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Italian Pages 166 Year 2020
IL «FIGLIO D’ARTE» E IL FALSO MONACO
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STUDI E TESTI ———————————— 536 ————————————
GIACOMO CARDINALI
IL «FIGLIO D’ARTE» E IL FALSO MONACO Contributo alla riflessione paleografica greca sull’età rinascimentale
C I T T À D E L VAT I C A N O B I B L I O T E C A A P O S T O L I C A V AT I C A N A 2020
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La collana “Studi e testi” è curata dalla Commissione per l’editoria della Biblioteca Apostolica Vaticana: Maria Gabriella Critelli (Segretario f.f.) Eleonora Giampiccolo Timothy Janz (Presidente) Antonio Manfredi Claudia Montuschi Cesare Pasini Ambrogio M. Piazzoni Delio V. Proverbio
Descrizione bibliografica in www.vaticanlibrary.va
—————— Proprietà letteraria riservata © Biblioteca Apostolica Vaticana, 2020 ISBN 978-88-210-1037-8 Edizione digitale: ISBN 978-88-210-1038-5
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SOMMARIO Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7
Parte prima: Le fils d’Ange Vergès, ovvero un caso di «digrafismo» nel XVI secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
1. L’identità del «giovane greco» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
12
2. Les années françaises . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
18
3. Un affare di Greci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
22
4. Alla ricerca di un “padrone” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
27
5. Vita da copista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
31
6. Chez monsieur le cardinal . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
33
7. A fianco di «messer Guglielmo» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
40
8. Un caso di «digrafismo» orizzontale o «poligrafismo» . . . . . . . . .
46
9. Di nuovo a via Giulia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
50
10. L’epilogo di una vicenda freudiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
52
11. «Appresso il cardinal Coria» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
62
12. Chi non muore, si rivede . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
65
13. A(u) revoir la France . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
71
Parte seconda: Tra paleografia greca e storia dell’arte: quando l’individuazione di un nome (qui, Ranuccio Santoro da Altamura) è il minore dei problemi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Un “copista ψ”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
77 80
2. Un “copista instabile”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
81
3. Un “copista in cerca di sé”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
84
4. Un “amico di Onorio”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
84
5. Ipotesi di datazione e localizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
89
6. Il nome: Ranuccio Santoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
90
7. Un copista creato in vitro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
93
8. In servizio nella Vaticana di Marcello Cervini . . . . . . . . . . . . . . .
98
Parte terza: Tra epistemologia e metodologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
109
1. Il caso Santamaura, o della necessità del tertium . . . . . . . . . . . . .
111
2. Un curriculum carico di conseguenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
113
3. Un più ampio quadro storico-culturale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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SOMMARIO
Appendice I: Primo catalogo (cronologico) di Pietro Vergezio . . . . . . . . .
127
Appendice II: Primo catalogo (alfabetico) di Ranuccio Santoro . . . . . . . .
128
Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
129
Indice dei manoscritti citati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
133
Tavole . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PREMESSA Riunisco e presento qui due ricerche, nate in una maniera del tutto autonoma e irrelata, che non temo di definire casuale, oltre che inattesa; in due tempi diversi una specifica personalità scrittoria, da una parte, e un gruppo di manoscritti riconducibili a una stessa mano, dall’altra, si sono imposti alla mia attenzione, emergendo dai fondi greci della Vaticana, e suscitando non poche domande. In tempi diversi ho affrontato le due questioni, che, concluse (o, quanto meno, profondamente dissodate), hanno rivelato inattese convergenze: le due personalità ricostruite sono entrambi copisti di lingua, ma non di origine, greca: proveniente il primo dalla Francia, sebbene di famiglia cretese, il secondo da una Puglia che era ancora profondamente bizantina nella lingua, nel rito e nella cultura. Non solo, ma i due scribi furono attivi a Roma e nei medesimi anni, e — date le loro frequentazioni, che qui si è provato a ricostruire — è assai probabile che si siano incontrati più di una volta, presumibilmente dalle parti di via Giulia. Tuttavia, quello che li accomuna ulteriormente, e che rende ragione della pubblicazione congiunta dei loro profili, è ancora più forte e interessante: ambedue hanno lasciato traccia di un vistoso e inatteso sperimentalismo formale; il primo mettendo a punto una vera e propria alia manus oltre a quella appresa da giovanissimo e praticata come naturale per tutto il corso della sua carriera, il secondo provando a dar corpo alle differenti possibilità grafiche ed espressive che gli si presentavano. Un lavoro di tornitura di una peculiare modalità espressiva al di là, se non in opposizione aperta a quella ricevuta durante il proprio apprendistato, da una parte, e una serie di tentativi di esplorazione di soluzioni nuove, seppur senza approdare a un esito stabile, dall’altra, che sono impensabili, o quanto meno rarissimi, in età bizantina, ma che iniziano a divenire frequenti in una precisa combinazione di spazio e di tempo: in Occidente (ossia, ad ovest dell’Adriatico) e in epoca rinascimentale (o meglio, nel corso del XVI secolo). Trattandosi di una problematica che cade in un’epoca considerata tarda dalla paleografia e che non ha finora trovato adeguata riflessione teorica, e le cui conclusioni potrebbero scuotere alcuni assunti della paléographie d’expertise, ho pensato di produrre con questo volumetto riccamente illu-
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PREMESSA
strato un paio di casi concreti utili a suscitare, se non ad impostare una riflessione di carattere teorico e metodologico. Di qui anche la scelta editoriale: dapprima la ricostruzione della vita e della produzione dei due copisti, e poi, a mo’ di conclusione, alcune considerazioni generali che potrebbero aprire la strada a una discussione, che già da tempo qualcuno ha auspicato1. Colgo l’occasione di questa premessa per ringraziare i colleghi Delio V. Proverbio e Antonio Manfredi per aver letto e discusso con me queste pagine, e l’amico Daniele Bianconi, che ha accettato di fare altrettanto: a tutti e tre esprimo la mia gratitudine, a me solo riservo la responsabilità di ogni eventuale errore. Un aiuto cordiale e pronto mi è venuto anche dalla dottoressa Giovanna Falcone, direttrice della Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Grottaferrata, e dai suoi collaboratori, che ringrazio di cuore; così come impagabili sono state — anche questa volta — Irene Altamura, Margherita Preziosi e l’intero Laboratorio Fotografico della Vaticana, come anche Michela Ghera, cacciatrice sempre vittoriosa di vecchie edizioni o di copie fuori commercio. Città del Vaticano, 13 novembre 2019
1 Mi riferisco agli auspici formulati oltre quarant’anni fa da D. HARLFINGER, Zu griechischen Kopisten und Schriftstilen des 15. und 16. Jahrhunderts e da P. CANART, Identification et différenciation de mains à l’époque de la Renaissance, ambedue in La paléographie grecque et byzantine. Paris, 21-25 octobre 1974, Paris 1977, pp. 327-341 e 363-369.
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PARTE PRIMA
LE FILS D’ANGE VERGÈS, OVVERO UN CASO DI «DIGRAFISMO» NEL XVI SECOLO
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Dès qu’il s’agit des Grecs de la Renaissance, on se sent sur un terrain incertain et dangereux. Alphonse Dain1
Se costì si trovasse alcun buon scrittore greco, vorria far trascrivere Theodoreto contra le heresie2.
Siglando questa disposizione, il cardinale Marcello Cervini3 non poteva immaginare quel che gliene sarebbe venuto lungo i mesi seguenti; non poteva saperlo, del resto, poiché la residenza a Trento e poi a Bologna, dovuta agli impegni del Concilio (1545-1547), gli impediva quel pieno controllo della situazione domestica cui era abituato. Sapeva — è vero — di lasciare la propria biblioteca in ottime mani: ansioso fino allo scrupolo, Guglielmo Sirleto4 era tuttavia di una affidabilità totale; ma non poteva immaginare le difficoltà di ogni genere che gli avrebbe procurato quel buon scrittore greco, che cercava per la copia dell’Eranistes (Dialogi tres contra quasdam Haereses) e del Haereticarum fabularum compendium di Teodoreto di Cirro5. Un 1 A. DAIN, La fille d’Ange Vergèce, in Humanisme et Renaissance 1.1 (1934), pp. 133-144, segnatamente p. 142. 2 Poscritto di Marcello Cervini al termine della lettera a Guglielmo Sirleto, spedita da Trento il 5 agosto 1545, in Vat. lat. 6178, f. 62r. 3 La biografia più recente di Cervini è quella di C. QUARANTA, Marcello II Cervini (15011555). Riforma della Chiesa, concilio, Inquisizione, Bologna 2010; quanto al suo profilo culturale mi permetto di rinviare a G. CARDINALI, Legature «alla Cervini»?, in Scriptorium 71 (2017), pp. 9-18; ID., Il Barberinianus gr. 532, ovvero le edizioni mancate di Marcello Cervini, la filologia di Guglielmo Sirleto e il surmenage di Giovanni Onorio, in Byzantion 88 (2018), pp. 45-89 e ID., Autoritratto di cardinale bibliofilo: undici nuovi codici greci di Marcello Cervini (e uno di Angelo Colocci), in Archivum Mentis 7 (2018), pp. 185-223. 4 Sulla figura di Guglielmo Sirleto si possono vedere P. PASCHINI, Note per la biografia del Cardinale Guglielmo Sirleto, Napoli 1918 (estratto dall’Archivio Storico della Calabria 5 (1917)); G. DENZLER, Il cardinale Guglielmo Sirleto (1514-1585). Vita e attività scientifica. Un contributo alla Riforma post-Tridentina, trad. it., Catanzaro 1986 e Il Card. Guglielmo Sirleto (1514-1585). Atti del Convegno di Studio nel IV Centenario della morte. Guardavalle – S. Marco Argentano – Catanzaro – Squillace 5-6-7 ottobre 1986, a cura di L. CALABRETTA e G. SINATORA, Catanzaro 1989; S. LUCÀ, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, in La Biblioteca Vaticana tra Riforma Cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio (1535-1590), a cura di M. CERESA, Città del Vaticano 2012, pp. 145-188, e Il «sapientissimo Calabro». Guglielmo Sirleto nel V centenario della nascita (1514-2014): problemi, ricerche, prospettive. Atti del convegno, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Corsini – Sala delle Canonizzazioni, 13-15 gennaio 2015, a cura di B. CLAUSI e S. LUCÀ, Roma 2018. 5 Rispettivamente Clavis Patrum Graecorum, I-III, III/A, IV [IV: ed. altera], V [necnon] Supplementum, cura et studio M. GEERAD [ET AL.], Turnhout 1974-2018 (Corpus Christianorum) [d’ora in poi CPG] 6217 e 6223.
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PARTE PRIMA
copista che, fatto salvo un tentativo di identificazione, peraltro errato, non ha ancora attirato l’attenzione degli studiosi6; e che, identificato, solleva ancor più questioni di quante non ne avesse generate precedentemente. Se già di per sé, infatti, l’identificazione di una mano e la redazione di un catalogo di autografi obbliga il paleografo a confrontarsi con una serie di problemi attributivi e a riflettere sugli elementi che abitualmente orientano nel riconoscimento degli esemplari e poi fondano le ricostruzioni dei profili dei singoli copisti, la questione diviene assai più ampia e complessa qualora ci si imbatta — come qui accade per il buon scrittore greco — nel caso spinoso e ancora assai poco studiato del «digrafismo»: «Il fatto è che un artista o quel che si chiama il suo “corpus”, l’opera sua, non è un’entità fissa e intoccabile trasmessaci intatta (e ben confezionata) fin dai tempi che lo videro nascere; ma un organismo vivente e mutevole a seconda di quel che le varie epoche ne intendono e “conoscono”»7. 1. L’identità del «giovane greco» La prima menzione del copista — di cui non si svela mai il nome negli scambi epistolari tra Cervini e Sirleto8; egli è sempre indicato e resta: «il giovane greco» — si trova nella missiva inviata dal secondo al cardinale il 25 novembre 1545 (e che fa seguito a quella di Cervini citata in apertura)9. A questa altezza cronologica il cardinale si trova a Trento come Legato di papa Paolo III Farnese al Concilio dalla metà di marzo dello stesso anno10 e vi sarebbe rimasto fino al marzo 1547, quando passò a Bologna a seguito del trasferimento della sede conciliare11. Questo significa che Cervini non conobbe mai personalmente il «giovane greco» durante i sei mesi in cui questi rimase al suo servizio. Come si vedrà, però, il cardinale non 6
Si veda infra, p. 13. R. LONGHI, Per una storia dei conoscitori, in Il Messaggero 28 aprile 1954, poi in ID., Opere complete, XIII: Critica d’arte e Buongoverno, Firenze 1985, pp. 149-152. 8 Le lettere scritte da Cervini a Sirleto si trovano nei Vat. lat. 6178 e 6189, f. 3r-13r, mentre quelle del secondo al primo nel Vat. lat. 6177; ulteriori missive ho rinvenuto in altri Vat. lat. e in codici di altre collezioni, di cui mi riservo di dar conto nell’edizione del carteggio che vado preparando. 9 Vat. lat. 6177, ff. 183r-184r; lettera autografa. 10 Cervini, partito da Roma il 23 febbraio 1545, giunse a Trento il 13 marzo, come registrava il segretario Massarelli: Angeli Massarelli de concilio Tridentino Diarium primum, in Concilium Tridentinum. Diariorum, actorum, epistularum, tractatuum nova collectio, edidit SOCIETAS GOERRESIANA, I: Diariorum pars prima, Friburgi Brisgoviae 1901, pp. 152 e 159; si veda anche Monumenta Tridentina. Beiträge zur Geschichte des Concils von Trient von A. VON DRUFFEL, I: Januar-Mai 1545, München 1884, p. 18. 11 Angeli Massarelli Diarium quartum: De concilio Bononiensi. (a 12 Martii 1547 usque ad 10 Novembris 1549), in Concilii Tridentini diariorum pars prima cit., pp. 629-631. 7
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LE FILS D’ANGE VERGÈS
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solo sarà informato settimanalmente dell’attività e della condotta del copista, ma ne dirigerà il lavoro e ne deciderà la fine, col tatto e la prudenza che lo contraddistinguevano sempre. Tornando, dunque, alla lettera del 25 novembre, Sirleto vi racconta di come un giorno gli fosse stato presentato un «giovane greco», che gli si era parato d’innanzi con gli specimina della sua «bellissima lettera» e con una ben più autorevole credenziale: era il figlio di «messer Angelo scrittore del Re». A colpire Sirleto furono i quinterni vergati dal ragazzo, che ne presentavano il tratto e permettevano di apprezzarne la correttezza, l’andamento e l’eleganza, davanti ai quali il calabrese fu subito conquistato12: «a iudicio mio et di molti altri fa bellissima lettera», mostrandosi fiducioso anche davanti a qualche inesattezza o svarione, che certo percepì al volo13: «et presto et continuando sempre scriverà meglio et più corretto»; per noi risulta, invece, assai più rilevante la notizia circa la paternità del giovane. Davanti a questa indicazione così circostanziata, Pio Paschini ha creduto di riconoscere nel «giovane greco» un figlio di Angelo Lascaris14, che però non risulta esser mai stato «scrittore del Re». In realtà, l’unico sovrano ad avere un copista greco, e sufficientemente celebre, non poteva che essere il Re di Francia, Francesco I di Valois15, il cui scriba di fiducia era Ἄγγελος Βεργίκιος (latinizzato in Angelus Vergetius, mentre a Fontainebleau suonava Ange Vergèce; fig. 1)16. Sebbene non fosse 12
Vat. lat. 6177, ff. 183r-184r. Ibidem. 14 P. PASCHINI, Un cardinale editore: Marcello Cervini, in Miscellanea di scritti di bibliografia ed erudizione in memoria di Luigi Ferrari, Firenze 1952, pp. 383-413, segnatamente p. 402; da una lettura errata del testo di Paschini R. MOUREN, La lecture assidue des classiques. Marcello Cervini et Piero Vettori, in Humanisme et Église en Italie et en France méridionale (XVe siècle-milieu du XVIe siècle), sous la direction de P. GILLI, Rome 2004, pp. 433-463, segnatamente p. 448 fa di Ange Lascaris il copista dell’Eranistes di Tedoreto, che vedremo in seguito essere conservato nell’Ott. gr. 39 ed essere, invece, l’opera del «giovane greco». 15 Basterebbe la testimonianza coeva di Andronico Nuccio: NICANDRE DE CORCYRE, Voyages, texte édité par J.-A. DE FOUCAULT, Paris 1962, pp. 184-187. Già P. BATIFFOL, La Vaticane de Paul III à Paul V d’après des documents nouveaux, Paris 1890, pp. 46-50 aveva correttamente inteso che si trattava di un figlio d’«Ange Vergèce». Non condivisibile affatto la ricostruzione di P. SACHET, Publishing for the Popes. The Roman Curia and the Use of Printing (1527-1555), Leiden – Boston 2020, pp. 137 e nt. 9, e 163 nt. 75. 16 Si vedano É. LÉGRAND, Bibliographie hellénique ou description raisonnée des ouvrages publiés par des Grecs aux XVe et XVIe siècles, I, Paris 1885, pp. CLXXV-CLXXXVI e IV, Paris 1906, pp. 60-66; Fac-similés de manuscrits grecs des XVe et XVIe siècles reproduits en photolithographie d’après les originaux de la Bibliothèque nationale et publiés par H. OMONT, Paris 1887, nr. 2; M. VOGEL – V. GARDTHAUSEN, Die griechischen Schreiber des Mittelalters und der Renaissance, Leipzig 1909, rist. Hildesheim 1966, pp. 2-6; A. DAIN, Commerce et copie de manuscrits grecs, in Humanisme et Renaissance 4 (1937), pp. 395-410; Χ. Γ. Πατρινελη, Ἕλληνες κωδικογράφοι τῶν 13
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PARTE PRIMA
Fig. 1 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. gr. 149, f. 45r: specimen della mano di Ange Vergèce.
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LE FILS D’ANGE VERGÈS
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l’unico calligrafo attivo in Francia all’epoca, l’individuazione in Vergetius del «copista del re» e del padre del «giovane greco» può dirsi certa sia per la coincidenza del nome (in ambo i casi: Angelo) sia perché questi era celebre come «escripvain grec du Roi»17 e come ideatore dei «grecs du Roi», ossia dei caratteri tipografici da lui espressamente disegnati per la stampa di opere greche patrocinate dalla corona francese, e che furono poi utilizzati per quasi duecento anni (fig. 2). Originario di Creta, Vergetius aveva esordito a Venezia tra il 1535 e il 1537, ed era poi passato a Roma, dove fu al servizio dell’ambasciatore di Francia Georges de Selve18, vescovo di Lavaur, che nel 1539 lo aveva condotto alla corte di Francesco I, che lo nominò copista per la lingua greca e curatore del fondo ellenico della biblioteca reale di Fontainebleau, dove rimase attivo fino al 1569. Il «giovane greco» era, dunque, uno dei figli di Ange Vergèce: una notizia tutt’altro che rassicurante, vista la querelle sull’effettiva consistenza ed identità della prole del calligrafo. Se Émile Legrand non aveva, infatti, esitato a riconoscergli una discendenza varia e per certi versi affascinante (si pensi soltanto alla mitica fille d’Ange Vergèce, che sarebbe stata la decoratrice dei manoscritti paterni — χρόνων τῆς ἀναγεννήσεως, in Ἐπετηρὶς τοῦ Μεσαιωνικοῦ Ἀρχείου 8-9 (1958-1959), Ἀθῆναι 1961, pp. 63-125, segnatamente, p. 70; A. DAIN, Copistes grecs de la Renaissance, in Bulletin de l’Association Guillaume Budé 3 (1963), pp. 356-363, segnatamente p. 357; P. CANART, Scribes grecs de la Renaissance. Additions et corrections aux répertoires de Vogel-Gardthausen et de Patrinélis, in Scriptorium 17 (1963), pp. 56-82, poi in ID., Etudes de paléographie et de codicologie. Reproduites avec la collaboration de M. L. AGATI et M. D’AGOSTINO, I, Città del Vaticano 2008, pp. 1-31, segnatamente pp. 5 e 19; K. A. DE MAYIER, Scribes grecs de la Renaissance. Additions et corrections aux répertoires de Vogel-Gardthausen, de Patrinélis et de Canart, in Scriptorium 18 (1964), pp. 258-266, segnatamente pp. 258-259; D. HARLFINGER, Die Textgeschichte der Pseudo-Aristotelischen Schrift περι ατομων γραμμων. Ein kodikologisch-kulturgeschichtlicher Beitrag zur Klärung der Überlieferungsverhaltnisse im Corpus Aristotelicum, Amsterdam 1971, p. 409; Codices graeci Bibliothecae Vaticanae selecti temporum locorumque ordine digesti commentariis et transcriptionibus instructi. Edidit H. FOLLIERI, Apud Bibliothecam Vaticanam 1969, n. 67; e E. GAMILLSCHEG – D. HARLFINGER – H. HUNGER, Repertorium der griechischen Kopisten. 800-1600, I-III, Wien 1981,1989 e 1997 (d’ora in poi RGK) I 3 = II 3 = III 3. 17 DAIN, Commerce et copie cit., p. 398. 18 Hierarchia Catholica medii et recentioris aevi sive Summorum Pontificum, S. R. E. Cardinalium, Ecclesiarum Antistitum series, III: Saeculum XVI ab anno 1503 complectens, inchoavit G. VAN GULIK (†), absolvit C. EUBEL (†), editio altera quam curavit L. SCHMITZ-KALLENBERG, Monasterii 1923, p. 327 e J. IRIGOIN, Les ambassadeurs à Venise et le commerce des manuscrits grecs dans les années 1540-1550, in Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, a cura di H.-G. BECK, M. MANOUSSACAS, A. PERTUSI, II, Firenze 1977, pp. 399-415, segnatamente p. 400, ma anche B. MONDRAIN, Le commerce des manuscrits grecs à Venise au XVIe siècle: copistes et marchands, in I Greci a Venezia. Atti del Convegno internazionale di studio. Venezia, 5-7 novembre 1998, a cura di M. F. TIEPOLO e E. TONETTI, Venezia 2000, pp. 473-486.
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PARTE PRIMA
Fig. 2 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R. I II. 407, f. 3r: volume stampato coi Grecs du Roi, disegnati da Ange Vergèce per Francesco I.
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LE FILS D’ANGE VERGÈS
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ancor più vaga della putta figliola di Giovanni Onorio19 —, e all’attribuzione ad Ange della paternità di Nicolas Vergèce, sodale dei più arditi nomi della Renaissance: Pierre Ronsard, Jean-Antoine de Baïf ed Étienne Jodelle)20, Alphonse Dain, che pure era disposto a credere «qu’on dit encore de nos jours “écrire comme un Ange”» in onore del calligrafo21, nel 1934 ha fatto strage di ogni rêverie in materia, sentenziando: «Aucun des témoignages nombreux que les contemporains de Vergèce nous ont laissé sur lui, ne nous parle de sa fille, ni d’aucun autre enfant»22. L’unica figura sopravvissuta a tanti rigori è quella di un nipote di nome Pietro, nel quale andrà riconosciuto il «giovane greco»; sia che fosse effettivamente il figlio di un fratello del calligrafo23 (e, dunque, l’imprecisione sarebbe da attribuire a Sirleto o a chi gli presentò il giovane) sia che fosse invece effettivamente il figlio di Ange (come risulta dalla lettera del calabrese) (fig. 2). Figlio o nipote di Angelo che fosse, Πέτρος Βεργίκιος (latinizzato Petrus Vergitius)24 è certamente da identificarsi col «giovane greco» anche a motivo del fatto che nella missiva di Sirleto si intravvede in controluce il suo giungere dalla Francia. Dalla lettera appare evidente, in effetti, non solo che il ragazzo si trova a Roma da qualche tempo appena, e piuttosto disorientato, ma soprattutto che dietro la sua venuta nell’Urbe e la ricerca di lavoro presso le più prestigiose familiae cardinalizie sta una figura ben precisa. Sirleto rivela, infatti, a Cervini25: «ma questo giovane hebbe tanto bona relatione da messer Francesco Florido di Vostra Signoria Reverendis-
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M. L. AGATI – P. CANART – C. FEDERICI, Giovanni Onorio da Maglie, «instaurator librorum graecorum» à la fin du Moyen Âge, in Scriptorium 50.2 (1996), pp. 363-369, segnatamente p. 364 e M. L. AGATI, Giovanni Onorio da Maglie copista greco (1535-1563), Roma 2001, pp. 43 e 60-62. 20 LÉGRAND, Bibliographie hellénique cit., I, pp. CLXXVII-CLXXXIII; l’unica menzione in ambito paleografico di un personaggio di questo nome è quella dello Scorial. Ψ. IV. 9, dove al f. 1r si legge: Νικόλαου Βεργίκιου, tuttavia l’uso del genitivo e la collocazione stessa del nome, al di sotto della decorazione incipitaria e sopra la titulatio del codice, non autorizzano a ritenere che si tratti del copista del codice, quanto piuttosto del suo possessore. 21 DAIN, Copistes grecs cit., p. 357, malgrado la smentita che ne aveva già fatta il pur generoso LEGRAND, Bibliographie hellénique cit., p. CLXXXIII. 22 DAIN, La fille d’Ange Vergèce cit., pp. 140-142; cui si aggiunga, per un ampliamento biografico, il contributo di H. OMONT, Procès d’Ange Vergèce au Châtelet et au Parlement de Paris (1561), in Bibliothèque de l’École des Chartes 77 (1916), pp. 516-520. 23 DAIN, Commerce et copie cit., pp. 401-403, sul quale si tornerà in seguito. 24 VOGEL-GARDTHAUSEN, Die grieschischen Schreiber cit., p. 382; Fac-similés de manuscrits grecs cit., nr. 46; DAIN, Copistes grecs cit., p. 357 e RGK I 344-II 470-III 547; altri riferimenti verranno indicati in seguito, dai quali apparirà ancora più fondata l’individuazione di Pietro Vergezio nel copista figlio di Angelo «scrittore del Re». 25 Vat. lat. 6177, f. 184r.
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sima, che pregò messer Matteo che l’indrizasse in casa di Vostra Signoria Reverendissima». Francesco Florido da Poggio Donadeo26, umanista di bellicosa fede ciceroniana (in polemica con Étienne Dolet e Jakob Spiegel), dal 1540 era responsabile dell’educazione di Orazio Farnese, nipote di papa Pavolo, e nel luglio dell’anno successivo lo aveva accompagnato alla corte di Francesco I a Fontainebleau. Qui era rimasto per quattro anni, prestando il suo consiglio anche al cardinale Alessandro Farnese, quando questi vi giunse a negoziare la pace di Crépy. A seguito del mutamento di orientamento politico del pontefice in senso filoimperiale Orazio non aveva motivo di rimanere in Francia e, tantomeno, di sposare Diana, duchesse d’Angoulême, figlia naturale del delfino Enrico; per cui ne era stato deciso il ritorno a Roma. Orazio Farnese col precettore Florido fece rientro nell’Urbe nel marzo 1545, ossia appena qualche mese prima dell’episodio narrato qui da Sirleto27. Se, dunque, a indirizzare il fils de Vergèce alla residenza di Cervini fu Florido, appena rientrato da Fontainebleau, sede non solo della corte, ma anche della bibliothèque du Roi curata e gestita da Ange Vergèce, è ben più che plausibile ipotizzare che il «giovane greco» sia Pietro Vergezio e che sia giunto in Italia aggregandosi alla delegazione farnesiana. 2. Les années françaises Il «giovane greco» — che d’ora in poi chiameremo col suo nome, Pietro Vergezio — approdò a Roma nella primavera del 1545, sperando di trovarvi lavoro. Con tutta la cautela verso le lamentele del padre Angelo (ché le querimonie dei copisti greci sulle proprie sventure e sulla durezza della vita costituiscono un vero e proprio genere della letteratura umanistica), è ipotizzabile che il ragazzo fosse in cerca di miglior fortuna: ancora nel 1566, infatti, il padre sarà descritto come un «pauvre vieil grec»28. Nemmeno dieci anni dopo, un altro copista greco, in momentanea stazione oltralpe, Matthio Greco (ossia Devaris), avrebbe raccomandato il proprio nipote — anch’esso di nome Pietro — al cardinale suo padrone con parole di commenda che (c’è da credere) avrebbero potuto essere le stesse
26 F. PIGNATTI, Florido, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, 48, Roma 1997, pp. 343-344 e A. CATALDI PALAU, Il copista Giovanni Mauromates, in I manoscritti greci tra riflessione e dibattito. Atti del V Colloquio Internazionale di Paleografia Greca (Cremona, 4-10 ottobre 1998), a cura di G. PRATO, I, Firenze 2000, pp. 335-399, specie p. 342. 27 A. RONCHINI, Francesco Florido, in Atti e Memorie delle Regie Deputazioni di Storia Patria per le provincie Modenesi e Parmensi 5 (1870), pp. 385-392, segnatamente pp. 386 e 391. 28 DAIN, La fille d’Ange Vergèce cit., p. 141 e ID., Commerce et copie cit., p. 398.
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di Ange per il suo di Pietro29. Il sogno era quello di inserirlo «nella secretaria o nella camera per aiutante, o per el servitio de la tavola, et per dir meglio in tutti li ditti servitii, perché egli è da basto et da sella». Per questo Matteo lo aveva educato nel proprio atelier, ma era venuto il momento «che si guadagni el pane, et faci servitù con qualche patrone, che li possa dar da vivere, perché da me ha imparato già assai, et altro non può sperare, stando io alla mercè d’altri». E, giacché i tempi passati sono sempre migliori, Devaris chiude ricordando che: «E io comminciai a servir el cardinal Ridolfi, con manco lettere che Pietro non ha al presente, si che voglio che anche lui comminci a tentar la sua fortuna», ma soprattutto «mi si levi dalle spalle, perché troppo ho che fare per me». Dal fatto che Sirleto avverta il cardinal Cervini ripetutamente (e nel tempo non manchi mai di ribadire) che Pietro «non scrive troppo corretto»30, talvolta al di sotto delle aspettative: «questo giovane non essendo troppo intelligente»31, e che darà buoni frutti solo in futuro, con un percorso guidato e con il beneficio del tempo («pure col tempo sempre se accommoderà et massime stando con esso meco quasi sempre»32 e «de dì in dì mostrerà megliore opera et scriverà sempre più corretto»33), si potrebbe immaginare un figlio d’arte alle primissime armi, se non in pieno apprendistato. Tuttavia al periodo precedente la partenza di Pietro Vergezio per Roma rimontano almeno due copie sottoscritte e datate: il Burneianus 104 della British Library34 e il Parisinus graecus 2458 della Bibliothèque nationale de France. Il primo di questi manoscritti, contenente il Commentarius in Tetrabiblon Ptolomaei (ff. 3r-120v) e una parte dell’Introductio di Porfirio alla stessa opera (ff. 121v-128v), è firmato (f. 120r): «Πέτρος ὁ Βεργίκιος ὁ Κρὴς» e datato al 1543 (f. 128v)35; il secondo, che trasmette gli auctores de re musica, è firmato Πέτρος e datato al 1544 (f. 82v)36. Nel primo caso mancano sia notizie sull’eventuale committenza sia 29 I virgolettati che seguono sono tratti dalla lettera di Matteo Devaris, edita da F. BENOÎT, Farnesiana, in Mélanges d’archéologie et d’histoire 40 (1923), pp. 165-206, segnatamente p. 190. 30 Vat. lat. 6177, ff. 183r-184r. 31 Vat. lat. 6177, ff. 105r-106r. 32 Vat. lat. 6177, ff. 183r-184r. 33 Vat. lat. 6177, ff. 86r-87v. 34 Sebbene firmato, il Burneianus 104 è attribuito ad Angelo Vergezio da DAIN, Copistes grecs cit., p. 357. 35 Catalogus codicum astrologorum graecorum. Codices Britannicos descripsit S. WEINSTOCK, IX, 2, Bruxelles 1953, p. 10; RGK I 344, mentre non ho potuto controllare The British Library Summary Catalogue of Greek Manuscripts, I, London 1999, p. 65. Il manoscritto è consultabile sul sito della British Library. 36 Inventaire sommaire des manuscrits grecs de la Bibliothèque nationale par H. OMONT, II,
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marques de possession dei primi proprietari, mentre per il secondo si è stati in grado di ricondurre la copia alla raccolta di Jean-Jacques de Mesmes, Maître des requêtes du Roi, collezionista di codici greci e patrono di Angelo Vergezio37, cui elargiva una pensione mensile e col quale si teneva in stretto contatto epistolare38. Anche già soltanto su questa base non è difficile supporre un periodo di apprendistato di Pietro presso l’atelier paterno39. In tutti e due gli esemplari, infatti, appare patente il fatto che Pietro dovette iniziare la carriera sotto la guida dello stesso genitore: la sua scrittura richiama, sebbene con minor elasticità e calligrafismo, quella paterna; un caso di influsso scrittorio di tipo genetico e famigliare, che potrà essere affiancato a quello messo a tema da Brigitte Mondrain quanto agli Eparco40. E, dunque, per comodità nostra e chiarezza nell’esposizione chiameremo questa mano di Pietro «main à la Vergèce». Appaiono caratterizzanti sia il tracciato di alcune singole lettere (la duplice possibilità di γ; il θ che sale in verticale rispetto al rigo e le lettere ι e λ che, invece, scendono di molto al di sotto; la duplice realizzazione di ν; il σ finale con svolazzo; e il τ flesso all’indietro o con tracciato ampio e arricciato), sia di particolari legamenti (ει, ελ, ευ, εσ, ρο, ται, το, τρ) sia taluni elementi personali, ossia l’abitudine di realizzare la lettera ε mediante un tratto curvo apposto sulla lettera con cui lega (εω, ευ, πε, επ, ερ), così come quella di apporre in apice α o ω, quando siano in legamento (αρ, -μων). Hanno una realizzazione propria le parole o i gruppi: γαρ, -μεθα, επι-, δε, δοξ-, εστι, και, επι, μεν, -σθαι, μετὰ, κατὰ, τὴς, τοὺς. In generale sono frequenti l’aggiunta dei due punti quando le lettere υ e ι siano coinvolte in un legamento, e una tendenziale inclinazione della scrittura verso destra, che deve molto allo stile paterno, come del resto l’impression d’ensamble, anch’essa à la Vergèce41. Paris 1888, p. 265. Il microfilm del codice è consultabile sul sito della Bibliothèque nationale de France. 37 D. F. JACKSON, Greek manuscripts of the de Mesmes family, in Scriptorium 63. 1 (2009), pp. 89-121, segnatamente p. 108. 38 DAIN, Commerce et copie cit. 39 Ritengo necessario espungere dal catalogo di Pietro il Paris. gr. 2350, ff. 1-79 (cfr. Inventaire sommaire des manuscrits grecs cit., p. 244), copia di opere euclidee esemplata per Monsieur de Mesmes (cfr. JACKSON, Greek manuscripts cit., p. 106), ed attribuitagli anche da RGK I 344 = II 470 = III 547; sarà da riportare più plausibilmente alla mano di Christophe Auer, malgrado il silenzio di CH. SAMARAN – M. L. CONCASTY, Christophe Auer copiste de grec et de latin au XVIe siècle, in Scriptorium 23.1 (1969), pp. 199-214. 40 B. MONDRAIN, Les Eparques, une famille de médecins collectionneurs de manuscrits aux XVe-XVIe siècles, in The Greek Script in the 15th and 16th centuries, Athens 2000, pp. 145-163. 41 Alcune di queste caratteristiche sono state colte da RGK I 344, altre ne ho aggiunte dall’analisi delle due copie in esame. Le si confrontino che quelle paterne descritte in RGK I 3 = II 3 = III 3.7.
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Va tuttavia notato che, rispetto alle pagine d’esordio di ognuno dei due volumi, con l’andare del tempo Pietro fatica a tenere fermo il modulo di scrittura, l’inclinazione e anche il ductus, e non mancano cadute e riprese che si stabilizzano nuovamente solo in prossimità delle pagine finali, quasi per un tardivo regain de contrôle. Prestigiosa scuola e poco mestiere, si direbbe. Posta questa caratterizzazione grafica, sarei propenso ad attribuire ai primissimi anni di attività nell’atelier paterno anche il manoscritto della British Library, Add. 1097142, che presenta i tratti dello stile tipico di Pietro, ma con un aspetto così sorvegliato, rigido e studiato da far pensare a una prova probabilmente anteriore anche alle due citate. Il controllo e la lentezza dell’esecuzione che traspaiono dalle pagine di questo manoscritto suggeriscono che possa trattarsi addirittura di una delle primissime realizzazioni dello scriba. Il modulo ampio e la mano legnosa hanno tutto il sapore della “copia da abecedario”. Non c’è dubbio che si tratti già di una «bellissima lettera», elegante e leggera, che scivola sul foglio nitida, ma appare altrettanto appropriato il giudizio di Sirleto, quando dice che ci sarà bisogno di tempo perché essa maturi in correttezza e migliori nel complesso. Già nel Burn. 104, infatti, non mancano le correzioni del copista (oltre a quelle del revisore), e si nota quella tendenza, che vedremo costante, a perdere l’uniformità di tratto. L’impressione si acuisce, paradossalmente, nel Par. gr. 2458. Oltre alle non poche emendationes — che in parte potrebbero essere anche il frutto della collatio con altri testimoni della tradizione — continuano a persistere, forse ancor più marcatamente, l’instabilità e la volubilità del ductus, dell’inclinazione, dell’andamento e del formato. L’impression d’ensamble muta non solo di carta in carta, ma spesso all’interno di un medesimo foglio, ad ogni singola pausa e ripresa del lavoro. Si veda ad esempio il f. 69v, nel corso del quale, solo man mano che il copista scende verso il fondo, il tratteggio viene disciplinato e compattato, sfrondato degli elementi ondivaghi e piegato verso destra secondo un asse obliquo tenuto saldamente, sul quale sono orientati anche tutti i tratti ornamentali della scrittura43. Si tratta di una versione della mano che chiameremo à la Vergèce moins 42 Il manoscritto proviene dalla Bibliothèque de Rosny dopo esser passato per quella dei Pithou e del Premier Président Le Pelletier de Rosanbo, così che almeno l’origine francese appare certa e conferma una elaborazione nell’atelier di Ange Vergèce. Si veda Inventarire des manuscrits grecs du British Museum par M. RICHARD, I: Fonds Sloane, Additional, Egerton, Cottonian et Stowe, Paris 1952, p. 17. È disponibile la digitalizzazione sul sito della British Library. 43 Un progressivo raccoglimento del tratto si incontrava già al f. 45r, mentre si notino i passaggi di modulo, ductus e inclinazione ai ff. 41v-42r, 51v-52r, 53v-54r, 56v-57r. Se ne veda la riproduzione digitale sul sito della British Library e quanto ne sintetizza RGK I 344.
