere col prezzo delle granaglie dell'Oriente. Pure questa abbondanza e questo basso prezzo allora dei nostri grani potrebbe metterci nel caso di non essere passivi in questo genere, come lo siamo stati in talune annate, e non allettare l’avidità del commerciante per introdurne; ma non mai potremo augurarci di commerciarli coll’estero in concorrenza dei grani orientali: ci troveremmo sempre succumbenti nella lotta. Al contrario abbiam noi bisogno di fare un commercio attivo dei nostri prodotti, per contrabilanciare tanta passività che in altro genere soffriamo. È lungo e ben doloroso il catalogo di tutto ciò che compriamo, e panni, e stoffe, e tele, e cuoi, e formaggi, e vini, e carta, e legni, ed aromati, e medicamenti, e zuccheri, e chinca-
glierie, e cristalli, e metalli, fin i chiodi, gli aghi, le spille, e quanto mai manifattura il lusso, la moda, il capriccio, tutto compria4 Un decreto salutare giunge opportunamente a caricare di un dazio doganale di carlini 20 a cantaio i grani introdotti sotto bandiera estera, ed alla metà con bandiera nazionale. «Giornale delle Due Sicilie», 25 novembre 1822.
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Parte prima. L'agricoltura
mo. Come contrabilanciare tante spese con i nostri oli, coi vini, con le granaglie caduti nell’avvilimento? Siamo dunque obbligati di minorare la coltura di questi generi, specialmente del frumento che è tanto estesa, e sostituirvi
prodotti più ricercati, più commerciabili. Non è nel solo pane che vive l’uomo; anzi in una nazione civilizzata il pane è come una frazione del mantenimento. Quando è assicurata per questa parte, l’industria bisogna che si rivolga dove trova maggior profitto. Conviene che si occupi di quei prodotti che sono commerciabili; di quelli che sono più conducenti ai nostri attuali interessi, più ricercati, più analoghi alla natura delle nostre terre, e, profittando dell’attività del nostro clima, accrescere quei prodotti che possiamo soli, o almeno con più vantaggio delle altre nazioni ottenere. Così solo può farsi valore la nostra industria agraria, e riparare i disordini ed i disastri che ci affliggono. Tra i prodotti dunque riparatori della nostra cadente agricoltura pongo in primo luogo la seta. Questo benefico risultato dell’attività di un bruco, che ha fatto fin dalla rimota antichità la ricchezza della China e della Persia, non mancherebbe di far la nostra, quando avvedutamente se ne conducesse l’industria. Non è oggi la seta destinata alla consumazione di pochi, come nei passati tempi. Il mondo così ora avanzato nella civilizzazione sente tutta la forza e l’imponenza di nuovi bisogni, e dei più raffinati, tra quali è senza dubbio l’uso della seta. Ora a quale abbondanza non si potrebbe condurre questo prodotto, quando nella classe coltivatrice si eccitasse un po’ d’energia, di movimento, di protezione? Questa industria negata all’inglese, al russo, al germano, all’olandese, a tutto il settentrione, potrebbe divenire una derrata invidiabile tra noi da duplicare il valore dei fondi, dei prodotti, e rispandere nella classe coltivatrice, in quelle che l’avvicinano, e moto, e vita, e ricchezza. Il gelso, il quale è il solo albero che dà alimento al filugello, e non alligna con profitto al di
là del quarantasettesimo grado di latitudine settentrionale, si è così bene tra noi acclimatato, che si può dire quasi nostra pianta indigena: lo vediamo prosperare con successo in tutte le nostre campagne. Esso, dopo il quarto o quinto anno dalla piantagione, già comincia a dare un tale prodotto, il quale si aumenta sempre più a misura della sua crescenza. Osservabile è poi che, mentre una tal pianta accresce di un’altra derrata il fondo, non minora per niente quella dei cereali o di altri prodotti. Imperocché, sfo-
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gliandosi di primavera quando il raggio solare rendesi interessante alle biade, esse non ricevono nocumento dalla sua ombra; e
rivestendosi poi della sua foglia in tempo della canicola, giova piuttosto allora alle nostre terre calcaree, arenose, vulcaniche colla sua ombra ospitale.
Mi appello all'esperienza che ce ne ha data il Sig. Conte Dandolo, giacché in fatti di agricoltura non vi è che essa la quale dia delle ragioni più concludenti. Egli da sua tenuta di 132 pertiche a Malnate nell’alta Italia, affittata a due staia di frumento la per-
tica, dopo che l’ebbe rivestita di gelsi, senza diminuire l’affitto del frumento, vi ritraeva anno comune 511 libre grosse di bozzoli, che, venduti a lire 5 e soldi 6 la libra, davano il profitto di 1.644 lire, quasi il doppio di quello che dasse il frumento. Lo stesso computo faceva sopra due altri pezzi uno di 70, l’altro di 100 pertiche in Varano. Vedesi dunque di quanto si accresca il prodotto dei fondi, e di quale vantaggio sia pel proprietario, pel colono, per lo Stato stesso, sì avveduta industria. Si avverta che simili piantagioni non contavano che l’epoca di dodici a quindici
anni quando egli ne faceva i rapporti. Quale aumento di prodotto non avranno dato negli anni successivi, crescendo i gelsi a mag-
giore grandezza!” Né credete che dovesse imboschirsi un campo per avere simile prodotto in seta. Egli, il Sig. Dandolo, dal primo campo di 132 pertiche non isfrondava che 296 gelsi all'anno, e 157 da quello di 70, cioè circa due gelsi per pertica*. Or che sono due, tre, e quattro alberi in una estensione quadrata di 1.840 braccia quanto è la pertica? Gli alberi spazieggiati a tre e quattrocento braccia, hanno tutto il campo di svilupparsi senza offendere la vegetazione delle biade. Che sarebbe poi se questi terreni stessi si circondassero di siepi di gelsi? Dove non se ne porterebbe il profitto? Da pochi anni che questo movimento industriale si è risvegliato nel Regno Lombardo-Veneto, mercé le cure, l’esempio ? Vedi l’opera sopra citata.
è «La pertica milanese — scrive Giampaolo in una nota che compare a p. 20 dell’originale — è una estensione di terreno di 24 tavole; la tavola è un quadrato di 12 piedi di lato, piedi agrari milanesi. Il nostro moggio napoletano è un’estensione di 900 passi quadrati; il passo è di palmi 7 e un terzo. Fatti i rapporti convenienti, un moggio napoletano è uguale a cinque pertiche ed un settimo circa».
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e le istruzioni di questo benemerito autore, già il commercio attivo della seta è giunto a circa 60 milioni di lire anno comune, oltre di tutto ciò che si consuma nei propri telai. Rende quanto rendevano un giorno le miniere americane al Portogallo ed alla Spagna, secondo i calcoli che egli stesso ne fa. Or qualunque movimento si andasse ad eccitare nei popoli del mezzogiorno dell'Europa per questa industria, noi avremmo sempre il vantaggio di superar gli altri nella bontà del prodotto, e vincerli nella concorrenza, giacché in questa materia di lusso non si pregia che la qualità, la raffinatezza, nella quale alcuno non potrebbe contenderci, attesa l’attività del nostro sole, e la qualità della nostra terra più analoga alla vegetazione del gelso. Questa pianta che sola, secondo dissi, dà la foglia alimentare del
filugello, fa produrgli seta migliore quando sia più perfetta, quando meglio lo nutrisca. Si è osservato, come la parte resinosa di essa è quella che somministra al baco il materiale setoso. Or nei climi caldi assolati, nei luoghi asciutti, nelle terre renose, calcaree, vulcaniche, delle quali abbondiamo, il succo resinoso viene
meglio elaborato, e cibato il nostro baco di un nutrimento più sostanzioso, più analogo alla sua costituzione, darà seta più abbondante, più perfetta di quella che sperar si possa nel suolo toscano, milanese, piemontese, luoghi meno caldi, più umidi, più ingrati. Niente vi dico della seta dei luoghi più settentrionali, la quale vedesi priva di quell’oleoso che somministra la morbidezza, il lustro, il brillante a tale materia. Ecco ciò che deve animare la nostra attività in tale derrata, ed averla come la prima tra le riparatrici della nostra degradata agricoltura. Noi ci distin[guemmo] un giorno in questo ramo d’industria sopra gli altri popoli dell’Italia, [ch]e formava la nostra ricchezza, l'occupazione di molte braccia. In oggi ci troviamo di avervi fatto dei passi infelicemente retrogradi. Chi non sa gli sforzi dei
veneziani nel duodecimo e decimo-terzo secolo per ritogliere a Palermo ed a noi il commercio dei drappi e di altre manifattura in seta? Ma a ciò a cui non pervenne la tenebrosa politica veneziana, vi giunse [quellla mal calcolata viceregnale d’Indaco di Mendozza, che, avendo caricato di nuove gravezze questo prodotto, scoraggiò i fabbricanti, allontanò i mercatanti esteri, e gittò, secondo le relazioni di Filippo Onorio, nel languore e nella
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miseria quasi quattro quinti della popolazione che viveva felicemente di questa industria; tanto erasi tra noi avanzata”. Ma non è la sola seta quella che potrebbe ristabilire il valore delle nostre terre. Vi è anche il cotoniere, gossypiuzz. Questa pianta che ha fatto dalla più alta antichità la ricchezza dell’Indostan; questa pianta alla di cui coltivazione non può aspirare il francese, l’inglese, il germano, e neppure l’abitatore dell’alta Italia, perché non alligna bene oltre il 43° grado di latitudine, è riuscita mirabilmente tra noi. Nemica dell’umidità, del molto ingrasso, che la farebbe sfoggiare in legno, in foglie senza profitto, prospera con successo nelle terre vulcaniche composte di una sabbia fina, legata a poca dose di argilla e di calcarea. In esse arriva ad una maturità completa, la sua lana ad una bianchezza, ad una perfezione indicibile; e noi di tali terre appunto abbondiamo. Riesce benissimo anche nei luoghi vicini al mare e ad una certa distanza dalle coste, dove i venti che abitualmente vi regnano, carichi di particelle saline, umidette, influiscono mirabilmente alla sua vegetazione; e il nostro Regno è bagnato da due mari. Nella rotazione quatriennale, quinquennale, [...] potrebbe il cotoniere entrare tra le sue vicende. Nove delle nostre provincie potrebbero coltivarlo con profitto; e qui in Terra di Lavoro, nei Principati, abbiam veduti miracoli di vegetazione da questa pianta. Si sono ottenuti fino a due e tre cantari di cotone netto da una moggia di terra, che, renduto a ducati cento e cento venti il cantaro, dava il più grande slancio alla nostra agricoltura, il più alto valore alle nostre terre, che le [ri]lpagava in un anno del loro ca-
pitale, ed animava tutti i telai di Francia. L’apertura del commercio ha minorato il prezzo al nostro cotone, e l’agricoltore scoraggiato è tornato nuovamente al suo grano, al suo granone. Ma quando anche il prezzo fosse diminuito per metà, pure il coltivatore vi troverebbe il suo profitto. Un 6 Ecco come si esprime il citato relatore. «Si pate ora incredibilmente in Napoli, per essersi rallentato il movimento che dava l’arte della seta, colla quale s’intrattenevano quattro quinti di questo popolo; conciossiacosaché, avendo il Viceré imposto una nuova gravezza a quest'arte, cioè che tutta la seta che si cava dal Regno lavorata, o da lavorarsi, paghi un carlino a libra; questa gravezza, appresso le altre che vi sono, fa che i mercatanti forestieri non si servano più di questa città, potendone avere altrove con minore imposizione... Tale nuova gravezza ha accresciuto l’erario di centomila scudi all’anno, se può dirsi accrescimento ciò che porta rovina e quindi diminuzione». Erudimini qui judicatis terram. Vedi le lettere del Sig. Zanon (Antonio), Sull’Agricoltura, le Arti, ed il Commercio, Venezia 1763.
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moggio di terra che non dasse per prodotto se non un solo cantaro di cotone, venduto a cinquanta, a quaranta ducati, porte-
rebbe maggior profitto che otto o dieci tomoli di grano, dodici e quindici di frumentone, che può dirsi il r2axi72477 del ricolto che possa ottenervisi, oggi specialmente che vendonsi a così basso prezzo questi grani.
Dicasi lo stesso della coltura della canapa e del lino nei luoghi ove non riesce il cotoniere. Tali piante che somministrano prodotti di prima necessità, devono considerarsi come i fondamenti dell’economia colonica. Le famiglie, i paesi, gli Stati stessi, che
sono obbligati a cercare da altri i materiali per la biancheria, pel cordame, devono soffrire una grande passività nel commercio. Per calcoli statistici non si computa a meno di sei in sette libre l’annuale consumo di questi generi da un individuo, sia per la biancheria, sia per altri usi domestici e rurali. Una popolazione dunque non più che di duemila anime, è passiva di circa 2.000 ducati all'anno per questi oggetti. Or quale sciocchezza è quella di non ritagliare un pezzo di terra, addirla alla coltivazione di tali piante tigliose, per ritogliersi da tanto dispendio? Nella popolazione supposta si devono contare almeno duecento cinquanta famiglie coloniche. Quando ciascuna ritagliasse non altro che un quarto di moggio di terra nella coltura dei suoi cereali, e lo addicesse a quella delle piante tigliose, provvederebbe abbondantemente ai suoi bisogni, e si ritoglierebbe da un dispendio rovinoso. Nella coltura milanese si è computato a 30 libre grosse la raccolta del lino da ogni pertica. Un quarto di moggio può dare dunque trenta e forse più rotoli di lino greggio, e di canape anche dippiù. Ecco come con questa piccola coltura la popolazione farebbe fronte ai suoi bisogni, e, più estesa, diverrebbe un oggetto di commercio. Trattando l’argomento di doversi minorare la coltura dei cereali, oggi così poco profittevole, e sostituirvi migliori derrate, credo che le piante tigliose pot[rebbero] essere dei succedanei i più utili. Noi lo vediamo nella nostra Terra di Lavoro, dove un moggio di terreno non dà meno di due e mezzo a tre fasci di canapa greggia, cioè duecento a duecentoquaranta rotoli”, che venduti pure a due carlini, danno il profitto di 40 in 50 ducati, molto superiore a quello che potrebbe dare il frumento ed il fru> Il rotolo era pari a 0,89 chili.
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mentone. Bologna, città mediterranea dell’Italia, è floridissima per la coltura della canapa. Si calcola a 13 milioni di libre l’annua raccolta che se ne fa dal suo terreno in un circuito di circa 180 miglia”. Ma che si farà, dice alcuno, di tanta materia filamentosa
quando se ne fosse così generalizzata la coltura? Ricordiamoci come noi siamo passivi coll’estero in questo genere di prodotto. Il Sig. Galanti, secondo i registri doganali del 1771, portava a 835 mila ducati l’immissione annua dei lavori di filo, senza tener conto dei controbandi. La canapa di Venezia in genere fu computata a cantari 41.640, lavorata in funi a 15.890. Quando il
cotone, quando il lino, la canapa abbondassero, oltre del commercio attivo che potremmo fare di essi, la sapienza del governo, animando le manifatture interne, saprebbe respingere quelle che in questo genere ci vengono dall’estero, o minorarne almeno quella eccessiva immissione, che oggi visibilmente ci impoverisce®. Tra i metodi riparatori delle nostre faccende agrarie merita di essere annoverata anche l’agricoltura delle vigne. [...] Or perché questa derrata potesse computarsi tra quelle che darebbero un valore alle nostre terre, è opportuno di considerare il vino nel rapporto della sua manifattura, in quello del commercio. Dissi di aver noi più vigneti di quello che fosse necessario all’uso economico di questa bevanda, la quale, per quanto sia un
cordiale, un balsamo per la vita, un dono secondo il linguaggio di ? Vedi le lettere del Signor Zanon sopra citate. 8 Rispetto alla necessità di creare (Ar nuove industrie manufattrici nel Regno, è un oggetto che appartiene più particolarmente al governo. Gl’incoraggiamenti, la protezione di esso, debbon essere sempre un mezzo efficace per chiamare, e naturalizzare tra noi le cose utili. L'artista non è nel caso di erogare delle grandi somme di primo stabilimento per macchine che spesso non conosce, e che pur sono tanto necessarie al risparmio della fatica. Poche macchine di Deuglos per filare e scartonare porterebbero la manifattura dei nostri panni ad una perfezione singolare. Si venderebbero a molto minor mercato, e lusingherebbero i compratori. Perfezionate le nostre manifatture, allora le leggi che proibiscono l'ingresso dell’estero, i dazi gravosi per allontanarle, riescono convenienti all’economia pubblica. Ma stabilirli prima di migliorare le manifatture nostrali è un perpetuare l'ignoranza, un favorire i controbandi, ed accrescere nuove gravezze sul popolo. Quando nella fine del passato secolo vide Paolo I che l'immissione annuale dei panni in Russia montava sopra a sei milioni di rubli, diede dei ricchi capitali agli artisti, franchi d’interesse per dieci anni, e la Russia si liberò ben presto da questo tributo. Ecco l’opera del governo nel promuovere le utili arti ed i stabilimenti che fanno la ricchezza degli Stati.
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Platone fatto all'uomo dai Dii per addolcire la sua penosa esistenza, non può negarsi come nell’abuso di essa, e nell’uso ancora, quando non sia manifatturata secondo le regole dell’arte, trovansi i danni più funesti alla salute, egualmente che ai costumi ed ai talenti di un popolo. È interesse dunque del proprietario, come della pubblica economia, che si perfezioni l’arte di ben fare i vini. Le regole non sono molte per dirigere la buona fermentazione di questo liquore, per conservarlo sano, per utilizzarlo nel commercio. Or per impegnare i proprietari in questa interessante mani-
fattura, è giusto ricordare ad essi la felice situazione in cui siamo pel buon successo della vite, onde ottenere i vini più pregevoli in concorrenza di altre nazioni. Negato questo arboscello ai climi settentrionali al di là del 50° grado di latitudine, come ai troppo caldi dei tropici, dove l’attività del sole offende il suo delicato tessuto poroso; la zona più propria alla sua vegetazione sembra quella tra il trentacinquesimo al quarantacinquesimo grado di latitudine; e tra essi gl’intermedi sono i migliori, perché lontani dai disordini degli estremi. Trovasi in tali climi quel calore opportuno atto a fare sviluppare e perfezionare la materia zuccherosa dell'uva ch'è il primo dato della bontà, generosità, e durata dei vini. Or tra questi climi intermedi è appunto la nostra situazione, dove un raggio solare vibrato a traverso di un’atmosfera pura, serena, è il più proprio a dissossigenare l'acido dell’uva, e convertirlo in zuccaro, in aromo. I nostri vini comuni non hanno l’ab-
boccato dei più meridionali che nausea gli oltramontani, né l’asprezza e crudezza dei più settentrionali. Hanno quell’asciutto che conferisce a tutti [gl]i stomachi, a tutti i gusti. Quando dunque si celebrano i vini di Borgogna, di Sciampagna, di Ungheria, del Reno, in essi non trovansi quegli elementi più propri ed opportuni che la natura ha prodigalizzati nei nostri vini. Colà l’arte supplisce alla mancanza dei doni della natura; noi, precipitando tutto, inutilizziamo i doni di essa. E non d’altronde può derivare il poco pregio che hanno i vini tra noi, se non dalla sciocca maniera di manifatturarli. I Romani nell'epoca della loro più grande prosperità arricchirono l’Italia
delle migliori viti, che trovarono nelle loro dominazioni del Mezzogiorno e dell’Oriente, e si pregiarono di fare i vini i più squisiti. Sono forse distrutte le viti che davano il Massico, il Falerno,
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il Cecubo, il Sorrentino, il Gaurano? Sono quelle stesse che ora coltiviamo senz’arte e senza metodo. Le campagne di Sessa, di Sorrento, di Pozzuoli, del Vesuvio sono quelle stesse che 2.000
anni fa stillavano questi preziosi liquori. Perché dunque non industriarci a rifarli? Nel Friuli il Conte Ludovico Bertoli ha imitato con riuscita i vini di Borgogna. Il conte Aquino del Friuli manifattura il piccoletti che trovasi il più pregiato vino dopo il Toccai. Quale esempio, quale eccitamento per i nostri proprietari! Essi non solo potrebbero imitare i vini migliori della Francia, del Reno, della Spagna; ma, studiando il metodo degli antichi nei scrittori coevi, potrebbero imitare il Falerno, il Cecubo,
il Sorrentino, che per la loro novità, pel pregio, ecciterebbero il più grande entusiasmo nel commercio: così l'agricoltura delle nostre vigne si renderebbe lucrosissima, e ci ritoglierebbe da quella passività in cui siamo pel lusso e pel fanatismo dei vini forestieri. Ma soddisfatti convenientemente i bisogni della popolazione col vino delle nostre vigne, del dippiù di cui ora si fa generalmente abuso, non vi è di meglio che profittarne colla distillazione. Minorandone con questo mezzo la quantità, il vino acquisterebbe un prezzo conveniente, la coltura della vigna riuscirebbe di profitto, e la popolazione diverrebbe più sobria, meno rissosa, meno petulante. La distillazione dico è più che necessaria tra noi, perché, per mancanza di buona manifattura, molti vini si perdono nell’està, gli altri non vedono il secondo anno. Si aggiunga come le vendemmie in talune annate sono così abbondanti, che mancano i mezzi d’imbottare il mosto; e il prezzo allora è tanto vile, che non compensa le spese di coltura. Ho veduto nella provincia di Molise lasciarsi una porzione di vigne invendemmiate; ho veduto vendersi il mosto a due carlini il barile. Quale rovina pel colono e pel proprietario! Ecco la necessità dei distillatoi, che quando sieno secondo le regole dell’arte, e la distillazione venga eseguita con buoni metodi, dà il più grande dei guadagni all’agricoltura delle vigne, al commercio, allo Stato. [...] Nuovi processi sono stati ideati in Francia, che esentano il vino in distillazione dal contatto immediato del fuoco. Qualche
lambicco di simil fatta è stato introdotto nel nostro Regno da pochi anni, ma che l’apatia dei distillatori ha condannato alla nullità. Con esso si economizza il tempo, il fuoco, ed il liquore è più abbondante e perfetto. Questo lambicco ha data l’idea al Signor Sensile (Bonifacio) d’idearne degli ambulanti resi più sem-
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plici e facili ad essere trasportati dovunque?. Non si ricerca che l’opera del governo che ne faciliti il commercio colla minorazione di qualche dazio; e lo spirito intraprendente dei proprietari, dei negozianti in fissare dei capitali necessari a questa industria profittevolissima a loro stessi, allo Stato. Qui più che altrove trovo opportuno il ripetere: O% fortunati sua si bona norint!
Non è l’ultimo dei metodi riparatori della nostra industria agraria l’agricoltura dei prati, anzi per la sua utilità merita di esser posta tra i primi, o che sieno essi naturali, cioè d’erbe spontanee del suolo, o che sieno artifiziali, cioè coltivati dalla mano dell’uomo con erbe più proficue. Questi specialmente, suggeriti un giorno dal genio del nostro italiano Tarello, perfezionati poi, ed ingranditi dai lumi della botanica, dall’accorgimento dei proprietari, han fatto il profitto maggiore dell’agricoltura inglese. Con questo metodo stesso il Signor Oliviere de Serres procurava di arricchire la Francia nel principio del passato secolo; e forma oggi la floridezza della Svizzera, dell'Olanda, dell’alta Italia. Nella necessità dunque di dover restringere la coltura dei ce-
reali, non vi è di meglio che ingrandire quella dei prati. L'Olanda coltiva pochissimo frumento; ma intanto la sua agricoltura trovasi la più ricca, come può vedersi dagli elogi che ne fa il Signor YVvarti; Or perché riesca profittevole l'agricoltura dei prati, bisogna accrescere il numero degli animali domestici tanto interessanti al ? Vedi una sua memoria [Memoria sull’utilità del lambicco ambulante) stampata su questo oggetto in Napoli nella Stamperia Francese, 1822. si d una terra, dice il Signor Yvart, conquistata in gran parte sul mare con lunghi e penosi travagli, si fanno fare prodigi di vegetazione. La rotazione nel corso dei ricolti comincia sempre dalla coltivazione delle piante leguminose, o dalle radiche nutritive, fra le quali i pomi di terra, per disporre, tritare, e rimondare il campo con le diverse operazioni che questi vegetabili addomandano. La semina del trifoglio accompagna quella del grano; le piantagioni ben intese ed i prati vi abbondano. Basta dire che in una estensione di280 mila mitiametri quadrati (cioè circa cinque milioni di moggi) si numerano 240 mila cavalli, 800 mila bovini, un milione di bestie lanose, e capre, e volatili in un numero prodigioso [Jean-Augustin Yvart, agronomo francese (1764-1831). Tra le sue opere ricordiamo: Coup-d’oeil sur le sol, le climat et l’agriculture de la France, comparée avec l’Angleterre, Paris 1807; Faits et observations sur la question de l’exportation des mérinos et de leur laine hors du territoire francais, Paris 1814; Excursion agronomique en Auvergne, principalement aux environs des Monts-Dor et du Puy-de Dome, suivie de recherches sur l’état et l’importance des irrigations en France, Paris 1819; Notice historique sur l’origine et les progrès des assolements raisonnés; suivie de l’examen des meilleurs moyen de perfectionner l’agriculture francaise, Paris 1821. N.d.C.].
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nutrimento dell’uomo, ai bisogni del commercio, alla coltivazione delle terre, ed all’ingrasso delle medesime. Ben a ragione interrogato Catone quale fosse la via più sicura di arricchirsi, rispose bestiame, bestiame, e sempre bestiame. La natura ha posto nelle sue gradazioni gli animali intermedi tra i vegetabili e l’uomo. Essi consumano tutte le produzioni della terra, molte delle quali per l’uomo sarebbero inutili o dannose; e convertendole in loro nutrimento, rendono ad esso, e carne e latte, e cuoio, e pelame, che migliorano la sua esistenza. Le popolazioni che ne scarseggiano sono in minori rapporti colla terra, mancano di tre quarti dei comodi della vita. Or questo appunto è il nostro stato. Il Regno di Napoli, che per l’estensione del suo territorio, per i vantaggi del suo clima,
delle località, dei suoi sfoghi dovrebbe essere l’emporio dei vicini per gli animali domestici, e per tutto ciò che essi danno, lungi di averne a sufficienza, è costretto a cercarli dall’estero. Noi in fatti compriamo e formaggi, e cuoi, e lane per gli origlieri, e cavalli, e muli, ed asini. Questa passività ci degrada, ci disquilibria, c’impoverisce. Da un mezzo secolo in qua, e propriamente dopo la carestia del 1764, siamo stati presi dalla mania di dissodare le terre a pascoli, i boschi. Abbiamo estesi i lavori di campagna, la coltura dei cereali, senza aumentare in proporzione gli animali che la buona coltivazione addomanda; quindi si fa quasi tutto a forza di braccia con pena, con istento, con miseria. E come il nostro si-
stema è quello di nutrire gli animali vacando; a misura che si sono minorati i pascoli, i boschi, si sono ristrette le razze dei cavalli,
dei bovini, degli animali anche minuti; quindi il caro prezzo dei formaggi, delle carni, delle pelli, delle lane, e la grande passività che in questi generi soffriamo!!. Dalle dissodazioni stesse, e dall’essersi ingrandita appunto la coltivazione delle terre, dovevamo prender ragione di aumentare il numero degli animali che essa addomanda, nutrendoli di fieno, !! Tornando alla passività del nostro commercio da IU generi, dallo stesso Signor Galanti apprendiamo, come la Sardegna ci manda circa nove mila cantari all’anno di formaggio, la Marca undicimila, oltre il formaggio di Lodi, della Svizzera, dell'Olanda, dell’Inghilterra. L’immissione poi di cuoi così pelosi, come a mezza concia di Francia, d'Inghilterra, di Levante, di America è anche più significante. La calcolava a 63.121; e quella delle pelli a circa undicimila. Ecco da quali piaghe esce tutto il nostro sangue politico. Potrà mai prender vigore questo corpo così fatalmente impiagato?
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di erbe pratensi, delle rimanenze di vario genere che l’avveduta coltivazione somministra. Dove l’agricoltura è ben intesa, al felice andamento di essa una quarta parte del terreno si mette sempre a prateria, per avere così mezzi onde nutrire il bestiame che alla buona coltura ènecessariamente legato. È questo il sistema dell’Inghilterra, della Francia, e di altri Stati agricoli. Dissimo come nella rotazione quinquennale quattro pertiche di terra potevan dare fino a 14mila libre grosse di trifoglio, cioè 3.500 di fieno. Tre moggi di terra occupati da quest’erba possono dare dunque tutto il fieno necessario a due vacche in un anno. Una metà di questo terreno coltivato con i pomi di terra può darne dieci in dodici mila libre. Or per calcoli ripetuti si è conosciuto, come dodici in quattordici libre grosse di essi nutriscano bene una vacca nel giorno, e ad una pecora posson bastare due libre e mezza. Una famiglia colonica che si occupasse della coltura di questo prodotto, avrebbe la provvisione per due vacche e per circa quindici pecore in tutto l’inverno. A primavera questa famiglia si troverebbe [ad] avere uno o due vitelli, dodici in quindici agnelli, e lane, e formaggi da vendere per sostegno della sua domestica economia, oltre una dote ben grande di letame per bonifica delle sue terre. Quale impiego migliore dei capitali, quale profitto! Generalizzate queste piccole industrie, quanto non sarebbero più profittevoli delle numerose mandre nutrite all’azzardo, esposte all’intemperio, e che male ruunt sua? Or l’accrescere il numero degli animali è uno sforzo il quale bisogna che si faccia dai proprietari; essi devono somministrare ai coloni le corrispondenti dotazioni dei fondi, fornire i mezzi per queste piccole industrie, e profittarne convenientemente. Così solo può vedersi ricondotta l'abbondanza nel popolo e la fecondità nelle terre. Quando Caterina II Imperatrice delle Russie volle aumentare nei suoi Stati il numero dei cavalli, ordinò,
che ogni famiglia colonica avesse per suoi servizi domestici, o di campagna una cavalla: da ciò il numero prodigioso dei polledri in Russia. Se ogni famiglia dei nostri contadini non avesse per dote dei suoi fondi che una vacca, la quale potrebbe comodamente nutrire di paglia, di frondi, di pomi di terra, delle rimanenze dei suoi campi, avrebbe oltre del letame, il suo latte, il suo burro, avrebbe di che condire le sue vivande; e non si vedrebbe obbli-
gata a cibarsi continuamente di erbaggi conditi con oli rancidi, e di un pane azimo di frumentone, che rende i contadini melan-
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conici, duri e caparbi. Accresciuto così il numero degli animali, il prezzo delle carni, dei formaggi, sarebbe più mercato, meno costose le spese di coltura, le arti avrebbero più mezzi di accrescere la loro industria, il popolo un nutrimento più sostanzioso, una più robusta esistenza. Non ha ultimo luogo, nel metodo di aumentare il valore dei fondi, quello di portarvi l’industria delle api. Che costa l’educazione di questo benefico insetto, il quale somministra alle nostre mense il più dolce dei liquori ed un materiale prezioso al lusso ed alle pompe del culto? Tutto si lega nel sistema dei miglioramenti. E qual vantaggio migliore che situare in un angolo del campo | poche arnie, farvi un riparo, ed aspettare che le innocenti abitatrici ci arricchis[cano] dei loro aurei doni? Un alveare ben nutrito si duplica, si triplica immancabilmente in un anno. Fra pochi questa industria si centuplica. Ma senza entrare in questi calcoli speciosi, se in ogni podere non ci fossero che quattro, sei, dieci arnie secondo la sua am-
piezza, avrebbe un guadagno il colono e il proprietario inaspettato lucroso, quasi senza veruno stento e spesa. L’avrebbe lo Stato, che si esenterebbe dall’immissione” di tanta cera, di tanta materia zuccherosa che non possiamo acquistare che a forza di argento. L’ape industre profitta di tutto il regno vegetabile per arricchire il suo padrone. Essa non reca verun nocumento ai fiori, alla fecondazione delle piante, come taluni poco avveduti pur dissero, e se ne mostrarono nemici. Raccoglie essa quell’eccesso di polline che la natura diffonde a larga mano alla fecondazione dei germi; anzi si rende ministra con ciò di nuove fecondazioni, ed arricchisce le campagne di tante piante ibridi!?. Succia quella soprabbondanza di miele che i nettari gemono in seno dei fiori, e che senza il ministero delle api si dissecca e perisce. Al proprietario non costerebbe che la prima spesa di pochi carlini per l’acquisto di un alveare, e il tempo la pagherebbe con usura centuplicata. Noi sborsiamo immense somme all’estero pel consumo della cera. Né siamo noi soli in questa passività. Tutta l’Italia, la Fran€ Ossia dall’importazione. 12 Vedi le mie Lezioni di agricoltura, tomo 5, [Lez. XIV] Art. Api. [G. De Bonis, Napoli 1820].
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cia stessa paga questo tributo all’industria del settentrione. Il Signor Conte Dandolo calcolava a due milioni ed ottocentomila lire annue l’esito per questo oggetto del Regno Lombardo-Veneto. Il Sig. Bosco osservava come la Francia non raccolga la metà della cera che consuma. Il Signor Galanti portava la nostra passività nel 1771 a duecentotrentamila ducati, quando la cera costava un terzo di meno di quello che costa oggi. Aggiungendovi le occultazioni del controbando, noi possiamo portare ora questo esito a circa mezzo milione. Ma qual tributo è questo per noi soprattutto che siamo nel giardino del mondo, il più opportuno alla nutrizione delle api? Confessiamo di aver degradato molto dall’agricoltura dei nostri padri. Dove sono le industrie delle api con tanto elogio ricordate da Plinio negli Abruzzi? Dove i mieli di Taranto elogiati da Orazio? Se non si risveglia un’attività vivificante, un’emulazione riparatrice, 720x daturos progeniem vitiosiorem.
Occupato dei mezzi di minorare la nostra passività nel commercio di quegli oggetti che possono somministrarci le nostre terre, e con ciò accrescere il loro valore; nell'impegno di suggerire dei metodi riparatori alla nostra languente agricoltura, e deviarla dalla perpetua e quasi esclusiva coltivazione dei cereali che oggi non troviamo più profittevole; oso incoraggiare i proprietari alla coltura della barbabietola, beta vulgaris, genere di pianta della pentandria digynia nel sistema di Linneo®, che è una varietà della nostra bietola comune, di radice carnosa fusiforme, con steli angolati lisci ramosi, foglie grandi alterne lunghe, che si prolungano sopra un peziolo grosso, appianato. È indigena nelle spiaggie marittime dei paesi meridionali, quindi trova tra noi il clima più analogo alla sua costituzione. Non per l'abbondanza delle sue foglie, per le grandi radici (detta perciò radice di abbondanza, ed inversamente dai francesi racines de disette) che io celebro la sua coltura utilissima agli uomini ed agli animali; ma per l'abbondanza del zucchero che può dare. Noi per questo genere coloniale siamo passivi annualmente di qualche milione nel commercio. Or di una pianta che ci rito4 Carlo Linneo, naturalista svedese (1707-1778), autore nel XVIII secolo (il suo Systema Naturae è del 1735) della più organica e sistematica classificazione del regno vegetale.
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gliesse da un tributo così gravoso, o che lo minorasse almeno, quanto vantaggiosa non ne riuscirebbe la coltura? Da più di un secolo il chimico Sig. Margraf° aveva riconosciuto nella radice di questa bietola il zucchero più gustoso e più puro che potesse estrarsi. Ma trovandosi esso mescolato. ad una mucosità abbondante che impediva di cristallizzarsi, non impegnò allora i chimici in questo processo. Dopo le cure del Signor Gutting, che ne ha facilitata e semplificata la manifattura, non so
come non si generalizzi questa coltivazione!?. Che se non si otterranno i vantaggi che celebrava il Signor Achad* di aversi il zucchero da questa bietola a quattro e cinque soldi la libra, almeno minorerebbesi tanto dispendio che soffriamo per quello della canna americana. In Francia questa manifattura si è introdotta con successo. Si celebra fra l’altre quella di M. Ret di Claumont nel dipartimento della Marna. Noi potremmo augurarci una migliore riuscita, un maggior profitto per l’attività del nostro clima, che meglio raffina la sostanza zuccherosa. Fondo questa congettura dietro le osservazioni del Signor Deyeux, incaricato in Francia per questo processo8. Egli avendo coltivato due quadri di questa bietola, uno ingrassato e frequentemente annaffiato, e l’altro no, ottenne molto più zucchero dalle radici del secondo quadro. L’umido, minorando il calorico, impedisce il passaggio del muco in zucchero. Il nostro clima più asciutto darebbe radici più zuccherose che nel suolo di Francia. Qualunque poi potesse essere il profitto di questa coltivazione, che lo credo moltissimo, è sempre vantaggioso in economia pubblica accrescere un ramo d’industria che ci ritoglie da un tributo coll’estero, abbenché questo zucchero dovesse costare qualche cosa di più di quello della canna. E il tempo finalmente di parlare dell’agricoltura boschiva così male augurata tra noi. Dissi che sia questo il disordine più fune© Andreas Sigismund Marggraf, chimico tedesco (1709-1792) che per primo realizzò il metodo di estrazione dello zucchero dalla barbabietola. 13 Egli taglia le radici in sottili fette e le disecca in una stufa; quindi le getta nell’acqua: essendo il zucchero solubilissimo, immediatamente l’acqua s’impregna di tutta la sostanza zuccherosa, e colla evaporazione si viene a cristallizzare. * Franz Karl Achard (1753-1821), allievo, collaboratore e quindi successore di Marggraf, valorizzò la scoperta del maestro e costruì la prima fabbrica al mondo di zucchero. 8 Nicolas Deyeux, farmacista francese (1745-1837), famoso per i suoi studi sull’oppio e sullo zucchero da barbabietola di cui, come ricorda l’autore, organizzò la produzione in Francia.
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sto che mirasi nelle nostre campagne, talune prive affatto di alberi, in altre così mal tenuti, che sono più di impaccio che di profitto alla terra. Abbiam tagliato, distrutto senza accorgimento o previdenza. Ora che i danni dei quali si risentono le nostre campagne; ora che il caro prezzo del combustibile, della calce, dei legni da costruzione; ora che l’impossibilità nella quale ci vediamo di animare le fucine necessarie all’esercizio delle arti ci hanno così tardi ammaestrati sopra di questo interessante ogget-
to, è il tempo di affrettarci a portarvi un riparo!*. Già un’amministrazione veglia oggi alla tutela dei boschi che ci sono rimasti, e spero che sia attivata dalle migliori leggi, animata dai migliori sentimenti, guidata dalle più giuste vedute. Qui parlo dell’industria dei proprietari che potrebbero aprirsi grandi sorgenti di ricchezze nel coltivamento degli alberi.
Il profitto delle nostre terre, la rendita di esse nei luoghi montuosi generalmente non eccede i tre, i quattro carlini a moggio. Essi erano un giorno ricoperti di alberi: la natura ve l’aveva opportunamente moltiplicati. Ma l’ingordigia di profittare di una terra nuova, il valore del legname del primo taglio, ha lusingato molti possessori ad abbattere gli alberi e metterli a coltura. L’illusione però è sparita ben presto e, consumato quel primo strato di terra vegetale che li ricopriva, il guadagno si è diminuito in
ogni anno, finalmente è scomparso, serti, che appena danno qualche filo proprietario avveduto può ristabilire boschendole di nuovo e rivestendole
lasciando i nostri colli ded’erba per la pastura. Or un il valore di queste terre, imdi selve cedue, le quali sen-
!4 Noi abbondiamo delle ricche miniere di ferro, di rame, di piombo, di ar-
gento, di oro, che per mancanza del combustibile non si possono esplotare. Il Signor Fasano (Angelo), che visitò le Calabrie dopo il tremuoto del 1784, dice che quelle regioni presentino un aspetto tutto nuovo e differente da quello di altri paesi. I viaggiatori vi ravvisano le qualità del suolo del Perù. Quindi, oltre le innumerevoli miniere di metalli ignobili, nel solo Longobucco numera dieci miniere di argento. Nel territorio di Motta S. Giovanni si vede la ricca miniera detta l’Argentera, che dava 19 in 20 oncie di argento puro per ogni cento rotoli di materiale grezzo. Ne ha trovate nel monte Saggittario, nel monte Sagro, etc. Nel territorio di Precacore esiste una ricca miniera di argento con ato. Talune di queste miniere furono in attività nei tempi degli Angioini. I Saraceni tennero in pratica una miniera d’oro nelle vicinanze di Nisi. Di quale vantaggio non sarebbero questi metalli ora specialmente che sono mancanti quelli del Perù, del Messico? Qualche miniera diargento riattivata sotto il felicissimo governo di Carlo terzo, fu discreditata, perché l’interessata accortezza sorprese la credulità di pochi, secondo si esprime lo steso Signor Fasani. Vedi gli «Atti della Reale Accademia Napoletana» del 1788.
III. Proposte di cambiamento e tentativi di trasformazione
lol
za stancare la di lui longanimità, posson dargli un profitto in ogni cinque anni, dieci, venti anni, secondo la natura dei luoghi e l’es-
senza del legname. In tutti i terreni magri, come sono d’ordinario i terreni di collina, l'agricoltura delle selve cedue è la più profittevole. Mr. Juge de Saint Martin” per ripetute sperienze ha conosciuto come nei terreni cattivi il bosco ceduo cessa di crescere con profitto
all’età di nove anni; nei mediocri in quella di quindici o venti: e tra i trenta a quaranta negli ottimi. Il Signor Duhamel" poi si ha presa la pena di calcolare il prodotto secondo la diversa essenza degli alberi, e conoscere il profitto che possa dare un ceduo. Vide che un ettaro (misura di circa due moggi nostrali) che conteneva 900 quercinoli, atterrato all’età di venti anni, diede otto corde di
legno e 900 fascine!?. La vegetazione degli alberi nei nostri climi è più felice che in Francia. Ma quando anche un moggio del nostro ceduo non dasse all’età di venti anni che il profitto di quattro canne di legno, venduto a sei ducati la canna, triplicherebbe e quatruplicherebbe la rendita ordinaria di un terreno di collina coltivato a granaglie o tenuto a pascolo.
To non ho parlato che del prodotto di un ceduo di quercia, o cerro, che è il legname più proprio per alimentare i focolari, e farne carbone per le cucine. Da siffatti cedui si può ritrarre altro profitto dalla loro corteccia, la quale serve per la concia delle pelli, tenendo luogo di vallonea. Da questa corteccia si ritrae un vantaggio maggiore di quello che dà il legno stesso!°. Ma l’avveduto proprietario varia gli alberi secondo la qualità del fondo, le circostanze del commercio, la facilità della vendita, e il profitto allora è maggiore. Così in un luogo paludoso umido, un ceduo di ì Jacques Joseph Juge de Saint Martin (1743-1824), autore tra l’altro di Traité de la culture de chéne, contenant les meilleures manières de semer les bois, de les planter, de les entretenir, de rétabilir ceux qui sont dégradés & de les exploiter, Paris
1788, e di Notice des arbres et arbustes, qui croissent naturellement, ou qui peuvent étre éléves en plein terre dans le Limousin, 1790. ' Henri Lorris Duhamel du Monceau (1700-1782), agronomo francese autore
tra l’altro di Traité de Îa culture des terres (1751-60), e De l’exploitation des bois (1764). 1 La corda, o misura a corda di legname, comprende cinque piedi di altezza sopra otto di base; equivale presso a poco ad una canna nostrale, cioè ad una catasta di otto palmi di altezza ed otto di lunghezza, con legna di quattro DURE Il Signor Dandolo da un ceduo di cerri della estensione di 15 RSS e (tre moggi nostrali circa) atterrato all’età di 14 a 16 anni ritrasse 1.848 libre grosse di corteccia secca, che vendé per 221 lire; e, dedotte le spese, computava il profitto della corteccia a 16 lire a pertica, prezzo superiore a quello stesso del legno.
pioppi, di salici, di ailanti, di altri legni bianchi riuscirebbe utilissimo; ma sopra tutti si loda nella coltura milanese un ceduo di onici, o alni, a/nus. Piantati i piccoli onici di due anni alla distanza di due palmi, dopo il quinto anno si avrà un ricco taglio di legname, che si rinnoverà poi da quattro in quattro anni. Tutti questi legni di pronta crescenza al contatto della luce solare decompongono mirabilmente l’acqua che attraggono dal terreno colle radici e dall'atmosfera circondante colle loro foglie. Così si accrescono gli elementi della loro pronta vegetazione; così si perfeziona il fondo e più l’aria che in tali luoghi suol essere micidiale. Quale vantaggio non arrecherebbe questa agricoltura allo Stato, all'umanità, ai proprietari di tanti fondi che ora sono inutili, e che si sfuggono per i miasmi contagiosi che tramandano nella stagione estiva? A moltiplicare poi prontamente questi cedui non vi è di meglio che coltivare i semenzai, i vivai. In un mezzo moggio di terra seminato di castagne, di cerri, di ghiande in tanti solchi, lasciando anche un terzo del fondo per le strade interposte onde facilmente mondare gli alberelletti, vi possono star bene cinquantamila pianticelle alla distanza di tre oncie per ogni lato. Dopo il terzo anno possono trapiantarsi nel ceduo. Di gelsi, di altri alberi di seme minuto, vi si possono allevare sino a centomila pianticelle, dando a ciascuna un’area quadrata di due oncie per lato; ed al secondo anno si passeranno nei vivai, quindi nel posto. Da questi vivai e semenzai si avrà sempre una dote inesausta per
rivestire le proprie campagne, e vendendo anche a basso prezzo le pianticelle, si otterrà un grande profitio. E pure questa coltura così necessaria nelle nostre presenti circostanze la vediamo interamente trascurata. Appena è conosciuta nelle vicinanze di Napoli; appena mirasi qualche moggio di semenzaio di peri, meli, gelsi, e nel resto del Regno è interamente trascurata. [...]
2. Gli ostacoli da rimuovere* [...] Quando uomini di spirito elevato tengono il timone della
nazione, non che allora comandare ai popoli di chiuder gli occhi, * Da Michele Caracciolo, Brevi riflessioni sull’incoraggiamento dell’agricoltura, M. Migliaccio, Napoli 1820, pp. 5-22.
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prescrivono in certo modo di aprirli. Non oscurati dall’orgogliosa parzialità per le proprie idee, accolgono, per sicurezza maggiore i pareri degli altri. Palesare progetti salutari, immaginare piani di riforma onde si correggano vizi di immalsanite e logore istituzioni; ecco le brame del cittadino, i liberi reclami delle nostre politiche posizioni. Agricoltura e mezzi da farla prosperare han richiamato la mia attenzione. Né sarà opera perduta parlarne in questi tempi che si credono destinanti a rendere la nativa efficacia a tutto ciocché conduce al benessere sociale. [...]Io non formo sistemi, spesso caratteristiche di debolezza o di stravaganza. Quello di Quisnai? affatto ipotetico, assurdo, e
ben deriso dall’autore dell’uomo di quaranta scudi”; l’altro singolare di Condillac°, pieno d’ingegnose balbuzie, e quelli di altri scrittori di economia accordando preferenza ora all’agricoltura ed ora al commercio, dimostrano lo spirito di predilezione degli autori, anziché il vero analizzato dell’imparzialità; e nella nostra nazione, paese agricola", si ravvisa di botto il rango che debbesi occupare dall’agricoltura. Essa dovrebbe tener il primate; né le arti altro posto occuparvi che quello di suoi ministri. [...] La proprietà è all’agricoltura essenziale. Abbiettandosi, si trascurano i lavori; quindi diminuiscono le produzioni, e lo Stato s'indebolisce, impoverendosi. Questo sacro diritto sempre lodato in teoria, sempre si vilipende nella pratica. I Romani all’oggetto crearono leggi e stabilimenti, che qui non è opportuno ramè Si riferisce a Frangois Quesnay, economista francese (1694-1774), fondatore della scuola fisiocratica e autore del Tableau économique, consistente in uno schema ove sono descritte le principali relazioni che si stabiliscono in un processo circolare di produzione e diconsumo della ricchezza. Uno dei punti fondamentali della teoria fisiocratica è l’idea che il valore, il prodotto netto, abbia origine unicamente nella produzione agricola e che viceversa le altre attività economiche trasformino, ma non creino valore. Si riferisce a Frangois-Marie Arouet (Voltaire, 1694-1778) e al suo L’homme aux quarante écus, Genève 1768. © Etienne Bonnot de Condillac, filosofo francese (1715-1780), fu il caposcuola dei cosiddetti «ideologi». Fu un coerente seguace del metodo analitico per cui ogni forma di sapere deriva dalla scomposizione di un’idea nelle idee più semplici che essa contiene. In campo economico fu sostenitore della tesi che la fonte del valore fosse l’utilità intesa come concetto soggettivo, e che ogni attività economica,in quanto creatrice di utilità, fosse «A 1 E una vana distinzione quella di nazione agricola, manifattrice, e commerciante. La nazione che fiorisce nell’agricoltura possiede maggiori mezzi per fat prosperare le sue manifatture ed il suo commercio; e così viceversa. Ma io mi sono servito della testé espressione per seguire quella di molti, e perché l’agricoltura tra noi è quella che dovrebbe animare il resto, e non esserne.
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mentare, tutto ché essi distrutti dall’ambizione del comando e delle conquiste. Che faremo noi non invasi da simili manie? [...] Il governo non può generalmente, senza discapito, divenir produttore; ma deve con gagliardia favorire la produzione. Quindi la necessità delle strade, porti, canali, ponti ed altro, e siffatte
spese non ammettono risparmio. Di orali vantaggi non furono quelle fatte in Francia pel mezzo di Colbert?® Il canale di Linguadoca sarà sempre monumento di gloria per Luigi XIV. Per lo spaccio dei prodotti dell’agricoltura son mestieri ancora le grandi città, come per le manifatture i prodotti dell’agricoltore. Ad eccezioni di pochissime, che appena meritano tal nome, il rimanente pare assimilato a miserabili paesi della Polonia e della Vesfalia: perciò è uopo che siano altrimenti. La sola nostra capitale è popolata a ribocco. Ma in un corpo macilente e smunto, che sostiene capo mostruosamente grosso; e cui manda tutt’i suoi umori, non avviene altro che macie avanzata e squallore nelle membra”. La circolazione del denaro, la formazione dei stabi-
limenti nelle provincie, fabbriche di manifatture provviste di artefici, materie prime, ed altro; ecco le cure del savio Rosni,
impiegate con vantaggio della sua nazione. Noi non potremmo imitarlo, avendo specialmente le Calabrie per ia seta, la provincia di Bari e Lecce per la bambagia, e gli Abruzzi per le lane? (Trascuro, perché chiaro di troppo, di parlare della formazione dei vini, che uguaglierebbero i migliori forastieri, e del formaggio che potrebbe migliorarsi.) [...] La numerosa popolazione facendo più coltivare le terre,
accresce la somma delle derrate, le quali, col superfluo cambiandosi, il Regno ricco di per se stesso lo faranno di vantaggio. Non è mio pensiere trattare la popolazione con vedute della police non farò, che cennare pochissime riflessioni. d Jean-Baptiste Colbert, uomo di Stato francese (1619-1683), durante il repuodi Luigi XIV fu il PIOPARTARIE di una politica economica, il cosiddetto «colertismo», i cui punti di forza furono, in linea con le teorie mercantilistiche del tempo, rottura dei presistenti statuti corporativi, incoraggiamento alle iniziative industriali, espansione coloniale e, infine, una politica rigidamente nazionalista. © La famosa metafora del «capo» e del «corpo», ampiamente utilizzata dalla pubblicistica sette-ottocentesca per identificare la sproporzione ed il conflitto esistente tra la capitale e le province, fu utilizzata .. G. Filangieri, La scienza della legislazione, libro II, Napoli 1780, capo XIV, pp. 152-154. Ora in F. Di Battista (a cura di), I/ Mezzogiorno alla fine del Settecento, Introduzione di A.M. Fusco, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 43-45.
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Checché si dica dal Signor Humef, il nostro Regno potrebb’essere più popoloso. Sibari, Turio, Crotone, Eraclea, Taranto, Metaponto, Brindisi, Pesto, il Sannio ed altri luoghi ce ne persuadono. Ma ora la Puglia manca di mietitori, e gli ulivi leccesi di braccia, senza parlare di altro. A ciò si oppongono ostacoli morali e fisici, più potenti, ma più facili a togliersi. Le pressocché innumerevoli lacune ed acque stagnanti potrebbero da abili ingegnieri esser ben dirette, e dar moto a delle macchine utili, inaffiare terreni, o ricevere scoli nei fiumi vicini, che mancano, o col mare. Nocera, il vicino piano di Eboli, le vicinanze di Amalfi, parecchi siti della Grecia chiamata magna in cui ora si è solo assordati dai mugiti di bufale e di vacche, mentreché prima in qualche sua città non si soffriva il canto di un gallo; la Capitanata, ed altri moltissimi luoghi, ci avvisano di qual popolazione sarebbe il nostro Regno capace tolti siffatti ostacoli. E quali sforzi non si fecero per questo nei loro paesi dagli olandesi, dai chinesi, da Pietro il Grande, ed anche dai despoti istessi di Persia? Gl’immensi servi di pena con migliore e più attivo regolamento potrebbero in ciò giovare la società offesa. Qualche porzion dell’esercito in tempi di pace non potrebbe anche occuparsene? Ricordo che gli esercizi militari potrebbero eseguirsi nelle feste ed in altro giorno della settimana, ché tali campestri fatiche donano al soldato la vera energia. Le frequenti guardie, anche al dir di dotto militare, sono nocive al soldato; e tenerli sempre nelle guarnigioni, sarebbe applicarci l'amaro sarcasmo fatto a quella nazione che ne fu il miglior giudice... Militia per oppida», expleta. [...] Vengo con alquanto di laconismo alle cause morali. Non si debbe stimularlo; il matrimonio sembra ricaduto nei disordini dei tempi in cui aringò Metello Numidico®, e piovvero a pura perdita le leggi giulie e papie onde farne superare l’avversione. Ma se l’uomo per riprodursi non ha bisogno che del semplice f Il riferimento al filosofo scozzese David Hume (1711-1786) e al suo Or the
Populousness of Ancient Nations (1752) è una delle non infrequenti citazioni che l’autore riprende integralmente da G. Palmieri, Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli, Flauto, Napoli 1788 (ripubblicato recentemente, a cura di A.M. Fusco, da Laterza, Roma-Bari 1991, p. 8).
8 Quinto Cecilio Metello Numidico, ricoprì le cariche di console romano nel 109 a.C. e di censore nel 102 a.C. Anche in questo caso, come in molti altri seguenti, la citazione, e il brano in cui è inserita, è ripresa quasi integralmente dalla citata opera di G. Palmieri.
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stimolo della natura, e se avversione si spiega generalmente per questo sacro vincolo, la rilasciatezza dei costumi n’è senz'altro anche cagione. Quindi la necessità di saggia e pubblica educazione quale non è del mio piano ideare. E qui piacemi riflettere che giova più amuoverne li frapposti ostacoli che avventurare mezzi diretti. Le favorevoli leggi e gli editti dei Romani, la venerazione degl’ebrei pel matrimonio, le profusioni di Luigi XIV, riuscirono infruttuose. Non è dato che alla pubblica e saggia educazione il vero trionfo. L’industria attivata n'è anche immancabile e forte incoraggiamento, perché la popolazione si livella con le produzioni. Con ciò si è raddoppiato in meno di anni venti quella degli Stati-Uniti, quando, al dir di Smith®, ci sarebbero abbisognati cinque secoli avvalendosi di altri mezzi. La scarsezza di prodotti, e non il nuovo mondo spopolò la Spagna; ciocché all'opposto non avvenne nelle Fiandre, malgrado le sue guerre civili ed il governo spagnuolo. Popolazione, in vero, ed agricoltura in attività sono germane che si giovano a vicenda, ponendosi in amichevole congiura; son cause ed effetti che scambievolmente s’influiscono. E quali speranze non dobbiamo concepire atteso il suolo e la situazione del nostro Regno, e la nuova politica della nazione? [...] Efficace polizia nell'interno e nelle vicinanze dei paesi per la nettezza e per cose simili è indispensabile. Insetti, immondezze, fetori, producono un tal quale contagio, massimamente nella stagione estiva. Quale divario tra le antiche e moderne Brindisi, Taranto, ed altro! Le autorità ed i proprietari del paese potrebbero autorizzarsi a comminare pene miti di polizia per li controventori.
[...] Senza far motto di altri vantaggi, gli alberi ne producono assai all'economia animale ed alle produzioni, checché si detti dall’ignoranza. Quanto bene ne provano l'Inghilterra, la Normandia, il Belgio, la Lombardia! E mostruoso supporre che la Capitanata, un tempo zeppa di boschi, ora non poss’averne. I pascoli che produce ne ratificano la possibilità. Sully, grande economico', fece moltissimi piantarne. Quanta saggezza vi è in quel ® Il riferimento è al famoso economista inglese Adam Smith (1723-1790), pron del celebre An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations
1776).
' Si riferisce a Maximilien de Béthune Sully, barone di Rosny (1560-1641), uomo di Stato francese famoso per le sue politiche volte al riordino dell’ammi-
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motto dell’ Addison! replicato da dotto scrittore. Ur uomo utile è passato per questi luoghi! [...] Toccherò io altro punto interessante del pari che delicato? Intendo parlare dei preti, dei monaci e delle monache. Lungi dal formare il loro processo, neppur oso tesserne l’elogio; ma non cade dubbio sui molti mali economici, politici, e morali da essi
accagionati. Secondo me eccone il principale rimedio: che molto parco ne sia il numero, e questo formato da persone agiate, ed istruite. Ciò intendo dei preti. Per i restanti monaci avvisarei che fossero soppressi. Non c’inganniamo: il gran numero, come da per tutto, oltre d’infiniti mali, prostituisce la morale; ed il non agiato, capace di bassezze, si rende spregevole a propagare il Vangelo di cui dovrebbe essere l’integerrimo uffiziale. Si proibiscano fondar chiostri e le inutili e criminose confraternite. L’esistenti si aboliscano. Non vi sono i parrochi? Lo stesso si dica delle religiose. [...] È superfluo rassegnare tutt’i mali nascenti dall’ozio. Quali inconvenienti non rammentiamo ai nomi di poltroni, di accattoni e di vagabondi? Le vetuste leggi di sangue all’uopo sancite da Dracone” dimostrano la sua saviezza, come la ridevole compassione di moderni filosofi, la loro criminosa umanità. Per questo si potrebbero adottare molte leggi. I cittadini tutti, con pena ai parenti nel caso d’inosservanza, si avvezzino nei primi anni alla fatica [e] ad istruirsi in qualcuno dei moltissimi mestieri. Ciò non basta. Tutti abbiamo diritto di accusare li trasgressori innanzi del tribunale della provincia, o più tosto uno formato dal sindaco, regio giudice o supplente, parroco, e qualche onesto e conosciuto galantuomo, e da questi venirne coartati alla fatica, e ricusandosi, mandati alle opere pubbliche. Si regoli anche l’opinione rispetto agli oziosi, dichiarandosi infami. Nella China sono ricevuti a sassate: ecco perché sono pochissimi; l’opposto nell’Indostan perché soccorsi e compatiti. I storpi, i vec-
chi, ed altri siffatti potrebbero applicarsi, come in Inghilterra, alle diverse fabbriche, a tirar mantici, maneggiar soffietti, ed alnistrazione, e allo sviluppo agricolo tramite la libertà di commercio dei cereali, la riduzione della fondiaria, la costruzione di strade e canali, etc. ! Joseph Addison, scrittore e saggista inglese (1672-1719), fondatore (1711) del giornale «The Spectator». '? Tegislatore ateniese della fine del VII sec. a.C., autore di un codice rimasto famoso per la severità delle pene previste.
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tre simili cose, in vece dei buoni. Non potrebbesi tra noi richiamare la legge di Amadeo trasportata di Persia nella Sicilia, di rendere cioè risponsabile il territorio dei delitti che ivi succedono? [...] I demani sono avanzo di barbarie dei nostri padri. Si celebrano perché favoriscono la pastorizia ed i boschi; ma la prima ne soffre, ed i secondi sono distrutti perché comuni. Il loro stato precario ed incerto è poco utile alle parti, nocivo al tutto. Ma a stento ormai si è conosciuto una verità da lunga pezza manifestata e messa a profitto presso di saggie nazioni. La ripartizione tra particolari; ecco ciocché convien fare. Ed in che modo? Lungi i prestigi ed i particolari interessi. Prevalga finalmente l’amor del pubblico bene. I soli proprietari, e non dirò così i capite censi che possano acquistarli. Le migliorie, le spese di anticipazione ed altre immense, non possono eseguirsi da bracciali. Le terre un tempo degli espulsi ce ne persuadono di vantaggio. Che se la sorte dei poveri interessa le anime sensibili, migliorarla a tal modo, ripete l’illustre economista, non è che peggiorarla; che anzi tutte le anzidette spese fattibili dai soli proprietari, vanno a giovare i laboriosi contadini, per le varie occupazioni campestri cui saranno essi soli destinati. Non c'illuda il vocabolo proprietario; ciò intendo quegli che
può meglio coltivare, sia questi, dice il profondo Palmieri, un turco, uno straniero, sempre sarà utile alla nazione e di vantaggio ai poveri. [...]Il Tavoliere di Foggia rappresenta il più strano e bizzarro stabilimento che immaginar si possa. L'autorità di Romani, quella di Alfonso che anche lo stabilì, ma in tempo in cui il Regno non più conteneva che un milione e mezzo di abitanti; queste
autorità non bastano ad assolverci di tali accuse. Delle leggi, è vero, sono state non è guari a ciò pubblicate”. Ma forse perché manchevoli della conveniente energia e saggezza, quella bella provincia non ancora ha deposta la squallida sembianza acquistata in tempi tenebrosi e di barbarie. Sommi ingegni ne hanno all'evidenza dimostrato tutt’i non pochi inconvenienti, ed io senza ripeterli oso sperarmi che le leggi dettate da vera saviezza, ° Il riferimento è alla legge del 21 maggio 1806, che sanciva la censuazione del Tavoliere, e alla successiva legge del 13 gennaio 1817 sulla cui validità si sviluppò un ampio dibattito. Cfr. supra, pp. 91-109.
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abolendo del tutto il mostruoso Tavoliere, ordinino tra i particolari eguale ripartizione. [...] L’affitto è altresì un abuso contrario al ben essere sociale. Questo non fa che produrre nei proprietari degl’oziosi, o di quei che impegnati dalla vanità corron per lo più nella capitale onde comprar cariche o invilupparsi negl’intrighi d’ogni genere. Qualora essi ne ritenessero l’amministrazione, il valore della loro opera accrescerebbe la ricchezza nazionale; ricchezza che non si compensa con quella degl’intraprendenti e fittaioli; e che potrebbero essi esclusivamente occuparsi altrove. La nazione ancora perde l’aumento del valor delle terre; poiché quale interesse pos-
sono avere i fittaioli a migliorarle? Che se non è possibile minorarne la piena di questo torrente di inconvenienti; si tenti almeno di invertirne il corso. Non sono
che i soli lunghi affitti, i quali possono eccitare l’idea di migliorazione. Perciò la necessità di proteggere questi con tutt’i mezzi possibili, apponendo un limite d’onde incomincierebbero a percorrere i lunghi affitti. Questi vantaggi fa uopo che siano esclusi da quei di corta durata, e che la legge potrà definire. E mestieri ancora che sianvi leggi le quali assicurino ai coloni la certezza di non essere rimossi durante il periodo dell’affitto, anche nel caso di vendita, cessione, o altro. Che si accoppino finalmente le dannose sottigliezze all'oggetto escogitate nel foro. [...] Le immense terre ecclesiastiche acquistate in tempi men felici cumulano tutt’i svantaggi dei demani e degli affitti. Proporne la vendita, o altro simile mezzo che metta in possesso i proprietari e le distacchi dalle comunità, sarebbe nel pregiudizio anatema o ardita proposizione; quantunque veramente utile e commendevole. Ma gli uomini di genio, trasandando i cinguettii di pochi, porteranno anche in questo sì salutare riforma. Il tesoro se ne potrebbe creare, in vece, loro debitare, pagando mensilmente giusta somma. Young® ripone la rigenerazione dell’agricoltura inglese nella soppressione delle decime e nella rendita fissa assegnata al clero. [...] È inutile che io parli anco della abolizione delle decime,
se ve n’esistono. Chi ignora i mali da esse prodotti? ° Arthur Young, economista e agronomo inglese (1741-1820), rivolse la sua attenzione alle condizioni agrarie di Inghilterra, Irlanda e Francia. Fondatore degli «Annals of Agricolture», tra le sue opere ricordiamo The Farmer's letter (1767), Political Aritbmetic (1774-79), Travels during 1787-89.
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Parte prima. L'agricoltura
[...] Ma gli uomini di gloria che si applicano a queste riforme, non debbono qui arrestare i loro passi. Altri mezzi v’ha più momentosi, e dirò così, che più direttamente mirano allo scopo. Non pretendo che male intesa antiveggenza amministrativa regoli le produzioni, o diriga altre agricole operazioni: niente v’è di più assurdo. Tutto al più proteggere le ricolte, punire le colpevoli omissioni; ecco l’impaccio che potrebbe darsene.
