238 94 4MB
Italian Pages 406 Year 2023
FRANCO DI GIORGI IL NEGATIVO E L’ATTESA
Questo lavoro muove una critica nei confronti della logica dialettica che vede nel negativo, soprattutto quello di Auschwitz, la conditio sine qua non del positivo: logica terribilmente assurda – un’antica “superstizione”, un’acrobazia dialettica, un’interpretazione sofistico-dialettica la definisce infatti Hannah Arendt – che si riflette nei più diversi piani culturali (filosofico, pedagogico, storico, politico, militare) al punto da generarlo preventivamente e opportunamente – ecco l’assurdità – anche là ove esso, questo negativo, di fatto non si dà. Come a dire, ad esempio, che la guerra è necessaria o indispensabile per ottenere una condizione umana migliore. Eppure questa è stata (e purtroppo continua a essere) l’idea bizzarra presente nella mente di molti tra i migliori rappresentanti della filosofia occidentale (Eraclito, Hegel, Nietzsche, ecc.). A un siffatto negativo si intende contrapporre il concetto leopardiano di attesa, il quale si esprime in un atteggiamento capace di svelare quell’assurdità logico-dialettica, giacché con il proprio attendere essa non ha alcun bisogno di generare appositamente un negativo per ricavarne un positivo.
FRANCO DI GIORGI IL NEGATIVO E L’ATTESA RIFLESSIONE INTORNO ALLA SHOAH A PARTIRE DA PRIMO LEVI
Franco Di Giorgi (1954), ha sempre fatto interagire la didattica con la memorialistica concentrazionaria e resistenziale, convinto che nessuna forma di cultura possa esimersi dal confronto con le questioni e con i valori fondamentali scaturiti dalla Resistenza e dalla Deportazione. Per Mimesis ha pubblicato Il dramma dell’esistenza mancata (2020) e Il Quarto Concerto di Beethoven (2021).
In copertina: Caterina D’Amico Montalto, Ombre, 1998 (particolare), acrilico su pannelli in legno, 4,80x2,40 m
Mimesis Edizioni Filosofie www.mimesisedizioni.it
32,00 euro
9 788857 598833
MIMESIS
ISBN 978-88-5759-883-3
MIMESIS / FILOSOFIE
MIMESIS / FILOSOFIE N. 851 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) comitato scientifico Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3), Antonio De Simone (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo), Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza), Morris L. Ghezzi (†, Università degli Studi di Milano), Gabriele Giacomini (Università degli Studi di Udine), Giovanni Invitto (Università degli Studi di Lecce), Micaela Latini (Università degli Studi di Ferrara), Enrica LiscianiPetrini (Università degli Studi di Salerno), Luca Marchetti (Università Sapienza di Roma), Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna), Paolo Perticari (†, Università degli Studi di Bergamo), Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari), Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari), Riccardo Roni (Università di Urbino), Viviana Segreto (Università degli Studi di Palermo), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Tommaso Tuppini (Università degli Studi di Verona), Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
Franco Di Giorgi
IL NEGATIVO E L’ATTESA Riflessione intorno alla Shoah a partire da Primo Levi
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Filosofie, n. 851 Isbn: 9788857598833 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL Piazza Don Enrico Mapelli, 75 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 21100089
INDICE
Introduzione Per una critica della necessaria priorità del negativo13 Nota dell’autore
41 PRIMA PARTE
Capitolo primo L’odio paranoico45 1. L’antisemitismo eliminazionista e genocida tra premodernità e modernità 45 2. La morale dei massacratori 52 3. L’umanesimo alla rovescia, la crudeltà e la pedagogia della durezza 56 4. La necessaria priorità del negativo come principio di formazione e di fortificazione 75 5. Fare di necessità virtù 106 Capitolo secondo Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo121 1. Il tragico giogo della dialettica 121 2. La ripresa di Nietzsche nel neoromanticismo pangermanista e nazional-patriottico 126 3. Hitler dà attuazione a un progetto già gettato 136 4. Nietzsche: l’indispensabilità della guerra e il bisogno di ricadute nella barbarie 148 SECONDA PARTE Capitolo terzo L’attesa e il negativo163 1. L’inevitabilità delle cure quotidiane e l’attesa 163
2. L’ambiguità dell’esistere e l’attesa 3. L’ambiguità dell’attendere 4. La necessità dialettica del negativo e l’eticità della guerra 5. Jean Améry e l’autenticità
180 189 195 220
Capitolo quarto I sogni contrari al desiderio237 1. La complessità dei sogni d’angoscia 237 2. Dall’appagamento del desiderio alla coazione a ripetere, dall’organico all’inorganico 246 3. L’incomunicabilità dell’offesa 258 4. L’aporeticità dell’esperienza concentrazionaria 270 Capitolo quinto La materia e il male293 1. Dalla ri-velazione alla rivelazione 293 2. Il male come volontà di ridurre l’uomo a res extensa302 3. Il male come piacere di osservare l’anticipazione della riduzione a materia 310 4. Il male come trasferimento della necessità dal negativo naturale a quello artificiale 315 5. Politikón-zôon o dell’eterna lotta dello spirito contro la materia 324 Capitolo sesto La divina sofferenza341 1. Jonas, Ricoeur, Pareyson e il valore espiativo del dolore 341 2. Confutazione del provvidenzialismo 351 3. Il negativo in Vico e in Nietzsche tra barbarie dei sensi e barbarie della riflessione 357 Conclusione Il problema culturale dopo Auschwitz371 1. Critica della cultura 371 2. Il presente ha dimenticato la lezione di Auschwitz 375 3. A ripartire dal valore dell’amicizia 385 Indice dei nomi
391
der Tod ist ein Meister aus Deutschland. (Paul Celan, Todesfuge) È dunque necessario impegnarsi nella […] genealogia degli schemi mentali più arcaici che, secolarizzati, prevalgono ancora nel cuore del nostro tempo. (Georges Bensoussan, Genocidio. Una passione europea, Prologo)
A Primo Levi e a tutti i deportati e le deportate nei Lager nazisti
SIGLE DELLE OPERE DI PRIMO LEVI CITATE NEL TESTO
SE Se questo è un uomo (1947), Einaudi, Torino 1989. Il testo comprende anche La tregua. TR La tregua (1963), Einaudi, Torino 1989. SN Storie naturali (1966), in Tutti i racconti, I, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 2015, ripubblicato con “La Stampa”, Torino 2017. VF Vizio di forma (1971), in Tutti i racconti, I, cit. SP Il sistema periodico (1975), in Opere, I, Einaudi, Torino 1987; ora anche in Tutti i racconti, I, II, cit. CS La chiave a stella (1978), Einaudi, Torino, ripubblicato con “La Stampa”, Torino 2019. LI Lilìt e altri racconti (1981), in Tutti i racconti, II, cit. RR La ricerca delle radici (1981), Einaudi, Torino 1981. SQ Se non ora, quando? (1982), Einaudi, Torino, ripubblicato con “La Stampa”, Torino 2019. AI Ad ora incerta (1984), Garzanti, Milano 2019. AM L’altrui mestiere (1985), Einaudi, Torino 2018. SS I sommersi e i salvati (1986), Einaudi, Torino 1986. FS Il fabbricante di specchi, Editrice La Stampa, Torino 2007. La maggior parte degli articoli sparsi presenti in questa raccolta sono stati inseriti anche in Tutti i racconti, II, con il titolo L’ultimo Natale di guerra, cit. Sigle di altri scritti LR Primo Levi e Tullio Regge. Dialogo, a cura di Ernesto Ferrero, Einaudi, Torino 1984. SV Primo Levi, “Alla nostra generazione…” (1986), in Storia vissuta, Franco Angeli, Milano 1988. LC Ferdinando Camon, Conversazione con Primo Levi (1986), Garzanti, Milano 1991.
10
Il negativo e l’attesa
PC G. Poli, G. Calcagno, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con Primo Levi, Mursia, Milano 1992. VO Premessa di Primo Levi a La vita offesa. Storia e memoria del Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla, Franco Angeli, Milano 19966. IR Primo Levi, L’intolleranza razziale, una profetica conferenza del 1979, con scritti di Guglielmo Gallino e Pier Franco Quaglieni, introduzione di Walter Giuliano, pubblicazione in omaggio e fuori commercio a cura della Provincia di Torino, Assessorato alle Risorse Naturali e Culturali, e del Centro di Studi e Ricerche “Mario Pannunzio”, 1997. RH Primo Levi, Prefazione (1985) a Rudolf Höss, Kommandant in Auschwitz (1958), tr. it. di G. Panzieri Saija, Comandante ad Auschwitz, Einaudi, Torino 1997. La sigla indica anche il testo di Höss. LD Primo Levi, Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986. Con Leonardo De Benedetti, Einaudi, Torino 2015. LT Primo Levi. Io che vi parlo. Conversazione con Giovanni Tesio, Einaudi, Torino 2016. Sigle di alcune opere maggiormente citate nel testo All T. Allert, Der deutsche Gruß. Geschichte einer unheilvollen Geste, Eichborn Verlag, Frankfurt a. M. (2006), tr. it. di F. Ortu, Heil Hitler! Storia di un saluto infausto, il Mulino, Bologna 2008. Ame1 J. Améry, Jenseits von Schuld und Sühne. Bewältigunsversuche eines Überwältigten (1966), tr. it. di E. Ganni, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1990. Ame2 J. Améry, Über das Altern. Revolte und Resignation (1968), tr. it. di E. Ganni, Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Bollati Boringhieri, Torino 1988. Ame3 J. Améry, Hand an sich legen. Diskurs über den Freitod (1976), tr. it. di E. Ganni, Levar la mano su di sé, Bollati Boringhieri, Torino 1990.
Sigle delle opere citate nel testo11
Are1 H. Arendt, The Origins of Totalitarianism (1951), tr. it. di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1999. Are2 H. Arendt, Eichmann in Jerusalem. A raport on the banality of evil (1963), tr. it. di P. Bernardini, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1997. Baud J. Baudrillard, La Transparence du Mal. Essai sur les phénomènes extremês, Galilée, Paris 1990. Baum Z. Bauman, Modernity and the Holocaust (1989), tr. it. di M. Baldini, Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 1992. Ben G. Bensoussan, Europe. Une passion génocidiarie (2006), tr. it. di F. Sessi, C. Saletti, L. Di Genio, Genocidio. Una passione europea, Marsilio, Venezia 2009. Bet B. Bettelheim, Surviving and others essays (1952), tr. it. di A. Bottini, Sopravvivere, Feltrinelli, Milano 19892. Del G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, PUF, Paris (1962), tr. it. di S. Tassinari, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze 1978. For S. Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Feltrinelli, Milano 2012. Fre1 S. Freud, Die Traumdeutung (1900), tr. it. di A. Ravazzolo, L’interpretazione dei sogni, Newton Compton, Roma, IXª ed., 1976. Fre2 S. Freud, Jenseits des Lustprinzips (1920), tr. it. di A. Durante, Al di là del principio di piacere, Newton Compton, Roma 1974. Gen E. Gentile, L’apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, Milano 2008 (2014). Gol D.J. Goldhagen, Hitler’s Willing Excutioners (1996), tr. it. di E. Basaglia, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano 1997. Hil R. Hilberg, The Destruction of the European Jews (1985), tr. it. F. Sessi e G. Guastalla, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1995. Hit A. Hitler, Mein Kampf, La mia battaglia, Pegaso Edizioni, Bologna 1970. Koj A. Kojève, La dialettica del reale, in La dialettica e l’idea della morte in Hegel, tr. it. di P. Serini, Einaudi, Torino 1948.
12
Il negativo e l’attesa
Luk G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft (1959), tr. it. di E. Arnaud, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 19802, 2 voll. Mos G. L. Mosse, The Crisis of German Ideology (1964), tr. it. di F. Saba Sardi, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano 2015. Neg A. Negri, Leopardi e i giorni del “lavoro usato”, in AA.VV., Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C. Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1989. Sof W. Sofsky, Die Ordnung des Terrors: Das Konzentrationslager (1993), Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt a.M. 20086, tr. it. di N. Antonacci, L’ordine del terrore, Laterza, Bari 1995. Tutte le citazioni si rifaranno all’edizione tedesca. Tod1 T. Todorov, Face à l’extrême (1991), tr. it. di É. Klersy Imberciadori, Di fronte all’estremo. Quale etica per il secolo dei gulag e dei campi di sterminio, Garzanti, Milano 1992. Tod2 T. Todorov, Mémoire du mal Tentation du bien (2000), tr. it. di R. Rossi, Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Garzanti, Milano 2004. Tra E. Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, il Mulino, Bologna 2004. Wel1 H. Welzer, Verweilen beim Grauen. Essays zum wissenschaftlichen Umgang mit dem Holocaust, Ed. diskord, Tübingen 1995. Wel2 H. Welzer, Täter. Wie aus ganz normalen Menschen Massenmörden werden (2005), S. Fischer, Verlag GmbH, Frankfurt a.M. 2005. cn corsivo/i nostro/i.
INTRODUZIONE PER UNA CRITICA DELLA NECESSARIA PRIORITÀ DEL NEGATIVO
Solo l’angosciata immaginazione di chi è stato infiammato da tali resoconti [sull’orrore nazista] […] può permettersi di indugiare e riflettere sugli orrori. […] In ogni caso l’immaginazione dell’angoscia ha il grande vantaggio di dissolvere le interpretazioni sofistico-dialettiche secondo cui qualcosa di bene potrebbe scaturire dal male. Tali acrobazie dialettiche avevano almeno una parvenza di giustificazione finché il peggio che l’uomo poteva infliggere a un uomo era l’assassinio. (Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, pp. 604-605) È stato oscenamente detto che di un conflitto c’è bisogno: che il genere umano non ne può fare a meno […]. Sono argomenti capziosi e sospetti. Satana non è necessario: di guerre e violenze non c’è bisogno, in nessun caso. Non esistono problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo, purché ci sia volontà buona e fiducia reciproca: anche paura reciproca […]. Neppure è accettabile la teoria della violenza preventiva: dalla violenza non nasce che violenza, in una pendolarità che si esalta nel tempo invece di smorzarsi. (Primo Levi, SS 164-165) Non ammetterò mai che il totalitarismo e i lager siano stati, in senso cosmico e storico, “necessari”. Il male non è soltanto doloroso. Molto spesso è anche assurdo, e proprio per questo inaccettabile. (Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo, p. 222)
14
Il negativo e l’attesa
Il Negativo. La presente riflessione sul negativo si è sviluppata in seguito alla lettura di Se questo è un uomo di Primo Levi. Lettura che ha fatto da lievito per le nostre precedenti considerazioni sull’attesa, cresciute all’ombra della poesia leopardiana. La nozione di negativo è quindi successiva a quella dell’attesa e si struttura inizialmente sulla base del confronto tra memorialistica concentrazionaria (Levi, Wiesel, Améry, altri testimoni) e filosofia (i Dialoghi di Platone, le schellinghiane Conferenze di Erlangen, Essere e tempo di Heidegger). È proprio dal raffronto tra l’esperienza concentrazionaria – compresa la stessa tragica fine del testimone torinese – e quanto la filosofia continua ad affermare sulla necessità del negativo, che è venuta delineandosi la nostra critica alla funzione prioritaria che la cultura in generale continua ad attribuire ad esso. Siamo pertanto anzitutto d’accordo con Georges Bensoussan quando considera l’Europa come l’“entità geografica che nutrì nel suo ventre il terreno intellettuale che preparò gli spiriti ad abituarsi al peggio”, ossia, diremmo nel nostro caso, al negativo. E siamo anche d’accordo con lui quando dice che occorre risalire i percorsi della cultura europea, che fecero degli ebrei un problema che richiedeva comunque una soluzione” (Ben 16 cn). Nel risalimento di questi percorsi egli individua alcuni “schemi intellettuali antichi”, fra i quali noi possiamo ravvisare anche il principio della necessaria priorità del negativo, una forma mentale che ha in generale abituato gli spiriti ad aspirare al peggio inteso come propedeutico al meglio. La necessaria priorità del negativo è infatti un principio dialettico costitutivo della cultura occidentale ed europea in modo particolare, la quale è profondamente radicata nella religione giudeo-cristiana. Questo principio si fonda sulla convinzione, suggerita in parte dall’esperienza compiuta in rapporto con la natura, che tutto quanto l’uomo è in grado di apprendere per sé di positivo (miglioramento, rafforzamento, maggiore autenticità nel vivere la vita) non può che dipendere deterministicamente dal confronto necessario e prioritario col negativo (pericolo, sofferenza, morte). In tal modo esso esclude già all’origine le capacità migliorative e autentificanti riscontrabili nella gioia, nell’amore e nell’attesa fiduciosa. La critica che qui rivolgiamo a tale principio riguarda pertanto in generale il pensiero dialettico, con particolare riferimento ai suoi riflessi in quelle politiche e in quelle pedagogie che evocano e propiziano il negativo anche quando questo di fatto non si dà. Le due guerre mondiali, con i due genocidi annessi (il Metz Yeghérn, lo sterminio
Introduzione15
degli armeni, e la Shoah, il giudeicidio), sono state non soltanto le estreme conseguenze dell’attuazione di quel principio, ma anche al tempo stesso la sua confutazione, perché (non solo Edith Bruck, ma anche altri sopravvissuti lo ribadiscono amaramente) quei disastri – di cui Bensoussan tenta una “archeologia intellettuale” (Ben 14) – non hanno in concreto prodotto nulla di dialetticamente positivo nella storia successiva, anche perché alcuni dei loro preoccupanti effetti si avvertono ancora oggi, e non solo in Europa. L’attuale conflitto russo-ucraino ne è l’ultimo e inatteso riflesso. “I mostri del nazionalismo, del razzismo, del fanatismo ideologico e religioso”, ammoniva Carlo Maria Martini, “possono ancora affascinare nuove generazioni, se noi le priveremo della memoria”. Anche perché, ribadiva citando una dolente constatazione del 1977 di Wiesel, “La testimonianza non è stata ascoltata. Il mondo è sempre lo stesso”1. Un simile tono dolente è anche quello di Zygmunt Bauman in Modernità e Olocausto: “Il messaggio che l’Olocausto contiene […] viene messo a tacere, resta inascoltato e non arriva a destinazione. Esso viene sì decifrato dagli specialisti e discusso nel circuito delle conferenze, ma difficilmente riesce a farsi sentire altrove […]. A tutt’oggi [siamo nel 1989] non è entrato a far parte della coscienza contemporanea […], non ha ancora inciso sul nostro modo di agire” (Baum 13). Anche Goti Bauer (sopravvissuta ad Auschwitz), esprime una tale delusione: “temo che non siamo stati ascoltati, che la nostra lezione non sia servita se altri orribili massacri hanno potuto essere compiuti nell’indifferenza generale. Non pensavo sarebbe potuto accadere ancora, mi illudevo che il mondo non l’avrebbe più permesso”2. In che cosa consiste, dunque, e perché risulta criticabile questa funzione prioritaria del negativo? Innanzitutto essa si radica nel pensiero dialettico ed è pertanto rintracciabile, come si è detto, sia nella religione giudeo-cristiana (nel Qohèlet, nel Libro di Giobbe e nei Vangeli sinottici) sia nel pensiero dei più grandi poeti, filosofi e scrittori della cultura occidentale (Eraclito, Platone, Dante, Boccaccio, Leopardi, Hölderlin, Kant, Hegel, Schelling, Kierkegaard, Dostoevskij, 1 2
C.M. Martini, La strada dell’incontro passa per Auschwitz, in Educare dopo Auschwitz, Vita e pensiero, Milano 1995, pp. 19-20. Cfr. la sua testimonianza in Educare dopo Auschwitz, cit., p. 115. “Non abbiamo imparato nulla”, dice anche l’informatico tedesco Joseph Weizenbaum. “La civiltà è in pericolo oggi come lo era allora” (cfr. Baum 164).
16
Il negativo e l’attesa
Nietzsche, Heidegger, Freud). A questa eccelsa e folta rappresentanza culturale della necessaria priorità del negativo si oppongono però le testimonianze di Levi e di Améry, il materialismo lucreziano, il Principe del Machiavelli e per certi versi, anche la Scienza nuova di Vico. Il pensiero dialettico si fonda sull’umana convinzione o, come dice la Arendt, su una “superstizione” (Are1 605)3, cioè su un’acrobazia dialettica, che la costituzione di ogni positivo sia necessariamente preceduto dal momento negativo; che quest’ultimo rappresenti il motore della storia e che in generale non possa esserci un effettivo dato positivo senza una necessaria e precedente esperienza del negativo. Non può esserci di conseguenza piena comprensione della vita senza una diretta esperienza della morte; non piacere se non come figlio d’affanno; non Rettung (salvezza) senza Gefahr (pericolo); non pace senza guerra; non civiltà senza una continua lotta contro l’impulso di morte e la barbarie; nessun ritrovamento senza una precedente e provvidenziale perdizione; nessuna autenticità senza l’esperienza angosciosa e traumatizzante della morte, come quella che desta l’Esserci dalla sua costitutiva e inautentica gettatezza. Una convinzione dialettica che sembra valere anche per il rapporto reciproco, poiché secondo essa col darsi di un positivo pare non possa nascere che un negativo. Dalle società democratiche, osserva infatti la Arendt, è sorto il nazismo e da quelle socialiste lo stalinismo. E pensando all’oggi si può dire che dalle prime sono scaturiti il neofascismo e il populismo, mentre dalle seconde si sono generati il sovietismo e il putinismo. Occorre pertanto vigilare, giacché in entrambi i casi il negativo sembra garantito, inevitabile. Da qui il timore degli studiosi e dei sopravvissuti, di Levi in particolare. Da un lato Auschwitz, simbolo del male assoluto ed estrema conseguenza di quella concezione dialettica fondata sulla necessità del negativo; dall’altro le testimonianze pervenute da questo luogo di sterminio sottolineano l’infondatezza di una tale superstizione. Sebbene poi alcuni sopravvissuti alla Shoah, e Levi in primis, confessino che l’esperienza del Lager sia stata per loro una specie di “Università”, tuttavia questa esperienza negativa non ha avuto né in loro né nella realtà storica nessun profondo e duraturo effetto positivo. Auschwitz è stato il negativo che non ha avuto 3
Il saggio della Arendt indaga le origini del totalitarismo, quello di Bensoussan va alla ricerca delle radici dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo.
Introduzione17
nessun effetto dialettico storicamente positivo. In effetti, fatte le dovute differenze con i massacri tra Hutu e Tutsi in Burundi, con la pulizia etnica nell’ex Jugoslavia, col riaffacciarsi del neonazismo nella Germania riunificata e del razzismo un po’ ovunque, dopo l’esperienza dei campi di sterminio e di Auschwitz, la storia sembra incredibilmente ripetersi. Lo ribadisce lo stesso Levi nelle righe conclusive de I sommersi e i salvati ricordando a sua volta anche “la sciagurata impresa vietnamita, il conflitto delle Falkland, la guerra Iran-Iraq ed i fatti di Cambogia e d’Afghanistan” (SS 166). A cui potremmo aggiungere anche le due Guerre del Golfo in Iraq e quella in Afghanistan, altrettanto sciagurate alla luce dei loro esiti. E per ultima anche la già ricordata assurda invasione russa dell’Ucraina. Sicché, seppur con una certa diffidenza, come non sentirsi vicini al pessimismo antilluminista di Joseph de Maistre, quando si rifà alle parole della Lettera ai Romani (Rm 3, 17) che Paolo riprende da Isaia (Is 59, 7-8): “Distruzione e disgrazia sui loro cammini. E il sentiero della pace lo ignorarono” (kaì hodòn eirénes ouk égnosan; dérekh šalòm lo’ iadàu)? Sebbene da due prospettive differenti, sia Jean Améry che Günther Grass (il primo deportato ad Auschwitz-Monowitz, il secondo membro a quindici anni della Gioventù hitleriana, aiutante nella Luftwaffe e volontario al servizio con l’arma), erano contrari alla riunificazione della Germania, poiché, secondo loro, scrive Enzo Traverso, “la ferita doveva rimanere aperta, come richiamo costante alla storia, al fine di conservare la memoria di un passato incancellabile” (Tra 187)4. Ebbene, nonostante l’ostinato ripetersi di questi massacri, per la concezione dialettica e formativa della storia sembra che la funzione etica della necessaria priorità del negativo debba ancora continuare a valere come una sorta di protrettico per il raggiungimento del positivo. Ma è sempre vero che l’autenticità, la conoscenza eticamente assimilata di sé e del mondo possa derivare solo dall’esperienza diretta del negativo? È davvero sempre e solo il negativo che permette il procedere della storia, l’incivilimento dei popoli, l’educazione della persona? È a questo interrogativo che proveremo qui a rispondere. 4
Di Günther Grass, oltre che Schreiben nach Auschwitz, da cui cita Traverso, si veda anche Beim Häuten der Zwiebel (2006), tr. it. di C. Groff, Sbucciando la cipolla, Einaudi, Torino 2007, p. 58.
18
Il negativo e l’attesa
Ciò premesso, occorre tuttavia non eludere questa ovvia obiezione: se l’esperienza negativa vissuta da Levi ad Auschwitz ha avuto come effetto Se questo è un uomo, e se la lettura di quest’opera, frutto di quell’esperienza negativa, ha suscitato in noi l’idea della critica della necessaria priorità del negativo, come si può criticare quella priorità se è proprio dalla sua attuazione che tale idea deriva? Tale possibile obiezione segnala una contraddizione nella nostra tesi, giacché proprio nella nostra denuncia della priorità del negativo, intesa come una specie di follia iscritta nel modo di procedere della storia umana occidentale, tale negativo riappare in tutta la sua necessità. Non è pertanto una posizione scetticamente ingenua quella che ha la pretesa di opporsi al principio della necessaria priorità del negativo, visto che opporvisi non significa altro che porsi contro sé stessi? Lo stesso Baudrillard dirà, ad esempio, che non tutto il negativo, specie nella modernità, vien per nuocere, visto che la nevrosi è ciò che salva dalla follia. Come, dunque, se non illusoria può essere l’idea di negare o di opporsi alla necessità del negativo? Qui però non si intende affatto negare il negativo in sé, bensì criticare la concezione che lo ritiene formativo e quindi prioritariamente necessario. Quando è frutto del caso o della natura, il negativo può risultare finanche una condizione (sufficiente ma non necessaria) della nostra formazione e può quindi ritenersi positivo. Ma come ritenere positiva la condizione di tutte quelle persone che affondano nel negativo opportunamente pianificato, previsto e quindi voluto e realizzato con la guerra? Persone che sprofondano, cioè, nella fame, nella fatica, nel dolore, nella malattia e nella morte? Se i tre quarti della popolazione del nostro pianeta versa in condizioni pietose, dovremmo forse dire – ma non è poi proprio così che si pensa? – che è grazie a questo negativo in cui si trova la maggioranza degli uomini del mondo che il restante quarto può permettersi di vivere relativamente bene e senza preoccuparsi oltremodo della sua sopravvivenza? La maggior parte delle persone, in effetti – lo vediamo dappertutto girandoci intorno – non trae nessun profitto, nessun beneficio dalla condizione di povertà in cui vive. Non solo, ma per loro la vita non sembra riservare alcuna possibilità per superare lo stato di indigenza in cui si trovano. Come alcuni personaggi dell’Anitra selvatica di Ibsen, esse si sono ormai abituate a questo genere di esistenza e, proprio come il
Introduzione19
venditore di almanacchi di cui parla Leopardi, passano il loro tempo nell’illusione che un giorno o l’altro cambierà, che sarà diverso e che la loro condizione di oppressi potrà essere definitivamente superata. Ma l’assuefazione è ormai tale che anche l’illusione viene meno: non aiuta più a sperare, e perciò obbliga a vivere nella rassegnazione. E poiché ora questa condizione di miseria appare ad esse come la normalità, noi, parlando del loro modo di condurre la vita, possiamo tranquillizzare le nostre coscienze dicendo che si tratta di culture “altre”, con diversi usi e costumi. È il negativo in cui abbiamo costretto a vivere gli oppressi quello che fa di noi degli oppressori e della nostra società opulenta una differente positività. È dinanzi al negativo che essi rappresentano per noi, che noi possiamo dialetticamente avere di noi stessi una considerazione positiva. Una positività che per di più crediamo sia messa in pericolo ogni qualvolta veniamo in qualche modo a contatto con quella negatività. Ed è quindi chiaro che per poter mantenere questa positività noi abbiamo bisogno di quel negativo; per questo motivo, quando esso accenna a venir meno, occorre necessariamente provocarlo. Ecco la necessaria priorità del negativo in tutta la sua drammaticità. Ecco quando la guerra diventa necessaria, quando diviene necessaria la ricaduta nella barbarie. Più che il naturale accadere necessario del negativo, dunque, è piuttosto l’artificiale, arbitraria e insensata ricerca di esso come mezzo per raggiungere il positivo la vera follia. Fare la critica della necessaria priorità del negativo non significa altro in sostanza che criticare tutta quella cultura o, almeno, buona parte di essa che si è fondata su tale concezione dialettica. Il problema del negativo non riguarda e non caratterizza solo il ‘900, anche se è soprattutto in questo secolo che ha raggiunto la sua massima gravità. Esso ha in generale segnato un po’ tutta quanta la storia della cultura occidentale, improntando di sé tutti gli ambiti del sapere e in modo particolare la sfera umanistica. Solo dinanzi alla morte si può comprendere il valore della vita e il senso dell’esistenza: questo è essenzialmente il principio o l’assunto su cui si fonda la cultura umanistica. In tal modo la morte (il negativo: così perlopiù la percepisce l’essere umano) diventa il mezzo necessario e indispensabile per il raggiungimento dell’unico scopo dell’umanità: la vita (il positivo: così la percepisce perlopiù l’uomo), la sopravvivenza, il bene.
20
Il negativo e l’attesa
La cultura, inoltre, è vera (anche nel senso letterario di verismo) quando è espressione veridica della vita vissuta. Se questo vissuto corrisponde a un fatto reale, allora la cultura è un modo spirituale per sublimare e per trasmettere agli altri il valore di quel fatto. Se, da sempre, il fatto-morte è stato percepito e vissuto dall’uomo come qualcosa di negativo, allora la cultura, nel suo valore trasmissivo, è divenuta nel tempo la sostituzione o l’imitazione di questo fatto negativo. La cultura sensibilizza ed educa al positivo attraverso l’imitazione e la trasmissione di un fatto negativo. Essa non è il fatto reale – non è la morte –, ma è solo l’imitazione, la preparazione e l’anticipazione della morte. Fedele al suo principio, essa tenta di far comprendere il valore della vita attraverso l’esperienza artistica e letteraria della morte, mediante le iconografie e le teorie della finitudine; insegna che il rispetto e la valorizzazione della vita passa inevitabilmente attraverso il rischio sublimato della distruzione e della morte. Insistendo però così tanto e così a lungo sull’indispensabilità o sulla necessaria priorità del negativo, della morte, del dolore, ecc. si cade nel folle paradosso di ritenere la guerra o la barbarie veramente necessarie per il raggiungimento e il consolidamento della pace e della civiltà. Allorché però questo paradosso viene assunto come vero, allora diventa con ciò stesso immediatamente falso il compito della cultura medesima, che, almeno nella società civile e democratica, è di trasmettere il valore della pace e della civiltà, giacché la guerra e la barbarie, in quanto fatti crudi, rappresentano la negazione radicale di ogni imitazione o sostituzione culturale. Per questo, infatti, il folle sostenitore del fatto crudo diffida di ogni possibile imitazione del fatto, cioè della cultura. Egli è un cultore dell’autenticità ed è autentico egli stesso. Per quanto negativamente improntata, la cultura per lui non è affatto sufficiente a rendere veramente autentica la coscienza dell’uomo: occorrono i fatti, i morti concreti! Il bagno, il battesimo di sangue, la “turbinante distruzione”, direbbe Ernst Jünger. E l’attesa? Cos’ha che fare tutto ciò con l’attesa? Essa è da intendere come alternativa alla noia e all’angoscia heideggeriane5, 5
Su questo argomento rinviamo al nostro articolo Heidegger tra attesa, noia e angoscia in Heidegger, “Paradigmi”, Rivista di critica filosofica, Anno XIV, n. 41, maggio-agosto 1996, pp. 251-285.
Introduzione21
come una proposta, un tentativo per superare il negativo dialettico. L’attesa non è la folle ricerca del negativo come mezzo artificiale per raggiungere il positivo, ma è la positiva consapevolezza del negativo naturale, destinale e casuale. Forte di sé stessa, essa tenta di prevedere, anticipare e, se possibile, evitare la supposta necessaria priorità del negativo dialettico. Ma la positività di una tale consapevolezza può riuscire in un tale compito solo se si presuppone l’attesa come senso dell’esistenza. È certo giusto, ma anche facile dire che non si deve più tornare ai livelli di degradazione umana raggiunti con l’evento Auschwitz. Ed è però altrettanto vano voler modificare una certa situazione operando solo sugli effetti immediati, sugli epifenomeni, senza preoccuparsi delle cause recondite. Finché tutti i nostri sforzi saranno orientati solo verso l’effetto, per quanto questo sia sempre più doloroso e disumano, non solo continueremo a coprire la causa, ma ne favoriremo inconsapevolmente la sopravvivenza. Indubbiamente la Kriegsideologie e la meditatio mortis6 costituiscono due condizioni fondamentali della crisi della ragione manifestatasi con straordinaria profondità nella prima metà del XX secolo con il razzismo concentrazionario nazista, di cui Auschwitz rappresenta l’abisso più tenebroso. E il razzismo, sottolinea infatti Bensoussan, coincide con “la sconfitta della ragione” (Ben 71); una sconfitta che si può far risalire alla questione della limpieza de sangre, emersa nella Spagna del XV secolo7. Queste due condizioni traggono forza dal loro radicamento nel principio dialettico della necessaria priorità del negativo. Il secolare conflitto tra lo spirito e la materia che questo principio alimenta per la sua affermazione ha visto in Auschwitz, fortunatamente per breve tempo, prevalere la seconda sul primo. Il vuoto spirituale che da allora permane ancora nelle coscienze sembra essere solo un’esca che quel principio ha disposto appositamente per gli uomini dell’era post-concentrazionaria. Esso li dispone infatti a pensare che grazie alla comprensione di quell’evento (negativo per eccellenza) sia dia una chance per uscire dal 6 7
Cfr. D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’“ideologia della guerra”, Bollati Boringhieri, Torino 1991, con particolare riferimento ai primi due capitoli. “La questione della ‘limpieza de sangre’” conferma “quanto antiche siano le radici del razzismo, troppo spesso considerate come espressione dei tempi di una modernità laica e disincantata” (Ben 168).
22
Il negativo e l’attesa
vuoto e si possa così approdare a un positivo. Ma in tal modo non si farebbe altro che perpetuare la logica che sta alla base del principio della necessaria priorità del negativo. Non si danno tuttavia altre chance autentificatrici nella nostra vita, o siamo per sempre condannati a sperare che ci capiti qualcosa di negativo? E dal momento che si presume che la nostra autenticità derivi solo dall’esperienza del negativo, che cosa facciamo ancora qui seduti? Alziamoci e prendiamo le nostre benedette asce e continuiamo, volenterosi e bramosi di sangue, il conflitto tra noi, esseri di materia pensante! Sì, svolgiamo bene il compito assegnatoci dal nostro principio. Perché attendere? Agiamo! È da qui che dipende la nostra autenticità. Andiamo incontro fiduciosi al male, al negativo; andiamo incontro alla morte come dei veri eroi! Sì, battiamoci! Ma ancora? Che aspettiamo? Pigiamo quei pulsanti! Quanta vita autentica ci riserva l’ombra di quel fungo atomico! La nostra salvezza deriva dalla nostra morte. Più immane è la catastrofe e più profondo sarà il senso della nostra esistenza. Su, avanti, non nascondiamoci più! Perché continuiamo a dire che eventi come Auschwitz non debbono più verificarsi? Come possiamo non comprendere che senza più eventi di questo genere noi non saremmo e non saremo altro che un’immensa “massa dannata”? Propiziamoli, invochiamoli! Oh, sì: la cultura del dolore, del dionisiaco! Viva Nietzsche! È da questa rabbia, specie alla luce dell’evento Auschwitz, che sgorga la nostra critica nei confronti della necessaria priorità del negativo; nei confronti cioè di un principio che, facendo del pensiero dialettico il suo maggiore attributo, continua a persuaderci che è nel negativo che risiede il motore della storia. Nel vuoto in cui ci troviamo non vi sono formule della felicità, ma se ve ne fosse una questa non comincerebbe certo con un sì, ma con un no radicale pronunciato dinanzi a quel principio che molti, a partire da Hegel e da Nietzsche, hanno ritenuto sacro come la vita stessa. Che cosa vuol dire pronunciare un no dinanzi al principio della necessaria priorità del negativo? In generale significa pensare di poter aspirare all’autenticità facendo a meno di esso. Sì, ma come? Proponendo un altro principio? No, certo. Proponendo di annullarlo? Nemmeno. In che modo allora? Attraverso il concetto dell’attesa, o meglio, dell’at-tendere. Questo concetto non è un principio assunto dagli uomini, ma un dato ontologico-esistenziale. L’at-tendere non è anzitutto solo un vano aspettare, ma concerne una predi-
Introduzione23
sposizione esistenziale che, comprendendo in sé i tre momenti del tendere-verso, dell’aspettare e del prendersi cura, riesce, con uno sforzo mentale in più, con più volontà razionale, a prevedere e in qualche modo ad anticipare gli effetti pratici che il negativo naturale (possibile e certo non necessario) potrebbe generare. L’at-tendere è quella particolare situazione emotiva che, al contrario della noia e dell’angoscia, non si mette alla ricerca bramosa di qualcosa di negativo che possa svuotare la coscienza. L’attesa ha già in sé il negativo come possibilità. Non deve pertanto andare a cercarlo o a provocarlo. Non ha bisogno cioè del negativo in atto affinché la coscienza lo possa comprendere e riempirsene. Con un ulteriore sforzo richiesto alla mente, essa previene e prevede quali possono essere le conseguenze di un sì attualizzante dinanzi alla mera possibilità del negativo. La forza del no che l’attesa pronuncia davanti al principio consiste essenzialmente nel comprendere che tutto ciò che le sta di fronte è destinato in ogni caso a scomparire, e che non per questo però ne accelera violentemente la fine. Anzi, l’essenziale per essa sta proprio nel fra-t-tempo, ossia nel tempo in cui, prima di sparire, le cose e gli altri, al di qua di ogni azione violenta, grazie a quello sforzo mentale, possono far vivere momenti di autentica felicità. È proprio in questa violenta accelerazione, dice infatti la Arendt, che consiste il terrore inteso come strumento dei regimi totalitari: “il terrore”, scrive, “esegue sul posto le sentenze di morte che, a quanto suppone, la natura avrebbe pronunciato contro razze e individui “inadatti a vivere”, o la storia contro le classi morenti, senza attendere i processi più lenti e meno efficaci della natura e della storia […]. Nel perfetto regime totalitario […] qualsiasi azione mira ad accelerare il processo della natura e della storia” (Are1 639-640 cn). Lo sguardo della noia e dell’angoscia privilegia l’orrido che svuota la coscienza, in maniera che, sullo sfondo di questa, le cose e gli altri possano apparire per quello che sono, cioè enti destinati a finire. In tal modo, più arida è la coscienza e più vividi, più veri sembreranno gli oggetti e gli altri che appaiono ad essa. Lo sguardo dell’attesa, invece, non ha bisogno di svuotare la coscienza, né tanto meno di ricorrere irrazionalmente all’orrido per farlo. Il contenuto o la coscienza di questo sguardo non è fatto di positività che ostruisce la visione del negativo. Prima che questo sopraggiunga in tutta la sua orribilità, volontariamente o no determinata, proprio nel mo-
24
Il negativo e l’attesa
mento in cui lo considera, l’attesa vi coglie già un destino segnato dal nulla e, come si è detto, cerca di prevederne e di evitarne le conseguenze nefaste. Il Sublime. Come si è detto, i concetti generali attorno a cui ruota questo lavoro sono due: la necessaria priorità del negativo e l’attesa. Ora, una delle connotazioni del negativo si esplica nella nozione di male e, come sappiamo, mai prima di Auschwitz è risultato così facile identificare il male con la materia. In quel luogo senza Dio, infatti, il male si è delineato drammaticamente come tendenza violenta a ridurre l’uomo a materia inespressiva. In quel Lager il male si è manifestato come assoluto: non solo cioè come asservimento ed estremo sfruttamento dell’uomo – giacché, secondo Hegel, anche da una siffatta condizione si potrebbe dialetticamente ricavarne una ricchezza –, ma soprattutto come volontà di sterminio e di annientamento. Esso si è manifestato con l’abitudine a restare indifferenti dinanzi alla rivelazione della materialità dell’uomo. Questa rivelazione è sconvolgente perché evidenzia il lato materiale dell’umano, ossia quell’elemento materico (corporale, istintuale, animale) che lo spirito ha da sempre “compreso” per meglio padroneggiarlo e trasfigurarlo, consentendo in tal modo di trasformare la drammatica esperienza della cruda rivelazione in ri-velazione, cioè in una manifestazione sempre velata della materialità. Questa esperienza della rivelazione è inoltre insopportabile perché per l’uomo risulta orribile provare su di sé la negazione della sua spiritualità. Nell’essere umano, infatti, non vi è distinzione netta tra res extensa e res cogitans, essendo esso simultaneamente e inseparabilmente sia l’una che l’altra. A far da copula, certo non la glandola pineale, ma la res stessa, intesa però nel senso di sub-stantia, seme, cellula, DNA, nella quale i due attributi dell’estensione e del pensiero sono già potenzialmente presenti prima di ogni possibile distinzione. Ma quando la volontà calcolatrice incomincia con le sottili distinzioni e con le assurde discriminazioni, alla fine giunge anche alla somma scissione, e quindi al male assoluto, alla riduzione violenta dell’uomo a cosa, a Stück. Proprio questa esperienza della reificazione violenta, della sofferenza, della tortura e della morte è però “sublime”, perché pur restando dolorosamente viva dentro l’animo, risulta in sé tuttavia essenzialmente incomunicabile. Quando le parole riescono a sfiora-
Introduzione25
re o solo ad avvicinarci al nucleo di quell’esperienza, allora si tratta di parole “sublimi”. Sublime è la storia degli ultimi dieci giorni trascorsi dai detenuti nel Lager di Auschwitz-Monowitz e raccontata da Primo Levi in Se questo è un uomo. Potremo mai, ad esempio, comprendere il “modo” o lo stato d’animo in cui Levi lesse nell’infermeria di quel campo, la notte del 18 gennaio 1945, Remorques di Roger Vercel (RR 111-121)8, la notte cioè in cui i tedeschi decisero di lasciare il Lager e di rideportare i deportati per sfinirli e per liberarsi così dei testimoni con la disumana marcia della morte? Proprio nelle righe introduttive relative a questa sua radice letteraria (Vercel), con una delle sue frasi tanto semplici quanto dense e profonde, con un’espressione che sintetizza perfettamente lo spirito della nostra critica alla necessaria priorità del negativo, Levi dice: “l’uomo può mostrarsi valente e ingegnoso anche in imprese di pace” (RR 111 cn), non solo dunque in quelle di guerra9. Proprio i 20 giorni trascorsi in Ka-Be danno a Levi la possibilità di meditare e di prendere coscienza che sarà impossibile uscire vivi dal Lager, soprattutto per raccontare e per far conoscere al mondo “la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo” (SE 49 cn). Con questa espressione, forse poco comune rispetto al preciso proposito di Levi di essere sempre chiaro, egli voleva dire: ritornare per raccontare non solo ciò di cui l’uomo è stato capace, ma soprattutto ciò a causa di cui l’uomo ha potuto rendere l’altro uomo un non uomo, una cosa. Ecco la traduzione tedesca: “was in Auschwitz Menschen aus Menschen zu machen gewagt haben”10: ciò che, ad Auschwitz, gli uomini hanno osato fare degli altri uomini. Non soltanto il che, dunque, ma il come e il perché. Non solo, si potrebbe dire ricordando il domandare assillante di Giobbe, il làmmah (a cosa, a quale scopo), ma anche il maddùa‘ (a causa di cosa, di qualcosa (mah) di già noto (ieda’)). Sublime è la descrizione del trasporto dei deportati in vagoni aperti da Auschwitz a Gleiwitz che Elie Wiesel fa ne La notte. Sublime è soprattutto la loro disumana riduzione a materia: da un lato, 8 9
Un medico greco diede da leggere a Levi in Ka-Be il romanzo di Vercel. Quanto dolorosamente vere ci sembrano oggi queste parole di fronte alla nuova corsa, assurda e forsennat,a al riamo di tutta l’Europa per reagire alle provocazioni di Mosca provocate da Washington! 10 P. Levi, Ist das ein Mensch?, tr. ted. di Heinz Riedt, Deutscher Taschenbuch Verlag GmbH & Co. KG, München 1992, p. 64.
26
Il negativo e l’attesa
in quanto violenza assoluta, essa, questa riduzione, turba e viola l’armonioso, sacro e misterioso gioco tra spirito e materia, tra res cogitans e res extensa, in cui consiste l’essenza umana; dall’altro, spezzando quell’armonia, oltre a determinare l’annientamento vero e proprio dell’individuo, determina altresì la negazione o lo svuotamento di tutta la cultura umana che su tale concordia si fonda. Negando la cultura, essa stravolge di conseguenza anche gli schemi logici e interpretativi dell’intelletto, impedendo così alla ragione non forse (come diceva Levi) di conoscere, ma di capire, di comprendere. A causa di questo stravolgimento dell’essenza umana, sia nella coscienza storica in generale sia soprattutto in quella dei sopravvissuti, restano, come vere e proprie costanti, zone oscure e grigie su cui, per dovere storico, morale, civile e personale, occorre ritornare. Fra le costanti che emergono dalle testimonianze degli ex deportati, il senso di colpa11 e la vergogna (SE 133): e ciò al punto che, come suggeriva Levi, si dovrebbe parlare di una nuova Bibbia, di una nuovissima sinossi biblica, di un Nuovissimo Testamento. La storia del polacco Resnyk, ricorda infatti in Se questo è un uomo, era “certo una storia dolorosa, crudele e commovente”, come “tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte diverse e tutte piene di una tragica sorprendente necessità […], semplici e incomprensibili come le storie della Bibbia”. E a fronte di ciò si domandava: “Ma non sono anch’esse storie di una nuova Bibbia?” (SE 58-59)12. A questa domanda non possiamo che rispondere af11 Sul tema del senso di colpa si veda in particolare il libro di Quinto Osano, Perché ricordare. Ricordi e pensieri di un ex deportato, ANED – Edizioni dell’Orso, Alessandria 1992. Si veda anche la nostra recensione del 1993, uscita dapprima come articolo su “Testimonianze” (Auschwitz: la domanda che resta, anno XXXVIII, maggio 1995, n. 5 (375), pp. 23-34), raccolta poi in F. Di Giorgi, Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah (Ivrea 2004, pp. 15-22) col titolo Tormento, e infine inserita nel nostro Giobbe e gli altri (2016, cap. III, par. 6). Si vedano anche le pagine che Tzvetan Todorov dedica a Primo Levi in Di fronte all’estremo (Tod1 250-261). 12 Abbiamo provato a sviluppare e ad approfondire questa stimolante domanda di Levi in un contributo del 2003, Gusen tra vecchia e nuova Bibbia, inserito in Lettera da Mauthausen, cit. A proposito del riferimento al testo biblico, David Meghnagi osserva giustamente: “Nel descrivere la vita del lager, Primo Levi ricorre spesso alla metafora dantesca. Quando però non sono le parole di Dante a venirgli in aiuto è alla scrittura della Bibbia che si rivolge”, ad esempio al “tohu vabohu”, all’universo deserto e vuoto della Genesi (cfr. La vicenda ebraica. Primo Levi e la scrittura, in Primo Levi. Il presente
Introduzione27
fermativamente. Anche perché la medesima natura nefanda, ossia ineffabile o inesprimibile del contenuto di tutte queste orribili storie costituisce di fatto il legame profondo che le tiene saldamente insieme. Una tale nefandezza costituisce un problema, ad un tempo semplice e incomprensibile, analogo a quello che nell’antichità Platone aveva affrontato, non certo per risolverlo, in alcuni suoi Dialoghi giovanili come il Carmide e il Lachete. Dopo aver ammesso di essere “un indagatore da poco”, e addirittura “uno sciocco chiacchierone” rispetto alla conoscenza e alla definizione della saggezza, Socrate invita il giovane Carmide a farlo lui. Ma il giovane interlocutore, pieno di stupore e di stizza, gli risponde: “Ma per Giove, o Socrate, non lo so se sono saggio o no. Ecco, come potrei sapere una cosa che voi non siete capaci di provare cos’è, come tu dici?” (XXIV)13. Tuttavia Socrate lo invita a non demordere nella ricerca, “perché se tu intraprendi a fare qualcosa e ci metti la forza nessun uomo è capace di resisterti”. Un’analoga argomentazione è quella che Platone svolge nel Lachete. Anche in questo Dialogo Socrate invita il suo interlocutore a dire che cos’è il coraggio, e anche qui riceve una risposta insieme meravigliata e irritata. Dice infatti Lachete: “mi ha preso una tal voglia di spuntarla di fronte ai discorsi che letteralmente sono in collera di non essere capace di esprimere proprio quanto ho in testa. Mi sembra d’avere l’idea chiara di cos’è il coraggio, e non so come mi sia sfuggita via sì da non poterla afferrare con la parola e dire che cos’è” (XXI). E come prima, anche ora Socrate, il maieuta, sollecita subito dopo il ragazzo a non mollare, a non desistere: “Ebbene, mio caro, il buon cacciatore corre dietro alla preda e non le dà tregua”. del passato (a cura di Alberto Cavaglion), Giornate internazionali di studio, con il patrocinio del Consiglio regionale del Piemonte-Aned, FrancoAngeli Storia, Milano 1991, p. 155. Dello stesso parere è anche Jan Devolder: “le scritture bibliche”, afferma lo storico belga, “costituivano per lui una fonte di saggezza. L’aiutavano a chiarire i suoi drammi intimi” (cfr. J. Devolder, Primo Levi: écrire et survivre, in Bulletin trimestriel de la Fondation Auschwitz. Histoire et mémoire des Crimes et génocides nazis. Colloque International Bruxelles, novembre 1992, Actes I, N° Special 36-37 avril-septembre 1993, pp. 127-139, Edition du centre d’Etudes et de Documentation130-131). Due, dice tra l’altro Devolder, sono le caratteristiche che segnano l’intera opera di Levi, la scienza e l’identità ebraica (p. 129). 13 Platone, Teage, Carmide, Lachete, Liside, tr. it. con testo a fronte di B. Centrone, Bur, Milano 2002.
28
Il negativo e l’attesa
Nel pensiero filosofico moderno anche Ludwig Wittgenstein, come è noto, è ritornato su questa aporia platonica. Ma il linguista viennese è ancora più pessimista del suo vecchio collega ateniese riguardo alla capacità del linguaggio, del lógos, di esprimere l’idea di qualcosa. Il Tractatus logico-philosophicus, del 1918, si conclude infatti con questa sentenza definitiva: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Inoltre, per offrire un esempio di questo contenuto nefando possiamo senz’altro rifarci anche a quella vicenda emblematica che secondo Levi costituisce una delle prime e profonde radici non soltanto della sua storia personale, ma anche della storia dell’uomo in generale: la storia di Giobbe. Così Levi ne La ricerca delle radici risponde alla sua stessa domanda: Perché incominciare da Giobbe [in questa antologia personale]? Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo. Giobbe è il giusto oppresso dall’ingiustizia. È vittima di una crudele scommessa fra Satana e Dio: che farà Giobbe, pio, sano, ricco e felice, se sarà toccato negli averi, e poi negli affetti familiari, e poi sulla stessa sua pelle? Ebbene, Giobbe il giusto, degradato ad animale da esperimento, si comporta come farebbe ognuno di noi: dapprima china il capo e loda Dio (“Accetteremmo da Dio il bene e non il male?”), poi le sue difese crollano. Povero, orbato dei figli, coperto di piaghe, siede tra i rifiuti grattandosi con un coccio, e contende con Dio. È una contesa disuguale: Dio creatore di meraviglie e di mostri lo schiaccia sotto la sua onnipotenza. (RR 5)
Anche nel Libro di Giobbe troviamo dunque la stessa esortazione a non desistere nella ricerca di una risposta degna e adeguata alla domanda dell’Uzita: “perché?”. Anche in questo libro si svolge un dialogo molto teso e serrato tra Giobbe e i suoi amici. Qui il ruolo di Socrate è ricoperto dal vecchio Elifaz, il quale, pur comprendendo la penosa situazione dell’amico, gli suggerisce a più riprese che se vuole salvarsi deve solo sforzarsi di comprendere lo spirito racchiuso nella sentenza wittgensteiniana. E in effetti Giobbe si salva nel preciso momento in cui, dopo essersi reso conto de visu della meravigliosa potenza e della sapienza creatrice di Dio, non parla più,
Introduzione29
non chiede più spiegazioni a Dio e accetta la propria situazione, la quale, sebbene ai suoi occhi appaia del tutto particolare, è tuttavia simile a quella di molti altri. L’Autenticità. Da sempre la filosofia parla di autenticità, ma è soprattutto con la memorialistica concentrazionaria e con l’esperienza vissuta e raccontata dai deportati che è stato possibile prenderne effettivamente coscienza. Da Platone ad Heidegger, più di ogni altra esperienza, nell’angoscia dell’evento morte la filosofia ha colto la capacità di suscitare il valore dell’autenticità e con esso anche un più intenso senso della vita. Nella sua riflessione il filosofo è convinto che sia solo con la progressiva vicinanza alla morte, specie alla propria, che si possa instaurare un legame autentico e quindi più vero con sé stessi e col mondo. Ma ammesso che con tale vicinanza o aderenza alla morte si dia un modo di rendersi autentici, si tratterà pur sempre di una possibilità, cioè di un modo astratto al quale manca l’apporto diretto dell’esperienza. Ora, se è così, se è la maggiore vicinanza angosciosa alla propria morte che rende autentici, chi si può ritenere più autentico il filosofo o il deportato? Chi dei due è o è stato più vicino all’essenza umana, colui che vi riflette senza farne esperienza, oppure colui che, come Levi (o, in maniera ancora più ultimativa, il Muselmann), la comprende perché ne ha fatto anche esperienza? Non v’è dubbio che è nel secondo che noi troveremo un’autenticità concreta, mentre nel primo ne coglieremo solo una astratta. Proprio come Freud, peraltro, anche Levi è sempre stato scettico nei confronti della filosofia e dei filosofi. In Un testamento, uno scritto inserito in Lilìt e altri racconti, ad esempio, egli mette in questione il celebre Cogito, ergo sum cartesiano, poiché al posto del più concreto dolore, Cartesio pone a fondamento dell’essere l’astratto pensare. Scrive il testimone: L’esperienza insegnerà […] che il dolore, anche se forse non è l’unico dato dei sensi di cui sia lecito dubitare, è certo il meno dubbio. È probabile che quel sapiente francese di cui mi sfugge il nome, e che affermava di essere certo di esistere in quanto era sicuro di pensare, non abbia sofferto molto in vita sua, poiché altrimenti avrebbe costruito il suo edificio di certezze su una base diversa. Infatti, spesso chi pensa non è sicuro di pensare, il suo pensiero ondeggia fra l’accorgersi e il sognare, gli sfugge tra le mani, rifiuta di lasciarsi afferrare e configgere
30
Il negativo e l’attesa
sulla carta in forma di parole. Ma invece chi soffre sì, chi soffre non ha mai dubbi, chi soffre è ahimè sicuro sempre, sicuro di soffrire ed ergo di esistere. (LI 279)
Anche su Kant e sulla sua legge morale non è meno critico. In Notizie dal cielo, uno scritto inserito ne L’altrui mestiere, dice: Emanuele Kant riconosceva due meraviglie nel creato: il cielo stellato sopra il suo capo, e la legge morale dentro di lui. Lasciamo da parte la legge morale: abita in tutti? […] Ogni anno che passa accresce i nostri dubbi; davanti alla necrosi politica che affligge il nostro Paese, e non solo il nostro; davanti alla corsa insensata verso il riarmo nucleare, non si sfugge al sospetto che sulla legge morale prevalga un principio perverso, per cui acquista potere chi di questa legge, che sentiamo unica in ogni tempo e luogo, cemento di tutte le civiltà, non sa che farsene, non ne percepisce il pungolo, è senza e sta bene senza. (AM 173)
La questione relativa alla maggiore o minore vicinanza alla morte come situazione autentificante non riguarda soltanto la semplice differenza tra concreto e astratto o tra reale e ideale, ma concerne piuttosto l’opposizione tra pensiero e azione, tra cultura ed esperienza vissuta. Si tratta evidentemente di due livelli o di due modalità differenti di conoscenza: per la prima non è necessario il rapporto diretto con l’esperienza vissuta per trasmetterne il contento; per la seconda, addirittura, il pensiero e la cultura rappresentano talvolta perfino un ostacolo sia per la sua realizzazione sia per la sua trasmissione. Che cos’è insomma la cultura e quale è la sua funzione? Come considerare il fatto che, per svolgere appieno la sua funzione, essa possa prescindere dall’esperienza? La cultura consiste in una sorta di mimesi dell’esperienza vissuta, poiché la sua funzione, come dicono appunto i filosofi, è quella di preparare intellettualmente a un sempre possibile impatto con tale esperienza, soprattutto con quella estrema e definitiva della morte. Essa è il complesso di nozioni o di valori più o meno istituzionalizzati all’interno del quale noi viviamo e ci riconosciamo, e che permette di farsi un’idea di sé stessi, del mondo e dell’essere nel mondo. L’istituzionalizzazione di questo insieme di conoscenze si realizza in una molteplicità di ambiti, da quello economico a quello politico e sociale, da quello religioso a quello etico e morale, da quello filosofico a quello artistico e letterario. A un simile assetto
Introduzione31
istituzionale l’umanità non giunge per grazia divina, ma pagando un prezzo altissimo, quello che la storia le presenta attraverso una serie di aspre e sanguinose lotte. Sicché la cultura e le sue istituzioni non possono essere altro che il frutto della dura esperienza vissuta. Ma, proprio in quanto tale, cioè in quanto istituzionalizzazione della mimesi dell’esperienza vissuta, essa – specialmente attraverso l’istituzione pedagogica, ossia nella sua funzione di trasmissione di valori primari – si propone prioritariamente di mettere l’uomo in grado di non ripetere più gli stessi errori compiuti in passato nella lunga lotta per la civilizzazione. Istituzionalizzandosi la cultura assume allora come modelli alcuni eventi significativi ed emblematici del passato che si sono caratterizzati o per l’eccessiva violenza o per l’alto valore civile e morale, per l’ineffabile crudeltà e spietatezza o per il sublime senso etico ed estetico. Essa stabilisce in tal modo i valori positivi e negativi e fonda la differenza tra il bene e il male. Ciò tuttavia non significa che tra i due valori contrapposti vi sia una netta separazione o distanza, poiché, come ci ha insegnato lo stesso Levi, è anzi possibile rintracciare nella storia eventi e individui nei quali essi coesistono. Pertanto, se, come sosteneva Freud, l’incivilimento è il risultato della continua lotta degli individui contro il loro istinto animale, innato e perciò ineliminabile, allora alla cultura spetta un duplice compito: farsi da un lato ricettacolo della sublimazione o deviazione culturale dell’impulso animalesco, e dall’altro operare il reinvestimento del sublimato per assicurare in prospettiva margini di sicurezza e di tolleranza alla civiltà e quindi anche a sé medesima. È proprio in questo lavoro di sublimazione che la cultura svolge la sua funzione mimetica. Consapevole del danno che una possibile attuazione di un evento negativo potrebbe arrecare all’umanità, ed avendo assunto in sé un modello sublimato di negativo, essa incita ad avvicinarsi in astratto al sublimato per suggerne tutto l’amarume allo scopo soprattutto di evitare una desublimazione, ossia una risolidificazione o riattuazione del negativo. In tal modo la cultura si presenta come luogo o spazio storicamente differenziato in cui sono depositati i modelli positivi e negativi che, per il mantenimento dei valori civili, gli uomini consapevolmente o inconsapevolmente imitano o rifuggono. Essa aiuta insomma a comprendere in abstracto i modelli sublimati senza farne necessariamente esperienza diretta, e ciò al fine di evitare la riattualizzazione del negativo e di favori-
32
Il negativo e l’attesa
re il positivo. Ecco perché la cultura è importante: essa consente di sensibilizzare ai valori positivi e negativi senza dover ricorrere necessariamente al fatto concreto, alla realtà dei fatti. In quanto ricettacolo dei valori, grazie ad essa noi abbiamo la possibilità di comprendere cosa sia il bene e cosa sia il male, senza un effettivo confronto con la realtà. I suoi exempla ci propongono da sempre una sorta di realtà virtuale o ideale, nella quale si ha modo di sentire interiormente o di vivere intellettualmente esperienze legate a valori positivi e negativi. Da questo punto di vista essa è paragonabile a un etereo palcoscenico sul quale vengono rappresentate le tragedie e le commedie più significative della storia umana. Con questa specifica funzione nasce la teoria aristotelica della catarsi, secondo la quale la mimesi drammatica o narrativa dell’esperienza realmente vissuta permette all’osservatore (al lettore o all’ascoltatore) di purificarsi da quegli impulsi che hanno determinato l’evento reale, senza mai tuttavia annullarli definitivamente. Il rapporto cultura-divertimento o cultura-piacere ha invece la sua idea archetipica nell’incipit del secondo libro del De rerum natura di Lucrezio. Non vi è piacere più dolce di quello che nasce dall’osservare i travagli del mondo dai ben muniti castelli edificati dalla serena speculazione, cioè dalla teorizzazione dei savi. Dall’alto della loro imperturbabile serenità, essi godono guardando gli altri che, anziché mantenere saggiamente lontana la sofferenza dal corpo e l’affanno dall’animo, si affaticano sordidamente nel breve tempo che la vita concede. Ma se escludiamo l’idea di sadismo, che genere di dolcezza è quella che prova il saggio epicureo? È la dolcezza che scaturisce soggettivamente dalla comprensione concettuale di quanto si verifica oggettivamente nell’esperienza vissuta. Grazie alle sue fredde e appassionate speculazioni sull’esistenza, il filosofo riesce ad anticipare e quindi a calcolare i possibili esiti dell’agire concreto, senza avere mai tuttavia un rapporto diretto con l’esperienza. Da qui la funzione mimetico-anticipatrice della cultura o, che è lo stesso, la più nota preparazione culturale alla morte. I modelli sublimati dei valori che egli trova dentro di sé, riconducibili a dei veri e propri dati a priori, gli consentono di rapportarsi correttamente al mondo senza tuttavia ricavarli dalla pratica. La dolcezza è allora il gusto intimo che nasce dal sentimento della validità della nostra cultura. È più semplicemente la dolcezza della comprensione non soltanto del valore sublimato e astratto, ma anche della realtà
Introduzione33
effettuale. È la dolcezza di vedere in sé la possibilità di modificare il dato reale col valore sublimato, l’effettuale col concettuale. Giacché questo è in definitiva la cultura: la possibilità intellettuale data nel presente di osservare, comprendere, prevenire e modificare in futuro gli eventi negativi del passato. Ci può essere vera cultura allora solo quando la dolcezza della comprensione non discende solamente dal mero dato contemplativo o teoretico, quando cioè la cultura non resta indifferente di fronte ai mali di cui è libera, ma diviene partecipazione e impegno a far sì che l’impulso di morte e di distruzione venga sempre sublimato, affinché l’idea di civiltà possa continuare ad affermarsi e a realizzarsi. La cultura, dunque, da un lato è un prodotto dell’esperienza vissuta, ma dall’altro è anche ciò che, sulla base di tale esperienza, può non solo modificare la realtà e migliorare l’esistenza umana nel mondo, ma può anche influenzare l’esperienza stessa. Se, però, come si è detto, l’autenticità vera risulta raggiungibile solo toccando violentemente il fondo dell’esperienza vissuta, allora compito principale della cultura dovrà essere non quello di assecondare una tale tendenza radicale, ma di favorire un’autenticità solo concettuale, consapevole del fatto che la salvaguardia della civiltà comporta non il contatto con il nucleo reale dell’esperienza vissuta, ma solo il ruotare anfidromicamente attorno ad esso. La cultura deve cioè mantenersi a debita distanza, lontana da questa autenticità, giacché – come si è visto nel caso estremo di Auschwitz – ogni suo volersi rendere autentica a tutti i costi implica la sua auto-soppressione. Essa deve quindi mantenersi sul piano della possibilità concettuale. Cosicché, paradossalmente, dove c’è autentica esperienza vissuta non c’è cultura, e viceversa dove c’è cultura non ci deve essere l’impatto mortale con l’esperienza vissuta. Dove c’è volontà di autenticità v’è anche, anzi cresce, il rischio dell’annientamento della cultura. L’esperienza vissuta dei deportati, allora, in tutta la sua portata autentificante, è certo da un lato quanto vi è di più rispettabile, in quanto riflesso doloroso del modello di negativo o di male assoluto, grazie alla cui sublimazione culturale risulta possibile mimeticamente purificare il nostro impulso distruttivo; ma proprio per questo essa, dall’altro lato, come prodotto di quel negativo, di quel male, non può essere assolutamente assunta dalla cultura come valore cui aspirare. Il problema in sostanza è il seguente: se diventare auten-
34
Il negativo e l’attesa
tici vuol dire rifare l’esperienza concentrazionaria, allora è meglio mantenersi in una consapevole ma dignitosa inautenticità, giacché quella esperienza deve restare assolutamente irripetibile. Levi era ben cosciente di questa difficile condizione. “Noi”, scrive in Se questo è un uomo, “sappiamo che in questo [essere sul fondo] difficilmente saremo compresi, ed è bene che sia così” (SE 23 cn). Per capire i deportati – tutte le loro testimonianze lo sottolineano, non solo quella di Levi, di Wiesel e di Améry – occorrerebbe essere stati in mezzo a loro, aver provato e vissuto la loro stessa autenticità, la loro stessa vicinanza all’essenza umana, alla mater materia, al loro morire, alla loro morte, e anche a quella degli altri. Ma questo, evidentemente, è proprio ciò contro cui lotta la cultura: infatti è bene che non sia così. Ciò detto, però, non si può sfuggire all’ulteriore domanda: non è forse proprio grazie a quell’esperienza negativa culturalmente sublimata che la cultura diviene capace di opporvisi? Non è forse grazie a simili esperienze estreme – direbbero gli hegeliani, i nietzscheani e gli heideggeriani, e in parte anche lo stesso Levi – che l’umanità ha imparato a conoscere sé stessa e i proprio limiti? Non è dopo aver fatto o esser stati costretti a compiere se non a subire siffatte esperienze che l’animo diviene più sensibile e più tollerante? Insomma: non è con esse, non è attraverso la dura e sanguinosa lotta per la civiltà e per la civilizzazione che viene in ultima analisi a formarsi la cultura? Ci può essere insomma cultura senza esperienze negative e culturalmente sublimate? Ci può essere in buona sostanza cultura senza violenza? Di fatto, dunque, la cultura è ad un tempo sia il risultato sublimato della lotta dell’uomo per la sopravvivenza della civiltà, sia, proprio in virtù di queste sue esperienze accumulate nel tempo e nella storia, anche la possibilità di prevedere e di modificare in meglio il futuro corso degli eventi. Ciò vuol dire che essa accoglie in sé il male sublimato e nello stesso tempo vi si oppone costringendolo a restare in questo stesso sé come sublimato. Attraverso le sue produzioni e le sue rappresentazioni ce ne fa conoscere le gradazioni e le sfumature più impercettibili, suggerendo al contempo che è civilmente sconveniente perseverare sulla strada del negativo. Non è certo bene, dunque, perseverare nel male, ma è senz’altro bene e moralmente giusto capirlo culturalmente per tentare di evitarlo. Proprio questo è il consiglio che rileviamo da alcuni sopravvissuti
Introduzione35
alla Shoah: “Vedere il male ed evitarlo” suggerisce Liana Millu. “Se comprendere [Auschwitz] è impossibile, conoscere è necessario” scrive Levi, “perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre” (SE 347; SV 130)14. Ciò equivale forse a dire che la cultura presuppone necessariamente il male reale e che vi deve ricorrere per assicurarne l’allontanamento? Non ha allora la cultura un modo tutto suo di evitare un simile ricorso? Ma prima che un male reale si verifichi, essa non ha forse la possibilità di prevederlo virtualmente e così di evitarlo praticamente? Quando però, nonostante le possibilità culturali, il male accade lo stesso, allora vuol dire che la cultura – lo sforzo, l’impegno della ragione e del cuore – non ha fatto tutto il possibile per prevenirlo; vuol dire che è rimasta in parte passiva e indifferente, come assopita nella sua presunta certezza di controllare l’istinto umano. No, dopo Auschwitz possiamo dire che Hegel, Nietzsche e Heidegger si sbagliavano sull’autenticità: la pace non si ottiene con la guerra, la ricchezza umana non si accresce con le periodiche ricadute nella barbarie, la vita quotidiana non acquista valore solo dinanzi alla morte. Auschwitz ci ha già insegnato a sufficienza tutto ciò: non c’è alcun bisogno di un’altra Shoah per ribadire questo insegnamento. Basta lo sforzo della ragione, la razional conoscenza della natura diceva Lucrezio. Si erga dunque la nostra ragione a tenace guardiana del possibile sonno della cultura! Se però l’immenso dolore patito ad Auschwitz non ci avrà resi più umani, come ritenevano a loro modo la Hillesum e Ka-Tzetnik, allora vorrà dire che un tale sforzo sarà stato del tutto inutile. Più ottimista di questi due testimoni e dello stesso Levi sembra comunque Todorov, quando afferma che “la battaglia [culturale o della ragione] non consiste nell’aiutare l’umanità a diventare migliore”. Cosa impossibile, tra l’altro, perché, “l’essere umano”, sottolinea il filosofo bulgaro sulla scorta di Levi, “si lascia guidare da moventi più oscuri e segue 14 Questa frase di Levi viene riportata come esergo da Wolfgang Sofsky nel suo saggio Die Ordnung des Terrors, nel cui Prologo tra l’altro sostiene che, sebbene la realtà del Lager sembri mettere in crisi ogni capacità di comprenderla e di rappresentarla, anche le idee dell’incomprensibilità e dell’incomparabilità del crimine commesso ad Auschwitz appaiono tuttavia due Abwermanövern, due “strategie di difesa”, due modi per non affrontare quella realtà, per sfuggire l’essenza del nazismo, consistente nella tortura organizzata e nel genocidio (Sof 14, 17).