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surveillée, che è poi quella più frequentemente impiegata da Pietro. In altri termini si tratta di una sua esecuzione più corsiva, rapida e asciutta. L’alternanza di una mano più contratta e di una più generosa, di righe più slanciate e di altre più controllate e minute, di tratteggi compressi lateralmente e di altri più tondeggianti, persiste per tutto il codice e lascia intravvedere un’oscillazione dovuta a cause più profonde. Se, tutto sommato, il tratteggio delle lettere, per quanto variegato ed aperto a diverse possibilità di realizzazione, è però sostanzialmente omogeneo e costante, l’andamento generale risente di due differenti fattori. Si avverte, da un lato, una instabilità e una tendenza tipicamente giovanile ad allentare il controllo e a non reggere un andamento omogeneo molto a lungo, e, dall’altro, la ricerca di una cifra personale. La mano del giovane Pietro tradisce sia i cedimenti improvvisi dovuti a una scarsa sorveglianza di sé, sia i segni di una sperimentazione a livello di ritmo e di composizione del rigo e della pagina, che va e viene rispetto al punto fermo costituito dal modello paterno, che è particolarmente forte nelle pagine incipitarie, ma dal quale si prendono le distanze, quasi a sperimentare, mentre si sta scrivendo, possibilità nuove e più personali. Una sorta di probatio manus in corso di copia. La traccia di un copista ancora alla ricerca della propria identità. 3. Un affare di Greci Lasciata la Francia, il giovane Pietro abbandona, dunque, la famiglia e il milieu paterno, per seguire Orazio Farnese a Roma. Lo scopo è quello di tentare un exploit nella Città Eterna, dove non solo il Pontefice custodisce e incrementa una straordinaria collezione di testi greci, ma molti ecclesiastici — cardinali, vescovi e semplici curiali — vantano raccolte personali tutt’altro che modeste. Accanto a quelle ampie e rinomate di cardinalicollezionisti, come Niccolò Ridolfi44 e Giovanni Salviati45, facoltosi e fiorentini, ci sono quelle ricche e specialistiche dei porporati-eruditi come Francisco de Mendoza y Bobadilla46 e Marcello Cervini, e poi quelle ambiziose e generaliste dei nipoti del papa, non coltissimi, ma con velleità di
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D. MURATORE, La biblioteca del cardinale Niccolò Ridolfi, I-II, Alessandria 2009. Sulla biblioteca greca dei Salviati, poi Colonna, e ora in Vaticana si vedano Codices Vaticani Graeci. Codices 2162-2254 (Codices Columnenses) recensuit S. LILLA, In Bibliotheca Vaticana 1985, pp. XI-XXIII, A. CATALDI PALAU, La biblioteca del cardinale Giovanni Salviati. Alcuni nuovi manoscritti greci in biblioteche diverse dalla Vaticana, in Scriptorium 49 (1995), pp. 60-95 e G. CARDINALI, La lente dissolution de la bibliothèque grecque du cardinal Salviati. Une affaire de soldats, gentilshommes, papes, bibliophiles et pirates, in uscita sul Journal des Savants 2020.2. 46 Su questo prelato e sulla sua collezione si veda infra, pp. 62-65. 45
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gran signori: Alessandro Farnese e Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora47. L’eminentissimo cardinal di Carpi (Rodolfo Pio) fa caso a sé48; di seguito la fitta schiera dei Giacomo Ponzetti49, Ludovico Beccadelli50, Niccolò Majorano51, Bernardino Maffei52 e del patriarca di tutti loro: Angelo Colocci53; più modesti nella facoltà d’acquisto, ma che si sbaglierebbe a sottovalutare: il colpo fortunato sul mercato è trasversale al patrimonio. Senza contare gli eruditi e i letterati, stanziali come Sirleto, o quelli perennemente in transito come Francisco Torres54. Dalla lettera di Sirleto sappiamo che il primo a mettere gli occhi su Pietro era stato, in realtà, Niccolò Ridolfi, ma che il giovane aveva avuto significative istruzioni che lo portavano a cercare la casa di Marcello Cervini, un cardinale che era assai noto per la sua cultura e la sua bibliofilia, specie in fatto di testi e di autori greci. Chissà che Florido durante il viaggio da Fontainebleau a Roma non gli abbia raccontato che, mentre a casa Ridolfi i codici stavano spesso chiusi in casse, custodite da Matteo Devaris, 47 Il riferimento è ancora MERCATI, Nota per la storia di alcune biblioteche romane nei secoli XVI-XIX, Città del Vaticano 1952, pp. 15-146. 48 La bibliografia è ancora scarsa a questo proposito: G. MERCATI, Codici latini Pico Grimani Pio e di altra biblioteca ignota del secolo XVI esistenti nell’Ottoboniana e i codici greci Pio di Modena con una digressione per la storia dei codici di S. Pietro in Vaticano, Città del Vaticano 1938, pp. 58-74 e 203-245 e P. DI PIETRO LOMBARDI, I codici greci e orientali di Alberto III Pio, in Alberto III e Rodolfo Pio da Carpi collezionisti e mecenati. Atti del seminario internazionale di studi Carpi, 22 e 23 novembre 2002, a cura di M. ROSSI, con saggi di M. FERRETTI e L. GIORDANO, Udine 2004, pp. 215-227. 49 Notizie sulla collezione di questo prelato darò nell’edizione del carteggio Cervini-Sirleto. 50 A. CATALDI PALAU, Une collection de manuscrits grecs du XVIe siècle (Ex-libris: «Non quae super terram»), in Scriptorium 43.1 (1989), pp. 35-75, segnatamente pp. 57-59. 51 Su questo personaggio e la sua biblioteca si veda infra, p. 105. 52 J. RUYSSCHAERT, Recherches des deux bibliothèques romaines Maffei des XVe et XVIe siècles, in La Bibliofilia 60 (1958), pp. 306-355. 53 S. LATTÈS, Recherches sur la bibliothèque d’Angelo Colocci, in Mélanges d’archéologie et d’histoire 48 (1931), pp. 308-344; M. BERNARDI, Gli elenchi bibliografici di Angelo Colocci: la lista A e l’Inventario primo (Arch. Bibl. 15, pt. A), in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae 20 (2014), pp. 89-153; ID., La lista C o Inventario secondo (1558) dei libri di Angelo Colocci (Vat. lat. 3958, ff. 184r-196r), in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae 22 (2016), pp. 7-111 e R. BIANCHI, Nella biblioteca di Angelo Colocci: libri già noti e nuove identificazioni, in Studi medievali e umanistici 13 (2015), pp. 157-196; i codici greci della collezione di Colocci ho identificato in G. CARDINALI, Il profeta e il monsignore. Quarantasette nuovi manoscritti (e tredici nuovi stampati) di Angelo Colocci nella Vaticana e alla Nazionale di Parigi, in corso di stampa nella miscellanea in memoria di monsignor Paul Canart. 54 Un orientamento bio-bibliografico aggiornato è dato da J. BURRIEZA SÁNCHEZ, Torres, Francisco, in Diccionario Biográfico Español, 48, Madrid 2013, pp. 187-188, oltre a S. LUCÀ, Traduzioni patristiche autografe dal greco in latino del gesuita Francisco Torres († Roma 1584), in Philologie, herméneutique et histoire des textes entre Orient et Occident. Mélanges en hommage à S. J. Voicu, éd. F. P. BARONE, C. MACÉ, P. A. UBIERNA, Turnhout 2017, pp. 71-117.
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la cui apertura dipendeva dal cardinale, a via Giulia (residenza di Cervini) i manoscritti erano, invece, assai più accessibili e consultati. Del resto, il sabinese aveva già fatto da intermediario tra il Nunzio in Francia e Cervini per far sì che quest’ultimo ricevesse direttamente a Roma «li libri greci che si stampano in Parigi per ordine del Re»55, secondo una lista di desiderata spedita oltralpe: «Ho ricordato al Florido, il quale per sé stesso desidera servire Vostra Signoria Reverendissima, che lo mandi quanto prima potrà haverlo, et non dubito che non sian per farlo». Cervini poi — avrà spiegato Florido, passando le Alpi — più che un collezionista di volumi antichi, era alla ricerca di testi e, pur di procurarseli, non disdegnava di ricorrere a copie moderne; anzi, la sua collezione era perlopiù costituita di questo tipo di manufatti56. L’America dei calligrafi. Se, tuttavia, Florido svolse il ruolo di intermediario dell’operazione, questa fu effettivamente condotta “da greci a greci”. Dalla lettera di Sirleto sappiamo, infatti, che, sebbene Giovanni Battista Cervini, il dominus della casa del cardinale, non fu all’oscuro dell’affare, ma anzi presente sin dall’inizio (e lo resterà fino al gran finale!), fu tuttavia al calabrese Sirleto che venne avanzata la candidatura di Pietro. E questi, proprio in virtù delle origini geografiche e della formazione culturale, oltre che dell’atti-
Fig. 3 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 6189, f. 12v: indicazione del destinatario — Guglielmo Sirleto — della lettera di Annibal Caro dell’8 dicembre 1546. 55 Questa espressione, come la seguente, è tratta dalla lettera inviata a Cervini «di Parigi alli 6 di gennaio del 1544» da Niccolò Ardinghelli, ora in Archivio di Stato di Firenze (d’ora in poi ASF), Carte Cervini 4, f. 45rv. Mi permetto di rinviare anche a CARDINALI, Legature «alla Cervini»? cit., pp. 45-46 nt. 63. 56 CARDINALI, Autoritratto di cardinale bibliofilo cit., pp. 211-214.
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vità che svolgeva nella familia di Cervini, era considerato a tutti gli effetti un “greco”. E così doveva essere conosciuto a Roma, se, scrivendogli una lettera l’8 dicembre 1546, Annibal Caro la indirizzava: «Al molto virtuoso messer Guglielmo Greco amico carissimo, in Roma in casa di Monsignor S. Croce»57 (fig. 3). È, dunque, al greco Guglielmo che si rivolgono due altri greci, Matteo Devaris58 e Michele Ermodoro Lestarchos59, quando bussano alla porta di via Giulia. Il primo è il bibliotecario e copista del cardinal Ridolfi, mentre l’altro è il calligrafo del cardinale Salviati. Devaris, in particolare, era quello che, come ricorderà il nipote Pietro60: Mei porro avunculi opera Rodulphus in Graecis potissimum explicandis auctoribus utebatur, quem suae quoque bibliothecae peramplae et copiosae praefecerat e di cui Donato Giannotti faceva gli elogi a Pier Vettori, ricordandolo tra «questi greci che hanno squaternato questi libri di Sua Signoria Reverendissima», ossia di Ridolfi, e riconoscendo che: «egli possiede excellentemente la ragione di questa lingua greca, et halla molto osservata»61. Se a questi si aggiungono i «messeri Constantino e Nicolò» vicini a Ridolfi, e da identificare, dunque, con Costantino Rhalles62 e Niccolò Ma57 A. CARO, Lettere familiari, II: Luglio 1546 – Luglio 1559, edizione critica con introduzione e note di A. GRECO, Firenze 1959, p. 21. 58 Si veda supra, p. 18. 59 Ermodoro Lestarco (o Litarco) da Zante, discepolo di Giano Lascaris, fu al servizio di Giovanni Salviati, come risulta anche da P. HURTUBISE, La «familia» del cardinale Giovanni Salviati (1517-1553), in «Familia» del principe e famiglia aristocratica, a cura di C. MOZZARELLI, II, Roma 1988, p. 594, riedito in ID., Tous les chemins mènent à Rome. Arts de vivre et de réussir à la cour pontificale au XVIe siècle, Ottawa 2009, pp. 173-199, segnatamente p. 179 e soprattutto da CARDINALI, La lente dissolution cit. Una lettera di Devaris a Le(s)tarcos si trova nel Vat. gr. 1414, ff. 134r-135v, mentre altre notizie saranno fornite nel paragrafo seguente. Si veda CATALDI PALAU, La biblioteca del cardinale cit., p. 89 nt. 140, con bibliografia. 60 MATTHAEII / DEVARII / LIBER / DE GRAECAE LINGVAE / PARTICVLIS. / AD ALEXANDRVM FARNESIVM / CARDINALEM S. R. E. / VICECANCELLARIVM / […] / ROMAE, / Apud Franciscum Zannettum. M. D. LXXXVIII. / PERMISSV SVPERIORVM., s.i.p. 61 D. GIANNOTTI, Lettere a Piero Vettori pubblicate sopra gli originali del British Museum da R. RIDOLFI e C. ROTH con un saggio illustrativo a cura di R. RIDOLFI, Firenze, Vallecchi, 1932, pp. 113 e 128. 62 Allievo, come Devaris, del Collegio Greco, almeno dal 1537 era familiare di Ridolfi, mentre dopo la morte di costui passò al servizio del cardinale Giuliano della Rovere. Morì a Roma il 13 settembre 1573 ed è sepolto nella chiesa di Santa Maria in Via Lata. Egli va riconosciuto come uno di «questi Greci che hanno cura dei libri del Cardinale», al quale Ridolfi affidava anche incarichi di carattere più personale (GIANNOTTI, Lettere a Piero Vettori cit., pp. 124 e 129). Un’altra testimonianza è quella di Pietro Devaris nel MATTHAEII / DEVARII / LIBER cit., s.i.p.: «Quare cum iam illius doctrina celebraretur a Nicolao Rodulpho Cardinali accersitus domum humanissime receptus est: apud quem per illud tempus ita multi variis disciplinarum generibus instructissimi florebant (ex Graeca quidem Constantinus Rallius, Nicolaus Soffiano, Christophorus Condoleus, Devarii condiscipuli et contubernales …)» Si
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PARTE PRIMA
jorano, si vede bene come la candidatura di Pietro venne sostenuta da una prestigiosa rappresentanza della colonia greca di Roma, fatta, senza distinzione geografica ulteriore, di ellenici, di pugliesi e di calabresi. Una colonia particolarmente vivace, coesa e anche molto attenta alla propria reputazione e alle tradizioni culturali, come quando la si vide compattarsi a falange nel febbraio 1547, quando si trattò di fare quadrato in difesa dell’ortodossia di Teodoreto di Cirro e, più generalmente, della Chiesa d’Oriente63. E, siccome l’orologio ha la sua importanza nelle questioni di filologia, va rimarcato che la presentazione di Vergezio a Sirleto non avvenne a ridosso della stesura della lettera in cui il calabrese ne diede conto al suo padrone, né alcune settimane prima, ma da qualche mese almeno. In pieno accordo con l’ipotesi dell’arrivo di Pietro a Roma nella primavera 1545. Sirleto, infatti, non solo racconta la scena al passato remoto («me raccomandorno»), ma lascia intendere che il giovane è stato esaminato da più persone oltre a lui («a iudicio mio et di molti altri») e, soprattutto, accenna al fatto che egli lo ha già impiegato per alcuni lavori non solo a titolo personale, ma anche per il cardinale. Egli chiede a Cervini di autorizzare Giovanni Battista a un pagamento a favore di Pietro, «havendome aiutato a riscontrare il libro di san Basilio de Spiritu Sancto et scrivendo adesso quel libro di Monsignor Colotio»64. E che non si trattasse di una collaborazione occasionale, lo rivela il calabrese subito dopo, aggiungendo che non solo Vergezio sta «con esso meco quasi sempre»65, ma anche che «io il fo mangiare dove mangio io et le fo careze, considerando che po’ servire non solamente a scrivere, ma anche a riscontrare libri»66. Ne consegue che tra l’aprile e il novembre 1545 Pietro entrò in contatto con Sirleto, il quale lo prese a ben volere67 e gli affidò alcuni lavori in via esplorativa, ma anche pressato dal fatto oggettivo che a Roma «non se veda MURATORE, La biblioteca del cardinale cit., pp. 65-66, e G. CARDINALI, «In qua bibliotheca pro commodo suo quisque studere potest». Frequentatori e prestiti della Biblioteca Medicea Privata durante il suo soggiorno romano, in Archivum Mentis 3 (2014), pp. 131-170, segnatamente pp. 157-160. 63 Vat. lat. 6177, ff. 113r-115v, in cui si legge: «Hoggi m’è stato detto chel Rettore (scil. Camillo Peruschi † 1573; rettore dello Studium Urbis dal 1530), m. Hermodoro greco (scil. Lestarchos), m. Angelo Lascari et non so che altri greci erano convenuti insieme per defenderlo, come se, cadendo la autorità di Theodoreto, cadesse tutta la Chesa greca et perché non sanno li decreti ecclesiastici, tutto quel che dicono pare alloro che sia bendetto, immodoché se se tene questa via in rivedere il libro, non solamente non se ritroveranno de l’altri errori, ma quelli che se sonno ritrovati, saranno confirmati per sententie catholice». 64 Vat. lat. 6177, ff. 183r-184r. 65 Ibidem. 66 Ibidem, che ho già edito in CARDINALI, Il Barberinianus gr. 532 cit., p. 61. 67 Sulla liberalità di Sirleto si veda C. MARCORA, Il cardinal Sirleto nei documenti della Biblioteca Ambrosiana, in Il Card. Guglielmo Sirleto cit., pp. 183-216.
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ritrovano scrittori». Quali siano stati questi lavori e dove essi siano attualmente conservati, vedremo tra poco. 4. Alla ricerca di un “padrone” Tra aprile e novembre corrono, in realtà, ben otto mesi, ossia circa duecento quaranta giorni, ossia i tre quarti di un anno solare: una finestra di non poco conto nella vita di Pietro Vergezio. Di ancor maggior importanza, se si considera che quegli otto mesi furono i primi trascorsi a Roma: quelli dell’arrivo dalla Francia, dell’incertezza sul proprio futuro, prima che Marcello Cervini provvedesse alla sua stabilizzazione. Dove cercare le tracce del «giovane greco»? Come questi avrà provveduto al suo sostentamento? Di cosa sarà vissuto? La risposta, in realtà, è semplice: fu al servizio del cardinale Giovanni Salviati, per il quale esemplò il Vat. gr. 217468. Una volta, infatti, che si abbia confidenza (paleografica) con la mano di Pietro, e soprattutto con la versione à la Vergèce moins surveillée, non è difficile riconoscerla in quella dello scriba del codice vaticano, inizialmente identificato in Giacomo Diassorinos da Rodi (Ἰάκωβος Διασσωρινός69) e, a seguito delle giuste perplessità di Paul Canart70, ritirato, per essere poi timidamente attribuito al copista Michele Ermodoro Lestarchos71. Non è tanto il confronto con le pagine autografe di quest’ultimo a destituire questa ultima ipotesi di ogni fondamento72, quanto piuttosto quello con la mano di Pietro: l’identità è patente, così come ricorrenti quegli stessi caratteri di instabilità e di sperimentalismo che, già emersi nelle prime prove, accompagneranno l’intera carriera di Vergezio, al punto da poterli immaginare come espressione del carattere suo; del suo naturel, avrebbero detto a Fontainebleau. Non occorre, dunque, ripetere quanto si è rilevato, 68
Codices Vaticani Graeci. Codices 2162-2254 cit., pp. 45-47 e 510-511. RGK I 143 = II 191 = III 241 e C. GARCÍA BUENO, El copista griego Jacobo Diasorino (s. XVI): estudio paleográfico y codicológico de sus manoscritos. Tesis doctoral, Madrid 2017, con bibliografia. 70 Codices Vaticani Graeci. Codices 2162-2254 cit., p. 46, che cita CANART, Scribes grecs cit., p. 61, dove tuttavia non è questione del Vat. gr. 2174. 71 Codices Vaticani Graeci. Codices 2162-2254 cit., p. 511, seguito da CATALDI PALAU, La biblioteca del cardinale cit., p. 89. 72 Si possono considerare, perché sottoscritti, i seguenti fogli: Paris. gr. 941 (tranne i ff. 1r-2v); Paris. gr. 1307, ff. 210r-219r; Paris. gr. 2017, f. VIIv. L’attribuzione, erronea, a Lestarchos del Vat. gr. 2174 credo sia stata favorita dal fatto che questi fu l’intestatario del prestito dell’antigrafo vaticano da cui l’esemplare venne copiato, ma questo di per sé non comporta che lui fosse anche l’amanuense; in secondo luogo, ma con ancor maggior forza, l’evidenza paleografica toglie ogni fondamento all’attribuzione. 69
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PARTE PRIMA
e quanto si vedrà ribadito ancora, per assegnare anche il Vat. gr. 2174 alla penna del figlio di Ange Vergèce. Un caso particolarmente fortunato quello del Vat. gr. 2174, che Jean Matal, nel suo Index librorum graecorum et latinorum manuscriptorum Cardinalis Salviati Florentini stilato nel 1546, aveva descritto come: «Philonis volumina duo descripta ex Bibliotheca Vaticana»73, poiché si conservano ancora le due ricevute di prestito necessarie a ottenere l’antigrafo vaticano da cui la copia fu tratta, ossia i Vat. gr. 380 e 37874, sottoscritte nella seconda metà di marzo del 154575: 1545. Il dì 21 di martio. Io Hermodoro confesso havere pigliato il primo libro di Philone hebreo, per comandamento del mio padrone il reverendissimo cardinal Salviati, da monsignore il bibliothecario, et per pegno lasso a Sua Signoria uno anello del cardinale. Il medemo Hermodoro76.
e Messer Francesco Torres, hispano, alli dì 23 di martio 1545, hebbe in prestito col pegno d’un anello d’oro una parte de Philone Iudeo della libraria del Papa77.
Nella seconda metà del mese in cui Pietro dovette giungere dalla Francia, dunque, vennero prelevati due volumi contenenti le opere di Filone da due diversi personaggi. Anzitutto i due volumi: essi sono qualificati come un primo libro e una parte, dal momento che l’unico manoscritto inventariato come Philonis opera, ex membranis in rubro78 a ridosso del 1533 (o forse a seguito del Sacco di Roma) era stato diviso in due: un primo libro, ossia il Vat. gr. 380: Philonis Iudei opera, ex membranis in viridi79, e una 73
Cambridge, University Library, ms. Add. 565, ff. 133r-134r, edito integralmente da CA-
TALDI PALAU, La biblioteca del cardinale cit., pp. 65-77, segnatamente p. 73. 74 Codices Vaticani graeci, II: Codices 330-603, recensuit R. DEVREESSE,
In Bibliotheca Vaticana 1937, pp. 72-73 e 74-75. 75 Codices Vaticani Graeci. Codices 2162-2254 cit., p. XIII. 76 I due primi registri di prestito della Biblioteca Apostolica Vaticana. Codici Vaticani latini 3964, 3966, pubblicati in fototipia e in trascrizione con note e indici a cura di M. BERTÒLA, Città del Vaticano 1942, p. 64. 77 Ibidem. 78 Index seu inventarium Bibliothecae Vaticanae divi Leonis Pontificis Optimi.Anno 1518 c. Series Graeca, curantibus M. L. SOSOWER – D. F. JACKSON – A. MANFREDI, Città del Vaticano 2006, p. 48. Come un unico volume i Vat. gr. 380+378 apparivano ancora nel primo quindicennio del XVI secolo: Inventari di manoscritti greci della Biblioteca Vaticana sotto il pontificato di Giulio II (1503-1513), introduzione, edizione e commento a cura di G. CARDINALI, Città del Vaticano 2015, pp. 91, 141 e 291. 79 Librorum Graecorum Bibliothecae Vaticanae Index a Nicolao De Maioranis compositus
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(seconda) parte, ossia il Vat. gr. 378: Philonis Iudei Historia, ex membranis in rubro80. I due richiedenti, invece, sebbene solo del primo si dica che agisse in nome del reverendissimo cardinal Salviati, erano entrambi familiari dello stesso prelato fiorentino, che non solo li aveva al suo servizio in quell’anno, ma — ed è dato del tutto inedito — aveva provveduto ad alloggiarli in uno stesso appartamento sin dal 1544. Per tutto il biennio 1544-1545, infatti, Salviati verserà a tal Gasparo da Todi diciotto scudi l’anno per il fitto di una sua casa posta in Borgo Vecchio, dove stanno messer Francesco Spagnolo e messer Hermodoro Greco81. Un dato questo che permette non solo un’efficacissima compositio loci quanto ai due eruditi, ma collima perfettamente con la ricostruzione della vita di Ermodoro avanzata da Emile Légrand82, colmandone un vuoto corrispondente al soggiorno romano: se era noto che questi avesse lasciato l’isola di Chios tra la fine di novembre e il dicembre del 1543 e fosse a Roma nel biennio successivo (e oltre83), prima di far tappa a Ferrara, è ora nota non solo la familia di riferimento — quella del reverendissimo cardinal Salviati —, ma anche il civico di residenza e il coinquilino. Non solo, ma il primo dei mandati di pagamento a beneficio di messer Hermodoro greco, datato 8 marzo 1544, risulta pagato «per conto de la pigione de la camera dove lui sta et il suo fratello …»84, ossia quell’Andrea di cui si sapeva che avesse accompagnato il fratello a Roma85. Se si pensa che Ermodoro Lestarchos sarebbe stato, di lì a poco, tra coloro che avrebbero presentato Pietro a Sirleto, e che Torres offrirà a quest’ultimo, appena l’anno seguente, la propria mediazione per ricollocare Pietro al termine della sua collaborazione presso Cervini, ecco ricostruiet Fausto Saboeo collatus anno 1533, curantibus M. R. DILTS – M. L. SOSOWER – A. MANFREDI, Città del Vaticano 1998, p. 46. 80 Ibidem. 81 BAV, Arch. Salviati 234, ff. 53v, 56v, 65r e 87v. Una ricevuta tipo è quella del 10 dicembre 1544 (ibidem, f. 65r): «A dì X ditto (scil. 7bre 1544). Al R.mo et Ill.mo Car.le nostro Δ nove di giuli X per Δ pagati a Gasparo da Todi e sono per il fitto di una sua casa posta in Borgo Vecchio, dove stanno m.s Francesco Spagnolo e m.s Hermodoro Greco et è pagato inanci tratto per il fitto di sei mesi che finirano per tutto dì ultimo di marzo proximo che viene, come per un police di sua man et di commissione della Ill.ma S.ra Lucretia Salviati». 82 LÉGRAND, Bibliographie hellénique cit., pp. 253-258. 83 Nella prima metà di febbraio del 1546 era ancora (o era temporaneamente rientrato) a Roma, dato quanto scrive Sirleto a Cervini il 16 del mese, già edito da G. MERCATI, Cenni di A. del Monte e G. Lascaris sulle perdite della Biblioteca Vaticana nel sacco del 1527. Seguono alcune lettere del Lascaris, in Miscellanea Ceriani, Milano 1910, pp. 607-632, poi in ID., Opere minori, III: 1907-1916, Città del Vaticano 1937, pp. 130-153, segnatamente p. 151 nt. 2. 84 Arch. Salviati 234, f. 53v. 85 LÉGRAND, Bibliographie hellénique cit., p. 156 e, soprattutto, CARDINALI, La lente dissolution cit.
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PARTE PRIMA
to un contesto sufficientemente robusto al lavoro di copia del Vat. gr. 2174! Ritirate le due metà dell’antigrafo vaticano, Pietro dovette mettersi al lavoro tra gli ultimi giorni di aprile e i primi di maggio del 1545, e siccome alla fine del lavoro avrà vergato complessivi 232 fogli e stante il ritmo medio (che verrà a breve comprovato) di due fogli al dì, è assai verosimile che l’attività si protrasse per 116 giorni all’incirca, ossia quasi quattro mesi; da maggio ad agosto del 1545. A ridosso, cioè, dei primi lavori che gli saranno affidati da Guglielmo Sirleto, che sognava già di farlo assumere presso di sé. Quando, l’anno appena seguente (1546), Jean Matal sarebbe passato per la sua ispezione della biblioteca Salviati, tuttavia, avrebbe trovato, e registrato, non solo il Vat. gr. 2174, ma anche un secondo volume di opere di Filone tratto dal medesimo antigrafo vaticano, dal momento che sul suo Index si fa menzione di Philonis volumina duo descripta ex bibliotheca Vaticana86. La filologia ha già rilevato che al Vat. gr. 2174 è legato artissimo vinculo87 il Coisl. 43, qualificato da un punto di vista testuale come suo frater gemellus: come i Vat. gr. 380 e 378 formavano una unità fino all’epoca del Sacco di Roma, così il Vat. gr. 2174 e il Coisl. 43 ne erano, uniti, la copia esatta e completa (spostamenti di fascicolo — risalenti all’antigrafo degli antigrafi: Pal. gr. 183 — compresi). Tuttavia, con buona pace degli editori tedeschi88 e dei griechischen Schreiber di Marie Vogel e Viktor Gardthausen89, le due trascrizioni cinquecentesche non sono da attribuirsi a Iacobus Diassorinos (Ἰάκωβος Διασσωρινός) né sembrano, al momento, potersi ricondurre ad un’unica mano. Il Vat. gr. 2174 — lo si è appena visto — è di mano di Pietro Vergezio90, il Coisl. 43 è stato vergato da una manus che è completamente alia, rispetto a quella di Diassorinos91, ma anche a quella di Vergezio. Per ora, converrà non forzare né i dati filologici né le evidenze paleografiche, limitandosi a riconoscere la discrasia, in attesa di una risposta coerente, ché i problemi di ermeneutica hanno alla fin fine una radice comune e — ammonisce Pascal — «On ne peut faire une bonne physionomie qu’en accordant toutes nos contrariétés, et il ne suffit pas de suivre une suite de qualités accordantes sans accorder les contraires. Pour 86 Codices Vaticani Graeci. Codices 2162-2254 cit., pp. XXXV e CATALDI PALAU, La biblioteca del cardinale cit., p. 73. 87 Codices Vaticani Graeci. Codices 2162-2254 cit., pp. 46-47, riferendosi agli studi di P. WENDLAND, Neu entdeckte Fragmente Philos, Berlin 1891, p. 126 n. 2 e all’edizione delle Philonis Alexandrini opera quae supersunt, I, edidit L. COHN, Berolini 1896, pp. VII-VIII. 88 Philonis Alexandrini opera cit., p. VIII. 89 VOGEL-GARDTHAUSEN, Die griechischen Schreiber cit., p. 154. 90 L’attribuzione a Diassorinos era già stata lasciata cadere in RGK III 241. 91 Tale attribuzione era, infatti, già stata smentita in RGK II 191.
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entendre le sens d’un auteur, il faut accorder tous les passages contraires. [...] Tout auteur a un sens auquel tous les passages contraires s’accordent ou il n’a point de sens du tout. [...] Il faut donc en chercher un qui accorde toutes les contrariétés92». 5. Vita da copista Con la lettera del 25 novembre 1545 Sirleto, oltre a ottenere l’autorizzazione di un pagamento per il servizio già svolto, mirava a far assumere stabilmente in casa il giovane figlio di Ange Vergèce. Vulgariter si trattava di far “fare il salto” al giovane copista: da scriba freelance a calligrafo del cardinale. L’obiettivo era quello di affrancarsi dalla vita provvisoria dei copisti a giornata, quelli verso i quali, a Venezia, l’ambasciatore di Francia mostrava una stima pietistica: «pour estre pouvres gens grecs hors de leur pays, ne peuvent attendre d’estre payés, sinon au jour la journée»93. Un conto, infatti, era pagarsi una stanza a pigione e procacciarsi o attendere ogni mattina delle commissioni, fossero anche quelle del cardinale Giovanni Salviati94; e un conto era godere di vitto, alloggio e stipendio fisso nella familia di un alto prelato; oltre al gusto di salire e scendere le scale di una residenza cardinalizia, avere accesso alla collezione del padrone e incrociare i più bei nomi della Roma farnesiana95. Proprio come sarebbe avvenuto per Emanuele Provataris, che, prima di prender servizio in Vaticana, per qualche tempo fu in corte del Reverendissimo Cardinal di Santa + (ossia Cervini)96. Il cardinale, poi, aveva fama di un uomo retto e mite, colto e di gusto, oltre ad essere molto vicino al cuore di Paolo III (fig. 4). 92
Blaise Pascal, Pensées, CCLXXXIX (éd. G. Ferreyrolles). J. ZELLER, La diplomatie française vers le milieu du XVIe siècle d’après la correspondence de Guillaume Pellicier, Paris 1880, p. 115; la corrispondenza diplomatica di Pellicier è stata successivamente edita in Correspondance politique de Guillaume Pellicier ambassadeur de France à Venise 1540-1542, I, édition par A. TAUSSERAT-RADEL, Paris 1899. 94 Per l’ambito latino si può vedere E. CALDELLI, Copisti in casa, in Pecia 13 (2010), pp. 199-249, mentre un caso di copista greco, ma che scrive in latino è quello presentato in G. CARDINALI, Requiem per un copista assassinato. Vita, morte e (primo) catalogo di Iacobus Dyacopoulos, in Scripta 12 (2019), pp. 95-111. 95 Nella residenza di Cervini Pietro avrebbe potuto incontrare anche Giovanni Onorio da Maglie, di cui il cardinale era assiduo cliente da almeno due anni, come dimostrato in CARDINALI, Il Barberinianus gr. 532 cit., pp. 71-82 e ID., En jouant avec les poupées russes: 88 manuscrits grecs de Gabriel Naudé, dont 50 de Guillaume Sirleto, dont certaines de Marcel Cervini, dont 2 d’Ange Colocci, in Journal des Savants 2019.1, pp. 3-90, segnatamente pp. 5759. Sul milieu erudito e letterato che ruotava attorno al prelato si veda QUARANTA, Marcello II Cervini cit., pp. 428-458, sebbene piuttosto generico. 96 Così nell’indirizzo della lettera di Nicolao Gascho del primo giugno 1554, scritta da Venezia Al molto spectabili messer Manuso Provatari (Vat. gr. 2124, f. 153v); questa non è stata citata né in P. CANART, Scribes grecs cit., p. 12, né in ID., Les manuscrits copiés par Emmanuel 93
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PARTE PRIMA
Fig. 4 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 2124, f. 153v: indicazione del destinatario: Emanuele Provataris all’epoca in corte del Reverendissimo Cardinal di Santa +, ossia di Marcello Cervini.
L’occasione era irripetibile: si trattava di uscire dall’anonimato; di diventare un altro Devaris, un altro Giovanni Onorio; un Ermodoro. O — ce qui revient au même — di non vivere “alla Gioan Rocchetto”97. Sirleto era tutto dalla sua parte. Quella «bellissima lettera», ma forse soprattutto la possibilità di disporre di un collaboratore greco stanziale e a tempo pieno, lo galvanizzavano. Candido come un bambino e generoso, avanza la sua proposta a Trento: «Se Vostra Signoria Reverendissima se contenta tenerlo in casa et oltra la parte darle un scudo il mese per poterse al manco comprare scarpi, io me offero, mentre che staremo insieme, darle un altro scudo di quel poco che io guadagno et so certo che sarà utile di molto magior guadagno che non valeno dui scudi». E non è difficile vederProvataris (1546-1570 environ). Essai d’étude codicologique, in Mélanges Eugène Tisserant, VI, Città del Vaticano 1964, pp. 173-287, poi in ID., Etudes de paléographie cit., pp. 33-165, segnatamente pp. 35-36; non mi pare che sia mai stato notato questo passaggio di Provataris presso Cervini prima della (e forse propedeutico alla) assunzione in Vaticana. 97 Si veda la lettera di Sirleto a Cervini del 9 gennaio 1546 (Vat. lat. 6177, ff. 149r-152r): «Mon S.or R.mo il resto di questa oratione per l’altra posta con gratia di N. S.or Idio il manderò et quella prego me perdoni se non mando scritta tutta l’oratione, perché il scrittore per nome m. Gioan Rocchetto, il quale me havea promeso transcriverla, m’è venuto meno, escusandose che è nelli servicii del R.mo Farnesi …» Col procedere delle ricerche bisognerà verificare se questo copista, freelance all’epoca di questa missiva, non possa essere identificato col Iohannes Rochus, definito copista di Paolo IV Carafa da BÉNÉDICTINS DU BOUVERET, Colophons de manuscrits occidentaux dès origines au XVIe siècle, III: Colophons signés I-J (7392-12130), Fribourg Suisse 1973, nr. 11228.
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lo sigillare la busta compiaciuto al pensiero di aver avuto un’idea proprio geniale. Ma non si è l’uomo di fiducia di Paolo III invano. Si può essere cardinali senza esser dotati di particolare perspicacia, ma consiglieri di papa Farnese no. E, infatti, Cervini risponde, ponendo precise tappe all’assunzione: «Quanto al giovine greco, che mi raccomandate, sarà bene ch’egli provi la stantia di casa nostra qualche dì, et che noi da altra parte proviamo et consciamo meglio lui, prima che entri totalmente a li servitii nostri. Et in questo mezo io mi contento ch’egli habbia il vitto in casa et la provisione che voi dite d’uno scudo il mese, o vero che di quel che scriverà se gli paghi un tanto per quinterno, secondo che a voi parerà honesto, al quale in ciò me rimetto. La lettera mi piace, purché sia corretta»98. Cervini, in realtà, si rimette a Sirleto e gli lascia scegliere se pagare Pietro uno scudo al mese oppure un tanto a foglio scritto, che erano le due principali possibilità di retribuzione di un copista greco nella Roma del XVI secolo (come si vedrà, il calabrese optò per la prima delle due soluzioni). Sirleto incassa e si adegua, sapienziale: «Per insin’a qui me par bon giovane, pure perché il cor de l’homo è un labirintho, sarà bene, come Vostra Signoria Reverendissima dice, far giudicio con il tempo»99. Da questo momento la collaborazione tra Sirleto e Vergezio diventa quotidiana, il primo coinvolge il secondo in ognuno dei suoi molteplici progetti e i primi frutti vengono inviati all’Eminentissimo, perché possa verificare. Il periodo di prova fu più lungo del previsto. Il 31 marzo 1546, dopo la prima importante commissione, la situazione di Pietro era ancora sospesa: «Questo giovane harrebbe a charo risolvere cose sue con Vostra Signoria Reverendissima, cioè se ‘l vuole accettare in casa, perché, essendo già stato cinque mesi, può essere stato cognosciuto»100. Lo lasceremo in questa condizione, per considerare ora quali siano stati i lavori compiuti da lui a via Giulia. 6. Chez monsieur le cardinal Pietro rimase a effettivo servizio di Cervini dai primi di dicembre del 1545 alla fine di maggio del 1546, per soli sei mesi, durante i quali lavorò per il cardinale e assistette Sirleto nelle sue attività erudite. Provando a verificare il catalogo del copista, partiremo dalla fine, per98
Nella lettera in questione era stata inviata a Cervini una «mostra de la lettera», ossia un campione della scrittura, del giovane. 99 Vat. lat. 6177, ff. 180r-181r. 100 Vat. lat. 6177, ff. 86r-87v; la lettera è datata al 31 marzo 1546.
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Fig. 5 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 624, f. 1: esemplare vaticano dell’Eranistes di Teodoreto da cui Pietro Vergezio trascrisse nell’Ott. gr. 39 la copia per Cervini.
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ché il caso della sua opera più famosa è anche quello meglio documentato e meno problematico dal punto di vista paleografico. Mi riferisco, cioè, alla trascrizione dell’Eranistes e dell’Haereticarum fabularum compendium di Teodoreto di Cirro, che Cervini aveva in animo di far realizzare sin dai primi di agosto del 1545 e per il quale faceva difficoltà a trovare un copista101. Sirleto candidò Vergezio per questo lavoro sin dal novembre-dicembre 1545102, incontrando la buona disposizione del cardinale103, ma imbattendosi nel problema della sparizione dell’antigrafo custodito nella Vaticana104: «il Theodorito contra haereses non se ritrova nella Libraria di Nostro Signore»105. Si trattava di un manoscritto del XII secolo, oggi Vat. gr. 624106, collocato, sin dal 1475, sempre al solito posto: in tertio banco bibliothecae grecae, in bella vista tra gli auctores clariores107 (fig. 5). Il fatto sgomentò i custodi e gli habitués della Vaticana («del che molto ne meravigliamo io et messer Faosto (scil. Sabeo)»108), fece trasecolare Sirleto («Io spero a Dio che all’ultimo se ritrovarà. Fra questo mezo questo giovane scriverà alcune altre cose che non dispiaceranno a Vostra Signoria Reverendissima») e infuriare e minacciare il pur placido Cervini («se a questa hora non sarà trovato, scrivo a Giovan Battista che lo faccia intendere a messer Bernardino Maffeo in mio nome, perché parlandone o con Nostro Signore o con il Reverendissimo e Illustrissimo Cardinale Farnese si proveda che alla libraria se habbia migliore cura et si ordini che il sudetto libro si trovi»109). Il caso fu risolto solo al momento del rientro in sede del bibliotecario papale Agostino Steuco110: «’l Theodoreto contra l’heresie è 101 Le ragioni di questa scelta intendo spiegare in un contributo apposito che vado preparando. 102 Oltre alla lettera del 25 novembre 1545 (Vat. lat. 6177, ff. 183r-184r), si vedano quelle del 19 dicembre dello stesso anno (ibidem, ff. 180r-181r), del 3 gennaio 1546 (ibidem, ff. 105r106r) e del 9 dello stesso mese (ibidem, ff. 149r-152r). 103 Si vedano le lettere del 29 dicembre 1545 (Vat. lat. 6177, f. 66r) e del 9 gennaio 1546 (ibidem, f. 68r). 104 Il codice era stato richiesto a Majorano alla fine di dicembre 1545 (Vat. lat. 6177, ff. 105r-106r): «L’ho già domandato a m. Faosto et ha promesso darlo». 105 Vat. lat. 6177, ff. 153r-155v; lettera datata 17 gennaio 1546. 106 Codices Vaticani Graeci, III cit., pp. 32-33. 107 R. DEVREESSE, Le fonds grec de la Bibliothèque Vaticane dès origines à Paul V, Città del Vaticano 1965, ad indicem; Inventari di manoscritti greci cit., pp. 125 e 258; Index seu inventarium cit., pp. 17 e 132; e Librorum Graecorum Bibliothecae Vaticanae cit., p. 19. 108 Vat. lat. 6177, ff. 153r-155v. 109 Vat. lat. 6178, f. 69r; lettera del 23 gennaio 1546. 110 T. FREUDENBERGER, Augustinus Steuchus aus Gubio, Augustinerchorherr und päpstlicher Bibliothekar (1497-1548) und sein literarisches Lebenswerk, Münster 1935, pp. 108-111; E. MÜNTZ, La Bibliothèque Vaticane au XVIe siècle, Paris 1886 (réimpr. Amsterdam 1970), p. 91; R. DEVREESSE, Pour l’histoire des manuscrits du fonds Vatican grec, in Collectanea Va-
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già ritrovato dopo venuto il bibliothecario»111. Quel che le lettere di Sirleto non dicono è che la situazione fu sbloccata da una vera e propria irruzione in Vaticana del fido Giovanni Battista Cervini, personaggio dai modi — per usare un eufemismo — piuttosto sbrigativi. Val la pena riportare l’episodio con le stesse parole di Steuco al cardinale, poiché queste permettono anche di immaginare quel che accadrà, appena qualche mese più tardi, nelle stanze di Via Giulia112: Ricevei una di Vostra Signoria Reverendissima di 25 di novembre, per la qual intesi quel suo buon’ animo verso di me, il quale sicuramente mi dette ordine di ricercarla di cotal gratia. Del che, quanto so et posso, io le ringratio, et di tanto in perpetuo gli ne resterò obligato. Sapend’io la sua rara cortesia, come demostra l’haver subito risposto, del non comparir risposta della mia cominciavo maravigliarmi, et pensavo che procedesse da suoi agenti, quali havessino poca cura di dare le lettere, sicome ho ritrovato, che messer Gianbattista Cervino m’ha data la lettera di Vostra Signoria Reverendissima quasi doi mesi dapoi la data di Trento. Il quale è venuto da me molto ferocemente e con grande impudentia et insolentia, dicendo che la Libraria era mal tenuta et ch’i libri si perdono, che, havendo per Vostra Signoria Reverendissima fatto cercare uno libro che già soleva essere in Libraria, non s’è mai ritrovato. Et io gli dissi, che il libro ci doveva essere, ma egli con poca diligentia doveva averlo cercato et, per convincerlo d’ignorantia e bugia, andai subito in libraria, e subito lo ritrovai, presente messer Nicolo Maiorano et altri vostri famigliari; e così se vidde la sua poca diligentia, non voglio dire ancora malignità, perché, s’havesse fatto cercare bene, non accadeva fare simile offitio di scrivere a Vostra Signoria Reverendissima et infamar appresso di lei quelli che governano la Libraria; la qual ha da sapere, che con queste suoi fiascherie, ch’in tutto vuole fare il saggio, fa poco honore a quella, perché questi termini, per quanto intendo, usa con l’altri.