[...] Invano si procura, senza migliorar la sorte del contadino, ritenerlo nella sua professione. Essi, gli agricoltori, non sono più i rispettabili sacerdoti di Cerere, di Minerva, di Bacco, ma gli avviliti iloti, servi della gleba, schiavi di Polonia. Quindi è ingiusta la loro deiezione! Gli antichi di cui abbandoniamo la guida, dove ci è uopo seguirla, ne innalzavano altari e sacrificavano, avevano tempi augusti e culti solenni. Che non fanno i chinesi ai loro mandarini? Piccioli e frivoli contrassegni di stima sarebbero mestieri. Luogo distinto nella chiesa e nelle processioni, esequie solenni al più industrioso trapassato, ed analoga orazione. Franchigie ancora accordate su quei stabili acquistati dai contadini con condizione di perderle, abbandonando la propria professione. Le liti privilegiate ed immuni di qualunque gravezza. Freme l’umanità vedendo le imposizioni d’ogni sorte gravitare su di essi, ed in aggiunta le lungherie ed i raggiri cui vanno soggette le liti di costoro; il semenzaio della società. [...] Premio ed onore gridano gli economisti; Honos alit artes
ripeteva Cicerone; ecco pure ciocché ci si fa indispensabile. A questo si debbe l’esistenza dei secoli luminosi. Quindi premio a chi introduce nuove maniere di coltivare; a chi trova altre facili macchine, o le antiche renda più spedite. [...] E piacemi osservare che per invenzioni, o altro invece di privative, si accordi giusta somma. Le privative offendono la libertà e l’industria nazionale. [...] Le numerose scuole di legge, medicina, teologia, hanno reso eccessivo i leggisti, medici, ecclesiastici. Quindi la necessità di minorar queste, e porre sopra tutto delle scuole di agricoltura nei licei, seminari, ed in altre case così dette di educazione, ob-
bligando tutti a studiarla innanzi di uscirne. [...] I contadini han bisogno di ogni istruzione. Perciò i parrochi ed i preti, come in molte regioni, dalla bigoncia, e con familiari sermoni, potrebbero nei giorni di riposo istruirli; allon-
III Proposte di cambiamento e tentativi di trasformazione
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tanandoli così dai delitti, dal vino in cui soglion cadere in tali giornate.
[...] In Edimburgo, in Dublino, ed in altri luoghi, semplici particolari trasportati dall’amore di pubblico bene fondarono Società e stabilimenti di agricoltura e di manifatture; col premio annuale fino a cento mila lire sterline. Le nostre numerosissime Società non potrebbero imitarli? Le non poche casse che si svuotano per futilità non potrebbero a ciò servire? Le loro occupazioni, leggiere un poco perché avanzate, non potrebbero versarsi sul vero bene della patria? In grazia del mio zelo questi generosi mi condoneranno sì libera, ma verace favella. Solo specie di pedantismo vi potrebbe intrattenere sì nobile ed utile riforma, con inceppare le loro operazioni da convertirsi in migliori e veramente vantaggiose. Ma i dettami della ragione, le vocazioni dei buoni, i reclami di patria bisognevole gl’invitano a delle salutari riforme; ed il governo dovrebbe un poco occuparsene, ponendosi con essi in armonia. [...] Le più belle teorie e gl’incoraggiamenti restano spesse fiate inoperosi nella mente di qualche dotto, o nei suoi scritti, quando non vengono affiancati dall’esperienza; e ben avvisò quegli che in essa ripose la più energica istruzione. Moltissimi di questi abbisognano, soprattutto quei semplici, i quali timidi per ignoranza o per interesse, non osano abbandonare la strada battuta. La scuola veterinaria di Alfort, la villa sperimentale di Rambovilet, ed altre utilissime introduzioni al tempo delle politiche tempeste della Francia, han diffuso i più utili ammaestramenti, ed han contribuito ai progressi della sua agricoltura. Tal’è lo scopo dei giardini georgici, e degli agronomi osservatori, che io oso proporre, stabilimenti sollecitabili dal clamore generale, ed in armonia coll’interesse del governo e dei popoli. Rischiaro le mie idee.
Ogni provincia, o almeno ogni due, abbiano nel sito più atto un giardino georgico destinato a tutte l’esperienze agricole, e ad insegnarle al pubblico, che non sempre ha l’agio di correre fino alla capitale, posto che in questa sola vogliasi stabilire (in siffatti giardini si potrebbe esperimentare come indifferentemente ingrassare i diversi terreni, previa l’analoga e migliore preparazione dei semi; come innestare gli alberi, accomodar le viti, manifatturare i differenti vini, cosa essenzialissima e di cui man-
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Parte prima. L'agricoltura
chiamo affatto; come seminar dei prati, quali in moltissime provincie s’ignorano; come lavorare i formaggi che con l’arte analoga potrebbero assimilarsi a quelli di Lodi, di Parma e di Lombardia, e per i quali da noi si spendono più migliaia l’anno, ed altre moltissime esperienze. Gli agronomi dovrebbero osservare le fasi delle stagioni, e quelle più proprie alle differenti operazioni agricole, e quindi, dirò quasi, formarne un almanacco adatto alle varie nostre provincie). Una facoltà come in legge ed in medicina dovrebbe istituirsi per gli esami dell’agricoltura, e teorica, e pratica, applicata al nostro Regno. I privilegiati soli dovrebbero avere il diritto di occupare i differenti posti che fan uopo in tali stabilimenti. Onde maggiormente incoraggiarli di essi i più meritevoli, si decreti che vadino immuni da talune cariche pubbliche, come coscrizione,
piccola quota d’imposizione, o di altre più convenienti. So che delle difficoltà si produrranno, specialmente pel denaro che vi si richiede, ma omettendo dire che la spesa non è molta, ed ancorché la fosse, tali stabilimenti, proficui d’infiniti
vantaggi alla nazione, ne hanno diritto preferibile; ricordo che piccola frazione di risparmi fatta dalle infinite pensioni d’ogni genere, dalle diminuzioni d’impiegati e dei soldi, invero molto esorbitanti, da quelle ancora disastrose amministrazioni, inesatte, complicate, ed infedeli, queste frazioni sarebbero sufficien-
tissime. E quanti altri vantaggi noi proveremmo! [...]I mali gravissimi che provasi dall’agricoltura, accagionati dalla mancanza e dall’alto interesse del denaro nelle provincie, debbono impegnare le pubbliche cure, perché si superino quelle difficoltà che non la natura delle cose, bensì il privato interesse e l’indifferenza pel pubblico bene fanno germogliare. Lo stabilimento di casse di prestito nelle provincie, stabilimento altra fiata gridato fra noi da dotto e benemerito concittadino, ci è indispensabile. Perché la capitale deve esclusivamente fruire di tale vantaggio? Ogni laborioso agricoltore per le spese di an-
ticipazione e di altre non mendicherebbe più nell’incertezza di trovare il denaro, non più lo rinverrebbe a grosse usure (sono inutili le leggi; esse sono ferite dalla continua frode), o non si asterrebbe dalle necessarie campestri operazioni se, stabilita una volta tali casse, egli trovasse sicuro il denaro ed a basso interesse. I Banchi della capitale potrebberonvi mandare delle somme a quelli delle provincie, esigendo per sicurezza obblighi di beni sta-
III. Proposte di cambiamento e tentativi di trasformazione
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bili; e ponendosi con essi in corrispondenza sugli esiti ed introiti, esigerebbero porzione dell’interesse, restando l’altra a favore dei padroni dei beni obbligati. Tutt’i tributi delle provincie versarsi nei loro Banchi, e quest’introiti si potrebbero passare al tesoro dai Banchi di Napoli; come all’opposto da questi potrebbe introitarsi il denaro dei negozianti, e pagarsi da quelli delle provincie. Ciò sarebbe, parmi, di vantaggio al governo, che dispendiasi per lo trasporto dalle provincie delle imposizioni; pel pubblico, perché anderebbesi a minorare il cambio; ed anche per i negozianti incettatori. Quando si è divisato, se non riesce persuasivo pel proposto espediente, ciò è da attribuirsi all'esecuzione non alla natura della cosa. «Rare son quelle istruzioni in cui si ravvisa la saviezza dell’autore. Nella maggior parte non si trova altro di commendabile che il fine». [...] Tutto quanto si è rassegnato è oggetto degno della meditazione e da porsi in pratica. S’incoraggisca con ogni modo l’agricoltura, le si tolgano gli ostacoli, che tosto questi onnipotenti mezzi, quasi novella magia, convertiranno i deserti selvaggi in soggiorni incantati, le città sorgeranno superbe; le piaggie aride, le incolte pianure coperte di spine, non più rattristerebbero i nostri sguardi. Ed una innumerevole popolazione, esercitata all’industria, moltiplicando i nostri piaceri, aumenterebbe la nostra forza politica.
3. In difesa della produzione cerealicola* [...] Non v’ha dubbio che in un paese come il nostro il grano è un oggetto di massima importanza non solo per la sussistenza, ma
anche pel commercio. Nel tempo che in Francia ed in altre regioni l’agricoltura era meno estesa, o meno felice, il nostro Regno estraeva quasi in ogni anno delle forti quantità di questa derrata, in modo che essa contribuiva, a gara con l’olio, a compensarci di quasi tutto l’esito che si soffriva per le merci straniere. L’aumento e la prosperità dell’agricoltura in tutta l'Europa * Da Memoria per i grani di Foggia, manoscritto anonimo e senza data in Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbone, fascio 732/III, fasc.lo 10.
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Parte prima. L'agricoltura
ha diminuite le richieste dei nostri grani; ma un male più grave ci ha tolta anche la preferenza. La coltura delle terre che circondano il Mar Nero, mercé le cure del governo russo, si è molto estesa, e poiché per la fertilità delle terre e scarsezza di pesi è poco spesosa, perché la navigazione di quei mari si è resa molto più facile che prima non era, e finalmente perché libera è sempre l'estrazione, ne risulta che da quei paesi vengono nel Mediterraneo forti quantità di grani a tenui prezzi. Queste circostanze han portato certamente un grave danno alla nostr’agricoltura ed al nostro commercio dei cereali, ma non giungeranno pur altro a distruggerli quando il male vorrà prevenirsi. Se le cause che abbiamo accennate han diminuite le richieste dei nostri cereali, e ci han tolta quella specie di esclusiva che un dì avevamo, non per questo vietano di esportare le nostre granaglie quando la speculazione lo richiede. Se i grani del Mar Nero hanno il vantaggio del mite prezzo, i nostri hanno quello della vicinanza con le piazze di consumo, e forse anche della qualità. Un forte bisogno di qualche Stato, un vuoto di raccolto nel
Levante, e finalmente degli avvenimenti politici che inceppino il commercio di quei mari, possono a vicenda contribuire a far domandare i nostri grani dall’estero. Se a questo riflesso si aggiunga l'interessante oggetto della sussistenza, si vedrà chiaramente che il Regno di Napoli non deve cessare di essere agricolo perché i grani del Levante vengono in più abbondanza di prima. La differenza solo consiste in quanto un tempo, oltre lo smercio nell'interno, potevamo contare quasi in ogni anno sulle richieste dell'estero, mentre oggi queste saranno più rare. Da ciò risulta che, come prima bastava occuparsi dell'abbondanza per ottenere lo smercio, oggi conviene avere in mira anche il modo di sostenere i generi, quando non sono domandati, per esitarsi negli anni di ricerche. Ciò posto, passiamo ad osservare quali sieno i mezzi per ottenere questo doppio fine. Non è questione che per avere l’abbondanza dei cereali, faccia d’uopo che molto si coltivi e bene. È inconcusso parimente che per ottenere questo doppio intento si vuol che l’industria dei campi sia lucrosa. Il guadagno invita l’uomo alla fatica ed al rischio; la perdita lo disgusta e lo allontana. E dunque dell’interesse di un governo che gli agricoltori abbiano un profitto; ma lo è molto più del nostro per le seguenti
III Proposte di cambiamento e tentativi di trasformazione
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ragioni. Quattro quinti degli abitanti di questo paese sono agricoltori, o classe inserviente ai lavori multiplici di oggetti rurali. La maggior parte dei proprietari del Regno ritraggono la loro rendita dall’agricoltura. Quindi risulta che dove questa è prospera, le braccia sono occupate, gl’industriosi agiati, i proprietari ricchi, e le contribuzioni dello Stato sono pagate con esattezza: all'opposto, avvilita l’agricoltura, avremmo gl’industriosi falliti, i proprietari attrassati, i tributi non pagati, e finalmente un’immensa quantità di gente disoccupata che mal adatta ad altri mestieri aumenterebbe a dismisura il numero degli oziosi e degli accattoni, la gran parte dei quali finiscono per fare i ladri. Non minore è il danno che ne riceverebbe la sussistenza pubblica, perché ristretta la colonìa, manca il genere, ed una volta che i grani esteri non potessero venire, si soffrirebbe una eccessiva fame. E perciò che fra gli economisti è convenuto che il basso prezzo dei grani ammiserisce un paese agricolo, e produce col tempo la carestia. Quindi si desidera che il grano sia sempre ad un prezzo equidistante dai due eccessi. Or per ottenere al più possibile questo intento non vi è migliore espediente che la legge graduale d’immissione ed estrazione. L’esperienza che ne han fatta la Francia, l'Inghilterra, ed altre nazioni di Europa, ha resi certi i suoi risultati. Essa proibisce l’immissione dei cereali, e rende franca ed illimitata l’estrazione, quando i prezzi di queste derrate nell’interno sono ad un punto appena sufficiente per le spese dell’agricoltura; e con ciò mette un argine ad un maggior ribasso, perché il consumo rimane tutto a carico dell’interno, e perché i commercianti vedendo facile l’estrazione e vietata l’immissione, s’invogliano a comprare. La stessa legge permette l'immissione dei grani con un dazio maggiore o minore, a misura che il prezzo si eleva dal punto fissato per termine della proibizione, e finalmente toglie ogni dazio, quando, non ostante le facilitazioni anteriori, i prezzi dei cereali sorpassano un dato punto che si crede il massimo del giusto prezzo. Volendosi adottare questa legge pel nostro Regno, secondo le domande del Consiglio Provinciale di Capitanata, abbiamo che i due prezzi che dovrebbero servire di norma, sono carlini 25 e 30
nei caricatori di Manfredonia e Barletta. E questi corrispondono ai prezzi 22 e 27 nell’interno di quelle provincie, mentre il resto si spende in trasporti, magazzinaggi, provvisioni, ed altre spese. Noi avremmo in conseguenza la seguente graduazione.
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Parte prima. L'agricoltura
Fino carlini 25: Immissione proibita. Estrazione libera e franca. 25 carlini — 27 !/» : Immissione col dazio massimo. Estrazione come sopra.
27 1/2 carlini — 30: Immissione col dazio minore. Estrazione col dazio minimo. 30 carlini — 35: Immissione senza dazio. Estrazione col dazio maggiore. 35 in sopra: Immissione come sopra. Estrazione proibita.
La Cassa soccorsale è la seconda cosa che si domanda per il bene dell’agricoltura. La minorazione degl’introiti, e l’accrescimento degli esiti han cagionata l’attuale rovina dei coloni. Le imposizioni replicate che questi hanno sofferte, unite ad altre circostanze, hanno prodotto l’eccessivo avvilimento dei grani: questo gli ha maggiormente estenuati ed inabilitati a fare le spese necessarie per coltivare: in conseguenza sono obbligati a ricorrere alle usure, e quindi ciò che dovrebbe costare venti, sorpassa
trenta. Da ciò si vede che per impedire la rovina dell’agricoltura è sommamente necessaria la Cassa soccorsale. Ma questo non è
tutto. Vi sono altri vantaggi che questo stabilimento recherebbe. Abbiamo detto che le circostanze attuali vogliono che non solo si provegga all’abbondanza, ma anche al modo come conservare le granaglie nel tempo che non fossero richieste. L’esperienza ha dimostrato che il grano si conserva benissimo per tre e quattro anni, quando dopo uscito dall’aia si ripone nelle fosse perfettamente asciutte. Al contrario, quando questo genere passa da luogo in luogo, e specialmente quando ha navigato, non può lungamente mantenersi. Non è sperabile che i negozianti si decidano a lasciare i grani nelle fosse delli stessi coloni, perché questo li obbligherebbe a dei fidi illimitati, e quando anche qualcheduno lo facesse, la cosa non produrrebbe il suo effetto, perché il conservatore, non avendo l'interesse che ha il proprietario del genere, poco si curerebbe di visitarlo ed averci la necessaria cura. D’altronde il numero dei
negozianti non essendo molto esteso, e non esercitando che pochi il commercio dei grani, si vede chiaro, che per questa via non si può ottenere l’intento. Al contrario quando i coloni ne avessero i mezzi come prima, la cosa andrebbe da sé. Per poco che ne conservi ciascuno, si ha in ogni provincia un deposito tanto forte da poter far fronte alle più forti richieste ed a qualunque annata
III. Proposte di cambiamento e tentativi di trasformazione
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di penuria. Basta volgere un poco l’occhio al passato, e si vedrà che reiterate volte è avvenuto che in gran parte del nostro Regno si è quasi perduto il raccolto. Non ostante ciò il grano non è mancato. Di dove si è supplito se non dal deposito dei vecchi grani? Per lo bene generale del Regno conviene dunque desiderare che i coloni possano conservare i grani quando l'abbondanza delle raccolte e la mancanza di ricerche ne rende una gran parte superflua. Or la Cassa soccorsale agevolerebbe moltissimo questo deposito nella Puglia, mediante il pegno, e maggiormente per il ribasso che porta sull’aggio del prestito. Infinito utile ancora ne avrebbe il governo ed il commercio, per le relazioni che potrebbero stabilirsi tra il Banco delle due Sicilie, e quello che verrebbe a stabilirsi in Foggia. In somma la cosa è così ricca di vantaggi che converrebbe superare ogni ostacolo per metterla in pratica. [...]
4. Il tentativo di diffondere la patata* Essendo ormai divenute le patate un cibo gradito anche nelle tavole squisite presso tutte le colte nazioni del nostro continente, come anche in questa capitale, ed essendosi altresì sperimentate un alimento il più salutare e sostanzioso per le popolazioni al pari dei cereali, conviene che se n’estenda presso di noi la loro coltivazione. Questa poi quanto facile altrettanto è profittevole per essere detta pianta atta ad ogni clima ed ogni terra, e la meno soggetta alle straordinarie vicende delle stagioni, per cui capace a supplire alla carestia dei cereali, come con felice successo si sperimenta presso le altre nazioni. Vuole dunque il Re che tutte le autorità amministrative e municipali concorrano ad incoraggiare e facilitare detta coltivazione coi mezzi che sono nel loro potere, ed i parroci non lascino nelle loro istruzioni mostrarne il vantaggio che ne risulta. I ricchi proprietari ne diano l’esempio, e qualora per lor conto non vo* Circolare del Ministro dell'Interno, Donato Tommasi, agli Intendenti di tutte le province del Regno, manoscritto datato 9 ottobre 1816, in Archivio di Stato di Napoli, Ministero Interni, I inventario, fascio 2208.
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Parte prima. L’agricoltura
gliano intraprendere una tale coltura specialmente in terreni derelitti, li cedano almeno a quest’oggetto con qualche modico profitto a benintenzionati coloni, facendo in tal modo grata cosa all’animo di S.M. sempre intenta al benessere dei suoi popoli. Con ispecialità poi vuole il Re che sia ciò preso in considerazione dalle Società economiche formandosi delle brevi e chiare istruzioni per detta coltivazione delle patate, secondo l'indole del clima e dei terreni delle rispettive provincie, del modo da conservarle, ed in fine della maniera di prepararle e condirle nel farsene uso specialmente dalla classe povera, incaricandosi poi della propagazione di tali istruzioni con l’attuale pratica tutt’i soci stanzionati nei differenti punti della provincia. Vuole inoltre S.M. che delle medaglie, o sia premi che annualmente si distribuiscono ai benemeriti coloni, durante un triennio, se ne destini sempre una a colui che avrà fatto constare coi metodi
regolari di aver coltivata la maggiore quantitàdi terreno a patate coi metodi convenienti. V’incarico infine, Signor Intendente, nel detto regal nome, a darmi periodico conto di tutto ciò che per questo interessante oggetto siasi operato dalle autorità di vostra dipendenza e dai componenti di cotesta Società economica, come altresì dei risultati che siensi in prosieguo ottenuto, per renderne informata la M[aestà] S[ovrana], proponendomi, qualora lo crediate necessario, ogni altro mezzo che le circostanze locali potranno suggerire per estendere la coltivazione predetta.
Parte seconda
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Relativamente alla manifattura della seta, il presidente della Società economica di Principato Ultra, il 29 luglio del 1821, così scriveva all’Intendente: «la manifattura della seta [...] può dirsi che forma la segregata occupazione di molte famiglie senza che possa vantarsi di uno stabilimento propriamente tale, dove la riunione dei travagli potesse concorrere a rimarchevoli risultati. Abbandonata quest’industria alla misera speculazione delle donne fra villici, alla mancanza dei mezzi si aggiunga l’inespertezza dei metodi: da ciò la meschinità dei prodotti. La Società ad incoraggiare sì utile intrapresa distribuì nel 1819 dei premi promessi nei programmi a coloro che avessero allevate nei propri fondi Pat iante dei gelsi. In fatti al presente non v’ha, specialmente nel distretto di Avellino, territorio alcuno dove siffatte piante non si rinvengano. La materia serica intanto vien fatta con poca perfezione perché coloro che vi sono addetti non conoscono che i metodi antiquati; tanto più che gl’indigeni ne hanno lasciata la cura a dei forastieri che vengono fra noi dalleprovincie vicine. Tale abuso mantiene i cultori dei bigatti nella perfetta ignoranza del modo, ed in conseguenza ritarda, se non esclude, ogni migliorazione». Manoscritto in Archivio di Stato di Avellino, Rea/ Società Economica, fascio 6, fasc.lo 173. * Processo Verbale dell’Adunanza particolare della Società Economica di Principato Ultra del 1° dicembre 1815, manoscritto in Archivio di Stato di Napoli, Ministero Interni, II inventario, fascio 2570, fasc.lo 1.
I. Lo stato delle manifatture
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pone, Sig. Crescenzo Capone, Sig. Vincenzo Gambardella, Sig. Marcangiolo Milone, Segretario. Sono intervenuti ben’anche in detta seduta li seguenti manifatturieri di lana avvisati precedentemente: Raffaele d’ Agostino, Domenico Bruna di Ciriaco, Antonio Brancone, Costantino Crosta, Silvestro Evangelista, Ignazio Guarino, Pietro Imbimbo, Virgilio Rosiello, Saverio Iandolo, Domenico Antonio Marinella, Francesco Marinella, Lorenzo Romagnuolo, Modestino Ot-
taviano, Pasquale Spagnuolo, Ciriaco Spagnuolo, Nicola Troisi. Il Segretario perpetuo ha letto ai suddetti artieri la lettera di Sua Eccellenza il Ministro dell’Interno del 25 ottobre p., con cui si manifesta il gradimento dimostrato da S. M. sugli utili travagli fatti dalle Società economiche fin’ora, e nel tempo stesso l’incoraggiamento ad altre produzioni e saggi d’industria. Il Vicepresidente in una allocuzione ha dichiarato ai suddetti individui intervenuti in seduta che la Società era infervorata a coadiuvarli in tutto ciocché da sua parte poteva, non risparmiando fatica e talenti per indicargli i mezzi più opportuni per migliorare la condizione delle manifatture del Paese, d’onde sarebbe risultata la di loro ricchezza e comodità, chiamando ben’anche in aiuto il soccorso del governo quante volte vi fosse necessità. Alla classe dei suddetti artieri si son fatte diverse domande sullo stato delle loro manifatture. Ricapitolando, le più essenziali sono le seguenti. D: In qual’epoca sono state più floride le vostre manifatture: per l’addietro o presentemente? R: Circa quarant’anni dietro il lanificio in questa città era il primo ramo d’industria. Comprendeva un numero di fabbricanti al di sopra di 100, ora è ristretto a 29. Più, nell’indicata epoca le fabbriche dei panni godevano tutto il credito nel Regno per la di loro qualità e bontà, così non è di presente. D: Quali sono stati i motivi della decadenza del lanificio? R: Molti sono i motivi. Dalché generalmente nel Regno di Napoli il lanificio è ben
trattato comparativamente, dimodocché dove prima la città di Avellino era la sola a dare i baldiglioni buoni, ora in diversi comuni si manifatturano, ed in certo modo altre fabbriche di panni si son migliorate. La privativa esercitata dal Principe di Avellino tanto per le macchine idrauliche, che per la sopressa, spanditoio, etc. E da
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Parte seconda. Industrie e manifatture
marcarsi che lo stesso Principe esigeva, come tuttavia esige, carlini ventitré per ogni panno di lana. Quindi succedeva che restava esaurita dallo stesso non solo il lucro del fabbricante, ma mol-
te volte le fatiche del medesimo restavano decimate. Riandando la storia del paese, affligge sentire la narrazione degli abitanti di Avellino, i quali dicono che perenni e terribili sono stati i litigi sostenuti da essi contro del Principe per questo riguardo; anzi aggiungono che questo capo d’industria in tutte le epoche non ha potuto nobilitarsi per l’addotto motivo. Divenuta la città di Avellino capo di provincia si diede luogo ad un’altra cagione, onde minoransi il lanificio. I padroni dei capitali, riflettendo ch’essi potevano adattarli in altri usi, professioni, e mestieri, quasi del tutto li rimossero dal lanificio. In
fatti non avrebbe potuto mai avere un aumento di fabbriche questa città di Avellino, se il denaro non si fosse consacrato in au-
mento di esse ed in esclusione della mentovata arte. Si aggiunge che le persone di merito del paese, le quali prima ne regolavano l'andamento, quindi per essersi nobilitata e civilizzata la città, hanno abborrito di più vedere tale industria. Il popolo stesso in fine ha ritrovato altri mezzi onde lucrar denaro. Il difficile esito dei panni divenuti ora di qualità e bontà inferiore per ragione dei cattivi mezzi impiegati nell’espurgo, nella gualchiera, spanditoio, soppressa, etc., stabilimenti questi del Principe di Avellino, divenuti quasi inutili per l’antichità dei pezzi d’opera e per l’inesperienza delle persone addettevi. [...]
4. Le manifatture nell’Abruzzo aquilano* La provincia dell’ Aquila sotto un clima rigido che ne prolunga l'inverno per due terzi dell’anno, con un suolo sterile ed ingrato, cinta ed intersecata da monti in gran parte privi di vegetazione, non può rivolgere un occhio di compiacenza che alle pianure di Sulmona, a quelle bagnate dall’ Aterno, ai Campi Amiternini, e ad una parte della Contrada Marsicana. Giusta l’ultime rettifiche fatte nei catasti provvisori, ha una superficie di moggia * Da Giuseppe Ceva Grimaldi, Quadro dello stato di amministrazione della Provincia di Aquila, Tipografia Ritelliana, Aquila 1816, pp. 7-8, 33-34.
I. Lo stato delle manifatture
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1.400.405 delle quali 545.308 in terre culte e boscose, e 458.997 in terre inculte e sterili. Non prediletta dalla natura, trova nondimeno dei compensi nella faticosa industria dei suoi abitanti. Trentamila suoi figli recano le loro braccia nella Puglia, nei campi romani, e fino nella Toscana, e riportano nella patria il frutto del travaglio e di una lodevole economia. Una passaggiera emigrazione e la pastorizia, ecco le due principali risorse di questa provincia. Tra i prodotti del suo suolo hanno un luogo distinto il zafferano ed il lino, i di cui lavori sono portati alla perfezione. Il felice ulivo, che la ridente mitologia venerava come il dono d’una Dea, questa pianta benefica, che in quasi tutto il resto del Regno forma una delle sorgenti della ricchezza nazionale, è quasi totalmente negata a questa provincia. In pochi angoli di essa vive e
| rallegra la natura. Il suo prodotto si eleva appena giusta un calcolo coacervato a metri 3.680. Le vigne vi sono più comuni, ma
il rigore del clima impedisce che le uve ottenghino una piena maturità. La raccolta del grano è pochissimo ubertosa. Gli abitanti sono docili, buoni, educati: nelle classi agiate vi è una non vol-
gare cultura. La favella è purgata, e vi regna il tuono della buona società. Una tra le ultime sotto le viste finanziere, fu negletta
nell’occupazione militare, in cui i soli dritti a qualche interessata estimazione erano un largo contingente di coscritti, un considerevole tributo. Ma spezzate le comuni catene, i suoi destini sono già cangiati. Sotto il governo di un Padre, la tenerezza e la cura sono egualmente il partaggio di tutti i componenti la gran famiglia dello Stato. Quantunque nell’estremo confine del Regno, i voti dei buoni e fedeli aquilani non solamente sono stati accolti dal Padre della Patria, ma prevenuti. Il languore in cui va cadendo la pastorizia, dopo le alterazioni fatte al sistema del Tavoliere di Puglia, la straordinaria sterilezza della passata stagione, la mancanza dei lavori nello Stato Romano, il passaggio di due intere armate nello scorso anno in questa provincia, tutte queste cause insieme hanno accresciuta la miseria dei suoi abitanti, ma ne hanno onorata la virtù, per la rassegnazione con la quale hanno sofferto queste sventure. Una più lieta aurora già risplende per essi; la bontà del Re gli richiama ad una esistenza più felice. [...]
Un popolo pastore, privo di commercio, non coltiva che le arti di necessità. La vivezza dell'ingegno abruzzese brilla non ostante dei lampi del genio fino nelle comuni manifatture. In
Scanno, paese che somiglia per la sua posizione ad un villaggio della Svizzera, per la bellezza dell’abbigliamento delle sue donne ad uno dei contorni di Atene, si tessono dei vaghi drappi di lana, che ricamati ad ago servono agli ornamenti femminili. Lo stesso in Pescocostanzo. La fabbrica dei cappelli di Sulmona rivaleggia con quelli della capitale, e gli supera forse nella durata. Le stamperie di Aquila non temono il confronto di quelle di Napoli. Questa gloria è un antico retaggio nazionale. La storia della tipografia si onora della bella edizione delle vite di Plutarco stampata in Aquila a dì 16 settembre 1482, per Maestro Adamde Rotuviel Alemano Stampatore excellente.
Le corde armoniche che si fabbricano in Aquila e Sulmona, sono pregiate anche fuori del Regno. Le confetture di Sulmona formano la delizia dei conviti, e
sono anche bene imitate in Aquila. Il filo di lino dell’ Aquila ha una celebrità non contrastata.
In Morino nella valle di Roveto esiste una ferriera, che ha d’uopo d’un incoraggiamento che io vado ad impetrare da V.E.° Vi sono nella provincia quattro cartiere, non ultime tra quelle del Regno. E questo un benefizio che la provincia deve alle liberali viste del governo di S.M. particolarmente per la cartiera di Vetoio. Fin dall’anno 1800 il proprietario di essa ottenne un impronto del Real Tesoro di ducati 4.600. Questa somma non era mai stata più restituita, e S.M. contenta del miglioramento di questa manifattura si è degnata accettare in vece una casa offerta dal proprietario in permuta. Questo esempio luminoso di sovrana protezione influirà molto ancora su i progressi delle altre manifatture. Non le propongo dei progetti di nuovi stabilimenti di tal natura. Essi non potrebbero prosperare nell’attuale momento. Il primo bisogno della provincia è oggi il saldare le ferite di dieci anni di sventure. La pace ed il commercio prepareranno pure
l'opportunità fortunata d’introdurre il lanificio, delle fabbriche di scelti panni, delle buone fabbriche di vetri, e delle macchine
per facilitare i lavori di filo. [...]
® L’autore rivolge questo scritto al Ministro degli Affari Interni Tommasi.
de AU SEUZO ULLLC S/204ILL) ULLIATO
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5. Le produzioni della Capitanata* Disposizione dei naturali. Gli abitanti di questa provincia essendo in generale addetti all’agricoltura, non escluse le donne, sembrano poco disposti alle manifatture. Ciò però non deriva da mancanza d’ingegno o da pigrizia, che anzi sono perspicaci e laboriosi. In Foggia noi si osserva una decisa inclinazione alle manifatture, e ivi riuscirebbero eminentemente
se fossero ben i-
struiti, regolati, e protetti. Le donne in molti luoghi della provincia sono applicate al lavoro delle paste, a far calze a ferri, a cucire, a filare, ed a tessere, dove per picciolo commercio, dove per uso domestico e familiare. In altri luoghi travagliano cogli uomini nei campi.
Manifatture di lino e canape. Molto ristretta è la coltivazione di tali piante nella parte occidentale della provincia. Nella Puglia e nel Gargano, da pochi anni si semina il lino, da pochissimi il canape. In più luoghi è in disuso e l’una e l’altra specie, ed in entrambe se ne proveggono dalla Terra di Lavoro, che nella piazza mercantile di Foggia ne arriva in abbondanza per le manifatture delle corie delle quali se ne fa un continuo commercio. La qualità del nostro lino in Foggia, Sansevero, Vieste, ed in altri paesi, è ottima, specialmente quando i terreni sono ben preparati. Siccome però non si conosce altro metodo per macerarli che quello dell’acqua per lo più stagnante, così riesce mal macerato e mal granulato. Ciò influisce ancora alla poca coltura che se ne fa. Lo stesso, ad un di presso, si dica del canape.
Una libbra di lino cardato e filato suole importare carlini due, poco più, poco meno, secondo la qualità del filo che si desidera. Una donna può filare circa una libbra di lino in un giorno; ma se si voglia un filo più fino, impiegherà il doppio del tempo. Il canape viene da Foggia ed in alcuni comuni di Terra di Lavoro, macerato e granulato. Se ne fa un consumo significante per fune e per tele ordinarie del ceto basso; e nei luoghi marittimi per reti da pesca, ed anche da caccia. Pettinato si vende in bottega a seconda dell’annata più o meno fertile, non eccedendo le * Stato delle manifatture nella Provincia di Capitanata in risposta alle dimande sulle medesime del Ministero dell'Interno, Burò di Statistica. Sezione quinta, mano-
scritto datato settembre 1819, in Archivio di Stato di Napoli, Ministero Interni, I inventario, fascio 2211.
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Parte seconda. Industrie e manifatture
grana 45 il rotolo in Foggia. La filatura nel modo migliore suole importare altre grana 35, e da una donna possono aversi once 4 di buon filato in un giorno; ne fila dippiù se si vuole più dozzinale. In Alberona ed altri paesi convicini, dove si coltiva il canape, la spesa della filatura è più tenue, pagandosi in fino a grana 5 la libbra. Ma il filato è grossolano e per ciò una donna arriva a filarne sino ad una libbra per giorno. Per la tessitura di una canna di tela larga 3 palmi e mezzo si pagano grana 12 a 15. Se la larghezza sarà maggiore, la spesa ascende a due e sino a carlini 3 in circa per canna. Per imbiancarla si costuma bagnarla più volte al giorno, ed esporla al sole; assoggettandola per tre volte al liscivio, sul principio, nel mezzo, e nel fine della operazione. In qualche paese marittimo si usa lavarla prima coll’acqua di mare. Due libbre di lino o canape si riducono ad una, ed anche meno colla cardatura. Una libbra e due once cardata si riducono ad una libbra di filato, dove più, dove meno, secondo la qualità della materia grezza. Per formarne poi una canna di tela larga 3 palmi e mezzo vi bisognano 3 libbre, sino a due libbre ed once 3 in circa di duro filato in ragione della finezza di esso. Il prezzo della tela di cui si avvale la gente di campagna per
camice lenzuola, costa carlini quattro a 6 la canna, quella di miglior qualità di cui si servono in alcuni luoghi anche le persone di mezzo ceto per l’uso suddetto, è di carlini 7 a 9, secondo la varia qualità ed i diversi paesi. Tali tele in fine non solamente non soverchiano, ma non ba-
stano neppure alla consumazione in questa provincia. Non si deve tacere che in Alberona suole anche formarsi la tela del filo ricavato dalla macerazione della così detta girestra (Spartium Iuncus Linneo), nasce spontanea ed abbondante nelle
vicinanze di quella comune. Il filo di queste piante è più morbido, e per ciò le tele riescono più trattabili. Sventuratamente la macerazione n’è difficile, per cui non torna conto farne industria, e per ciò se ne avvalgono i più miserabili per pura necessità. Dovrebbe trovarsi la maniera di rendere la macerazione
più facile. Manifatture di cotone. In questa provincia non vi è quasi veruna coltura del cotone. Quel poco che si semina nel tenimento di Manfredonia non merita attenzione. In Vieste se ne son fatti
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dei saggi con buona riuscita, ma senza introdursene positivamente la coltivazione. In tempo delle occupazioni militari si era questa piantagione estesa in Sansevero, e del prodotto facevansi calze, tele per gli usi domestici, imbottiture di coverte da letto d’inverno, e il dippiù si vendeva. Il prezzo non giunse a carlini 14 il rotolo. Presentemente è andato tutto in disuso. Viene rimesso in questa provincia da quella di Bari e di Lecce in molta abbondanza. Le sole donne usano filarla per domestico uso facendosene calze, e mischiandolo col lino o canape per farne tele a spico, per coverte bianche ed altro. Si batte per prepararlo alla filatura, e si fila col fuso semplice generalmente; sebbene poche donne in Foggia usano la ruota, e quelle specialmente sortite dall’orfanotrofio di Cerignola, dove tali manifatture sono arrivate alla maggiore perfezione per opera dell’incaricato direttore [...] D. Ercole Canonico Segni. La bat-
titura e preparazione del cotone suol costare in Foggia carlini 2 il rotolo. La filatura poi nel modo il più fino si paga carlini 6, ed anche più; ma in modi inferiori si paga gradatamente sino a carlini 2. Da una donna se ne fila in un giorno non più che 2 once del più fino; e così per le qualità più inferiori potrà filarne il doppio, il triplo. Per tal ragione non se ne occupano perloppiù che per la propria famiglia, o per altra particolare incombenza. Si conosce il meccanismo di tessere colla navetta volante. Non essendovi, a giusto parlare, manifatture in grande di cotone, non si
può rispondere ad altre domande. In Cerignola vi è uno stabilimento d’istruzione per le donzelle, dove vien manifatturato in varie guise, ed è provveduto delle macchine corrispondenti al travaglio. Ma disgraziatamente, per l’angustia del tempo concesso, non si è avuto il riscontro di tutto il sistema che per tali manifatture è osservato in quell’orfanotrofio. La stessa mancanza è accaduta per Lucera ed altri paesi. Manifatture di lana. La. lana è una produzione predominante in Capitanata. Quella dunque che viene manifatturata è sempre
il prodotto del luogo rispettivo. Varia n’è la qualità, e quella che costituisce la prima sorte, ordinariamente si vende a ducati 70 il cantaio, più o meno secondo la voce cui questa derrata va soggetta; ed è molto ricercata in commercio. La lana che qui si fila è destinata per le sole calzette, e per farne camiciuole a maglia.
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Parte seconda. Industrie e manifatture
Per la filatura si usa il semplice fuso delle donne, e qualcheduna in Foggia si avvale della ruota, come si è detto del cotone. Ottime riescono le calze di lana pettinata. Non essendovi manifatture propriamente dette dei lanifici, non si può con precisione rispondere alle altre dimande. Mancano le gualchiere, perché nella Daunia manca l’acqua. Non è però, che in Vico ed in Bovino non potrebbero introdursi per l’abbondanza delle acque. Sarebbero di un vantaggio incalcolabile per le dette popolazioni e per la provincia. In Alberona la lana filata si destina altresì alla formazione di un panno detto /avorato, e del pannetto. Ivi la lana suol costare carlini 2 la libbra. Per cardarsi e filarsi occorrono altre grana 12 a 15, ed una donna può filarne una libbra al giorno all’incirca. Per una canna di panno lavorato largo palmi 2'/2 bisognano 4 libbre di lana. Costa circa carlini 18 la canna. Se ne servono li villani per calzoni, giubboni e cappotti. Per una canna poi del così detto pannetto occorrono 3 libbra di lana. Si paga circa carlini 14 la canna. Se ne servono le donne di campagna per gonne. Sono entrambi insufficienti al bisogno della popolazione. Non vi sono né gualchiere, né tintorie. Per tutto il resto della provincia mancano positivamente le tintorie suddette; ed appena si sanno tingere le calze in nero. In Foggia soltanto vi sarebbe per tutt’i colori, ma è fuori di esercizio poiché mancano le fabbriche, onde si contenta di intingere oggetti di lana e di seta. Manifatture di seta. Non vi sono affatto in questa provincia manifatture di seta, sì perché manca all’intutto questo prodotto, sì perché non vi è istruzione all'uopo. La Società economica sta promuovendo la piantagione dei gelsi per l’introduzione dei filugelli. Nell’orfanotrofio di Cerignola evvi già una maestra che ha già incominciato a tesservi le calze di seta. Manifatture di legni. I legni per costruzione civile li riceve per
lo più questa provincia da fuori: cioè quelli di abete da Venezia, Trieste, e Fiume. Quelli di castagno, noce e ceraso da Terra di
Lavoro. Sul Gargano però questi ultimi legni sono indigeni, come quelli della quercia, dell’elce, del pinastro, del faggio, ed altri. In Bovino e luoghi convicini usano ancora i propri legni di quercia, cerri, carpini, aceri, ed altri che ritraggono da boschi limi-
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trofi. Generalmente non si ha nessuna cautela pel taglio e per farli stagionare. Ma chi è meno trascurato usa di farli tagliare nell'inverno, ed a luna mancante, e li fa stagionare per un anno e più, secondo la grossezza dei pezzi. Non se ne fa estrazione. Le travi di abete si pagano circa carlini 16 a carro; ed ogni carro importa palmi 24 di lunghezza e mezzo palmo di grossezza. Le tavole di Venezia si pagano a ducati 48 a centinaio. Quelle di Fiume a ducati 44. Le tavole di castagno, di noce, si vendono a canna quadrata, e si sono giunte a pagare sino a carlini 24 la canna. Per le travate degli edifizi usano li suddetti legni di Venezia, di Trieste, e di Fiume, ad eccezione di qualche paese che costuma alcuni dei mentovati legni indigeni dei boschi vicini. Per li usci e chiusure si pratica l’abete, e volendosi più forti e resistenti si fanno di castagno. Per gli ordigni casarecci del basso popolo usansi l’abete, il pioppo, ed anche il ceraso e la noce, specialmente in Foggia. Per li mobili decenti poi non solamente il ceraso e la noce, ma in alcuni luoghi l’albicocco ed il pero. In Sansevero incomincia a mettersi in uso la radice nodosa di lentisco: ottimo per la varietà del colore nelle manifatture. Per li carri differenti si costuma l’olmo, il carpino, il cerro, l’elce, e la quercia. Per il bottame il cerro, la quercia, il castagno. Li lavori di legni in Sansevero ed altri luoghi non hanno altro pregio che la fortezza. In Vieste ed in altri paesi sono per lo più ordinari, e di poca durata. In Foggia poi sono giunti alla massima perfezione le mobilie di casa e per lusso, come anche le bussole delle stanze. Vi si lavora pure il mogano che si fa venire da Napoli. Per tale perfezione siamo tenuti al celebre artefice Ritmater, nostro socio ordinario, che qui si è stabilito da circa 20 anni,
essendo tedesco di nazione, al di cui esempio hanno appreso gli altri maestri paesani. Se ne fa commercio anche cogli altri luoghi della provincia. Manifatture di ferri. Il ferro si ha per lo più da Trieste, e si fa poco conto di quello detto di Svezia che si ha da Napoli. In commercio si compera sotto forma di vomerali, di verzellen 16, 12, 8, 60, di tondini, quadrelle, ferro filato, e ferro in lamina. Non
lavorato si vende per lo più da grana 17 a 20 il rotolo, e poco
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meno l’acciaio. Da Foggia poi se ne provveggono molti altri luoghi della provincia. Tutti gli ordigni bisognevoli all’agricoltura e per uso domestico sono travagliati generalmente nei rispettivi paesi, ed in alcuni di essi, in Foggia e Sansevero, con bastante eleganza. Non vi sono propriamente fabbriche di chiodi, che vengono da Trieste. Soltanto si fanno dei grossi chiodi, chiamati centroni da ferrar ruote, la manifattura dei quali suole costare grana 9 il rotolo, come pure quelli per ferri di cavallo, per freni, per briglie, per staffe, che si lavorano con somma finezza ma non se ne fa largo commercio. Vi sono artefici per il rame, per lo stagno, e per l’ottone, specialmente in Foggia, in Sansevero, e tirano il primo da Venezia. Ogni libbra di rame nuovo lavorato si vende carlini 4 all’incirca, e così pure per li lavori di stagno e di ottone. In Foggia specialmente è perfetta la manifattura dell’ottone, tanto nel fondersi, che per le forme, che può gareggiare colle manifatture di Firenze. Si lavora altresì l’oro e l’argento, e vi sono orefici non dispregevoli, per lo più sono negozianti, e non fabbri, ritraendo lavori già fatti da Napoli. L’oro lavorato si suol vendere carlini cinque il trappeso oltre della manifattura, e l'argento a carlini 11 1/2 all’oncia. Manifatture di cuoi e di pelli. Le manifatture di cuoi e di pelle sono stabilite in vari comuni come Foggia, Sansevero, Vieste, ed
altri. Elle fanno qualche commercio coi paesi vicini; ma si ritraggono altresì in molta quantità da Napoli. Li cuoi e le pelli sono del proprio paese. Quelli conciati in Sansevero e Vieste sono di ordinaria condizione. Piuttosto le concerie di Foggia, stabilite da circa 20 anni, travagliano con perfezione, e per tutti gli usi, sì col metodo napolitano che con quello di Lecce.
Manifatture di stoviglie e di vetri. Vi sono in questa provincia molti pentolai nei luoghi diversi. Usano l’argilla nera e la bianca. In Foggia si è conosciuta da pochi anni in qua una terra ottima
per tali lavori, e molto resistente all’azione del fuoco, ma non ancora è adottata.
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Generalmente fanno mattoni, tegole, canaloni ed embrici per covertura dei tetti. Alcune fabbriche poi danno vasi di ogni specie bisognevoli per gli usi umani, tanto per cucina, che per conservare vino, olio, acque, etc., come pure teste da piantar fiori ed altri vasi grandi per far bucato. In Ascoli vi lavorano uomini e donne. In Sansevero vi sono circa cento uomini impiegati. In alcuni luoghi poco si usa la vernice. In Sansevero si fa col verde unito ad una specie di bianchetto e mischiato col piombo macinato. In qualche altro comune si fanno dei piatti, ma assai ordinari. Nella sola città di Foggia da qualche anno in qua si è stabilita una vetriera che lavora con tutta perfezione essendo venuti da Napoli gli artefici, e fa commercio dei suoi vetri col resto della provincia.
Manifatture di altri generi. Meritano di essere menzionate due altre manifatture per il consumo e per il commercio grande cogli altri luoghi della provincia. Quella delle così dette maccheronerie, stabilite in varie comuni, ed in Foggia specialmente, lavorano perfettamente, e quelle dei marmi che da qualche anno in qua si è stabilita in Foggia e fa stupendi travagli, anche su dei lavori statuari, oltre quelli di chiese e domestici. [...] Gli ostacoli per la prosperità delle manifatture sono ad un di presso: 1° la mancanza delle istruzioni per li fanciulli e per le fanciulle; 2° pur la deficienza dei mezzi per acquistarsi le macchine e darsi agli artefici poveri; 3° la poca o niuna coltivazione delle materie le più importanti; 4° la mano d’opera mal pagata; 5° la miseria degli abitanti privi in conseguenza di capitali; 6° il poco commercio interno impedito nel Gargano e nella parte oc-
cidentale della provincia da pessime e ruinose strade; 7° dal gusto generalmente adottato delle cose forastiere. Il vigilante e provvido governo ha lumi bastanti e mezzi sufficienti per togliere o diminuire gli ostacoli suddetti. Soltanto in Cerignola fiorisce un conservatorio per le fanciulle istruite nella manifattura di lino, di canape, di cotone, di lana, e di seta. La
Società ignora li suoi statuti, l'economia, e la direzione. In Sansevero esiste un orfanotrofio con delle macchine, ma sembra che
siano in abbandono per mancanza di mezzi. In Foggia poi sarebbe più che necessario uno stabilimento per l’istruzione dei fanciulli nelle arti, ed un altro delle fanciulle.
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Vi sono due conservatori detti delle orfane e della Maddalena, nei quali non vi è altro lavoro che quello della pasta. Quando erano dirette dal benemerito nostro concittadino D. Michele Canonico de Luca vi introdusse dei telari, e si facevano felpe, dobblettini, fiandre, ed altri fini lavori. Posteriormente tutto si è
lasciato per difetto di capitali; ed i telari sono da dieci anni inoperosi in mezzo a 70 donne, le quali per vivere ricevono miserabilmente grana 5 al giorno dalla beneficenza, ed il resto si supplisce colla elemosina; qual’opera più indispensabile, che quella di ridurre questo luogo istesso ad essere la scuola delle manifatture per le fanciulle del basso ceto? Il degno sacerdote D. Antonio Silvestri ha aperto da dieci anni in qua colle sue ecclesiastiche fatighe e colla pietà dei fedeli, non solamente un ospedale per le donne inferme, ma benanche un conservatorio di orfanelle miserabili di ogni ceto, ed attualmente ne conta 35 raccolte dalle strade, che alimenta, veste ed
alloggia in case appigionate e istruisce nei doveri religiosi e nella fatiga. Il governo dovrebbe proteggere queste opere di pietà ed utili alla provincia accordando ad esse una casa, e fissando al conservatorio i capitali per le manifatture e per le macchine corrispondenti. Mancano gli strumenti per provvedere agli artieri poveri degli ordegni e per soccorrere li vecchi e gl’inabili. Le confraternite in generale della provincia non sono addette che ai soli atti di pietà. In Foggia soltanto ce ne sono quattro, che
sono obbligate al mutuo soccorso in caso d’infermità, inabilità, o vecchiaia. Tra queste ve ne sono due per li muratori e per li falegnami, che costituiscono corporazioni di arti ed hanno il sistema di approvare gl’individui per esercitare il rispettivo mestiere, previo esame e pagamento. I di loro statuti però meritano di es-
sere rettificati e diretti al buon fine. Ma non è da tacersi che dall'epoca dell’occupazione militare queste corporazioni sono prive di effetti.
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6. Per uno sviluppo delle manifatture
nella Calabria cosentina* [...] Gli scrittori di economia civile, come pur troppo vi è noto, soci ornatissimi, distinguono due classi di arti: le necessarie e le miglioratrici. Suddividono poi quest’ultime in arti di comodo
ed in arti di lusso. Le necessarie, che diconsi anche primitive e meccaniche, servono agli usi ordinari ed ai bisogni indispensabili della vita. Esse vengono esercitate più o meno perfettamente presso tutte le nazioni, non escluse quelle che più si avvicinano allo stato di barbarie. La loro esistenza è legata strettamente a quella degli uomini. Sono inseparabili dal vivere socievole e di una necessità assoluta. Le miglioratrici, che sono altrimenti conosciute sotto il nome di secondarie, o rendono la vita più agiata e comoda, o accrescono la massa dei piaceri, e fomentano le distinzioni ed i raffinamenti della società. Questa seconda classe di
arti prende propriamente la denominazione di manifatture. Or di tutte le tre specie di arti sin qui divisate, le sole primitive e quelle di comodo vengono coltivate nella Calabria Citeriore. Non esistono in essa arti voluttuose, ossia di lusso; queste non vi sono state, per quanto io mi sappia, giammai introdotte, e non vi pos-
sono allignare nella nostra attuale posizione. Prescindendo da pochi materiali che sono trasportati da fuori come il ferro, l'acciaio, il rame etc., tutte le nostre arti meccaniche sono alimentate dai prodotti del nostro suolo. Le stesse nostre produzioni territoriali formano la base di quelle arti che rendono la nostra vita più agiata, e soddisfano i nostri bisogni secondari. Lo stato poi delle arti tanto necessarie che miglioratrici di primo grado, le quali trovansi stabilite presso di noi, non è affatto soddisfacente. Sì le une che le altre sono ben lontane da quella perfezione di cui abbisognano ed a cui potrebbero essere elevate. Un cieco meccanismo dirige così la mano degli artefici di prima necessità, che quella degli esercenti arti di comodo. Né l’esperienza del passato, né l'impulso dato dai lumi del secolo all’attività ed alla industria umana, han prodotto alcun utile cambiamento nella loro condizione. Le nostre arti e le nostre manifatture possono in un certo modo dirsi stazionarie; non m’ingannerò forse se dirò che sono * Da Andtea Lombardi, Memoria sulle manifatture della Calabria Citeriore, Cosenza 1817, pp. 3-34.
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retrogradate. Niun miglioramento hanno ottenuto malgrado le sollecitudini dei rispettivi governi e gli sforzi recenti dell’amministrazione civile; anzi alcune tra esse sono notabilmente deteriorate. Un colpo di occhio passaggiero sul loro stato attuale vi convincerà fino all’evidenza della verità di questa proposizione. Stimo intanto convenevol cosa prevenirvi che non è mio intendimento di favellare in questo luogo delle arti primitive. Avendomi proposto di presentarvi alcune mie osservazioni sulle manifatture di questa provincia, di queste esclusivamente mi farò a ragionarvi. Incomincerò dalle manifatture di seta. La seta è uno dei principali prodotti di cui possa pregiarsi la nostra Calabria. Se ne raccoglie una gran quantità nei distretti di Cosenza e di Paola; è scarsa però e di picciolo momento la raccolta che fassene in quello di Castrovillari, scarsissima e da non mettersi a calcolo quella che si ottiene nel distretto di Rossano. Un tempo questa industria era della più grande importanza; in oggi è sensibilmente diminuita sì per le vicende politiche che son corse, che per altre cagioni a voi non ignote. Con tutto ciò la estrazione e la vendita di questo genere che si esegue in natura, fa entrare in ogni anno nella nostra provincia delle somme considerevoli. L’abbondanza di questa derrata presso di noi avrebbe dovuto in ogni tempo determinare i nostri abitanti a mettere a profitto siffatti vantaggi col promuoverne la manufatturazione, ma nulla di ciò si è veduto. Si può francamente asserire che non hanno mai esistito, e non esistono, manifatture di seta nella Citeriore Calabria. Si travagliavano, è vero, un tempo nel comune di Paola delle stoffe di seta che non erano prive di pregio; ma queste sono già decadute, ed appena ora in quel capoluogo vi si lavora del cattivo matrasse e pochissimo amuerre. In qualche altro comune della provincia si lavorano dei rigatini, degli amuerri ordinari, ed altri tessuti di seta e cotone, o di seta e lana; ma oltre che questi travagli sono in picciolissima quantità, non hanno alcun merito, e servono per lo più agli usi di quelle famiglie me-
desime nel seno delle quali particolarmente si travagliano. Potrebbero in certo modo formare una eccezione alla regola i diversi lavori che si eseguono con qualche successo nel monistero di S. Maria Scalaceli di Castrovillari, come i fazzoletti di seta di ogni colore, delle telette di seta e lana bianca, dei rigatini di seta e cotone, e della mezzapelle di seta e bambagia bianca. Dopo la seta, il cotone occupa il secondo luogo nel sistema
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della nostra economia. Ne produce in abbondanza il territorio di Castrovillari, quello di Cassano, e presso che tutta la vasta estensione delle marine di levante compresa nel distretto di Rossano. La coltura della bambagia è la meglio conosciuta, per cui se ne ottiene di buona qualità, principalmente in Castrovillari, in Rossano ed in Cropalati. Dapertutto poi nella provincia si eseguono dei lavori di bambagia, ma quelli che si fanno nei luoghi ove il suolo è più ferace di siffatto genere hanno un pregio maggiore. In Cassano, Castrovillari e Corigliano si tessono delle mediocri tele di cotone, dei servizi di tavola non dispregevoli, dei dobletti, delle felpe, etc. In Rossano però questo ramo d’industria è più inoltrato e presenta dei lavori più soddisfacenti. Sono molto apprezzati i così detti fi4i/li, fustagni, musellini, petti di pollo, etc. che si ottengono dal filato di prizza sorte; né sono privi di merito, benché di qualità inferiore, i tessuti di cotone che si hanno lavorandosi gli altri filati che si dicono mezzani ed infimzi. Di queste manifatture si fa ordinariamente uso per vestimenti di uomini e di donne, per servizi di tavola, per coverture di letti, per cortinaggi di està, per fazzoletti, calze, ed altro. In generale le manifatture di cotone sono quelle che han fatto più progressi in questa provincia, sopratutto nello scorso decennio, in cui la mancanza delle manifatture estere di questa natura, nascente dall’intercettazione del commercio”, facendo smaltire una maggiore quantità dei nostri tessuti di bambagia, è stata una cagione possente a farle migliorare. Seguono le manifatture di lana. La nostra pastorizia non è delle ultime del Regno; essa somministra lana di ogni qualità ed abbondevolmente. Non esistono però presso di noi lanifici o altre fabbriche di questo genere. Si manifatturano soltanto rozzamente le nostre lane, e per gli usi economici della classe infima del popolo. Sono in riputazione i così detti zigrini che si lavorano in Longobucco ed in Bocchigliere; è anche tenuto in pregio l’arbascio che si travaglia in Scigliano, Aprigliano, ed altri casali di Cosenza; sono similmente stimati i diversi lavori di lana tanto semplice, che unita alla seta ed al cotone, che si fanno in Castrovillari, in Lungro, in Altomonte, in Morano, in Cassano, ed in Mormanno, e che vanno sotto il nome di fiannine, di pannetti, di
lanette, di casimiri, di panni mischi, etc.: ma tutte queste indu2 Il riferimento è al «blocco continentale». Cfr. supra, nota a, p. 37.
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Parte seconda. Industrie e manifatture
strie di lana sono ancora nello stato di rozzezza e di mediocrità. Passiamo alle manifatture di lino. La coltura di questa pianta tigliosa è molto limitata in provincia. Il lino manca assolutamente in parecchi luoghi, ed in altri non basta ai bisogni della economia domestica. Si è perciò nella necessità di procacciarselo da lontani paesi. Tanto poi del lino che produce la nostra terra, quanto di quello che viene da Napoli, da Taranto, e da altre parti del Regno, se ne lavorono tele per camice, per biancherie di letto e per altri usi familiari. Si distinguono sopratutto le tele di Rogliano, di Marzi, di Sanfili, di Fuscaldo, di Corigliano, etc. Ge-
neralmente le tele di lino che si travagliano in provincia sono mediocrissime e non formano un oggetto interessante di economia e d’industria. Convien dire lo stesso delle manifatture di canape, di cui vi è gran deficienza nel nostro paese, e la di cui coltivazione è quasi intieramente abbandonata. È questo il luogo da farvi osservare che tanto le manifatture scarsissime di seta e di lino, che le mediocri di cotone e di lana, sono in questa provincia esclusivamente esercitate dalle donne, le quali vi hanno un'attitudine particolare. Veniamo alle manifatture di cuoi. Evvi non indifferente quantità di cuoi e di pelli nella Calabria Citeriore, e pure non vi esistono concerie degne di molta considerazione. All’infuori di quelle stabilite in Cosenza, in Scigliano, in Mormanno ed in Corigliano, le quali danno delle suole, corduane, ed altre pelli conciate di mediocre qualità, tutte le altre concerie della provincia non vagliono la pena di essere rammentate. Esistono finalmente nella Calabria Citeriore diverse fabbri-
che di liquirizia. Quasi l’intiera estensione di essa produce in abbondanza la pianta, dalla di cui radice quella si estrae. Siffatto prodotto spontaneo del nostro suolo rende moltissimo ai proprietari delle terre ove nasce, e forma la ricchezza di coloro che lo mettono a profitto riducendolo a liquirizia. Ecco passate brevemente a rassegna le poche e presso che nascenti manifatture della nostra provincia. Ho creduto dovermi dispensare dal farvi parola delle fabbriche di sapone ch’esistono in Rossano, Cassano, ect., di quelle di cera che si trovano stabilite in Rogliano, Saracena, etc., di quella di corde armoniche di questa città, e di quella di potassa ch’è stata recentemente introdotta in Lungro, dapoiché ho giudicato che non meritavano la vostra attenzione questi scarsi e rozzi prodotti manifatturati, che
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possono piuttosto dirsi saggi e tentativi d’industria che vere manifatture. [...] Prima di sottoporvi le mie vedute sui miglioramenti di cui le attuali manifatture sono suscettibili, e sulle nuove fabbriche che possono presso di noi utilmente introdursi, stimo necessario di premettere alcune brevi riflessioni atte a risolvere la quistione che spesse volte si è agitata tra i nostri economisti, e che potrebbe ora con fondamento rinnovarsi, se il perfezionamento, cioè, delle nostre manifatture, e la introduzione delle nuove, sia o no compatibile cogl’interessi della nostra rurale economia. L’agricoltura, signori, occupa il primo anello nella catena economica; seguon dappresso le arti e le manifatture. Quella somministra le materie prime e le produzioni territoriali; queste le mettono a profitto, dando loro nuove forme, ed adattandole agli
usi della vita ed al maggior comodo degli uomini. L’agricoltura dev'essere senza alcun dubbio promossa in preferenza come quella che costituisce la principale, la vera, e la perenne sorgente delle ricchezze di una nazione. Le arti poi e le manifatture non solo non debbono essere trascurate, ma anche incoraggiate e protette, dapoiché aumentano le fonti della opulenza e della pubblica prosperità. Negli stati agricoli però queste debbono essere subordinate all’agricoltura, la quale deve ottenere il primato nei suoi mezzi e nel suo fine. È tale appunto la situazione del nostro Regno, e conseguentemente della Calabria Citeriore che forma non picciola parte di esso. La nostra provincia sembra esser destinata dalla natura e dalla sua fisica e morale posizione all’agricoltura ed alla pastorizia. Feracità di suolo, vastità di terreno, varietà di clima, pascoli estesissimi, multiplicità di vegetabili, di animali e di minerali, abbondanza di mezzi e di risorse, tutto concorre a renderla eminentemente agricola. Ma questi vantaggi non escludono che le arti e le manifatture non possano e non debbano prosperare nella medesima. Esse vi esistono da lungo tempo, vi si coltivano con qualche successo, e la loro esistenza non disgiunta dalla considerazione che l’agricoltura non ne ha mai risentito discapito, è un chiaro argomento che non è incompatibile presso di noi la coltivazione delle terre e l’industria manifatturiera. Si aggiunge a ciò
che la maggior parte delle nostre manifatture, impiegando l’opera delle donne, non vengono in questo caso ad esser tolte alla terra le utili braccia degli agricoltori, e che quando anche fosse
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indispensabile il concorso degli uomini, non è da temersi che possa venirne male all’agricoltura ed alla pastorizia, giacché non vi è chi non conosca che la popolazione della nostra provincia è talmente numerosa e superiore ai bisogni delle due indicate industrie, che una parte ben grande di essa per mancanza di occupazione è obbligata di emigrare in ogni anno, e girare in cerca di fatica e di sussistenza nella Puglia, in Principato Citra, e finanche in Sicilia e nella campagna di Roma. In fine con questo mezzo, non solo si provvede ai comodi dei nostri concittadini senza che costoro sieno obbligati a procacciarsi dall’estero una considerevole quantità di merci e di oggetti manifatturati con grave danno della domestica economia, ma anche si facilita l’impiego di moltissimi generi che nascono nel nostro paese, e che senza della necessaria manifatturazione in provincia o resterebbero inutili e superflui, o si venderebbero a tenuissimo prezzo agli stranieri. Ci è dunque permesso di migliorare le nostre manifatture e d’introdurne delle nuove senza che ne ridondi detrimento alla coltura dei campi ed alla pastura. Bisogna ora vedere in che possono consistere siffatti miglioramenti, e quali nuove manifatture possiamo introdurre nella nostra provincia. Le attuali manifatture possono migliorarsi in due maniere: 1.
migliorando Îa qualità dei prodotti dell’agricoltura e della pastorizia, o accrescendone la quantità; 2. perfezionando i processi ed i metodi dei diversi lavori, o adottandone dei nuovi che siensi sperimentati più conducenti allo scopo e di una utilità da non mettersi in dubbio. La buona qualità dei generi che servono di base alle manifatture, influisce assaissimo sull’ottima riuscita di queste. Quindi il primo passo che deve darsi è, a parer mio, quello di procurare una miglior coltivazione delle piante che forniscono le materie prime, ed una più abbondevole raccolta di quest'ultime. Se continuerà il sistema di lavorarsi le nostre produzioni nel modo finora praticato, non si otterranno mai delle buone manifatture. I metodi conosciuti generalmente utili ed opportuni, ed i processi che facilitano e perfezionano i travagli, debbono essere assolutamente introdotti e posti in opera. È ancora indispensabile il soccorso degl’istrumenti che aumentano le forze ed abbreviano il tempo necessario al lavoro. Mettendo in pratica questi principi di sana economia non ci sarà difficile di conseguire il miglioramento delle nostre fabbriche. Così miglioreremo quelle di seta, se promuoveremo la quasi abbandonata
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coltura dei gelsi ed adopreremo i migliori metodi circa il nutrimento dei bachi ed il deperimento delle crisalidi, e circa la trattura, l’imbiancamento, ed ogni altra preparazione della seta. Allo stesso modo otterremo la migliorazione delle manifatture di cotone, se useremo maggior precauzione nella piantagione e cultura di questa pianta, che per altro è la meglio coltivata in provincia, come di sopra fu osservato, e se metteremo in uso i migliori processi relativamente alla battitura, alla filatura, all’imbiancamento, ed alla tessitura della bambagia. Il miglioramento della pastorizia porterà seco quello delle lane. La introduzione dei buoni metodi di filatura, di sodatura, e tessitura dei panni renderà migliore questa industria. Converrà ancora aumentare il numero ben ristretto delle gualchiere, e renderne più vantaggiosa la condizione. Bisognerà poi fare qualche passo di più per migliorare le manifatture di lino e di canape. Si è già veduto che il nostro paese non produce che poca e scarsa quantità di tali produzioni. E perciò necessario estenderne e generalizzarne la coltivazione nella nostra provincia. Sarà ancora utile profittare dei più accreditati processi di macerazione, di cardatura, di filatura, d’imbiancatura, e di tessitura per avere delle ottime e pregevoli tele. Non avendo noi in provincia che poche rozze e mal dirette tintorie, sarà della maggior importanza introdurne delle nuove che possano dare un eccellente colorito ad ogni qualità di filo e di tessuto. Non saprei quali miglioramenti potrebbero portarsi alle fabbriche di liquirizia. Debbo supporre che i facultosi ed accorti proprietari dei conci nulla abbiano trascurato per trarre il maggior profitto da somiglianti stabilimenti. E d’altronde conosciuto che le nostre liquirizie hanno uno spaccio incredibile nell’estero, ciò che prova il grado eminente di perfezione cui sono giunte queste fabbriche che vengono riputate le migliori di quante n’esistano nel Regno e fuori. Desidererei che le nostre concerie di pelli non si limitassero a delle conce ordinarie e dozzinali, e che
si migliorassero tali fabbriche col far venire delle persone intelligenti e pratiche del mestiere da Castellammare, da Solofra, e da altri luoghi ove questa spezie d’industria trovasi in buonissimo stato. Bramerei ancora che si migliorassero le fabbriche di cera, dopo di essersi introdotti i migliori metodi relativi alla coltura ed al governo delle api. In fine mi sarebbe grato di veder ripristinata in questa città la fabbrica di corde armoniche che trovasi da qualche tempo abbandonata, e che rendeva molto al proprietario di
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essa, come rende l’altra che con vantaggio vi si è da non molto stabilita. Dovrei indicarvi i migliori processi ed istrumenti che sono atti a produrre tutte le menzionate migliorazioni, ma incalzandomi il tempo, e temendo di annoiare soggetti così ragguardevoli, cui queste cose sono ovvie e manifestamente note, me ne astengo tanto più volentieri, quanto che conosco che i dettagli di questa natura portandomi tropp’oltre mi farebbero discostare dalla linea che mi son proposto di percorrere. Debbo solo farvi osservare che non intendo parlare in questo luogo di processi e metodi malagevoli a comprendersi e più difficili ancora a mettersi in esecuzione; molto meno di macchine complicate e d'’istrumenti la cui riuscita sia incerta e dubbiosa. Sarei ben ingiusto se pretendessi che per migliorare le nostre manifatture si dovessero far venire da Regni stranieri macchine perfette e di molto costo, o istrumenti di somma rarità e di finissima tempra. Lungi dal pretender ciò, sono anzi di avviso che non debbano essere adoprati nel perfezionamento della nostra industria manifatturiera che dei metodi facili, chiari, ed a portata di ogni classe di persone, delle macchine semplicissime, e degl’istrumenti di agevole acquisto ed a prezzi discretissimi. La descrizione poi dei processi ed istrumenti più utili e confacenti, e le istruzioni necessartie per metterli in pratica con profitto, dovrebbero essere redatte in istile chiaro, semplice e conciso da questa Società, e quindi diffuse nella provincia per mezzo dei nostri soci non residenti, e mediante la valevolissima cooperazione degli amministratori civili e degli altri funzionari pubblici. [...] Trattandosi d’introduzione di nuove manifatture convien essere estremamente cauto. In una provincia agricola principalmente non è prudente, è anzi temerità, introdurre fabbriche che ri-
chiedano l’impiego di molti capitali e la occupazione di numerose braccia di uomini. Nell’atto che si farebbero delle speculazioni di difficilissima e dubbiosissima riuscita, si verrebbe ancora ad attentare ai sacri dritti della regina delle arti produttrici. Fa di mestieri perciò introdurre quelle sole manifatture che, allontanando il minor numero possibile d’individui dalla zappa e dall’aratro, impieghino un numero maggiore di donne, di vecchi, e di ragazzi. Si dee similmente aver l’avvertenza di procurare lo stabilimento di quelle fabbriche che ridondano in vantaggio delle classe la meno agiata delle popolazioni, e che sono di una utilità reale e
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permanente. Infine deve seguirsi scrupolosamente la massima economica che bisogna introdurre in un paese qualunque quelle manifatture, le quali consumando una maggior quantità di produzioni del suo territorio vengano da queste esclusivamente alimentate. Fedele a questi principi, io vengo a progettarvi, signori, la introduzione di sette nuove fabbriche che riuniscono tutti questi requisiti, e che non sono circondate da quegli ostacoli ed inconvenienti che sogliono spesso inutilizzare le migliori intraprese ed i più arditi tentativi. Desse si riducono alle seguenti: 1. di drappi di seta, 2. di panni, 3. di cappelli, 4. di saponi, 5. di vetri, 6. di carte, e 7. di maioliche. Nella nostra posizione credo non solo inutile ma anche malagevole lo stabilimento di altre manifatture. Sarebbe importante quella delle ferriere; ma non oso proporla nel momento. Vi vorrebbe il concorso immediato e diretto del governo, giacché non è sperabile che dei particolari possano fare simile speculazione, e vi bisognerebbero molti capitali, particolarmente per la riapertura delle nostre abbondanti miniere. Le circostanze attuali dell’erario pubblico non permettono questi esiti. Convien attendere tempo migliore. Limitiamoci ora alle fabbriche che non offrono tante difficoltà. In un paese che produce una gran quantità di seta, e dove vi esistono già rozze manifatture di questa derrata, non riuscirà difficile la introduzione di fabbriche in grande di stoffe di seta. Se ve ne sono in Reggio ed in Catanzaro, perché non potrebbero esservene presso di noi? La Calabria Citeriore non presenta forse
gli stessi vantaggi e le risorse medesime delle ulteriori Calabrie?” Vi è forse ignoto che una porzione delle nostre sete grezze passa annualmente in dette provincie per essere manifatturata, ciò che prova che noi ne raccogliamo in quantità maggiore? I proprietari non conoscono i loro veri interessi; sarebbe questo il miglior mezzo da impiegare utilmente i loro capitali. Per ora non dovrebbero stabilirsi che due sole fabbriche di drappi di seta a somiglianza di quelle di Catanzaro, una, cioè, in Cosenza, ove si conosce meglio il lavoro di questo prodotto ed ove si travaglia egregiamente la
seta all’organzina, ed un altra in Paola, dove si lavoravano un b La Calabria era divisa in Calabria Citeriore, con Cosenza come capoluogo, ed inoltre dal 1816, in Calabria Ulteriore I e Calabria Ulteriore II aventi come capoluogo rispettivamente Reggio Calabria e Catanzaro.