36
Il negativo e l’attesa
vie più tortuose di quelle raccomandate dalla retta ragione, e prova ripugnanza a servirsi degli ‘strumenti supremi del progresso’”. La battaglia della ragione, dice Todorov, “non è mai definitivamente vinta, e la si combatte perché è giusta, non perché se ne vedranno i risultati” (Tod1 260-261). L’Amicizia. La testimonianza, orale o scritta, dei deportati non è un semplice racconto né una semplice lezione equiparabile a quella di un docente, perché con il testimone è la stessa fonte originale che ci parla. Si ha infatti a che fare con un’esperienza vissuta di non facile comunicazione e che cerca tuttavia di esprimersi, di farsi parola. Per quanto profonde e minuziose, le analisi dello storico resteranno sempre esteriori rispetto al contenuto esperienziale, al nucleo fattuale da esse esaminato. Dall’interno e sempre ricompreso nella sua tremenda esperienza vissuta, il testimone deve invece vedersela con la comunicabilità e quindi con la comprensibilità da parte degli altri del suo vissuto. E ciò, dice Todorov, vale anche per Primo Levi e per la sua “riflessione comunicabile” (Tod1 251). Che cos’è questo vissuto e che rapporto intrattiene il deportato con esso? Il vissuto è la realtà inesplicabile e incomprensibile del Lager. Una tale ineffabilità è duplice: da un lato riguarda ciò su cui si fondava l’illusione dei nazisti per tentare di sfuggire al giudizio sui loro nefandi crimini; dall’altro concerne il delicatissimo problema dei testimoni. Problema che è a sua volta duplice, perché da una parte l’ineffabilità è ciò che essi debbono cercare di superare per rendere più esplicito il loro vissuto; dall’altra parte però essi (pensiamo soprattutto a Wiesel) vogliono salvaguardarla per tentare di tutelare i loro racconti dalla spettacolarizzazione, dalla banalizzazione, dalla falsificazione, dal revisionismo. L’ineffabilità del Lager ricomprende pertanto diverse esigenze antitetiche. Inoltre, a differenza degli storici, i testimoni devono combattere anche contro il linguaggio, contro le parole, giacché queste, specie in riferimento all’esperienza concentrazionaria, esprimono sempre altro da ciò che denotano. Da qui lo sforzo di Levi (aiutato in ciò dal suo mestiere di chimico) nel cercare di renderle sempre più chiare e precise. I sopravvissuti ci parlano di fame, sete, freddo, paura, angoscia, vergogna, dolore, morte, solidarietà, amicizia, eppure nessuno – come pensava Dante nella Vita nova e Levi in Se questo è un uomo (“Sul fondo”), i quali avevano un “inferno” in comune (sebbene
Introduzione37
uno fosse solo immaginario e l’altro invece reale) – nessuno potrà mai comprendere appieno queste parole, se non sperimentandone il significato sulla propria pelle. Tuttavia, come abbiamo visto, sebbene fosse bene per Levi che quelle parole restassero incomprese, dal momento che la loro comprensione richiederebbe e giustificherebbe necessariamente l’esperienza vissuta, sia lo stesso Levi sia il sommo poeta, con tutta la loro carica di umanità, vollero provare lo stesso a farcele capire, a spiegarcele con le loro parole “ben pettinate”, a scolpirle nei nostri cuori. Oltre ad evidenziare drammaticamente la lacerazione interna al linguaggio tra significato e denotazione, a porre il delicato problema della comprensibilità e della credibilità dei racconti fatti dai sopravvissuti, scavando così una abissale differenza tra esperienza vissuta e cultura, l’orrore dei campi di sterminio nazisti ha provocato altresì un repentino svuotamento della cultura medesima. La cultura, almeno quella occidentale, con tutte le sue secolari istituzioni, rimase infatti impotente, per non dire indifferente, dinanzi a quell’immane sacrificio, quale fu certamente la Shoah, il giudeicidio. Davanti a quella tragedia senza precedenti, la cultura, lo spirito, dice Améry, divenne un semplice ludus, un gioco. La formula dell’idealismo hegeliano – tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale – fu istantaneamente confutata da quei tremendi fatti: come poteva infatti essere reale o razionale ciò che la cultura ci aveva da sempre abituati a definire irreale o irrazionale? “Improvvisamente”, scrive la Arendt, “si scopre che quanto per millenni la fantasia [la poesia, la letteratura, l’arte, la cultura in senso lato] aveva relegato in un regno al di là della competenza umana [della razionalità] può essere realmente prodotto qui sulla terra, che l’inferno e il purgatorio, e persino un riflesso della loro durata eterna, possono essere instaurati coi metodi più moderni di distruzione e terapia” (Are1 611)15. “Queste cose”, scrive ad esempio Heydrich ad Eichmann in una lettera del luglio 1941 riportata dalla stessa Arendt, queste cose, cioè l’eliminazione fisica 15 Anche ammessa l’attenuante che l’orrore si sia sempre manifestato nel genere umano, “l’eternità dell’orrore”, dice Adorno, “si manifesta nel fatto che ognuna delle sue forme supera in orrore la precedente” (Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben (1949), tr. it. di R. Solmi, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, Torino 2015, III, 149).
38
Il negativo e l’attesa
di ebrei, polacchi e russi da parte delle Einsatzgruppen, “suoneranno forse fantastiche, ma sono perfettamente realizzabili” (Are2 104)16. “Quando l’impossibile diviene possibile”, dice ancora la Arendt, siamo dinanzi al male assoluto, il quale, proprio per la sua assolutezza, diviene “impunibile e imperdonabile” (Are1 628), nonché “imprescrittibile” secondo Jankélévitch. Non eravamo e non siamo ancora razionalmente preparati per comprendere quella realtà. Eppure, confessa lo stesso Améry, “lo stato delle SS nel fulgore metallico della sua totalità appariva come uno stato in cui l’idea si era realizzata” (Ame1 43-44; cfr. Wel1 133 ss). Per la sua assolutezza e per la sua unicità, il male che i tedeschi hanno commesso con lo sterminio del popolo ebraico, oltre che impossibile da comprendere e da comunicare, è anche, per la sua smisuratezza, impossibile da quantificare, da valutare, da riparare, da risarcire, poiché la sua eccessività, la sua illimitatezza e la sua straordinarietà lo rendono di fatto trascendente rispetto alla giustizia ordinaria. E in effetti, nel 1953, scrive Hilberg, la legge federale di indennizzo non tenne nessun conto “delle sofferenze morali o delle perdite affettive. La sofferenza non era considerata un danno, la ferita spirituale inflitta dallo Stato tedesco non riceveva alcuna compensazione. Riparazione per il dolore non poteva essere ottenuta che per mezzo delle incriminazioni dei responsabili individuali, davanti ai tribunali ordinari” (Hil 1247). Inoltre, con tutti i nuovi problemi di riconfigurazione politica e territoriale sorti nell’immediato dopoguerra, a partire ovviamente dalla guerra fredda, il mondo aveva ben altro a cui pensare che occuparsi anche della quantificazione del danno subito dagli ebrei. Tuttavia si provò ugualmente a farlo. Si istruirono i processi contro i responsabili dell’Olocausto. Ma questi processi non riuscirono a cancellare la macchia, la vergogna che invadeva coloro che si accostavano a quei fatti e che nei sopravvissuti assumeva talvolta la forma di senso di colpa. Specialmente per questi motivi la vergo16 A proposito della “banalità” del “tenente-colonnello Eichmann”, Raul Hilberg contesta la Arendt su questo caso specifico, perché secondo lui “non era un burocrate ordinario”, e il male che egli ha commesso “non era affatto banale” (Tra 75). Tre, poi, secondo Enzo Traverso, sono le “svolte simboliche” della “riattivazione della memoria” dell’Olocausto, il processo a Eichmann, appunto, nel 1961, la guerra dei Sei Giorni, nel 1967, e la diffusione negli Stati Uniti di Holocaust, un serial televisivo del 1979 (Tra 232-233).
Introduzione39
gnosa ferita inferta dai tedeschi all’umanità, e non solo quindi agli ebrei17, passò in secondo piano. Almeno fino al processo Eichmann. Dopo il quale alcuni superstiti (ovvio, non tutti), vincendo con dolore le loro resistenze interiori, non riuscendo più a tacere e a sopportare il peso del grave torto subito da parte di altri uomini, si misero a parlare, a scrivere, a testimoniare. Certo, alcuni, come Levi, non aspettarono quel processo per dare sfogo all’impellente esigenza di raccontare quanto di disumano avevano vissuto a causa degli umani. Ma per varie ragioni, non solo editoriali, anche psicologiche e sociali, le loro testimonianze poterono trovare spazio solo negli anni Sessanta, a distanza di circa vent’anni da quei fatti vergognosi. Analogamente ai poveri corpi degli internati, anche la cultura è stata quindi svuotata, annientata, incenerita. Sicché, consapevole di questo svuotamento e del fatto che, pur a fronte di tutte le ambiguità rispetto alla funzione del negativo, l’affermazione della civiltà dipenda inevitabilmente dalla cultura, la maggiore preoccupazione per un insegnante si potrebbe riflettere nella seguente domanda: quali sono i valori che si devono trasmettere oggi ai giovani per una rifondazione della cultura? Ferruccio Maruffi, un sopravvissuto, un testimone di Mauthausen e dei suoi sotto-campi, ce ne ha indicato istintivamente uno: l’amicizia. Il pur tardivo e casuale incontro con i testi di Primo Levi – divenuti una delle mie “radici” – ha profondamente cambiato il mio sguardo sul mondo, sugli altri e su me stesso. Sin da subito esso si è rivelato un incontro con un Tu pathico, cioè uno dei rarissimi incontri che la vita talvolta riserva con persone speciali capaci di in-essenzializzare l’Io, cioè di essenzializzarlo attraverso l’inessenzializzazione. Seppure a distanza di molti anni, mi premeva riproporre il problema relativo al modo in cui delineare il compito della cultura dopo la Shoah. Giacché, dice Amos Luzzatto: “Dobbiamo capire dove e perché si nascondono ancora le forze che l’hanno pro17 Infatti, dice Piotr Rawicz, il destino e la condizione del popolo ebraico riflette l’essenza della condizione umana (cfr. Daniel Patterson, Schriek of Silence. A Phenomenology of the Holocaust novel, The University Press of Kentucky, 1992, p. 7: “the fate and condition of the Jewish people are the very essence of human condition”).
40
Il negativo e l’attesa
mossa. […] Questo è il nostro compito, e allo stesso tempo il dovere di chi crede ancora possibile difendere la civiltà umana”18. Un compito reso ancora più arduo soprattutto dall’incalzare degli episodi di razzismo che lo rendono purtroppo sempre attuale e urgente. Questa riproposizione fa quindi propria l’esortazione a non fermarsi alla “lettura scolastica” o all’aspetto solo “documentario” delle opere di Levi, e a suggerire “altri tipi di approccio e di approfondimento”19. Oltre a tutti i miei studenti, assieme ai quali ho negli anni costantemente affrontato il tema della deportazione, intendo ringraziare soprattutto l’amico filosofo Livio Bottani con cui a suo tempo ho avuto modo di discutere e di approfondire criticamente gli argomenti di questo studio traendone notevolissimo beneficio.
18 A. Luzzatto, Perché è necessaria l’educazione e una ulteriore ricerca sulla Shoah?, Prefazione a Come insegnare l’Olocausto, in collaborazione con Task Force for International Cooperation on Holocaust Education, Remembrance and Research, Proedi Editore, Milano 2005, p. 9. 19 Cfr. Carlo Minoia, Le edizioni scolastiche di “Se questo è un uomo” e “La tregua”, in Primo Levi. Il presente del passato, cit., p. 106.
NOTA DELL’AUTORE
Questo lavoro nasce come tentativo di riflessione intorno alla Shoah ed è stato svolto per la maggior parte tra il 1989 e il 1994. Ripreso e rivisto dopo una trentina d’anni, aggiornato con ulteriori riletture e integrazioni tra il 2020 e il 2023, la sua struttura e la stesura originarie hanno subito una corposa modifica. Intere parti dei quattro volumi che in origine lo costituivano (I: Il negativo; II: Il sublime; III: L’autenticità; IV: L’amicizia) sono infatti state o tolte per un’eventuale pubblicazione a sé, o pubblicate come brevi articoli, oppure inserite in lavori a sé stanti. Del volume I riporta: 1) i primi quattro paragrafi delle Note sull’esperienza concentrazionaria di Primo Levi (Capitolo terzo, 1), che appariranno in seguito su “Israel” (maggio-agosto 2006, vol. LXXII, n. 2). 2) La riflessione più ampia sulla frase di Levi “poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso” (Capitolo sesto, 1, 2) – una frase messa a confronto con una di Améry, una di Schelling e con alcuni versetti dei Vangeli sinottici – è stata inserita anche nel nostro Giobbe e gli altri (2016); precedentemente il testo era stato anche utilizzato sia come contributo al convegno Für Primo Levi: Gedächtnis, Zeugenschaft, Literatur tenutosi nell’aprile del 1997 a Freiburg im Breisgau, presso il Theater in Marienbad, a dieci anni dalla tragica scomparsa del testimone torinese (fra i presenti Giovanni Tesio e anche “Pikolo”, cioè Jean Samuel, compagno di Primo Levi ad Auschwitz), sia come articolo a sé, in occasione dei vent’anni dalla morte, pubblicato su Testimonianze (marzo-aprile 2007 n. 2, 452, pp.129-138) con il titolo La grande lezione di Primo Levi, sia infine come postfazione al nostro Giò. Un Giobbe del nostro tempo (Caosfera, Vicenza 2021), che è una riedizione del dramma in tre atti con due postfazioni presenti in Giobbe e gli altri. 3) La riflessione sulla poesia leopardiana in rapporto all’attesa nel tempo del sabato (Capitolo terzo, 1, 4) è stata dapprima, nel 1990, pubblicata come
42
Il negativo e l’attesa
articolo su I problemi della pedagogia e successivamente inserita nel nostro saggio su San Paolo, Hodós eirénes. Il “sentiero della pace” nelle lettere paoline (2019). Del volume II riprende la parte su Freud (I sogni contrari al desiderio, Capitolo quarto), il tema del sublime relativo all’interpretazione del negativo e all’incomunicabilità del male attraverso il pensiero di alcuni filosofi postmoderni (Baudrillard, Deleuze e Lyotard), la riflessione sul rapporto male-materia (Capitolo quinto) e le pagine relative alla divina sofferenza (capitolo sesto). Del volume III riporta il problema dell’autenticità in Jean Améry (Capitolo terzo, 5), ancora il rapporto male-materia (Capitolo quinto) e la delicata questione della critica alla cultura (Conclusione, 1). Quasi per intero, infine, è stato tolto il volume IV, che comprendeva due capitoli, uno sull’amicizia e uno sull’attesa. Da quest’ultimo è stato estrapolato il sesto paragrafo, Il concetto di attesa in Heidegger, pubblicato in forma abbreviata su “Paradigmi”, Rivista di critica filosofica, Anno XIV, n. 41, maggio-agosto 1996, con il titolo Heidegger tra attesa, noia e angoscia. Il testo che faceva da presentazione ad ognuno dei quattro volumi è stato utilizzato, con opportune modifiche e integrazioni, nell’Introduzione, i cui titoletti conservano la traccia dei relativi temi di fondo. F.D. 2023
PRIMA PARTE
CAPITOLO PRIMO L’ODIO PARANOICO
Ma egli considera un trastullo la nostra vita, l’esistenza un mercato lucroso. Egli dice: “Da tutto, anche dal male, si deve trarre profitto”. (Sapienza 15, 12)1
1. L’antisemitismo eliminazionista e genocida tra premodernità e modernità Elie Wiesel non è il solo a pensare che Auschwitz rappresenti “la negazione e il fallimento del progresso umano”2. Per Levi, ad esempio, Auschwitz resta “il massimo crimine nella storia dell’umanità” (SS 93), le cui memorie, “al di là della pietà e dell’indignazione che suscitano, […] vanno lette con occhio critico” (SS 8). Anche Philipp Jenninger, l’ex presidente dell’Assemblea del Bundestag di Bonn, nel suo discorso commemorativo per il cinquantenario della “Notte dei cristalli”, è arrivato a conclusioni simili. La Germania [dichiarava] aveva preso congedo da tutte le idee umanitarie che avevano costruito l’identità spirituale dell’Europa; la discesa nella barbarie era voluta e premeditata. L’industrializzazione, l’urbanizzazione e il capitalismo – in cui gli ebrei svolgevano un ruolo rilevante – apparvero subito qualcosa di “non-tedesco” […]. La cosiddetta “visione del mondo” di Hitler mancava di qualsiasi idea originale. Tutto era già lì davanti a lui: l’odio antisemita rafforzato dal razzismo biologico – che trovava la sua “copertura scientifica” nella strumentalizzazione della “lezione di Darwin” – così 1 2
Tutte le citazioni della Bibbia sono tratte dall’edizione ufficiale della CEI, 19869. E. Wiesel, L’Olocausto profanato, in “Società e cultura”, inserto de “La Stampa”, 4 luglio 1989.
46
Il negativo e l’attesa
come l’avversione violenta alla modernità e l’utopia di una società originaria, agricola, che aveva bisogno dell’Est per realizzare il suo “spazio vitale”.3
Per questo discorso, com’è noto, Jenninger sarà costretto alle dimissioni, poiché, sulla scorta della Schuldfrage di Jaspers e dello stesso Thomas Mann, legava la colpa della Germania all’intero popolo tedesco. Il suo discorso si differenziava infatti, secondo Harald Welzer, da quello classico riportato dal presidente von Weizsäcker, con il quale la colpa – in questo caso quella della Kristallnacht – veniva attribuita solo a una parte dei tedeschi, ai nazisti, cioè a quella parte che si era lasciata sedurre dalle promesse hitleriane e che aveva commesso i più tremendi crimini contro gli ebrei in nome del popolo tedesco (Wel1 16 nota 2). Promesse grazie alle quali, ricorda opportunamente Tilmann Allert, molti professionisti nel campo della giurisprudenza, della demografia, delle forze armate, della medicina, dell’impresa in generale, poterono realizzare i loro progetti “senza più incontrare resistenza da parte degli abituali antagonisti” (All 87). Tuttavia, se era come dice Jenninger, se tutto l’odio antisemita e razziale preesisteva al nazismo, allora si può paradossalmente sostenere che lo sterminio degli ebrei sia stato attuato non tanto e non solo per risolvere i problemi storico-economici del presente sorti dopo la sconfitta degli Imperi Centrali nella Prima guerra mondiale. Questi problemi del presente furono semmai assunti solo come pretesto per assolvere a un compito ben più profondo e ampio che, attraverso il cristianesimo, l’Europa si era posta da quasi due millenni. Per creare un humus favorevole al folle Kampf hitleriano, i nazisti si sono serviti anzitutto del darwinismo scientifico e sociale del XIX secolo, come strumento legittimante per far leva sull’odio antisemitico e antigiudaico che, secondo certe proporzioni e nonostante tutto il razionalismo illuministico e giuridico, era profondamente radicato in tutta l’Europa cristiana. Più che l’acciaio delle industrie Krupp, il vero propellente che consentì per dodici lunghi anni al Terzo Reich di condurre, assieme ad altri paesi collaborazionisti, la politica di esclusione, persecuzione e di sterminio soprattutto nei confronti del popolo ebraico, fu proprio quell’“odio pa3
P. Jenninger, “La Stampa”, novembre 1988, Anno 122, N. 254.
L’odio paranoico47
ranoico” (Tra 24)4 cristianamente coltivato contro di esso a partire dall’accusa di deicidio, secondo cui gli ebrei si erano resi colpevoli della morte di Gesù. A tal riguardo Goldhagen ritiene infatti che “in Europa l’antisemitismo è un corollario del cristianesimo” (Gol 54). Ciò consente di dire, riprendendo le parole della Arendt, che “prima di azionare le camere a gas” (Tra 51; Are1 409) i nazisti si erano assicurati non solo del fatto che nessuno voleva quella massa di ebrei apolidi, mai del tutto e realmente assimilati ed emancipati, ma anche del fatto che tantissimi nell’Europa cristiana, al di là delle congiunture economiche e politiche, li odiavano in quanto deicidi. Le analisi degli studiosi aiutano a capire meglio la supposta pericolosità che la nozione di “ebreo” ha assunto nella storia. Tale pericolosità, ad esempio, secondo Zygmunt Bauman, discende dal fatto che l’ebraismo rappresentava una sorta di alter ego originario del cristianesimo, una vera e propria alterità che ne metteva continuamente in pericolo il fondamento. Esso costituiva una continua minaccia per tutti i paesi della cristianità nei quali l’ebreo si trovava ad essere ospite e insieme straniero. Un diverso, in ogni caso. Non solo. Una tale pericolosità non derivava soltanto dalla sua inassimilabilità. Derivava anche dalla sua assimilazione e dalla sua emancipazione. Anche se né l’assimilazione né l’emancipazione avevano superato la sua alterità. Il ruolo che gli ebrei hanno svolto in campo finanziario ed economico rimaneva imprescindibile per quasi tutti i sovrani cristiani dell’Europa premoderna e moderna. Sicché, oltre ad essere stato “il prototipo e il modello principe di ogni anticonformismo, eterodossia, anomalia, aberrazione” (Baum 65), l’ebreo, proprio in questa sua presunta ambiguità, rappresentava anche una costante minaccia per i fondamenti stessi dell’impianto culturale cristiano, sia cattolico che protestante. Il pericolo consisteva nel fatto che queste fondamenta venivano scosse da esponenti di spicco della cultura umanistica e scientifica appartenente alla popolazione ebraica. È esattamente per questo, cioè per evitare un simile rischio destabilizzante, che nel 1933 i nazisti, andando incontro in tal modo ai cristiani, cominciarono a bruciare i libri di autori ebrei. 4
Enzo Traverso riprende l’espressione da The Responsability of Peoples, un saggio del 1945 di Dwight McDonald: “Gli ebrei d’Europa sono stati assassinati per soddisfare un odio paranoico […], non per una ragione politica o per ottenere un qualsiasi vantaggio”.
48
Il negativo e l’attesa
L’avvento della modernità comportò inevitabilmente “la distruzione dell’ordine e della sicurezza” (Baum 72-73) su cui era incardinata l’Europa premoderna. La colpa di questa devastazione venne pertanto addossata agli ebrei e all’incongruenza vischiosa che essi rappresentavano, in quanto, specie nell’Europa occidentale, sembrava che fossero non solo favorevoli a questa modernizzazione, ma ne traessero addirittura vantaggio a danno delle classi antagoniste, in mezzo alle cui tensioni essi dovevano sapersi muovere. Nel passaggio dalla premodernità alla modernità gli ebrei vennero quindi percepiti “come sostanza glutinosa che rende incerti i confini tra cose da tenere separate, che rende scivolose tutte le scale gerarchiche, [che] fonde ogni solidità e profana tutto ciò che è sacro” (Baum 78). Furono visti come responsabili di tutto ciò che andava desolidificandosi e dissolvendosi, cioè della liquidazione dei vecchi e sani valori della tradizione, dal momento che la loro emancipazione coincise con quella dissoluzione valoriale. I demoni dell’antimodernismo furono esorcizzati con le conquiste tecnico-scientifiche della modernità razionalizzante, ma gli ebrei finirono con l’essere percepiti come una reincarnazione dei demoni, cioè della paura e dell’incertezza. Per poter sfuggire a quella minaccia diabolica, oltre all’espulsione o alla ghettizzazione, l’antisemitismo premoderno ricorreva alla conversione e alla redenzione del popolo ebraico. Invece nella modernità, in particolare in Germania, si è fatto ricorso esplicitamente allo sterminio, preceduto dall’esclusione razziale e dalla spoliazione (Gol 59). L’antisemitismo protocristiano e medievale non si dissolse dunque con il razionalismo della modernità. Venne piuttosto declinato e adattato ai tempi per essere riutilizzato dai nazionalismi razziali a vocazione totalitaria. Ad ogni modo, l’affermazione del concetto di razza verso la metà del XIX secolo rese impossibile, secondo Goldhagen, ogni idea di conversione, di redenzione e di assimilazione del popolo ebraico, specie sulla scorta del saggio di Wilhelm Marr (Der Weg zum Siege des Germanantums über das Judentum, La strada della vittoria del Germanesimo sul Giudaismo), il giornalista tedesco pangermanista e antisemita che proprio in quel testo del 1879 aveva coniato la parola “antisemitismo”. La razza, scrive Goldhagen, “escludeva che un ebreo potesse mai diventare un tedesco” (Gol
L’odio paranoico49
72-73)5. Non solo: quel concetto di razza consentì alle altre forme di antisemitismo di coagularsi, approntando così un modello cognitivo che rendeva possibile alimentare la contrapposizione germanicità-ebraicità con la più antica opposizione cristianesimo-ebraismo. L’assimilazione degli ebrei ne fece dei cittadini alla stessa stregua dei cristiani. Ma tale assimilazione, cioè la dissoluzione della differenza tra ebrei e cristiani, che nell’Europa premoderna era naturale, ora, nella modernità, suscitava un antisemitismo che temeva questa indistinzione e che doveva pertanto creare artificialmente pretesti per poter mantenere ugualmente in vita la vecchia differenza (Baum 87-88). Al posto della categoria del giudaismo venne creata quella dell’ebraicità, che è relativa a una natura di cui gli ebrei non potevano disfarsi, nonostante ogni possibile conversione religiosa o culturale. “Per l’uomo”, così Bauman interpreta la moderna essenza del razzismo, “l’essere precede l’agire; niente di quello che fa può cambiare ciò che è. Ecco, a livello elementare, l’essenza filosofica del razzismo” (Baum 91). Il razzismo si erge a difesa dei confini proprio nel momento in cui la modernità ne facilita l’attraversamento (Baum 96). L’idea dell’ebreo come minaccia costante del Volk, del popolo tedesco, osserva inoltre Goldhagen, “era intessuta nella trama morale e sociale della Germania […], era parte integrante della cultura tedesca” (Gol 460). L’antisemitismo eliminazionista era latente, istintivo, immanente nei tedeschi e quindi preesisteva al nazismo, era presente cioè anche in “epoca pregenocida” (Gol 461). “Nella Germania di Weimar l’antisemitismo era endemico” (Gol 91). Hitler aveva colto questo istinto in quel popolo e il suo compito fu di risvegliarlo, di infiammarlo e di attivarlo (Gol 459). Solo su questo 5
In effetti, secondo il Mein Kampf, ben lungi dal comportare una germanizzazione, l’assimilazione delle altre razze a quella tedesca non poteva che determinare una “degermanizzazione”, ossia un “imbastardimento” delle “componenti essenziali germaniche” (Hit 27). Non è la lingua, poi, secondo i nazisti, ma il sangue che determina l’appartenenza a una razza. Oltre che del popolo ebraico, era assurda per Hitler, ad esempio, una germanizzazione della Polonia. A proposito della Polonia, ecco cosa scrive Hannah Arendt: “se la Germania avesse vinto, avrebbe riservato al popolo polacco la stessa sorte degli ebrei – il genocidio. Non è una semplice congettura, poiché in Germania i polacchi erano già obbligati a portare un distintivo dove una ‘P’ sostituiva la stella ebraica: e questo […] era il primo provvedimento che la polizia prendeva quando cominciava ad attuare un programma di sterminio” (Are2 224).
50
Il negativo e l’attesa
antisemitismo egli poté realizzare concretamente la sua intenzione di sterminare gli ebrei, cioè la sua “missione genocida” (Gol 422). Forte con i deboli – e già solo questo doveva far vergognare non le SS o i Battaglioni di polizia (che addirittura festeggiavano dopo ogni massacro), ma i componenti della Wehrmacht, anche se, dice Hilberg, l’esercito, sia quello del Reich sia quello degli alleati ungheresi, rumeni e baltici, diede una mano alle Einsatzgruppen (Hil 302 ss, 311)6 –; forte con i deboli, dunque – altro che gesta di eroismo!7 – a partire perlomeno dalla caccia aperta agli ebrei indifesi e coordinata dalle autorità durante la Kristallnacht8, il nazismo 6
7
8
L’esercito consegnava gli ebrei alle Einsatzgruppen, e in seguito queste li uccidevano (Hil 315). I militari, dice ancora Hilberg, talvolta superavano “ampiamente le loro funzioni, fornendo un aiuto diretto alle unità mobili, senz’altra ragione apparente che il desiderio di risolvere il problema più in fretta” (Hil. 317). Non solo. In Serbia, ad esempio, nel ’41, era la Wehrmacht “a dover eseguire quello ‘sporco lavoro’” (il massacro di ebrei e zingari) che le Einsatzgruppen avevano svolto in Russia. Dopo l’attacco all’Unione sovietica, a Odessa, annota Hilberg, il battaglione di un Einsatzkommando “fu sorpreso da una forza da sbarco sovietica di 2500 uomini e si affrettò a fuggire sotto il fuoco nemico” (Hil 309). “Andate laggiù, dal nemico ‘numero due’ [cioè l’Unione Sovietica]”, annota Salmen Gradowski, uno dei membri del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, in un suo taccuino in yiddish ritrovato in una borraccia di alluminio nei pressi del crematorio III, “un nemico forte e coraggioso; mostrate là, in quella battaglia, il vostro eroico coraggio. […] Là, si consumerà la vostra crudeltà, la vostra forza sarà annientata e un abisso senza fondo si prenderà la vostra vita” (Cfr. Inmitten des grauensvollen Verbrechens. Handschriften von Mitgliedern des Sonderkommandos (1996), tr. it. di C. Ohlmes e C. Salinari, La voce dei sommersi. Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz, a cura di C. Salinari, Marsilio, Venezia 1996, p. 52). Uno dei “meccanismi mentali” che consentirono ai tedeschi di giustificare la loro violenza selvaggia sugli ebrei durante la Kristallnacht era, dice Goldhagen, quello di considerarli come “ostaggi” su cui potersi vendicare nel caso in cui il resto del popolo ebraico sparso nel resto del mondo avesse potuto arrecare danni alla Germania (Gol 110). Secondo Hilberg, la Kristallnacht fu un progrom fomentato e voluto da Goebbels, che ebbe la netta disapprovazione delle altre cariche del partito, non tanto ovviamente per ragioni morali, quanto piuttosto per gli ingenti costi che essa comportò per lo Stato tedesco a causa delle coperture assicurative, come pure per i beni sprecati, e soprattutto perché dinanzi alle altre nazioni questa Einzelaktion, questa azione isolata, disse ad esempio Göring, poneva in cattiva luce la Germania considerata incapace di prevenire e controllare simili massacri. Ecco perché da allora in Germania non vi furono più azioni simili, e la questione ebraica venne risolta in maniera “legale”, cioè dallo Stato, burocraticamente (Hil 36-46).
L’odio paranoico51
si è potuto radicare solo là dove trovava terreno fertile, cioè nel collaborazionismo dei governi filonazisti. I tedeschi poterono così realizzare lo sterminio degli ebrei, cioè di un’intera popolazione sparsa per tutta l’Europa, sotto gli occhi del mondo intero, grazie a quella collaborazione9, in particolare di quei paesi che erano stati preventivamente occupati. Ma se, nonostante o grazie alla guerra in corso, il genocidio ebraico è potuto attuarsi, ciò non si deve forse anche al fatto che, in misura certo meno pervasiva che un Germania, anche negli altri Stati era già presente una certa quota di antisemitismo che consentiva di chiudere gli occhi dinanzi all’Olocausto? In passato, secondo quanto dicono le ricerche degli studiosi, quasi tutta l’Europa non era forse stata antisemita? Proprio in questo senso vanno intese le parole che Imre Kertész (deportato ad Auschwitz) pronunciò il 7 dicembre 2002 alla cerimonia della sua premiazione a Premio Nobel: “Io non ho mai tentato di interpretare” l’Olocausto come “una sbandata unica della storia, un pogrom superiore per dimensione a tutti quelli che l’hanno preceduto […], ma come la situazione dell’essere umano, lo stadio terminale della grande avventura, cui l’uomo europeo è giunto dopo duemila anni di cultura e di morale”. George Steiner osa addirittura pensare a una silente “complicità generale nel massacro”, a un “brutto enigma”, a un “enigma odioso”, perché pur sapendo di uno sterminio in corso, né la RAF né l’USAF hanno bombardato i forni crematori e le linee ferroviarie che vi conducevano, né tanto meno l’URSS fece nulla per arrestare il massacro degli ebrei da parte delle Einsatzgruppen10. L’antisemitismo tedesco ha avuto tuttavia conseguenze diverse da quelle che si sono concretizzate in altri paesi. Non solo perché in questi, al contrario che in Germania, l’assimilazione degli ebrei si è potuta realizzare compiutamente, ma anche e soprattutto perché l’antisemitismo in Germania è stato mandato al potere (Gol 434), consentendole così di poter intraprendere la propria strada, un proprio Sonderweg, quello che ha condotto direttamente alla Endlösung, alla soluzione finale della Judenfrage, della questione ebraica. 9
Per il caso dell’Ungheria del filonazista Horthy e delle Croci Frecciate, oltre che il saggio di Hilberg (pp. 791-850), si veda la testimonianza di Béla Tzsolt, Le nove valigie, Guanda, Parma 2004. 10 G. Steiner, Language and Silences (1961), tr. it. di R. Bianchi, Linguaggio e silenzio, Garzanti, Milano 2001, pp. 165, 176.
52
Il negativo e l’attesa
2. La morale dei massacratori In effetti, a proposito del Sonderweg, come potremmo mai dimenticare il profondo attaccamento della cultura tedesca, almeno di quella romantica, alla terra e alla natura? Oltre che dal darwinismo sociale, anche da questa divinizzazione romantica della natura, si potrebbe dire con Bensoussan, discende la “religione della natura propagandata dal nazionalsocialismo”: “l’uomo aveva cessato di essere al centro della rappresentazione per diventare una creatura tra le altre e, come tale, soggiacere alla legge della natura che elimina i deboli e premia i forti” (Ben 111-112). Si pensi solo ai dipinti di Caspar David Friedrich. Anche per Harald Welzer l’oggettività naturale dell’antisemitismo si esplica attraverso la lotta contro gli oppositori razziali e politici. Secondo la völkische Weltanschauung o la Geschichtsauffassung, secondo cioè la visione o la concezione nazista della storia, questa oggettività razziale deriva dal fatto che viene affermata in piena ottemperanza alle eterne leggi della natura e della vita (Wel2 32-33). Discendendo da questa presunta oggettività naturale, la morale razziale nazionalsocialista aveva esercitato nella coscienza dei tedeschi ariani un Hintergrundklima, un clima di fondo, una Hintergrundüberzeugung, una convinzione di fondo, che li persuadeva del fatto che essi rientravano in un mondo da cui un certo gruppo di persone non solo doveva essere escluso, ma doveva anche venire necessariamente eliminato in nome del deutsche Volk, del popolo tedesco (Wel2 98). A Welzer interessa capire come, dal punto di vista della psicologia sociale, sia stato possibile che quella mentale Spur, quella traccia mentale, quella convinzione sia riuscita a persuadere i membri delle Einsatzgruppen a compiere da un momento all’altro azioni criminose, massacri di massa che solo poco tempo prima rigettavano con sgomento. E ciò sino al punto di anticipare, di portarsi avanti con il lavoro che dovevano fare, quasi “fossero stati mentalmente preparati a uccidere masse di persone” (Wel2 101). Dalla testimonianza di alcuni di loro risulta che le azioni militari, compresa ovviamente la Tötungsarbeit, il lavoro di massacro, venivano definite e comprese come gute Arbeit, come un buon lavoro, venivano vissute, cioè, come sensate, necessarie e quindi inevitabili. Una Tötungsarbeit che aveva paradossalmente il suo limite “là dove la
L’odio paranoico53
crudeltà o il piacere di uccidere [divenivano] un fattore determinante dell’omicidio” (Wel2 260). Essa consisteva pertanto in un lavoro che per essere fatto bene doveva prescindere da ogni impulso emotivo. Oltre che sul fronte del carnefice, il tema del “lavoro svolto bene”, come vedremo più avanti (Cap. 3, 1), ricomparirà anche sul fronte delle vittime. In entrambi i casi si avverte un’etica del lavoro, solo che mentre ai deportati serviva per un possibile recupero della dignità umana, ai carnefici serviva soprattutto per rendere dignitose le loro carneficine. Nella morale nazionalsocialista del massacro (Tötung), giocava poi una funzione fondamentale, anzi ne era condizione imprescindibile, la Rollendistanz, la distanza soggettiva dal ruolo svolto dai Täter, dai massacratori. In tal modo, osserva Welzer, i membri delle Einsatzgruppen uccidevano “non come persone, ma come portatori di un compito storico (historischen Aufgabe), dietro a cui dovevano necessariamente restare le loro emotività personali, le loro esigenze, i loro sentimenti e le loro resistenze (Wel2 38 ss). Non tutti i membri delle Einsatzgruppen, degli Einsatzkommando e dei Sonderkommando11, cioè non tutti i massacratori erano in ogni caso delle persone poco istruite. Welzer a tal proposito rileva che sei dei sedici capi delle Einsatzgruppen avevano il titolo di dottore e qualcuno ne aveva addirittura due, uno in giurisprudenza e uno in medicina con specializzazione in psichiatria (Wel2 85). Hilberg riporta anche il caso di un teologo, di un pastore con anni di carriera ecclesiastica alle spalle (Hil 304). Inoltre, il fatto che i massacri avvenissero durante la guerra e venissero sostenuti da una politica razziale, costituiva per i massacratori un ulteriore fattore di distanziazione psicologica dalle vittime (Wel2 107). Ad ogni modo, sia quando erano i soldati sovietici a deportare gli oppositori ucraini, sia quando erano i partigiani ucraini che si opponevano ai tedeschi, a pagare il prezzo in termini di assurde 11 In questo caso, ovviamente, non si tratta del Sonderkommando formato dai prigionieri ebrei costretti a far funzionare gli impianti di cremazione ad Auschwitz-Birkenau, bensì di una delle due suddivisioni delle Einsatzgruppen istituite da Himmler per le fucilazioni in massa degli ebrei in Unione Sovietica nel 1941: “Per procedere nella campagna contro gli ebrei, Himmler […] costituì quattro Einsatzgruppen mobili, che avrebbero guidato lo sterminio. Ognuna era suddivisa in unità minori, chiamate Einsatzkommandos e Sonderkommandos” (Gol 160).
54
Il negativo e l’attesa
rappresaglie erano sempre gli ebrei (Hil 324)12. Gli ucraini li rastrellavano per conto dei tedeschi e questi ultimi li rastrellavano per conto dei primi. Hilberg si limita a riportare le cifre dei massacri. La lunga ricerca di Hilberg si svolge essenzialmente sul piano burocratico-giuridico e pertanto costituisce tutta quella complessa e articolata materia burocratico-documentario-procedurale che sta dietro (non apparendo quasi mai) sia le attente ricostruzione dei fatti da parte degli storici, sia dietro le addolorate e incontenibili testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto. Nessun cedimento in lui a quell’emotività che tutti quei fatti, così dettagliatamente ricostruiti ed esposti nel suo saggio, dovrebbero suscitare. Certo, l’autore (più uno studioso di scienze giuridiche che uno storico) forse confida nella sensibilità del lettore. Tuttavia viene da chiedersi, fino a che punto la verità dei fatti, così minuziosamente presentati, contribuisce alla loro comprensione? Ad esempio: “… e tutte le persone che si trovavano in casa vennero catturate”. Oppure: “Camion coperti e da trasloco lasciarono di notte i punti di raccolta stipati di gente e condussero le loro vittime fino alla stazione, da dove vennero spedite in direzione di Auschwitz” (Hil 482). Utilizzando e riproponendo un freddo linguaggio giuridico-burocratico per denunciare il processo burocratico che ha di fatto prodotto l’Olocausto, non si finisce per parlare la stessa lingua dei carnefici? Ora, pur sapendo che è impossibile esprimere con parole semplici, per quanto precise e distillate, tutto il patimento vissuto dalle vittime in seguito ad ogni singolo ordine diramato dall’esecutivo nazista, non è forse compito degli storici far almeno intuire quello che c’è dietro alle loro ricostruzioni, cioè il dramma inaccettabile, la tragedia innaturale che gli ebrei hanno dovuto patire? Come può, pertanto, una ricostruzione, pur razionalmente comprensibile in tutta la sua ampiezza, suscitare quell’impatto nella coscienza di coloro che devono sapere, se essa si rivolge solo al loro intelletto? Per questo motivo sono indispensabili i testimoni. Soprattutto quelli come Levi, Wiesel, Améry e Kertész: perché la loro letteratura concentrazionaria prende le distanze sia da uno storicismo rigorosamente positivista sia dalle spettacolarizzazione e dalle banalizzazioni dell’Olocausto. 12 La Serbia, scrive a tal riguardo Hilberg, fu “teatro di un’incessante guerra partigiana. Come in Russia, l’esercito tedesco puniva le manifestazioni di ribellione fucilando gli ostaggi, soprattutto gli ostaggi ebrei” (Hil 683).
L’odio paranoico55
Certo, le dettagliate ricostruzioni storiche, fa notare Frediano Sessi nella sua Nota introduttiva al saggio di Hilberg, potrebbero essere d’ausilio nella messa in luce delle responsabilità di tutte le istituzioni e di tutte quelle singole persone che agivano nelle loro strutture e che con una loro semplice firma apposta su un documento (anche in forma di richiesta) decidevano la morte di migliaia di esseri umani. “Quando Amburgo, nel settembre 1941, venne bombardata”, annota ad esempio Hilberg, “il Gauleiter Karl Kaufman chiese a Hitler che gli Ebrei fossero deportati dalla città per dare un alloggio alle vittime dei bombardamenti” (Hil 493). L’ampiezza del lavoro di Hilberg, in effetti, non consente solo di rendersi conto dell’estensione e della complessa articolazione del processo burocratico necessario a realizzare la distruzione degli ebrei d’Europa; permette altresì di indicare per quanto possibile con precisione ogni singolo artefice, ogni collaborazionista e quindi ogni responsabile di quel processo. Anche se non tutti coloro che di fatto parteciparono al processo di distruzione degli ebrei d’Europa vennero comunque condannati. Una loro “condanna” morale, o comunque un “giudizio” etico – da cui si astiene intenzionalmente Hilberg – che i racconti dei testimoni sanno tuttavia suscitare nella coscienza dei loro lettori. Giacché sembra proprio che non la legge con tutti i suoi codici, ma la presa di coscienza di quell’insano progetto inscritto nel DNA europeo sia in grado di giudicare e condannare i responsabili. Ed è solo grazie a questa presa di coscienza che si potrebbe fare in modo che quei fatti non si ripetano. Ad ogni modo, rispetto all’ampia e complessa ricostruzione del sistema concentrazionario consegnataci da Hilberg, il singolo caso di Primo Levi, ad esempio, non può apparire che come un miracolo, quasi un nulla che ci fa tuttavia pascalianamente intuire quel tutto, alla cui meticolosa descrizione, per quanto ha potuto, Hilberg non si è certo sottratto. Ad ogni modo, al di là del linguaggio giuridico adottato da Hilberg, il valore del suo lavoro consiste anche nel fatto che riesce a far emergere ugualmente la sconcertante naturalezza con la quale tedeschi e non tedeschi accettarono la liquidazione degli ebrei come un dato oggettivo. Rispetto a questo modo naturale in cui si accettava una tale liquidazione, sia dinanzi alle esecuzioni che alle selvagge cacce all’uomo e al crescere dei cadaveri per le strade, egli riporta ad esempio questo rapporto degli uffici di propaganda del Governatorato: “Sebbene la popolazione tedesca e anche la popolazione non
56
Il negativo e l’attesa
tedesca, siano convinte della necessità di liquidare tutti gli Ebrei, converrebbe procedere a questa liquidazione con modalità che provochino meno scandalo e meno nausea” (Hil 513). Consapevoli di ciò, dobbiamo quindi sforzarci e fare in modo che le cose, come si dice, non prendano una brutta piega. Perché, come ci hanno mostrato i fatti e le stesse procedure che hanno consentito inevitabilmente l’annientamento del popolo ebraico, proprio così come ce le ha presentate Hilberg, una volta attivato il meccanismo della distruzione, nessuno può più far nulla per arrestarlo. Dobbiamo giocare d’anticipo, prevenire il disastro, costringerci a non essere indifferenti e a vigilare sugli altri e su noi stessi. Perché ogni nostro semplice colpo di sonno potrebbe rappresentare un accenno di messa in moto di quel meccanismo distruttivo, una commutazione che renderebbe ancora una volta possibile transitare nel giro di poco tempo dalla civiltà alla barbarie, vale a dire in un mondo in cui, per bieche e infondate questioni razziali, l’annientamento di un intero popolo diviene non solo un obiettivo voluto e premeditato, ma anche l’esito di un sentire e di un agire del tutto naturale. “A livello locale”, scrive ad esempio Hilberg in riferimento alla messa in funzione del centro della morte a Kulmhof (sorgeva nella parte centrale del Wartheland, una zona della Polonia occupata), “gli uffici dell’amministrazione civile, la polizia e le ferrovie, di comune accordo (cn), regolamentarono i particolari della deportazione”, ossia del “trattamento speciale” per centomila ebrei (Hil 501). “Il velo dell’abitudine ricopriva ogni operazione”, osserva ancora Hilberg in uno dei suoi rari passaggi meno distaccati, a proposito della pulizia e della disinfestazione dei treni dopo il loro arrivo al campo. “Mescolati con i trasporti di truppe e di approvvigionamenti, i treni della morte circolavano senza che nessuno vi prestasse particolare attenzione” (Hil 505). 3. L’umanesimo alla rovescia, la crudeltà e la pedagogia della durezza Hilberg ci fa vedere quello che accadeva sulla testa degli ebrei. Browning e soprattutto Welzer ci consentono di guardare negli occhi vittime e carnefici durante le fucilazioni di massa all’interno delle fosse. Gideon Greif, invece, attraverso le testimonianze di alcuni sopravvissuti del Sonderkommando di Auschwitz, ci permette
L’odio paranoico57
di inoltrarci sino ai due Bunker di Birkenau, di scendere nei sotterranei del crematorio, di entrare nello spogliatoio, perfino nella camere a gas, e di guardare in faccia le persone che vi venivano ammassate: “Posso osservare i loro volti”, dice Josef Sackar13. La prima cosa che hanno detto a questo nuovo membro del Sonderkommando non appena entrato nel crematorio è stato il seguente terribile ordine: “Vieni qui, prendi i corpi e gettali nel forno”14. Per apprendere invece la realtà angosciosa del dramma emotivo vissuto dagli ebrei in attesa della loro evacuazione dai ghetti e dai campi di transito polacchi, dobbiamo leggere i manoscritti (nascosti in contenitori sotterrati tra le rovine del crematorio III) sia di Salmen Gradowski sia di Lejb Langfus, altri due membri del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau15. I saggi di Welzer analizzano i meccanismi psicosociali che i Täter, gli esecutori della Vernichtung, dovevano attivare per riuscire a realizzarla senza subire traumi. Alla base della crudeltà che volente o nolente essi manifestavano durante le operazioni di sterminio vi era certamente la componente pedagogica della Härte, della durezza, la quale era a sua volta funzionale all’indifferenza da essi mostrata dinanzi a sé stessi, alle vittime e agli scopi ultimi delle operazioni. Dopo aver approntato il dispositivo eliminatorio, ogni esecutore si vedeva inoltre come non indispensabile e quindi del tutto sostituibile da un altro. Sicché, se l’educazione alla durezza favoriva l’indifferenza, questa era resa possibile dal distanziamento psicologico dal ruolo e dall’attività massacratoria; distanza che li deresponsabilizzava moralmente rispetto ai fini. Un tale meccanismo consentiva loro di essere responsabili solamente delle singole esecuzioni immediate, svolte peraltro dietro un preciso ordine, sebbene le modalità di esecuzione, ricorda Goldhagen, 13 G. Greif, “Wir weinten tränenlos…”. Augenzeugenberichte des jüdischen “Sonderkommandos” in Auschwitz, Fischer Taschenbuch, Frankfurt a.M. 1995/202013, p. 91. Questo libro ha ispirato il film Il figlio di Saul (2015) del regista ungherese Lásló Nemes, un’opera che l’autore ha voluto dedicare al Sonderkommando di Auschwitz. A tal riguardo cfr. anche la testimonianza di Shlomo Venezia, Sonderkommando Auschwitz, Rizzoli, Milano 2007. 14 G. Greif, “Wir weinten tränenlos…”, cit., p. 69. 15 Cfr. La voce dei sommersi, cit., pp. 151-205. Di Salmen Gradowski si veda in particolare In Harz fun Gehenom, tr. dall’yiddish di A. Schaumann Wolkowicz, Sonderkommando. Diario di un crematorio di Auschwitz, 1944, Marsilio, Venezia 2021.
58
Il negativo e l’attesa
fossero spesso decise dagli stessi esecutori. Questa indifferenza – che Welzer definisce prinzipielle Indifferenz, “indifferenza di principio” – “relativizza logicamente l’autopercezione degli esecutori come soggetti responsabili”: consente cioè di relativizzare la loro responsabilità soggettiva. In tal modo, dice lo studioso, a Höss – che nella sua biografia appare addirittura come un Io schellinghiano che si intuisce come percipiente e come percepito – risulta possibile sia emanciparsi dalla responsabilità o dalla paternità (Urheberschaft) delle sue azioni, sia fare astrazione dall’evento stesso della Vernichtung. Sicché, mentre gli uomini che operavano dentro i crematori, distruggendo i propri simili (questa la perfidia attuata dai nazisti), riescono nei loro racconti a rappresentare sé stessi solo in forma di oggetto (nur in Forme eines Objekts) (egli pensa proprio ai sopravvissuti del Sonderkommando di Auschwitz intervistati da Greif), viceversa i Täter, i carnefici, hanno potuto pensare di loro stessi (qui l’autore si riferisce a Speer e a Höss, ma si deve anche pensare soprattutto ai componenti delle Einsatzgruppen) che, nonostante i massacri da loro attuati, “Mensch geblieben sind”, sono rimasti uomini (Wel1 143), così come dirà Himmler nel suo famigerato discorso alle SS pronunciato a Posen il 6 ottobre del ’43. Infine, per quanto in apparenza possano essere assimilabili, tuttavia, sottolinea Welzer, il distanziamento prodotto dalla durezza e dall’indifferenza richieste necessariamente dall’attività di sterminio si colloca agli antipodi rispetto alla specifica distanza professionale che, ad esempio, un chirurgo deve mantenere sia nei confronti dell’oggetto del suo intervento sia nei confronti di sé stesso (Wel1 105-107), giacché mentre lo scopo dell’attività di quest’ultimo è la salvezza e la guarigione degli esseri umani, il fine delle operazioni di Höss (anche se lui dice di non conoscerlo) era esclusivamente il loro annientamento, la loro morte. In ogni caso, la brutalità contro gli ebrei manifestata dai membri della Riserva di polizia tedesca che si erano resi disponibili ai massacri in Polonia e in Russia, dopo aver compiuto l’esperienza militare e quella della guerra, faceva parte, dice Welzer, della loro coscienza. Essi non andarono impreparati a quel lavoro, perché disponevano già di un modello di crudeltà. “Vi era un culto tedesco alla durezza (einen deutschen Kult der Härte) [si pensi al Drill] che disprezzava la simpatia e in particolare naturalmente, come atavico lascito del cristianesimo, la compassione verso gli altri etichettati
L’odio paranoico59
come nemici” (Wel2 282 nota 221). D’altronde l’inclinazione alla durezza, l’ideale pedagogico autoritario, il modo violento di risolvere i conflitti giocavano un ruolo preciso nell’ambiente da cui quei riservisti provenivano (Wel2 117). La questione, infatti, dice Welzer, non è tanto e non solo sapere come nel 1939 in Polonia o nel 1941 in Russia uomini che fino a quel momento erano del tutto normali siano potuti diventare degli assassini, ma anche quella di sapere come nel 1933 una sorprendente maggioranza di persone, fino a quel momento normali, abbia potuto decidersi a prendere parte a un processo di esclusione effettiva, senza accorgersi della particolare gravità di quel male che essi commettevano, un male che ha drammaticamente indebolito il loro sistema di valori (Wel2 248). E ciò si deve in particolare al fatto che, pur volendo, il singolo burocrate di una qualsiasi delle istituzioni tedesche convertite alla politica razziale tedesca solo raramente riusciva a prendere coscienza delle conseguenze che potevano avere i suoi atti amministrativi, poiché, dice Welzer, il processo di annientamento fu un’operazione che si svolse Schritt für Schritt, passo dopo passo (Wel2 256). Nel 1933, continua lo studioso, il passaggio dalla promessa alla prassi, cioè lo spostamento radicale delle coordinate sociali relative alla disuguaglianza all’interno della società nazista tra chi conta e chi non conta (wer… zu zählen ist und wer nicht), tra chi è “ariano” e chi non lo è, “si realizzerà nella prassi dell’esclusione in modo assolutamente immediato e consapevole”, e questa rapidità era motivo di attrattiva per i suoi Zugehöringen, per i suoi appartenenti. Il sociologo Tilmann Allert prova a decifrare l’accettazione interiore da parte dei tedeschi di quella promessa carismatica: una promessa di salvezza (heilen significa infatti “curare”, “salvare”) avanzata dal governo nazista anche attraverso il saluto Heil Hitler (All 8), un’espressione che divenne ben presto segno dell’“accettazione interiore di un’appartenenza imposta” (All 15) e con la quale i nazisti intendevano rompere con la tradizione e con i tradizionali Grüß Gott, Auf Wiedersehen, Guten Tag, Servus. In tal modo, afferma il sociologo tedesco, confiscando ai tedeschi il loro saluto, il saluto nazista toglie ad essi al contempo anche “la possibilità di esprimere una delle forme essenziali della socialità” (All 97). Il nazismo, si è detto, trovò terreno fertile in Germania perché solo qui paradossalmente si poté realizzare una forma radicale di “umanesimo”, inteso come esigenza di ricondurre o “ridurre all’u-
60
Il negativo e l’attesa
mano” la dimensione della religione, della natura, della politica, dell’esistenza. Solo qui in effetti poté affermarsi il luteranesimo (ossia la riduzione purista del cattolicesimo al protestantesimo), il romanticismo naturalistico (ossia l’adeguamento della condotta umana alle leggi eterne della natura), l’hitlerismo (ossia la sostituzione del Führer a Dio). Non per nulla, infatti, dice Mosse, il nazismo è stato considerato come “la terza, grande sollevazione della Germania” dopo il luteranesimo e il romanticismo (Mos 354). E, come dice ancora Allert, il rimpiazzo del Grüß Gott con Heil Hitler è stato il segno più evidente di quella sostituzione, di quell’adeguamento, di quella riduzione (All 54). Quel deutschen Gruß non era solo un semplice saluto, ma una “formalità rituale” (All 47) che sanciva un consenso, fissava una forma specificamente razziale e visibile di appartenenza a un Volk, a una Gemeinschaft e quindi a una Volkgemeinschaft, a una comunità popolare (All 53). Fu insomma, dice Allert, un “piccolo atto pratico di nazionalsocialismo” (All 38) che i tedeschi, in quanto rientranti in quella tradizione, in quel deutscher Sonderweg, compirono perlopiù senza difficoltà. Anche se, precisa, nel sud della Germania, “storicamente cattolico”, il consenso a quel saluto fu meno diffuso. Tuttavia Monaco non è soltanto la capitale del movimento Grüß Gott; è anche la città dove è nato il movimento nazista (All 60). È dunque proprio da questa indifferenza, da questo “abbandono collettivo” della moralità tradizionale, da questa “perdita di sovranità su se stessi”, dice Allert, che ha inizio la storia della Germania nazista, “non dal furore antisemita, dalle deportazioni di massa e dal genocidio organizzato” (All 16), che verranno inevitabilmente dopo. Dal nazionalsocialismo i tedeschi si attendevano quella redenzione puritana e romantica che l’Illuminismo e la modernità internazionalista avevano negato. E gli ebrei, almeno quelli occidentali, incarnavano proprio gli ideali illuministici e moderni16. Sicché, prima di essere esclusi e sterminati, gli ebrei vennero discriminati dai tedeschi non solo togliendo ad essi il saluto, non solo cambiando marciapiede quando li si incrociava per 16 “L’ebraico e il tedesco”, scrive infatti Mosse, “si incontravano nel deismo dell’Illuminismo, e questo incontro era reso possibile dalla potenza della Bildung tedesca, che porta luce nell’anima ebraica” (G.L. Mosse, German Jews beyond Judaism (1985), tr. it. di Daniel Vogelman, Il dialogo ebraico-tedesco. Da Goethe a Hitler, Giuntina, Firenze 1988, p. 100).
L’odio paranoico61
strada (come se fossero stati dei lebbrosi) (Gol 458), ma vietando loro, a partire dal 1937, di salutare con il nuovo saluto tedesco, con Heil Hitler (All 37). Anche per questo motivo, secondo Welzer, la nazificazione della società tedesca non è assimilabile a un processo ideologico o propagandistico, ma a un processo in cui la prassi, quotidianamente vissuta come una trasformazione, traduce l’immagine antigiudea e giudeofobica del mondo nazionalsocialista in una realtà percepibile e consolidata (Wel2 249-250). Nel caso della Germania poi, secondo Mosse, si può addirittura parlare di “carattere endemico dell’antisemitismo” (Mos 376). Ogni effettivo passo in avanti compiuto dalla politica antiebraica non era previsto né dall’ideologia né dalla propaganda, bensì da una realtà creata con i comportamenti e il consenso di ogni singolo membro della Gemeinschaft, della comunità degli ariani (Wel2 254). La cosa più convincente per ogni singolo individuo deve essere stato il fatto che quel ribaltamento di valori non solo appariva oggettivamente, non solo non incontrava ostacoli e opposizioni, ma veniva addirittura inteso come un progetto sociale emancipativo. “Tutto era possibile” (Das alles war möglich), scrive Welzer riportando un’impressione della Arendt, “senza che il cielo crollasse e la terra si disfacesse” (Wel2 255). L’argomento più duro (das stärchste Argument) da affrontare è certamente il fenomeno della Vernichtung, rispetto alla quale Welzer si esprime in termini di “fallimento antropologico” (anthropologisch Fehlschluss), poiché se gli uomini si sono dimostrati così disumani è perché la vernice della civilizzazione (der Virnis der Zivilisation) era troppo sottile: si sono infatti spezzate le barriere che tale civilizzazione opponeva all’eredità arcaica (archaische Erbe) e che impedivano il libero corso alla rapina, alla violenza e all’uccisione (Wel2 258). Secondo Welzer, inoltre, il grosso potenziale per la disumanità discende dall’esigenza maturata nella modernità: l’esigenza di essere sollevati dalla responsabilità personale di cui ci aveva fatto carico l’Illuminismo aprendoci alla libertà e all’autonomia. Una responsabilità che la modernità recepisce come un peso, come uno stress, come un’angoscia. Da qui il bisogno, la necessità di alleggerimento realizzata proprio in virtù dell’appartenenza a una collettività, a un Volk, a una Gemeinschaft di Zugehöringen legati dallo stesso desiderio di irresponsabilità e
62
Il negativo e l’attesa
di alleggerimento: “questa collettività (Kollektivität)”, scrive Welzer, “libera da ciò che la società individualizzata esige e impone ai singoli” (Wel2 267). Su questa profonda esigenza fanno leva le parole pronunciate da Himmler a Posen: “Noi avevamo il diritto morale, avevamo l’obbligo dinanzi al nostro popolo (unserem Volk) di uccidere un popolo che ci voleva uccidere” (Wel2 266). Sono parole di un discorso su cui ritorneremo a proposito della questione della necessaria priorità del negativo e che Welzer a sua volta riporta nelle pagine conclusive del suo saggio sui Täter. Questo discorso infatti contiene quel famigerato passaggio in cui il capo delle SS dice: l’“aver sopportato tutto ciò e, fatta eccezione per le umane debolezze, esser rimast[i] persone decenti, è ciò che ci ha resi duri (das hat uns hart gemacht)” (Wel2 266 cn). Ora, questa potenzialità che il Reichsführer delle SS scorgeva nella Tötungsarbeit, nel lavoro ben fatto consistente nel massacro delle persone, questo “grösste Potential zur Unmenschlichkeit”, insomma questo potenziale insito nella Gewalt, nella violenza disumana, costituiva esattamente uno dei parametri che, secondo Welzer, determinavano la percezione, l’interpretazione e le finali conseguenze sul piano etico delle azioni compiute dai Täter, dai massacratori: “la violenza in sé”, scrive infatti Welzer, “non è solo distruttiva (nicht nur destruktiv), ma, per quelli che la praticavano, aveva anche un’intera serie di funzioni costruttive (eine ganze Reihe konstruktiven Funktionen)” (Wel2 263). Tutto ciò induce allora a ritenere assieme a Goldhagen che quello promesso dai nazisti non era affatto un “umanesimo illuminato”, ma un umanesimo oscurato, un umanesimo alla rovescia. La cultura che fu “capace di produrre quei volenterosi assassini” (Gol 473), cioè di trasformare uomini comuni in spietati esecutori degli ebrei, fu proprio quella che li aveva educati alla spietatezza, a quella freddezza e a quell’indifferenza che consentiva loro di rimanere impassibili di fronte al massacro degli innocenti, un massacro che anzi veniva percepito “con fredda soddisfazione come un contributo alla distruttiva ricostruzione della nuova Germania, e del nuovo ordine tedesco in Europa” (Gol 474). Si sbaglierebbe, però, afferma lo storico, se si ritenesse che i tedeschi comuni abbiano accolto con indifferenza la proposta genocidiaria avanzata dal governo nazista, perché al contrario essi “contribuirono al pro-
L’odio paranoico63
gramma eliminazionista, e persino allo sterminio […], si mostrarono entusiasti dei provvedimenti contro gli ebrei” (Gol 455)17. Prima che dai nazisti e dalle SS, il genocidio ebraico – che non è affatto inspiegabile, sostiene Goldhagen – è stato realizzato dai tedeschi, senza i quali “non si dà Olocausto” (Gol 5-6). Più che “nazisti” o “SS”, egli preferisce definire i massacratori semplicemente “tedeschi”. Prima ancora che dalla decisione hitleriana, infatti, secondo questo studioso, l’Olocausto fu causato dall’antisemitismo eliminazionista dei tedeschi (Gol 9), da essi assunto come un assioma indiscusso, specie durante il nazismo. Ecco perché, visto l’alto numero di persone che hanno contribuito alla sua realizzazione, l’Olocausto si può “concepire come un progetto nazionale tedesco” (Gol 12, 421). La mentalità nazista o, come dice Goldhagen, la “mente nazificata” (Gol 19), è quella in cui la necessità del negativo viene intesa come una, se non addirittura come la più importante delle suaccennate funzioni costruttive, in particolare come imprescindibile presupposto pedagogico-culturale, come strumento di distanziamento dall’azione genocidiale18 e soprattutto come giustificazione per il modo eccessivo in cui, anche per libera iniziativa degli esecutori, il massacro veniva perpetrato. Esecutori che, sostiene Goldhagen, in sintonia su questo punto con Browning, erano perlopiù uomini comuni, tedeschi comuni, dei quali i tedeschi nazisti hanno saputo sfruttare le potenzialità massacratorie nei confronti
17 Alcuni storici, peraltro, precisa Browning, ritengono che il concetto di indifferenza “sia inadeguato a spiegare fino a che punto la popolazione avesse introiettato l’antisemitismo nazista” (C. R. Browning, Ordinary Men: Riserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland, tr. it. Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Einaudi, Torino 1999, p. 215). Inoltre, mentre per Goldhagen tutti i tedeschi, anche solo con il loro silenzio, hanno appoggiato la politica razziale nazista, compreso lo sterminio degli ebrei, per Browning invece c’è una “sostanziale distinzione tra i nazisti convinti e la popolazione nel suo complesso”. In particolare – ma molte altre sono le differenze tra i due storici riguardo all’interpretazione delle fonti relative al Battaglione 101 –, mentre per Goldhagen il denominatore comune tra la maggioranza della popolazione e i nazisti era l’antisemitismo razziale eliminazionista, per Browning era l’avversione per il Trattato di Versailles e l’anticomunismo (ivi, p. 216). 18 Alla Rollerdistanz, intesa come innere Distanzierung, Welzer dedica la prima parte (Massenmord und Moral) del suo saggio sui Täter, in cui affronta il tema della morale in rapporto agli stermini di massa.
64
Il negativo e l’attesa
del popolo ebraico, ritenuto storicamente, religiosamente e culturalmente nemico, e non solo per l’accusa di deicidio. I volenterosi carnefici tedeschi si comportarono come se ad ogni loro personale decisione di alzare l’asticella della violenza e della crudeltà contro gli ebrei dovesse comportare una premiazione, un riconoscimento al valore da parte delle alte sfere del governo nazista. E ciò anche quando le armate tedesche battevano dappertutto in ritirata. Un comportamento a cui essi dovevano ricorrere ad ogni nuovo massacro per far vedere agli altri e a sé stessi fino a che punto sapessero resistere dinanzi a quella situazione, da essi peraltro accettata. Massacri vissuti, dunque, come una continua messa alla prova della loro forza interiore, della loro abilità e delle capacità richieste per poter svolgere bene quel lavoro, per poter fronteggiare un estremo sempre più al limite della sopportabilità, per poter provare a sé stessi fino a che punto sarebbero stati disposti a tacitare la propria coscienza in nome del popolo tedesco. Per vedere insomma se sapevano, come era stato loro insegnato, “mantenere i nervi saldi” nel “fervore della lotta”19. Una messa alla prova che si poteva sperimentare sul popolo ebraico considerato dalla storia dell’Occidente cristianizzato come nemico, come vittima predestinata, come capro espiatorio da cui liberarsi il più in fretta possibile. “Questa gente”, diceva infatti Himmler nel suo discorso di Posen ai capi del partito nazista, “deve sparire dalla faccia della terra”. Una tale frase (che Goldhagen pone come esergo alla parte seconda del suo saggio) esprime solo un’intenzione che presuppone una volontà disponibile alla sua realizzazione. Questa realizzazione si rende possibile con una disponibilità culturalmente legittimata e motivata. La cultura che legittima tale disponibilità non riguarda solo la religione e la politica, non è legata cioè solo all’antisemitismo razziale 19 Sono le parole con cui un direttore scolastico, nel 1935, si congedava in una lettera inviata a Julius Streicher, il fondatore del Der Stürmer, un settimanale nazista. In questo giornale, Streicher (la cui influenza sui bambini tedeschi, dice Erika Mann, fu “considerevole”) metteva alla pubblica gogna le persone che manifestavano vicinanza verso gli ebrei (cfr. E. Mann, School of Barbarians. Education under the Nazis (New York 1938), Die Schule der Barbaren (Amsterdam 1938), tr. it. dal tedesco di M. Margara, La scuola dei barbari. L’educazione della gioventù nel Terzo Reich, Giuntina, Firenze 20182, pp. 96-99).