Se l’excusatio tardiva di Steuco ebbe l’effetto di scagionarlo dall’accusa ticana in honorem Anselmi M. card. Albareda a Bibliotheca Apostolica edita, I, Città del Vaticano 1962, pp. 315-336, segnatamente p. 328 e ID., Le fonds grec cit., pp. 313-314, 360-361; J. BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane de Sixte IV à Pie XI. Recherches sur l’histoire des collections de manuscrits, avec la collaboration de J. RUYSSCHAERT, Città del Vaticano 1973, p. 44, e ora P. PETITMENGIN, I manoscritti latini della Vaticana. Uso, acquisizioni, classificazioni, in La Biblioteca Vaticana tra Riforma Cattolica cit., pp. 43-90, segnatamente pp. 47-49 e CH. M. GRAFINGER, Servizi al pubblico e personale, ibidem, pp. 217-236, segnatamente pp. 219-220. Si veda anche G. CARDINALI, Le vicende vaticane del codice B della Bibbia dalle carte di Giovanni Mercati. I: La presenza negli inventari, in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae 20 (2014), pp. 331-424, segnatamente pp. 366-367. 111 Vat. lat. 6177, f. 104rv; la lettera è datata al 23 gennaio 1546. 112 Questa lettera di Steuco a Cervini del 5 febbraio 1546, firmata «Deditissimo servitore il vescovo de Chissamo bibliothecario», è stata edita in PASCHINI, Un cardinale editore cit., p. 374.
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di incuria, non passarono nemmeno sei mesi che arrivò una nuova monizione, direttamente da Trento: il 27 giugno Cervini fece scrivere «Al vescovo di Chisamo a Roma della 8 Sinodo trovata, et dell’haver cura più alli libri»113 e ad anni di distanza il cardinale avrebbe continuato a lamentare «quelli (scil. libri) che se son perduti al tempo de bibliothecarii et maxime del passato, come sanno i custodi»114. Ma non divaghiamo. Riemerso il Vat. gr. 624, fu possibile avviare la copia, che Pietro inizia il 24 gennaio 1546115, per giungere oltre la metà dell’opera alla fine di febbraio116 e terminarla nel mese di marzo117. Due mesi esatti di lavoro per confezionare un bel codice cartaceo di formato in folio, che conta esattamente 130 fogli; ossia un ritmo medio — anche questa volta — di due al giorno: altro dato da tener presente in vista dell’epilogo di questa vicenda. Se, infatti, i copisti bessarionei lavoravano al ritmo di «circa due fascicoli
Fig. 6 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. gr. 39, f. 130r: colophon del codice copiato da Pietro Vergezio per Cervini. 113
Angeli Massarelli De concilio Tridentino cit., p. 210. ASF, Carte Cervini 51, f. 21rv. 115 Vat. lat. 6177, f. 104rv. 116 Vat. lat. 6177, ff. 69r-70v. 117 Vat. lat. 6177, ff. 86r-87v. 114
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al giorno»118, a Roma e in Vaticana si avanzava più lenti, essendo tenuti a «scrivere due carte di foglio mezano il giorno di lettera bona»119. Il risultato del lavoro fu l’attuale Ott. gr. 39, firmato e datato (f. 130r): «Πέτρος ὁ Βεργίκιος / ἔτη α. φ. λ. ς. / μαρτίου Ιέ. / τοῦ Χῦ». Come si vede, se l’autografia concorda pienamente con i dati desunti dalle lettere, la datazione andrà corretta dal 1536120, frutto di un refuso dello scriba, al 1546, o ancor più esattamente alla fine del marzo 1546 (fig. 6). Cervini insisteva da mesi che la copia venisse collazionata o, come si diceva allora, «scontrata»121 con un altro esemplare che gli pareva di ricordare conservato in Vaticana122, ma alla fine la trascrizione venne riverificata sul solo Vat. gr. 624, perché «in la Libraria non vi è comparso altro testo insino a qui né me dicono altri haver ritrovato altro che uno: non havendo altro, incominciaremo a riscontralo con questo che noi havemo et presto sarà espedito»123. L’antigrafo venne restituito dal giannizzero di Cervini e ricollocato in tertio banco bibliothecae grecae: «Nicolo Maiorano hebbe Theodereto Polymorphos quale haveva messer Gioan Baptista Cervino, et hebbe la poliza del sopraditto»124, mentre l’apografo, «finito de riscontrar», il 23 maggio venne messo a disposizione del cardinale: «et espetteremo de veder quel che Vostra Signoria Reverendissima ne vuol fare: se vuol che se mandi costì»125. Non sappiamo se Cervini lo richiese subito a Trento126, ma è certo che l’Ott. gr. 39, inventariato come Theodoriti Dialogi, fu posto come primo 118 D. SPERANZI, «De’ libri che furono di Teodoro»: una mano, due pratiche e una biblioteca scomparsa, in Medioevo e Rinascimento 26/n.s. 23 (2012), pp. 319-354, segnatamente p. 321. 119 Che questo potesse essere il ritmo medio di lavoro per un copista appare confermato anche dal regolamento della Biblioteca Apostolica Vaticana del 1597, edito da G. MERCATI, Per la storia della biblioteca apostolica, bibliotecario Cesare Baronio, in Per Cesare Baronio. Scritti vari nel terzo centenario della sua morte, Roma [1913, pp. 85-178], poi in ID., Opere minori, III: 1907-1916, Città del Vaticano 1937, pp. 201-274, segnatamente p. 233. 120 La datazione errata è quella accettata anche da Codices manuscripti graeci Ottoboniani Bibliothecae Vaticanae, recensuerunt E. FERON et F. BATTAGLINI, Romae 1893, p. 30 e da RGK I 344 = II 470 = III 547. 121 Su questa pratica si veda CARDINALI, Il Barberinianus gr. 532 cit., pp. 48-49. 122 Per ben tre volte Cervini, pur in forma dubitativa, allude a un secondo esemplare da collazionare, esattamente nelle lettere del 9 e 29 gennaio e del 10 febbraio 1546 (Vat. lat. 6177, rispettivamente ai ff. 68r, 70r e 71r). 123 Vat. lat. 6177, ff. 86r-87v; lettera datata al 31 marzo 1546. 124 Vat. lat. 3966, f. 1r, edito I due primi registri cit., p. 41. 125 Reg. lat. 2023, ff. 324r-325r. 126 Vat. lat. 6178, f. 88r: «et quanto al Theodoreto, essendo finito de rincontrare, si potrà conservare costì diligentemente, percioché io non intendo che venga a Trento, se non con la occasione di persona fidata».
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nell’Index librorum graecorum manuscriptorum qui sunt in bibliotheca Romae, ossia nella parte della collezione personale del cardinale custodita nella residenza romana di via Giulia, mentre l’altra sezione si trovava presso il palazzo di famiglia a Montepulciano127. Di lì venne estratto per essere impiegato come base per la perigliosa stampa del 1547; fatto che spiega la condizione in cui si trova attualmente: scissus et corruptus, quo usi sunt impressorum128. Ossia rovinato e segnato sia da tracce di inchiostro sia dall’intero corredo di indicazioni che i tipografi apponevano all’esemplare da riprodurre; che è dire la stessa sorte che cinque anni prima era toccata agli attuali Ott. gr. 453-455, impiegati per la stampa del Commentarium in Evangelia di Teofilatto di Bulgaria129. Anche in questo caso le soluzioni grafiche sono quelle consuete; si tratta cioè di un codice vergato con la mano à la Vergèce. In piena continuità con la prassi lavorativa attestata dalle copie del biennio francese, anche l’Ott. gr. 39 presenta un incipit che imita molto da vicino l’andamento grafico del padre Angelo, arioso elegante e molto sostenuto, che con l’avanzare delle carte inizia ad oscillare nell’inclinazione delle lettere, nell’aggetto dei tratti ascendenti e discendenti, e nel ductus, con effetti sulla nettezza dell’esecuzione delle singole lettere e delle parole, che perdono in chiarezza, perspicuità ed eleganza. Non mancano di tanto in tanto improvvisi tentativi di recupero, specie in corrispondenza dell’inizio di libri o capitoli nuovi, ma che non giungono mai a stabilità prolungata. In questo caso la distanza che separa l’impression d’ensamble del primo foglio da quelli seguenti è veramente notevole: la flessuosità del tratto si perde progressivamente per lasciar spazio a una corsiva elegante e riuscita, ma assai meno morbida e minuta, più asciutta, che talora viene eseguita con tratteggio così rapido e duro da perdere ogni ariosità; ossia un nuovo esempio della già citata mano à la Vergèce moins surveillée. Si vedano in sinossi i ff. 1r, 14r e 21r dell’Ott. gr. 39 per avere idea di quanto possa essere ampio l’excursus esecutivo di Pietro (tavv. I-II-III). A questo si aggiungano gli effetti dell’altra forza in campo, ossia di quella tendenza a tentare altre vie stilistiche e a sperimentare soluzioni diverse in corso di copia, quasi forzando i margini dello stile per sfiorare possibilità espressive nuove. I ff. 77r e 89v, tra gli altri, ne offrono una significativa dimostrazione. 127
CARDINALI, En jouant avec cit., pp. 36-38. Con queste parole sono descritti nell’inventario della biblioteca greca di Cervini gli Ott. gr. 453-455; si veda R. DEVREESSE, Les manuscrits grecs de Cervini, in Scriptorium 22.2 (1968), pp. 250-270, segnatamente p. 266. 129 L. DOREZ, Le cardinal Marcello Cervini et l’imprimerie à Rome, in Mélanges d’archéologie et d’histoire 12 (1892), pp. 289-313 e PASCHINI, Un cardinale editore cit. 128
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L’azione di ognuna di queste due diverse forze, di per sè stesse contraddittorie, va considerata con la massima attenzione, poiché permette una comprensione più approfondita della personalità del copista e un ampliamento considerevole del suo catalogo. L’individuazione dell’esecuzione moins surveillée svela i caratteri essenziali, la versione basica della mano di Pietro così come essa appare prima di ogni tentativo di imitazione paterna e di slancio calligrafico (che è poi quella che si è già vista nei fogli meno “controllati” del Burn. 104 e del Paris. gr. 2458). Questo tracciato minimo permette sia di espungere dal suo catalogo copie attribuite senza fondamento, come nel caso del manoscritto 8406 della Bibliothèque de l’Arsenal130, sia di riconoscere la sua opera in ambiti, nei quali fino ad ora non è stata avvistata, perché influenzata e condizionata dal mutamento di alcune varianti che incidono sulla scrittura di qualsiasi calligrafo, come la figura e l’autorevolezza del committente, le finalità e le circostanze della copia, il tipo di carta, il tempo a disposizione, il contesto della scrittura. Dall’altro lato, la volontà di sperimentare e mettere a punto nuove possibilità scrittorie, che esprimessero la sua versatile arte di copista e incrementassero la sua offerta commerciale, permette di attribuire a Vergezio senza alcuna difficoltà modalità espressive diverse rispetto a quelle per cui è finora noto. 7. A fianco di «messer Guglielmo» Alla luce degli elementi appena considerati ritengo che assuma un significato nuovo e un interesse ancor maggiore il periodo di prova presso Cervini, quando le fils de Vergèce ricevette le prime commissioni da Sirleto, cui sopra si è fatto cenno. Sarà stato forse in greco che il calabrese avrà chiesto a Pietro di prestargli aiuto nei suoi progetti, ché era quella l’unica lingua che i due condividessero. E in greco gli avrà chiesto di trascrivere «la vita di san Pietro et Paolo et una oratione sopra le vincole di san Pietro del libro del Colotio», ossia il Commentarius metaphrasticus dei Santi Apostoli Pietro e Paolo131 e il De catenis S. Petri132 dal Vat. gr. 1083133, che all’epoca era possesso di 130
Il manoscritto gli è stato attribuito, sulla base delle ricerche di Henri Omont, da VOSchreiber cit., p. 383, ripreso da RGK I 344.
GEL-GARDTHAUSEN, Die grieschischen 131 BHG 1493; CANT 196.
132
BHG 1486; CPG 4745. Si veda la lettera del 19 dicembre 1545 (Vat. lat. 6177, f. 180r-181r): «Fra tanto lui scrive et ha finito la vita di san Pietro et Paolo et una oratione sopra le vincole di san Pietro del libro del Colotio, quali m. Antonio potrà portare a V. S. R.ma». 133
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Angelo Colocci134. Tuttavia, vuoi perché le due copie furono spedite a Trento in fogli sciolti135, vuoi perché Cervini si rese poi conto di aver appena acquistato un codice che conteneva anche i due testi in questione136, vuoi perché anche la Vaticana custodiva più di un testimone di entrambi137, la trascrizione di Vergezio non appare a tutt’oggi conservata. Sempre in greco Sirleto avrà chiesto a Pietro di dividersi il lavoro di copia delle lettere di Basilio di Cesarea dall’esemplare che era riuscito ad ottenere nell’estate del 1545 dalla collezione Salviati, prima che questi partisse per le ferie: l’attuale Vat. gr. 2209, membranaceo datato al X-XI secolo138. Il legame che lo univa a Francisco Torres, la conoscenza di Ermodoro e la collaborazione con Pietro avranno certo avuto il loro peso nell’ottenere dal cardinale il codice, ma il tempo a disposizione era poco, tanta la fretta, non solo per non contrariare l’eminentissimo proprietario (e Sirleto è uomo apprensivo), ma anche per la curiosità di poter subito metter mano allo studio di un testo così prezioso e utile. Il grande cappadoce avrebbe permesso di restaurare i buoni costumi della religione, dando a Cervini un nuovo strumento per la sua politica di riforma ecclesiale, e il testimone di Salviati conteneva assai più testi di quelli fino ad allora impressi139 (fig. 7). Si trattava di approntare una trascrizione non d’apparato, ma di servizio; preliminare allo studio. Dunque, tanta lena, formato ridotto, carta di scarsa qualità, nessuna rigatura dei fogli, «con pressa»140 — o «in tempo rubato», come avrebbe detto Fulvio Orsini141 —, nessuna velleità estetizzante. Non serviva tanto un calligrafo, ma un copista; pochi svolazzi e lavoro sodo (anche Salviati, come il cugino Ridolfi, ogni volta che lasciava 134
CARDINALI, Autoritratto di cardinale bibliofilo cit., pp. 207-210. Si considerino le lettere sirletiane del 3 e 17 gennaio 1546 (Vat. lat. 6177, ff. 105r-106r e 153r-155v). 136 Oltre alla lettera cerviniana del 15 gennaio 1546 (Vat. lat. 6178, f. 67r), si legga CARDINALI, Autoritratto di cardinale bibliofilo cit., pp. 207-210. 137 I due testi tratti dal Vat. gr. 1083 erano attestati anche nella collezione pontificia: il Commentarius metaphrasticus si trova nei Vat. gr. 820, ff. 65r-75r, 822, ff. 54r-72r e 823, ff. 35r-49r, tutti e tre presenti nell’inventario del 1533 e custoditi nella publica graeca (Librorum Graecorum Bibliothecae Vaticanae cit., pp. 5 e 22); mentre il De catenis S. Petri si poteva leggere nel Vat. gr. 817, ff. 135r-154r, anch’esso presente in Vaticana nel 1533, ma non accessibile al pubblico, perché conservato nella parva secreta (ibidem, p. 98). 138 Codices Vaticani Graeci. Codices 2162-2254 cit., pp. 177-184. 139 Sulla politica di riforma ecclesiale di Cervini e il ruolo dei Padri della Chiesa, specie quelli greci, si vedano QUARANTA, Marcello II Cervini cit., pp. 437-458 e CARDINALI, Il Barberinianus gr. 532 cit., pp. 61-69. 140 Vat. lat. 6177, f. 100v. 141 Milano, Biblioteca Ambrosiana (d’ora in poi BA), D 423 inf., f. 18r; lettera di Fulvio Orsini a Gian Vincenzo Pinelli datata: «Da Roma, et in S. Giovanni in tempo rubato, alli 2 di novembre 1577». 135
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PARTE PRIMA
Fig. 7 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 2209, f. 1r: esemplare appartenuto al cardinale Giovanni Salviati, dal quale Sirleto e Vergezio copiarono l’Ott. gr. 149.
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Roma, faceva riporre i libri: bisognava fare in fretta). Una situazione, questa, assai imbarazzante per chi, come Pietro, si trovasse a debuttare: gli si chiedevano celerità e sobrietà, proprio quando avrebbe potuto e dovuto produrre il suo coup d’essai. Come venne fuori da questa situazione lo rivela la copia prodotta, che questa volta è possibile identificare. Il risultato finale, pronto alla fine di novembre 1545142, ritengo, infatti, vada identificato nell’Ott. gr. 149, manoscritto cartaceo in quarto (e che, dunque, data all’estate-autunno 1545143), in cui a Sirleto sono già stati riconosciuti i ff. 1r-12v, 14r-16r, 18r, 66rv, 75r-144v, 177r-186r144, mentre è a Pietro che propendo a ricondurre i ff. 13rv, 16v-17v, 18v-65v, 66v-74v, 145r-176v, 186r-214r. Un’attribuzione tutt’altro che pacifica, non immediata e insieme foriera di significativi sviluppi. Anzitutto, vanno illustrate le ragioni esterne e interne che portano a considerare come unica la personalità di questo collaboratore di Sirleto, malgrado la variabilità impressionante di cui dà prova in questa occasione. Se si considerano le condizioni esterne della copia, vanno ricordati la penuria di copisti greci a Roma: «scrittori ci sono pochi»145, lamentata ripetutamente non solo da Sirleto, e il fatto che, trattandosi della trascrizione da un unico antigrafo ed eseguita in poco tempo, non avrebbe senso supporre un cambio di collaboratori, ai quali attribuire almeno i due diversi tipi di scrittura che appaiono ad una prima analisi. Dal punto di vista interno, ossia quello della fascicolazione, del tipo di carta e di inchiostro e, dunque, dell’aspetto materiale della copia, non emergono elementi per ipotizzare forti cesure nel lavoro e una assegnazione di fascicoli diversi a due copisti oltre a Sirleto, come, del resto e significativamente, non ha ritenuto di fare già il Repertorium der griechischen Kopisten146. Scorrendo, dunque, come l’opera di un unico scriba i ff. 13rv, 16v-17v, 18v-65v, 66v-74v, 145r-176v, 186r-214r, si riconosce ai ff. 145r-168v e 186r188v la mano à la Vergèce moins surveillée, ossia quella stessa dell’Ott. gr. 39 (e degli esemplari eseguiti in Francia ante 1545), che permette di riconoscere in Vergezio il collaboratore di Sirleto. L’effetto di maggior confusione 142 Vat. lat. 6178, f. 65r (lettera datata al 7 dicembre 1545): «Quando le epistole nuovamente trascritte del sudetto San Basilio non sieno legate, facciansi legare». 143 Va così corretta la datazione al XVIII secolo proposta da Codices manuscripti graeci Ottoboniani cit., p. 83. 144 RGK II 117 = III 154. 145 L’espressione è tratta dalla lettera di Annibal Caro a Felice Paciotto (ANNIBAL CARO, Lettere familiari, III: Agosto 1559 – Ottobre 1566, edizione critica con introduzione e note di A. GRECO, Firenze 1961, pp. 80-82, segnatamente p. 81). 146 RGK II 117 = III 154 non opera distinzioni ulteriori nelle parti non sirletiane del codice.
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e minore pulizia grafica dei fogli dell’Ott. gr. 149 rispetto agli esemplari finora considerati si spiega con un sistema di ragioni, che sono poi le variabili principali del lavoro di trascrizione nel XVI secolo: il tipo diverso di committente: non più il cardinal Cervini, ma messer Guglielmo; di manufatto da realizzare: non una copia calligrafica, ma una trascrizione col tempo contato; di carta impiegata: qui assai più scadente, che assorbe l’inchiostro e dilata il tratto; oltre all’assenza di rigatura a scandire le linee di scrittura. Passando ai ff. 168v-174r e 189r-214r, si nota che la mano di Vergezio, quando sia particolarmente pressata, magari perché in prossimità della fine del lavoro, e accelera il ductus, finisce per scadere in una versione estremamente corsiva e grossolana nell’esecuzione, scomposta e senza nessun segno di cura. Se rimane riconoscibile il tratteggio delle lettere, delle legature e dei nessi, incontrato nelle copie più sorvegliate di Pietro, questo viene come spogliato di ogni velleità estetizzante e di “bello scrivere”, e sfigurato dal predominare della fretta. Per comodità nostra la chiameremo mano à la Vergèce en fuite, perché rappresenta l’esito scrittorio più corsivo della scrittura che Pietro apprese nell’atelier paterno (tav. IV). A questo punto appare completa in tutti e tre i suoi gradi la climax della mano di Pietro che, man mano che aumenta il ductus e diminuisce la nettezza di tratto, passa ad esecuzioni sempre più corsive e meno decorative: main à la Vergèce → main à la Vergèce moins surveillée → main à la Vergèce en fuite
Le due versioni à la Vergèce, ossia quella moins surveillée e quella en fuite, sono compresenti al f. 176rv, in cui scivolano impercettibilmente una nell’altra, senza alcuna cesura, ma in seguito a una progressiva accelerazione del ductus (tav. V-VI). Un passaggio fluente che prova inequivocabilmente l’identità di mano al di là — o, meglio, al di sotto — di ogni variante. Fin qui nulla di particolarmente raro o significativo, se non che nei fogli che spettano a Vergezio si nota un altro tipo di scrittura, dall’esecuzione anch’essa assai curata e chiaramente calligrafica, ma il cui aspetto più eclatante, da un punto di vista generale, appare l’andamento verticale dei tratti, senza più inclinazione a destra à la Vergèce, acuito da un effetto di leggera compressione laterale. Per comodità espositiva la chiameremo main tarabiscotée, ad indicarne la costruzione artificiosa e innaturale (tav. VII). Non si tratta di un nuovo grado della climax sopra indicata, ma di una vera e propria alia manus, che avrà anch’essa i suoi differenti livelli esecutivi. Il corpo scritto appare molto compatto e pieno, privo di rotondità, non più arioso, ma al contempo studiato e lezioso. Molti dei tratteggi delle let-
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tere rimangono invariati rispetto alla mano à la Vergèce, ma verticalizzati. Ogni elemento tondeggiante è trasformato in retta perpendicolare al rigo di scrittura; quelli discendenti sono piegati all’indietro (coda del λ e del ρ, quando legano con la lettera precedente). Tutto è più disciplinato e assai poco corsivo. Castigato. C’è un elemento che avvicina questa ricerca a certi modi di Provataris, ma senza la sua cadenzata ariosa simplicitas. Nelle primissime pagine, quando il calamo è ben temperato e tenuto in verticale perfetta, c’è come l’eco di stilemi onoriani, di quella sua costruzione filigranata. Il tratteggio è lento, staccato, pignolo, minuto. L’impressione è quella di una lavorazione sull’incudine a colpi di martello, come l’opera di un fabbro. Che si tratti di una sperimentazione alla luce delle più tipiche acquisizioni del panorama coevo? Del tentativo, cioè, di affiancare allo stile français paterno una modalità nuova e differente, molto più simile a quella in uso a Roma? Quasi che Pietro provasse a conferire al suo greco una cadenza italiana, liberandosi di quello spiccato penchant a destra che probabilmente nell’Urbe doveva suonare franzese. Propri di questo tipo di mano sono alcuni tracciati, come quello dell’ε maiuscolo, del θ minuscolo e del ι in legamento, ma nel complesso permangono le stesse soluzioni della mano à la Vergèce, sebbene piegate e quasi “battute” per ottenere l’effetto di cui si è appena detto. Ne è prova il fatto che, ogni volta che Pietro si stanca o si distrae o inizia a correre, gli sfuggono alcune forme più morbide e sinuose, sulle quali dimostra di aver allentato i colpi di martello: si paragonino il f. 39r di perfetta serrata calcografia agli ondivaghi arruffamenti del f. 17v, che potremmo chiamare main tarabiscotée moins surveillée. Decisamente, la tenuta non è mai stata il suo forte (tavv. VIII-IX). Ed è proprio grazie a questo suo difetto di costanza che ai ff. 174r-176r si registra il passaggio, ancora una volta fluido e impercettibile, sicuramente inconsapevole, tra la mano à la Vergèce moins surveillé e quella tarabiscotée, che è quella di tutti gli altri fogli del manoscritto (ff. 13rv, 16v-17v, 18v-65v, 66v-74v e 174r-175v; tavv. X-XIII e V-VI). Appare evidente che sono ambedue l’opera di uno stesso scriba. Inoltre, a rafforzare la nostra ipotesi sta il fatto che, in comune con la prima, anche questa seconda mano di Vergezio dimostra di subire gli effetti delle due forze registrate in precedenza: una tenuta scarsa e uno sperimentalismo spiccato — che si esprime principalmente in variazioni di ductus e di inclinazione, assai più che nella morfologia delle lettere o nella scelta consapevole di alcuni grafemi —, dando luogo a intere pagine in cui un rigo differisce dall’altro, come accade ai ff. 16v-17v e 18v-22v. Al di là dei cedimenti anche in questo secondo ambito, però, permane fermo il fatto che siamo di fronte a una seconda possibilità scrittoria o alia
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manus, che Pietro poteva vantare nel suo curriculum e che usa alternatamente alla prima. Una seconda mano che è quella con cui fu vergato il Coisl. 43 e che permette di chiudere — ma soltanto ora — il cerchio lasciato aperto sopra: l’arctissimum vinculum che la filologia rilevava tra Vat. gr. 2174 e Coisl. 43 trova ora un altrettanto arctum ligamen di tipo paleografico e, al contempo, contribuisce a corroborarlo con un caso esemplare. Alla luce del tertium — che in questo caso datur nell’Ott. gr. 149 con i suoi scivolamenti dalla scrittura à la Vergèce a quella tarabiscotée (e viceversa) — ecco che le contrariétées pascaliane tra le due mani che hanno vergato il testo di Filone si accordano meravigliosamente tra loro nel profilo di un unico copista. Da un punto di vista biografico ne consegue che i mesi di aprile-novembre 1545, ossia quelli che corsero tra l’arrivo di Pietro a Roma e la sua assunzione presso Cervini, vennero occupati (ed economicamente sostenuti) dal lavoro di copia del Filone per Giovanni Salviati: solo una misteriosa vicenda di gentiluomini fiorentini e di pirati corsi (che nulla hanno a che vedere con Napoleone Bonaparte) avrebbe smembrato i due volumi dell’apografo, ora divisi tra Parigi e il Vaticano147. Per quel che è della paleografia, chi vide il Coisl. 43 a cento anni esatti dalla sua confezione non potè trattenersi dal definirlo: «Le tout de la plus belle et plus nette escriture qui se puisse voir»148, facendo eco, quasi verbatim, alle lodi della scrittura di Pietro cantate da Sirleto. 8. Un caso di «digrafismo» orizzontale o «poligrafismo» La nostra ricostruzione giunge così a un punto di svolta, sul quale è necessario fermarsi per qualche considerazione. Pietro è capace di alternare a quella à la Vergèce, appresa ed elaborata in Francia presso suo padre (e che vedremo essere più persistente nel tempo, quasi “naturale”), una seconda mano altrettanto, se non assai più curata ed artificiosa, che ho appositamente denominato main tarabiscotée. Se si amasse la logica moderna, si potrebbero formalizzare così le due possibilità scrittorie coi loro gradi di corsività d’esecuzione:
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1. main à la Vergèce → main à la Vergèce moins surveillée → main à la Vergèce en fuite 2. main tarabiscotée → main tarabiscotée moins surveillée 147
CARDINALI, La lente dissolution cit. Così nell’inventario del 1645, edito da Missions archéologiques françaises en Orient aux XVIIe et XVIIIe siècles. Documents publiés par H. OMONT, II, Paris 1902, pp. 858-863, segnatamente p. 861, che ho illustrato in CARDINALI, La lente dissolution cit. 148
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Ora, quando ci si trova di fronte a una duplice possibilità espressiva da parte di un medesimo copista, si è soliti parlare di «digrafismo». È solo da appena un ventennio che la paleografia greca, sollecitata da quella latina, ha avviato una riflessione sull’educazione grafica degli scribi e sulla possibilità che un medesimo copista impieghi scritture diverse nel suo lavoro149. L’indagine si è inizialmente appuntata su volumi di epoca medio e tardo bizantina150 con speciale attenzione a quelli del X secolo151 e solo recentemente ha iniziato a scendere verso il XIII, il XIV e il XV secolo152; mai — a quanto mi consta — fino al XVI153. In tutti questi ambiti l’alternanza si dà tra una scrittura posata e calligrafica, da una parte, e corsiva, dall’altra154. In altre parole, lo stesso copista è in grado di καλλιγραφεῖν e di ταχυγραφεῖν, ossia di variare di ductus155 in subordine a una volontà di recupero di modelli grafici antichi e dalla forte valenza ideologica156 o di differenziazione del testo dalle parti sussidiarie (marginalia, adnotationes, scholia …)157 oppure di distinzione tra tipologie di manufatti destinate a 149 D. BIANCONI, «Duplici scribendo forma». Commentare Bernard de Montfaucon, in Medioevo e Rinascimento, n.s., 23 (2012), pp. 299-317 ha, infatti, dimostrato come la questione fosse già ben presente a Montfaucon e non fosse sfuggita all’occhio di Alphonse Dain. 150 La prima iniziativa in questo senso si deve a G. DE GREGORIO, Καλλιγραφεῖν / ταχυγρα φεῖν. Qualche riflessione sull’educazione grafica di scribi bizantini, in Scribi e colofoni. Le sottoscrizioni dei copisti dalle origini all’avvento della stampa. Atti del seminario di Erice. X colloquio del Comité international de paléographie latine (23-28 ottobre 1993), a cura di E. CONDELLO e G. DE GREGORIO, Spoleto 1995, pp. 423-448. 151 A questo periodo si interessano i due contributi di M. L. AGATI, Digrafismo a Bisanzio. Note e riflessioni sul X secolo, in Scriptorium 55 (2001), pp. 34-56 e EAD., Παλαιογραφικά. Supplemento ai copisti della Turcocrazia (1453-1660) e digrafismo mediobizantino, in Scripta 5 (2012), pp. 9-27. 152 Si vedano gli studi di D. BIANCONI, La biblioteca di Cora tra Massimo Planude e Niceforo Gregora. Una questione di mani, in Segno e testo 3 (2005), pp. 391-438 e ID., Le pietre e il ponte ovvero identificazioni di mani e storia della cultura, in Bizantinistica 8 (2006), pp. 135-181; da ultimo N. KAVRUS-HOFFMANN, The Scribe Gennadios of the Hodegon Monastery: a Case Study of Digraphism and Brotherly Spirit, in Segno e testo 10 (2012), pp. 363-376 con bibliografia. 153 Non va dimenticato tuttavia quanto notava A. DAIN, Les manuscrits. Nouvelle édition revue, Paris 1964, p. 29. 154 Così già Montfaucon, citato da BIANCONI, «Duplici scribendi forma» cit., p. 301: «Calligraphi, quidem ii sint, qui pulcro quodam, eleganti, & rotundo, sed ligato tamen, charactere scribunt; Tachygraphi autem ii qui abbreviationibus multis, ductibusque singularibus atque expeditiore manu scripturam absolvunt». Si aggiunga anche, come sostanzialmente equivalente, l’opposizione tra γράμματα κατηπειγμένα e γράμματα ἀνεπιτήδευτα, introdotta e commentata ibidem, pp. 305-306. Per il XIV secolo si veda SPERANZI, «De’ libri che furono di Teodoro» cit., che illustra i casi di Giorgio Trivizia, Cosma Trapezunzio e Teodoro Gaza. 155 DE GREGORIO, Καλλιγραφεῖν / ταχυγραφεῖν cit., pp. 425-426, 428 e 441. 156 DE GREGORIO, Καλλιγραφεῖν / ταχυγραφεῖν cit., p. 425. 157 DE GREGORIO, Καλλιγραφεῖν / ταχυγραφεῖν cit., p. 430, AGATI, Παλαιογραφικά cit., pp. 38
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usi diversi: librario o burocratico, privato o pubblico158. Si tratta, però, sempre di diversi, e soprattutto gerarchizzati, livelli scrittori159, ossia di possibilità declinate diremmo “in verticale”160, per cui uno stesso scriba poteva differenziare la scrittura di un codice d’apparato da quella di un volume di uso comune, oppure, all’interno di uno stesso manufatto, il testo da tutti i materiali esegetici e di studio che lo accompagnavano161. Degli esempi non mancano nemmeno in età umanistica e tra questi ritengo che possa ritenersi emblematico il caso del Vat. gr. 972, contenente l’Alessandra di Licofrone col commento di Giovanni Tzetzes, già ricondotto alla collezione greca di Colocci162. In altra sede ho riconosciuto l’esemplare dovuto alla mano di Giorgio Balsamone163, che distingue il testo poetico di Licofrone mediante il ricorso a un modulo più grande e ampio, cadenzato e ricco di vistosi elementi decorativi, mentre esegue il commentario in dimensioni minori, con una scrittura spoglia e trattenuta, potata di ogni fioritura decorativistica, e monocorde, leggermente più rapida nell’esecuzione. Da questo punto di vista, verrebbe da ipotizzare che il testo di Licofrone col commentario di Tzetzes possa essere stato, dal Paris. gr. 2723 al Vat. gr. 972, un vettore importante di digrafismo, dal momento che le varie copie tendono a riprodurre la bipartizione tra testo poetico calligraphice e commento tachygraphice, per usare i termini di Montfaucon164 (fig. 8). Il caso che qui interessa, invece, ossia quello di Pietro Vergezio, è quello di un digrafismo diremmo “orizzontale”, ossia di una duplice modalità e 44 e KAVRUS-HOFFMANN, The Scribe Gennadios cit., p. 367. 158 DE GREGORIO, Καλλιγραφεῖν / ταχυγραφεῖν cit., p. 426. 159 AGATI, Παλαιογραφικά cit., p. 37: «Molte volte … si tratta di una vera e propria prassi nell’ottica di una visione gerarchica delle categorie o parti testuali da copiare e da gestire»; si vedano anche BIANCONI, La biblioteca di Cora cit., pp. 394-396 e KAVRUS-HOFFMANN, The Scribe Gennadios cit., p. 367. 160 Ragiona giustamente in termini di livelli scrittori differenti e gerarchizzati, traendone interessanti interrogativi per le ricerche future, BIANCONI, La biblioteca di Cora cit., pp. 394396 e ancora in Le pietre e il ponte cit., p. 136. 161 È quanto emerge anche da BIANCONI, «Duplici scribendi forma» cit., pp. 300-302 e da SPERANZI, «De’ libri che furono di Teodoro» cit., pp. 324, 327-328 e 335-337. 162 G. MERCATI, Il soggiorno del Virgilio Mediceo a Roma nei secoli XV-XVI, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia 12 (1936), pp. 105-124, poi in ID., Opere minori, IV: 1917-1936, Città del Vaticano 1937, pp. 525-545, segnatamente p. 533 nt. 14. 163 Se RGK III 454 lo nega, giustamente, a Michele Apostolis, per parte mia lo attribuisco allo stesso copista del Vat. gr. 2246, che Codices Vaticani Graeci. Codices 2162-2254 cit., p. 403 riconosce in Giorgio Balsamone; trattandosi di una questione un pò più problematica di quel che sembri, dato il carattere più noto dell’autografia di Balsamone, che è quella del Vat. gr. 2240 e non identica a quella dei Vat. gr. 972 e 2246, rimando alla trattazione che ne faccio in CARDINALI, La lente dissolution cit.: essa non è, del resto, dirimente e necessaria al discorso che qui interessa. 164 BIANCONI, «Duplici scribendi forma» cit., pp. 300-301 e nt. 3.
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Fig. 8 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 972, f. 10v: esempio di digrafismo da parte del copista Giorgio Balsamone.
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espressiva all’interno di uno stesso livello scrittorio, che è quello calligrafico o posato: in sintesi, Vergezio possiede due modi di καλλιγραφεῖν. Alla prima possibilità, che egli deve all’educazione paterna e che, data la precocità, rimase per lui quella più naturale e immediata, Pietro elabora — probabilmente a seguito del contatto con l’Italia e con i fermenti del mondo romano — una seconda modalità espressiva di carattere, anch’essa, posato e calligrafico, da usare in maniera alternativa alla prima. Nell’ambito di queste pagine, dunque, il termine «digrafismo» verrà usato — in maniera inedita rispetto alla bibliografia in materia — ad indicare la situazione di copisti che elaborano una alia manus nel corso della loro carriera165, non come una evoluzione in senso diacronico della propria arte scrittoria166, ma come una seconda possibilità espressiva, impiegata in maniera congiunta alla prima nell’ambito della confezione di uno stesso manoscritto, ma anche solitaria e disgiunta in manufatti diversi. Viene, dunque, da chiedersi se non sia opportuno distinguere il caso qui in esame da tutti quelli finora noti di digrafismo (tra i quali va rubricato anche quello di Giorgio Balsamone), contrassegnandolo come un fenomeno diverso e parzialmente autonomo, che si potrebbe chiamare col nome di «poligrafismo». Al momento, ci si accontenterà di questa presentazione per riprendere la ricostruzione della carriera e dell’opera del copista cretese, sceso dalla Francia, rinviando alla parte finale di questo volume per un approfondimento teorico e metodologico del problema, e a una sua contestualizzazione storica e culturale. 9. Di nuovo a via Giulia Una riprova di questo caso di poligrafismo viene dalla lettera che Sirleto spedì al cardinale il 12 settembre 1545167, ossia un paio di mesi prima di parlargli di Pietro: vi si trova un lungo inserto greco, che contrariamente alle proprie abitudini, il calabrese non scrive manu propria, ma affida a un copista. Ora lo si può riconoscere in Vergezio, che coglie l’occasione della sua prima missiva al cardinale per sfoderare la sua lettera da parata e trascrive un passo di Zonara appena rinvenuto in un codice della Vaticana nel suo «charactere» tarabiscoté, ossia con la stessa mano impiegata per gran parte della copia delle lettere di Basilio nell’Ott. gr. 149 e del Coisl. 165
Il livello più prossimo a questo allargamento semantico che qui propongo — sebbene ancora legato al caso tradizionale di due livelli scrittori differenti — mi pare quello di AGATI, Παλαιογραφικά cit., p. 15, che provvede ad affrancare il concetto di digrafismo da quello, fino ad allora spesso tacitamente connesso, di bilinguismo. 166 Concordo pienamente, infatti, con BIANCONI, La biblioteca di Cora cit., p. 395. 167 Vat. lat. 6177, ff. 225r-226v.