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tempo buonissime stoffe di seta, ed ove nulla manca per ottenersi il ripristinamento di tale manifattura. Le fabbriche di panni potrebbero stabilirsi in Longobucco, in Scigliano, in Mormanno, ed in Morano; nel primo comune quella dei così detti zigrizi, nel secondo quella degli arbasci, e negli ultimi quella dei casizziri e di altri panni. L’attitudine che hanno le indicate popolazioni a questi rami d’industria contribuirebbe moltissimo a farli fiorire. I panni zigrini principalmente e gli arbasci troverebbero grande smaltimento presso la classe infima del popolo calabrese, e potrebbero anche vendersi fuori provincia. Se i nostri arbasci, rozzi come sono, si smaltiscono anche adesso nella fiera di Salerno ed in altri punti del Regno, e sono molto ricercati, quale spaccio non se ne farebbe qualora venissero migliorati e perfezionati? Sarebbe anche confacente stabilire una fabbrica di casimiri in Mormanno, ove attualmente se ne
lavorano dei buoni da qualche donna, e per solo uso domestico. E noto a tutti che un saggio di questi casimiri ottenne il premio in una delle solenni esposizioni dei prodotti dell'industria nazionale dello scorso decennio. Infine nel ricco e popolato comune di Morano potrebbe introdursi una manifattura in grande di quei panni che colà attualmente si fabbricano, riducendoli alla dovuta perfezione. Non vi è luogo che offra tanti comodi per la migliore riuscita di questa industria. È vergognoso che non siavi in provincia una fabbrica di cappelli che meriti l'altrui attenzione. Vi è tal abbondanza di lane nei nostri luoghi che non solo una, ma molte manifatture di cappelli si potrebbero introdurre. Sarebbe espediente però stabilire in preferenza delle fabbriche di cappelli ordinari, di quelli particolarmente che diconsi cervoni, i quali hanno grandissimo smercio presso la generalità dei nostri abitanti. L’utile che ritrarrebbero i fabbricanti da questa industria sarebbe considerevolissimo. Si manifatturano nella nostra Calabria saponi di diverse qualità e di molto pregio; ma ciò è l’opera dell’industria particolare di poche famiglie. Non vi sono fabbriche estese di ogni sorta di saponi, e sarebbe non poco proficua la introduzione di esse. Gli oggetti ch’entrano nella formazione dei saponi sitrovano per la maggior parte nel nostro paese e quelli che mancano si possono facilmente acquistare dai luoghi vicini. Già si è stabilita in Lungro una fabbrica di potassa; questa potrebbe estendersi per la provincia. Potrebbe similmente introdursi la coltivazione della soda, la
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quale vegeta benissimo nel nostro suolo, come costa per esperienza. Di oli poi ne abbiamo sufficientemente. Ognun di voi conosce meglio di me che questi sono i principali ingredienti dei saponi. E generalmente riconosciuta in questa provincia la necessità
delle fabbriche di vetri. Come per tanti altri articoli così anche per questo siamo ancora tributari agli stranieri. I materiali ch’entrano nella composizione dei vetri, e che sono le ceneri di soda,
l'argilla, il manganese, la silice, ed il combustibile, o abbondano presso di noi, o possono con molta facilità procacciarsi da altri luoghi. L’arte vetraria non essendo molto avanzata nel nostro Regno, per ora non dovrebbe introdursi in Calabria Citra che una sola fabbrica di vetri per comodo della generalità, ed in un sito il più proprio ed opportuno, particolarmente ove vi sia abbondanza di materie combustibili, giacché non deve ascriversi che a questa mancanza il decadimento della fabbrica di vetri ch’erasi fissata in questa città verso i principi del secolo passato. E inutile poi che io mi diffonda nel farvi rimarcare la necessità di una o più cartiere. E incredibile il consumo di carta che fassi in provincia, sopratutto dopo lo stabilimento di tante amministrazioni, segreterie, officine, etc. Quindi l’utilità che trae seco questa specie d’industria non dovrebbe sfuggire le vedute di qualche sagace speculatore. Finalmente le nostre fabbriche di stoviglie somministrando del vasellame rozzissimo, sarebbe oltremodo necessaria la introduzione delle manifatture di maioliche per uso di ogni classe di cittadini. Si potrebbero principalmente stabilire nel distretto di Rossano, ove l’arte figula è poco e mal conosciuta, e dove si vende a caro prezzo la cretaglia che si fa venire da Napoli, da Sicilia, da Vietri, etc. non senza molte difficoltà di trasporto e di dispendio. Nella Calabria Citeriore essendovi argille, combustibili, ed altri materiali in gran dovizia, non riuscirebbe gravoso il primo stabilimento di dette fabbriche, dalle quali poi ritrarrebbero gran guadagno i fabbricanti ed i proprietari di esse. La introduzione di tutte le menzionate fabbriche deve farsi a spese dei particolari. Dev’essere l’oggetto di speculazione dei no-
stri capitalisti ed intraprenditori. Il governo non deve entrare a parte di siffatte intraprese, o tutto al più in qualche circostanza deve limitarsi alla sola anticipazione dei fondi. La libertà è l’anima dell’industria manifatturiera come lo è del commercio. Per far poi prosperare le manifatture esistenti, o che possono
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in seguito introdursi, non sono sufficienti i tentativi e gli sforzi dei privati; sono necessari altri mezzi e più conducenti e più valevoli. Prima di tutto sono indispensabili gl’incoraggiamenti del governo e dell’amministrazione pubblica. Le manifatture non faranno mai dei progressi considerevoli se non saranno accarezzate, protette, ed incoraggiate dalla munificenza sovrana e dagli
agenti amministrativi. Deve accordarsi una protezione decisa agl’inventori ed ai perfezionatori delle arti utili al genere umano, ed a quegli artigiani e manifattori che più si distinguono nell’esercizio delle rispettive professioni. Somigliante protezione deve consistere nella eliminazione degli ostacoli che si oppongono agli avanzamenti delle arti e delle manifatture, nelle distinzioni ono-
revoli, nelle gratificazioni pecuniarie, nelle pensioni, nelle privative a tempo limitato allorché trattasi di nuove scoverte o di miglioramenti rimarchevoli, ed in tutto ciò che può contribuire alla più facile introduzione dei vantaggiosi stabilimenti, ed al maggior smaltimento dei prodotti manifatturati. Per ottenersi in parte questo fine non sarebbe fuor di proposito che si stabilisse nella Calabria Citeriore una solenne esposizione annuale delle più interessanti produzioni manifatturate nel di lei seno, e che servisse meno alla ostentazione che all’effettiva utilità". Potrebbe destinarsi all’uopo la fiera che si celebra nel mese di maggio in Corigliano, luogo che riunisce molte convenienze e moltissimi vantaggi. L’immensa folla di gente che quivi concorre dalle provincie limitrofe faciliterebbe incredibilmente lo smercio delle patrie manifatture, sveglierebbe il genio e l'emulazione dei nostri fabbricanti, ed influirebbe in una maniera decisiva sul perfezionamento di ogni specie d’industria presso di noi. Dovrebbe il governo fissare il modo come premiare e compensare coloro che avessero acquistato su questo particolare dei titoli altissimi alla benemerenza pubblica ed alla riconoscenza dei loro concittadini. Il giorno in cui si accorderebbero questi premi e compensi, dovrebb’essere consacrato alla gloria ed alla prosperità dei calabresi. Ma tutti questi mezzi, per quanto sieno efficacissimi, non produrranno grandi risultati se non si cercherà di diffondere i ° Accanto alle esposizioni «dell'industria nazionale» che, istituite da Murat nel 1809, si tennero prima annualmente e poi ogni due anni nella capitale, a partire dal marzo 1841 fu stabilito che le Società economiche avrebbero potuto organizzare delle esposizioni provinciali biennali nei rispettivi capoluoghi di provincia.
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lumi e le conoscenze tra la classe di coloro ch’esercitano arti e mestieri. Su tal proposito credo farvi cosa grata richiamando alla vostra memoria un passo di un opera interessante di legislazione. «Importa alla prosperità delle arti, dice il profondo pubblicista Schmid, che il governo invigili a questa classe di produttori. Non è convenevole comunicare all’artigiano dei lumi troppo estesi che lo disgusterebbero dalle sue occupazioni meccaniche, ma non si deve abbandonare ad una pratica cieca della sua professione. Avendo più lumi aggiungerà alle sue opere un grado di perfezione incognito al manifattore ignorante; supererà più facilmente le difficoltà imbarazzanti dell’arte sua, e potrà anche innalzarsi al grado d’inventore.» Per la istruzione degli artisti e dei fabbricanti non basta il catechismo di arti, la di cui pubblicazione si è promessa dal governo, e che deve far parte dell’insegnamento primario. Fa d’uopo che si. erigano delle scuole da destinarsi espressamente all’apprendimento di tali facoltà sotto il duplice aspetto della teoria e della pratica. Siffatte scuole, a mio avviso, potrebbero stabilirsi in ogni capoluogo di distretto. Dovrebbero esservi ammessi solamente i proietti che hanno oltrepassato il sesto anno della loro età, gli accattoni, i vagabondi, ed i storpi.
Nell’atto che si utilizzerebbero tante braccia e si accrescerebbe la sorgente delle nostre ricchezze, si verrebbe a distruggere la mendicità e ad allontanare dalla carriera del delitto tant’individui che lasciati in loro balia sarebbero inevitabilmente nocivi alla società. I locali dei monasteri soppressi non addetti ad altri usi pubblici dovrebbero servire per questi stabilimenti, i quali ben diretti e governati potrebbero prendere il nome di orfanotrofi o di reclusori, e al di cui mantenimento si dovrebbero assegnare dei fondi provinciali o comunali, ed in mancanza anche quelli del tesoro reale. Gli orfanotrofi, o reclusori di Cosenza e di Paola
dovrebbero occuparsi principalmente delle manifatture di seta; quello di Rossano esclusivamente delle fabbriche di cotone; e quello di Castrovillari delle manifatture di cotone e di lana. Il governo, cui è a cuore il benessere dei popoli, dovrebbe promuovere con tutt’i suoi mezzi questi stabilimenti di pubblica industria e beneficienza, e per animarli ed attivarli dovrebbe spedirvi delle colonie di abilissimi artisti e manifattori dei reclusori dei poveri di Napoli e delle reali fabbriche di $S. Leucio. [...]
II IL DIBATTITO
SULLE MANIFATTURE
1. La critica alla fisiocrazia* [...] Giunta poi una nazione ad essere agricola in modo d’avere tutte le derrate grezze necessarie alla sua sussistenza, che è il terzo grado dell’industria, vede il bisogno delle manifatture, non solo per sostenere l’agricoltura, ma per soddisfare ai comodi della vita. Se questa nazione non ha in sé tutte le arti e manifatture occorrenti a sostenere l’agricoltura e gli oggetti di prima necessità per i coloni, è allora dipendente da altre con sommo suo discapito in quello che forma la base della nazionale ricchezza, ed il bisogno della massa popolare. Felice può dirsi quella nazione che ha tutte le arti e manifatture occorrenti all’agricoltura ed ai coloni, purché non si dia in un lusso eccedente di altre manifatture che in sé non trova. Lo sviluppo delle cognizioni di una nazione può intanto progredire in modo da promuovere le arti e manifatture, non solo per soddisfare l'agricoltura e lo stato dei contadini, ma altresì per soddisfare il comodo ed il gusto dei proprietari animati dal lusso. Questo progresso non può aver luogo senza replicati saggi ed esperienze, e senza che nel modo stesso progrediscano le scienze animatrici delle arti. Come possonsi mettere a profitto le miniere di ferro per la costruzione degli * Da Luca de Samuele Cagnazzi, Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia ne’ passati tempi e nel presente, Parte prima, Che contiene lo stato de’ tempi passati,
A. Trani, Napoli 1820, pp. 53-61. 1 Tale è lo stato della nostra nazione, come diffusamente mostrerò. Noi non
abbiamo ferriere opportune a darci il vomero e gli altri arredi rustici. Noi non abbiamo drappi sufficienti per vestire i contadini, e ci manca finanche una fabbrica di aghi.
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ordigni rustici senza le cognizioni della chimica e della meccanica, almeno per quanto a tale oggetto s’appartiene? Lo stesso dir devesi di ogni altra arte e manifattura in cui non vi si richieda gusto, mentre per queste convien far fiorire altresì le belle arti, senza delle quali aver non puossi idea di gusto. A parlar poi sinceramente, quasi tutte le scienze concorrer debbono a far fiorire le belle arti nella loro conveniente estensione. Questo sviluppo intellettuale delle nazioni per l’universalità delle scienze non si ottiene che con [gll]i straordinari sforzi dei popoli per lungo periodo di anni guidati da un governo il più saggio, che vuole il vero bene nazionale. Queste felici circostanze, per le quali le arti e le manifatture giunger possono presso una nazione al perfezionamento, non sono facili, onde è che ben poche sono pervenute a tale stato?. Esponendosi nel gran commercio da tutte le nazioni il superfluo delle rispettive produzioni, vediamo da ciò essere assai più quelle che offrono prodotti naturali, che quelle che offrono manifatture. I prezzi in commercio, livellandosi nella ragione diretta dei compratori e dell’inversa dei venditori, avviene per l’ordinario che le manifatture hanno un prezzo relativamente maggiore di quello dei prodotti rurali: vale a dire che siccome in commercio il prezzo delle manifatture è sempre molto maggiore delle spese impiegate alla loro fabbricazione, quello dei prodotti rurali è po-
co più del livello, ed alle volte anche si fa minore delle spese impiegate alla loro produzione?. Sostengono gli economisti seguaci di Quesnay essere migliore la condizione delle nazioni agricole a fronte di quelle manifattrici, giacché queste ricorrer debbono a quelle per avere i prodotti rurali che sono di prima necessità all’esistenza. Questa massima, di cui grande trionfo si è fatto da nostri pseudo-politici, varrebbe, come ho detto, se le nazioni agricole fossero in ristretto numero come quelle manifattrici, o che la navigazione non fosse così facile, come si è ridotta, per potere anche da un emisfero ? Presso la nostra nazione le scienze sono già nel conveniente stato per poterci dare tutte le manifatture di ogni specie e di fino gusto; non manca altro che incoraggiarle con modi convenienti, come vedremo, affinché la nazione trar ne possa il più grande profitto: e perché non si e fatto? Perché si sarebbe così diminuito il cespite doganale. ? Il prezzo corrente del frumento nelle piazze commerciali del Mediterraneo è stato nei due scorsi anni al disotto delle spese tra noi occorrenti a produrlo, stante la quantità che n’è venuta dal Mar Nero.
II Il dibattito sulle manifatture
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all’altro ottenere una nazione tali generi di sussistenza, come l’esperienza ci ha mostrato. Tali casi però sono straordinari, e debbono fare eccezione. Quello che dissestar potrebbe questo traffico sarebbe qualche ostilità, ma questi mali non sono i soli nelle guerre tra nazioni! Mettiamo però che nel gran commercio il prezzo corrente dei prodotti grezzi sia superiore, come quello delle manifatture, del prezzo naturale: vale a dire che ambi i prezzi in commercio serbino una proporzionale superiorità sulle spese della rispettiva produzione; di più supponiamo che quella che dicesi bilancia
commerciale di una nazione agricola, sia al pari con altra manifattrice. In questo equabile commercio la nazione agricola deve soddisfare a quella manifattrice il prezzo di ciascuna manifattura in ragione della mercede delle giornate di travaglio impiegate dai manifattori nel produrla con aver dato il compenso in derrate grezze, calcolando il prezzo nella ragione della mercede delle giornate di travaglio impiegato da contadini per la loro produzione; or chi non sa che la mercede dei manifattori, specialmente di oggetti di lusso, ed abitanti in città commercianti, è il doppio o triplo, ed anche più di quella dei contadini dei paesi agricoli? Avviene dunque che la nazione agricola in tale commercio, apparentemente equo, dar deve il travaglio di due o tre giorni dei suoi individui per riscuotere da quella manifattrice in compenso il travaglio di un giorno. Questo dannoso commercio fassi assai peggiore ed all’intutto rovinoso per una nazione agricola se sia invasata dallo spirito di moda. Presso una nazione in cui le manifatture abbondano più del reale bisogno è un accorto ritrovato aggiungere alla consumazione reale quella immaginaria, ossia di opinione, affinché la classe dei manifattori numerosa più del reale bisogno non resti inoperosa. Ma per una nazione al contrario che manca di manifatture, e di più comprar le deve dalle altre a caro prezzo, è certamente una pazzia farci regnare lo spirito di moda. Convien a questa la moderazione nelle manifatture, e specialmente nelle vestimenta. Queste esser dovrebbero per ogni classe di materie fabbricate dalla stessa nazione, e con foggie più costanti, e non variabili da un mese all’altro. Tale servile imitazione per una nazione agricola non può che affievolire il suo carattere, e renderla cieca sulla propria rovina. Fa vergogna poi nel nostro secolo
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l’avvilirsi la stampa alla periodica pubblicazione di un giornale di mode. Non vorrei però che si reputasse manifattrice una nazione in cui il lusso eccessivo ne abbia incoraggiato un solo ramo a danno degli altri*. Non altrimenti è il vedere che si paghi maggior soldo ad un ballerino, ad una cantante, etc., che ad un magistrato, ad un generale, ad un dotto, e ciò non mostra che si prezzi il merito presso una nazione, ma che prevalga il lusso e la mollezza sulla reale utilità. Abbiamo veduto di non poterci essere il totale benessere in una nazione se non ha lo sviluppo intellettuale, e con ciò la sua industria al livello delle altre, ma ella deve altresì occuparsi a bilanciare la sua industria coi suoi bisogni. Sarebbe per altro una pazzia di poter in se stessa ritrovare tutti gli oggetti necessari al suo benessere, mentre la natura non concede a tutte le nazioni gli stessi prodotti e la stessa industria produttiva; ma deve però mettersi al caso di far progredire le manifatture nel proprio seno in tutti quei rami che più facilmente riuscir possano, ed aumentarli in modo che l’estrazione sia sempre mista di materie grezze e manifatturate. Non intendo con ciò che obbliata venga l’agricoltura, specialmente se adoprata sia in fertilissimo suolo. [...]
2. L'importanza dello sviluppo manifatturiero e commerciale* [...] Non può darsi commercio senza prodotti, né prodotti senza l’uso. Fra le cose di nostro uso alcune sono prodotte dalla natura senza il concorso dell’uomo, e queste, sebbene di alto va-
lore perché indispensabili per l’esistenza animale, pure esser non possono materia di commercio. Altre sono dall’industria umana prodotte, e non sono meno essenziali alla soddisfazione dei nostri bisogni, come sono la maggior parte delle derrate che servono a nutrirci, a vestirci, a darci ricovero. 4 Presso di noi l’arte di costruire le carrozze è giunta ad un grado quasi di perfezione, e mentre non si sa fare il vomero e la vanga, si eseguono i delicati pezzi di un cocchio. * Da Marino del Giudice, Discorso del Presidente della Società Economica di Abruzzo Citra per la seduta generale del 30 maggio 1820, manoscritto in Archivio di Stato di Napoli, Ministero Interni, I inventario, fascio 2208.
II. Il dibattito sulle manifatture
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L’industria agricola le raccoglie dalle mani della natura dopo di aver promosse, secondate, e completate le sue operazioni.
L’industria manifattrice le separa, le riunisce, e dà loro nuove forme per adattarle ai nostri bisogni, e finalmente l’industria commerciale ci provvede di questi oggetti dei nostri bisogni che si trovano da noi lontani. La natura provvede parcamente le orde dei selvaggi. L’industria provvede copiosamente le società civilizzate delle cose necessarie, e di quegli oggetti che senza essere di una necessità assoluta rendono più comoda e più cara l’esistenza. Le cose che l’industria procura chiamansi prodotti. È cosa molto rara che un prodotto sia l’opera di una sola specie d’industria. Il caffè per esempio è un prodotto dell’industria agricola - che lo ha raccolto nell’Arabia, ed è un prodotto dell’industria commerciale che lo ripone nelle nostre mani. Niuno può creare la materia; né la stessa natura il potrebbe; ma può ognuno servirsi degli agenti che la natura ci offre per dare l’utilità alle cose. Le materie che ogni specie d’industria somministra sono le ricchezze, perché hanno valore; e le materie senza valore, sebbene necessarie, non sono ricchezze. Or se il valore della materia è ciò
che costituisce la ricchezza, vi sarà sempre creazione di ricchezza ogni qualvolta vi è creazione o accrescimento di valore nella materia. Chi possiede un cantaio di lana convertito in panno è più ricco di colui che possiede la stessa quantità di lana grezza, e non ancor lavorata. L’industria commerciale poi concorre alla produzione, come la manifattrice, ed accresce il valore, o sia l’utilità del prodotto col trasportarlo, per ravvicinarlo al consumatore; ed è il trasporto allora una manifattura che il negoziante esegue sulle merci per renderle atte al nostro uso; e non è meno utile, non men com-
plicata e pericolosa che le altre due industrie. È falso dunque che il commercio nulla produca per se stesso, e che la sola agricoltura sia produttiva. Quando qui compriamo il zuccaro, diamo noi valore per valore eguale; e il denaro pagato, e il zuccaro ricevuto, sono valori bilanciati fra loro; ma come che
questo non valeva altrettanto in America, così il suo valore è stato accresciuto col trasporto, e non già con l’atto della vendita. L’oro nativo, tanto nelle miniere, quanto fuori di esse, è sempre lo stesso metallo; ma fuori della miniera ha una utilità che non avea prima; e il valore che contiene lo ha ricevuto dall’industria che lo ha trat-
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Parte seconda. Industrie e manifatture
to dal seno della terra. L'industria finalmente di qualunque specie non ha altro oggetto che di valersi degli agenti della natura per produrre o comporre cose servibili ai nostri bisogni. Nostro scopo sia dunque quello, o soci, di promuovere tutte le industrie sì agricole che manifattrici, e commerciali, perché, in
rapporto al fine, si riducono in fine ad una sola, cioè all’industria domestica che le contiene tutte e tre. E che sarebbe infatti l'industria che chiamar si è voluto domestica se non conoscesse altri limiti che la casa? Sarebbe così, e
non sarebbe industria. Il commercio interno non può stare senza l'economia domestica, né questa senza quello. Su questi dati non avete motivo di rimproverarvi, o energici soci, se sempre, e come meglio avete potuto, avete diretti i vostri
pensieri e le vostre fatiche all’agricoltura, alle manifatture, alla economia, che è quanto dire alla felicità nazionale. I contadini sono stati da voi illuminati; molti invecchiati pregiudizi e quasi che indistruttibili, sono stati presso che da voi distrutti; e si è a sufficienza ben inteso, mercé il vostro zelo, tanto il privato quanto il nazionale interesse, diffuso ancora negl’altri nostri consoci corrispondenti di questa provincia. Avete insomma gittati i semi, da cui col tempo germogliar vedrassi fra di noi la florida agricoltura, le manifatture, ed il commercio; e pare già che la più parte degli uomini comincino ad acquistare le qualità necessarie per istruirsi; e pare che vada di giorno in giorno crescendo il numero delle persone capaci di osservare ciò che vedono tutto giorno, e di dubitare di ciò che non comprendono. Il perfezionamento e l’applicazione delle utili teorie propagata dalle scienze utili al vantaggio del genere umano era riserbato ai due felici secoli del nostro amatissimo e provvido padre, protettore e promotore delle più utili e belle arti, Ferdinando I. Le importanti verità scoverte nello studio della economia politica e domestica si vanno già diffondendo sulla massa degli uomini, ed alla percezione si avvicinano di tutti gli intelletti; ed il tempo supplirà con l’azione sua alla debolezza dei nostri sforzi; ci spoglierà esso delle vecchie abitudini, e non ci farà oprare e pensare in opposizione ai veri principi della economia e dei suoi rami. Fu una volta in cui si credette che i manifattori e i negozianti nulla aggiungessero alla massa delle ricchezze, anzi si spinse tant'oltre questa credenza, che si giunse a credere che vivessero essi a spese dei proprietari e dei coloni; e che le nazioni manifattrici
II. Il dibattito sulle manifatture
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e commercianti vivano del tributo che ricevono dalle nazioni agricole; e che la protezione accordata alle manifatture impoveriscono lo Stato; e che finalmente la ricchezza sia l’effetto di un
dato ordine sociale piuttosto che di un altro. In oggi si intende bene da tutti che i valori che vengono dai primi non siano di una natura diversa da quelli che son creati dai secondi; e che gli uni e gli altri servano al pubblico bene, ed all’aumento della ricchezza dello Stato, e che qualunque di esso ne sia la forma possa sempre (saviamente diretto) prosperare ed essere ricco. Disprezzando dunque noi gli oziosi, stimiamo tutti quelli che agiscono; e i manifattori, e i commercianti egualmente che gli agricoltori, e non lasciamo senza premio coloro, che o nell’una o nell’altra classe colle opere si distinguono. Molte nazioni a noi inferiori nei prodotti della sete e delle lane ci superano nelle manifatture e per conseguenza nella ricchezza; e ciò per la dabbenaggine della nostra nazione che vende ai forestieri le proprie sete e le lane per comprarle nuovamente da essi ad un prezzo cinque e sei volte maggiore di quello che ne ricevettero. É questo un danno di cui non possiamo incolpare che la nostra indolenza. Non potremmo noi accrescere il valore dei nostri vini col migliorarne la qualità? Sono forse i climi e le terre della Francia e della Spagna meno aspri ed inclementi dei nostri? Meno attive e vigorose, e non aventi la medesima esposizione? E se dipende dalla diversità delle uve e dalla diversità dei processi di mano d’opera, è forse impossibile fisico provvedersi delle prime piantando vigneti scelti, ed apprendere i secondi tendenti alla loro fermentazione, e raffinamento del liquore? Ma noi non vogliamo annoiarci, contenti di quel troppo per noi che la natura ci accorda, e lasciamo a quei ch’erano una volta più poveri di noi i mezzi per arricchire e per far guadagni sopra di noi. Voi pertanto, illustri soci, ripien dello spirito del pubblico bene, animati dallo spirito istesso di colui per cui viviamo felici, ed al di cui onore ci comunichiamo in questo giorno i nostri pensieri, ed incoraggiamo colla voce, coi scritti, coll’esempio, e coi premi anche i più pigri e sonnolenti della nostra nazione. Adoprate sempre fatti ben osservati, come mezzi di sviluppo; deducetene a rigore le conseguenze, e calpestate i pregiudizi, i quali tanto in morale che in letteratura e in amministrazione frappongono sempre delle insormontabili barriere fra l’uomo e la verità. [...]
3. Contro la dipendenza dalle manifatture estere* [...] Le arti e le manifatture, in generale, possono considerarsi sotto due aspetti differenti. O esse servono semplicemente cioè
agli usi ed alle convenienze del popolo presso il quale sono introdotte ed esercitate, o pure formano un ramo più o meno considerevole del commercio di questo popolo colle nazioni estere. Esaminiamo per poco l’oggetto in quistione nella prima, per quindi passare a discuterlo nella seconda ipotesi. È sempre un grave sbaglio in economia, per un popolo che vede abondare intorno a sé le materie prime che entrano nella composizione o servono all’esercizio delle arti che gli sono necessarie nello stato di società, il mandare a male o vendere a vil prezzo allo straniero queste materie in natura, per quindi riprenderle dallo straniero stesso convertite in manifatture di cui la sua maniera di vivere lo ha avvezzato a non poter fare a meno. Colla sua infingardagine esso si sottopone volontariamente ad un giogo che gli sarebbe agevole imporre e far portare ai suoi vicini che non hanno forse sul loro territorio la medesima quantità o qualità di siffatte materie utili'. * Da Gioacchino Maria Olivier Poli, Brevi osservazioni d’economia politica sulle arti e manifatture, A. Trani, Napoli 1816, pp. 27-33, 43, 56-57.
! A niun paese del mondo potrebbe forse convenire meglio un tale rimprovero come al Regno delle due Sicilie; giacché niun paese al mondo trovasi, quanto questo, fornito d’una sì grande e sì variata abbondanza di generi primi necessari alle arti ed alle manifatture. Generalmente parlando, le materie che formano la base o entrano nella composizione dei lavori, sono le lane, le sete, i cotoni, i lini, i canapi, le pelli di alcuni
quadrupedi, i metalli, i legni, varie terre, colori, etc. Ora, niuna contrada del globo, per quel che da noi si sappia, ed all’eccezione di alcune pelli e di alcuni metalli, abbonda tanto di questi vari oggetti quanto l’Italia meridionale; e se la Spagna, l'Inghilterra e l'Irlanda vanno superbe delle loro numerose greggi e per conseguenza delle loro lane; se la Slesia e l'Egitto sono ricchi pei loro lini; se lo è la Svezia pei suoi metalli, la Persia e la China per le loro sete, l’Indostan pei suoi cotoni, e l'America meridionale pei suoi legni da tinta e da intarsiatura, quanto più dovrebbe essere e superba e ricca la regione che noi abitiamo, trovandosi essa possedere in gran copia di quasi tutti codesti prodotti! Se da siffatta abbondanza e varietà, che non è mica comune ad altre contrade del globo, non si è ritratto tutto quel vantaggio che si potea sperare per l’avanzamento delle manifatture nazionali; se malgrado i tanti incoraggimenti prodigati a queste per lo spazio di settanta anni dalla dinastia regnante, esse sono ancora, per così dire, nella loro infanzia; se migliaia d’individui che potrebbero impiegarvisi con profitto, rimangono inoperosi e sono costretti per vivere, o di andar accattando da porta in porta, o di turbare la società coi loro delitti; se il luminoso
esempio dato dal Principe di vestire il primo di panni e stoffe fabbricate nel
4, AL ULUULLELLO SULLE IIEUTLLIJULLUTE
720 DI
Una parte dell’abilità di coloro che sono alla testa d’un governo non dee mica consistere in dare alle classi travaglianti dei loro amministrati un’occupazione vaga ed indistinta in tutti i rami dell'industria; ma bensì quell’occupazione che sia più compatibile coi loro mezzi, più conveniente alle loro circostanze, e che
li metta nel minor grado possibile di dipendenza dagli altri popoli. Sarebbe, per esempio, una inconsiderazione biasimevole il voler dirigere l'industria degl’italiani e dei francesi a scavare ed a polire dei metalli dei quali essi non hanno gran fatto abbondanti miniere, quandocché essi potrebbero più agevolmente e con maggior vantaggio essere impiegati ed incoraggiti nel lavorio della canape, del lino, del cotone, che vegetano assai bene nelle loro terre. Per la stessa ragione, non sarebbero troppo commendevoli i tentativi dei governi della Danimarca, della Svezia, della Russia e della Prussia, d’introdurre e moltiplicare nei loro stati le ma-
nifatture di seta e di cotone; giacché, dovendo comprare dagli stranieri le materie prime che la freddezza del clima impedisce di prosperare nel loro suolo, e il trasporto degli oggetti venendo forse a costare altrettanto che la loro compra, essi potrebbero in vece e con più gran profitto delle nazioni respettive, rivolgere le cure e la modica attività di queste verso tutti quei generi di travaglio di cui esse stesse posseggono i materiali o gl’ingredienti, quali sarebbero il ferro, il rame, la canape, le lane, i legnami, le gomme, i sali, etc. Ciò somministrerebbe un’occupazione utile alle classi povere del popolo, darebbe un valore triplicato alle materie indigene, ed impedirebbe che uscisse del numerario da dei paesi che non ne hanno molta copia, per l’acquisto di generi grezzi che non sono assolutamente necessari ai bisogni della vita, e che, quand’anche li rendesse tali da mania dell’ostentazione e del lusso, sarebbe agevole di ottenere dall’estero, ridotti in manifatture, con una ben leggiera variazione di prezzo. paese, non è stato seguito dalla turba immensa dei cortigiani e dei grandi; se finalmente anche in questo momento che noi scriviamo e non ostante i progressi del secolo nella scienza economico-politica, si ha il dispiacere di veder uscire dall’una e dall'altra Sicilia una quantità enorme di materie grezze e di derrate ancora di prima necessità per pagare le stoffe e le telerie di cui gli avveduti stranieri inondano i mercati della capitale e delle provincie, ciò non deve attribuirsi che alla funesta mania di cui seguita ad essere infatuato ogni ceto di cittadini per le mode e le manifatture estere, che alla deficienza di attività e d’industria nelle classi lavoratrici, che alla deficienza più grande ancora di spirito pubblico nella generalità della nazione.
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Parte seconda. Industrie e manifatture
I sani principi dell’economia politica disapprovano egualmente la condotta di taluni governi i quali sembrano favorire di preferenza le arti di lusso, poco o nulla curando quelle che servono al positivo bisogno o alla maggiore comodità dei popoli. In questo caso appunto trovossi la Francia al principio del secolo decimottavo. Il suo ministero credeva che coll’introdurre dei mestieri, e col moltiplicare indistintamente degli stabilimenti di manifatture, i cittadini avrebbero fruito d’una grande agiatezza, e che lo Stato sarebbe giunto al più alto grado di opulenza e di grandezza. L'esperienza ha fatto vedere che i ministri s'ingannavano; giacché non mai la Francia, sotto l’ammanto del fasto e dello splendore, fu più povera. La potenza in fatti che si stabilisce colle arti, non deriva da quell’industria che si estende a tutti gli oggetti di frivolezza e di corruzione, ma bensì da quella che ha per iscopo le arti veramente utili, e che dando dell’occupazione e per conseguenza dei mezzi da vivere ai membri travaglianti d’una nazione, non apre l’adito ad un rovinoso lusso?. [...] Affinché dunque le arti e le manifatture d’una nazione possano distinguersi superiormente da quelle delle sue vicine, fa d’uopo che la prima abbia delle istituzioni, delle scuole, dei metodi, che mancano alle seconde; che i suoi artefici siano più istrui? A questo proposito, se il cessato governo dei francesi in Napoli, in luogo di occuparsi a IE alla Torre del Greco una fabbrica di lavori in corallo, la quale, quantunque non disapprovabile, non si raggira però che su di oggetti di puro lusso, avesse pensato siintrodurre e proteggere in qualcuna delle provincie più opportune delle grandi manifatture di telerie di lino o di cotone di cui siamo tanto bisognosi, non saremmo ora nella necessità di spendere tre o quattro milioni l’anno per provvederci di quelle della Germania, delle Fiandre, e molto più dell'Inghilterra. Siffatte manifatture, per riuscire, esigono molte cognizioni, molti fondi ed una decisa protezione per parte del governo. Anni addietro cercarono alcuni particolari d’introdurre nel Sannio le fabbriche di tele all’uso di Olanda. Si fecero a tale oggetto venir da fuori delle macchine e dei lavoranti fiamminghi d’amendue i sessi, e si spese molto denaro nei preparativi necessari. Era da credere che i lavori sarebbero riusciti al di là d’ogni aspettazione, ma la fabbrica si arrestò sul meglio. L'enorme spesa avea spaventato e disanimato i proprietari. Essi amarono piuttosto rinunciare al loro utile progetto e perdere i capitali anticipati, che continuare a spendere per un’impresa, la quale, sebbene allora non promettesse molto, pure non avrebbe mancato di essere coronata da un esito felice se si fosse pazientato qualche altro anno, o se il governo avesse dato delle facilitazioni e un forte incoraggimento. Lo stesso è accaduto pressappoco a delle fabbriche di altri generi che si erano stabilite nel seno o nei contorni della capitale. Bisogna eccettuarne quella di mussolini eretta dal Signor Egg di Zurigo in Piedimonte d’Alife, la quale dà delle grandi speranze, anche perché il Re ha degnato onorarla dalla sua speciale protezione.
II Il dibattito sulle manifatture
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ti e che abbiano mezzi più adattati e resi migliori dalla riflessione e dall’esperienza. [...]
Per alto che sia il valore dei generi di vitto in uno Stato qualunque, esso lo sarà sempre in una ragione minore nelle provincie che nella capitale; minore nelle campagne e nei villaggi che nelle popolose città. Egli è dunque della saviezza dei governi lo stabilire o il facilitare l'erezione delle fabbriche di manifatture commerciabili all’estero, piuttosto nei piccioli luoghi delle provincie, che nel centro o nelle vicinanze delle grandi città e delle metropoli. Questa è appunto l’economia che siegue su tal importante oggetto il governo della Gran Brettagna. In quell’isola ove per la gran copia delle specie monetate, resa anche maggiore dalla moltiplicità dei contratti e dalla rapidissima circolazione, tutto è ad un prezzo alteratissimo, le produzioni delle arti dovrebbero, atteso il principio da noi riconosciuto, essere anche straordinaria-
mente care, e per conseguenza poco atte a sostenere nei paesi stranieri la concorrenza con quelle di altri popoli, forse egualmente attivi, ma di gran lunga meno doviziosi. Se noi osserviamo che succede il contrario, dobbiamo attribuirlo così all'effetto delle macchine [...], che all’attenzione che si ha di non formare dei
grandi stabilimenti di manifatture che in quei cantoni ove i viveri sono a miglior mercato. Tutte le arti, generalmente parlando, fioriscono a Londra, ma l’approvvisionamento dei paesi stranieri in gran parte lo somministrano le fabbriche delle provincie. Si va in fatti a Excester, a Tiverton, a Suffolk, a Somerset, a Norwich, ad Halifax, a Berkshire per procurarsi dei panni; a Stockport e a Denbigh per avere delle seterie o dei lavori di pelle; a Birmingham ed a Woodstock per provvedersi di opere in acciaio; a Manchester, a Nottingham, a York e a Darlington per com-
prarvi ogni genere di telerie, etc.?. [...] è Il vasto edifizio fondato sino dal 1751 in Napoli, sotto il nome di Reclusorio dei Poveri di tutto il Regno, contiene oggidì intorno a duemila mendici o vagabondi di amendue i sessi, i quali non solamente vi vengono alimentati e vestiti, ma istruiti benanche in ogni sorta di mestieri utili, ciascuno in quello a cui mostra maggiore inclinazione o attitudine, incominciando dalla panizzazione, e finendo alla tipografia ed al ricamo delle stoffe più preziose. Se questo stabilimento, in luogo di formarlo in uno dei sobborghi della capitale ove tutti i generi necessari alla vita sono sempre a più caro prezzo che altrove, si fosse eretto in qualcuna delle provincie; ovvero, se in ciascuna di esse se ne fosse fondato uno simile in più ristretta proporzione, il quale avesse potuto accogliere e dare dell’occupazione alla gente disutile, discola o accattona della provincia stessa, forse a quest'ora si vedrebbe distrutta la mendicità nelle due Sicilie, e forse la nazione si troverebbe
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Parte seconda. Industrie e manifatture
4. Sulla necessità dell'intervento statale* Dopo l’agricoltura meritano incoraggiamento e protezione le arti e manifatture. Sono esse così necessarie, che inutili sareb-
bero moltissimi prodotti della terra, se non subissero sotto la mano dell’uomo tutte le diverse modificazioni che atti li rendono ai nostri usi. In effetti a che gioverebbe il ferro, l’argento, l’oro scavato dal minatore, se il ferraio, l’orefice non gli dessero per mezzo del calorico quelle varie forme che ce li rendono utili non in minore dipendenza dagli stranieri per una quantità di oggetti manifatturati che non ha, ma di cui è sommamente bisognosa. Del resto, si è sempre a tempo di poter mettere in esecuzione una tale idea, tantoppiù che lo stato di pace in cui ci siamo felicemente costituiti, lasciar deve al governo e libertà, e capitali sufficienti per poter eseguire molti utili progetti che sarebbe stato impossibile di vedere realizzati i ultimi torbidi venti anni già scorsi. Lasciando sussistere il grande reclusorio di Napoli, si potrebbe benissimo, a
similitudine di esso, stabilirne dei più piccioli nel locale di qualcuno dei più comodi e più adattati monasteri soppressi o esistenti di ciascuna provincia, colla differenza che, se in quello della capitale si apprendono tutte le arti e tutti i mestieri, in quello di ciascuna provincia i reclusi non si applicherebbero che a dei lavori di cui la provincia stessa somministrerebbe i materiali. Il reclusorio di Principato Citeriore, per esempio, si occuperebbe delle arti della seta e del cotone, quello della Calabria Citeriore d’ogni genere di ferrarecce, quello della Calabria Ulteriore avrebbe molti telai di seta e di lino, quello della Japigia travaglierebbe in preferenza a delle manifatture di cotone, quei di Capitanata e degli Apruzzi avrebbero grandi fabbriche di lanifici, quello del Sannio, come paese abbondante di acque, darebbe la sua cura alle cartiere, alla concia delle cuoia, delle pelli, delle pergamene, etc. Lo stesso metodo potrebbe adottarsi benanche per la Sicilia, formando uno o più reclusori simili in ognuno dei suoi tre distretti principali, di Val-di Demona cioè, di Val-di Noto e di Val-di Mazzara, nei quali reclusori non si metterebbero in opera che i prodotti di cui è più abbondante quell’isola, come sarebbero le sete, i lini, i cotoni, le ceneri di soda, etc.
Per venir poi più facilmente a capo, e per essere più sicuri della riuscita di questi stabilimenti, vi si potrebbero trasferire delle picciole colonie e di maestri e di allievi, tanto dal grande reclusorio della capitale, che dalle reali fabbriche di San Leucio e della Torre dell’ Annunciata, le quali colonie formerebbero come il nucleo delle nuove società manifatturiere; e siccome esiste una quantità di frati mendicanti, disseminata in tutti gli angoli del Regno, così potrebbe tirarsi qualche partito da quest’individui poco distratti in altre occupazioni, da un più o meno ristretto numero in ogni reclusorio, per mantenervi l’ordine, l’amor del travaglio e il buon costume. Forse essi contribuirebbero in qualche modo alla prosperità di questi stabilimenti, non altrimenti che i così detti frati-umziliati concorsero nei passati tempi al miglioramento dei lanifici di Firenze. Ci spiace che il ristretto spazio d’una nota non ci permetta di dare all’oggetto in quistione quella latitudine di dettaglio e quegli ulteriori sviluppi di cui sarebbe pur troppo suscettibile; ma speriamo di ciò fare in altra occasione. * Da Osservazioni sulla riforma delle finanze e sui mezzi di promuovere la pubblica istruzione, l’agricoltura, le arti, ed il commercio, Capo XI, Delle spese pel miglioramento delle arti, e delle manifatture, articolo anonimo (compaiono solo le
iniziali: E.S.), Tipografia Francese, Napoli 1820, pp. 57-60.
II Il dibattito sulle manifatture
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men che cari e pregevoli? A che gioverebbe la lana, il cotone, il lino, se non subissero sotto la mano del filatore, del tessitore, del tintore tante diverse modificazioni, onde stoffe così comode e
vaghe ne risultano? Intanto siccome nell’agricoltura, così ancora nelle manifatture siamo rimasti molto indietro alle altre nazioni; e quantunque il suolo a dovizia ci fornisca di tutte le materie prime onde le arti e le manifatture si alimentano, pure molte o ci mancano affatto, o sono rimaste così rozze ed imperfette che siamo costretti di ricorrere allo straniero per averle di buona qualità. Fino a che i prodotti del nostro suolo e specialmente i grani erano da lui comprati, egli medesimo ci forniva i mezzi come pagargli il prezzo dei suoi generi manifatturati; ma ora che lo smercio di quelli è scemato, nell’atto che ci è rimasto il bisogno di questi, l'acquisto se ne fa a denaro contanti con infinito discapito della nazione. Altro mezzo dunque non v’ha per uscire da questa dannosa dipendenza, che quello di estendere e migliorare le nostre manifatture, e sopra tutto quelle di un uso più comune, come sarebbero quelle dei panni, delle tele, della carta, delle pelli, etc. Col-
l’animare queste fabbriche mille altre arti vengono animate del pari, e guadagnano tutte le classi della società. Il governo ne deve con premi ed anticipazione di capitali incoraggiare lo stabilimento. Say® crede che le belle manifatture di sete e di panni possedute attualmente dalla Francia sien dovute ai saggi incoraggiamenti di ColbertP, il quale anticipò ai manifatturieri due mila franchi per ogni talaio in opera. Lo stabilimento di una gran manifattura, per esempio di panni, esige molti capitali. Si deve costruire un gran locale, si debbono acquistare molte macchine, assoldare molti lavoranti, e quindi comprare le materie prime oggetto della manifattura. Pochi particolari hanno il potere o la volontà d’impiegare tutte le somme che vi occorrono, sul timore di una dubbia riuscita, specialmente allorché il governo non li protegge e non li garantisce dalla concorrenza degli esteri con una ben intesa tariffa daziaria. Perciò per introdurre nel Regno una gran fabbrica di panni all’uso di Francia, bisognerebbe che lo Stato aiutasse i particolari con accordare gra“ Jean-Baptiste Say, economista francese (1767-1832), celebre per la formulazione della «legge degli sbocchi» secondo la quale l'offerta globale è sempre uguale alla domanda globale. b Cfr. supra, nota d, p. 154.
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Parte seconda. Industrie e manifatture
tuitamente un locale adattato, che non mancherebbe, e con an-
ticipare senza interesse una buona porzione dei capitali necessari per le altre spese. Quindi dovrebbe il governo favorire lo smercio dei panni nostrali, sia col gravare di forti dazi quelli degli esteri, sia col dar l’esempio di vestirli a preferenza tanto esso che i suoi impiegati.
In Ispagna, dove si nutre egual desiderio di sollevarsi dallo stato di languore e di miseria in cui si è caduto, si è proposto alle Corti da un deputato di pregarsi il Re perché si degni di vestir panni nazionali, e perché ne imponga l’obbligo ai ministri, agl’impiegati, ed all’esercito. La stessa esortazione si è fatta a tutt’i deputati, i quali l’hanno accolta favorevolmente. Questo solo mezzo, che nulla costa, sarebbe efficacissimo per dare una gran spinta alle nostre manifatture. Nell’albergo dei poveri, nel convitto del Carminello, ed in S. Leucio sono ben avviate le manifatture di seta; in Piedimonte quelle di cotone; in Castellammare quelle di pelli; a Vietri vi son delle buone cartiere, vi è pure una fabbrica di lastre e bottiglie; in Arpino, Palena, e casali di Salerno, vi sono fabbriche di panni, ma nessuna, e specialmente di quest'ultimi, può mettersi al confronto delle straniere, onde v’ha bisogno di molta protezione e di molte cure per parte del governo, non che di molte spese per avviarle, e non sarebbero troppo duecentomila ducati all'anno.
5. Un progetto di sviluppo industriale* [...] Una nazione, dirò coll’illustre Presidente Monroe degli
Stati Uniti di America, la quale non sa da sé provvedere a tutti i suoi bisogni, non merita il nome di nazione, ché anzi non merita di esistere. Dove vi sono tele e stracci, e non vi si fabbrica carta; dove minerali, e non si fabbrica ferro; dove tante altre materie prime, e si tira tutto dai paesi stranieri, è un argomento del cattivo governo che affligge, in vece di sollevare la nazione. Dunque noi per prosperare è diventar ricchi, dovremo affrancarci da tanti * Da Carmine Antonio Lippi, Prize idee concernenti il miglioramento delle nostre istituzioni, Tipografia Sangiacomo, Napoli 1820, pp. 84-85, 95-107, 110J23
II. Il dibattito sulle manifatture
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tributi che ci sono stati imposti con i prodotti delle fabbriche e
manifatture d’ogni genere dalle nazioni straniere. Il nostro commercio è passivo. Nel mentre siamo ricchi di tutto; nel mentre
abbiamo a dovizia i migliori prodotti naturali; nel mentre li mandiamo via grezzi al di fuora; e nel mentre abbiamo tante braccia inutili, siam poveri di tutto ciò che occorre ai nostri bisogni, e
dobbiam mandare annualmente nello straniero alcuni milioni di danaro, dal che le nostre miniere sono abbandonate e le mani-
fatture nell’infanzia. Qual è la cagione di questo scandalo? Perché uomini ignoranti e non istruiti nelle scienze utili sono stati sempre alla testa degli affari. Perché le cariche sono state date sempre agl’intriganti. Perché il merito è stato o perseguitato, o negletto, e protetti sempre gli spioni, i delatori ed i ruffiani, e perché tutto è stato venale. Or era naturale il vedere che tutti gli affari che si trattavan relativamente alle fabbriche, alle manifat-
ture, alle miniere, ed in generale all’industria pubblica, avean per oggetto di dare dei soldi a questi galantuomini. Quindi tutto dovea abortire, e lo Stato gemere sotto il peso delle contribuzioni dalle quali era smunto. Signori deputati”, bisogna finalmente metter termine ad un tal disordine. Dovete rivolgere le vostre mire agli uomini solidamente istruiti, e scacciare gl’ignoranti da tutto ciò che non conoscono.
[...]
Le fabbriche e le manifatture d’ogni genere, presentano [un notevole] disordine. Una miserabile Giunta, composta di speziali, di medici, di preti e di monaci, nessuno dei quali ha mai saputo cosa sono fabbriche e manifatture, ha tenuto e tiene tuttavia paraliticata l'industria della nazione. Essi niente han fatto, niente han condotto innanzi. All’opposto han fatto il male in vece del bene. Molti ciarlatani specialmente forestieri, han ottenuto delle somme ragguardevoli nel Decennio militare per tante fabbriche e manifatture proposte e protette dai nostri, ma tutto è finito con una fallita. La sola mia bella e singolare fabbrica di pallini da caccia all’inglese di Posilipo, vicino al suo termine abbandonata, e che sarebbe uno stabilimento utile alla nazione, non solo non ha ritrovato incoraggiamento presso dei nostri, ma è stata anzi perseguitata nel Decennio. è L’autore rivolge questo scritto ai deputati del parlamento eletto durante il nonimestre costituzionale (1820-21).
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Parte seconda. Industrie e manifatture
Le prime fabbriche alle quali bisogna volgere le cure, sono quelle dei panni per vestire la nazione ed impedire che una gran quantità di danaro sorta dal Regno. Converrà primieramente migliorare le nostre razze pecorine per avere una buona lana. In tempo del Decennio si fecero venire dei mzerizos, quali bisognerebbe propagare presso di noi. Ad ogni modo s’incomincerà la fabbricazione dei panni colle nostre lane, in vece di mandarle grezze in Francia ed in altri paesi e comprarle poi manifatturate in panni dagli stranieri. Per i cammellotti, tanto buoni in un clima piovoso come il nostro, bisognerà far venire delle capre d’Awgora e farle multiplicare onde avere il pelo per la fabbricazione di questa stoffa. Per incoraggiare i proprietari delle razze, converrebbe dar loro il sale franco d’ogni dazio, giacché ne abbiamo tanto. E per incoraggiare i fabbricanti dei panni, farebbe di mestieri che potessero procurarsi l’olio necessario franco di gabella. Soprattutto poi è necessario impedire, con opportuni mezzi, l’importazione nel Regno dei panni stranieri, per fare prosperare le nostre poche fabbriche che abbiamo, e per stabilirne delle nuove, sufficienti ai nostri bisogni. Il migliore mezzo è quello d’imporre sopra l'importazione dei panni stranieri un dazio doganale doppio dell’attuale. Dippiù con un doppio dazio dovrebbe essere caricata l'esportazione delle nostre lane grezze, per impiegare la metà dell’uno e dell’altro prodotto in nuove fabbriche di panni. Che i panni nostrali siano sul principio d’inferiore qualità, paragonati agli stranieri, ed a caro prezzo; poco importa, perché il danaro resterà sempre nel paese, e sarà data la sussistenza ai nostri nazionali. [...]
Le fabbriche similmente di cotone dovranno immediatamente esser protette e stabilite nel Regno. Immensa è la quantità di stoffe di cotone d’ogni genere che si consuma dalle nostre donne, che consumiamo noi stessi, e che si consuma per tanta biancheria e per tanti mobili; ed in conseguenza enorme diventa l’esportazione del nostro contante per le stoffe suddette, quando noi, i quali abbiamo tanto cotone e tante braccia oziose, non dovremmo comprare neppure un palmo di mussolina. Dunque s’incomincerà per mettere un dazio di dogana doppio dell’attuale sull’importazione delle stoffe straniere di cotone. Similmente un dazio doppio sarà messo sull’esportazione dei nostri cotoni grez-
zi. La metà del prodotto sarà impiegata dalla Direzione generale degli affari facoltativi in stabilimenti analoghi; cioè in filature ad
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acqua, in tintorie, impressione e stampa delle stoffe, e pubblicherà dei regolamenti pratici-meccanici-chimici relativi a tutte le operazioni. Soprattutto bisognerà incoraggiare la brava colonia svizzera dell’ottimo Sig. Egg di Zurigo, che per tal oggetto in tempo del Decennio militare si è stabilita in Piedimonte, e la quale ha sofferto ultimamente, e forse soffre ancora, delle vessazioni che non merita in vece delle ricompense colle quali dovrebbe essere animata. Quella colonia dovrebbe servire di semenzaio alle nuove fabbriche di cotone del Regno. Come noi abbiamo in abbondanza robbia, olio, soda, e sterco pecorino, si
dovrà stabilire una gran tintoria pel colore rosso di Adrianopoli, colore che dà un gran valore al cotone, poiché noi paghiamo una libbra di filo di cotone così tinto, più di sei ducati agl’inglesi ed ai francesi. La Direzione suddetta sarà tenuta pubblicare il processo di questa singolare tintura, della quale i turchi han fatto un segreto, ed ai quali dall’Inghilterra e dalla Francia è stato, con ingenti spese, strappato.
Particolare incoraggiamento e cura meritano le fabbriche di seta d’ogni genere presso di noi che produciamo tanta quantità di questo preziosissimo genere. Neppure una libbra di seta grezza dovrebbe uscire dal Regno, dove dovrebbe esser tutta lavorata e mandata nei paesi stranieri, perché abbiamo la materia e le braccia necessarie. Ma per fatalità della nostra patria, simile a tante altre materie prime delle arti, un’immensa quantità di seta grezza passa nell’estero, donde poi riceviamo tante stoffe di seta che portan via il nostro contante. Farà orrore anzi il sentire che, oltre alla seta grezza, son esportati anche i coconi da alcuni luoghi del Regno, perché non si sa da essi tirare la seta. Un doppio dazio, come sopra, sull’importazione di tutte le sete lavorate, ed anche un doppio dazio sull’esportazione delle nostre sete grezze, ed un triplo sopra i coconi, potranno riparare questo disordine. Il pro-
dotto del nuovo dazio sarà impiegato una metà in stabilimenti di manifatture di seta, ed un’altra metà in premi a favore di coloro i quali esporteranno dal Regno le nostre sete lavorate. La Direzione generale degli affari facoltativi proporrà al governo l’occorrente. Immensa è la quantità di canapa e di lino che vien esportata da Napoli, nel mentre dobbiam comprare dalla Germania, dalla Francia, e dall’Irlanda una gran quantità di tele per i nostri bisogni, facendo così sempre più sortire il nostro contante. Dun-
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que doppio dazio d'importazione e di esportazione, come sopra, dovrà costituire il primo rimedio. Il secondo sarà quello di dar origine e moltiplicare le fabbriche di telerie col prodotto dell’aumento. Noi abbiamo da per tutto dei conventi. Bisognerebbe in essi stabilire dei ritiri di povere fanciulle e di altre donne oziose, delle quali il paese abbonda (non però sotto la direzione di preti, ma di padri e madri di famiglia) ed impiegarle nella filatura e tessitura del lino e della canapa. [...] Lo stabilimento delle fabbriche dei prodotti chimici, è un altro oggetto molto interessante pel nostro Regno, atteso il consumo enorme dei medesimi, che portan via nei paesi stranieri molto danaro. L'Inghilterra, l'Olanda, la Francia e la Germania ci mandano per le arti, muriato d’ammoniaca (sale d’ammoniaca), acetito di rame (verderame semplice), acetato di rame (ver-
derame purgato), solfato di rame (vetriuolo blu), solfato di ferro (vetriuolo verde), acetato di piombo (zucchero di saturno), ace-
tito di piombo (cerussa, o biacca), ossido rosso di piombo (minio), ossido di piombo per i pentolai (cenere di piombo), prussiato di ferro (blu di Prussia), solfato di alumina e di potassa (allume), acido solforico (oglio di vetriuolo), acido nitrico (acqua
forte), ed una gran quantità di colori. Tutte queste sostanze si possono facilmente fabbricare tra noi. Quindi doppio dazio d’importazione, come sopra, sarà il mezzo come avere dei fondi per siffatte fabbriche. [...] Le fabbriche di lastre, di cristalli, e di vetri d’ogni genere sono un altro oggetto molto interessante pel nostro Regno. Noi mandiamo annualmente gran somme di danaro in Boemia ed in Venezia per le lastre e per i cristalli, nel mentre abbiamo a dovizia i materiali bruti, necessari alla fabbricazione di tali articoli.
Più volte i nostri chimici ed altri letterati han proposto una fabbrica simile in Napoli, senza pensare che il legname, che costa nella capitale da 10 a 18 ducati la canna, e del quale una vetriera fa gran consumo, rendea l’impresa rovinosa. Ho già osservato che la Direzione delle Acque e Foreste avrebbe dovuto fare degli stabilimenti simili nei boschi del Regno, dove il legname a cagione delle difficoltà dei trasporti, resta inutile, e ad infradiciare. Sarà dunque necessario venire adesso a tali imprese; e perciò doppio dazio d’importazione sopra le lastre, i cristalli, ed i vetri d’ogni sorte, e facciansi nei luoghi convenienti delle vetriere. Dirò
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qui di passaggio che abbiamo nel Regno la silice la più pura, specialmente nel quarzo bianchissimo di Altomonte. [...] La gran quantità d’olio e di soda che noi abbiamo, dovrebbe farci avere molte fabbriche di sapone in pezzi, per smerciarlo in altri paesi; ma all’opposto noi ne tiriamo molto da Livorno, da Genova, da Marsiglia, ed anche da Trieste. Ho veduto in queste città delle gran saponerie sostenute dall’olio del nostro Regno e dalla soda di Sicilia. In Trieste si tira anche partito delle nostre morchie, dove son vendute a vilissimo prezzo, e dove si raffina-
no, con tirarne l'olio che contengono. L’operazione è facilissima, poiché si riduce a far bollire le morchie in calderoni coll’acqua, la quale sprigiona l’olio dalle impurità, mettendosi a galla sull’acqua. Un doppio dazio similmente sull’importazione dei saponi stranieri, ed un picciolo dazio sull’esportazione dei nostri oli, potrebbero servire di fondo (cioè l'aumento di tal dazio) per lo sta-
bilimento di varie saponerie nelle nostre provincie. E giacché mi ritrovo a parlare dell’olio, non posso far a meno di dire che tutta la gran quantità di questa sostanza che si brucia nell’illuminazione della capitale, delle altre città del Regno, e per i lumi delle famiglie, potrebbe ricavarsi dai semi del Colsat (Napus sativa), i quali lo somministrano abbondantemente, e risparmiare così tanto olio di oliva che bruciamo, per venderlo. [...]