L’odio paranoico65
ed eliminazionista, ma concerne anche un aspetto per nulla secondario, quello relativo alla severa pedagogia tedesca. I nazisti hanno infatti saputo sfruttare e sviluppare questa loro pedagogia, la quale era finalizzata a sopportare il dolore e a trarne vantaggi per la propria formazione psicologica. Ecco a tal riguardo cosa diceva Hitler, “l’architetto assoluto della distruzione degli Ebrei” (Hil 1049): La mia è una pedagogia dura. La debolezza dev’essere bandita. Nelle mie cittadelle dell’Ordine crescerà una gioventù di cui il mondo dovrà aver paura. Io voglio giovani violenti, dominatori, temerari e crudeli. I giovani devono essere tutto questo. Devono sopportare il dolore. In loro non ci dev’essere debolezza o gentilezza alcuna.20
L’effettiva eliminazione delle persone presupponeva quel carattere duro educato al superamento delle asprezze della vita e alla freddezza dinanzi al pericolo della morte. È proprio a questo fondamento pedagogico che si riferivano sia Hitler sia Himmler nei loro discorsi quando pensavano di progettare, realizzare e giustificare i loro crimini contro gli ebrei e contro l’umanità. È esattamente in questo profondo nucleo di educazione prussiana che essi sapevano di trovare quell’energia che avrebbe consentito a loro e ai tedeschi di compiere lo sterminio del popolo ebraico. Una volta resosi disponibili ad operare all’interno del sistema concentrazionario, i volenterosi carnefici, uomini o donne che fossero, diventavano avidi di negativo, nel senso che provavano piacere nel constatare quanta morale umanitaria e solidaristica erano in grado di negare ad ogni operazione brutale, ad ogni crudele massacro. Inteso ad esempio come punizione violenta, il negativo crudele veniva praticato anche se i deportati svolgevano, quando potevano, il loro lavoro secondo gli ordini ricevuti, cioè fatto bene. Essi, dice Goldhagen, venivano puniti “per aver fatto cose che i tedeschi stessi li avevano costretti a fare” (Gol 358). Ecco l’essenza della necessità del negativo: rendere negativo, e quindi punibile, qualcosa che in sé non lo è affatto o necessariamente. Sia nei campi che nelle marce della morte, scrive Goldhagen, la sofferenza delle vittime “non era quasi mai necessa20 Passo citato da Alice Miller in La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 127.
66
Il negativo e l’attesa
ria” (Gol 362 cn). Era cioè del tutto inutile. Ma sia quei campi sia quelle marce sia quei ghetti erano stati istituiti e attivati dallo Stato nazista allo scopo di sterminare il popolo ebraico21, e quindi quella sofferenza – quel negare ad esempio alle deportate di Helmbrechts, costrette alla crudele marcia della morte, il cibo che alcuni civili tentavano di porgere –, ebbene quel negativo di sofferenza era per i crudeli uomini comuni ariani assolutamente utile, imprescindibilmente necessario. Tanto, diceva Alois Dörr, comandante di quel Lager (sotto-campo di Flossenbürg), “Più ebrei muoiono, meglio è” (Gol 374). Inoltre, sottolinea Goldhagen, il fatto che ci fossero delle guardie che si vantassero con i compagni (ma anche nelle lettere ad amici e parenti) di quante ebree avevano ucciso in un solo giorno, “dimostra che gli omicidi venivano giudicati moralmente positivi dalla comunità sociale di cui facevano parte” (ibid.), erano considerati cioè imprese degne di lode (Gol 380). Questa forse, ipotizza lo storico, una delle possibili motivazioni che stimolavano quei tedeschi a compiere quelle atrocità. E, come si è visto, nonostante abbia dichiarato che la Shoah non è inspiegabile, e che ravvisi nell’antisemitismo eliminazionista tedesco una delle cause fondamentali dell’Olocausto, egli non può tuttavia esimersi dal ravvisare anche una certa imperscrutabilità a fronte della crudeltà manifestata dagli uomini comuni tedeschi nei confronti degli ebrei. In una nota niente affatto marginale, egli infatti scrive: Per quanto fosse alla base del loro profondo odio per gli ebrei e dell’impulso a farli soffrire, l’antisemitismo dei tedeschi non basta ovviamente a spiegare la predisposizione degli individui alla crudeltà, né la gratificazione che molti ne traggono. La crudeltà dei tedeschi verso gli ebrei fu tanto immensa da risultare quasi imperscrutabile. (Gol 594 nota 62 cn) 21 Tutte quelle riserve che i nazisti mostrarono nell’istituzione dei ghetti in Germania non le ebbero assolutamente in Polonia, nei cui territori dovevano essere rinchiusi, in vista dello sfruttamento e del definitivo sterminio, circa due milioni di Untermenschen, di sotto-uomini: così i tedeschi chiamavano gli ebrei polacchi. Grazie al contributo involontario dei Consigli ebraici, la burocrazia tedesca “resuscitò in Polonia il ghetto medievale, interamente tagliato fuori dal mondo” (Hil 192-193). Anche il clero cristiano tedesco (e non solo tedesco) rientrava in quella comunità che contribuì alla distruzione del popolo ebraico, anche solo per aver fornito ai nazisti “i documenti determinanti la discendenza” (Hil 1076).
L’odio paranoico67
Una possibile spiegazione di questa predisposizione andrebbe forse ricercata su un piano culturale, apparentemente distante dai brutali fatti della realtà. Ad esempio, come si è accennato nell’Introduzione e come vedremo meglio più avanti, nella filosofia di Nietzsche: non solo in quella annunciata nella Nascita della tragedia, con il vitalismo dionisiaco e con il culto per il dolore, ma anche e soprattutto in quella prospettata in Umano, troppo umano, con le auspicabili ricadute nella barbarie, come pure in quella sinteticamente espressa sia nell’Epilogo degli scritti raccolti in Nietzsche contra Wagner, sia in Ecce homo (Perché sono così saggio, 2), dove, com’è noto, a un certo punto si dice che egli, il filosofo stesso, deve la sua “höhere Gesundheit”, la sua superiore salute, il suo essere benriuscito, al fatto che tutto ciò che non lo uccide lo rende stärker, lo rafforza, lo rende “più forte!”. Oppure quella possibile spiegazione si può rintracciare, come si è pure accennato, sia nei celebri versi hölderliniani di Patmos, in cui si tessono le lodi salvifiche del Gefahr, del pericolo, sia nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, ove il culto della necessaria priorità del Negativ fa di quest’ultimo un principio dialetticamente ontologico. Non per nulla il progetto eliminazionista, cioè il negativo per eccellenza, restava per i tedeschi necessario, prioritario e prevalente rispetto agli stessi obiettivi bellici. Prioritario ad esempio rispetto alla produzione bellica che i nazisti garantivano anche all’interno dei campi e dei sotto-campi. Quel progetto era sicuramente più importante della stessa guerra e dei suoi possibili esiti. A tutti i livelli istituzionali, scrive Goldhagen, “la sofferenza degli ebrei” aveva addirittura la “priorità […] rispetto alla produttività”. E ciò perché la “brutalità […] strutturava il modello stesso della loro [dei tedeschi] esistenza” (Gol 348), cioè il modello etico e pedagogico che essi, più e meglio di altri, hanno saputo ricavare dal principio della necessaria priorità del negativo. L’esperienza assurda e disumana dei Lager rivela quindi la “positività” etica e formativa che, per puro sadismo, per odio o per spirito di vendetta22 contro gli ebrei, i tedeschi sapevano trarre dal negativo, creandolo opportunamente 22 In effetti soprattutto all’odio, al furore e alla vendetta i nazisti educarono i giovani tedeschi (cfr. G. Ziemer, Education for Death: The Making of the Nazi (1944), tr. it. a cura di B. Maida, Educazione alla morte. Come si crea un nazista, Castelvecchi, Roma 2016, cit., pp. 30, 49, 66, 86, 90, 94, 96, 98).
68
Il negativo e l’attesa
anche quando – ecco la specificità della mentalità nazificata – non ve ne era affatto bisogno, anche quando cioè la sofferenza altrui che esso implicava si poteva tranquillamente evitare. Certo, fine ultimo del progetto razziale tedesco era un’Europa judenrein. Ma per poterlo raggiungere e realizzare occorreva che il Volk, il popolo völkisch tedesco, a seconda delle competenze di ogni singolo Volksgenosse, si rendesse anzitutto disponibile in tal senso. E proprio questa disponibilità era ciò che in tale popolo in particolare si è andato nel tempo via via strutturando sulla base di quel principio che vede nel negativo la condizione necessaria per ottenere una qualsiasi forma di positivo. Un principio che, ben lungi dall’essere riconducibile alla sola cultura tedesco-nazista, costituisce invece, come si è detto, uno dei fondamenti della cultura occidentale che proprio il folle progetto nazista contribuirà drammaticamente a rivelare. Sia il saggio di Goldhagen (che è del 1996) sia quello di Welzer (che è del 2005) si pongono come scopo l’analisi dei Täter, cioè dei realizzatori dell’Olocausto, per tentare di capire, scrive ad esempio lo storico statunitense, se “uccisero di propria volontà […], che cosa li indusse a uccidere […], da che cosa fu mossa quella motivazione” (Gol 389). Secondo Goldhagen la motivazione fondamentale che spingeva i tedeschi a un eccesso di crudeltà inutile nello svolgimento del genocidio ebraico consiste nell’“odio incontenibile per gli ebrei”, odio prodotto dall’“antisemitismo razziale eliminazionista”, coltivato e accumulato nel tempo e divenuto alla fine una vera e propria “struttura cognitiva” comune all’intero popolo tedesco (Gol 416-419). Quest’odio, specie alimentato dall’idea che il bolscevismo, con il quale la Germania aveva ingaggiato uno scontro apocalittico, fosse “un’invenzione degli ebrei” (Gol 408), fece sì che, nonostante i precisi ordini impartiti da Himmler verso la fine della guerra per far sospendere le operazioni, gli alacri carnefici di Hitler perseverassero ugualmente nella loro inutile brutalità per cercare di portare a termine nel miglior modo possibile il loro lavoro, cioè lo sterminio del popolo ebraico. E ciò fino a poche ore prima della disfatta della Germania. Ora, la spiegazione che Goldhagen ricerca per le eccessive e superflue crudeltà a cui i massacratori si abbandonavano senza alcun controllo e quindi per iniziativa personale – lo storico parla addirittura di “passione individuale” (Gol 402), di “desiderio di massacrare”, di “desiderio di uccidere” (Gol 410-411) –, crudeltà che erano spesso, come si è detto, oggetto di
L’odio paranoico69
vanteria tra colleghi, quasi per fare a gara tra chi sapeva ucciderne di più, per far vedere fino a che punto si era in grado di resistere dinanzi all’orrore, fino a quale profondità si era capaci di inabissarsi in esso, quali limiti si era disposti a superare; ebbene tutta questa incontenibile ed entusiastica volontà di orrore, tutto questo desiderio sfrenato, incontrollato e legittimato di creare del negativo quando sembrava del tutto evidente che di esso non ve ne fosse affatto bisogno, quando sembrava che sarebbe risultato del tutto inutile e improduttivo, ecco noi crediamo che tutto ciò trovi verosimilmente la sua spiegazione proprio nel principio della necessaria priorità del negativo, in quanto principio che, secondo il pensiero hegeliano e nietzscheano, consente un accrescimento della forza. È infatti solo per poter provare, dopo, in sé stessi il piacere della crescita di forza, che prima, pur trasgredendo gli ordini (anzi, proprio per averli trasgrediti), gli uomini comuni si rendevano disponibili al massacro di vittime predestinate; anche se, volendo, avrebbero potuto essere esonerati da quell’incarico senza alcuna grave conseguenza punitiva. Parallelamente all’odio verso gli ebrei, dunque, un’altra importante motivazione spingeva gli esecutori dell’Olocausto ad alzare l’asticella della crudeltà con i propri cinici capricci e con le loro trovate bizzarre (per usare due espressioni di Welzer). Era il piacere di poter provare su di loro e di fronte agli altri, dinanzi cioè alla società antisemita e nazificata, da cui per lo più i Täter provenivano, l’accresciuta capacità di fronteggiare, da uomini duri, un negativo da essi stessi provocato, un negativo non richiesto dalle circostanze e quindi non necessario, ma che essi però ritenevano prioritariamente necessario per poter ricavare il proprio positivo. Da questa prospettiva del negativo hanno pertanto ragione sia la Arendt sia Welzer sia Goldhagen quando insistono sulla necessità di indugiare sulla fenomenologia della crudeltà (Verweilen beim Grauen): “Non si devono soltanto spiegare i massacri”, dice infatti quest’ultimo, “ma anche il modo in cui vennero effettuati” (Gol 18). Non di deve respingere come “superficiale”, osserva la Arendt, l’“indugio sugli orrori” (Are1 604 cn – l’autrice riprende l’espressione da uno scritto di Bataille del 1948). “Se è vero”, scrive la filosofa, “che i campi di concentramento sono l’istituzione più conseguente del regime totalitario, l’“indugio sugli orrori” appare indispensabile per comprenderlo”. Ed è proprio a questa idea della
70
Il negativo e l’attesa
Arendt che Goldhagen dà seguito e che sviluppa nel suo saggio. Tuttavia nella Arendt troviamo una riflessione in più, una interpretazione che uno storico non può dare. La comprensione dell’orrore, dice con molta chiarezza la filosofa, non è possibile né con le memorie né con le testimonianze oculari prive di comunicativa (Are1 604-605) (e qui forse allude anche a quella riportata da Ka-Tzetnik al processo Eichmann), poiché in esse “vi è una tendenza intrinseca a staccarsi dall’esperienza”, dal “terribile abisso”, e ciò proprio quando i ricordi dei testimoni appaiono “incredibili sia ad essi che al loro pubblico”. Ma ecco, aggiunge la Arendt: “Solo l’angosciata immaginazione [cn] di chi è stato infiammato da tali resoconti […] può permettersi di indugiare e di riflettere sugli orrori”. Un indugio riflessivo, precisa la studiosa, che certo non rende “gli uomini migliori o peggiori”, né serve, come s’è visto sia dopo il primo che dopo il secondo conflitto mondiale – dopo Auschwitz! –, ad evitare altre guerre e altre violenze, a prescindere dalle “differenziazioni politiche di destra e sinistra”. “In ogni caso”, osserva ancora la Arendt, con un’annotazione che abbiamo già riportato in esergo, l’immaginazione dell’angoscia ha il grande vantaggio di dissolvere le interpretazioni sofistico-dialettiche della politica, che sono tutte basate sulla superstizione secondo cui qualcosa di bene potrebbe scaturire dal male. Tali acrobazie dialettiche avevano almeno la parvenza di giustificazione finché il peggio che l’uomo poteva infliggere a un uomo era l’assassinio (cn).
E in fondo con il nostro lavoro e con la nostra critica alla necessaria priorità del negativo è esattamente alla dissoluzione di tali superstizioni dialettiche che abbiamo voluto contribuire. Una delle condizioni che Goldhagen indica per comprendere il genocidio ebraico consiste proprio nell’angosciata immaginazione suscitata dall’immedesimazione con coloro che vissero la terrificante esperienza dell’Olocausto. Non solo però con le vittime. Anche con gli stessi carnefici, nei quali lo studioso, attraverso una “microfisica dell’Olocausto” (Gol 26), vuole appunto ricercare le “condizioni culturali ed etiche”, la “struttura di conoscenze e valori” (Gol 22), ossia le motivazioni profonde che li hanno spinti a compiere quelle azioni tremende. Giacché “deve accadere qualcosa nel profondo di un uomo per trasformarlo in volontario realizzatore di uno sterminato eccidio” (Gol 430). In questa
L’odio paranoico71
immedesimazione fenomenologica rientrano ad esempio, gli “schizzi di sangue”, i “frammenti di ossa e di cervello che spesso ricadevano sugli assassini, insozzandone la faccia e i vestiti”; oppure “le grida e [i] lamenti di gente in attesa del massacro imminente o in preda agli spasimi della morte che riecheggiano nelle orecchie dei tedeschi” (Gol 24 cn). Questo preciso senso dell’attesa di fronte all’imminenza e all’inevitabilità della propria morte si può trovare anche nella seguente testimonianza di Terenzio Magliano, deportato nel campo di Mauthausen: Con la stessa apatia alcuni miei compagni assistettero un giorno al bestiale massacro di 50 ebrei. Erano stati accompagnati al bagno dalle SS ubriache, le quali dopo un poco si erano stancate del desolante spettacolo offerto dagli scheletri viventi rivestiti di pelle. Troppo monotona era la visione di quella anatomia della fame! Le SS provvidero a variarla con il loro tradizionale buon gusto. Con gesto imperioso alcuni prigionieri furono mandati a prendere delle scuri. Quattro si allontanarono gocciolanti, tragici e comici nello stesso tempo, nudi con i piedi infilati nei grossi zoccoli di legno. Tornarono recando a stento quattro grosse accette ed ebbero subito il premio alla loro fatica. Furono ammazzati così, all’improvviso, e non dovettero come i loro compagni aspettare in fila e tremando che l’SS ubriaco si divertisse a spaccare le loro teste. Uno spettacolo che ora è impressionante raccontare.23
Un episodio terribile che era in qualche modo già presente nell’immaginazione, cioè in uno dei Pensées di Pascal: Ci si figuri un gran numero di uomini in catene, tutti condannati a morte, alcuni dei quali siano sgozzati ogni giorno sotto gli occhi degli altri, dimodoché i superstiti vedano la propria sorte in quella dei loro simili e aspettino il loro turno, guardandosi l’un l’altro con dolore e senza speranza. Tale l’immagine della condizione degli uomini.24
Un’immagine analoga è quella che Welzer riporta dalle dichiarazioni di alcuni membri delle Einsatzgruppen. Essa ci mostra una singolare situazione nella quale i nazisti esercitavano un potere assoluto sugli esseri umani. Senza alcuna distinzione, questi si po23 T. Magliano, Mauthausen, cimitero senza croci, Stampa STIP, IVª ed. a cura dell’ODIP, Torino 1972, pp. 85-86 cn. 24 B. Pascal, Pensieri, Mondadori, Milano 1985, IV. Il problema dell’uomo, 191, p. 182 cn.
72
Il negativo e l’attesa
tevano rastrellare, mettere in fila, denudare e far aspettare (warten lassen) in coda il proprio turno mentre altri dinanzi a loro venivano continuamente abbattuti con armi da fuoco. Quando toccava ad essi venire uccisi, si dovevano semplicemente distendere sopra i corpi ormai senza vita (o quasi) degli altri, in modo da rendere più facile, più veloce e più apprezzabile il lavoro dei massacratori (Wel2 205)25. La meticolosa sistematicità e l’impegno costante che i nazisti dimostrarono nel loro articolato processo di liberazione dal popolo ebraico26, sia in suolo tedesco sia nei territori annessi e conquistati – un processo che, una volta burocraticamente attivato, suggeriscono le dettagliate analisi di Hilberg, non poteva che svilupparsi e configurarsi come definizione dell’ebreo, espropriazione, concentrazione e sterminio –, ebbene questo premeditato processo di distruzione degli ebrei d’Europa costringe a ritenere che esso non poteva essere assimilabile a nessuna delle numerose altre esplosioni di odio antisemita verificatesi nella storia europea, ma doveva invece trattarsi di un progetto più generale e più profondo, di un lavoro che da tempo attendeva di essere portato a termine, di un impegno insomma che, in modo silente e non così apertamente dichiarato come ora, specialmente con il pretesto del proseguimento della guerra mondiale, intendeva soddisfare le esigenze antisemite di tutta quanta l’Europa, quelle esigenze che le istanze etiche della civiltà avevano costretto al silenzio. “[L]a distruzione degli Ebrei”, osserva infatti Hilberg, “non si realizzò solo in esecuzione delle leggi e degli ordini, ma come conseguenza di una disposizione dello spirito, di un accordo tacito, di una consonanza e di un sincronismo” (Hil 53). Dopo aver affrontato la fase dell’espropriazione, la ricostruzione di Hilberg riguardante la successiva fase del concentramento con25 I nazisti – si apprende inoltre da un manoscritto anonimo di un membro del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau – preferivano fucilare le vittime “uno alla volta”, di modo che lo strazio dell’attesa dell’esecuzione fosse ancora più penoso della morte medesima. “Il tedesco”, scrive, “sa bene come straziare gli uomini e dominare il loro stato d’animo” (cfr. La voce dei sommersi, cit., p. 215 cn). 26 “Himmler”, annota a tal riguardo Hilberg, “aveva orrore del vizio, e più d’ogni altro non tollerava la corruzione”. Mostrava “una tendenza alla meticolosità che a volte sfiora[va] la pedanteria” (Hil 250, 204).
L’odio paranoico73
sente di avvertire l’emergere nei tedeschi della necessità di liberarsi in un modo o nell’altro delle migliaia di ebrei della Polonia occupata, del Protettorato di Boemia-Moravia e dello stesso territorio della Germania. Ma questa fase prevedeva già inevitabilmente anche quella della deportazione e della distruzione. Ed è probabile che la crudele durezza, cioè l’insensibilità mostrata dai massacratori delle Einsatzgruppen (Hilberg parla infatti di “crescente insensibilità nei confronti dell’assassinio di massa”) (Hil 317), fosse sollecitata proprio da questa pressione, da questa urgenza di liberarsi al più presto di persone che da lì a poco, cioè dopo il loro sfruttamento, non sarebbero più servite e a niente e a nessuno, persone che ora, dopo essere state cacciate dalle loro case, nessuno “sapeva in quale posto sistemare”. D’altronde, diceva Hans Frank, “tutti gli Ebrei d’Europa dovevano sparire” (Hil 213-215). Fu per l’ingovernabilità di questa situazione che, dice Hilberg, l’espulsione non aveva più come fine l’emigrazione, ma la distruzione, previo il concentramento e lo sfruttamento nei grandi centri di raccolta come Łódź e Varsavia. L’urgenza di liberarsi fisicamente degli ebrei divenne col tempo una necessità sanitaria, soprattutto quando, così come avverrà nei Lager, dopo essere stati sfruttati come manodopera da aziende esterne, molti di loro, anche a causa della denutrizione, si ammalarono di tifo. Fu a questo punto che il processo di distruzione degli ebrei – che è sempre un “processo graduale” (Hil 719) – passò dalla fase concentrazionaria nei ghetti a quella della deportazione e dello sterminio, realizzato sia attraverso le fucilazioni di massa sia nelle camere a gas e nei crematori. Certo, dice Hilberg, nei loro “massacri itineranti” (Hil 289), nelle loro “operazioni mobili di massacro” (Hil 290), le Einsatzgruppen “dovevano agire senza riguardo (rücksichtlos)” nei confronti degli ebrei, dei comunisti e dei partigiani (Hil 306). Ma ad esse, paradossalmente, era proibito operare come dei cani sciolti, erano vietate cioè le Einzelaktionen, le singole azioni, specialmente gli “atti selvaggi”, le “atrocità gratuite” (Hil 318), come pure il saccheggio delle persone appena uccise, a cui spesso si abbandonavano i loro collaboratori rumeni, giacché per i tedeschi anche la violenza, per essere più efficace, come lo stesso saccheggio, andavano controllati, calcolati e pianificati. Infatti, sottolinea Hilberg, “il divieto di saccheggio non impediva alle truppe le ‘re-
74
Il negativo e l’attesa
quisizioni’” (Hil 369)27. E ciò anche se i pogrom, che ogni tanto esplodevano nelle cittadine di volta in volta conquistate, venivano scatenati dagli stessi tedeschi. Per questi ultimi l’assassinio degli ebrei, scrive Hilberg, si doveva anzitutto intendere come “una necessità storica” (cn). Pertanto, “se un soldato uccideva spontaneamente un Ebreo, di sua personale iniziativa, senza un ordine preciso e mosso solo dalla sua voglia di uccidere, allora commetteva un atto fuori dalla norma, degno forse di un ‘Europeo orientale’ – d’un Rumeno, per fare un esempio – ma che comprometteva la disciplina e il prestigio dell’esercito tedesco” (Hil 336). Giacché buon soldato e nazista convinto è colui che sa dominarsi, “anche per uccidere”, colui che è padrone di sé stesso e non si abbandona agli eccessi. Tuttavia, volente o nolente, con il loro progetto sterminatorio i tedeschi hanno prodotto degli “eccessi”, hanno cioè stimolato una sorta di necrofilia non solo nei massacratori, negli attori, ma anche in quegli spettatori sempre più numerosi che traevano un certo “godimento dalla morte” degli altri (Hil 337). Quella stessa necrofilia che Erich Fromm aveva colto in Hitler28. Per quanto riguarda i massacratori, dice Hilberg, “Benché tutti avessero avuto una certa formazione, tuttavia nessuno si era offerto volontario per uccidere gli Ebrei. La maggior parte si erano ritrovati tra i ranghi degli uccisori per il solo fatto di essere inabili al servizio militare […]. Non erano certo giovani irresponsabili, ma uomini relativamente maturi. Molti dei quali con carichi di famiglia” (Hil 341). Per far fronte al loro lavoro e per non cadere in depressione, essi dovevano comunque far ricorso a una serie di “legittimazioni psicologiche”, che vanno da una terminologia adatta a definire gli eccidi, alle finzioni quali il “pericolo ebraico”, al “rischio del contagio”, agli stessi discorsi razzistici e utilitaristi di Himmler (“l’essere umano designa come buono quanto gli è utile, come cattiva ciò che gli nuoce”) (Hil 338-343). 27 “I Rumeni”, annota Hilberg, “si lanciavano regolarmente a capofitto nelle Aktionen […]. il modo in cui i Rumeni “conducevano le loro operazioni, evocano scene per le quali non si trova alcun equivalente nell’Europa dell’Asse”. Tale che, “in certi casi, gli stessi Tedeschi intervennero per porre fine a massacri che sembravano inammissibili, anche a un’istituzione così ferrea come poteva essere l’esercito tedesco” (Hil 752-753). 28 E. Fromm, The Anatomy of Human Destructiveness, tr. it. di S. Stefani, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano 1994, p. 462 ss.
L’odio paranoico75
4. La necessaria priorità del negativo come principio di formazione e di fortificazione Tuttavia, sebbene le esecuzioni fossero pianificate e strutturate secondo un modello tecnico prestabilito, proprio di fronte alla profonda differenza tra vittima e carnefice si poteva talvolta sentire anche qualche membro dei Battaglioni di polizia, particolarmente scosso dalle fucilazioni di massa a cui prendeva parte, confessare con indignazione che si rifiutava di compiere quelle porcate (Schweinerei), perché, diceva: “wir sind Soldaten und wollen kämpfen, aber nicht das tun”, siamo soldati e vogliamo combattere, non fare cose simili (Wel2 125-126). Anche un alto capo delle SS, nella Russia del 1944, si era lamentato con Himmler, dicendo: “Che soldati siamo noi qui! Dei nevrotici o dei bruti” (Entweder Nervenkranke oder Rohlinge) (Hil 1088). In effetti, una volta gettati in campo o dentro le fosse, i Täter dovevano solo uccidere quante più persone possibile senza creare intoppi nell’esecuzione di massa. La media, dice uno di loro, era di una persona al minuto (1 Person pro Minute), e più di questo non si poteva pretendere (Wel2 153). E in ciò, in effetti, essi non si potevano certo considerare dei veri soldati, quanto piuttosto persone normali che venivano sul fronte orientale per seguire dei corsi professionalizzanti, per imparare un mestiere, un lavoro, un’Arbeit, per diventare professionisti della Tötung, specialisti del massacro, capaci di uccidere nel modo più veloce possibile persone inermi e bloccate dall’angoscia con un preciso colpo alla nuca (Wel2 130). Grazie poi alla funzione esortativa che qualcuno di loro svolgeva facendo il primo passo, nel gruppo degli esecutori non solo si superavano le resistenze iniziali, ma in virtù proprio di queste figure esemplari, dice Welzer, si creava tra essi una sorta di sentimento morale di comunanza (gefühlte Gemeinsamkeit) (Wel2 131-132). D’altronde il problema dell’incertezza iniziale davanti a quel genere di lavoro veniva superato costringendo i fucilieri a concentrarsi sulle questioni tecniche della Tötungsarbeit, del lavoro distruttivo, cioè sull’efficacia o sull’efficienza delle esecuzioni (Wel2 140). In ogni caso i Täter non avrebbero potuto resistere all’orrore prodotto dalle loro esecuzioni se non fossero stati per tempo preparati dalla pedagogia della necessaria priorità del negativo, formati cioè all’eticità della violenza che è insita in ogni guerra – ammesso che quel massacro si
76
Il negativo e l’attesa
potesse chiamare “guerra”. Inoltre, per quanto in generale previste e ordinate, talora si creavano nelle fosse delle esecuzioni terribili situazioni che, per quanto estreme e infernali, tuttavia, dice Welzer, non erano mai caotiche (So grauenhaft die Situation in der Grube ist, sie ist kein Chaos) (Wel2 147)29. Al contrario, tutte le difficoltà che emergevano durante le esecuzioni venivano assunte come occasioni e stimoli per perfezionare il processo stesso (das situative Setting beständig zu verbessern). I problemi cioè erano considerati come un pretesto (Anlass) non già per mettere in questione l’intero processo, ma per migliorarlo, per perfezionarlo ulteriormente, per realizzare una gute Arbeit. E, per evidenziare ancora una volta l’inclinazione dei tedeschi a fare del negativo un pretesto dialettico per ottenere un positivo, anche il problema posto dalla presenza degli spettatori alle esecuzioni, più che intimidire incoraggiava e spronava i fucilieri a fare di più e meglio il loro lavoro, li esortava a migliorare le loro crudeli performance. Durante le esecuzioni lo spettatore, dice Welzer, giocava un ruolo non passivo (nicht passiv), ma attivo (die aktive Dimension der Zuschauens). Esso infatti non rappresentava più tanto un problema (Frage), ma un valore (Geltung). E in questo modo si aveva l’occasione per sperimentare nuove tecniche specifiche nel processo di distruzione (Wel2 147148, 205). E, a proposito della necessità del negativo o del valore formativo che gli stessi Täter attribuivano all’esperienza sconvolgente delle fucilazioni, “la prassi della violenza di un tale stato di cose – vissuta in modo fisico o emozionale – produceva qualcosa che prima non esisteva”. Produceva, cioè, dice Welzer, l’acquisizione di una nuova formazione, di una disposizione, di una capacità a cui il giovane fuciliere non avrebbe mai potuto ricorrere prima di quella esperienza, perché solo dopo una tale esperienza di violenza agita, solo in un simile contesto condiviso di violenza annientante, solo qui e ora egli poteva acquisire la forza per svolgere quel tipo di lavoro anche di proprio impulso, di propria iniziativa e 29 Le analisi di Welzer traggono spunto dal lavoro di Hilberg, a cui peraltro lo psicologo sociale dedica il suo saggio sui Täter. Ma dalle dettagliate ricostruzione burocratico-giuridiche dello storico egli ci spinge a scendere e a indugiare nell’orrore delle fosse (Verweilen beim Grauen suona infatti il titolo dell’altro suo precedente saggio a cui ci siamo rifatti) dove avvenivano gli spaventosi massacri, ci sollecita quasi a guardare negli occhi sia le vittime sia i carnefici sia gli spettatori.
L’odio paranoico77
volontariamente (er nun “aus eigenem Antrieb, aus eigener Initiative und freiwillig” agiert) (Wel2 151). Ma proprio questo trovare una Lösung, una soluzione a ogni Frage, a ogni eventuale problema sorto da un Negativ che i tedeschi hanno non già trovato, ma hanno invece volutamente determinato con la loro politica razziale – questo è il punto centrale della questione –; ebbene questa continua acquisizione di esperienze, di nuove capacità fisiche e psicologiche, come pure l’escogitazione di nuovi strumenti o di nuovi mezzi (Werkzeugen) per ottimizzare e perfezionare il processo di distruzione, e quindi per cogliere in esso un Positiv; ecco tutto questo, dice Welzer, non può essere affatto “incidentale” (beiläufig), ma piuttosto qualcosa di fondamentale, di Zentrale. Ogni innovazione “professionalizza il processo – questo è il nocciolo del lavoro distruttivo” (Und jede Innovation professionalisiert del Vorgang – das ist der Kern der Tötungsarbeit) (Wel2 153-154). Questo è, in altri termini, il nucleo di un negativo necessariamente e opportunamente ricercato da cui poter ricavare un positivo. Il negativo è la Tötungsarbeit. Il positivo la professionalizzazione e la formazione che ne derivano: è l’acquisizione dell’esperienza maturata durante l’efferata attività massacratoria; è l’arricchimento dell’individuo ottenuto attraverso la morte delle persone in vista dell’accrescimento di una volontà razziale di potenza. Non vogliamo però sfuggire a un’altra questione di fondo quando asseriamo che i tedeschi hanno non già trovato, ma determinato il negativo. Giacché si deve pur ammettere che essi, come si è detto all’inizio a proposito di Hitler, hanno in effetti trovato già ben radicata in Europa la ragione del loro negativo, della Tötungsarbeit. Hanno cioè trovato, sia in sé che fuori di sé, l’antisemitismo. Il quale, come si è anche accennato, era sorto a sua volta da una reazione a un falso problema emerso sulla scena della storia con la crocifissione di Gesù e con il successivo radicarsi di questa reazione attraverso lo sviluppo e la diffusione del cristianesimo dapprima in Europa e poi da qui, come cattolicesimo, in buona parte del mondo. Certo, specie in Germania l’antisemitismo religioso diventa antigiudaismo razziale. Altrettanto indubbio è che proprio con la loro odiosa politica razzista i tedeschi penseranno di poter approntare per la Judenfrage, cioè per il problema rappresentato dalla presenza degli ebrei in Europa, una Lösung, anzi una Endlösung, una soluzione definitiva e radicale rispetto a quelle precedenti, non solo per
78
Il negativo e l’attesa
la stessa Germania, ma anche per l’intero continente europeo. E in effetti, come si apprende dal saggio di Hilberg sulla Distruzione degli Ebrei d’Europa, è esattamente in questo modo che, anche per mero opportunismo, quasi tutti i paesi occupati dal Reich hanno accolto la singolare Lösung proposta ad essi dal Führer, organizzata da Heydrich, pianificata da Eichmann, proceduralmente resa possibile dalle burocrazie statali e messa infine dolorosamente in pratica dai Sonderkommando all’interno dei crematori. Molti e diversi tra loro apparvero subito gli aspetti positivi, cioè i vantaggi (economici, politici, territoriali, industriali e finanziari) che si potevano trarre da quella criminale Endlösung. Fortunatamente questa Lösung venne meno con la sconfitta del totalitarismo nazifascista. Resta tuttavia, come un’acquisizione storico-culturale, la logica dialettica su cui si regge il principio della necessaria priorità del negativo, un principio che dispone sempre alla ricerca di un positivo, cioè in definitiva di un guadagno, il quale risulta però ricavabile solo da un negativo che bisogna necessariamente premeditare, prevedere, anticipare e ovviamente realizzare. D’altronde, a proposito di questa Lösung e dei modi efferati in cui andava realizzata, dopo aver ricevuto l’ordine da Hitler, verso la fine dell’estate del 1941, di sterminare fisicamente gli ebrei (physische Vernichtung der Juden), Heydrich, con una lettera del 29 novembre 1941, convocò verso mezzogiorno diversi segretari di Stato e capi delle SS a una conferenza (realizzata il 20 gennaio 1942) in uno degli Uffici della Sicurezza del Reich sul lago di Wannsee per preparare, pianificare e attuare la soluzione finale della questione ebraica. Tutti gli invitati “sapevano che gli Ebrei dovevano essere deportati”, ma nella lettera “non si diceva loro quel che se ne sarebbe dovuto fare: era un aspetto che avrebbero dovuto risolvere da soli” (Hil 426 cn). L’antisemitismo tedesco, razziale ed eliminazionista, ha fatto della Germania il terreno fertile in cui i nazisti hanno potuto spargere i semi dell’odio in vista della realizzazione dell’Olocausto. Un antisemitismo che non ha permesso ai tedeschi di opporre a quel programma eliminatorio la stessa resistenza che buona parte di essi ha mostrato invece verso il progetto eutanasia. L’antisemitismo eliminazionista e razziale era dunque potenzialmente sufficiente a compiere il massacro degli ebrei. Per renderlo però non solo possibile ma anche necessario occorreva la legittimazione da parte dello
L’odio paranoico79
Stato, una condizione abilitante, dice Goldhagen (Gol 433), cioè una legislazione che dava modo ai Volksgenossen di sfogare in maniera regolata e coordinata il loro odio verso gli ebrei, cioè verso coloro che essi avevano imparato negli anni a vedere come pericolosi nemici del Volk e nei quali Himmler aveva ravvisato l’“Urstoff alles Negativen”, “il principio di tutto ciò che è negativo” (Gol 428). Quelle condizioni legislative, tuttavia, non avevano una funzione coercitiva, poiché i nazisti, dice Goldhagen, sapevano bene che “i tedeschi comuni condividevano le loro convinzioni” (Gol 434). “Uno degli aspetti più impressionanti del genocidio”, scrive infatti lo storico, “è costituito dalla facilità con cui i tedeschi – realizzatori diretti o no – compresero per quale motivo si chiedeva loro di ammazzare gli ebrei […]. Al di là delle considerazioni morali o utilitaristiche, ai loro occhi l’annientamento degli ebrei aveva senso” (Gol 419-420). L’antisemitismo eliminazionista e razziale, ossia la “volontà di uccidere gli ebrei”, era pertanto “profondamente radicata nella loro [di Hitler e dei suoi seguaci] concezione degli ebrei”, il che vuol dire, secondo Goldhagen, che una tale volontà omicida non è stata trasmessa ai nazisti dall’esterno, ma è sgorgata “spontaneamente dal loro intimo, spingendoli all’azione non appena se ne presentò l’opportunità” (Gol 173-174). Nel loro intimo quell’antica concezione antisemita, rinfocolata alla luce degli esiti della Prima guerra mondiale, ha avuto una maggior presa ed è scaturita in maniera più odiosa rispetto alla maniera latente in cui l’odio era pur radicato nella coscienza dei tedeschi in generale. Coscienza nella quale quest’odio ha quindi potuto trovare terreno fertile quando, dopo aver creato le condizioni di fattibilità, il Führer chiese ai tedeschi di passare dalla teoria ai fatti, dalle parole all’azione, dal progetto alla sua realizzazione. Così com’era successo allora, cioè all’indomani della Prima guerra dei Trent’anni, anche ora, dopo il Primo conflitto mondiale, ossia all’inizio della Seconda guerra dei Trent’anni, si tentava di trasformare tutto il negativo imposto (in maniera un po’ miope) dagli Alleati alla coscienza tedesca in positivo, cioè in potenziale energia vendicativa utile alla rinascita da quelle ceneri. In tal modo, quel negativo appariva di nuovo – a conferma del principio che lo sottende – come una condizione necessaria, senza della quale sarebbe stato impensabile e quindi impossibile quella tanto agognata rinascita, cioè quel positivo, la riaffermazione della nazione tedesca. Ma per poter trasformare quel
80
Il negativo e l’attesa
negativo in positivo non sarebbe bastata solo l’umiliazione provata dalla coscienza tedesca con la resa di Rethondes e con il Trattato di Versailles. Questa coscienza necessitava di un negativo ancora più estremo, più pericoloso e quindi dialetticamente più corroborante e salvifico. Necessitava di quella specie di negativo mortifero cui aspiravano già ad esempio i Freikorps. Da qui la necessità di mettere alla prova i limiti della coscienza morale tedesca, la quale, a partire almeno dalla pace di Westfalia, aveva già imparato a trarre intimamente forza proprio dal superamento di quei limiti. “Si trattò”, scrive Goldhagen, “di un’alterazione profonda, rivoluzionaria, della sensibilità, avvenuta in Europa in pieno Novecento” (Gol 474). In questo sforzo di recupero interiore, in questa loro “rivoluzione cognitivo-morale, che ribaltò processi consolidati in secoli di storia europea” (Gol 473), i nazisti, oltre che nell’antisemitismo luterano, trovarono un notevole sostegno sia nell’idealismo hegeliano – “fu la coscienza a determinare l’essere”, sottolinea infatti Goldhagen sintetizzando il pensiero nazista che è alla base dell’Olocausto (Gol 472) –, sia nella filosofia tragica nietzscheana della necessità dell’errore – la quale, anche per altre questioni, beninteso, intendeva porsi esplicitamente al di là del bene e del male –, sia nell’ontologia heideggeriana con il suo culto del Dasein, dell’Esserci autentico capace di sopportare l’Angst, l’angoscia dinanzi al proprio Sein zum Tode, al proprio essere per la morte e di sfuggire così alla chiacchiera, alla curiosità e alla dispersione della Zivilisation. Com’è noto, infatti, il nazionalsocialismo ha letto a modo proprio il pensiero del teorico dell’Übermensch, pensiero che, pur con tutte le riserve, presentava e si prestava ad ambiguità interpretative. Ripristinandola, cioè riprendendola dal passato e rinfocolandola nel presente, la Judenfrage ha offerto pertanto al nazismo la possibilità “giobica” di rimettere la coscienza dei tedeschi alla prova di un più estremo negativo, al fine di irrobustirla e di generare in essa quel positivo psicologico capace di trasformare la nuova sconfitta in una condizione necessaria per la vittoria. L’Olocausto, ossia l’eliminazione effettiva degli ebrei d’Europa, era certo un possibile esito tra quelli cui poteva dar adito l’antisemitismo diffuso in tutto il vecchio continente. Era, per dirla con Goldhagen (Gol 473), la pars destruens della rivoluzione nazionalsocialista. Ma per i nazisti esso rappresentò anche la pars construens della loro rivoluzione, perché fu per essi al contempo una sorta di “palestra” che consentì loro di esercitarsi in
L’odio paranoico81
vista della creazione di una nuova morale, di un ennesimo uomo nuovo, di un superuomo, di un Dasein appunto, di una nuova coscienza capace di sopportare con inaudita freddezza e distacco l’angoscia e i turbamenti che – lo sapeva bene Himmler – l’eliminazione pianificata di migliaia di ebrei avrebbe potuto provocare negli esecutori, prima di diventare ovviamente una routine eliminatoria. “La vista di un ebreo sofferente, o di un cadavere appena massacrato”, osserva Goldhagen, “non suscitava, e in base all’etica del campo non doveva suscitare, alcuna solidarietà; come voleva la morale nazista, veniva invece percepita con fredda soddisfazione come un contributo alla distruttiva ricostruzione della nuova Germania, e del nuovo ordine tedesco in Europa” (Gol 474 cn). Gli ebrei, peraltro, secondo questa morale meritavano quella fine atroce perché erano considerati dai tedeschi come unici responsabili della guerra e delle umilianti sconfitte subite dalla Germania, nonché delle tensioni sociali e della crisi economica del dopoguerra. Più che della benzina per i loro Panzer, i nazisti, per ricaricarsi psicologicamente, avevano quindi necessariamente bisogno dell’esperienza disumanizzante del negativo maturata attraverso la violenza inaudita sugli ebrei. Ecco perché i massacri e le violenze durarono sino alla fine della guerra, anche quando per loro era già perduta. Ecco perché sino alla fine, con quelle assurde marce della morte da un Lager all’altro – incrociando forse quei confortevoli Jugendheime, quei “rifugi giovanili” che il Reich aveva creato in tutta la Germania apposta per questa Jugend, per accoglierla durante le lunghe marce alle quali era stata allenata30 –, ecco perché i nazisti generavano in piena coscienza tutto quel negativo e quella sofferenza, pur non essendocene di fatto più bisogno. Un sofferenza, pertanto, solo in apparenza del tutto inutile, giacché serviva invece per rinforzare e sostenere la loro psiche. Oltre che prioritario rispetto alle stesse ragioni belliche, quell’orrendo negativo era dunque divenuto per loro non solo abituale, ma anche indispensabile e quindi necessario. Poiché le squadre della morte, cioè i plotoni impiegati per lo sterminio degli ebrei attraverso le fucilazioni di massa, erano costituite di giorno in giorno esclusivamente da volontari, per i quali quindi “non occorrevano sollecitazioni né permessi per indurli a uccidere”, 30 Cfr. G. Ziemer, Educazione alla morte, cit., p. 125.
82
Il negativo e l’attesa
se ne deve dedurre, dice Goldhagen, che ciò che li induceva a svolgere quel lavoro ripugnante era l’odio che “avevano interiorizzato” per gli ebrei (Gol 206), la profonda avversione che avevano avidamente ingurgitato come una specie di schwarze Milch, di “latte nero”, per ricordare un celebre verso della Todesfuge di Celan. “È sorprendente”, in effetti, aggiunge lo storico, la “tanta autonomia [che essi avevano acquisito] nello svolgimento delle operazioni” (Gol 207). Proprio da quel “latte nero”, da quell’alimento mortifero – di cui Erika Mann, ne La scuola dei barbari, ci fornisce le specifiche – essi trassero l’energia per decidere di far parte di uno di quei plotoni, sebbene, una volta deciso, avessero anche la possibilità di uscirne senza andare incontro a punizioni. In quel “latte nero” ci doveva essere un componente, un eccipiente, un eccitante davvero efficace per stimolarli a simili massacri. Sicuramente qualcosa che sin da bambini avevano appreso in famiglia, a scuola, nelle associazioni paramilitari giovanili. Goldhagen lo ravvisa nel “modello cognitivo” dell’antisemitismo razziale tedesco, in ciò che potremmo definire anche come modello culturale o, per dirlo con la Arendt, come una superstiziosa pedagogia dialettica che educava non solo a ricavare un bene da un male, un positivo dal negativo, ma anche a produrre opportunamente e necessariamente un negativo al fine di poterne trarre un positivo, un beneficio, ritenendo in sé logicamente giusto, secondo un calcolo dialettico, il fatto che a un più di negativo corrisponda automaticamente anche un più di positivo. Un positivo che, suggerisce ancora Goldhagen, si potrebbe cogliere nella “comune idea”, diffusa come una leggenda tra i volontari massacratori di ebrei, che gli eccidi fossero per loro un’“impresa rigeneratrice, purificatrice, bella” (Gol 548 nota 73): bella nel senso proprio della “bella morte” cui aspiravano proscritti come Ernst von Salomon31. Ma proprio la storia, anche quella del presente, ci dimostra che questa logica non regge più, non può più reggere. Così come, “non sta più in piedi”, dice Raffaele Mantegazza riprendendo l’ottava tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, l’idea di storia che la intende illuministicamente come “progressivo avvicinamento alla perfezione”, come “cavalcata verso il meglio”, tale per cui “il 31 E. von Salomon, Die Geächteten, tr. it. di M. Napolitano Martone, I Proscritti, Baldini&Castoldi, Milano 1994, p. 66.
L’odio paranoico83
passato è da intendere come forziere, come bagaglio di memoria che ci permette di non commettere due volte lo stesso errore e di far tesoro degli accadimenti”32. Si tratta dell’idea storico-pedagogica che intende raccogliere fiduciosamente il meglio, il positivo, non solo dal futuro, ma anche dal passato. Giacché quest’ultimo, pur in tutta la sua eventuale negatività, viene inteso come scrigno contenente accadimenti dai quali si può trarre beneficio, fare tesoro per il futuro, per non ricadere negli stessi errori. E ciò vale, afferma il pedagogista, soprattutto quando si tratta dell’unicum storico che ha il suo simbolo massimamente negativo in Auschwitz. Certo, sulla scorta della sentenza di Adorno, anche Mantegazza ritiene che sia ormai impossibile continuare a vivere, a pensare e a educare come se Auschwitz non fosse mai accaduto, che sia fondamentale contrapporre una “pedagogia della resistenza” alla “pedagogia negativa dei nazisti e dei fascisti”, alla “pedagogia nera” dell’“annichilimento”33. E crediamo che egli non abbia torto quando sostiene che, a differenza della filosofia e della teologia, la pedagogia non solo ha opposto il suo silenzio alla pedagogia nazifascista, ma ha continuato a riproporre i propri modelli educativi, come se Auschwitz non fosse mai comparsa sulla scena della storia, cioè, come dice Mantegazza, “nonostante Auschwitz”34. Ma il “silenzio dei pedagogisti su Auschwitz” e sulla sua pedagogia nera, negativa e annichilente, non riguarda solamente il senso della concezione borghese e illuminista della storia, concezione che fa degli accadimenti del passato qualcosa di positivo di cui far tesoro per il presente e per il futuro. A forza di cannonate e di missili lanciati sulle città al confine dell’Europa, il presente della guerra in Ucraina (ultima eco della lunga “guerra fredda” tra i due grandi Alleati) continua a ripeterci che gli uomini si sono stancati di giocare a simulare la guerra in tempo di pace, che per il loro futuro non soltanto non sanno più che farsene del tesoro depositato nei forzieri del loro passato, ma che, ancora più grave, non sono antropologicamente in grado di trasformare il fango in oro, di trarre alcun insegnamento positivo dal passato. Sicché è vero, avevano ragione Leopardi, Benjamin, 32 R. Mantegazza, L’odore del fumo. Auschwitz e la pedagogia dell’annientamento, Città Aperta, Troina (En) 2001, pp. 14-15. 33 Ivi, pp. 29-33. 34 Ivi, pp. 26-29.
84
Il negativo e l’attesa
Pasolini: quella concezione ottimistica della storia, specie dopo Auschwitz, e alla luce abbagliante della guerra della Federazione Russa contro lo Stato indipendente dell’Ucraina, “non sta più in piedi”. Non basta, però. Perché il lato ancora più oscuro di quella concezione ottimistica della storia, su cui si radica la pedagogia nera del nazifascismo, ossia la pedagogia, diremmo noi, della necessaria priorità del negativo, emerge dal fatto che gli accadimenti negativi del passato non vengono da essa considerati solo come positivo insegnamento per il futuro, non solo cioè come un negativo-positivo, ma anche – ecco il cuore della pedagogia nera – come un negativo necessario per la sua successiva trasformazione in positivo. Dunque, se, in base a quel paradigma storico-pedagogico, è soltanto da un passato negativo che può scaturire un futuro positivo (in quanto questo potrà fare tesoro da quello), allora occorrerà a suo tempo produrre necessariamente un negativo in quel passato, anche se sarebbe possibile e auspicabile evitarlo, perché solo così se ne potrà fare tesoro per il futuro. Generare il negativo anche quando sarebbe possibile evitarlo, questa la vera follia. Perché, secondo questa logica perversa, solo così facendo si potrà realizzare un futuro migliore, un’umanità migliore, soprattutto più rafforzata. È su questo passaggio oscuro, su questa piega nascosta della storia, che l’occhio della pedagogia non si è soffermato. E fa bene Mantegazza a sottolinearlo nel suo saggio. Quello di fare di necessità virtù è un meccanismo psicologico profondamente radicato nell’uomo, in particolare nei tedeschi. Meccanismo che i nazisti hanno modificato e utilizzato a modo loro. Erika Mann ne riporta un esempio classico a proposito di bambini ebrei che in classe venivano presi come “esemplificazione vivente nell’ora di ‘scienze razziali’”35. Come abbiamo visto, però, questo meccanismo risulta criticabile allorché la necessità non si apprende più come un dato, come un accadimento naturale e inevitabile (come, ad esempio, l’epidemia pestilenziale manzoniana), bensì come qualcosa di generato deliberatamente dalla volontà degli uomini, come un prodotto predisposto e prefissato dalla mente umana. Questa infatti sa già che, una volta attivato, quel meccanismo svilupperà naturalmente una virtù, cioè qualcosa di positivo per l’uomo. Tuttavia, proprio perché quella 35 E. Mann, La scuola dei barbari, cit., p. 126.
L’odio paranoico85
necessità non è un dato naturale ma un prodotto artificiale, anche questa virtù non sarà affatto positiva o ne avrà solo l’apparenza. Sicché da quell’odiosa negatività insita nella necessità che la contorta mentalità nazista ha voluto determinare non può scaturire, come in effetti è accaduto, che una virtù negativa: una virtù rappresentativa di un mondo alla rovescia, in cui, come diceva Hannah Arendt, lo scopo era quello di sottrarsi a tutti i costi al bene; mondo in cui fare il male ai non ariani e agli ebrei in particolare (sottomettere, violentare, eliminare le vittime dopo previste atroci sofferenze) voleva dire far il bene al Volk; un mondo in cui, dunque, in tutta la sua disumanità, fare il male era diventato una naturale azione benefica, una normale, quotidiana e doverosa attività umana. L’idea politica di fondo dello Stato nazionalsocialista, si legge in effetti nel Mein Kampf, consiste nella “diversità delle razze” (Hit 18). Suo compito essenziale è “la conservazione e l’elevazione della razza, premessa di ogni elevazione della civiltà umana” (Hit 29). Questo Stato si immaginava millenario perché costruito come una “rupe bronzea di un’unità di fede e volontà”. Esso pertanto “non rappresenta un fine, ma un mezzo […] per creare una superiore civiltà umana”. Secondo quell’idea la radice ariana era talmente superiore alle altre che i Germani avrebbero probabilmente dato vita a una civiltà meravigliosa come quella greca, se si fossero stanziati a sud. La volontà di un simile Stato viene incarnata da un partito, nei cui ideali e nei cui “principi indiscutibili” (Hit 17) il popolo deve credere come in una fede. Ora, siccome per Hitler Marx è un ebreo e la società borghese è marxista; e poiché “il marxismo tende regolarmente a mettere il mondo nelle mani degli ebrei” (Hit 19), ne segue che la necessità primaria per la sopravvivenza di questo Stato così fondato è la lotta contro il giudeo-marxismo incarnato nella politica bolscevica. Necessaria quindi la lotta per la salvezza della razza germanica, unica e sola apportatrice di civiltà nel mondo. Anche perché “l’avvelenamento razziale del corpo della nostra nazione”, dice Hitler, vi sta già creando “un declino culturale” (Hit 30). In questa nazione è insita però la forza per condurre quella lotta contro il contagio razziale: basta stimolarla, creando “determinate condizioni esteriori” (Hit 31). Da stupidi in ogni caso pensare, scriveva Hitler, che “la conquista del mondo da parte degli ebrei” (Hit 14) si potesse arrestare con il parla-
86
Il negativo e l’attesa
mento weimariano e con l’“idiozia dell’elettorato” (Hit 12) ad esso asservito. Fu solo a causa della mancanza di unità razziale, cioè solo per la secolare contaminazione di altre razze con quella germanica, che il “vero popolo tedesco” (Hit 34), quello che da lì a poco costituirà il Volk o la Volksgemeinschaft, non ha potuto, come hanno fatto altri popoli, conquistare il mondo per sfruttarne le ricchezze. Eppure grazie a Bismarck anche il Reich guglielmino aveva potuto avere il suo “posto al sole” durante la conquista delle colonie africane. La differenza razziale, secondo quel testo, non è una semplice opinione politica: riflette una legge fondamentale, “un’idea di base della Natura”, un’idea “aristocratica”, la quale esprime “l’eterna Volontà che domina l’Universo”, vale a dire “la vittoria del migliore, del più forte, [e] la sconfitta del peggiore, del più debole”. In virtù di una “morale superiore”, essa, questa idea aristocratica, mette finalmente ordine nel mondo “corrotto” e “negrizzato”, l’ordine garantito dal nazionalsocialismo nel disordine marxista (Hit 19-20). La legge che è alla base dell’eterna Volontà della Natura costringe a una lotta necessaria, a un Kampf, a un pólemos tra le razze per eleggere la migliore tra esse. Agli ariani vittoriosi spetterà il compito di impedire la corruzione culturale e civile. Siamo qui, come si vede, al darwinismo e all’evoluzionismo sociale. Al di là della loro critica all’idealismo, essi non sono altro in realtà che una ripresa, una specie di Aufhebung, di superamento, conservazione e inveramento in chiave positivistica dell’hegelismo. Solo in apparenza, infatti, lo scientismo positivista si libera dell’idealismo, giacché attraverso l’idea della lotta per l’esistenza e quindi per la conservazione delle specie o delle razze, ne conserva e ne sviluppa invece, con le inevitabili conseguenze sul piano storico-politico, il nucleo essenziale. Ora, sebbene da una prospettiva antitetica a quella hitleriana, il marxismo non è forse anch’esso una ripresa dell’hegelismo, dal momento che fa della lotta di classe uno dei suoi momenti fondamentali? Certo, qui si parla di lotta tra classi sociali, non tra razze. Ma anche in questo caso si prevedeva l’indubitabile affermazione del proletariato sulla borghesia, nello stesso modo in cui il nazismo preconizzava l’altrettanto inevitabile vittoria della razza migliore sulla peggiore. E tuttavia né in un caso né nell’altro l’affermazione vittoriosa è riuscita a mantenersi nel tempo. Anche perché la storia, al di là di Marx e di Hitler, ha generato proprio l’opposto di quanto essi prevedevano, cioè da un lato un imbor-
L’odio paranoico87
ghesimento del proletariato e una proletarizzazione della borghesia, e dall’altro un meticciato delle razze. La dialettica marxismo-hitlerismo, allora, non riguarda tanto il concetto di lotta, per quanto ne costituisca il denominatore comune, quanto piuttosto l’opposta visione antropologica del mondo: l’uno fondato sull’idea dell’uguaglianza tra gli esseri umani (e gli ebrei sono per questa idea, a prescindere ovviamente dal dato biblico dell’elezione), l’altro sulla disuguaglianza razziale. Sordo a quella voce della storia, che già al suo tempo era ben chiara, Hitler continuò invece a sostenere che dal “libero scontro delle forze”, che considerava come espressione della “profonda volontà della natura”, sorgerà una “razza superiore, una razza di padroni”, una “umanità migliore” che si assumerà il compito di condurre la lotta per la disuguaglianza, quel Kampf per vincere il quale “avrà i mezzi e le disponibilità di tutto il mondo” (Hit 20). In quel testo si dice persino che il nazismo viene in aiuto della natura nell’eliminazione delle razze inferiori e nell’evitamento degli incroci o degli imbastardimenti. Come se “l’impulso naturale” fosse realmente quello di raggiungere la purezza di una razza e non invece quello, soprattutto nella specie umana, di dar vita a continui meticciati, i quali non indeboliscono affatto la specie, ma anzi la rafforzano e l’arricchiscono. L’individuo reale (e qui si deve dar ragione a Hegel) è spesso infatti la sintesi dell’incontro tra due o più componenti etniche, mentre quello puro, a cui pensa il nazismo, è solo ideale, cioè non scientificamente fondato. L’aver creduto e l’aver costretto il popolo tedesco a credere che l’ideale della purezza razziale fosse possibile e realizzabile, non fu infatti, come aveva confessato Rudolf Höss nel suo diario, solo un “colossale errore” commesso dai nazisti: fu invece, dice Levi (RH XI), “una colpa” grave, perché in quella folle idea non si sono volute vedere le conseguenze innaturali e disumane di cui era foriera. In questo senso la “civiltà” creata dal nazismo è del tutto innaturale: è contro natura, perché questa, come sosteneva uno degli spiriti tedeschi più illuminati, non facit saltus. Con la loro politica razziale i nazisti hanno insomma costretto la natura ad andare contro sé stessa, hanno generato un mondo contro natura, un mondo alla rovescia. Sicché, quando Hitler dice che “la mansione dello Stato germanico è specialmente quella di operare perché sia dato un termine conclusivo ad ogni altro imbastardimento” (Hit 39 cn), con ciò stesso ha già definito e indicato vent’anni prima nella Vernichtung la Lösung della Frage relativa al supposto e infondato pericolo del-
88
Il negativo e l’attesa
la commistione razziale e della Judenfrage in particolare. Ma anche qui, a proposito della purezza o della limpieza del sangue, come pure del concetto di pólemos, di guerra, di lotta, di Kampf, di Streben, di dialettica immanente degli opposti, di culto della volontà della natura romanticamente intesa, a proposito quindi di antisemitismo, il nazismo non fa che raccogliere a piene mani i frutti maturati in tutti questi campi, su cui la passata cultura europea aveva disseminato i semi. Una ripresa, quella nazista, che ad un tempo continua, riattualizza e distorce radicalmente il senso di quel retaggio culturale. Uno dei principi fondamentali più profondamente radicati e più diffusi di questa eredità, come abbiamo visto, è quello della necessaria priorità del negativo. Questo principio si esprime soprattutto nella necessità della guerra e della violenza, della crudeltà e della inevitabile sofferenza insite in essa. Una necessità storicamente infondata, ma in base alla quale tuttavia la guerra e la violenza, come pure la crudeltà e la sofferenza che inevitabilmente ne derivano vengono considerate, soprattutto dallo Stato nazifascista, come occasioni di formazione etica e di Stärkung, cioè di rafforzamento del carattere e di irrobustimento della coscienza. Inoltre, quando Hitler dice che occorre evitare le malattie ereditarie che l’imbastardimento razziale potrebbe causare, egli prevede già che tra i primi provvedimenti che lo Stato nazista dovrà assumere, senza naturalmente le assurde opposizioni di politici “meschini” e “deboli”, vi è sicuramente quello relativo al “progetto eutanasia”, attuato attraverso le “più moderne scoperte mediche” (Hit 41). E quando, sulla scorta di questo progetto di pulizia etnico-sanitaria, dice che lo Stato “deve aver cura più del bambino che dell’adulto” (giacché i giovani saranno i veri creatori di questo Stato), egli sta già pensando non solo a delineare le premesse per un “futuro millenario”, ma anche a lanciare “l’urlo di guerra d’un eroico e anche brutale attacco” (Hit 15), a predisporre cioè il suo popolo (sia i tedeschi già nati sia quelli non ancora nati) per una futura guerra contro un doppio nemico, uno interno e uno esterno. E ciò anche se il tempo in cui egli detta dal carcere il Mein Kampf a Hess36 è un tempo di “calma” e di 36 Durante i nove mesi trascorsi nella prigionia nella fortezza di Landsberg, Hitler detta il testo a Rudolf Hess. Non è in grado di scrivere perché durante il tentato Putsch, il 9 novembre 1923, si era lussato la spalla cadendo a terra, trascinato dal corpo di Erwin von Scheubner-Richter ferito a morte sulla Odeonsplatz, davanti alla Feldherrnhalle.
L’odio paranoico89
“ordine”. Solo in apparenza, però. Perché il primo Dopoguerra, soprattutto in Germania, è denso di rancori e di tensioni sociali. In realtà si tratta di un periodo di tregua che la Repubblica di Weimar si sforza di differire il più a lungo possibile. In questo periodo di crisi e di decadenza valoriale, nel continente europeo c’è non solo un diffuso antigiudaismo: serpeggia anche un antisemitismo punitivo, discriminatorio e ghettizzante. Da essi emerge inoltre l’antisemitismo razziale tedesco, cioè quello nazista, il quale, più e meglio di altre ideologie totalitarie, come il fascismo37 o lo stalinismo, a queste tre caratterizzazioni ha aggiunto l’eliminazionismo. Nel quale, però, l’eliminazione non era più intesa soltanto come la classica espulsione, come un semplice cacciare oltre un limite, una soglia, oltre un confine, cioè come un allontanamento, un distanziamento, un’emarginazione, una ghettizzazione, bensì come un effettivo e concreto annientamento fisico dei corpi. Per l’antisemitismo razziale ed eliminatorio, in particolare, l’ucci37
Rispetto alla politica eliminazionista, che distingueva il nazismo dal fascismo, si può dire, secondo Hilberg, che fino al settembre del ’43 gli ebrei residenti nella zona francese, come pure in quella greca e in quella croata occupate dagli italiani (che si arresero agli Alleati a Cassibile il 3 settembre), poterono scampare alla deportazione. Dopo quella data, senza la tutela degli italiani, tutti quegli ebrei non ebbero più scampo (Hil 655). Similmente ad altri Stati, come la Danimarca e l’Ungheria, anche l’Italia, infatti, almeno “fino al giorno della sua caduta”, cioè “finché durò l’Asse Roma-Berlino” (Hil 660), dice Hilberg, si rifiutò di abbandonare i suoi ebrei nelle fauci della Germania (Hil 466). “Gli esperti del Ministero degli esteri [del Reich] incontravano in Croazia”, scrive lo storico, “lo stesso problema che avevano incontrato nel sud della Francia e in Grecia” (Hil 710). Addirittura, fa notare inoltre lo studioso, questo atteggiamento degli italiani serviva in qualche modo anche da “modello” per altri paesi satelliti del Reich tedesco come la Slovacchia (Hil 715). “A conti fatti”, conclude pertanto Hilberg – differenziandosi così dalla interpretazione che Angelo Del Boca dà del fascismo, secondo cui, almeno sul fronte africano, gli italiani non sono affatto da considerare “brava gente” (A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza 2005) –, “gli Italiani non eguagliarono i Tedeschi in ferocia, i fascisti italiani parlavano molto ma agivano poco, poiché nel profondo, gli Italiani non avevano nulla a che fare con i Tedeschi e il loro modo di vita” (Hil 661). Sulla scorta delle recenti ricerche in merito alla presunta “distanza del razzismo italiano da quello tedesco”, cfr. Fabio Levi, La persecuzione di Mussolini 1938-1945: la storia, in Ebraismo e antisemitismo nella società italiana, cit., pp. 159-186, in part. il primo paragrafo: L’Italia come la Danimarca?).
90
Il negativo e l’attesa
sione, il massacro e la distruzione fisica delle vittime – cioè appunto il negativo – erano considerate attività necessarie. Non solo perché rappresentavano l’obiettivo politico-razziale da raggiungere e per il quale i giovani tedeschi venivano per tempo educati secondo il modello guglielmino del Drill, della Stärkung e della Härte, del rafforzamento e della durezza, ma anche perché lo stermino degli ebrei doveva rappresentare per questa gioventù hitleriana un’occasione unica per verificare e mettere alla prova quel sentimento di superiorità razziale, quella silenziosa devozione al loro Führer, e soprattutto per poter sperimentare finalmente quella crudele durezza che avevano gradualmente appreso nell’asilo, nelle scuole, nelle associazioni parascolastiche e negli stessi Lager istituiti dal Terzo Reich. Certo, sostiene Hilberg, dall’esercito “la macchina della distruzione mutuò la precisione, la disciplina e l’insensibilità militare” (Hil 61 cn). Ma questa insensibilità, ricorda Ziemer, veniva sistematicamente e preventivamente alimentata nei giovani dal partito nazista. Sul piano pedagogico venne impartita come Härte e come Stärkung, come necessaria resistenza sia al dolore proprio sia a quello fatto patire agli altri, alle vittime, soprattutto agli ebrei. Al preciso scopo del miglioramento razziale e per prepararsi a una guerra di conquista di uno spazio vitale liberato da un nemico opportunamente ridestato e ridefinito, da un nemico da eliminare o da sottomettere secondo un nuovo ordine mondiale, lo Stato nazionalsocialista adottò infatti sin dall’inizio un’opportuna politica biologica della natalità, prendendosi cura della nascita e della formazione dei suoi futuri soldati. Inoltre, come erano necessarie le attività violente per raggiungere quell’obiettivo generale di potenza razziale, così era altrettanto necessaria la crudele durezza, come condizione di quelle. Senza questa brutalità non si sarebbero potute svolgere quelle operazioni di sterminio con la freddezza dovuta. Una tale crudele spietatezza, inoltre, veniva richiesta non solo per effettuare di fatto lo sterminio, ma anche per la disumanizzazione delle vittime. La quale doveva necessariamente precedere o preparare l’uccisione stessa. Perché solo in tal modo, cioè riducendo gli esseri umani ad animali o a cose, e in ogni caso in esseri che avevano ben poco di umano, e con i quali dunque non si poteva sentire alcuna affinità o vicinanza, soltanto in tal modo, con questa ben ponderata opera di distanziamento dalle vittime, i giovani soldati e i volontari carnefici di Hitler venivano facilitati nello sterminio.