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43, e il cui uso così sorvegliato si può spiegare — credo — col fatto che queste erano ancora le prime prove che gli venivano richieste da Sirleto e dalle quali egli sapeva che poteva dipendere la propria assunzione. In questo caso poi si trattava di sottomettere lo specimen della propria mano al cardinale; sebbene Sirleto non facesse menzione a Cervini dell’identità del copista che impiegava, la lettera rappresentava comunque per Pietro il primo, indiretto contatto con il «cardinale Santa Croce». Sei mesi dopo, il 6 marzo 1546168, nel pieno delle operazioni di copia dell’Eranistes e del Compendium di Teodoreto, Sirleto torna a servirsi, per allegare a una lettera a Cervini un brano dello pseudo-Giustino169, del «giovane greco», che «con pressa» vergò un foglio con il suo carattere à la Vergèce en fuite, in tutto identico a quello dell’ultimo fascicolo dell’Ott. gr. 149. In questo caso l’uso di questa mano si spiega col fatto che la decisione di aggiungere la trascrizione del testo greco venne presa all’ultimo e richiesta con fretta, come spiega la nota apposta al termine del brano. Un altro caso di impiego di Vergezio da parte di Sirleto, che è anche un’ulteriore conferma del suo poligrafismo, la si trova nell’attuale Vat. gr. 1890, ff. 196r-217v170, nel quale sono contenute le tre lettere canoniche di Basilio Magno ad Anfilochio171. La mano è quella tarabiscotée, mentre le correzioni e i marginalia sono inequivocabilmente attribuibili a Sirleto. Non pare, dunque, difficile riconoscere in questi fogli quella copia di cui il calabrese aveva scritto a Cervini il 3 gennaio 1546, ossia poco dopo l’inizio del periodo di prova del giovane: Adesso fo scrivere da questo giovane certi canoni di san Basilio ad Amphilochio vescovo d’Iconio, li quali per essere belli et necessarii alla determinatione di molte cose de la Chesa et per essere allegate in molti concilii et epistole canonice, ho pensato che sarà bene transcritti saranno mandarli a Vostra Signoria Reverendissima, se al lei altrimente non parerà. Son in tutto LXVII.
La proposta della copia fu apprezzata da Cervini («Piacemi ancora che 168
Vat. lat. 6177, ff. 98r-99v e 100rv. L’opera è la Cohortatio ad Graecos (CPG 1083) attribuita a Giustino Martire, ma in realtà spuria, che si può leggere in PSEUDO-IUSTINUS, Cohortatio ad Graecos. De Monarchia. Oratio ad Graecos, edited by M. MARCOVICH, Berlin – New York 1990, pp. 23-78; il brano fatto trascrivere da Sirleto corrisponde a Cohortatio ad Graecos 13, 1-4 (ibidem, pp. 40-41). 170 Codices Vaticani Graeci. Codices 1745-1962, recensuit P. CANART, I: Codicum enarrationes, In Bibliotheca Vaticana 1970, pp. 499-520, segnatamente p. 506; ritengo dunque che vada identificato in Pietro Vergezio lo scriba unus, Sirleto operam praestans indicato qui da Canart. 171 CPG 2900.188, 199 e 217. Le tre lettere di Basilio ad Anfilochio vescovo di Iconio sui canoni si possono leggere in SAINT BASILE, Lettres. Tome II, texte établi et traduit par Y. COURTONNE, Paris 1961, pp. 120-131, 154-164 e 208-217. 169
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PARTE PRIMA
il giovine greco scriva quei Canoni di S.to Basilio ad Amphilochio et come saranno finiti, harò charo me li mandiate»172) e completata in brevissimo tempo: «Ha già scritto certi canoni di san Basilio ad Amphilochio et parendole li mandarò»173. Proseguendo con la stessa mano che aveva iniziato a impiegare qualche mese prima per la gran parte della trascrizione delle altre lettere basiliane — mentre per il più ampio e importante Eranistes adottava quella ben più familiare e rodata à la Vergèce —, Pietro dà qui prova di un uso contemporaneo dei due livelli espressivi che aveva a disposizione, che variano a seconda del contesto e delle finalità della copia, del tempo a disposizione e della sua personale condizione di vita. In greco, infine, Sirleto dovette chiedere a Pietro di affiancarlo in un passaggio della sua traduzione latina di una Catena in Isaiam prophetam greca, cui lavorava già dall’estate 1545: nel Vat. lat. 6172, che contiene la gran parte del testo, ai ff. 45v-46r si legge la trascrizione di un passaggio originale del testo greco, nel quale non è ormai difficile riconoscere la main à la Vergèce moins surveillée di Pietro. Mano con la quale Vergezio aveva copiato anche, sempre per il cardinale, i testi di Demostene contenuti nel miscellaneo Paris. gr. 2489 ai ff. 89r99r: i fascicoli I, II e IV di quella silloge, del resto, avevo già ricondotto alla collezione cerviniana174 e l’annotazione recenziore posta al f. 100v, che li attribuisce ad Angelo Vergezio, dimostra di non essere andata troppo lontano dal vero. 10. L’epilogo di una vicenda freudiana La conclusione della trascrizione delle due opere di Teodoreto fu salutata da Cervini con compiacimento, ma a via Giulia non suscitò altrettanto sollievo. Essa riproponeva, infatti, la questione dei termini di assunzione di Pietro (alloggio, vitto e uno scudo mensile)175, che non erano più stati rivisti, malgrado il passare del tempo e il fatto che, quando erano stati
172 Lettera del 9 gennaio 1546 (Vat. lat. 6178, f. 68r). Appare, dunque, evidente come i fogli in questione ebbero da subito un destino diverso rispetto al resto della copia delle lettere poi rilegata unitariamente nell’Ott. gr. 149. 173 Lettera dello stesso 9 gennaio 1546 (Vat. lat. 6177, ff. 149r-152r). 174 CARDINALI, En jouant avec cit., p. 61. 175 Vat. lat. 6177, ff. 180r-181r; lettera del 19 dicembre 1545: «Quel giovane greco se contenta per alcuni giorni servire Vostra Signoria Reverendissima per il vitto et per un scudo il mese, ma quando lei sarà informata del’essere suo et il volrà tenere in casa, dandole una cosa honesta che lui possi stare, dice voler stare et servire quella di bonissimo animo. Per insin’a qui me par bon giovane».
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stipulati, prevedevano solo qualche giorno di prova prima dell’assunzione definitiva. Sirleto non aveva mancato nel frattempo di perorare la causa presso il cardinale — beninteso, in devota sordina — sia all’inizio del lavoro: «Questo giovane farà quanto Vostra Signoria Reverendissima l’ordina, scriverà il Theodoreto contra haereses et se confida fare che lei veda da le opere sue bona reuscita. Il che se farà, il raccomando a Vostra Signoria Reverendissima et massime essendo in gran bisogno d’essere vestito»176; sia al termine, senza conoscere ripensamenti: «Io per me per quel che ho visto et pratticato insiemi, non l’ho veduto fare sinon cose laudabili né l’ho cognosciuto vitio enorme, per il quale Vostra Signoria Reverendissima o altri dubiti accettarlo in casa et lui promette havere a fare sempre meglio. Se Vostra Signoria Reverendissima se risolve accettarlo, può anche dir l’animo suo di quel che li vuol dare»177. Cervini tace, o glissa, ma pare aver colto perfettamente la questione, ossia che il giovane non solo mira a stabilizzarsi, ma ha alzato la posta: «Lui non se contenta per uno scudo il mese, perché a mala pena le basta per scarpe et in vero sinon havesse havuto me, il quale l’ho sempre aiutato, non saria stato ordine posser stare. Non l’è mancato mai l’ordinario del pane et del vino et alcuni dinari, pure come ho detto accadeno molti altri bisogni. Lui dice che vorrebbe dui scudi il mese et una cappa et un saio l’anno, perché non li saria honore stando in casa di Vostra Signoria Reverendissima scrivere ad altri di fuore. Se le piacerà darli la provisione sopra detta et la cappa et un saio l’anno, lui se offre servire Vostra Signoria Reverendissima fidelmente et avanzarle molto più di questa provisione, perché de dì in dì mostrerà megliore opera et scriverà sempre più corretto»178. Sirleto, del resto, era famoso per le «molte elemosine continue» che dispensava «a certi poveri vicini un tanto per casa»: figurarsi quando si trattava di contribuire alla sopravvivenza di un collaboratore così prezioso179. Dopo una settimana, il cardinale, che sa bene che «tutti non si possono pascere di foglie di speranze»180, ma che era anche abituato a trattare con interlocutori ben più riottosi e agguerriti del suo messer Guglielmo, avanza 176
Vat. lat. 6177, ff. 149r-152r; lettera del 9 gennaio 1546. Vat. lat. 6177, ff. 86r-87v; lettera del 31 marzo 1546. 178 Ibidem. 179 MARCORA, Il cardinal Sirleto cit., pp. 200 e 202. 180 Del governo della corte d’un signore in Roma, Città di Castello 1883, p. 21; il trattato, opera di Cola da Benevento, venne stampato a Roma da Francesco Priscianese nel 1543; esso è attribuito comunemente a Priscianese, ma ora restituito al legittimo autore: P. SACHET, Priscianese, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, 85, Roma 2016, pp. 402-404, segnatamente p. 403. 177
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PARTE PRIMA
la controproposta, accettando l’aumento di stipendio da uno a due scudi mensili, ma allungando la proroga ad un anno «non lo volendo raffermare in tutto prima ch’io non lo veda»181. Dalla conca afosa sulle Alpi la cosa pare così tranquilla che l’Eminentissimo pensa già a cosa far copiare al giovane greco e si consulta con Sirleto, che però è in ambasce. Ancora una settimana e proprio nel giorno in cui Cervini vagheggia: «non so qual saria meglio di far trascrivere o l’altra opera sua De curandis affectibus Graecorum o pure il Concilio Fiorentino, quale è appresso del Maffeo»182, il calabrese cede e vuota il sacco. Parte da Roma, infatti, una lunga lettera, freudiana quant’altre mai, in cui Sirleto mescola fatti, riflessioni, citazioni, notizie in una sequenza che dimostra come la questione del copista fosse vissuta da lui in maniera assai più profonda e viscerale di un semplice fatto lavorativo. Quel giovane non era solo un collaboratore, ma un problema di carattere culturale e spirituale, che lo metteva in grande imbarazzo (e Sirleto è uomo apprensivo). L’esordio è, ovviamente, una mezza verità, confessata tra i denti: «Quanto al giovane greco, pare che non stia contento del partito, quantunque dica che vuol stare, pure credo che, ritrovando altro, parteria». Ma che la questione non riguardi, in realtà, il copista lo prova il fatto che, subito dopo la comunicazione, parta un mea culpa accorato, sebbene condito di erudizione: «Vostra Signoria Reverendissima me perdoni che io, per haver poca esperientia de le cose del mondo, molte volte resto ingannato et veggo che quel proverbio è verissimo: εὐαπάτητον ἡ ἁπλότης, facile decipitur simplicitas. Pure la prudentia de Vostra Signoria Reverendissima ha remediato alla mia simplicità de non haverlo voluto firmare in casa». Una excusatio non petita che rivela come Sirleto temesse di apparire agli occhi di Cervini l’ingenuo difensore di una causa sbagliata. Ma, prima di arrivare a svuotare il sacco, cerca (parziale) sollievo in una riflessione esistenziale che, se serve ad allentare la sua tensione interiore, rimandando la confessione del fatto, la dice lunga sulla sua Weltanschauung: «Finalmente me son risoluto che questa generatione de homini è levissima et inconstantissima et che è peggio poco fidele a Idio, quanto quelli santi padri greci Basilio, Nazanzeno, Chrysostomo, Cyrillo et molti altri son stati gravissimi et fidelissimi». In altre parole, Pietro Vergezio, greco, col suo comportamento scorretto e pretenzioso rappresenta il decadimento dei tempi moderni, facendo rimpiangere i veri antichi greci, ossia … Basilio Magno, Gregorio di Nazianzo, Giovanni Crisotomo e Cirillo di Alessandria. Ecco a chi pensa Sirleto, quando immagina i bei tempi andati, quando va 181 182
Vat. lat. 6178, f. 77r; lettera datata al 7 aprile 1546. Vat. lat. 6178, f. 78r; lettera datata al 14 aprile 1546.
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col pensiero agli antenati — che ovviamente sono sempre migliori di noi — di Vergezio, ma anche suoi. Il pantheon greco di messer Guglielmo non è quello dell’Olimpo, ma … quello della Patrologia del Migne! Segue un altro nodo interiore, che vede legati tanta paura, un filo di opportunismo e la determinazione a togliersi da una situazione che lo angustia, rimandando a Cervini ogni decisione: «Non di meno a Vostra Signoria Reverendissima non l’è venuto mal niuno, perché le resta già un bel libro, cioè Theodorito scritto, il quale revedemo adesso. Se per l’advenir il vorrà tenere in casa scrivendo et secondo l’opera satisfarlo de dui scudi il mese, il remetto ad lei, io son deliberato lasciar fare ad ogni uno il fatto suo, massime quando le persone non lo ricognosceno». Lo scopo è chiarito subito dopo: «Sempre che haverà scritto, io usarò la solita diligentia in revedere quel che haveva scritto, ma la conscientia mia non la vo maculare per tutto il mondo, nonché per uno homo». Tranquillizzato dall’aver chiarito la sua posizione, Sirleto può finalmente venire al punto e trovare la libertà di raccontare al padrone la discussione avvenuta negli ultimi giorni: «lui harrebbe voluto che sopra quella parola de Vostra Signoria Reverendissima et quel de più che vui giudicarete honesto, io havesse detto che merita quattro scudi»; di qui l’ansia di Sirleto che traspariva già dalle ultime lettere. Ne era nata una querelle, durante la quale il calabrese si era avventurato nel campo per lui ignoto e fastidioso delle questioni economiche, uscendone in modo insperatamente lucido e realista: «pure io l’ho concluso in questo modo, se ‘l cardinal Salviati che ha molto più intrata, non dà ad Georgio greco scrittore183 più che XXI giulio et collui scrive più corretto, in che modo Monsignor Reverendissimo Santa +, il quale ha manco, vuol dar a vui più, il quale scrivete manco corretto?» Fatte le debite equivalenze, il ragionamento suona così: se «Giorgio», che era Giorgio Balsamone, era pagato dal cardinal Salviati, che era il nipote di papa Leone X de’ Medici, 21 giulii mensili, come poteva Cervini, che era, tra l’altro, il figlio di un semplice funzionario vaticano, pagarne a Pietro addirittura 40? Quasi un
183
Quanto a Giorgio Balsamone, copista di Giovanni Salviati, si vedano HURTUBISE, La «familia» cit. p. 594; Codices Vaticani Graeci. Codices 2162-2254 cit., pp. XIII-XIV; RGK III 92; e CATALDI PALAU, La biblioteca del cardinale cit., pp. 87 e 89. Da questa menzione di Sirleto risulta anche che non può essere identificato con Giorgio Balsamone quel «Giorgio greco, che sta col Reverendissimo Salviati» che il 12 settembre 1540 era «in pericolo di morte» e che sarebbe morto pochi giorni dopo, secondo le informazioni di Bartolomeo Cavalcanti a Pier Vettori, come si sostiene invece in B. CAVALCANTI, Lettere edite e inedite, a cura di CH. ROAF, Bologna 1967, pp. 106-107; sulla questione rimando anche a CARDINALI, Requiem per un copista assassinato cit., p. 95 nt. 3 e ID., La lente dissolution cit.
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PARTE PRIMA
sillogismo aristotelico applicato all’economia domestica184. Lo sventurato «non ha saputo quel che se rispondere». Infine, l’ultima notazione, che vede un nuovo intervento del giannizzero di Cervini (e quando interviene Giovanni Battista, le cose si sbloccano sempre). Di fatto, si tratta di un ultimatum: «Io et messer Gioanbattista l’havemo detto che non piacendole questa conditione, il dichi; ha risposto che vuol fare secondo Vostra Signoria Reverendissma scrive et me ha detto che li dia un altro libro de scrivere. Le darò il Theodorito de curandis affectionum graecorum, se messer Nicolò Maiorano il volrà imprestare»185. Messer Guglielmo, simplex per sua stessa ammissione, dovette rimanere così sconvolto da tante discussioni sul prezzo del lavoro e tanto impressionato dalla scoperta di una grecità moderna così lontana da quella dei padri Cappadoci, che appena tre giorni dopo sente l’esigenza di riprendere la penna e scrivere al Cardinale. Anticipando la cadenza settimanale della loro corrispondenza, il 17 aprile vuole tranquillizzare Cervini, ma più probabilmente sé stesso, e annuncia: «Ho scritto a Vostra Signoria Reverendissima del Greco che non me parea che restasse contento per la provisione de dui scudi, massime non essendo d’oro, pure per insin’adesso par che s’acquieti. Non so quel che farà. Non perde il tempo, perché oltra che insieme riscontriamo il Theodorito, cava certe correttioni in uno libro de messer Lodovico Beccategli». Quasi un telegramma: Eminenza, tutto a posto. Stop (almeno per ora). L’atteggiamento di Pietro è peraltro comprensibile: da un lato, aveva coronato le sue aspettative, entrando in una familia cardinalizia, che gli garantiva vitto, alloggio e uno scudo al mese (senza contare quello scucito al simplex Sirleto), ma dall’altro si dovette render conto, calcolando il compenso che gli sarebbe spettato per la copia di Teodoreto, se fosse stato un freelance, che avrebbe potuto guadagnare complessivamente 650 baiocchi, ossia 6, 5 scudi, ossia 3, 25 scudi al mese186. Il calcolo è presto fatto, se si tiene conto che l’Ott. gr. 39 è un volume 184
I sistemi di equivalenza monetaria tra scudi, giulii e baiocchi, applicati al caso specifico dei copisti greci e al conteggio della loro opera, sono illustrati da CATALDI PALAU, Il copista Giovanni Mauromates cit., pp. 357-361. 185 Nella primavera del 1546 in Vaticana si conservava un solo esemplare dell’opera di Teodoreto di Cirro, quello contenuto nell’attuale Vat. gr. 626, ff. 1-116, custodito nel quinto armadio della bibliotheca parva secreta e inventariato come «Theodoriti Oratio gentilium passionum, ex papiro in rubro» (Librorum Graecorum Bibliothecae Vaticanae cit., p. 88). Il testo era già presente in biblioteca ai tempi di Leone X (Index seu inventarium cit., p. 106) nella stessa collocazione e con la stessa descrizione anche nell’inventario di Zanobi Acciaioli, mentre, data l’ubicazione nella sala secreta, era sfuggito alle inventariazioni del pontificato di Giulio II. Si veda anche DEVREESSE, Le fonds grec cit., ad indicem. 186 Rimando nuovamente ai calcoli di CATALDI PALAU, Il copista Giovanni Mauromates
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in folio di 130 fogli e che all’epoca la scrittura di un foglio era pagata al copista mediamente 5/6 baiocchi: moltiplicando 5 baiocchi per 130 fogli si ottiene una somma di 650 baiocchi, ossia di 6, 5 ducati. Se si ricorda che la trascrizione del testo occupò Vergezio per due mesi esatti, la quota mensile che gli sarebbe spettata è di 3, 25 scudi. «Non tutti si possono pascere di foglie di speranze», avrà esclamato tra sé Pietro, trovando un insperato appoggio nelle parole dei più recenti trattatisti di economia domestica prelatizia: «Chi vuole esser ben servito, bisogna operare che qualche premio sia presente, sì come sono presenti le fatiche»187. Quel che percepiva era lo stesso onorario di un garzone di cucina, del dispensiero o dello scalco di tinello: lui greco, figlio del copista del re (e il cuoco del cardinale riscuoteva tre volte tanto)188! Cervini avrà colto non solo il fatto in sé, quanto l’animo del suo devoto e inesperto messer Guglielmo, e non manca di rassicurarlo con parole dalle quali pare traspirare qualcosa del suo penchant gesuitico189. Per ben due volte lo tranquillizza e gli propone una lettura della situazione all’insegna della libertà interiore190: «Quanto al giovine greco, s’egli vorrà continuare di scrivere per dui scudi al mese, sta bene. Quando no, io non voglio torre mai ventura ad alcuno, et intanto io mi contento che l’uno et l’altro di noi sia libero, cioè ch’egli stia in casa fin che li piace, et scrivendo li corra la sudetta provisione, et io di tenercelo quel tempo che mi paresse». Del resto, il cardinale poteva guardare alla vicenda, così ansiogena per messer Guglielmo, anche da un altro punto di vista, altrettanto prossimo fisicamente, quanto lontano nella percezione e nella lettura complessiva. A Trento Cervini riceveva non solo le lettere di Sirleto, ma anche i dispacci della propria longa manus: Giovan Battista Cervini. Assai più stentoreo nell’espressione linguistica ed ellitico nella pennellata, l’uomo di fiducia del cardinale viveva la stessa vicenda in maniera assai più distaccata; come uno tra i tanti problemi che la sua mansione comportava: un giorno affitti e un giorno forniture alimentari; una volta notizie dalla Curia e un’altra il disbrigo della posta; talora copisti greci bizzosi e sospetti di doppiogioco. cit., pp. 357-361, che ricorda come quasi una decina d’anni dopo Gabriele Faerno corrector e Federico Ranaldi scriptor della Vaticana, vi ricevevano rispettivamente 5 e 2 scudi mensili. 187 Del governo della corte cit., p. 21, che assegnava a ciascuno dei quattro litterati in servizio in una corte uno stipendio di 8, 3 scudi mensili. 188 Un conteggio degli stipendi di una familia cardinalizia o nobiliare dell’epoca è proposto da Del governo della corte cit., pp. 21-24. 189 Mi limito, per il momento, a quanto raccolto e discusso da S. GIOMBI, Un ecclesiastico tridentino al governo diocesano. Marcello II Cervini (1501-1555) e la riforma della Chiesa fra centro e periferia, Ancona 2010, pp. 233-239, ma altri elementi conto di aggiungere nell’edizione del carteggio tra Marcello Cervini e Guglielmo Sirleto, che vado preparando. 190 Vat. lat. 6178, f. 80r.
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Tutto Giovanni Battista era abituato ad affrontare con letture non troppo complesse e piglio deciso. E il primo maggio 1546, a fronte dei patemi del fantastrico Sirleto191, la faccenda la leggeva così: «Il giovane greco li gira il cervello secondo se trova scritto di tal natione, ma di questo me ne governarò di sorte che lei non harà a penzarci»192. Non c’è dubbio che sapesse andare al sodo; ma bisogna anche riconoscere che questo faceva parte delle sue mansioni. Giovanni Battista è il perfetto Maestro di casa: «Sia vigilante e accorto di non esser ingannato da loro (scil. il personale stipendiato dal padrone), come, essendo altrimenti fatto, spesse volte potrebbe accadere; e però con vari esperimenti faccia pruova della loro lealtà, per conoscere se sono fedeli e conseguentemente se fidar se ne può»193. A che cosa pensasse Giovan Battista e come pensasse di governarsi, il cardinale forse non avrebbe potuto immaginarlo; certo è che non lo avrebbe mai ipotizzato Sirleto, che proprio in quei giorni iniziava a riaversi, essendo riuscito a svincolarsi dalla sorte del giovane copista agli occhi del suo padrone. E, invece, lui stesso venne convolto nell’epilogo senza ritorno in cui precipitò Vergezio e che così racconta a Cervini194: Questi dì passati, vedendo chel giovane greco non attendeva a scrivere per Vostra Signoria Reverendissima, ma havea preso un libro de fuore, oltra che io le ricordai quel che era il debito, ho avisato messer Gioanbattista, il quale per me le fe intendere che se levasse da camera tutti libri forestieri et che volea veder quel che scrivea dì per dì. Lui rispose che li libri li tenea per studiare et che non poteva o non voleva scrivere più che due carte il dì. Messer Gioanbattista li rispose chel Cardinale il teneva in casa, non per studiare, ma per scrivere et che assai studiava intendendo tutte le lectioni greche che io legevo ad altri195 et massime vedendo che questa risposta era maliciosamente fatta, ché li libri li teneva per transcrivere, non per studiare. Quanto alle due carte il giorno, rispose che non era honesto che alli strani scrivesse quattro et cinque carte il giorno, et a Vostra Signoria Reverendissima, da la quale ha il vitto et il salario, due, dove non metteria più che un’hora et meza il dì et che quando lui vedesse che per deboleza di stomaco o di corpo non potesse scrivere più, non saria tanto inhumano che volesse ricercarle più di quel che po, ma essendo certo che tutto quel che vuol torre dal servitio di Vostra Signoria Reverendissima è 191 Lettera di Giovanni Battista Cervini a Marcello del 10 luglio 1546, edita da Concilium Tridentinum Diariorum cit., p. 900: «Non è da mancare di respondare ad ogni lettera di M.r Guglielmo, perché questi letterati di quagiù hanno del fantastrico». 192 ASF, Carte Cervini 50, f. 174v. 193 Del governo della corte cit., pp. 47-48. 194 Lettera di Sirleto a Cervini del 26 maggio 1546, in Vat. lat. 6177, f. 235rv. 195 Alcune informazioni sull’attività di insegnante di greco svolta da Sirleto ha riunito P. SACHET, Guglielmo il greco: Sirleto e i progetti editoriali del cardinale Marcello Cervini, Il «sapientissimo Calabro» cit., pp. 210-220, segnatamente pp. 219-220.
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per metterlo a fare opera per altri, li disse che volendo far questo se trovi altro ricapito. Lui accettò la proposta et dapoi non sapendo quel che se fare, pregò il dottor Torres, il qual sta con Salviati196, che volesse intercedere per lui appresso il Cardinal Coria197. Messer Francesco Torres raggionando con me me disse che haveva ragionato con il predetto Cardinale et domandato se havea licenza da Vostra Signoria Reverendissima, io rispose che non accadeva haver licenza, non essendo mai stato firmato in casa da Vostra Signoria reverendissima et che lei non volea torre la ventura a nissuno, anci aiutare ogni persona et che quanto a Vostra Signoria Reverendissima non importa. Idio voglia (questo aggionse) chel greco facci bona reuscita et muti natura. Il Cardinale l’ha fatto intendere che se faccia vedere et lui ha promesso andar sta sera et a questo modo sarà finita ogni briga di non haver a contrastare con lui dì per dì tanto io quanto messer Gioanbattista et io son già ben dotto et risoluto de la natione et che non senza causa san Paolo chiamò propheta quel che disse quel verso parlando de’ Cretesi198: εἶπέν τις ἐξ αὐτῶν ἴδιος αὐτῶν προφήτης, Κρῆτες ἀεὶ ψεῦσται, κακὰ θηρία, γαστέρες ἀργαί. ἡ μαρτυρία αὕτη ἐστὶν ἀληθής. Dixit quispiam ex ipsis proprius ipsorum propheta Cretenses semper fallaces, malae bestiae, ventres pigri. Testimonium hoc verum est. Et quel altro proverbio199: Κρητίζειν πρὸς τοὺς Κρῆτας, Cretizandum adversus Cretenses. L’errore è stato mio et per questo dirò quelle parole chi sonno in quella oratione pro Quinto Ligario: Erravi, lapsus sum, si unquam alias. Non me occorre altro; per questa.
Scoperto il doppio lavoro portato avanti da Vergezio, che riceveva lo stipendio da Cervini, ma in camera (non charitatis) lavorava per altri, ossia scriveva «ad altri di fuore», termina il suo semestre presso il cardinale, «molto ferocemente» avrebbe commiserato Steuco. A un anno esatto dal suo approdo a Roma, il «figliolo di messer Angelo» era di nuovo alla ricerca di un padrone. Grazie alla mediazione di Francisco Torres lo trova alle dipendenze di «Coria», ossia del cardinale Francisco de Mendoza y Bobadilla. A Sirleto non rimaneva che piangere nuovamente il proprio errore davanti a Cervini; e pare proprio che non sapesse farlo senza tirare in ballo almeno un versetto della Scrittura, alla quale per l’occasione aggiunge anche un mea culpa ciceroniano. Giovan 196 Torres risulta membro della famiglia del cardinale Salviati già dal 1544, ossia due anni prima della presente notizia, come afferma HURTUBISE, La «familia» cit., pp. 600-601. 197 Con questo nome, derivante dalla diocesi di Coria (Coriensis), cui fu destinato vescovo nel 1535, veniva indicato il prelato spagnolo e futuro cardinale Francisco Mendoza y Bobadilla. Oltre alla bibliografia indicata nelle note seguenti, si vedano A. LLIN CHÁFER, Mendoza y Bobadilla, Francisco, in Diccionario Biográfico Español, 34, Madrid 2009, pp. 568-570 e CATALDI PALAU, Il copista Giovanni Mauromates cit., p. 383. Sulla collezione del prelato si veda I. PÉREZ MARTÍN, El helenismo en la España moderna: libros y manuscritos griegos de Francisco de Mendoza y Bovadilla, in Minerva 24 (2011), pp. 59-96. 198 Tit. 1, 12. 199 Si veda Suidae Lexicon ex recognitione I. BEKKERI, Berolini 1854, p. 626.
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Battista, quanto a lui, si sarà sfregate le mani, fiero di essersi governato, così che Cervini non avesse «a penzarci». Una familia decisamente turbolenta, quella del «cardinale Santa Croce», nella quale si iniziava a guardar con sospetto tutti quelli che avessero nome Pietro: oltre che verso Vergezio, Giovanni Battista avrebbe preso provvedimenti, appena un mese più tardi, verso un servitore omonimo, cacciato di casa e poi riammesso sub condicione: «Pietro se ne ritornerà a casa per ubidir Vostra Signoria Reverendissima, et se le sue parente li faranno quello deveno, sarà un buon figlio, se non se ne viene a disputar con l’archibuso in coteste bande»200; due anni prima era stata la volta di Petrus Ghalinus, un levantino piuttosto squilibrato, che continuava a procurar noie al cardinale anche da lontano201. Ma non divaghiamo. Il triste epilogo della vicenda di Vergezio non può, tuttavia, cancellare l’insegnamento che da quella si trasse a via Giulia: come un apologo antico, la favola del copista fedifrago e del greco semplice, mise in guardia tutti con la sua facile virgiliana morale: time Danaos laborem exercentes in cubiculo suo. Quando due anni più tardi si trattò di affidare a Cristoforo Auer il testo delle Quaestiones et responsiones di Atanasio Sinaita, perché lo copiasse, Cervini lascia intendere di aver disposto precise indagini proprio sulla camera del copista202: «Havendo parlato con Christophoro203, intendo ch’egli ha una camera in casa di suo padrone, in la quale non entra altri che lui. Onde, considerando ch’egli è fidato, et che in camera sua potrà scrivere non solo il dì, ma etiam di notte, et per conseguente che il libbro si finirà più presto, mi pare che diate lo Anastasio in sua mano senza alcuno timore»204 (fig. 9). 200 Si vedano i dispacci di Giovanni Battista al cardinale del 12 e del 25 giugno 1546, in Concilii Tridentini epistularum pars prima, complectens epistulas a die 5 martii 1545 ad Concilii translationem 11 martii 1547 scriptas, collegit, edidit, illustravit G. BUSCHBELL, Friburgi Brisgoviae 1916, pp. 896-897 e 899-900. 201 G. CARDINALI, Ritratto di Marcello Cervini en orientaliste (con precisazioni alle vicende di Petrus Damascenus, Mosè di Mârdín ed Heliodorus Niger), in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance 80.1 (2018), pp. 77-98, segnatamente pp. 79-83. 202 «In loro case» erano abituati a lavorare anche gli scrittori della Vaticana, almeno secondo il regolamento del 1597: MERCATI, Per la storia della biblioteca apostolica cit., p. 233. 203 Il copista Cristoforo Auer, che si definiva Germanus, è attestato a Roma a partire dal 1539. Il suo principale cliente, nel quale si potrebbe identificare il «padrone», cui si allude in questa lettera, era il cardinale Georges d’Armagnac, che, dopo esser stato ambasciatore del re Francesco I di Francia a Venezia, era stato inviato da Enrico II presso la corte pontificia. Ad Auer sono attribuiti sia codici greci sia copie di testi latini, datati perlopiù tra il 1539 e il 1550. Si vedano VOGEL-GARDTHAUSEN, Die griechischen Schreiber cit., pp. 428-430; RGK I 381 = II 525 = III 613; e SAMARAN-CONCASTY, Christophe Auer cit. 204 La copia cui Cervini allude è quella indicata nel registro delle spese della Vaticana, dove in data 30 luglio 1549 (L. DOREZ, Le registre des dépenses de la Bibliothèque Vaticane de
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Fig. 9 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 620, f. 160r (olim 119r): copia eseguita da Cristoforo Auer nel 1549.
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PARTE PRIMA
E non può essere un caso se quel fin renard dell’ambasciatore di Francesco I presso la Serenissima Repubblica di Venezia, Guillaume Pellicier, avesse predisposto uno scriptorium nella propria residenza, così da controllare quanto vi avveniva: «J’ay retiré ledict Démétrio (scil. Zino) en ma maison avecques ung sien nepveu, lesquels, ensemble ung aultre grec doctissime (fort. Nikolaos Sophianos) et M. Martin (scil. Akakia), tous suffizans à meilleures entreprinses …»205. 11. «Appresso il cardinal Coria» Quando nella tarda primavera del 1546 Torres riesce a mediare per Pietro il passaggio da Cervini a Mendoza, quest’ultimo risiedeva a Roma da un anno e mezzo appena, essendovi solennemente entrato il primo dicembre 1545; e vi sarebbe rimasto dieci anni quasi esatti, fino alla sua partenza per Siena il 22 ottobre 1555206. L’Illustrisimo y Reverendisimo Señor Cardenal aveva 38 anni207, aveva ricevuto la porpora da 2208 e era vescovo di Coria da 13, essendo stato consacrato con dispensa de edad209. Era persona talmente precoce che a soli 16 anni aveva tenuto la cattedra di greco a Salamanca in sostituzione del suo maestro malato; e non si trattò di una sostituzione di poco conto, dato che il titolare era Hernán Núñez de Guzmán, noto come El Pinciano o El comendador griego210. Figlio di don Diego Hurtado de Mendoza, terzo marchese di Cañete, il 1548 à 1555, in Fasciculus Ioanni Willis Clark dicatus, Cantabrigiae 1909, pp. 142-185, segnatamente p. 171) si registra un pagamento di cinque scudi a favore di «messer Christofano Aueroo, per la scrittura d’un libro greco chiamata Anastasio». Un mese e mezzo prima, il 13 giugno (ibidem), altri cinque scudi erano stati versati: «a messer Cristofano Auvero per la sua mercede de la scrittura de Theodoreto in Cantica Canticorum in greco». Le due opere si trovano riunite nel Vat. gr. 620, che è dunque la copia preparata per la biblioteca pontificia (Codices Vaticani Graeci, III: Codices 604-866, recensuit R. DEVREESSE, In Bibliotheca Vaticana 1950, pp. 28-29), come ricostruivano anche SAMARAN-CONCASTY, Christophe Auer cit., pp. 199 e 204, pur ignorando questa lettera. Ne consegue che il testo di Anastasio (CPG 7746) del Vat. gr. 620, ff. 101r-191v fu copiato da un esemplare cerviniano, che con questa lettera il cardinale acconsentiva a cedere temporaneamente al copista. 205 ZELLER, La diplomatie française cit., p. 115. 206 Le date esatte in PÉREZ MARTÍN, El helenismo en la España cit., p. 69. 207 Nato a Cuena il 25 settembre 1508, Mendoza sarebbe morto ad Arcos il 18 novembre 1566. Si veda LLIN CHÁFER, Mendoza y Bobadilla cit., pp. 568-570. 208 Il concistoro in cui fu creato cardinale fu quello del 19 dicembre 1544: Hierarchia catholica cit., p. 28. 209 Hierarchia catholica p. 160. 210 Si veda almeno J. SIGNES CODOÑER – C. CODOÑER MERINO – A. DOMINGO MALVADI, Biblioteca y epistolario de Hernán Núñez de Guzmán (El Pinciano). Una aproximación al humanismo español del siglo XVI, Madrid 2001, segnatamente pp. 399-402.
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cardinale era il cugino di don Diego Hurtado de Mendoza, ambasciatore di Carlo V prima a Venezia, poi al Concilio di Trento e, infine, presso la Santa Sede; come il cugino anche «Coria» si divideva tra diplomazia e bibliofilia. Obispo de corte211, aveva accompagnato il cadavere di Isabella del Portogallo, moglie amatissima di Carlo V, durante l’ultimo suo viaggio, ed era stato a fianco dell’imperador viudo in più di una missione politica, ma non aveva mai abbandonato gli studi letterari e la passione per i libri. Come per suo cugino (con cui non andava d’accordo), anche per Mendoza il soggiorno in Italia fu l’occasione per incrementare considerevolmente la propria biblioteca personale, acquistando o facendo copiare una gran quantità di volumi, soprattutto greci. Venezia per don Diego, Roma per don Francisco furono una tappa capitale212. Molte copie furono tratte per il Señor Cardenal dal giacimento sconfinato della Vaticana come dimostrano due ricevute di prestito, datate al giugno 1546, ossia esattamente al periodo in cui Pietro passò a servizio del prelato. La più significativa è la prima, vergata il 4 del mese213, in cui il solito Torres ottiene l’inventario della collezione greca della Vaticana, evidentemente destinato all’obispo, che vi avrebbe controllato i titoli e predisposto specifiche richieste di prestito in vista della commissione di copie di particolari opere. Così fu, se ad appena quattro giorni data una nuova ricevuta214. A guardar più da vicino, Torres propiziò a Vergezio un passaggio a una situazione assai simile a quella precedente; si direbbe un saut du même au même: Cervini e Mendoza, a parte le origini nobiliari del secondo, erano due figure molto simili tra loro. Di fatto quasi coetanei e ambedue diplomatici di rango, venivano da solidi studi classici con un forte penchant per il greco, che praticarono con vivo interesse: da autore Mendoza215, da editore Cervini. Prova ne sono le rispettive collezioni che erano strutturate in due sezioni principali, quella latina e quella greca, con una forte atten211 La definizione è di J. M. FERNÁNDEZ POMAR, Libros y manuscritos procedentes de Plasencia. Historia de una coleccíon, in Hispania Sacra 18 (1965), pp. 33-102, segnatamente p. 37. 212 G. DE ANDRÉS, Los copistas de los códices griegos del cardenal de Burgos Francisco de Mendoza († 1564), en la Biblioteca Nacional, in Estudios clásicos 26 (1984), pp. 39-47, segnatamente p. 41 specifica che Mendoza, durante il suo soggiorno italiano, si procurò volumi greci anche da Bologna, Venezia e Firenze. 213 I due primi registi cit., pp. 104-105. 214 I due primi registi cit., p. 59. Dallo studio di CH. GRAUX, Essai sur les origines du fonds grec de l’Escurial. Épisode de l’histoire de la Renaissance des lettres en Espagne, Paris 1880, non risultano copie di quest’opera nella collezione Mendoza. 215 DE ANDRÉS, Los copistas de los códices griegos cit., p. 40 e PÉREZ MARTÍN, El helenismo en la España cit., pp. 78-82.