Napoli fa un consumo sorprendente di carta. Le nostre cartiere sono meschine, e la carta pessima per la finezza, per la bianchezza, e per l’incollatura. Gran quantità di carta tiriamo da Pescia nella Toscana (dove ho veduto i nostri stracci), da Genova, dalla Francia e dall’Inghilterra. E uno scandalo il vedere esportati i nostri stracci fini, nel mentre dobbiamo comprare la carta. Quindi un dazio triplo sull’importazione delle carte straniere, ed un dazio anche triplo sull’esportazione dei nostri stracci, formerebbe un fondo sufficiente (cioè l'aumento del dazio) per lo stabilimento di alcune cartiere a cilindro, ed impedire così l’uscita di tanto danaro dal Regno. Non abbiamo raffinerie di zucchero in Napoli, dove si fa un consumo enorme di questo genere coloniale. Conseguentemente
bisognerebbe stabilire presso di noi alcune raffinerie nel gran genere, come quelle di Bordeaux. Sarebbe anzi interesse del governo stabilirne una per proprio conto, atteso l’utile che risulta da un genere divenuto di prima necessità. Del resto un doppio dazio sull’importazione dei zuccheri raffinati potrebbe costituire un
DDD,
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fondo sufficiente (cioè l’aumento del dazio) per lo stabilimento
progressivo delle raffinerie necessarie ai nostri bisogni. I zuccheri grezzi potremmo averli dagli americani degli Stati Uniti, cambiandoli colle nostre seterie lavorate, con i nostri oli, con i nostri vini e coll’acquavite. Quindi bisognerebbe fare, siccome dirò in seguito, un trattato di commercio, e legarci strattamente con quella nazione, dalla quale potremmo tirare gran vantaggi. La nostra costituzione, che ci assimila a quei bravi repubblicani, mette adesso le due nazioni a portata di soddisfare scambievolmente ai loro bisogni. Vi sono nella provincia di Napoli e di Terra di Lavoro diverse fabbriche di acquavite, ma tutte non calcolate sul gran genere, e di natura da poter presentare dei gran vantaggi. Noi dovremmo, atteso la gran quantità di vini che abbiamo, mandare molto spirito nei paesi stranieri, ma l’imperfezione delle distillerie ce lo impedisce. Le caratteristiche di una perfetta distilleria sono di ricavare dal vino tutto lo spirito che contiene, senza che ve ne resti nei residui della distillazione; di produrre una gran quantità di spirito in brevissimo tempo; di bruciare poco combustibile e d’impiegare pochissime persone. Or le nostre distillerie non corrispondono a queste vedute. [...] Le nostre conce dei cuoi vaccini pel calzamento han bisogno di perfezione soltanto perché i cuoi del Regno non sono mandati nell’estero come tante altre materie brute. All’opposto noi tiriamo da Buenos Aires e da altri paesi dell'America i cuoi per le nostre concerie, e tiriamo anche dalla Francia e dall'Inghilterra una gran quantità di cuoi conciati. Ciò non ostante una gran parte di gente del nostro Regno, anche della capitale, va a piedi nudi. Ciò costituisce la dimostrazione della scarsezza degli animali vaccini nella nostra patria, dimostrazione che vien confermata dal caro prezzo della carne di tali animali, non ostante che nelle provincie se ne mangi pochissima. Bisogna attribuire questa scarsezza e quella del butiro e dei formaggi, alla mancanza del fieno, ed in conseguenza al difetto dei prati artificiali, dei quali ho raccomandato tanto la coltura nelle mie produzioni. Napoli manda fuora somme ragguardevoli di danaro per quei schifosi, puzzolenti formaggi della Morea e della Sardegna, dei quali il popolo giornalmente fa consumo. Conseguentemente bisognerebbe far di tutto per introdurre presso di noi i prati artificiali
suddetti, onde avere cuoi, carne, butiro, formaggi, e sego per i
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bisogni del Regno. La formazione del canale di navigazione per l’unione dell’ Adriatico col Mediterraneo per mezzo delle acque del Fucino darebbe origine a questi prati artificiali, siccome nelle mie scritture, pubblicate all’oggetto, di proposito ho fatto rilevare?. Intanto limitandomi in questo luogo ai cuoi ed alle concerie, questo ramo ha bisogno, siccome pocanzi ho accennato, di perfezionamento. Le conce si eseguono presso di noi col mirto e non già colla corteccia degli alberi astringenti. Altronde non hanno i nostri conciatori idea alcuna delle conce al tannino, per la brevità del tempo dell’operazione, e per la qualità dei cuoi. Similmente non han essi notizia alcuna del travaglio delle suole nelle meccaniche a cilindro, per comprimerle e renderle compatte. Bisognerebbe che si dasse qualche incoraggiamento per quest'importante oggetto, da prendersi da un aumento del dazio doganale sopra l’importazione dei cuoi stranieri grezzi e conciati. Le pelli poi degli agnelli e dei capretti, sorton tutte fuora grezze dal nostro Regno. Io ne ho veduta una gran quantità in Grenoble ed in Annonay nel Delfinato in Francia, dove sono conciate all’allume, tinte, e convertite in guanti che poi noi compriamo da quei paesi a prezzi esorbitanti. La guanteria potrebbe sembrare un picciolissimo oggetto d’industria, e pure non è così. Oltre [che] dai conciatori e dai tintori, che le pelli degli agnelli e dei capretti impiegano, esse danno dell’occupazione ad una gran quantità di gente per la cucitura e ricamo dei guanti. Tutte le signore e le altre donne di Grenoble son impiegate a tali lavori. Presso la signorina della casa nella quale io era alloggiato, si univano il dopo pranzo molte sue amiche, ciascuna delle quali portava il suo lavoro nella sua borsa (Ridicule), e tutte cucivan guanti per i guantai ad un prezzo stabilito, nel mentre facean la loro allegra conversazione. Lo stesso si praticava nelle altre case. Ecco dunque come un articolo del nostro Regno che sembra insignificante, dà la sussistenza a tanta gente in Francia. Perché non impiegarlo per la nostra? Che perciò un doppio dazio doganale sopra l'importazione dei guanti, ed un dazio forte sull’esportazione delle pelli grezze (giacché con mia sorpresa non veggo dazio alcuno nella tariffa doganale sopra l’esportazione delle pelli degli b Cfr. C. Lippi, Programma per l'unione dell'Adriatico col Mediterraneo, Na-
poli 1820.
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agnelli, e dei capretti) potrebbe costituire il fondo onde animare e stabilire questo ramo d’industria nel paese. Non la finirei mai più se volessi parlare di tanti altri oggetti delle fabbriche e manifatture straniere dei quali facciamo gran consumo, e per i quali mandiam fuora tanto contante. Per dirla in due parole, bisognerebbe assoggettare tutti questi articoli ad un doppio dazio d’importazione, ed impiegare la metà del prodotto in stabilimenti di quei generi. Ho detto sempre la metà del nuovo dazio sopra tutti gli articoli delle fabbriche e manifatture degli stranieri, dovendo restare l’altra metà, ossia il dazio attuale, a favore del pubblico erario. Vengo ora alle comunicazioni interne, ossia alle strade ed ai canali navigabili, onde promuovere l’industria nazionale. Primieramente le strade sono il risultato del commercio interno, e questo delle fabbriche e delle manifatture. Quindi la promozione delle fabbriche e manifatture nel Regno, porterà seco lo stabilimento di strade numerose e comode, e la civilizzazione delle provincie. I popoli che non conoscono la ruota del carro e delle altre vetture, non possono civilizzarsi, né possono purgare la loro lingua; in una parola non possono uscire dallo stato selvaggio. Una prova n’è la nostra Calabria, dove si è incominciato a dirozzare la gente, dal che si è aperta una strada in quella provincia dall'occupazione militare. Secondo me fabbriche, manifatture, strade, ruota, civilizzazione sono sinonimi. Io ho osservato costan-
temente nei miei viaggi, che la purità della lingua, e finanche l’accento delle varie nazioni sono modificati e dipendenti dalle strade. Strade belle e regolari danno una purità di lingua ed un accento soave alle popolazioni adiacenti, i quali vanno tanto oltre, per quanto conducono le strade istesse, e si cambiano, tosto che queste deteriorano. [...]
6. Contro la concessione di privative* [...] Non fuori anche di proposito sarebbe se il governo v’impiegasse delle sue valevoli e protettrici mani in aiutando degli artieri, con facilitarli lo smaltimento dei generi su dei quali essi * Da Carmelo Prisco, Memoria riguardante le arti, le manifatture, e l'industria del Regno, e su dei mezzi da praticarsi pel loro miglioramento ed incoraggiamento, Chianese, Napoli 1821, pp. 7-22.
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si trovano a travagliare. E ciò riuscirebbe di vantaggio, non che ai medesimi, ma bene anco allo Stato che va a sostenerli. Per-
ciocché di spesso avviene che dopo gravi dispendi dall’artiere soffertisi, e per l’introduzione di una fabbrica a noi necessaria, non ha ei uno smercio sufficiente di sua roba lavorata a motivo dei generi esteri di consimil natura. In tal caso conviene due cose considerare, o i generi che dal nostro artista si vanno a preparare sono mediocremente buoni ed infra di noi di grande uso e di molto ricercati dalla gente, starebbe di bene allora che il Re si degnasse di ordinare a quei che ne regolano le diverse officine ed al governo sono sottoposte, di procurarne dello smercio, con obligarle a prendere quel genere di roba che per esso serve dal nostro artefice che lo sta travagliando, affine di più animarlo per lo miglioramento. D'altronde poi, ed in secondo luogo, è degno anche di riflessione, che se il genere di roba che prepara il nostro artiere è più che buono, ed intanto non ne ha smercio sufficiente perché dall’estero gli viene contrastato in riguardo al prezzo con altri generi consimili, converrebbe allora che si accrescesse il dazio sul genere di roba che si va ad introdurre, per incoraggiare i nostri, e meno denaro ad estrarsi; appunto come fassi dalle altre nazioni per i loro interessi. Perciocché è massima, così antica che generale presso dell'economia, tanto privata, quanto pubblica, che si venda più che non si compri. E perciò insorgendovi delle gare infra le nazioni, conviene di stare più che accorto; perché delle volte alcune di esse cercando di far inchinare la bilancia del commercio in lor particolar favore, non lasciano di usare dei raggiri, e di portare le cose all’eccesso e con una certa violenza. Ond’è che se tali cose sono condannabili, non è poi meno condannabile l’indolenza di alcuni uomini, i quali in mezzo a tali gare niente si scuotono, anzi si contentano di servir loro di bersaglio e di vittima. Su di queste vedute, che per esempio io adduco, oltre delle altre a noi necessarie, intendo ad aversi cura così delle cartiere, che dei lavori di lana, di seta, di cotone, di filo, di stoviglie, etc. Vi ha di mestieri ancora a gittare qualche sguardo sui brevetti di semplice introduzione, ossia di semplice concedimento, ed in
luogo della privativa. Perciocché nell’abolita Giunta delle Arti v'era infra gli altri stabilimenti un altro col quale per mezzo di un brevetto si veniva ad accordare al manifatturiere una certa licenza, ossia permesso, onde poter travagliare su quel genere di roba
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che ei credeva di saper meglio preparare con qualche meccanismo di più in confronto degli altri artieri che una consimile arte si trovavano a fare. E ciò non senza ragione si faceva. Perciocché trattandosi di cose presso di noi introdotte, e sufficienti per i nostri bisogni, e non di assoluta necessità quello che di nuovo introdur si vorrebbe, ma piuttosto da potere recare danno ad una quantità di persone che vive giornalmente coi lavori delle brac-
cia e delle mani, riuscirebbe di grave disordine accordare delle privative su di cose che altro non fanno che facilitarne dei zi in riguardo a qualche disimpegno di fatiga, e che altra non potrebbe avere, se non quella di soddisfare a poche persone che possono più spendere. Mi spiego su di ciò con che esempio.
mezmira altre qual-
Vi sono delle fabbriche presso di noi di cotone, di carta, di lana, di vetri, di terraglia, etc., le quali a sufficienza i nostri bisogni non cessano di soddisfare, e che danno da vivere a moltissima gente coll’opera delle mani e delle braccia. Dassi il caso che si presenti un nuovo artefice, il quale dice d’avere escogitato, ed anche in pratica sperimentato, una macchina la quale ne facilita
la filanda del cotone, ne risparmia le braccia dell’uomo, ed in breve tempo dia maggior prodotto, ed in qualità più uguale, più fino, e meglio ritorto, e ne chiedesse per ciò la privativa; io secondo il mio pensamento dico che sarebbe non tanto a proposito l’accordarcela, perché grandi e molti disordini ne potrebbero avvenire in togliendo i mezzi di sussistenza a tanta povera gente, appunto come in qualche regione a noi remota è avvenuto. In considerazione di quanto ho di sopra accennato, se V.E.* ed il Re non diversamente stima a proposito, gli si potrebbe dare un compenso o una medaglia con un semplice brevetto di cinque anni, e senza che gli altri ne venissero impediti nel proseguimento del loro lavoro. E dippiù, ancorché questi artieri con altre escogitazioni arrivassero a fare cose migliori, e non colla macchina consimile al nuovo introduttore, non si potesse loro vietare ogni qualunque altra industria che dai medesimi va a praticarsi. Finito il tempo determinato di cinque anni, allora ciascuno artiere potrà _* L'autore rivolge questo scritto al Ministro degli Affari Interni Giovanbattista Vecchioni.
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DI
praticarla, stimandola opportuna per gl’interessi così suoi, che pel rimanente della gente che a forza di braccia vive!. Mi converrebbe di aggiungere altri esempi i quali non più riguardano la mano d’opera, ma la qualità dei materiali che tante volte supplir si possono in luogo di quelli che in alcune fabbriche si stanno oggidì praticando. A cagion d’esempio le nostre vetriere per mancanza di nozioni atte a fare le bottiglie di vetro nero, non le facevano prima, ma dopo del nostro socio Ferrari, che fu il primo ad introdurle con una certa perfezione e con molto applauso, non lasciarono alcune altre vetriere d’introdurre un simile lavoro, ma di qualità inferiore, perché non erano a giorno di tutto ciò che dal sopradetto Ferrari s’ impiegava per la buona preparazione del vetro, e che atto era a formare le bottiglie nere di buona qualità. Intanto è necessario a sapersi che alcune vetriere le seguitavano a fare, ma occultamente, per venderle a più caro prezzo e come forestiere; mentre poi così facevano anche su di alcuni lavori di cristallo assai imperfetto. Niente incaricandosi per altro di una grande verità i nostri artieri, e si è che lo smaltimento dei loro lavori tanto maggiore sarà, quanto a più dolce prezzo son per venderli, ogni qual volta di un giusto ed onesto guadagno essi si contentano, e per conseguente maggiore profitto a riportarne. Ad ogni modo convien dire che siffatte arti che vi sono, avendo in qualche maniera migliorato, ed essendovi alcuno che ne cercasse la privativa, ne produrrebbe gl’istessi inconvenienti, e perciò starebbe di bene di accordargli piuttosto un brevetto di miglioramento per cinque anni, e non già di privativa. Ed infine v’ha d’uopo a sapersi che tante volte tutto quello che si promette dall’artiere, non sempre si attende dopo che ha avuto la privativa, o perché gli manca del danaro nel progresso del lavoro, ovveramente la qualità della roba che prepara non è più secondo il campione che egli presentato avea; e per la forte ragione d’essere lui il solo, stante la licenza accordatagli. In conferma di quanto ho di sopra detto, non v’ha fuori di luogo qualche altra considerazione a farsi tanto sulle cartiere, quanto sulle fabbriche di seta, di lana, dei vasi di porcellana, etc. ! Le medaglie tanto d’argento quanto d’oro, ogni volta che V.E., ed il Re l’approvasse, potrebblero] tenere al di dentro le seguenti parole. Intorno al mezzo busto del Re si direbbe: Providentia Optimi Principis. Alla parte opposta poi vi si porrebbe una Pallade, ed all’intorno colle parole: Comuni scientiarum amicitia aluntur artes.
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Ed in vero prima d’ogni altro è da riflettere che presso di noi queste arti riconoscono il loro maggiore smaltimento di lavori di roba di minore dispendio, di cui ne fa acquisto la più parte della gente per i suoi diversi usi. Quindi è che il dare privativa su cose di poca spesa, e che queste da noi si fanno, e che danno da vivere anche a centinaia di famiglie e più, sarebbe ciò fuori d’ogni veduta di civil economia, quante volte un altro si fidasse di preparare simiglianti generi di roba con materiali di natura assai diversi. Per esempio avendo in una mia memoria sulle cartiere fatto rilevare che prima dell’uso dei cenci per la carta, veniva a prepararsi presso le antiche nazioni della carta colle diverse piante filamentose, e [che] in alcuni altri luoghi la preparavano col cotone o colla lana, sarebbe ciò per noi un oggetto anche di poca considerazione, quante volte si presentasse un novello introduttore, il quale cercasse di voler fare la carta con qualche vegetale in luogo dei stracci di pannolino. Oltre a ciò la carta che se ne ottiene è sempre di qualità inferiore, ed ha bisogno di altre preparazioni perché acquisti una certa bianchezza; quandocché quella dei cenci per ordinaria che sia, sempre è da preferirsi per la sua bianchezza. Ond’è che il dare della privativa su di tali cose potrebbe esser di danno alle cartiere per lo smaltimento della carta ordinaria che forma il loro maggiore guadagno. E perciò avendosi riguardo alle anzidette riflessioni, converrebbe di accordargli un brevetto, per non offendere alle nostre arti, e con qualche distintivo, se mai qualche utile di più ne potesse a noi apportare; giacché il nostro maestro delle scienze economiche dice esser un tal premio il mezzo più efficace per alimentare le arti. Una simil cosa intender si deve per i lavori diversi che per mezzo della seta si ottengono. Perciocché grande, e non di piccola considerazione è lo smercio dei lavori di seta che fassi tanto nella capitale che in alcuni luoghi del nostro Regno; in maniera che quantunque questi prodotti non sieno lavori di molta perfe-
zione, pur nondimeno l’industria di simili manifatture arreca grandissimo utile, non pure al pubblico che se ne vale, ma ad un numero niente indifferente di famiglie che le prepara. Ond’è che quante volte alcuno coll’apocino® serico volesse introdurre qualche nuova fabbrica, in imitando dei lavori di seta chiedesse della
privativa, sarebbe cosa da potersene fare ammeno. Ed allora a > Genere di piante erbacee.
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costui accordar si potrebbe un brevetto, come di sopra si è detto per gli altri, quante volte l’introduzione si riduce su di cose di non tanta importanza. Per la qual cosa non ad altro oggetto converrebbe di così fare, se non per conservare negli affari di civil economia un certo equilibrio che tanto in natura si osserva, e che dai politici grandemente si ammira. Ma sempre, quando un tale scopo si avesse di mira per arrivare in qualche maniera al conseguimento di un sì importante oggetto, si richiederebbe di porre per base di non premiare, se non quelli che mostrano d’avere un certo merito, ed una data morale di serbare ancora.
Per compimento dunque, e maggiore dilucidazione di quanto da me si è detto in riguardo all’uso diverso che far se ne deve, così dei brevetti, come delle privative, non disdicevole sembrami di apporvi qualche altra considerazione su di un tale particolare assunto. Perché l’affare dei brevetti in vece delle privative abbia ad avere il suo luogo, v’ha d’uopo a riflettere più coll’occhio della mente e della ragione, che colle vane sottigliezze e coi capricciosi sofismi che spesso sogliono mettersi in campo dai Carneadi“, ed unicamente per vedere rovesciato ogni buono edificio su di affari di pubblica amministrazione. Perciocché, quante volte un adeguato stabilimento su sane norme di osservazioni appoggiato ha cercato di riparare coll’uso dei brevetti ad alcuni disordini che sotto l’esercizio ed il disimpegno di certe arti erano per sperimentarsi, sembra non meno sconvenevole cosa, che anche poca attenzione impiegatasi sulla conoscenza e sul discernimento degl’inconvenienti, ch’erano per seguirne su di alcune altre. E per verità, se per semplice voglia di fare ammeno dell’uso tanto degli affissi che dei brevetti, si cercasse da alcuno di noi di solamente aggiungere alle privative una condizione, colla quale al novello introduttore di un’arte, o di qualche miglioramento su di una di quelle che infra di noi esistono, si faccia avvertire che una tale facoltà gli si concede, quante volte non ci sia uno dei nostri artieri che una simil cosa stia a disimpegnare; allora io rispondo e dico che una tale condizione postasi nelle privative non è sufficiente per tenerci lontano dai molti e vari sconci che nascer ne possono. Prima di tutto stimo necessario gli affissi da porsi, non solo per la capitale, ma anche di darne dell’avviso per mezzo del gior© Il riferimento è a Carneade, filosofo greco (215-129 a.C.), sottile pensatore e grande oratore.
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nale, perché tutto il Regno, siccome di sopra dissi, ne sia inteso di una tale sovrana determinazione; altrimenti l’intrapresa e la licenza datasi all’introduttore riuscirà solamente per renderne la capitale avvisata. In secondo luogo dico, che una simile condizione nelle privative significatasi sarà buona e valevole per alcune manifatture, ma non per tutti i diversi lavori ed i differenti materiali che dagli artieri impiegar si possono, appunto come enunciato ho al disopra, tanto sulla semplice macchina della filanda del cotone, quanto su dei materiali filamentosi in luogo dei cenci per la carta. In terzo luogo merita a riflettersi che una tale condizione sta bene ogni volta che una nuova arte si va ad introdurre, ma non già per lo puro e semplice miglioramento di qualche altra, perché allora senza verun dubbio ne avvengono dei disordini. Perciocché il miglioramento altro non suppone che un’escogitazione di mezzo, onde renderne più facile e migliore l'esecuzione; ed allora i lavori di man d’opera in parallelo della macchina introdottasi vanno a languire, e per essere men solleciti, e men pronti, e per conseguente delle querele infra gli artieri a sentirsi su di quelle arti nelle quali i medesimi si trovavano a travagliare. Per l'opposto poi, quando un miglioramento succede su di cose che la man d’opera non v’ha di nulla a soffrire nel suo interno delle diverse operazioni che ormai dagli artefici hanno bisogno di porsi in pratica, allora un tale perturbamento infra gli artieri non avverrà, ed ognuno non cesserà di proseguire il suo mestiere come prima stava praticando. Ed in compruova di ciò vado ad aggiungervi qualche altro esempio. Ed in vero dandosi degli uomini i quali hanno inventato un nuovo mezzo col quale i molini da macina di grano possono in breve tempo dare più grano di frumento macinato con una data quantità d’acqua, allora io dico, che tanto al possidente dei molini, quanto agli uomini addetti alla macina, non pure apporterà nessuno nocumento,
ma ai lavoranti stessi riuscirà più a caro,
onde vedersi il loro soldo avanzato pel guadagno maggiore che va a fare il loro padrone dei molini. Una simil cosa può rinvenirsi in qualche altra arte, e come sarebbe sulla fusione dei metalli in grande, ossia di forgia. Perciocché se mai qualcheduno avendo in luoghi adatti acqua sufficiente, volesse in luogo dei mantici a soffio per lo sviluppo del fuoco e mantenimento continuato della fiamma per la fusione dei metalli, introdurvi la caduta dell’acqua che a guisa di eolipila facesse offizio, io dico, che una
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simigliante introduzione di miglioramento, non che non verrebbe ad arrecare veruno danno, ma per la maggiore quantità del materiale fuso che in breve tempo si verrebbe ad avere, e pel maggiore guadagno ancora, ne seguirebbe di più, che gli uomini addetti una volta a tirare il mantice non cesserebbero d’essere impiegati in altre operazioni, perché la quantità del materiale fuso venga più presto portato al suo stato di duttilità. Dalle quali cose si rileva che la privativa accordata su cose di miglioramento può in molte arti riuscir di danno, quante volte la man d’opera va di molto a patire; quandocché coi brevetti di cinque anni, e con qualche premio o distinzione di medaglia, si verrebbe a togliere ogni qualunque disordine e giusto lagnamento
infra gli artieri. Dall'altra parte resta a considerare che quando all’introduttore di un miglioramento su di un’arte gli si è conceduta la privativa, e con tutta la condizione postavi, ancorché da altri artieri non si stia facendo una simil cosa, con tutto ciò io dico che né
tampoco una tale condizione è sufficiente. Primieramente, perché può essere la sua macchina di danno a molta man d’opera che in qualche arte dagli artieri s'impiega. In secondo luogo, che l’introduttore dirà, e con ragione, di non avere in nulla sulla man d’opera abusato, per essersi sempre valuto del solo travaglio della sua macchina. In tal caso dunque faressimo noi piuttosto sembianza di persone poco accorte, sì per non avere saputo ben calcolare i nostri interessi di privata economia, come per non avere
di più detto nella privativa, e si era, che quantunque una simil cosa non si stia facendo da altri artieri, pur nondimeno, che la sua introduzione non sia per apportare ancora verun danno alla man d’opera di alcuni altri artefici. Ed allora la privativa in tal guisa condizionata non deve mai i pochi anni oltrepassare; semprecché il Re non diversamente ne determina su di un tal proposito, ed in cambio dei brevetti, che una volta reputavansi cotanto necessari; ed affine non pure di evitare, per quanto si può in varie occasioni la voce privativa, come all’udito della ragione non sempre piacevole, ma per porre delle volte dei forti baluardi ai molti e vari disordini che succeder ne potevano. Perlocché se queste ragioni sembrano convincenti in riguardo ai danni che in alcune arti la man d’opera soffrir ne potrebbe per mezzo delle privative, e non già dei brevetti, quest’istesso intender si deve ogni volta che dar luogo si voglia all'introduzione di certi mate-
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Parte seconda. Industrie e manifatture
riali di poca considerazione, che nuocer possono a qualche altra arte per lo smercio dei suoi generi di qualità niente spregevole. Ond'è, che da noi non mancherebbe d’osservarsi coll’andare del tempo di simili inconvenienti, quante volte postergato avessimo una siffatta ed importante verità. [...]
Parte terza
LA POLITICA ECONOMICA
I STRADE E COMUNICAZIONI
1. La politica governativa per strade e opere pubbliche* Le opere ed i lavori pubblici di conto, così dello Stato come delle provincie, messi nel Decennio nella dipendenza del Ministero dell’Interno, furono diretti in quell’epoca da un corpo di ponti e strade, e riceverono una non ordinaria impulsione. Il governo assegnava in ogni anno per la manutenzione e restaurazio-
ne delle strade e delle opere di conto dello Stato un fondo fisso di duc. 360 mila, di altri duc. 24 mila per la manutenzione dei lagni di Terra di Lavoro®, ed accordava inoltre fondi speciali per le nuove strade da costruirsi. Così, senza far menzione speciale della strada di Posilipo e di altre opere della capitale, furono destinati ducati 240 mila alla continuazione della strada di Calabria, la di cui traccia fu aperta fino a Tiriolo, e fu formato con decreto del 9 gennaio 1812 un altro fondo di circa duc. 70 mila annui, prodotto di una sovraimposta del 2 e mezzo per cento ai dazi doganali, per servire esclusivamente alla continuazione della strada degli Abruzzi fino al Tronto. Le provincie nel tempo stes* Da [Giuseppe Zurlo], Rapporto al Parlamento Nazionale sulla situazione del Ministero degli Affari Interni. Letto dal Ministro nel giorno 23 ottobre 1820, XIX, Opere e lavori pubblici, s.d., pp. 73-80. è I Regi Lagni, ampia zona posta alla sinistra del fiume Volturno, furono l’unica area del Mezzogiorno che, nel corso dei secoli precedenti, aveva goduto di interventi di sistemazione idraulica. Nel 1616, sotto il Viceregno del conte Lemos, fu intrapresa la costruzione di canali di bonifica, ed anche nel Decennio francese, e nella successiva Restaurazione, quest'area fu oggetto di particolari attenzioni.
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Parte terza. La politica economica
so, particolarmente le tre Puglie, Terra di Lavoro, Molise, e Ba-
silicata, impegnate a migliorare il loro commercio e la loro industria, domandarono e furono autorizzate a formare fondi considerevoli per la costruzione delle strade interne e di altre opere provinciali. Il solo ratizzo delle tre Puglie ascese a duc. 130 mila, ed i fondi straordinari che con tutt’i mezzi possibili furono riuniti, diedero un risultamento considerevole. Questi esempi influirono mirabilmente su i comuni dei Regno: non vi fu comune che non si sottomettesse a qualunque sacrificio per lo desiderio di costruirsi una strada, una fontana, o
altra opera di utilità pubblica. Furono quindi intrapresi moltissimi lavori, sia per conto dello Stato, sia per conto delle provincie e dei comuni. Dopo l’anno 1815 fu disciolto il Corpo dei Ponti e Strade. Rimase abolito il Consiglio dei Pubblici Lavori, il quale era particolarmente incaricato dell'esame dei piani di arte; rimase abolito l’alunnato e la scuola di applicazione in cui si formavano gl’ingegneri; fu pure abolito il Consiglio degli Edifizi civili della capitale. Tutto fu fuso in una direzione che fu affidata ad un direttore generale, sotto i di cui ordini furono messi pochi ingegneri, quanti furono creduti sufficienti al servizio delle opere di conto dello Stato. Per le opere di conto delle provincie fu stabilito che si sarebbero destinati, a misura del bisogno, altri ingegneri dipendenti pure dal direttor generale, ma pagati coi fondi delle provincie rispettive. Il fondo ordinario di duc. 360 mila che si spendeva per mezzo del Corpo dei Ponti e Strade fu diminuito a duc. 240 mila. Non si assegnarono altri fondi speciali, eccetto quelli che si trovavano destinati per la manutenzione dei lagni e per la costruzione della strada di Abruzzo. Fu accordata una somma per terminarsi la nuova strada del Campo detta di Capodichino. I pesi ingenti che le circostanze della guerra facevano gravitare sulla Tesoreria generale non permisero che il governo vi portasse l’attività che desiderava ardentemente nei lavori pubblici a carico dello Stato. Con questi fondi, puntualmente pagati dalla Tesoreria generale, ed impiegati con tutta la possibile diligenza, si sono manLa Puglia era divisa in 3 province: Capitanata, Terra di Bari, Terra d’Otranto, i cui capoluoghi erano rispettivamente Foggia, Bari e Lecce. b
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CISA
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I Strade e comunicazioni
29.1,
tenute le antiche strade consolari; si è proseguita vigorosamente la strada di Abruzzo, nella quale si è costruito un magnifico ponte a 25 archi sul Volturno; altri se ne stanno costruendo; si è
costruita la strada diga nel piano di cinque miglia; si è perfezionato il tratto da Sulmona a Popoli, e si è bene avanzata la costruzione dei tratti da Popoli alla piazza di Pescara, e da Pescara al Tronto, talché fra tre altri anni questa bella strada sarà interamente aperta al nostro commercio, e non rimarrà che qualche ponte a costruire. Si è continuata la costruzione della strada di Calabria da Ponte Virtù a Cosenza, e si è restaurata la traccia di
Tiriolo; si è perfezionata la bella strada di Capodichino, e si è spinta verso il suo termine quella di Capodimonte. Se il governo di S.M. non ha potuto dare per le difficili circostanze della tesoreria una maggiore impulsione alle opere pubbliche di conto dello Stato, nulla però ha tralasciato per sostenere lo spirito pubblico delle provincie e dei comuni, diretto generalmente ad accelerare i progressi della industria, del commercio, e della civilizzazione, mediante la costruzione di nuove strade e di altre opere pubbliche provinciali e comunali. Cominciò dal garantire alla nazione la inviolabità dei fondi a ciò destinati dalle provincie, ordinando che fossero riuniti in casse particolari, indipendenti dalla tesoreria, ed amministrati da deputazioni e cassieri provinciali nominati dal Consiglio generale. [...] Indi ad oggetto d’ispirare maggior fiducia alle provincie, ordinò che i fondi stessi della tesoreria addetti alle strade fossero pure amministrati dalle deputazioni provinciali. Venne a separare in tal modo i doveri della direzione dei Ponti e Strade da quelli della deputazione provinciale; lasciò alla prima la formazione ed esecuzione dei piani d’arte, attribuendo alla seconda l’amministrazione dei fondi e la sopravvigilanza per la esecuzione dei lavori. Prescrisse infine che le opere comunali fossero eseguite sotto la direzione immediata dell’autorità municipale o di una deputazione locale, riservando all’Intendenza la sola approvazione dei progetti e delle perizie finali di esecuzione. Si permise all’autorità municipale di richiedere il concorso della direzione dei Ponti e Strade, quante volte l’importanza dell’opera lo esigesse. È risultato da questo che i fondi sono stati aumentati dai consigli provinciali di anno in anno; i lavori han progredito proVD ai e EE
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238
Parte terza. La politica economica
attività, tra pochi altri anni ogni provincia avrà tutte le sue strade traverse. Nel 1815 non tutte le provincie avevano formato un fondo per le opere pubbliche. Quelle di Puglia ne avevano votato uno ben considerevole, e molti fondi speciali esistevano, ma si pagava mal volentieri, attese le difficoltà di ritirar le somme dalle casse della tesoreria. Ma per i fondi provinciali propriamente detti, in quell’anno si trovavano appena assegnati alle opere pubbliche duc. 54 mila circa. La fiducia ispirata dalle novelle istituzioni di S.M. fece concorrere alle opere pubbliche tutte le provincie; ed i fondi sono stati aumentati progressivamente in ogni anno, talché nel 1816 ascendevano a circa ducati 375 mila, e nell’anno
corrente ammontano a circa ducati 605 mila. [...] Ecco le principali opere a cui ciascuna provincia ha impiegato e dirige i suoi fondi. Napoli. Strada dallo Sperone ad Ottaviano: è già rotabile fino a Somma. Strada della Fraolara: perfezionata. Traversa fra le consolari di Caserta e Benevento: si è aperta la traccia da Caivano al Ponte di Casella.
Terra di Lavoro. Strada di Sora e Ceprano lunga miglia 56: è perfezionata fino all'Isola di Sora, il ponte sulla Melfa è fondato ed è in costruzione l’altro sulla Solfatara; strada Trifico lunga miglia 7 e tre quarti: interamente restaurata; strada da Caserta ad Alife: portata alla sua perfezione; strada da Maddaloni all’Epitaffio della Schiava lunga miglia 9 e tre quarti: quasi perfezionata. Strada sannitica in questa provincia lunga 15 miglia: perfezionata. Palazzo dell’Intendenza in Caserta. Locale dei tribunali, dell’archivio suppletorio, e carcere centrale in S. Maria. L’opera del carcere sarà di una magnificenza degna dei lumi del secolo, e potrà essere terminata in due anni. II Abruzzo Ulteriore. Strada da Popoli ad Aquila lunga 25 miglia: è già rotabile e manca poco alla sua perfezione.
I Abruzzo Ulteriore. Strada da Teramo a Giulia lunga miglia 18: vi si travagliava in proporzione dei fondi. Abruzzo Citeriore. Locale per lo collegio: è quasi completo e tra pochi mesi può essere aperto alla pubblica istruzione. Strada di Palena ed Ortona: vi si travaglia in proporzione dei fondi.
I. Strade e comunicazioni
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Molise. Strada sannitica lunga miglia 32: rotabile già fino a Campobasso, e continuata per 3 miglia verso Termoli. Ponte sul Biferno; ponte di Pentre. Locali dell’Intendenza, dei tribunali, collegio, prigioni centrali. Principato Ulteriore. Palazzo dell’Intendenza: quasi terminato. Collegio: si costruisce di pianta. Strada dei due Principati lunga 7 miglia: costruita. Strada di Melfi: costruita per 7 miglia.
Capitanata. Strada da Tappia a Cerignola lunga 20 miglia: terminata. Altra da Foggia a Lucera: costruiti due tratti di 5 miglia, e tutta restaurata. Altra da Foggia a S. Severo lunga 17 miglia: costruita per circa 5 miglia, e fondato il ponte sulla Motta. Traversa dalla strada Egnazia alla consolare: terminata. Bonifiche per l’arginazione dei torrenti. Carcere centrale in Foggia: in costruzione. Terra di Bari. Locali della Intendenza, dei tribunali, del liceo,
delle prigioni. Strada dall’Ofanto alle saline: quasi perfezionata. Altra da Bari a Gioia fino al confine della provincia lunga miglia 25: terminata. Altra da Bari ad Altamura lunga miglia 29: in costruzione. Altra mediterranea, autorizzata da Canosa al confine
della provincia.
Terra d’Otranto. Strada da Gioia a Taranto lunga 21 miglia: se ne sono costruite 20. Nella sua continuazione fino a Lecce si sono costruite altre miglia 4 ed un quarto, e sei ponti da Lecce a Campi. Locale dell’Intendenza: molto avanzato, ed altri locali provinciali. Strade da Lecce a Gallipoli, e da Lecce a Brindisi: autorizzate. Principato Citeriore. Locale dell’Intendenza: costruito di pianta, quasi al termine. Prigioni centrali. Strada dei due Principati lunga 15 miglia: prossima al suo termine. Strada dalle Camerelle a Mercato: perfezionata per miglia 1 1/6. Strada della costiera di Amalfi: costruita fino a Minuri. Ponte di legno sul Sele: terminato. Bonifica del Vallo di Diano: molto avanzata. Strada del Vallo: autorizzata e prossima ad intraprendersi.
Basilicata. Locali dell’Intendenza e dei tribunali: terminati. Prigioni: quasi terminate, occupate già dai detenuti. Strada da Vietri a Potenza lunga miglia 24: terminata; si va a fondare il ponte che manca sul Marmo. Continuazione verso Atella lunga
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Parte terza. La politica economica
miglia 24 3/4: costruite circa 5 miglia e due ponticelli. Strada di Melfi lunga miglia 18 3/4: se ne sono perfezionate miglia 5. Strada da Potenza a Matera, e da Potenza alla consolare di Calabria: autorizzate, per intraprendersi dopo la strada di Atella.
Calabria Citeriore. Locali della Intendenza e di altri stabili menti provinciali. Strada del Cetraro: si sta riattando per renderla cavalcabile. Traversa per aprire la comunicazione tra le marine di levante e di ponente: autorizzate, e da intraprendersi. Albergo nel Vallo di Cosenza: prossimo al suo termine. II Calabria Ulteriore. Locali provinciali. Ponti sul Metramo e sul Rieto. I Calabria Ulteriore. Locali provinciali. Strada da Reggio a Scilla; altra di S. Jeiunio. Il governo di S.M. sentendo la giustizia di fissare un termine ai sacrifizi che le provincie s’ imponevano per la costruzione delle strade provinciali, e volendo vie maggiormente infervorare le popolazioni a portarle a fine al più presto possibile, emise un real decreto il 25 settembre 1818, col quale dichiarò che si sarebbe provveduto a spese dello Stato alla costruzione della strada di Calabria fino a Reggio, di quella di Puglia fino ad Otranto, della strada Egnazia, ed a tutte le bonifiche del Regno; e che di anno in anno, a misura delle risorse delle finanze, si sarebbe assegnato, oltre i fondi attualmente addetti a ponti e strade, un fondo speciale per ciascuna delle indicate opere pubbliche. Ordinò in oltre che dal 1° gennaio 1820 in poi fossero consegnate alla Direzion generale e mantenute coi fondi della tesoreria, tutte le strade provinciali, tostoché saran terminate e messe in istato di consegna. Così le provincie, conoscendo le strade principali che il governo dovrà aprire, potranno con maggiore fiducia intraprendere la costruzione delle loro traverse; e, liberate dal peso della manutenzione di queste, potranno più facilmente e con maggior attività condurre a termine tutte le altre che han progettate e che crederanno necessarie al di loro commercio. Per effetto di questo decreto le consegne delle strade provinciali alla Direzione generale cominciano ad operarsi in questo anno. Analogamente al decreto stesso, con altro decreto del 16 maggio 1820, si è accordato per la strada di Calabria un fondo speciale di ducati 250 mila, pagabile 50 mila in questo anno, ed
I. Strade e comunicazioni
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il resto nei due anni successivi. Dal 1823 in poi si è fissato un fondo di ducati 80 mila l’anno per lo compimento della strada fino a Reggio. L’aumento progressivo dei lavori pubblici fece sentire il bisogno di ristabilirsi presso la Direzione generale la scuola di applicazione per formare degl’ingegneri. La scuola fu quindi riaperta nei principi del 1819, ed è in attività. La Direzione generale è suscettibile forse di altri miglioramenti. Alcuni ne esigerà la mole più imponente dei lavori che la nazione potrà intraprendere. Altri ne sono stati richiesti da vari consigli e deputazioni provinciali. Le deputazioni han reclamato spesso contro gl’ingegneri. Costoro dipendono esclusivamente dal direttor generale, mentre sono pagati dalle provincie, e sono addetti alle opere provinciali. Le deputazioni li vorrebbero più dipendenti da esse, e pretendono di prendere una parte più diretta nei lavori e negli appalti. Converrà dunque meglio definire i rapporti tra le deputazioni provinciali e la Direzione generale. Su di ciò verrà sottomessa al Parlamento una proposizione particolare. Opere pubbliche comunali. Mossa una nobile emulazione tra le provincie ed i comuni, questi, a malgrado degl’ingenti pesi di cui sono stati gravati [...], non han tralasciato di fare in ogni anno sforzi straordinari per promuovere le opere pubbliche comunali. Questo fervore, ispirato nel 1810 all’epoca della formazione dei primi stati discussi, è cresciuto progressivamente di anno in anno. I comuni in massa hanno assegnati rare volte alle opere pubbliche meno di mezzo milione. Nel 1818, nel formarsi gli stati discussi quinquennali, vi assegnarono circa ducati 830 mila. Ma tutti questi fondi sono stati impiegati alla loro destinazione con quella stessa religiosità che si è usata pei fondi addetti alle opere pubbliche provinciali? Infelicemente questo non è avvenuto da per tutto, anzi le speranze delle popolazioni sono rimaste più volte deluse. I pesi straordinari imposti ai comuni, e le anticipazioni per le sussistenze ed i trasporti militari [...], ora rendendo difficile la esazione dei dazi e minorando in tal modo la rendita fissata sullo stato discusso, ora votando del tutto le casse comunali, cagionavano un disquilibrio tale nella economia
dei comuni, che per ripararvi si doveva ricorrere ad inversioni, le
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quali cadevano quasi sempre su i fondi addetti alle opere pubbliche. Nulladimeno molte opere comunali sono state intraprese ed in gran parte condotte a termine. Se si getta uno sguardo sulla sola provincia di Bari, si troverà che i principali comuni hanno aperto la comunicazione tra essi per mezzo di strade rotabili, e sono andati ad incontrare le strade provinciali. Le utili riforme che potrà portare il Parlamento nell’amministrazione del patrimonio comunale, e soprattutto l'abolizione degl’imprestiti all’amministrazione militare e la soppressione di tante spese estranee al governo municipale, richiameranno i comuni a nuova vita, ed assicureranno alle popolazioni la loro prosperità. [...]
2. Strade e comunicazioni nelle province abruzzesi: prospettive di crescita* [...] A precisare con decisi dettagli il posto materiale che noi occupiamo in Italia e nel nostro Regno, sono d’avviso che non v’ha in tutta questa parte d'Europa una contrada, che metta capo a tanti diversi luoghi, che si faccia centro a tante provincie, come la nostra, e la quale abbia tante strade che come raggi si divergono nella sua circonferenza al di fuori dei suoi confini. Questa nostra città potrebbe contare dalle sue porte, al pari di Roma, i princìpi di altrettante strade consolari e magnifiche, come quella nei suoi più bei giorni del dominio del mondo. Posta come in prospetto triangolare, ella vede a sé innanzi le prime capitali d’Italia, Napoli, Roma e Firenze. Gran disgrazia però di questo Regno, l’ultimo ad imitare l’esempio degli altri Stati italiani nella costruzione di strade, e di ponti. Allorché dai duchi di Lombardia, da quelli di Toscana, e più di tutti dai Romani pontefici si costruivano ampie vie e magnifiche, ed argini, e ponti; governati noi dai Viceré, eravamo nell’infanzia della natura. Tra le provincie e la capitale vi passavano ostacoli insormoniabili; l'altrui virtuoso esempio non ci scuoteva; il viaggio di Napoli per le pro* Da Giovan Battista Micheletti, Merzoria su le strade della Provincia di Aquila, manoscritto datato 1 luglio 1817, in Archivio di Stato dell’ Aquila, Intendenza, serie I, cat. VII, busta 1132/5.
I Strade e comunicazioni
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vincie di Abruzzo e per le Calabrie, sembrava un pericoloso, lungo e stentato pellegrinaggio; i napolitani credeansi segregati dalle provincie da un immenso intervallo; i provinciali più arditi, e dalla necessità spronati, si recavano talvolta, ma con mortali disagi alla dominante del Regno, illanguidito e nell’inerzia giacente, restando a noi aperto un raggio di un più culto e frequentato commercio con Roma e con la Toscana, con cui si aveano relazioni più sicure, meno incomode, e più lucrose. [...]
Facciamoci dunque ad esaminare più da vicino la posizione di questa nostra città in riguardo alla sua provincia medesima ed alle confinanti, ed al particolare dettaglio delle sue strade, misurate tanto colla carta militare d’Italia, che con i più moderni itinerari di essa parte di Europa. Centro l'Aquila e suoi distretti e circondari, più estesamente alle provincie del Regno, e dello Stato del Papa, confina a levante colle provincie di Chieti e di Contado di Molise; a settentrione con quella di Teramo; a mezzo-
giorno con quella di Terra di Lavoro, e per mezzo di molte strade si va alle medesime; ma si riducano pure a sole quattro; cinque ne ha collo Stato del Papa, limitandoci solo alle più battute e frequentate, senza contar quelle che si fanno dai corrieri, da pedoni, ed anche da animali da soma tanto per abbreviare, che per altre speculazioni di traffico. Le medesime sono le seguenti. La strada di Acumoli per Ascoli a settentrione. La strada di Norcia al Ponte della Trave a ponente. La strada di Leonessa a Spoleto a ponente. La strada di Rieti, che piega alla quarta ...° tra ponente e mezzogiorno, e la quale si divide in due, portando a Roma ed a Terni per Spoleto. La strada di Roma a mezzogiorno per i Marsi e Tivoli. Eccoci dunque in mezzo a nove strade che potrebbero ridursi tutte a vie consolari, come un tempo alcune lo furono, e lo sarebbero ancora con poca spesa. Tutte divergenti da questa città, prolungandone i raggi, aprirebbero una comunicazione vantagiosissima alle altre due provincie di Abruzzo, al Contado di Molise, a Terra di Lavoro, alla Puglia, non che alle popolazioni del Lazio, della Sabina, dell'Umbria e del Piceno, formando la nostra provincia un fronte estesissimo di confine colle medesime; sebbene ? Termine incomprensibile
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Parte terza. La politica economica
da un ingegnere di grandi vedute? si facesse il progetto di riunire i due mari col mezzo di chiuse e di canali crescenti e decrescenti,
come si osserva in più luoghi dell’alta Italia, e con più di estensione e magnificenza in Francia, facendone centro il lago Fucino, prendendone per l’Adriatico il fiume Aterno, o Pescara da presso Sulmona e Popoli, ed il Garigliano per la valle di Roveto al Mediterraneo come lacci di comunicazione, nondimeno se questo progetto offre seri ostacoli pel dispendio, può ottenersi l'intento per terra se non per acqua, quando una comoda strada rotabile si apra appunto da questa città al Piceno, e così tagliare in mezzo questa parte della penisola che ora forma il Regno di Napoli. Venendo ora alla misura delle distanze delle cennate strade, accompagnata da brevi descrizioni, e del loro distendimento orizzontale, e di altro che le concerne, si vedrà chiaro quanto le medesime, se non tutte rotabili, ma tali rese almeno le principali, agevolerebbero gl’interessi nostri non solo, ma delle altre popolazioni italiane, e porgerebbero comodo maggiore, brevità, e diletto a tutti i viaggiatori in generale. Facciamo capo dalla dominante del nostro Regno a questa città; la distanza che vi passa per l’attuale strada consolare è di miglia 134. Se da questa città si vuole andare in Firenze per la via di Roma, vi sono miglia 235. Se si vuole andare in essa capitale della Toscana da questa città per la via di Leonessa, Spoleto, Perugia, Cortona, ed Arezzo, non vi sono che 157 miglia, ecco adunque un risparmio nientemeno che di miglia 78. Se da questa città istessa si vuole andare in Firenze per la via attualmente rotabile da Rieti, Terni, Spoleto, Perugia, ed Arez-
zo, vi sono miglia 171, ecco un risparmio di miglia 64. Evitando adunque il lungo giro di Roma per la Toscana, sia nella prima indicata strada che nella seconda, si abbreviano circa due giornate di cammino. Se da Napoli poi, invece dell’attuale strada di Roma, Viterbo e Radicofani per Firenze, si volesse preferire la nostra per Leo> Il riferimento è, molto probabilmente a C. Afan de Rivera, vedi infra, pp. 258-266. Sullo stesso argomento cfr. C. Lippi, Programma per l'unione dell’Adriatico col Mediterraneo, Napoli 1820.
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nessa, Perugia, Arezzo, si avrebbe il risparmio di tredici miglia di
cammino. L’attuale strada che si batte dai nostri abruzzesi da questa città a Roma per la via di Rieti sono miglia 81. Coloro che prendono la via vecchia, detta corrottamente la Mentana, dall’antica strada consolare Salaria che passava per Nomento, ed evitano il piano di Correse, passando vicino Montelibretto, abbreviano parecchie miglia. Per la via poi della Marsica da questa città a Roma non vi sono che miglia 68; ecco un risparmio di miglia 13, e più breve ancora è la strada che colà conduce per la via del Cicolano, risecando circa altre otto miglia. Ecco adunque come queste due capitali d’Italia si accoste-
rebbero di molto a noi se le attuali strade che vi conducono si rendessero rotabili; ma il vantaggio non sarebbe ristretto solo nel risparmio delle distanze. Si eviterebbero d’està le paludi pontine ed i piani dell’agro romano, egualmente malsani in quella stagione, e dove per lunghi tratti di cammino non si veggono che arse e solitarie campagne, prive di alberi, di paesi, e di osterie; dove che per le nostre strade s’incontrano ad ogni passo villagi, osterie, case rurali, limpide e fresche acque, tanto utili e vantaggiose per gli animali da tiro e per ogni riguardo giovevoli ai viaggiatori; e quel che più è apprezzabile si cammina sempre sotto un cielo purissimo e sotto un’aria ventilata, fresca e salutifera. Allorché tra la nostra corte ed i francesi, dopo la prima invasione nel Regno, si aprirono le trattative di pace in Firenze, il corriere di gabinetto che da Napoli si spediva colà, avvertito di questa nostra strada, dopo averla fatta la prima fiata, non mai più la lasciò
per molte volte che si portò in quella dominante della Toscana, e maravigliavasi molto come una strada così comoda, breve, e
dilettevole si trascurava, né si pensava a renderla rotabile in preferenza di quella da Roma a Firenze; evitandosi altresì la montagna di Radicofani ed alcuni scabrosi passi ai confini di qua da Acquapendente tuttoché vi sia la posta; trascurando i luoghi più ameni e dilettevoli della Toscana, costeggiando il Trasimeno sin là per le belle campagne e paesi del Cortonese e di Arezzo. Prendendo dunque, come lo è, la capitale della Toscana, e per la sua posizione, e per i suoi pregi, per una città delle più frequentate d’Italia dopo Bologna, volendosi i viaggiatori dirigere di colà al Regno di Napoli, chi non ha interesse di recarsi in Ro-
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Parte terza. La politica economica
ma certamente preferirebbe questa nostra strada all’attuale per i tanti cennati vantaggi che avrebbe in questa, di aria migliore, più sicura, più frequentata e più breve. La distanza che vi è da questa città ad Ancona per Civitareale e Cascia, che si fa frequentemente dai nostri vaticali arischiesi”, e dai nostri mercanti nella fiera di Sinigallia, è di miglia 111,
calando al Ponte della Trave, dove s'incontra la grande strada postale di Foligno per Loreto e per Roma. Volendosi andare ad Ancona per Ascoli dalla via dell’ Amatrice, vi sarebbero miglia 31 di più di lunghezza, cioè miglia 142. Qualora si preferisse questa all’altra il nostro governo per giugnere ai confini dello Stato del Papa dovrebbe costruire una linea di strada della lunghezza di miglia 44. Facendosi quella di Civita di Cascia, fino all’osteria ove sono i confini, la sua lunghezza sarebbe di miglia 32, ecco dunque il risparmio di dodici miglia di lavoro, oltre la brevità della linea. Si avrebbe con quest’ultima un altro vantaggio, poiché servirebbe la metà anche per quella di Leonessa, tracciandosi la linea e direzione seguente. Da questa città a Cagnano, a Marano, a Pellescritta, a Bacugno, queste tre ultime ville del circondario di Monreale, evitando la gran calata tra Fano e Civitareale, da quel punto si distacca il braccio della strada che conduce a Leonessa, che formerebbe quasi la sua metà della salita. Sebbene la detta strada di Leonessa non sia in progetto, sebbene sia la più breve di tutte, nondimeno solo per notizia passeggiera ne proseguirò i dettagli. Da essa piccola ma elegante città, dopo poche miglia si giunge al passo detto Salto del cieco, ove sono i confini dello Stato del Papa, che vi tiene un passo di dogana. Di là si cala in Ferentillo sul fiume Nera, le di cui acque vanno ad unirsi al nostro Velino alla famosa caduta delle Marmore, che offre quel grandioso spettacolo della natura e dell’arte, e dove si conducono tutti i viaggiatori di Europa e gli artisti più celebri di prospettiva campestre. Di là presso l’apitaffio detto di Papa Urbano, s'incontra la via postale che vicino porta a Spoleto. Così si evita la calata di Papigno presso Terni, si evita la salita e calata della montagna di Somma tra Terni e Spoleto, e si ha la lunghezza di sole miglia 48, mentre per la via di Rieti alla stessa città di Spoleto vi è la distanza di miglia ° Commercianti di Arischia, località vicino l’Aquila.
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65, ed ecco come oltre gl’indicati vantaggi in così breve tragitto, si avrebbe un risparmio di nientemeno che 17 miglia. Vi è di più a riflettere, tanto per questa che per tutte le altre nostre strade non rotabili, che la loro distanza si misura sull’attuale distendimento; formate le medesime sul suolo naturale, senza alcun aiuto di arte, col solo attrito delle bestie da soma o dei pedoni, e di qualche branco di armenti, sono perciò oltremodo tortuose ed oblique; or quando le medesime si soggettassero a linee rette, a tagli di monti, a riempimenti, diverrebbero certamente più brevi. Il Salto del Cieco, che presenta un aspetto spaventevole, po-
trebbe agevolmente evitarsi, o calando la strada nella valle a destra, o ripiegandola a sinistra per discendere a Ferentillo, e quello sarebbe l’unico passo dispendioso, e del quale non toccherebbe che circa un miglio alla nostra corte, ed il resto al Papa, fino alla strada postale, come si è detto di Spoleto; ma disgraziatamente questa linea di strada, preferibile a tutte le altre verso i confini pontifici, non è in progetto. Fra le due indicate strade adunque di Cascia e di Rieti, resta a vedersi la preferenza nella costruzione da farsene. Dal già detto sembra la questione risoluta in favore di quella di Rieti; essa ci apre più vasti rapporti, più estese comunicazioni coll’estero che non sia quella della sola Marca Anconitana per Cascia. Sebbene con giro più lungo, può da Rieti andarsi colà; viceversa non è lo stesso. In Rieti ci si parano innanzi due ampie e centrali strade d’Italia; a destra si prende quella di Roma, a sinistra quella di Terni; da colà si può andare anche a Roma colla via postale per Otricoli, portando qualche poche di miglia di più di questo sia da Rieti per Correse. Proseguendo a Spoleto, e quindi a Foligno, ecco da questa città si diramano, oltre le vie provinciali che conducono a Urbino, a Todi, a Iesi, e ad altre città dello Stato proprio, tre principali strade consolari, e sono: una per la Toscana andando a Perugia; quella detta del Furlo o di Nocera, che quasi a linea retta, evitando il lungo giro della Marca di Ancona per Candiano e Fossombrone, va a riuscire a Fano; e la terza, la stra-
da di Loreto ed Ancona per Serravalle e Ponte della Trave. Diamo ora un rapido sguardo sul commercio interno che abbiamo colle confinanti provincie del Regno e quindi coll’estero, per vedere quale rivoluzione benefica in tal ramo d’umana industria produrrebbero per noi le divisate due strade. Sebbene da questa nostra provincia diansi in cambio a quelle
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di Chieti e Teramo molti capi di roba, nondimeno facendo un calcolo approssimativo, quelle col solo olio fanno pendere a loro vantaggio la bilancia del commercio. Ciò che noi diamo si restringe a legumi, e più di tutto fagiuoli, formaggi di più sorte e butiri, castagne in gran quantità, qualche poca di carne fresca, carne porcina salata in mortadelle, pochi animali come cavalli e muli, frutta d’inverno, come pera e mela, cipolle, agli, carote, e
qualche poche di mandorle, e salumi alcune volte.
Oltre poi a commestibili, si mandano colà da noi i seguenti generi: canape e lino, lana, carta da scrivere, candele di sego, candele di cera in poca quantità, abiti vecchi di lana, canestri di giunchi e scope. Noi riceviamo in cambio dalle medesime olio, vino, aceto, pesce di mare, animali neri, fichi freschi, moscatello ed altri frutti di està, uva nera per colorire i nostri vini, fichi secchi. Oltre i
commestibili, sapone e piatteria dei Castelli. Il nostro commercio è più ampio e più attivo colla provincia di Teramo che con quella di Chieti; la maggior parte dell’olio ci viene di là, come i frutti di està, ed il vino di Tossicia. Noi di qua a pochi anni ci esenteremo di riceverne il vino, poiché tanto nei contorni di questa città, ma più di tutto da Capestrano e dalla vallata di Sulmona, Popoli, Raiano, Vittorito, si è ripresa un’attività sorprendente sulla coltura delle vigne; ci esenteremo ancora dalle diverse uve nere, poiché in tutti questi luoghi si piantano ora le medesime, essendosi riconosciuto in agricoltura ed in chimica che queste ultime danno un vino più perfetto, più generoso, ed alla vista più grato. Sono ben tarde le nostre speranze riguardo all’olio, poiché, sebbene ora si facciano estese piantagioni in vari luoghi della provincia di questa utile pianta, non vi ha un sì rapido incremento come nel resto dell'Abruzzo; nondimeno però si andrà sempre scemando per questo ramo il nostro commercio passivo; noi aumentiamo altresì di anno in anno nella piantagione della pera e mela d’inverno di qualità eccellenti. Un nuovo picciolo tralcio di commercio si è aperto da pochissimi anni tra questa provincia e quella di Terra di Lavoro per la via di Sora. E sebbene nella contrada dei Marsi sia più antico, ora si è esteso fino a questa città, recandoci da colà quantità di aranci, carciofi, e primizie di frutti di primavera. In questa nostra città si compra a contanti; nella Marsicana si cambia ora con vantaggio colle patate; quale nuovo dono della terra, verrà col tempo a
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formare un capo di commercio attivo per tutta la provincia oltre il proprio consumo. I napolitani prendono da noi qualche poco di zafferano, olio di noce, seme di lino, mandorle; diamo ai pugliesi degli animali, specialmente i muli. Ma il nostro commercio coll’estero è per noi quasi tutto attivo e vantaggioso, e consiste in capi assai significanti ed estesi. Animali, come giovenchi, agnelli, cavalli, e muli; lane bianche gentili, bigie e nere; pelli agnelline, di capretto, di pecora, e cuoi di vaccine e buoi; mandorle e zafferano. Quando si avessero strade rotabili potrebbero con vantaggio porsi in commercio molti
dei nostri legnami come faggio, quercia, castagno, e più di tutto eccellente noce e ceraso da poter servire a qualunque mobilio di lusso e di moda. Se riceviamo gli animali neri dalle provincie di Teramo e Chieti, noi ne diamo allo Stato Romano del Cicolano,
come ancora somministriamo qualche poco di grano in alcuni anni allo stesso. Il zafferano si vende nello Stato Romano, e specialmente in Roma, nella Toscana a Livorno, donde si spedisce in Francia, nella Lombardia, in Genova, in Venezia, in Trieste, e Fiume per la Germania. Questa produzione sembra una benefica privativa data dalla Provvidenza a questa nostra provincia; invano si è tentato opporle il croco di Spagna, il carbano in Francia; invano dalle accademie agronome, da esperienze di particolari speculatori, si è cercato introdurlo altrove; il nostro zafferano è sempre rimasto superiore, e dopo le vicende del commercio generale di Europa, dopo le scoperte dell’Indie e del Capo di Buonasperanza, dopo il grande aumento delle droghe indiane, la nostra indigena non ha perduto mai di pregio e di prezzo e si vende ancora con vantaggio, sempre con anticipazioni e ripetute richieste dalle citate estere piazze. Le nostre lane si mandano in Toscana ed in Livorno, così è
delle bossette o pelli e cuoi; i giovenchi nelle due Marche di Ascoli e di Ancona. Noi non riceviamo in cambio che dallo Stato Romano che qualche poco di olio e di vino per lo Stato più di tutto di Leonessa, paese freddo e privo perciò di olivi e di vigne; onde quei naturali sono obbligati provvederselo vicino Ferentillo e Spoleto. Riceviamo da Roma salumi, pepe, caffè, e zucchero, sebbene questo si rimanda da noi colà convertito in confetture. Sulmona poi questo commercio lo fa con Napoli. Abbiamo anche da Roma quantità di sola; i vitelli ci vengono ora da Chieti e da città di Penne; taluni li acquistano dalla Germania grezzi, e quindi li
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conciano e tingono nelle dette città. Roma ci manda ancora castorini, peloni, e cappelli; anche da Spoleto abbiamo panni di lana, cappelli, e peloni; ma dacché tanto in questa città che in Sulmona si sono poste buone fabbriche di essi cappelli, e dacché Napoli ha migliorati i suoi, per questa parte si è minorato il nostro commercio passivo.
Se ci facciamo adunque a considerare ove più transitano i generi e commestibili sia di esportazione che d’importazione per le due cennate strade di Rieti o del Piceno da questa città e dalle confinanti provincie, si resta indecisi dove sia maggior concorrenza; non è così però riguardo al passaggio dei viaggiatori e trafficanti; la strada di Rieti supera per tale veduta di gran lunga quella del Piceno. Dalla cennata indicazione dei luoghi, cominciando da Bologna, si vede chiaro che la maggiore affluenza è per le strade di Foligno e per Roma, che tutte si riuniscono per noi al varco della Sabina in Rieti. La sola caduta della Marmora richiama in Terni tutti i più culti viaggiatori dell'intera Europa. Questo varco è stato sempre frequentatissimo fin dalla più rimota antichità, e per esso, sebbene con disagio, si è soltanto viaggiato colla ruota; ciò induce un’altra seria riflessione a farsi, che
dove la strada del Piceno porterebbe grave spesa, e per essere più lunga di circa dieci miglia, e perché dee tutta rendersi atta alla ruota, mentre l’attuale strada di Rieti può a quest’uso accomodarsi in tre soli mesi, e con poco dispendio, quante volte per ora si agevolassero alcuni passi più incomodi e pericolosi, come specialmente sarebbe la calata d’Introdoco e quella di Cittaducale. Or chi mai ignora quali vantaggi, quali ricchezze vadansi ad accumulare nelle città di passaggio, come diverrebbe allora 1Aquila, che in Italia sarebbe l’ultima a riunire in sé tante diverse strade che verrebbero ad imboccare nel Regno? Confermiamolo con un solo esempio. La Marca di Loreto può dirsi la gioia più stimabile di tutto lo Stato della Chiesa; fertile generalmente, ben coltivata ed industriosa, nondimeno questa amena contrada era decaduta in un mortale languore allorché le guerre e le passate politiche vicende di Europa impedirono i viaggiatori od i divoti di recarsi a quel famoso santuario; cessato questo ostacolo, rianimato il concorso, eccola risorgere quasi con maggiore incanto
dalla sua decadenza in breve periodo di tempo. Noi stessi in questa provincia ne risentimmo di riverbero i dannosi colpi, allorché da questa parte si minorò la concorrenza nelle nostre fiere, più di
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tutto all’acquisto degli animali, ed in iscelta per i giovenchi. Resta perciò ben provato, senza addurre altri esempi, che il passaggio dei forestieri per la città vi tiene animate le arti, l’agricoltura, ed il commercio. Questa sicura ed ampia risorsa poco si calcola da chi riferisce il comodo delle strade al solo trasporto delle derrate; or per la posizione locale, se per alcuna città non si ha riguardo che soltanto a questo vantaggio, per altre viene a riunirsi e l’uno, e l’altro, come sarebbe per noi; e volendosi dai popoli confinanti e dai forestieri entrare nel Regno, quando non siavi per costoro qualche interesse per la sola città di Roma, per gli accennati vantaggi, tutti preferirebbero in iscelta la nuova strada, poiché ora si tragitta quella per necessità, non essendovene altra rotabile, ed a vicenda tali vantaggi si sperimenterebbero altresì dai nostri nazionali per uscire del Regno. Questo varco di Rieti, ad onta di qualunque rigido inverno, non mai si è negato al passaggio anche nell’attuale posizione di essa strada. Quella di Cascia resta chiusa nei mesi d’inverno. Ecco dunque brevemente risoluto il dubbio a quale doversi dare la preferenza nella nuova costruzione delle due strade, ripetendo sempre non essere della prudenza imprendere pria una strada tutta nuova, più lunga, più dispendiosa, e perciò necessitando assai tempo a compirla, e, trattando per attendere questo vantaggio, privarci del comodo di quella di Rieti che già si passa colla ruota, e la quale con poca spesa si potrebbe agevolar tutta al bramato scopo, aprendo il più vasto campo di rapporti commerciali e di lucroso passaggio di forestieri. [...]