L’odio paranoico91
Sulla questione della necessità relativa all’annientamento degli ebrei, però, avverte Welzer (Wel1 102-104), ci si deve intendere. Giacché quando ad esempio Rudolf Höss scrive che non poteva permettersi di giudicare se “questo sterminio in massa degli ebrei [ordinatogli da Himmler nell’estate del 1941] fosse o no necessario” (Massenvernichtung der Juden notwendig war oder nicht) (RH 127 cn), egli non intendeva quella necessità in senso politico né tanto meno in senso morale, bensì in senso prettamente tecnico. Una volta ricevuto l’ordine – poiché, confessa Höss, “a quel tempo non riflettevo”38 –, in quanto Sozialingenieur der Vernichtung (così lo definisce Welzer), la questione che per lui si poneva era solo tecnica. Da quel momento in poi egli doveva ingegnarsi a predisporre un dispositivo capace di realizzare quel progetto di sterminio. Doveva, cioè, dice lo storico, mettere in pratica la “Soluzione finale della questione ebraica”. Per superare l’inevitabile impatto emotivo che una tale “conversione pratica” (praktische Umsetzung) aveva sugli esecutori, Höss ricorre alla classica tecnica della divisione del lavoro, la quale consentiva sia la distanziazione del carnefice dalla vittima sia la necessaria indifferenza rispetto alla scopo della sua attività e rispetto alla vittima stessa. Per suscitare questa indifferenza e quindi per poter agevolare i carnefici nelle operazioni di sterminio, era altresì necessario che quest’ultimo venisse preceduto da un premeditato processo di disumanizzazione delle vittime. La famigerata indifferenza del carnefice nazista non era tuttavia dovuta solo al distanziamento tecnico: dipendeva anche dalla componente psicologica e pedagogica della Stärkung e della Härte, cioè dalla durezza crudele precedentemente assimilata. Giacché per quanto elevata fosse la distanza dalla vittima opportunamente abbrutita, sia nei Lager, sia nei ghetti sia specialmente nelle fucilazioni di massa nei territori occupati, come ci hanno fatto vedere bene Goldhagen, Welzer e i membri del Sonderkommando intervistati da Greif, la vicinanza con i corpi dei poveri ebrei era imprescindibile. Ma se per Höss la questione della necessità del negativo (ossia dello sterminio) si risolveva sul piano meramente tecnico, per Himmler essa aveva invece una valenza formativa e corroborativa. Per chiarire la quale Welzer ci invita a 38 “A quel tempo non riflettevo: avevo ricevuto un ordine ed era mio dovere eseguirlo. […] ‘Il Führer comanda, noi obbediamo’, non era certo una frase né uno slogan, per noi. Era un concetto preso terribilmente sul serio” (RH 127).
92
Il negativo e l’attesa
riprendere una parte del discorso che il Reichsführer delle SS aveva pronunciato a Posen: “Aver sopportato (durchgehalten) tutto ciò e, fatta astrazione di umane debolezze (menschlicher Schwäche), essere rimast[i] persone decenti (anständing), è ciò che ci ha resi duri (das hat uns hart gemacht)” (cn). Ecco cosa dice Welzer a proposito di questo passaggio: La produzione della durezza (Herstellung von Härte) come superamento di azioni che suscitano necessariamente emozioni, mi sembra un aspetto da tenere presente per quanto attiene il chiarimento della questione relativa a come tutto ciò sia stato possibile e ancora di più quella della disumanizzazione della vittima. Si tratta della capacità di distanziazione del carnefice, della sua auto-oggettivazione, che lo mette in grado di espletare la sua funzione di massacratore. Dall’esame della necessità delle azioni disumane (Notwendigkeit inhumaner Handlungen) e della consapevolezza di dover condurre necessariamente queste azioni solo di mala voglia, ebbene proprio un siffatto accoppiamento offre le basi per percepirsi “malgrado tutto” come persone decenti, come qualcuno che – per citare nuovamente Höss – “aveva un cuore”, “che non era cattivo”. (Wel1 104 cn)
Anche Hilberg riprende questa famigerata frase di Himmler. Ma lo fa mettendola in relazione con un passaggio che Hitler riporta nel suo testamento politico, scritto il mattino del 29 aprile 1945. Gli ebrei, i colpevoli, scriveva Hitler, “avrebbero espiato la loro colpa, anche se con mezzi umani” (Hil 1049). Ora, questa “umanità”, precisa Hilberg, non riguarda affatto il modo “più umano” in cui le vittime avrebbero dovuto subire l’annientamento. Proprio il contrario. Riguarda il modo in cui i carnefici avrebbero dovuto realizzarlo per non subire, essi, traumi psicologici. Una modalità di distruzione, dunque, nel senso in cui l’aveva inteso Himmler nella sua frase. Nel senso cioè che, nonostante l’orribile prova disumana, i massacratori sarebbero “rimasti uomini onesti” e più fortificati. E ciò grazie soprattutto alla severa disciplina militare che essi avevano appreso in precedenza e che li tratteneva peraltro anche dal compiere Schweinerei, azioni arbitrarie e selvagge. È proprio per evitare gli “eccessi” durante le esecuzioni, cioè per non cadere in quelle “debolezze umane”, come pure “per evitare i contraccolpi psicologici” nei massacratori, dice Hilberg, che si è fatto ricorso ai camion e alle camere a gas, come pure alla collaborazione di ucrai-
L’odio paranoico93
ni, lituani e lettoni, specie per l’uccisione di donne e bambini, e alla stessa manodopera ebrea per la distruzione e l’incenerimento dei cadaveri (Hil 1090-1091). Comunque sia, ad ogni superamento delle difficoltà incontrate durante il processo di distruzione, ad esempio nelle fucilazioni di massa, corrispondeva, dice Welzer, un aumento della violenza e della brutalità (nachmals gesteigerter Gewalt) (Wel2 156). E per certe persone particolarmente sadiche e brutali quelle azioni, quelle uccisioni, quei massacri gratuiti erano un’occasione unica non solo per sfogare impulsi che in circostanze normali venivano impediti, ma anche per vedere fino a che punto essi si potevano spingere (wie weit sie gehen können) in questi sfoghi brutali, dal momento che ora avevano la libertà di agire senza dover rendere conto a nessuno dei loro misfatti (rechenschaftlose Handlungsfreiheit) (Wel2 160). L’attività sterminatoria diede infatti improvvisamente ai Täter la facoltà di godere di una libertà assoluta, di una potenza assoluta (absoluter Macht) e con esse di conseguenza la possibilità di compiere azioni con assoluta brutalità e crudeltà (absoluten Brütalität und Grausamkeit) (Wel2 208-209), senza, appunto, dover rendere conto a nessuno. Una libertà ad essi conferita, dunque, da un insanzionato e insanzionabile “Tu puoi” (Du darfst). Il che voleva dire sentirsi rivalorizzati da un potere illimitato (schrankenlose Macht) che consentiva di continuare a perpetrare una violenza brutale fuori dagli schemi (unreglementierten Gewalt) (Wel2 198). Oltre alla fucilazione di massa, per ammaestrare ulteriormente le giovani SS alla Härte, alla durezza, ricorda tra l’altro Sofsky, venne data per un certo periodo l’occasione di applicare le cerimonie punitive su loro stesse. L’atrocità della Strafe, della punizione, specialmente della Todesstrafe, della punizione mortale e dell’umiliazione della vita, scrive il sociologo tedesco, aumentavano ulteriormente la potenza del potere (stellen die Übermacht wieder her). L’esecuzione infatti, “era di gran lunga molto di più di una prova di potenza”, di una dimostrazione di forza. Essa, insomma, intesa come una delle forme di eccesso della violenza, serviva a dare un senso di accresciuta potenza sia al gruppo sia al singolo. E il potere assoluto supera sé stesso nell’atto dell’uccidere. Questo potere in particolare può sfogare i suoi eccessi di violenza sulle vittime indifese e soprattutto sui mussulmani, la cui passività, sottolinea ancora Sofsky, irritava e
94
Il negativo e l’attesa
offendeva quel potere (Sof 251 n. 15, 253, 230, 234). Questa logica perversa del “tanto peggio tanto meglio”, del “tanto meno tanto più”, una logica su cui si radica la ricerca volontaria dell’eccesso negativo per ottenere un corrispettivo aumento del supposto positivo, una logica tanto irrazionale quanto inaccettabile, perché lega l’acquisizione e l’aumento della capacità di sostenere interiormente la crudeltà alla violenza prodotta intenzionalmente ed esteriormente come qualcosa di necessario, ebbene questa logica si riflette in tutte quante le disumane procedure del sistema concentrazionario e sterminatorio. A partire, diremmo con Sosky, dalle procedure della selezione. “Il trionfo del potere perfetto”, osserva infatti il sociologo, “si riflette nell’angoscia della morte provata dalla vittima. Tanto più (je) grande è la sua impotenza, tanto più (desto) grande è la soddisfazione del giudice; tanto più agevolmente avviene la selezione e tanto più grande è la contentezza di quest’ultimo; tanto più rapido è il suo giudizio e tanta più grande è la sua passione” (Sof 285). Come si può vedere, proprio da questi particolari casi di personalità sadiche emerge nella sua purezza il significato della necessaria priorità del negativo. Quelle persone, quei membri dei Battaglioni, infatti, dovevano necessariamente ricorrere a un surplus di violenza, a tutta la possibile violenza insita in quel negativo, per poterne trarre per sé un positivo, un rafforzamento, un perfezionamento, e con esso anche un piacere, una soddisfazione dei propri impulsi materiali, sessuali, emotivi. Sicché, ben lungi dal rappresentare un problema, la presenza di queste persone all’interno dei plotoni di esecuzione costituiva al contrario un doppio vantaggio per lo svolgimento delle operazioni di sterminio. Rendeva intanto, da una lato, non solo possibile, ma anche facile svolgere quel lavoro disumano, e stimolava, dall’altro, i restanti membri del gruppo ad imitarli, a fare come loro, cioè a superare con disinvoltura ogni eventuale indecisione o difficoltà, e a fare in tal modo della brutalità richiesta dalle circostanze un motivo, un’occasione per continuare a sviluppare, a educare e a formare il loro carattere nella Stärkung, nella durezza. Certo, dice Welzer, tra i fucilieri c’erano anche quelli che andavano in crisi, che non reggevano, e allora venivano mandati a casa o spostati in altra mansione. Perlopiù, però, coloro che si offrivano per quelle operazioni erano volontari, e diventavano sempre più volenterosi dopo essersi abituati ad agire in un Blutbad, in un bagno
L’odio paranoico95
di sangue (Wel2 164). In ogni caso, paradossalmente, la famigerata etica del decoro (die berüchtige Ethik der Anständigkeit) cui accennava Himmler nel suo discorso di Posen, oltre a garantire l’efficienza delle operazioni, serviva anche a controllare il loro svolgimento in maniera ordinata e senza intoppi, cioè senza quelle spiacevoli eccezioni che potevano essere generate dalle “debolezze umane” (menschlicher Schwäche) (Wel2 165). Anche il tremendo eccidio degli ebrei nella fossa ucraina di Babij Jar consente di cogliere la presenza e l’efficacia del principio della necessaria priorità del negativo. Qui alla fine di settembre del 1941, dice Welzer sulla scorta delle dichiarazioni rilasciate dagli imputati durante i processi istruiti nei loro confronti, nelle operazioni di sterminio si è arrivati persino al punto da ottenere una certa collaborazione anche da parte delle stesse vittime, poiché per evitare l’angoscia della morte (Todesangst) nell’attesa di essere fucilati, le vittime volevano essere uccise prima possibile (so schnell wie möglich erschossen werden). A questo punto le operazioni di massacro per gli esecutori non presentavano più qualcosa di strano e di minaccioso (Fremdes, Bedrohliches), non erano più insomma tanto terribili, perché, specie dopo l’esperienza professionalizzante e normalizzante compiuta nei precedenti massacri di massa, ora, a Babij Jar, quel compito gravoso appariva senz’altro più facile. La brutalizzazione che essi avevano maturato in tutte queste operazioni di sterminio non era più un problema, ma un aspetto ad esse funzionale (ist ein funkzionaler Aspekt der Tötungsarbeit) (Wel2 169). Le competenze, in tutti gli ambiti e in tutte le fasi della Vernichtung, cioè del libero e illimitato crimine attuato dei nazisti contro l’umanità, venivano ampliate e perfezionate da un clima che ne favoriva a tutti i livelli la libera iniziativa, sia negli uffici dell’amministrazione tecnocratica sia nello svolgimento delle fucilazioni di massa (Hil 1083). Non solo. Gli “ostacoli”, le “difficoltà”, i “contrattempi”, i problemi che in generale sorgevano durante il processo di sterminio, erano fichtianamente funzionali al perfezionamento delle competenze. Nel capitolo del suo saggio riservato alle Riflessioni, Hilberg fa infatti osservare che i tedeschi – al contrario dei loro alleati italiani, i quali ricorrevano a una “falsa apparenza”, cioè al tipico velleitarismo fascista –, “davano sempre il massimo”, soprattutto nei confronti dell’“incarico supplementare” (l’annientamento degli ebrei) che si erano assunti in parallelo alla conduzione della guerra
96
Il negativo e l’attesa
(Hil 1084 ss). E, come abbiamo potuto vedere, le analisi di Welzer sui Täter ci mostrano che quel meccanismo formativo e perfezionante funzionava anche rispetto alle difficoltà psicologiche affrontate dai membri delle Einsatzgruppen e dei Battaglioni di polizia durante le fucilazioni di massa, specialmente nel caso delle donne e dei bambini. “I tecnocrati tedeschi”, dice dal suo canto Hilberg, “risolsero [pure] questi problemi […], riuscirono a superare anche questo esame” (Hil 1091). Per superare queste difficoltà, soprattutto quella rappresentata dal delicato caso dei bambini e delle loro madri, si faceva ricorso a delle razionalizzazioni, fra le quali c’era quella secondo cui era meglio – cioè più funzionale ai fini dell’operazione – uccidere prima i piccoli e poi la madre, al fine di evitare che gli sterminatori potessero avere dei contraccolpi psicologici. Ora, dice Welzer, questo “adattamento funzionale allo sterminio è un prodotto dell’esperienza che, con differenti varianti, gli uomini hanno già fatto nelle precedenti fucilazioni” (funkzionalen Arrangements der Tötungsarbeit ist ein Produkt von Erfahrung, die die Menschen mit unterschiedlichen Varianten von Erschiessungen gemacht haben). Tali adattamenti, precisa Welzer, “costituiscono la base di una razionalità tecnica (technische Rationalität), e in tal modo diviene evidente che nessun compito, per quanto orribile fosse, non potesse non essere portato a termine” (dass keine Aufgabe grauenhaft genug war, um nicht durchgeführt zu werden) (Wel2 186). Anche e soprattutto da questa terrificante esperienza dello sterminio si può vedere quanto, sul fronte dell’orrore, l’idealismo tedesco e quello fichtiano in particolare, con il suo culto dell’ostacolo e del limite, con la sua concezione etica e quindi formativa dell’infinito superamento degli ostacoli, con l’illimitato tendere verso il bene assoluto e verso il male assoluto, abbia influenzato la cultura dei tedeschi. I nazisti iniziano la guerra non già forse per vincerla, ma per annientare anzitutto gli ebrei. E si annientano gli ebrei, non già, come sostengono (mentendo) gli ariani, perché sono ritenuti gli unici responsabili della guerra, ma solo per confermare e verificare la validità dell’educazione tedesca alla morte. Vale a dire non solo per affermare il modello culturale e politico nazista, ma soprattutto per dar vita e forma a un tipo nuovo di umanità che, pur di raggiungere i propri ideali razziali, è disposta persino a congedarsi da una morale che, per quanto limitante, aveva perlomeno fino a quel momento
L’odio paranoico97
impedito agli esseri umani di programmare e attuare lo sterminio automatizzato dei propri simili. Questa la logica che si può rilevare al fondo della difesa pronunciata da Otto Ohlendorf (comandante dell’Einsatzgruppe D) dinanzi all’accusa mossagli dal tribunale militare americano. Ecco come riporta questa difesa Hilberg: “Anche se questi [gli ebrei] non avevano realmente fatto iniziare la guerra, avevano ora subito un’oppressione e, dopo una simile offensiva, ci si potevano aspettare delle reazioni da parte loro [come pure dai loro figli: ecco perché si dovevano uccidere anche questi] estremamente pericolose” (Hil 1158). Come si vede, si deve creare necessariamente e preventivamente un negativo (la guerra) per ottenere, dalla prevista reazione ad esso, un duplice positivo: l’annientamento degli ebrei e al contempo anche la formazione di una superumanità, concepita sulla falsa riga di quella prefigurata da Nietzsche. Questa, nella sua essenza, la Gestaltung, l’impostazione formativa di base del progetto nazista che ogni Täter, ogni massacratore, per quanto ha potuto, ha cercato di far propria e di realizzare. I Täter sono soprattutto quei tedeschi che sono stati educati non a combattere come dei veri soldati contro un avversario che potrebbe anche aver la meglio su di loro, ma solo a uccidere, a passare per le armi decine di migliaia di vittime inermi e del tutto passive. Essi sono quindi persone preparate a svolgere sostanzialmente una Tötungsarbeit, un’attività di puro massacro, per la quale non venivano richieste particolari abilità militari, ma solo quella Härte, quella durezza di carattere che, a tempo debito, avrebbe consentito loro di resistere al dolore, alla fatica e alle loro stesse nefandezze, una capacità che avevano appreso sin dalla più tenera età in quelle scuole che negli anni Trenta il Terzo Reich aveva appositamente istituito proprio per loro. Veniva ad essi insomma richiesta esattamente quella fermezza brutale acquisita prima e che li metteva ora in grado di compiere massacri di vittime trattate come semplici e facili bersagli nudi. Si trattava peraltro di un’attività volontaria, per svolgere la quale bastava avere solo voglia di lavorare per la patria e anche di guadagnare qualcosa in più senza tanta fatica, e soprattutto non rischiando la pelle; un’attività che offriva in più la possibilità di acquisire una specializzazione, di imparare una professione, di fare carriera nel campo della specialistica della morte, di prendere così persino un patentino di Tötungsexperten, di esperto dei massacri (d’altronde è in questa veste che i loro predecessori nel
98
Il negativo e l’attesa
1913 vennero cooptati da Ittihad e dai Giovani Turchi per portare a termine lo sterminio degli armeni), di diventare insomma dei tecnici, dei maestri della morte, dei periti mortiferi nell’industria della Vernichtung specializzata nello sterminio, nella distruzione e nello smaltimento di resti di corpi umani, ridotti a rifiuti. Così come oggi è florido e sviluppato il mercato dei rifiuti, nel senso che produce lavoro e guadagni, nello stesso modo anche allora, nel vasto microcosmo in cui operavano i Täter, la distruzione, lo smaltimento, l’utilizzo e il riutilizzo di quei rifiuti umani doveva generare un certo profitto, un utile, un positivo. E ciò a tutti i livelli del processo di sterminio: da quello industriale a quello finanziario, da quello politico a quello pedagogico e culturale. Una volta, poi, persuasi della Notwendigkeit der Aktionen, della necessità delle azioni inumane, delle inhumaner Handlungen (Wel2 187, 104), cioè della ineludibilità della distruzione di tutte le persone di discendenza ebraica, i Täter, i massacratori di ebrei si allontanarono totalmente dalle leggi che vigevano fuori di quel microcosmo in cui operavano. Sicché all’interno di quelle comunità criminali la questione fondamentale e quotidiana diventò non già se uccidere o non uccidere, né tanto meno, ovviamente, se era giusto o meno farlo, bensì come uccidere, quale singolare modalità, quale tecnica utilizzare sia per andare incontro talora a certe richieste delle vittime, sia soprattutto per agevolare il compito ai carnefici. Quasi a voler ricavare anche da qui, da questo tremendo negativo assoluto, da questa situazione assolutamente disumana, qualcosa di positivo, di umano. I Täter erano stati preventivamente preparati a funzionare come delle macchine fredde e insensibili, capaci di sopportare e restare indifferenti di fronte alle brutali nefandezze che dovevano quotidianamente attuare nei confronti delle loro vittime inermi. Anche quando si presentava l’occasione per risparmiare a queste ultime le sofferenze, quando si potevano in qualche modo evitare ad esse i tormenti non necessari (Vermeidung unnötigen Leidens), ciò, dice Welzer – che smonta sistematicamente tutte le razionalizzazioni – lo si faceva solo sulla base della logica nazista e in ottemperanza alla supposta Ethik der Ausständingkeit, all’etica della “decenza” nazista, secondo la quale in questo caso specifico “je weniger die Opfer zu leiden hätten, desto anständlicher könnten die Täter ihre Arbeit verrichten”, quanto meno la vittima soffriva, tanto meglio il carnefice poteva eseguire correttamente il suo lavoro (Wel2 193).
L’odio paranoico99
Con il pretesto della guerra, all’interno dell’infernale microcosmo, umanamente disumano, esercitando un potere illimitato e praticando l’insanzionabile agire criminoso, i nazisti avevano soprattutto istituito il massacro delle persone come un vero e proprio lavoro (Töten als Arbeit) (Wel2 203), strutturato come un normale lavoro, con le sue pause e i suoi permessi. Un lavoro routinizzato in cui la cosa più importante era l’escogitare tecniche sempre più efficaci per uccidere quante più persone possibile all’interno di una tempistica sempre più ridotta, per ottenere i ben noti vantaggi che la logica industriale della produttività garantiva. I Täter erano simili a delle macchine. Ne avevano la tipica insensibilità. Ecco una delle espressioni che Welzer riporta da un diario di uno di questi massacratori: “Eigentümlich, in mir rührt sich nichts, kein Mitleid – nichts. Es ist eben so, und damit ist für mich alles erledigt”: “In me propriamente non si muove nulla, nessuna compassione –, niente. È proprio così, e perciò per me tutto è più semplice” (Wel2 219). Questo era dunque il risultato di quella educazione guglielmina, nazionalista e nazista che aveva assunto come ideale educativo l’autorità e la durezza (Autorität und Härte) (Wel2 210), le quali producevano Stärke e Stärkung, forza e rafforzamento, attraverso il necessario confronto e superamento del negativo. Da qui l’assoluta freddezza con cui i Täter, i giovani e meno giovani massacratori tedeschi svolgevano il loro lavoro disumano. Tale che, sottolinea ancora Welzer richiamandosi a Günther Anders, non ci fu nessun bisogno di rimuovere alcunché per essi nel dopoguerra. Perché, proprio grazie a quella severa preparazione, niente di traumatico (gar nicht traumatisch) (Wel2 218) era accaduto per loro. E così la loro vita poté continuare come se nulla fosse stato. Ma, in qualche modo, non è forse un po’ così anche per noi? Non è forse l’amara consapevolezza di questo nostro naturale oblio che ci obbliga ogni volta a ricordare e a non dover dimenticare questo passato che è sempre presente? Inoltre, poiché, nonostante tutte le accorte prevenzioni, temevano pur sempre la loro coscienza (Hil 1105)39, cioè i tormenti di una co39
Naturalmente anche al processo di Norimberga quasi tutti gli imputati dissero che si erano dovuti attenere agli ordini impartiti da Hitler e che non pensavano che l’espulsione e il reinsediamento a est degli ebrei significasse il loro annientamento (Hil 1150). Fra i tanti casi, ritroveremo emblematicamente
100
Il negativo e l’attesa
scienza morale costruita nei secoli sul cristianesimo, il burocrate o l’esecutore nazista, ricordano Hilberg e Welzer, ricorrevano alla principale delle razionalizzazioni, cioè a quella relativa al dovere di ubbidire a un ordine imposto dall’alto. Analogamente, sottolinea Hilberg, anche la vittima, l’ebreo, cercava di liberarsi della sua storia, avvertita come una “camicia di forza” (Hil 1122). E lo faceva attraverso la sua stessa storia, con un passato vissuto come un destino a cui non si può sfuggire, cioè con la sottomissione e l’accettazione della morte imposta da un signore dalla forza bruta, contro cui a nulla valevano i tentativi di ricondurlo alla ragione e alla comprensione. La forza dei deboli – quell’escamotage dialettico a cui diede voce persino Beethoven nel secondo movimento del suo Quarto Concerto – questa volta non sembrava spuntarla sulla potenza e soprattutto sulla brutalità dei più forti. Come Kafka di fronte al padre, gli ebrei non vollero, non tentarono di opporsi perché, ribadisce Hilberg, sono stati “presi alla sprovvista” (Hil 1134); essi non tentarono nemmeno di salvarsi perché la loro storia di sottomissione non li ha messi in grado di opporsi a un signore che toglieva loro “la possibilità di vivere”. Nella prefazione al Brief an den Vater di Kafka, George Bataille40, ad esempio (ma non solo lui: anche Bruno Bettelheim in Sopravvivere), ravvisa nel popolo ebraico una condiscendenza all’ubbidienza alla figura del Padre, inteso anche come capo di uno Stato o come lo stesso Yahweh. Si tratta in ogni caso di un rispetto ancestrale nei confronti della Legge che si riflette sia nella supina accettazione di un padre castrante da parte del giovane Franz, sia nell’altrettanto passiva accettazione dell’annientamento da parte del popolo della diaspora, come pure, tranne qualche eroico episodio, nella stessa scelta, dice Bettelheim, di non combattere, una scelta emblematicamente rappresentata dalla famiglia di Anne Frank. Gli ebrei, le vittime, si attendevano forse una salvezza da quella logica dialettica che avevano già sperimentato nelle due precedenti cattività, quella egizia e quella babilonese; in particolare di fronte a un faraone crudele a cui Yahweh induriva finaquesta stessa razionalizzazione anche nell’imputato Stark ne L’istruttoria di Peter Weiss a proposito del processo di Francoforte. Qui, dal suo canto, l’Unterscharführer disse infatti che come soldato egli non poteva sottrarsi agli ordini. All’epoca il ventenne nazista ebbe modo di andare a casa, di diplomarsi e di ritornare in Lager per continuare a uccidere persone. 40 Cfr. il commento di Georges Bataille alla Lettera al padre di Franz Kafka, SE, Milano 1987, p. 82.
L’odio paranoico101
listicamente il cuore. Per lunghi e interminabili dodici anni, nessun angelo arrivò mai all’ultimo momento a salvarli dalla loro distruzione burocraticamente pianificata e attuata dai nazisti. Come Isacco, i figli di Israele si disponevano all’olocausto, appoggiando la testa e distendendo il loro corpo su quello degli altri che erano stati appena uccisi. “Fu così”, scrive Hilberg, “che nel corso dei secoli gli Ebrei avevano imparato che per sopravvivere, dovevano evitare a resistere. […] Non si poteva disimparare una lezione vecchia di duemila anni; gli Ebrei erano incapaci di attuare un simile capovolgimento. Erano impotenti” (Hil 1119). La Härte, la durezza crudele, è dunque una qualità (di tradizione guglielmina) che accompagna, anzi che deve necessariamente accompagnare il giovane tedesco, dall’inizio alla fine della sua vita. Anche solo per il semplice fatto che egli sapeva bene che sia la sua vita sia la sua morte appartenevano al Führer41. Egli è stato educato alla durezza, a una qualità che si esige, si ricerca e si suscita all’inizio con l’educazione nazionalsocialista, si sviluppa nella Hitlerjugend e si esercita finalmente in guerra, in particolare nello sterminio degli ebrei. Essa è quindi preventivamente necessaria per poter sopportare la realizzazione di un’altra necessità, quella dello sterminio. “Le SS”, dice infatti Höss, cioè coloro ai quali era stato affidato quel compito necessario, “dovevano mostrare a chiunque che la dura educazione ricevuta in tempo di pace era stata giusta” (RH 65). Solo dalla combinazione del carattere guglielmino della durezza (wilhelminischer Härteprägung) e del carattere tecnoide delle funzioni (technoider Funzionsprägung) sono sorti quegli uomini che possiedono sia l’indifferenza verso gli altri sia la razionalità logistica. Uomini che in tal modo hanno potuto approntare all’interno dei Lager i macchinari per l’annientamento. […] Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, si può considerare come il prototipo di una simile ingegneria sociale. (Wel1 97)
Trattandosi di una guerra eminentemente razziale e non solo comunque di una classica guerra di conquista (“Quella non fu una guerra classica” sostiene infatti Hilberg) (Hil 290), lo Stato 41 Il sacrificio di sé per Hitler veniva ribadito abitualmente nei giuramenti dei giovani inquadrati nelle associazioni naziste (cfr. G. Ziemer, Educazione alla morte, cit., pp. 10-106).
102
Il negativo e l’attesa
hitleriano dovrà anzitutto lottare contro un duplice nemico: uno semplicemente da eliminare e l’altro da schiavizzare. Un nemico che può essere interno (ebrei, zingari, omosessuali, oppositori) o esterno (polacchi, russi, ecc.). Ecco perché la lotta razziale eliminatoria può e deve iniziare subito contro il nemico interno, contro gli ebrei, indipendentemente dalla loro assimilazione. Una lotta eliminatoria che il Terzo Reich sarà costretto a proseguire sino alla fine anche nei territori via via conquistati, in parallelo con la normale guerra di conquista condotta dall’esercito, dalla Wehrmacht. Una lotta razziale che alla lunga finirà per complicare le cose alla stessa Wehrmacht e per determinare anche la sconfitta della Germania. Ad esempio le forze armate si lamentavano del fatto che i treni venissero usati più per le deportazioni che per l’approvvigionamento militare (Hil 362). Non è stata dunque la normale guerra che Hitler ha voluto fare contro gli altri Stati per il dominio e la colonizzazione del mondo che ha gettato sulla Germania un’indelebile macchia di vergogna, ma il modo di condurla, ossia la specifica e nuova modalità (nuova anche rispetto a quella, apertamente sterminatoria, attuata dal Secondo Reich in centro Africa) da essa adottata (anche in questo senso si può forse parlare di Sonderweg) nell’eliminazione dei nemici, soprattutto quelli razziali, i “repellenti bastardi ebrei” (Hit 49). Per condurre questa duplice guerra occorreva pertanto formare i propri soldati in stretta osservanza del classico mens sana in corpore sano, dando la “precedenza”, si dice nel Mein Kampf, [allo] “sviluppo del carattere, della forza di volontà e di decisione” e mettendo “all’ultimo posto […] l’insegnamento scientifico” (Hit 45). Molto meglio a tal fine uno poco colto, ma forte e deciso, che uno intelligente, ma debole e magari anche pacifista. Anche perché “nelle grosse sciagure”, si dice in quel testo (e Primo Levi dovrà constatarne amaramente la veridicità), è spesso il primo a cavarsela, e non il secondo. Lo Stato nazionalsocialista, dunque, “dovrà svolgere la sua opera educativa in modo che i giovani vengano curati regolarmente fin da piccoli, e vengano rafforzati e induriti per la vita futura” (Hit 46 cn)42. Bisognerà quindi aumentare e rendere 42 “Voi ragazzi”, diceva infatti un ufficiale nazista ai bambini nel loro passaggio da Pimpf (6-10 anni) allo Jungvolk (10-14 anni; la Hitler Jugend inquadrava i giovani dai 14 ai 18 anni), “dovete essere duri – duri come il ferro: il Führer
L’odio paranoico103
obbligatorie le ore di ginnastica al fine di risvegliare nei giovani lo “spirito d’assalto”, la “fiducia in se stessi” e la “sicurezza della [loro] totale superiorità sugli altri” (Hit 48), e occorrerà di conseguenza diminuire le ore delle altre discipline. In vista di quella doppia guerra parallela, lo Stato dovrà inoltre allevare non già “una società di esteti pacifisti e di degenerati”, ma uomini e donne che incarnino la “coraggiosa personificazione della forza” (Hit 47 cn) e che siano soprattutto in grado non solo di cavarsela in tempi duri (in dürftiger Zeit, nel tempo della privazione, dirà Heidegger nel 1946 riprendendo un verso di Hölderlin), ma anche di “subire le sfortune” (cn). È sicuramente poi a causa di caratteri deboli che si è persa la Prima guerra mondiale, che ci si è piegati e umiliati davanti al Diktat del Trattato di Versailles, e che in seguito si è consentito ai comunisti di organizzare una rivoluzione anche in Germania. Lo Stato nazionalsocialista non può accettare questo Diktat umiliante e pertanto nel tempo di questa pace – ribadisce Hitler – ci si dovrà preparare per tempo alla vendetta, per un nuova guerra dei Trent’anni, per continuare non solo quella conclusasi con la pace di Westfalia, ma anche quella persa a Rethondes. Ci si dovrà preparare allora per ribaltare un doppio esito negativo, secondo il detto si vis pacem, para bellum. La necessaria “preminenza” che lo Stato nazionalsocialista darà all’“educazione fisica” sarà pedagogicamente funzionale alla “formazione del carattere” del futuro soldato (Hit 50) per poter fronteggiare tutto quell’eccesso di negativo che sicuramente la guerra parallela di eliminazione, di conquista e di sotl’ha richiesto” (cfr. G. Ziemer, Educazione alla morte, cit., pp. 61 cn, 64, 73). Su tale argomento si veda anche Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida, Il futuro spezzato. I nazisti contro i bambini, Giuntina, Firenze 1997. Sulla scorta di questo testo la Regione Piemonte aveva assegnato nell’anno scolastico 1998-99 il consueto tema storico agli studenti della scuola media superiore. Quella che segue è una parte della traccia: “I bambini ebrei e zingari da un lato e i bambini tedeschi dall’altro, furono entrambi vittime del nazismo? Se i primi furono perseguitati, sfruttati e uccisi nei diversi passaggi della catena della discriminazione, della deportazione e dello sterminio, i secondi furono cresciuti ed educati all’intolleranza e alla violenza”. Quella tedesca, scrive Levi nella Prefazione a questo testo, è stata l’unica “civiltà” che non ha saputo riconoscere e coltivare l’innato amore per i bambini. Non per nulla il nazismo per Levi rappresenta il mondo alla rovescia, ossia “‘ciò che non dev’essere’, e che invece è stato” (p. 13).
104
Il negativo e l’attesa
tomissione, ricercata, voluta e condotta dagli ariani, comporterà. Con questo tipo di educazione militarista, anche coloro che hanno “solo una certa tendenza al crimine” potranno essere “utili componenti della comunità nazionale” (Hit 51). Un utilizzo che, come si vedrà, potrà essere effettuato non solo per infoltire le file dell’esercito, ma anche, com’è tristemente noto, per formare i guardiani, i Kapo dei Lager. Oltre la forza fisica dei giovani, in questo Stato la scuola dovrà quindi far sviluppare in essi la forza del carattere attraverso la fedeltà, la dedizione e il silenzio. Il che vuol dire che essa dovrà insegnare a “subire con dignità i dolori e le ingiustizie” (Hit 52), specie quando il giovane, “diventato grande andrà al fronte” (il Mein Kampf è stato scritto nel 1924 ed è stato diffuso nel 1925, ma la guerra avrà inizio nel 1939, cioè quindici anni dopo!). La scuola dovrà inoltre impartire “meno nozioni e maggiore autocontrollo”43, perché verrà il giorno in cui al giovane si chiederà di assolvere al compito eliminatorio dei nemici razziali; la scuola dovrà insomma “educare i giovani al coraggio dell’azione” (Hit 53 cn). Si deve comunque porre molta attenzione dinanzi al progetto pedagogico e al discorso sull’istruzione in generale sviluppato da Hitler nel Mein Kampf. In modo particolare rispetto al tema dell’arte e del talento artistico innato, poiché in questo punto sembra evocare sia il tema della giustizia sociale della Repubblica platonica sia il concetto heideggeriano di Eigentlichkeit, di autenticità. Lo Stato nazionale, dice infatti Hitler, deve “incanalare il talento sulla strada adatta a lui”, “deve operare in modo che all’uomo venga assegnato quel lavoro che corrisponde alle sue capacità” (Hit 65, 68). Si potrebbe infatti scambiare per ricerca della vocazione l’agevolazione delle “capacità già esistenti” nei giovani da parte dello Stato nazista. Quest’ultimo, infatti, si legge nel testo hitleriano, “non ha la mansione di creare capacità, sua mansione è quella di facilitare la via alle capacità già esistenti” (Hit 32). Solo che a queste potenzialità innate 43 Troviamo traccia di un “autocontrollo assoluto” in una pagina del diario di Höss, nella quale scrive che doveva contenersi dallo sconvolgimento che gli procurava l’aver dovuto dare “il colpo di grazia alla tempia” di un condannato al campo di Sachsenhausen (RH 67). “Tutto ciò era disumano”, pensava a quel tempo Höss (fu trasferito in quel campo il 1 agosto 1938). “E intanto Eicke [ispettore dei campi di concentramento] continuava a predicare che bisognava diventare ancora più duri” (RH 68 cn).
L’odio paranoico105
nel fanciullo esso pensa come a un dato, come a un retaggio, a una qualità razziale che bisogna assolutamente salvaguardare, sviluppare e valorizzare. È soprattutto di questo nucleo, di questa radice razziale che la scuola deve occuparsi, sorvolando sulle altre discipline, il cui contenuto, rispetto a quel fine, risulta del tutto inutile per il futuro del giovane soldato; un contenuto che dovrà pertanto essere ridotto all’osso, e dovrà servire solo a fornire una vaga preparazione di base, una “cultura generale”, delle “linee generali” (Hit 55) e, comunque sia, dovrà essere strutturato in funzione dell’educazione razziale dell’individuo. Non a caso, poi, rispetto a tale contenuto, si prende come esempio l’insegnamento delle lingue straniere, e del francese in particolare, vale a dire la lingua di uno dei principali nemici della Germania. Questa riforma nazista dell’istruzione riguarderà infine anche la disciplina della storia, che dovrà essere ristretta ai minimi termini, alle “grandi linee”, entro le quali tuttavia dovranno rientrare sia la storia nazionale sia la storia antica, romana e soprattutto greca, al fine di poter cogliere la continuità che quella germanica avrebbe in particolare con quest’ultima, e quindi per far sì in ogni caso che “la questione razziale abbia una posizione predominante” (Hit 57). La scuola nazista deve quindi saper “accendere l’orgoglio nazionale” dei giovani, quello stesso “sentimento nazionale” (Hit 59-60) che, secondo Hitler, mancò ai tedeschi nella Prima guerra mondiale, causando in tal modo la sconfitta degli Imperi Centrali. Proprio in vista della prossima guerra che hanno in mente Hitler e gli altri nazisti, la scuola deve invece far sì che una volta completati gli studi, un giovane studente “non sia un mediocre pacifista, un democratico o qualcosa di simile, ma un vero tedesco” (Hit 61). L’educazione razziale, dunque, non può avere il suo compimento che nel “servizio militare” (Hit 63). Occorre infine ancora sottolineare il fatto che queste linee generali tracciate da Hitler nel Mein Kampf erano già presenti nei programmi educativi e nelle riforme scolastiche nella Germania neoromantica e pangermanista tra Otto e Novecento, sebbene allora venissero intesi in senso privatistico, cioè all’inglese. Anche in questo senso si può pertanto affermare che il futuro Führer non farà altro che riprendere, assecondare e attuare quelle idee che da tempo erano già presenti e vive nella mente dei tedeschi (Mos 205-206). Non per nulla, infatti, fu detto che le scuole “Adolf Hitler” (quelle che il Terzo Reich farà costruire per la Hitlerjugend) “costituivano la
106
Il negativo e l’attesa
completa realizzazione dell’opera di Lietz”, uno dei tanti precursori del sistema scolastico nazional-patriottico antisemita (Mos 211). Comunque sia, se in quel lontano 1907 l’allora diciottenne Adolf Hitler fosse stato ammesso all’esame di maturità nella rigida e conservatrice Accademia delle Belle Arti di Vienna, se avesse aderito al movimento della Secessione viennese, chi lo sa?, forse avrebbe realizzato il sogno della vita. Forse non avrebbe messo tanto zelo nella sua attiva partecipazione alla Prima guerra mondiale, né, l’ex caporale, specie dopo il Diktat di Versailles, avrebbe avuto tanto tempo libero per sfogare, assieme a pochi altri esaltati pieni di livore come lui, la rabbia in quei piccoli bar cittadini in cui cominciò (appoggiato dai politici nazionalisti, dai demagoghi lungimiranti e dai generali umiliati in cerca di vendetta e di riscatto, nonché dagli industriali delle acciaierie Krupp) a meditare sia sul putch da fare a Monaco insieme a Ludendorff sia su tutte quelle idee che riportò per iscritto nel carcere di Landsberg. Idee della cui reale portata forse non si rendeva perfettamente conto. Idee che poi, come sappiamo, si realizzarono in tutta la loro orribilità con la nascita dei campi della morte. Per assurdo, dunque, se Hitler avesse realizzato sé stesso con l’arte, forse avrebbe permesso anche la realizzazione di molti altri giovani, tedeschi e non, a cui invece ha spezzato il futuro. 5. Fare di necessità virtù Il meccanismo psicologico del fare di necessità virtù, come si è accennato nel precedente paragrafo, è un’inclinazione propria del popolo tedesco. Dopo aver accennato alla corruzione del sangue e dell’anima determinatasi con la sconfitta del Sacro Romano Impero nella guerra dei Trent’anni, a tal proposito nel Mein Kampf Hitler scrive: “quello che causò sfortuna nei tempi passati, può creare la nostra fortuna per l’avvenire” (Hit 34-35). Un concetto cui aveva accennato anche a proposito dello scontro razziale: “è possibile che la nazione ora sull’orlo dell’abisso [la Germania], alla fine dimostri forze culturali eccellenti” (Hit 28). Giacché “la vittoria sta nella lotta”, dice. La salvezza, si potrebbe dire, riprendendo ancora il famoso verso hölderliniano di Patmos, può sorgere solo dal pericolo. Questa la “verità” che lui ritiene valida e nella quale tutti i tedeschi debbono credere, debbono aver fede. È infatti nella lotta e nel su-
L’odio paranoico107
peramento vittorioso degli ostacoli o, come diceva Eraclito, e con lui quasi tutta la tradizione culturale occidentale (certamente non comunque quella che incarna l’Oblomov di Gončarov), è nel pólemos che si rivelano l’uomo libero e l’uomo schiavo. La stessa cosa, suggerisce Welzer, ribadirà anche Höss nel suo diario: Soltanto in prigione – [una sorta di pólemos passivizzato, ma nato da un qualche pólemos] – il vero Adamo (wirkliche “Adam”) appare con tanta evidenza; tutto ciò che il prigioniero ha appreso mediante l’educazione e l’imitazione – [una cosa simile dirà anche Améry dal punto di vista della vittima] –, tutto ciò che non fa parte della sua stessa natura, scompare. A lungo andare, la prigionia lo costringe a lasciar cadere ogni simulazione e ogni mascheramento. L’uomo allora si presenta nudo, qual è in realtà (so wie er wirklich ist): buono o cattivo. (RH 98; Wel1 99)
Secondo questa tradizione, è con il porsi (im-porsi, com-porsi) dell’ostacolo che l’uomo si forma e si libera. È con esso che l’uomo conquista la sua indipendenza, la sua libertà. Com’è noto, poi, questa dottrina eraclitea della necessità dell’ostacolo e della relativa lotta (pólemos) per superarlo, era anche presente sia nello Streben goethiano sia nell’agire del saggio fichtiano. Dottrina che ha l’esatto opposto nel Genüss, nel godimento passivo della quiete, nella pace, di cui preferiva giovarsi ad esempio Oblomov. E, emblematicamente, il Negativ di Hegel cos’è se non l’ostacolo, l’antitesi che limita ontologicamente la tesi per inverarla? Soltanto una tale opposizione ontologica, una tale dialettica degli opposti – che si riflette in ultima analisi nello scontro a morte delle autocoscienze, pur senza tuttavia eliminarne una – deciderà quale delle due sarà la signora dell’altra. E il marxismo, come si è detto, non ha forse anch’esso il suo elemento centrale nella lotta sociale, la quale (tranne che nella sua declinazione staliniana) prevede senz’altro il superamento, sebbene non certo l’eliminazione degli opposti? E la lotta per l’esistenza teorizzata dalla metafisica di Schopenhauer, sviluppata dall’evoluzionismo darwiniano e spenceriano, da cui Nietzsche attinge per dar vita alla sua filosofia tragico-dionisiaca e al suo illuminismo “barbarico”, che assume come presupposti culturali della Stärkung, del rafforzamento del carattere degli europei, ebbene tutte queste idee non le troviamo forse brutalmente sintetizzate nel Mein Kampf? Non a caso, da
108
Il negativo e l’attesa
esso Bernhard Rust, il Ministro per l’Educazione nel Terzo Reich, apprenderà i principi per redigere nel 1938 il suo manuale per gli insegnanti tedeschi, nel quale possiamo trovare passaggi che sono in sintonia con quel retaggio culturale. Ad esempio: “L’educazione fisica, l’educazione all’azione, è l’unica degna dell’attenzione del maestro o professore nazista. Tutto il resto può passare in seconda linea”. “L’azione, l’azione, e non l’indolente ripensare il passato, è l’anima dell’educazione”. “Il carattere tedesco può formarsi soltanto se incontra molti ostacoli”44. “La nuova scuola […] farà di tutto per renderli duri di corpo e di mente”45. Non c’è dubbio che gli antichi detti popolari “fare di necessità virtù” e “non tutto il male vien per nuocere” rientrano tra gli stratagemmi più comunemente usati dall’umanità per tentare di fronteggiare e sopportare l’imprevedibilità del male o del negativo, per provare in qualche modo a trasformarlo in bene o per ricavarne qualcosa di positivo. In entrambi i modi di dire si ha a che fare con l’imprevedibilità e con l’inevitabilità del male, ossia con il fatto che esso avverrà o sia comunque già inevitabilmente accaduto. La necessità qui si deve intendere non solo nel senso di qualcosa di cui non si può fare a meno, ma anche nel senso di qualcosa che è già stato stabilito, fissato e che non si può più muovere, cambiare, spostare, necedere. Proprio come il destino, che è immutabile. Dinanzi a ciò che è già compiuto l’uomo si sente infatti indifeso e impotente. In tal caso egli non può fare altro che accettarlo e sopportarlo, tentando di alleggerirne la gravità con qualche espediente psicologico. Potrà quindi mitigare il dolore e la disperazione elaborando opportuni meccanismi psicologici. Non per nulla, infatti, una variante del primo proverbio suona “la necessità (la miseria) aguzza l’ingegno”. Dinanzi o dall’interno di quel negativo necessario sarà costretto a modificare il proprio pensiero e a frenare con la ragione i propri impulsi. Dovrà insomma ogni volta compiere uno sforzo con la mente e con la volontà. E proprio in questo sforzo, in questa elaborazione inattesa del male egli potrà contestualmente sviluppare la propria facoltà intellettuale, affinare il proprio ingegno, 44 Da quelle radici culturali discende probabilmente l’espressione “Più nemici, più onore” attribuita al condottiero lanzichenecco Georg von Grundsberg, alla quale si era ispirata quella di Mussolini (“Molti nemici, molto onore”), la quale a sua volta è stata ripresa di recente, nel 2018, da un ministro della repubblica democratica italiana. 45 Cfr. G. Ziemer, Educazione alla morte, cit., Prologo, pp. 31-36.
L’odio paranoico109
aumentare la capacità di fronteggiare in futuro l’“eventuale”, cioè imprevedibile e insieme inevitabile, abbattersi del negativo, fare insomma, come si dice, di necessità virtù. Col tempo, però, specie in quei popoli, come ad esempio i prussiani, i tedeschi, che più di altri hanno dovuto subire per varie ragioni il peso umiliante delle sconfitte, e che, a causa della loro superbia, le hanno percepite e vissute come un affronto, come un’offesa, ebbene in tali popoli è come se il passare dei secoli abbia sedimentato nella loro memoria storica non solo più capacità di elaborare idee e di modificare il pensiero, ma anche una maggiore consapevolezza di avere accumulato più forza, più potenza. In certe condizioni politiche un tale surplus di forza interiore li ha spinti all’hýbris, a un atto di estrema tracotanza. Essi hanno in sostanza sfruttato per sé e per le loro mire vendicative tutta l’energia e la forza positiva che hanno saputo trarre dal negativo. Lo specifico di questa loro tracotanza consiste però in un’ulteriore elaborazione mentale. Questa: visto che dal negativo inatteso è naturalmente possibile ricavare un’energia arricchente e potenziante, allora noi tedeschi, per essere sicuri di riuscire nella nostra singolare revanche, effettuabile secondo i nostri propri metodi, ossia seguendo il nostro proprio Sonderweg, non dobbiamo più aspettare che sia la natura o il puro caso a determinare il negativo, ma dobbiamo far sì che esso sia l’esclusiva opera della nostra volontà. In tal modo gli errori che essi inevitabilmente commetteranno verranno nietzscheanamente considerati non solo come necessari, ma anche più accettabili perché voluti. Da qui la necessaria priorità del negativo: la necessità cioè di un negativo (la guerra) che dovrà essere opportunamente pre-determinato e pre-stabilito se si vorrà ottenere un positivo, cioè un ulteriore aumento della potenza per quel popolo che, distorcendo il processo naturale, oserà mettere arbitrariamente in pratica quel principio. Sarà soprattutto la Germania di Hitler ad osare questo passo innaturale della volontà umana, sebbene per sostenere la loro politica razziale i nazisti continuarono a rifarsi alla biologia, alle leggi e alla volontà della natura. Ma è proprio nell’idea infondata della coincidenza delle due volontà che consiste la tracotanza di ogni ideologia razzista. Sarà il nazionalsocialismo a ricorrere con rigore metodologico alla necessaria priorità del negativo, assumendolo come principio base. Tuttavia, anche qui – ecco un passaggio decisivo –, proprio come si è visto poc’anzi per quanto riguarda il
110
Il negativo e l’attesa
contenuto ideologico del Mein Kampf, anche sotto questo profilo Hitler non fa altro che riprendere quel principio dalla tradizione culturale occidentale. Solo che il modo in cui è stato utilizzato non era più tanto esemplarmente spirituale, bensì esemplarmente concreto e materiale. Per fare qualche esempio biblico, spiritualmente emblematico: Isacco dovrà quasi morire per mano del padre, cioè di Abramo, per far sì che quest’ultimo dimostri la fede nel suo Signore. Giobbe dovrà necessariamente quasi morire, toccato nelle ossa dalla shechìn ra‘, dalla piaga maligna, per redimersi e per superare la dura prova a cui Yahweh lo aveva sottoposto. Gesù dovrà necessariamente patire la crocefissione, dovrà anche lui quasi morire (nel senso che poi risorgerà) per provare a salvare l’umanità. Questa necessità del negativo è rimasta impressa nella tradizione della cultura occidentale come un paradigma, come un principio a cui i più importanti esponenti di tale tradizione si sono rifatti per fondare e radicare le loro idee e le loro opere. Nella prima parte della nostra Introduzione abbiamo provato a grandi linee a farne un elenco. Da essi attinge Hitler per sviluppare le sue idee nel Mein Kampf. Ed è probabilmente per questo suo vago radicamento culturale che il popolo tedesco vi ha creduto. Un popolo che più di altri è rappresentativo di quelle idee e nelle quali quindi non poteva non riflettersi e identificarsi. Ad ogni modo, per tornare ai Täter, dalle analisi di Goldhagen risulta che le poche richieste di esenzione da quelle operazioni eliminatorie sorgevano non da un’“opposizione etica”, ma dall’“incapacità viscerale di continuare” o di portare a termine quel massacro (Gol 555 nota 73). “Più volte”, scrive lo storico, questi tedeschi [cioè quelli che ad esempio formavano la “coorte genocida” del Battaglione di Polizia 101] diedero prova di iniziativa personale nell’uccidere, e non tentarono di scansare gli incarichi ricevuti, pur potendolo fare senza incorrere in sanzioni. Davano priorità su tutto all’uccisione degli ebrei, lasciandosi anche trasportare dalla crudeltà. Tanto erano votati al massacro genocida da persistere nonostante l’orrore che […] risulta forse impossibile da immaginare e comprendere per chiunque non abbia preso parte direttamente a scene di quel genere. [Scene prodotte da quel Battaglione ad esempio a Łomazy, nel distretto di Lublino, il 19 agosto 1942]. (Gol 251-252)
L’odio paranoico111
Questo andar fieri delle fucilazioni a bruciapelo di migliaia di ebrei indifesi, sottomessi e rassegnati nella Polonia occupata era segno del fatto che i membri di quel Battaglione non le disapprovavano; anzi li rincuoravano, li facevano sentire “in gran forma” (Gol 261). Per questi “uomini comuni” quelle fucilazioni erano bensì azioni barbariche, ma per fronteggiarle erano stati sin da piccoli psicologicamente preparati. Specialmente allo scopo di ricavarne un positivo. Un positivo (ad esempio l’accresciuta forza e vitalità dopo così tanto negativo, opportunamente prodotto) che li spingeva ogni tanto a fare battute macabre persino durante il pranzo, davanti a qualche piatto (Gol 258, 262). E ciò per far notare agli altri che essi si sentivano assolutamente a proprio agio nello svolgimento di quel terribile mestiere, nell’operare in quell’ambiente orrendo, nel quale di tanto in tanto si facevano finanche immortalare in piena attività in fotografie che mandavano ai loro cari e agli amici. Si intuisce allora che facessero anche a gara tra i numerosi Battaglioni per vedere chi fosse non solo più indifferente ma anche più freddo e brutale nell’ammazzare migliaia di ebrei sdraiati per terra (uomini, donne, vecchi, bambini, malati), finiti con un colpo di fucile in un punto preciso della nuca; per vedere quale fuciliere fosse più capace di fronteggiare, sopportare e resistere più a lungo dinanzi a quell’orribile lavoro quotidiano, dinanzi a quelle operazioni di sterminio che non avevano proprio nulla di eroico e di valoroso. È probabile poi che questa macabra competizione al rialzo, questa sfida dinanzi alle fosse comuni per vedere chi fosse più capace di stupire gli altri con la propria crudeltà nel massacrare gli ebrei non fosse altro che un riflesso della ostilità burocratica tra il capo delle SS e il Governatore della Polonia rispetto al controllo proprio di quelle truppe che in Polonia dovevano attuare la soluzione finale. “Himmler e Frank”, annota infatti Hilberg, “assunsero come principio quello di superarsi l’un l’altro in crudeltà” (Hil 209 cn). In ogni caso, per non essere considerati dei vigliacchi, quasi nessuno dei fucilieri si tirò indietro da quel lavoro ingrato, pur potendolo. È chiaro che di questa loro disponibilità erano sicuri i loro superiori quando, prima di dare inizio a un’ennesima strage, dicevano: “non siate deboli” (Gol 265). E questa semplice esortazione bastava a renderli ancora più pronti, ancora più disponibili a dar prova del proprio “coraggio” agli altri e a sé stessi. Comunque sia, Goldhagen insiste sul fatto che l’eventuale rifiuto derivava non
112
Il negativo e l’attesa
da una convinzione etica, ma solo da una ritrosia viscerale. Non erano cioè contrari allo sterminio degli ebrei, ma solo a talune procedure di annientamento troppo stomachevoli. “Ad ogni richiesta del superiore”, dice un testimone, “c’erano sempre abbastanza volontari per i plotoni d’esecuzione”; anzi, “i volontari erano tanti da doverne scartare qualcuno” (Gol 266). Siamo d’accordo a tal riguardo con Browning quando, tra le motivazioni che spingevano i membri del Battaglione 101 a massacrare gli ebrei, indica la “conformità nei confronti del gruppo”46. Il rifiuto di partecipare agli eccidi, infatti, da un lato gettava un’ombra di viltà sia sul singolo che sul gruppo di appartenenza, ma dall’altro serviva anche a stimolare la forza e la crudeltà nei compagni, i quali in tal modo erano legittimati ad aumentare il livello di violenza. “In modo subdolo”, dice infatti Browning, “i renitenti riaffermano dunque i valori della maggioranza – considerano cioè la ‘forza’ di massacrare uomini, donne e bambini inermi come una qualità positiva” (cn). Non la debolezza o la ritrosia, quindi, ma la forza e la disponibilità a conformarsi al gruppo nella sua attività sterminatoria degli ebrei, ossia nel suo dover produrre un negativo orribile, costituiva un valore, cioè una qualità positiva. Ma anche qui, conformarsi al valore maggioritario della forza, della violenza e della crudeltà, valore che può affermare la sua positività solo dinanzi all’attuazione della negatività dello sterminio, non vuol dire altro, sul piano culturale, che rifarsi al principio della necessaria priorità del negativo, su cui si fonda l’eticità della guerra con il suo ethos del Gewalt, della Härte, della violenza, della durezza e della brutalità, che sono i principali obiettivi educativi previsti dal progetto pedagogico nazista. Gli effetti nefasti della necessaria priorità del negativo che il potere nazista, in vista del proprio vantaggio, del proprio positivo, sapeva trarre da questo principio, non si riscontrano ovviamente solo nelle forme più generali come l’eticità della guerra e la pedagogia della durezza, ma si riflettono anche nelle singolari vessazioni strategicamente crudeli che le SS praticavano nei Block allo scopo di umiliare e sfinire ulteriormente i deportati. Talvolta, scrive Sofsky, quando essi ritornavano esausti dal lavoro, trovavano nella baracca tutto sottosopra, dopo che al mattino erano costretti a lasciare tutto in 46 C.R. Browning, Uomini comuni, cit., pp. 193-194.
L’odio paranoico113
perfetto ordine. Ebbene, dice Sofsky, le SS generavano appositamente quel disordine per poter poi intervenire contro i prigionieri in nome dell’ordine. In altre parole, osserva acutamente lo studioso, il caos interessava molto al potere assoluto esercitato dalle SS e pertanto lo producevano continuamente (stellt sie das Chaos… immer wieder selbst her) attraverso le regole dell’ordine spaziale che esse imponevano nei Block (Sof 84-85). Normalmente, osserva peraltro Erika Mann, il termine “brutalità”, al pari di altri (come anche, ad esempio, “barbarico”), esprime un senso negativo. Ma quando viene inteso come una qualità della Hitlerjugend o della Gioventù di Stato in generale, cioè come “un dato che è auspicabile avere e mettere in pratica”, allora acquista un senso positivo47. Riempiti dall’odio, “alimentato e coltivato con cura, sistematicamente e conseguentemente, […] fomentato con ogni mezzo a disposizione”48, i giovani nazisti dovranno mettere in pratica quella crudeltà contro un nemico qualsiasi, anche se di fatto esso ora non c’è, e che, in certe situazioni che si tratta di agevolare, un giorno ci sarà. E ci sarà quando Hitler e la Germania daranno inizio al loro Kampf, alla loro guerra per la conquista del mondo: “Perché oggi è nostra la Germania” – suonano i versi di una canzonetta che i bimbi tedeschi cantavano marciando –, “e domani il mondo intero”49. Nell’attesa di questa guerra mondiale, essi possono intanto esercitarsi e mettere alla prova la loro crudeltà creandosi opportunamente un nemico interno, nella stessa patria, nella società (ebrei, pacifisti, socialisti), nelle istituzioni (politici, insegnanti, religiosi), nella stessa famiglia (genitori e parenti contrari alla pedagogia nazionalsocialista, la quale sotto certi aspetti sembra paradossalmente rifarsi alla Repubblica e alle Leggi di Platone). Ben lungi però dal prepararsi culturalmente, con l’invenzione di un nemico interno essi debbono invece cominciare a prepararsi sia a una “lotta difensiva”50 sia a una guerra preventiva. Infatti, osserva ancora la Mann, privati di questo nemico inventato, “nazisti e gioventù nazista non potrebbero più vivere”. Ecco, dunque, un altro chiaro esempio di necessaria priorità del negativo. 47 48 49 50
E. Mann, La scuola dei barbari, cit., p. 157. Ivi, p. 95. Ibid. Ivi, pp. 176-177.
114
Il negativo e l’attesa
Inoltre, avendo bene assimilato la “cultura tedesca della crudeltà contro gli ebrei” (Gol 269), ai componenti del Battaglione 101 (ma non solo a loro, evidentemente) non bastava solo fucilarli: dovevano torturarli, perché solo così, cioè generando necessariamente una violenza eccessiva e utile solo per loro, ossia non necessaria per gli scopi strettamente militari, essi potevano manifestare ancora di più tutta la loro forza contro i deboli. Manifestarla a chi, poi, sennò solo a loro stessi, che facevano in tal modo da esecutori e da spettatori? La causa che spingeva le coorti genocide a massacrare con straordinaria efficienza gli ebrei, previa una necessaria quanto inutile (anche rispetto allo stesso progetto genocidario) dose aggiuntiva di crudeltà, non era soltanto l’abbrutimento psicologico generato da ogni singolo eccidio, bensì la precedente preparazione culturale al Negativ. Era cioè l’apprendimento alla sopportazione della sofferenza intesa sin dalla più tenera età come maestra di vita. Se, insomma, i membri della Ordnungspolizei, pur potendo farlo, scelsero di non farsi esonerare dal compito genocida, è perché, dice in estrema sintesi Goldhagen, “volevano uccidere” (Gol 293). Una volontà di violenza che sorgeva dalla loro “nazificazione”, cioè dall’essere stati “preda di un’ideologia” che vedeva nell’uccidere, specie in quel contesto, un’azione con una duplice funzione: una purificatrice dalla presenza ebraica in Europa, e una formativo-sperimentale, perché con una tale azione omicida oltre a mettere finalmente alla prova della realtà concreta la formazione nazista ricevuta dal Terzo Reich, si appagavano in parte quella esigenza di sofferenza e di volontà di violenza. Grazie a questa formazione di “uomini senza cuore”, i tedeschi, dice Goldhagen, “non avevano difficoltà nel trasformarsi in assassini genocidi […], pur non essendoci costretti” (Gol 290). È solo in virtù di questa formazione nazionalsocialista che essi, questi uomini comuni – che si ritenevano eroi della loro patria, del loro Volk, ma che in realtà non furono altro che degli eroi mancati, anzi degli uomini comuni mancati – poterono massacrare il popolo ebraico indifeso. “A volte” essi, scrive Goldhagen, “erano controllati da un ufficiale, altre volte […] agivano senza alcuna sorveglianza” (Gol 288 cn). E ciò, dice lo storico riportando la dichiarazione di un “carnefice genocida”, perché quella formazione nazificante induceva i giovani massacratori a non riconoscere “l’ebreo come essere umano” (Gol 294).
L’odio paranoico115
Per quanto riguarda poi in particolare la crudeltà esercitata dal personale dei campi sugli ebrei, ecco cosa scrive ancora Goldhagen: Poiché infliggere dolore era azione comune, con qualche eccezione, a tutto il personale dei campi (le fustigazioni continue e insistite, per esempio), parrebbe assodato che i tedeschi condividessero la convinzione generale, sia pur non codificata, che produrre sofferenza agli ebrei fosse un aspetto essenziale del loro compito. Senza una posizione soggettiva che attribuisse valore prioritario a quella sofferenza, le azioni che la provocavano, e che producevano anche un grave danno economico, non avrebbero avuto alcun senso per gli agenti, i quali non le avrebbero intrapreso. (Gol 335 cn)
Pertanto, se, come sottolinea Goldhagen, l’antisemitismo razziale tedesco era eliminazionista; se, in altre parole, scopo primario dei nazionalsocialisti era lo sterminio degli ebrei, allora anche il lavoro nei campi doveva assolvere a tale scopo: doveva cioè essere in funzione della Vernichtung, sebbene, come si è accennato, questo enorme spreco di manodopera comportasse una notevole perdita sul fronte della produzione bellica che si svolgeva all’interno degli stessi Lager. Ecco allora uno dei motivi per cui gli ebrei dovevano venire fustigati e tormentati durante il lavoro. Il fine ultimo era, come verrà attestato dalla Circolare Pohl (30 aprile 1942), la Vernichtung durch Arbeit, l’annientamento attraverso il lavoro, anche se al punto 4 di quella circolare si legge che l’impiego della mano d’opera doveva “essere produttivo nel vero senso della parola, al fine di ottenere il massimo rendimento”51. Non per nulla infatti essa, questa sorta di variante della Vernichtung, venne emanata a soli due mesi dalla Conferenza di Wannsee (20 gennaio 1942), nella quale si pianificò lo sterminio degli ebrei d’Europa. Ben lungi quindi dalla sua produttività, il lavoro doveva essere inteso, dice Goldhagen, come “strumento di distruzione” (Gol 338). Sicché, come l’attività sterminatoria della popolazione ebraica ebbe sino agli ultimi giorni della guerra la necessaria priorità sulle questioni militari e sulla stessa produzione bellica nei campi, così anche la crudeltà, soprattutto sugli 51 Cfr. La circolare Pohl, negli atti della tavola rotonda del 21 febbraio 1989 tenutasi a Torino presso il Consiglio regionale del Piemonte, a cura dell’Aned, FrancoAngeli, Milano 1991, p. 52.
116
Il negativo e l’attesa
ebrei, doveva venire arbitrariamente esercitata su di essi prima della loro stessa uccisione, della loro stessa morte. Certo, molti vennero uccisi con un solo colpo alla nuca: er trifft dich mit bleierner Kugel er trifft dich genau (“egli ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso”) scrive infatti Celan nella sua Todesfuge. Ma prima di morire gli ebrei dovevano soffrire le pene dell’inferno. Essi non dovevano semplicemente morire. Dovevano desiderare la morte che solo i loro signori carnefici potevano concedere, quando e come volevano. “Cominciavano a picchiare fin dal primo momento”, scrive Shlomo Venezia, parlando del suo arrivo alla Judenrampe di Birkenau; “per sfogarsi, per crudeltà, per farci perdere qualsiasi punto di riferimento e costringerci a obbedire per paura, senza troppe storie”52. La negatività della sofferenza doveva avere la necessaria priorità sulla morte, la quale in certi casi veniva vista dai torturati come una liberazione, come un qualcosa di positivo. Come si vede, dunque, anche qui siamo dinanzi a una delle più atroci manifestazioni del principio della necessaria priorità del negativo; un principio che rientra in quello che Goldhagen definisce “apparato cognitivo antisemita” (Gol 334), poiché ne costituisce il fondamento culturale. Ma se dal negativo della sofferenza gli ebrei potevano liberarsi con la morte, considerata in tal modo come positiva, che cosa rappresentava per i carnefici il positivo, se non proprio il “piacere” (Gol 335) che ottenevano grazie alla Vernichtung? Una Vernichtung effettuata nel modo più crudele possibile e anteposta come necessaria condizione dell’aumento della loro potenza, da essi vissuta con piacere come quel potere assoluto che solo un dio può avere in terra, un dio da cui soltanto dipendono la vita e la morte delle sue vittime. La tendenza fondamentale del potere assoluto, dice Wolfgang Sofsky, è l’aumento di sé. Un aumento che si realizza con l’eccesso, alzando cioè continuamente l’asticella della violenza, su52
S. Venezia, Sonderkommando Auschwitz, cit., p. 51. Ben consapevole di queste pene infernali, in un suo ricordo Liana Millu ci racconta della lunga fila di cadaveri “allineati con ordine” che vide non appena scesa a Birkenau. Scrive: “Stavano lì, compostamente, con dignità. Ancora sulla terra, ma non più della terra. Liberi dal mondo e le sue brutture, salvi dalle morti oscene del lager. Illuminati dal sole. In pace” (Primo sguardo: arrivo a Birkenau, in “La via del sale”, bollettino quadrimestrale n. 3, vol. IV, sett.-dic. 2000, Perché la guerra?, Genova Quarto, p. 23).