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zione alla seconda, nella quale erano compresenti autori classici e pagani, e autori cristiani e padri della Chiesa. Ambedue più che collezionisti erano raccoglitori di testi, per cui non disdegnavano le copie moderne, cui fecero ampio ricorso e che costituiscono i due terzi di ognuna delle due raccolte216. Pietro dovette trovare nella sua nuova casa una situazione non troppo dissimile da quella di via Giulia, certamente con una nota di maggior sussiego, ché Mendoza «fué el príncipe mas celebrado de los hombres doctos de su tiempo, italianos y españoles, por la grandeza conque favorecio a los estudios y letras»217. Al posto di Sirleto trovava l’altrettanto attivo Juan Paez de Castro, la cui frenetica attività di studio tra la biblioteca e la tabla del cardenal, da un parte, e la Vaticana e las librerias particulares de Cardinales, dall’altra, ci è nota dalle lettere inviate a Jeronimo Zurita tra il 1545 e il 1548218, dove tuttavia non si trovano allusioni a Pietro. Bisognoso di copisti stanziali, el señor cardenal dovette accogliere con favore Pietro, e Paez dovette presto metterlo al lavoro, ma fino ad ora non sono emerse tracce di questa collaborazione. Le difficoltà sono molteplici, a partire dal fatto che col passaggio «appresso il cardinal Coria» cessano le menzioni di Pietro nel carteggio Cervini-Sirleto né se ne trovano nelle lettere superstiti di Paez de Castro, nelle quali pure non mancano informazioni sulla vita culturale presso la residenza di Mendoza. Inoltre, negli studi fino ad ora dedicati alla collezione greca del cardinale non sono emersi codici firmati da Vergezio o a lui espressamente attribuiti, sicché il suo nome non risulta tra quelli dei «copistes qui travaillèrent aux gages» di Mendoza né nella lista di Graux219 né in quella di De Andrés220. In ultimo, va ricordato che restano ancora da studiare molti volumi di quella collezione e, fatto ancora più problematico, che questa non è conservata integra, ma manca di un terzo circa dei manoscritti greci che la componevano, oggi dispersi. Alla morte del cardinale, infatti, la sua coleccíon griega ammontava a circa 120 manoscritti, i quali, assieme al resto della biblioteca, vennero acquisiti da Garcia de Loaysa Giron, arcivescovo 216 DE ANDRÉS, Los copistas de los códices griegos cit., p. 39: «Las dos terceras partes fueran copias contemporáneas, ejecutadas durante su estancia en Roma, entre los años 1545 y 1557, en que vuelve definitivamente en España». 217 GRAUX, Essai sur les origines cit., p. 44 nt. 1. 218 Le missive sono edite in Progressos de la historia en el Reyno de Aragon [Saragozza, 1680], pp. 464-482. 219 GRAUX, Essai sur les origines cit., pp. 76-78. 220 DE ANDRÉS, Los copistas de los códices griegos cit., pp. 43-46.
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di Toledo, che ebbe la meglio sui desiderata di Filippo II, che per lungo tempo ne aveva vagheggiato l’acquisto221. Alla morte del prelato la collezione, ulteriormente arricchita, passò al nipote Pedro de Carvajal, vescovo di Coria, che nel 1604 la lasciò al convento domenicano di San Vicente Ferrer de Palencia, dal quale Filippo V la ottenne per la raccolta reale222. Attualmente presso la Biblioteca Nacional de España di Madrid dei circa 120 codici greci di Mendoza non se ne riconoscono che 73, cui vanno aggiunti 3 custoditi al Real Monasterio de San Lorenzo de El Escorial, per un totale di 76 codici riconosciuti e … una quarantina ancora mancanti223. Se non sarà difficile accostare gli specimina di Pietro a quelli dei copisti anonymos della collezione superstite224, non altrettanto agevole sarà individuare il terzo dei codici mancanti, visto che uno degli elementi più sicuri per attribuire i volumi alla collezione Mendoza sono le lujosas encuadernaciones225, che costituiscono anche uno degli elementi più precari e soggetti a restauri e sostituzioni di ogni libro. 12. Chi non muore, si rivede Non è al momento possibile sapere se Pietro abbia trovato pace nel suo approdo presso Mendoza e se il servizio lì sia stato più duraturo e stabile di quello a via Giulia, ma è certo che non dovette essere quello definitivo. La sua mano ho ritrovato su un codice vaticano assai eloquente, il Vat. gr. 1185, ff. 1r-120r, 155r-203r e 218r-292v226. Si tratta di un volume giuridico esemplato per la collezione di Antonio Agustín227, come attesta la nota di possesso autografa (f. Ir): Ant. Augni episcopi Ilerdensis, ed entrato in Vaticana nel 1587, un anno dopo la morte 221 GRAUX, Essai sur les origines cit., pp. 47-54 e FERNÁNDEZ POMAR, Libros y manuscritos procedentes de Plasencia cit., pp. 12-30. 222 GRAUX, Essai sur les origines cit., pp. 55-56 e FERNÁNDEZ POMAR, Libros y manuscritos procedentes de Plasencia cit., pp. 31-33. 223 Le cifre divergono di qualche unità nelle differenti ricostruzioni della vicenda che sono state fatte da GRAUX, Essai sur les origines cit., pp. 71-72; FERNÁNDEZ POMAR, Libros y manuscritos procedentes de Plasencia cit., p. 10 e DE ANDRÉS, Los copistas de los códices griegos cit., pp. 42-43. 224 Nulla risulta a proposito di Pietro in G. DE ANDRÉS, Catalogo de los codices griegos de la Biblioteca Nacioñal, Madrid 1987. 225 GRAUX, Essai sur les origines cit., pp. 60-72 e FERNÁNDEZ POMAR, Libros y manuscritos procedentes de Plasencia cit., p. 9. 226 Qui e in seguito adotto la numerazione recenziore a matita e non quella seriore a penna, secondo la quale sono da attribuire a Vergezio i ff. 1-227, 297-393 e 423-572. 227 Una descrizione sommaria in CANART, Les manuscrits copiés cit., p. 112 e una, più minuta, ma che non tocca l’aspetto paleografico, in Correspondance de Lelio Torelli avec Antonio Agustín et Jean Matal (1542-1553), texte édité et commenté par J.-L. FERRARY, Como 1992,
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PARTE PRIMA
del proprietario, assieme ad altri228 su richiesta di papa Sisto V Peretti per permettere di portare a termine la stampa dei testi originali dei Concili Ecumenici, come riferisce Fulvio Orsini in due diverse lettere a Gian Vincenzo Pinelli. In quella del 29 novembre 1586 scrive che il Papa229 «dicendo volere stampare li otto concilii generali in greco et latino230, et di già ha fatto scrivere alli heredi di Antonio Augustino231 quale li havea in ordine a questo effetto, et hiere si diede principio a tal correttione in una congregatione fatta innanzi al cardinale Carafa». Un anno esatto dopo, il
Fig. 10 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 1185, f. 1r: nota di possesso autografa di Antonio Agustín.
pp. 253-257. Il lemma vaticano apposto sul codice specifica (f. Ir): «Constantini Armenopuli compendium legum civilium (agg. et epitome Sacrorum canonum) 568». 228 Il gruppo dei codici di Agustín corrisponde esattamente agli attuali Vat. gr. 839, 840, 842, 1177, 1180-1182, 1184-1186 e 1918, sui quali si vedano DEVREESSE, Pour l’histoire cit., pp. 332 e 333 nt. 1; ID., Le fonds grec cit., p. 473 nt. 19; BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., p. 88 nt. 47; S. LILLA, I manoscritti vaticani greci. Lineamenti di una storia del fondo, Città del Vaticano 2004, pp. 17-18 e 21. Sebbene nessuno di questi lavori citi il Vat. gr. 1918, anch’esso fece parte della collezione di Agustín come risulta dall’ex libris (f. 1r). La sua collocazione distanziata rispetto al resto dei volumi si può immaginare dovuta al fatto che esso entrò successivamente in Vaticana, dopo esser stato impiegato da Pierre Morin, come lascia suppore l’annotazione (f. 1r): «A Petr. Morin» (rilevata già da CANART, Les manuscrits copiés cit., p. 117). 229 BA, D 422 inf., f. 206r. 230 L’edizione greco-latina dei Concilii Ecumenici apparve a Roma, sotto Paolo V, tra il 1608 e il 1612, come ricostruisce C. LEONARDI, Per la storia dell’edizione romana dei Concili Ecumenici (1608-1612): da Antonio Agustín a Francesco Aduarte, in Mélanges Eugène Tisserant, VI: Bibliothèque Vaticane, Città del Vaticano 1964 (Studi e testi, 236), pp. 583-637; al quale aggiungo qui la menzione del Vat. gr. 979, che presenta numerosissimi marginalia di Agustín, ma non è stato considerato da Leonardi. 231 Antonio Agustìn era morto a Tarragona il 31 maggio 1586. Sisto V dispose di far venire a Roma i codici della seconda a terza parte della Iuris pontificii veteris epitome (Vat. lat. 6484-6521) in vista della loro pubblicazione, per la quale venne convocato anche il collaboratore di Agustín, il certosino Francisco Aduarte. In un secondo tempo il papa fece trasportare nell’Urbe i codici con atti e canoni conciliari e lettere decretali, che giunsero il 2 ottobre 1587 col canonico Martín López Baylo. Sulla richiesta papale agli eredi dell’arcivescovo, di vedano LEONARDI, Per la storia dell’edizione romana cit., pp. 601-614 e BIGNAMI ODIER, La bibliothèque Vaticane cit., p. 74.
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21 novembre 1587 Orsini annunzia232: «È hora venuto qui con li Concilii greci et latini per ordine del Papa un signor Martino233 secretario già di Antonio Augustino» (fig. 10). Il Vat. gr. 1185 è stato vergato, per le parti che non competono a Vergezio, da Emanuele Provataris234, come nel caso degli altri codici giuridici Antonii Augustini oggi in Vaticana, esemplati nell’atelier del calligrafo. Ai collaboratori già noti: Giovanni Mauromates, Manuele Malaxos, Costantino Resinos, Francesco Syropulos e Matteo Devaris235, andrà, dunque, aggiunto ora Pietro Vergezio, da riconoscersi nell’anonimo premier collaborateur de Provataris individuato da Paul Canart, il quale significativamente lo caratterizzava come dalla scrittura «assez élégante», ma soprattutto che «rappelle le style d’Ange Vergèce»236. L’identificazione del copista con Pietro Vergezio non pone alcun problema dal momento che la mano appare assolutamente identica a quella che ha vergato l’Ott. gr. 39, ossia quella à la Vergèce, nel tratteggio delle lettere, nell’andamento generale della scrittura e anche nella sua volubilità e incostanza, che qui sono tuttavia molto più controllate. Anche da un punto di vista codicologico tornano le stesse modalità di numerazione dei fascicoli, mediante la réclame verticale sul margine inferiore destro del verso dell’ultimo foglio del fascicolo e la lettera progressiva dell’alfabeto, racchiusa da un sinuoso tratto orizzontale e poi verticale destro, sul margine inferiore destro del recto del primo foglio di ogni nuovo quinterno (tavv. XIV-XV). Non c’è dubbio, dunque, che Vergezio collaborò per qualche tempo con Provataris e mi pare che questa attività congiunta non possa che essere datata a dopo i soggiorni (consecutivi) a via Giulia e presso il cardinale Mendoza. Per quanto il giovane Pietro abbia dato prova di volere tenere i piedi su due staffe, ponendosi a servizio di un cardinale e lavorando di nascosto per «altri di fuore», questo tipo di pratica non poteva conciliarsi con l’attività di un atelier, o quanto meno con una collaborazione ufficiale. Si potrebbe supporre che, terminata anche l’esperienza presso il prelato spagnolo, l’irrequieto copista sia entrato nel laboratorio del calligrafo, che gli avrebbe assegnato porzioni di lavoro, come faceva coi suoi collaboratori. 232
BA, D 422 inf., f. 228r. Si tratta di quel Martín per cui si veda G. CARDINALI, «Qui havemo uno spagnolo dottissimo». Gli anni italiani di Pedro Chacón (1570ca.-1581). Saggio di ricostruzione bio-bibliografica a partire da carteggi coevi, Città del Vaticano 2017, p. 233. 234 RGK I 254 = II 350 = III 418. 235 CANART, Les manuscrits copiés cit., pp. 208-214. 236 CANART, Les manuscrits copiés cit., p. 213, mentre più sfocata è la descrizione fattane a p. 206. 233
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PARTE PRIMA
Il Vat. gr. 1185 non è datato, così come non lo è la maggior parte dei codici del lotto giuridico di Agustín, ad eccezione dei Vat. gr. 1184, che risale al 21 agosto 1546 e il Vat. gr. 1177, che rimonta al 2 aprile 1557. Si tratta di un lasso di tempo di undici anni, anteriore alla partenza di Agustín da Roma, dal momento che venne nominato Vescovo di Alife il 15 dicembre 1557, per poi passare alla sede di Lérida l’8 agosto 1561 e poi a quella arcivescovile di Tarragona il 17 dicembre 1576, dove morirà il 31 maggio 1586237. Ne consegue anche che la nota autografa di possesso Antoni Augustini episcopi Ilerdensis non è di alcun aiuto per datare le copie, dal momento che venne apposta tra la seconda metà del 1561 e la fine del 1576, ossia molto più tardi di ambedue le copie datate. Tuttavia, anche la filigrana delle carte del codice depone per i primi anni cinquanta del secolo238. In ultimo, va notato il fatto che anche nel caso di questo importante e voluminoso manufatto Vergezio fa uso della mano à la Vergèce, così come aveva fatto per il Teodoreto Ott. gr. 39, lasciando intendere che questa era quella per lui più familiare e “naturale”. Si trattava del «charactere» che aveva appreso per primo sotto la guida del padre ed è dunque quello sul quale può fare affidamento per le realizzazioni più impegnative e importanti. Della mano tarabiscotée non abbiamo fino ad ora che i brevi inserti nelle due lettere sirletiane, gran parte della copia d’uso delle lettere basiliane nell’Ott. gr. 149, e il solo Coisl. 43 tracce di essais non destinati a durare. In linea con questo profilo è il Paris. gr. 1663, manoscritto cartaceo di 253 fogli, contenente i libri XI-XV della Bibliotheca historica di Diodoro Siculo, giunto alla Bibliothèque nationale de France dalla collezione del ministro Colbert. L’assegnazione agli anni romani di Pietro della copia del Paris. gr. 1663239, infatti, pare suggerita sia da elementi paleografici sia filologicotestuali. La mano è quella à la Vergèce moins surveillée, che appare ormai stabilizzata e corrente, perfettamente padroneggiata anche per testi molto ampi, come quello dello storiografo greco. Nella stessa direzione spinge anche il fatto che l’apografo della trascrizione doveva trovarsi in Italia, sia perché capostipite della tradizione è stato riconosciuto il bessarioneo Marc. gr. 375 sia perché da una sua copia diretta derivano il Paris. gr. 1663 e il Riccardiano 33240. 237
Hierarchia catholica cit., pp. 104, 212 e 309. Così anche I. PÉREZ MARTÍN, Antonio Agustín y Manuel Provataris en Venecia (a. 1543), in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae 8 (2001), pp. 299-311, segnatamente p. 307 e nt. 43. 239 Inventaire des manuscrits grecs cit., p. 117. 240 DIODORE DE SICILE, Bibliothèque historique, introduction générale par F. CHAMOUX et P. BERTRAC, Livre I, texte établi par P. BERTRAC et traduit par Y. VERNIÈRE, Paris 1993, pp. CI-CVII. 238
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Tuttavia, le cose — quando si ha a che fare con l’irrequieto Pietro — non sono mai semplici: digrafi si diventa, e si resta. L’utilizzo della main tarabiscotée, una volta forgiata e cesellata, non fu abbandonato, ma dovette rimanere presso il copista come una possibilità sempre disponibile, solo che il committente o il suo datore di lavoro l’avessero richiesta. Tanto più che essa aveva un marcato accento “italiano”, se non romano, e risentiva delle movenze della mano di Provataris: rappresentava una declinazione più prossima a quella del titolare e, dunque, utile a non far risaltare i passaggi di scriba e le cesure all’interno di uno stesso volume. Una cadenza familiare; scevra di ultramontanismo. Riconsiderando in quest’ottica il catalogo dei codici provenienti dall’atelier di Provataris, l’attenzione viene attratta da quattro volumi in cui il maestro esegue solo una parte del lavoro, lasciando il resto a un collaboratore non ancora identificato (l’ennesimo copiste inconnu): gli Ott. gr. 118, 341, 360 e 383241. Tre di essi possono essere fissati cronologicamente con buona esattezza: ante 1555, solo che se ne riconosca la provenienza cerviniana (e il successivo passaggio sirletiano, qui irrilevante). L’Ott. gr. 118 non è stato riconosciuto come cerviniano, non essendo censito nei due inventari finora editi242; esso, infatti (e però), figura terzo tra i Libri greci in penna che al presente sono fuor de la libraria, quali troviamo per polize e memorie esser prestati a diversi243: «Giorgio greco in penna»; elenco in cui risulta, tredicesimo, anche un «S. Isidoro Pelusiota», in cui va riconosciuto o l’Ott. gr. 341 o l’Ott. gr. 383, che poi, una volta concluse le operazioni di riordino, figurerà tra gli sciolti in 4° della collezione del cardinale244. Se l’Ott. gr. 341 non presenta segni di possesso, l’Ott. gr. 383 fuga ogni dubbio: nel margine superiore interno del f. 1r e sul taglio di testa si legge ancora il numero «.155». della bibliotheca Cervina (a fianco del «(Theol.)246» sirletiano245). Costituendo due parti dell’epistolario di 241
Assai meglio che in Codices manuscripti graeci Ottoboniani cit., pp. 68, 180, 185-186 e 197, gli Ott. gr. 118, 360 e 383 sono stati censiti da CANART, Les manuscrits copiés cit., pp. 238 nr. 20, 241 nr. 35 e 243 nr. 43; l’Ott. gr. 341, sfuggito a quella prima disamina, venne recuperato, seppur cursoriamente, in P. CANART, Identification et différenciation de mains à l’époque de la Renaissance, in La paléographie grecque et byzantine, Paris 1977, pp. 363-369, poi in ID., Études de paléographie cit., I, pp. 361-367, segnatamente p. 361 nt. 3; nessuno di essi è menzionato, per le parti non provatariane, in RGK I-II-III. 242 DEVREESSE, Les manuscrits grecs cit., mentre il possesso cerviniano non era sfuggito a CANART, Les manuscrits copiés cit., p. 238 nr. 20; per la questione degli inventari cerviniani si veda CARDINALI, En jouant avec cit., pp. 36-38. 243 Vat. lat. 8185, f. 312r, sul quale CARDINALI, En jouant avec cit., p. 37. 244 CANART, Les manuscrits copiés cit., p. 243 nr. 43 non riconosce il possesso cerviniano, ma solo quello — posteriore — sirletiano. 245 Il volume corrisponde perfettamente alla descrizione fattane da Giovanni Santamaura nell’inventario postumo della collezione di Sirleto (Vat. lat. 6163, f. 152v).
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PARTE PRIMA
Isidoro Pelusiota e provenendo dallo stesso atelier, i due Ott. gr. dovevano formare un unicum, sebbene il solo Ott. gr. 341 non sia poi stato rifilato. Quanto alla collocazione cronologica: le note sirletiane manoscritte sui margini dell’Ott. gr. 360 (ff. 5v, 6r-9r e 10r-11r) sono databili alla seconda metà degli anni Quaranta del secolo, tra il 1545 e il 1550, ossia nel primo quinquennio di permanenza presso l’abitazione del cardinal Marcello: il ductus è piuttosto posato, il formato sorvegliato e abbastanza costante, l’impatto sulla pagina ridotto; anche la confezione del codice andrà dunque plausibilmente assegnata a quel lustro. Dell’Ott. gr. 118 risultano committente, datazione e antigrafo: Cervini fece transcrivere la copia dall’esemplare in possesso di Niccolò Maiorano (il Vat. gr. 1903) presumibilmente attorno alla metà degli anni Quaranta, se il 26 settembre 1551 Sirleto ricorda l’operazione come avvenuta «già un pezzo fa»246. L’apografo risultando privo di alcune sezioni, venne poi integrato nell’ottobre 1551 con le relative sezioni provenienti da un esemplare fiorentino, fiutato dal solito Torres: «Il Cedreno l’ha dato a m. Emanuele, chel transcrivi, havendole mostro da ove debbi incominciare, certo è stato ben pensato per essere libro bono et per non haver l’opera imperfetta»247. Infine, la fantasia di editare le opere di Isidoro Pelusiota — che Sirleto commendava «padre santissimo et allegato in la VII Synodo, et stimato molto etiam da Cyrillo in l’epistola 447, 448, 449, 450 ad Antiocho»248 — è annunciata nel luglio 1551 come propizia all’attualità: «sarebbe bene stampare alcuna parte de l’epistole di Isidoro Pelusiota o vero alcuno libro di tanti, quanti se trovano contra Grecos, perché in questi vanno annessi molte materie di questi tempi»249; ma i primi fallimentari tentativi di averne una copia datano già al febbraio 1548, quando l’inaffidabilità di Sophianos era esplosa irrimediabile: «M. Nicolò Sophiano m’ha reso il quinterno de le epistole di S.to Isidoro Pelusiota, quale Vostra Signoria Reverendissima m’havea fatto dare per transcrivere. È ben vero che, vedendo io che l’havea tenuto già un mese senza haver scritta una carta et che se escusava di non possere per la sua lite, l’ho richesto, dubitando di non perderlo»250. L’atelier provatariano apparve una soluzione assai più sicura. Calendario alla mano, le tre copie possono essere plausibilmente datate agli anni 1547-1551, ossia al periodo successivo al servizio di Vergezio presso Cervini (e quello fantasma a casa di Mendoza y Bobadilla). L’Ott. 246
Lettera a Cervini (Vat. lat. 6177, ff. 197r-198v). Lettera a Cervini del 10 ottobre 1551 (Vat. lat. 6177, ff. 169r-171v). 248 Ibidem. 249 Lettera a Cervini dell’11 luglio 1551 (Vat. lat. 6177, ff. 218r-220r). 250 Lettera a Cervini del 29 febbraio 1548 (Vat. lat. 6177, ff. 127r-128r). 247
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gr. 360, nella sezione che compete al collaboratore di Provataris (ff. 210r221v), presenta un esordio in minuscola corsiva fortemente orientata a destra di chiara ispirazione à la Vergèce, che poi col tempo viene quasi impercettibilmente resa verticale, più asciutta e meno legata, assumendo i caratteri della mano tarabiscotée di Pietro, sebbene in una versione molto poco curata, piuttosto rapida. Gli altri tre — ossia gli Ott. gr. 118, ff. 1r-159v, 341, ff. 86r-367v e 383, ff. 113r-268v — sono molto omogenei, presentando una grafia che risulta da una sorta di fusione e stabilizzazione della mano à la Vergèce e di quella tarabiscotée, come se il lungo tirocinio italiano avesse finalmente dato a Pietro una sua modalità espressiva propria, o comunque alternativa a quella, sempre disponibile, appresa dal padre durante gli anni francesi. A guardar bene la morfologia delle lettere-guida è sempre quella fissata dal Repertorium der griechischen Kopisten a partire dal Burn. 104251, ma i tratti cadono ora perlopiù verticali, senza il penchant a destra e quella tipica tendenza al legamento, che dava l’impressione di vere e proprie catene di lettere, centinate (che riemerge di tanto in tanto, sommessamente). Un greco non più francesizzante, ma maggiormente mimetico rispetto a quello di Provataris, sebbene incline a periodiche vampe di arruffamento (tavv. XVI-XVIII). 13. A(u) revoir la France Come si è visto dalle poche copie superstiti, nemmeno l’impiego presso l’atelier di Provataris dovette durare a lungo; quella di Pietro appare decisamente una carriera discontinua e irrequieta. E viene perciò da chiedersi dove possa aver trovato il successivo approdo, sempre che abbia avuto una vita lunga. La mancanza di fonti documentarie non permette — almeno per il momento — di escludere questa possibilità, ma nemmeno di attestare inequivocabilmente il contrario. Stando alla ricostruzione di Dain, che tuttavia ignora completamente il soggiorno romano appena ricostruito, Pietro sarebbe di nuovo stato a fianco dello zio/padre Ange Vergèce nei primi anni Sessanta. Alla base di questa affermazione stanno due elementi: da un lato, il Paris. gr. 2000, manoscritto dell’opera di Niceforo Blemmide, datato al 1563 che già Henri Omont aveva attribuito alla mano di Pietro252, mentre dall’altro un biglietto di Ange Vergèce a Monsieur de Mesmes, scoperto da Dain nel Paris. lat. 10327, nel quale il copista si dice disponibile a fornire 251 252
RGK I 344. Inventaire des manuscrits grecs cit., p. 176.
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PARTE PRIMA
una copia della Fisica dello stesso Blemmide tramite un suo parente (ὁ ἐμός ἀνεψιός)253. Dall’incrocio delle due notizie, che Dain stesso avvertiva piuttosto forzato254, e dall’esistenza del Paris. gr. 1998, altro manoscritto di Blemmide attribuito da Omont a Pietro e appartenuto a de Mesmes255, è venuta la conclusione: «On y voit d’abord la mention d’un parent de Vergèce, copiste lui aussi. Il s’agit du Crétois Pierre Vergèce, neveu d’Ange, dont la production manuscrite datée s’échelonne de 1536 à 1569, exactement comme celle de son oncle. Ce Vergèce a, semble-t-il, séjourné quelque temps en France; il aurait écrit à Paris en 1563, donc un an avant la date présumée du billet, l’actuel Parisinus gr. 2000». A poco meno di venti anni dalla vicenda che abbiamo ricostruito Pietro sarebbe, dunque, di nuovo in Francia, rientrato nel nido paterno, specializzato in copie di autori scientifici … comme si de rien n’était. La ricostruzione appare fragile da più punti di vista, a partire dal ventennio di vuoto che essa postula e che pare assai difficile da supporre senza alcun elemento documentario a riprova. Inoltre, l’analisi paleografica mostra una scrittura che, se non è estranea alla pratica e allo stile à la Vergèce, pure si presenta come assai lontana dalla declinazione che di quella aveva dato Pietro nelle prove che abbiamo esaminate256. Inoltre, l’equivalenza ἀνεψιός = Πέτρος appare sommamente arbitraria, tenuto conto che, a fronte dell’apodittica smentita da parte di Dain di qualsiasi discendenza di Ange, a parte il nipote Pietro257: «Il est certain qu’il est venu de Crète plusieurs Vergèce, qui firent oeuvre de copistes, et qui sont sans doute plus ou moins parents. Je ne parle pas d’un certain Jean Vergèce, qui a toutes les chances de n’avoir jamais existé», un Giovanni Vergezio è esistito, eccome; in contatto con Cervini, per giunta! All’Archivio di Stato di Firenze ho trovato una lettera scritta da Claudio Tolomei nel 1548, in cui si raccomanda vivamente al cardinale un certo «m. Giovanni Vergitio gentilhuomo Candiotto»258, che da Padova aveva 253 DAIN, Commerce et copie cit., p. 402, già anticipato in DAIN, La fille d’Ange Vergèce cit., p. 142 nt. 2. 254 DAIN, Commerce et copie cit., pp. 402-403. 255 Inventaire des manuscrits grecs cit., p. 176 e JACKSON, Greek manuscripts cit., p. 102, che accoglie la ricostruzione di Dain. 256 Di tutta questa ultima parte della carriera di Pietro ha fatto tacita smentita RGK I 344 = II 470 = III 547, espungendo tutti gli esemplari attribuitigli da Omont e Dain. 257 DAIN, La fille d’Ange Vergèce cit., p. 142 nt. 2. 258 ASF, Carte Cervini 40, f. 152r: «Rmo Monsor et Sor mio ossmo / Viene m. Giovanni Vergitio gentilhuomo Candiotto a Roma, per trattar alcune cose appartenenti a favor della Sedia Apostolica, come V. Rma S. intenderà da lui. M’è parso doverglielo raccomandare, quantunque io sappia ch’ella, si per la benignità di lei, si per la materia per la quale esso viene, lo riceverà benignamente, e gli farà ogni sorte d’honesto favore. Spero ancora ch’ella conoscendo
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intenzione di scendere a Roma. Il contatto ebbe luogo, se due anni dopo «Santa Croce» scriverà, uti frater, a Vettori di aver passato a Sirleto259: la vostra lettera, che va al Vergetio (scil. Giovanni), il quale non è stato mai né è in casa mia né meno è venuto meco fuori, ma è restato a Roma, se non se ne è partito doppo me.
E Cervini non fu il solo a raccomandare a Vettori il giovane Vergezio: nell’agosto 1551 il cardinale Rodolfo Pio dei Conti di Carpi firmava una commendatizia all’erudito fiorentino perché intercedesse presso il Granduca260: Dovendo passar per Fiorenza messer Giovan Vergetio greco molto affettionato a Vostra Signoria per alcune sue occorrentie, desidera presentare all’Eccellenza del Signor Duca una lettera del suo Ambasciatore et insieme mostrarle un saggio d’una lettera greca che è stata stimata in Roma bellissima, et per quel poco giudicio che io ne posso fare è molto elegante et tirata molto leggiadramente. Egli disidera havere introduttione a Sua Eccellenza per mostrargliela et offrirgliela, et perché io non conosco non che in Fiorenza, ma in qual si voglia altro loco persona più atta ad aiutare et favorire una simile impresa che Vostra Signoria né che più di cuore sia per farlo, però ancorché io sia certo che sa se stessa non fusse per mancare et alla cosa in sé et a messer Giovanni particolare che per quanto mi dice, è tutto suo, non ho però potuto mancarli havendomene richiesto, di non pregarne anch’io Vostra Signoria et raccomandarle il negotio per beneficio publico, congiunto insieme con molta laude di Sua Eccellenza et allei di cuore mi raccomando.
Per parte sua Vettori girava la questione (per competenza, si direbbe oggi) al discepolo e amico Vincenzio Borghini, benedettino della Badia261: Egl’è venuto costì un messer Giovanni Vergetio, di chi so che ho ragionato con voi più volte, che è amico de’ Reverendissimi Santa Croce et Inghilterra, et ha portato un principio d’una nuova lettera graeca, molto vagha et netta par a me; ma voi v’intendete meglio del disegno che non fo io.
le nobili qualità di m. Giovanni, molto più volentieri lo pigliarà in protettione. Io l’ho pregato che faccia principal ricapito a V. Rma S. come a persona, che le cose di che esso ha a ragionare le sono sommamente a cura et a cuore. A cui bacio le mani humilmente e mi raccomando. Di Padoua a li V di Novembre 1548. / Di V. Rma S. / Humilissimo servitore / Claudio Tolomei». 259 BL, Add. 10274, f. 7rv; lettera datata: «Da Montepulciano alli 14 di Luglio M. D. Lta». 260 BL, Add. 10275, f. 209r; lettera datata: «Da Viterbo alli XXI d’ag.to 1551». 261 Lettera di Piero Vettori a Vincenzio Borghini del 13 settembre 1551, in Il carteggio di Vincenzio Borghini, I: 1541-1552, a cura di D. FRANCALANCI, F. PELLEGRINI e E. CARRARA, Firenze 2001, p. 327.
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PARTE PRIMA
Ma chi era questo Giovanni Vergezio che tentava di esportare nel Granducato questi caratteri a stampa greci, che avevano affascinato Roma e il cardinale Pio da Carpi (che mente quando si dichiarava uomo di poco giudicio, essendo amico di Michelangelo e collezionista di Raffaello)? Una serie di punzoni «che in Roma è tenuta così bella cosa et giudicono che habbia a superare quella di Francia, che è tanto lodata»262, ossia i Grecs du Roi, tratti dai caratteri manoscritti di Ange Vergèce. Un atto notarile siglato a Firenze il 10 marzo 1551 rivela che ad aver portato «un saggio et mostra di belle lettere greche non più viste per stampare libri» fu «el Magnifico Messer Giovanni di Messer Pietro Vergezio»263, ossia il figlio dello sventurato Pietro (e, dunque, il nipote o pronipote di Ange). E, in effetti, Vettori lo accredita a Borghini come «grande amico … di messer Guglielmo Calavrese et così di tutti gl’altri literati di là», che sarà in grado di ragguagliarlo: «del male assai in che si truovano hoggi i literati di Roma, et finalmente vi darà molte notizie, onde vi è parso hogni modo che gli parliate»264. Veniva effettivamente da Roma e si impegnava col segretario granducale Lelio Torelli a «fare et curare con effetto che Messer Giovanni Honorio da Otranto scrittore greco et maestro Natale Venetiano intagliatore habitanti in Roma in termine di mesi XV da chalende di Aprile proximo fabricheranno et haveranno fabricato a tutte loro spese et fatiche mille polzoni di acciaio et mille matre di rame aiustate di dette lettere …»265. Mastro Natale di Natale era, infatti, l’intagliatore e restauratore delle matre et forme della stampa greca impegnato in Vaticana a fianco di Giovanni Onorio266. Per qualche tempo avrebbe fatto la spola lungo la Cassia tra Vettori e Cervini267, finché poi a Firenze avrebbe trovato una fortuna insperata e 262
Il carteggio di Vincenzio Borghini cit., p. 327. L’atto, conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, Bigallo 618 (nr. interno 19) è stato trovato ed edito da Σ. Π. λαμΠροΣ, Συμβόλαιον περί ιδρύσεως ελληνικου τυπογραφείου ἐν Φλορεντίᾳ τῷ 1551, in Νέος Ελληνομνήμων 2 (1905), pp. 199-208. 264 Il carteggio di Vincenzio Borghini cit., p. 327. 265 λαμΠροΣ, Συμβολαιον περὶ ιδρύσεως cit., p. 199. A Torelli Vergezio fu presentato per lettera da Vettori nel 1550, Torelli poi lo raccomandò al segretario granducale Cristiano Pagni con la lettera del 27 settembre 1551: M. P. PAOLI, Di madre in figlio: per una storia dell’educazione alla corte dei Medici, in Annali di storia di Firenze 3 (2011), pp. 65-145, segnatamente pp. 81 e 139 con indicazione delle fonti manoscritte, cui si aggiunga il testo citato infra, nt. 267. 266 Si vedano le due ricevute edite da DOREZ, Le registre cit., pp. 180-181 del 24 dicembre 1552 (si concedono 12 giulii «a Natale di Natale, per haver racconcie undici matre, et agiustata una forma dela stampa greca, per far stampare Giovanni Chrisostomo de Verginitate per uso della libraria apostolica») e 11 febbraio 1553 (altri 12 giulii «per havere acconcie certe matre di novo oltra le altre della stampa greca per stampare libri per uso della libraria apostolica»). 267 Si veda la lettera di Cervini a Vettori del 30 gennaio 1552 (BL, Add. 10274, f. 31r): «Il 263
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dall’anno seguente e almeno fino al 1555 sarebbe divenuto professore di greco in casa del Granduca con uno stipendio di 25 scudi268. Se il povero Pietro avesse saputo! C’è da credere che, se qualcosa venne mai a sapere del figlio, gioì più per l’onorario del figlio (superiore a quello di Vettori) che per la (assai improbabile) frequentazione della cerchia di Benvenuto Cellini269 o per il sonetto che gli dedicò Benedetto Varchi270: Vergezio, a cui non pur la greca vostra lingua, che tal da voi lume riceve, Come a suo caro e figlio e padre deve, ma la latina e la toscana nostra: quel disio, che si caldo in voi si mostra d’amarmi tanto in così tempo breve, non sia quale a gran sol tenera neve, o poca nebbia in ben ventosa chiostra. Non abbian forza della vostra mente trarmi il bel Tebro e l’Alta Roma, dove gite or col Rucellai saggio e clemente: la cui bontà, le cui virtuti nuove fisse mi stanno al cor si altamente che rivolger non so, né voglio altrove.
Un’ultima menzione, del 7 gennaio 1558, lo dice a Bruxelles creditore dello stampatore “Lorenzo Torrentino”271. Se questa è la carriera italiana «d’un certain Jean Vergèce, qui a toutes les chances de n’avoir jamais existé», pare più saggio, allo stato attuale della documentazione, arrestare la ricostruzione della carriera di Pietro
libro che scrivete havermi mandato per il Vergetio, non l’ho anche ricevuto». 268 PAOLI, Di madre in figlio cit. pp. 81 e 139. 269 L’identificazione di Giovanni Vergezio in un non meglio specificato «Giovanni greco», evocato tre volte nell’autobiografia celliniana è avanzata in Vita di Benvenuto Cellini orefice e scultore fiorentino scritta da lui medesimo, restituita alla lezione originale sul manoscritto Poirot ora Laurenziano ed arricchita d’illustrazioni e documenti inediti dal dottor FRANCESCO TASSI, I, Firenze 1829, pp. 219-220, ma senza elementi documentari dirimenti a fronte di una cronologia che confligge apertamente con la “fase romana” di Vergezio qui ricostruita. 270 Si tratta del sonetto 198 della raccolta: Opere di Benedetto Varchi, II, Trieste 1859, p. 861. 271 Edito da G. J. HOOGEWERFF, Laurentius Torrentinus (Laurens Leenaertsz van der Beke) boekdrukker en uitgever van den hertog van Toscane, 1547-1563. II. Documenten, in Het Boek 15 (1926), pp. 369-381, segnatamente pp. 374-375.
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PARTE PRIMA
alla fine degli anni Quaranta, accontentandoci di aver illustrato il periodo in cui poteva essere definito un «giovine greco»272.
272 Non mi addentro in una questione che è già stata impostata da B. MONDRAIN, La reconstitution d’une collection de manuscrits: les livres vendus par Antoine Eparque à la ville d’Augsbourg, in Scritture, libri e testi nelle aree provinciali di Bisanzio. Atti del seminario di Erice (18-25 settembre 1988), a cura di G. CAVALLO, G. DE GREGORIO e M. MANIACI, II, Spoleto 1991, pp. 589-601, segnatamente pp. 597-600, che si ripromette (ibidem, p. 597 n. 27) di occuparsene in maniera più completa.
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PARTE SECONDA
TRA PALEOGRAFIA GRECA E STORIA DELL’ARTE: QUANDO L’INDIVIDUAZIONE DI UN NOME (QUI, RANUCCIO SANTORO DA ALTAMURA) È IL MINORE DEI PROBLEMI
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Io, per me, non vedo invece, per lo storico, compito più nobile di questo; né più essenziale al fine di delineare le famose “persone” in modo che non abbiano a sembrare degli automi, o degli invasati. R. Longhi1
Se è vero che tra gli storici dell’arte, ad arginare la creazione di personalità pittoriche, vige la convenzione che siano necessari due dipinti per un maestro del Duecento, tre per uno del Trecento e quattro per uno del Quattrocento — e sempre ammesso che il metodo possa essere importato pacificamente in ambito paleografico —, per individuare un anonimo copista del Cinquecento occorrerebbero cinque testi riconducibili alla sua mano: nessuno potrà, dunque, protestare contro la creazione di una nuova figura di scriba greco, cui ritengo vadano ricondotti (addirittura) sette manoscritti o parti di essi, attualmente conservati nella Vaticana: l’Ott. gr. 94, ff. 1r-49v e 97r-162r2; l’Ott. gr. 98, ff. 97r-168v; gli interi Ott. gr. 108, 109 e 225; l’Ott. gr. 265, f. 348rv e, infine, l’Ott. gr. 454, ff. 115r-138v3. Una piccola biblioteca quasi esclusivamente patristica, stando al contenuto dei fogli riconducibili alla stessa mano: il Protrepticus di Clemente Alessandrino (CPG 1375; Ott. gr. 94, ff. 1r-49v e 97r-162r), l’In Isaiam di Giovanni Crisostomo (CPG 4416; Ott. gr. 98, ff. 97r-168v), l’Historia ecclesiastica e la Praeparatio evangelica di Eusebio di Cesarea (CPG 3495 e 3486; rispettivamente Ott. gr. 108 e 265) e l’In Lucam di Teofilatto di Bulgaria (Ott. gr. 454), e le due raccolte miscellanee degli Ott. gr. 109 (con testi di Teoriano, di Manuele I Comneno, di Giovanni I di Kiev, dei patriarchi Michele III di Anchialo e Pietro di Antiochia, e di Niceta Stethatos, oltre al Fructus dello pseudo-Tolomeo e ad Alessandro di Afrodisia) e dell’Ott. gr. 1
R. LONGHI, Fatti di Masolino e di Masaccio, in Opere complete di Roberto Longhi, VIII.1: “Fatti di Masolino e di Masaccio” e altri studi sul Quattrocento, a cura di M. BOSKOVITS, Firenze 1975, rist. Milano 2014 (da cui cito), p. 56. 2 Ad altra mano (la stessa che verga i ff. 164r195r) vanno attribuiti, all’interno di queste due sezioni, i ff. 60r (l. 1-13) e 124v (l. 26-30); a Giovanni Onorio da Maglie i ff. 115r (l. 13), 126v (l. 29(ultimo quarto)-30). 3 I codici sono stati descritti in Codices manuscripti graeci Ottoboniani cit., rispettivamente pp. 58, 59-60, 63-64, 130-131, 149-150, 252-253, dove tuttavia le datazioni sono spesso recenziori e non è riconosciuta la provenienza dei volumi. Quanto a RGK, la mano che opera in questi codici non vi è riconosciuta ed essi sono menzionati solo relativamente alle parti o sezioni dovute ad altri copisti più noti: ossia Antonio Eparco e Bartolomeo Zanetti nell’Ott. gr. 94 (RGK III 36 e 56); Giorgio Bembaines e Giorgio Trifone nell’Ott. gr. 98 (RGK III 95 e 125); Giovanni Onorio da Maglie negli Ott. gr. 108 e 109 (RGK III 286); Guglielmo Sirleto e Cristoforo Auer nell’Ott. gr. 265 (RGK III 154 e 613).