3. Progetti di costruzione e scarsità di fondi in Basilicata* [...] Questa possano vicende
L'agricoltura e le arti sono appoggiate al commercio. provincia bagnata da due mari non ha però dei porti che animarla a crearsi una marina commerciale. Il giro e le dei secoli le hanno rapito il porto di Siri che formava la
* Da Giuseppe Ceva Grimaldi, Discorso pronunziato all’apertura del Consiglio Provinciale nel dì 12 ottobre 1817 in Potenza, Tipografia Potentina, Potenza s.d.,
pp. 18-25.
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ricchezza della vicina Eraclea'. Profittando delle sue spiagge per la estrazione dei suoi prodotti nella bella stagione, ella è invitata dalla sua posizione istessa ad un commercio interno di cui potrebbe avere nelle mani la chiave. Ecco la necessità di aprirsi delle facili comunicazioni con le provincie che la circondano. I voti suoi sono in parte compiuti. La strada consolare da Vietri a Potenza è già aperta. Le prime vetture, i primi carri di
trasporto che si videro non ha guari giungere inaspettati in questa città, cagionarono una gioia che non è facile descriversi, e che si rinnova ancora ogni giorno che questi arrivi si moltiplicano. Il corrente mese sarà impiegato a covrire di minuto brecciame i nuovi lavori, ed il cammino sarà così assicurato stabilmente nel-
l’inverno. Ma il compimento finale di questa strada, e la costruzione del ponte sul torrente Marmo esige nuovi e grandi sacrifiviali Un decreto reale del 12 marzo 1816 fissa l’ordine con cui saranno eseguite le opere pubbliche in Basilicata. Immediatamente dopo il tratto da Vietri a Potenza, segue quello da Potenza ad Atella, secondo il piano che se ne trova già formato. Sembra utile che nell’anno prossimo si travagli anche contemporaneamente a questa seconda strada, affinché le speranze della provincia siano sempreppiù animate. E tanto maggiore l’importanza e la necessità di proseguire questi lavori, perché, trovandosi già costruite due miglia e tracciato un miglio, l’ulteriore abbandono farebbe perdere il frutto delle somme già spese. I lavori della nuova strada di Melfi che, principiando all’Ofanto deve per Melfi transitare a Venosa, si proseguono e saranno spinti innanzi più energicamente con la riscossione dei residui fondi assegnati che sarà ultimata in questo mese.
Io non vi arresterò su i vantaggi delle altre strade già approvate, tra le quali quella che da Policoro a Maratea unendo ilJonio ed il Tirreno, formerà della Basilicata il centro del commercio del
Regno. Voi ben comprendete che fa d’uopo occuparsi prima a compiere le opere già cominciate ed approvate.
Molto meno vi progetterò altre opere pubbliche. Ogni pro-
getto si risolve in sterili tentativi quando mancano i mezzi. E pure, se dalla tomba della feudalità riviver potesse il pedaggio sotto altra forma, io potrei indicarvi delle risorse sicure per la ! Siri era lontana ventiquattro stadi da Eraclea. Strabone, lib. VI.
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costruzione nel prossimo anno di qualche ponte che ci è più urgentemente necessario. Noi dobbiamo all’alta mente di S.M. l’abolizione dei passi esistenti nel Regno, che ristagnavano da ogni parte il commercio; noi forse presentammo i primi all'Europa l’idea di una sì utile riforma. Intanto l’esperienza ha provato che alcune istituzioni giustamente proscritte per gli abusi che la vetustà rendea incurabili, potevano utilmente rivivere. La Francia ha riadottato i pedaggi; l’Italia ha seguito questo esempio. Dopo la rivoluzione si sono costruiti più bei ponti sulla Senna a spese dei privati e sotto la direzione degl’ingegneri del governo?. Un pedaggio temporaneo ne è stata la ricompensa, e questo leggiero peso (oso dirlo) sarebbe anche tra di noi di buon grado pagato, né mancherebbero degli oblatori a tale intrapresa. Io indicherei allora come il più urgente il ponte sul torrente Marmo, rimandato nel progetto delle opere pubbliche del 1819, ed il ponte al di sopra di Episcopia sul fiume Sinni, che, rozzamente costrutto di legname per quanto lo hanno comportato le forze di un povero villaggio, è il solo che offra un transito a chi dalle Calabrie è diretto per Basilicata, per Lecce e per Trani, né può formarsene altro per tutto il tragitto di quel fiume. La bontà colla quale il Re accoglie i voti dei consigli provinciali può animarvi, ove lo crediate opportuno, a chiedere una tal grazia. In generale molte opere pubbliche potrebbero dare una rendita particolare bastante per pagare quello che costano, senza prender nulla sopra la rendita generale della società. Il farle gravitar tutte sullo Stato produrrebbe un inevitabile aumento della pubblica imposta?. Oltre le risorse che vi ho già indicate nel progetto delle opere provinciali, potrei additarne un’altra che presenta dei vantaggi da ogni lato che si esamini. Io parlo della vendita delle masserie armentizie di vari luoghi pii della provincia, utilizzandone il pro-
dotto per lavori delle strade, e corrispondendone ai luoghi pii proprietari l’annua corrisposta del 5 per 100. La costante esperienza ha provato che questi armenti, lungi dal prosperare, deperiscono ogni anno. La pastorizia, i luoghi pii, la provincia vi guadagnerebbero ugualmente. S.M. si degnò accordarlo alla pro? Loi du 30. Fructidor, an 5. Loi du 24. Ventose, an 9. 3 A. Smith [Ax Inquiry into the Nature and Causes of The Wealth of Nations], libR5tcap.0l5
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vincia del 2° Abruzzo Ulteriore. Le vostre suppliche al real trono potrebbero procurare alla Basilicata un eguale vantaggio. Così si potrebbe affrettare la finale costruzione delle prigioni centrali reclamata dalla umanità e dalla pubblica salute. Intanto una nobil gara ferve tra varie comuni della provincia per aprirsi a proprie spese delle traverse rotabili alle strade consolari. Picerno ha recentemente con superiore approvazione ot-
tenuto di formarne una colla spesa di circa ducati diecimila, impiegandovi gli avanzi comunali e le spontanee offerte. I lavori sono già cominciati, e si proseguiranno con ardore. Tito ha quasi compiuto in quest'anno una simile traversa. Abriola, Vignola, Bella, Pietragalla, Oppido, Cancellara ed Acerenza mi hanno fatto giungere gli stessi voti, ed io mi farò un dovere di richiamare su di essi la protezione di S.E. il Ministro dell’Interno. Queste ultime quattro comuni hanno già proposto dei fondi analoghi nei loro stati discussi, ed hanno in pronto delle offerte volontarie. Già un miglio della loro strada comune è selciato, e nel venturo anno la traccia sino a Potenza sarà interamente aperta.
Ma Acerenza ha fatto anche di più. In un modesto silenzio, dall’alto suo nido, si è aperta una facile comunicazione colle principali città marittime dell’Adriatico. Nell’osservare questi lavori, che formano un’estensione di circa sei miglia, di cui quattro miglia selciate a regola di arte reggono al confronto delle più belle strade consolari, nell’accertarmi che tranne pochi fondi comunali, l’amor di patria dei bravi acherontini ha fornito ogni altra
risorsa, io gli ho salutati colla voce dell’ammirazione e della gratitudine nazionale. La comune di Montemilone è impegnata a terminare il braccio di strada rotabile che la porrà in comunicazione colla provincia di Bari e colle marine dell’ Adriatico. I lavori si sono cominciati nel mese di febbraio di quest'anno. Pisticci ha cominciato dall’interno del suo paese un braccio di strada che finirà ai piani di Taranto. Tra le opere comunali, una utilissima sarà quella del ponte sul Bradano sotto Montescaglioso, di cui il progetto è approvato, e se ne promuove l’appalto. I fondi assegnati in quest'anno e nel venturo, covriranno la spesa che ascende al di là di ducati settemila. [...] 4 Celsae nidum Acherontinae. Horat.
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4. Strade e porti in Terra di Bari* [...] Duc. 62.735,05 sono addetti alle strade interne provinciali. Ma nell’anno venturo avremo anche a spendere gli arretrati a tutto il 1820, che ho fatt’imporre nei rispettivi stati discussi comunali, e quindi saranno esatti in massima parte se non in totalità. Essi ascendono a ducati 35.078,33 che uniti alla somma
già indicata si ha un totale di ducati centomila circa. Grave oggetto è quello di definirne l’impiego. Benché a questo rispettabile Consiglio possa sembrare fuori di luogo qualunque nuova discussione sul proposito, pure chieggo alla vostra compiancenza una breve attenzione. Poco istruito ancora degli affari della provincia e delle topografiche posizioni, indifferente come deggio essere a qualunque particolare veduta, non farò che esporvi francamente le mie idee. [...] Conosco che dopo la traversa già vicina ad ultimarsi di Altamura, fra le nuove strade decretate debba avere il primo luogo una strada interna da Canosa alle Noci, e conosco pure che i diversi punti della sua direzione sono fissati, talché l’ingegnere stia eseguendo già i suoi corrispondenti lavori di campagna. Non intendo escludere l’utilità di questa strada. Esse sono tutte utili, e piacesse al cielo potesse aversi una strada ad ogni passo! Crederei non pertanto avere delle ragioni per dimostrare che la strada da Canosa alle Noci non meriterebbe la preferenza che se gli è voluta dare. Non mi si vorrà certamente contrastare che i prodotti quasi esclusivi di questa provincia sono il grano e l’olio, e che la massima estrazione di essi si fa per la via di mare. Non basta questo dato incontrastabile per dimostrare che l’interesse generale dei comuni della provincia è quello di avere una comunicazione col mare, e che avendo pochi oggetti di cambio fra loro, le comunicazioni interne siano meno utili? Quindi utilissime sono, benché quasi comunali, le traverse di Andria, Corato, Terlizzi, e Bitonto. E egli paragonabile il vantaggio di avere un’altra comunicazione colla Puglia, e sia anche colla capitale, più breve di qualche miglio di quella che esiste, colla spesa colossale che va ad intraprendersi, che paralizzerà per molti anni qualunque altra? Preveggo tuttociò malgrado la risposta; l'affare * Da Gennaro di Tocco, Discorso pronunziato all’occasione dell’istallazione del Consiglio Provinciale di Terra di Bari nel giorno 10 ottobre 1821, s.d., pp. 13-17, 19-20.
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è stato discusso, è decretato, non vi è più luogo a discussione; ma conosco anche la replica, che il bene, più delle forme, dev'essere lo scopo nostro, molto più in queste materie. Dichiarata la mia
opinione ne lascio il giudizio alla penetrazione del Consiglio ed alla saggezza di S.M. Ove il mio parere non avesse luogo mi si permetteranno delle osservazioni sulla traccia stabilita. Veggo indicati i punti di Canosa, Andria, Corato, Ruvo, Terlizzi, Soverito, Bitonto, Palo, Bitetto, Canneto, Montrone, Rutigliano, Conversano, Castellana, Putignano, Noci. Non veggo seguito in
ciò che uno dei soli principi che dettano la costruzione delle strade, quello della comunicazione fra paesi; ma vorrà forse negarmisi che esse siano più importanti considerate come il veicolo dell'aumento di popolazione, della distribuzione degli abitanti sui suoli deserti, della civilizzazione, dell’agricoltura? Questa veduta è certamente più lontana; ma non è forse più utile e più grande? Questa provincia ha fra i comuni di Ruvo, Corato, Bitonto, Palo, Toritto, ed Altamura, una vasta campagna coltivata,
ma quasi deserta. Non sarebbe egli preferibile che la strada provveniente da Canosa, Andria, e Corato giunta a Ruvo, in vece di
fare un angolo palpabilmente tortuoso per Terlizzi, Bitonto, e Palo, si dirigesse in linea retta a Toritto, e quindi, discendendo per quattro miglia a Bitetto sulla traversa di Altamura, prendesse la direzione di Bitritto, Loseto, Valenzano, Capurso, Noia, Ru-
tigliano, etc.? Qual veduta può dettare il passaggio della strada per Terlizzi, Bitonto, e Palo, se non di vantaggi dei privati cittadini, e quindi di considerarsi come interessi comunali estranei
a quelli della provincia? Bitonto vi troverebbe anzi maggiormente il suo conto per utilizzare la sua strada del Palombaio che anderebbe ad incontrarsi con quella che propongo. Non si otterrebbe il bene di cominciare ad aprire il traffico in luoghi ora quasi disabitati? Indipendentemente poi da questa rettifica sembrami anche più utile ed importante quella della ulteriore direzione per Bitritto, etc., come ho già indicato. Senza nuocere a Canneto e Montrone, che toccano quasi la traversa di Taranto, si darebbe una comunicazione fra loro e col capoluogo della provincia ai comuni di Bitritto, Loseto, Valenzano, Noia, e Rutigliano. Que-
sti due ultimi, nonché Conversano, mi avevano già da qualche tempo inoltrate delle domande per una particolare traversa da giungere a Capurso colle loro particolari risorse e coll’aiuto dei fondi provinciali; io mi era già proposto di appoggiarle. [...] Amo
I Strade e comunicazioni
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solo terminare quest’oggetto con aggiungere che, quando la linea retta che propongo da Ruvo a Toritto neanche incontrasse l’altrui piacimento, si eviti almeno l’angolo troppo sconcio da Terlizzi a Bitonto e Palo, tirando la linea maggiore da Terlizzi a Palo che verrebbe ad esser tagliata dalla strada del Palombaio. Infine, poiché i paesi alti della provincia come Minervino e Spinazzola deggiono avere la disgrazia di rimanere ancora pet molti anni segregati dal resto di essa, non precludiamo almeno il bene a quello di Gravina. Esso non dista che sei miglia da Altamura, atte alla nuova strada con poca spesa. Si metterebbe così in comunicazione col mare e col capoluogo della provincia. Altronde questa parte di strada si troverebbe anche fatta, sia per prolungarsi nella Basilicata per Montepeloso e Potenza, secondo un piano già da più anni adottato, sia verso Minervino per la Puglia, sia verso Melfi pel Principato Ulteriore e la capitale. Riassumendo dunque le mie idee sopra quest’oggetto importante conchiudo che, quando debba farsi la strada interna da Canosa alle Noci, si formi una linea da Ruvo a Toritto, o al peggior caso da Terlizzi a Palo, ed in seguito da Bitetto per Bitritto a Capurso e Rutigliano, e che a preferenza si costruisca il tratto di strada da Gravina ad Altamura. Termino poi la parte di questo mio rapporto relativa alle strade con richiamare per poco la vostra attenzione sulla consolare. E doloroso per verità che, mentre le provinciali progrediscono con successo, sia poi quella interamente abbandonata, e che ciò avvenga per la mancanza dei fondi della tesoreria generale. Intanto il corso postale, il traffico colla limitrofa provincia di Lecce, e le comunicazioni colle comuni situate lungo quella marina, sono incomodi e pericolosi. Ove lontana fosse ancora la speranza
del riattivamento dei lavori per conto della tesoreria, sarebbe egli alieno il Consiglio di chiedere che s’intraprendessero coi fondi della provincia a titolo di prestito almeno per la riattazione dei passi più cattivi? Io credo che questo momentaneo impiego non sarebbe senza un gran compenso di utilità. [...] L’affare dei porti è un oggetto ben grande per questa provincia. Vari n’esistono lungo il suo litorale, ma niuno offre sicu-
rezza ai legni e comodo approdo. Per mezzo dei porti di questa provincia si fa una grande immissione di generi dagli altri dell’Adriatico, e si estraggono quelli che somministra il suo fertile suolo. Da per tutto si reclama il miglioramento dei porti, da per
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tutto il ceto dei negozianti s'impone dei volontari sagrifizi per somministrare dei mezzi alla spesa, ma nulla finora si è fatto, sia per l’inconvenienza dei progetti dei diversi architetti, sia per la scarsezza dei fondi, che ben altri se ne richiedono nelle opere di questa natura. I lavori dei porti della provincia sono stati considerati finora isolatamente. Altronde non può aversi ad ogni punto un porto, ove la natura e le località vi si oppongono. Sarebbe della saviezza del Consiglio discutere di se non convenisse di esaminare quest’oggetto sotto punti di vedute più generali per la costruzione di qualche porto che offrisse dei certi e positivi vantaggi al commercio, e con essi alla totalità della provincia, le di cui derrate acquisterebbero uno scolo più felice e più ricercato. Altronde in ciò noi non faremo che secondare lo zelante impegno che ne mostra l’ottimo Signor direttore della Real Segreteria di Stato degli Affari Interni. [...]
5. Vie d’acqua e sviluppo economico: un canale tra Adriatico e Tirreno* [...] Nel lungo periodo in cui il commercio del continente fu impedito, molte nazioni di Europa s’industriarono di supplire con le proprie risorse al difetto di quelle derrate che per l’addietro traevano da fuori. I loro sforzi furono principalmente diretti a perfezionar l'agricoltura e le arti per rendersi meno dipendenti dallo straniero. Per l’apertura di molte nuove strade e per la costruzione di parecchi canali navigabili, in tutti i sensi si cambia-
vano le produzioni del suolo e dell’industria da una provincia all’altra, e rialzandosi nel tempo stesso il valore delle terre, le maggiori spese di coltura apporttarono maggior guadagno. Le scienze erano messe a contribuzione per inventare e perfezionare macchine di facilitazione per rendere più perfette e men costose le produzioni del suolo e dell’industria. La chimica, sforzandosi a scoprire i segreti della natura nei suoi lavori di composizione e decomposizione, per la cui opera la materia è così infinitamente * Da Carlo Afan de Rivera, Considerazioni sul progetto di prosciugare il lago Fucino e di congiungere il mar Tirreno all’Adriatico per mezzo di un canale di navigazione, Reale Tipografia della Guerra, Napoli 1823, pp. 13-17, 31-32, 318-323.
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variata nelle sue forme, apprestava il suo potente soccorso all’agricoltura ed alle arti. Così per esempio, per uso delle arti, la soda che prima si otteneva dalle piante, ora con facile processo si estrae in copia dall’acqua del mare. Così ugualmente il gas idrogeno ricavato dai combustibili tien luogo dell’olio per le grandi illuminazioni. Associandosi in somma alle cognizioni fisiche la sperienza e l'industria, le produzioni dell’agricoltura e della pastorizia vengono in copia maggiore e di miglior qualità, e quelle delle arti riescono più eleganti e men costose. Aggiungasi a tutto ciò che il feracissimo Egitto e le ubertose coste dell’Africa di rincontro alla Sicilia Ulteriore*, van perfezionando la loro agricoltura, e le loro derrate, a cagion del prezzo minore, sogliono aver la preferenza nel mercato di Europa. A vile prezzo si offrono da per tutto le granaglie che vengono dalle coste del Mar Nero e fin anche dall'America ove sono minori le spese della coltura, si trasportano farine in Europa. Ora più che in ogni altro tempo tutte le nazioni fanno a gara per far valere le proprie risorse. Egli è un raziocinio di evidenza che tra diverse nazioni che dispieghino pari industria ed attività per far valere le proprie risorse, quella che ne possiede naturalmente in maggior copia deve prendere il di sopra nei rapporti commerciali e divenir perciò più ricca e prosperevole. Così essendo le due Sicilie, le cui naturali risorse derivanti dalla fertilità del suolo sono superiori a quelle delle altre contrade, potrebbero ben ristabilire in loro favore la bilancia dei rapporti commerciali e condurre al più alto grado la loro ricchezza e prosperità, qualora adoperassero la medesima in-
dustria delle altre nazioni che sono state men favorite dalla natura. In fatti se si minorassero le spese di trasporto e di coltura, se si bonificassero i terreni devastati che per lo più sono i più fertili, e se si perfezionassero l’agricoltura e la pastorizia, il prezzo delle produzioni del nostro suolo si diminuirebbe in modo che, lungi dal dar mai luogo ad introduzione di derrate straniere, esse acquisterebbero la preferenza su quelle delle altre contrade nel mercato generale di Europa. In ragione della diminuzione del prezzo dei viveri, scemandosi quello della mano d’opera, gli 0ggetti delle nostre arti e manifatture, laddove si perfezionassero, “ I toponimi Sicilia Citeriore e Sicilia Ulteriore, così come quelli di Sicilia al di qua del Faro e Sicilia al di là del Faro, erano usati per indicare rispettivamente il Mezzogiorno continentale e la Sicilia.
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costerebbero molto meno di quelli che ci vengono dallo straniero. In tal guisa non mancando a noi null’altro se non i generi coloniali e potendo all’incontro far traffico di mille nostre diverse derrate, il valore delle esportazioni sorpasserebbe di molto quello delle importazioni, e quindi ne deriverebbe un progressivo aumento di ricchezza. Sotto queste vedute qui ci faremo a passare rapidamente in rassegna i principali oggetti ai quali si dovrebbero rivolgere la nostra industria e la nostra attività per far convenevolmente valere le nostre risorse e per promuovere la nostra pubblica prosperità. Le spese di trasporto formando parte integrante del prezzo delle derrate, in quelle contrade che non sono attraversate da buone strade o si trovano molto lontane da città popolose o dal mare, non conviene agl’interessi del possessore di eseguirvi alcune coltivazioni al di là del consumo che ne fanno i luoghi vicini. Provvedutosi a questo bisogno, spesso avviene che alcuni terreni debbansi lasciar incolti, poiché le spese di coltura riunite a quelle del trasporto risultano maggiori del prezzo che hanno le derrate nei luoghi ove si possono portar a vendere. Quindi è che il valor delle terre suol essere in ragion inversa delle spese di trasporto, ed a questa causa vuolsi attribuire la gran differenza che si osserva nel valore delle terre della stessa qualità che nelle vicinanze della capitale si affittano per 10 in 12 ducati al moggio, ed in luoghi distanti e non attraversati da buone strade per 10 in 12 carlini al moggio. Facilitandosi all’incontro i trasporti, si possono intraprendere più estesamente quelle coltivazioni che prima non tornavan conto, il valore delle terre crescerebbe, maggior industria si adopererebbe nella coltura per conseguirne produzioni più copiose, più numerose braccia vi s’impiegherebbero e con l’aumento di una popolazione laboriosa ed industriosa s’ingrandirebbero le risorse nazionali. Nella Sicilia Citeriore l’esistenti strade rotabili, dopo di aver condotto a termine quella delle Calabrie fino a Reggio, sembrano sufficienti per facilitare le comunicazioni principali tra le diverse province e con la capitale. Avendo però riguardo alla configurazione del Regno, che per la più parte ha poca larghezza ed è bagnato dal mare nel suo perimetro, le comunicazioni le più importanti per la facilitazione del commercio sono quelle che dall’interno menano sul mare. La natura stessa, col corso delle acque
I Strade e comunicazioni
261
per le valli che formano la parte la più fertile del paese, ne ha tracciato l'andamento. Seguendo inoltre tali direzioni è facile la costruzione di comode strade rotabili che dai siti i più importanti dell’interno conducano su di opportuni punti della costa ove si possano imbarcar le derrate. Secondo le medesime direzioni non può andar soggetta a grandi difficoltà ed a gravi spese la formazione di canali navigabili che si diramino per le diverse valli, dalle quali è intersecato il nostro suolo per lo più montuoso. Qui certamente non s'intende di rendere atti alla navigazione piccioli fiumi di un letto variabile, ma di formar canali lungo il loro corso, e per conseguenza si richiede picciol volume di acque perenni per alimentarli, comunque considerevole fosse la loro lunghezza. In tal guisa discendendosi sempre dall’interno verso il mare con una barca guidata da due o tre uomini, si porterebbe un carico pel quale si richiederebbero 20 o 30 carretti. Trattandosi in quest’opera del progetto di congiungere il Mar Tirreno all’Adriatico per mezzo di un canale di navigazione, ognun può scorgere quante operazioni e quante considerazioni
debbono precedere simili grandiosi progetti. Dalla inspezione della carta del paese si rileva che più facile e di minor dispendio riuscirebbe l’intrapresa di unire con un canale navigabile l’Ofanto al Sele. La sorgente del secondo che copiosa sgorga in un sito elevato all’oriente del monte Passagone, è distante dal corso del primo per men di tre miglia in linea retta. Seguendo le piegature del terreno tra Teora e il bosco di Boiara, forse senza grandi scavamenti si condurrebbero le acque del Sele nell’Ofanto, per mezzo di un canale di dolcissima pendenza. Di una maggior difficoltà sembra la costruzione di un canale che congiunga la sorgente del Basento che si scarica nel golfo di Taranto, ad un ramo del Sele presso Tito o Picerno. Ma laddove gli ostacoli da sormontare fossero molto grandi e la spesa molto considerevole, pure grandissimo vantaggio si otterrebbe portando i canali navigabili fin presso Tito o Picerno da una parte, e nelle vicinanze di Potenza dall’altra. Ciò eseguito, per mezzo di una buona strada rotabile, attraversando le montagne, si farebbe la comunicazione tra i due canali. Di molto maggior utilità e forse di non grave dispendio sarebbe l'impresa di unire le acque del fiume Carapella a quelle dell’Ufita che si scarica nel Calore e quindi nel Volturno.
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Parte terza. La politica economica
Se la gran carta di Rizzi Zannoni? rappresenta con verità il terreno, il canale di congiunzione attraversando la difesa di Farulli, per le piegature del terreno tra il monte Mauro e la costa del Vallone, potrebbe condursi nella valle delli Branci. Formando in seguito dei canali lungo le valli dei principali influenti che si gettano negli anzidetti fiumi, in tutta la parte la più larga del Regno da un mare all’altro si eseguirebbe per acqua il commercio interno secondo tutte le direzioni. Congiungendo infine tra loro i fiumi Ofanto, Carapella, Cervaro, Candelaro e i loro influenti con canali di navigazione e d’irrigazione in tutti i sensi, la Capitanata ed una parte della Terra di Bari, che per se stesse sono tanto fertili, diverrebbero il modello della più florida coltivazione e della più grande opulenza. [...] Le strade rotabili ed i canali navigabili, facilitando i trasporti, sono i più efficaci mezzi per promuovere la prosperità, il commercio e la ricchezza del paese che attraversano, e nel tempo stesso fan rialzare il valore dei terreni adiacenti nella ragione inversa della loro distanza. La giustizia quindi richiede che la spesa per la costruzione di simili opere pubbliche sia ripartita in proporzione dei vantaggi che se ne ritraggono. Nella Sicilia Ulteriore le strade principali da Vallelonga a Messina, da Castrogiovanni a Siracusa e da Mezzoiuso per Corleone a Calatafimi, che sono di un’utilità generale per tutta l’isola, e nella Citeriore il perfezionamento di quella che da Lagonegro conduce fino a Reggio, dovrebbero essere eseguite per mezzo delle imposizioni generali dei rispettivi domini. Per tutte le altre strade che si diramano dai tronchi principali e pei canali navigabili, la spesa deve esser a carico dei proprietari delle terre e dei comuni, tassati in ragione della vicinanza e dell’utilità che possono sperimentarne. Così appunto si pratica in tutte le contrade di Europa per l'esecuzione di tali opere di pubblica utilità.
Queste tasse, esatte come tutte le altre dello Stato, dovrebbero essere versate in una cassa particolare del ricevitore della provincia a disposizione dell’amministrazione ch’è incaricata del> Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, geografo e cartografo (1736-1814), pubblicò nel 1769 una carta del Regno di Napoli in 4 fogli. Richiamato successivamente a Napoli, dopo un lavoro di circa trenta anni, vide la luce il suo famoso Atlante Geografico del Regno di Napoli (32 fogli), che rappresentò per lungo tempo una delle opere cartografiche più complete sul Regno. Sull'argomento cfr. C. Firrao, Sull’Officio Topografico È Napoli, origini e vicende, Napoli 1868.
I. Strade e comunicazioni
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l'esecuzione di tali opere pubbliche. Rendendole poi sacre all’oggetto cui sono destinate, con severa legge se ne dovrebbe proibire la menoma distrazione per qualunque altro uso. Con questa assicurazione diverrebbe leggera qualsivoglia imposta, ed i particolari ed i comuni si sforzerebbero di aumentarla, poiché per essa si attende riportar un guadagno considerevole che non si potrebbe conseguire impiegandosi le stesse somme ad ogni altra speculazione. [...] Comunque grande potesse essere la spesa bisognevole per rendere navigabile il Liri da Capistrello fino al mare, ben di gran lunga maggiori sarebbero i vantaggi che ne deriverebbero. Le produzioni del bacino del Fucino, potendosi con poca spesa trasportare per acqua fino al mare, si metterebbero in concorrenza con quelle degli altri luoghi e si venderebbero ad un prezzo ragionevole. Ciò animerebbe l’industria nella coltura e nel tempo stesso farebbe raddoppiare il valore di quei terreni per se stessi ubertosissimi. Rendendosi facile il trasporto del legname di costruzione e delle altre produzioni dei boschi, grandemente si aumenterebbe la rendita di quei terreni che per l’addietro essendo affatto incolti davano tenuissimo profitto. Questo benefizio inoltre che deriva dalla facilità dei trasporti, si estenderebbe ugualmente a tutti i terreni adiacenti al fiume da Capistrello fino al mare. Nella valle di Roveto e nel territorio di Sora si migliorerebbe l'agricoltura, se ne aumenterebbero le produzioni e crescerebbe in proporzione il valore dei fondi. La città dell’Isola, ove numerose macchine potrebbero essere animate dall’azione delle acque che cadono da una considerevole altezza, potrebbe
divenir la sede di grandi fabbriche e manifatture, quando le loro produzioni con poca spesa per acqua potessero essere condotte sul mare. Un tal canale riuscirebbe della massima utilità per l’ampio e fertilissimo bacino di S. Germano. Ivi presentemente la agricoltura è negletta perché le sue copiose produzioni con sì grave dispendio si possono trasportare fino al mare o per terra alla capitale, che il prezzo che se ne ritrae non giugne a compensare
le spese del proprietario ed a dargli un tenue profitto. Ma se divenisse navigabile il fiume da cui è lambita una parte del suo perimetro e s’intersecasse la sua superficie con dei canali che andassero a scaricarsi in quel fiume, le spese di trasporto fino al mare sarebbero molto tenui. Così essendo, sebbene le produzioni del suolo si vendessero a basso prezzo, pure i proprietari ne ri-
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Parte terza. La politica economica
trarrebbero sufficiente profitto e per conseguenza s’industrierebbero a renderle più abbondanti e di miglior qualità. In questo stato di cose le granaglie del bacino del Fucino e di S. Germano poste sul Mar Tirreno avrebbero un prezzo così tenue da sostener con vantaggio la concorrenza di quelle degli altri luoghi e farebbero ostacolo al traffico dei grani del Mar Nero e di Egitto. Sotto questi punti di veduta l’acquisto dei terreni che ora giacciono coperti dalle acque del Fucino e la navigazione del Liri sarebbero di un'immensa utilità non solamente per quelle contrade, ma ben anche per una parte considerevole del Regno. [...] Rendendosi navigabile la Pescara dalla foce al confluente
del Gizio e da quel punto con un ramo fino a Sulmona e coll’altro fino all'Aquila, le produzioni del Fucino potrebbero anche versarsi su quella parte di paese e sull’Adriatico. Il commercio del-
l'interno degli Abruzzi e col mare si renderebbe attivo, ed i terreni adiacenti al fiuine navigabile ed ai navigli, sarebbero tosto ben coltivati ed acquisterebbero un valore molto più considerevole. Lo anzidetto canale diverrebbe di un’utilità maggiore, se la foce della Pescara si profondasse in modo da dar ricovero ai legni mercantili, e riuscirebbe anche più vantaggioso se in quelle vicinanze si costruisse un porto spazioso che fosse capace di ricevere i legni di qualunque grandezza. Allora in quel punto si attirerebbe il commercio con le coste dell’Italia sull’Adriatico e con Trieste e Fiume, e le derrate men voluminose spedendosi per acqua fino a Sulmona, e trasportandosi per terra da quella città a Capistrello, da questo luogo di nuovo per acqua si condurrebbero sul Mare Tirreno. [...) I descritti vantaggi sarebbero di gran lunga maggiori laddove con un canale che attraversasse il bacino del Fucino si congiungessero i fiumi Liri e Pescara. Trasportandosi per acqua le derrate dal Mar Tirreno all’Adriatico e viceversa, i tre Abruzzi
acquisterebbero così la facilitazione di cambiare le loro produzioni con la provincia di Terra di Lavoro e con la capitale. Parimenti le produzioni dei terreni situati presso alle coste della Capitanata con molto minore spesa si farebbero passare nella foce della Pescara per inviarsi in seguito sul Mar Tirreno. Il commercio di tutto ciò che ci viene dalla Germania per gli sbocchi di Trieste e Fiume e di ciò che per la medesima via spediamo colà, sarebbe sommamente facilitato, poiché si eviterebbe la lunghissima e pericolosa navigazione lungo le coste dell'Adriatico, del
I Strade e comunicazioni
265
Mare Jonio e del Tirreno. Ricadendo a nostro benefizio la diminuzione delle spese di trasporto, si diminuirebbe il prezzo degli oggetti che s’immettono, e si aumenterebbe il valore di quelli che da noi si estraggono. Per l’anzidetta diminuzione delle spese di trasporto da un mare all’altro, anche i negozianti esteri farebbero passare per le nostre mani il commercio di tutte le derrate della Germania, della Dalmazia e della parte dell’Italia che è situata sulle coste dell’ Adriatico, le quali si dovessero spedire nei porti dell’Italia stessa sull’altro mare, in quei della Francia e della Spagna ed altrove, e viceversa. E quantunque la maggior parte di un tal commercio si facesse per conto dei negozianti stranieri, pure a nostro profitto tornerebbero le spese di trasporto pel canale. Ciò basterebbe per impiegare un numero considerevole di braccia e per rendere più rapida la circolazione del danaro. Comunque tenue fosse il dazio pel passaggio delle derrate da un mare all’altro, pure il governo ne ritrarrebbe considerevole profitto. Costruendosi infine spaziosi magazzini in Pescara ed in Gaeta, che è lontana poche miglia dalla foce del Garigliano, in quelle due città si radunerebbero tutte le derrate che vi si porterebbero dall’estero o da noi stessi per trasportarsi da un mare all’altro. In tal guisa esse diverrebbero i ricchi depositi e gli empori di un esteso ed attivissimo commercio nazionale e straniero, che non ci
possiamo lusingare di attirare per altra via nelle nostre mani. [...] Le somme medesime che si spendono per l'esecuzione di così grandi opere, sono dirette a dare il primo impulso all’industria per la miglior coltura e per ogni sorta di speculazioni in quelle contrade che debbono essere bonificate per mezzo delle opere stesse. Così nel bacino del Fucino mentre si eseguono i lavori per prosciugar il lago, i numerosi travagliatori spendendo sul luogo ciò che guadagnano e consumando le derrate del paese stesso, vi animerebbero la circolazione del danaro e promuove-
rebbero il miglioramento nella coltura dei terreni adiacenti. A misura che si mettano a secco dei terreni del fondo del lago, a gara si presenterebbero degli speculatori per prenderli a fitto nella sicurezza che una porzione delle produzioni si consumerebbe dai travagliatori medesimi. Aumentandosi le spese dei lavori secondo che si recuperano maggiori estensioni di terreni ed ancor più dopo prosciugato il lago per la formazione del gran recipiente, per la piantagione dei boschi e per la costruzione delle abitazioni e degli edifizi rurali, nella dovuta proporzione si accresce-
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Parte terza. La politica economica
rebbero gl’incoraggiamenti per rendervi florida la coltivazione. I medesimi vantaggi si sperimenterebbero per tutta quell’estensione di paese che è attraversata dal Liri e dalla Pescara, mentre si eseguono i lavori necessari per renderli navigabili. Il gran numero dei consumatori ecciterebbe l'industria dei proprietari dei terreni adiacenti per ben coltivarli e per fare utili speculazioni, e dopo questo primo impulso i miglioramenti fatti per la facilitazione del commercio anziché declinare riceverebbero ulteriore incremento. Il bacino del Fucino, la cui prosperità e ricchezza si aumenterebbero pel commercio tosto che si rendessero navigabili il Liri e la Pescara, avrebbe nuove potenti risorse quando si mettesse mano alla costruzione del canale che deve congiugnere i due fiumi. Per lo spazio di sei anni, spendendosi in lavori l’intera rendita dei terreni prosciugati e bonificati, quelle popolazioni avrebbero l’opportunità di accrescere la loro industria e le loro speculazioni che a cagion dell’aumentato commercio non declinerebbero nel seguito, allorché tutti i lavori fossero stati condotti a termine. In tal guisa la rendita dei terreni recuperati sarebbe per lungo tempo impiegata a farne rialzare sempre più il valore ed a rendere prosperevoli e ricche le nuove popolazioni coltivatrici. Infine essendo ricco quel governo i cui popoli sono nello stato di ricchezza e prosperità, esso farebbe un considerevole guadagno per le imposizioni proporzionate all'aumento del valore dei fondi, e pei dazi che riscuoterebbe nell’importazione ed esportazione delle derrate per effetto di un floridissimo commercio. [...]
HI IL COMMERCIO
1. Verso il protezionismo* Bilancia del nostro commercio da luglio 1815 sino a tutto il 1819, e perdita che ne risulta per noi. La bilancia del nostro commercio sarebbe inutilmente qui riportata e discussa per l’epoca anteriore al 1815. Tutto è cambiato dopo la caduta del così detto sistema continentale. Le vedute delle nazioni commercianti da cinque anni hanno subito una immensa alterazione. La ricerca dei mezzi più efficaci per promuovere le arti e le manifatture e non aver bisogno dell’estero, la cura di accrescer la navigazione, si risguardano giustamente come oggetti di politica della più alta importanza. E dall’epoca dunque della Restaurazione del Regno che bisogna incominciare. I bilanci rimessi alla dogana danno il risultato che si rileva dall’annessa mappa N° I [cfr. p. sg.]. I risultati che presenta questo calcolo compariscono evidentemente assurdi. La nazione non ha potuto ricevere questo danno. Esaminato il lavoro nei suoi elementi, si è veduto che i prezzi
dei generi notati non corrispondono al vero; che nel calcolare le somme delle importazioni, invece di mettersi solo il prezzo primitivo, vi si comprende il dazio di dogana e le spese; che i generi esistenti in iscala franca non sono dedotti; che qualche volta vi è * Da [Giuseppe Zurlo], Rapporto al Parlamento Nazionale sulla situazione del Ministero degli Affari Interni. Letto dal Ministro nel giorno 23 ottobre 1820, XXII, Commercio, s.d., pp. 115-130.
Parte terza. La politica economica
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confusione fra i generi importati ed esportati. Finalmente si è rilevato per alcuni generi una importazione che sembra inverosimile e superiore a tutti i bisogni del Regno. Stato dimostrativo dell’importazione ed esportazione del semestre da luglio per dicembre 1815 e degli anni 1816, 1817, 1818 e 1819.
Distinta dell’anno
Importazione
Esportazione
Differenza tra l’importazione ed esportazione
a danno
a favore
Ultimi 6 mesi del 1815 1816 1817 1818
6.669.623,63 10.827.202,23 10.160.146,34 16.256.200,99
2.211.047,01 5.920.016,24 580201599553 10.023.499,59
1819
13.908.063,43
6.106.542,27
Totale, ducati
57.821.236,62
30.063.264,64
4.458.576,62 4.907.185,99 4.357.986,81 6.232.701,40
» » » >» » » bp » » »
TS0 L52106
DIRIDI9IMACIS
Le cifre stesse contengono frequentemente errori.
La mia pena fu grande quando io m’avvidi che non trovava nella bilancia alcuna base sicura. Non era più possibile di fare un nuovo lavoro sui libri della dogana. Ciò avrebbe esatto un tempo lungo. Io presi il partito di far rettificare il lavoro dalla Camera di commercio, a cui diedi le istruzioni a questo effetto circa il modo di eseguirlo. Uno dei membri della Camera se ne incaricò con uno zelo che merita i più distinti elogi. La bilancia è stata interamente rifatta: si è cercato di dare i giusti prezzi, avendo anche conto delle spese che fa qui la marina estera. Si è cercato di correggere la confusione tra le importazioni e l’esportazioni; si sono corretti pure alla meglio gli errori numerici. Della varietà dei cambi non si è avuto ragione, poiché nel quinquennio la perdita dei due ultimi anni sino al 1819 è compensata dal guadagno dei tre precedenti. Nella quantità dei generi immessi o esportati hanno dovuto ne-
cessariamente seguirsi le notizie della dogana. Questo nuovo lavoro ha dato i risultati contenuti nell’annessa mappa N° II.
II. Il commercio
269
Stato dimostrativo dell’importazione ed esportazione del semestre dal luglio per dicembre 1815, e degli anni 1816, 1817, 1818 e 1819. Differenza tra l’importaa
Importazione
Esportazione
nione ed espoftazione
a danno 1815
5.295.988,52
1816
Mr] 251925315 OBM SCOZIA
1817 1818
8.010.450,80 13.834.331,36
= 2.899.820,44
2.396.168,08 È
d»
8.018.098,75 12.162.140,77
» » » 1.672.190,59
1819
10.829.587,91
6.767.538,63
4.062.049,28
Totale, ducati
45.693.882,09
39.843.458,80
8.130.407,95
a favore »
»
»
DANOAZIA! »
7.647,95 » »
Pn
2.279.984,66
Giusta la suddetta distinta, ascende il danno a D. 8.130.407,95. E la somma a favore a D. 2.279.984,66. Risulta una differenza in pregiudizio della nazione, D. 5.850.423,29.
Quantunque io debba lodarmi molto di questo secondo lavoro, nulla di meno è ben lontano dalla sua perfezione. Non è esente da errori di dettaglio che era assai difficile di evitare; e siccome è stabilito sulla base che le riesportazioni del magazzino di scala franca sieno per l’ottavo, sembra che si sia troppo esagerata la diminuzione del nostro danaro. Il mio spirito non essendo interamente tranquillo, ho fatto rivedere questo secondo lavoro da persone di mia fiducia e versate nella materia. Gli errori in più ed in meno sono stati rilevati colla diligenza che le circostanze hanno permessa. Quanto alla riesportazione, è stato dedotto quello che nella fine del 1819 si trovava in iscala franca, e che ascende, secondo il calcolo che mi ha dato la dogana, a ducati 3.003.457,90. Non
si è aggiunta in questo nuovo lavoro altra somma per la medesima causa. Si è pensato che le riesportazioni nella bilancia erano state compensate in natura, e che erano contenute nelle estrazioni. Si è aggiunta una somma prudenziale pel consumo che fa qui la marina estera. Secondo questo calcolo il danno del nostro commercio nel quinquennio ascende a ducati 6.152.563. Il desiderio di portare la maggiore esattezza possibile in questi calcoli mi ha determinato a farne eseguire presso di me in un modo confidenziale un terzo esame. Il danno è risultato in sei milioni e novecentomila ducati. In quest’ultimo esame si è seguito il sistema precedente per le
270
Parte terza. La politica economica
riesportazioni: si è solo dedotto quello che si trovava in iscala franca. Le ragioni sono quelle medesime che ho già allegate. Non ostante, bisogna considerare che per quello che si riesporta resta sempre molto denaro nel paese. La provvisione di tentata vendita, il magazzinaggio, il facchinaggio, le spese di porto, il collaggio, i piccioli dritti doganali, le spese di deputazione sanitaria, il consumo che si fa nel paese di una parte dei noli, qualche sfrido, qualche furto, talvolta anche una rata di dazio perduto,
tutto questo costituisce un valore di cui dee aversi ragione nella bilancia. Dall’altra parte molte considerazioni si presentano per qualche aumento nei calcoli della Camera di commercio e nella revisione che n’è stata eseguita. Tutto ben considerato, io credo che possa fissarsi come approssimativa la somma di sei milioni nel quinquennio a nostro danno. Almeno non è minore. Queste calcolazioni, io lo ripeto, non sono che approssimative. Io nominerò, dopo essermi concertato col Ministro di Finanze, un individuo di mia fiducia che faccia in dogana un lavoro di rettifica. Allora tutto sarà liquidato con esattezza, e verrà sommesso il risultato al Parlamento nel tempo in cui si presenterà il progetto di legge sulle tariffe. Questo stesso sarà comunicato negli anni seguenti, e saranno fatte le istruzioni le più precise per una bilancia esattissima. Intanto la somma che io presento, sebbene approssimativa, basterà a dirigere le vedute del Parlamento. Potrebbe compensarsi in parte questa perdita dal consumo che fanno qui i forestieri, e che è molto superiore a quello che si fa da noi nei paesi esteri. Ma oltreché questo articolo non entra nella bilancia del commercio, bisogna considerare che è compensato dall’interesse che noi paghiamo per quello che possiedono gli esteri in iscrizioni sul Gran libro. In questa operazione, che ha tanto giovato a far fronte ai nostri impegni senza far cadere l’amministrazione interna, non può che lodarsi la condotta del governo. Io ho già detto col più gran candore e colla più intera libertà quello che si è fatto e quello che si è omesso. Perché dissimulerebbe un governo che non si propone altro fine che il bene? Perché vorrebbe nascondere i tristi effetti di cause che non
sono dipese da lui? Ma allorché si vede tutto in complesso, bisogna riconoscere che anche le restrizioni fatte nell’interno sono
II. Il commercio
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state minori di quelle che le circostanze esigevano. Si è provveduto ad ogni ramo, e molti si sono migliorati. Le operazioni fatte sulle iscrizioni, il credito che se gli è dato, il prezzo a cui sono montate, ha diminuito il danno maggiore che la nazione avrebbe sofferto vendendo a prezzi più bassi. Non appartiene a me di entrare in questo esame. Sono veri benefici resi da S.M. alla nazione. Perdita maggiore che risulta dal contrabbando. Ma ritorniamo al nostro proposito. La perdita che risulta dalla bilancia non è la sola che si soffre. Il contrabbando l’accresce. Sarebbe un errore il credere che il contrabbando d’importazione possa fra noi compensarsi col contrabbando di esportazione. Chiunque è mediocremente versato in questo ramo conosce che la differenza è grande, e tutta questa differenza debba essere aggiunta alla perdita conosciuta. Non bisogna dissimularlo: questo male del contrabbando tra noi è divenuto gravissimo. Allorché si scorre la bilancia, si ha la dimostrazione dalle persone che conoscono il commercio, che parecchi articoli contengono la metà della vera immessione. Ora che i prezzi di ogni sorta di lavori di cotone sono bassissimi, si compra più del doppio col medesimo danaro, ed essendo la stoffa più leggiera, il consumo ne è maggiore. Le provincie ne fanno un grandissimo incetto. La rendita della dogana dovrebbe dopo cinque anni esser raddoppiata sulle merci a pezze ed a canne. Ma questo aumento non si osserva in modo alcuno. Si trovano stabiliti in Napoli e nelle provincie dei locali che conservano il piombo o il bollo della dogana. L’idea del governo fu d’impedire il contrabbando che si faceva colle pezze spezzate. In vece d’ottenersi il bene n’è risultato l'accrescimento del male. Io lo ripeto, il contrabbando è considerevole, ed alla perdita già nota e che risulta dalla bilancia, unita l’altra perdita sommamente considerevole che nasce dall’immessione furtiva, è chiaro che senza misure sagge e forti noi siamo minacciati di rovina.
Rilievo degli articoli più vistosi della importazione. La materia è tanto importante che io credo di dover qui trascrivere gli articoli principali d'importazione che hanno avuto luogo nel 1819. Così il Parlamento vedrà meglio la nostra posizione.
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Parte terza. La politica economica
Canape Grezzo, duc. Pettinato, duc. Cotone in stoppa la maggior parte riesportato
148.000 71.000 77.000 120.000
Cera Formaggio
40.000 269.000 169.000 800.000 183.000 42.000 874.000 149.000
Cotone filato Cuoi Vitelli conci Pelli conce Panni Tessuti di lana Fazzoletti di mussolina di cotone, bianchi, rigati, stampati, ricamati Mussolina di ogni sorta, da tre palmi a cinque palmi Dobletti Tele cassis Tela di cotone stampata! Telette e tele di cotone bianche e tinte Tessuti di cotone Velluto di cotone Tele di lino, di Olanda, di batista, di canape Tessuti di seta di ogni sorta
Tessuti di lino bianco e grezzo Lavori di moda Nanchini Baccalari? Caffè Carboni Alici salate? Salacche Cacao Chincaglierie e mercerie China qualunque* Ferro Piombo Rame
410.000 512.000 107.000 305.000 687.000 395.000 38.000 490.000 70.000 80.000 202.000 75.000 76.000 270.000 330.000 177.000 107.000 81.000 119.000 191.000 16.000 369.000 70.000 104.000
$L’importazione dei tessuti di cotone nell’anno 1818 fu di ducati 316 mila. Sono assicurato che questo articolo oltrepassa almeno di cantaia 20 mila la quantità portata nel quadro. La medesima osservazione che per i baccalari. 4 Fu 134 mila nel 1818.
II. Il commercio
Tavole d’abete Indaco Lastre di vetro e lavori di cristallo Pepe
21/5)
80.000 165.000 190.000 75.000
Riso
84.000
Rhum
62.000
Lana barbaresca ed altra
63.000
Coralli grezzi
48.000
Zucchero Totale duc.
426.000 10.068.000
Mezzi da riparare al male delle tariffe. È della massima urgenza di uscire dallo stato di perdizione in cui si trova lo Stato, e che si accrescerà irreparabilmente nell’attuale sistema se non vi si apponga riparo.
Due cose sono necessarie: diminuire l’importazione ed accrescere l'esportazione. Modificazione delle tariffe per diminuire l'importazione. L’aumento della industria interiore e delle fabbricazioni, le misure
che tendono a distruggere il vantaggio che hanno gli esteri nella concorrenza, sono le cose sole che possono far ottenere il primo fine. Il principale mezzo per conseguirlo sono o la proibizione dell’entrata, o la modificazione delle tariffe doganali. Perdita che risulta dal non far uso di questo mezzo; danno grave delle nostre manifatture. Nel 1814 il Regno conteneva varie fabbriche che il libero commercio sopravvenuto ha distrutte; molte altre relative a manifatture in cotone, in lana, in seta, in lino, erano per sorgere nel tempo della proibizione di tutti i generi esteri. La riapertura del commercio con tutti i paesi le ha fatte perdere, e quelle fabbricazioni che anche in questo sistema potevano sostenersi sono state distrutte dal contrabbando. Le manifatture di lana una volta fiorivano in più siti del Regno pei panni ordinari, in modo che questi oggetti si vendevano nella fiera di Sinigaglia, passando di là sino ai mercati di Germania. A poco a poco l’influenza dei fabbricati venuti dall’estero, e fatti coll’aiuto delle macchine, ridussero questa fabbrica-
zione del Regno a nulla. Nella breve epoca delle proibizioni parve che questo ramo d’industria desse qualche speranza di risorgere. Ma l’immensa quantità immessane poi dall’estero, e che spesso si stenta a vendere, le ha fatte nuovamente decadere.
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Parte terza. La politica economica
Io non entrerò in dettagli ulteriori sulle rovine delle nostre manifatture, giacché sono generalmente conosciuti. Esempi delle altre nazioni, e misure che convengono alle nostre circostanze. L'Austria ha proibito nell’anno 1816 negli Stati di Lombardia e Venezia tutti i generi esteri manifatturati di cotone, di lana, di seta e di lino. Le fabbriche protette su tutti i punti dello Stato sono cresciute. Il governo è stato inflessibile. Il governo francese appena ristabilito rinnovò le proibizioni per le merci estere per non perdere venti anni di fatiche durate nello stabilimento delle sue fabbriche. Una somma immensa annuale si è con questo metodo conservata alla nazione. Ma noi siamo nella posizione medesima. Il Regno non possiede molte manifatture in istato da poter concorrere colle merci estere, né per l'esecuzione, né per la quantità occorrente. Non è possibile di proibire ad un tratto molti di questi generi. Nel nostro paese non si riesce facilmente a far venite molti fabbricanti e lavorieri dall’estero, sia per istabilirvisi, sia per insegnare la loro arte. :
Le nuove fabbriche non sono di facile esecuzione. E necessaria la piena conoscenza dei progressi continui che l’arte fa ogni giorno. Sono necessarie le macchine per risparmiarsi le spese e le
braccia. Senza di tutto questo non si dà mai una base solida all'industria nazionale. Basi da regolar la tariffa. Adunque bisogna modificare sulle basi seguenti le misure a prendere: 1. Conviene che il governo proibisca l'immissione di quei generi soli che il Regno può produrre in una certa quantità. Colla proibizione il fabbricante è incoraggiato dal proprio interesse per arrivare in breve tempo a supplire al bisogno. 2. Sul genere la di cui fabbricazione è ancora nascente o di facile esecuzione, conviene, per incoraggiare i fabbricanti, che si accresca il dazio d’immissione.
3. Per i generi di cui la fabbricazione non è ancora introdotta, conviene lasciare esistere per ora il dazio a norma della tariffa attuale, senza far ribasso alcuno, per non togliere all’industria nazionale il mezzo da sorgere ed accrescersi. Quest'ultimo articolo è tanto importante quanto i preceden-
ti. Vi sono molti che opinano che il ribasso gioverebbe al tesoro ed eviterebbe i contrabbandi.
II. Il commercio
DID
Ma quanto al primo, il dazio dee aver per base non tanto le rendite dello Stato, quanto il principio di far prosperare l’industria nazionale. Quanto al secondo, se vi è vigilanza, si eviteranno i contrab-
bandi quando le tariffe sieno ragionevoli e non assurde. E se manca la vigilanza, i contrabbandi si faranno ugualmente, anche diminuito il dazio. Il caso solo di diminuire il dazio d’immissione può riguardare le materie prime che servono alle nostre manifatture. Io cito l’esempio dell’indaco di cui l'importazione non è piccola. È un oggetto che il Regno non produce, e che è di un bisogno assoluto per le tintorie. Paga 56 ducati al cantaio per dritto d’importazione; questo dritto sconosciuto in ogni altro paese, è un residuo del sistema continentale, e dovrebbe esser ridotto a 10 ducati il cantaio, e forse anche meno. Ma s’incontreranno pochi casi si-
mili, ed in generale il ribasso delle tariffe può giovare ai commissionari, che spaccerebbero così quantità maggiori di merci forestiere, ma è dannoso al tesoro ed alla prosperità generale. Sopra le regole indicate avendo presente la tariffa si vedranno facilmente: 1. gli oggetti d’immissione da proibirsi; 2. quelli per la cui immissione debbe essere aumentato il dazio;
3. quelli per i quali bisogna provvisoriamente far sussistere i dazi attuali. Esempio per l’applicazione. Proposizione di quello che dovrebbe stabilirsi per ciascuno dei generi che ci fa più danno. In una materia che il mio Ministero dee risguardare come la prima e la più interessante, non posso astenermi di dare una rapida scorsa sulle tariffe per esemplificare l'applicazione dei principi generali.
Canape. Abbiamo certamente i mezzi di produrre il canape il necessario al nostro consumo e di esportarne anche nell’estero. Negli anni 1815 e 1816 ne fu esportato per ducati 290 mila, e negli anni 1818 e 1819 se ne importò quasi per altrettanto. Non convenendo di proibire l'importazione pel caso di qualche cattiva raccolta nel Regno, se ne può aumentare il dazio che è per ora di tre ducati a cantaio pel canape grezzo e cinque pel pettinato.
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Parte terza. La politica economica
Cotone in istoppa. La piantagione del cotone nel Regno ha seguita la coltivazione dei cereali. Perciò nell’anno 1817, sino alla raccolta del 1818, i cotoni in istoppa mancarono per la fabbricazione del Regno. Questa mancanza fu rimpiazzata dal cotone di Bengale, qualità ordinaria ed a basso prezzo. Gl’inglesi vedendo questo picciolo bisogno, ne mandarono nel 1819 maggior quantità, quasi tutta riesportata, e che non poté sostenere la
concorrenza della stoppa che il Regno produsse nell’anno stesso. Le nostre fabbriche consumano 1.500 a 2.000 cantaia di stoppe ordinarie per le provincie. Quando si trova il mezzo d’incoraggiare la piantagione cade da sé ogn’importazione di questo genere. Un oggetto da prendersi in veduta è la migliorazione della qualità della stoppa. Si potrebbe forse tentare di far venire dagli Stati Uniti di America la miglior semenza, anno per anno, rimborsandone il valore con varie sorte di legumi. Io debbo osservare che nel primo trimestre del 1820 l’importazione dei cotoni è stata di sole 14 cantaia. Cera. Può migliorarsi la nostra industria della cera, e può migliorarsi facilmente la manifattura. Formaggio. Immettesi di formaggio sino alla somma di ducati 200 mila all'anno. Questo è vergognoso per un paese di agricoltura, e per i mezzi immensi che contiene di aumentare la pastorizia. Il cacio di Sardegna e di Morea, che forma la maggior quantità dell’immissione, dovrebbe esser colpito da un aumento grave di dazio. La perdita in ogni caso sarebbe tutta dell’estero perché,
particolarmente del primo, non se ne fa smaltimento altrove, e si è costretto di venderlo qui a prezzo minore. Noi possiamo in ogni caso rimpiazzarlo coi nostri generi.
Il governo del Piemonte ha caricato i nostri vini di dazio per modo che quelli d’Ischia non possono più portarsi in Genova. Noi non faremmo che seguire un esempio che ci è suggerito.
Cotoni filati. Nella bilancia del 1819 sono portati ducati 169 mila, metà filati di Malta, e metà filati d’Inghilterra. I cotoni filati di Malta, che sono di qualità comune e lavorati a mano, nel tempo della proibizione furono benissimo rimpiazzati da migliaia di donne che lo filarono per tutto il Regno, e per
II. Il commercio
DAN
lo quale impiegarono il cotone di seconda qualità non atto per la vendita all’estero. Dopo ritornato il libero commercio, Napoli fu inondata da migliaia di balle di questi medesimi filati di Malta. Così noi abbiamo perduto un guadagno per un numero immenso d’individui della classe povera, ed abbiamo ancora perduto il vantaggio che più migliaia di cantaia di cotone del Regno resti impiegato a questo USO.
Tutto ciò dimostra che, o bisogna assolutamente proibire questo genere, o che almeno bisognerebbe aumentarne il dazio sino a ducati 40 il cantaio, mentre il dazio presente è del 15 per cento sul valore. Quanto ai filati inglesi, o sia cotoni filati alle macchine, otto anni indietro erano appena conosciuti e non se ne faceva uso
alcuno nel Regno. La fabbrica di Piedimonte l’eseguì la prima volta colle sue macchine, li pose in vendita e ne fece sentire l’utilità. I negozianti esteri se ne avvidero e portarono nel 1816 le loro prime spedizioni. N’è risultato che i prezzi per l’immissione fattane superiormente al consumo, sono sommamente
avvi-
liti, misura infallibile contra ogni tentativo di nuove filature nel Regno. Il consumo di questi filati per le fabbriche del Regno cominciato nel 1813 è cresciuto ora a circa 600 cantaia all’anno. Se le circostanze attuali non permettono di proibire l'importazione, si può almeno aumentare il dazio nel modo stesso che è stato più innanzi indicato. Cotone filato tinto in colori solidi. È provato che si riesce a farli tanto belli e vivaci quanto quelli che ora in poca quantità ne manda la Francia. Bisognerebbe proibire ogni estera immissione; il consumo potrebbe avere grandissimo aumento. Cuoi, vitelli conci, pelli conce. Bisognerebbe con ogni mezzo proteggere ed incoraggiare le fabbricazioni. L'aumento della nostra pastorizia gioverebbe a diminuire l'immissione anche della merce grezza.
Panni, tessuti di lana. Ho già dimostrato di quanta importanza sia quest’oggetto, e quanto sia necessario di rilevare in questa par-
te le nostre manifatture. Se non può proibirsi ogni panno comune, almeno dee mettersi un dazio uniforme per i panni fini ed ordinari, ed elevarli al 20 per 100, o fissarsi un dazio a cannaggio.
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Parte terza. La politica economica
Per ora il dazio si paga al 13 per 100 allorché il valore è al di sopra di ducati otto la canna, ed il 18 per 100 quando è al di sotto.
Si può così far passare tutto per panno fino e pagar meno. Le nostre manifatture, che non possono produrre che panno ordinario, ne restano schiacciate. Fazzoletti di mussolina, di cotone bianchi, rigati, stampati, ricamati, mussolina di ogni sorta da 3 palmi a 5 palmi, dobletti, tele di cotone bianche, tessuti di cotone, velluti di cotone, tessuti di seta di ogni sorta. Io ho riunito tutti questi articoli che recano un danno immenso al nostro commercio e che nel 1819 sono stati importati per la somma di ducati 3.717.000, e noterò le modificazioni che possono essere adottate in favore dell’industria del Regno. I fazzoletti di mussolina detti Ba/azores furono proibiti con decreto del 1816. Questa proibizione debbe essere confermata. La fabbricazione della tela di cotone ordinaria, o sia indiana, stampata, chiamata stretta più del solito, serve per mobili, ed è introdotta da più anni, ma stenta a far progressi perché se ne importa molto dall’estero col dazio di sole grana otto a canna. Converrebbe che l’importazione di questo genere fosse assolutamente proibita, anche perché il perfezionarsi in questa fabbricazione conduce ai lavori più fini, ed è di una grandissima importanza pel Regno. Il dazio sui fazzoletti di mussolina o di cotone bianco o rigato sino a palmi tre e mezzo di larghezza dovrebbe essere aumentato allo stesso dazio che pagano quelli di quattro palmi. La fabbricazione dei panni è introdotta nel Regno. Aiutata con questo mezzo acquisterà tutta l’estensione necessaria. I mensali di cotone da sette a nove palmi e mezzo di larghez-
za, e le salviette di cotone che si fabbricano nel Regno, meritano di esser protette con un aumento di dazio all’importazione. Il dazio d'importazione sopra le tele cassie (genere di cotone ordinario di facile fabbricazione) dovrebbe essere aumentato. Questo aumento converrebbe farsi gradualmente perché se ne immette troppa quantità, e non può essere dalla industria nazionale immediatamente supplita. I tessuti di cotone e tessuti di lana non nominati pagano il 13 per 100 di dazio sul valore: è un oggetto questo di quasi 400 mila ducati d'importazione all’anno. Gli usi e le mode presentano ogni
II. Il commercio
momento presi nei tariffa, e trebbero dovrebbe
nuove generi cresce essere essere
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forme, nuovi disegni, nuovi tessuti, tutti comnon nominati. Si perde l’uso dei nominati nella qualche volta l'importazione dei generi che pofacilmente imitati. Il dazio che è al 15 per 100, rialzato al doppio.
Varie altre manifatture di cotone. Sono introdotte pure nel Regno le fabbricazioni delle calze di cotone; quelle di seta sono antiche, e le nere sono particolarmente accreditate per la tinta delle cotonine, delle coverte di mollettone e bambagia, dei dobletti rigati, dei fustagni, delle telette di cotone bianche e colorate. Questi generi sono di grandissimo spaccio nel Regno. Facili a fabbricarsi, ne viene arrestato il progresso dalle importazioni dall'estero. Un aumento di dazio d’immissione almeno del doppio sulle qualità ordinarie o strette, e della metà del dazio presente sulle qualità più fini e più larghe, riescirebbe a mettere il Regno in breve tempo nel caso d’impiegare tutti i cotoni che vi crescono per la propria fabbricazione. Nelle calze è provato che noi riusciamo a farle della medesima perfezione dell’estero. Non bastano i telai esistenti. Ognuno di essi costa cinquanta o sessanta ducati. Qualche incoraggiamento sarebbe necessario. I velluti di cotone presentano un valore di più di 400 mila ducati all'importazione nell’anno 1819. Ci vorrà tempo perché l'industria nazionale possa provvedere a tanto bisogno. Questo genere è gradito e fa parte del costume nazionale in più provincie. Intanto le fabbriche del Regno ne fanno per 40 o 50 mila ducati all'anno. Riescono anche per le qualità fini, e non manca forse che un aumento del dazio d'importazione, almeno sulle qua-
lità ordinarie, perché si abbiano i migliori successi. In fine bisogna osservare che la tariffa è così mal combinata e le indicazioni degli articoli sono così vaghe, che si riesce spesso ad introdurre articoli soggetti a dazio grave sotto la denominazione di quelli ai quali è assegnato un dazio leggiero. Questo merita di esser corretto. Io ho percorsa una gran parte dei più importanti oggetti della tariffa. Vi è molto altro da aggiungere, e da tanti piccioli dettagli sorge poi un risultato interessante. Questo mezzo delle tariffe è il principale per promuovere la nostra industria. Ma non dee essere adoperato isolatamente. Oc-
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Parte terza. La politica economica
corrono altri aiuti ed altri incoraggiamenti. L'erogazione soprat-
tutto di considerevoli somme è necessaria per soccorrere i fabbricanti, onde costruire i locali e provvedere le macchine. Bisogna far questo con prudenza e con circospezione, ma infine una certa fiducia è necessaria e conviene rischiare qualche cosa. Io son certo che la saviezza del Parlamento concorrerà a tutti i sagrifizi che esige la prosperità di un paese che ha tutti i mezzi per acquistarla. Commercio di esportazione. Se il commercio d’importazione esige le proibizioni assolute e gli aumenti dei dazi, quello di esportazione richiede la maggior libertà e la diminuzione dei diritti per quanto le circostanze e la natura dei generi possano permettere. Qualche volta anche per questo commercio è forza ricorrere a delle proibizioni; ciò per altro non può aver luogo che per alcuni generi grezzi solamente, e nei casi che colla esportazione loro manchino gli elementi delle manifatture già stabilite presso di noi. Il commercio degli stracci ne ha presentato recentemente un esempio.