L’odio paranoico117
perando sempre una certa soglia di violenza. Un tale Exzess si raggiunge in particolare quando tale potere trasforma l’attività di massacro, il Töten, in un’attività lavorativa, in Arbeit. Questo significa che il massacro o l’uccisione è ciò di cui il potere assoluto si nutre; esso pertanto vive e cresce solo uccidendo o eliminando ogni eventuale nemico in vita. Sicché per realizzare la sua totalitaria assolutezza il potere nazista fa ricorso ad eccessi di violenza che “generano la condizione per sempre ulteriori eccessi”. L’eccesso infatti altro non è che un “atto di sfrenata autoespansione” (Sof 36-39). Ha ragione inoltre Sofsky quando afferma che un tale eccesso di violenza manda all’aria ogni sua regolamentazione, non ha un limite (hat kein Ziel) e non è un mezzo in vista di altro scopo (kein Mittel zum Zwecke) se non quello di accrescere la violenza stessa (Terror an sich) e con essa l’onnipotenza del potere assoluto. L’accrescimento della violenza, però, non è solo in vista della continua riaffermazione del potere, è anche in vista di qualcos’altro, di un altro scopo che si realizza più sul piano psicologico che su quello sociologico. Alla base della crudeltà eccessiva non c’è infatti solo una dinamica sociale: c’è anche una dinamica psicologica, la quale non consiste soltanto in un semplice trasferimento della situazione sociale in un processo intrapsichico. Questo processo psicologico ha certo a che fare sia con la disposizione alla violenza (Gewaltbereitschaft), vale a dire con l’obiettivo che si poneva la formazione delle SS (Ziel der Personalsbildung), sia con il superamento della normale base di violenza, e ciò però non solo in vista della variazione dell’abitudine (um die Gewohnheit zu verändern), ma anche e soprattutto per fare sì che questo nuovo livello di crudele abitudine costituisse un’ulteriore base da cui partire per essere pronti a fronteggiare e superare altri aumenti di violenza. Ciò per dire che il continuo eccedere i livelli di violenza raggiunti era necessario per i Täter, per gli esecutori dei massacri, perché solo così essi potevano aumentare il senso di potenza assoluta non solo nei confronti delle vittime inermi, non solo nei confronti dell’intera umanità vivente, ma soprattutto nei confronti di sé stessi. Ora, sebbene non sottolinei la necessità e la funzionalità psicologica di questi eccessi di violenza, lo stesso Sofsky mette tuttavia in risalto, come Goldhagen, il meccanismo competitivo che si attivava all’interno del gruppo degli esecutori al solo fine di superare, con l’eccesso di crudeltà, qualsiasi livello di violen-
118
Il negativo e l’attesa
za. “La brutalità”, dice infatti il sociologo tedesco, “valeva come capacità e come distinzione. In tal modo all’interno di quel personale regnava un clima di reciproca stimolazione a una sempre maggiore crudeltà (wechselseitige Stimulation zu immer grösserer Grausamkeit), una competizione tra barbari”. Certo, l’attività violenta e competitiva a superare continuamente con gli eccessi i gradi di brutalità e di crudeltà già raggiunti serviva anche come prova dell’appartenenza o della coappartenenza al gruppo dei massacratori. Ma questa competizione ad eccedere poteva essere realizzata solo se veniva sopportata psicologicamente. In questo modo si costringeva la psiche a compiere continui sforzi per abituarsi ai maggiori livelli di brutalità raggiunti. E nel superamento psicologico di questa costrizione gli esecutori coglievano un rafforzamento della psiche e quindi anche un aumento del loro potere assoluto sulle vittime. La forza motrice (Triebkraft) di questo potere, afferma inoltre Sofsky, non era pertanto né l’odio né l’ira né la furia, bensì l’indifferenza, la quale genera la distanza psicologica tra carnefice e vittima, una distanza che libera la crudeltà sfrenata. Certo, l’angoscia della morte, che nella continua ricerca dell’eccesso l’esecutore faceva provare alla vittima, provocava in lui, dice Sofsky, un certo brivido, un divertimento e perfino forse anche un certo piacere, il quale, sebbene non si potesse in generale parlare di sadismo, non era solo il piacere dell’esercitare un potere assoluto su vittime inermi, ma anche, diremmo, il piacere di essere riusciti a superare il proprio timore nell’affrontare quel nuovo eccesso di violenza, di aver cioè superato sé stessi in crudeltà. Questo piacere era quel sentimento che conduceva all’abitudine e all’indifferenza, e come tale era il vero motore della violenza eccessiva e della relativa crudeltà senza limiti e senza freni. Ai fini dell’annientamento, è chiaro, l’eccesso consisterebbe in un inutile surplus di violenza, ma per gli esecutori nazisti tale eccesso non era affatto inutile; anzi per essi, paradossalmente, era addirittura necessario, perché era utile a renderli sempre più capaci e disponibili a superare livelli di violenza e di crudeltà crescenti. E da questo punto di vista, poi, non possiamo che essere d’accordo con Sofsky quando asserisce che “La disumanità è sempre una possibilità dell’uomo” Sof 256-275). In Lager, dice ancora lo studioso, un giovane membro delle SS Totenkopfverbände (“Unità testa di morto”) mostrava la sua appar-
L’odio paranoico119
tenenza e la sua adesione al gruppo, alla cricca dei camerati non solo facendo di più di quanto gli veniva richiesto (indem er mehr tat, als jeweils gefordert war), ma anche anticipando e quindi eseguendo gli ordini ancor prima che gli venissero impartiti (Sof 124). Attraverso la costruzione razziale dell’immagine del nemico, inoltre, l’indottrinamento generava nel nuovo camerata un’angoscia che egli poteva (perché gli era consentito) sfogare sotto forma di libera e sfrenata violenza sui prigionieri (Sof 130). L’esercizio effettivo di questa violenza, appresa con l’educazione alla durezza (Drill zur Härte) e con la pressione del cameratismo (Drück der Kameraderie), era la prova di coraggio che egli doveva sostenere per essere accettato nella cricca dei carnefici e per non essere considerato solo un debole (Schwächlich), incapace di sopportare l’atmosfera di violenza (Atmosphäre der Gewalt) che gli altri respiravano ogni giorno con la loro disponibilità alla violenza (Gewaltbereitschaft) (Sof 134-135). La tesi di Sosfky sulle ragioni che sono alla base della violenza nazista non sembra dunque tenere in gran conto degli aspetti psicologici, bensì più che altro di quelli sociali e burocratici. Secondo lui, infatti, l’organizzazione burocratica del Lager era costruita in modo tale che il potere del personale non veniva affatto limitato, ma reso anzi possibile fino a trasformarsi in terrore. “I sorveglianti”, scrive, “bastonavano, torturavano e uccidevano non già perché dovevano (mußten), ma perché era loro consentito farlo (durften)” (Sof 135-136). Eppure, come si è visto, malgrado questa concessione burocratica, la disponibilità ad eccedere nella barbarie non discendeva solo da ragioni sociali e burocratiche, da motivi di accettazione nel gruppo e da ragioni competitive, ma anche da motivazioni psicologiche, proprio perché questa violenza era un elemento necessario e funzionale a creare nell’esecutore le condizioni mentali per poter affrontare e superare senza traumi eccessi di violenza sempre maggiori. Non solo. Tra le strategie di assimilazione al potere perseguite dai funzionari del Lager, vale a dire dall’aristocrazia, dai prominenti, c’era quella, dice Sofsky, del “servilismo mimetico” (mimetische Servilität). Per mostrare la loro fedeltà all’ordine del terrore proprio dei campi di concentramento essi trattavano i loro compagni prigionieri con la stessa brutalità delle SS, e talvolta persino le superavano, mostrandosi ancora più crudeli (Sof 160 ss). Proprio in questo Exzess, secondo lo studioso, risiedeva la causa principale
120
Il negativo e l’attesa
(Ursache), il meccanismo perverso che metteva in moto nei Kapo la crudeltà senza limiti (Entgrenzung der Graumsamkeit). A prescindere dalla loro catalogazione nel campo, in sé stessi questi potevano non essere così crudeli; erano costretti però ad esserlo per potersi rendere indispensabili al sistema e quindi in ultima analisi per poter sopravvivere, svolgendo ad esempio i loro incarichi in maniera eccessivamente zelante. Era proprio per questa loro eccessività in violenza che essi erano particolarmente temuti. Questa disumana logica dell’eccesso in violenza non era però solo alla base delle attività di massacro svolte dalle Einsatzgruppen, dai carnefici, ma, suggerisce Sofsky, era anche alla base delle crudeli attività svolte dalla élite dei prigionieri all’interno del Lager. La crudeltà era il tratto distintivo non solo “nella competizione (Wettbewerb) per la conquista del rango e del prestigio”, lo era anche per segnalare l’appartenenza a quel loro rango di prominenza (Sof 173). Anche in questo particolare caso si rendeva dunque necessaria la disumana orribilità del negativo, cioè dell’eccesso di crudele violenza. Ecco perché, per evidenziare la loro indispensabilità all’interno del sistema concentrazionario, ai Kapo e ai Blockältester non interessavano tanto paradossalmente la quiete e la disciplina del Block, bensì le situazioni caotiche e il disordine che essi stessi provocavano al solo fine di poter intervenire con rinnovata durezza (Sof 167 ss). Sicché come era necessario l’esistenza dell’élite dei prigionieri al sistema gerarchico del Lager, così era necessaria e indispensabile determinare prima il disordine per poter poi imporre l’ordine, anche se mai in maniera definitiva: “la disciplina”, dice infatti Sofsky, “non doveva mai diventare totale”.
CAPITOLO SECONDO ASPETTI FILOSOFICI E CULTURALI DELLA NECESSARIA PRIORITÀ DEL NEGATIVO
una [...] umanità supercolta e quindi necessariamente fiacca, come quella degli Europei di oggi, ha bisogno non solo di guerra, ma addirittura delle guerre più grandi e terribili – ossia di temporanee ricadute nella barbarie. (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, VIII, af. 477)
1. Il tragico giogo della dialettica Le opere di Caspar David Friedrich – vi abbiamo accennato nel primo capitolo (par. 2) – rappresentano l’esaltazione della natura, nel seno della quale l’uomo compare bensì, ma quasi sempre con lo sguardo rivolto in mistica contemplazione verso l’orizzonte, oltre sé stesso, verso l’altrove, verso l’altro. Come a dire che il vero subiectum della vita è e resta la natura e che l’uomo, al pari di ogni altro ente, ne è un semplice attributo. Solo con la dialettica hegeliana si era riusciti in qualche modo a prendere le distanze dall’attaccamento morboso all’autonomia delle leggi della natura e a superare il rigoroso conflitto delle facoltà su cui il kantismo trovava il suo fondamento. Eppure, nonostante Hegel, e forse proprio grazie ad Hegel e alla sua concezione dello Stato1, per certi versi non lontana da quella platonica e da quella hobbesiana, si è giunti lo stesso ad Auschwitz, da dove è emersa quella “zona grigia” per la comprensione della quale Levi ha speso tutta la sua vita da “offeso”. 1
“Non si stenta” – scrive a tal riguardo il filosofo cattolico Anton Hilckman in un articolo del 1932 – “a trovar le radici di questa concezione inumana [quella nazionalsocialista] nelle dottrine hegeliane”. Hegel, precisa Hilckman, “ha [bensì] deificato lo Stato; ma non ha entusiasmato delle masse, il suo panteismo dello Stato non ha affascinato la piccola borghesia, l’impiegato commerciale, il garzone del parrucchiere” (cfr. Emilio Gentile, Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi, Feltrinelli, Milano 2010/2016, cit., p. 311).
122
Il negativo e l’attesa
Come è potuto accadere? Come, cioè, la meditazione dialettica hegeliana ha potuto in qualche modo rappresentare anch’essa una delle tappe che hanno condotto al nazionalsocialismo? Com’è stato possibile, più in generale, che proprio da una terra di grandi spiriti liberi come la Germania sia venuto fuori il sistema concentrazionario nazista, il quale, secondo Levi, “rimane […] un unicum, sia come mole sia come qualità” (SS 12)? Una risposta a questa domanda si potrebbe forse ricavare dal detto heideggeriano “Wer gross denkt, muss gross irren”, che Pareyson traduce “A grandi pensieri corrispondono grossi errori”2. Ora, che l’essere si dia dialetticamente è e resta indubbiamente una delle più profonde idee che il pensiero umano sia mai riuscito a concepire. Da Eraclito, e prima ancora da Anassimandro, fino ai nostri giorni, questa concezione ontologica sembra costituire il vero fondamento della cultura occidentale, dal momento che sia l’essere in quanto tale sia l’esistenza umana sono in sé stessi, nel loro intimo, dialetticamente dominati dalla contraddizione. Emblematicamente il frammento 111 di Eraclito suona: “La malattia rende piacevole e buona la salute, la fame la sazietà, la fatica il riposo”3. E nello stesso spirito eracliteo potremmo a maggior ragione aggiungere: la morte rende piacevole e buona la vita. Nella sua essenza questo frammento significa: all’uomo è impossibile percepire e godere della piacevolezza e della bontà della salute, della sazietà e del riposo e più in generale della vita (il positivo) senza aver prima necessariamente patito la malattia, la fame, la fatica e la morte (il negativo). Nel più zelante discepolo di Eraclito, cioè in Hegel, la dialettica trova la propria legittimazione formale nello spirito come stimolatore dell’astuzia della ragione. Il meccanismo dialettico, peraltro, genera una forza così seducente da attrarre e da ricomprendere in sé anche le diverse e opposte posizioni. Ad esempio, pur nella strenua opposizione a Hegel, alla fine del suo Esordio alla Malattia mortale, Kierkegaard sostiene che “quando si teme un pericolo maggior, l’uomo ha sempre il coraggio di affrontarne uno minore; e quando un pericolo si teme infinitamente, è come se gli altri non esistessero 2 3
L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971, p. 244. Cfr. H. Diels, W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, tr. it. di G. Giannantoni, I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 19863, vol. I, p. 218.
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo123
affatto”4. Questa la grande lezione dialettica che il filosofo danese trae non solo da Hegel, ma anche dalla kantiana Antropologia pragmatica e, in maniera ancora più profonda, dalle lezioni schellinghiane di Erlangen. Sembra quindi che non ci si possa in nessun modo sottrarre dal giogo della dialettica. Molto chiaro a tal proposito il commento di Remo Cantoni alla Malattia mortale: In questo commento di antropologia la disperazione è considerata un privilegio dell’uomo, il suo distintivo caratteristico nel mondo animale, la sua introduzione a una vita più consapevole, alta e responsabile. Tutti gli scrittori esistenzialisti hanno seguito Kierkegaard lungo la strada di un sentimento metafisico fondamentale che mette l’uomo in crisi e lo solleva al di sopra della banalità quotidiana. L’angoscia di Heidegger, la nausea di Sartre, le situazioni-limite di Jaspers – per non ricordare che alcuni esempi – sono altrettante filiazioni dell’intuizione kierkegaardiana che solo una rottura radicale e sconvolgente con il mondo della routine quotidiana può dare l’abbrivio alla conoscenza e alla riforma intellettuale e morale dell’uomo.5
Lungo questa strada della consapevolezza e della responsabilità che l’intuizione di Kierkegaard dialetticamente traccia in opposizione a Hegel si incontra anche Nietzsche, nel cui pensiero tragico è pure ravvisabile l’influsso esercitato dall’invisibile forza dialettica che, come una sirena, affascina e ammalia persino il viandante, il Freigeist. Tra l’impulso dionisiaco e quello apollineo non si dà mai una conciliazione, eppure l’insieme dei due vive ed opera solo come unità degli opposti. In quanto lotta, l’esistenza delineata dal primo Nietzsche non può che risultare pessimistica e trova la sua tragica espressione nella risposta che il saggio Sileno dà al re Mida: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”6.
4 5 6
S. Kierkegaard, La malattia mortale, Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1981, p. 6. Ivi, pp. XVI-XVII cn. Si pensi solo, a tal proposito, all’episodio biblico di Abramo in Timore e tremore. F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, tr. it. di S. Giametta, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1988, pp. 31-32.
124
Il negativo e l’attesa
La presa di coscienza di questa saggezza popolare affiora nell’uomo solo in “singoli” e “fuggevoli momenti”7 e segna, secondo Nietzsche, quell’attimo in cui comprendiamo – e per questo dunque risulta dialetticamente positivo – che solitamente non usciamo dall’animalità, che “siamo […] animali che sembrano soffrire insensatamente”. Anche Levi, durante la permanenza ad Auschwitz, ha vissuto un tale momento estatico. Scrive: “In un attimo, con una intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata e siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile” (SE 23). Nonostante però la naturale inclinazione di Levi a cogliere il negativo dell’esistenza, si può forse definire anche questa sua terribile rivelazione nel deportato una “grande illuminazione sull’esistenza”, il prodotto di una “disposizione metafisica”, “un tendere verso un più di potenza”, un vitalismo dionisiaco, ossia un “desiderio dell’avversità e dell’ostacolo”, una “volontà di provare l’esaltazione del trionfo e della vittoria”8? Si può insomma vedere anche nel caso di Levi un “pessimismo dionisiaco” inteso come un “cercare volontariamente gli aspetti terribili e problematici dell’esistenza al solo scopo di mettere alla prova la forza di uno spirito e di misurare quanta volontà, e ciò significa quanto orrore, esso sia in grado di sopportare” (cn)? È possibile in altre parole interpretare anche quella rivelazione al fondo di Auschwitz come un’espressione estrema della volontà di potenza, cioè di quell’innata “disposizione metafisica”, e in ogni caso umana, troppo umana? È possibile in ultima analisi pronunciare un sì dialetticamente tragico dinanzi a uno dei fenomeni più drammatici e aberranti che l’umanità abbia finora vissuto, cioè all’unicum di Auschwitz? Cogliendo l’essenza del pensiero tragico nietzscheano, Baioni prosegue: “L’uomo della volontà di potenza che nel desiderare l’eterno ritorno dell’uguale dà la prova estrema del suo assoluto ed incondizionato sì all’esistenza si guarda bene dal rimproverare alla vita la pena, il dolore e la contraddizione. Egli esprime anzi la speranza che l’esistenza possa essere ancora più dolorosa”. Ma è ancora possibile continuare a considerare “tragicamente”, vale a 7 8
F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen, tr. it. di M. Montinari, Considerazioni inattuali (III), Schopenhauer come educatore, Einaudi, Torino 1981, pp. 202-204. Ivi, cfr. l’Introduzione di Giuliano Baioni, p. LVIII.
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo125
dire dialetticamente e positivamente anche un’esperienza inumana come quella vissuta dai deportati nei Lager nazisti? Assieme a Levi, a Wiesel e a Vidal-Naquet9, crediamo di no. “Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero” (SE 23). Ecco il sublime, cioè l’incomprensibile e l’ineffabile metatorto subito da Levi e dalle vittime della Shoah. Uno degli effetti dell’organizzazione burocratica di una qualsiasi attività, fa osservare a questo riguardo Bauman, è lo sfruttamento delle qualità etiche degli esecutori, ai quali non interessa più tanto il fine etico della loro azione, ma solo la buona esecuzione (Baum 147). Un aspetto questo, come si può vedere, che sarebbe persino capace di trasformare anche il buon Faussone in uno spietato esecutore. Un altro terribile effetto della burocratizzazione dell’attività è la disumanizzazione degli oggetti di cui essa si occupa in termini essenzialmente quantitativi e di guadagno, anche quando a questi oggetti corrispondono degli esseri umani. Il linguaggio burocratico usato per riferirsi a questi oggetti non può, dice Bauman, avere una valenza etica, (Baum 149), ed è probabilmente da qui, da un simile dissidio, da un tale différend linguistico, direbbe Lyotard, che sorge quella che Levi vivrà come un’offesa insanabile: non saremo ascoltati, ma anche se parlassimo non ci capirebbero, perché i nostri diversi linguaggi non consentono di comprendersi reciprocamente. Il linguaggio degli uomini, infatti, è etico, mentre quello della burocrazia – senza della quale l’Olocausto non sarebbe stato nemmeno pensabile (Baum 37)10 – è disumano, perché tratta gli uomini come oggetti. Proprio con “l’emancipazione della ragione dalle emozioni, della razionalità dai vincoli normativi, dell’efficienza dall’etica”, la modernità, dice Bauman, ha rappresentato il fallimento di tutte le salvaguardie culturali nei confronti del genocidio. “L’Olocausto”, ribadisce, “rappresenta un fallimento, non un prodotto, della modernità” (Baum 21), rappresenta la “verità della modernità” (Baum 22), il “paradigma della ra9
P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire. “Un Eichmann de papier” et autres essais sur le révisionnisme, Ed. La Découverte, Paris 1987, p. 172 ss. 10 La burocrazia ministeriale, dice Welzer riprendendo un’espressione di Franz Neumann, è un specie di Behemoth: i suoi membri sono molto ambiziosi, non si interessano ai valori politici e sociali, non sono né a favore né contro il nazionalsocialismo, ma sono solo per la Ministerialbürokratie (Wel1 113, nota 50).
126
Il negativo e l’attesa
zionalità burocratica moderna” (Baum 206)11. La scienza moderna, come pure il silenzio delle Chiese, “si dimostrò incapace di impedire allo stato di trasformarsi in un’organizzazione criminale”, divenendo essa stessa “strumentale al compimento di tale trasformazione”. Alla luce dell’esame dell’Olocausto, Bauman fa notare, tra l’altro, che una colpa del discorso scientifico – nel quale si possono far rientrare anche quello sociologico, quello filosofico (ontologico) e quello storico – è stata quella di trascurare o almeno di porre in secondo piano la dimensione morale o etica (Baum 233-234). Insomma: “Il lungo, e spesso doloroso, processo di civilizzazione non riuscì ad erigere una sola barriera contro il genocidio” (Baum 155, 158). Da un punto di vista psicosociologico anche Welzer ritiene che gli ideali della modernità, cioè il progresso, la razionalità e l’efficienza, abbiano trovato attuazione nei massacri industriali di massa durante la Seconda guerra mondiale (Wel1 7). Si chiede infatti dal suo canto lo studioso tedesco: se, nonostante tutti i loro sforzi, le moderne scienze sociali non riescono a comprendere appieno il fenomeno dell’Olocausto, questo non potrebbe forse dipendere dal fatto che tale fenomeno, essendo una deviazione dal mondo civile, abbia avuto come modello attuativo il pensiero scientifico, cioè un modello che fa astrazione da ogni considerazione morale e nel quale l’orrore, das Grauen, non può trovare posto se non come qualcosa di accidentale? (Wel1 9). Tali scienze invece avrebbero dovuto capire che l’Olocausto non è affatto un evento accidentale, un incidente di percorso della modernità, ma una possibilità strutturale insita nello sviluppo della moderna società (Wel1 14). 2. La ripresa di Nietzsche nel neoromanticismo pangermanista e nazional-patriottico Secondo il Nietzsche tragico l’allargamento dell’orizzonte di verità si deve alla volontà o alla capacità di affermare e di liberare il dionisiaco, il che equivale a non “rimproverare alla vita la pena, il 11 “Così, con qualche colpo di penna”, dice Hilberg nella parte del suo saggio dedicato all’espropriazione, “la burocrazia amministrativa [tedesca] [ridusse] una comunità, poco prima fiorente, ricca di una lunga esperienza e di capitali considerevoli, a essere nient’altro che un gregge affamato, costretto al più duro lavoro e che arrivava a sera elemosinando un magro pasto” (Hil 149).
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo127
dolore e la contraddizione”. Non potendo pertanto esserci aumento di verità se non con una pena lacerante, ne viene che, oltre all’essere e all’esistenza, anche la verità ha la sua intima possibilità nella dolorosa contraddizione. A causa della quale, la sua essenza sembra essere caratterizzata da un innato narcisismo, simile a quello che Freud attribuisce alle cellule dei neoplasmi maligni, la cui sopravvivenza dipende paradossalmente dalla distruzione dell’organismo (Fre2 80). L’intrinseca ambiguità della verità, così come la concepisce Nietzsche, risulta inoltre paragonabile a quella che contraddistingue la nevrosi dell’individuo moderno, il quale può follemente esaltarsi perché l’orrore che egli prova guardandosi nello specchio non è una punizione di Dio, ma solo opera di sé stesso. Se c’è una colpa, quindi, questa è tutta dell’uomo. Ma se è l’uomo che attende istintivamente all’affermazione e alla liberazione del dionisiaco, non può esservi colpa. Una volta annunciata la morte di Dio, e avviato con essa, di conseguenza, il declino della morale cristiano-borghese, la volontà e perciò le possibilità di verità per l’uomo si accrescono notevolmente. Con Dio si dilegua finalmente la nostra più lunga menzogna. L’uomo è ora libero di danzare, volteggiare, correre come un cane scatenato, regredendo così al suo stato primitivo e selvaggio. Ora, dopo aver spalancato le porte al nihil, è libero di crearsi una propria morale, al di là del bene e del male. Ovviamente i primi tentativi risulteranno sempre difettosi, ma ciò non vuol dire tuttavia che non si abbia ben chiaro l’obiettivo da raggiungere. Ad esempio, la morale völkisch del regime nazionalsocialista, che lesse a modo proprio il messaggio nietzscheano, ebbe come obiettivo principale l’annichilamento di tutto ciò che nella vecchia morale (ad esempio l’uguaglianza fra gli uomini e l’amore cristiano per il prossimo) poteva impedirne l’affermazione come totalitarismo razziale. Le sue premesse storiche, sostengono a ragione Jenninger, Lukács, Jaspers, Hilberg e lo stesso Levi12, vanno certamente 12 “[I]l verbo nazionalsocialista [scrive Levi] trovò eco proprio nelle tradizionali virtù dei tedeschi, nel loro senso della disciplina e di coesione nazionale, nella loro insaziata sete di primato, nella loro propensione all’obbedienza prona. Per questo sono pericolosi uomini come Baer [il maggiore delle SS che sostituì Höss alla carica del campo di Auschwitz]: gli uomini troppo ligi, troppo fedeli, troppo proni” (FS 126). “Fino all’ultimo respiro”, scrive in particolare Todorov, Höss “crederà che la guerra riveli la verità della vita” (Tod1 187 cn).
128
Il negativo e l’attesa
individuate nella tradizione conservatrice, romantica, irrazionalista e nazionalista della Germania13 – quella stessa che Thomas Mann difendeva nelle sue Considerazioni di un impolitico. Analizzando la situazione della colpa all’indomani della resa tedesca agli americani, Jaspers è molto preciso. Scrive a tal riguardo: Noi dobbiamo accettare la colpa dei padri. Tutti noi portiamo la colpa del fatto che, tra le premesse su cui poggiava la vita tedesca, era data la possibilità di un tale Regime. Ciò non significa in alcun modo che noi dovremmo riconoscere l’origine dei misfatti nazionalsocialisti “nel mondo delle idee tedesche”, nel “pensiero tedesco del passato”. Ma significa che nella nostra tradizione di popolo si nasconde qualche cosa, che, possentemente e minacciosamente, determina il nostro pervertimento.14
A tal proposito, più che con Jaspers, Lukács è in sintonia con Jenninger. Nella Prefazione a La distruzione della ragione asserisce: “La svalutazione dell’intelletto e della ragione […], il ripudio del progresso storico-sociale […] sono motivi che ritroviamo praticamente in ogni pensatore irrazionalista” (Luk 10). Qui, per il XIX secolo, il filosofo pensa soprattutto a Schelling, a Schopenhauer, a Kierkegaard e a Nietzsche, e per il XX secolo, tra molti altri, in particolare a Jaspers e ad Heidegger. Secondo Lukács, dopo Hegel e soprattutto dopo il fallimento della rivoluzione del 1848 – che doveva essere una prosecuzione di quella francese del 1789 – in Germania si è andato affermando una linea filosofica irrazionalistica che, consapevolmente o meno, determinerà la distruzione della ragione e condurrà ai fascismi europei, al nazionalsocialismo hitleriano. Per ragione qui, nel suo saggio del 1954, il filosofo ungherese intende non tanto quella kantiana, profondamente segnata dal soggettivismo trascendentale, bensì quella hegeliana, contraddistinta 13 Specifici dell’ideologia nazista, dice Todorov, sono i “riferimenti alla tradizione romantica, alla mistica della terra e dei morti, degli eroi pagani medievali” (Tod2 105). 14 K. Jaspers, La colpa della Germania, cit., p. 91 cn. Anche Goldhagen ravvisa nei tedeschi “qualcosa di particolare, una peculiarità del patrimonio culturale politico, che informava a sé l’idea che avevano delle vittime a un punto da disporli, perfino con entusiasmo, a torturare e ammazzare gli ebrei, convinti della legittimità delle loro azioni e di tutta quell’impresa” (Gol 424 cn).
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo129
dalla dialettica storico-filosofica, quella stessa dialettica che Marx riprenderà in chiave critica e che trasformerà da idealistica in materialistica. Il saggio lukácsiano si apre con la critica serrata all’intuizionismo e al “selvaggio misticismo” dell’ultimo Schelling, al pessimismo schopenhaueriano, inteso come “giustificazione filosofica all’assurdità di ogni attività politica” (Luk 207), cioè come prospettiva nichilistica che libera l’individuo “da tutti i doveri sociali, da ogni responsabilità di fronte allo sviluppo progressivo dell’umanità” (Luk 247-248). Per questo motivo sia l’individualismo ascetico di Schopenhauer sia quello esistenzialistico di Kierkegaard costituiscono, secondo Lukács, una apologetica indiretta dell’ordine borghese-capitalistico tesa a impedire ogni modifica della società e a ricondurre l’intelligenza “sui binari dello sviluppo reazionario della borghesia” (Luk 306). Anche il pensiero di Nietzsche si colloca a pieno titolo all’interno dell’orientamento reazionario del suo tempo. Secondo Lukács, l’irrazionalismo nietzscheano fa leva non già sul carattere dialettico, cioè progressista e rivoluzionario, della relazione Signoria-Servitù, del rapporto tra borghesia e proletariato, bensì sull’immodificabile destino di sottomissione del gregge, dei più deboli, ai più forti, ai padroni della terra. In Nietzsche, scrive infatti Lukács, “la lotta di classe si presenta solo come lotta delle razze superiori e di quelle inferiori” (Luk 358). Per l’affermazione di questo destino, al quale si contrappongono l’etica e la logica del cristianesimo, dell’idealismo hegeliano e del socialismo marxista, Nietzsche si serve del vitalismo dionisiaco, vale a dire del recupero e dell’esaltazione degli istinti e della crudeltà ad essi associata, istinti necessariamente brutali e barbarici in quanto l’obiettivo nietzscheano è la trasvalutazione di tutti i valori etico-sociali e filosofici, dei quali ogni forma di civiltà democratica ed egualitaria ha bisogno per la propria conservazione. In tal senso la filosofia nietzscheana appare a Lukács una “apologia dell’imperialismo aggressivo” (Luk 320), una giustificazione irrazionale non solo dell’imperialismo reazionario, ma anche dell’egoismo competitivo capitalistico e quindi dell’hitlerismo e del suo congenito razzismo. “La maggior parte delle sue affermazioni morali”, osserva infatti il filosofo ungherese, “diventarono terribile realtà nel regime di Hitler” (Luk 343). La propaganda hitleriana ha potuto utilizzare, ad esempio, la critica nietzscheana all’egualitarismo cristiano e socialista. Proprio sulla scorta di un tale elemento
130
Il negativo e l’attesa
dionisiaco, presupposto dalla mentalità fascista (Luk 341), “non si tratta”, afferma Lukács, “di superare, di educare, di umanizzare gli istinti barbarici, ma di costruire sulla loro base, convogliandoli in canali adatti, la grande civiltà” (Luk 328). Si tratta quindi di un’“etica della barbarie” (Luk 360). Anche chi come Dilthey, che riduce la vita a esperienza vissuta e che fa dell’intuizione, anziché del pensiero concettuale e razionale, lo strumento della conoscenza, non fa, secondo Lukács, che “orientare la filosofia verso la confusa fantasticheria e l’arbitraria creazione di miti”, i quali vedranno in lui “un preparatore, anche se inconsapevole e indiretto, della futura, aperta lotta contro la ragione, e dell’oscuramento della coscienza filosofica in Germania” (Luk 444). E così pure la filosofia della vita e l’estremo relativismo di Simmel, che prende le mosse dal “tutto è permesso” e dall’annuncio nietzscheano della morte di Dio, determina, secondo Lukács, un “pessimismo eroico” e quel “realismo eroico” che sarà alla base della Weltanschauung prefascista e fascista” (Luk 454), come ad esempio in Jünger. “Secondo la concezione della giovane generazione militante dei filosofi della vita”, “l’edificante ‘esperienza del fronte’”, scrive Lukács, “è la base interiore del futuro rinnovamento della Germania” (Luk 537). La tanto desiderata guerra imperialistica veniva intesa da Ernst Jünger come “potenziamento della vita di fronte al morto mondo borghese. In tal modo”, conclude lo studioso ungherese, “l’irrazionalismo della filosofia della vita assume apertamente la sua missione storica reazionaria, che è la lotta diretta contro la Weltanschauung del proletariato, contro il marxismo-leninismo” (Luk 538). Il morto mondo del borghese [scrive Lukács] è un mondo della “sicurezza”. Questa critica demagogica della civiltà borghese dal punto di vista della filosofia della vita è della massima importanza per la fondazione ideologica del fascismo. A differenza di tutte le altre correnti reazionarie, che predicano il ritorno ai precedenti periodi di sicurezza e di stabilità, l’azione del fascismo prende le mosse dalla crisi medesima, dal dissolversi di ogni condizione di sicurezza. [Dal negativo, diremmo noi]. E […] poiché la sua tendenza principale è di organizzare la guerra di aggressione imperialistica, il fascismo tende a questo nichilismo militante, che scuote consapevolmente ogni sicurezza nella vita del singolo. Perciò l’ideologia della “sicurezza” deve essere resa ad ogni costo odiosa come morta concezione borghese: il fascismo vuole educare un tipo brutale di lanzichenecco che da nulla è inibito e non
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo131
rifugge da nulla. […] (Osserviamo solo di passaggio che la filosofia esistenziale di Heidegger e di Jaspers ha molto contribuito da parte sua alla distruzione dell’ideologia della “sicurezza”) (Luk 540 cn).
Infatti, inteso come “ideologia del più tristo filisteismo, dell’angoscia, del tremore, della preoccupazione”, l’esistenzialismo, che “alla vigilia della conquista del potere da parte di Hitler” andava sotto il nome di “realismo eroico”, ebbene questo “filisteismo pretenzioso e tragico” era, secondo Lukács, proprio alla base “dell’influsso esercitato da Heidegger e da Jaspers” (Luk 498). In particolare, a proposito della disperazione kierkegaardiana – ed è quanto qui ci interessa maggiormente sottolineare – Lukács mostra come essa possa essere convertita in “disperata attività reazionaria”. Non a caso, infatti, insiste Lukács, “la demagogia di Hitler ha sempre fatto appello alla disperazione”, ossia a quello stato d’animo che Heidegger, interpretandolo come Angst, come angoscia, ha indicato come condizione dell’Eigentlichkeit, dell’autenticità, creando così “il terreno più favorevole per l’affermarsi del movimento hitleriano” (Luk 512). Questo stato d’animo della disperazione – uno degli aspetti più ambigui del negativo – è stato, secondo Lukács, volutamente diffuso negli ambienti della borghesia e particolarmente approfondito dagli intellettuali, e ciò allo scopo non solo di deviare le eventuali tendenze alla rivolta, ma soprattutto per fornire alla reazione aggressiva un “aiuto negativo tutt’altro che trascurabile” (Luk 531 cn). Proprio a causa del suo anticristianesimo dionisiaco, Nietzsche venne “accolto nel pantheon del neoromanticismo” (Mos 86), un movimento culturale tedesco della seconda metà del XIX secolo che, in quanto fondato sul culto del Volk e della terra natia, costituì una delle radici del Terzo Reich. Il Volk veniva inteso da esso come un elemento intermedio grazie al quale l’individuo poteva aspirare al Geist, allo spirito vitale, all’originaria e inesauribile energia cosmica. In virtù dell’unione mistica tra Volk e suolo natio (Boden), il territorio per i neoromantici diventava paesaggio, la cui bellezza armonica generava quell’essenza che artisti come Caspar David Friedrich o come quelli che successivamente si stabiliranno a Worpswede, cercavano di rappresentare nelle loro tele, dalle quali peraltro il giovane Rilke traeva ispirazione; una bellezza che anche
132
Il negativo e l’attesa
i non artisti potevano ritrovare attraverso il senso dell’appartenenza al Volk, alla comunità rurale. A distruggere questa bella opera d’arte divina, a contaminare questo idillio, a spezzare questa unione mistica, a interrompere la sintonia di amorosi sensi, a rompere questa sacra armonia originaria tra Volk e Boden, a negare insomma tutta questa Kultur, non solo la Zivilisation, l’incipiente sviluppo industriale e materiale apportato dalla modernità, ma anche la presenza dell’ebreo, il quale, oltre che come corpo estraneo e straniero per antonomasia, appariva soprattutto come interessato fautore di quella civilizzazione moderna. Incarnazione protocristiana di questa figura dell’ebreo dannoso per la Kultur e per il Volk nazional-patriottico tedesco, san Paolo, l’apostolo delle genti, accusato, da tutti i neoromantici e dallo stesso Nietzsche (che lo definì “disangelista”) di aver irrigidito, dogmatizzato e quindi snaturato il messaggio rivoluzionario di Gesù. Sarà soprattutto per evidenziare questo snaturamento paolino-cattolico che Lutero metterà mano al suo noto commento alla Lettera ai Romani. Una critica, questa luterana, a cui a fine Settecento, attraverso la rivista Athenäum e l’ammirazione per Goethe, si erano ispirati a loro modo alcuni dei fondatori del romanticismo tedesco, e cioè non solo i fratelli Schlegel (figli di un pastore luterano, come lo stesso Nietzsche), ma anche poeti come Tieck e Novalis. Peraltro, la loro particolare abitudine di incontrarsi in un circolo di Jena, verrà ripresa coerentemente dai neoromantici, alcuni dei quali avevano fatto della loro casa, sempre a Jena, luogo di convegno e di pellegrinaggio per intellettuali nazional-patriottici. E che nell’umiliante Primo dopoguerra Nietzsche fosse stato assunto dai suoi più zelanti discepoli come “supremo modello tedesco”, come interprete dei più profondi desideri della Germania, lo si può notare, dice Mosse, dalle monografie che alcuni studiosi hanno dedicato al filosofo dello Zarathustra. Autori, i quali “convenivano tutti […] nella necessità di una personalità d’eccezione, di un capo”, che fosse, come un redentore, in grado di incarnare tutte le aspirazioni del Volk germanico e di saperle soprattutto realizzare; un capo che, come il cavaliere di Dührer, sapesse camminare fianco a fianco con la morte e con il diavolo. Un Ritter, quindi, che fosse capace di convivere con il Negativ, con il pericolo, con il rischio continuo, e che, malgrado ciò, fosse anche in grado di conquistare, con la sua volontà e con la sua forza, le mete da lui stesso
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo133
prefissate. Mosse sintetizza in modo egregio il pensiero di uno di questi discepoli nietzscheani (Ernest Bertram): non aveva forse il grand’uomo [Nietzsche] affermato che ciascuno deve passare per gravi perigli, prima di raggiungere la vetta cui è destinato dall’intensità della propria disperazione e dal coraggio con cui affronta le sofferenze? E questo [precisa Mosse] lo si voleva applicabile alle condizioni della Germania contemporanea [il saggio di Bertram su Nietzsche è del 1919] e in Nietzsche si vedeva l’incarnazione della qualità del capo, necessario veicolo alla meritata grandezza nazionale. (Mos 259-260)
Per i neoromantici tedeschi non c’è eroe senza guerra. Ecco perché per essi la guerra, non solo quella celebrata nelle leggende e nei miti, è “madre degli eroi” (Mos 93). Soprattutto per questo gli eroi vanno alla ricerca della propria guerra come della propria madre. E se non la trovano, fanno di tutto per evocarla e provocarla. Per l’eroe la guerra è pertanto necessaria. Ciò presuppone il fatto che l’uomo (o la nazione che egli rappresenta) sia già consapevole della propria eroicità, oppure che, viceversa, sia consapevole della mancanza di questa qualità, e in questo caso fa di tutto – evoca anche la guerra – per acquisirla. Ai neoromantici tedeschi mancava ancora anzitutto l’unità della nazione e occorreva pertanto sviluppare la qualità eroica per conquistarla. Essi potevano rintracciare questa qualità nel loro passato mitologico, soprattutto quello che era stato creato con l’ausilio dello scritto di Tacito Sulla Germania. Proprio a questo mitico passato di coraggio e di purezza si ispireranno i tedeschi e soprattutto i nazisti per rifarsi della sconfitta subita nella Prima guerra mondiale. Due nietzscheani come Franz Schauwecker e Ernst Jünger, avendo fatto l’esperienza del fronte durante il Primo conflitto mondiale, e avendo glorificato la guerra come momento profondamente formativo, sono diventati gli ideologi dei Freikorps, cioè di coloro che non accettarono la sconfitta, almeno sul fronte orientale. Con ciò stesso, questi due autori hanno dato un ulteriore contributo alla formazione e al consolidamento del carattere rude, freddo e selvaggio richiesto sia dai nazional-patrioti neoromantici sia dai nazionalsocialisti, entrambi antisemiti. Con il loro culto della “bella morte” essi contribuirono a trasformare hegelianamente tutta la negatività insita in ogni guerra in un momento positivo, in un momento necessario che,
134
Il negativo e l’attesa
proprio per la sua terrificante distruttività, avrebbe consentito di vivere più intensamente, e quindi in maniera più autentica, il legame, il Bund, cioè lo spirito di appartenenza al Volk, alla nazione, e di fare in tal modo l’“esperienza della nazione”. Perché, dice ad esempio Schauwecker, con il tono profetico di un Hölderlin o di un Nietzsche, “Soltanto là dove vi sia distruzione, può aversi una così sfolgorante rivelazione” (cn). Fa bene, pertanto, Mosse a riportare questo passo di Schauwecker, perché secondo noi in esso si può cogliere in tutta evidenza una delle radici culturali tedesche che maggiormente innervano e vivificano il principio della necessaria priorità del negativo. Giacché, commenta acutamente Mosse, “soltanto ritrovando lo stato d’animo della lotta [quei giovani esaltati dei reparti d’assalto] avrebbero potuto ridare un senso alla propria esistenza nel quadro della rinata, esaltata gloria del Volk” (Mos 283-284). Come se solo l’esperienza della lotta odiosa, e non quella della festa gioiosa, fosse in grado di dare senso all’esistenza delle persone. Come se solo facendo la guerra contro gli altri si potesse provare il senso di affratellamento con il proprio Volk. Come se per far rinascere, consolidare e avvertire il legame di appartenenza a una nazione fosse imprescindibile il conflitto con le altre nazioni. Ci sono altre vie, sempre poco esplorate, per poter ricreare quel legame. Al contrario di quanto spesso lascia vedere la realtà, la via della guerra è quella più facile, pur con tutto il suo inevitabile carico di orrore. Assai più difficile è invece la via della pace: ed è difficile proprio perché costringe a fare i conti e a superare i limiti mentali generati dal quel principio, da quel pregiudizio dialettico, limiti che, ovviamente, finiscono con l’irrigidirsi e con il tradursi in ostacoli storici. Dinanzi a un presente così umiliante e materialista, per sfuggire dalla modernità razionalista, intellettualista e positivista, i mistici del movimento neoromantico tedesco intendevano riscoprire un passato più degno. In questo passato essi collocavano non solo la purezza tacitiana dei germani, ma anche un cristianesimo germanico, depurato dal dogmatismo paolino, come pure i miti pagani del Volk, della terra, del sangue e del sole, cioè gli elementi dello spirito cosmico che affratellava gli adepti. Un tale passato riviveva, secondo loro, specialmente nel richiamo nietzscheano alla terra e al dionisiaco liberato da ogni regola cristiano-paolina. Un impulso sregolato, dunque, questo, un istinto primordiale e quindi naturale che, secondo l’ideologo dell’Übermensch, occorreva risvegliare e liberare dalle pastoie del
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo135
cristianesimo, grazie soprattutto alla filosofia della volontà di Schopenhauer e alla musica totale di Wagner. Ma per il Freigeist anche da questi autori ci si sarebbe dovuti congedare se qui e là avessero mostrato segni di debolezza, cioè di pietà cristiana. Non nel caos della città moderna, dunque, ma nel tranquillo e solitario rapporto con la natura era possibile rivivere il paesaggio dell’anima, un paesaggio nel quale oltre ai boschi, ai laghi e alle montagne, compariva anche la gente semplice, cellule del Volk, un paesaggio non ancora rovinato dalla modernità industriale e che apparteneva a un passato che ora si voleva ripristinare come unica via di salvezza da un presente impuro e alienante. La romantica interdipendenza uomo-natura si rifletteva inoltre non solo nel legame nazional-patriottico tra Volk e paesaggio, ma anche nell’assunto pseudoscientifico secondo cui l’aspetto esteriore era un riflesso dell’anima. Su affermazioni di questo genere i nazisti fonderanno le loro teorie razziali. Non solo. Si serviranno finanche di alcuni scritti kantiani sull’influenza che i fattori geografici avrebbero sulla costituzione psicofisica degli uomini. Il neoromanticismo tedesco, insomma, vuole recuperare il passato, le origini dei germani, anche solo in forma mistica e mitizzata, mirando all’affermazione e alla formazione di un Volk diverso e superiore rispetto agli altri. L’idealismo di questi protonazisti consiste pertanto nell’assunzione ontologica di un Negativ antitetico come elemento dialetticamente necessario per l’affermazione e il recupero di un Positiv tetico innato nell’essenza razziale del popolo tedesco. Secondo i neoromantici e i nazional-patriottici, il culto romantico della natura, e del paesaggio prussiano in particolare, aveva una duplice e reciproca finalità: estetica e insieme pratico-formativa. Per essi la bellezza aspra e selvaggia della natura esteriore, del paesaggio tedesco, si rifletteva nella bellezza fisica del corpo dell’uomo nordico, che si voleva naturalmente contraddistinto da un carattere fermo e duro. E come le leggi della natura regolavano l’esistenza degli istinti, così le leggi naturali della razza giustificavano gli istinti umani e la forza necessaria per salvaguardarla. Anche perché, secondo i razzisti, dalla natura non si può ricavare nessun principio di uguaglianza15. La forza insita nell’istinto di conservazione era dunque l’elemento che 15 “La natura”, affermava ad esempio nel 1932 August Winnig, un ideologo del Volk, “è meravigliosa, ma c’è una dimensione che in natura non si troverà mai, ed è l’uguaglianza” (Mos 329).
136
Il negativo e l’attesa
rendeva pensabile questa unione mistica di uomo e natura. Secondo la mentalità del tedesco neoromantico, pangermanista e nazional-patriottico, una tale unione era quindi necessaria per giustificare l’uso della forza bruta, naturalmente selvaggia, per difendere la propria razza, la propria comunità, il proprio Volk, da ogni eventuale contaminazione. Ecco perché era fondamentale che sin dalla più tenera età i giovani tedeschi coltivassero il rapporto diretto con la natura, intesa come suolo natio, e apprendessero contemporaneamente anche le teorie razziali. Questo culto romantico e neoromantico della natura, cioè il culto della bellezza del paesaggio nordico, per tutti quei movimenti sorti in Germania tra Otto e Novecento, non consisteva dunque soltanto in una esperienza estetica contemplativa, ma aveva in sé un intimo valore etico-pratico che trovava nella istintiva forza e nel carattere duro della personalità l’elemento soggettivo che la riconnetteva direttamente all’ideologia nazional-patriottica a sfondo dichiaratamente antiebraico. Difficile, ad esempio, se non impossibile, per i movimenti giovanili, quali quello dei Wandervögel e quello dei Neue Pfadefinder, che aderivano al “culto della bellezza nordica” (Mos 228), pensare che la caratteristica bellezza semitica potesse rientrare e soddisfare i chiari parametri dell’estetica ariana che erano alla base del Volk tedesco. E ciò anche se i giovani ebrei aderenti al Blau Weiss (Bianco e azzurro) si ispiravano agli ideali del Volk tedesco (Mos 230). Direttamente influenzati dai maestri neoromanici e dai loro stessi insegnanti, fanatici del pensiero razziale, divenne più che naturale per tutti quei giovani tedeschi assecondare, già negli anni precedenti il Primo conflitto mondiale, una inclinazione convinta al razzismo e all’antisemitismo. 3. Hitler dà attuazione a un progetto già gettato Dal saggio di George L. Mosse su Le origini culturali del Terzo Reich apprendiamo dunque che Hitler non ha fatto altro che realizzare tutte le idee razziste e le intenzioni antisemite di sterminio che già serpeggiavano nella cultura tedesca a cavallo tra Otto e Novecento. “Grande infatti”, scrive lo storico, “era la differenza tra proclamare la dottrina della violenza razziale e dello sterminio, e la sua effettiva attuazione” (Mos 175). Per questo motivo Hitler verrà
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo137
idolatrato come unico e solo Führer: perché egli realizzerà i sogni degli intellettuali neoromantici e nazional-patriottici in cerca di una strada originale per sfuggire dalla realtà. E come il Führer seppe realizzare gli ideali del pangermanesimo antisemita, così artisti come Fidus (Karl Höppener) seppero rendere visibile in pittura quegli ideali razziali di bellezza germanica. Tutto, sia in Austria che in Germania, perlomeno dalla seconda metà del XIX secolo, era già stato predisposto dallo sciovinismo antisemitico per l’affermazione di Hitler e del nazionalsocialismo: dalla discriminazione sociale alla differenza fiscale, soprattutto con la formazione antisemitica dei giovani nelle scuole e nelle diverse associazioni giovanili. Giovani che, tra l’altro, assieme agli adulti, avevano presentato nel 1880 una petizione per escludere tutti gli ebrei non solo dalle scuole e dalla politica tedesca, ma dalla vita dei tedeschi in generale (Mos 246). Hitler aveva solo tre anni quando un paladino romantico del Volk, un certo Karl Paasch, nel 1892, da una rivista antisemita indicava già il genocidio degli ebrei come possibile soluzione alla questione ebraica. Solo che, pensava, poiché “sarebbe stato impossibile [allora] metterlo in opera in Germania”, nel frattempo, nell’attesa di condizioni propizie e di un attuatore, si potevano intanto spedire gli ebrei in Nuova Guinea (ibid.). Una volta cresciuto e sicuramente svezzato con quelle idee razziste, Hitler, atteso nella Germania di allora come un messia, come un uomo del destino, riuscì a concretizzare tutti quei suggerimenti antisemiti e a realizzare tutte quelle ipotesi che coloro che lo avevano preceduto avevano “solo” formulato per una auspicabile soluzione della questione ebraica. Il programma contro gli ebrei, stilato nel 1890 da Hermann Ahlwardt, adombrava, dice Mosse, quello hitleriano (Mos 175-176). Negli anni Trenta, ancora prima che Hitler salisse al potere, grazie alla propaganda antiebraica dei letterati fanatici del Volk, che avevano privato gli ebrei di ogni caratteristica umana, la società borghese tedesca aveva già assimilato un “antisemitismo disumanizzante” (Mos 181). Le teorie razziste sviluppate da Gobineau nei suoi Essais sur l’inégalité des races humanes (1853) venivano diffuse direttamente nelle caserme e nelle scuole, e in queste ultime da insegnanti agitatori di convinzioni pangermaniste come Ahlwardt. Di nuovo, quindi, ben prima della salita al potere dei nazisti, i giovani venivano sensibilizzati alle idee razziali e in particolare a quella del dover
138
Il negativo e l’attesa
mantenere e salvaguardare la purezza della razza germanica. E poiché tutte le modalità per questa salvaguardia erano già state, almeno sulla carta, pensate dai teorici della razza, la macchina burocratica tedesca non incontrerà alcuna difficoltà nell’organizzare lo sterminio degli ebrei. Le idee razziste degli utopisti nazional-patriottici tedeschi, che nei primi anni del Novecento potevano apparire ancora balzane – arianesimo, culto pagano del corpo, della razza e del Volk, rapporto neoromantico con la natura, colonizzazione della terra come diritto del Volk al proprio Lebensraum, al proprio spazio vitale, difesa anche armata del Volk, della razza e del suolo, l’anti-intellettualismo, l’antimodernismo, la poligamia per il rafforzamento della razza, l’antisemitismo –, trovarono quasi tutte accoglienza e attuazione nel nazionalsocialismo hitleriano. Negli anni Venti del secolo scorso le utopie germaniche (alle quali si ispirava anche l’esperienza dannunziana a Fiume) realizzavano le ideologie neoromantiche di fine Ottocento, e la rivoluzione nazionalsocialista degli anni Trenta diede realtà giuridica a quelle utopie. La lettura de Le origini culturali del Terzo Reich di Mosse, La distruzione degli Ebrei d’Europa di Hilberg e le testimonianze dei membri del Sonderkommando di Auschwitz riportate nelle interviste di Gideon Greif (“Wir weinten tränenlos…”) consente di cogliere l’intera estensione dell’aberrante fenomeno nazionalsocialista, dai suoi primi vagiti nel neoromanticismo, alla preparazione delle sue norme attuative, sino agli effetti terribilmente concreti. Questo quadro generale va dall’ideale romantico e mistico della purezza della razza ariana – tesi incarnata dal Volk germanico concepito ancora in forma elitaria –, all’antisemitismo, cioè alla costruzione necessaria della figura dell’ebreo come logica e naturale antitesi in grado sia di contaminare la purezza di quella razza ideale, sia di impedire lo sviluppo economico della società tedesca; per giungere infine sino all’attuazione dello sterminio, inteso come sintesi di quei presupposti. Una soluzione quest’ultima, peraltro, già prevista e proposta dai neoromantici e dagli utopisti, ma progettata e attuata dai nazionalsocialisti, specialmente dopo la sconfitta riportata dagli Imperi Centrali nella Prima guerra mondiale. Una soluzione che nei secoli i tedeschi hanno elaborato, risvegliando così, e non solo in essi, tutto l’odio antigiudaico del passato medievale. Questa rabbia vendicativa si poteva in tal modo sfogare su un capro espiatorio, contro gli ebrei. Una rabbia che si esprimeva nelle forme più cru-
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo139
deli di violenza, la quale veniva sempre più intesa non solo come un mezzo, ma soprattutto come un fine, come un fine formativo: in ogni caso come un recupero, una riappropriazione del “retaggio del bellicismo germanico” (Mos 171), già manifestatosi durante la guerra dei Trent’anni e che gli studenti tedeschi apprenderanno nel corso del XIX secolo. Generata dall’antico antigiudaismo religioso e, nella modernità, dall’antisemitismo culturale e razziale, specie dopo il Primo conflitto mondiale, la figura dell’ebreo, inoltre, sia dell’ebreo orientale che di quello occidentale assimilato, figura che nell’immaginario dei tedeschi finì con il rappresentare tutto quanto vi era di limitante e di negativo per la Germania e per il Volk germanico (cioè l’inferiorità razziale, il capitalismo e il bolscevismo), ebbene questa figura, osserva acutamente Mosse, venne sfruttata non soltanto come un utile pretesto, come uno stereotipo, ma anche come “una componente fondamentale dell’ideologia nazional-patriottica” dei partiti della destra, sia di quelli radicali e violenti come il Nsdap, quello nazionalsocialista, sia da quelli moderati e non violenti come la Dnvp, il partito popolare nazional-tedesco; al quale ultimo, tra l’altro, aderirono anche molti ebrei come àncora di salvezza. La figura dell’ebreo divenne insomma un elemento “assolutamente essenziale alla sopravvivenza dell’ideologia stessa” (Mos 303). E ciò al punto che la rivoluzione nazional-patriottica, immaginata, sentimentalmente attesa e preparata in passato dagli antisemiti neoromantici e dagli utopisti razziali, potrà essere attuata dal nazionalsocialismo solo come rivoluzione antiebraica. Sicché, se da un lato, dalla prospettiva degli ebrei, l’ostilità sempre più violenta contro di essi veniva interpretata come un accanimento contro un capo espiatorio, dall’altro lato, viceversa, dalla prospettiva dell’ideologia antisemita, la figura dell’ebreo, intesa come coagulo di negatività, venne considerata come espediente assolutamente necessario per la rinascita e per la liberazione di quanto di più dionisiacamente positivo, originale e salvifico era sedimentato da secoli nel nucleo della storia e nella razza germanica, e come tale, pertanto, come elemento altrettanto indispensabile per l’affermazione anticomunista e antisemitica dell’ideologia nazional-patriottica. Insomma, se nella figura dell’ebreo si coagula tutto quello che per i tedeschi è più negativo; se l’ebraismo costituiva tutto l’opposto di quello che i
140
Il negativo e l’attesa
tedeschi intendevano realizzare, se rappresentava cioè la Weltanschauung opposta alla loro, e se questa visione del mondo ebraica impediva lo sviluppo e l’attuazione della visione völkisch della Germania, allora ciò vuol dire che la negativa visione ebraica del mondo era necessaria per un’ideologia che, come quella nazional-patriottica sfociata nel nazismo, intendeva affermarsi proprio con il pretesto di una lotta contro l’antisemitismo. Per poter raggiungere un positivo, ossia il riscatto di una nazione in declino, l’affermazione del partito nazista e la presa del potere sulle coscienze, sulle masse e sull’intero Paese, era pertanto necessaria una prioritaria lotta contro il negativo per eccellenza, cioè contro l’ebraismo. Per accendere l’entusiasmo fanatico del Volk germanico era in altre parole necessario far leva sull’odio contro gli ebrei, intesi non nella loro individuale corporeità, ma nella loro astratta simbolicità: “non già”, dice Mosse, “come realtà di carne e sangue, bensì quale astratto stereotipo” (Mos 377). Questa era la condizione necessaria, ma non certo sufficiente, per poter attuare una rivoluzione tedesca. Ecco allora perché per Hitler, che intendeva “fare dell’ideologia una realtà vivente”, e che riteneva le idee völkisch “una “necessità interiore” dell’esistenza”, era essenziale la “focalizzazione sull’ebreo”, fare cioè “dell’antisemitismo il punto focale del partito” (Mos 373). Ecco riemergere, dunque, a un altro livello, il principio della necessaria priorità del negativo. L’elemento ebraico, negativo in sé per i razzisti, venne quindi inteso, specie nel Primo dopoguerra, come necessario motivo di riscatto e di redenzione da parte della Germania, la quale aspirava a una sua nuova e più potente riaffermazione spirituale e politica. Anche in questo senso, dunque, risulta più che legittimo asserire che il nazionalsocialismo è riuscito a trasformare “in spietata realtà quello che era stato un ideale utopistico” (Mos 295). La Germania, infatti, osserva Mosse, “doveva tentare con ogni mezzo di trasformare il pericolo in un’àncora di salvezza” (Mos 312). Laddove il pericolo, secondo alcuni sostenitori della destra tedesca moderata (Alfred Hugenberg), era rappresentato proprio dagli hitleriani, dai più violenti nazionalsocialisti. Con i quali, peraltro, nel 1931, si intendeva purtuttavia creare una coalizione della destra. Nell’ormai evidente impossibilità di prevenirlo e di evitarlo, sia che provenisse dagli ebrei sia che provenisse dagli stessi nazionalsocialisti, il
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo141
pericolo, insomma, doveva essere necessariamente trasformato in qualche cosa di salvifico, giacché, come diceva il poeta tedesco per eccellenza, solo là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva. In ogni caso, con Hitler, secondo Mosse, “la rivoluzione germanica divenne la rivoluzione antiebraica” (Mos 366). Soprattutto perché, al netto di tutte le capziose distinzioni ideologiche tra i movimenti e i partiti politici che si ispiravano all’antisemitismo, all’inizio degli anni Trenta in Germania “un fondamentale ingrediente dell’ideologia nazional-patriottica [l’antiebraismo] era giunto a maturazione, e ora i nazisti potevano cogliere il frutto ed efficacemente integrarlo nelle loro manovre politiche, servendosene per rendere più pregnante il loro appello alle masse” (Mos 367). In “piena fioritura da almeno cinquant’anni”, scrive Mosse, Hitler seppe fare dell’antisemitismo “un concreto strumento politico” accettato con favore dai tedeschi, lo “strumento per eccellenza per la conquista del potere” (Mos 369). Per aprire alla “terza via”, cioè la via intermedia tra capitalismo e marxismo (entrambi comunque considerati come dei mali derivanti dal giudaismo), i teorici nazional-patriottici völkisch e bündisch della rivoluzione tedesca ritenevano che si doveva “rinnovare la spiritualità dei tedeschi”, e che “occorreva ‘prima un nuovo essere umano e poi un nuovo stato’; prima la trasformazione spirituale e poi la sua attuazione materiale” (Mos 357). E con il suo Dasein, con il suo Esserci autentico, Heidegger, nel 1927, sembrò certo andare incontro a questo proposito rivoluzionario spirituale. Il rifiuto del razionalismo illuministico europeo, come pure il rigetto del modernismo, dice Mosse, erano segni evidenti che, ancora una volta, dopo la sconfitta nella prima Guerra dei Trent’anni16, anche ora, dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale, i tedeschi che avevano assecondato l’ideologia nazional-patriottica e il conseguente nazionalsocialismo, si ripiegavano su sé stessi, “nel proprio intimo” (Mos 394). Le radici culturali del Terzo Reich, quelle esaminate nell’omonimo saggio da Mosse, non poterono pertanto che generare “fiori del male” sempre più concreti e più orribili, quali le leggi di Norimberga, la Notte dei cristalli, le fucilazioni di massa, la Con16 Cfr. I. Berlin, The Roots of Romanticism (1965), tr. it. di G. Ferrara degli Uberti, Le radici del Romanticismo, Adelphi, Milano 2001, p. 70.
142
Il negativo e l’attesa
ferenza di Wannsee, e infine le installazioni per la distruzione totale degli esseri umani, cioè le camere a gas, i forni crematori e i barbari roghi a cielo aperto. Secondo Hans Ulrich Wehler17, capofila di una nuova storiografia tedesca, il nazionalsocialismo si è potuto affermare in Germania solo come hitlerismo. Nel senso che Hitler era stato assunto dal popolo tedesco come un “leader carismatico”, un “messia”, un “salvatore”, l’unico in grado di sollevare la Germania dalla crisi economica mondiale del ’29, dalla quale si proponeva di uscire con l’appoggio delle élite di industriali e militari, in vista della “ricostruzione del Reich di Bismarck” e della “conquista dell’egemonia in Europa, sia politica che economica”. Ora, un tale “atteggiamento d’aspettativa”, sostiene lo storico, costituisce una specie di costante nel popolo tedesco, in quanto già in Bismarck questo popolo aveva riconosciuto il vero e unico capo carismatico capace di risolvere il problema dello Zollverein (unione doganale), una delle tappe importanti nella formazione dello Stato nazionale. Il precedente hitleriano, insomma, secondo Wehler, risiedeva proprio nel modello politico-carismatico del cancelliere di ferro, nella sua sfiducia nei confronti dei partiti politici e del sistema parlamentare. Una sfiducia che era condivisa anche dal popolo tedesco, il quale, per note ragioni politico-religiose, credeva più nella responsabilità dell’“individuo”, del “singolo”, che nelle decisioni dello Stato. Non si deve peraltro dimenticare anche la critica all’egualitarismo socialista condotta da Nietzsche nel 1878 in Umano, troppo umano (I, 8, “Uno sguardo allo Stato”) e la forte opposizione alle democrazie occidentali mantenuta da Thomas Mann nelle sue Considerazioni di un impolitico, il quale assunse il filosofo come uno dei suoi fari illuminanti. Una volta conquistato il potere, sin dai primi mesi e soprattutto un po’ alla volta, di modo che il loro disegno totalitario non risultasse evidente in tutta la sua effettiva portata, i nazisti, dice William Sheridan Allen, cancellarono partiti e sindacati e con essi distrussero anche la coesione sociale, l’insieme dei legami sociali. L’unico legame consentito, l’unico Bund, era quello che teneva assieme la Volksgemeinschaft, nella quale il “terrore era divenuto una realtà”. “Riducendo la popolazione allo stato di atomi singoli, non colle17 Cfr. l’intervista concessa a “La Stampa”, 31.8.1989.
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo143
gati socialmente, i nazisti avevano creato una massa che potevano muovere nella direzione che volevano”. Pertanto, dopo il bagno dell’entusiasmo iniziale, quando i tedeschi si accorsero che cosa significava per loro la politica dittatoriale hitleriana, quando si avvidero cioè “del crollo generale della fiducia e dei rapporti sociali”, fu troppo tardi, perché quella politica li aveva già condotti nel 1939 alla guerra, benché questa fosse stata tanto attesa e preparata. Per i tedeschi, quindi, afferma Allen, “il problema del nazismo fu prima di tutto un problema di percezione”, perché “nessuno riuscì a vederlo in tutta la sua odiosità”18. Come per Isaiah Berlin, anche secondo Norbert Elias, inoltre, la storia della Germania è stata segnata da una lunga e profonda umiliazione (Kränkung), provata sia dopo la sconfitta nella guerra dei Trent’anni sia dopo quella riportata nella Prima guerra mondiale e sancita dal conseguente Trattato di Versailles. E ciò sebbene avesse raggiunto nel 1871, grazie a Bismarck e al solo ausilio delle forze militari e conservatrici, la tanto agognata unità nazionale, il Secondo Reich. A questo modello nobiliare (Adelsmodell) bismarckiano, quello cioè che garantiva il potenziamento dello Stato attraverso la guerra, si sarebbe ispirato, come osservava anche Wehler, il nazismo, il Terzo Reich. Questo, secondo Elias, lo “Spezifikum der deutschen Entwicklung”, lo specifico dello sviluppo tedesco. Qui, secondo Elias, scrive Welzer, si trovano le radici dello specifico orientamento autoritario della Germania, corrispondente all’ethos della violenza (Gewaltethos), che accetta solo la forma dello scontro fisico per la risoluzione dei conflitti, che considera “meschini” i compromessi e le lunghe trattative, che favorisce l’ideale della forza bellica (Kampfstärke), il confronto violento, la durezza, che, insomma, pone come ideale la capacità di ottenere soddisfazione. Il carattere nazionale dell’epoca guglielmina presenta allora un insieme fatto di inclinazione aristocratica e di durezza, ma anche di incapacità di conflitto, un insieme che in modi letterari assai differenti ha trovato espressione da un lato in Heinrich Mann e in Arthur Schnitzler, e dall’altro nella letteratura bellicista dei Freikorps, in Ernst Jünger e in Ernst von Salomon. (Wel1 94-95) 18 W.S. Allen, The Nazi Seizure of Power. Experience of a Single German Town 1930-35 (1965), tr. it. di L. Pecchioli, Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città 1930-1935, Einaudi, Torino 1994, pp. 275-279.
144
Il negativo e l’attesa
Se pertanto il Gewaltethos e la Kampfstärke erano gli ideali o i modelli fondamentali della cultura militarista guglielmina, ai quali si è ispirato il nazismo, allora l’eticità della guerra, cioè la considerazione positiva e formativa della guerra, ha nella Stärkung, nel rafforzamento metodologico e sistematico del corpo e del carattere, l’imprescindibile condizione, il necessario modo per preparare i giovani tedeschi (Jungvolk e Jungmädel, Hitlerjugend, Deutcher Mädel) alla conquista nazista del mondo, e quindi a una guerra mondiale. Della quale, secondo il Mein Kampf, erano tuttavia responsabili gli ebrei, e per questo, oltre che per l’ebraicità, andavano eliminati. Poca era in ogni caso l’opposizione della popolazione tedesca al progetto approntato dai nazisti per lo stermino degli ebrei. “In Germania”, scrive la Arendt, “la resistenza attiva venne principalmente dalla destra […], non ci fu […] nessuna ‘resistenza socialista organizzata’ (Are2 106). Poca era anche l’opposizione degli stessi ebrei, sia a occidente che a oriente. Da entrambe le parti, inoltre, la Arendt coglie un collaborazionismo con gli organizzatori della “soluzione finale”, dovuto soprattutto a un “crollo morale” sia tra i persecutori sia tra le vittime, tra gli Judenräte (Wel1 133)19. Un crollo che, secondo la studiosa, si può anche far risalire al momento in cui, per alleviare le loro sofferenze, gli ebrei tedeschi accettarono senza proteste la differenza con gli ebrei dell’est (Are2 139), con un Ostjudentum che i tedeschi consideravano Untermenschtum, sottoumanità (Wel2 98). In ogni caso, a prescindere da ogni differenza, è sulla pelle degli ebrei che si sviluppò un collaborazionismo affaristico a tutto vantaggio dei nazisti, i quali non solo espropriarono le industrie ebree, ma incassarono ingenti somme per favorire la fuga di ebrei facoltosi (Are2 150). Tuttavia, prima ancora di generare quella corruzione affaristica, il generale crollo morale consentì ai nazisti di strutturare un “mondo alla rovescia”, poiché anziché “non ammazzare!” ora la voce della loro coscienza cominciò a suggerire “ammazza!” (Are2 156). Il 19 Per poter ottenere nei ghetti la collaborazione degli Judenräte, dei Consigli ebraici, i nazisti, dice Bauman, obbligavano i suoi membri a scelte che non potevano più tener conto di quei valori morali che servivano per tenere a freno l’istinto di conservazione (Baum 199-200). “Ma la collaborazione delle vittime con i burocrati delle SS faceva parte del piano”, scrive il sociologo polacco; anzi, “a ben guardare era una condizione fondamentale del suo successo” (Baum 43).