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PARTE SECONDA
225 (con testi di Giovanni Chilas metropolita di Efeso, di Giovanni Vecco patriarca di Costantinopoli, di Cosma Vestitor e di Teodoro Studita, seguiti da una serie di più brevi testi, talora ecceterati). Una personalità, quella del copista di questi volumi, ad oggi non troppo prolifica — è vero —, ma ben attestata e passibile di ulteriori attribuzioni, solo che se ne riconoscano i caratteri “morelliani”4, ossia i tratti più caratteristici e meccanici della mano, quelli più costanti e meno ponderati; una personalità al momento anonima, che, sulla base della forma della lettera più rappresentativa, si potrebbe provvisoriamente denominare “copista ψ”. 1. Un “copista ψ”? Una sua realizzazione paradigmatica è quella dell’Ott. gr. 98, ff. 97r168v, dall’analisi della quale diviene chiaro come gli elementi più caratteristici, e quelli che si riveleranno maggiormente persistenti, siano costituiti dal tratteggio di alcune lettere e di qualche legamento, oltre che dall’abitudine di porre la réclame sul margine inferiore destro del verso di ogni singolo foglio, e non soltanto sull’ultimo del fascicolo. La lettera α è realizzata in un solo tratto, come un a minuscolo carolino, la cui coda finale può allungarsi in maniera vistosa, quando si trovi in fine di parola. Il β è eseguito partendo dall’occhiello superiore piuttosto schiacciato, scendendo poi verso sinistra a chiudere quello inferiore molto più arrotondato; il γ è tracciato maiuscolo con il tratto superiore orizzontale flesso verso l’alto, a bandiera; l’ε presenta molto spesso il tracciato abituale per il maiuscolo: un semicerchio dal cui centro parte il trattino orizzontale. Il ζ è realizzato in dimensioni più ampie delle altre lettere e con due vistose pance a destra, mentre la lettera η ha il tracciato della maiuscola, quando non realizzato in un tratto unico con inclinazione dell’asta centrale dal basso verso l’alto per passare dal primo al secondo tratto verticale. Il θ presenta spesso un tratto d’attacco obliquo fino al rigo di scrittura, e il ρ viene eseguito o in un tratto solo, partendo dall’occhiello superiore per scendere con la coda, che flette a sinistra, oppure, quando sia il secondo elemento di un legamento, con una pancia, da cui pende un tratto verticale non troppo pronunciato. La lettera σ è spesso eseguita nella versione lunata di grandi dimensioni, come se fosse una maiuscola, anche quando si trovi all’interno 4
Si veda T. CASINI, Morelli, Giovanni Giacomo Lorenzo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 76, Roma 2012, pp. 619-624; cui si può aggiungere F. ZERI, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, a cura di L. RIPA DI MEANA, Vicenza 1998, p. 113: «I caratteri morelliani sono quegli stilemi, quelle forme che un artista ripete quasi meccanicamente nei dettagli secondari delle sue opere, e che Giovanni Morelli fu il primo a identificare applicando rigorosamente il metodo positivistico: caratteri che sono tuttora alla base delle attribuzioni».
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di parola; in alternativa ha la forma chiusa con un ultimo tratto che forma un riccio all’indietro, anche quando cada in fine di parola. Il τ può alzarsi di molto sul rigo, spesso col fusto flesso a sinistra, e poi chiudersi in un vistoso tratto obliquo che torna ondulato verso sinistra; ma è la lettera ψ quella che presenta una realizzazione emblematica: oltre a quella a coppa tagliata dal tratto verticale, la versione più caratterizzata prevede che l’asta verticale tagli perpendicolarmente un tratto perfettamente orizzontale che ha sul lato sinistro un’ansa concava. Quanto ai legamenti, il gruppo στ si nota per l’esecuzione di un tratto orizzontale, a sinistra del quale viene agganciata la pancia che sale sotto il tratto per poi ricadere in verticale, anche se molto spesso l’aggancio alla linea superiore non riesce e il tratto rimane pendente; l’ε, quando si trovi ad essere il secondo elemento, è spesso sovrapposto alla lettera precedente, come un’ansa o un circoletto, dal quale scivola in basso quella seguente (ad esempio: περ); seguito da γ, esso viene eseguito come una maiuscola con il tratto sinistro curvilineo e quello centrale orizzontale a creare il legamento; seguito da ι, finisce per aderire da sinistra al vistoso tratto verticale come una borsa. In ultimo il gruppo φθ viene eseguito in legamento, agganciando al fondo dell’asta verticale della prima lettera l’attacco della seconda, che rimane dunque aperta. Le lettere maiuscole E, O e T, se in posizione incipitaria, sono decorate con uno o due tratti verticali al loro interno a ricavare delle sezioni, che possono essere decorate con un tratto di inchiostro colorato. Queste abitudini scrittorie, osservate nell’Ott. gr. 98 (tav. XIX), restano costanti anche nell’Ott. gr. 109 (tav. XX), dove tuttavia l’esecuzione caratteristica del ψ è quasi del tutto assente, a favore di quella più comune col secondo tratto convesso, così come nell’Ott. gr. 265, f. 348rv (tav. XXI). A fronte di queste tre copie in cui lo scriba fa prova di una sua tenuta, ossia di una condotta costante e sorvegliata, le altre quattro sono caratterizzate da un atteggiamento affatto differente, al punto da far dubitare talora della loro attribuzione al “copista ψ”. In realtà, tuttavia, la serie di soluzioni morfologiche sopra illustrate permane costante: quel che muta — e di molto —, conferendo alle singole pagine caratterizzazioni diverse e un excursus molto ampio di impressions d’ensemble, è … tutto il resto. Ne risulta un andamento generale della scrittura così diversificato e multiforme, che potremmo definire questo personaggio il “copista instabile”. 2. Un “copista instabile”? Si prenda, ad esempio, l’Ott. gr. 94 (ff. 1r-49v e 97r-162r): colpisce immediatamente l’occhio l’impressione generale che lo scriba mostri poca
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cura e scarsissimo controllo nella copia. Anche a non considerare il fatto che i fogli siano stati utilizzati come menabò di stampa5, resta tuttavia evidente un’esecuzione molto poco sorvegliata da parte del copista; la scrittura avanza rapida e sconnessa, senza intento formale, quasi tracciata in fretta o con la consapevolezza di produrre una copia di puro servizio: per studio personale o addirittura ad uso dei tipografi. Il modulo può crescere o diminuire, senza ragioni apparenti, anche nell’ambito della stessa pagina, come avviene al f. 41v (tav. XXII): la scrittura si gonfia a partire già dal secondo rigo; così come il ductus accelera o si posa, senza connessione alcuna con elementi di testo o di codicologia: quando cresce, flettendo verso destra (tav. XXIII), trascina via con sé ogni contegno e sfigura ogni tratteggio (tav. XXIV), mentre se si placa, lascia una campitura ampia, verticalmente solida, come di agrimensore principiante (tav. XXV). Se poi la cura aumenta, controllando il modulo, verticalizzando ogni tratto e accorciando quel che esulerebbe troppo dal rigo di scrittura, il risultato è quello di una versione battuta al metronomo (tav. XXVI). La pressione sul calamo — e, quindi, lo spessore del tratto — si aggrava improvvisamente e poi svanisce in un attimo, da un rigo all’altro, come al f. 138r (tav. XXVII). Non solo, ma il copista non è immune da improvvise vampe di calligrafismo, come quella al f. 34r (tav. XXVIII): in preda al misterioso stimolo, prova a irrigidire artatamente la mano per ottenere una riduzione di modulo e una più austera scansione ritmica, e poi la alza in verticale, inarcando il polso, così da togliere la pressione sulla penna e assottigliarne il tratto: un improvviso innaturale tentativo di “messa in punta”, che regge appena quattro righe, prima che la nuova coreografia sia progressivamente gravata dagli usi abituali. Uno sforzo artistico che frana rovinosamente nel giro di una pagina e mezzo: correndo sulla nona riga del foglio seguente, ogni contegno è già perduto. Non mancheranno altri tentativi di tornare sulle punte a tornire pretenzioso i propri tratti, come ai ff. 112r e 135r, ma al “copista instabile” sembra precluso un certo repertorio: ad altri volteggiare di calamo, ricamare sottilissime reti di parole, ritorcere il filo dell’inchiostro in rabeschi immateriali; quanto a lui, avrebbe continuato a procedere per non aerei passi. 5
I fogli in esame dell’Ott. gr. 94, infatti, furono propedeutici all’edizione di Clemente Alessandrino curata da Pier Vettori nel 1550, dalla quale uscirono malconci: rigati a punta secca e macchiati d’inchiostro dagli stampatori e, ancor prima, fittamente annotati, tra gli altri, da Vettori, da Guglielmo Sirleto e da Giovanni Onorio da Maglie. Si veda B. POUDERON, L’utilisation des manuscrits grecs dans les éditions et traductions d’Athénagore au XVIe siècle, in Revue d’histoire des textes 23 (1993), pp. 41-42 e 44, cui mi permetto di aggiungere CARDINALI, Il Barberinianus gr. 532 cit.
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Nell’Ott. gr. 454, ff. 115r-138v — ma un tentativo simile si registra fugace già nell’Ott. gr. 94, f. 42r — il copista s’inventa una danza moderna, di cubismo novecentesco: riduce al minimo il formato, comprimendolo in un bilinearismo molto stretto, e poi piega uno ad uno sull’incudine i singoli tratti di ogni lettera, abitualmente sciolti e tondeggianti. Il tracciato resta costante, ma come spezzato in una ritmica diversa, alla ricerca di una geometria, che gli è estranea, e di una eleganza immateriale di tratto, che si risolve in qualche stenta vezzosità (tav. XXIX). Sulla base di simili, sfortunate, prove di volo si potrebbe osare anche — a metà tra il serio e il faceto6 — la definizione di “copista in cerca di sé”, se non fosse che il nostro non è il primo né l’ultimo a dar prova, tra i suoi colleghi, di una notevole variabilità, ossia ad eseguire il suo lavoro di copia, così come il tracciato delle singole lettere, in maniera diversa e multiforme. Non è il primo né l’ultimo ad approfittare del suo stesso lavoro di trascrizione per sperimentare nuove soluzioni grafiche e battere le molteplici vie espressive che gli si aprono davanti; quasi sovrapponesse all’atto della copia la ricerca e la messa a punto di una espressione personale. O approfittasse delle righe da trascrivere come di un terreno sul quale mettere alla prova le possibilità più diverse della propria mano. Si tratta — si badi bene — di soluzioni differenti sperimentate sincronicamente: non fasi di uno sviluppo grafico personale, che si dà e cresce (o, comunque, evolve) con l’arco biografico e professionale del copista, ma di esiti differenti prodotti in contemporaneità esatta: talora nel lasso stretto di un medesimo foglio. Essi non sono, e non vanno intesi né ordinati come tappe successive una all’altra, tracce di una qualche maturazione del copista, ma sincronici esercizi di stile. Né mai si registra qualche, nemmeno minima, connessione tra la scelta grafica e il dato contenutistico: quelle del “copista instabile” sono variazioni o sperimentazioni autonome rispetto al testo che sta trascrivendo, nei confronti del quale egli vive la più ingenua indifferenza; nulla, dunque, di
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Il richiamo è alle scintillanti e sempre valide (anche in campo paleografico) affermazioni di Federico Zeri nell’intervista concessa a B. ZANARDI, Conservazione, restauro e tutela. 24 dialoghi, Milano 1999, pp. 63-79, segnatamente p. 71: «Perché la filologia all’italiana isola le opere d’arte in una serie di figure indipendenti dai contesti storici che le hanno prodotte; e così ignora quello che può essere l’impegno civile sollecitato dalla tutela delle opere d’arte intese come insieme indissolubile dal contesto che le ha prodotte. Lei ha mai esaminato le riviste uscite di recente con comitati di redazione quasi interamente costituiti dalla generazione più giovane di storici dell’arte? Prenda i sommari e vedrà che gli articoli sono tutti: “Un raggio di sole su Taddeo da Poggibonsi”; poi: “Un nuovo contributo sull’amico di Taddeo”; poi: “Rivedendo una Annunziata di Bartolino da Montecatini”. Gli stessi titoli tra Pascoli e D’Annunzio delle riviste di cinquanta, sessanta o settanta anni fa».
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paragonabile al “digrafismo” di età bizantina7, ma molto prossimo, invece, al caso di Pietro Vergezio. 3. Un “copista in cerca di sé”? Ecco, dunque, che, ancora anonimo, limitato nelle attestazioni e ordinario nei risultati, anche il “copista ψ o instabile” solleva al paleografo una serie di questioni e lo chiama al confronto con interrogativi che fino ad ora non hanno trovato spazio nella riflessione teorica e nella ricerca concreta8; ma che potrebbero trarre notevole vantaggio da quanto la storia dell’arte ha già affrontato da tempo. È vero che il dato di scribi che, proprio durante la copia dei codici, trovano tempo e modo per elaborare un loro proprio stile o per forgiare nuove forme grafiche o semplicemente per sperimentare le possibilità espressive del calamo, inizia ad esser forte soltanto nel corso del XVI secolo, anche a motivo — è indubbio — della grande quantità di materiale scritto che sopravvive, assai meno selezionato dal tempo e dalle circostanze rispetto a quanto ci è giunto dai secoli precedenti, e latore di usi di scrittura non (più) attestati per i secoli precedenti. Si tratta, dunque, di una riflessione che viene da un periodo considerato “tardo” dalla paleografia tout court, ossia quello posteriore all’invenzione e alla diffusione della stampa, al quale — ed è altrettanto indubbio — non si possono estendere che in maniera progressivamente più impropria ed inefficace le riflessioni e le conclusioni elaborate per il periodo bizantino, che è quello che ha finora maggiormente stimolato le riflessioni teoriche e metodologiche della paleografia greca. Tuttavia, il dato resta e chiede di essere affrontato; o quanto meno resiste all’inerzia di chi vorrebbe continuare a considerare l’attività di copia del XVI secolo con le stesse categorie impiegate per l’evo di mezzo. Per ora, è sufficiente aver posto il problema, rilevando il nudo fatto scrittorio e affiancato il caso di questo scriba a quello di Pietro Vergezio: nelle conclusioni di questo volume si tornerà su questo punto per un supplemento di riflessione. Tanto più che un ulteriore elemento significativo viene proposto da questo caso concreto, ed è quello che segue. 4. Un “amico di Onorio”? È proprio — e nuovamente — il nostro “scriba ψ”, infatti, a fornire ulteriore materia all’analisi di un altro problema teorico, ossia quello del peso e della capacità di attrazione esercitata da un maestro o da un “copista 7
Si veda la bibliografia indicata supra, p. 47. Per certi versi restano ancora insuperati i contributi di HARLFINGER, Zu griechischen Kopisten cit. e di CANART, Indentification et différenciation cit. 8
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Fig. 11 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 649, p. 114: specimen della mano di Giovanni Onorio da Maglie.
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d’eccezione” su discepoli, collaboratori o semplici suoi coetanei. Ricorrendo ancora agli usi della storiografia artistica (e non senza timore per le implicazioni che essi hanno ormai assunto da Bernard Berenson in qua9), si potrebbe tentare per il nostro la suggestiva, ed infida, denominazione di «Amico di Onorio»: in almeno quattro dei sette testimoni vaticani della sua attività finora considerati, si riscontra, infatti, la presenza di elementi dovuti alla penna di Giovanni Onorio da Maglie. Appare, dunque, ormai chiaro come il «copista ψ» non sia altro che il «copista 2», ossia il collaboratore anonimo di Onorio identificato e descritto da Maria Luisa Agati, ma solo limitatamente all’Ott. gr. 10810. Scriptor graecus della Biblioteca Vaticana dal 1535 al 1563 (presso cui arrivò a percepire 8 scudi mensili, mentre quelli accordati ai suoi omologhi erano quattro o cinque11), ma anche esperto di scrittura tout court e collazionatore di testi, e inserito nei più dotti circoli della Roma farnesiana, Onorio aveva negli anni messo a punto una propria versione di Druckminuskel dal modulo minuto e dal ductus veloce con un fioritissimo repertorio di abbreviazioni, che richiama «una di quelle stilizzazioni umanistiche e rinascimentali di ascendenza erudita, tipiche della cancelleria costantinopolitana»12 (fig. 11). Una scrittura filigranata, minutissima ed aerea, quasi senza consistenza, complici un calamo zenitale e una costanza disumana nella tracciatura del segno: fioriture immateriali di un virtuoso inarrivabile, che avevano sedotto dapprima papa Pavolo e poi i vertici dell’intera dottissima sua Curia, da Alessandro Farnese a Niccolò Ridolfi, da Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora a Marcello Cervini: nessuno di loro volle rimanere privo di qualche esemplare di questa Maria Taglioni del pennino. Fino ad Angelo Colocci, vescovo di Nocera Umbra: il “suo” Vat. gr. 1043 è di mano di Onorio, ma presenta un πίναξ che va attribuito a quella del “copista ψ” alias l’“amico” e rappresenta, ad ora, l’ottavo numero del suo catalogo13. Nei codici qui in esame gli inserti onoriani sono limitati o alla redazione del πίναξ14 o all’inserimento delle titolazioni15 oppure, in combinazione o 9
Mi riferisco a B. BERENSON, Amico di Sandro, con un saggio di P. ZAMBRANO, Bernard Berenson e l’Amico di Sandro, Milano 2006. 10 AGATI, Giovanni Onorio cit., pp. 223-225. 11 AGATI, Giovanni Onorio cit., pp. 30-31. 12 AGATI, Giovanni Onorio cit., p. 20. 13 Per la paternità onoriana del codice rinvio ad AGATI, Giovanni Onorio cit., p. 297, mentre per il possesso colocciano mi permetto di indicare CARDINALI, Il profeta e il monsignore cit. 14 È il caso dell’Ott. gr. 109, per il quale si veda già AGATI, Giovanni Onorio cit., p. 310. 15 Nell’Ott. gr. 108 onoriani sono il pinax e i titoli, come già secondo AGATI, Giovanni Onorio cit., p. 282.
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meno con essi, a brevissime righe di testo16, dalle quali si deduce una contiguità di lavoro molto stretta, con Giovanni Onorio a dirigere e sorvegliare l’attività di copia e l’«amico» a compiere la gran parte dell’opera (il Vat. gr. 1043 è l’eccezione che conferma la regola). Un dato che apre uno spiraglio interessante, dal momento che fino ad ora non è provata l’esistenza di un atelier diretto dal copista pugliese, che anzi si tende a credere tenuto a lavorare esclusivamente per il Pontefice, in quanto scriptor vaticano17. Quali che siano state le condizioni concrete di questa collaborazione, ad illuminare la quale ancora troppo magri sono i dati a disposizione, da un punto di vista paleografico essa importa perché lascia un segno sull’attività dell’«amico», che risente della contiguità col più pagato ed elegante copista greco attivo a Roma. L’effetto è quello che si registra nell’Ott. gr. 225, f. 98r ll. 20(ultimo terzo)-27 (tav. XXX): l’«amico di Onorio» di colpo toglie peso al polso, verticalizza il calamo e, smaterializzato il tratto, prova anche lui, con procedere sinuoso, a rabescare sul foglio bianco come il divino Giovanni. Sette righe appena e il sogno svanisce: i tratti tornano più pieni e più densi, la mano abbandona ogni sinuosità e ritrova, voltato il foglio, un andamento particolarmente secco e legnoso. Un episodio, tra i molteplici presenti nei quattro codici in esame, di pura rêverie, non assimilabile in alcun modo al caso dell’influenza di un maestro sul proprio allievo, indagato da Paul Canart e da Paolo Eleuteri18, e, tanto meno, a quello degli influssi grafici di tipo familiare, visti nel caso di Pietro Vergezio e tematizzati dalla Mondrain per gli Eparco19. Qui è questione di due personalità già formate, dall’identità costruita nei propri tratti essenziali, ma delle quali una percepisce in maniera dirompente — se non subisce addirittura — l’influenza dell’altra, del suo carattere più determinato o dominante. Si tratta di indagare gli effetti sul lavoro di un copista della prossimità di una personalità spiccata, che ha elaborato una propria fisionomia e che esercita una influenza: Giovanni Onorio sull’“amico”, in questo caso. E anche in questo caso non c’è riferimento più efficace delle discussioni, immaginate da Roberto Longhi, tra Masolino da Panicale e Masaccio sull’impalcatura della Cappella Brancacci al Carmine, dove la 16 Nell’Ott. gr. 94 sono da attribuire alla mano di Onorio i ff. 115r l. 13, 126v ll. 29(ultimo terzo)-30, nell’Ott. gr. 225 i ff. 2r ll. 25(seconda metà)-30, 16r ll. 11-12, 92r ll. 9(seconda metà)10, 105v, ll. 17(da ὡς ἐπὶ)-18. 17 Si veda la già citata espressione tratta dalla lettera di Caro a Paciotto (ANNIBAL CARO, Lettere familiari cit., p. 81): «Scrittori ci sono pochi, e quelli la più parte servono a la Libraria sopradetta, e non è lor lecito a scriver per altri». 18 P. ELEUTERI e P. CANART, Scrittura greca nell’Umanesimo italiano, Milano 1991, pp. 9-10. 19 MONDRAIN, Les Eparques cit.
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presenza del giovane maestro influenzò per un quinquennio all’incirca l’arte di Masolino, che, terminata la collaborazione, tornò sé stesso, come liberato dal campo magnetico dell’innovatore, che in fondo egli non aveva mai capito20. O quella Lettera pittorica a Giuseppe Fiocco21, nella quale veniva coniata la definizione di «rinascimento umbratile» a indicare la particolare assunzione delle novità pittoriche toscane da parte di alcuni artisti veneti che, affascinati dalla novità, ma formati e impratichiti in altri tempi e in altri contesti, ne seppero cogliere solo alcuni degli aspetti più eclatanti e superficiali, ripresi e imitati senza alcuna ragione profonda o assimilazione convinta. Un aggiornamento sforzato e senza radici, mosso dall’ammirazione e ingenuo, ma non assunto né digerito: «Tu vedi adunque che la congiunzione tra Firenze e Venezia, nella prima metà del Quattrocento, non avvenne già sotto l’influsso di una costellazione rinascimentale ma per contro deliziatamente gotico-medievale; e diede luogo a fatti che anche nelle parti dove spira un ritmico e dignitoso classicismo si mostrano di origine prettamente medievale e, per il poco rimanente, delibano alle prime sorgive rinascimentali con una delicatezza tutta ombrosa come di cerbiatto innamorato e un po’ stupido, che per caso “abbia visto la biscia ruana”»22. Un corredo di riflessioni, questo, che potrebbe rendere più edotti e scaltri nel trattare anche i fatti scrittori e inquadrare meglio tutti quei singoli casi in cui un copista fa mostra di «strutture nelle quali non esiste una ragione intima»23, di «citazioni estemporanee»24 da colleghi celebri, di assunzione, spesso temporanea e compiaciuta, di elementi posticci, che non si integrano col tessuto culturale e non trovano vero posto nell’orizzonte mentale del copista25. Una ricerca tutta da impostare e compiere, ma che
20 Si veda LONGHI, Fatti di Masolino cit., pp. 20, 41 e soprattutto 56: «Ma risparmierò ai colleghi la trascrizione dei colloqui che pure gioverebbe anche qui reimmaginare puntualmente per rappresentarci al vivo quella che fu la reale consistenza nella vicenda artistica di anni tanto decisivi: una rappresentazione che stranamente ripugna ai negatori di “influenze”, come se gli scambi mentali fra gli uomini non fossero cosa seria e di peso tanto maggiore quanto più alta è la levatura spirituale dei contraenti». 21 R. LONGHI, Lettera pittorica a Giuseppe Fiocco, in Vita Artistica 1926, pp. 127-139, poi in ID., Saggi e ricerche. 1925-1928, Firenze 1967, pp. 77-95. 22 Ibidem, p. 82. La riflessione sarebbe stata proseguita da F. ZERI, Rinascimento e Pseudo-Rinascimento, in Storia dell’arte italiana, II: Dal Medioevo al Novecento, vol. 5: Dal Medioevo al Quattrocento, a cura di F. ZERI, Torino 1983, pp. 2-44. 23 ZERI, Rinascimento e Pseudo-Rinascimento cit., p. 13. 24 Ibidem, p. 16. 25 AGATI, Giovanni Onorio cit., pp. 219-252, segnatamente pp. 249-252 ha rilevato il problema e posto validi interrogativi, che tuttavia non hanno ancora trovato adeguata risposta.
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trarrebbe profitto enorme anche dalla ricerca di Federico Zeri sull’impatto di Giotto nell’entroterra riminese26. 5. Ipotesi di datazione e localizzazione In confronto a queste aperture d’orizzonte e agli stimoli di riflessione appena sollevati27, cosa assai più piana e agevole appare — ritirata (ma non nascosta) la mano, dopo il lancio del sasso — tornare ai fatti concreti del copista qui in esame, per cercare di definirne meglio la vicenda biografica e professionale: la sua produzione finora considerata lo rivela, infatti, romano d’adozione e attivo a ridosso della metà del XVI secolo, non fosse altro che per la contiguità con Onorio appena dimostrata. In questa direzione vanno anche, dirimenti, i pochi elementi cronologici e topici che è possibile cavare dalle otto copie vaticane. Sette appartennero alla collezione personale di Marcello Cervini28 e tutte passarono a quella del suo bibliotecario e collaboratore: Guglielmo Sirleto29, per finire nelle mani dapprima del cardinale Ascanio Colonna, poi dei duchi d’Altemps e (notevolmente depauperata) degli Ottoboni, per approdare in Vaticana 26 F. ZERI, Due appunti su Giotto, in Paragone 8.85 (1957), poi in ID., Giorno per giorno nella pittura italiana. Scritti sull’arte toscana dal Trecento al primo Cinquecento, Torino 1991, pp. 9-16, segnatamente pp. 12-14. 27 L’intento è quello di compiere un pieno passaggio dalla filologia in senso stretto a una ricostruzione storica più ampia e articolata, che tenga conto dei dati filologici (che sono e restano il punto di partenza di qualsiasi analisi), integrandoli in una ricostruzione più ampia e profonda come auspicava per la storiografia artistica (ancora una volta) Zeri nell’intervista a ZANARDI, Conservazione cit., p. 63, e — con molti decenni d’anticipo — teorizzava già G. PASQUALI, Paleografia quale scienza dello spirito, in ID., Pagine stravaganti di un filologo, Lanciano1933, pp. 181-205, e poi realizzava nella sua Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934. 28 In questo caso specifico si può fare affidamento sulla ricostruzione, per il resto molto parziale e scarsamente affidabile, di DEVREESSE, Les manuscrits grecs cit., pp. 261 e 266, eliminando il punto di interrogativo all’identificazione dell’Ott. gr. 98 (p. 266) e riconoscendo l’Ott. gr. 265 nella voce «Eusebii Pamphilii De evangelica praeparatione, legato in pergameno» (p. 261 nr. 37); quanto ai limiti di questo saggio rinvio a CARDINALI, En jouant avec cit. 29 Mancando ancora l’edizione dell’inventario della biblioteca greca di Guglielmo Sirleto, indico qui di seguito le cinque segnature vaticane riconoscibili nell’inventario obituario steso da Giovanni Santamaura (per il quale si vedano G. DE GREGORIO, Il copista greco Manouel Malaxos. Studio biografico e paleografico-codicologico, Città del Vaticano 1991, pp. 133-158, seguito da M. D’AGOSTINO, La scrittura di Giovanni Santamaura, in Segno e Testo 7 (2009), pp. 301-340, poi in ID., Giovanni Santamaura. Gli ultimi bagliori dell’attività scrittoria dei Greci in Occidente, Cremona 2013, pp. 65-108; e CARDINALI, En jouant avec cit., pp. 18-22) nella versione del Vat. lat. 6163 (qui, come infra, seguo la numerazione antica dei fogli apposta in inchiostro nero al centro del margine superiore del recto di ogni foglio): Ott. gr. 94 = Sirleto, Theol. 216 (cfr. Vat. lat. 6163, f. 124r); Ott. gr. 98 = Theol. 236 (ibidem, ff. 146r-147r); Ott. gr. 108 = Theol. 241 (ibidem, ff. 148v-149r); Ott. gr. 109 = Theol. 242 (ibidem, ff. 149r-150r); Ott. gr. 225 = Theol. 207 (ibidem, ff. 108r-109v). Non si trova, invece, riscontro per gli Ott. gr. 265 e 454.
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nel 1748. Origine romano-curiale, dunque, delle copie, se non altro per il loro committente, e un arco cronologico che si estende dalla fine degli anni Trenta a quel fatale 1555, che fu anno di tre papi: Giulio III Ciocchi del Monte, Marcello II Cervini e Paolo IV Carafa. Il Vat. gr. 1043, invece, essendo stato parte della collezione di Colocci va datato assolutamente ante 1549, che è l’anno di morte del prelato. Ulteriori conferme vengono dall’Ott. gr. 265, in cui il «copista ψ» verga il solo f. 348rv all’interno di un codice che è di mano di Sirleto e di Cristoforo Auer, scriba germanico il cui soggiorno a Roma si colloca tra il 1539 e il 155030; e dall’Ott. gr. 454, che servì di base, assieme agli Ott. gr. 453 e 455, alla stampa del Commento ai Vangeli di Teofilatto di Bulgaria, che Cervini promosse presso Antonio Blado nel 1542: un ante quem irrefragabile. 6. Il nome: Ranuccio Santoro Per passare dall’ancor vago profilo del “copista ψ” o “instabile” o “amico di Onorio” ad una personalità precisa (e suffragare, o almeno non contraddire, i dati appena indotti), bisognerebbe, infine, avere la fortuna di imbattersi in un autografo sottoscritto, così da togliere ogni residuo d’ombra alla figura finora delineata. Questo per fortuna esiste: si tratta del manoscritto della British Library, Harleianus 5597, ff. 1r-8v31: contiene il testo del Fructus sive Centiloquium di Claudio Tolomeo32 - lo stesso copiato nell’Ott. gr. 109 —, proviene dalla biblioteca di casa Farnese33 e reca in testa (ai ff. 1v e 2v), come prova indiscutibile, una duplice redazione di lettera dedicatoria al cardinale Ranuccio Farnese da parte di un certo Ranuccio Santoro da Altamura: Ῥανούσιος Σαντόριος Ἀλταμούριος. La mano che ha vergato le due redazioni della missiva e l’intero testo di Tolomeo, coincide perfettamente con quella del “copista ψ” o “instabile” o “amico di Onorio”34, al punto tale che sarebbe inutile descriverla, senza ripetere quanto già illustrato sopra. Così come coincidono anche i dati cronologici e il luogo di lavoro dello 30
Si vedano VOGEL-GARDTHAUSEN, Die griechischen Schreiber cit., pp. 428-430; OMONT, Fac-similés de manuscrits grecs cit., Paris 1887, p. 10 n. 11; SAMARAN-CONCASTY, Christophe Auer cit., pp. 199-214 e RGK I 381 = II 525 = III 613. 31 Una descrizione è stata data in A Catalogue of the Harleian Manuscripts in the British Museum, III, London 1808, p. 279 e poi in Catalogus codicum astrologorum graecorum cit., pp. 16-17. 32 Si veda la descrizione del codice in Claudii Ptolemaei opera quae extant omnia, III, 2, ed. F. LAMMERT † et AE. BOER, editio altera correctior, Lipsiae 1961, pp. XXVI e XXXI. 33 La provenienza farnesiana è stata riconosciuta da L. PERNOT, Nouveaux manuscrits grecs farnésiens, in Mélanges de l’École française de Rome. Moyen Âge-Temps Modernes (93.2) 1981, pp. 695-711, segnatamente pp. 696 e 704, e confermata da M. R. FORMENTIN, Uno scriptorium a Palazzo Farnese?, in Scripta 1 (2008), pp. 77-102, segnatamente p. 79. 34 Il manoscritto può essere sfogliato sulla pagina web della British Library.
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Fig. 12 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. gr. 265, f. 1r: stemma cardinalizio di Marcello Cervini.
scriba, ricavati dai manoscritti finora noti: se l’esemplare londinese è stato allestito per la libreria farnesiana e dedicato al cardinale Ranuccio (11 agosto 1530-29 ottobre 1565)35, non vi è dubbio che il copista abbia lavorato a Roma a cavallo della metà del XVI secolo; anzi, nel caso dell’Harl. 5597, tra il 1546 e il 1565: in ambedue le redazioni della missiva il più piccolo dei nipoti che Paolo III elevò alla porpora è menzionato col titolo di Sant’Angelo in Pescheria, col quale aveva cambiato quello di S. Lucia in Silice (ricevuto nel Concistoro del 16 dicembre 1545 e di cui aveva preso possesso il 5 maggio 1546) esattamente l’8 ottobre 1546, e che tenne fino al 7 febbraio 1565, quando fu promosso alla sede suburbicaria di Sabina36. Si dà inoltre un elemento, per così dire, araldico all’identificazione in Ranuccio Santoro del “copista ψ”: Marcello Cervini, presso il quale lo scriba pugliese era spesso in servizio, era creatura farnesiana e doveva la sua carriera alla stima e alla benevolenza di papa Paolo III, al punto tale che nel suo stemma da cardinale la cerva adagiata su di una pianura al naturale con le nove spighe di grano appare sormontata dall’inconfondibile elemento d’oro a sei gigli d’azzurro posti tre in capo, due al centro ed uno in punta: il passaggio del copista di Altamura dall’entourage cerviniano a quello farnesiano, dunque, non trova alcun ostacolo e rafforza l’identificazione della mano dei codici vaticani con quella dell’Harl. 5597 (fig. 12). Nulla aggiunge — dal punto di vista strettamente cronologico — la menzione, in ognuna delle due lettere, di Ottavio Farnese (9 ottobre 1524-18
35 G. FRAGNITO, Farnese, Ranuccio, in Dizionario Biografico degli Italiani, 45, Roma 1995, pp. 148-160. 36 Hierarchia Catholica cit., p. 30.
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PARTE SECONDA
Fig. 13 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 6792, f. 58r: autopresentazione di Giovanni Santamaura in una lettera-curriculum vitae a Guglielmo Sirleto.
settembre 1586)37, fratello di Ranuccio, che vi viene ricordato, tra tutti i titoli di cui nonno e padre l’avevano abbondantemente fregiato, come signore di Altamura in Puglia, feudo che ricevette in dote da sua moglie Margherita d’Austria, figlia illegittima di Carlo V, sposata il 4 novembre 1538; dunque, prima del 1545, da individuare come terminus post quem per l’allestimento del manoscritto londinese. Molto, invece, aggiunge questo dettaglio dal punto di vista geografico, dove l’aggettivo Ἀλταμούριος fa di Ranuccio Santoro un pugliese, senza alcuna ombra di dubbio né di quella confusione con toponimi equivoci e facilmente manipolabili, come si vedrà fra poco. Ed è da originario di quella cittadina che Santoro evoca fra tutti i feudi di Ottavio proprio quello di Altamura38, che veniva a suggellare una sorta di legame speciale tra lui e il Farnese. Un copista pugliese, dunque, nativo di una di quelle terre in cui la cultura greco-bizantina persisteva ancora, o meglio viveva la sua ultima stagione, ma che permetteva ibridazioni interessanti, come quella che qualche decennio più tardi avrebbe vantato Giovanni Santamaura: non già griaeco, ma è figlio veragio della Santa Madre Chiesia Romana, rigenerato della sua santissima fonte, ma per essere nato èt cresciuto in paese dove sogliono par-
37 G. BRUNELLI, Ottavio, Farnese, in Dizionario Biografico degli Italiani, 79, Roma 2013, pp. 819-825. 38 P. CORSI, La comunità greca di Altamura, in Nicolaus 5 (1977), pp. 145-174 e 365-403, e 6 (1978), pp. 289-325 e V. PERI, La congregazione dei Greci (1573) e i suoi primi documenti, in Studia Gratiana 13 (1967), pp. 129-256, segnatamente pp. 148, 160-161, 177-180, 233-234.
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lare graeco, sa multo bene parlare la lengua griaeca volgare et bonicello della antiqua, atteso è grammatico in graeco39 (fig. 13). Ad Altamura, in realtà, gli ultimi splendori della grecità languivano in maniera assai bellicosa: proprio attorno alla metà del XVI secolo il clero greco combatteva la sua ultima battaglia per la preservazione della propria identità culturale, liturgica e rituale rispetto al clero latino, forte di una tradizione secolare che non poteva rassegnarsi a cedere alle pretese romane40, specie da quando «Avina Salarzano, Arciprete di Altamura, geloso dell’autorità, che i greci sacerdoti esercitavano con libertà, e senza distinzion di rito sopra tutti i paesani, fu il primo a molestargli, e a far giugnere all’ultimo eccesso il suo impegno»41. Si era, infatti, in una delle cittadine che sul finire del secolo sarebbero state censite nella “terza classe” delle Terre greche dell’Italia meridionale42: dopo la “prima” che riuniva i paesi a sud di Lecce «dove si parla greco solamente et si fanno l’offici greci solamente» e dopo la “seconda”, nella quale erano classificati paesi delle diocesi di Nardò e Otranto, «dove si parla greco e latino, et similmente sono preti greci et latini»; ad Altamura, come in molte altre località fino a Leuca, «si parla latino solamente et li preti sono greci et altri latini»: una situazione di minoranza numerica e culturale, che — come si è visto — rendeva più agguerrita l’ultima resistenza ellenofona. Da questo contesto proveniva Ranuccio Santoro, che è, dunque, il «copista ψ» o «instabile», l’uomo in cerca di sé, il collaboratore — o, meglio, uno dei collaboratori — di Giovanni Onorio da Maglie; ma la vicenda non termina qui, ché, come spesso accade, un passo in avanti ne comporta subito un altro. 7. Un copista creato in vitro Registrati all’anagrafe paleografica il nome e la mano di Ῥανούσιος Σαντόριος Ἀλταμούριος/Ranuccio Santoro di Altamura, viene da chiedersi che rapporto intercorra tra questi e il fortissimamente assonante Santorio Ragusio di Altamura, che avrebbe copiato e sottoscritto il codice oggi conservato a Grottaferrata con la segnatura Crypt. Δ. γ. XVII (gr. 230), un 39 Così si presenterà a Sirleto nella lettera-catalogo oggi conservata nel Vat. lat. 6792, f. 58r, sulla quale infra, p. 92. 40 L’ultimo lavoro in ordine di tempo è quello di V. INCAMPO, La comunità greca di Altamura e la “Riforma dei Greci” promossa dalla Santa Sede nel secolo XVI, Bari 2015 (con bibliografia), ma si vedano anche V. PERI, Chiesa latina e Chiesa greca postridentine, in La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo, I, Padova 1972, pp. 271-469 e, ancora addietro, P. P. RODOTÀ, Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, I, Roma 1758, pp. 368-372. 41 RODOTÀ, Dell’origine, progresso e stato presente cit., p. 369. 42 INCAMPO, La comunità greca di Altamura cit., pp. 46-48.