La marina mercantile debbe esser protetta. A questo effetto i diritti d’immissione nella tariffa doganale dovranno esser diminuiti per le merci introdotte con bastimenti nazionali. Le costruzioni dei legni mercantili debbono esser favorite al più possibile. Questi mezzi riuniti a quelli tendenti a promuovere l’industria porteranno sicuramente il numero dei nostri bastimenti mercantili a quello che era una volta. Altronde, scomparsa la feudalità dal nostro suolo, l’agricoltura andrà sempreppiù prosperando per fornire al nostro commercio attivo una quantità maggiore di quelle merci per le quali lo spaccio ci è sempre assicurato, o anche degli elementi che non abbiamo sinora per mezzo delle utili coltivazioni che è presumibile che di mano in mano adotterà dai paesi esteri. Io mi metterò d’accordo col mio collega il Ministro delle Finanze. Il governo proporrà una nuova tariffa sopra queste basi e sopra altre analoghe. La fermezza del Ministro delle Finanze, il suo zelo, i suoi lumi, assicurano che a questa salutare misura si
unirà l’altra più salutare ancora della distruzione del contrabbando che demoralizza il paese, rovina il Tesoro, impedisce la pro-
sperità nazionale, e mette gli onesti negozianti nel caso di non far più affari. [...]
II. Il commercio
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2. Sui danni dell’eccessiva importazione* [...] A compimento della parte economica del rapporto io sono costretto somministrare agli abitanti del mio paese due riflessioni che forse non in tutto estranee potrebbero sembrare. Alla mancanza di raffinamento nelle nostre arti bisogna aggiungere la poca attività del commercio. I nostri generi rimangono a marcire nei magazzini, mentre i popoli limitrofi vengono a spacciare il loro superfluo nei nostri mercati. La conseguenza dannevole si prevede facilmente. Il numerario è asportato ed il prezzo dei nostri prodotti diminuito. L’indolenza, che è la caratteristica locale, seconda l’avidità ed è di tali mali cagione. Si rimettono i vini e le granaglie per vendersi poi, e frattanto si dà campo ai forastieri di portar via il danaro, rilasciando fra noi quello stesso di che abbondiamo. Anzi è poi tale la nostra indolenza, che se non vengono essi nei mercati nostri richiesti, non vi ha pericolo che si cerchi altrimenti di asportarli. A corto dire: tutto s’importa fra noi e specialmente ciò che non manca, né si asporta cosa se non colla buona grazia dei popoli vicini. Se noi asportassimo i vini e le civaie nei mercati della Campania, di Molise, di Salerno, quanti vantaggi non si unirebbero a pro della provincia [di Principato Ultra]? Lo spaccio darebbe più prezzo alle derrate indigene, si aumenterebbe in luogo di esaurirsi la specie monetaria, lo smercio accrescerebbe l’industria, colla quantità si compenserebbe il prezzo e si animerebbe il commercio, ch'è il fonte primo d’onde la civilizzazione si attigne. E dimostrato oramai che nei paesi ove non v'è che agricoltura, la massa del popolo si può comporre di servi addetti alla gleba e privi di ogni istruzione. Il commercio, signori, mettendo gli uomini in relazione, dice Stael, cogl’interessi del mondo, estende le idee, esercita il giudizio. Lo stato presente d’altronde è in qualche maniera garante di un più lusinghiero avvenire. Le grandi strade che riuniscono già i due
Principati, la gran strada di Melfi che fra non molto aprirà una nuova comunicazione colla Basilicata e faciliterà le altre colle Puglie e colle Calabrie, vanno ad aprir nuovi sbocchi al ricam* Da Serafino Pionati, Rapporto dei travagli eseguiti dalla Società economica di Principato Ulteriore nell’anno agronomico 1820. Letto nell'adunanza generale del 30
maggio 1820, in «Annali di Agricoltura Italiana», tomo VII, lug.-set. 1820 (A. Trani, Napoli), pp. 181-182.
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Parte terza. La politica economica
bio dei nostri generi, ed è sperabile allora che le società mercantili e le colonie industriose porteranno gl’irpini ad uno stato più florido. [...]
3. Il commercio în provincia di Abruzzo Citra* [...] La nostra provincia, avendo la favorevole posizione di essere bagnata dal mare Adriatico al nord-est, e di comunicare colla strada consolare che dalla capitale conduce nell’alta Italia, mantiene esteso commercio tanto coll’estero quanto colla capitale e colle altre provincie del Regno. Dai calcoli sicuri ricavati dai registri doganali, risulta che ordinariamente il commercio coll'estero, e specialmente colla Germania, suol essere per noi in-
tieramente sfavorevole. E ciò si è maggiormente avverato in questi ultimi anni, nei quali si è continuata la solita introduzione delle manifatture estere, nell’attoché noi siamo stati impossibilitati a far le spedizioni dell’olio, del vino, e dei cereali, prima, perché questi prodotti mancavano, ed ora perché non sono richiesti. Per non trattenerci in calcoli molto lunghi, basta riflettere che dal conto del prossimo scorso anno 1819 risulta che i dritti doganali percepiti in questa provincia per i generi d’introduzione sono ascesi a ducati 20.984, e per l’estrazioni si sono esatti soltanto ducati 3.829; dal che può senza equivoco conchiudersi che il disquilibrio del commercio a nostro danno sia stato di circa ducati 60.000, avendosi anche riguardo alle molte mercanzie estere che vengono trasportate in provincia dalla dogana di Napoli. Il commercio interno col Regno ci porge il più delle volte delle notabili risorse; ma non è da guardarsi con indifferenza l’estrazione del denaro che si fa per l’acquisto dellino, della canapa, dei corami, delle telerie, e di altre mercanzie che si traggono dalla capitale e dalle altre provincie. Si è osservato che l’introduzione di tanti generi comerciali non può intieramente impedirsi, essendovene molti assolutamen* Da Armidoro de (H)Oratiis, Rapporto del Segretario Perpetuo [della Società economica di Abruzzo Citra] alla seduta generale del 30 maggio 1820, manoscritto, in Archivio di Stato di Napoli, Ministero Interni, I inventario, fascio 2208.
II. Il commercio
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te necessari, come sono le droghe, il ferro, il rame, le tinte, ed altri prodotti ai quali è negato il nostro suolo; ma di molti altri generi se ne potrebbe impedire o minorare l’introduzione, come sono le telerie, i panni, i legnami per gli edifici e per le arti, la cera lavorata, i cristalli, e la carta da scrivere. In questo stato di cose la nostra Società, destinata a sorve-
gliare sulla floridezza del commercio e sulla promozione delle arti, si ha proposto lo scopo di riparare a tante mancanze in due modi; cioè: 1° con rendere più attivo il commercio coll’estrazione dei generi e delle produzioni che sopravanzano al consumo degli abitanti della provincia; 2° con minorare il bisogno dei generi e delle manifatture delle quali noi manchiamo pel lusso e pei bisogni necessari della vita. In tal modo si aumenterà la ricchezza della provincia, o almeno si manterrà l’equilibrio nel commercio, senza del quale essa andrebbe insensibilmente a deperire. Estrazione pel commercio attivo. I prodotti dai quali noi otteniamo un commercio attivo coll’estero, colla capitale e colle provincie del Regno sono quelli che provengono dall’agricoltura e dalla pastorizia; ed è perciò che sopra di questi principali 0ggetti ella rivolse le assidue sue cure fin dalla prima istallazione. E già si osserva il nobile risultato di vedersi aumentata l’abbondanza dei cereali, ed accresciuti li vivai e le piantagioni di olivi, di frutteti, di gelsi pei bachi da seta, di pioppi, di olmi, e di alberi di Bacco e di estesi vigneti di uve scelte che si hanno dalle piantagioni e dagli innesti; con che saremo in grado di fare una più ricca estrazione di grano, formentone, olio, seta, frutti e vino. Per la pastorizia però la Società non è appieno soddisfatta, poiché con rincrescimento si vede ancora che la provincia è tuttavia nel bisogno di provvedersi dalle altre, e qualche volta anche dalle Marche, di cavalli e giumente, di giovenchi e di vaccine grasse da macello. Come i proprietari di animali non hanno il costume di spedirli nelle Puglie per isvernarli, così avviene che mantenuti gli animali nelle stalle pel corso dell’inverno, soffrono
essi moltissimo per la mancanza di buoni, e nutritivi fieni. E per questo che la Società ha distribuita molta quantità di semenze di sulla e di lupinella, inviandole benanche ai soci corrispondenti del comune di Agnone, che prima delle ultime divisioni del Regno faceva parte di questa nostra provincia; ha distribuito dei
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Parte terza. La politica economica
premi per incoraggiare la coltura dei prati, e non cessa di rinnovarli; e diffonde delle istruzioni, onde sappiano i contadini come
e quando adoprar si possano pel nutrimento degli animali le patate che in tempi abbondanti di cereali si rendono sopravanzati o inutili per gli uomini; e così nell’anno prossimo scorso pubblicò le istruzioni veterinarie per riparare alle malattie più ovvie delle vaccine, dei porci e delle pecore. Minorazione dei prodotti forastieri. Il maggiore ostacolo si è incontrato per la minorazione dell’introduzione dei generi e delle manifatture forastiere. Ma pur si son dati dei passi molto avanzati per giungere al termine di questo lodevole proponimento. L’esito del denaro per l’acquisto dei panni forastieri per lusso e per necessità, va minorando di anno in anno a proporzione dei
progressi che fanno i fabbricanti dei panni di Lama, di Palena e di Taranta. La Società non manca d’incoraggiarne il miglioramento con istruzioni e con premi che va in quest'anno a rinno-
vare; e qui in pubblica adunanza si presentano alla vostra osservazione i panni delle fabbriche dei Sign. Domenico e Daniele di Renzo di Lama, i quali se ancora non sono stati portati alla perfezione proposta dalla Società, meritano ciò non ostante di essere molto apprezzati. Le istesse fabbriche fanno commercio dei loro panni anche coll’estero, e colle altre provincie. Ho il piacere di annunziarvi che in Fara S. Martino sta sorgendo una novella fabbrica di peloncini all’uso forastiere del Sig. de Paolis che ne ha presentati dei saggi. Va benanche minorandosi l’esito pei corami, poiché si aumentano le fabbriche di concerie in Atessa, in Guardiagrele, in Lanciano, ed in questa città®, oltre di altre fabbriche che cominciano del pari a distinguersi. L'introduzione delle cere lavorate forma per noi un altro esi-
to straordinario. Le due cererie che si sostengono in Lanciano dai signori da Crecchio e Talli, producono una scarsa risorsa, giacché sono essi nella necessità di provvedersi delle cere grezze dall’estero. Era perciò necessario d’incoraggiare l’industria delle api. Le arnie pugliesi cominciano a generalizzarsi, ed in quest'anno si distribuisce all’oggetto un altro premio. L’esito più rimarcabile che soffre la provincia è senza dub-
bio quello delle telerie. Non vi ha ceto di persone di qualunque è Ossia Chieti.
II. Il commercio
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grado e condizione, che non sia nell’obbligo di acquistarne sia per lusso, sia per necessità; e finanche le limitrofe provincie di Puglia e di Aquila ci forniscono di tele di cotone e di canapa. Per minorare quest’esito, la Società ha procurato di estendere la coltura del lino e della canapa (giacché a quella del cotone sembra che il nostro clima sia poco favorevole) e di promuovere lo stabilimento delle fabbriche di telerie; ma come questa operazione procede con molto ritardo, così si è ella determinata di stabilire per proprio conto molti lavori in uno dei conservatori di questa città, assegnando i fondi necessari, e non si attende che la superiore approvazione per l’esecuzione del progetto. La provincia soffre un altro notabile dispendio per provvedersi dall’estero di cristalli, e di vetri. Ma già la vetriera introdotta dal Sig. Torcione in questa città va migliorando. La Società procura d’incoraggiarla, ed è impegnata di farne risorgere un’altra nel Vasto, e di animare l’industria della cenere della salsola
soda, del che si è ultimamente incaricato il socio Sig. Fattiponi di questa città, ordinariamente residente nella spiaggia marittima di S. Silvestro. Gli stessi sforzi si sono fatti per ottenere il miglioramento delle cartiere, ma fin’ora non si ha verun felice risultato, per cui è d’uopo raddoppiarne l’impegno. È ammirabile, come non vi siano degl’individui che facciano una speculazione di tanto sicura riuscita! Possiamo in certo modo vantarci di aver nel seno della provincia degli abili artieri per le fabbriche di cappelli, per i lavori di legnami e di ferri, e per la costruzione degli edifici, nonché per tutte le altre manifatture più importanti pel sostegno della vita. Basta di gettare uno sguardo ai pubblici edifici eretti con tanta rapidità nel seno della nostra città per convincersene: parlo della vasta mole del reale collegio provinciale, che sorge con sì felici auspici, e del teatro di questo comune che i pubblici fogli hanno annunziato pel secondo teatro del Regno. [...]
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Parte terza. La politica economica
4. Per una riforma della Borsa di Napoli* Per sistema antico sino alla venuta dei francesi nell’anno 1806, la Borsa di Napoli era regolata da pochi mezzani nominati dal Re; era loro incarico di fissare una o più volte la settimana li cambi tanto per l’estero che per il Regno. Nel Decennio, essendosi formato il debito pubblico, si stabilì per legge che vi fossero 12 agenti di cambi e trasferimenti, anche di nomina del Re, ed a questi solo apparteneva il dritto di negoziare e fissare li cambi alla Borsa, di negoziare e trasferire le partite del debito pubblico. Un articolo del codice di commercio parla degli obblighi e doveri degli agenti, per l'adempimento dei quali, oltre alle pene stabilite, danno una cauzione sul Gran libro per la somma di ducati 5.000. La maniera come si fissa alla Borsa il prezzo delle rendite pubbliche ed il corso dei cambi è la seguente. Nel lunedì e giovedì di ogni settimana, escluso le feste, tutti li agenti e maggior parte delli negozianti si radunano nel locale addetto; ivi conoscendosi dall’agente la volontà dei commercianti per vendere o comprare delle rendite pubbliche, per dare o avere cambiali per l'estero e [per il] Regno, dopo diverse riunioni tra loro, se sono d'accordo, fissano il prezzo delle rendite e corso dei cambi, ed essendo discordi si chiamano due deputati, i quali dopo aver inteso le diverse opinioni degli agenti danno il loro parere che è legge, senza che nessuno abbia dritto di rispondere. Interviene all’adunanza della Borsa un commissario di polizia, che dopo tanti anni altro non fa che permettere l’affisso delle carte commerciali. AI ritorno di S.M. dalla Sicilia fu conservato il detto sistema, ed essendosi formata una banca di sconti e pegni, il Ministro allora delle Finanze, dal numero di 12 agenti ne prescelse uno, il Sig. Pietro Cianellii, ed a questo solo diede l’incarico dei sconti e pegni della banca, della compra e vendita dell’iscrizioni, e di qualunque altra negoziazione di cambiali per conto del governo. Questo sistema ha seguitato anche nell’epoca del delirio”, e se* Memoria per S.E. il Principe di Canosa, manoscritto anonimo e senza o 1821), in Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbone, fascio 732/III, asc.lo 7.
® L’autore si riferisce alla rivoluzione del 1820-21.
II Il commercio
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guita tutt'ora. Soltanto nell’anno 1818 li agenti furono portati al numero di 14, e nel 1819 al numero di 18, che sono i sotto
notati!.
Inconvenienti e danni che ne risentono da questo sistema tanto il commercio che il regio erario. La legge [vieta] all’agente di negoziare per conto proprio, diversi ve ne sono che la fanno più da speculatori che da agenti. Li negozianti deputati sono banchieri, virtù rara ai tempi presenti di preferire il pubblico al bene personale. Si conosce che il governo, un negoziante non deputato, devono fare delle operazioni, si uniscono gli agenti speculatori colli banchieri deputati, e fanno a modo loro; ecco perché vediamo spesso nella nostra Borsa delle variazioni significanti tanto nei cambi che sul prezzo delle rendite, cose che in altre città d’Europa non succedono che quando vi ha rapporto la politica. Progetto. Che uno degli agenti col carattere di presidente sorvegli alla condotta dei suoi colleghi per l'esatto adempimento delle leggi; obbligo di fare il rapporto a chi si conviene di tutte le contravvenzioni ed abusi che verranno a sua cognizione. Incaricarlo egualmente del buon ordine della Borsa, facendo le veci del commissario di polizia. Nella fissazione dei cambi e prezzo delle rendite sia incaricato di mettere regolarmente d’accordo li agenti, e non potendo, sia in obbligo di mettere regolarmente d’accordo, di chiamare uno o più negozianti per consultarli, e questi tirare a sorte da un’urna ove saranno riposti li nomi di tutti quei negozianti che intervengono alla Borsa. Chi progetta è certo che questa riforma spiacerà a pochi agenti, e negozianti, ma sarà gradita dalla generalità del commercio, e le finanze di S.M. ne avranno dei vantaggi incalcolabili. Si previene che se il presente progetto passa all'esame della 1 Napoletani: Spasiano, Giusti, Salvetti, Cianellii Pietro, Cianelli Lazzaro,
De Martino, Lista, Cianella, Freppa. Francesi: Degas, Teans, Prestau. Piemontese: Vendelling. Inglese: De Maria. Tedesco: Hesterman. Ginevrino: Autran. Genovesi: Franco, Bagliano. Li forastieri hanno però il dritto alla cittadinanza per l’anni di domicilio, o per avere sposato una napoletana.
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Parte terza. La politica economica
Camera consultiva di Commercio, non sarà approvato, perché li membri della stessa sono li deputati della Borsa e sono quelli banchieri di cui si è parlato. Rimettendosi la banca di sconti e pegni, non pare giusto che uno debba fare quello che tutti possono fare ed hanno dritto di fare. È poi necessario che il Ministro delle Finanze abbia un agente di confidenza per la compra e vendita delle rendite, e per la negoziazione delle cambiali, giacché il confidare a più persone un segreto sarebbe l’istesso che renderlo pubblico, a danno sempre del Tesoro reale. Si può benissimo variare la scelta a tenore delle circostanze.
5. Per uno sviluppo del commercio con la Francia* Il Regno di Napoli, dotato di fertilissimo suolo, fonda la sua principale ricchezza sull’agricoltura, ma non ancora ha portata questa a quel grado di floridezza di cui è suscettibile, che perciò a riserba di quelle arti sussidiarie alla detta agricoltura e di ordinario bisogno popolare, non sembra opportuno che in generale altre ve ne siano da poter a questa nuocere. Questa è sempre più profittevole, sì perché dà generi di maggior bisogno, sì perché le forze dell’uomo nella produzione non agiscono sole, come nelle manifatture, ma in concorso con quelle della terra, purché tali generi prodotti dall’agricoltura abbiano facile scolo con un attivo commercio. Né al presente altro che conservare agricola questa nazione far si potrebbe per la sua prosperità, mancando le arti e suoi stabilimenti opportuni, a quale scopo convien che smaltisca con facilità le sue produzioni grezze e riceva in cambio quelle manifatture di cui manca. Sarà per l’innanzi più vantaggiosa la posizione agricola del nostro Regno di quella che è al presente. Le varie politiche vicende delle nazioni da venti anni in qua, ed il commercio in con-
seguenza turbato, han spronate molte nazioni dell’Africa e del Levante a rendersi più agricole, e ciò toglie il concorso ai nostri * Breve rapporto sullo stato di commercio che potrebbesi fissare colla Nazione Francese, manoscritto anonimo e senza data, in Archivio di Stato di Napoli, Ministero Interni, I inventario, fascio 2082.
II. Il commercio
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prodotti in generale'. Sarà sempre un vantaggio dunque, nello stato attuale, che le nostre derrate grezze abbiano scolo. Riguardando per lo contrario la Francia, la vediamo ora anche in uno stato migliore di agricoltura, talché ha meno bisogno di prima di produzioni naturali. D'altronde le sue produzioni artificiali che dar può per supplire a questo manchevole, è di bene che abbiano corso, quindi è che un trattato di commercio tra questo Regno e la Francia su questi oggetti sarebbe per ambi vantaggioso. Le notizie commerciali confermano in fatti quanto ho avuto l’onore di esporre, e con precisione mostrano il bisogno della Francia dei seguenti generi di nostra produzione. Seta. Dai registri dell’abolito suo dazio si rileva che tra gli anni fertili ed infertili se ne fa in questo Regno circa ottocento mila libbre. Di questa più della metà può estrarsi, quale si prendeva in tempo del libero commercio per la massima parte dai francesi, e questo commercio potrebbe riattivarsi. Qualora si propagasse il sistema di filatura alla piemontese, dal prezzo di carlini 25 circa la libbra, monterebbe a carlini 35 circa, che darebbe un milione e mezzo d’introito nel Regno. Cotone. Non solo quello di Puglia e Calabria, ma con ispecialità quello che si produce in questa provincia vien ora ricercato a preferenza di ogni altro, potendosi ben sostituire per i fini travagli a quello di America, e farsene ora grande estrazione pet la Francia. Lane. Benché queste non della miglior qualità, per la poca cura sul bestiame, sarebbero suscettibili di notabile miglioria, nondimeno col libero commercio molte quantità se n’estraeva per la Francia, essendo atte a quelle fabbriche di panni, e potrebbe un tale commercio ora rianimarsi. Oli. I nostri oli, benché assai inferiori a quelli di Francia per commestibile, nondimeno per lo minor prezzo grande uso fassene ivi per combustibile e per le fabbriche di saponi e per altre. 1 Riguardo ai grani è tale l'abbondanza nei litorali del Mar Nero, come è notissimo, che se venisse a rendersi libero il passaggio dai Dardanelli, quel grano condotto presso di noi verrebbe a costar meno del nostro prezzo naturale di coltivo, dazio fondiario, etc.
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Parte terza. La politica economica
Legnami da costruzione. Non ostante che questo Regno abbia delle provincie scarse oltremodo di legnami, ve ne sono però di alcune che ne hanno tanti da darne, e che per la sola difficoltà delle strade interne fa commerciarli piuttosto per mare. Sulle coste della Francia vien ricercato il nostro legname per bottami e per altro. Possonsi a questi, altri prodotti aggiungersene come estratto di liquirizia, varie frutte secche, tartaro di vino e suo cremone,
etc. Sono questi anche oggetti di domande da commercianti francesi. Oltre a questi vi sono alcuni nostri prodotti non sempre domandati, ma secondo le circostanze del bisogno, come spirito di
vino, e qualche volta anche grano. i Questo Regno ricever può in compenso per tali prodotti grezzi, dei generi manifatturati parte di suo bisogno, e parte di comodo e lusso, che sono i seguenti. Seterie di varie qualità, telerie,
pannine di lusso, lavori di cotone anche di lusso, acciai lavorati, chincaglierie di varie sorti, bijouterie, cristalli, vini, tabacchi,
etc. Finalmente tutti i generi coloniali. Consistendo il commercio nel semplice jus merae facultatis detto da pubblicisti, per attivarlo scioglier si deve solamente da quei vincoli che lo inceppino, per quanto sia possibile, che equivale alla tanto ripetuta massima lasciar fare e lasciar passare. Quando due nazioni vogliono stabilire tra loro un pieno commercio, lungi di formare trattati con reciproci obblighi di far uso privatamente dei generi che si cambiano, assai meglio è minorare, per quanto si possa, i vincoli che lo arrestano. Il nostro Regno non
avendo confinazione territoriale colla Francia propriamente, né motivi di discordia per la meccanica dei loro trasporti, non ha bisogno di regolamenti scambievoli ad evitare le frodi. Inoltre è ben noto che ogni trattato commerciale con ristrette obbligazioni tra due nazioni suole sempre addivenire pregiudizievole e rovinoso per la più debole. Da ciò risulta che non altro trattato esser vi dovrebbe tra il nostro Regno e la Francia che agevolare tra noi l'immissione dei suoi generi con una diminuzione della nostra tariffa doganale solamente per essi generi; e nel modo istesso i nostri prodotti goder dovessero tale vantaggio sopra gli altri nei porti della Francia. Questo scambievole privilegio, se così chiamar si voglia, non
II. Il commercio
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lederebbe in essenza il commercio delle altre nazioni, non essen-
do che una scambievole perdita dei due governi per dar luogo all’aumento della ricchezza delle loro popolazioni, ed a facilitarne il soddisfo dei loro rispettivi bisogni. Giova inoltre a rianimare il commercio il precetto dato da Xenofonte agli Ateniesi di essere rigorosamente giusti; a quale oggetto, tutta la vigilanza dei rispettivi governi esser dovrebbe di sostenere la buona fede nei contratti, e la pronta soddisfazione nelle frodi con delle leggi le più energiche e severe. D’inutile poi che io rammenti di essere necessario rendere i nostri porti più accessibili e sicuri.
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III PINANZESESKISCO
1. Per una diversa gestione della finanza pubblica* [...] Le imposizioni per lo più, e precisamente le comunali, non colpiscono sopra i prodotti, ma sopra i travagli. Ora il prodotto delle terre si divide in due parti. L’una riguarda l’introito degli avanzi che sono stati dedicati per la coltivazione. Questa porzione dev’esser sacra per la nazione, poiché è dessa la sorgente stessa che anima la fecondità. L’ altra porzione è il benefizio. È questa che costituisce la rendita. È sopra di questa solamente che la imposizione dev’esser levata. Noi abbiamo adottato d’introdurre delle piante esotiche nei climi delle nostre provincie che mal le comportano, e non abbiam dato elaterio alle produzioni indigene che la forza degl’istessi climi le fa allignare in maggior copia e di miglior qualità delle prime. Abbiam immaginato un sistema di proibizione limitata delle derrate e delle manifatture estere, ed illimitata uscita delle indigene nostre, nel mentre che le grandi nazioni della terra, considerate come parti indivisibili di una gran famiglia, e perché non in tutt’i climi possono allignare le stesse produzioni, il sistema di privativa nel commerio animando la guerra fra le nazioni, dee marcare l’ingiustizia sociale contra ogni dritto delle genti, e dee benanche polverizzare anziché ingigantire la massa del tesoro. Noi facciamo più prezzo della imposizione fondiaria che di quella indiretta nel mentre che la prima, trovandosi il nostro Regno agricola, ferisce più diret* Da Gianfranco Andreatini, Pochi pensieri sulle amministrazioni finanziere e comunali, Nobile, Napoli 1821, pp. 8-33.
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Parte terza. La politica economica
tamente le risorse delle nostre ricchezze per la ragione che i tri-
buti per esser giusti devono gravitare il più che si può indirettamente sugli oggetti che formano le risorse della nazione. Noi poco valutiamo o niente il commercio tra provincia e provincia, 0g-
getto di utilissime risorse, perché siam privi di strade consolari ed interne di comunicazione, e perché non abbiamo canali navigabili. Noi non sappiamo prender partito dei risultati preziosi che ci offrono le bilance di commercio, le quali rendono commendevoli ed indispensabili le officine di controllo delle dogane alle frontiere, perché non ponghiamo mente alla rettifica in ciascun anno della tariffa finanziera. Onde tutte queste omissioni che degradano la condizione di un popolo degno dei più grandi destini, e che racchiude nel suo seno feraci ingegni capaci di prodigi i più belli? Perché tra le serie delle disgrazie dell’umanità si ha ad annoverare quella per cui l’uomo quasi per un istinto è trascinato per esser come vittima innocente guidato sempre dall’abitudine. E ben difficile il ben riguardare come male tutto ciò che si è avvezzo di vedere e di maneggiare per lunga serie di anni. Quanti nuovi utili progetti, quante generose, e benefiche istituzioni sono trasandate per la sola cagione ch’esse non furono mai praticate? Non è mai troppo di esaminare le imposizioni nel loro essere, tanto per rapporto alla coltura delle terre, quanto per quello delle rendite di esse. Bisogna ancora paragonar le une con le altre. A’nvi delle imposizioni che scambievolmente si feriscono, e vi sono dei bisogni che non possono soddisfarsi che col soccorso di altri bisogni. La giusta ripartizione delle imposizioni è ancora da riputarsi principal requisito del genio finanziere per assicurar le ricchezze. Per riuscirvi fa d’uopo conoscere il valore rispettivo
territoriale di ciascuna provincia, conoscenza che dipende dal rapporto tra le produzioni, le manifatture, il commercio, la popolazione, e le spese che lo Stato emerge di provincia a provincia; bisogna che i non valori entrino sempre nei calcoli; che la quota delle imposizioni sia sempre determinata dalla massa delle rendite, e che l’una sia il termometro fedele dell’altra; che le provincie non paghino al Tesoro più di quello ch’esse ricevono; che la circolazione delle ricchezze vada sempre dal centro alla circonferenza, come viceversa dalla circonferenza al centro è tramandata; che ciascuna specie di proprietà sia imposta secondo la sua qualità; che le imposizioni nelle città siano più rilevanti di
II. Finanze e fisco
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quelle delle campagne, perché il povero, che nella costituzione sociale di già maltrattato dalla fame e dall’insolenza dell’orgoglio dei ricchi, non abbia ancora un motivo seducente di maledire la patria e di detestare il nome di cittadino. Egli è scabroso calcolo ancora il determinare la proporzione delle imposizioni col pro-
dotto delle terre e della rendita di esse poiché i rapporti che sembrano proporzionali fra di loro non sono tali allorquando si vuol divenire alla soluzione di essi. Per esempio, una dodicesima imposizione sopra di un tenue prodotto, ed una dodicesima imposizione sopra di un grande, non sono presso a poco nell’istessa proporzione per i contribuenti. La prima forma un carico molto più pesante della seconda. A riguardo delle Regie, la migliore senza dubbio dee riputarsi quella in cui tutto ciò ch'è imposto sopra il popolo, ricade a profitto dello Stato. Ogni altra imposizione indiretta che viene percepita da mani straniere, e che non cola nel Tesoro direttamente al più ch'è possibile, essa, scemando a misura che passa per le mani dei particolari, rimane a profitto dei medesimi. La nazione non ne ottiene allora il risultato che si propone. Bisogna convenire che i tributi sono regolati dagli uomini. Fa d’uopo perciò di combinare che sia diminuito per quanto è possibile il numero degli agenti che maneggiano i tributi, onde farli passare alla nazione. Non vi sono amministrazioni ove non vi sono rendite a riscuotere, e queste languiscono quando il colono ed i pastori sono oppressi dalle stesse mani dedicate a percepirle. La serie dei dettagli testé passata a rivista dimanda vedute superiori, esige spirito esercitato, ma sopra ogni cosa impone il
calcolo della probità. I nostri sistemi amministrativi finanzieri non tendono ai risultati di alti principi. Essi non possono esibire simmetria di sistemi e centricità di ordine, né sublimità di risor-
se, da che si è confusa la scienza del governo economico colla semplice amministrazione delle finanze. Questa non si raggira che ad un semplice meccanismo di ordine e d’ispezione. L’altra è la scienza dello Stato. Essa penetra nelle sorgenti delle ricchezze, essa le distribuisce. Il Ministero dell’Interno per suo istituto avrebbe dovuto somministrare tutt’i materiali per questa grande direzione, e gl’intendenti ne avrebbero dovuti essere gli organi principali. Ma infelicemente la miscela delle anzidette facoltà in una sola potenza è stata, e sarà sempre la cagione dei disordini che insensibilmente s’introducono nell’economia dello Stato per
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Parte terza. La politica economica
mancanza di calcoli, dal che noi guardiamo con dolore i tristi effetti che strappano dalle mani del coltivatore risorse destinate a riprodurre le risorse, e che le rendite esaurite nelle loro stesse sorgenti non possono rientrare nel seno della terra per farne germogliare delle altre. Il Ministero dell’Interno, di cui la istituzione è la più utile tra quelle sociali, dovrebbe raggirarsi sull’esame dei principi e della direzione di essi, riguardanti l'economia civile e lo spirito pubblico della nazione. Tutt’altra attribuzione ultronea a queste vedute dee riputarsi un abuso di potere nel ramo estraneo che non gli appartiene. Siccome la sola nazione ha il dritto d’imporre e di togliere dei tributi, così ogni amministrazione che si occupa a dirigere una parte di queste esazioni, e che nel tempo stesso non rifluisce allo scrutinio del Ministero delle Finanze, diviene in-
certa ed irregolare, perché non maneggiata da quelle mani, le quali il solo Tesoro ha il dritto di dirigere e di prenderne sopra di esse ingerenza, e perché d’altronde le rendite di tali cespiti di amministrazione derivanti dal Ministero dell’Interno vanno a colare nella cassa del Tesoro indirettamente, e per veicoli tenebrosi, difficili a controllarsi, e più difficili ancora ad apportarvi le verifiche. Il Sig. Bonnin ha voluto far conoscere in una sua opera® quali siano i principi delle pubbliche amministrazioni. Questo lavoro sarebbe originale, se l’autore non avesse voluto seguire le orme che si son praticate nel ramo di amministrazione in diverse epoche di rivoluzione nella sua patria. Molti articoli della sua opera meritano dell’eccezioni e delle riforme, onde stabilire i veri principi della pubblica amministrazione. Le vedute del Sig. Bonnin derivano da principi che erroneamente sono in pratica tra noi, che ci apportarono i suoi concittadini, e che formano l’oggetto delle nostre opposizioni. Colui che dirige un'economia non può essere intento nel tempo stesso alla occupazione della percezione ed alla uscita delle rendite che quella economia produce. Questo duplice impegno non può esigere l’occupazione della direzione dell’istessa mente e dell’istesso braccio per ottenere il suo fine, cui tende l’utile suo ° C.J.B. Bonnin, Principi di amministrazione pubblica del Sign. Carlo Giovanni Bonnin. Versione italiana su la terza edizione francese dei Sig. Antonio de Crescenzi e Michele Saffiotti, Stamperia Francese, Napoli 1824.
III. Finanze e fisco
DOT
scopo. Esso dev’esser ripartito tra due facoltà; quella che medita e previene le risorse dell'economia, e l’altra che prende conto delle rendite di essa. Intanto noi in opposizione di tali vedute ci siamo occupati ad intrattenere delle amministrazioni per l’esazione delle rendite dello Stato. Noi non abbiam pensato di crearne una che avesse cura di vegliare ai mezzi come far prosperare le rendite della nazione. La sua ingerenza si dovrebbe estendere sopra tutte le risorse delle ricchezze. Altre volte negli Stati meno vasti, e dove i costumi supplivano a tutto, la virtù e l’amor della patria bastavano per governare gli uomini. Nei nostri giorni gli Stati sono delle vaste macchine, delle quali le più grandi risorse sono poggiate sopra l'agricoltura, il commercio e le finanze. Per dirigere le molle di tutti questi oggetti, bisogna conoscerli. Una sola di esse che se ne disordina arresta tutt’i movimenti. Non si può celare al pubblico quando una nazione è giunta al colmo dell’avvilimento e delle miserie. Un solo editto mal calcolato in materia di finanze può portare la disperazione nelle nostre campagne, e togliere centomila braccia alla patria. In questo caso vale meglio di rimanere nell’inerzia quando si può errare, che più tosto emanar fuori de-
gli editti mal combinati sul commercio o sulle finanze. Essi possono chiudere i nostri porti e spingere lontano da noi le ricchezze degli oltramonti. Dalle indicate ragioni, e non altre, emerge il bisogno di distinguere la direzione economica e la direzione contabile delle finanze. La prima somministra i lumi per le risorse finanziere. La seconda assicura i mezzi di quelle risorse alla prima. Ammesso che le amministrazioni dello Stato formino un potere indipendente come io dimostrai!; ammesso ancora l’alienazione dei beni comunali da me progettata, siccome il potere giudiziario comprende i giudici del fatto ed i giudici del dritto, del pari il potere amministrativo dee comprendere gli amministratori contabili del
Tesoro e gli amministratori economici delle risorse del Tesoro. I primi sono rappresentati dai direttori incaricati a maneggiare le
ricchezze sotto la dipendenza del Ministero delle Finanze; i secondi, rappresentati dalle giunte di provincia e dagli aggiuntamenti delle comuni secondo il nostro Statuto, incaricati a pro! Leggasi l'opuscolo del tempo applicato alla utilità delle combinazioni sociali.
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Parte terza. La politica economica
curare ed assicurare i mezzi di quelle ricchezze sotto la dipendenza del Ministero dell'Interno. Quelli esibiscono i risultati nei
bilanci delle rendite delle uscite, questi presentano i prospetti statistici dei calcoli che aumentano o scemano le risorse di quelle rendite ed i mezzi di migliorarle per l’utilità del Tesoro. Quale stranezza è mai quella di dividere le amministrazioni dello Stato in amministrazioni finanziere ed in amministrazioni comunali, ed attribuire a queste ultime il maneggio delle rendite e degli esiti dei fondi comunali al pari delle prime, ed esse che percepiscono tributi dalle comuni non darne nemmen conto di essi al Ministero delle Finanze? Sorge con ciò lo spettacolo deforme di tollerarsi un’amministrazione comunale che è di dritto delle attribuzioni delle Finanze,
intrusa nell’amministrazione
dell’Interno, che non ha nessuna ingerenza con quella delle Finanze. Accade allora lo sconcio irreparabile che gli agenti comunali intenti ad ammassar tesori, imponendo e togliendo a lor capriccio dei tributi, manca ad essi il tempo della riflessione per l’esame della parte economica per far prosperare le comuni. D’altronde la percezione dei tributi comunali è senza ponderazione affidata agli agenti non stipendiati delle comuni stesse. Costoro, per lo più proprietari tra quelle comuni, poca cura pongono nella sorveglianza delle loro attribuzioni, per non ferire le loro particolari fortune, e le dilapidazioni d’altronde che possonsi commettere per lo più non son sindacate, e rimangono impunite, perché protette dall’ubbidienza che procura la sommissione dei subordinati cittadini dell’istesso comune, e dallo amor proprio del capo della provincia che, non avendo altr’emulo nelle sue funzioni a combattere, ha sempre un interesse a proteggere e a non svelare le infrazioni dei suoi amministrati. Dippiù, gli stessi capi delle provincie, per una facoltà insita alle loro attribuzioni, d’accordo con i loro amministrati, impongono o tolgono dei tributi alle comuni. Essi del pari invertono i cespiti di un ramo con quelli di un altro ramo. I bilanci dei cespiti di tali esazioni non sottoposti alla cognizione del Ministero delle Finanze, ed ancor che il fossero, non potrebbero facilmente verificarsi per le inversioni dei fondi, e per le reste in cassa, avviene che questo Ministero stabilendo quasi alla cieca dei dazi e delle contribuzioni pel suo ramo finanziere, perché ignaro della situazione di quei tributi comunali, si vengono a gravitare le popolazioni di tributi moltiplicati sopra le stesse risorse dei cittadini. Quindi gli stessi agenti
II. Finanze e fisco
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comunali per assicurare le loro rendite discreditano le imposizioni finanziere, e vi frappongono tutti gli ostacoli per la felice riscossione di esse. Annesse le amministrazioni comunali al ramo finanziere, e ripartiti i diversi cespiti di esse alle diverse rubriche delle contribuzioni del Tesoro, esse non potrebbero più esibire il capriccio di doppi impieghi sopra un’esazione; esse subirebbero una maggior sorveglianza, perché regolarmente controllate, ed esse colerebbero nella fonte comune delle altre rendite del Tesoro, che
darebbero un pronto e chiaro bilancio tra i prodotti introitati e gl'impieghi delle spese. Gl’impiegati finanzieri dedicati alla direzione ed alla riscossione delle percezioni del Tesoro non presentano gli stessi disguidi testé accennati per quelli comunali. Essi, per lo più estranei al suolo in cui esercitano le loro funzioni, e stipendiati dalla nazione, non possono essere spinti dal desiderio d’infrangere i loro doveri, ch’è represso dalla naturale gelosia che desta alla sorveglianza verso di loro dei naturali del comune, ed alla permanenza di quegl’impiegati amministrativi, ai quali né vincoli di sangue, né primazia di proprietà o di onori obbligano a tacere sulle debolezze di quelli. Nello stato discusso delle finanze si rileva che gli esiti che offrono i vari rami delle attribuzioni dei diversi Ministeri ascendono a circa 20.000.000. Gli introiti che pervengono al Tesoro dai diversi cespiti delle contribuzioni si avvicinano all’istesso valore, cioè 19.380.734,78. Volendosi por mente alle partite omesse nel ramo delle rendite ed al risparmio di ciascun cespite delle spese, che si possono far ascendere a 4.619.265,22, il risultato dell’introito monterebbe approssimativamente a 24.000.000. Intanto cosa si osserva nella distribuzione di questa rendita ai vari Ministeri? Che diversi di loro sono contabili e cassieri dei fondi che gli vengono nei loro stati discussi imputati. Questa deformità economica si osserva sopra tutto a riguardo del Ministero dell’Interno. Questo da una parte riceve i fondi per i rami delle sue attribuzioni dal Tesoro, dall’altra come finanziere percepisce ed esita i fondi che derivano dai tributi comunali. Per coprire i bisogni ai quali non bastano le rendite comunali riceve delle indennizzazioni dal ramo delle Finanze. Nel rendiconto dello stato discusso del Ministero sono portati ad introiti le partite per detta indennizzazione dal Tesoro, come sono per i soldi dell’intendenza, per manutenzione sulle strade, per spese comuni e speciali
delle provincie. Nella partita degli esiti vengon poi contrapposti a dett’introiti solamente i diversi cespiti che riguardano le dipendenze del Ministero, comprese le dette indennizzazioni. Ma sono coperti di oblio al Ministero delle Finanze gli esiti pei bisogni delle comuni, come puranche gl’introiti delle rendite comunali sulle quali sono fondati quegli esiti. Se dal Ministero delle Finanze s’ignorano le rubriche di tali uscite e delle entrate delle comuni, come si potrebbe dallo stesso decidere della ragionevolezza del bisogno dei soccorsi ai rami comunali da quelli finanzieri? Come potrebbe verificarsi l'esattezza dei bilanci in particolare ed in generale degli stati discussi delle diverse dipendenze del Ministero dell’Interno, e delle amministrazioni delle comuni? Questa tenebrosità di situazione dei bilanci, quale fallacia
dev’esibire ai calcoli di un Ministro di Finanze, quale arbitrio in balia delle malversazioni agli agenti del potere comunale? Da tali sistemi erroneamente organizzati nelle mani degli amministrato ri comunali sorgono i clamori dei popoli per la gravezza dei tributi. La nazione, non conoscendo immediatamente che i tributi
finanzieri, dalle popolazioni si grida avverso la gravezza di tali contribuzioni, nel mentre che, resi palesi i tributi comunali, l’in-
dignazione cittadina eleverebbe un grido di vendetta contro gli abusi che se ne fanno degl’impieghi di essi con una impudente impunità, poiché essi raddoppiano i pesi della nazione, senza che la nazione se ne avvegga. Lo stato discusso del Ministero dell’Interno ascende per l’anno 1819 a ducati 2.467.635. Tra questa somma àvvi compresa l’indennizzazione del Tesoro per sussidio alle comuni, le somme assegnate per i soldi delle intendenze, per la manutenzione delle strade, e per le spese comuni e speciali delle provincie ascendenti a ducati 551.835. Oltre a tale provvenienza di fondi dal ramo delle finanze, l’istesso Ministero dell’Interno riceve sotto la sua dipendenza le vistose somme che
pervengono dalli tributi delle comuni, di cui la serie fora calcolo tenebroso, irragionevole, dispotico all’immaginazione, in corrispondenza della complicatissima degli esiti senza misura. Io non ho avuto sotto gli occhi, allorché questi pensieri scrivevo, i diversi stati discussi di tutte le provincie per formarne un coacervo. Avendo potuto esaminare quello che riguarda la provincia di Molise, ho rilevato che a favore di questa tali introiti ascendono a ducati 251.295,87. Aggiungendo a detta somma approssimativamente la metà per gl’introiti che devono esibire dippiù le altre
provincie per estensione e per ricchezze, si ha un risultato di 376.942. Moltiplicati questi per quattordici altre provincie, compresa la rendita di Molise, e rendite comunali dell’intero Regno, si possono portare a ducati 5.528.483. Or contrapposta questa somma al reddito di 20.000.000 delle contribuzioni finanziere, si
ha un prodotto di ducati 25.528.483, che le nostre popolazioni pagano in massa di tributo. Or il calcolo approssimativo delle rendite comunali pel Regno di Napoli da me portato sullo stato discusso della provincia di Molise, si trova avvicinarsi al vero risultato dello stato discusso generale dei cespiti comunali esibito al Parlamento dal Ministro dell’Interno, il quale ascende alla somma di ducati 4.793.032,16. La differenza tra il prodotto dello stato del Ministro e del mio ascende a ducati 735.450,84. Que-
sta differenza sarà tenuta presente allorché più appresso sarà fissata la somma dell’economia a dedursi sul sistema dell’amministrazione delle comuni. Per poco poi che si voglian porre a disamina gl’introiti in contrapposizione degli esiti nei detti stati discussi parziali delle provincie, si rileverà che i primi offrono delle rubriche su delle quali ottengonsi delle percezioni, ma che non compariscono sullo stato per l’inversione dei fondi negli esiti, i quali sono erroneamente basati, poiché diverse rubriche che sono a carico dei rami finanzieri, sono contrapposte a discarico degl’introiti delle comuni, locché esibisce una complicazione di calcolo difficile a decifrarsi dalle menti più rischiarate. Si rileverà ancora che molti di detti esiti sono esagerati, perché non esibiscono una probabilità nella veridicità degli appoggi, per la perenne inversione degli avanzi dei fondi, perché essi non abbastanza controllati da severo scrutinio da non lasciare dubbio alcuno sull’uso fatto dell’impiego della rendita. Si rileverà infine l'articolo delle spese imprevedute lautamente campeggiare, perché non esibendo la classificazione degli oggetti preventivi alle rubriche degli altri cespiti, si trova sempre esaurito ed ingegnosamente applicato con gli appoggi di giustificazione. Dal che si può conchiudere, che assegnando alla rendita approssimativamente per economia del miglioramento amministrativo ducati 735.450,84, ed all’esito per risparmio nel sistema delle spese 320.617,69 si avranno oltre alla somma dei ducati 4.793.032,16, altri ducati 1.056.068,53, che insieme formano il totale di ducati 5.849.100,69. Aggregati que-
sti agl’introiti finanzieri in ducati 23.448.165, depurati dei du-
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Parte terza. La politica economica
cati 551.835 imputati all’Interno per sovvenzione alle comuni, la nazione paga per tributi finanzieri e comunali ducati 29 297.2655691
Di fatti nelle amministrazioni delle comuni si permette quello che si rinviene assurdo press’ogni altra amministrazione finanziera. Ivi il fiscale delle verifiche dei conti è giudice e parte. Quivi i conti sono resi al Ministero dell’Interno senza poter essere da questo verificati, poiché la divisione della contabilità dello stesso Ministero non ha né i mezzi, né il tempo di verificarli. Dal Ministero delle Finanze né tampoco si può subire la verifica, poiché questi ignora del tutto la natura della provvenienza delle partite d’esito ed introito. La Camera dei Conti non li può esaminare con precisione, perché a questa, essendo per legge concesso di sottoporre ad esame i conti delle sole comuni di prima classe, ella non può veder l’insieme degli appoggi degl’introiti e degli esiti dell’intero stato discusso della provincia, dacché è sfornita dei conti delle secondarie comuni. In ultim’analisi i conti delle amministrazioni comunali rimangono inverificati. Ma, mi si oppor-
rà, vi sono stati i consigli provinciali per lo trascorso, ed ora le giunte di provincia, che riveggono tali conti. A riguardo dei primi il fatto ha provato che essi non si sono mai interessati di tali verifiche, poiché basta confrontare gli esiti prodotti colle opere eseguite per rilevare che queste sempre o neglettamente, o per l’infinitesima parte del vero compariscono per decidersi a favore del nostro avviso, e perché d'altronde per eseguire le verifiche sopra di esse si esige la permanenza di una giunta contabile, onde esaminare tutte le circostanze delle partite di un conto. A riguardo delle giunte di provincia, essendo composte di un minor numero di soggetti, maggiori difficoltà devono frapporsi alla liquidazione delle verifiche. E con esse permanendo la istituzione di un capo di provincia, sarà difficile e quas’impossibile di sormontare gli ostacoli che sorgono dall’indispensabile sommessione dei membri di dette giunte a tollerare gli abusi in faccia a tale suprema autorità, che tutto per sua natura, e per quella delle naturali passioni dell’uomo, trascina al suo volere ed al suo capriccio. Or centralizzate sotto un sol ramo le amministrazioni comu-
nali, aggregate esse a quelle finanziere, controllate con gli stessi metodi e le formalità di queste, ridotta la loro contabilità nella purezza della semplicità e della chiarezza, eliminata la tenebro-
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sità e gli abusi di potere degli agenti amministrativi delle comuni, risparmiati gli avanzi che si disperdono col passaggio nelle mani
di tanti agenti delle comuni stesse, messo in caso il Ministero delle Finanze e la nazione di conoscere tutt’i rami delle risorse dalle quali possono sorgere le ricchezze nazionali, chi non vede di quanto potrebbero essere diminuiti i pesi che gravitano sulle popolazioni? In buona logica l’agente che dirige la percezione non dev’esserne il depositario. Tali funzioni sono essenzialmente distinte di lor natura, per quanto sono diverse contabilità e Tesoro. La prima si appartiene alle attribuzioni del Ministero delle Finanze, l’altro alle attribuzioni del Ministero del Tesoro. Questa distin-
zione richiama il bisogno di due Ministri separati tra loro, delle Finanze cioè, e del Tesoro. Il primo è incaricato dalla redazione degli stati discussi, dei controlli alla percezione e delle verifiche della contabilità. Il secondo maneggia il denaro della nazione, ed è destinato a far eseguire i pagamenti, ad incassare le percezioni per mezzo del Banco della nazione, e delle casse in ciascun capoluogo di provincia. Premessi questi principi si dee convenire che la grande amministrazione dello Stato che forma il potere amministrativo, comprende collettivamente tre distinzioni di poteri. Quello di
presentare i mezzi di risorse e di direzione ai tributi, l’altro di sopravvegghiare alla percezione dei tributi, e l’ultimo di tener conto dei tributi, incassandoli. Il primo è d’ingerenza del Ministero dell’Interno, il secondo di quello delle Finanze, ed il terzo del Tesoro. Per riordinare le finanze e le interne amministrazioni si deggiono tener presenti le indicate distinzioni nelle ramificazioni dei tre suddivisati Ministeri. Il Ministero che dirige l'economia, il Ministero che regola la contabilità, il Ministero che custodisce il deposito del Tesoro. Al Ministero dell’Interno, cui si appartiene la parte economica, incumberebbe l’esaminare il clima di ciascuna provincia, le differenti specie dei terreni, delle colture e delle produzioni di essi, i non valori reali o supposti, tutti gli effetti o passaggieri o costanti, la proporzione tra le spese e le rendite, la qualità ed il prezzo comune delle derrate, la fertilità delle consumazioni, il numero degli abitanti, il loro carattere ed il valore di essi nei differenti paesi, le risorse delle città, i prodotti delle manifatture e dell’industria, l'estensione e le qualità del com-
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mercio; osservare sopra luogo tutto ciò che paga ciascuna provincia, la natura delle imposizioni, distinguendo quella di cui le risorse sono nel tempo stesso le più pronte, l’altra di cui la percezione costa il meno ed apporta il più, e l’ultima di quelle risorse che si combinano meglio col clima, con il suolo e con l’industria degli abitanti, e quelle che sono più a carico del popolo, perché esse non sono utili allo Stato; calcolare dapertutto la somma delle ricchezze; esibire le bilance di commercio e le rettifiche sulle tariffe doganali; formare i progetti onde animare lo spirito pubblico; proporre le istituzioni utili per la felice riuscita della pubblica istruzione; esaminare la economia dei luoghi di pubblica beneficenza e della costruzione di tutte le opere pubbliche; studiare tuttociò che una provincia riceve, e tutto quello che somministra, rilevando in che modo vi provviene, e per dove va a colare il danaro; verificare quali sono i canali aperti e quali quelli ingorgati, e finalmente accertarsi quali sono le provincie dove la capitale ne rinvia i succhi che ne riceve, e dove si trova interrotta questa felice circolazione che forma la vita del corpo politico. Sopra di questi oggetti bisognerebbe che gli amministratori se ne riposassero colla loro propria coscienza, assicurandosene sopra luogo, poiché non farebbe d’uopo che della oculatezza per governare, della probità per non occultare gli abusi o le verità, delle vedute economiche per proporre i rimedi, e della prudenza per saper maneggiare quegli oggetti importanti. Tutte queste incum-
benze verrebbero esercitate dalle giunte di provincie e delle comuni, le quali dovrebbero esser regolate da un direttore di economia. Gli agenti che gli sarebbero sottoposti si ridurrebbero ai membri delle giunte di provincie e degli agiuntamenti, ai sindaci ed ai segretari. Al Ministero delle Finanze, cui incumbe di regolare la contabilità, spetterebbe di stabilire gli stati discussi delle uscite e
delle entrate dei diversi rami finanzieri, delle spese assegnate a ciascun Ministero ed agl’impiegati dello Stato, di sopravvegghiare alla percezione di tutte le rendite comunali e finanziere, di redigere i regolamenti per la tenuta della contabilità, di formare i metodi di controloria, di dirigere la costruzione e la manutenzione di tutte le opere pubbliche, niuna eccettuata, che appartengono alle divese dipendenze degli altri Ministeri, di fissare la disciplina degl’impiegati, di provvedere al vestiario della forza armata. Tutte queste attribuzioni sarebbero di ingerenza del di-
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rettore di Finanze nelle provincie, il quale avrebbe sottoposti a sé gl’ispettori, i controlori, i tenenti, icommessi al deposito, alle
dogane ed alla navigazione, e gli agenti armati. Il Ministero del Tesoro, cui appartiene la custodia del deposito dei tributi, dovrebbe aver cura di far introitare le percezioni dei cespiti finanzieri e comunali da tutte le casse delle comuni e delle contribuzioni dirette ed indirette; di far versare i detti ce-
spiti con esattezza nelle casse centrali; di spedire i mandati per i trattamenti degl’impiegati e per le spese di qualunque altra natura; di regolare i metodi per assicurare i sistemi degli sconti nelle rispettive casse centrali delle provincie; di provvedersi delle cauzioni dai ricevitori; di esaminare i processi verbali coi pezzi di appoggio degli esiti, prima di spedire i mandati. Queste attribuzioni sarebbero esercitate dai ricevitori delle rispettive contribuzioni che sarebbero regolate da un direttore del Tesoro che avrebbe sotto la sua dipendenza i diversi ricevitori, gli agenti della forza pubblica destinati a garantire la percezione. Ogni direttore del Tesoro sarebbe ricevitore della cassa generale della provincia, la quale avrebbe in sé l’istituzione di un Banco di sconto. Con tali sistemi richiamate le rispettive attribuzioni del potere esecutivo dei Ministeri suddivisati nelle funzioni dei direttori presso ciascuna provincia, le amministrazioni generali rima-
nendo senza corpo, e come intermedie tra l’attuale Ministero e le provincie, la loro istituzione sarebbe incompatibile col sistema proposto, poiché esse, onerando lo Stato di gravezze, non servirebbero che a produrre un ristagno ed un languore all'andamento delle disposizioni del potere amministrativo. Similmente presso di un governo costituzionale la persona del Re non può essere rappresentata da chicchesia, poiché Ella è
sacra, è inviolabile, è indivisibile. Il sistema quindi dei capi delle provincie è assurdo, è in opposizione dei principi costitutivi di tali governi. L’intendente d’altronde non può rappresentare la sovranità del popolo, perché non è da questo nominato; e se anche lo fosse non può esser l’organo della volontà generale, proprietà ch’è riserbata al solo Parlamento nazionale. Questo eccettuato, tutti funzionari dello Stato sono delle emanazioni del potere esecutivo. Essi perciò non possono esercitare supremazia sopra degli altri funzionari, se non per la parte di quella autorità che gli accorda la legge nelle funzioni delle loro cariche. I capi
delle provincie perciò non debbono riputarsi come dei simulacri
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dei mandarini, dei bey, e dei pascià dei governi dispotici. Essi abusando per lo più del sommo potere accordato alle loro eminenti funzioni, le loro malversazioni rimangono impunite, perché non vi ha chi osi rivelarle ai Ministri ed al Sovrano. D’altronde essi offrono dei motivi di gelosia, di discordia e di dissenzione tra le autorità subalterne, le quali, per non rinvenir protezioni per lo più nella prima autorità a riguardo della gestione delle loro funzioni che sono incrocicchiate con quelle della prima, le amministrazioni languiscono, ed i vantaggi delle provincie non si ottengono che a passi lenti. In sostituzione degli stabilimenti degl’intendenti, io istituirei che di tutt’i capi-funzionari dei rispettivi rami del potere esecutivo nelle provincie, se ne formasse un consiglio a guisa di comitato. Ciascun funzionario nelle sue particolari attribuzioni seguirebbe i suoi lavori regolari ed ordinari, e per riunire l’armonia dell’insieme delle attribuzioni di ciascuno per l’istesso scopo della pubblica prosperità, si congregherebbero in commissione tre volte la settimana sotto la presidenza per giro di uno dei funzionari da rinnovarsi in ciascun mese. Le risoluzioni delle sedute del consiglio dovrebbero redigersi in processi verbali in quadrupla spedizione da tenersene uno di essi conservato nell’archivio, per pubblicarsi nel giornale della provincia, e gli altri tre inviarsi al Ministro dell'Economia, ossia dell'Interno ed ai Ministri delle Finanze e del Tesoro. Tra i Ministeri e le direzioni delle provincie dovrebbonsi istituire sei commissari controlori, i quali avrebbero l’assunto di girare per le provincie ciascuno di essi pel suo ramo per otto mesi dell’anno, onde assicurarsi della regolarità, della uniformità del servizio, e della condotta degli agenti amministrativi. Nei quattro mesi di permanenza nella capitale i detti commissari controlori si congregherebbero in consiglio con i tre Ministri dell’Interno, delle Finanze e del Tesoro per discutere su i risultati delle amministrazioni del Regno, e su i rischiarimenti per l’economie, e le rettifiche a proporsi al Parlamento nazionale. Con particolari progetti saranno pubblicati i regolamenti per
l’organizzazione uniforme dell’interno servizio dei Ministeri e delle direzioni provinciali, corrispondentemente al sistema accennato, come ancora per tutto ciò che concerne il servizio, la contabilità, i controlli, le attribuzioni, la disciplina, le obbliga-
zioni, gli emolumenti degl’impiegati ed i codici per le ricompen-
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se, e le pene, relativamente ai diversi rami del potere amministrativo; e finalmente i modelli generali onde regolare la contabilità nazionale. Se l’esposte mie idee non contenessero solamente che la semplicità, la chiarezza, e la concentrazione di tutte le operazioni amministrative, io mi attenderei un compatimento dal pubblico rischiarato, ma desse togliendo dalle mani del dispotismo il potere arbitrario, e procurando non lieve economia nelle gravezze della nazione, e la speranza quasi certa di una prosperità avvenire, io pur mi auguro la condiscendenza delle anime virtuose a
riguardo della purità delle mie intenzioni nel desiderare il bene della mia patria.
2. La critica al sistema dell’amministrazione finanziaria dei comuni* [...] S.M. colla legge del 12 di dicembre 1816 conservò non
solo, ma perfezionò in molte parti il sistema di amministrazione comunale. Determinò tutte le spese dei comuni, del pari che quelle delle provincie, e vietò espressamente che gli uni e le altre concorressero a qualunque spesa non contemplata nella legge. Dichiarò tutte le altre spese estranee all’amministrazione civile, ed in conseguenza a carico della tesoreria generale. Ben determinate le spese ordinarie dei comuni, e sanzionato il principio che le spese dovessero esattamente bilanciarsi colle rendite, sembrò superflua la formazione dello stato discusso in ogni anno. La legge quindi stabilì che gli stati discussi fossero quinquennali per le rendite e le spese ordinarie, e che per le straordinarie ed eventuali si facesse in ogni anno uno stato di variazione. Prescrisse pure nell’esame degli stati discussi e di variazioni il concorso del sottintendente e del Consiglio d’intendenza. L'approvazione è riserbata a S.M., inteso il Consiglio di Cancelleria per gli stati discussi maggiori, e per i minori è rimessa all’intendente in Consiglio d’intendenza. * Da [Giuseppe Zurlo], Rapporto al Parlamento Nazionale sulla situazione del Ministero degli Affari Interni. Letto dal Ministro nel giorno 23 ottobre 1820, s.d., pp. 20-27.
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A norma di questa legge furono redatti i primi stati discussi quinquennali, e messi in osservanza al 1° del 1818, e negli anni successivi si sono formati regolarmente gli stati di variazioni. Gli stati quinquennali presentano una somma di rendita ordinaria e straordinaria, ed una massa corrispondente di spese in ducati 4.138.788,21. Nella prima si calcolano ducati 1.648.656,37 di
rendita patrimoniale, e ducati 1.760.789,20 prodotto di dazi di consumo. L’ordine di contabilità comunale, raccomandato dalla
sperienza di molti anni, è stato finora osservato, siccome fu stabilito nel 1811. La legge del 12 dicembre portò una piccola ma utile modificazione ai precedenti regolamenti sulla liquidazione dei conti dei cassieri. La discussione dei conti maggiori da prima riserbata alla gran Corte dei conti, non era così spedita come quella dei conti minori a cui procedevano i Consigli d’intendenza. Fu quindi stabilito che anche i conti maggiori fossero discussi dai Consigli d’intendenza, salvo la revisione necessaria nella gran Corte, senza sospendersi l’effetto dei provvedimenti dati dal Consiglio. Conseguentemente a questi stabilimenti la discussione dei conti è stata eseguita dai Consigli d’intendenza, ed essa è quasi al corrente, eccetto poche provincie che presentano qualche arretrato non difficile a ripianare. [...] Il metodo di amministrazione comunale che ho esposto è suscettibile di utili riforme onde mettersi in armonia con i principi della costituzione politica. Sembra però che esse non possano risguardare, se non in picciola parte, il sistema degli stati discussi e l'ordine di contabilità di cui i vantaggi sono giustificati da lunga esperienza, ma che debbano particolarmente versare circa le relazioni da stabilirsi tra le deputazioni provinciali e ciascuna delle autorità amministrative. Questo formerà il soggetto di una particolare proposizione. . Rettificato nel miglior modo possibile il metodo di amministrazione, non si sarà fatto molto per lo benessere dei comuni e delle popolazioni. Prima sorgente dei loro mali è l’ingente mole di spese onde i comuni sono stati di tempo in tempo gravati fino al segno di esserne oppressi. Per supplire a tante spese estranee all’amministrazione municipale, si sono imposti nella maggior parte dei comuni tanti dazi, quanti sono i generi di consumo; se
ne sono di anno in anno alterate le tariffe, e sovente per mancanza di appalto si sono ripartiti per transazione, vale a dire si è
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formato un testatico gravosissimo per la classe meno agiata del popolo. Egli è solo sulla riforma delle spese che il Parlamento può fondare la base solida della prosperità dei comuni. E spesa comunale quella soltanto che è diretta all’amministrazione, al servizio, al vantaggio particolare di ciascun comune. Può ancora un comune concorrere alla spesa di un’opera pubblica che, senza risguardarla immediatamente, è atta a promuovere prossimamente il suo commercio, la sua civilizzazione, il suo benessere, come sarebbe una strada provinciale, un collegio provinciale, o altro pubblico stabilimento della provincia. Fuori di questi casi, ogni altra spesa a cui i comuni si assoggettino, contiene una manifesta violazione di principi, una ingiustizia che la sola forza può rendere sopportabile. Questa regola spesso non è stata seguita. Le circostanze straordinarie della guerra del 1812 determinarono il governo, a malgrado delle opposizioni del Ministro dell’Interno, a levare il 5 per 100 sulle rendite ordinarie dei comuni, per addirlo al mantenimento delle compagnie provinciali, le quali niente avevano di comune coll’amministrazione municipale, ed interessavano interamente lo Stato; esse erano destinate alla esa-
zione delle contribuzioni, alla scorta dei procacci, alla custodia delle carceri, e ad altri simili servizi. Abolite le compagnie dopo il ritorno di S.M., fu abolita l’imposta destinata a mantenerle. Fu dichiarato soltanto all’articolo 214 della legge del 12 dicembre 1816 che un tal peso si considerasse come straordinario. Un altro peso straordinario, anche del 5 per 100, fu imposto ai comuni con decreto di gennaio 1818 per supplire alle spese delle somministrazioni fatte all’armata austriaca nei primi giorni del suo ingresso nel 1815. Questo peso ai termini del decreto dee
durare a tutto il 1822. Fatta nel 1817 l’organizzazione dei giudici regi, il soldo di questi magistrati, che fu di molto aumentato, e che fino a quell’epoca era stato sempre pagato dalla tesoreria generale, fu messo pure a carico dei comuni. Nell'anno seguente 1818, volendosi sempre più sgravare la
tesoreria generale, furono obbligati i comuni ad incaricarsi del pagamento del soldo ai custodi delle carceri circondariali ed al mantenimento dei detenuti nelle medesime. A questa spesa si era in ogni tempo supplito con i fondi della tesoreria generale. Su
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tale misura rincarirono gli esecutori, e resero più dura la sorte dei comuni. I detenuti che tutto al più per tre giorni dovevano rimanere nelle carceri circondariali, vi furono lasciati per lungo tempo, e poi si mandarono nelle stesse prigioni ad espiarvi la pena i condannati correzionali. Non vi è bisogno di dimostrare quanto le indicate spese sieno estranee all’amministrazione comunale. Giova soltanto dare una idea della somma che compongono, per poterne dedurre i duri sacrifizi che esse costano alle popolazioni. Il 1° vigesimo è calcolato a circa duc. Altrettanto il 2° Il soldo dei giudici regi circa
142.000 142.000 141.000
Il mantenimento delle carceri circondariali circa Somma ducati
100.000 525.000
Or queste somme essendo quasi generalmente il risultato di dazi di consumo, ne siegue che le popolazioni pagano almeno il quinto di più di quel che effettivamente serve al bisogno, non potendosi calcolare meno del quinto i lucri degli appaltatori, e le spese di esazione e di amministrazione generale; talché le popolazioni pagano circa 650 mila ducati per le spese che sono del tutto estranee all’amministrazione municipale. La progressione dei dazi che queste spese han cagionati, è stata sensibilissima. Nel 1815 i dazi di consumo ascendevano a ducati 1.472.819,75. Diminuite con decreto di agosto 1815 alcune spese comunali, come il bollo per gli atti dello stato civile e della contabilità, la somma dei dazi nel 1816 si trovò ridotta a ducati 1.273.137,03. Ne risultò quindi una diminuzione in ducati 214.574,39, comparativamente alle imposte dell’anno precedente. Sopravvenuti i nuovi pesi, la somma dei dazi nel 1818 giunse a ducati 1.760.789,20; vale a dire a ducati 487.652,17 di più della somma delle imposte del 1816.