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo145
normale funzionamento della coscienza dell’individuo, osserva la Arendt, può essere infatti gravemente turbato da ordini superiori, soprattutto se manifestamente criminosi (Are2 295). In quel mondo dai valori rovesciati, quindi, non il male, ma il bene diveniva una tentazione20. Nel paradiso gli esseri vengono tentati dal male, ma nell’inferno creato in terra dal Terzo Reich essi sono invece tentati dal bene. E molti tedeschi, come pure molti nazisti, conclude la filosofa, avevano “imparato a resistere a queste tentazioni” molto bene (Are2 157). Quel crollo morale corrisponde sostanzialmente all’incapacità di “distinguere il bene dal male”. Un’incapacità che rende problematico giudicare azioni criminose come quelle commesse dai nazisti (Are2 283). A tal proposito il giudizio di Todorov è leggermente diverso: I guardiani responsabili di atrocità seguitano a distinguere tra bene e male, non avendo subito alcuna ablazione dei loro organi morali, ma pensano che quell’“atrocità” sia in realtà un bene, poiché così dice lo Stato, che è il detentore dei criteri del bene e del male. I guardiani non sono privi di morale, ma dotati di una morale nuova. (Tod1 129)
Con l’ideologia nazista si tentò pertanto di prosciugare la fonte stessa della morale cristiana, ovverosia l’ebraismo21. Una volta annientata ogni traccia di cultura ebraica, anche il resto si sarebbe dissolto in breve tempo. Così come, secondo la lezione nietzscheana, una volta accettata la morte di Dio, con ciò stesso si sarebbe estinto tutto quello che su di esso si fondava. Il Figlio di Dio era morto sulla croce: ora occorreva uccidere anche il Padre. In effetti, il culto della ragione positivista nella modernità industriale aveva determinato lo sgretolamento dei pilastri della fede. Ma il nichilismo di fine Ottocento rivelò l’insufficienza della ragione stessa nel fronteggiare i nuovi problemi posti all’umanità dal Novecento. Un secolo che ha 20 “Siamo qui”, scrive a tal proposito Jean Dujardin, “davanti a una perversità estrema che consiste nel chiamare bene ciò che è male e male ciò che è bene” (Coscienza e Shoà, in Educare dopo Auschwitz, cit., p. 68). 21 Il “rigetto dell’Antico Testamento e dello stesso Decalogo mosaico” era infatti uno degli aspetti che i cristiani cattolici tedeschi criticavano della dottrina nazionalsocialista (cfr. E. Gentile, Contro Cesare, cit., pp. 294-295). Proprio rifacendosi all’Antico Testamento, tra i protestanti, il conservatore luterano Hans Hofer critica il nazionalsocialismo assimilandolo al giudaismo, poiché entrambi i popoli hanno idolatrato il nazionalismo (ivi, p. 304).
146
Il negativo e l’attesa
fatto capire che non ci si poteva più fidare nemmeno della ragione. Sicché né la fede né la ragione furono più disponibili in tal senso. Proprio nel 1900, tuttavia, Freud rese noto agli europei che esisteva un altro fondamento cui potersi rifare per cercare di risolvere quei problemi: le pulsioni primitive, quelle stesse che il precedente dominio della fede e della ragione aveva represso e rimosso; pulsioni che, una volta liberate, potevano essere socialmente, politicamente e militarmente sfruttate22. In quanto inconsce, però, queste pulsioni potevano essere utilizzate solo se venivano portate a livello conscio, togliendo da esse la rimozione. Un’operazione che parve poter essere garantita solo dallo stimolo forte offerto della guerra. Da qui il culto dell’eticità della guerra coltivato dagli intellettuali dell’epoca: Nietzsche, Thomas Mann, persino Freud e Weber. “La guerra”, scrive Bensoussan a tal riguardo, “diede libero sfogo a queste pulsioni arcaiche […], come se la violenza vietata e rimossa fosse in realtà sempre rimasta nell’ombra, dietro la porta della Legge” (Ben 24)23. Ma fare ricorso alla guerra, intesa come occasione storica propizia all’utilizzo delle potenzialità distruttive insite in quelle pulsioni, presuppone inevitabilmente l’eccitamento dell’odio nelle persone per qualsiasi cosa, soprattutto per le persone stesse (compresi, ovviamente, gli stessi civili), che cominciarono in tal modo ad essere considerate delle cose. La rimozione culturale garantita dalla Legge non riguardava infatti solo la violenza insita nelle pulsioni primitive; concerneva anche la considerazione solo materica dell’uomo, cioè dell’uomo inteso come sotto-uomo, come animale, come materia. La cultura, cioè, non aveva fin qui represso negli uomini solo la violenza propria degli istinti animali; aveva altresì, assieme ad essa, rimosso pure la materialità vera e propria dell’umano. Per che cosa, infatti, si caratterizzano più specificamente i campi di sterminio, se non, appunto, per la loro capacità di ridurre gli esseri umani a semplice materia da ardere? La forza delle SS e delle Einsatzgruppen, diceva infatti Himmler, si doveva misu22 “La vita che facciamo”, scrive infatti il soldato Jules Isaac nel 1916, “ci rende duri, estremamente duri, ci riporta a una mentalità primitiva, selvaggia, dove l’istinto domina con la violenza” (Ben 40). 23 A proposito dell’arcaicità delle pulsioni, ecco cosa annota ad esempio il giovane Ernst Jünger nel suo diario: “La processione, dalla quale si levavano coi lamenti dei feriti le nostre voci gioiose, aveva un che di arcaico. Non era più la guerra, era uno spettacolo da preistoria” (Stahlgewittern, tr. it di G. Zampaglione, Nelle tempeste d’acciaio, Guanda, Milano 20215, p. 170 cn).
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo147
rare dalla resistenza che essi dovevano opporre alla rivelazione (promossa dal nazismo) dell’uomo a semplice materia. Da qui, da questa rivelazione, dal venir meno della rimozione dalle pulsioni arcaiche, dalla violenza e dalla materialità umana, il trauma subito dagli internati nei Lager nazisti. D’altronde, osserva Bensoussan riflettendo sulla tratta degli schiavi neri, questi esseri umani, appartenenti, secondo i parametri colonialisti europei, a una razza comunque inferiore, non erano già forse considerati dal Codice nero, promulgato ancora in Francia nel 1865, come “materia cruda”, come “un’entità biologica”, come sotto uomini, come non uomini? E il massacro degli herero da parte dei tedeschi nei primi anni del Novecento non sta forse a dimostrare questa cultura selettiva, questa politica razziale e sterminatoria propria degli europei imperialisti? (Ben 81, 89, 95) Dalle testimonianze dei superstiti dei Lager sembra quasi ovvio poter circoscrivere nel tempo e nello spazio, cioè in un periodo storico ben preciso (i dodici anni del Terzo Reich), l’origine del male assoluto, della violenza nazista. Leggendo però saggi come quello di Bensoussan (come pure il primo capitolo de La distruzione degli Ebrei d’Europa di Raul Hilberg) si prende chiaramente coscienza che quella violenza specifica non è riscontrabile solo nel passato di quel popolo, del popolo tedesco, ma lo è anche nella storia secolare dell’Europa cristiana. Perché “è come se”, scrive Bensoussan, “la Shoah fosse stata, anche, il rigurgito violento della parte più arcaica degli istinti reconditi dell’Europa cristiana” (Ben 324)24. “Ben prima della presa del potere da parte dei nazisti”, scrive ancora lo storico commentando il momento della rottura antropologica introdotta nel XVIII secolo da Linneo e Buffon, momento che apriva alla considerazione dell’essere umano come oggetto d’investigazione scientifica, “l’idea delle selezione umana era già al centro della riflessione media tedesca, ed è precisamente questa riflessione che si sarebbe annidata nel cuore dei crimini nazionalsocialisti” (Ben 109-111). Una dimostrazione del fatto che, per la sua formazione, l’uomo tenda ad assumere il modello offerto dalla natura, emerge non tanto e non solo dalla pedagogia rousseauiana, bensì, come si è visto anche a proposito dei neoromantici, dalla sacralizzazione delle leggi natu24 A tal proposito Tullia Zevi si chiede: “fu davvero la Shoà una gigantesca anomalia avulsa dal contesto storico? È davvero unica e irripetibile?” (Il dovere di educare le nuove generazioni, in Educare dopo Auschwitz, cit., p. 27).
148
Il negativo e l’attesa
rali, innalzate a veri e propri principi universali. Quali, ad esempio, il principio della necessaria priorità del negativo e la legge della selezione, ritenuta addirittura provvidenziale non soltanto da Agostino, ma anche, nella modernità, dai darwinisti sociali. Come, infatti, le politiche belligeranti si ispirano al negativo naturale (dolore, morte), così le politiche eugenetiche e razziali si ispirano alla selezione naturale. Queste politiche, sottolinea tra l’altro Bensoussan, sono state sostenute non solamente da studiosi conservatori e razzisti, ma anche da intellettuali e scienziati progressisti, i quali ritenevano che la selezione rientrasse nella dottrina progressista. In tal modo, secondo il pensiero evoluzionista, come la guerra fra gli esseri umani rappresentava e imitava la necessaria lotta per l’esistenza in vista della selezione naturale, in vista del rafforzamento e della conservazione della specie, così la selezione naturale, scrive Bensoussan, “rappresentava l’intervento umano destinato a scegliere tra chi è adatto e chi non lo è” (Ben 140 cn). Un intervento che, com’è tristemente noto, verrà operato nelle terribili selezioni effettuate dai nazisti nei loro Lager. A tal riguardo, nel suo saggio, proprio nel paragrafo intitolato Apologia della natura, Bensoussan scrive: agli inizi del Novecento il movimento crescente dell’antilluminismo predicava un adattamento dell’uomo alle “leggi di natura” che, costringendo ciascuno alla nuda violenza dei rapporti di forza, stabilivano una gerarchia tra chi poteva vivere e chi doveva essere lasciato morire. Assunta al rango di valore assoluto, la natura prese il posto un tempo occupato da Dio e dalla Provvidenza: la violenza si trovò così ad essere legittimata come espressione delle “leggi naturali” della vita. (Ben 122)
In tal modo si operò al contempo una sostituzione della selezione naturale con la selezione artificiale delle razze (Ben 151). 4. Nietzsche: l’indispensabilità della guerra e il bisogno di ricadute nella barbarie Ad ogni modo, sebbene forse non proprio nella forma nietzscheana di “auspicio”, l’idea della necessità di ricadute provvidenziali nella barbarie era largamente condivisa dalla cultura scientifica e da quella umanistica che al tempo di Nietzsche si ispiravano all’evoluzionismo
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo149
spenceriano e darwiniano (Ben 101-160). Anche perché l’assunto “che i rapporti umani fossero dominati dalla lotta per la sopravvivenza [era] quasi un luogo comune sul finire del XIX secolo” (Ben 142). La necessità del negativo non è tuttavia riducibile a quella richiesta dal castigo previsto dalla dottrina della Controriforma in vista della redenzione. Questo rapporto castigo-redenzione – proprio come quello perdizione-ritrovamento, di cui si può trovare emblematicamente traccia in alcuni Canti spirituali di Novalis – rientra piuttosto nella logica più vasta e profonda della necessaria priorità del negativo. Entrambi i rapporti dialettici castigo-redenzione e perdizione-ritrovamento acquistano infatti valore e incisività solo perché si radicano nel principio della necessaria priorità del negativo, che è più originario. Questo principio giustifica e legittima l’uso strumentale e ideologico del negativo naturale, non attendendolo o cercando di evitarlo, come gli uomini fanno naturalmente, ma anticipandolo non per scansarlo, appunto, ma per provocarlo, andandogli anzi incontro per sfruttarne le potenzialità risveglianti, le energie traumatizzanti, allo scopo di utilizzarle militarmente, politicamente, socialmente, pedagogicamente come occasioni di formazione, di autentificazione, di miglioramento. Esso è allora al fondo della tendenza a ritenere l’anticipazione del negativo naturale come un presupposto necessario per il miglioramento psicofisico dell’uomo. E ciò con lo stesso automatismo abitudinario in cui il darwinismo sociale aveva educato le menti a credere necessaria, cioè scientificamente provata, l’eliminazione delle razze inferiori. Da ciò si può capire che ogni strumentalizzazione ideologizzante e interessata della natura o della scienza, orientata sul motto baconiano sapere è potere, non può che determinare quelle terribili aberrazioni mentali, delle quali la storia ci rende puntualmente conto. Con il darwinismo sociale e razziale, che facendo a meno di Dio, consente alle ideologie di affidarsi alla divinizzazione della natura e delle sue immodificabili e sicure leggi, la guerra, dice Bensoussan, venne legittimata come mezzo per l’epurazione delle razze inferiori, e in tal modo “il massacro stesso poteva essere considerato ormai come un mezzo per migliorare il genere umano” (Ben 180). La violenza insita nella guerra, intesa come modo naturalmente condiviso di anticipazione del negativo naturale, venne assunta dunque come strumento principe per il miglioramento corporale e spirituale dell’uomo. Nel 1902 un fisiologo francese diceva emblematicamente che la guerra
150
Il negativo e l’attesa
è “fonte di tutta la vita superiore, causa di tutti i progressi sulla terra”, giacché “l’uomo può essere superiore al proprio destino solo perseguendo nella morte, nella morte volontaria dei campi di battaglia o delle guerre civili, il suo sogno di immortalità”. Altri apologeti della guerra affermavano che essa è “un fattore indispensabile di civilizzazione”, una “necessità biologica di prim’ordine”, “una realtà inevitabile dell’esistenza” (Ben 32). Con la Seconda guerra mondiale, il genocidio del popolo ebraico assunse un’altra connotazione. Gli ebrei non solo diventarono il capro espiatorio per la sconfitta degli Imperi Centrali nel ‘18, ma rappresentarono quella tradizione religiosa, politica, economica e morale che impediva la realizzazione del nazionalsocialismo. Ad ogni forma di totalitarismo, la cui essenza, dice il teologo protestante svizzero Adolf Keller, non è politica ma religiosa, preme infatti non solo rimettere in discussione un assetto politico e sociale, né solo sbarazzarsi semplicemente di una religione, ma, in quanto propositrice di una nuova visione del mondo e della vita, intende e vuole sostituirsi in tutto ad essa, con una “religione senza Dio o con una religione del Dio della razza o della nazione”25. A tal fine la “violenza rigeneratrice” diviene “necessaria per distruggere il vecchio ordine e creare l’ordine nuovo del primato totalitario della classe, della nazione o della razza”26. Stravolgendolo o no (ma secondo la lukácsiana Distruzione della ragione certamente no), la morale nazionalsocialista trova nel rapporto nietzscheano dolore-verità uno dei suoi motivi ispiratori e una innegabile base legittimante. Sentiamo di nuovo cosa dice, ad esempio, Himmler nel passo del famigerato e da noi già più volte ricordato discorso di Posen: La maggior parte di voi sa cosa significa un mucchio di cadaveri, di cinquecento, di mille cadaveri. Aver sopportato tutto ciò e, fatta astrazione di umane debolezze, essere rimasi persone decenti, è ciò che ci ha resi duri. Questa è una pagina gloriosa della nostra storia che non è mai stata scritta e non sarà mai scritta.27 25 E. Gentile, Contro Cesare, cit., pp. 393-394. 26 Ivi, p. 393. 27 Cfr. K. D. Bracher, La dittatura tedesca. Origini, strutture, conseguenze del nazionalsocialismo in Germania, tr. it. di F. Negri Tedeschi, Il Mulino, Bologna 1973. L’estratto qui citato si trova anche in Storiografia III. Età con-
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo151
Ecco dunque nella sua essenza la sconcertante effettualità di quel rapporto. Ecco l’esperienza della riduzione dell’umano all’humus, dell’organico all’inorganico o al chimico, dello spirituale al materiale o al materico. Ci si aspetta da voi [diceva ancora Himmler alle SS] qualche cosa di sovrumano e disumano […]28. Se viene uno e mi dice “Io non posso costruire la trincea con dei bambini o con delle donne, questo è disumano, perché essi morranno” – allora io rispondo: “Tu sei un assassino nei confronti del tuo stesso sangue, perché se la trincea non viene costruita, muoiono dei soldati tedeschi, figli di madri tedesche. E questo è nostro sangue”.
L’esperienza dell’orribile è dunque necessaria alla formazione dell’Übermensch. Lo è, e se non lo fosse [continuava Himmler], noi non saremmo più uomini tedeschi, anzi non saremmo più Germani. Ma tanto essa è spaventosa, altrettanto è stata necessaria (cn), e lo sarà ancora in molti casi. Se oggi non abbiamo nervi abbastanza forti per sopportare, ebbene questi nervi fragili salteranno di nuovo nei nostri figli e nei nostri nipoti.
Certo, questo non può essere che il proponimento di un pazzo esaltato o di un fanatico. Le sue, dice Levi, “Sono parole ed opere non umane, anzi contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l’esistenza” (SE 347). E per questo irrazionali e incomprensibili. Il fatto è però che questa follia, benché portata alle estreme conseguenze negative, ha tratto notevole alimento da un pensiero che, facendo dell’ambiguità dialettica il proprio fondamento, ha in un certo senso favorito la caduta nella barbarie, dalla quale l’umanità non si è ancora riavuta. Si tratta evidentemente del pensiero di Nietzsche. Proprio in Umano, troppo umano, ancora nell’ottava parte riguartemporanea. Orientamenti e pagine scelte, a cura di G. Perugi e M. Bellucci, Zanichelli, Bologna 1989, 1a ed., pp. 631-635. 28 Con l’apertura dei centri di sterminio in Polonia, dopo l’estate 1941, Himmler, sottolinea anche Hilberg, avrebbe detto che dai suoi uomini si aspettava qualcosa di “sovrumano e disumano” (Übermenschlich-Unmenschliches) (Hil 970).
152
Il negativo e l’attesa
dante l’analisi dello Stato, di seguito ad aforismi in cui l’ambiguità rispetto alla “questione ebraica” (af. 475) e alla “Chiesa cattolica” (af. 476) si presta verosimilmente alle più aberranti interpretazioni, c’è l’aforisma 477, Indispensabile la guerra – non per niente riportato anche da Thomas Mann nelle sue Considerazioni –, nel quale quel rapporto dialettico dolore-verità trova una delle sue massime espressioni. Scrive il filosofo: È vana fantasticheria e utopia di anime belle aspettarsi dall’umanità ancora molto (o addirittura: solo allora veramente molto), quando essa avrà disimparato a far guerra. Per ora non conosciamo altri mezzi, mediante i quali si possano comunicare a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia, quel profondo odio impersonale, quel sangue freddo omicida con buona coscienza, quell’ardore generale nella distruzione organizzata del nemico, quella superba indifferenza verso le grandi perdite, verso l’esistenza propria e quella delle persone care e quel cupo, sotterraneo scotimento dell’anima, in modo altrettanto forte e sicuro di come lo fa ogni grande guerra: dai torrenti e dai fiumi che qui prorompono e che certo travolgono con sé pietre e immondizie di ogni genere e rovinano i campi di colture delicate, vengono poi mossi con nuova forza, in circostanze favorevoli, i meccanismi nelle officine dello spirito (die Räderwerke in den Werkstätten des Geistes). Quando i Romani, fatto l’impero, si stancarono alquanto delle guerre, cercarono di procurarsi una nuova forza con le cacce, i combattimenti dei gladiatori e le persecuzioni dei cristiani. Gli Inglesi di oggi, che nel complesso sembra abbiano anch’essi rinunciato alla guerra, si appigliano a un altro mezzo per rigenerare quelle forze che sfuggono: quelle pericolose esplorazioni, traversate e ascensioni intraprese, come si dice, a scopi scientifici, ma in verità per riportare a casa, da avventure e pericoli di ogni genere, un sovrappiù di forza. Si riusciranno a trovare ancora molte specie di simili surrogati della guerra, ma attraverso di essi si comprenderà forse sempre più che una tale umanità supercolta e quindi necessariamente fiacca, come quella degli Europei di oggi, ha bisogno non solo di guerra, ma addirittura delle guerre più grandi e terribili – ossia di temporanee ricadute nella barbarie (zeitweiliger Rückfälle in die Barbarei) – per non perdere, nei mezzi della civiltà, la sua civiltà e la sua esistenza.29 29 F. Nietzsche, Menschliches Allzumenschliches, tr. it. a cura di G. Colli, M. Montinari, S. Giametta, Umano, troppo umano, Mondadori, Milano 1976, vol. I, pp. 249-250 cn. In un taccuino degli stessi anni (1876-1877) troviamo un’altra versione dell’aforisma 477: “È ottimismo attendere ancora molto dall’umanità che non fa guerre. L’egoismo selvaggio, l’odio tra i popoli, il
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo153
Nietzsche non avrebbe potuto scegliere parole e metafore più efficaci per confermarsi profeta dei terribili eventi che hanno sconvolto la prima parte del “secolo breve”: le due guerre mondiali e la barbarie dei campi di sterminio. Alcune delle parole che a sua volta Levi sceglierà per il Memoriale italiano di Auschwitz (mai realizzato) sono una conferma della realizzazione storica di quanto il pensatore tedesco evocava: Non era mai successo, neppure nei secoli più oscuri, che si sterminassero esseri umani a milioni, come insetti dannosi; che si mandassero a morte i bambini e i moribondi. […] In questo luogo, dove noi innocenti siamo stati uccisi, si è toccato il fondo della barbarie.30
Aveva quindi ragione Jenninger quando nel suo discorso aggiunse che “la discesa nella barbarie era voluta e premeditata”. D’altronde di Nietzsche è proprio questo “verbo”, questo “tono oracolare”, questa costante “indifferenza” che “ripugna profondamente” e “infastidisce” Levi (SS 84). È difficile, infatti, se non quasi impossibile, intravedere negli effetti di quella profezia nietzscheana qualcosa di positivo che possa addirittura far pensare a un aumento o a un sovrappiù di forza. Anche perché, dopo quest’ultima ricaduta nella barbarie a stento l’umanità potrà “rimettersi” dal male incurabile che ha contratto ad Auschwitz. Un cancro le cui metastasi si sono già diffuse un po’ in tutto il mondo e ora, con inattesa evidenza, emergono dolorosamente anche dall’attuale guerra in Ucraina tra Stati Uniti e Federazione Russa. Il capitale umano “investito” nella Soluzione finale è andato completamente perduto, e in tal senso ha ragione Derrida quando dice che l’“investissement dans la mort (ad Auschwitz) ne s’amortirait pas intégralement”31. Eppure, malgrado tutto lo sdegno che Nietzsche provava per gli antisemiti, proprio quel pensiero nietzscheano lo ritroviamo a fonbellum omnium contra omnes è necessario come il mare e le tempeste per determinare primavera, estate a autunno del sentimento dell’umanità” (Ivi, p. 379). E ancora: “Quando il buddhismo si oppose alle guerre con la sua morale da mangiatori di riso, l’India fu cancellata dalla storia delle potenze civili” (Ivi, p. 330). 30 Il testo completo dello scritto di Levi al visitatore si può trovare in A. Cavaglion, Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni, add editore, Torino 2021, pp. 34-35. 31 J. Derrida, Le puit et la pyramide, in Marges, Minuit, Paris 1972, p. 125.
154
Il negativo e l’attesa
damento dell’ideologia nazifascista. Ad esempio, osserva Fabio Levi, sebbene nei primi anni del nazismo l’antisemitismo biologico di Hitler venne giudicato da Mussolini “radicalmente estraneo alla tradizione italiana”, tuttavia a causa di un certo “calo di tensione” negli italiani dopo la conquista dell’impero, il duce pensò che “fosse necessario cercare una nuova occasione per mobilitare il paese, magari inventando una nuova guerra”, facendo concentrare cioè l’attenzione degli italiani “su qualche nuova impresa”. Anche perché nel ’37 Mussolini sosteneva che “il carattere degli italiani si deve creare nel combattimento”. Da qui, dopo l’impresa in Spagna a fianco di Francisco Franco e dopo la conquista dell’Etiopia, la necessità delle leggi razziali del ’38, al fine di rendere l’Ebreo “l’obiettivo privilegiato di una nuova mobilitazione generale”32. Anche da questo scorcio italico si può quindi vedere quanto fosse radicato nella mentalità fascista il principio della necessaria priorità del negativo, inteso proprio nella sua peculiare funzione formativa e pedagogica; in questo caso, della formazione del carattere combattivo degli italiani. Come si è detto, la dialettica eraclito-hegeliana, fondata sulla necessaria priorità del negativo, costituisce uno degli aspetti fondamentali della cultura occidentale. Anche per chi, come appunto Nietzsche, essa viene apertamente contrastata, specie sul piano dell’enciclopedismo sistematico. Dinanzi al “realismo” di simili autori – ai quali bisogna aggiungere a pieno diritto anche lo stesso Freud33 – idee come quella kantiana della pace perpetua non può risultare che l’oggetto di una fastidiosissima “chiacchiera”. Comunque sia, né Beckett né Adorno né tanto meno Levi, Wiesel e altri scampati al massacro nazista condividono questa posizione nietzscheana, poiché niente, nemmeno l’aver vissuto il Lager come Università, potrà mai dimostrare che il peggio vissuto ad Auschwitz possa dialetticamente, vale a dire necessariamente, tragicamente e quindi dionisiacamente, costituire il meglio per l’umanità. È contro questa follia dell’Occidente che testimoniano le terribili testimonianze dei superstiti della Shoah. L’esser pas32 F. Levi, La persecuzione di Mussolini 1938-1945, in cit., pp. 170-173. 33 Cfr. “La risposta di Freud” alla “Lettera di Einstein a Freud” in Perché la guerra? (1932), Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino 1975, pp. 281-299, in part. p. 291.
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo155
sati tutti, uno per uno, davanti alla faccia violacea del bambino impiccato ad Auschwitz, l’aver fatto esperienza dell’orribile e del male assoluto, l’aver toccato il fondo, l’aver visto coi propri occhi e l’aver battuto con la propria testa contro la bambina che, ancor viva nel mucchio di cadaveri, andava gettata lo stesso nel forno crematorio, l’aver provato la vergogna nauseante che assale i sopravvissuti guardandosi negli occhi l’un l’altro, l’aver infine vissuto e conosciuto il negativo in tutta la sua massima e tremenda manifestazione, ebbene tutto ciò insomma non è servito a nulla, poiché oggi più che mai (in Jugoslavia, in Ruanda, in Iraq, in Ucraina), sebbene con quote inferiori e sotto regimi diversi, quell’infernale meccanismo, quegli automatismi nelle officine dello spirito dialettico continuano ancora a funzionare a pieno ritmo, a un ritmo irresistibilmente suadente che armonizza una strana cantilena, una marcetta funebre (pensiamo al primo movimento della Terza sinfonia di Mahler), che ha il seguente testo: Se vuoi salvare l’uomo, allora annientalo; o, detto con i versi di Hölderlin: Wo aber Gefahr ist, wächst/ Das Rettende auch, “Ma dove è il pericolo, cresce anche ciò che ti salva” (Patmos). “Come disconoscere nella guerra”, scriveva l’antropologo francese Robert Hertz nel 1914, “le forze misteriose che mentre ci feriscono al tempo stesso ci salvano [?]. Non avrei mai immaginato a qual punto la guerra, anche questa guerra industriale e scientifica, sia piena di religione” (Ben 37-38). A proposito poi della guerra in corso in Ucraina. Già il nome stesso della città contesa, cioè Kiev, avrebbe dovuto bloccare sul nascere ogni pur vaga intenzione di invaderla militarmente. Se questo non è avvenuto, se questo non è bastato, se quel nome non ha raggelato il sangue nelle vene di chi si appresta a rioccuparla, allora vuol dire che l’umanità – così scriveva sconsolato un sopravvissuto di Sosnowiec – non merita di perpetuarsi. E ciò perché, di nuovo, la responsabilità di quest’altra potenziale guerra mondiale, con epicentro stavolta in Ucraina, non è di uno solo – il solito folle che improvvisamente viene preso da raptus di onnipotenza – ma, per dirla con uno dei padri più celebrati della straordinaria letteratura russa, di tutte quante le parti in causa. Espandendosi, una parte ha reagito alle continue provocazioni espansionistiche dell’altra. E lo ha fatto nel modo che proprio
156
Il negativo e l’attesa
il ricordo degli inumani stermini di massa perpetrati in Ucraina, nel 1941, avrebbe dovuto impedire, giacché – ora lo sappiamo, dovremmo saperlo, avremmo dovuto saperlo – va contro i diritti universali dell’uomo. Ricordiamo in particolare il massacro di Babij-Jar, una località alla periferia di Kiev: in soli due giorni, tra il 29 e il 30 settembre, vi furono fucilate 33.771 persone, ebrei innocenti, ad opera dei tedeschi invasori e dei collaborazionisti ucraini. Senza dimenticare peraltro anche il massacro di Odessa, con più di 50 mila vittime, compiuto da tedeschi e rumeni. Non dobbiamo sobbalzare dinanzi a queste inattese commistioni, a queste corresponsabilità, perché questa è la guerra: essa è Verirrung, traviamento, smarrimento, è Verwirrung, confusione mentale e fattuale, è scompiglio, disordine, turbamento. Il termine ha la sua radice nel medievale tedesco werra, da cui war, guerre, guerra. È insomma caos, in cui diventa difficile, se non impossibile, discernere e restare comunque dalla parte degli esseri umani. Anche i curdi, ad esempio, presero parte al genocidio degli armeni, assieme ai Giovani Turchi e agli immancabili tedeschi. Soprattutto in questo senso andrebbe recepita la lezione di Primo Levi sulla “zona grigia”. L’Europa, inoltre – essendo la matrice di ogni espansionismo –, è la terza parte. La sua attuale unione, a causa dei due conflitti mondiali nel secolo breve, è costata cento milioni di vittime, ed è nata con il preciso intento, con la dichiarata volontà di evitare ogni altra guerra in essa. Specialmente questo non avremmo dovuto dimenticarlo! Ma, per amore di verità, un analogo proposito di mantenere la guerra fuori dal vecchio continente non fu anche quello su cui gli Stati imperialisti europei convennero nella seconda metà dell’Ottocento, ad esempio al Congresso di Berlino del 1878, quando di comune accordo, dopo la guerra russo-turca, decisero di colonizzare l’Africa? Non è qui però il luogo in cui rendere conto dei genocidi commessi dagli europei ai danni delle popolazioni africane. In ogni caso, dopo settantasette anni di pace, prima del 24 febbraio, cioè solo qualche giorno fa, una guerra in Europa sembrava inimmaginabile. Se ne accennava come a una possibilità remotissima. L’idea ci appariva assai più recondita e impossibile rispetto ad esempio a un eventuale ritorno del fascismo. L’Unione europea è oggi composta da 27 Stati che, per varie ragioni, malgrado quelle buone intenzioni, fanno una certa fatica
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo157
a stare insieme e a cooperare, e nel cui novero gli Usa avrebbero voluto che rientrasse anche l’Ucraina, la quale però costituisce il ceppo originario della Russia. Alcuni di essi, poi, che per fortuna ora dischiudono le porte ai profughi, agli amici ucraini, sono gli stessi che alzano addirittura muri di filo spinato lungo la rotta balcanica per impedire il passaggio a profughi mediorientali che fuggono da altre guerre e che sono in cerca di asilo ad ovest, in Paesi in cui trovare un possibile reinsediamento. Ecco, questo termine, “reinsediamento” (Umsiedlung), questo sì dovrebbe invece farci sobbalzare, perché non era altro che un eufemismo che i burocrati tedeschi utilizzavano per indicare la distruzione del popolo ebraico nei centri di sterminio costruiti in territorio polacco. “Messa in mezzo” ai due contendenti, ai quali la legano irrinunciabili interessi economici e soprattutto un passato storico che pesa su di essa come un’inestinguibile ipoteca (Grundschuld), l’Europa, sia per la fretta nell’aggiungere Stati all’Unione, sia per i propri ritardi accumulati nella definizione della sua Costituzione, ha ora difficoltà a prendere posizioni nette nei confronti dell’uno o dell’altro degli sfidanti in questa nuova riedizione della guerra fredda tra due ex Alleati divenuti ben presto nemici irriducibili. Le sanzioni si rivelano infatti come un’arma a doppio taglio. In ogni caso, la guerra sarà pure un modo più duro e non diplomatico per continuare a fare politica, resta il fatto tuttavia che l’azione della politica riguarda gli Stati, le società, i popoli, mentre la guerra tocca ogni singolo essere umano, nella propria carne e nelle proprie ossa, adulti e bambini, indistintamente. Senza contare, inoltre, che in questo clima neo-restaurativo, dopo i rivolgimenti dell’89 e dei primi anni Novanta del secolo scorso, l’iniziativa deplorevole, l’inaccettabile modalità usata dalla Russia per avanzare le sue pretese – pretese che si inscrivono nell’alveo dell’espansionismo zarista e sovietico –, può rappresentare un ottimo precedente, un esempio da seguire per uomini di potere in cerca di ulteriore legittimazione in vista di una possibile ridefinizione dei confini del loro Stato. Ovvio, dunque, concludere che persino da quegli spaventosi massacri in Ucraina – di cui hanno lasciato memoria poeti come Celan e Evtušenko – gli esseri umani non hanno imparato nulla. Non è in realtà affatto automatico ricavare un positivo da un’e-
158
Il negativo e l’attesa
sperienza negativa. Altrimenti non ci sarebbero state tutte le altre guerre scoppiate un po’ dappertutto dall’immediato secondo Dopoguerra in poi, sino a quella attualmente in corso in Ucraina. Una guerra, questa europea, a cui, a differenza di quelle che da anni si combattono nel continente africano, e alle quali viene imposta la sordina, si dà viceversa molto risalto, specie con le full immersion dei media, proprio come avvenne in quella che si combatté in Crimea, non già ovviamente nel 2014, ma alla metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento. A fronte di ciò, al contrario di quanto si possa ingenuamente continuare a pensare, è altresì impossibile non cogliere anche negli umani quell’irrefrenabile impulso all’autodistruzione che sembra caratterizzare i lemming, una sottospecie di roditori. Come spiegare altrimenti questa inattesa guerra nell’interstizio orientale dell’Europa in cui, anche se in maniera propagandistica, si torna a riproporre lo spauracchio delle armi nucleari? Una krisis, una fenditura che si rivela più come ferita che come spiraglio, più trincea che zona franca. Come interpretare questo incontenibile e folle desiderio tutto umano di uccidere altri esseri umani proprio nel bel mezzo di una disastrosa pandemia, la quale, dal suo canto, ha già mietuto quasi sei milioni di vittime? E ciò mentre buona parte dell’Occidente fatica ancora a riprendersi dalla crisi economico-finanziaria apertasi come una voragine una quindicina di anni fa, e per di più mentre altri uomini continuano ad affogare davanti ai nostri occhi, davanti agli occhi appannati dell’Europa, in un mare che diventa sempre più profondo a causa dell’ormai incontrollabile surriscaldamento del pianeta. Emergenze su emergenze, compenetrantisi l’una nell’altra, secondo la logica delle matrioske o delle scatole cinesi. Tutte comunque irrisolte, contemporanee e inesorabilmente convergenti verso una tempesta perfetta. Per sostenersi nelle difficoltà che non riescono ad evitare, e che anzi vedono moltiplicarsi e complicarsi proprio quando cercano di affrontarle, gli uomini nel tempo si sono costruiti mentalmente una superstizione dialettica, secondo la quale è proprio nelle emergenze che essi danno il meglio di loro stessi. Questa serie indefinita di emergenze estreme e irreversibili, dalle quali, come da gorghi infernali, veniamo continuamente risucchiati, costituisce però un’ulteriore prova del fatto che siamo davvero dei poveri illusi quando nei G20 pensiamo di essere an-
Aspetti filosofici e culturali della necessaria priorità del negativo159
cora in tempo, di avere ancora del tempo sufficiente a risolverle. Ancora una volta, dunque, si rivelano drammaticamente veritiere le parole che l’apostolo delle genti riporta nell’epistola ai Romani e che in parte riprende anche da Isaia: Rapidi i loro piedi a versare sangue. Distruzione e disgrazia sui loro cammini. E il sentiero della pace lo ignorarono.
SECONDA PARTE
CAPITOLO TERZO L’ATTESA E IL NEGATIVO
E s’affretta e s’adopra / di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba. (G. Leopardi, Il sabato del villaggio)
1. L’inevitabilità delle cure quotidiane e l’attesa Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza. (SE 14-15)
Vorremmo soffermare la nostra attenzione su questo “esordio sentenzioso”1 di Primo Levi, tratto da quello che, secondo Philip Roth, resta “uno dei libri veramente necessari del nostro tempo”2: Se questo è un uomo. Vi si mettono in luce alcune implicazioni derivanti dalla condizione della natura umana, la quale, in quanto finita, rende impossibile sia la comprensione dell’infinito sia la realizzazione perfetta della felicità e dell’infelicità. Ora, che la 1 2
G. Grassano, Primo Levi, “Il Castoro”, N. 171, p. 41. P. Roth, Un amabile titano del Ventesimo Secolo, in “La Stampa”, 14.4.1987, Anno 121, N. 87.
164
Il negativo e l’attesa
felicità perfetta sia la condizione in cui permangono solamente le divinità, questo lo sappiamo già da Esiodo; ma che per l’uomo anche l’infelicità perfetta sia irraggiungibile, questo perlomeno suona strano. Levi qui sembra voler contrapporre a un sommo bene un sommo male, tentando di dimostrare che la tendenza asintotica non caratterizza solo l’appagamento dell’impulso morale, ma anche quello dell’impulso immorale. Attenendoci al pensiero di due grandi filosofi tedeschi, Kant e Fichte, si potrebbe immaginare che l’intima tendenza dell’umanità sia quella a causa della quale gli esseri umani sentono il dovere e sono spronati, come tanti asini, a raggiungere una fresca e succulenta carota. E, finché si tratta di carote – di ideali, di valori positivi, del bene, della libertà, della bellezza, della giustizia, della pace –, nulla di strano: i poveri animali, senza alcun dubbio sputeranno fino all’ultima goccia del loro sangue pur di addentarne una. Ma, per quanto asini, saranno ugualmente disposti ad inseguire una cosa ributtante messa dinanzi a loro, al posto della carota? Non saranno ora tentati di torcere il muso da quell’immondo vermicaio, dal male, dalla schiavitù, dalla bruttezza, dall’ingiustizia, dalla guerra? Secoli di teologia e di filosofia ci hanno confermato che questa sostituzione va combattuta con tutte le nostre forze, poiché implica qualcosa che va contro ogni umanesimo. E invece no: con gli occhi fissi, puntati verso quella cosa putrida, mostrando un sorriso a tutto denti, l’asino può tendere asintoticamente anche verso il sommo male, verso qualcosa la cui esistenza si riteneva possibile solo nell’immaginazione dei poeti, degli artisti e dei letterati, verso l’abisso nero senza fondo. Proprio come un ideale della ragione, dunque, anche l’infelicità perfetta è irrealizzabile, nel senso che, pur tendendovi, non se ne riesce mai tuttavia a trovare il fondo. Idealmente tutto il nostro passato e tutta la nostra tradizione culturale si presentano come un unico sforzo in vista della costruzione di una dimensione sempre più umana, più umana possibile. Ogni volta i singoli avvenimenti storici, l’affermarsi di determinate visioni del mondo e della vita, sono sentiti come espedienti per il perfezionamento di quella dimensione. Riflettere sull’essenza dell’umano è un compito che non può essere assolto se non dopo aver raggiunto una certa tranquillità dello spirito, dopo aver superato,
L’attesa e il negativo 165
dice Hegel, l’“angustia dei tempi”3. In ogni caso, hegelianamente intesa, in quanto espressione dello sviluppo dialettico dello spirito, la nostra tradizione culturale in generale ha come principio e come fine la conciliazione assoluta dello spirito con sé e per sé stesso, ossia l’identità di reale e razionale. Tutto ciò, però, dice Jaspers, poteva essere ritenuto valido “fino al 1945”, ossia fino a quando è sopraggiunta “la più orrenda distruzione di tutto il nostro mondo materiale e morale”, allorché la Germania” – terra di eccelsi spiriti, così amanti della natura, della Madre natura, dell’autonomia della natura, e nello stesso tempo così contrari ad ogni nuance e ad ogni indulgenza nei confronti della debolezza umana – prese “congedo da tutte le idee umanitarie che avevano costruito l’identità spirituale dell’Europa”4. Perché questa terribile deviazione? A cosa si deve questa tremenda sconfitta? Forse al fatto che, nonostante tutti gli sforzi profusi, non si è riusciti a cogliere la vera essenza dell’umano? Che appena un secolo dopo la morte di Hegel, proprio dalla terra che lo aveva reso il filosofo dei filosofi, è scaturito quell’impensabile che ha incrinato dolorosamente l’assunto fondamentale dello sviluppo dialettico dello spirito, cioè, appunto, l’identità di reale e razionale? “Non era possibile”, scriveva infatti Salmen Gradowski nel suo manoscritto, “che l’impensabile diventasse realtà, fatto concreto”5. I dubbi non sorgono solo rispetto alla “realtà” dei fatti compiuti dal nazismo (dubbi sollevati, ad esempio, dal revisionismo negazionista di Faurisson), ma anche soprattutto rispetto alla possibilità di poterli comprendere “razionalmente”, possibilità che tuttora dibatte gli animi sia degli studiosi sia degli stessi scampati ai campi di sterminio. I dodici anni di totalitarismo nazionalsocialista – dal 1933 al 1945 – sono stati la negazione di tutti i nostri presupposti umanitari: ci mancavano e ci mancano ancora oggi gli schemi logici per poter comprendere appieno la violenza perpetrata dai tedeschi in quegli anni. In Mauthausen, cimitero senza croci, Terenzio Magliano scriveva: “Per quanto 3 G.W.F. Hegel, Hegel’s Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, tr. it. e note di A. Plebe, Introduzione alla storia della filosofia, intr. di L. Pareyson, Laterza, Bari 1982, p. 27. 4 K. Jaspers, Die Schuldfrage, tr. it. di R. de Rosa, La colpa della Germania, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli 1947, p. 17. 5 Cfr. La voce dei sommersi, cit., p. 56 cn.
166
Il negativo e l’attesa
si possa dire, per quanto si possa immaginare è difficile avvicinarsi al punto di efferatezza dimostrata dai […] guardiani SS e dai loro sottoposti istruiti con lo stesso sistema, in un campo di prigionia”6. Perché “il mondo non saprà mai abbastanza”, scrive Anna Cherchi nella sua testimonianza7. E sebbene sia impossibile comprenderli, quei fatti, dice Levi, andrebbero almeno conosciuti al fine di evitare il loro ripetersi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre” (SE 347; SV 130; PC 77). Nell’ultima parte di quell’esordio viene detto che per essenza l’uomo è impossibilitato a realizzare la felicità e l’infelicità perfette. Parte costitutiva di quest’essenza, dice Levi, sono “le inevitabili cure materiali” che nel corso della nostra vita (in questo caso quella dei deportati, ma non solo) svolgono una duplice funzione: da una parte “inquinano ogni felicità duratura”, dall’altra “distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza”. L’aggettivo che Levi usa per designare le cure materiali è “inevitabili”; esso ci permette di intravedere, già al livello ontico ed immediato dell’esperienza, un piano ontologico. Nell’ontologia heideggeriana il prendersi cura delle cose e l’aver cura degli altri (determinazioni costitutive dell’essere in quanto Cura) non sono certo attività dipendenti dalla volontà, sono una sorta di a priori, vale a dire un istinto umano. Senza volerlo ci troviamo ad utilizzare certi enti e a rapportarci agli altri. Da una parte, infatti, il non potersi esimere dalle cure materiali quotidiane pone un limite ad ogni stato gioioso che tende a prolungarsi nel tempo. Già il semplice nutrirsi implica tutta una serie quasi infinita di cure che rende talvolta persino penosa la gioia del sentirsi in buona salute. E tuttavia, pur rivelandosi penoso, il piacere del riposo e della salute, resta per Eraclito qualcosa di desiderabile rispettivamente per la fatica e per la malattia. Come se, pur nella loro costitutiva incompletezza, direbbe Levi, il riposo, la salute 6 7
T. Magliano, Mauthausen, cimitero senza croci, cit., p. 63. A. Cherchi, La parola Libertà. Ricordando Ravensbrück, a cura di L. Monaco, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2004, p. 28.
L’attesa e il negativo 167
e il bene stesso in generale non potessero essere provati se non facendo prima necessariamente l’esperienza del loro rispettivo contrario, della malattia, della fatica, del male. Questo è l’aspetto negativo del prendersi cura quotidiano, in cui qualcosa o qualcuno, lungi dall’esserci immediatamente utile o soddisfacente, ci si dà invece nella sua semplice incidentalità, cioè come un disturbo. Non ci si può sottrarre quindi dal prendersi cura, e in questa condizione si profila l’impossibilità umana di raggiungere una felicità duratura e perfetta. Quest’ultima si dà pertanto solo come un ideale kantiano o fichtiano, dal momento che sfugge ad ogni sua completa realizzazione. In sé, dunque, essa non è raggiungibile, se non negli effetti che lascia intravedere attraverso la cura. Proporsi di raggiungerla significa sempre rassegnarsi intanto a qualche altra cosa, la quale sarà parte della serie infinita di casi utili per il suo raggiungimento asintotico. Ma “le inevitabili cure materiali” dice Levi – e qui la sua intuizione si fa ancora più interessante e profonda – svolgono anche una funzione positiva. Se prima, come aspetto negativo del prendersi cura, nella nostra vita di relazione esse avevano una funzione essenzialmente di disturbo rispetto allo scopo della nostra attività, ora invece (parlando della vita nel Lager) sembra che servano, dice Levi, a distogliere “assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta”, rendendone “frammentaria, e quindi più sostenibile, la consapevolezza”. Fuori del Lager, là dove è idealmente possibile che si dia anche felicità, l’inevitabilità del prendersi cura può anche caratterizzarsi negativamente, nel senso che può svolgere una funzione di disturbo; ma dentro il Lager, ossia là dove la stessa idea di felicità diviene fonte di profonda infelicità, essa subisce un capovolgimento radicale: non è più sentita negativamente ma positivamente. Nel Lager le inevitabili cure materiali quotidiane servono anzi a distogliere il pensiero degli Häftlinge dalla sventura che li sovrasta, attenuandone così in qualche modo la sofferenza. Nel mondo civile l’attività oblia e impedisce l’estrema felicità (funzione negativa), nel “mondo alla rovescia” oblia e attenua l’estrema infelicità (funzione positiva). Sicché, se cogito, ergo horreo, allora, paradossalmente, intensificando l’attività lavorativa, il lavoro mi rende libero dall’orrore del pensare alla sventura. Da questo punto di vista l’Arbeit macht frei assume un significato più comprensibile. In una passo de La tregua, Levi scrive:
168
Il negativo e l’attesa
Per tutto il giorno, avevamo avuto troppo da fare per aver tempo di commentare l’avvenimento, che pure sentivamo segnare il punto cruciale della nostra esistenza [la liberazione del campo da parte dei russi]; e forse, inconsciamente, l’avevamo cercato, il da fare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte. (TR 60)
Per sfuggire a quell’estremo smarrimento dell’essenza umana e alla vergogna di vedersi ridotti in quello stato, i deportati appena liberati cercano di darsi da fare con qualche attività, in qualche lavoro. Apprendiamo inoltre lo stesso concetto da un altro passo, tratto questa volta da I sommersi e i salvati: Ma lo era [il lavoro] anche per molti altri, come esercizio della mente, come evasione dal pensiero della morte, come modo di vivere alla giornata; del resto, è esperienza comune che le cure quotidiane, anche se penose o fastidiose, aiutano a distogliere la mente da minacce più gravi ma più lontane. (SS 98)8
Pertanto, se nelle tre opere di maggiore aderenza storica, e cioè Se questo è un uomo (1947), La tregua (1963) e I sommersi e i salvati (1986), compare ogni volta, anche dopo quarant’anni, l’esigenza di confrontarsi con il tema dell’inevitabilità delle quotidiane cure materiali, ciò dovrebbe perlomeno far pensare che esso doveva rappresentare per Levi uno dei maggiori problemi evidenziati dall’esperienza concentrazionaria a cui cercò di dare un’interpretazione adeguata. La ricostruiamo ancora in maniera sintetica. In quell’“esordio sentenzioso” di Se questo è un uomo, Levi indica due “stati limite” per l’esistenza umana: la felicità e l’infelicità perfette. Essi sono irrealizzabili a causa della condizione umana finita. Alla felicità perfetta si oppone “la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro”, la quale, ribadirà ne L’altrui mestiere, “sco8
Anche in Se non ora, quando? Dov, capo della “repubblica delle paludi” di Novoselki, cioè di una delle comunità di profughi, dispersi e disertori che formavano la partisanka, le bande di partigiani ebreo-russi, confessa che dalla disperazione mortale dell’attesa si esce con il lavoro, con il combattere o con l’illusione creata dalle bugie (SQ 61). Il “lavoro faticoso” è tra l’altro un rimedio anche per l’“umor malinconico” degli yahou, popolazione di cui si parla ne I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, romanzo che rappresenta una delle radici letterarie di Levi (RR 69-70).
L’attesa e il negativo 169
raggia ogni nostro progetto a lungo termine” (AM 246); a questa insufficienza si cerca di sopperire con la speranza, con la quale ci si augura leopardianamente un domani sempre migliore del presente. Ma alla felicità perfetta si oppongono anche sia la “sicurezza della morte” sia “le inevitabili cure quotidiane”. Sicché, se all’incertezza del domani si può rimediare con la speranza, alla sicurezza della morte si può rimediare con il pensiero che la morte stessa non è solo “un limite a ogni gioia”, è pure un limite “anche a ogni dolore”. Nello stesso modo dialettico, alle cure quotidiane si può ovviare pensando che esse non solo “inquinano ogni felicità duratura”, ma, proprio nel senso del divertissement pascaliano, “distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza”. Levi ritornerà a meditare su questi concetti più tardi, nel 1971, in uno dei più suggestivi racconti presenti in Vizio di forma: Verso occidente. Qui, ad esempio (ma non solo), mette in contrapposizione la supposta tendenza all’autodistruzione dei lemming alla volontà di vivere che contraddistingue tutti gli altri esseri viventi, compreso l’uomo. Eppure, dice, malgrado ciò, in certi stati d’animo, anche l’essere umano può perdere la volontà di vivere, e allora ad allontanarlo dal naufragio subentrano alcuni rimedi, la stessa “abitudine a vivere” (quella che Améry definisce “logica della vita” o “lex naturae”), la religione, l’altruismo, il vizio, la continua distrazione (cn), e soprattutto la “nostra essenziale ignoranza del domani”, che è la “difesa più comune”, quella “meno ignobile” (VF 191). Anche in un’intervista del 1975 Levi verrà invitato a commentare la complessa “verità” relativa al concetto di attività espresso in quell’“esordio sentenzioso”. Dice: I disagi materiali, la fatica, la fame, la sete, il freddo, tormentando il nostro corpo, paradossalmente riuscivano a distrarci dall’infelicità grandissima del nostro spirito. Si aspettavano i pochi momenti d’ozio, di tregua, come una liberazione e poi il piacere dell’ozio si risolveva in una grande infelicità: il previlegio di pensare, per qualche minuto, diveniva tormento. Eppure anche questo tormento era, a sua volta, di sollievo. Perché lo si avvertiva come un’infelicità superiore, più nobile, che distraeva da quella materiale. “Quindi non si poteva […] essere perfettamente infelici” gli chiedono. Risponde:
170
Il negativo e l’attesa
Lo dimostra il fatto che in Lager il suicidio era assai raro. Il suicidio è un fatto filosofico, è determinato da una facoltà di pensiero. Le urgenze quotidiane ci distraevano dal pensiero: potevamo desiderare la morte, ma non potevamo pensare di darci la morte. Io sono stato vicino al suicidio, all’idea del suicidio, prima e dopo il Lager, mai dentro il Lager. (PC 67-68)9
I tormenti e le cure del lavoro torturano il corpo ma distraggono al contempo lo spirito dall’infelicità grandissima, ossia dal pensiero sovrastante della morte. Da qui la paradossale e sfrontata verità dell’Arbeit macht frei. Non solo. La breve tregua dai tormenti provocati dal duro lavoro anziché dare gioia e piacere suscita ancora più infelicità, perché dispone al pensiero. Insomma, pur in tutta la loro indescrivibile sofferenza, i disagi materiali distraggono dal disagio dello spirito generato dal pensare. Ma anche questo stesso pensare non era solo fonte di infelicità. Era anche a sua volta una sorta di sollievo, perché veniva avvertito come un’“infelicità superiore”. Non solo “distraeva da quella materiale”, ma riconduceva nostalgicamente alla semenza umana, alla virtù e alla conoscenza. Da un lato, durante i lavori forzati, Levi cerca negli altri l’umanità perduta; quando poi, nei momenti di tregua, la ritrova in sé, il pensiero stesso di essere un umano ridotto a cosa si traduce in una pena (SE 126)10. In certi momenti soffre per l’umanità per9
La stessa tentazione era venuta anche a un’altra sopravvissuta di Auschwitz, a un’amica di Levi, a Liana Millu: “gli anni successivi al mio ritorno [dice quest’ultima] sono stati ancora più terribili di quello che ho trascorso in Lager. Mi sono sempre imbattuta in discussioni quando ho parlato di questo. Ma, per quanto assurdo possa apparire, in un certo senso un giorno fui veramente felice in Lager. La notte di natale del 1944 in Lager avevo speranze e sogni; la notte di natale del 1945 ero sì libera, ma non avevo né speranze né sogni” (cfr. David Dambitsch, Im Schatten der Shoah. Gespräche mit Überlebenden und deren Nachkommen, 2002 Philo Verlagsgesellschaft mbH, Berlin/Wien, pp. 67-77; tr. it. di F. Di Giorgi, in Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah, cit., pp. 79-89: Colloquio con Liana Millu). Per un inquadramento storico-letterario della testimonianza di questa superstite, cfr. Gudrun Jäger, Testimonianze della Shoah di ebree italiane (1946-1947), in Liana Novelli Glaab (a cura di), Ebraismo e antisemitismo nella società italiana. Una storia discontinua, Biblioteca italiana/Italienische Bibliothek, Frankfurt a.M 2018, pp. 229-248. 10 È durante questi stati penosi trascorsi nel laboratorio che, avverte Levi nell’Appendice a Se questo è un uomo, ha cominciato a scrivere quello che non avrebbe saputo dire a nessuno (SE 329).
L’attesa e il negativo 171
duta in Lager, in altri si addolora ugualmente per averla ritrovata, ma come negata. Dapprima patisce per essere costretto ad agire come un bruto, come non-uomo, poi soffre come uomo, perché si rende conto di quell’abbrutimento. Ora soffre per la sua incoscienza, ora per la sua coscienza. La sua sofferenza è dunque continua. Sicché per non provare infelicità occorreva non pensare. Bisognava continuare a lavorare. Ma in tal modo si affrettava la morte, che però rendeva liberi sia dalla felicità che dall’infelicità. Si era in tal modo costretti a rinunciare alla propria semenza, al privilegio del pensare, costretti cioè non a seguir virtute e canoscenza, ma a viver come bruti, come animali. Il lavoro mortale rende infatti liberi dal pensiero e quindi anche dall’infelicità. L’Arbeit del Lager non è ovviamente il lavoro nobile che Faussone svolge in giro per il mondo civile: non consentendo la felice conciliazione tra attività teorica e attività pratica, tra azione e pensiero, quell’Arbeit non può avere un “valore educativo e formativo” (PC 58). Pensare, essere uomo, nel Lager, era dunque doloroso e spingeva ad abbrutirsi. Ecco la logica perversa che si celava dietro a quel motto posto sul cancello del campo di Auschwitz. Eppure, dice Levi, anche l’ulteriore infelicità provocata dai brevi momenti di riflessione generava un po’ di sollievo, perché rendeva consapevoli del fatto che, per quanto abbrutiti, vi era ancora nei deportati un residuo, una traccia di pensiero (quella che egli riconoscerà in Chajim11 e che vedrà invece spenta nei Muselmänner). Una traccia di umanità poteva essere ad esempio quella del fare bene il proprio lavoro, anche quando si trattava dell’Arbeit nazista, cioè quel lavoro che era del tutto inutile, oppure utile solo ad espropriare e a sfinire i prigionieri. Proprio in questo fare bene il lavoro e nonostante la sua inutilità, osserva Roberto Mantegazza, si poteva scorgere una “strategia di resistenza” all’espropriazione per tentare un “recupero della dignità umana”12. Provare sollievo nell’infelicità, non è questo uno degli aspetti più contraddittori del “mondo alla rovescia”? Ora, tra le facoltà, tra le possibilità del pensiero, tra le 11 Chajim era il compagno di branda di Levi. È probabilmente una delle figure che ha ispirato il Faussone de La chiave a stella, poiché è uno di quei “pochi che conservino la dignità e la sicurezza di sé che nascono dall’esercitare un’arte per cui si è preparati” (SE 41). 12 R. Mantegazza, L’odore del fumo, cit., pp. 186-187.
172
Il negativo e l’attesa
prerogative e i desideri dell’umano c’era anche il suicidio. Ma le “urgenze quotidiane”, il lavoro abbrutente distraevano e quindi in parte salvavano da quest’idea umana di suicidio. Non solo. L’infelice e duro “da fare” serviva non soltanto a distogliere la mente dal pensiero doloroso e altrettanto infelice della morte: servì anche addirittura a sfuggire il felice impatto con la libertà che i russi avevano riportato abbattendo il cancello di Auschwitz, ossia il ritorno denso di vergogna a quella condizione umana che la disumana permanenza in Lager aveva quasi del tutto annientato. Ad ogni modo, in Lager Levi comprende che nella vita libera l’incontentabilità dell’uomo non deriva dalla sua incapacità di raggiungere uno stato di benessere assoluto, ma dalla sua “sempre insufficiente conoscenza della natura complessa dello stato di infelicità” (SE 66). Infatti, come il desiderio, diceva Dante nel Convivio, non si appaga mai e resta sempre deluso dopo aver raggiunto una sua meta o uno stato di benessere, nello stesso modo anche in Lager non si raggiunge mai uno stato di infelicità definitivo, perché una volta superato uno se ne presenta un altro che il precedente aveva semplicemente coperto. Scrive Levi: non appena il freddo, che per tutto l’inverno ci era parso l’unico nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame: e, ripetendo lo stesso errore, così oggi […] [che] per la prima volta il sole è sorto vivo e nitido fuori dall’orizzonte del fango […] diciamo: “Se non fosse della fame!…”. (SE 64, 66)
D’altronde, già da Crescenzago, dall’omonima poesia del febbraio 1943, che apre la raccolta Ad ora incerta, a un anno esatto dalla sua deportazione, ancora prima dell’esperienza tanto inumana quanto “arricchente”, risulta del tutto evidente che il ventiquattrenne Levi, laureatosi in chimica nel luglio del 1941, dispone già di una leopardiana sensibilità e di strumenti linguistici e letterari capaci di esprimerla. La sua è un’inclinazione naturale a cogliere il fluire dell’esistenza, il fuggire del tempo, la frenesia degli uomini e delle donne che vivono a modo loro nell’attesa di qualcosa che nell’attendere intanto li consuma. Non solo. È una predisposizione a registrare e a descrivere il lato negativo a cui l’organizzazione del consorzio umano inclina nel suo imprescindibile rapporto con il creato. Un negativo che, come il fumo che fuoriesce dalla cimi-
L’attesa e il negativo 173
niera di una fabbrica, o come quello che uscirà anche dalla Buna di Monowitz, attossica il mondo, ingenerandovi quel male che Dio, il creatore stesso, pur volendo, non ha potuto evitare. A circa due anni e mezzo di distanza da Crescenzago, nel dicembre del 1945, quella inclinazione leviana a meditare sul negativo dell’esistenza trova infatti in Buna – ma anche in Se questo è un uomo, che nel frattempo già pulsa nella testa del sopravvissuto – la sua naturale opportunità. Dopo l’inumana e sradicante esperienza concentrazionaria, quel tono dolente e monitorio può trovare più ampio e più libero sfogo: può sintonizzarsi ancora più a ragione su quegli stessi elementi esistenziali che, come preveggente, Levi ha trascelto nella prima poesia. Quella stessa terra di Crescenzago, su cui il sole stentava a sorgere, ora nel Lager diventa maledetta e ritorna l’immagine ancora più spettrale del camino che emette fumo nero attossicante. Qui nella Buna Werke di Monowitz, uno dei 39 sotto-campi dell’arcipelago dei Lager che erano sotto la giurisdizione di Auschwitz, dove la I.G. Farben13 poté fruire di esenzioni fiscali e di manodopera praticamente a costo zero; qui, nella Buna IV, dove il consorzio umano ha dissolto l’ultimo suo valore, l’ultimo legame con Dio, ebbene ora l’esistenza che prima, nel mondo civile e del diritto, poteva essere vissuta attraverso molte e varie attività libere e “divertenti”, ora qui, nel mondo inumano e alla rovescia, si è costretti a viverla così com’è, nella sua più intima essenza, nella sua cruda realtà, allo stato puro, cioè come attesa angosciosa. Un’attesa della sventura sovrastante che, come si è visto, può paradossalmente essere superata e attenuata attraverso quel duro lavoro, il cui unico scopo è tuttavia lo sfinimento e la consunzione delle persone, è l’annientamento della vita di tutti coloro che, in base a un decreto, all’idea di un folle (sostenuto per indolenza, per convenienza o per paura da milioni di seguaci), si ritenevano non degni di vivere, di far parte di quel consorzio. In questa naturale inclinazione di Levi a soffermarsi sul negativo dell’esistenza, Dante lo sorregge nell’esprimere la solitudine e quell’angoscia Che intendere non può chi non la prova (AI: Un altro lunedì, Avigliana 28 gennaio 1946); Rilke e l’immagine 13 Ogni tanto Höss invitava a casa sua, non tanto lontana dal campo, qualche dirigente della I.G. Farben, il quale veniva accompagnato dalla rispettiva consorte (Hil 998).
174
Il negativo e l’attesa
della pantera lo soccorrono a sopportare l’inquietudine mentre si trascina avanti e indietro e mentre le foglie cadono suggestive sia tutt’intorno che dentro di lui (AI: Da R.M. Rilke, 29 gennaio 1946). Ecco dunque il riemergere dell’esistenza nella sua veste di attesa pura. È solo questione di tempo. Di tempo ansioso d’attesa tra il lampo e il tuono (AI: Attesa, 2 gennaio 1949). Così già il Goethe dell’Ein Gleiches, del Medesimo: Warte nur, aspetta solo. Catullo, dal suo canto, sostiene il sopravvissuto nel ricordo del dolore patito sulla propria carne a Fossoli, quando, al contrario di quanto accade per il sole che nasce e risorge, avverte che la breve luce della sua vita si spegne, non si riaccende più (AI: Il tramonto di Fossoli, 7 febbraio 1946)14. Il canto del corvo II (AI: 22 gennaio 1953), poi, non è altro che il lamento della pena che come un’ombra scura accompagna la vita del salvato. È un lamento che lo avverte: da quel momento in poi, dal momento del suo ritorno, l’esistenza per lui non sarà altro che pura attesa, una durata grave di affanni e dell’ansia della notte inevitabile. Deprivato dell’ultimo valore, egli si sente come un hollow man eliotiano, svuotato e simile a cosa tra cose, incapace di sfuggire sia all’attesa pura dell’esistenza sia a quel canto cupo del corvo che lo accompagnerà sino alla fine dei suoi giorni, allorché si troverà fermo come un orologio. Da quanto precede si può pertanto ritenere che il “solenne acume morale” che Giovanni Raboni (AI 141) ravvisa nella scrittura poetica di Levi sia lo stesso di quello che caratterizza in modo intenso e toccante la sua prosa; che il tono solenne e moraleggiante della sua poesia sia proprio quello che rende così profonda e toccante la sua prosa. Come se il Levi poeta fosse anteriore al Levi prosatore; come se quindi il poeta influenzasse il prosatore, non solo quello della testimonianza concentrazionaria, ma anche quello dei romanzi, de La chiave a stella e di Se non ora, quando?. Insomma, la “lettura morale della realtà” (AI 142) è ciò che rende la prosa di Levi così peculiare e insostituibile, e ciò perché essa, questa prosa, viene sin dall’inizio influenzata da un approccio istintivamente poetico. Nel secondo girone del settimo cerchio dell’Inferno vi finiscono i suicidi e gli scialacquatori. Esso si presenta a Dante come 14
A Fossoli, tra l’altro, dirà Levi in una conversazione con Giovanni Tesio, “facevo l’insegnante, insegnavo italiano, latino e matematica ai bambini” (LT 111).
L’attesa e il negativo 175
un “mondo alla rovescia”. Anche così, cioè “alla rovescia”, apparve a Levi l’inferno del Lager. Lo si può notare, ad esempio, in questo passo di Se questo è un uomo che segue all’ordine che il Reichsdeutcher Alex dà ai sette deportati prescelti per l’esame di chimica: “Ruhe, jetzt. Warten”. Ora zitti. Aspettate. “E di questo”, dice Levi, “siamo contenti”. Quando si aspetta, il tempo cammina liscio senza che si debba intervenire per cacciarlo avanti, mentre invece quando si lavora ogni minuto ci percorre faticosamente e deve venire laboriosamente espulso. Noi siamo sempre contenti di aspettare, siamo capaci di aspettare per ore con la completa ottusità dei ragni nelle vecchie tele. (SE 93; VO pref.)