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PARTE SECONDA
Octoëchum datato a ridosso della metà del XVI secolo. Una curiosa specularità tra nome del primo e patronimico del secondo (e viceversa), senz’altro, ma per il resto? Fortuita analogia? Allitterazione accidentale? In realtà, la domanda è necessaria, ma vuota, ché Santorio Ragusio di Altamura non è mai esistito, almeno come copista di codici greci, ma è il frutto di una curiosa vicenda critica, talmente paradigmatica nei suoi snodi principali da richiamare alla mente, per tornare alla storiografia artistica, l’Amico di Sandro di Berenson: «saggio ‘sbagliato’, viziato nelle premesse, affabulatorio nello svolgimento delle argomentazioni, infondato nelle conclusioni a cui giunge»43. Val la pena di ricostruirla, se non altro a memento: una lettera scritta al posto di un’altra e qualche punto fermo — che tanto fermo non è — e si rischia di dar vita a creature fantastiche. Il profilo di Ragusio Santoro poggia, infatti, unicamente sulla sottoscrizione del codice criptense, divulgata dalla trascrizione che se ne legge nel catalogo di Antonio Rocchi: Τοῦτο βιβλίον γέγραπται ἀπὸ τῆς χειρὸς τοῦ
Ραγουσίου Σαντορίου Αλταμουρίου εἰς τὴν ἡμέραν κς´ τοῦ μηνὸς σεπτεμβρίου ἐν τῷ ἔτει ἀπὸ τῆς γεννήσειως τοῦ χριστού ͵α.φ.μ.ζ.44. Da questa informazione è stata accolta una nuova personalità grafica, di fatto appena consistente, ma subito consacrata dal repertorio di Marie Vogel e Victor Gardthausen45, che con ulteriore torsione onomastica lo trasformarono in Σαντόριος Ἀλταμούριος ὁ ᾿Ραγούσιος. Prudentemente non accolto nel Repertorium der griechischen Kopisten, questo copista attualmente sopravvive soltanto dentro le strette valve degli studi relativi alla biblioteca criptense. Qui, il granello di sabbia di un copista di Altamura è parso subito un corpo estraneo, giusta la diffusa convinzione che fa dell’antica Badia un vessillo di cultura italogreca: quel nucleo irritante, quindi, è stato avvolto nel più ampio «nuovo rigoglio» dovuto «principalmente alla instancabile operosità di vari monaci-copisti», che nel XVI secolo ripresero con convinzione l’opera di trascrizione dei testi, in ordine all’arricchimento della biblioteca monastica46, dando per scontato che la copia fosse stata 43
BERENSON, Amico di Sandro cit., p. 71. Codices Cryptenses seu Abbatiae Cryptae Ferratae in Tusculano digesti et illustrati cura et studio D. A. ROCCHI, Tusculani 1883, pp. 374-375. 45 VOGEL-GARDTHAUSEN, Die griechischen Schreiber cit., p. 397. 46 S. LUCÀ, Su origine e datazione del Crypt. Β.β.VI (ff. 1-9). Appunti sulla collezione manoscritta greca di Grottaferrata, in Tra Oriente e Occidente. Scritture e libri greci fra le regioni orientali di Bisanzio e dell’Italia, a cura di L. PERRIA, Roma 2003, pp. 145-224, segnatamente pp. 150-151. Si vedano anche M. T. RODRIGUEZ, Manoscritti cartacei del fondo S. Salvatore. Proposte di datazione, in Rivista di studi bizantini e neoellenici 43 (2006), pp. 177-259, segnatamente p. 241 nt. 272; e LUCÀ, Guglielmo Sirleto cit., p. 188 nt. 262, dove però il copista è qualificato come «Ragusio Santoro di Altamura in Puglia» e ricondotto alla chiesa di San Nicola di Altamura. 44
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esemplata a Grottaferrata47 dal monaco «Ragusio Santoro di Altamura in Calabria»48. In realtà, prendendo in mano il manoscritto originale, si constata che il copista ha effettivamente scritto ῾Ραγουσίου (e si scagiona quindi il catalogatore Rocchi dalla responsabilità dell’errore e si inizia a diffidare delle sottoscrizioni autografe): l’oscillazione tra le due varianti allofoniche (Ranusio e Ragusio) con piena interscambiabilità tra γ e ν, è, dunque, dovuta all’interessato che sta evidentemente scrivendo un nome — il proprio — che non aveva una ortografia storica attestata, ma era estraneo al proprio contesto linguistico. Con ogni probabilità fu l’assunzione, da parte di Santoro, di un “nome d’omaggio” ai Farnese, a generare l’oscillazione tra le due consonanti (e l’origine della confusione da parte dei paleografi)49. La γ va, dunque, corretta in ν, invertita la distinzione di nome e patronimico in Ῥανούσιος Σαντόριος Ἀλταμούριος/Ranuccio Santoro da Altamura, e, infine, sovrapposta la nuova figura a quella del copista dell’Harl. 5597, ff. 1r-8v, dei sette Ott. gr. e del Vat. gr. 1043, ff. 1r-2v sopraccitati. A chiederlo è l’assoluta identità della mano del codice criptense con gli altri nove appena ricordati, senza alcun dubbio50. L’autore di tutti i manoscritti in esame è palesemente il medesimo e, siccome la versione Ranusio/Ranuccio compare due volte nell’Harl. 5597 (e quattro — come si vedrà a breve — in documenti contabili ufficiali) ad indicare il nome proprio del copista, mentre quella di Ragusio solo nella sottoscrizione criptense, la prima delle due sarà quella da prendere per buona. Con la personalità dello scriba del codice londinese e dei vaticani collimano, del resto, anche la datazione del Crypt. Δ. γ. XVII (gr. 230), terminato il 26 settembre 1547, e l’orbita farnesiana del copista: Tusculum fu, infatti,
47 S. LUCÀ, Il Casan. 931 e il copista criptense Michele Minichelli (sec. XVI). Libri testi ed eruditi nella Roma di Gregorio XIII, in Rivista di Studi Bizantini e Neoellenici, n. s., 41 (2004), pp. 181-259, segnatamente pp. 193-194, dove il copista è indicato come: «Santoro Ragusio di Altamura». 48 LUCÀ, Il Casan. 931 cit., p. 193-194: «Ottoeco esemplato a Grottaferrata nel 1547 (f. 129v) da Ragusio Santoro di Altamura in Calabria». In realtà, E. BARILLARO, Dizionario bibliografico e toponomastico della Calabria, 1-3, Cosenza 1976 e G. VALENTE, Dizionario bibliografico, biografico, geografico, storico della Calabria, I: Abante-Azzuria, Chiaravalle Centrale 1988 non censiscono questo toponimo. 49 PERNOT, Nouveaux manuscrits cit., p. 696 nt. 9 era stato assai prudente: «Le nom exact de ce copiste du milieu du XVIe siècle présente quelque incertitude», spiegando a proposito dell’Harl. 5597 (p. 704): «le copiste y donne son nom, que les catalogues transcrivent en latin avec des divergences: Rhanusius (ou Ranusius) Santorius (ou Sanctorius, ou Santurius) Altamurius». 50 A PERNOT, Nouveaux manuscrits cit., p. 704 spetta di aver riconosciuto questo manoscritto come farnesiano.
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PARTE SECONDA
Fig. 14 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Md. Pont. Paulus III. 45: medaglia commemorativa della restitutio di Tuscolo ad opera di Paolo III Farnese.
luogo di villeggiatura di papa Pavolo terzo Farnese51 (fig. 14), la Badia di Grottaferrata dal 1564 al 1589 commenda di Alessandro52, fratello maggiore di Ranuccio53; non è, dunque, improbabile che l’Octoëchum sia giunto nel monastero a seguito di una donazione, o comunque dell’iniziativa di uno dei due cardinali54. Molto più improbabile è — ad oggi — un’attività di Santoro interna alla Badia, nella biblioteca della quale non si ha notizia di altri volumi di sua mano, come nemmeno di una sua professione religiosa all’interno del monastero, al punto che il suo nome non figura — e giustamente — nel repertorio degli amanuensi di Grottaferrata55. 51
M. FAGIOLO, Frascati “seconda Roma”: introduzione al sistema delle ville borgesiane, in Lo “Stato tuscolano” degli Altemps e dei Borgese a Frascati. Studi sulle ville Angelina, Mondragone, Taverna-Parisi, Torlonia, a cura di M. B. GUERRIERI BORSOI, Roma 2012, pp. 5-11, segnatamente pp. 8-9. 52 S. ANDRETTA – C. ROBERTSON, Farnese, Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, 45, Roma 1995, pp. 52-70. 53 Un esempio del rapporto dei Farnese con la biblioteca del monastero è offerto dalla lettera di Fulvio Orsini al cardinale Alessandro dell’11 settembre 1571, edita da V. POGGI, Lettere inedite di Fulvio Orsini al cardinale Alessandro Farnese, Genova 1879, pp. 3-4. 54 Così già anche nel caso del Crypt. Z. β. IV, citato da PERNOT, Nouveaux manuscrits cit., pp. 699 e 701; si veda anche L. PERNOT, La collection de manuscrits grecs de la maison Farnèse, in Mélanges de l’École française de Rome. Moyen-Âge. Temps Modernes 91.1 (1979), pp. 457506, segnatamente p. 464. Dallo studio di FORMENTIN, Uno scriptorium a Palazzo Farnese? cit., non risultano altri elementi riconducibili alla mano di Santoro tra i Neap. gr. né tra gli Harl. della British Library, di provenienza farnesiana. 55 Si vedano A. ROCCHI, Storia e vicende del monastero di S. Maria di Grottaferrata, tr. it., Grottaferrata 1998 e G. MALATESTA ZILEMBO, Gli amanuensi di Grottaferrata, in Bollettino
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L’impressione si acuisce, quando si consideri il fatto che appena tre anni dopo la copia (e l’omaggio) del Fructus, il cardinale Ranuccio Farnese firma un provvedimento nel quale, in qualità di Penitenziere Maggiore, concede ai sacerdoti e al capitolo (greco) della chiesa di San Nicola di Altamura di poter continuare le officiature bizantine in piena libertà rispetto alle pretese dell’arciprete (latino) cittadino56. Il provvedimento rappresentava il pronunciamento romano sull’«aspra e ostinata lite» sollevata dalle pretese di controllo che il clero latino nutriva, forte dell’appoggio romano, su quello greco, illustrate dalle decisioni del già citato Arciprete di Altamura, che «cominciò a mettere in deliberazione, e poi a vietare loro, particolarmente s’erano congiunti in matrimonio, l’amministrazione de’ sacramenti a suoi sudditi latini. Un tal decreto privava dell’autorità di ascoltare le confessioni quasi tutti i sacerdoti greci, tra i quali pochi eran coloro, i quali facessero professione del celibato. A questo tuono si svegliò la Nazione, l’afflizione fu estrema, e lo scandalo universale»57. Il Crypt. Δ. γ. XVII (gr. 230), dunque, non pare aver nulla a che fare né con le vicende interne né con la storia della Badia, dove pure si trova conservato, ma piuttosto con quelle dell’ultima stagione della chiesa greca di Altamura: un probabile omaggio al nipote del papa e al fratello del nuovo signore della cittadina pugliese (unitamente all’Harl. 5597), “umiliato” con lo scopo di ottenere da Roma la sopravvivenza degli usi rituali e identitari della colonia greca — alla quale Santoro apparteneva e nella quale era stato formato —, ben prima che Guglielmo Sirleto, divenuto cardinale, dirimesse ufficialmente la questione58. Il pronunciamento farnesiano, infatti, rispondeva a un’esplicita richiesta del capitolo greco di San Nicola di Altamura, che qualche mese prima aveva inviato a Roma una sua delegazione, guidata dal «vicario greco, sindico deputato in Roma ad Sua Santità», ossia da don Gaspare Santoro di Altamura, probabile parente di Ranuccio, che — come si vedrà — era anch’esso membro del Capitolo. Non è improbabile che l’ambasceria pugliese abbia sostenuto le sue ragioni anche mediante il dono di un testo della Badia greca di Grottaferrata n.s., 19 (1965), pp. 39-56 e 141-159; 27 (1973), pp. 97-126 e 29 (1975), pp. 3-54, nessuno dei due cita né il copista né il codice Crypt. Δ. γ. XVII. 56 Il documento, conservato in copia nel Vat. lat. 6197, ff. 121r-122r, è stato citato da Z. N. TSIRPANLIS, Memorie storiche sulle comunità e chiese greche in terra d’Otranto (XVI sec.), in La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo. Atti del Convegno storico interecclesiale (Bari, 30 aprile – 4 maggio 1969), II, Padova 1972, pp. 845-877, segnatamente pp. 847-848, ed edito da INCAMPO, La comunità greca di Altamura cit., pp. 239-241. 57 RODOTÀ, Dell’origine, progresso e stato presente cit., p. 369. 58 RODOTÀ, Dell’origine, progresso e stato presente cit., pp. 370-371, che rinviava già al materiale conservato nel Vat. lat. 6432, ff. 160r, 162r e 173r.
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PARTE SECONDA
classico, come il Fructus, che andava incontro al penchant erudito-scientifico del cardinale Ranuccio (che avrebbe patrocinato gli studi di Federico Commandino e le sue edizioni del Liber de analemmate di Tolomeo e dei De iis quae vehuntur in aqua libri duo di Archimede59) e di un testo liturgico greco come l’Octoëchum ora criptense. Non c’è dubbio, dunque, che Ragusio vada cancellato dall’anagrafe paleografica tout court, e Ranuccio ascritto al catalogo dei copisti pugliesi: un’origine che fa luce sull’ultimo degli ambiti nei quali accade, per ora, di rintracciarlo, la Biblioteca Apostolica Vaticana, attirato dalla sparuta, ma potentissima colonia pugliese che vi operava. 8. In servizio nella Vaticana di Marcello Cervini Il nome di un Ranuccio Santoro è, infatti, attestato in ben quattro mandati di pagamento della biblioteca pontificia, emessi tra il 7 dicembre 1548 e il primo giugno 1549, affinché il tesoriere papale Piergiovanni Aleotto60 alias monsignor Tantecose (come lo scherniva Michelangelo61) corrispondesse al copista, attingendo ai denari di la Libraria, ossia alla dotazione annua dell’istituzione, uno stipendio per havere aiutato a scontrare certi libri greci di la Libraria Apostolica62. L’ammontare della somma, non esplicitamente calibrato nel primo mandato63, dal secondo in poi appare fissato a ragione di doi scudi simili (ossia d’oro) il mese64 (fig. 15). 59 Si veda C. BIANCA, Commandino, Federico, in Dizionario Biografico degli Italiani, 27, Roma 1982, pp. 602-606, con bibliografia, e prima di lei, P. L. ROSE, The Italian Renaissance of Mathematics. Studies on Humanists and Mathematicians from Petrarch to Galileo, Genève 1975, ad indicem, ma soprattutto pp. 185-221 e ID., Letters illustrating the career of F. Commandino, in Physis 15 (1973), pp. 401-410; altri dettagli conto di apportare nella monografia dedicata all’attività editoriale di Marcello Cervini. 60 L. DOREZ, La cour du pape Paul III d’après les registres de la Trésorerie Secrète, Paris 1932, pp. 59-63 e Hierarchia Catholica cit., p. 198. 61 DOREZ, La cour du pape cit., p. 60. 62 I mandati sono stati copiati nel Vat. lat. 3965, ff. 1v, 4r, 7r, e 8v (seguo la numerazione posta a penna in alto a destra); gli editori (parziali) E. MÜNTZ, La Bibliothèque du Vatican au XVIe sècle, Paris 1886, p. 101 e DOREZ, Le registre cit., p. 156 non fanno che un minimo accenno a questa figura, senza indagarne la vita né l’opera; nulla nemmeno in BIGNAMI ODIER, La Bibliothèque Vaticane cit., se non fosse per la breve nota integrativa di Ruysschaert a p. 318, che rinvia a Dorez. I Ruoli di Palazzo, avviati stabilmente dal 1550, non contengono il nome di Santoro e, di conseguenza, nulla risulta in GRAFINGER, Servizi al pubblico e personale cit., pp. 217-236. 63 Vat. lat. 3965, f. 1v (DOREZ, Le registre cit., p. 168): «R.do Mons., piaccia a V. S. di far pagare da m. Piegiovanni Aleotto delli denari di la Libraria a m. Ranuccio Santoro scudi tre, quali li si danno per sua mercede per havere aiutato a scontrare certi libri greci di la Libraria Apostolica; di casa alli 7 di dicembre 1548. Δ 3». 64 Vat. lat. 3965, f. 4r (DOREZ, Le registre cit., p. 169): «R.do Mons. di Como, piaccia a V. S.
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Fig. 15 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3965, f. 1v: copia della ricevuta di pagamento a favore di Ranuccio Santoro per il suo lavoro in Vaticana.
Quattro registrazioni appena, ma di non poco conto e dove, come spesso accade nei documenti vaticani, è più eloquente quello che si intravvede tra le righe, di quanto vi è scritto espressamente; e, infatti, il nome del mandante delle disposizioni di pagamento non è esplicitato, o meglio non è stato trascritto, dal momento che il Vat. lat. 3965 non conserva gli originali, ma è una sorta di registro, in cui è stato copiato il tenore delle disposizioni. La titolazione generale del volume, tuttavia, svela il mistero: «Libro dove se registrano tutti i mandati che si faranno dal R.mo Santa Croce de denari che si pagaranno per conto della Libraria Apostolica, cominciando a dì 28 d’ottobre 1548». È, dunque, Marcello Cervini a disporre i pagamenti a partire dalla fine di ottobre del 1548, avendo avuto la meglio nella lotta alla successione del bibliotecario papale Agostino Steuco, vescovo di Chissamos, che si era improvvisamente spento a Venezia il 15 marzo 1548. La vicenda è nota e non chiede di esser rivista (almeno in questa sede) se non per aggiungere un dato ancora inedito e qui estremamente significativo. Se era finora nota la lunga serie di nomi dei candidati al posto di bibliotecario pontificio magicamente fioriti all’interno della Curia Romana alla notizia di far pagare da m. Piergiovanni Aletto (sic) delli denari di la Libraria a m. Ranuccio Santoro scudi quattro d’oro, quali sonno per la sua provisione dil mese di dicembre et gennaro prossimi passati a ragione di doi scudi simili il mese, che li si danno per agiutare a incontrare libri greci di la Libraria Apostolica; di casa il dì 3 di Febraro 1549. Δ 4, 4».
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della morte di Steuco (nihil sub sole novi)65, non è stato ancora edito il dispaccio del Nunzio a Venezia, Giovanni Della Casa, che il 26 maggio di quell’anno scriveva al cardinale Alessandro Farnese sostenendo (non senza una qualche riluttanza) una candidatura lagunare: «Il Vescovo della Charità, già di Cherso, mi ha pregato che io lo proponga a Vostra Signoria Illustrissima per Bibliotecario et così fo, et per non haver altra cognition de Sua Signoria se non che fu assistente a consacrarmi, non so dir altro della persona sua, se non che io ne sento qui buono odore»66. Quel che più conta è la risposta (anch’essa inedita) con la quale il cardinal nipote respinge la candidatura: «La intercessione che Vostra Signoria ha fatto per Mons. il Vescovo della Carità non ha possuto per questa volta havere effetto, perché di già Sua Beatitudine haveva compiaciuto della Libreria il Cardinale Santa +, siché Vostra Signoria mi haverà per escusato quanto al sopradetto Vescovo, del quale ho però havuto caro il testimonio che Vostra
Fig. 16 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 14832, f. 233r: risposta negativa di Alessandro Farnese a una candidatura a bibliotecario pontificio dopo la morte di Steuco. 65 Il resoconto finora noto era quello di Guglielmo Sirleto a Marcello Cervini nella lettera del 21 marzo 1548 (Vat. lat. 6177, ff. 131r-132r), ripresa da DOREZ, Le registre cit., p. 150. 66 Vat. lat. 14829, f. 14r.
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Signoria fa per poterlo servire in alcun’altra occasione che vengha per suo honore et commodo»67; si era al 2 giugno 1548. Ne consegue che Cervini fu incaricato della sorte della Vaticana al più tardi nel mese di maggio, ben prima dell’avvio del registro di pagamento qui in esame e di quello (impropriamente detto) delle accessioni68, e ancor prima della ratifica che di quel ruolo, concesso da Paolo III vivae vocis oraculo, avrebbe compiuto papa Giulio III in data 24 febbraio 155069; mentre — e lo si aggiunge a solo titolo di cronaca — quel vescovo greco frate della Charità ancora due anni dopo vagava in cerca di patroni70 (fig. 16). Ne consegue, a sua volta, che l’assunzione in servizio presso la biblioteca di Ranuccio Santoro nell’autunno 1548 è iniziativa di Cervini, e tra le prime del suo governo, ossia tra quelle che marcano in ogni gestione i punti programmatici e meglio svelano le intenzioni della guida. Bieco nepotismo, dunque? Il nuovo protettore della Vaticana avrebbe profittato del ruolo per subito sistemare uno dei suoi uomini? Il sospetto è tanto più insinuante sullo sfondo della Roma di Paolo III, avvoltoio cupido e rapace secondo Pasquino, ma soprattutto visceralmente nepotista: i suoi commensales continui ascendevano implacabilmente ai più alti incarichi di Curia e anche la Vaticana di lì a poco avrebbe visto iscritti a ruolo un diacono greco in qualità di copista … latino71 e un frate sfratato — quando si era ormai sotto Giulio III — assunto senza il permesso del bibliotecario72. Nel caso del «cardinale Santa Croce», tuttavia, l’ipotesi di nepotismo cade da sé: è celebre la sua ferma obiezione alle manovre — quelle sì bassamente curiali — di Alessandro Farnese, che tentava di promuovere a custode un impenitente cercatore di benefici suo cliente, Sebastiano Vico, vescovo di Ancona: «Li bibliothecarii ch’han preso o piglieranno quel loco per honore et utilità propria son stati et saranno la ruina sua (scil. della Vaticana)»73, e ancora: «né credo che Vostra Signoria Illustrissima per provedere il pane 67
Vat. lat. 14832, f. 233r. Vat. lat. 3963. 69 Il documento di nomina, conservato in Archivio Apostolico Vaticano (d’ora in poi AAV), Arm. 41, t. 55, n. 62, è stato edito da L. VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, VI, tr. it., Roma 1922, p. 597, appendice 5. 70 Il 17 gennaio 1551 Ludovico Beccadelli, Nunzio a Venezia, scriveva a Girolamo Dandini (Parma, Biblioteca Palatina, ms. 1011, f. 57r): «Se quel vescovo greco frate della Charità che mi raccomanda la Signoria Vostra per l’altra sua di X, mi ricercarà di cosa ch’io possa, lo servirò molto volentieri». 71 CARDINALI, Requiem per un copista assassinato cit. 72 La vicenda è stata ricostruita da DOREZ, Le cardinal Marcello Cervini cit., pp. 311-313. 73 ASF, Carte Cervini 51, f. 21rv: minuta di lettera di Marcello Cervini al cardinale Alessandro Farnese del 16 settembre 1554, edita da DOREZ, Le cardinal Marcello Cervini cit., pp. 311-312. 68
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PARTE SECONDA
ad un vescovo voglia torre li vestimenti a tanti santi pontifici, patriarchi, arcivescovi, vescovi et dotti homini, che (come disse m. Lascari a papa Clemente) si muoiano di freddo in quella stantia, per non essere ancor rivestiti, oltre che ogni dì s’aggiungni qualche libro di più, sicondo che si trova, in loco di quelli che se son perduti al tempo de bibliothecarii et maxime del passato, come sanno i custodi, et avvenga ch’io desideri ogni bene a mons. Sebastiano, lo desidero però senza danno della fede nostra et senza dispregio di coloro che se ben son morti, vivono in cielo, et come membri principali della Chiesa restano congiunti con esso noi in charità come prima». Uomo dell’istituzione nel senso nobile del termine, Cervini aveva un concetto troppo alto della Biblioteca e del suo ruolo politico, oltre che culturale («La libraria è il maggior thesoro ch’habbia la Sede Apostolica, perché in essa si conserva la fede dall’heresie», soleva ripetere), per farne una greppia per sé e per i suoi; e, infatti, Santoro non è infilato come copista o scrittore per il greco, ruolo già occupato a quel tempo da Giovanni Onorio, ma pagato extra ruolo per agiutare a incontrare libri greci di la Libraria Apostolica74. La pratica dell’incontratura o scontratura consisteva nel controllare l’esattezza di una trascrizione, confrontandola con l’antigrafo, o nell’arricchirla mediante la collazione con altri esemplari dello stesso testo, manoscritti o a stampa75: un’operazione che poteva essere compiuta dal copista stesso o, molto più spesso, dal responsabile dell’atelier o dal committente della trascrizione. Cervini pretendeva questo passaggio per i volumi della sua biblioteca personale e lo sorvegliava meticoloso: «Sono alcuni mesi ch’io hebbi di Francia il libro di Eusebio stampato greco de evangelica praeparatione, et demostratione76. Quel de praeparatione l’ho fatto incontrare col nostro in penna77, et s’è trovato molto corretto. Quel de demonstratione 74 Così nel terzo mandato (Vat. lat. 3965, f. 7r; omesso da DOREZ, Le registre cit.): «R.do Mons. di Como, piaccia a V. S. di far pagare da m. Piergiovanni Aletto (sic) de li denari della Libraria a m. Ranuccio Santoro scudi quattro d’oro, quali sonno per la sua provisione dil mese di febraro et marzo prossimi passati a ragione di doi scudi simili il mese, che li si danno per agiutare a incontrare libri greci di la Libraria Apostolica; di casa il dì 5 di aprile 1549. Δ 4». 75 Si vedano B. MONDRAIN, Copistes et collectionneurs de manuscrits grecs au milieu du e XVI siècle: le cas de Johann Jakob Fugger d’Augsbourg, in Byzantinische Zeitschrift 84-85 (1991-1992), pp. 354-390, segnatamente pp. 373-374 e CARDINALI, Il Barberianinus gr. 532 cit., pp. 48-49. 76 Si tratta dell’edizione parigina uscita presso Robert Estienne nel 1544-‘45 delle due opere eusebiane, di cui ho già individuato l’esemplare nell’attuale R. I II. 407 della Biblioteca Vaticana: CARDINALI, Legature «alla Cervini»? cit., pp. 48-52. 77 Come si è visto, nella biblioteca personale di Cervini si trovava un esemplare mano-
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ha de le finestre assai, et però ve lo mandarei volentieri, che lo incontraste con quel che fu già del Pico ogni volta che si potesse havere»78. Esigente era pure col mercante Antonio Eparco, che si affrettava sempre a specificare: «et ogni altro (scil. codice) che se scrive, se scontrarà con li auttentici, come Vostra Signoria mi comanda»79. Così come si era attrezzato a fare in casa l’ambasciatore francese a Venezia, che si è già visto rassicurare i suoi interlocutori a Fontainebleau circa il lavoro dei suoi copisti «tous suffisans à meilleures entreprinses, sont journellement à rescrutier et corriger bons aucteurs grecz avecques le plus d’exemplaires que l’on peult trouver»80. Si ricordi inoltre che Cervini tra il 1548 e il 1549 era ormai da dieci anni il più attivo editore a Roma (e non solo) di testi in lingue antiche o orientali: la sua carriera, inaugurata col titanico commento a Omero di Eustazio di Tessalonica, poteva vantare in quegli anni una decina di titoli latini, tre greci (senza contare i tre dell’Eustazio), uno etiopico e uno siriaco (mancato)81, e inoltre molti altri volumi patrocinati presso vari stampatori. Un’esperienza che aveva fatto maturare in lui quello che Paolo Manuzio una dozzina d’anni dopo avrebbe teorizzato, ossia la necessità di buoni correttori di mezzana dottrina, ma di somma vigilanza, e diligenza, per provedere agli errori, che per sua natura la stampa produce82. L’esperienza del torchio, cioè, aveva reso avvertiti tutti della necessità di sorvegliare ogni copia, manoscritta o a stampa che fosse, verificandone l’aderenza all’originale ed eliminandone gli errori che qualsiasi attività di trascrizione, manuale o meccanica, necessariamente comporta. Dai documenti contabili superstiti relativi alla stampa del Teofilatto, edito presso Blado nel 1542, infatti, risulta che una copia del volume fu ceduta a Francisco Torres, qualificato come lo «Spagnolo che aiutò correggere»83; che a Sirleto furono corrisposti 8 scudi «per correggere il Theophilato (sic) de ordine di Sua scritto della Praeparatio evangelica di Eusebio (sul quale si veda CARDINALI, Legature «alla Cervini»? cit., pp. 49-50 e nt. 68), che invece mancava del tutto nella collezione pontificia. 78 Il riferimento è ai manoscritti latini di Giovanni Pico della Mirandola, divenuti disponibili alla morte del cardinale Grimani: MERCATI, Codici latini Pico Grimani Pio cit., pp. 1-38. 79 Lettera di Antonio Eparco a Cervini del 14 dicembre 1542, edita da L. DOREZ, Antoine Eparque. Recherches sur le commerce des manuscrits grecs en Italie au XVIe siècle, in Mélanges d’archéologie et d’histoire, 13 (1893), pp. 281-364, segnatamente p. 298. 80 Passaggio tratto dalla lettera del 2 dicembre 1540 al bibliotecario regio, edita in Correspondance politique de Guillaume Pellicier cit., pp. 173-177, segnatamente pp. 176-177. 81 Ho rivisitato la questione in G. CARDINALI, Ritratto di Marcello Cervini en orientaliste (con precisazioni alle vicende di Petrus Damascenus, Mosè di Mârdín ed Heliodorus Niger), in Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance 80.1-2 (2018), pp. 77-98 et 325-343. 82 AAV, Misc. Arm. XI, 93, ff. 79rv: lettera di Paolo Manuzio del 10 settembre 1561 ai cardinali deputati alla stampa, edita parzialmente da BARBERI, Paolo Manuzio e la Stamperia del Popolo Romano cit., p. 43. 83 DOREZ, Le cardinal Marcello Cervini cit., p. 304.
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PARTE SECONDA
Signoria Reverendissima (scil. Cervini)» e che in quell’impresa fu all’opera per cinque mesi una squadra di «correttori», cui il cardinale corrispondeva complessivamente 15 scudi al mese (per un totale di 75)84. Le ricevute di pagamento a Santoro riflettono, dunque, i primi atti del governo della Vaticana da parte di Cervini e attestano la volontà del nuovo bibliotecario di dotare l’istituzione di un duplice inedito servizio: quello di copia dei testi e quello di controllo delle copie. All’organico abituale, che consisteva in due custodi, uno piuttosto dedicato alla collezione latina e il secondo a quella greca (all’epoca Fausto Sabeo e Niccolò Maiorano), Cervini rese stabili i ruoli di scriptor latinus e graecus85, e provvide a far retribuire mensilmente, attingendo alla dotazione economica della Biblioteca, almeno due correttori o scontratori. Il fine precipuo era quello di arginare il deperimento del patrimonio librario, che era sotto gli occhi costernati di Cervini: «Sono nella Libraria Apostolica infiniti, anzi quasi tutti li libri consumati et guasti dalle tarme». E siccome non si era «per sin qui trovato rimedio alcuno che vaglia per conservarli da dette tarme», l’unica soluzione era quella di farli trascrivere: «L’offitio de scrittori … era di rescrivere li libri di detta Libraria, quali già dal tempo si andavano consumando, acciò non si venissero perdendo, overo altri libri che non fussino in detta Libraria»86. Al termine e completamento della copia interveniva, dunque, il correttore, così istruito dal mansionario vaticano: «Li correttori, l’un greco et l’altro latino, havevano cura di collationare li libri scritti dalli scrittori di essa Libbraria, et perché molte volte per esser copiati da libri molto anctichi che non si poteva da detti scrittori intender in nissun modo, si lassava alcune parole in bianco, loro dovevano corregger così li errori, se ce ne fussero, come veder d’intender dette parole lassate in bianco, et notarle». Negli anni 1548-’49 scriptores furono Ferdinando Ruano, per il latino, e Giovanni Onorio, per il greco, mentre i due primi correctores furono, per 84
DOREZ, Le cardinal Marcello Cervini cit., p. 310. In realtà, la questione potrebbe essere più complessa e quella cerviniana potrebbe configurarsi come una stabilizzazione di modalità lavorative già sperimentate in Vaticana, ma in maniera sporadica, o comunque non istituzionalizzata. Va inoltre precisato che il termine scriptor entrò nell’uso in un secondo momento, mentre inizialmente si indicò il ruolo come quello di instaurator, secondo gli usi linguistici e le occorrenze registrate da MERCATI, Per la storia della biblioteca apostolica cit., pp. 249-250. Per questa ed altre questioni relative alla gestione cerviniana della Vaticana rimando ad un contributo su Gabriele Faerno e ad una trattazione monografica, che spero di dare alla luce non troppo tardi. Non offre, infatti, quasi alcun elemento utile il volume La Biblioteca Vaticana tra Riforma Cattolica cit. 86 Come avviene nella storia di ogni istituzione il quadro organico e il mansionario sono sempre posteriori alla creazione di un ruolo e solo a partire dai pontificati di Paolo IV Carafa e di Pio IV Medici il profilo di scriptores e correctores viene definito; anche per questo rimando a G. CARDINALI, Lettere spente e artificiosi liquori. Marcello Cervini e il primo uso dei reagenti sui manoscritti (1551-1553), in uscita in Scripta 13 (2020). 85
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il latino, Gabriele Faerno e, per il greco, Ranuccio Santoro87. Il primo era noto personalmente a Cervini, del secondo dovette probabilmente scoprire il valore tramite Onorio, presso cui collaborava, o tramite il custode Maiorano, ambedue pugliesi (ché la geografia è da sempre criterio ermeneutico e, prima ancora, di ragion pratica, fondamentale per la Curia). Del primo, numerosi sono gli interventi che emergono dal fondo Vaticano latino, quasi sempre contrassegnati dalla sigla F(aerno), colla quale marcava il proprio operato (e che spero presto di pubblicare)88; del lavoro di Santoro non sono ancora emerse tracce inconfutabili, che tuttavia verranno alla luce da uno scrutinio più serrato delle copie di codici greci eseguite in quegli anni per la Vaticana (figg. 17-18). Destinato a lungo servizio Faerno, Ranuccio Santoro non compare più sul libro paga della Vaticana dopo il primo giugno 154989: fu morte improvvisa? Trasferimento ad altro incarico? Invalidità? Quando si tratta degli scriptores della Biblioteca Apostolica ogni idealità è caduta ed è ormai un fatto che la zona detta in Burgo Sancti Petri fosse assai movimentata, specie la notte, quando si sentivano volare quelle che i minutanti vaticani eufemisticamente il giorno seguente chiamavano nonnulla verba altercatoria, e avvenivano i più gelidi agguati, che vedevano talora implicato anche il personale della biblioteca; tra calligrafi omicidi e altri morti ammazzati90, ogni ipotesi è sempre plausibile. Ma Ranuccio Santoro non era uomo da menar le mani se non col pennino: mano non bella e piuttosto instabile, come si è visto, quella di un provinciale a contatto col bel mondo romano, e dunque magato, ma pur sempre e soltanto mano di copista. Lo si può dire perché, a partire dal 1550, ossia appena lasciata la Vaticana, lo si ritrova nella sua Altamura, 87 Non affronto qui la questione, pure significativa, dello scriptor orientalis, per il quale rimando al volume sulla Vaticana nell’età di Cervini, cui sto lavorando. Quella degli instauratores/scriptores greci e latini ho trattato in CARDINALI, Lettere spente e artificiosi liquori cit. 88 Molto più largamente attestato è l’operato del successore di Santoro, Matteo Devaris, che apponeva alle sue correzioni la sigla «MT», già individuata da R. DE MAIO, La Biblioteca Apostolica Vaticana sotto Paolo IV e Pio IV (1555-1565), in Collectanea Vaticana in honorem Anselmi M. card. Albareda a Bibliotheca Apostolica edita, I, Città del Vaticano 1962, pp. 265313, segnatamente pp. 290-293 e tav. III.1; ulteriori tracce del lavoro di Devaris sono state segnalate in Codices Vaticani graeci, II cit. e Codices Vaticani graeci, III cit., sotto la voce Devarius. 89 Vat. lat. 3965, f. 8v (omesso da DOREZ, Le registre cit.) R.do Mons. di Como, piaccia a V. S. di far pagare da m. Piergiovanni Aleotto delli denari di la Libraria a m. Ranuccio Santoro scudi quattro d’oro quali sonno per la sua provisione dil mese d’aprile et maggio prossimi passati a ragione di doi scudi simili il mese che li si danno per aiutare a incontrare libri greci di la Libraria Apostolica; di casa il p° di giugno 1549. Δ 4, 4. 90 Si vedano i due casi di scriptores vaticani, Luigi Cassanese e Iacobus Dyacopoulos, evocati in CARDINALI, Requiem per un copista assassinato cit., pp. 95-96.
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PARTE SECONDA
Fig. 17 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 728, f. 18r: teso scritto da Emanuele Provataris e rivisto dal corrector Matteo Devaris, che segnala i suoi interventi con la sigla MT.
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TRA PALEOGRAFIA GRECA E STORIA DELL’ARTE
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Fig. 18 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ott. lat. 621, f. 35v: tracce del lavoro di corrector svolto da Gabriele Faerno, che segnala le sue correzioni con la sigla f.
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PARTE SECONDA
regolarmente installato tra i suoi confratelli canonici (greci) della chiesa di San Nicola, da dove fa segno in alcuni atti di carattere notarile o amministrativo: un mandato di procura per una lite del Capitolo contro un nobile locale, rogato il primo gennaio 1550; una causa riguardante il diacono Francesco de Iaconello, discussa nel corso degli anni Cinquanta; una riunione tenuta il 28 dicembre 1568: sempre compare tra i presenti, partecipanti o sottoscrittori, un d. Racucio (o Rautio o Ragutio) de Santoro91. Non era solo a Roma, dunque, che non si sapesse bene come suonasse quel nome.
91 INCAMPO,
La chiesa greca di Altamura cit., pp. 158-163.
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PARTE TERZA
TRA EPISTEMOLOGIA E METODOLOGIA
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Fig. 19 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 6792, f. 58r: curriculum di Giovanni Santamaura.