I Consigli provinciali non han mancato di reclamare di anno in anno contro i pesi di cui la tesoreria generale avea gravato i comuni. In fine nell’anno scorso, essendo stati generali i clamori dei Consigli, e non potendosi disconvenire dalla loro giustizia,
S.M. essendone stata informata, con decreto del 27 giugno ultimo dichiarò i sopraindicati pesi estranei all’amministrazione co-
III. Finanze e fisco
5.10
munale, e ne pronunziò l’abolizione, da aver luogo però nella
formazione dei nuovi stati discussi quinquennali, vale a dire al 1° gennaio 1823, ordinando che a quell’epoca la tesoreria generale supplisse per i rispettivi Ministeri a quelle spese a cui le imposte comunali abolite erano destinate. Or se un decreto del Re ha solennemente riconosciuta la giustizia dei voti e dei ragionevoli clamori delle popolazioni, per qual ragione se ne ritarderebbero gli effetti fino al 1823? Se lo Stato ha bisogno di risorse, il Parlamento dee prepararle con una giusta ripartizione d’imposte fra tutte le classi del popolo, ma non dee permettere che sia esclusivamente gravata la classe meno agiata sulla quale pesano i dazi di consumo. Se dunque si vuole ristabilire l’amministrazione comunale, se si vogliono far respirare le popolazioni, se si vogliono veder prosperare i comuni ed i loro pubblici stabilimenti, che per mancanza di soccorsi sono in gran parte abbandonati, bisogna eliminare dagli stati discussi comunali dall’anno prossimo in poi tutte le spese estranee all’amministrazione municipale, ed erigere in principio inalterabile che con essi si provvegga soltanto ai bisogni ed all’utile delle popolazioni, permettendosi solo che i comuni contribuiscano tutto al più una discreta tangente per le opere pubbliche provinciali già in costruzione o che potranno essere intraprese, secondo i piani che si trovano autorizzati a proposizione
dei Consigli provinciali, o che potranno essere meglio regolati dalle rispettive deputazioni. Vi sono ancora altre spese di cui i comuni meritano egualmente di essere sgravati. 1° Nel Decennio furono accordati ai parroci ed economi che mancavano di congrua, vari soccorsi che furono messi momentaneamente a carico dei comuni, in attendendo che venissero stabilite le congrue conciliari su i beni dei luoghi pii o del demanio. Fatto il concordato”, si è messo a carico dei comuni il manteni-
mento dei vice-parroci e delle parrocchie. La somma di queste spese non è ancora calcolata, ma oltrepasserà al certo 100 mila ducati. Or se questo non fu mai un peso comunale, con quale ® Dopo lunghe trattative, il concordato tra il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio fu firmato il 16 febbraio 1818. Cfr. W. Maturi, I/ concordato tra la Santa Sede e le due Sicilie, Le Monnier, Firenze 1929, e A. Scirocco, Il concordato del 1818 nel giudizio dell’opinione pubblica napoletana, in «Clio», a. XXV (1989), n. 3, pp. 457-474.
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giustizia ne sarebbero ora gravate le popolazioni? Niente di più giusto che provvedere a tali spese nel modo il più sicuro; debbe esser questa una delle prime cure del governo. E quistione solamente se debbano figurare negli stati discussi comunali. 2° L’abuso una volta introdotto di obbligare i comuni ad associarsi alla stampa di qualche opera periodica ha col tempo progredito al segno ch’è divenuto anch'esso un articolo di grave tassa su i comuni. Vari Consigli provinciali ne hanno reclamato fortemente la soppressione. Su questo esempio se ne sono stabilite altre assai più pesanti per nuove opere periodiche, le quali sono affatto inutili all’amministrazione municipale. La giustizia esige che tutte queste tasse riprovate dal voto dei comuni e dei Consigli provinciali, sieno d’ora innanzi abolite per regola, e che i comuni non sieno più obbligati ad associarsi a qualunque stampa, se non quando si tratti di opera interessante l’amministrazione municipale, e vi concorra il voto del decurionato e l’approvazione della deputazione provinciale. Mentre i comuni si trovavano da un lato così gravati da spese estranee alla loro amministrazione, si è sottratto qualche cespite di rendita che la legge loro attribuiva. La legge di dicembre 1816 articolo 194, ripetendo le disposizioni delle leggi fatte nel Decennio analogamente agli antichi statuti municipali, assegna tra i proventi giurisdizionali di pertinenza dei comuni tutte le multe di polizia urbana e rurale. Si è pensato che questa legge fosse stata rivocata dall’articolo 35 delle leggi penali, il quale stabilisce in ogni provincia una cassa di ammende, e si è supposto che questa cassa dovesse riunire anche le multe che derivano dalla polizia urbana e rurale. La legge positiva del 12 dicembre non potendo essere rivocata per mez-
zo di supposizioni o interpetrazioni, e non dovendo i comuni essere spogliati di un cespite di rendita che può calcolarsi a circa 30 mila ducati e che in tutti i tempi costituì parte del di loro patrimonio, il Parlamento troverà degno della sua saviezza e giustizia
il dichiarare che la legge di dicembre ed i regolamenti relativi alla riscossione delle multe rimangano in pieno vigore, e che in conseguenza le autorità giudiziarie debbano rimettere alle autorità civili gli estratti delle decisioni che servono di titolo alla esazione, siccome si praticava prima che sorgesse l’indicato dubbio. Qualunque sia l'economia e la regola che si possa stabilire nelle spese e nell’amministrazione dei comuni, tutto sarà a pura
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perdita finché non sia messo e sostenuto nella più severa osservanza l’articolo 215 della legge del 12 dicembre 1816. Esso è così concepito.
«Dal 1° del 1818 in poi i comuni sono esonerati da ogni obbligo di anticipare sulle proprie casse il prezzo di qualunque servizio di sussistenza o trasporti militari, rimanendo a tale effetto espressamente rivocati tutti i decreti e regolamenti anteriori che prescrivevano tale obbligazione. Quante volte in un comune sorga il bisogno di un servizio di tal natura, gli amministratori comunali vi suppliranno, ed indi il prezzo ne sarà pagato dalle casse dello Stato secondo le istruzioni che darà il Ministro delle Finanze.» Si ha bel regolare le spese comunali ed assicurare i fondi per supplirvi: tutto rimane senza effetto. Lo stato discusso diviene una carta inutile al momento in cui la cassa comunale è esaurita dalle anticipazioni che si esigono dall’amministrazione della guerra, sia per supplire alle sussistenze delle truppe, dovunque non si trovi fornitore della regìa, sia per fornire ai trasporti militari. Queste anticipazioni rientrano tardamente, e spesso s’incontra-
no degli ostacoli. L’amministrazione comunale, che ha bisogno giornalmente delle sue rendite, è paralizzata, e qualche volta è costretta a ricorrere a mezzi straordinari, tanto per supplire al servizio militare, quanto per accorrere ai bisogni del comune. L’esperienza di molti anni aveva segnalato questo disordine e S.M. volle riformarlo colla indicata legge, ma la legge non ha potuto avere l’esecuzione. Tutto fa sperare che quando lo Stato gusterà il bene di una pace sicura, i comuni godranno dei vantaggi che S.M. ha voluto lor procurare. [...]
3. La reazione al sistema burocratico* Dalla partenza di V.M. da Napoli*, l’unica mira che ebbero quelli che presero le redini del governo si fu di mutare quasi tutto * Da [Giuseppe Montella],
A Sua Altezza Reale il Duca delle Calabrie, Vicario
Generale del Regno, articolo a stampa datato 1° agosto 1820, pp. 3-14. è L’autore si riferisce alla partenza di Ferdinando IV per Palermo avvenuta il 23 gennaio 1806, pochi giorni prima della conquista del Regno da parte dei francesi.
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il sistema delle leggi e dell'economia per così dissipare le sostanze altrui, far crescere il mal costume, e di snervare le famiglie dei possidenti, artisti, e bracciali con caricarli di dazi, e del risultato farne parte a larga mano ad una turba di esseri senza proprietà e senza onore, per così comprare una gente oziosa e carica di vizi per farla del loro partito; insegnandoli con ciò a farli aprire e chiudere la bocca a di loro divozione, il solo merito dei quali è d’essere sempre turbolenti, e questi sono i tant’impiegati che la M.V. ha trovato in tutto il Regno, vedendosi premiata in essi la dissolutezza e l’ignoranza, avvilendo negli altri la virtù e l’onoratezza; ed oggi altro non si osserva che la squallida miseria a fianco della pingue opulenza, il penoso e stentato lavoro del maggior numero dei cittadini vicino all’ozio di pochi, tuguri e cenci da un lato, suntuosi ricami dall’altro; in somma le più sconsigliate profusioni in mezzo ai più urgenti bisogni. Esse (se mal non m’appongo) sono suscettibili di forti riduzioni. Gli stipendiati rimontano all’epoca in cui Gioacchino Murat prodigalizzava il nostro denaro e la nostra popolazione; essi erano il prezzo della loro schiavitù e della loro compiacenza, ed oggi, a ben riflettere,
ad altro non sono intenti che a dilaniare il vostro tesoro. Vi sono tra gli stipendiati quelli che sono senza merito e senza considerazione, dei parasiti indolenti che si pavoneggiano della loro nullità, e non hanno altri titoli che l’audacia delle loro pretensioni ed il credito dei loro protettori; e noi all'opposto avressimo dritto di dire che la patria non deve più a lungo accordare ricompense sì ingiustamente prodigalizzate. Il gravoso peso di tante imposizioni faceva più d’ogni altra cosa mandare da tutti i buoni continui voti all’ Altissimo Dio del presto ritorno della M.V. in questo Regno, per riparare non solo al detto gran peso che risentono i vostri popoli, ma ad infiniti altri mali ancora che turbano la tranquillità pubblica in tutto il Regno, ed offendono la nostra sacrosanta religione, e che ad imitazione di Federico III Re di Prussia, avesse V.M. fatto frustare
ancora per mano del carnefice chi avesse inventato di cavare più oro dalle borse dei vostri fedeli sudditi. Né vale lo schermirsi costoro che la guerra porta seco dei funesti accidenti, fingendo forse d’ignorare ciò che Alfonso, Re di Spagna, rispose a chi lo consigliava nell’angustie di una guerra d’imporre nuovi aggravi: «a me (disse il Re) fanno più paura le lagrime del mio popolo che le forze dei miei nemici». E l’Imperatore Valentiniano il
IMI. Finanze e fisco
Do
giovine, mai non volle imporre gravezze ai suoi sudditi: «se non possano (diceva) pagare i vecchi aggravi, volete poi che sostengano 1 nuovi?». Qual sia, o Signore, lo stato presente di tutta la popolazione del Regno, ce lo attestano tanto i clamori del popolo e la miseria delle provincie per la violenza dell’esazioni, senza considerarsi l’impotenza e le disgrazie dei particolari, e senza riflettere che chi resta spogliato dei suoi arnesi si ridurrà inabile a rendere frutto alcuno al Principe; quanto la moltiplicità delle contribuzioni, quali sono le tasse tra i cittadini per supplire alle spese della provincia, gabelle civiche per sostenere i pesi della comune, catasti provvisori o siano dazi su i fondi, e quindi (cosa inumana!) dazi
su i prodotti che da essi si raccolgano, dazi contro la legge della natura di difendere le proprie derrate da chi vuole danneggiarle, qual è la caccia, dazi sulla pesca, dazi sulle manifatture, dazi allorché s’immette, dazi allorché si estrae, dazi su dei generi tutti allora quando si trasportano da un luogo in un altro, etc. Non la finirei giammai se volessi individuare tutti i rami di contribuzioni; basta il dirvi solo che con ciò si tratta il commercio da nemico quando, per eseguire tali esazioni, si fornisce il Regno di esattori, di spie e di guardie, le quali ad altro non sono intente, che aspettare il pacifico passaggiero colle armi alla mano
per tormentarlo,
nel caso
non
si prepara
a ricevere
una
rapina.
Sotto questo gravoso peso dell’imposizioni, vi sono degli altri insoffribilissimi ad un cittadino il quale, avendo per ipotesi un moggio di terreno medio che gli dà la rendita di ducati dieci annui, tolto da questi anticipatamente per fondiaria circa carlini trenta, gli resta il di più; e quando crede il medesimo d’essergli rimasto questo per alimentare sé e la sua famiglia, allorché si porta in piazza per convertirlo in detto uso, ritrova che nel comprare il pane vi è imposto un dazio, e così in tutti i commestibili, nella carne, nel vino, nel sale, nel tabacco, ed in ogni altro qualunque
genere vi è un dazio. Non vi parlo, o Signore, di quelli che niente posseggono e che vivono colle proprie braccia, i quali ascendono forse a quattro milioni in tutto il Regno di qua dal Faro, e da ciò ne viene per conseguenza che, non potendo nessuno vivere su tali probabili conti, si danno in preda dei furti che cotanto spesso
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Parte terza. La politica economica
si sentono in tutto il Regno, turbando la tranquillità pubblica, e da questi poi si fa passaggio ai delitti; e la causa di tutto ciò rimonta senza dubbio dal peso dell’imposte che ha impoverito il popolo, quandoché si legge nelle divine scritture che i «regnanti hanno da tenere un occhio particolare per la difesa dei poveri lavoratori e contadini con aiutarli e non aggravarli». Ed in fatti il gran Federico ad altro non era occupato che alla classe degli indigenti, affinché ad un giusto prezzo avessero comprato il pane con gli altri viveri più necessari, facendoli altresì esenti da ogni aggravio e dall’avanìa di molte moleste sanguisughe di maggiormente opprimere chi non si può difendere; e non potendo altrimenti, sfogano in maledizioni contro del mal governo, le quali Iddio, se non sempre, almeno sovente esaudisce, avendo creato”
l’uomo perché sia felice. E quando i ministri contraddicono l’intenzione della divinità, quando un governo distrugge o diminuisce la felicità del popolo, si mette in opposizione diretta alla volontà del cielo, ed allora ne nascono terribili conseguenze. Si tolgano quindi queste imposte civiche che tendono alla distruzione degl’infelici; e siccome non mancano in ogni comune beni patrimoniali, o chiese di beneficenza, o beni di chiesa qualunque, così tolto prima le spese del culto ed il mantenimento delle persone alle medesime addette, di tutto l’avanzo se ne formi uno stato discusso per convertirlo a mantenere la nitidezza interna ed esterna delle case dei poveri lavoratori del comune con biancheggiarle e ristaurarle nel bisogno; soccorrerli a larga mano nell’infermità o altre necessità, ed il di più spenderlo nella riattazione delle strade e per altre spese comunali. Nell’assenza di V.M. si è introdotta ancora altra specie di tributi che l’umana furberia ha saputo inventare per tirare i merlotti nelle reti, cotanto riprovati da ogni legge, e che i legislatori per farli detestare ed abborrire vi avevano stabilite delle gravissime pene; e pur si son veduti con scandalo universale permettersi ed autorizzarsi dal governo, quali sono i giuochi di ogni sorte, e tra questi, quello che reca dei mali maggiori al basso popolo è il giuoco del lotto. Ed ogn’uno sa quanta gente si spianti per questi detestevoli ed abominevoli giuochi, quante penitenze fanno le povere famiglie, quante bestemmie, risse, frodi, e furti avvengono per questo nel basso popolo, il quale per non avere con che giocare, prostituisce l'onestà, commette domestici latronecci, oppure s'impegna il meglio delle case; ed oggi si è giunto a tale
NI. Finanze e fisco
SYILTI
eccesso, che fino il sesso donnesco vuole gareggiare coll’altro in queste pazzie; e posso dir francamente che questa funesta eredità ci fu lasciata dai francesi allora quando abbandonarono l’Italia, perché introdussero una gran libertà di commercio fra l’uno e l’altro sesso; per cui l’amore del giuoco, anche nel sesso femminino si aumentò, e si dié bando a riguardi e rigori dell’età passata. Signore, il vostro Regno di qua dal Faro è composto a un di presso di cinque milioni e cinquantaduemila abitanti. Il sistema dell’imposizioni è tale che leva il pane di bocca a cinque milioni fedeli vostri sudditi, dediti la maggior parte alle arti liberali, all’agricoltura, all’industria, ed al commercio, per darlo a cinquantaduemila impiegati, in maggior numero facoltosi (oltre della truppa) parte di essi oziosi, dissoluti, ed indegni di portare la divisa di V.M., i quali tutto sacrificano al desiderio di accrescere e conservare la propria fortuna, sacrificare la patria alla propria ambizione, e cercare per la via del delitto i loro avanzamenti. Io non trovo, o Signore, mezzo più efficace per prestare gli opportuni rimedi ad un tale gravissimo male, se non quello di togliere tanti rami d’imposizioni e ridurli a tre, la di cui amministrazione si dovrebbe portare alla maggior semplicità, per così scemare il numero degli impiegati che assorbiscono quasi la metà della rendita del Regno, essendo un calcolo certo che di tutte le contribuzioni non entra nell’erario regio neppure la metà, per darla a tant’individui oziosi e carichi di delitti, che l’esperienza non l’ha potuta cangiare, né i benefici l’han potuto mansuefare, i quali, appena hanno imparato a leggere e scrivere, si vedono impiegati con gran soldi non per sollevare il suo simile, ma per opprimerlo ed angariarlo; e dopo gli impieghi che occupano, si vedono andare vagabondi per idolatrare coi loro soldi il debole sesso, o convertirli in disonorare Dio nei giuochi illeciti, nei banchetti, e nelle impudicizie, o in un lusso che scandalizza fin anche i stranieri, sodisfacendo con ciò a tutti gli stimoli dei sensi, quandoché sarebbe meglio se costoro si applicassero a far fiorire l’agricoltura con insegnare la maniera di liberare i campi da tanti divoratori, o sotterranei o visibili, che li fan guerra, e congiurati per mandare a male le fatiche dei poveri agricoltori; e ciò facendo sarebbe un traffico del loro ingegno a poter vivere, e ne raccoglierebbe gran frutto il pubblico ancora. Né voglio tralasciare di parlare, o Sire, di tutti gli altri che
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Parte terza. La politica economica
servono la vostra sacra persona, ed impiegati nelle vostre segreterie, i quali tutti dividono con voi le rendite del Regno. Or questi sono del ceto dei cavalieri, e siccome sono ricchi di beni di fortuna, così forse sarebbe meglio che la M.V. premiasse colla gran moneta degli onori i loro talenti e virtù, arricchendoli di decorazioni che la M.V. potrà creare all’uopo pel merito civile e non già con gran soldi. Ed a questo proposito mi cade in acconcio far presente a V.M. che questa mia patria, situata nel distretto di Nola?, racchiude quattromila quattrocento abitanti, e paga annualmente per contribuzione fondiaria ducati ottomila cinquecento ottantaquattro (lasciando da parte gli altri rami più gravosi di questo); e pure detta somma non basta per paga annuale neppure ad un solo consigliere di Stato; e da ciò ne nasce che si spolpano 4.400 abitanti, e non si giunge a pagare un solo individuo. O altri sono impiegati nelle segreterie, Banco delle due Sicilie, ed altre officine, e non hanno modo da vivere, e questi, avendo talenti, potranno esercitare un’arte liberale, quando non volessero abbracciare l’agricoltura o il commercio, che sarebbe il meglio per essi, siccome praticano tutti gl’individui delle comuni più popolate del Regno per vivere tranquilli e quieti; ed in luogo dei medesimi chiamare i proprietari del Regno che hanno uguali talenti; e sarà sicura la M.V., che questi sono contenti di servire la vostra sacra persona, ed avere per coinpenso l’istesse decorazioni, essendo ogni suddito persuaso di servire il suo Principe, e di contribuire al convenevole mantenimento e decoro del medesimo e delle sue truppe con parte dell’avere e dell’industria sua; e così facendo avrà la M.V. gente fedele ed onorata, non prezzolata e venale, giacché costoro sempre al vile interesse, e non mai alla vera gloria del Re consacrano tutti i loro pensieri ed industrie, essendo massima certa di non aspettare mai un retto consiglio da chi unicamente si consiglia col proprio interesse. Molte riduzioni e riforme sono necessarie nella truppa, siccome il dimandò ancora il Signor Ferret nel Regno dei Paesi Bassi, e fra gli altri la soppressione degli ispettori generali, la di cui incombenza (rimunerata da gran soldi) si limita a contare gli allievi, potendosi all’uopo rimpiazzarli con gl’ispettori delle rasse-
gne. Diminuire il numero dei soldati, essendo massima in politica ° Si tratta di Airola, comune che faceva parte della provincia di Terra di Lavoro, oggi in provincia di Benevento.
III. Finanze e fisco
DIO.
che le grandi armate opprimono il Regno e sono nocive all’agricoltura, perché nel difenderci da nemici vale assai più l’unione ed affetto del popolo col Principe che molte migliaia di soldati forzati; ed il Signor Pirson di Namur, parlando nello stesso senso,
disse: «se avremo la guerra, né al Re, né allo Stato mancheranno difensori: l’amore dei popoli è quello che forma la possanza del Re». L’esercito bisogna rimpiazzarlo non con un reclutamento forzato, ma volontario; e facendo ciò non si vedrebbero conti-
nuamente diserzioni molte volte accagionate da superiori indiscreti, o di peggio; una dolorosa separazione tra padri e figli; né si vedrebbe più che le famiglie fossero costrette a rovinarsi per riscattare i loro individui. Sire, ciò che forma la possanza di un Re e dei suoi sudditi, non è lo sterile dominio di una vasta estensione di paese, ma un libero e florido commercio che porta seco immense ricchezze; ed infatti le nazioni più ricche sono le più felici nell’interno, e le più rispettate e temute al di fuori. Per vedersi eseguito un tal sistema, bisognerebbe che tutt’i vostri sudditi sieno esenti da tanti rami d’imposizioni, ed allora si vedrà che il denaro circola fino nella classe più infelice del popolo. E siccome dissi a tre soli si debbono ridurre, cioè uno sopra i fondi, un altro sull’industria, ed il terzo su delle merci estere che s’introducono nel Regno pel solo mantenimento dello Stato, essendo una massima incontrastabile e sostenuta da tutt’i filosofi, che quanto più cresce la popolazione, la mercatura e la dovizia dei privati, tanto più per altro verso viene a profittar il Principe; ed allora in mezzo all’opulenza il vostro sacro nome sarà temuto, la vostra alleanza sarà desiderata, i vostri dritti rispettati, voi in somma darete legge ai vostri vicini; all'opposto finché i vostri sudditi saranno nell’indigenza, il vostro trono sarà vacillante, le vostre provincie sempre esposte alle rapine dei vostri vicini, e per ottenere dette ricchezze, fate che fioriscano le arti, il commercio e l’agricoltura, in modo che ogni lavoratore in giorno di festa sia almeno munita di un pollo la sua mensa frugale, ad imitazione di quanto diceva e desiderava Arrigo IV. E per eseguire ciò, togliete tanti rami d’impieghi in dove la gente ci ascende per via di maneggi li più turpi per dimenarsi nell’ozio senza nessun vantaggio della società; che anzi essi riguardano ogni carica come l’unico scopo di potersi arricchire ed esaltare le proprie famiglie, quelle dei parenti, o di una loro prostituta; senza ricordarsi di quella gran massima che
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Parte terza. La politica economica
gl’impieghi si danno dal Principe non solo per liberare dai mali il popolo, ma di accrescerlo di beni, nel che appunto consiste la vera felicità. Ardisco soggiungere non essere per avventura da tollerarsi da un savio Principe che sia tanto numeroso il ceto dei frati, poiché molti di essi, essendosi oggi allontanati dalla primiera loro istituzione, vivono nell’ozio sulle sostanze altrui; senza entrare nelle loro operazioni e nel danno che in tutti i tempi hanno cagionato a Regni interi, siccome si rileva dall’istoria d’Italia e fuori, e con ciò portano allo Stato un danno considerevole, non solo perché facendo costoro venir a lor pro le rugiade della pietà dei fedeli, togliendo le limosine dovute a veri poveri invalidi di Gesù Cristo, alla protezione dei quali è specialmente tenuto chi governa, ma ancora perché tolgono all’agricoltura tante braccia che tengono i medesimi impiegate nella questua; e sarebbero questi tali individui decaduti dall’antico fervore, non gravosi alla società, più impegnati al travaglio e più rispettosi degli antichissimi dritti di confidenza e subordinazione che debbono avere i sudditi ai veri loro parroci. Si facciano finalmente dei dotti e zelanti vescovi, con legge di minorare il numero dei preti, e proporzionarli ai veri bisogni della religione, e scegliendo sempre i più dotti dal ceto delle persone
educate e facoltose; ed allora nel sacerdozio si troverà maggior rigidezza di costumi, e maggior pertezione nei suoi individui; come pure l’agricoltura, le arti, ed il commercio conterebbero tante braccia in più, che intruse oggi nel santuario, discreditano la religione e sono di peso al Regno. Si potrebbe metter freno a ciò ch'è lo scandalo delle più culte nazioni d'Europa, in vedere cioè più migliaia di uomini e donne d’ogni ceto ed età, parte privi di qualche membro, ma la maggior parte d’ottima salute andar vagabondi per tutto il Regno domandando l’elemosina, e fra gli altri pessimi inconvenienti che recano alle popolazioni (lasciando da parte che non son dediti ad altro che a banchetti ed impudicizie), vi è quello che s’introducono nelle chiese, distogliendo i fedeli che ivi si congregano per adorare e pregare il sommo Iddio; quando che la M.V., con farli radunare nel Reale Albergo dei poveri, potrà quindi renderli utili alle loro famiglie, a loro stessi, ed allo Stato ancora, facendoli
applicare all’agricoltura con consegnarli a massari di campi dei rispettivi paesi, da tenerli sotto la sorveglianza dei parroci e sin-
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daci per i soli alimenti fino a che giungeranno a lucrarseli; e le donne ed i storpi consegnarli ai capi delle fabbriche di seteria, lana, e bombace, etc., con l’istesse condizioni e leggi. Per ultimo, o Signore, si dovrebbero far presto cambiare tutti codici, leggi e decreti fin’ora emanati, perché essi ad altro non tendono che a spogliare i vostri fedeli sudditi per ogni verso, essendo tutti finanzieri. In essi altro non si osserva che un conflitto di giurisdizioni, un ritardo di giustizia, una soprabbondanza d’impiegati, un disordine ed inviluppo nell’amministrazione giudiziaria comunale; e tutto ciò apporta ai vostri sudditi, invece di sollievo, un interesse e ritardo indefinito; restringere i giudici e le camere dei tribunali; togliere i procuratori sostituti e creare dal numero dei patrocinatori supplenti onorari per rimpiazzarli; levare i giudici istruttori che fanno quello stesso dei giudici di circondario, senza recare tanto danno al Tesoro con loro soldi ed indennità dovuta a testimoni; né vi parlo dei disagi che a questi si apporta, ed a ben riflettere l’incarico dei medesimi non è altro che un passa processi, per non dir meglio, ritardare la giustizia. Se la M.V. vorrebbe fare altro bene al Regno intero e rendere spedita la giustizia, non dovrebbe permettere che gl’impieghi politici siano il patrimonio eterno di taluni individui e famiglie, ma triennali, e si dovrebbero togliere i conciliatori, e l’attribuzioni di decidere a sindaci, tanto più che questi in poche comuni si trovano essere legali, e fare che si accresca illimitatamente ai giudici di circondario ogni attribuzione, ed in particolare l’esproprio, salvo sempre l’appello dei giudicati ai tribunali; ed allora conoscendo essi da vicino le liti che insorgono nei loro amministrati, le vanno a basare con mezzi più conducenti quando non li riuscisse spegnerle; e così non si verrebbe a satollare quei famelici patrocinatori (il di cui numero non deve essere limitato) ad-
detti nei tribunali per inviluppare ed allungare il corso dei giudizi a fine di spogliare i litiganti. Date ai primi eletti delle comuni un potere esecutivo nelle contravenzioni di polizia urbana e rurale, e di potere ordinare e far eseguire sommariamente le multe ai contraventori stessi ed a quelli dei generi annonari, altrimenti ogni ritardo è in disprezzo della giustizia e di danno dei poveri cittadini bisognosi. Si levino i consiglieri d’intendenza ed in particolare quelli di Beneficenza che spogliano le chiese ad essi sottoposte in danno dei poveri, degl’infermi, e del culto, rimpiazzandosi questi da un
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giudice, acciò possa ben dirigere gli affari amministrativi e di religione. Si aboliscano i sottointendenti, non essendo altro il loro inu-
tile impiego che di passa lettere, cosa che potrebbero fare anche i sindaci dei distretti. Si dia all’amministrazione un corso più semplice e spedito con togliere tanti esattori, e fare che il denaro piomba dagli esattori comunali nel Tesoro reale. Si tolgano i burò di conservazione d’ipoteca nei capoluoghi delle provincie e si uniscano al burò del registro e bollo per comodo dei cittadini, riducendo il tutto ad un dritto fisso per paga dei ricevitori, e che questi avessero gl’intendenti e sindaci per loro superiori. Si abolisca la Direzione generale dei dazi diretti che si occupa a copiar catasti, ripartire i contingenti nelle comuni, e fare i passaggi dei fondi; quandoché tutto ciò potrà farsi da sindaci delle comuni senza danno e disguido dei vostri sudditi, e di vantaggio dello Stato. [...]
4. Per una riduzione della pressione fiscale* [...] Per i sovrani non vi è sicurezza fuori della virtù, dell’a-
more dei popoli, e della moderazione del governo. Or con questa non combinano gli esorbitanti dazi a quali si trova soggettata la nostra nazione. Le provincie da floride ed abbondanti ch’erano, caddero nel languore e nella miseria dietro l’imposta di tanti pesi dei quali si passa a fare l’elenco. Fondiaria. Il più interessante oggetto delle occupazioni vostre dev’esser quello di menar avanti l'industria dei cittadini, e specialmente l’agricoltura. A questa diametralmente si oppone l’enorme peso della fondiaria fissata in tempi critici. I dazi diretti debbono essere moderati, essi cadono su i fondi, ma l’esperienza
dimostra che l’eccesso sopra i prodotti del suolo opprime l’industria. Ecco perché a nostro cordoglio abbiam veduti inculta la maggior parte della campagna, ed a stenti ha coltivato ciascuno * Da Domenico di Gese, Le voci della nazione napolitana agli eligendi deputati per le corti, Miranda, Napoli 1820, pp. 9-24.
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poco più di quello che ha creduto necessario al sostentamento della propria famiglia. Infatti a rigore tassate le comuni, vale a dire i coltivatori dei fondi, la prestazione dei pesi al di là delle forze del colono ha prodotto le miserie e queste sono state la causa di tante funeste conseguenze; senza mica mettere a calcolo che tutt’i paesi, dove le contribuzioni dei terreni sono soverchiamente gravi, divengono spopolati, e così arretro va chi troppo gir si affanna. Non si propone con Montesquieu, che per garantir l'industria dovrebbero premiarsi quei coloni che meglio avessero coltivati li loro campi, ma soltanto che la fondiaria sia ridotta al maggior possibile ribasso, come fece Carlo III, augusto genitore del nostro amabilissimo Sovrano. Vedendo egli che una imposizione in quell'epoca parimenti gravosa sopra i fondi impediva l'accrescimento dell’agricoltura, ordinò che subito fosse mode-
rata a fin di promuoversi la sorgente dell'abbondanza e delle ricchezze. Non così si praticò in tempo dell’occupazione militare, allora quando la fondiaria fissata a ragion del quinto sulla rendita imponibile esauriva, come tuttavia esaurisce, il prodotto dei terreni e quello delle fatiche nelle sterili annate che sono frequenti tra noi. Se l’infelice agricoltore non ha come pagarla, invano oppone l’eccezion della necessità alla determinazione della legge, invano si sforza di giustificare la sua impotenza colla moltiplicazione dei figli, colla diminuzione delle forze. Tutto è inutile. Il fisco vuol essere pagato. Il maggior favore che gli [si] potrà usare dai percettori, se sono umani e contenti del loro gaggio, è accordargli una qualche dilazione; all'opposto non solo coglieranno dagl’inariditi alberi il frutto per passarlo al fisco, ma benanch’essi crudelmente gli sfronderanno con delle reiterate coazioni.
Per questa ragione non pochi coloni, per pagare l’esorbitante peso fondiario, furono nella necessità di vendersi gli strumenti stessi del lavoro; indi anno per anno i bovi aratori, ed alla fine anche la proprietà dei terreni colle più dure condizioni. Riflettete, o Signori, che la miseria nostra è da ripetersi specialmente dalla mancanza dell’agricoltura, malgrado la vantaggiosa situazione del Regno e la bontà dei terreni, siccome la mancanza dell’agricoltura è provenuta dalla soverchia imposizione dei pesi, perciò, come dissi, è necessario che in forza delle vostre
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facoltà vi occupas[te] ad una sollecita riforma! sulla fondiaria e sul modo di esigerla. Registro. Egli è oggetto di qualunque ben regolato governo il render sicure in ogni tempo le proprietà dei cittadini colle vie più semplici e meno dispendiose. Il registro, che tra dazi indiretti occupa il primo luogo, se da una parte tende ad evitar le frodi nei contratti, a garantire i dritti di ciascuno, la tranquillità dei creditori, e la fermezza degli atti sian pubblici, sian privati, dall’altra parte essendo poggiato ad un grosso ramo di finanze, inabilita il cittadino, e delle volte fa sì che la medicina stessa si converta in male. Sembra dunque che debba conservarsi per gli enunciati vantaggi; ma il dazio dev'essere ribassato a tanto, che dall’introito possano esser comodamente mantenuti gl’impiegati, nonché rimborsate tutte le spese necessarie per tenersi in piedi. Carta bollata. Quest’altro non indifferente ramo di dazi in-
diretti unicamente influisce all'aumento delle finanze, perché nessun vantaggio apporta ai cittadini; anzi l’esperienza dimostra che molti inabilitati a spendere non poco per la carta bollata e per il sopraddetto registro, o non promuovono le loro azioni, o promosse le abbandonano; motivo per cui tante famiglie delle volte son decadute dei loro più importanti dritti; quindi pare che debba essere totalmente abolito. Dogane e gabelle. È generale principio di prosperità di commercio i/ rimuovere tutti gli ostacoli che vi si oppongono. A questo
proposito scrisse il dottor Quesnay®: «Si sostenga l’intera libertà del commercio, giacché il codice del commercio sì interno che esterno, il più sicuro, il più esatto, il più profittevole, consiste
nella piena libertà». Sotto nome poi di libertà di commercio non è da intendersi una facoltà che si accorda al negoziante di far ciò che gli aggrada, il che ridonderebbe in disvantaggio della nazione, ma bensì il non essere soggettato a dogane e gabelle, le quali realmente tolgono la libertà del commercio colle ingiustizie, colle vessazioni, coll’eccessive imposizioni, colle difficoltà che fanno
nascere, e colle tante formalità ch’esigono. ! Costituzione Spagnola, titolo VII, cap. unic., art. 338. [La costituzione
adottata dal Regno di Napoli durante il nonimestre fu quella spagnola. Cfr. A. Scirocco, Parlamento e opinione pubblica a Napoli nel 1820-21: L’«adattamento» della Costituzione, in «Clio», a. XXVI, n. 4 (ott.-dic. 1990), pp. 569-578. N.d.C.] è Cfr. supra, nota a, p. 153.
NI. Finanze e fisco
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Or questa libertà di commercio dovrebbe adottarsi da noi. Ma se per circostanze particolari della nazione non può farsi di meno di taluni dazi, il miglior partito sarà quello di abolire tutt’i dazi interni al fine di agevolare il commercio colla libera circolazione di qualsivoglia genere nelle provincie e nella capitale, senza inceppamento di dogane o di gabelle, potendosi ritenere soltanto quelli che si esigono all’immissione ed all’estrazione di un genere qualunque nelle dogane stabilite nei soli confini del Regno. Anche questo dazio dovrà essere moderato, altrimenti s’impedirà il commercio che provvede alla sussistenza ed ai comodi dell’uomo; oltraché il dippiù che si esigerebbe dagli esteri per l’immissione dei loro generi nel Regno, indirettamente verrebbe a gravitare sul nazionale stesso, perché sarebbe obbligato di comprare a più quel che potrebbe a meno. Tabacco. Tal dazio, la prima volta introdotto tra noi nel 1627, venne abolito quasi sul nascere. Nuovamente fu rimesso nel 1646, ma l’anno dopo non fu in piedi. Altra volta si vide fissato nel 1650 sotto il Viceré D. Innico Velez di Guevara, e si prese il sistema di darlo in appalto al maggior offerente; ed in fatti nel 1703 diede al fisco ottantamila ducati, ed aumentandosi da anno in anno, nel 1774 arrivò a cinquecentomila e più ducati. Questo dritto proibitivo sul tabacco teneva in continua agitazione il Regno per causa dei controbandi, e per tal motivo S.M. volle che fosse abolito per sempre; ma per riparare alla perdita che il pubblico erario ne risentiva, stabilì che per ogni cantaio di tabacco che dell’estero s’immetteva nel Regno, si fossero pagati poco più di ducati sei, rimanendo libera la circolazione del nostro tabacco per le provincie e per la capitale. In tempo dell’occupazione militare tra gli altri dazi imposti, questo del tabacco occupò uno dei primi luoghi. Ora sembra giusto che venghi abolito, potendosi richiamare in osservanza l’antico stabilimento di S.M. e piuttosto in aumento delle finanze, potrebbe aggiungersi il dazio di 20 in 30 carlini a cantaio sopra i tabacchi nostrali che s’immetteranno nella capitale.
Sale. Quest’ultimo ramo di dazi indiretti, dalle provvide cure di S.M. con decreto del 14 del p.p. luglio, essendo stato ridotto alla metà del prezzo con cui si è venduto finora, cioè a grana sei e mezzo a rotolo, specialmente in sollievo della gente povera,
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Parte terza. La politica economica
pare che la nazione per ora vi si acquieti; ma starà attendendo altro ribasso in epoca più felice. Mezzi che ne facilitano l'esecuzione. Non vi ha dubbio, o Signori, che del tutto abolendosi alcuni degli enunciati dazi, e ribassandosene altri, il pubblico erario verrà a risentire gran mancanza
sull’introito, e d’altronde l’esito, rimanendo
nel piede
attuale, cagionerebbe allo Stato una scossa politica capace a produrne la dissoluzione in breve tempo. Quindi per riparare a tale sconcerto si propongono i seguenti mezzi, oltre i rimanenti che potranno esser trovati all’altezza del criterio vostro. I. Il nostro Sovrano con decreto del 8 agosto 1815 stabilì che l’esercito attivo del Regno dovea essere sessantamila soldati sul piede di pace; ma con susseguente decreto del 24 dicembre 1816 lo ridusse a metà, cioè a trentamila, non solo pel motivo di una
pace durevole e di una felice tranquillità, ma benanche per restituire alle arti ed all’agricoltura quelle utili braccia che per molto tempo furon loro staccate. Or la forza militare di una nazione, non consistendo sola-
mente nel numero dei soldati e delle navi da guerra, ma nel concorso di molte circostanze, lo spirito del patriottismo e dell’attaccamento al trono in qualunque tempo potrà dare dei bravi soldati che facilmente diverranno agguerriti contro qualsivoglia potenza estera la quale ardisse disturbare per poco la nostra pace. Allora ogni cittadino sarà soldato, ogn’individuo nazionale cingerà il suo lato di ferro per assicurare la libertà; allora a proprie spese si difenderà la patria ed il trono. L’agricoltore stesso mentre lavorerà il suo campo, mentre spargerà la semenza, mentre raccoglierà la messe, in una mano avrà l’aratro o la falce, e nell’altra l’archibuso o la scimitarra. Ciò posto, essendo vostra facoltà per la Costituzione adottata tra noi il fissare in ogni anno a
proposta del Re, le forze di terra e di mare”, sembra che in difesa del Regno potessero bastare ventimila soldati. Nemmeno potrà esservi timore nell’interno, quando la nazione si è resa felice. Uno spirito sedizioso, a proposito riflette il dotto Filangieri’, non troverà compagni, né gli riuscirà di trovarli; tutto il paese si armerà contro di lui, e quindi diverrà giusta vittima della pubblica indignazione. Ad ogni modo finché le pro? Costituzione spagnola, titolo III, cap. VII, art. 10. ? La scienza della legislazione [Raimondiana, Napoli 1780].
III. Finanze e fisco
DZ
vincie non sieno perfettamente tranquille colla riforma delle leggi, non sarà fuori proposito mantenervi in attività i militi per
difesa dei dritti dei cittadino, e per garanzia del commercio nelle provincie stesse*. Inoltre in ciascuna comune potrà attivarsi anche provvisoriamente una Guardia di sicurezza interna sotto la direzione di bravi capitani, ad esempio della capitale, per mantenervi la tranquillità ed il buon ordine. II. La polizia fu posta in piedi ed assai aumentata in tempi critici a causa del timore che manteneva in continua agitazione i cittadini e chi li rappresentava, ma oggi che per la regenerazione del Regno il cuor del Sovrano trovasi indissolubilmente unito con quello dei nazionali, con ragione sembra che possa essere o del tutto abolita o almeno ristretta nel gran numero degl’impiegati. III. Abolendosi nella maggior parte i dazi doganali, verrà anche a restringersi la moltitudine della forza armata, la quale esercita il commercio interno con monopoli, e l’esterno con frodi, malgrado tante formalità per impedirle e che non s’impediscono giammai. IV. Sembra che pure il numero degl’impiegati in altri diversi rami dovesse ridursi a meno dietro una competente restrizione di cariche, e che inoltre dovessero risecars’i soldi troppo avanzati che non pochi percepiscono, a modo però che niente possa mancarli, perché secondo il parere dell'Abate Genovesi”, il poco indebolisce la vigilanza e l'ordine, promuove i furti, e rende venale la giustizia, ma il dippiù aggrava le finanze, aumenta la cupidigia, ed opprime la diligenza colla morbidezza; quindi le paghe di coloro che servono la nazione debbono dare del comodo, ma non tentare gli animi al lusso. V. Potrà esser mezzo come non diminuirsi l’erario pubblico,
il non accordare soldi a quei che saranno destituiti o sospesi dagl’impieghi, specialmente quando le di loro famiglie avessero dei mezzi di sussistenza. VI. Finalmente senza un buon sistema sulle rendite dello Stato, o sia su di ciò che ogni cittadino paga secondo la possidenza per contribuire alla salvezza dello Stato medesimo, come senza 4 Costituzione spagnola, titolo VIII, cap. II, art. 364. i 5 Lezioni di Commercio, parte I, cap. 21 [2* ed. Simoniana, Napoli 1768].
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un saggio codice di leggi, sempre barbara sarà la nazione; ben riflette Mario Pagano”, onde la prima mira dev’esser quella di rettificare le finanze. Senza di ciò qualunque altra cosa adoperi, ed a qualunque altro mezzo si appigli, tutto riuscirà inutile e vano. Stabilisca accademie, formi università, premi scienze, promuova l’industria e le arti, dia moto al commercio, senza buone
leggi e senza regolate finanze tutto sarà inutile. Quindi è da tenersi come regola generale il far grand’economia nelle spese; quanto più queste saranno ristrette, maggiore sarà il prodotto, e minore la necessità di gravare la nazione. Oggi oltre circa quattro milioni che si pagano per pesi communitativi e provinciali, l’annua rendita del Regno delle due Sicilie ascende a ventisette milioni di ducati, tre dei quali vengono assorbiti dal debito pubblico; per l’opposto in epoca non tanto remota colla metà di detta rendita il Regno si manteneva assai bene; ed a tempo di Carlo III un consimile introito era sufficiente non solo a controbilanciare tutt’i pesi dello Stato, ma benanche ad impiegarsi il dippiù anno per anno a costruire in Napoli tante magnifiche tabbriche, fra le altre il porto per agevolare il commercio cogli esteri, più quartieri per comodo delle truppe, il reclusorio per accogliere tanti mendici impotenti, etc. e sopra tutto la maestosa reggia in Caserta, la quale può dirsi una delle prime nell’Europa, e che in realtà sembra opera di più monarchi in più tempi. Intanto per venire a capo di sì grande e salutevole impresa è necessaria l’attiva ed efficace cooperazione vostra. Dalle cognizioni che vi adornano, e dallo spirito patriottico che vi commuove, ci ripromettiamo che concorrerete con tutt’i necessari mezzi ad ottenerci il conseguimento di sì importanti oggetti. A voi spetta cercare ed eleggere fra i mezzi i più propri ed affacenti per soddisfare alle obbligazioni dello Stato. A voi tocca fissar a dovere le contribuzioni”, badando che le pubbliche entrate dovran misurarsi non da ciò che la nazione potrà dare, ma bensì da quello che dovrà dare; che le ordinarie imposizioni dovranno essere
proporzionate soltanto agli ordinari pesi, ed allora i fondi di queste rendite saranno sempre inesausti per i bisogni straordinari, ° Saggi politici dei principi, progressi e decadenza delle società, vol. 3, cap. XXVIII [Verrinto, Napoli 1785].
” Costituzione spagnola, titolo III, cap. VII, art. 13.
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quando la nazione non è povera. Finalmente a voi appartiene consolidare la comune felicità con delle savie e giuste leggi, e con esse proteggere in ogni tempo la religione, i dritti del cittadino, e la stabilità del trono. [...]
5. Un progetto di revisione del sistema fiscale* La conservazione di ogni civile società ed il mantenimento di un governo alla stessa necessario, richiede senza dubbio una rendita pubblica onde provvedere alle spese dell’amministrazione interna dello Stato, di quella della giustizia, della forza pubblica, e della rappresentanza presso l’estero. Questa rendita pubblica non può essere altrimenti composta che dai dazi gravitanti sulla generalità dei cittadini. I dazi di qualunque natura, sono sempre odiosi e pesanti, ed ognuno, quantunque ne conosca la necessità, non lascia di condannarli e di combatterli. Say nel suo trattato di economia politica® espone pienamente quanto possa dirsi contro i dazi. Egli dimostra che lo scopo di ogni governo per evitare, se non in tutto, almeno in parte la generale dispicenza, debb’essere quello di stabilire dazi che gravitano sugli oggetti di lusso e di uso volontario, a preferenza dei generi di prima necessità, ed in generale prescegliere quelli che si riconoscono in una nazione i meno gravosi, e che si possono riscuotere colla più semplice e facile amministrazione, e colla minore spesa possibile. La ragione delle passate vicende che per lungo tempo ci tennero sottoposti al dominio straniero, il quale dovea consolidarsi col favore di un partito, fece obliare le accorte vedute nello stabilimento dei dazi, e mentre non ne limitò il peso, fece inventare
complicate amministrazioni per la loro riscossione, ad oggetto di dispensare numerosi impieghi nell’atto stesso che si dissipavano i beni nazionali invece d’impiegarli alla estinzione del debito pubblico. Non è così sotto un governo legittimamente stabilito, il quale * Da Francesco Vergara Caffarelli, Breve memoria di economia politica, Giordano, Napoli 1820, pp. 1-10. 2 J.-B. Say, Traité d’économie politique (Trattato di economia politica), 1803.
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altro scopo non ha che la felicità dei popoli, e non cerca che il suggerimento dei mezzi onde rendere meno gravosi e meno complicati i dazi, e fare che non siasi obbligato a spendere quasi il doppio per la riscossione, come attualmente avviene. I principali dazi presentamente in vigore sono il dazio diretto ed i dazi indiretti. Io parlerò prima dei secondi, poiché in essi esiste appunto la maggior complicazione, affinché, assicurato più facilmente e con minor dispendio il ritratto dei medesimi, possa portarsi una minorazione nel dazio diretto reclamata dai bisogni dell’agricoltura e dal voto generale della nazione. Sotto la classe dei dazi indiretti si comprendono le dogane, i dazi di consumo, il sale, il tabacco, le carte da gioco, e la polvere da sparo, oltre il registro e bollo, le licenze da caccia, ed altro.
La dogana è certamente un dazio che porta una restrizione al commercio, il quale forma la ricchezza delle nazioni. I timori del disquilibrio della bilancia commerciale e dell’eccessiva estrazione dei generi di prima necessità, come altresì la remora all’immissione degli oggetti delle manifatture nazionali, han fatto sì che le dogane abbiano distrutto il commercio ed impoverite le nazioni. Ma ormai i principi liberali che han trionfato nelle conoscenze dell’economia politica, trionferanno certamente ancora nelle leggi che dovranno stabilire la floridezza della nazione. Persuaderanno finalmente le dimostrazioni di Smith e di Say sulla necessità di accordare assoluta libertà al commercio, e sull’errore di volerne sostenere la bilancia. Un dazio però sul commercio è necessario ed è giusto, poiché gravitante ordinariamente sopra generi di lusso e di uso volontario. E bene! S’ imponga questo come una contribuzione su tutti
i negozianti da ripartirsi tra loro da essi stessi, e proporzionata ai dritti doganali da essi finora pagati, non escluso l’arcoraggio loro tanto gravoso e tanto pregiudizievole al commercio, e compreso ancora una parte del di loro profitto dei controbandi, ordinario mezzo da essi adoperato per eludere il dazio e per aumentare il di loro sempre insufficiente guadagno. In questo modo sarebbe liberato il governo dalla forte spesa della riscossione e dalla grave perdita del controbando, la nazione dall’insopportabile vessazione degli agenti doganali, il commercio dall’inceppamento da cui è oppresso, la morale pubblica dal male che le arrecano le controvenzioni dirette ad iscanzare il dazio e le pene che ne sono la
conseguenza, la patria dal dispiacere di veder sempre esistente la
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guerra tra i cittadini per impedire il controbando, ed infine i negozianti non avranno più motivi a dolersi dell’inceppamento del commercio che loro arrecano le dogane e sopra tutto l’ancoraggio, mentre divenuti i porti liberi sarà infinito il concorso degl’esteri commercianti. [...] I dazi di consumo sonosi esatti in Napoli a beneficio del Tesoro e solo se ne versano alla città ducati 360 mila, mentre nel Regno tutti quelli che si esigono sono dazi comunali. È giusto che finalmente scomparisca questa dispotica differenza. Qual ragione vuole che il territorio napoletano debba pagare allo Stato
un doppio dazio su i suoi prodotti sotto i differenti nomi di dazio diretto e di dazio indiretto? Ma oltre ciò, tutti i dazi di consumo esistenti nel Regno sono giunti ad un segno che meritano tutta l’attenzione del governo. I comuni sono gravati di tante spese loro estranee, cioè: soldi ai giudici di circondario, ventesimo per le compagnie provinciali, mantenimento dei carcerati, etc. Queste spese han fatto ricorrere a forti gabelle che gravano troppo i
prodotti della terra già sottoposta al dazio diretto, ed inceppano il commercio interno. L'imposta sul sale è di notabile peso e d’incerto prodotto alla nazione. È troppo noto il controbando del sale, e sono pure troppo conosciuti i mezzi violenti cui si è dovuto ricorrere per ov-
viarli in parte, quali furono le ultime leggi del sale forzoso e della risponsabilità degli amministratori comunali. Deplorabili sono le conseguenze dei mezzi diretti ad impedire i controbandi del sale, ed incalcolabile è la spesa che si richiede all’oggetto. Ma oltre tutto ciò la libertà del sale in Sicilia, l'abbondanza delle saline naturali, e la grande estenzione del nostro litorale, impone assolutamente l’abolizione del dazio sul sale, come fu già proposto dal Supremo Consiglio di Cancelleria, diunita a quello del tabacco, come privative ingiuste ed odiose. Onde compensarsi lo Stato della rendita del sale, sarebbe espediente di farla pagare come contribuzione dai possessori di saline in tutto il Regno a proporzione del prodotto; come in seguito da quelli che ne stabiliranno delle nuove, e lasciarne libero il commercio coll’estero, che ha bisogno di questo genere. Il sistema da tenersi per assicurare quest’introito sarà benanche sviluppato allorché sarà ammesso il progetto.
Il dazio nascente dalla privativa del tabacco è giusto perché gravitante su di un genere di lusso o di uso volontario; ma la
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privativa è ingiusta, la spesa dell’amministrazione è forte, e la necessità d’impedirne i controbandi è pregiudizievole, come abbiamo di sopra veduto. Il mezzo da rimpiazzarne la rendita, anzi da ottenerne anche una maggiore è quello di ripartirne il peso su i fabbricanti e venditori di tabacco in tutto il Regno. L’imposizione del registro e bollo contiene pel primo oggetto, oltre il dazio, un’assicurazione della data degli atti pubblici, ma pel secondo non ha altro scopo che solamente del dazio. Perché dunque sostenere due amministrazioni ed inceppare doppiamente il commercio interno senza verun’oggetto?
Si abolisca adunque il bollo della carta, si riduca ad un metodo più semplice il registro, si restringa di molto l’amministrazione, e si faccia gravitare il dazio sul solo registro, e senza dubbio la nazione ne rimarrà contenta. L’esposto sistema riguardante l’amministrazione dei diversi dazi indiretti, mentre produrrebbe un significante risparmio alla nazione, lascerebbe tanti cittadini fuori dei loro impieghi. Non sarebbe giusto però privare i medesimi dei loro soldi che si han meritato in servizio dello Stato, e se ne potrebbero conservare ad essi due terzi, finché non vi sia luogo a piazzarli altrimenti, secondo le vacanze. Gl’individui poi appartenenti alla forza armata dei dazi indiretti possono tutti passare alla forza militare. Passo ora all'esame del dazio diretto. Questo contiene il contributo fondiario in principale, le grana 10 per debito pubblico, le rate per le spese provinciali, e le spese di esazione. Quale sia lo stato dell’agricoltura del Regno ed i colpi mortali che le ha recato un dazio territoriale troppo forte, non può ignorarsi dal governo, come non può da chiunque ignorarsi, il voto generale di ottenerne il ribasso. La giusta misura del dazio diretto da gravitare su i fondi è senza dubbio il 10 per cento. Sembra che questa ragione possa
portare una sensibile minorazione nella rendita dello Stato, pure è facile il modo da conciliare ambedue gl’interessi. È conosciuto che l'effettiva proporzione della contribuzione fondiaria non è eguale in tutto il Regno, a causa degl’inevitabili errori o favori avvenuti nella formazione dei catasti portanti delle adulazioni della estensione dei fondi. Quindi ad oggetto di eguagliare la ripartizione del tributo e
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sgravare tutti quelli che pagano più del 10 per cento sull’effettiva estensione dei loro fondi, dovrebbe fissarsi per massima, e stabilmente, la ragione della contribuzione al 10 per cento, ed accordare il dritto di reclamare a tutti coloro che son gravati di più, onde ottenere la corrispondente riduzione, con verificarsi l’ef-
fettiva estensione dei fondi del reclamante. Le grana 10 pel debito pubblico ingiustamente imposte su i fondi, mentre i beni nazionali sono per loro natura destinati a soddisfare ed estinguere il debito pubblico, debbono al fine scomparire e far verificare il termine stabilito nella prima fissazione di detta imposta addizionale, cioè da durare fino all’estinzione del debito pubblico. Le spese di esazione potranno di molto ridursi affidando la riscossione della fondiaria ai comuni, e semplificando il metodo dei versamenti. Oltre ciò, bisogna liberare il peso della contribuzione fondiaria dai vizi cui è soggetta, e che portano alla rovina dei proprietari, e che riduconsi ai seguenti. 1.I proprietari che al tempo della imposizione della fondiaria si trovavano gravati di debiti su i loro fondi, pagano il quinto della rendita per contribuzione, e non possono ritenere che la decima dai loro creditori. Quest’ingiustizia sarebbe riparata colla riduzione del peso fondiario al 10 per cento. 2. L’esorbitanza dei tributi e le passate dilapidazioni, le perfide liquidazioni e le memorande scellerate licitazioni, oltre tante altre sciagure dei tempi andati, ridussero tutti gli antichi proprietari, o a contrarre debiti su i loro fondi, o ad alienarli. È riconosciuto che i primi convennero l’interesse franco di decima, ed i secondi rilasciarono a favore dei compratori il capitale della fondiaria. La nuova legge che verrà dettata dai principi di giustizia e di umanità non mirerà le lagrime e la miseria di costoro? Non lascerà ad essi speranza alcuna? Ecco indispensabili i provvedimenti di accordare ai debitori la ritenuta della decima, ossia della stessa quota che si pagherà per tributo dai loro creditori, non ostante qualunque patto in contrario, intendendosi tale disposizione comune ancora agl’enfiteuti, abolita la fissata ritenuta del quinto, e proibire ai notai di convenire in appresso l'esenzione di detta ritenuta accordata dalla legge, ancorché coverta con qualunque forma sotto rigorose pene. Così del pari sarà giusto il decretare che i compratori tutti
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sieno obbligati di restituire ai loro venditori la rata del capitale della fondiaria ritenuto, senza aversi conto delle rinuncie, transazioni, e compensazioni espresse nei contratti di compra-vendita. In tal modo potrà il governo sollevare in parte le vittime di uno smoderato tributo imposto su i fondi che da più anni [pro-
duce] l’avvilimento del commercio, ed in conseguenza quello del prezzo dei prodotti del nostro suolo ha reso distruttiva l’agricoltura e menato alla rovina i proprietari, i di cui interessi debbono riguardarsi al pari di quelli dello Stato. Esposti i miglioramenti da portarsi sull’amministrazione delle rendite dello Stato, i quali mentre renderanno libero il commercio esterno ed interno e realizzeranno le speranze della floridezza della nazione, assicureranno al governò una rendita certa e sicuramente maggiore dell’attuale, depurata nella maggior parte delle spese di amministrazione, e calcolatavi in parte la grave perdita dei controbandi. Questo vantaggio farà certamente fronte alla riduzione del contributo fondiario, la quale non produrrà mai al governo la perdita della metà del peso attuale, mercé lo scovrimento delle occultazioni dell’effettiva estensione dei fondi, e l'economia nelle spese dell’amministrazione della stessa contribuzione. In tal modo infiniti vantaggi risentiranno tutte le classi della nazione, senza soffrire molta minorazione la rendita pubblica destinata a provvedere ai bisogni dello Stato.
6. Le proteste per la fondiaria* Ricorrono li qui sottoscritti cittadini* a nome del popolo del comune di Antrodoco, provincia di Aquila, distretto di CittàDucale, ed espongono. * Da Avanti gli onorevoli membri del Parlamento Nazionale. Parole dei rappre-
sentanti di Antrodoco, Grossiana, Aquila 1820, pp. 1-16. ® In calce al documento compaiono i seguenti nominativi: Giovan Francesco Serani Cancelliere Archiviario, Filippo Fiorenzani Sinda-
co, Antonio Mascioletti 1° Eletto, Angelo Castrucci 2° Eletto, Alessandro Blasetti Decurione, Giovanni Castrucci Decurione, Luigi Carloni Decurione, Raffaele Cattani Decurione, Bartolomeo Carloni Decurione, Francesco Carloni Decurione, Candido Serani Decurione, Filippo Mannetti Decurione, Remigio
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Il comune di Antrodoco ebbe la disgrazia di avere un catasto erroneo arbitrario dettato dall’ignoranza di agenti capricciosi, esecutori arbitrari delle ferree, tiranniche, ingiuste istruzioni del 1° ottobre 1809°. Tutti gli onorevoli membri sono testimoni di fatto delle gravezze e rovine che tali operazioni irregolari con basi incerte, vaghe, arbitrarie, hanno prodotte generalmente in tutto il Regno. Li generali clamori dei popoli superarono la impenetrabile barriera del rapace cessato Ministero circondata da venduti ciarlatani finanzieri avidi di accrescere le imposte pel Tesoro reale, sotto l’apparente velo di giusta ripartizione a ragione del quinto della vera rendita netta imponibile. Non conviene alli ricorrenti di fare una minuta analitica dimostrazione delli principi erronei sulli quali basano le dette istruzioni. Sono notia tutti, e tutti hanno sperimentato il deplorabile effetto della ineguale ripartizione del tributo pubblico fondiario fissato in simili modi. Li clamori giunsero al trono del nostro magnanimo Re. Si ordinò un pronto rimedio, una nuova legge che fissasse il vero estimo della rendita di ogni proprietario in modo più regolare. Il Consiglio di Stato di allora, incapace per se stesso di conoscere in origine li difetti delle dette istruzioni del 1809, affidò al noto de Medici il progetto di legge. Questi si rivolse alli medesimi artefici che avevano commessi e fatti commettere gli errori, cioè incaricò li medesimi agenti delle contribuzioni dirette Fabi Dec. Segretario, Francesco Carconi Cittadino, Francesco Boccacci, Giuseppe Marinelli, Francesco M. Blasetti, Carlo Castrucci, Tommaso Cioni, D. Bernarndo Can. Carloni, Antonio Carloni, Giovan Domenico Castrucci, Luigi Cattani, Francesco Pasqualucci, Emidio Cascianelli, Raffaele Paolli, Francesco Chiuppi, Filippo Paolucci, Desiderio Pasqualoni, Pietro Cipriani, Giovan Crisostomo Paoli, Giovan Battista Serani, Gaspare Castrucci, Giuseppe Fabi, Angelo Maria Can. Cattani, Domenico Nicoletti, Giuseppe Can. Serani, Luigi Battista Carloni, Francesco Cenfi, Natale Fabi, Felice Schina, Giuseppe Carloni, Beniamino Fainella, Giovan Paolo Felli, Lodovico Blasetti, Eleuterio Cricchi, Natale Fabbi, Paolo Castrucci, Giovanni Colangeli, Angelo Tedeschini, Antonio Cattani, Vincenzo Boccacci, Maurizio Cardellini, Benedetto Blasetti, Simone Santopinto, Francesco Paoli, Giuseppe Carloni, Giovan Crisostomo Blasetti, Giovanni Tedeschini, Angelo Maria Cattani, Giacinto Fainella, Tommaso Serani, Giovan Crisostomo Fainella, Angelo M. di Gius. Cattani, Gioacchino Angelini, Romualdo Coletti, Antonio Grassi, Simeone Serani, Sante Corradotti, Lodovico Colangeli, Giuseppe S. Marrocchi, Tommaso Serani, Biaggio Serani, Carmine Supplizi. Il decreto, che porta in realtà la data del 9 ottobre, prescriveva la rinnova-
zione degli stati di sezione per la contribuzione fondiaria, nonché la formazione, su di essi, dei catasti provvisori. Cfr. Bu/lettino delle leggi del Regno di Napoli, Napoli 1809, pp. 863-874.
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distinti per la loro indole di fermo rigorismo eccessivo, onorati col nome di membri della commissione delle contribuzioni dirette. Questi ebbero in mira di perpetuare il loro incarico e le loro ragguardevoli mesate ed indennità, di confermare, anzi di au-
mentare le imposte ai sudditi fedeli, non far vedere al Sovrano che le istruzioni del 1809 erano arbitrarie, dimostrarono con finto zelo di economia e con sofismi l’inutilità della misura geometrica dei fondi, perché gl’intelligenti ed onorati geometri non entrassero a parte della cabala della loro amministrazione, ad essi agenti riservata, perché il suo meccanismo ignoto ad ognuno.