In questa frase c’è un che di strano. Qualcosa che non suona come dovrebbe. Si avverte un’inversione sia rispetto al nostro modo abituale di percepire il trascorrere del tempo sia rispetto a quanto ha pur detto lo stesso Levi a proposito della funzione positiva svolta dalle inevitabili cure quotidiane. Levi sa bene infatti che nella vita extra-concentrazionaria il rapporto che il tempo instaura con l’attività e con l’attesa è inverso rispetto a quello che si viveva all’interno del Lager. Abbiamo già avuto modo di apprendere dallo stesso Levi l’importanza che l’attività, il duro lavoro, il da fare, le inevitabili cure quotidiane assumevano nel Lager rispetto al pensiero della sventura che sovrastava gli Häftlinge. Se da una parte esse impediscono ontologicamente qualsiasi prolungamento dello stato di quiete, dall’altra servono tuttavia a distogliere il pensiero degli uomini, e in modo particolare degli Häftlinge, dalla loro sventura. Sebbene faticose, dunque, all’interno del Lager le cure materiali risultano utili agli Häftlinge, perché distolgono il loro pensiero dal loro triste destino. Se è quindi “positivamente” che tali cure venivano considerate in rapporto al pensiero della sventura sempre imminente, come si caratterizzano ora in rapporto al tempo? Nella vita normale e civile, nella vita extra-concentrazionaria, cioè nel mondo del diritto e non nel mondo alla rovescia (anche se, avverte Levi, il sistema concentrazionario non era affatto chiuso, ma aperto al mondo civile e alle sue industrie che facevano affari con esso) (SS 7), lo sprofondarsi nell’attività annulla la percezione del tempo. In tal modo l’esistenza, intesa come attesa, dice Leopardi, diventa gradita solo per colui che con tanto amore/ […] a’ suoi studi intende, mentre per il poeta, che è consapevole di
176
Il negativo e l’attesa
at-tendere nel fra-t-tempo l’Attesa (cioè la morte), essa non può che essere tedio. E ciò a differenza dell’artigiano, del legnaiolo leopardiano che l’attende consapevolmente e attivamente con gioia. Come il divertissement pascaliano, le inevitabili cure quotidiane servono a non pensare all’imminenza imprecisata della morte, cioè a un’Attesa che però, salvo casi limite, alla fine si vive sempre come Inatteso. La vita diventa gradita quando l’attività distoglie il pensiero dal tempo che passa, perché in tal modo lo annulla, lo rimuove. La civile attività – quella il cui valore obliante si rende utile perfino all’interno del Lager – annulla nella coscienza comune la percezione interna del tempo, perché per tutta la sua durata il tempo sembra dileguarsi. Al contrario di quella poetante, che è la coscienza interiore del tempo, essa, la coscienza comune, non percepisce la durata, ma vive per così dire fuori del tempo. Per essa il tempo non costituisce un problema grave, non rappresenta un ostacolo, un peso, perché anzi, al contrario, corre troppo in fretta e non basta mai. L’attività civile è gioiosa e leggera perché la sua natura ambivalente e obliante le permette di non trascinarsi dietro il grave peso del pensiero del tempo, e quindi l’essere attivo può continuare a svolgere le proprie mansioni, può continuare ad attendere alle proprie cose senza nessuna difficoltà. Al contrario della coscienza critica e riflettente del poeta, essa è inconsapevole di at-tendere nel fra-t-tempo l’Attesa come Inatteso. Ma nella precedente constatazione di Levi si dice tutto il contrario di quanto si verifica nella vita civile o extra-concentrazionaria. Qui ora infatti egli ci dice che: 1) nel Lager “Quando si aspetta, il tempo cammina liscio senza che si debba intervenire per cacciarlo avanti”; 2) che “quando si lavora ogni minuto ci percorre faticosamente e deve venire laboriosamente espulso”. Al contrario che nell’attività civile, il tempo durante il disumano lavoro nel Lager non passa mai, anzi: deve venire espulso a fatica. E ciò anche se le dure cure quotidiane servono nel frattempo a distogliere il loro pensiero dalla sventura che li sovrasta. Il duro lavoro del Lager distoglie bensì il pensiero sovrastante della sventura, ma non riesce a far passare più velocemente il tempo. Ma se da una parte, come abbiamo visto, il lavoro all’interno del Lager serviva a distogliere l’attenzione dalla sventura che sovrastava gli Häftlinge – e in questo senso si è detto che svolgeva indubbiamente una funzione positiva –; e se, dall’altra, in rapporto
L’attesa e il negativo 177
al tempo, esso li rendeva immediatamente consapevoli della gravità del trascorrere del tempo, allora ciò significa che il lavoro serviva sì a dimenticare e a non pensare, ma rendeva anche possibile cogliere la verità relativa all’essenza del tempo, ossia all’attesa come dimensione dell’esistenza. Per cui il lavoro in generale è sì obliante – in esso ci si dimentica di sé stessi, delle proprie angosce, del proprio destino, del tempo che passa –, ma quando si svolge debolmente, faticosamente e dolorosamente, come appunto si svolgeva nel Lager, la fatica che esso richiede non solo ridesta con dolore la coscienza della lunga durata del tempo, ma riporta con essa angosciosamente gli Häftlinge al proprio destino, alla sventura che li sovrasta. Sarebbe inutile continuare a ripetere lo stesso concetto senza provare almeno ad accennare a qualche possibile sviluppo o approfondimento. Come si è visto, il problema attorno a cui, in questo contesto, ruota il pensiero di Levi, come pure quello che svolge Robert Antelme ne L’espèce humaine, è sintetizzabile nel concetto di attendere. Questo è un termine zweideutig, ancipite e anfidromico, proprio come quelli che piacevano molto a Hegel: un termine che esprime un significato e il suo contrario. Da un lato, infatti, “attendere” significa aspettare, dall’altro prendersi cura. Derivante dal latino at-tendo (composto dalla particella ad (a) e dall’infinito tendere), da un lato esso significa distendersi, volgere lo sguardo ad un termine, inclinare, mirare, aspirare, e dall’altro anche dar opera a qualcosa, por mente, considerare, cioè tendere lo spirito, stare in attesa o stare in aspetto, in aspettativa. Il legame tra attendere e aspettare, come si vede, è evidente. Aspettare infatti deriva sempre dal latino aspìcere, ed è composto dalla particella ad (a, verso) e spìcere (guardare). Anche il tedesco warten vale curare, ma anche guardare, aspettare, attendere pazientemente senza muoversi, quasi coll’occhio intento verso la cosa o la persona che deve arrivare. In questa lingua persino il termine tendere risente dell’ambivalenza dell’attendere. Secondo Schelling esso corrisponde al tedesco antico dennan e al moderno dehnen, da cui deriva anche denken, pensare15. L’attendere nel senso di aspettare implica una contemplazione immobile, una theoria; nel senso di prendersi cura implica vicever15 F.W.J. Schelling, Conferenze di Erlangen (1821), in Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson, Mursia, Milano 1974, p. 217.
178
Il negativo e l’attesa
sa un’agitazione, una phrontís, un’epiméleia o sollecitudo. L’attesa immobile può tuttavia anche essere agitata e ansiosa (si pensi all’omonima tela del 1919 di Casorati), mentre si può attendere ai propri compiti e alle proprie relazioni con la massima tranquillità. In generale l’attesa è una Stimmung, uno stato d’animo rivolto al futuro. Anche nel senso del prendersi cura quotidiano e materiale, l’attendere si dà sempre necessariamente come un preoccuparsi o un prepararsi in vista di qualcosa che sta per succedere o di qualcuno che sta per arrivare. L’essere distesa verso il futuro inoltre la contraddistingue con un’ulteriore distinzione, sulla quale si è soffermato Platone nelle Leggi: Ciascuno di noi [dice l’Ospite] è uno […] [e]d ha in sé due consiglieri contrari e istintivi che noi chiamiamo “piacere” e “dolore”. […] Oltre a questi due, dopo di loro, ci sono le opinioni delle cose future (dòxas mellònton) che hanno in comune il nome d’attesa (elpìs), e secondo il nome proprio aspettare di soffrire è “paura” (phòbos), aspettare di godere è “confidenza” (thárros). (644c 4-12)16
Entrambe queste due ulteriori determinazioni dell’attesa, considerata dal punto di vista del suo necessario orientamento temporale verso il futuro, compaiono in alcuni passi toccanti di Se questo è un uomo. In primo luogo la “paura”, propria dell’aspettare di soffrire: “Ma per tutta la durata della notte, attraverso tutte le alternanze di sonno, di veglia e di incubo, vigila l’attesa e il terrore del momento della sveglia” (SE 56 cn). In secondo luogo la “confidenza”, propria dell’aspettare di godere: “Quando ritorno al lavoro, si vedono passare gli autocarri del rancio, il che vuol dire che sono le dieci, e questa è già un’ora rispettabile, tale che la pausa di mezzogiorno già si profila nella nebbia del futuro remoto e noi possiamo cominciare ad attingere energia dall’attesa” (SE 61 cn). Una breve ma acuta analisi del precedente passo platonico dei Nòmoi è stata svolta da Heidegger e da Fink in un seminario su Eraclito17. L’elpìs qui risulta distinta in Hoffnung ed Ertwartung, speranza e attesa. La prima è un “sich mit etwas fest befassen” un interessarsi, un occuparsi fissamente di qualcosa, mentre il secondo 16 Platone, Leggi, tr. it. di A. Zadro, Laterza, Bari 1979. 17 M. Heidegger, E. Fink, Heraklit, Vittorio Klostermann, Frankfurt a.M. 1970, XIII: Todesbezug, Erwartung-Hoffen.
L’attesa e il negativo 179
indica sia un “Sichfügen”, un ubbidire, un sottomettersi, piegarsi e rassegnarsi (come ad esempio: “er fügte in sein Schicksal”, si rassegnò al suo destino), ma anche una “Zurückhaltung”, una riservatezza, un contegno. La prima reca in sé sempre un momento di aggressività (ein aggressive Moment) contro sé stessi (l’ansia di…), contro altro (l’ansia che qualcosa avvenga o no secondo le nostre “attese”); la seconda invece reca un momento di tranquillo contegno (Das Moment der Verhaltenheit). L’elpìs esprime quindi bensì i due significati, ma solo l’Erwartung, dice Fink, resta la philosophische Haltung, l’atteggiamento filosofico, il quale corrisponde al warten di cui Heidegger parla in Was heisst denken?, il saggio compreso nei Vorträge und Aufsätze, del 1950, nel quale, cercando di inquadrare il compito che la riflessione filosofica dovrebbe assumersi nella modernità, scrive: Così, una sola cosa ci resta da fare: attendere (warten) che il da-pensare (zu-Denkende) si rivolga a noi. Ma attendere (warten) non significa affatto che, nel frattempo, noi differiamo ancora il pensare. Attesa (Warten) significa qui: tenere gli occhi aperti cercando, in ciò che è stato pensato, la via verso il non pensato che ancora nel già pensato si nasconde. Con un tale attendere (Warten), noi siamo già, pensanti, in cammino verso il da-pensare. Il movimento potrebbe essere un erramento. Ma anche in questo caso rimarrebbe orientato e intonato a corrispondere a ciò che si dà da considerare.18
Quanto precede ci porta in ultima analisi a concludere che se, come osserva Sofsky, uno degli effetti che l’ordine del terrore imposto dal Lager nei deportati comportava lo stravolgimento radicale della coscienza del tempo – dal momento che annientava le dimensioni del passato e del futuro, vale a dire la memoria e la speranza –, schiacciando e imprigionando questi individui in un presente eterno (Sof 105), allora il duplice e disperato tentativo di Levi di recuperare con uno sforzo mnemonico il passato poetico e di insistere sugli aspetti sfuggenti della Wartezeit, del tempo dell’attesa, non era solamente un’occasione per interrompere la monotonia della vita del Lager né solo un modo per sopravvivere al fine di ritornare e raccontare, ma era anche in fondo, pur nella sua estrema flebilità, 18 M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze (1954), tr. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1985, p. 93.
180
Il negativo e l’attesa
una profonda espressione della spiritualità umana che resisteva alla disumanizzazione e alla de-spiritualizzazione, opponendosi così a quell’ordine della violenza e del terrore che nel Lager le SS avevano imposto sia al tempo sia allo spazio, ossia alle due forme fondamentali in cui si dà l’esistenza umana. “Il Lager”, scrive infatti Sofsky, “non uccide solo la persona morale; l’ultimo vero obiettivo del potere assoluto è soprattutto quello di estirpare (austilgen) la personalità umana” (Sof 106)19. 2. L’ambiguità dell’esistere e l’attesa In un romanzo di Jean-Paul Sartre del 1945, L’età della ragione, nel capitolo XI, Ivic e Matteo, dopo essersi provocati volontariamente una ferita sul palmo della mano, provano un senso di maggiore “aderenza” alla vita, si sentono eterni, “fuori” di sé, ex-terni, ex-sistenti, non più apparenti ma trasparenti a sé stessi. La costitutiva e ineliminabile ambiguità dell’esistere consiste nel fatto che esso è ad un tempo dato fenomenico (esistenza) e dato a priori (ex-sistenza), fatto in cui il secondo appare inaccessibile al primo, perché questo ne impedisce l’accesso. In tal modo l’ex-sistenza sfugge alla semplice esistenza. In ragione di ciò si può pertanto dire che noi non ci accorgiamo di ex-sistere mentre esistiamo o mentre semplicemente viviamo. Ora, com’è che anche il negativo prioritariamente procurato e culturalmente legato all’esperienza del male (della sofferenza, del dolore, dell’angoscia della morte, della ferita sulla mano), permette di andare oltre l’esistenza e di avvicinarsi di più, di accedere all’ex-sistenza? Sebbene secolarizzata o proprio perché secolarizzata, la tradizione teo-filosofica continua in ogni caso a rammentarci che il confronto col negativo, con il dolore e con la morte, è uno dei metodi più efficaci per superare, di tanto in tanto, l’ambiguità esistenziale, consentendoci in tal modo il passaggio dall’opacità dell’esistenza inautentica alla trasparenza di quella autentica. L’ambiguità emerge anche sotto que19 “Il sopravvivere richiedeva sempre una specifica strategia temporale (Zeitstrategie). In Lager la conservazione di sé comportava sempre anche la conservazione e la salvezza del tempo, una restituzione della coscienza del tempo che era stata in precedenza sottoposta a profonde deformazioni” (Sof 106).
L’attesa e il negativo 181
sto riguardo, giacché l’esperienza del negativo riesce a dare opacità all’ex-sistenza, ossia a ciò che per l’esistenza inautentica resta trasparente, invisibile, non esperibile, sfuggente. Ma, di nuovo: com’è possibile che il necessario confronto col negativo – con la morte, il dolore e la pena – metta in grado di cogliere e di vivere temporaneamente il darsi positivo dell’ex-sistenza autentica? Com’è possibile cioè che l’evento in sé negativo della morte ponga fine temporaneamente all’ambiguità dell’esistenza e ci metta in grado di intuire l’ex-sistenza nel suo autonomo svolgersi al di là dello spazio-tempo, ponendoci per un attimo immisurabile dinanzi al tutto-nulla, ossia fuori (ex) della fenomenicità del “questo” e del “quello”? Perché, anzitutto, questa esigenza di andare oltre l’esistenza fenomenica o inautentica e di accedere all’ex-sistenza trascendente o autentica? E perché, soprattutto, solo il negativo della sofferenza e dell’angoscia della morte appare necessario per poter accedere all’ex-sistenza? Non si danno altre possibilità per questo genere di oltrepassamento? La nostra tradizione, come si è visto, ci dice con parole di fuoco che una tale possibilità autentificante resta in noi perlopiù addormentata e che per destarla non serve il dolce bacio del principe azzurro, ma il necessario e doloroso ricorso al negativo. Per svegliare questa dormigliona, per tirare fuori dal letto questa pigrona, non serve un bacio o una tenera carezza, non il sommesso impeto di gioia né l’umile sentimento d’amore, ma un duro e violento scossone. Il disagio esistenziale provato da Ivic e da Matteo rappresenta ad un tempo la consapevolezza del saper di dormire e la pena del non potersi svegliare se non facendo ricorso alla coltellata sulla mano, al negativo, al dolore, a ciò che spinge a una considerazione materialistica di sé. A tale scopo, tutte le altre esperienze della vita quotidiana, secondo quella tradizione, non sembrano servire a niente, se non ad annoiarci profondamente, poiché contribuirebbero a conciliare anziché a spezzare il nostro sonno dogmatico, pregiudizievole, ingannevole, inautentico e fuorviante dell’esistenza. In vista di quel risveglio traumatico alla dimensione dell’ex-sistenza autentica, tutto ciò che nel frattempo ci circonda appare come una inutile zavorra che ci tiene legati alla buia caverna della misconoscenza. Ma è davvero sempre necessario il ricorso al negativo per svegliarsi all’esistenza autentica? Non crediamo. Questo dubbio ci è stato suggerito sia dalla lettura di Se questo è un uomo sia da uno
182
Il negativo e l’attesa
degli idilli più intensi di Leopardi, Il sabato del villaggio, su cui ci soffermeremo nei prossimi paragrafi e in cui si propone la dimensione dell’attesa come possibilità, certo meno violenta e traumatica, di risveglio e di autenticità. Con ciò, pensando allo stesso Leopardi, al Tasso e ad Heidegger, non si vuole certo mettere in dubbio l’efficacia della noia (Langeweile) e dell’angoscia (Angst) o, in generale, quella degli stati d’animo “negativi”, riguardo al risveglio della persona; si vuole solo, sempre sulla scorta e, sotto certi aspetti, malgrado le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah, far rilevare come una tale funzione risvegliante e autentificante possa essere svolta anche da uno stato d’animo “positivo” qual è appunto quello dell’attesa. In che modo, dunque, l’attesa risveglia? Svegliarsi vuol dire anzitutto riuscire o essere già riusciti a intuire l’ambiguità dell’esistere. Normalmente, nella quotidianità, noi veniamo attratti da ciò che appare o che esiste. Nel periodo dell’attesa di una festa, però, cioè nel tempo della vigilia-veglia, dentro di noi accade qualcosa, cioè una sorta di risveglio che ci permette di vedere le cose in un altro modo, sotto un’altra luce, come se venissero illuminate dal di fuori e si ponessero dinanzi ai nostri occhi per la prima volta. Quell’albero laggiù non è più quello davanti a cui passiamo quando torniamo stanchi dal lavoro usato, è un altro albero, la sua è un’altra presenza. Questa trasformazione non si deve alla minore o maggiore distanza da esso, come si dice nel Filebo platonico. Quell’atmosfera di attesa ha cambiato dentro di noi qualcosa, per cui ora, sorprendentemente, riusciamo a percepire il mondo in maniera diversa da come era prima. L’attesa, tuttavia, non è affatto qualcosa di meramente soggettivo, non è cioè solo una determinazione del pensiero. Essa è un esistenziale, un dato ontologico-temporale che rende possibile la trasformazione del modo di pensare e di sentire il mondo e sé stessi. Una simile trasformazione interiore è dovuta all’aumento repentino della nostra sensibilità: diveniamo più sensibili anche alle cose transeunti che in altri momenti passerebbero inosservate. Ma divenire più sensibili al transeunte non vuol dire affatto cogliere solo il valore delle cose transitorie, misere e vane, senza capire ciò che non è né misero né transitorio; vuole piuttosto dire che la capacità di trasformazione umana insita nell’attesa ci mette misteriosamente in grado – senza far ricorso necessariamente al negativo – di co-
L’attesa e il negativo 183
gliere la transitorietà dell’esistenza e di comprendere e di accettare la nostra transitorietà, senza per questo cessare di svolgere quotidianamente la propria attività lavorativa a causa della stupefacente rivelazione. In altri termini, ciò significa che anche l’attesa, e quindi non solo la noia e l’angoscia, è in grado di gettare uno sguardo fugace al di là dell’esistenza inautentica e di farci accedere all’ex-sistenza autentica. A parità di funzione, tuttavia, l’attesa si differenzia nettamente dalle altre due disposizioni negative; anzi, per certi versi si può dire che sia perfino superiore ad esse. A differenza della noia e dell’angoscia, lo stato d’animo dell’attesa – leopardianamente intesa come attesa della festa-morte – non è caratterizzato negativamente. In esso non si prova profonda nausea di fronte all’esistente né ci si chiude malinconicamente in sé stessi, impotenti e come schiacciati dal peso della consapevolezza che tutto quanto ci circonda, pur apparendoci persino come un essere nuovo, non serve tuttavia a sollevare l’animo dal peso del nostro esistere angoscioso. Nell’attesa lo stato d’animo è proprio di colui che, lungi dal restare passivo e immobile dinanzi alle necessità del mondo, si dimostra capace di un lavoro extra-ordinario, ancora più cioè attivo e tollerante rispetto a tutto ciò che durante gli stati d’animo negativi viene invece escluso, come guardato dall’alto verso il basso, mantenuto a distanza, e che durante il sonno della quotidianità ci appare trascurabile o utilizzabile solo in vista di un proprio tornaconto. A differenza di quanto riteneva lo stesso Levi parlando del Lager, il lavoro del legnaiolo leopardiano non è affatto un divertissement teso ad obliare il proprio esistere transitorio. Al contrario, esso è attività tesa alla realizzazione delle possibilità positive insite in nuce nell’attesa. Né si può certamente dire che il legnaiolo lavori per il proprio tornaconto. Egli lavora naturalmente per sé, ma si adopra soprattutto per gli altri. Lavorando per sé, lavora anche per gli altri. Il suo lavoro serve agli altri. Non si creda poi che la sua tolleranza nei confronti di tutto ciò che nel tempo diverso dal sabato, cioè dal tempo della transizione, appare sotto una luce tetra, fredda e negativa dell’indifferenza, possa essere considerata come un’apertura ad accettare tutto indiscriminatamente. In ogni caso, prima che giunga l’alba della festa-morte egli sente la necessità morale di portare a termine la sua opera. Il suo affrettarsi e adoprarsi non è affatto un’attività obliante, ma rivelante e aletheica, perché
184
Il negativo e l’attesa
salva dall’oblio ciò che potrebbe restare non solo obliato, ma anche incompiuto e incompreso. Da questo punto di vista della responsabilità, l’attività del legnaiolo è accostabile a quella svolta da Levi, il quale, sia dentro che fuori del Lager, sapeva bene che prima del sorgere di quella tragica alba torinese – quella dell’11 aprile del 1987 –, spuntata probabilmente dopo una notte simile a quelle vissute nel Block 45 dell’Arbeitslager di Monowitz (SE 51), notti piene d’angoscia e di sogni contrari al desiderio –, ebbene, prima del chiarir di quell’alba fatale, egli sapeva bene di dover fornire la sua opera, non tanto e certamente non solo per sé stesso, per il suo urgente bisogno di raccontare, ma soprattutto per gli altri, affinché anche questi, a loro volta, si affrettassero e si adoperassero per portare a termine la loro opera, per continuare, cioè, l’opera del testimone. L’accostamento di Leopardi a Levi sul tema del lavoro consente peraltro di poter avvicinare la figura già evocata del legnaiolo leopardiano a quella dell’operaio de La chiave a stella, moderno artigiano che lo scrittore torinese espunge dalla propria vita. Come il falegname de Il sabato del villaggio, infatti, Tino Faussone è una persona genuina e mite, attraverso la quale Levi sembra voler suggerire un’idea di uomo giusto e integro20, di operaio onesto e affidabile, la cui giustizia e onestà derivano dalla cura e dall’amore che egli mette nel suo lavoro, specie in quello più faticoso e difficile. Sia per Leopardi che per Levi, il lavoro costituisce infatti uno dei valori fondamentali all’interno del “consorzio umano”. Durante la riflessione su uno dei 20 Anche Giovanni Tesio ha registrato e ripreso il termine “integro” o “intero” che Levi usa (CS 51) per descrivere Faussone (Cfr. La luce delle parole. Come leggere libri e autori del nostro ultimo secolo, Interlinea, Novara 2020, pp. 100-101). Questa parola riporta istintivamente la memoria al Giobbe, perché anche lui, l’Uzita, proprio all’inizio del testo biblico, nel prologo, viene presentato come ish tam veiashàr, come “uomo integro e retto” (Gb 1, 1). Il riferimento a questo testo non può essere casuale in Levi, poiché lo conosceva a fondo, al punto di farne una delle sue radici esistenziali più profonde, forse quella più dolente e viva, visto che ne La ricerca delle radici viene posta all’inizio. Ne fa fede peraltro la sua dichiarazione che lo stesso Tesio (cfr. Primo Levi, in Piemonte letterario dell’Otto-Novecento. Da Giovanni Faldella a Primo Levi, Bulzoni Editore, Roma 1991, pp. 245-246) riporta da un’intervista: “il lamento di Giobbe è una delle cose più disperate che mai siano state scritte” (cfr. l’intervista a Levi di G. Tesio, L’enigma del tradurre, in “Nuovasocietà”, a. XI, n. 237, 18 giugno 1983, p. 61).
L’attesa e il negativo 185
racconti del montatore piemontese (“Batter la lastra”), in quel romanzo del 1978 egli avanza l’idea che il lavoro, benché, come si è visto in Se questo è un uomo a proposito delle “inevitabili cure materiali” in Lager, renda impossibile la realizzazione di una felicità perfetta, tuttavia, qualora venga amato come lo ama Faussone, può tendere anche alla realizzazione di una felicità terrena, cioè quasi perfetta: “l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi)”, scrive Levi, “costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”; anche perché l’amore, come pure l’odio per il lavoro, “dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge” (CS 78-79)21. L’affrettarsi e l’adoprarsi leopardiano, inoltre, non esprimono affatto uno stare dietro alla velocità con cui muta il mondo che ci circonda. Esso implica piuttosto un continuare a stare e a permanere dietro al proprio compito, prima che il caso impedisca di portarlo a termine. Quell’affrettarsi dell’artigiano leopardiano non è un’attività superficiale, ansiosa e dispersiva, perché anzi presuppone la profonda consapevolezza del non potersi esimere, nel breve tempo concesso, dal fare e dall’agire in modo che quelli che verranno dopo possano adoprarsi sempre meglio e con maggiore cura nelle loro opere. Il leopardiano e leviano affrettarsi e adoprarsi non ci riguarda solo come singoli, ma come esseri transitivi che favoriscono la transizione ad altri esseri e alla loro opera. E ciò però solamente sulla base della chiara consapevolezza della propria transitorietà, del proprio at-tendere, del proprio prendersi cura, del proprio tendere-verso, del proprio essere e non essere, del proprio pro-de-cedere, sulla base insomma di quella consapevolezza fiduciosa che scaturisce dal tempo dell’attesa. Questo tempo dell’attesa, questo attendere riguarda ontologicamente tutti quanti, perché durante la vita, coscienti o no, siamo o restiamo in attesa, attendiamo al-la morte, alla quale volenti o nolenti apparteniamo. Come mortali, infatti, il tempo ci si dà nel modo dell’attesa. Questa, in origine, però non è affatto, o perlomeno non è solo aspettare che qualcosa o qualcuno arrivi o che ci passi davanti, anche se non arriverà mai come Godot. Originariamente attendere significa avvertire in qualche modo, sempre oscuro e di sfuggita, 21 Sul rapporto tra Leopardi e Levi si veda il nostro articolo Primo Levi. L’elogio del lavoro e della vita, in “Volerelaluna”, 27.1.2021.
186
Il negativo e l’attesa
cioè senza porvi attenzione, di essere venuti al mondo tesi come un arco, come il biós eracliteo: la maggiore o minore tensione che la freccia esercita sulla corda corrisponde all’intensità con cui i mortali vivono o consumano la loro vita. In quanto esseri che portano costitutivamente con sé la propria fine, essi non possono vivere oltre il dovuto: possono bensì, volendo, decidere di anticipare il lancio, ma non possono assolutamente evitare di morire, non possono cioè recidere la corda tesa dell’arco, il cui fine, diceva Eraclito, è di lanciare le frecce. Affinché si verifichi il lancio è quindi necessaria la tensione che la vita imprime sulla corda nel suo at-tendere. La tensione-vita at-tende l’arco più o meno intensamente, fino alla effettuazione del lancio della freccia, realizzando così lo scopo, la funzione propria dell’arco. Il punto di massima tensione della corda può essere raggiunto con uno scatto vigoroso, oppure lentamente. Il che, dal punto di vista dell’attuazione dello scopo dell’arco, non cambia nulla. La differenza risiede solo nella forza di colui che tende l’arco. A una tale differenza di forza si richiama la saggezza epicurea di Menandro, autore a cui non a caso si sono ispirati sia Leopardi che Nietzsche: quello in un canto degli ultimi anni, Amore e morte, recante come sottotitolo un frammento del commediografo ateniese: “Muor giovane colui ch’al cielo è caro”; questo in un passo della Seconda inattuale, quella Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in cui si dice: “Vive nella maniera più degna chi meno tiene conto dell’esistenza”. Se l’esistere umano ha una tale inevitabilità, meglio sarebbe allora, diceva dal suo canto il saggio Sileno, non esser nati, oppure, una volta nati, morire al più presto, e possibilmente nella maniera più degna. Se, dunque, come ricordava anche Freud in Al di là del principio di piacere, il fine della vita, di Eros, è la morte, Thánatos, allora è profondamente vero il pensiero di Eraclito espresso nel frammento 48: “L’arco (biós) ha dunque per nome vita e per opera morte”22. L’opera dell’arco, e cioè della vita, 22 Cfr. la tr. it. di G. Giannantoni, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1986, vol. I. Si veda inoltre il saggio di Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1981, IVª ed., in part. il cap. I, “La follia è la fonte della sapienza”, in cui il frammento 48 di Eraclito viene messo in relazione ad Apollo: “L’attributo del dio, l’arco, arma asiatica, allude a un’azione indiretta, mediata, differita […]. Fra gli epiteti di Apollo, troviamo quello di ‘colui che colpisce da lontano’ e di ‘colui che agisce da lontano’” (p. 18).
L’attesa e il negativo 187
è dunque la morte. Quest’opera dell’arco-vita è frutto di una tensione, di un “tendere” che si può interpretare sia come tendere-verso, cioè come uno dei tre momenti dell’at-tendere ontologico-esistenziale, sia come il tendere vitale della corda dell’arco, tendere che, secondo Schelling, come abbiamo visto, esprime quel dehnen che è l’etimo del denken, del pensare. Di quel frammento eracliteo, tra l’altro, Hegel ha dato un’interpretazione dialettica del tutto opposta, dal momento che per lui, a partire almeno da Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino (1798-99), è dal negativo della morte che la vita viene valorizzata positivamente, traendo ispirazione forse da quell’altro frammento, il 111 (“La malattia rende piacevole e buona la salute, la fame la sazietà, la fatica il riposo”)23, che è alla base del principio della necessaria priorità del negativo. Con il concetto di destino comincerà infatti a prendere forma la grande macchina della dialettica costruita nella Fenomenologia dello spirito, un concetto che verrà identificato con quella necessità che servirà ad Hegel per caratterizzare il modo di darsi del negativo nell’ambito del procedere dialettico. Poc’anzi si è detto che, nella sua funzione risvegliante e autentificante, l’attesa è persino superiore alla noia e all’angoscia. In che senso? Queste tre situazioni emotive corrispondono ad altrettanti atteggiamenti certamente più consapevoli di quello che normalmente si assume nei confronti dell’esistere. Occorre tuttavia fare una distinzione. Mentre, infatti, la noia e l’angoscia, per raggiungere quella consapevolezza e quel risveglio autentificante, presuppongono necessariamente un andare alla ricerca di un trauma negativo – il taglio sulla mano, l’anticipazione angosciosa della morte, il richiamo alla barbarie –, l’attesa (ad esempio quella del legnaiolo leopardiano), viceversa, li raggiunge senza ricorrere necessariamente al negativo, bensì solo attraverso la positività atmosferica del segno della festa che viene, cioè mediante il pensiero puro. Certo, anche l’anticipazione heideggeriana della morte consiste in un pensiero, in 23 Questa è la traduzione corretta e condivisa solo da alcuni studiosi, forse per evitare quella riportata dai manoscritti e seguita da Diels ma non dai suoi traduttori italiani, nella quale compare un contrasto di opposti troppo stridente: kakón agathón, ossia, seguendo la logica del frammento, solo il male rende piacevole il bene.
188
Il negativo e l’attesa
uno sforzo della mente; solo che mentre nel Dasein autentico questa anticipazione genera noia e angoscia, viceversa nell’artigiano leopardiano l’attesa della festa-morte suscita gioia. Non solo. Mentre di fronte all’orrore della negatività della morte, la noia e l’angoscia isolano e immobilizzano, poiché si resta stupiti e come pietrificati dinanzi alla sua sconvolgente potenza, l’attesa posta all’ascolto del segno della festa che viene stimola a un lavoro straordinario, a un’ulteriore attività ancora più produttiva. Nell’attesa e con l’attesa si diviene consapevoli del proprio esistere e della propria ex-sistenza nell’istante in cui il pensiero coglie un preciso segnale. Nei versi 20-21 (Or la squilla dà segno / Della festa che viene) il poeta mette bene in luce l’attimo risvegliante. Il segno della squilla dà inizio al tempo dell’attesa, cioè al tempo della vigilia, che è poi quello della veglia, dell’attività straordinaria. L’attesa del legnaiolo, inoltre, non è affatto ansiosa né angosciosa, ma non per questo, come si potrebbe supporre, è ingenua o inconsapevole. Anzi: il suo affrettarsi e adoprarsi presuppone la consapevolezza del fatto che l’importante non risiede tanto nella festa che sta per arrivare, quanto piuttosto nella sua stessa attesa. Nel silenzio della sua chiusa bottega illuminata dalla fioca luce della lucerna, l’attesa del legnaiolo esprime una dignitosa consapevolezza della festa-morte che sta per venire e che egli accoglie come un’occasione che lo stimola ad essere ancora più tollerante e produttivo. Sempre attivo, comunque, e mai passivo o in mistica contemplazione; tutto compreso in un un’attività che non è affatto ansiosa, come potrebbe far pensare l’“affrettarsi” del verso 36, ma tranquillamente rassegnata a portare a termine la propria opera nel migliore modo possibile, sia per sé sia soprattutto per gli altri. Una simile attesa, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, è comunque molto vicina a quell’Erwartung che lo stesso Heidegger, nel seminario del 1966/67 su Eraclito con Fink (XIII, 241-244), distingue dalla Hoffnung, dalla speranza, perché mentre questa reca in sé un momento di ansietà, quella invece implica un certo contegno. L’Erwartung, dice infatti Heidegger in questo seminario, “ist die Haltung der Verhaltenheit und des Sichfügens”, è “l’atteggiamento del contegno e della rassegnazione”. È, aggiunge Fink, lo abbiamo visto, “die philosophische Haltung”, “l’atteggiamento filosofico”. L’attesa è dunque, per il legnaiolo, gioiosa e produttiva. Attendere al-la festa-morte, cioè portare a termine la propria opera, non implica né il sacrificio di sé né tanto meno l’inconsapevolezza
L’attesa e il negativo 189
dell’at-tendere, ma la realizzazione onticontologica di sé. Il lavoro straordinario che questo artigiano svolge per poter portare a termine la sua opera non gli pesa affatto; tutt’altro: lo fa volentieri perché ha compreso che per una natura terrestre come la sua l’essenziale, per sé e per gli altri, risiede nell’attesa della festa-morte che viene. 3. L’ambiguità dell’attendere Ora, sulla base di quanto si è detto sull’attesa, fino a che punto siamo ancora obbligati ad accettare incondizionatamente lo spirito dialettico dei versi hölderliniani Wo aber Gefahr ist, wächst/ Das Rettende auch, “Ma dove è il pericolo, cresce anche ciò che ti salva”? Sono versi nei quali, tra l’altro, Heidegger, riflettendo sulla questione della tecnica, coglie l’essenza ultima dell’Occidente e del pensiero occidentale24. In effetti tutto nell’esperienza quotidiana ci dice che prima di imboccare la via giusta del ritrovamento, ossia quella della salvazione, l’uomo deve necessariamente smarrirsi e provare l’affanno della perdizione. Da qualunque parte rivolgiamo lo sguardo vediamo confermata questa oggettività. Anche la lettura derridiana di Platone sembra risentire dello spirito dialettico di quei versi quando ravvisa nella cicuta, che Socrate è contento di bere, l’ambiguità ontologica del “pericoloso” phármakon. “La cicuta”, scrive Derrida, “ha un effetto ontologico”. Inizia “alla contemplazione dell’eidos e all’immortalità dell’anima”25. È un “pericoloso” veleno che salva. Il phármakon è “il luogo – [il Wo, il dove cui si fa cenno nei versi] – nel quale si oppongono gli opposti”, il veleno e il contravveleno. Per questo è “ambivalente”: è ad un tempo scienza e morte. È una sorta di ricettacolo, nel senso in cui Platone ne parla nel Timeo (51 b 3-4), e pertanto non un luogo dove avviene una coincidentia oppositorum, ma un “fondo” dove “la dialettica viene ad attingere i suoi filosofemi”. Il destino della scienza e della morte – “ne va della scienza e della morte”, dice 24 M. Heidegger, La questione della tecnica (1952), in Saggi e discorsi, cit., p. 22 ss. In part. p. 27: “Quanto più ci avviciniamo al pericolo [cioè all’essenza della tecnica], tanto più chiaramente cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo”. 25 J. Derrida, La pharmacie de Platon, in La dissémination, tr. it. di R. Balzarotti, La farmacia di Platone, Jaka Book, Milano 1985, pp. 101-111.
190
Il negativo e l’attesa
infatti Derrida – dipende così dalla capacità socratica di rivolgere il negativo (il veleno, la morte) in positivo (la filosofia, la scienza) mediante l’arma dell’ironia. Esse ci vengono consegnate “in un solo e medesimo tipo nella struttura del phármakon: nome unico di questa pozione che bisogna attendere. E che bisogna, come Socrate, meditare” (cn). Proprio nel senso in cui, secondo Heidegger, si deve meditare sull’essenza della tecnica. Nella propria ambiguità costitutiva il phármakon, così rovesciato, determina il rapporto fondamentale che lega indissolubilmente la scienza filosofica e la morte. Solo con la morte, platonicamente intesa come liberazione dell’anima dal corpo, si può prendere in effetti congedo dall’opinione retta per accedere alla contemplazione dell’eidos, dell’essere vero e immutabile, della verità e del modello. Il phármakon rappresenta pertanto una sorta di copula mundi, visto che ha in sé la possibilità del contatto dell’umano e del divino, del mortale e dell’immortale, del chrónos e dell’aión, dell’opinione e della scienza, delle copie e delle idee, e come tale, cioè in quanto recante in sé questa preziosissima possibilità, esso resta qualcosa che heideggerianamente bisogna attendere, come una vera e propria occasione che la vita può pericolosamente riservare. Qualcosa che bisogna attendere e meditare, come, appunto, fa Socrate, dice Derrida. Il fra-t-tempo, cioè il tempo della vigilia e della veglia, il tempo del sabato, mediante la cicuta o il calice, presentifica la copula che troviamo in noi creando uno sconvolgimento, dinanzi al quale Socrate, forse più di ogni altro, compreso lo stesso Salvatore, non ha avuto la minima esitazione a rovesciare a proprio favore. I sofisti erano bravissimi coi loro sofismi nella conduzione dei ragionamenti. Ma solo a un vero sofista come Socrate poteva riuscire un simile capovolgimento di fronte, certamente uno dei più decisivi e fondamentali della sua intera attività: trasformare la morte in occasione di scienza e di “conoscenza”, convertire il veleno in contravveleno. In un simile “attendere” meditante, capace di un simile ribaltamento, risiede probabilmente il senso che Vattimo tematizza nella Verwindung heideggeriana, intesa come un “riprendere-accettare-distorcere”26, cioè non come un semplice superamento (Üb26 G. Vattimo, Postmodernità e fine della storia, in Moderno e post-moderno. Soggetto, tempo, sapere nella società attuale, Feltrinelli, Milano 1987, p. 103; Id., Nichilismo e postmoderno in filosofia, in La fine della modernità,
L’attesa e il negativo 191
erwindung), ma più nel senso di una Aufhebung, poiché tiene conto del già dato, del già pensato per incamminarsi verso il da-pensare. Questa tematizzazione tiene conto della problematica della Kehre o della “svolta”, vale a dire dell’esito della “distruzione fenomenologica” della metafisica iniziata da Heidegger con Sein und Zeit. È significativo che questo profondo cambiamento si sia verificato a ridosso del 1946, con la Lettera sull’umanesimo. A determinarlo sono state certo motivazioni teoretiche: ad esempio l’insufficienza del linguaggio filosofico tradizionale ad esprimere adeguatamente l’essere in quanto Ereignis (evento) e Geschick (destino). Ma, osserva Adorno, “un pensiero che inizi allegramente dall’inizio, senza preoccuparsi della forma storica dei suoi problemi […] diventa davvero preda [del] mondo oggettivamente apprestato a totalità”27. Ancora più convincente in tal senso è Habermas quando afferma che l’evento storico che in un certo senso è “capitato” ad Heidegger e che ha determinato quella “svolta” è stato il nazionalsocialismo28. Ora, al di là di tutto quello che si è detto e scritto su Heidegger, è tuttavia possibile che un discorso etico-storico non sia del tutto assente dalle sue analisi filosofiche, e che resti solamente implicito. È anche vero però che dinanzi alla questione del problematico rapporto ontologia-etica sollevata da Jean Beaufret – “Comment redonner un sens au mot ‘Humanisme’?”29 – la risposta di Heidegger nella Lettera sull’umanesimo risulta ancora più astratta rispetto a quelle che egli fornisce in merito al come dell’abitare o del soggiornare dell’uomo nella verità dell’Essere o al come “l’Essere si rivolg[a] all’uomo e come lo richiam[i] a sé”30. L’etica, assieme alla fisica e alla logica, così come noi l’intendiamo oggi, dice Heidegger, nasce con la scienza filosofica di Platone e Aristotele, e come tale rientra nello stesso progetto metafisico dell’oblio dell’Essere. Occorre quindi, sostiene il filosofo,
27 28 29 30
Garzanti, Milano 1985, p. 172 ss..; Id.. Dialettica, differenza, pensiero debole, in Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 12-28. T.W. Adorno, Negative Dialektik, tr. it. di C.A. Donola, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1980 p. 16. Cfr. a tal proposito A. Bertin, Il dio della Neuzeit: teologia e metafisica in Heidegger, in Fenomenologia e società, Anno XII, N. 2, maggio 1989, p. 80. M. Heidegger, Umanismusbrief, tr. it. di A. Bixio e G. Vattimo, Lettera sull’umanesimo, SEI, Torino 1975, p. 77. Ivi, p. 93.
192
Il negativo e l’attesa
rifarsi a un pensiero ancora più originario, alle tragedie di Sofocle o ad Eraclito31, a un pensiero antecedente la distinzione tra etico e teoretico32. Solo così sarebbe possibile un rapporto più autentico con l’Essere. Impossibilitati tuttavia a scrollarci di dosso una volta per tutte il destino metafisico dell’Essere che ci costituisce storicamente nella nostra gettatezza, impossibilitati cioè a sgravarci del peso più grande, il compito che, diceva già Nietzsche, ci tocca affrontare per il futuro sarà quello di rimetterci dalla malattia delle catene, ben consci che in tale circostanza sia “necessaria […] la massima prudenza”33, poiché in essa è possibile che il pensiero vada incontro a dei grossi “erramenti”. Anche perché, come si è visto (Cap. II, 1), Wer gross denkt, muss gross irren, “A grandi pensieri corrispondono grossi errori”, cioè più profondi sono i pensieri e più grossi sono gli erramenti. Specialmente se si invoca la barbarie e il bellum omnium contra omnes per il rafforzamento e la salvezza della civiltà. Eccoci nuovamente dinanzi allo sguardo pietrificante della Medusa, ossia della dialettica. Com’è possibile sfuggire a questo sguardo? Giacché è proprio con la dialettica, dice Vattimo, che “dobbiamo cominciare a fare i conti”34. Definire “pietrificante” la dialettica hegeliana sembra tuttavia assurdo, poiché anzi l’obiettivo principale di Hegel era proprio quello di “superare” la rigidità delle determinazioni intellettuali e di evidenziare l’astuto dinamismo della ragione. La “pietrificazione” definisce forse più propriamente la necessità con la quale Hegel presenta il suo sistema triadico, la necessità stessa dell’identità di reale e razionale, della “connessione immanente”35 in ogni finito e della sua “elevazione” in un risultato concreto, e soprattutto la necessità del Negativ. Più che nella pretesa di cogliere la verità nella totalità dei momenti veridici, è probabile che il valore di necessità della dialettica risieda piuttosto nel suo presupposto, cioè nella “fede nello spirito universale”36. Senza 31 32 33 34 35
Ivi, p. 122. Ivi, p. 127. F. Nietzsche, Il viandante e la sua ombra (350), in Umano, troppo umano, cit. G. Vattimo, Il pensiero debole, cit., p. 13. G.W.F. Hegel, Encyklopädie der philosophischen Wissenschaft in Grundisse, tr. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Laterza, Bari 1973, § 81. 36 G.W.F. Hegel, Introduzione alla filosofia, cit., p. 56.
L’attesa e il negativo 193
questa fede, infatti, verrebbe meno forse anche la necessità del suo modo dialettico di manifestarsi o di realizzarsi. Ciò premesso, il problema che dopo il Secondo conflitto mondiale si pone con maggiore urgenza alla coscienza dialetticamente formata è il seguente: è davvero così indispensabile e necessario sacrificare l’uomo, metterlo in pericolo per poterlo salvare? Auschwitz, come simbolo tragico della Shoah, non ha forse confutato abbastanza e in modo radicale questa necessità? Ha davvero l’ambivalenza di un phármakon l’esistenza? Ma a quale follia, a quale stramberia si deve mai questa necessità? L’uomo, dice Heidegger, corre un grosso pericolo; anzi, la sua stessa essenza corre un grosso pericolo, da cui discende anche la devastazione del linguaggio. Il problema secondo lui consiste nel fatto che questo “pericolo essenziale” non viene nemmeno scorto dall’uomo, “perché non ci siamo ancora esposti al suo manifestarsi”37. Ma in quale dimensione storica è vissuto Heidegger, ci chiediamo assieme ad Adorno? Non si è reso conto che tutto ciò di quanto egli dice doversi manifestare si è appena compiuto ad Auschwitz? Egli sfugge infatti la dignitosissima domanda posta da Jean Beaufret: “Comment redonner un sens au mot ‘Humanisme’?”. Assieme ad Adorno e Lyotard, potremmo aggiungere: come ridare senso alla parola umanesimo “après Auschwitz”38? È davvero necessario sacrificare l’uomo per salvarlo? Gesù, il Salvatore per antonomasia, fa propria questa necessità, poiché “come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire” (Mt, XXVI, 54)? Da questo “rispetto per lo spirito”39 e per il “piano della Provvidenza”40 sorge la necessità della legge divina, della dialettica. Anche Socrate fa sua questa necessità, il cui esempio, proprio come quello del Cristo, resta per i suoi interlocutori “un robusto mezzo di rafforzamento nella virtù”41. A differenza di queste due grandi figure, la virtù di Giobbe, dice Girard, non dipende dall’accettazione della Legge, bensì dalla strenua 37 M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, cit., pp. 80-81 cn. 38 T.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 326 ss; J.-F. Lyotard, Discussions ou: phraser ‘après Auschwitz’”, in Les fins de l’homme. A partir du travail de Jacques Derrida, Colloque de Cerisy, Galilée, Paris 1981, pp. 283-315. 39 G.W.F. Hegel, Leben Jesu (1795), tr. it. di A. Negri, Vita di Gesù, Laterza, Bari 1980, p. 151. 40 Ivi, p. 165. 41 Ivi, p. 53,
194
Il negativo e l’attesa
opposizione ad essa. Giobbe è colui che si oppone al mécanisme victimaire che lo condanna al sacrificio per la salvezza del popolo cui egli appartiene e che gli amici accorrenti al suo capezzale rappresentano. Quantunque Girard consideri soprattutto l’epilogo del Libro di Giobbe una “success story hollywoodienne”42, l’eroe veterotestamentario alla fine verrà premiato da Dio proprio per la sua pervicacia nel negarsi al mimetismo opprimente del popolo che trova scandaloso il fatto che egli non si pieghi alla Legge. Più che nell’esordio, riguardante l’abbattersi delle sciagure sul ricco e sapiente sceicco arabo, o nell’epilogo, in cui viene tratteggiata una tipica storia a lieto fine, è piuttosto nei dialoghi centrali del testo biblico che Girard individua il contenuto della ripulsa di Giobbe. L’esordio e l’epilogo, infatti, non fanno che coprire, secondo l’autore, le parole di Giobbe: et c’est là le mystère, il n’arrive pas plus à se faire entendre des commentateurs en dehors du livre que des commentateurs du livre… Personne ne tient le moindre compte de ce qu’il dit… nous le plaignons de ne pas être compris. Mais nous sommes tellement socieux de rendre Dieu responsable de tous les malheurs de l’homme, surtout si nous ne croyons pas en Lui, que le résultat final reste le même. Nous sommes seulement un peu plus hypocrites que les amis.43
A differenza di Gesù, Socrate ed Edipo – capri espiatori perfetti, riusciti44, in quanto “Pour que l’unanimité soit parfaite, il faut que 42 R. Girard, La route antique des hommes pervers, Grasset, Paris 1985, p. 212. 43 Ivi, p. 17: “ecco il mistero, egli non riesce più a farsi intendere né dai commentatori esterni al libro né dai commentatori del libro… Nessuno tiene conto di quello che egli dice… e lo compiangiamo per non essere compreso. Noi però siamo talmente preoccupati di rendere Dio responsabile di tutte le disgrazie dell’uomo, specie se non crediamo in lui, che il risultato finale resta lo stesso. Noi siamo soltanto un po’ più ipocriti degli amici”. A proposito degli amici di Giobbe: i “civili” che lavorano in Lager – tranne Lorenzo Perrone, naturalmente, l’operaio italiano a cui Levi deve la vita – considerano gli Häftlinge così come gli amici considerano Giobbe, cioè colpevoli, perché ritenevano che per essere stati ridotti in quello stato, avranno pur sicuramente commesso qualche reato. Ma essi, questi civili, rispetto agli Häftlinge si possono paragonare anche allo stesso Giobbe, perché anche loro, come quest’ultimo, “per togliersi di torno qualche importuno sguardo famelico, o per un momentaneo impulso di umanità” (SE 108), lasciavano ai deportati i loro avanzi. 44 Ivi, p. 56.
L’attesa e il negativo 195
la victime y participe” – “Job est un bouc émissaire manqué”. Egli si oppone all’ingiustizia di una Legge della quale la tradizione teo-filosofica ha consolidato il mimetismo perverso, benché i filosofi per secoli abbiano premesso nei loro sistemi e nelle loro teorie di voler superare la violenza insita nella metafisica. Non deve pertanto scandalizzare la ripresa in Levi di alcuni temi biblici di eterna profondità come quelli riportati nel Libro di Giobbe. Da esso, ad esempio, come abbiamo visto, egli inizia La ricerca delle [sue] radici: Perché incominciare da Giobbe? Perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo. Giobbe è il giusto oppresso dall’ingiustizia”. (RR 5)
4. La necessità dialettica del negativo e l’eticità della guerra La triade Nietzsche-Marx-Freud non è solo fondatrice della scuola del sospetto: rappresenta anche la continuazione di quell’antichissima linea di pensiero che tende ad affermare la necessità del negativo. Infatti, pur secondo modalità differenti, in tutti e tre questi pensatori la positività risulta raggiungibile solo mediante un’inarrestabile lotta contro la negatività. Dalla Nascita della tragedia a Ecce homo, Nietzsche sostiene che l’uomo ha bisogno dell’insorgenza dell’impulso dionisiaco non solo per misurare la propria capacità di sopportazione del dolore, e quindi per accrescere la sua potenza e la sua sensibilità, ma anche per modificare, sviluppare e far progredire quelle forme che l’apollineo istituzionalizza nel tempo. È sulla base di una tale tendenza che il pensiero di questo filosofo tematizza la questione della necessità dell’errore. In Marx il programma rivoluzionario prevedeva la completa attuazione del capitalismo prima dell’effettiva realizzazione del comunismo, o, quanto meno, la realizzazione di questo attraverso quello45. Per lui, che nella forma resta hegeliano, la coscienza del proletariato si forma attraverso la dura e costante lotta contro la borghesia capitalistica. È solo alla 45 Si pensi al Lyotard di Dérive à partir de Marx et Freud e di Des dispositifs pulsionnels (entrambe le opere sono del 1973) e soprattutto La condition postmoderne, del 1979.
196
Il negativo e l’attesa
fine di questo conflitto che si potrà vederne l’affermazione, anche se fino ad oggi questa contesa, almeno nei paesi progrediti, non è ancora cessata e, specie a causa dello sviluppo tecnologico promosso dalle politiche neoliberiste, ha in generale formato coscienze sempre meno proletarie o pseudo-proletarie e quindi di fatto più deboli. Per quanto concerne infine Freud, si può dire che non vi sia suo scritto dove non ribadisca chiaramente che la “positività” della civiltà si costruisce attraverso l’eterna e necessaria lotta contro il negativo, contro gli istinti. Ma è chiaro che una tale necessità del negativo trova la sua più adeguata problematizzazione filosofica soprattutto nel pensiero hegeliano. Perché mai in Hegel il negativo costituisce il momento fondamentale della dialettica? Perché in Hegel l’essere o la sostanza debbono darsi necessariamente in modo dialettico? La dialettica è tale, dice infatti Kojève, solo perché in essa è costitutivamente presente il momento della negazione (Koj 39, 91 ss). L’essenza del negativo fa sentire la propria presenza-assenza sia sul piano ontologico sia su quello fenomenologico. Secondo Hegel la sostanza vivente (lebendige Substanz) o l’essere nella sua effettualità (wirklich) è concepibile come Soggetto (Subjekt) solo “in quanto la sostanza è il movimento del porre se stesso”. Ma “come soggetto essa è la pura negatività semplice (die reine einfache Negativität), ed è, proprio per ciò, la scissione semplice in due parti, o la duplicazione opponente (die Entzweiung des Einfachen; oder die entgegensetzende Verdopplung)”46. In altre parole: la scissione della sostanza vivente e la sua duplicazione in due elementi contrapposti avviene perché nella sua semplice unitarietà ontologica essa si dà come soggetto, cioè come movimento del porre sé stesso, il quale presuppone un ponente e un posto. Senza questa intima e sostanziale opposizione non si dà risultato sintetico, movimento, divenire, storia. Ciò spiega ad esempio il motivo per cui, nonostante la nota distanza tra i due amici, sia Hegel che Hölderlin ritenessero che “tutto il dolore della nostra esistenza consiste nella divisione di un insieme”47. Nell’Iperione, infatti, il poeta tragico pensava che “tutto il dolore della nostra 46 G.W.F. Hegel, Die Phänomenologie des Geistes, tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, Nuova Italia, Firenze 1976, 2ª ed., p. 14 (Prefazione). 47 E. De Negri, La nascita della dialettica hegeliana, Vallecchi, Firenze 1930, p. 25.
L’attesa e il negativo 197
esistenza consistesse nella divisione di ciò, che costituiva un insieme”48. Ma se “Scissione = male”49, e se il male è il negativo, allora il male è necessario, proprio come lo è la negatività e quindi la morte, la quale, sostiene Kojève, non è altro che “un’‘apparizione’ della Negatività” (Koj 134). “Perché ci sia Storia”, continua Kojève, “dev’esserci non soltanto una realtà data, un posto, ma anche una negazione di essa”, cioè un ponente, ossia il pensiero, ricordava Adorno50, “e, in pari tempo, una ‘conservazione’ (‘sublimata’) di quel che è stato negato. Solo allora l’evoluzione è veramente creatrice, e c’è in essa vera continuità e reale progresso” (Koj 109). Eccoci dunque alla Aufhebung, al superamento dialettico conservante e inverante, inteso come senso della storia. Ecco perché per Hegel la Negatività è “il vero motore del movimento dialettico”51, intendendo quest’ultimo non solo come Bewegung, cioè come “movimento dell’Essere esistente” (Koj 54), ma anche come “progresso dialettico della storia della filosofia”, il quale non è altro che “una ‘sovrastruttura’ del movimento dialettico della storia reale del Reale” (Koj 55). L’astuzia della ragione, la List der Vernunft, poi, proprio mediante il momento dialettico o negativo, supera le determinazioni unilaterali dell’intelletto e consente di conciliare il particolare con l’universale. Da questo punto di vista la dialettica, in particolare il momento dialettico o negativo, “forma […] l’anima motrice del progresso scientifico” (die bewegende Seele des wissenschaftlichen Fortgehens) e costituisce il principio in forza del quale “la connessione immanente e la 48 Ivi, 24. “Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei, questo è il cielo per l’uomo […]. Essere uno con tutto ciò che vive!”, scrive Hölderlin nell’Iperione o l’eremita in Grecia (tr. it. di G.V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 19842, p. 29). Si veda anche l’interessante Introduzione di Giorgio Vigolo alle Poesie di Hölderlin (tradotte dallo stesso Vigolo), nella quale è bene spiegato come il tragico – espresso emblematicamente nei versi più volte citati di Patmos – consista proprio nella “più tesa opposizione fra l’individuale e l’universale”, nel “doloroso eppur gioioso senso della infinita trasmutazione” (Mondadori, Milano 1976, pp. LXV-LXVI). 49 E. De Negri, La nascita della dialettica hegeliana, p. 44. 50 Il pensiero stesso, in quanto elemento soggettivo per eccellenza, dice Adorno, provando a spiegare Hegel, è mediato dall’oggettività del dolore, perché “il dolore è oggettività che pesa sul soggetto” (Dialettica negativa, cit., pp.17-18). 51 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit. p. 29.
198
Il negativo e l’attesa
necessità entrano nel contenuto della scienza”52. Solo una scienza speculativa riflettente in sé la mediazione necessaria, ossia la funzione che il negativo svolge nell’Essere esistente, si può ritenere, a ragione, necessaria, poiché in essa si riflette la necessità della dialettica del reale. Ora, sebbene la dialettica hegeliana, con la conseguente identità di reale e razionale, dimostri l’astrattezza dell’infinito kantiano, che postula ma non realizza mai la coincidenza tra essere reale e dover essere razionale, in Kant tuttavia, e precisamente nell’Antropologia pragmatica, è possibile ravvisare un’indicazione che, rispetto alla questione della necessità del negativo, sembra compatibile con la posizione hegeliana. Come per Hegel, infatti – che in ciò segue la lezione eraclitea del frammento 111 (kakón agathón) –, anche per Kant il negativo precede il positivo: “Il dolore”, scrive infatti Kant, “deve precedere ogni piacere; […] è sempre il primo […]; è il pungolo dell’attività, e in questa noi sentiamo sempre la nostra vita; senza dolore la vita cesserebbe”53. Finanche uno dei più strenui oppositori di Hegel, cioè Schopenhauer, nel quarto libro de Il mondo come volontà e rappresentazione, sostiene che “il dato primitivo è il bisogno, cioè il dolore” (§ 58)54. Il dolore è il “positivo” rispetto all’assenza di dolore, alla felicità che è “negativa”. Per lui il dolore è positivo non già perché sia piacevole, ma perché, come diceva già Kant, s’impone ai sensi, si sente e fa sentire la vita, mentre in sua assenza la vita viene vissuta quasi inconsapevolmente. Attraverso l’attività stimolata e imposta dal dolore, non solo dunque sentiamo la nostra vita, ma, proprio in virtù di questo sentire, il dolore da manifestazione della negatività diviene positività. Determinando l’attività e il nostro essere nel mondo, la negatività svolge così la funzione di un dato trascendentale e come tale inevitabilmente ci precede. 52 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., Parte I: La scienza della logica. Preliminari, § 81. 53 I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, tr. it. di G. Vidari, Antropologia pragmatica, Laterza, Bari 1985, p. 120 cn. 54 A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, tr. it. di G. Palanga, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano 1969, pp. 360-361: “Non possiamo sentir il valore dei beni, che dopo averli perduti; la mancanza, la privazione, la sofferenza, sono i soli elementi positivi che si facciano sentire direttamente”.
L’attesa e il negativo 199
Tornando ad Hegel si può quindi dire che non c’è progresso spirituale (logico, fenomenologico, scientifico, storico, etico, politico) senza l’intervento e senza l’esperienza del negativo. “L’angoscia della morte”, dice infatti Kojève riprendendo il concetto della List der Vernunft, “è la condizione sine qua non del progresso umano, unicamente perché il lavoro dello Schiavo lo realizza e lo conduce a compimento” (Koj 55). Ma questo lavoro, aggiunge, per essere veramente progressivo, “si deve effettuare al servizio di un Altro e deve essere un lavoro forzato, stimolato dall’angoscia della morte. Quel che libera, ossia umanizza, l’uomo (il Servo), è questo lavoro, ed esso soltanto” (Koj 29). Quanto precede ci permette di concludere dicendo che se Alexandre Kojève avesse svolto le sue lezioni sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel anziché nei sei anni precedenti il 1939, nei sei anni immediatamente successivi, avrebbe forse interpretato in altro modo non solo la figura fenomenologica Servitù-Signoria, ma anche il seguente passo di Marx che egli utilizza nella sua Introduction à la lecture de Hegel: “Hegel erfasst die Arbeit als das Wesen, als das sich bewährende Wesen des Menschen”, (“Hegel comprende il lavoro come l’essenza attraverso cui l’uomo si afferma”), così come avrebbe sicuramente dissentito dalle parole che gli eventi aberranti della storia dello spirito hanno scritto sopra il cancello che introduce al campo di concentramento nazista di Auschwitz: Arbeit macht frei. La priorità del dolore rispetto al piacere evoca, naturalmente, il famoso verso di Leopardi: Piacer figlio d’affanno, tratto dall’idillio La quiete dopo la tempesta. Come si vede, il verso chiarisce ulteriormente il significato del titolo. La priorità dell’affanno e della tempesta rispetto al piacere e alla quiete sembra avere la stessa ontologica naturalezza del fatto che alla notte segua il giorno. Inoltre, dal verso sembra di capire che il piacere non solo segua semplicemente l’affanno, ma che sia propriamente quest’ultimo a generarlo. Proprio come il dolore in Kant e in Schopenhauer, l’affanno in Leopardi non soltanto precede, genera e costituisce la possibilità del piacere, ma sollecita l’attività in cui sentiamo la nostra vita. Ma, come si è visto, era così, occorre ribadire, anche per Eraclito e per il suo “discepolo” Hegel, per i poeti tragici fino al già ricordato Hölderlin, per lo stesso Novalis, e naturalmente anche per Nietzsche e per Heidegger.
200
Il negativo e l’attesa
Le questioni poste dal poeta recanatese in questo idillio sembra trovino risposta in un altro contesto fenomenologico, quello illustrato ne Il sabato del villaggio, ode scritta subito dopo la prima, dal 20 al 29 settembre 1829. La quiete dopo la tempesta indica la posizione ontologico-esistenziale di Leopardi, quella che, secondo il Pascoli55, trae la propria linfa dal pessimismo radicale dell’Ecclesiaste, dal Vanitas vanitatum. Questa posizione viene annunciata nei primi quattro versi: Passata è la tempesta:/ Odo augelli far festa, e la gallina,/ Tornata in su la via,/ Che ripete il suo verso. Come al solito, il poeta ci pone immediatamente in medias res, all’interno di una situazione temporalmente ed atmosfericamente determinata, la quale, proprio come in Hölderlin, implicando nello stesso tempo l’umano e il sovrumano, il terreno e l’uranio, il perituro e l’eterno, suscita nell’animo tensioni e modificazioni difficili da comprendere e da esprimere. Il primo verso (Passata è la tempesta) contiene in nuce un significato che potrà essere esplicitato solo nei versi successivi. Esso costituisce la condizione oggettiva della possibilità non solo della disposizione soggettiva all’ascolto del far festa degli augelli e del verso della gallina, ma anche del nostro accorgerci di essi, di questi animali fin troppo comuni. All’interno di questa situazione noi prendiamo coscienza di tutto quel quotidiano che durante la tempesta è destinato a sfuggirci o a passare inosservato56. Tutti ora, chi più chi meno, avvertono in sé questa trasformazione interiore: l’artigiano che con l’opra in man, cantando, fassi in su l’uscio a mirar l’umido cielo; la femminetta che vien fuori a cor dell’acqua della novella piova; l’erbaiolo che rinnova di sentiero in sentiero il grido giornaliero. Tutti: dalla vicina famiglia che apre terrazze, logge e balconi, al lontano passegger che dal tintinnio dei sonagli e dallo stridore del suo carro s’intuisce che il suo cammin ripiglia. Ma mentre molti sentono questa trasformazione dell’animo che avviene solo nella nuova situazione data, lui, il poeta, riflette sia su questa trasformazione, sia soprattutto sulla situazione che l’ha determinata. Egli infatti si chiede: d’accordo, 55 G. Pascoli, La Ginestra, in Pensieri e discorsi, Zanichelli, Bologna 1907, p. 120. 56 Anche nel cap. XXXIII de I Promessi sposi Manzoni evidenzia in Renzo questa presa di coscienza del quotidiano, cioè della varietà delle “erbacce” che popolavano la sua vigna; presa di coscienza che può avvenire non prima, ma solo dopo la fine dell’epidemia pestilenziale.
L’attesa e il negativo 201
dopo la tempesta Si rallegra ogni core. Ma Sì dolce, sì gradita/ Quand’è com’or la vita? (vv. 26-27) Ossia: quand’è che, in generale, la vita per gli uomini è così gradita, soprattutto per lui, per il poeta, la cui attività è il pensare e non il fare? La gioia e la spensieratezza non sembrano appartenere al poeta, al pensatore, poiché egli è consapevole del fatto che l’esistenza è dolore e che solo la morte può mettere fortunatamente fine ad esso. Non sarà allora che la vita ci appare dolce e gradita, come diceva Kojève (Koj 33) e come si è visto in parte anche in Levi, proprio quando veniamo “assorbiti” dalle nostre cure, intellettuali o materiali? Non potrebbe essere, si chiede infatti Leopardi, che la vita appaia gradita proprio Quando con tanto amore/ L’uomo a’ suoi studi intende?/ O torna all’opre? o cosa nova imprende? Non è forse dimenticando la sofferenza, o con il subentrare della guarigione dopo esser stati ammalati, che la vita ridiventa dolce e gradita? All’uomo, cioè, la vita non appare dolce e gradita proprio Quando de’ mali suoi men si ricorda? Volente o nolente, sia sul piano della riflessione ontologico-esistenziale, sia su quello della quotidianità ontica, il piacere (risanamento d’ogni dolor, dolcezza e gradimento della vita) per Leopardi è figlio d’affanno (morte, lavoro, malattia). Come sosteneva anche Fink, attendere nell’otium, cioè nell’attività meditante, risulta essere l’atteggiamento che più di ogni altro permette una maggiore aderenza al senso dell’esistenza umana, anche se una tale aderenza non comporta affatto, come nel semplice sentire, una maggiore gradevolezza della vita. Anzi, proprio il contrario: la vita è gradevole solo per quelli che si dedicano al negotium. Lo abbiamo visto anche nella situazione concentrazionaria descritta da Levi. Comprendere nell’otium il senso tragico dell’esistenza impedisce di assaporare la dolcezza della vita, e, viceversa, nel negotium la gradevolezza della vita preclude la possibilità di comprendere profondamente l’esistenza. Solo il poeta, pertanto, colui che medita sul senso dell’esistenza, è consapevole di questa lacerante contraddizione, giacché, preso dalle sue quotidiane cure materiali, l’uomo comune ripiglia il suo cammino come se niente fosse. Nonostante e anzi proprio per questa tormentosa consapevolezza, il pessimismo leopardiano si può dire “ottimistico”, come quello del Qohèlet. In essi, ad esempio, la morte, intesa come possibilità ultima dell’uomo, non è affatto qualcosa di negativo: non è la negatività dinanzi alla positività della vita. Essa può es-
202
Il negativo e l’attesa
sere intesa nel senso socratico di phármakon e nel senso heideggeriano di scrigno in cui si nasconde e si preserva, ben custodito dalla Cura, il mistero del vivere e della vita. Analogamente e ancora più radicalmente del sonno, la morte pone fine non solo alle gioie, ma anche ai tormenti della vita. Anche di questo, come abbiamo visto, ci parla Levi nell’“esordio sentenzioso” di Se questo è un uomo. Un esordio che evoca in parte le parole del saggio Sileno. Comunque sia, rispetto a questo tema tragico, “decisivo” resta l’A se stesso, la breve ode del 1833 in cui Leopardi sembra prendere finalmente coscienza dell’esistenza implicante in sé il dolore determinato dall’indifferenza della natura. Qui egli giunge ad una sorta di heideggeriana “decisione anticipatrice”, perché, prendendo atto, come fa lo stesso Giobbe, dell’esistenza nella sua totalità, vale a dire della lucreziana natura delle cose, perdono senso, il suo lamento e il suo pessimismo. Ora ha inizio il tempo della comprensione della realtà e del divenire storico, in cui ci si trova ad esistere. E con la comprensione, anche la rassegnazione, l’Erwartung finkiana, l’attesa o l’attendere come philosophische Haltung, come atteggiamento filosofico. Con la comprensione del senso dell’esistenza – giacché è proprio questo senso che la poesia leopardiana cerca di cogliere –, oltre alla situazione atmosferica, ci viene incontro, coinvolgendoci irresistibilmente, anche una particolare situazione temporale, implicante in sé nuovamente l’umano e il sovrumano, la quale sembra in grado di ovviare sia all’inconsapevolezza57 dei superficiali sia alla dolorosa gravità dei consapevoli. Sì dolce, sì gradita/ Quand’è, com’or, la vita? Questa domanda, a cui il poeta ha tentato di rispondere nella Quiete dopo la tempesta, troverà invece, come si è detto, la sua risposta nel Sabato del villaggio, e potrebbe riformularsi anche nel seguente modo: è possibile una mediazione tra l’operosità del negotium, presupponente e determinante l’oblio del senso dell’esistenza, e la consapevolezza dell’otium, presupponente e determinante l’inazione? È possibile cioè una mediazione tra l’otium e il negotium, tra il poeta e l’artigiano? 57 E l’inconsapevolezza di Eichmann, ricorda Simona Forti, riprendendo La banalità del male della Arendt, “può fare […] più male che tutti i malvagi istinti riuniti” (For 240). Anche in questo senso si può leggere il Libro di Giobbe (cfr. il nostro Giobbe e gli altri, cit., cap. quarto, 4, 7-8).