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Una volta ricostruiti gli anni romani di Pietro Vergezio e di Ranuccio Santoro, o almeno quanto è fino ad ora permesso sulla base dei dati a disposizione, è possibile tornare ai punti lasciati in sospeso in ognuna delle due esposizioni e, preso qualche passo di distanza, guardare ai due casi congiuntamente, così da cogliere quanto essi hanno in comune, oltre alla perfetta “unità di spazio e di tempo” nella quale le due vicende personali e professionali si sono svolte: ambedue a Roma, tra gli anni Quaranta e la prima metà dei Cinquanta del XVI secolo, nell’orbita cerviniana. Nel caso di Vergezio è emersa l’elaborazione di una alia manus da parte di un copista, che affianca a quella appresa sin da piccolo presso il padre — e dovuta, dunque, a influssi genetici e familiari insieme — una seconda modalità espressiva, sulla quale ebbero, invece, peso sia il suo desiderio di affrancamento dall’ombra paterna sia lo studio delle modalità di scrittura greca più diffuse nella Roma di metà Cinquecento; in quello di Santoro si è registrato un ricorrente esercizio di sperimentazione grafica, che, se non porta (anche perché forse non mirava) alla messa a punto di un sistema espressivo digrafico, modifica continuamente l’impression d’ensamble delle sue pagine1. Da una parte, due diverse mani per un solo copista (e ambedue indifferenti al testo e a qualsiasi altro elemento codicologico) e, dall’altro, un andamento camaleontico del calamo, incurante di ogni regola e per nulla attento alla costanza e all’omogeneità del risultato; due modi di καλλιγραφεῖν per ognuno dei due scribi e il gusto di cimentarsi in coreografie d’imitazione. Due casi tolti dalle pagine di vari manoscritti, ossia empirici e senza alcun elemento di riflessione teorica a illuminarne le ragioni e le finalità, i moventi e la mira, o almeno il livello di consapevolezza col quale questi fenomeni si sono dati. Quanto Vergezio era responsabile della propria alia manus? E, soprattutto, con quale scopo l’aveva forgiata? E Ranuccio Santoro, quanto era cosciente dei propri esercizi di stile in corso di copia, che nessun copista bizantino avrebbe mai approvato né compiuto? 1. Il caso Santamaura, o della necessità del tertium Per nostra fortuna un caso di elaborazione cosciente di poligrafismo, e che pertanto implica a monte un lungo tirocinio sperimentale, esiste; si trova legato nel Vat. lat. 6792 (f. 58r)2 (fig. 19). 1 Quanto alla potenziale ingannevolezza, e alla potenziale fallacia, di alcune impressions d’ensamble si veda SPERANZI, «De’ libri che furono di Teodoro» cit., pp. 338-339. 2 Il documento, non datato, è stato segnalato e parzialmente edito da BATIFFOL, La Vati-
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PARTE TERZA
Si tratta di un documento greco, ma impensabile in età bizantina: il catalogo degli stili (o delle charactere) di cui era capace Giovanni Santamaura e col quale egli si presenta al cardinale Guglielmo Sirleto in vista di un’assunzione, che lo mettesse al riparo dalla sua condizione di pover’huomo carrico de fameglia, che dopo fu privo de sua patria. Una sorta di (incunabolo di) curriculum professionale, in cui Santamaura si presenta con tutta la lamentosità di un copista greco come «un povero gentil’homo cyprioto» (ma di rito Romano!) e — ed è ciò che più conta — vi fa precedere la sua stessa biografia da quella che Sirleto avrebbe chiamata una «mostra de la scrittura», ossia dagli specimina della propria mano; esattamente come aveva fatto Pietro Vergezio giungendo a via Giulia. Il testo si apre, infatti e significativamente, non già con i dati anagrafici, spostati in fondo alla pagina, ma con le differenti possibili realizzazioni grafiche elaborate (e commercializzate) dal copista. Questi trascrive tre volte il testo del χερουβικός ὔμνος (ο χερουβικόν; il tropario che apre, salvo rare eccezioni, ogni Divina Liturgia bizantina), ogni volta in corsiva minuscola, ma come un furioso organista barocco, aziona i più svariati registri, nelle più inattese combinazioni: quanto al tracciato delle singole lettere, in alcuni casi opta per improvvise maiuscole, in altri inserisce vere proprie trouvailles grafiche o lectiones pretiosiores (si vedano i due archeologici Θ del secondo rigo del terzo specimen); il pedale del ductus è spinto o lasciato con sovrana indifferenza, rispettivamente nel secondo e nel terzo elemento; tanto il secondo specimen è serrato e inclinato a destra, quanto il seguente pare battuto con cadenza ampia, posata, solenne. I legamenti sono inseriti o evitati a prescindere dalla loro primigenia funzione: ridotti a ornamenti, vengono incastonati come elementi decorativi, magari in associazione a una maggior enfatizzazione dei tratti ascendenti e discendenti di alcune lettere (come λ e ρ nella terza versione del testo), scivolati come nastri al di sotto della linea di scrittura. Il secondo testo proposto da Santamaura è quello del Pater noster, eseguito in una sola versione e con la sua mano greca abituale, la più corrente e studiata, in rapporto alla quale si possono misurare gli esiti ottenuti nei tre specimina mediante l’azionamento dei vari registri scrittori; con la più ampia disinvoltura ed indifferenza agli elementi di contenuto del testo. Col XVI secolo il poligrafismo è ormai dato di fatto: Questa o quella (scrittura) per me pari sono. cane de Paul III cit., pp. 46-47, poi ripreso da S. LUCÀ, Guglielmo Sirleto e la Vaticana, in La Biblioteca Vaticana tra Riforma Cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio (1535-1590), a cura di M. CERESA, Città del Vaticano 2012, pp. 145-188, segnatamente p. 167 fig. 13. A questo documento può accostarsi anche quello contenuto nel Vat. gr. 2647, f. 29r, citato da BIANCONI, «Duplici scribendi forma» cit., p. 317.
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È evidente che si tratta di un repertorio di possibilità e — ed è ciò che più conta — tutte di ambito calligrafico, in cui la variazione non esprime e non mira a nessuna differenziazione di parti o di tipologie di testo, ma anzi, proprio il fatto che sia realizzato in tre modi alternativi lo stesso brano, significa che siamo davanti al ventaglio di un calligrafo dall’abilità per così dire — e non si tratta assolutamente di una valutazione etica — immorale. Che prescinde, cioè, dal contenuto che esso veicola: Questa o quella (scrittura) per me pari sono… 2. Un curriculum carico di conseguenze Vergezio prima e Santamaura poi (Santoro non giungendo ad una alia manus) presentano, dunque, soluzioni interscambiabili, tutte poste al livello del καλλιγραφεῖν, che prescindono da un sistema di valori e dai contenuti del testo, per risolversi nel solo livello estetico, e forse commerciale. È una questione di virtuosismo professionale e “assoluto”, attento al solo effetto complessivo e ad assecondare i gusti della committenza. Dato un simile quadro, almeno triplice è il campo delle conseguenze sul piano paleografico e sulla riflessione teorica. Anzitutto, un caso come quello di Pietro (e più tardi di Santamaura) non solo rende più ardua la pretesa di tracciare una cronologia troppo nettamente scandita delle opere di uno stesso copista, ma mette in allerta quanto al fatto che dietro identificazioni e mani diverse di copisti cinquecenteschi possano essere nascosti casi di poligrafismo. In altre parole ancora, l’individuazione di due diverse mani non necessariamente postula due diversi copisti, così come differenti impressions d’ensamble e/o tratteggi non bastano a dedurre differenti personalità scrittorie. In altre parole, risulta fortemente compromesso il rapporto uno a uno tra mano e copista; non può più darsi per assiomatico il tot manus, tot capita, fino ad ora implicito e robusto3. In secondo luogo, il fatto che il poligrafismo Renaissance non sia tanto questione «testuale» né «altertestuale»4, spinge a porre l’attenzione sui luoghi in cui questo si faccia scoperto e identificabile. La doppia mano di uno stesso copista non sarà generalmente riconoscibile «su prodotti di lusso e perfetta calligrafia»5, come è, nel nostro caso l’Ott. gr. 39, ma su copie d’uso, poco ricercate e scritte «con pressa», come l’Ott. gr. 149, oppure in
3
Come sostiene anche SPERANZI, «De’ libri che furono di Teodoro» cit., p. 325. Queste categorie sono impiegate e illustrate da AGATI, Παλαιογραφικά cit., pp. 39 e 50-51. 5 AGATI, Παλαιογραφικά cit., p. 43: «È chiaro che nel prodotto di lusso, o di perfetta calligrafia, una tale alterazione grafica … può sembrare sorprendente, se non addirittura aberrante». 4
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probationes calami6, appunti personali, brogliacci di lettere o veri e propri curricula, come quello di Santamaura. Sono questi tipi di scritture, non d’apparato né troppo sorvegliate, quelle in cui le contaminazioni tra le due mani o le dichiarazioni esplicite sono rintracciabili7. È da questo genere di elementi che il poligrafismo rinascimentale può essere portato allo scoperto e dimostrato, allargando gli strumenti e i metodi tradizionali della paléographie d’expertise all’ambito più propriamente documentario. È la presenza di un tertium a permettere di raccogliere sotto un’unica personalità due espressioni grafiche molto lontane tra loro: il curriculum inviato a Sirleto per Santamaura, la copia «in tempo rubato» per Pietro. Ad una analisi delle sole realizzazioni calligrafiche non si sarebbe supposta un’identità di copista, ma al contempo, se si guarda con attenzione, la gran parte dei tratteggi e delle soluzioni grafiche rimangono costanti, al di là delle variazioni dovute a inclinazione, compressione, presenza di lettere decorative o cambi di ductus8. Da ultimo, — ma saranno prima necessari vari casi di copisti digrafi o poligrafi riuniti e studiati assieme — si intravvede la questione dei modelli e delle “fonti” grafiche di questi «characteri» così artificiosi ed elaborati al di fuori della storia. Sarà interessante, man mano che aumenteranno i casi, procedere al loro studio e chiedersi a partire da quali esemplari scrittori i copisti esercitavano e formavano le loro mani e da quali stili tiravano particolarità grafiche e costruivano la propria gamma espressiva9. Si consideri il curriculum manus di Santamaura: la corsiva del primo specimen, impercettibilmente inclinata a destra e con legamenti funzionali, nitida e facilmente leggibile, viene nel secondo caso alterata mediante un aumento dell’inclinazione a destra e un’esecuzione più serrata delle singole lettere e delle intere parole, così che acquisti un aspetto più compatto, meno arioso e più innaturale. Una leziosità minuta, assai più impegnativa per il copista, che mira a un effetto di elegante corsività. Per il terzo caso, 6 Di questo avviso anche BIANCONI, «Duplici scribendi forma» cit., p. 316; si veda, a titolo di esempio, quello rilegato nel Vat. gr. 1412, f. 107v con probationes attribuibili probabilmente a Matteo Devaris. 7 In questo modo credo si possano esemplificare, ampliare e dettagliare quegli other data su cui attirava l’attenzione KAVRUS-HOFFMANN, The Scribe Gennadios cit., p. 367. 8 La permanenza di una sostanziale identità di tracciato all’interno delle possibilità offerte dai casi di digrafismo è aspetto caratteristico di questo fenomeno, come notano DE GREGORIO, Καλλιγραφεῖν / ταχυγραφεῖν cit., p. 430, BIANCONI, «Duplici scribendi forma» cit., p. 302 e SPERANZI, «De’ libri che furono di Teodoro» cit., pp. 338 e 345, e conferma KAVRUS-HOFFMANN, The Scribe Gennadios cit., pp. 367-369 con efficace dimostrazione sinottica. 9 SPERANZI, «De’ libri che furono di Teodoro» cit., pp. 332-333 ha individuato una “maiuscola” artificiale di Teodoro Gaza: sarebbe interessante passare dal dato oggettivo ai modelli grafici che l’hanno ispirata. Una fascinazione per i codices vetustiores?
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infine, Santamaura opera in senso diametralmente opposto, tenendo zenitale l’asse della scrittura, cadenzando ampio l’andamento e incidendo minuziosamente il corpo delle singole righe e di ogni parola a introdurre ogni volta una pausa che permetta di inserire elementi grafici arcaizzanti o esotici, mutuati da esemplari di provenienza geografica e cronologia differente. Un linguaggio prezioso, ma sostanzialmente artificiale: frutto della commistione di elementi di tradizione disparata. Così anche Pietro Vergezio che si prova a impugnar la penna in modo nuovo rispetto a come gliel’aveva posta in mano il padre nell’atelier di Fontainebleau. Un ripensamento di sé, del proprio stile e della propria vicenda personale; il tentativo di un’auto-generazione in vitro, o meglio sotto il sole di Roma, ché l’incidenza dell’ambiente pare capitale in questo caso. I flessuosi festoni rampicanti verso destra, che tanto dovevano al modello paterno, vengono d’improvviso rigorosamente verticalizzati: non più un tratto che salga trasversale al rigo di scrittura; tutto si gioca tra ascissa e ordinata. Tutto deve cadere à plomb. Tracciata senza pietà la verticale, viene poi ridotta al minimo la cadenza di lettere e parole, serrate una dopo l’altra come in una falange scrittoria: una fitta maglia metallica senza alcuna scorrevolezza. Pietro asciuga tratti, spazi, cadenza; rallenta il ductus e la penna avanza per incisioni che compongono le singole lettere giustapponendosi l’una all’altra; quasi che fossero ricavate da un filo di ferro piegato e battuto cento volte. Una scrittura dall’eleganza ortopedica. Il tentativo di parlar greco come si faceva a Roma? La determinazione a reinventarsi sul mercato librario dell’Urbe, captandone gli interessi e i gusti, e abbandonando quel sentore di franzese che il suo grec inclinato emanava? Non lo si potrebbe escludere, visto che se c’era una costante negli scrittori greci impiantati in Italia era la verticalità: che si trattasse del filigranato Giovanni Onorio, algido come una ballerina russa; o delle fioriture grafiche di Cristoforo Auer, leziose e arricciatissime come un souvenir dalla Baviera; o infine dell’oraziano Manoli Provataris, nitido e semplice con un filo appena di rusticitas: tutti tenevano la penna perfettamente sulle punte, e scendevano e salivano in verticale. Aggettare blandamente a destra doveva esser segno di gallicanesimo (scrittorio); da questa impressione voleva forse emanciparsi il giovane fils d’Ange Vergèce. 3. Un più ampio quadro storico-culturale Fin qui i casi di sperimentalismo e poligrafismo, imposti dalle vicende di Vergezio, Santamaura e Santoro sono stati considerati a partire dalla pura fenomenologia e in rapporto alle conseguenze sul piano teorico e metodologico della disciplina paleografica, ma lo sguardo può essere an-
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che spostato a monte, verso gli scenari, le circostanze e le cause che li hanno resi possibili, e possibili in un preciso momento cronologico e in un determinato contesto geografico, ossia in una congiuntura storica che è quella dell’Italia di metà XVI secolo. Perché casi di sperimentalismo e poligrafismo greco si registrano nell’Italia del tardo Quattrocento e del Cinquecento, mentre non risultano ad oggi attestati nei secoli precedenti e in territorio bizantino? Non sarà forse ora di rileggere il movimento di copisti e, più ampiamente, delle “maestranze dell’artigianato librario” da Oriente a Occidente, che si verifica dalla caduta di Costantinopoli in poi, anche come un passaggio da un sistema teologico a un altro: ossia dal campo dell’ortodossia greca a quello della cattolicità latina? È pensabile che la medesima attività di copia possa esser svolta con gli stessi risultati, sia all’interno della Weltanschauung bizantina sia nei territori di teologia latina, che nel corso del Cinquecento diviene, per giunta, ancor più complessa, frastagliata e discorde di quanto non lo fosse fino al secolo precedente? Come non considerare la (necessariamente) diversa incidenza sulla lettura della realtà e sulla coscienza di sé, da una parte, di un sistema di impianto platonico, che fa del mondo delle idee e dell’invisibile la verità, e di quello materiale e concreto una versione corrotta e frammentata, che solo la contemplazione dell’immateriale può salvare; e, dall’altro, di un sistema aristotelico e poi tomista (fatto proprio, negli anni che ci interessano qui, sia da maestro Iñigo de Loyola sia da Filippo Neri), che assegna alla concretezza e alla diversità elementi di valore, considerandoli creaturali e dunque traccia del divino? Nel primo caso ogni merito consiste nel perdersi nella contemplazione dell’idea immateriale, liberandosi progressivamente di ogni scoria fisica e dello stigma della particolarità individuale, mentre nel secondo è nelle concrete circostanze esistenziali che si entra in contatto con l’Assoluto. Rinnegarsi nel tentativo di uniformarsi al modello di contro alla ricerca dell’assoluto tramite l’assunzione di sé e delle circostanze del proprio esistere: la contraddizione stridente tra Oriente e Occidente, lo iato tra una sponda e l’altra dell’(apparentemente risibile) Adriatico, lo scontro tra l’arte dell’icona e il percorso naturalistico da Giotto in poi. Da questo punto di vista Vergezio, Santoro e Santamaura sono tutti e tre copisti greci, ma di ambito, cultura e mentalità occidentali: essi rappresentano tre differenti, ma molto omogenei, esiti del trapianto e dell’adattamento dell’attività di copia di testi greci in un contesto teologico e culturale profondamente latino, cui sono estranee le radici platoniche della cultura bizantina. Tre casi di innesto di una talea orientale nel giardino dell’Europa cattolica. La paleografia greca potrebbe molto acquisire da un più stretto contatto con la storiografia artistica, che si è già trovata ad affrontare la lenta com-
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plessa scissione, avvenuta dal XIII al XV secolo, tra la produzione di icone e la pittura naturalistica. Uno scontro critico non sereno, talora lambendo il razzismo (da una parte e dall’altra, beninteso), ma che ha permesso di avere per mano testi essenziali all’interpretazione delle cose; basterebbe citare Le porte regali di Pavel Florenskij, da un lato, e la produzione di Roberto Longhi, dall’altro (anche se il testo di riferimento sarebbero propriamente gli Esercizi Spirituali ignaziani). Si tratta di due visioni che non si parlano, destinate semmai allo scontro, fino all’insulto: col primo a tranciare che: «la pittura religiosa dell’Occidente, incominciata col rinascimento, fu una radicale falsità artistica e pur predicando a parole la prossimità e fedeltà alla realtà raffigurata, gli artisti non avevano niente da fare con quella realtà che pretendevano e ardivano di rappresentare; non ritenevano nemmeno opportuno osservare le norme della pittura d’icone tradizionale, cioè la conoscenza del mondo spirituale, quale era trasmessa dalla Chiesa cattolica»10; e il secondo a cogliere ogni pretesto per sfogare la propria bile contro «le pretese acherotipiche», «l’indifferenza quasi fachirica» dei pittori duecenteschi «che maciullano indifferenti nella gramola bizantina» ogni spunto di vivo naturalismo, o contro «la fenice impagliata e irresuscitabile di questo estremo “bizantinismo”»11. Il fatto è, appunto, che dietro ognuna delle due espressioni sta una diversa visione teologica, che, se non ha ricadute immediate sui singoli artisti o artigiani, ha comunque impregnato l’aria in cui essi sono nati ed hanno operato, e ne ha condizionato la visione del mondo e delle cose: essa è tutt’altro che sovrastrutturale, come ha già dimostrato Alexander Kazhdan12. Non credo poi sia un caso se anche Sergej Averincev abbia riservato grande attenzione ai fatti d’arte per illustrare lo specifico della civiltà bizantina in opposizione alla «“scientificità” dell’Europa moderna»13. Così ad ovest dell’Adriatico si privilegia l’osservazione dei rapporti di causa e quindi «trionfa il principio della prospettiva diretta lineare», che, pur non ignoto all’arte antica, tuttavia «significa che non si raffigura la cosa come tale, né il suo eidos autoconchiuso e neppure il suo essere in quanto valore, ma l’effetto conforme alle leggi ottiche che essa stessa, come causa, provo10
P. FLORENSKIJ, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di E. ZOLLA, Milano 1977, pp.
63-64. 11 Le espressioni provengono tutte da R. LONGHI, Giudizio sul Duecento, in Proporzioni 2 (1948), pp. 5-54, poi in ID., ‘Giudizio sul Duecento’ e ricerche sul Trecento nell’Italia centrale. 1939-1970, Firenze 1974, pp. 1-53, segnatamente pp. 2, 4-6. 12 Mi riferisco in particolare al capitolo quinto, «L’ideale estetico», di A. P. KAZHDAN, Bisanzio e la sua civiltà, tr. it., Bari 1998, pp. 128-159. 13 S. AVERINCEV, L’anima e lo specchio. L’universo della poetica bizantina, trad. it., Bologna 1988, pp. 63-94, segnatamente pp. 86-87.
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ca, il riflesso nell’occhio dell’osservatore». Ad est di quella stessa lingua di mare si sviluppa, invece, sempre più assoluta ed estrema, la tendenza a uno sguardo all’essere profondo, all’immutabile; uno sguardo sempre più concentrato, incurante dei rapporti di causa tra gli elementi, anti-prospettico, contemplativo, gratuito («Niente di strano, se questo sembra superfluo e inutile; noi infatti non lo definiamo utile, ma buono», sentenziava Giamblico), fino a frangere la soglia della forma e della parola, dentro l’essenza, nel totale silenzio14. Qui, ai fatti scrittòri, importa particolarmente la netta contrapposizione di universale e di particolare, di canonico e di unico, di oggettivo e di soggettivo, sui quali i due mondi differiscono, generando una diversa influenza (come causa certamente non prima, ma seconda, terza o quarta) anche sull’arte dello scrivere. Ad est dell’Adriatico l’assunzione della propria soggettività storica e personale è peste da fuggire, dalla quale salva il canone o il modello (sia esso pittorico o scrittorio): «A questa (scil. l’opera d’arte) non ha mai fatto ostacolo il canone e le più ardue forme iconiche in tutti i settori dell’arte sono state sempre soltanto la pietra di paragone sulla quale la nullità si è spezzata e si sono temprati i talenti veri. Innalzandosi all’altezza raggiunta dall’umanità, la forma canonica libera le energie creative dell’artista verso nuove mete, verso voli creativi, e affranca dalla necessità di ripetere il già fatto: l’esigenza della forma canonica, o più precisamente il dono che l’umanità fa all’artista di una forma canonica, è una liberazione e non una limitazione»15. Ad ovest l’invito è, invece, quello di buscar la presencia de nuestro Señor en todas las cosas e di trovare tutte le cose in Dio, ossia a un’immersione profonda nelle pieghe della realtà e della storia, ossia a far proprio, assumere e declinare personalmente il modello o l’ideale scrittorio16. Come non riconoscere il peso di queste due opposte visioni del mondo e la diversa incidenza anche sul mestiere di copista? Come non riconoscere la potenza contestualizzatrice delle due diverse prospettive nella lettura dei “fatti di penna” accennati sopra? Il sollievo e la libertà del copista bi14 KAZHDAN, Bisanzio cit., p. 136 sintetizza l’opposizione tra arte orientale e occidentale in questi termini: «Questa peculiarità dell’arte bizantina si manifesta con evidenza nel modo col quale viene affrontato il soggetto della Madre di Dio col bambino, profondamente diverso da quello rinascimentale. La «Madonna» italiana del Rinascimento è in effetti una madre terrena con un bambino terreno che gioca, che lei accarezza o che dorme. L’immagine, fondamentalmente illusionistica, riflette la realtà. Viceversa il bambino bizantino, avvolto in abiti che non sono da bambino, di solito benedice con una mano e tiene lo scettro nell’altra. Non siamo di fronte all’immagine di un bambino, ma a mezzi simbolici con i quali l’artista rende l’idea teologica». 15 FLORENSKIJ, Le porte regali cit., p. 79. 16 KAZHDAN, Bisanzio cit., p. 156.
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zantino nella conformazione all’ideale scrittorio o modello, la libertà e il sollievo di quello rinascimentale nella ricerca e nella sperimentazione di uno stile proprio, di un’assimilazione singolare degli elementi grafici. Ed è — anche questa volta — proprio questo secondo tipo di libertà e di sollievo, che diremmo “latino”, quello di cui godono e che praticano in tutte le sue possibilità le tre talee greche innestate ad ovest dell’Adriatico: Vergezio, Santamaura e Santoro. Si obietterà che i canoni scrittori (come le stilizzazioni e le formalizzazioni o qualsiasi modello) sono esistiti anche in Occidente, e questo è vero, ma lo stesso uso lessicale va accordato al diverso vocabolario: nell’Oriente ortodosso l’idea di canone scrittorio doveva necessariamente lambire quella di canone dogmatico, di Sacro Canone; una contiguità che non si dà nell’Occidente latino, dove il canone è fatto esclusivamente giuridico17. Una distinzione dal peso enorme18, che potrebbe essere tra le ragioni più stringenti di quel conservatorismo grafico bizantino, tante e tante volte rilevato19, e che cesserebbe di essere un dato di fatto assoluto, per divenire perspicuo nel quadro di una mentalità a forte base platonica («Non esiste uomo che, seppur per un attimo, non sia stato seguace di Platone», estremizza Florenskij20). Inoltre, non va dimenticato che, a differenza del mondo bizantino o post-bizantino, l’Occidente non ebbe né poté mai offrire, se non rara e ridottissima, ai copisti greci operanti sul suo territorio la sponda “canonica” dei monasteri, ossia di quei centri librari nei quali si perpetuava la produzione libraria liturgica con tutte le tipologie scrittorie ad essa connesse; un esercizio che teneva vive le più antiche tradizioni grafiche del mondo ortodosso, continuamente riproposte e reinterpretate, e capaci di esercitare una funzione magnetica o di confronto costante e sotterraneo su tutti gli altri tipi di scrittura, dalla documentaria alla libraria, a quella di uso strettamente personale21. Lontani dalla costellazione monastica bizantina, gli scribi greci del Rinascimento operanti in territorio latino avevano perso 17 Così già KAZHDAN, Bisanzio cit., pp. 121-128, ossia nel capitolo intitolato «Teologia orientale e teologia occidentale». 18 Intuizioni simili, sebbene da riferimenti e prospettive totalmente diversi, ha già avanzato AGATI, Giovanni Onorio cit., p. 249. 19 Si vedano, oltre a PASQUALI, Paleografia cit., pp. 204-205, anche le considerazioni preliminari di ELEUTERI-CANART, Scrittura greca nell’Umanesimo italiano cit., p. 9 e la lettura assai più profonda che ne fa KAZHDAN, Bisanzio cit., pp. 142-143. 20 P. A. FLORENSKIJ, Realtà e mistero. Le radici universali dell’idealismo e la filosofia del nome, a cura di N. VALENTINI, traduzione di C. ZONGHETTI, Milano 2013, p. 16. 21 Si consideri, a riprova del valore di questo tipo di “attrazione magnetica” della produzione liturgica bizantina il caso di Teodoro Agiopetrita in DE GREGORIO, Καλλιγραφεῖν / ταχυγραφεῖν cit., pp. 424-425 con bibliografia.
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— che ne fossero coscienti o meno — il solido ancoraggio, o quanto meno la possibilità di un riferimento, alla produzione più alta, nobile e canonica che la loro cultura concepisse. In secondo luogo, l’instabilità del «copista instabile» costringe a chiedersi quale peso abbia avuto l’insorgere dell’individualità, e quali ne siano state le ricadute sull’attività di copia: fatto capitale tra XV e XVI secolo, sia ad oriente che ad occidente dell’Adriatico. Che sia stata quella dell’artista o quella del mercante la figura prima dell’“uomo singolare”, quanto vi sia di profondamente cattolico e quanto vi abbia apportato lo strappo della Riforma protestante, è un fatto che l’Occidente ha vissuto una più rapida frattura nell’ambito della compagine sociale e una più precoce messa in discussione dell’ordine costituito rispetto alla τάξις che continuava a reggere e informare quello orientale: basterebbe a provarlo la persistenza della fortuna e della diffusione del corpus dionysianum nelle zone dell’impero bizantino. «La creazione di uno stile individuale, l’affermazione di una idea del mondo e di una tecnica personale non erano per lo scrittore o il pittore bizantino un obiettivo di primo piano. Lo stile era collegato molto più strettamente con l’oggetto della raffigurazione o della descrizione che col carattere dell’autore. La personalità dell’autore si stemperava nella generalizzazione e lo stile era sottomesso alle regole del genere»22. E i tre copisti qui esaminati si confermano — anche da questo punto di vista — più occidentali (o meno dionisiani) dei contemporanei rimasti, o comunque operanti in territori di più stretta tradizione bizantina. Come non chiedersi poi quale sia stata l’incidenza sul fatto scrittorio della sua trasformazione in attività propriamente commerciale, recisa ormai sia dalle strutture di carattere religioso (scriptoria di monasteri o cancellerie vescovili, per fare un paio di esempi) sia da quelle politiche secolari, come anche da quelle scolastiche e universitarie? Nel momento in cui lo scriba diviene un professionista che offre i suoi servizi a qualsiasi genere di cliente, come questo nuovo statuto ricade sull’attività della sua mano?23 Non è forse alla luce di questa condizione inedita che trova la sua spiegazione il curriculum di Santamaura? Un ulteriore confronto ricco di rifrazioni interessanti potrebbe essere quello con un’altra lettera, anteriore (sebbene non datata) di circa un secolo al periodo qui in esame, ossia quella del copista Πέτρος ῾Υψηλᾶς/Petrus 22
Così anche KAZHDAN, Bisanzio cit., p. 146. A una questione simile alludeva Paul Canart discutendo l’intervento di HARLFINGER, Zu griechischen Kopisten cit., p. 342: «Pour la question de la Druckminuskel, je crois qu’il y aurait intérêt à pousser l’étude des spécimens d’écriture quel es copistes ont parfois rédigés à l’intention de leurs employeurs ou bien à l’intention d’imprimeurs». 23
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Fig. 20 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 2181, f. 3r: specimen della mano del copista Petrus Hypselas.
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Hypselas24, greco ma anch’egli attivo in Occidente, ad Antonio Verrio, oggi rilegata in testa al Vat. gr. 2181 (ff. 1c-4)25 (fig. 20). Al corrispondente desideroso di scrivere in greco come un greco, Hypselas invia uno specimen dei caratteri della propria scrittura: dapprima τὸ σύγγραμα τῶν ἐμῶν χαρακτήρων, ossia la propria esecuzione dell’alfabeto greco, e poi i più ricorrenti casi di legatura. In questo caso a variare è, però, la morfologia della singola lettera: in alcuni casi le varianti possibili arrivano fino a cinque, come nel caso di α o di β, ed è plurale la possibilità di tracciato e a variare non sono i “registri” dell’esecuzione, come diverrà, invece, corrente nel XVI secolo. Perfettamente speculare all’offerta calligrafica di Santamaura è la richiesta di un ente come la Vaticana, che a cavallo della metà del secolo istituiva il ruolo di instaurator (o scriptor, cioè copista) e ne fissava il profilo professionale, che richiedeva, per i candidati al posto di scrittore latino, di «saper far più sorte di lettere, o almeno una bona cancellaresca formata et antichetta tonda, per rispetto de titoli»26, a quelli greci di «haver bon charattere», e siccome agli instauratores spettava anche il compito di intervenire sui libri rovinati con «supplementi ne’ quali i diligenti et abili de’ copisti si sforzavano di non riuscire troppo dissimili dalla scrittura antica, almeno in certe esteriorità, e rinfrescare le lettere svanite»27, la duttilità proteiforme, o meglio camaleontica, della mano diveniva elemento di forza di un curriculum professionale28. Non si dimentichi poi che proprio in quegli anni in Vaticana, ad opera dello scriptor latinus Ruano, si era avviata una riflessione teorica e pratica insieme sulle principali tipologie di caratteri latini (a partire dalle lettere antiche che in più luoghi di Roma si veggono): nel 1554 vedevano la luce i Sette alphabeti di varie lettere formati con ragion geometrica che lo scrittor della biblioteca Vaticana dedicava al 24
RGK I 349 = II 478 = III 558. Lettera segnalata da CANART, Identification et différenciation cit., p. 365 e nt. 20; una presentazione e la trascrizione del testo in S. BENARDETE, Vat. gr. 2181: an unknown Aristophanes ms, in Harvard Studies in Classical Philology 66 (1962), pp. 241-248, segnatamente pp. 247-248; una nuova descrizione e aggiornamento bibliografico in Codices Vaticani graeci. Codices 2162-2254 cit., p. 71. 26 Espressioni tratte dal regolamento della Vaticana anteriore al trasferimento nella nuova sede sistina, datato al 1607 circa ed edito da MERCATI, Per la storia della biblioteca apostolica cit., p. 253. 27 Espressioni tratte dalla relazione del 1607, edita da MERCATI, Per la storia della biblioteca apostolica cit., p. 249. 28 Un caso emblematico è quello del restauro onoriano del Vat. gr. 1453, f. 218rv, sostituito col f. 216rv, illustrato in CARDINALI, Il Barberinianus gr. 532 cit., pp. 75-81 e tavv. 12-13, che va, dunque, ad aggiungersi all’ampia casistica ben esaminata da D. BIANCONI, Cura et studio. Il restauro del libro a Bisanzio, Alessandria 2018. 25
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patrono e ispiratore di quella sua riflessione, e che era — ancora una volta — Marcello Cervini. Inoltre, non è pensabile che il moltiplicarsi delle circostanze concrete di copia e delle destinazioni delle medesime non abbia avuto un qualche effetto sulla pratica della scrittura: a partire dal XVI secolo sopravvive tutta una massa di scritture private, non destinate alla circolazione, ma piuttosto ad esistenza provvisoria o comunque temporanea: è il caso delle copie preparate per fungere da menabò di stampa. Tutta questa massa permette di scandagliare una nuova tipologia di produzione scrittoria, nella quale la mano dello scriba lavora in condizioni e con modalità e finalità inedite, e dunque necessariamente foriere di nuovi apporti concreti alla riflessione teorica. La diffusione della stampa, poi, non può non aver avuto un impatto significativo sulla scrittura a mano, e questo andrà indagato secondo il rapporto di reciprocità che intercorre tra i due poli: se i caratteri di stampa derivano da quelli degli amanuensi, e spesso a tracciarne i tratti furono chiamati i più celebri di loro, da Nikolaos Sophianos29 a Giovanni Onorio30 a Angelo Vergezio31, è altrettanto vero che queste realizzazioni ebbero influenza sulla pratica amanuense, almeno in due direzioni: diffondendo modelli e abitudini scrittorie (emblematico è il caso degli imitatori di Onorio, indagato dalla Agati32) e moltiplicando formule e possibilità espressive, cosa che avvenne anche grazie alla pubblicazione di opusco29 A proposito di Νικόλαος Σοφιανός si vedano R. RIDOLFI, Nuovi contributi sulle “stamperie papali” di Paolo III, in La Bibliofilia 50 (1948), pp. 183-197, segnatamente pp. 191-192; A. TINTO, Nuovo contributo alla storia della tipografia greca a Roma nel secolo XVI: Nicolò Sofiano, in Gutenberg Jahrbuch 1965, pp. 171-175 e ID., The History of a Sixteenth-Century Greek Type, in The Library 25.4 (1970), pp. 285-293, segnatamente pp. 286-290; G. TOLIAS, Nikolaos Sophiano’s Totius Graeciae Descriptio: The Resources, Diffusion and Function of a Sixteenth-Century Antiquariam Map of Greece, in Imago mundi 58.2 (2006), pp. 150-182; ma anche P. CANART, Notes sur l’écriture de Nicolas Sophianos, in M. VITTI, Nicola Sofianòs e la commedia dei Tre Tiranni di A. Ricchi, Napoli 1966, pp. 45-47, poi in ID., Études de paléographie cit., pp. 205-213 e RGK I 318 = II 437 = III 517. 30 AGATI, Giovanni Onorio cit., pp. 157-190; sul caso di Onorio, come su quello di Sophianos, ambedue legati all’impresa editoriale cerviniana tornerò presto in un più ampio contributo monografico. 31 Oltre agli studi pionieristici di H. OMONT, Inventaire des «Grecs du Roi» en 1556, in Bulletin de la Société de l’histoire de Paris et de l’Île-de-France 8 (1881), pp. 112-115; J. DUMOULIN, A propos des «Grecs du Roi» (d’après un acte inédit), in Bulletin du Bibliophile (Juin 1898), pp. 99-303; PH. RENOUARD, Les «Grecs du Roi», in Bulletin du Bibliophile (Avril 1901), pp. 157168; e H. OMONT, Adrien Turnèbe et les «Grecs du Roi», in Bulletin de la Société de l’histoire de Paris et de l’Île-de-France 30 (1903), pp. 157-158; si veda la sintesi recente e bibliograficamente aggiornata di H. D. L. VERVLIET, The Palaeotypography of the French Renaissance. Selected Papers on Sixteenth-Century Typefaces, 2, Leiden – Boston 2008, pp. 365-382 e 383-425. 32 AGATI, Giovanni Onorio cit., pp. 219-252, segnatamente pp. 249-252.
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PARTE TERZA
letti come l’Alphabetum graecum di Robert Estienne, apparso a Parigi nel 155033. Riprendendo e continuando una tradizione che rimontava all’inizio dell’editoria aldina34 (e che aveva avuto enorme diffusione), Estienne diffondeva un volume di poche pagine e formato ridotto, con una presentazione dell’alfabeto greco, la suddivisione tra vocali, dittonghi e consonanti, con l’elenco delle singole proprietà, e le questioni relative alla trascrizione dal greco al latino, alla prosodia e all’uso di legature e abbreviazioni, e il De veris graecarum litterarum apud antiquos formis et causis ex Iano Lascare; ma, arrivato a questo punto, inseriva anche la presentazione dei characteres regii, ossia di varie versioni dell’alfabeto greco (con nessi e note compendiarie) disegnate per la tipografia regia francese, da lui diretta. I testi biblici e liturgici maggiormente diffusi continuavano a costituire il supporto del volume e il mezzo di esemplificazione dei singoli argomenti, ma lo stampatore parigino li presentava anche come specimina dei caratteri tipografici del suo atelier: una “mostra”, la si sarebbe detta all’epoca. Ebbene, in questo caso è emblematica la presentazione dei legamenti, illustrati nei termini di una questione di elegantia: essi sono introdotti sotto il titolo di Literarum nexus variaque et compendiaria scribendi ratio, qua elegantius scribentes utuntur, che inevitabilmente richiama il processo appena considerato nel caso di Santamaura (proprio in relazione ai legamenti) di progressiva perdita di valore degli aspetti tecnici e pratici della scrittura e di una loro nuova considerazione in chiave principalmente estetica e poi commerciale35 (fig. 21). Da ultimo, non sarà forse ora di porsi la questione — anche in ragione della maggior mole di documentazione che sopravvive dal XVI secolo in poi — dell’incidenza degli aspetti psicologici sulla scrittura? Dopo le irruzioni compiute in ambito teologico, letterario e storico artistico, a quando una psicologia della paleografia? Ossia un approccio che consideri il fatto scrittorio, specie all’interno della produzione di una medesima mano, in relazione a quelli della psiche?36 Fatti psicologici latissimo sensu, s’intende, nei quali possano trovar luogo anche la fisiologia, il percorso dell’età evolutiva e l’analisi delle congiunture storico-culturali, come viene da pensare 33 All’opuscoletto rimandava fugacemente CANART, Identification et différentiation cit., p. 365 nt. 21. 34 Si tratta del prontuario di morfologia greca, illustrato con esempi tratti dalla Sacra Scrittura, edito da Aldo nel 1495 in coda agli Erotemata di Costantino Lascaris, per il quale si veda almeno: Aldo Manuzio Tipografo. 1494-1515, catalogo a cura di L. BIGLIAZZI – A. DILLON BUSSI – G. SAVINO – P. SCAPECCHI, Firenze 1994, pp. 27-28 nr. 1. 35 Già Aldo aveva così titolato il paragrafo: Abbreviationes perpulchrae scitu quibus frequentissime Graeci utuntur indifferenter et in principio et in medio et in fine versus. 36 Così già HARLFINGER, Zu griechischen Kopisten cit., p. 341.
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Fig. 21 – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, R. I V. 747 (int. 3), c. B1r: catalogo dei nessi e dei compendi dell’Alphabetum graecum di Robert Estienne.
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PARTE TERZA
a rileggere le righe di Mario Praz consacrate all’esperienza dannunziana, che molti uomini attraverserebbero: «Guardate le nostre calligrafie: c’è un momento nella nostra giovinezza in cui l’onesta calligrafia appresa a scuola s’è impennata, ha preso angoli arditi, è di venuta bizzarra e insieme ricercata. È il momento dannunziano. Avevamo letto D’Annunzio, avevamo visto il suo autografo. Il nostro carattere (la calligrafia, e anche un po’ il carattere) lo riverberava»37. E ancora: «Certi di noi, partiti di lì, si son poi sviluppati per conto proprio, e nella loro scrittura d’oggi sì e no scoprireste qualche lettera, qualche aggruppamento di tipo dannunziano. Altri son rimasti lì sempre, magati: costoro hanno un motto sulla carta da lettere, che di preferenza è carta a mano, giallina, cogli orli ondati. Ah, quei tagli, quella ritmata irregolarità delle righe: “inconfondibili”, come si dice. Ne conosco parecchi, antichi vassalli del re di fiori (scil. Gabriele D’Annunzio), attestanti nella voce o nel tratto l’antica fedeltà, evidenti come i servitori dei ci-devant Borboni». È evidente che i tre casi esaminati in questo volumetto non bastano da soli a reggere il peso degli interrogativi che hanno suscitato: una riflessione come quella che ne è nata, ammesso che sia condivisibile nei suoi punti essenziali, necessita di una casistica molto più ampia e variegata, quasi di un proprio Repertorium der griechischen Kopisten, che allinei, localizzati e datati, i casi di copisti sperimentali, digrafi e poligrafi, dall’analisi dei quali si possa procedere a ben più stringenti deduzioni. Il fenomeno, tuttavia, esiste, fosse anche soltanto in (questi) tre casi, e chiede di essere affrontato. E forse non sarebbe inutile nemmeno riprendere i due diversi quadri teologico-culturali, l’occidentale e l’orientale, e provare ad impiegarli per rileggere la produzione scrittoria dei secoli precedenti a quello trattato — che è poi quello della contaminazione e che illustra la commistione, e non lo stato in purezza di ognuno dei due mondi — e vedere quali rifrazioni questa lettura sia capace di liberare; qui basterà aver gettato il sasso (senza però aver ritratto la mano).
37
M. PRAZ, Esperienza dannunziana, in ID., Bellezza e bizzarria. Saggi scelti, a cura di A. CANE con un saggio introduttivo di G. FICARA, Milano 2009, pp. 732-738, segnatamente pp. 733-735.
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APPENDICE I
PRIMO CATALOGO (CRONOLOGICO) DI PIETRO VERGEZIO
1. Add. 10971 (); 2. Burn. 104 (Πέτρος ὁ Βεργίκιος ὁ Κρὴς, 1543); 3. Paris. gr. 2458 (Πέτρος, 1544); 4. Vat. gr. 2174 (); 5. Coisl. 43 (