Proposero dunque il famoso decreto del 10 di giugno 1817° sulle rettifiche dei catasti; si sanzionò e si promulgò come legge, e li 27 ottobre 1818 si fecero altre consimili e più arbitrarie istruzioni per l'esecuzione di esso decreto. Furono allora di nuovo schiacciati tutti li sacri diritti di proprietà dei sudditi, furono confermate le istruzioni del 1809: si resero più difficili le ammissioni dei reclami, e quasi impossibile il farli per li molti documenti richiesti; certificati, paragoni, misure dei fondi, copie di contratti di affitti, copie di catasto, carta bollata infinita, diritti di registro, etc., misero li contribuenti aggravati nella disperata situazione, o di non reclamare, o di dispendiarsi assai senza speranza di sollievo. Signori, quel decreto è scritto col sangue. Il bene dei popoli
esige dalla vostra saviezza che si annulli e si tolga alla nazione l'eccessiva spesa di tanti inutili impiegati, ispettori, direttori, controlori, commessi, etc., dei quali la maggior parte erano sugainchiostro, ignoranti, ed ora con un fasto orgoglioso insultano la
miseria dei proprietari oppressi. Il contingente di tutto il Regno sia fissato per provincia, pet distretto, per comuni provvisoriamente. Un capo-divisione in
ogn’intendenza invigili a ritirare da ogni cancelliere comunale li ruoli di contribuzione nel mese di ottobre di ciascun anno, per rendersi esigibili nel gennaio del prossimo anno. Li sindaci e deputazione amministrativa comunale siano responsabili del ritardo dell’invio del contributo alla tesoreria generale della provincia, soppresse le inutili tesorerie distrettuali. Quando saranno ° Decreto portante le regole per amministrare esattamente l'oggetto della contribuzione fondiaria, in Collezione delle leggi e de’ decreti Reali del Regno delle Due Sicilie, semestre I, Napoli 1817, pp. 697-744.
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cessate le spese di un'imponente armata di difesa, quando la nazione goderà la desiderata pace sotto la protezione della proclamata costituzione, si faccia la misura geometrica di tutte le proprietà, si faccia una nuova legge per lo estimo delle medesime. Ora intanto si lasci in libertà dei cittadini di ogni comune di farsi tra loro la ripartizione del contingente fissatogli. Gl’istessi cittadini riconoscano gli errori materiali di misura o scrittura, correggano i gravami dell’estimo particolare a chi di loro riclamerà per confronto di proprietà di simile natura e qualità esistenti dentro il medesimo territorio. Questo è il voto di tutto il Regno, perché tutto il Regno si trova nelle medesime circostanze del comune di Antrodoco. La spesa inutile ed immensa di questi attuali agenti fondiari s' impieghi in aumento della nostra armata di difesa contro chiunque voglia assalirci per toglierci il bene della costituzione che il nostro ottimo Re ci ha concesso. Nel mentre che gli onorevoli deputati al Parlamento esamineranno queste osservazioni che li sottoscritti sottopongono alla loro saggia discussione, supplicano darsi una provvidenza particolare su quanto accade presentemente nel comune di Antrodoco. Il catasto, essendo pieno di errori e gravezze, il comune riclamò per avere le correzioni corrispondenti. Si ordinò la rettifica del catasto. Il controloro Signor Gaetano Aragona fu incaricato. Questi però non eseguì quanto si prescrive nelle istruzioni del 1809 e del 27 ottobre 1818, e del decreto reale del 10 giugno 1817. Il suo oggetto fu solamente di gravare quelli che si dolevano pubblicamente del suo agire irregolare e del vergognoso abuso che faceva del denaro del comune. Poiché si arbitrò di far figurare sempre presenti li commissari forastieri e gli agrimensori destinati dall’intendenza, mentre costoro si assentavano da An-
trodoco ed andavano altrove [...], e pure nelli conti sono figurati sempre presenti, ha figurato pagato a loro le indennità di vitto ed alloggio, e si ha imborsate le somme che ad essi non ha pagate. Si arbitrò di surrogare altri agenti non nominati dall’intendenza, e questi pure li ha figurati pagati; esso copiò moltissime piante di terreni [...], e le figurò nei conti come fatte di nuovo dagli agrimensori, ai quali fece fare il ricevo, e poi gli diede piccola somma. In vece di far pagare gli agenti del cassiere comunale, esso prendeva il denaro per poi figurarlo pagato qua e là per farci profitto. Ha figurato falsamente che tanto lui quanto li commissari nominati dall’intendenza abbiano acceduto sopra ogni pro-
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prietà, come prescrive il detto decreto del 1817 e le istruzioni del 1809 e 1818, per cui la maggior parte delle proprietà del catasto sono state stimate a tavolino senza ispezione locale. Si esamini la maggior parte della popolazione, si sentano li ricorrenti, e daranno tutte le prove necessarie per giustificare quando si asserisce. Nell’intendenza e sottintendenza esistono li rapporti fatti sopra quest’oggetto, i quali sono rimasti inefficaci al solito sul tavolino del profugo intendente Guarini. Il comune e li ricorrenti speravano che tale catasto fatto non da agenti richiesti dalle leggi sudette, ma da altri surrogati dal controloro con abuso di potere, e fatto a tavolino senza ispezione locale di ogni proprietà, fosse annullato e condannato il controloro a restituire al comune la vistosa somma di ducati seicentottantaquattro e grana trenta impiegata per scrivere simili imbrogli. All'improvviso con sorpresa di tutta la popolazione si è inviato detto catasto arbitrario al sindaco perché lo esponesse al pubblico e lo facesse conservare in archivio. Signori, è tempo di far cessare il despotismo dei Ministri e subalterni agenti. Il catasto mandato è fatto contro la legge, è lesivo delle proprietà dei cittadini, perciò è nullo e non deve eseguirsi. Le spese fatte non devono andare a carico del comune, ma del controloro che ne ha profittato in gran parte. E deve darsi un esempio di castigo di questo impiegato infedele. Ciò implorano e sperano ottenere li sottoscritti per la loro popolazione intera, che confida nella giustizia del Parlamento Nazionale.
7. Per una riforma della fondiaria* [...] Esaminiamo
uno dei principali rami delle finanze. Le
contribuzioni dirette han schiacciato i proprietari dei fondi ed avviliti i coloni. Si sente quindi tutta la necessità di minorarle e di riparare a tanti guasti con leggi savie. Vari comuni del Regno presentano un quadro desolante degli effetti spaventevoli da esse prodotti. Non vi è persona che non aneli un sistema che possa * Da Sul ribasso della fondiaria, articolo anonimo (compaiono solo le iniziali: F.L.), s.d. (ma 1820), pp. 2-8.
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agevolare l’imposte rese insoffribili. Vi è chi opina doversi ripristinare gli antichi catasti, chi progetta il catasto geometrico, chi vorrebbe riunire diversi sistemi in uno con un innesto sì mostruoso che assurdo, ed alcuno non ha pensato ancora come potersi rettificare e rendere meno grave l’attuale. Noi vedremo quale possa meglio convenire, esaminando ciascuno di essi. Progetto di ristabilire gli antichi catasti. È da risovvenirsi che gli antichi catasti non presentan’affatto alcuna norma sicura per i dazi diretti. Essi erano inesattissimi nell’estensione e nella descrizione dei fondi; erronei ed ingiusti perché dettati dallo spirito di parzialità e d’egoismo, e non comprendevano tutte le proprietà, attesi tanti privilegi esistenti in quell’epoca. D'altronde tali catasti non erano in tutte le comuni del Regno, né si può avere più traccia di quelli che [sono] una volta esistiti, e né sarebbero più adattati ai nostri tempi in cui si conoscono le conseguenze perniciose d’un tal sistema. Una lunga esperienza ha dimostrato mal sicuro l’affidare ai comuni la ripartizione dei carichi individuali; essi non sarebbero eseguiti, o ritardati, o fatti con parzialità; gli arbitri si vedrebbero di nuovo comparire e gl’incaricati sarebbero sempre sospetti nel fissare la loro quota e quella dei loro attenenti o amici. Per assicurare stabilmente i fondi del Tesoro, per fare i carichi annuali, e per mantenere la scrittura regolare in tutto il Regno, è indispensabile l’esistenza d’una direzione in ciascuna provincia, la quale, oltre le contribuzioni
dirette, sotto il nome d’intendenza di Finanze, potrebbe abbracciare gli altri rami e rendersi maggiormente utile all'economia dello Stato. In Francia si tentò di abolire le Direzioni delle Contribuzioni, ma si vide subito la necessità di ristabilirle. Le loro scritture sono d’accordo col codice e non si può distruggere un sistema senza alterar l’altro col quale vi è relazione.
Catasto geometrico. I catasti provvisori attualmente in vigore, perché inesatti, fecero sorgere l’idea nel Decennio di doversi eseguire nel nostro Regno, ad imitazione della Francia, il catasto geometrico. Non vi è persona che, convinta di tutti vantaggi che risultano dalla descrizione e dalla misura esatta di tutt’i fondi,
possa dispensarsi d’encomiare un sistema il quale è l’unico che può fare sparire tutt’i disordini; ma sono pur troppo note le difficoltà insormontabili che esso presenta: 1 una spesa enorme, 2 un tempo incalcolabile, 3 la mancanza dei mezzi, specialmente
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d’esperti topografi'. Oltre di che sarebbe pur strano di pensare ad un’operazione nel momento in cui le nostre imperiose circostanze ci portano a riflettere attentamente alla soluzione d’un problema, cioè come fare prosperare le finanze alleviando in vece d’opprimere la nazione. Noi abbiamo bisogno di tempo e di mature riflessioni per migliorare ed abbellire tutte le parti dell’edifizio politico dopo che avremo basate bene le fondamenta, altrimenti avremo il dolore di verderlo crollare. Nuovo progetto. Per paralizzare tutto si è preteso di proporre un progetto capriccioso, come la statua di cui si parla nei libri sagri. Si è creduto di trattare di un sistema d’imposte il quale debba consistere in parte dell’antica, parte dell’attuale, in parte dell’altro geometrico, ma ideato in modo che non merita punto la pena d’essere letto, essendo senza nesso ed inconseguente. Basta solo dire che ha tutt’i difetti dell’antico e dell’attuale catasto, e
le difficoltà e l'eternità del geometrico, quante volte si potessero conciliare i principi in esso espressi. Chi ha patriotismo deve non sol far vedere i vizi delle nostre istituzioni, ma impedire che altri sotto mentite divise si volessero introdurre. Non essendo dei tre
sistemi indicati alcun di essi eseguibile, cosa mai bisogna fare? Mezzi di migliorare il sistema della fondiaria e di poterla diminuire d’un quinto. La fondiaria è estremamente odiosa perché è assai gravosa e perché ha con sé molti inconvenienti; sarebbe tollerabile se si facessero sparire le cause che la fanno abborrire: i lamenti finirebbero con tutte le declamazioni che con dispiacere sentiamo. In tal caso noi non avremo bisogno di rintracciare altro piano d’imposte, potendosi rettificare quello che già abbiamo. Or: 1. Per avere l'esattezza di proporzione nelle contribuzioni delle comuni è necessario obbligare i rappresentanti nominati costituzionalmente a prender conto ed a dichiarare i favori esistenti, ad invigilare per impedirli, ed i proprietari a rivelare l’omissioni dei loro fondi. Per ottenere un tal’effetto le comuni dovrebbero avere un contingente fisso per trent'anni. In tal caso
gl’interessati avrebbero tutta la premura di rinvenire le occultazioni, sul riflesso che l’aumento di rendita d’un comune non sarebbe che pel comune stesso. Noi abbiamo eccellenti topografici, ma non in numero sufficiente per l’esecuzione d’una tale operazione. I
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2. E molesta l’esazione fondiaria perché si esiegue in tante rate mettendosi alla tortura i contribuenti in quei mesi in cui la maggior parte di essi si trovano in bisogno. È giunta a tal segno la vessazione che in qualche comune si è veduto nella più rigida stagione usare la barbarie di far scovrire i tetti onde vendere gli embrici per la rata della fondiaria dovuta da taluni infelici contadini. Questi tratti di oppressione che fann’orrore, non solo si possono bandire del tutto, ma si può molto agevolare il metodo d’esazione. Due sono gli espedimenti di adottarsi: 1 di diminuire. le scadenze fissandole nei tempi delle diverse raccolte secondo le diverse provincie, 2 di adottare di nuovo il sistema dei cedolieri,
da doversi scegliere fra cittadini più agiati i quali possano facilmente versare nelle casse dei ricevitori generali le contribuzioni di ciascun comune. Per non rendere odiose queste cariche si dovrebbero allettare con un compenso in proporzione dei travagli e delle somme anticipate. 3. Si può facilmente agevolare il metodo dei reclami, specialmente per i piccioli proprietari. Si possono fare eseguire le mutazioni di quota presentandosi il semplice stato formato dagli agenti comunali in carta senza bollo e senza tante formalità. Il Parlamento è convinto della necessità che abbiamo di minorare la fondiaria. Oltre che è divenuto un bisogno, una minorazione è dettata anche dalla politica. Senza prima risecare gli esiti, non si possono diminuire gl’introiti, altrimenti avremo un vuoto. Noi dobbiamo fare, nostro malgrado, delle grandi spese per difenderci da un’invasione. Per conciliare questi due estremi non vi è che un solo mezzo d’adottare, il quale è poggiato su dei principi i più giusti. Le contribuzioni dirette han gravitato e gravitano, solo su d’una classe di cittadini le di cui proprietà consistono in beni fondi, mentre che esentano un’altra doviziosa che
ha le sue proprietà in capitali, in industrie, ed in commercio. Questa mostruosità ha sempre eccitata la più grande meraviglia d’opprimere infelici possessori del solo tetto che gli ricovera, di vederli mendicando la sussistenza, essere costretti nella loro mi-
seria a pagare il dazio mentre che ricchi cittadini della stessa gran famiglia godono gli stessi dritti con vantaggi di più senza pagare contribuzione alcuna. Un’ingiustizia sì scandalosa che insultante colpì l'animo degli stessi finanzieri francesi, i quali tentarono di sottoporre una volta anche la divisata classe all'adempimento d’un dovere, ma essi
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Parte terza. La politica economica
fallarono nei mezzi. Sotto il nome delle patenti è conosciuto coi suoi difetti questo dazio, la di cui memoria è tuttavia detestata perché era malamente concepito ed ingiustamente eseguito. I mercanti, i capitalisti, ed i possessori di grandi industrie possono obbligarsi a pagare discretamente il quinto della loro rendita liquidata al cinque per cento di capitale, con una norma più sicura e più giusta di qualunque altra nota finora. Sarà questo l'oggetto di un regolamento il quale è ideato diversamente da quello delle patenti ed in conseguenza su basi sicure e giuste, e non capricciose ed ingiuste. Ecco che in tal caso noi non altereremo punto l’introito del ramo delle suddette contribuzioni dirette, avendo presso a poco la stessa somma totale per mezzo d’un’imposta che la ragione e la
giustizia chiamano all’adempimento d’un dovere una classe d’agiati cittadini finora esentati, per alleviare l’altra dei possessori di fondi colla diminuzione d’un quinto della fondiaria. Un’armata numerosa che siamo costretti a dover mantenere non ci permette di proporre misure che possono contradirsi coi principi sopra indicati cioè d’alleviare in luogo d’opprimere la nazione, senza pregiudizio delle risorse delle finanze e di risecare gli esiti prima di scemare gli introiti. Allorché saremo nel caso di dispensarci di tante spese, la nazione tutta gusterà frutti più maturi, cd avrà maggiormente motivo di benedire la Provvidenza che l’ha concessi [di] tanti beni e di custodire gelosamente la sua libertà e la sua indipendenza.
8. Per l'eliminazione del debito pubblico* Le terribili scosse politiche alle quali da più anni è stato soggetto il Regno, avevan fatto crescere infinitamente il debito pubblico. Durante il governo francese fu molto diminuito sia con una riduzione, allorché se ne fece la liquidazione, sia colla vendita dei beni nazionali e coll’affrancazione dei censi dei p. stabilimenti. Inoltre si creò una cassa di ammortizzazione, il cui * Da Osservazioni sulla riforma delle finanze e sui mezzi di promuovere la pubblica istruzione, l'agricoltura, le arti, ed il commercio, capo XVII, Del debito pub-
blico, articolo anonimo (compaiono solo le iniziali: E.S.), Tipografia Francese, Napoli 1820, pp. 71-73.
II. Finanze efisco
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scopo [era] l'estinzione del debito; e se i fondi che le furono as-
segnati non fossero stati per i bisogni della guerra spesso ad altri usi invertiti, a quest’ora il debito pubblico sarebbe quasi estinto. Il fatto sta che il debito già liquidato ascende tuttavia a circa 30.000.000 in capitale, e circa 10 altri milioni importano i crediti di cui si sta facendo la liquidazione. I sani principi di economia consigliano la totale estinzione del debito nazionale. Vari mezzi vi sono per ottener questo fine: 1 la vendita dei rimanenti beni nazionali con partite d’iscrizione, 2 la soppressione dei conventi, 3 la restrizione delle mense vescovili, per vendersi nell’istesso modo i beni degli uni e delle altre, 4 l’affrancazione dei canoni infissi sul Tavoliere di Puglia. Coll’estinzione del debito si risparmierebbero le spese di molte amministrazioni. Lo Stato inoltre guadagnerebbe colla libera circolazione e colla più saggia amministrazione delle proprietà. Oltre del debito nazionale proveniente da imprestito fatto dal governo coi particolari, lo Stato ne ha un altro per pensioni ed assegnamenti fatti agl’impiegati civili e militari, o alle loro vedove, non che agli ex frati. Per altro le pensioni accordate regolarmente dopo gli anni di servizio non gravitano tutte sul Tesoro, ma in parte sul fondo del 21/2 per 100 che si rilascia dagl’impiegati sui loro soldi. Le pensioni degli ex frati si vanno con essi annualmente estinguendo, e così pure gli assegnamenti sui ruoli provvisori, di modo che fra alcuni anni, ora che son cessate le dilapidazioni, lo Stato si troverà libero da questo peso. Le spese del debito pubblico consolidato ascendono, per quanto apparisce dallo stato discusso del Ministero delle Finanze del corrente anno, a ducati 1.420.000, le pensioni ecclesiastiche a ducati 600.000, quelle di grazia a ducati 230.000 e quelle di giustizia a ducati 500.000; gli assegnamenti sul primo e secondo ruolo provvisorio a ducati 170.000. In tutto 2.900.000, peso gravissimo per lo Stato, e che assorbisce gran parte delle sue rendite. Se conviene far tutto il possibile per la pronta estinzione del debito pubblico, conviene ancora chiudere l’adito alle pensioni di grazia ed agli assegnamenti arbitrari. Il solo merito, i soli servigi
renduti alla patria ed allo Stato debbono essere i titoli per le pensioni@, quando non si hanno tutti gli anni di servizio che la legge richiede, possono far meritare la pensione acciacchi tali di salute, che rendano impossibile ogni ulteriore servizio. Intanto
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sulla detta somma di ducati 2.900.000 credo che potrebbero risparmiarsi almeno 200.000 ducati per la cessazione di quelle pensioni di grazia ed assegnamenti sui ruoli provvisori che non si troveranno dal Parlamento fondate sopra niun principio di giustizia e di equità.
9. Ancora sul problema del deficit* [...] Prima ed essenziale base d’un ben regolato governo è l'equilibrio dei bisogni coi dazi che i popoli debbono pagare. A questo riguardo i membri del parlamento, che sono i sostenitori dei dritti individuali, baseranno solidamente questo principio finanziero e faranno in modo che le imposizioni non eccedano l’indispensabile necessità di esiti giusti e moderati. Non è meno rimarchevole l’osservare che il debito pubblico dello Stato deve ripianarsi. Infelice quella nazione in cui il di lei governo fosse indebitato; gl’individui particolarmente saranno tutti falliti. Ma come farebbesi a ripianare un tal vuoto? Eccone i mezzi. Si vendino tutt’i beni dello Stato, eccettuati pochi che la nazione può riserbare per diporto del Re e della famiglia reale. Quest’è la strada da soddisfare i debiti, oltre a che la nazione viene a farci un considerevole guadagno risparmiando tanti soldi agl’'impiegati di tali amministrazioni. Qualora poi detti beni nazionali non possono alienarsi per la mancanza del numerario, allora una ben regolata censuazione potrebbe annualmente ripianare i deficit ed arricchire la popolazione, poiché è incontrastabile che i beni dello Stato a lungo andare vanno a deteriorarsi. Tutt’i beni delle chiese debbono essere devoluti alla nazione,
che potrà anche vendere per ripianare i vuoti. I ministri della religione debbono essere pensionisti al pari che lo sono gl’impiegati civili e militari; e ciò per due motivi; primo perché i ministri della legge evangelica non debbono essere economi e negozianti, questo disconviene al loro ministero, e poi, affinché possa lo Stato privarli di tal pensione non adempiendo al loro dovere. * Da Riflessioni analitiche sullo stato attuale delle due Sicilie, e mezzi che si
propongono per una generale riforma, che possono valere di modificazione alla Costituzione spagnuola, articolo anonimo, Raffaele, Napoli 1820, pp. 37-41.
II Finanze e fisco
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In quarto luogo meritano seria considerazione le spese della guerra. Noi sappiamo che in Baviera sono mantenuti a tutte spe-
se 86 mila uomini di truppa attiva con 4 milioni. E presso noi sappiamo abbastanza quanto si esita pel mantenimento appena di 40 mila uomini. Vi sono infinite metà, terzi e quarti di soldo a migliaia di ufficiali ritirati, e perché? O la nazione ha bisogno e deve obbligarli a servire attivamente, o sono inutili, e a che esitare qualche milione per gente che può d’altronde procurarsi da vivere? I soli vecchi militari, e quelli che vantano delle ferite campali per le quali si sono resi inabili al servizio attivo, hanno un dritto agli alimenti, e la nazione si fa un dovere di mantenere a sue spese tutti quegli uffiziali e soldati che hanno incanutito sotto le armi. Abbiamo tante diverse amministrazioni sotto speciose nomenclature. Queste in parte possono riunirsi, ed in parte sopprimersi; a che giova quell’esito immenso a tant’impiegati ed all’in‘ tiera amministrazione delle Acque e Foreste? Quai laghi, quai boschi propri ha la nazione? Bisogna dunque a spese dello Stato mantenere i fondi dei privati proprietari? Fu questa una misura adottata dai francesi nel Decennio, e ciò per compensare i servigi che tanti loro parteggiani gli avevano resi; s’inventarono allora, e si moltiplicarono le amministrazioni, le direzioni, e si vide un morbo d’impiegati. Non è questo però il tempo di ricompensar chicchesia; ognuno ha fatto la sua causa ed ha servito a se stesso, che pretende di più? Quelle cariche di sotto-intendenti che cosa mai significano? Essi sono tanti veicoli tra l’intendente ed i sindaci; e non potrebbero gl’istessi sindaci corrispondere coi capi
delle provincie? Quelle cariche di ricevitori provinciali, distrettuali, e di esattori comunali, perché? Vi sono i cassieri comunali,
questi possono incassare le rendite pubbliche delle rispettive comuni, versarle al cassiere del capo provincia; e questi finalmente alla Tesoreria Generale dello Stato. Questo è il metodo che deve
praticarsi; le amministrazioni debbono semplificarsi, ed una restrizione d’impiegati è tanto necessaria, per quanto è doveroso il buon regolamento della nazione. Quante osservazioni vi sarebbero a fare sul ramo finanziero; non mancheranno degli uomini di me più istruiti che forniranno dei lumi. Io scrivo guidato dal buon senso, e le mie riflessioni sono figlie della penetrazione filosofica. In ultimo luogo è di somma importanza che lo stato delle
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Parte terza. La politica economica
finanze non sia un mistero per i nazionali; è perciò necessario
affigersi in ogni comune alla fine di ogni anno lo stato dimostrativo dei tributi ricevuti e degli esiti fatti; chi paga un tributo, ha ben ragione di esaminare per quali vie si esita, e può avere il dritto di fare delle osservazioni e proporre dei mezzi onde minorarsi il tale o tal esito; in tal modo rimarrà persuaso e convinto anche l’ultimo borghese del perché egli paga il dazio, e l’uso convenevole che si fa del suo denaro. [...]
10. Contro l'istituzione di una Cassa di sconto privata* Sono ormai circa tre secoli dacché esistono i Banchi in questa capitale. Fino dal 1575 sursero i Banchi della Pietà e di A.G.P., e di mano in mano si stabilirono gli altri del Popolo, dello Spirito Santo, di S. Eligio, di S. Giacomo, dei Poveri, e del Salvatore.
Essi ebbero origine dacché facendosi prima i depositi in mano di particolari banchieri, soggetti questi a continui sinistri e fallimenti, sovente mancavano portando il disordine al commercio ed alla pubblica fede. I Banchi non ebbero nel lor principio veruna dotazione: particolari cittadini mossi da spirito di religione
e di carità ne gittarono le fondamenta; in seguito i Banchi si fecero i lor patrimoni con le compre che fecero dal ristagno dei depositi e col moltiplico dei loro frutti; ma riconosciuti per uno stabilimento veramente nazionale e di sommo vantaggio non meno alla pubblica fiducia e sicurezza del commercio, ma benanche dello Stato, il governo li ha sempre garantiti, e sono stati sempre riguardati con premura, e protetti dalle diverse dinastie e governi che in questo Regno hanno esistito. Questo stabilimento nazionale è stato in ogni tempo una sorgente inesausta di comodi e di ricchezze per la nazione e per lo Stato. Non vi sarà certamente alcuno che non conosca i vantaggi che sempre ha recato. Le carte del nostro Banco nazionale sono state sempre, e sono tuttavia in circolazione in tutt’i luoghi del nostro Regno; ed in tutte le casse
regie e pubbliche si sono ricevute come contante, e nei tempi più felici le carte di Banco hanno finanche guadagnato sul contante * Da [Gianbattista Gifuni], Memoria per lo Banco delle due Sicilie, Raimondi,
Napoli 1820, pp. 1-18.
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il 2, e fino al 3 per 100, specialmente nelle fiere del Regno, e fino in quella di Senigallia ove i commercianti per non avere l’incomodo di portare delle grosse somme in contante, e per liberarsi dal pericolo di essere assassinati e perdere il numerario, pagavano un agio per far acquisto delle fedi di credito del Banco, che da per tutto nel nostro Regno incontravano una libera circolazione, giacché è ben noto che anche disperdendosi una fede di credito o polizza del Banco, può tirarsi il danaro, precedenti alcune poche formalità; locché non si avvera per altra sorte di carta monetata che si usa in altri Regni, giacché disperdendosi quella, è perduto il numerario che rappresenta. A chi non è noto di quanto utile e vantaggio sia la cautela che danno le carte del nostro Banco nei contratti? Chi non sa che tanto i particolari della provincia di Napoli, quanto quelli di tutte le altre provincie del Regno fanno uso dei pagamenti per Banco allorché vogliono acquistare una perpetua sicurezza e cautela dei loro pagamenti? Chi non sa quanta fede fanno in giudizio le carte di Banco per la cautela che offrono i suoi sistemi consagrati dalla esperienza di secoli, in modoché una partita di Banco, o altro legal documento estratto dai suoi registri, fa con sicura coscienza decidere i magistrati di assolvere o condannare alcuno ad un preteso o contrastato pagamento? E chi non sa finalmente quante famiglie si son liberate da ingiusti ed annosi litigi col solo mezzo di aver rinvenuto un pa-
gamento fatto per Banco dai loro antecessori uno ed anche due secoli addietro? Questo nazionale stabilimento ha dato sempre delle risorse al commercio, all’agricoltura, ed alla industria, ed ha sollevato in
ogni tempo la classe dei bisognosi tanto di questa provincia, quanto di tutte le altre del Regno, giacché tenendo esso impiegate immense somme all’opera dei pegni, di questa profittavano tutti generalmente, e fino anche i forestieri che si trovavano in questo Regno pignorando i loro oggetti preziosi; colla quale opera si è tenuta sempre depressa l’ingordigia degli usurai dediti sempre ad opprimere gl’infelici. Il suddetto stabilimento è stato anche sempre di sommo utile e comodo allo Stato. La regia corte se n'è sempre avvaluta, obbligando i Banchi a somministrare il danaro bisognevole per la compra di grani ed oli per l’annona della città, e per altre opere pubbliche non solo di Napoli ma di tutto il Regno. Essi erano obbligati a somministrare delle grosse somme annuali per lo man-
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Parte terza. La politica economica
tenimento dei poveri nel Real Reclusorio e nell’Ospizio dei SS. Pietro e Gennaro extra moenia; ed a dare dei maritaggi alle figliuole in detti luoghi recluse. Essi facevano mensualmente per sovrane disposizioni molte migliaia di elemosine, cosicché infinite famiglie di nostri concittadini venivano sostenute dai Banchi, senza che fossero a carico dello Stato, e senza che tutti questi esiti avessero portato il menomo disguido ai Banchi. Tutti questi vantaggi han fatto sì che, sebbene i Banchi in vari tempi sono stati minacciati e prossimi a cadere, sempre il governo è accorso a proteggerli e somministrarli i mezzi onde
riparare alla loro ruina ed a rimetterli in credito. Di fatti, essendo stata avvertita S.M. nel 1803 che dalla regia corte erasi fatto un vuoto nei Banchi di più milioni, con real editto in data del 18 agosto detto anno, assicurò il pubblico che sotto la sua garanzia avrebbe conservata ai Banchi la pristina fiducia, e gli avrebbe al più presto possibile rimessi nell’antico loro stato; quindi creò una deputazione rappresentante l’intiero ceto degli apodissari, dichiarandola la posseditrice dei beni di tutti i Banchi, e pose a disposizione della medesima una quantità di fondi, onde colla vendita di essi si fossero ammortizzate tante carte bancali, quante corrispondevano alla effettiva somma del vuoto. E perché in febbraio 1806 vide la stessa M.S. che tuttavia esisteva una parte del vuoto, ordinò che si aggiudicassero alla stessa deputazione degli apodissari circa annui ducati 78.000 di partite di arrendamenti di sua privata proprietà, che si amministravano dalla giunta delle ricompre, e che se le dasse benanche la tenuta di vari feudi devoluti alla regia corte, per farsene la vendita, qualora se ne fosse presentata l'occasione, ed intanto impiegarsene la rendita in ammortizzazione e ripianamento del vuoto anzidetto; e stabilì ancora con un novello piano una deputazione amministratrice dei beni dei Banchi. Ristabilito in tal modo quasi interamente il credito dei Banchi, e rassicurata la pubblica fiducia, avvenne l’occupazion militare di questo Regno. Allora, non si sa per qual principio, si vollero sopprimere tutte le casse dei Banchi dei particolari ed incamerare i loro beni. La mancanza di un così utile stabilimento si rese sensibile anche a coloro che ne avean fatta la rovina; quindi con una legge in data del 8 dicembre 1808 fu istituito in Banco di azionari colla
denominazione di Banco delle due Sicilie. Si promisero infiniti
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vantaggi da questo nuovo stabilimento; ma la nazione che conosceva i vantaggi del sistema degli antichi Banchi, non si adattò al sistema novello, ed il Banco di azionari caduto in languore dové ben presto terminare. La nazione coi suoi voti affrettava il ritorno di quel sistema bancale di cui l’esperienza di secoli avea dimostrati i vantaggi, e desiderava che risorgesse nello stesso modo l’antico stabilimento nazionale d’onde erano derivati immensi benefici. Conoscendosi la necessità di dover contentare il pubblico, si rimise l’antico sistema dei Banchi col decreto del 20 novembre 1809, ma nel tempo stesso si volle dentro il ricinto del Banco della Pietà unire il Banco di Corte con quello dei particolari, e fu fatta al Banco una dotazione di un milione di ducati in tanti beni fondi, ed altri cespiti per il suo mantenimento, che poi per una sola porzione fu verificato. Tornato però in questo Regno il nostro Sovrano, ed avendo osservato che nel tempo della occupazione militare molte novità erano avvenute in questa antica ed utilissima istituzione nazionale senza mai vedersi risorgere il credito pubblico, dopo aver ordinato con real decreto del 1° ottobre 1816 che l’amministrazione dei beni e rendite di proprietà del Banco delle due Sicilie, che trovavasi data dal passato governo alla Cassa di ammortizzazione, venisse alla reggenza del Banco restituita, con altro real decreto in data del 12 dicembre 1816, diede al Banco una definitiva organizzazione, poggiata sul piano anzidetto formato nel 1803 dalla deputazione degli apodissari, ed approvato dalla M.S. fin dall'anno 1805, ma che per la guerra sopravvenuta non si poté metter in esecuzione.
In conseguenza di una stabile organizzazione si vide immediatamente rifiorire il credito del Banco in modo che ognun sa a qual grado di floridezza ed opulenza era nuovamente arrivato fino ai giorni precedenti gli ultimi cangiamenti politici?. Una quantità prodigiosa di numerario era già ristagnante nel Tesoro e nelle casse tanto del ramo di corte, quanto dei particolari; ed il Banco avea già da più tempo riaperta l’opera della pignorazione di oggetti preziosi, ed anche da poco tempo quella di pannine, telerie, seterie, e metalli,
e vi teneva impiegata una
2 Il riferimento è, ovviamente, al nonimestre costituzionale, periodo nel quale l’autore scrive.
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Parte terza. La politica economica
somma significante; opera utilissima all’intera nazione, giacché non è ristretta ai soli cittadini di Napoli e suoi contorni, ma si estende a tutto il Regno ove accade il bisogno, e ne profittano anche i stranieri, e da cui il Banco ne ritraeva ancora vantaggio non piccolo, servendosi del fruttato per una parte del suo mantenimento. Chi potrà dubitare che uno stabilimento di tal fatta, e che
offre tanti vantaggi alla intera nazione, e di cui e si valgono, non solo i cittadini di Napoli, ma tutte le provincie del Regno e gli esteri altresì, stabilimento nazionale e di somma e conosciuta A questi vantaggi ed a queste lodevoli opere,
si posson valere quelli ancora di non sia un vero utilità! vi si era aggiun-
ta una Cassa di sconto. Questa fu creata con real decreto del 23
giugno 1818, e fu attaccata al Banco come opera aggiunta alla Cassa di corte. Essa si amministrava con pochissima spesa e coll’opera di pochi impiegati, li quali, come addetti al Banco, non avean soldo, ma una tenuissima gratificazione sulle somme che s’impiegavano. Il reggente del Banco era il direttore della Cassa. Quattro primari negozianti formavano il consiglio dello sconto. Questa Cassa di sconto così semplicemente formata, fra il breve giro di due anni era prosperata in modo che, essendovisi impiegata in varie volte la somma di ducati 3.450.000, avea questa
prodotto un negoziato di più di 25 milioni. Quindi nel modo stabilito era di sommo utile non solo ai napoletani, ma ai particolari altresì, e negozianti del Regno, ed anche agli esteri, tal che poteva dirsi una vera istituzione nazionale, e che si estendeva anche al di fuori con somma gloria della nostra nazione e del governo, il quale aveva perciò acquistato un grandissimo credito presso quasi tutte le piazze di Europa, e tale che, rimanendo la cosa su lo stesso piede, potea a suo talento disporre di qualunque somma quando il bisogno lo avesse richiesto. Né le operazioni di questa Cassa davano verun urto al Banco, mentre che unita al medesimo si rendeva più solida e sicura colla garanzia del governo, ed essendo il reggente del Banco direttore simultaneamente
della Cassa di sconto, ne dirigeva con avvedutezza le operazioni in modo che tutto veniva regolarmente bilanciato fra le operazioni del Banco e della Cassa; che anzi mentre portava un utile significante allo Stato e grandissima facilitazione al commercio, serviva ancora a supplire al mantenimento del Banco medesimo, giacché siccome il governo dopo di aversi appropriati i beni dei
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soppressi Banchi, che ammontavano a più di 13 milioni, promise all’attuale Banco delle due Sicilie una corrispondente dotazione, così non avendola poi completata, avea obbligata questa Cassa di sconto a somministrare al Banco dai suoi utili circa 30 mila ducati annui che mancavano al suo mantenimento! . Ora essendosi voluta abolire la suddetta Cassa, ch’era di sommo vantaggio, e che attaccata alle operazioni del Banco niun urto
gli dava, anzi gli procurava dei profitti, ed essendosi istallata col decreto del 22 agosto corrente anno 1820 una novella Cassa di sconto distaccata dal Banco ed affidata ai particolari negozianti, viene questa sotto l’aspetto di pubblico bene a produrre sommo pregiudizio al Banco, senza che né la nazione, né il governo ne possan risentire il menomo vantaggio, come chiaramente potrà rilevarsi dalle seguenti osservazioni sul cennato decreto che stabilisce la novella Cassa di sconto, che per aver forza di legge deve sanzionarsi dal Parlamento nazionale. Il decreto del 22 agosto contenente i statuti della nuova Cassa di sconto ha avuto per oggetto:
1°. Di moderare l’interesse del danaro. Questo fine si conseguiva allorché la cessata Cassa avea una legge che determinava l’interesse dello sconto fissandolo alla tenue ragione del 5 per 100. Coll’articolo 12 della citata legge per la nuova Cassa di sconto, si prescrive che l'interesse sarà fissato dalla direzione. Non essendo dunque stabilito alcun limite certo per detto interesse, dovrà con fondamento temersi che sarà aumentato, anzicché diminuito. 2°. Di facilitare lo sconto degli effetti di commercio. 1 Questa mancanza è ora cresciuta di molto, come verrà dimostrato nel progetto dello stato discusso dell’anno venturo. Quindi qualora voglia sostenersi la Cassa di sconto secondo il nuovo, e non col vecchio più opportuno e salutare sistema, sarà sempre giusto che la nazione s’interessi a far restituire al Banco, se non tutt’i beni che agli antichi Banchi appartenevano, e che furono incamerati al demanio, a completargli almeno la cennata dotazione che gli fu fatta col decreto del 20 novembre 1809, confermata da S.M. col decreto del 1° ottobre 1816, giacché dopo la suddetta dotazione, molti fondi nella medesima compresi furono alienati, o donati dal governo, promettendone il rimpiazzo che fin’ora non si è avuto; anzi essendosi venduti dalla Cassa di ammortizzazione in tempo che dalla medesima si teneva l’amministrazione dei beni del Banco, diversi fondi, ed altri affrancati in cedole ammontanti in tutto o circa ducati 350.000, non ne ha reso conto, né versato l'equivalente al Banco; come altresì avendo il governo donato a diverse amministrazioni e particolari altra parte della dotazione ascendente a ducati 408.091,49, non ne ha fatto il rimpiazzo; e quindi il Banco ha perduto ducati 758.091,49 dalla sua dotazione.
DD?
Parte terza. La politica economica
La nuova Cassa, secondo i calcoli e le vedute della legge suddetta, non avrebbe per ora che un sol milione per addirlo ai sconti, giacché sull’altro mezzo milione non si può far conto veruno finché non verranno le iscrizioni nominative dei particolari ai termini degli statuti, non potendo mai versarsi questa somma dal Banco tanto nello stato attuale che in avvenire, posto che le operazioni della Cassa, secondo la novella istituzione, sono disgiunte dalle operazioni del Banco, e vengono a fargli urto direttamente ed indirettamente. Quella che si è soppressa, valendosi del dritto intrinseco di ogni Banco di moltiplicare, cioè i valori, avea estesa la negoziazione fino alla somma di 25.416.959,94 ducati. Quindi
niuna facilitazione, ma restrizione anzi al negoziato della Cassa ed alla libertà del commercio. 3°. Di togliere dalla inazione molti capitali che rimangono inoperosi per mancanza d’impieghi. E vero che i possessori avranno il vantaggio dell’interesse che loro sarà pagato, ma essendo la Cassa in mano di particolari negozianti, la nazione garantirà il loro capitale in caso di fallenza? 4°. Di creare delle risorse al commercio, all’agricoltura, ed alla industria; di alimentare ed accrescere le transazioni sociali, e di dare la più grande attività alla circolazione delle ricchezze dello Stato. Questi vantaggi si erano già ottenuti per mezzo della cessata Cassa di sconto con maggiori risultati, mentre con mettersi in
circolazione le attuali carte di Banco, indipendentemente dall’accrescersi i valori circolabili, e dal rendere più facile il trasporto di questi nei diversi punti del Regno, si aveva inoltre il vantaggio di potersi nel tempo stesso stabilire con tali carte delle convenzioni e dei contratti che han forza di titoli legali. Il cambiar poi la natura della Cassa di sconto non fa restituire il milione al Tesoro. Quindi se questo è stato un vuoto, come si dice nella terza considerazione, lo sarà anche in avvenire, colla differenza però che, amministrata la Cassa da un agente del governo, vi era sempre la garanzia pel Tesoro, che manca in avvenire essendo la Cassa presso i particolari. Qual più gran torto può farsi alla nazione, precisamente sotto una rappresentanza nazionale, di quello di dirsi coll’ultima considerazione della legge che vi sia più fiducia nella Cassa presso i
negozianti, i quali non danno altra cautela al di là delle loro azioni che sotto la garanzia del governo e della nazione medesima!
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Né vale il dire che in molte illustri capitali trovasi stabilita una Cassa di sconto, non già su le basi di quella che ora tra noi è cessata, ma su le stesse ora fissate per questa novella Cassa. Quelle capitali dove la Cassa di sconto è stata istituita, non hanno un Banco Nazionale, o, se per avventura lo hanno, non è al certo fondato come il Banco delle due Sicilie in modo che collegato alla Cassa di sconto, dar possa una sicurezza ed una garanzia stabile alla nazione per qualunque operazione.
Dimostrato ad evidenza l’inesistenza dei vantaggi che la nuova legge si aveva proposto, osserveremo in seguito di quanti mali essa è sorgente. L’attuale Banco dev'essere senza dubbio mantenuto, perché è una istituzione veramente nazionale, la di cui utilità è garantita dall’esperienza di tanti secoli, ed il voto della nazione l’ha sempre richiamato dalle rovine nelle quali molte volte è caduto, come sopra si è dimostrato. Or la nuova Cassa, privando il Banco dei mezzi di sussistenza, obbliga la nazione a dei grandi sacrifici per mantenerlo. Qualora il Banco per la totale mancanza di tali mezzi non potesse mantenersi, come si farebbe per circa 500 individui che vi sono ora impiegati? Pur troppo è vicina la rimembranza delle sciagure che produsse la soppressione dei Banchi a tante infelici famiglie che perderono in un subito ogni mezzo di sussistenza, ed ora il governo, e sopratutto chi regge attualmente il Banco, ne risente tutto dì i clamori. Lo Stato, la nazione intera e chi la rappresenta, deve per ogni riguardo prendere tutto l’interesse onde tanti onesti cittadini nel nuovo costituzionale sistema non abbiano nemmeno un lontano timore di poter perdere un impiego dal quale ed in vita, ed anche dopo lor morte, posson trarre le loro famiglie un onesto sostentamento. La nuova Cassa di sconto per effetto dei paragrafi 2°, 3°, 4° e 5° dell’articolo IX della legge, usurpa quasi tutte le utili attribuzioni del Banco e lo priva dei mezzi di sua ricchezza. Il giro dei biglietti all'ordine equivale alle attuali fedi di credito — per altrettanti — ed alle polizze notate fedi, colla ditta — a me medesimo —. Nella circolazione di questi valori la nazione
trovava tutta la sua cautela anche nel caso di dispersione della carta, potendosi, anche senza di essa, ritirare il danaro dal Banco
precedenti alcune formalità. Il pubblico, nel versare al Banco il numerario, niun premio ne riscuoteva, ma era compensato abba-
stanza dalla sicurezza che v’incontrava, e dall'avere una perpetua
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Parte terza. La politica economica
cautela ed un perpetuo registro nei libri del Banco delle sue operazioni, formando il Banco la contabilità dell’intera nazione. Il Banco però dal ristagno di siffatti depositi animava l’opera dei pegni che disopra si è dimostrata di somma utilità alla intera nazione. Questi salutari effetti non si potran mai conseguire dal giro dei biglietti all'ordine subito, che non possono esser questi ricevuti dal Banco, come con ragione si è sostenuto, e dovrà sempre sostenersi, per non alterare le antiche leggi del Banco con una novità perniciosa che lo metterebbe continuamente in urto ed in pericolo di cadere. Per effetto ora della nuova istituzione di sconto, richiamando
la Cassa presso di sé, colla promessa del pagamento di un interesse, quei depositi che prima il Banco riceveva, lo priva dei mezzi per proseguire le antiche sue operazioni, e la nazione dovrà contribuire per mantenerlo senza cavarne verun profitto. Oltre ai danni che risultano al Banco, altri ne risente la Tesoreria generale. 1. Perché siccome percepiva tutto l’utile, netto di spese, della Cassa di sconto, ascendente ad annui ducati 90 mila, viene quest’utile ora sicuramente a diminuirsi.
2. Perché perde il gran vantaggio che aveva di scontare facilmente i suoi valori al solo 3 per cento, ed ora non può farlo che ad arbitrio dei direttori della Cassa con grandi sacrifizi, all’interesse che sarà fissato per i valori esigibili in Napoli, e colla garanzia di tante azioni o rendite sul Gran Libro del valore di un terzo dippiù dell’importo dello sconto, ai termini degli articoli 15 e 16 della nuova legge. 3. Perché dovrà completare la dotazione del Banco per la mancanza di rendite provenienti dal suo scarso patrimonio. Se dunque incalcolabili danni risente il Banco e niun utile il governo ed il Tesoro, qual pro si ritrae da questa novella istituzione? Sembra invero che sotto l'aspetto di una nuova Cassa di sconto si abbia voluto nuovamente istallare quel Banco di azionari che dové esser distrutto da quel governo medesimo che lo avea creato, perché la nazione non vi si volle adattare; ed il progetto ora ridotto a legge è quello stesso che si propose nel 1808, nel 1811, e 1813, e che fu costantemente rigettato da quei ri-
spettabili soggetti che nelle epoche suddette governavano il Banco, i quali ne riconobbero sempre i danni, senza farsi illudere
dagli apparenti vantaggi. Del resto se si voleva separare dal Ban-
II. Finanze e fisco
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co la Cassa di sconto, la novella Cassa dovea soltanto subentrare
alle attribuzioni della Cassa che si voleva sopprimere, ma giammai usurpare le attribuzioni e ledere i sistemi del Banco. E d’altronde se si voleva in tutta la sua estensione eseguita la legge ed i nuovi statuti della medesima, perché non attaccarla al Banco ch’è un accreditato stabilimento nazionale, il quale dalla nazione medesima vien garantito, e commetterne ad esso l'esecuzione anzicché passarsi in mano dei particolari? Da quanto si è osservato fin’ora sembra che siasi dimostrato ad evidenza il pregiudizio, anzi la rovina totale dell’attuale Banco Nazionale, ed il niun van-
taggio che la nazione ed il governo verrebbe a ritrarre da questa novella istituzione. Del rimanente chi scrive si protesta di venerare il decreto, e di nudrire sincera stima e rispetto per coloro che l’han progettato. E non solo persuaso, ma convinto altresì del loro deciso attaccamento alla patria, e che un principio di pubblico bene e di miglioramento delle nostre finanze li abbia unicamente animati a proporlo ed a metterlo sollecitamente in esecuzione. Egli per l’opposto vedendo la cosa in diverso aspetto, perché ugualmente animato da stessi principi, ha creduto suo indispensabil dovere di manifestare questi sentimenti ai rappresentanti della nazione che debbono il decreto sanzionare per aver forza di legge. Ad essi tocca il decidere e vedere se il novello o pur l’antico sistema della Cassa di sconto sia d’adottarsi per il bene del nostro paese, e per conservare intatto il nostro Banco Nazionale, rimettendolo nel
suo antico stato di floridezza. L’autore intanto con questa rispettosa memoria ha soddisfatto i suoi voti che sono e saran sempre quelli di zelo fermo e costante per il maggior bene e prosperità della patria e dei diletti suoi figli, di fedeltà al Sovrano, e di
esatta osservanza ed adempimento delle leggi.
CENNI BIOGRAFICI SUGLI AUTORI DEI BRANI RIPORTATI
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AFAN DE RiveRA CarLo, Gaeta 12 ottobre 1779 - Napoli 11 gennaio 1852. Nel 1801 entra nel Corpo del Genio. Durante il Decennio francese prestò servizio a Palermo all’Officio topografico. Tornato successivamente a Napoli, divenne, a partire dal 1824, direttore generale di Ponti e Strade, Acque, Foreste e Caccia. Fondamentale il suo contributo in tema di bonifiche, rimboschimenti e costruzione di strade. Della sua vasta produzione si ricorda: Dello scioglimento delle promiscuità della proprietà nella Regia Sila (1828); Considerazioni su i mezzi da restituire il valor proprio ai doni che la natura ha largamente conceduto al Regno delle Due Sicilie (1832-42); Considerazioni sulle circostanze fisiche ed economiche del Tavoliere di Puglia (1834); Tavole di riduzione de’ pesi e delle misure della Sicilia Citeriore (1840).
ANDREATINI GIANFRANCO, direttore dei dazi indiretti e socio corrispondente della Società economica di Molise e, dal 1824, di quella di Principato Ulteriore. Fra le sue opere: A’ Francesi ristauratori della libertà napoletana; Saggio sul commercio e sul dazio delle monete (1814); Pochi pensieri su le amministrazioni finanziere e comunali (1821); Nuovi pensieri su le amministrazioni finanziere e comunali (1829).
Broci Tommaso, di Avezzano. Socio corrispondente del Real Istituto d’Incoraggiamento di Napoli. Fra le sue opere: Su/ lago Fucino, e sue escrescenze (1816); Lettera ai compilatori del Giornale enciclopedico. CagnNAzzI Luca DE SAMUELE, Altamura (Bari) 28 ottobre 1764 - Napoli
26 settembre 1852. A 21 anni è insegnante di matematica al liceo di Altamura. Partecipa ai moti del 1799 ed è costretto all’esilio. Nel 1806 viene nominato professore di economia politica all’Università di Napoli. Durante il Decennio francese, inoltre, è il protagonista principale della cosidetta «statistica murattiana». Ulteriori incarichi furono da lui ricoperti durante il «quinquennio»; viene epurato dopo la rivoluzione del 1820-21. Nel 1848 fu eletto deputato sia a Napoli che ad Altamura. Tra le sue opere più importanti: Elementi dell’arte statistica (1808); Elementi di economia politica ad uso della Regia Università di Napoli dedicati al Re (1813); Saggio sulla popolazione del Regno di Puglia (1820 e 1839); Sul Tavoliere di Puglia (1820).
CaraccIOLO MICHELE, si ignorano i luoghi e le date di nascita e di morte. Scrisse: Brevi riflessioni sull’incoraggiamento dell’agricoltura (1820).
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Carti Isoporo, Barisciano (Aquila) 1758 - Capestrano 29 dicembrè 1840. Esercitò per qualche tempo la professione di avvocato a Napoli. Tornato in Abruzzo, oltre a ricoprire incarichi amministrativi come sottointendente e come direttore delle contribuzioni dirette dell’ Aquila, divenne anche presidente della locale Società economica. Tra i suoi scritti: Il cancelliere istruito (1803); Amministrazione comunale e Provinciale per uso de’ sindaci (1818); Sul modo di moltiplicare nella Provincia del II Abruzzo Ulteriore l'industria delle pecore Pagliarole (1819); Allocuzione recitata in Aquila a 3 settembre 1820 dall’Elettor di partito Isodoro Carli in occasione della prima Giunta Elettorale di Provincia per la nomina de’ deputati al Parlamento Nazionale (1820); De’ benefici Ecclesiastici laicali e misti del Dottor di leggi Isodoro Carli Presidente della Società Economica di Aquila (1834).
Ceva GrimaLpI GiusePPE, Marchese di Pietracatella, Napoli 8 settembre 1777 - 21 maggio 1862. Uomo di punta dell’amministrazione borbonica, ricoprì numerosi incarichi tra cui, oltre quello di Ministro dell’Interno e di presidente del Consiglio dei Ministri, anche quello di consigliere di Stato e, prima ancora, di intendente nelle province di Aquila, Potenza e Lecce. Fra le sue opere: Odi ‘Varie (1816); Quadro dello stato di amministrazione della Provincia di Aquila (1816); Riflessioni sulla Polizia (1817); Discorso pronunziato all'apertura del Consiglio provinciale nel 12 ottobre 1817 in Potenza (1817); Itinerario da Napoli a Lecce
(1821); Considerazioni sulle pubbliche opere della Sicilia di quà del Faro ((L855))
CornaccHia GENEROSO, Teramo 1746 - 1831. Avvocato a Napoli nel 1808, divenne successivamente consigliere d’Intendenza della provincia di Abruzzo Ultra I e presidente della locale Società economica. Fra le sue opere: Sulle cagioni della decadenza dell’agricoltura nella prima provincia di Abruzzo Ulteriore (1819); Memoria sul castagno (1819); Osser-
vazioni agronomiche su lo stabilimento delle siepi (1821); Del modo d’imboschire i terreni (1824); Ricordi di economia campestre (1831). De (HMOratIs
ArmipoRrO,
Roccamorice
(Chieti)
1750 - 18 gennaio
1828. Avvocato, fu uno dei principali animatori della Società economica della provincia di Abruzzo Citra, divenendone, sin dalla sua istallazione segretario perpetuo, fu inoltre socio corrispondente del Real Istituto d’Incoraggiamento. Scrisse: Discorso di istallazione (1810); Rapporto de’ travagli eseguiti dalla Società economica di Apruzzo Citra (1818 e 1819). DeL Giupice MARINO, socio della Società economica della provincia teramana, ricoprì anche il ruolo di presidente durante il periodo costituzionale. Scrisse: Discorso del Presidente per la seduta generale dei 30 mag-
gio 1820.
Der Re Giuseppe, Gioia del Colle (Bari) 1° maggio 1764 - Napoli 26 gennaio 1841. Ecclesiastico dell’ordine degli Scolopi, dopo i fatti del 1799 fu imprigionato ed esiliato. Con l’avvento dei francesi aprì una
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tipografia ove vennero pubblicate le famose Pandette della legislazione francese. Socio di numerose Società ed accademie, oltre alla traduzione dal francese della Campagna delle Armate francesi in Prussia, in Sassonia e in Polonia (1807), scrisse fra l’altro: Compendio della storia di Napoleone (1806); Descrizione topografica, fisica, chimica, economica dei Reali Domini al di quà del Faro (1830). Di Gese DomeENICO, di S. Arcangelo (Basilicata). Scrisse: Avviso alla studiosa gioventù ne’ venerabili seminari ed agli ecclesiastici in genere; Le voci della nazione napoletana (1820); Manuale de’ luoghi teologici (1843).
Di Tocco GENNARO, ricoprì incarichi importanti nell’amministrazione borbonica tra cui quello di intendente in Terra di Bari durante il nonimestre costituzionale. Tra i suoi scritti: Discorso pronunziato all’occasione dell’istallazione del Consiglio Provinciale di Terra di Bari, 1° ott. 1821 (1821); Discorso pronunziato il 1° sett. 1822.
DraconETTI Luci, L'Aquila 1° ottobre 1791 - febbraio 1871. Marchese, animatore e collaboratore di diversi periodici, socio di numerose Società economiche e accademie italiane ed europee; ebbe anche numerosi incarichi amministativi tra cui, oltre a quelli nella Sopraintendenza generale degli Archivi, anche, nel 1833, la direzione dell’amministrazione della Banca del Tavoliere di Puglia. Partecipò attivamente sia alla rivoluzione del 1820 (fu uno dei deputati abruzzesi al parlamento) che a quella del 1848 in seguito alla quale fu prima arrestato e poi esiliato. Dopo l’Unità fu nominato senatore del Regno. Fra le sue opere: L’îndustria considerata nelle sue attinenze con la pubblica amministrazione (1832); Su/ monte frumentario (1834); Iscrizioni latine per le solenni ese-
quie del Duca di Paganica Ludovico Di Costanzo (1841); Prolusione del Marchese Luigi Dragonetti (1862). GiampaoLo Paoto NicoLa, Ripalimosani (Molise) 11 settembre 1757 Napoli 14 gennaio 1832. Dopo alcuni anni di insegnamento nei seminari di Boiano e di Montecassino, divenne vicario generale. Nel Decennio
francese fu consigliere di Stato, e nel 1811 fu eletto commissario ripartitore per la divisione dei demani nella provincia di Otranto e dei due Principati. Dopo la Restaurazione divenne socio della Reale Accademia borbonica per le scienze morali ed economiche, e di numerosi altri istituti. Nella sua vasta produzione: Lezioni di Metafisica (1803); Memoria su la riproduzione degli alberi (1806); Lezioni di agricoltura (1819); Sul| l’abuso della coltivazione dei cereali di Molise (1826); Dialoghi sulla Religione (1815 e 1828).
GieunI GIOVANBATTISTA, Napoli 1762 - dicembre 1834. Durante il Decennio francese (1809) fu nominato segretario dei Banchi di Napoli e dopo la Restaurazione, sotto la direzione del consigliere Carta, fu incaricato di rivedere, riunire ed adattare al nuovo regime, tutte le antiche istruzioni per l’esercizio delle cariche di ciascun impiegato del Banco.
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Fra i suoi lavori: Mezzoria per lo Banco delle due Sicilie (1820); Nuove osservazioni sulle attribuzioni e vantaggi delle casse di sconto (1820); Notizie compendiate su i Banchi di Napoli (1825).
Lippi CARMINE ANTONIO, ingegnere, proprietario di una fabbrica di pallini da caccia, fra la sua numerosa produzione: Merzoria relativamente alla coltura delle miniere delle Sicilie (1798); Observations sur la monnaie de Naples (1807); Principi pratici di meccanica applicati all’utilità pubblica (1811); Ponte pensile pel Garigliano (1817); Prime idee concernenti il miglioramento delle nostre istituzioni (1820); Programma per l'unione dell’Adriatico col Mediterraneo (1820). LomBARDI ANDREA, Tramutola (Basilicata) 1785-1849. Giovanissimo,
fu professore di lettere a Cava. In seguito ricoprì diversi uffici pubblici, tra cui quello di ispettore della Istruzione primaria del distretto di Cosenza, e di segretario generale dell’intendenza di Calabria Citra. La sua fama di letterato ed economista è testimoniata dalla sua appartenenza a numerosissime accademie europee. Fra le sue opere: Memoria sulle manifatture della Calabria Citeriore (1817); Saggio sulla topografia e sugli avanzi delle antiche città Italo-greche, Lucane, Daune e Peucezie, comprese nell’odierna Basilicata (1834); Discorso pronunciato il 4 ottobre 1830 nella sessione generale della Società economica di Basilicata (1830); Discorsi accademici ed altrì opuscoli (1836). MIcHELETTI GIOVANBATTISTA, L'Aquila 16 luglio 1763 - 24 aprile 1833. Patrizio aquilano, letterato e socio di numerose accademie e Società sia del Regno di Napoli che di altri Stati italiani, come la Società dei Georgofili di Firenze e l’Accademia Velina di Rieti, esercitò la sua attività prevalentemente presso la Società economica della sua provincia natale, presso cui ricoprì anche l’incarico di segretario perpetuo. Fra le sue opere: Apologia de’ SS. Padri dei primi secoli delle Chiesa (1788); Il Monte di Aratea (1793); Lettere solitarie (1801); Presagi scientifici sull'arte della stampa (1814).
MonteELLA GrusepPE, di Airola (Benevento). Tra la sua produzione a stampa si ricorda: A sua Altezza Reale Il Duca delle Calabrie (1820, ma scritto nel 1816); Mezzi da frenare lo spirito di vertigine del secolo presente (1828).
OLivier-PoLIi GioaccHnino
MARIA, Molfetta (Bari) seconda metà del
Settecento - Napoli 1856. Nel 1799 partecipa alla rivoluzione e, nella reazione che ne seguì, fu costretto all’esilio in Francia. Dopo aver prestato servizio nell'esercito francese, tornò a Napoli e ottenne diverse promozioni. Opere principali: Brevi osservazioni di economia politica sulle arti e manifatture (1816); Cenno istorico su la rigenerazione dell’Italia Meridionale in luglio 1820 (1820); Continuazione al nuovo dizionario istorico degli uomini che si sono renduti più celebri per talenti, virtà, scelleratezze (1824-26); Abellimenti della Città di Napoli (1839).
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PIONATI SERAFINO, Avellino 27 gennaio 1782 - 31 gennaio 1831. Proprietario irpino, fu ufficiale militare durante il Decennio francese e, successivamente, uno dei principali protagonisti dell’attività della Società economica avellinese divenendone dal 1818, e fino alla morte, segretario perpetuo. Fra le sue opere: Dissertazione sulla pena di morte (1813); Ricerche sull’istoria di Avellino (1828-29); Autobiografia (inedita); Sul governo dei Buonaparte in Italia (inedito). PRISCO CARMELO, ricoprì sotto i Borboni il ruolo di ispettore alle arti, e
inoltre fu socio del Real Istituto d’Incoraggiamento di Napoli. Fra i suoi lavori: Memoria riguardante la arti, le manifatture e l'industria del Regno (1821); Sulle intemperie dell’aria che sogliono produrre de’ tifi dissenterici (s.d.).
RinaLpi Luici, nato verso il 1760 da una ricca famiglia di origine di Giffoni (Salerno), morto nel 1857. Proprietario della provincia di Salerno, fu ufficiale di artiglieria. Ricoprì ruoli di rilievo all’interno della Società economica salernitana divenendone presidente nel 1817-18, nel 1820-24, nel 1828-29, e infine nel 1845-46. La sua produzione è legata al ruolo ricoperto all’interno della Società. SILVAGNI GABRIELE, nato a Grimaldi (Cosenza) il 14 novembre 1774, morto assassinato a Cosenza il 20 dicembre 1834. Nominato inizialmente chirurgo di III classe, nel 1797 fu promosso alla I classe nel reggimento di cavalleria «Principe Leopoldo». Fatto prigioniero durante la rivoluzione del 1799, tornò successivamente in Calabria, e qui, oltre a conseguire successi nella carriera medica, si impegnò come segretario perpetuo nella locale Società economica. Fra le sue opere: Su la diversità e varietà dei climi, delle meteore e dell'atmosfera di Calabria Citra; Epizoozia bovina calabra; Ricerche istorico-zoojatriche sull’Epizoozia bovina calabra negli anni 1817 e 1818.
Tommasi Donato, Napoli 15 novembre 1761 - 19 marzo 1831. Dopo alcuni incarichi amministrativi ricoperti in Sicilia durante l’occupazione francese, alla Restaurazione divenne Ministro degli Affari Interni, e successivamente ricoprì anche i dicasteri di Grazia e Giustizia, degli Affari Ecclesiastici ed infine divenne presidente del Consiglio dei Ministri. Fra i suoi lavori: Lettera all'autore della procedura penale del Regno delle due Sicilie; Elogio storico del cavaliere Gaetano Filangieri (1788); Ragionamento delle nullità delle alienazioni dei beni delle Chiese di R. padronato mancanti di R. assenso (1791). TortoRA PASQUALE, colonnello, dopo la Restaurazione diviene diretto-
re generale delle Dogane, e poi della Direzione di Acque e Foreste. Fu inoltre visitatore generale economico delle Puglie. Scrisse tra l’altro: Rapporto sull’amministrazione de’ dazi indiretti e suoi mali vigenti e rimedi pronti (1820); Riflessioni su le finanze del Regno di Napoli (1820); Sulle Acque e Foreste e sul pubblico demanio (1820).
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VERGARA CAFFARELLI FRANCESCO, Duca di Craco, originario di Palermo. Scrisse: Breve memoria di Economia politica (1820).
ZurLo Biase, Baranello (Campobasso) 1755 - Napoli 1835. Laureatosi in legge divenne successivamente governatore in diversi comuni. Nel 1802 fu spedito nelle Puglie in qualità di commissario di guerra. Ricoprì successivamente alcuni incarichi nella sua provincia e precisamente: consigliere d’intendenza, direttore delle Contribuzioni dirette, commissario ripartitore dei demani e, infine, intendente. Nel 1822 ricoprì la stes-
sa carica in provincia di Capitanata, e poco dopo fu nominato consultore di Stato in Napoli. Fra le sue opere: Discorso per la inaugurazione del Real Collegio Sannitico nel 16 novembre 1817 (1818); Discorso pronunziato nell'apertura del consiglio provinciale di Molise (1816); Sullo stato economico della Provincia di Molise (1819). ZurLo GiusepPE, Baranello (Campobasso) 6 novembre 1759 - Napoli 4 novembre 1828. Dopo varie magistrature occupa il ruolo di ministro sia sotto Ferdinando IV (Finanze) che durante il Decennio francese (Giustizia e Affari Interni). Diviene nuovamente Ministro dell’Interno durante il periodo costituzionale (1820). Fra i suoi numerosi lavori: Rel4zione officiale sulla Sila (1792 ma edita nel 1832); Rapporto sullo stato del Regno di Napoli per gli anni 1810 e 1811 (1812); Discorso nell’istallazione della Regia Università di Napoli (1812); Rapporto al Parlamento Nazionale di Napoli sulla situazione del Ministero degli Affari Interni (1820).
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