L’attesa e il negativo 203
Assai interessante a tal riguardo è l’interpretazione dei versi 40-42 del Sabato del villaggio proposta da Antimo Negri58, il quale sembra individuare una simile mediazione in una delle figure più positive di quest’idillio, cioè in quella del legnaiolo. Sebbene quest’ultimo faccia parte degli “uomini di nessun momento”, ai quali “la noia è poco nota” (Neg 85), e malgrado si differenzi da “quelli in cui lo spirito è qualcosa”, ossia da quelli che, invasi dal “più sublime dei sentimenti umani” o dalla noia, hanno deciso di “conversare col proprio animo”, determinando in tal modo la loro infelicità (Neg 81), tuttavia secondo Negri la realtà effettuale per questo falegname non è rappresentata né da “una vita da pecora” né dall’“azione sovversiva, bensì semplicemente [da] una vita attiva anche solo impegnata per soddisfare i bisogni elementari. A questa vita”, conclude Negri, “pensa in particolare Leopardi che scrive “in favore dell’attività” (Neg 79). Lo studioso, insomma, condivide pienamente l’affermazione leopardiana dell’attività svolta da una tale figura, poiché “È quest’uomo a costruire, con la sua ‘distrazione’ fatta consistere nella ‘maggiore somma possibile di attività’, l’‘incivilimento’ moderno” (Neg 91). Questa suggestiva interpretazione risulta inoltre condivisibile non soltanto perché in generale evidenzia i profondi risvolti psicologici e filosofici che quei versi leopardiani implicano, ma per aver in particolare individuato in essi “uno dei luoghi nevralgici” della poetica leopardiana (Neg 77); per aver messo in luce, da un punto di vista “aneconomico” (Neg 78), la concezione del lavoro (le materiali cure quotidiane di cui parla Levi) “in quanto rimedio contro la ‘tristezza’e la ‘noia’”, in quanto “medicina” (Neg 80) che, sotto forma di distrazione, distoglie dall’“aspro desire” o dal “desio d’esser beati” che travaglia il cuore degli uomini rendendoli infelici; per aver delineato alcune relazioni importanti che il pensiero leopardiano sottintende e prefigura (tra le più interessanti quelle con Pascal, Bruno, Fichte, Marx); per aver sottolineato il fatto che gli scritti leopardiani, apertamente “in favore dell’attività – o, senz’altro, del lavoro”, non hanno affatto una motivazione “che soggiace ad una valutazione del lavoro 58 A. Negri, Leopardi e i giorni del “lavoro usato”, in AA.VV., Leopardi e il pensiero moderno, a cura di C. Ferrucci, Feltrinelli, Milano 1989, in part. pp. 77-100. Di questo testo si veda anche la nostra recensione, apparsa in I problemi della pedagogia, 1990, N.6, pp. 689-695.
204
Il negativo e l’attesa
suggerita da preoccupazioni di ordine unicamente o prevalentemente politico, sociale ed economico” (Neg 91), ma problematizzano “il lavoro all’interno di una meditazione di respiro metafisico che investe l’uomo nel suo destino esistenziale” (Neg 92); per avere, infine, come si è accennato in precedenza, cólto nella figura e nell’attività del falegname la possibilità di conciliare la tensione che il bisogno di occupare la vita – “maggiore eziandio che il bisogno di vivere” (Neg 87) – crea nel rapporto tra otium e negotium. Di questa stimolante analisi è possibile sviluppare il tema che Negri si è limitato a rilevare, ovvero quello riguardante la problematizzazione leopardiana del “lavoro all’interno di una meditazione di respiro metafisico che investe l’uomo nel suo destino esistenziale”. Figura fondamentale per una tale meditazione è ancora una volta quella del legnaiolo che compare nella strofa centrale di sette versi (31-37) de Il sabato del villaggio: Poi quando intorno è spenta ogni altra face / E tutto l’altro tace, / Odi il martel picchiare, odi la sega / Del legnaiuol, che veglia / Nella chiusa bottega alla lucerna, / E s’affretta e s’adopra / Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba. Questa figura è centrale non solo perché, come dice Negri, con il suo “contributo attivo” determina l’“‘incivilimento’ moderno”, ma soprattutto perché la vita di questo legnaiolo è influenzata da una particolare situazione temporale59. L’atmosfera creata dal tempo del sabato, dal tempo dell’attesa della festa, è capace, nonostante la stanchezza dell’artigiano, di stimolare in lui un lavoro stra-ordinario allo scopo di portare a termine la “sua” opera. Questa bella immagine serve al poeta per dire che la vita, l’intera vita, dovrebbe essere vissuta come un sabato, cioè come un’attesa e che la vita non è altro che un’attesa: attesa della festa-morte che inevitabilmente viene. L’attesa è dunque una disposizione che la festa-morte suscita non solo nell’anima del poeta malinconico, ma anche in quella semplice dell’artigiano. Nel poema leopardiano a suscitare la loro anima è in particolare la squilla, che in tal modo acquista la funzione di memento mori. Anche per l’artigiano, quindi, il lavoro straordinario svolto nel tempo dell’attesa del sabato – proprio come 59 Lo sviluppo di questo tema (di cui qui diamo un breve sunto) è stato inserito nel nostro Hodós eirénes. Il “sentiero della pace” nelle lettere paoline (2019), parte seconda, cap. 19: L’attesa del sabato come tempo messianico, par. 19.3.
L’attesa e il negativo 205
nello shabbat ebraico60 – non è solo o non è tanto una distrazione, un divertissement pascaliano per sfuggire alla noia della vita, ma è soprattutto un vegliare nel tempo della vigilia della festa-morte che viene: un tempo in cui più che riposare occorre vigilare, approfittare di questo tempo, di quest’attesa come occasione per poter portare a termine la propria opera, cioè sé stessi. Quell’atmosfera di vigilia, di vigile attesa della festa-morte in un tempo straordinariamente attivo, quale è quello del sabato, suscita non solo nel poeta, ma anche nell’umile artigiano un arricchimento, un di più nella coscienza, un aumento della sensibilità, una maggiore disponibilità a fare, a comprendere, a tollerare. All’interno di una simile disposizione esistenziale, di una tale atmosfera temporale, l’attesa emerge come una determinazione dell’at-tendere, concetto che, come abbiamo visto nei precedenti paragrafi, comprende il triplice senso dell’esistenza: come tendere-verso ciò che ci attende (la morte), come semplice aspettare e come prendersi cura. Non è però la morte in sé che suscita quel risveglio a una maggiore disponibilità alla vita, bensì l’attesa della morte. L’at-tendere, infatti, non è solo un semplice attendere o aspettare la morte, ma è anche insieme un “attendere-a”, un prendersi cura della morte. Il che significa, come si è visto grazie alla poesia leopardiana, un attivarsi per tempo nel tempo del sabato, nel tempo della vigilia vegliante, vale a dire nel tempo della vita, per portare così a termine il proprio lavoro, e quindi per realizzare sé stessi. Il problema che, a partire dalla testimonianza di Levi, ci siamo proposti di riconsiderare in questo lavoro nasce dall’esigenza di tentare una critica nei confronti di quelle concezioni etico-filosofiche che vedono nel negativo o nella priorità del negativo la conditio sine qua non della “ricchezza” dell’umanità, cioè della sua formazione e del suo rafforzamento. Sul fronte di questa critica, e sulla scorta di Adorno, anche Derrida e Lyotard, i quali nell’evento Auschwitz – fenomeno negativo per eccellenza – ravvisano qualcosa che, nella sua unicità e nella sua estrema negatività, rimette in discussione proprio quella priorità del negativo, quale fondamento ontologicamente legittimato e legittimante, e come presupposto intoccabile della cultu60 Cfr. A.J. Heschel, Il Sabato. Il significato per l’uomo moderno, tr. it. di E. Mortara Di Veroli, Rizzoli, Milano 19873.
206
Il negativo e l’attesa
ra occidentale. Il fatto, purtroppo, è che, nonostante quella critica, e malgrado quell’evento renda inefficaci i meccanismi della dialettica e con essi anche le categorie logiche funzionali alla sua comprensione, un tale fondamento continua ancora in qualche modo a condizionare l’esistenza umana. Questo ci esorta pertanto a riconsiderare la necessità della dialettica, e con essa anche e soprattutto quella del negativo come suo momento essenziale. In realtà quell’evento unico costituisce l’eccezione che smentisce la regola dialettica e culturalmente condivisa, secondo la quale non ci può essere giustizia senza un precedente accumulo di esperienze negative. La smentita storica e culturale che Auschwitz rappresenta è la seguente: non è affatto vero, non è per nulla scontato, automatico e quindi necessario come una legge universale, che l’orribile cumulo di esperienze negative determini il positivo della giustizia. Il massacro in corso dei civili nella guerra in Ucraina ne è l’ennesima conferma. Dalla necessità hegeliana della guerra e dalla ricaduta nella barbarie auspicata da Nietzsche, e di riflesso anche da Thomas Mann, non è scaturito affatto un positivo. E continua a non scaturirne. Un siffatto fallimento del principio dialettico della necessaria priorità del negativo coincide in realtà con il fallimento stesso della cultura occidentale, che su quel principio si fonda. Ma considerare Auschwitz e la sua orribile negatività un momento di interdizione del funzionamento del meccanismo della dialettica, cioè una netta smentita della logica dialettica del negativo, non significa forse con ciò stesso affermare ancora una volta la necessità e quindi in ultima analisi l’utilità e la positività del negativo che quell’evento emblematicamente incarna? Non significa cioè fare anche del negativo di Auschwitz qualcosa di positivo e quindi di necessario per la rivelazione di quel meccanismo dialettico? E se sin dalle origini la dialettica costituisce il cuore stesso della filosofia, non se ne dovrà pure dedurre che Auschwitz è anche l’inibizione di quest’ultima? In quanto unico, assoluto e anche sublime, poiché si pone come qualcosa d’incomprensibile, di inspiegabile e di irrappresentabile, l’evento Auschwitz non rende forse con ciò stesso impossibile e vano ogni suo approfondimento filosofico? “Se comprendere è impossibile” ammoniva però a tal proposito Levi, come abbiamo già ricordato, “conoscere è necessario”. Necessario è il venire a sapere di fatti che, per quanto sviscerati ed esaminati in dettaglio, restano cionondimeno incomprensibili rispetto alla possi-
L’attesa e il negativo 207
bilità del loro darsi e del loro verificarsi. Se, insomma, Auschwitz è quel fenomeno estremo che rende impossibile la sua comprensione e la sua spiegazione, con ciò, di fatto, non ci si ritrova a continuare la realizzazione del programma di occultamento dello sterminio ideato dai nazisti? Prima di annunciare un simile scacco alla regina di tutte le scienze, cioè alla filosofia, si dovrebbe però fare attenzione, dice infatti Alain Badiou61, perché questo scacco potrebbe significare una possibile “rivincita” del nazismo. Sicché, pur impedendo il funzionamento della dialettica, la quale ha il suo fondamento nella necessaria priorità del negativo, interdicendo quindi la filosofia stessa, la negatività di Auschwitz non continua forse a rappresentare per noi quel negativo in vista di un suo necessario superamento? In quanto negativo assoluto, in quanto male assoluto, Auschwitz blocca però il meccanismo dialettico nel momento negativo, impedendo così il logico passaggio, l’Aufhebung, il superamento al positivo. La logica “vorrebbe” che anche questo momento negativo potesse essere superato e assorbito in un successivo momento positivo. Per la logica hegeliana, tuttavia, non si dovrebbe a rigore usare il condizionale, poiché il funzionamento della dialettica, in quanto ontologico, si svolge indipendentemente dal volere umano, e per questo risulta necessario. Per lo sviluppo dell’idea in vista del raggiungimento del momento positivo-razionale, ove si apprende che ciò che è reale è razionale e che ciò che è razionale è reale, la dialettica presuppone la necessità del negativo e fa pertanto di questa necessità del negativo la ragione ultima per la quale anche fenomeni estremi come quello di Auschwitz possano trovare la loro giustificazione storico-politica e filosofica. Un ragionamento simile è quello che sviluppa Yannis Thanassekos a proposito dell’incomprensibilità dell’evento-Auschwitz. Se “la memoria di Auschwitz colpisce ancora tanto la coscienza contemporanea”, dice, è perché con tale avvenimento si è creata una profonda cesura, “irrevocabile”, “divisiva e irrimediabile” nella nostra visione storica del mondo, segnando un “prima di Auschwitz” e un “dopo Auschwitz”. Prima vi era un “sentimento di appartenenza a una storia e una cultura comuni”; vi era cioè una “coscienza storica ampiamente condivisa” che consentiva 61 A. Badiou, Manifeste pour la philosophie (1989), tr. it. di F. Elefante, Manifesto per la filosofia, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 18-21.
208
Il negativo e l’attesa
di “superare dialetticamente i ‘momenti’ storici eminentemente contraddittori che l’avevano nutrita e plasmata attraverso le epoche”, permettendole così di “comprendere il mondo”. Ora, dopo Auschwitz, un tale superamento dialettico non risulta più possibile, poiché la nostra precedente coscienza storica, dialetticamente strutturata, “si scopre incapace di integrare la realtà stessa di quell’evento”, che è categoricamente “inintegrabile” e quindi “razionalmente inintelligibile”. Una tale comprensione, inoltre, oggi risulta ancora più ardua perché, dice Thanassekos seguendo in ciò Adorno, viviamo purtroppo in “un periodo massicciamente caratterizzato dall’esilio del pensiero critico”, un pensiero che dovrebbe essere coltivato nelle scuole dalle nuove generazioni62. Ma, ancora, che rapporto c’è tra Auschwitz e la dialettica? Auschwitz è il negativo che la dialettica non riesce a trasformare in positivo. Cionondimeno, il movimento dialettico tende ad assumere e a superare ugualmente e in modo inerziale questo negativo come necessario e prolifico, in vista di un positivo. Ora, se la dialettica è l’espressione dinamica della storia che si fonda sul principio della necessaria priorità del negativo; se questo principio dopo Auschwitz non può più essere accettato passivamente; e se tuttavia, in quanto momento della prova estrema (della “prova del fuoco” si potrebbe dire), cioè del perfetto funzionamento della dialettica, Auschwitz in qualche modo ha messo in luce l’infondatezza della stessa dialettica, con ciò, torniamo a domandare, non si è costretti a riconoscere in esso, in Auschwitz, quel fenomeno estremo che è servito perlomeno a rivelarne l’infondatezza, la sua superstizione, direbbe la Arendt? Infatti, se da un lato la filosofia critica di Adorno e di Horkheimer rivela una negatività nell’Illuminismo e nel razionalismo della modernità emancipata e industrializzata, svela cioè la negatività insita nello stesso movimento dialettico che ha nel negativo il suo momento essenziale, dall’altra parte Auschwitz, ossia la realizzazione più radicale di un negativo che non si lascia comprendere e quindi superare, rivela la debolezza della dialettica, poiché ne interdice il movimento superante. Senza Auschwitz si sarebbe mai potuti giungere così in fretta a comprendere la stoltezza di un principio come quello della necessaria priorità del negativo? Ma 62 Yannis Thanassekos, L’evento-Auschwitz nella coscienza della modernità, in Educare dopo Auschwitz, cit., pp. 35-57.
L’attesa e il negativo 209
Auschwitz non è altro che uno dei fenomeni più estremi, anzi senza dubbio il più estremo e più violento che si sia generato all’interno della cultura occidentale fondata sulla dialettica. Esso è il prodotto più orribile generato dalla cultura occidentale. Ora, quello che dopo Auschwitz non può più essere tollerato è il fatto che questa cultura, così come ha sempre fatto in passato, voglia ancora far passare per oro quello che invece è solo fango; voglia farci credere che essa può assimilare anche questo orrore. Compito di questa nostra riflessione è anche quello di provare a svelare il principio dialettico della necessaria priorità del negativo nella dottrina di alcuni degli esponenti di spicco della cultura occidentale. Ma in tal modo, di nuovo, l’“errore Auschwitz” non sarà stato “necessario” per farci capire che la dialettica ha solo una validità limitata e relativa? E in ogni caso, prima che un errore venga assunto come “necessario” non sarebbe meglio evitare il male, non errare tout court? Sì, ma errare non è forse umano? Certo. Però convincersi che la grandezza dell’uomo dipenda dalla grandezza degli errori che può commettere liberamente, questo non è solo diabolico, è più che altro stupido. Se ne renderà conto Raskòlnikov. E mai come oggi, in Russia (e non solo in Russia), sarebbe utile leggere Dostoevskij. Trattando della funzione dialettica del negativo, abbiamo fatto cenno più di una volta alla concordanza tra Nietzsche ed Hegel in merito alla necessità o alla indispensabilità della guerra. Proprio intorno a questo rapporto tra i due filosofi tedeschi ruota il saggio di Gilles Deleuze su Nietzsche e la filosofia. Esso si apre e si chiude con il confronto tra la negazione hegeliana e l’affermazione nietzscheana. Nel capitolo di apertura (Sul Tragico) e in quello di chiusura (Contro la dialettica) Deleuze insiste sulla critica “antidialettica” che Nietzsche muove nei confronti del ruolo che il negativo ha svolto nella tradizione culturale dell’Occidente, con particolare riferimento al cristianesimo e all’hegelismo. Per Nietzsche, secondo il filosofo francese, il negativo è il fattore costitutivo del nichilismo, ossia del “concetto a priori della storia universale” (Del 232), è il “motore della storia universale” (Del 64), il “presupposto di ogni metafisica”, il fattore che determina nell’uomo lo spirito di vendetta. Attraverso il nichilismo, il negativo si manifesta sostanzialmente come negazione vendicativa della vita, tragicamente intesa come “affermazione molteplice e pluralistica” (Del 43). Finora
210
Il negativo e l’attesa
nella storia, dice Deleuze, il negativo è stato compreso “come ciò da cui l’essenza ricava [dialetticamente] la propria attività” (Del 32); “al contrario, per Nietzsche, esso [il negativo] risulta da questa stessa attività”. Non è insomma l’attività dell’esistenza ad essere suscitata dal negativo, ma è viceversa “il negativo [ad essere] un prodotto dell’esistenza stessa”. Non è il negativo come elemento a sé stante, potremmo dire, a stimolare l’attività culturale dell’esistenza, ma è al contrario proprio questa cultura, è l’interpretazione dialettica dell’esistenza a dar vita al negativo nella forma della sua necessaria priorità. E fin qui ci troviamo d’accordo con quanto, secondo Deleuze, pensa Nietzsche. Scopo della filosofia nietzscheana è “liberare il pensiero dal nichilismo e dalle sue forme” (Del 65), cioè dal negativo dialettico, ma per far questo occorre anzitutto trasformare il rapporto esistenza-negativo da dialettico in tragico. Sempre ammesso che il pensiero tragico o affermativo non sia, come si è visto, anch’esso riconducibile in qualche modo alla dialettica del negativo. Ad ogni modo, trasformare quel rapporto in modo realmente tragico, ossia antidialettico, significa concepire l’esistenza non come ciò che viene giustificato e positivizzato grazie al negativo della sofferenza, ma al contrario come ciò che “giustifica tutto ciò che afferma, […] sofferenza compresa” (Del 46). Nella sua affermazione tragicamente intesa, l’esistenza cioè positivizza anche il negativo. In tal modo sarebbe l’esistenza a positivizzare il negativo e non il negativo a positivizzare l’esistenza. Una tale trasformazione, un siffatto cambiamento di senso, insomma questa conversione della negazione in affermazione (Del 236) rientra in ciò che Nietzsche definiva trasmutazione o trasvalutazione dei valori63. Una tale conversione fa della negazione un’affermazione. “La negatività come negatività del positivo”, dice Deleuze, “fa parte delle scoperte antidialettiche di Nietzsche” (Del 268), il quale, al contrario dei pensatori dialettici, presuppone la necessaria priorità del positivo dell’esistenza tragicamente intesa, delineando così la prospettiva che rende possibile rovesciare il negativo in positivo e la negazione 63 A proposito di trasvalutazione, ecco cosa scrive ad esempio Goldhagen: “Dopo tutto nella Germania nazista si era verificata una trasmutazione di valori, sicché i tedeschi consideravano l’uccisione degli ebrei un atto benefico per l’umanità” (Gol 470 cn).
L’attesa e il negativo 211
in affermazione. L’esistenza è già in sé oggettivamente qualcosa di positivo e non ha bisogno di un negativo soggettivo per rivelarlo. Anche il dolore in tal modo viene considerato come un aspetto della positività esistenziale. “Alla tanto celebrata positività del negativo”, continua Deleuze, “Nietzsche contrappone la propria scoperta: la negatività del positivo” (Del 248 cn). Non è dunque il negativo ciò che produce dialetticamente e culturalmente il positivo, ma è il positivo che fa suo il negativo con tutto il carico di sofferenza che comporta, come suo momento necessario. Ora, che il negativo (la morte, il dolore) sia per l’uomo qualcosa di costitutivo (Del 244), è vero, dice Deleuze. Ma è anche altrettanto vero che non ci può essere affermazione separata dalla negazione (Del 245), intesa come negazione dei valori propri dell’affermazione tragica dell’esistenza. Quello che però, secondo Deleuze, importa maggiormente a Nietzsche è mettere “il negativo al servizio delle potenze affermative” (Del 254). Il vero obiettivo di Nietzsche è insomma convertire il negativo, il che vuol dire nello stesso tempo trasvalutare tutti i valori, in modo che esso cessi di essere “una qualità originaria e una potenza autonoma” (Del 246). Non è quindi il negativo, inteso come una potenza originaria e autonoma, a generare l’attività culturale (spirituale e materiale) dell’esistenza occidentale, ma è al contrario, come si diceva – da qui il senso della differenza, del ribaltamento trasvalutativo dei valori –, questa cultura dialettica che istituisce il negativo, nella forma della necessaria priorità, come potenza originaria e autonoma in grado di annientare vendicativamente ogni positività affermativa dell’esistenza tragicamente intesa. Quello di Nietzsche è stato indubbiamente uno dei maggiori sforzi che la filosofia abbia mai compiuto in questo senso, dapprima per l’individuazione e il riconoscimento del potere del negativo in tutte le sue più o meno evidenti manifestazioni, e poi per la liberazione da esso. Ora, nonostante ciò, pur ammettendo che una tale filosofia abbia proposto una simile affermazione antidialettica, il cui senso “differisce dalla negazione” e non le si contrappone semplicemente come questa fa con l’affermazione (Del 257); pur avendo acutamente diagnosticato all’umanità una malattia il cui “bacillo” (Del 68) – lo spirito di vendetta – era “biologicamente” (Del 63) ben camuffato, una malattia dalla quale stenta ancora a rimettersi; nonostante che, infine e in generale, lo sforzo di Nietzsche abbia inteso superare il pensiero dialettico con il pensiero della differen-
212
Il negativo e l’attesa
za, ebbene nonostante tutto ciò, però, quando egli, trasvalutando il negativo, riducendolo cioè a una possibilità affermativa dell’esistenza tragicamente intesa, crede che sia necessario il ricorso al negativo, seppure inteso come impulso dionisiaco, quando esige ed auspica, come semplice atto della volontà di potenza, il ricorso alle guerre e alla barbarie per l’emancipazione dell’umanità, non resta forse, proprio lui, il filosofo antidialettico, un alacre operaio di quella “immonda officina” (Del 40), incastrato, come Charlie Chaplin, in quei Räderwerke, in quegli ingranaggi delle Werkstätten des Geistes, delle officine dello spirito che hanno impostato il proprio ciclo produttivo per la trasformazione del negativo, cioè di un materiale (le guerre, la barbarie) della cui dannosità si è storicamente consapevoli, ma che per Nietzsche resta purtuttavia indispensabile per la “ricchezza” del genere umano? Come in Deleuze, anche in Baudrillard, la negatività sembra mantenere un’analoga ambivalenza: nel senso che la sua forza oppositiva non è altro in realtà che funzione del positivo, cioè in questo caso del sistema. Ne La Transparence du Mal, cioè nel suo saggio sui fenomeni estremi, Baudrillard crede infatti che nel mondo contemporaneo non tutti i mali vengano per nuocere. Anzi, ritiene che l’unico elemento veramente salvifico in un universo o in un sistema improntato alla positività o alla volontà di positività sia proprio la negatività, la batailleana part maudite, l’ineliminabile abreazione o controreazione agli eterogenei aspetti della positività politica, sociale, economica, culturale, sessuale, ecc. Anche qui pertanto il potere salvifico della negatività ci offre la possibilità di vedere all’opera la necessità del negativo, che è non solo, come si è detto, uno dei meccanismi più sacralizzati dall’uomo, ma anche una delle sue più inconfessabili follie. Maggiore in un sistema è l’aumento della positività o della “performance interattiva” (Baud 54) e maggiori, dice quest’altro filosofo francese, risultano gli effetti negativi (cancro, Aids, crisi finanziarie, terrorismo, droga, – oggi purtroppo dobbiamo aggiungere anche guerre e pandemie) che tale sistema crea e che insieme è costretto a reprimere per la propria salvaguardia e la propria sopravvivenza. Rispetto al passato, però, osserva in particolare Baudrillard, la negatività insita in questi effetti ha assunto la strana capacità di rendere il male trasparente, ossia apparentemente
L’attesa e il negativo 213
inesistente, vale a dire virtuale: “oggi”, scrive, “non è la realtà, ma la virtualità a detenere il potere” (Baud 41). Ciò significa che la serie crescente di negatività o di catastrofi cui il mondo contemporaneo va inevitabilmente incontro è caratterizzata dal fatto che non si tratta di catastrofi reali, bensì virtuali (Baud 33, 41, 76). Ed è questa, secondo lo studioso, la migliore performance (pharmakologica, socratica) che il sistema mondiale esprime, ossia la sua enigmatica capacità di rendere non soltanto trasparente il male e il potere stesso che lo produce, ma di far sì che le catastrofi reali diventino virtuali, al fine di evitare il rischio che il sistema stesso possa essere cancellato definitivamente. Questo è quanto Baudrillard pensava all’inizio degli anni Novanta, anche in vista della Prima guerra del Golfo; ma i reali e non più tanto virtuali effetti nefasti di quei fenomeni estremi cominciano a vedersi solo oggi, e non più solo gradualmente, purtroppo. In un mondo che ha la tendenza a rendere ogni cosa inessenziale e mercanteggiabile – vale a dire con un valore d’uso temporalmente sempre più ridotto –, un mondo in cui l’altro viene indifferenziato e diafanizzato, sembra paradossalmente che il male stesso, espresso da quei fenomeni estremi virtualizzati, costituisca alla fine proprio il limite o il freno alla realizzazione della virtualità. Che dire, ad esempio, si chiede Baudrillard, a proposito degli effetti di tali fenomeni? L’Aids, fenomeno estremo della modernità per eccellenza, non costituisce forse un evidente freno alla “libera circolazione del sesso”, all’“epidemia sessuale, alla promiscuità sessuale totale?” (Baud 73). E questo freno, questo limite non contrasta forse con “tutti i comandamenti della modernità”? (Baud 72) “A che cosa resiste il cancro” se non “all’egemonia totale del codice genetico?” (Baud 73). Anche la droga, non ci protegge forse “dall’abbrutimento razionale”, dalla “socializzazione normativa” e dalla “programmazione universale?”. E il terrorismo stesso, “questa violenza seconda, reattiva, non ci protegge da una epidemia di consenso, da una leucemia e da una crescente decadenza politica?, dalla trasparenza invisibile dello Stato?” (Baud 73-74). D’altra parte, continua Baudrillard, “freudien strict” (così lo definisce Lyotard64), non è con la nevrosi che l’uomo si salva dalla follia?” (Baud 74). E le crisi finanziarie, si potrebbe aggiungere, non sono forse un’occasione per 64 J.-F. Lyotard, Des dispositifs pulsionnels, UGE, Paris 1973, p. 33.
214
Il negativo e l’attesa
riscoprire la sobrietà nell’ubriacatura del consumismo? La stessa pandemia di Covid 19 non avrebbe potuto forse aiutarci nel prendere coscienza dei nostri errori? E poiché, tuttavia, per la propria affermazione ogni sistema ha bisogno di contraddizioni e non vive se non mediante il loro superamento – ecco l’altro aspetto dell’ambiguità del negativo, ecco l’ulteriore movimento dialettico – non è forse ipotizzabile, si domanda Baudrillard, che quei fenomeni vengano prodotti fichtianamente dal sistema stesso affinché oppongano una resistenza a qualche altra cosa che potrebbe definitivamente cancellarlo, cioè alla vera e reale catastrofe? Questi fenomeni estremi, dunque, non rappresentano solo il prezzo che noi paghiamo per il nostro sistema (Baud 73), ma sono “la parte emergente della catastrofe, di cui i nove decimi sprofondano nella virtualità. La vera catastrofe, la catastrofe assoluta”, dice Baudrillard, “sarebbe quella dell’onnipresenza di tutte le reti, di una trasparenza totale dell’informazione da cui fortunatamente il virus informatico ci protegge” (Baud 75). Oggi, dopo Hiroshima e la crisi cubana della Baia dei Porci, dopo Cernobil e Fukushima, si potrebbe dire che la vera minaccia è ancora quella nucleare, agitata dalla Federazione Russa. Pur di sfuggire al suo annientamento, il sistema costitutivo delle nostre società “secerne” (Baud 76) la sua “forma particolare di part maudite che gli permette di “mantenere intatta l’energia della catastrofe virtuale, che è il motore di tutti i nostri processi, in economia come in politica, in arte come in storia”. Come Lyotard, anche Baudrillard lotta quindi contro la trasparenza, affinché non si renda mai possibile la realizzazione della catastrofe virtuale. Tuttavia, sebbene improntato alla trasparenza, alla performatività, alla positività e all’ottimizzazione, anche il sistema che sta alla base delle società occidentali sembra aver raggiunto un livello di autoregolamentazione tale da progettare, attuare e gestire la propria part maudite. Ora, nonostante i tentativi compiuti per sottrarsi alla dialettica, se anche qui il negativo risulta indispensabile per la sussistenza del sistema, è chiaro che una tale prospettiva da un lato alimenterebbe quello che oggi, in questo malsano tempo di pandemia, chiameremmo “complottismo”, e dall’altro significa che anche Baudrillard, come lo stesso Deleuze, non può esimersi dall’accettare la potenza infinita, sublime e insuperabile di quel negativo, e che, in definitiva, siamo ancora una volta in presenza di una delle forme più complesse e contorte della necessità del negativo.
L’attesa e il negativo 215
Comunque sia, il principio della necessaria priorità del negativo trovava nelle tendenze apocalittico-palingenetiche di fine Ottocento e inizio Novecento una delle sue espressioni più concrete. Per un inquadramento storico e culturale di questo argomento si può rimandare al saggio suggestivo e organico di Emilio Gentile, L’apocalisse della modernità. In esso si può trovare un’accurata panoramica delle idee di numerosi intellettuali, artisti e filosofi che con le loro opere hanno contribuito all’affermazione e alla diffusione della fede nel principio dell’eticità e della necessità della guerra, e possiamo dunque assumerlo con una certa soddisfazione come una ulteriore base o riferimento storico per la nostra tesi sulla funzione protrettica nel negativo di cui qui tentiamo di fare la critica. Questo studio dello storico molisano ha infatti il pregio di non essersi accontentato di indicare semplicemente le ragioni storiche e militari della Grande Guerra, ma di aver voluto piuttosto andare alla ricerca dei motivi spirituali profondi che la motivavano e di averli individuati nel principio dell’“eticità della guerra”, principio che, alla luce della nostra riflessione, possiamo ritenere una manifestazione storico-culturale ed etico-pedagogica di quello che qui abbiamo definito principio della necessaria priorità del negativo: un principio, questo, più generale e quindi più ampio e profondo del primo; un principio che è al fondo dell’intera civiltà umana e che consiste in un’incomprensibile perversione, in una tendenza irrazionale, insomma in una vera e propria follia, poiché alla pace preferisce la guerra, intesa come magistra vitae. Non per niente infatti l’unica Friede, l’unica pace che i tedeschi nazisti concepivano era solo quella dei Friedhöfen, dei cimiteri, intesi appunto come “luoghi di pace”. L’“eticità della guerra” è un principio che si basa sulla convinzione che l’idea o la realtà della guerra contengano in sé inseparabilmente un momento etico-formativo. E considerando i gravi strascichi che quel conflitto mondiale lascerà, non si può non constatare, dice lo storico in un altro suo saggio, riprendendo una tesi di Simone Weil, un’intrinseca parentela della statolatria fascista con la guerra, “proclamata e venerata come fondamentale esperienza di vita”65. Parte della responsabilità dell’avvento dei regimi totalitari e dei crimini da essi commessi, afferma Todorov, ricade infatti sia 65 E. Gentile, Contro Cesare, cit., p. 291.
216
Il negativo e l’attesa
sul “pensiero antiuniversalista (che privilegia la classe o la nazione), iperdeterminista (che nega in definitiva la morale) e conflittuale (che vede nella guerra la legge suprema della vita” (Tod1 133 cn). Vista poi l’assurdità di questa credenza, non si può non essere d’accordo con la critica che la Arendt ne fa ne Le origini del totalitarismo, definendola un’interpretazione sofistico-dialettica della politica, un’acrobazia dialettica, addirittura, come si è detto, una superstizione. L’enormità però non consiste tanto nell’eticità della guerra in sé, poiché ogni azione, persino la più brutale, nel bene o nel male (lo apprendiamo dalle testimonianze dei superstiti), è in grado di generare un momento etico-formativo. L’irragionevolezza dialettica risiede piuttosto nell’idea illogica e innaturale che un momento etico-formativo, e quindi pedagogico, non possa che generarsi dall’azione violenta, dalla guerra, e che proprio per questo essa verrà assunta dall’ideologia fascista come una fondamentale esperienza di vita propedeutica all’incontro fatidico con la bella morte. Sicché, da questa assurda prospettiva bellicista, la guerra, il pólemos, come ritenevano a loro modo Eraclito, Lutero, Hegel e Nietzsche, risulterebbe necessario o indispensabile: in ogni caso un evento imprescindibile se si deve rivelare o salvare l’anima dell’uomo, se si intende giungere a quel momento formativo, se si vuole rafforzare la coscienza e il corpo degli individui. Se assumiamo questo momento pedagogico come il “positivo”, allora l’evento guerra, per essenza “negativo” a causa della sua terribilità, non potrà che essere conditio sine qua non del positivo. E questo è assurdo, oltre che inaccettabile. La storia del XX secolo ci ha insegnato a sufficienza l’infondatezza di una tale convinzione, rivelandola, appunto, una superstizione. Non c’è pertanto alcun bisogno di ricorrere necessariamente alla guerra per garantirsi l’esaltante esperienza di vita auspicata dal fascismo. Concezione, questa della necessità del negativo, le cui radici si possono rintracciare in quell’“ideologia della morte” che Domenico Losurdo scopre nel cuore tenebroso dell’Occidente, nell’Europa imperialista e colonialista: quella che, per ovviare alla cultura del diritto promossa dal secolo dei Lumi, non ha avuto alcun ritegno a promuovere il razzismo e a ingenerare negli individui il culto della violenza che esso necessariamente richiede. Nella sua forma speculativa essa è rilevabile soprattutto in Heidegger, come pure, andando a ritroso, nella pedagogia delle dittature, ossia nel
L’attesa e il negativo 217
Drill66, nella teologia luterana della croce come unica possibilità di salvezza, nelle Predigten di Meister Eckhart (alle quali, prima ancora delle tesi luterane, si potrebbe far risalire il deutscher Sonderweg), nei Vangeli stessi, secondo i quali Gesù doveva necessariamente sacrificarsi per il bene dell’umanità, e infine nel Libro di Giobbe, il giusto per antonomasia, la cui salvezza però non poteva essere ottenuta senza aver prima subito l’ingiusto patimento, secondo la logica tutta occidentale della necessaria priorità del negativo. Pertanto, se con il poeta inglese Wilfred Owen si può dire che l’antica Menzogna è stata il Dulce et decorum pro patria mori, la grande Follia è stata sicuramente la tendenza assurda dell’aver voluto fare – e nel voler continuare purtroppo a fare – del negativo e della guerra una priorità necessaria. E non solo per l’industria degli armamenti – mai in crisi. Giacché, come si sono accorti molti degli entusiasti della funzione rigeneratrice dell’umanità attraverso la guerra, questa è insieme inganno e disinganno: inganno prima del suo esplodere e disinganno dopo aver svelato la sua capacità di far degenerare l’uomo a bruto. Una vera rigenerazione, infatti, non avrebbe bisogno della degenerazione necessariamente implicita in ogni guerra, grande o piccola che sia, ma della previdente pazienza dell’attesa, dell’intelligenza dinamica della volontà di pace. Se, secondo molti testimoni diretti, la Grande Guerra si è dimostrata l’inevitabile catastrofe di una civiltà malata, la malattia che l’ha originata è sicuramente il principio culturalmente assimilato della necessaria priorità del negativo. E poi, per essere più precisi, per riprendere quel niccianesimo a cui molti di quei testimoni entusiasti si sono ispirati, c’era forse bisogno di distruggere l’uomo e il suo mondo per dimostrare che Dio non esiste? Non sarebbe bastata l’umana costruzione e l’intelligente mantenimento della pace per una tale dimostrazione? D’altro canto, chi ha mai pensato che la nega66 “Il fenomeno più grave, negli stati totalitari”, osservava a tal proposito don Sturzo in un articolo del 1938, “è l’educazione alla violenza, la consacrazione del principio della supremazia della forza sul diritto, del predominio del potere sulla morale, e più di tutto l’educazione all’odio dell’avversario, al disprezzo per i suoi diritti personali e per la sua vita stessa”. Il fatto è che, aggiungeva il sacerdote dall’esilio, “Questo spirito maligno, scatenato nel mondo, in nome dell’autorità dello stato, dagli stessi governanti non ha trovato al principio che una debole opposizione da parte dei cattolici, opposizione divenuta ben presto inesistente” (cfr. E. Gentile, Contro Cesare, cit., p. 428).
218
Il negativo e l’attesa
zione della volontà di potenza avesse necessariamente come unico scopo l’affermazione del cristianesimo e della metafisica? Se Auschwitz non avesse già dimostrato a sufficienza la follia e la disumanità del niccianesimo, si potrebbe portare come ennesima riprova l’ormai immodificabile stato di abbandono, l’inguaribile malattia, l’irrefrenabile decadenza in cui quella volontà, specie nella sua ultima declinazione tecnico-finanziaria, ha lasciato il pianeta a tutti gli esseri viventi che lo popolano. Proprio quella volontà nicciana che voleva superare la decadenza e la degenerazione ingenerata dall’eccessivo rilassamento dei costumi, dall’abnorme ricchezza prodotta dalla mentalità positivista nonché dal selvaggio imperialismo coloniale; proprio quella volontà malsana, che voleva superare quella decadenza utilizzando la stessa decadenza in preparazione della rigenerazione di una nuova umanità, di un tipo di uomo nuovo, di una specie di superuomo senza valori umani e capace di scorgere la realtà al di là del bene e del male; ebbene proprio questa volontà cieca – altro che veggenza inattuale! – non ha fatto che accelerare e approvare quella decadenza, riuscendo a creare un tipo di essere umano che, nella sua debolezza mascherata da cinismo, non può fare altro che assecondare il processo irreversibile di una totale dissoluzione ormai in atto. Dietro il vitalismo dionisiaco, Nietzsche non ha rappresentato altro che la giustificazione e la legittimazione filosofica della volontà di guerra e di potenza, una volontà che ha caratterizzato in maniera chiara ed esplicita l’Europa e lo spirito europeo della seconda metà del XIX secolo. Fa bene pertanto Gentile, e non solo nel capitolo su “L’apocalisse di Zarathustra”, a mettere in evidenza l’influenza profonda che quel filosofo folle ha esercitato su molti intellettuali che vissero a cavallo tra Otto e Novecento. Così come ha fatto bene Primo Levi ad avvertirci circa l’ambiguità del pensiero nietzscheano. Riportando quasi per intero il terribile aforisma 477 di Umano, troppo umano – quello stesso su cui non poteva non soffermarsi anche il Thomas Mann delle Considerazioni di un impolitico –, Gentile ha con ciò stesso svelato l’hegelismo nietzscheano, poiché anche Hegel, discepolo zelante di Eraclito, ritenendo che la dialettica fosse l’unica e vera essenza logica della realtà, è stato logicamente costretto ad affermare che il conflitto, ossia la guerra, fosse necessario e quindi indispensabile. Così si intitola infatti, lo abbiamo già visto, quell’aforisma nietzscheano: Indispensabile la guerra. Sicché, sia per Hegel sia per Nietzsche
L’attesa e il negativo 219
il Negativ o la Negation in quanto momento indispensabile della dialettica, non può essere altro che Motor e Prinzip der Geschichte, motore e principio della storia, non altro che il carburante indispensabile per il funzionamento dei “Räderwerke in den Werkstätten des Geistes”, dei “meccanismi nelle officine dello spirito”. E così come Hegel era discepolo di Eraclito, così Nietzsche, giovane professore di filologia a Basilea, lo era di Jacob Burckhardt (lo chiamava il “mio grande maestro”), il quale nelle sue lezioni sulle crisi storiche si richiamava al classico aforisma eracliteo secondo cui il pólemos non solo è padre di tutte le cose, ma è ciò che svela l’uomo a sé stesso ora come libero ora come servo. Scrive a tal proposito Gentile: Invece dell’ascesa dell’uomo verso il superuomo vagheggiato dagli apocalittici della modernità, la “guerra di Nietzsche” aveva fatto discendere l’uomo alla condizione di una belva disumanizzata, senza nessuno dei tratti eroici che il filosofo dello Zarathustra aveva attribuito alla belva bionda. L’immagine della guerra che gli artisti, disincantati e sconvolti dall’orrore, rappresentarono durante e dopo il conflitto, non aveva nulla di glorioso e neppure di umano. (Gen 240)
Otto Dix, ad esempio, “appassionato lettore di Nietzsche”, “scoprì invece che la guerra non rigenerava l’uomo, bensì lo mutava in belva sanguinaria o in bersaglio inerte per il tiro a segno della morte”. Per quanto convinti che non ci sarebbe stata nessuna “rigenerazione senza catastrofe, senza le doglie del parto, senza la necessità della purificazione attraverso il bagno di sangue espiatorio”, tuttavia per molti giovani apocalittici alle prese con la cruda realtà della guerra, questa perse subito “ogni parvenza di santità e di nobiltà”, giacché già in trincea, ancor prima quindi dei campi di concentramento e di sterminio, si accorsero subito che Dio era “assente dai campi di battaglia”, che la “virtù rigeneratrice della guerra stessa in quanto capace di dar vita a un mondo nuovo e un uomo nuovo”, non era altro che un’“illusione” (Gen 248). Tutti questi giovani apocalittici, infatti, erano “cresciuti nell’epoca che esaltava la guerra come la più nobile impresa dell’uomo, [erano stati sedotti dal] fascino dell’orrido” (Gen 249). Al posto di apocalissi rigeneratrici si ebbero così delle “apocalissi mutilate”, ossia delle “apocalissi senza apocatastasi”, cioè “catastrofi senza rigenerazione”, come quelle rap-
220
Il negativo e l’attesa
presentate dall’Ulisse di Joyce o da La terra desolata di Eliot (Gen 265). Anziché l’“uovo cosmico” della rigenerazione, come immaginava Franz Marc (morto anche lui sul campo di battaglia il 4 marzo 1916), “la Grande Guerra aveva depositato nel continente europeo – [oltre ai micidiali shrapnel] – alcune uova cosmiche, simili a granate inesplose, diversamente colorate: rosse, nere e brune. Stava [quindi] per incominciare una nuova catastrofe nell’apocalisse della modernità” (Gen 276). E saranno purtroppo le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah a raccontarla. Da alcune di queste, infatti, siamo partiti per la nostra riflessione, in particolare da quella di Primo Levi. E che cosa abbiamo appreso alla fine? Abbiamo appreso che, come suggerisce lo stesso Gentile nelle ultime pagine del suo saggio e attraverso le parole di alcuni pacifisti o di alcuni apocalittici pentiti, occorre dare un nuovo senso al mondo; che dobbiamo assumere un nuovo atteggiamento di fronte alla vita e alla morte, che bisogna dare una nuova interpretazione della vita e della morte; che si deve pensare a un uomo nuovo che sappia vedere non più nella guerra, ma questa volta nella pace – quella che potrebbe garantire la previdente e paziente attesa – la necessaria priorità del positivo. 5. Jean Améry e l’autenticità Il “mondo alla rovescia” del settimo cerchio dell’Inferno è la poetica destinazione che Dante assegna a Bruto, la stessa che riserverebbe ad Hans Mayer (alias Jean Améry). Un tale mondo sarebbe tuttavia più confacente al suicida Améry perché è vissuto ed è sopravvissuto ad Auschwitz, che di quel mondo capovolto è la storica realizzazione. A causa di ciò, la concezione che lo stesso Améry ne trae si differenzia ed è anzi la negazione di quella classica di Bruto (e dello stesso Socrate), perché mentre la morte di questi è determinata dalla necessità di una particolare situazione storica, la morte di quello si oppone metodologicamente alla “logica della vita”, alla “lex naturae (Ame3 15, 19). Questa “logica della vita” si può rilevare ad esempio anche nelle parole che Socrate rivolge a Cebète: “io non credo sia fuor di ragione che uno non debba uccidere se stesso, se prima Iddio non gli abbia mandato qualche necessità, come quella appunto che ora è sopra di me” (Fedone 62c cn). Nel Giulio Cesare di Shakespeare questa legge si evince
L’attesa e il negativo 221
dalle parole cariche di simbolo che Clito – il primo dei servitori a cui Bruto chiederà di reggergli l’elsa per lanciarvisi sopra – rivolge a Dardanio, parlando del suo signore: “Ora quel nobile vaso è pieno di dolore, tanto che perfino dagli occhi gli trabocca” (V,V). La necessità del vaso, o del più noto “calice”, viene sentita da Améry come un’imposizione, come il frutto di un volere esterno a lui, come l’esito di un progetto che rifiuta e banalizza ogni possibile tentativo di autentica autonomia. In lui la forza in questa brama di autenticità è talmente penetrante che la pressione necessitante, oltre che dal fenomeno morte, intesa come conseguenza principale e conclusiva della logica della vita, viene avvertita anche in rapporto alla vita e al vivere medesimo. Una delle possibilità, forse l’unica, che l’uomo ha di affermare la propria libertà, e quindi di realizzare la propria autenticità, secondo Améry, risiede pertanto nel semplice gesto del “levar la mano su di sé”, nel Freitod, nella “libera morte”, nella “libertà di morire”, nella morte che libera da quella necessità, da quella logica, da quella lex. Non soltanto il dover morire, dunque; anche il dover vivere (il dovere è qui espressione della lex naturae, è il modo di darsi della logica della vita) viene sentito da Améry come un’imposizione, una violenza. “Devo andare avanti, è questa l’infamia”, scriveva infatti nel saggio sull’invecchiare (Ame2 140). Essere Io, radicalmente, dopo esser stato niente e nessuno: questo il significato della forza che si percepisce nelle pagine di Améry. Un Io certamente non dimentico di tutti gli altri milioni di Io ridotti violentemente al silenzio della res extensa; un Io che non vuole distinguersi giobbescamente dagli altri; un Io, insomma, che vuole essere solo sé stesso, analizzandosi “attraverso la confessione e la meditazione” (Ame1 24), senza nascondersi dietro facili deviazioni, pregiudizi e questioni ermeneutiche. Dalle argomentazioni del filosofo Améry intorno all’autenticità emergono le questioni fondamentali della filosofia riguardanti i rapporti vita-morte, vivere-morire, essere-non essere e, certamente non ultimo, il rapporto tra l’Io e il corpo. È proprio per questo motivo infatti che, nella Prefazione alla prima edizione del suo Intellettuale a Auschwitz, scrive: “Laddove l’‘Io’ avrebbe senz’altro dovuto essere evitato, si è invece proposto come unico punto di partenza utile” (Ame1 24). L’affermazione dell’Io nasce per Améry da una profonda esigenza di libertà. Questa affermazione
222
Il negativo e l’attesa
però non è da intendere come un’imposizione, ma come una deposizione. La libertà per Améry non si realizza mediante l’imposizione, ossia con il modo in cui si dà la vita, bensì attraverso un potere acquisibile in séguito alla opposizione nei confronti del vivere. Per questo filosofo vivere significa essere costretti ad accettare la logica della vita: una logica che ne implica l’inevitabile asservimento. Ma se la vita si impone, allora Améry la depone, sottoponendola a sé e facendola dipendere da un suo semplice gesto: “non dovremo più vivere, ma anzi potremo non vivere” (Ame3 52 cn). Un tale ribaltamento della situazione estrema è effettuabile solo se ad essa si oppone l’antilogica della morte (Ame3 20). La logica è l’ordine ontologico insito nella legge della natura e quindi nella vita; l’antilogica è l’atto volontario che trasgredisce e che si oppone a quest’ordine per affermarsi liberamente. La necessità della morte naturale è quella che ubbidisce alla logica naturale e divina, da cui sorge anche l’“autoparodia” della salvezza eterna (Ame2 132). Il Freitod di Améry è invece la negazione della necessità della morte naturale, ossia di quella morte che arriva quando un dio, la natura o il caso vuole. Come tale, in esso vi è la consapevolezza che l’autentica affermazione della libertà presuppone necessariamente l’antilogica deposizione della vita. Non ha torto a tal proposito Innocenzo Cervelli quando nella Presentazione al saggio di Améry sul suicidio scrive che “È una anangké senza theós ciò che contraddistingue Améry” (Ame3 XIX). Se dunque è solo con il Freitod che si può realizzare l’atto veramente libero, e se la libera autorealizzazione non è altro che l’autenticità, allora bisogna concludere con Améry che solo il suicida è veramente autentico (Ame3 13). Ma, per quanto autonoma, questa violenta anticipazione della necessità della morte naturale, visto che ha come fine l’autenticità, non è forse un’ulteriore versione della necessaria priorità del negativo? Sì, si potrebbe rispondere, se la morte viene considerata come un negativo, e no se viene invece intesa come un Freitod, come una libera morte. Per quanto logicamente paradossali, queste conclusioni di Améry consentono intanto di fare un’ulteriore analisi della problematica dell’attesa. Améry vi si sofferma in alcune pagine del saggio sull’invecchiare e in quello sul suicidio. In entrambi i saggi l’attesa della morte viene ovviamente criticata, sia perché
L’attesa e il negativo 223
viene considerata come “una sorta di atto passivo” (Ame3 14)67 – e in ogni caso naturale (Ame3 48)68, cioè ottemperante alla logica della vita – sia in particolare perché caratterizza l’ambito inautentico della gretta quotidianità (Ame3 95) rispetto a quello autentico del Freitod. Come per Heidegger, anche per Améry, dunque, l’attesa non è un modo di rapportarsi autentico alla morte. Secondo il filosofo tedesco (cfr. Sein und Zeit, § 53), essa, spostandola verso il futuro, cioè differendola come qualcosa che resta da attendere, non riesce a coglierla nella sua sempre imminente possibilità. Secondo il filosofo austriaco essa è altrettanto incapace di concepire il Freitod, perché, anche qui, l’attendere presuppone sempre un tempo indeterminato di progettazione e un tempo futuro in cui la morte dovrebbe collocarsi. È per questo motivo che l’attesa coincide con la dimensione temporale costitutiva dei giovani (Ame2 36-38), nei quali, malgrado le strutturali crisi del nuovo millennio, è viva la speranza di diventare un giorno…, di poter fare un giorno…, ecc. Per tale motivo, secondo Améry, essi sono impossibilitati a percepire “l’irreversibilità del tempo nella sua spietata crudeltà” e quindi (tranne qualche eccezione) anche la libera morte. Fanno progetti, si spingono in avanti, verso un futuro che, in un modo o nell’altro, dovrà riguardarli. Si pensi a quelli che con la loro semplice presenza irritavano il Costruttore Solness di Ibsen. Non sentono il tempo fuggire, finire, esaurirsi, scadere inesorabilmente. Il loro “ora” appare eterno, perché presumono di essere immortali. La morte sembra non riguardarli. La loro, infatti, non è attesa della morte, ma sempre attesa di qualcosa di diverso dalla morte; non importa che sia attesa di qualcosa di vago o di ben preciso: l’essenziale è che sia sempre attesa di qualcosa. Niente è la morte per il giovane, che, pur aspirando al futuro, nemmeno ci pensa; niente è anche per il vecchio, perché il suo attenderla vuol dire che essa nel frattempo non è. Pur essendo entrambi inevitabilmente 67 “L’attendere la morte è solo – mi sia concesso il paradosso impostomi dalla grammatica – una sorta di atto passivo. La morte libera, l’uccidere-se-stessi, invece, è indubbiamente, non solo a livello grammaticale, ma anche nei fatti, un’attività. Il vivere-verso-la-morte e l’atto autonomo della morte libera non sono immediatamente paragonabili, per quanto l’esito sia lo stesso”. 68 L’aspirante suicida “non ha né tempo, né voglia di restare in attesa di un morire che si presenta come ‘naturale’”.
224
Il negativo e l’attesa
protesi verso il futuro, sia il giovane, che non attende la morte, sia l’anziano, che l’attende, non scorgono la morte come possibilità sempre presente, come un’ombra costitutiva del loro essere, non colgono cioè il loro vivere come un morire – che è un ulteriore aspetto della dottrina eraclitea dei contrari. Sicché, per una concezione che pone l’atto liberatorio del suicidio come unica possibilità autentificante, l’attesa non può rappresentare altro che un modo di dipendere dalla logica della vita, logica che accetta la morte come un evento naturale. Per una tale concezione, l’attendere la morte è come essere a disposizione di un evento che però sfugge al controllo di chi attende: in questo senso per Améry l’attesa è passiva. Questa, in altre parole, è in funzione dell’evento morte e quindi dipende da esso. Una simile dipendenza è il chiaro segno dell’asservimento alla logica della vita, la quale trova conferma nell’ambito della quotidianità. Infatti, pur mantenendo fisso lo sguardo sull’evento morte, l’attesa in realtà, secondo Améry, non guarda che il nulla, non è che l’attesa di nulla, e come tale, può continuare a cullarsi in quel dolce “sonno di sicurezza” (Ame1 154) in cui, tra l’altro, egli stesso, dice, si trovava nel 1935, prima di apprendere da un giornale l’approvazione delle leggi razziali. Sulla base della considerazione positiva e quindi autentificante del Freitod, in questa critica di Améry all’attesa si può tuttavia vedere sia il modo in cui egli riesce a sfuggire al principio della necessaria priorità del negativo, sia la sua stessa critica a tale principio, specie quando afferma che “nulla di quanto comprendemmo nel Lager non avremmo potuto comprenderlo anche fuori” (Ame1 54). Anche in Levi troviamo una tale affermazione, ma implicitamente. Questa frase per noi ha molta importanza, giacché dice esplicitamente che per apprezzare la vita non è affatto necessario farla precedere da un’esperienza negativa o mortale. Non si è imparato nulla all’interno del Lager, dice Améry, che non si potesse apprendere anche prima e fuori di esso, nella vita civile. Sicché, se crediamo alle sue parole, ciò vuol dire, anche sulla base della sua radicale concezione dell’antilogica della morte, che la permanenza e la sopravvivenza ad Auschwitz non sono state forse così determinanti per l’autenticità. Si può diventare autentici anche senza aver fatto prima necessariamente esperienza del negativo, della sofferenza, della morte. Anche Todorov si sofferma su tale questione. Nonostante l’abbrutimento subito dai deportati nei Lager, i valori morali, dice sulla
L’attesa e il negativo 225
scorta degli scritti di alcuni testimoni, non venivano del tutto annientati. Anzi, alcuni di essi venivano addirittura risvegliati e persino approfonditi. Ciò, però, sottolinea con forza il filosofo bulgaro, non significa affatto che tra la sofferenza patita in Lager e il risveglio dei valori morali vi fosse un rapporto di dipendenza. Questo poteva succedere in qualcuno, specialmente in coloro che erano sostenuti dalla tradizione e dalla fede cristiana, ma quel rapporto non poteva affatto essere generalizzabile. Pertanto, la tesi sostenuta da alcuni testimoni, secondo cui dalla prigionia si possono ottenere degli effetti benefici, come ad esempio l’“approfondimento dell’essere”, non sembra condivisibile da Todorov, poiché, precisa, la sofferenza migliora solo alcuni e peggiora altri. Scrive: Probabilmente è vero che un’esperienza come quella del Lager fa maturare rapidamente gli individui, impartendo lezioni impossibili altrove. I sopravvissuti hanno avuto spesso l’impressione di essere stati più vicini alla verità in quel periodo che non in tutto il resto della loro vita. Ma ammesso che si verifichi, questo arricchimento o maturazione dello spirito non è una virtù morale. In conclusione, anche se si potesse osservare una relazione tra sofferenza e morale, non vedo quale specie di norma se ne dovrebbe dedurre: nessuno può arrogarsi il diritto di raccomandare agli altri di aspirare all’infelicità per diventare più virtuosi […]. Ma quale dio spietato oserebbe esigere che si debba optare volontariamente per la sofferenza? (Tod1 44-45 cn)
Parole chiare e del tutto condivisibili queste di Todorov. A questa domanda, dal nostro punto di vista, potremmo rispondere che proprio quella tradizione dialettico-cristiana si è arrogata culturalmente quel diritto, un diritto corrispondente storicamente a quella norma che abbiamo qui ravvisato nel principio della necessaria priorità del negativo. Quanto poi al dio spietato, come non pensare al dio di Mosè prima del passaggio del mar Rosso, il dio che induriva il cuore del faraone? Al dio di Giobbe, nonostante le parole veridiche dell’Uzita? A quel dio evocato da Dante sotto la porta dell’antinferno, a quello invocato da Lutero69 al tempo del tumulto e del mas69 A proposito di Lutero, Julius Streicher, quando venne interrogato al processo di Norimberga circa la natura antisemita della sua rivista (“Der Stürmer”), non esitò a evocare il teologo di Wittenberg, il quale, disse, anche questi al suo tempo aveva scritto un celebre saggio contro gli ebrei e in teoria anche lui allora dovrebbe essere presente al banco degli imputati.
226
Il negativo e l’attesa
sacro di Frankenhausen70 o a quello dei pietisti tedeschi in genere? Anche se “più appariscente nei Lager”, “l’egoismo”, dice Todorov, “predomina anche nelle situazioni della vita normale. Semplicemente, il male non è inevitabile (cn), e questa è la conclusione più ottimistica che si possa ricavare dall’esperienza dei lager (come in quella fuori dei lager) […] ciò che conta è che vi sia sempre presente la possibilità di optare per i valori morali” che persistono nell’individuo anche in situazioni estreme. Questo argomento di Améry, su cui si è soffermato anche Todorov, ci dà modo di indugiare ancora sul complesso e delicato problema della necessaria priorità del negativo. Come abbiamo detto, per questo intellettuale sopravvissuto ad Auschwitz non può esserci autenticità senza Freitod. Per lui, come per Kirillov (il demone nichilista dostoevskiano), non c’è libertà per l’uomo senza l’estremo gesto del suicidio. È tuttavia impossibile non scorgere in questa conclusione una palese contraddizione. Una contraddizione eckhartiana, poiché ciò significherebbe vivere come se (als ob) si fosse già morti (vedi infra Cap. 5, 3). Significherebbe che la vita veramente libera si dà solo nel momento della libera morte. Quale senso avrebbe, infatti, l’affermazione della propria libertà assoluta se per potersi realizzare deve ricorrere necessariamente alla propria negazione? E in tal modo, l’esistenza del genere umano non sarebbe allora ancora più tragica di quanto già non lo sia? Oltre ad essere venuta al mondo per non restarci, oltre a ignorare il motivo e l’ora della sua dipartita, questa stirpe si troverebbe a usufruire di una libertà la cui realizzazione implica necessariamente l’annientamento del possibile fruitore. Il quale, pur consapevole di una tale contraddizione, non può acquisire “prima del salto” il senso dell’autenticità. Quest’ulti70 “Cessa di lamentarti, cessa di cercar rimedi”, scrive Lutero a Erasmo nel De servo arbitrio; “quel tumulto è sorto e si svolge per volere divino, e non avrà termine, finché non abbia ridotto come il fango delle strade tutti i nemici della parola di Dio (Salmi, 18, 43) (M. Lutero, Il servo arbitrio. Risposta a Erasmo (1525), Claudiana, Torino 1993, pp. 109-110 cn). “Così, per esempio, non vedi che questi tumulti e divisioni infuriano nel mondo per consiglio e opera divina, e temi che possa crollare il cielo. Io invece, grazie a Dio, vedo molto più chiaramente e negli anni a venire prevedo altri mali ben più grandi, al cui paragone questi sembrano essere un tenue soffio d’aria o un leggero mormorio d’acqua” (ivi, p. 111 cn).
L’attesa e il negativo 227
ma, infatti, non si prospetta mai “prima del salto”, ma nel salto, con il salto medesimo. Prima del salto, colui che progetta il Freitod è continuamente tentato di assopirsi nella tiepida bambagia della quotidianità, di addormentarsi nel paterno petto dell’abitudine, nel florido seno delle Muse impegnate a cantare, seducenti, la logica della vita. Ciò significherebbe allora, paradossalmente, che l’autenticità, come sostiene Heidegger, è una qualità estranea alla vita normale di una persona. Poiché, se questa si realizza angosciosamente solo nell’atto estremo, allora il tendere verso di esso non può essere altro che una semplice preparazione all’autenticità. Naturalmente l’aspirante suicida può già sentire il freudiano “dolore della separazione” (Ame3 48), può provare cioè l’angoscia per l’ora in cui ha deciso di farla finita e verso cui lo spinge freddamente l’irreversibilità del tempo; può provare il brivido della morte sia penzolandosi dal balcone del 17° piano, sia andando con la macchina a 200 all’ora. Ma tutti questi disperati e miseri tentativi non sono evidentemente altro che delle simulazioni di autenticità, dei modi di prepararsi all’atto finale, in cui essa potrà veramente realizzarsi. Tutti questi drammatici tentativi non sono altro che delle brutte copie dell’autenticità, le quali, anche se inavvertitamente, permangono aggiogate alla logica della vita. Di conseguenza, essere influenzati da questa logica, per tutti quelli che si producono in queste pietose prove, significa presumere di far valere nella quotidianità la pseudoautenticità che essi si procurano con le loro goffe messe in scena. È proprio in ciò che risiede la differenza tra Améry e gli pseudoautentici: mentre il primo, infatti, ha come unico obiettivo la deposizione della logica della vita mediante l’imposizione dell’antilogica della morte, i secondi, al contrario, simulano un fatalismo che ha però come unico scopo la deposizione della morte in vista di un maggior rafforzamento e attaccamento alla logica della vita. In fondo è anche contro questa specie di fatalismo futurista a buon mercato che si rivolge la nostra critica al principio della necessaria priorità del negativo. È su questo principio o vizio culturale che si fondava quel fatalismo fatuo, al quale si ispirava il modello dannunziano dell’“eroe necessario”, modello che allora, dice Levi, “dominava l’Europa” (SS 8). In quanto elemento o atto autentificante, infatti, il negativo viene assunto da quei presunti suicidi non solo in funzione di una posteriorità da essi attesa e mai persa di vista, ma anche, come dice appunto Améry, come un “niente”, cioè come un negativo appa-
228
Il negativo e l’attesa
rente, grazie al cui finto possesso, però, con il loro atteggiamento pensoso e annoiato e con lo sguardo smarrito nel nulla, fanno intendere che ormai possono tutto, possono affrontare tutto. Viceversa, l’autenticità – Améry lo sapeva bene – non risiede affatto nel vivere, sebbene nel disincantato senso dell’invecchiamento questo diventi tutt’uno col morire. L’autenticità, secondo Améry, non rientra nell’esperienza umana: essa può essere solo rappresentata emotivamente o concettualmente, ma non può essere assolutamente vissuta. Essa risiede nell’aut-, nell’atto finale che pone out, senza nessuna possibilità di sfruttare o di speculare presuntuosamente su un vile e auspicato ritorno. In questa presunzione risiede ciò che Améry definisce autoparodia. Ma l’illusione ancora più squallida contro cui si rivolge la critica della necessaria priorità del negativo – illusione di cui si nutre continuamente la cultura occidentale, e della quale questa non sembra poter fare a meno – consiste nel seguente ragionamento: visto che abbiamo un istintivo bisogno di libertà, e visto che esser liberi significa rendersi autentici, dal momento che l’atto autentificante presuppone necessariamente la nostra morte, allora possiamo ovviare a questo increscioso inconveniente o mediante la simulazione, la scimmiottatura di quell’atto, oppure mediante l’osservazione bramosa della morte altrui, opportunamente provocata proprio a tale scopo. Considerato dall’angolo visuale dell’aspirante suicida, oppure da quello dell’anziano che percepisce l’irreversibilità del tempo, il vivere, anche se a tratti, viene percepito come un morire. E in ciò hanno visto giusto sia Améry sia Heidegger, e quest’ultimo con la nozione di essere-per-la morte. Ma il tempo in cui si svolge un tale “morire” non può essere che quello della vivente ricerca dell’autenticità o, meglio, la ricerca dell’atto autentificante che finalmente convalidi la nostra ennesima autocertificazione di essere liberi. È per ciò che, in questo tempo preparatorio di morte, cioè nel tempo che precede il salto, l’“anziano” Améry, con un’invocazione profetica, chiede alla morte dove fosse il suo “pungiglione” (Ame2 128)71. Anche un “anziano” poeta, nutrito di saggezza ebraica, greca e latina, tra le fredde stanze del suo paese natio, instancabile, 71 Il testo ebraico riporta però dèver, “peste”, sia in Osea 13, 14 che in Salmi 91, 3-6, termine che alcuni hanno letto come “spina”, “aculeo” o “pungiglione”, kéntron in greco: così compare ad esempio in 1Cor 15, 55, a cui si rifaranno
L’attesa e il negativo 229
innalzava sommesse domande alla notte e alla luna, spesso alla natura, quasi sempre al nulla: Ahi ahi, che cosa è questa / Che morte s’addimanda?72 Da un tale punto di vista così straordinariamente radicale, dunque, il vivere l’esistenza si caratterizza come un “morire”, ossia come un processo spontaneo e non volontario, espressione di un procedere temporale irreversibile. Con questo “morire” è data all’uomo anche la possibilità dell’autenticità, ma non l’autenticità stessa. Entrambe le cose, il “morire” e la possibilità dell’autenticità, sono compresi in un tempo irreversibile che pro-cede verso il nulla. Questo tempo si assume come un pro-cedere irreversibile solo perché ha in sé un pro-cesso, che è l’essere umano, nel quale soltanto il pro-cedere irreversibile del tempo diviene consapevole. L’uomo, sostiene infatti Améry, “è simile a colui che costruisca una casa nella consapevolezza che verrà demolita il giorno della copertura del tetto” (Ame3 36); ed è certamente paragonabile anche allo zoppo o all’infermo di cui parla Leopardi nello Zibaldone73. Questo pro-cedere, questo andare avanti, questo pro-seguire del pro-cesso si può indicare sia come vivere che come morire. Il vivere però è legato all’idea dell’ex-sistenza e trae il proprio significato da quell’ex, inteso come segno dello star-fuori pro-venienti dal luogo dell’in-ex-sistenza: da quell’elemento originario che Freud definisce inorganico e che Levi riconduce addirittura al tòhu vavòhu, a quell’“universo vuoto” (SS 66) cui accenna il secondo versetto della Genesi e di cui ogni essere umano avverte la presenza con atavica angoscia; un elemento inorganico simile, quindi, alla chóra platonica, dalla quale “lo spirito umano è ancora assente: non è ancora nato o già spento” (ibid.). Vivere è l’idea con la quale si esprime lo stato del sistere, però nella consapevolezza di essere una ex-sistenza proveniente da una in-ex-sistensia le meditazioni di Kierkegaard sia probabilmente anche quelle dello stesso Améry. 72 G. Leopardi, Il sogno, vv. 47–48. 73 “Che cos’è la vita? Il viaggio di uno zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotale precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere” (4161-4163).
230
Il negativo e l’attesa
za. Solo in rapporto agli esseri umani, cioè ai pro-cessi umani, il vivere è un ex-sistere, perché soltanto in essi quell’ex esprime la consapevolezza della pro-venienza e del pro-cedere. Per indicare invece il pro-cedere degli altri pro-cessi – cose e altre forme animali – è infatti sufficiente lo stare o il sistere. Il vivere per i pro-cessi umani è insomma un emotivo trovarsi a pro-cedere, e quindi un at-tendere, che si umanizza, nel senso che trae il proprio significato essenziale attraverso la consapevolezza della domanda sull’origine: da dove? “Da dove (ex on) infatti gli esseri hanno l’origine”, si può leggere nell’unico frammento anassimandreo, “ivi hanno anche la distruzione”. Giacché l’essere umano non è altro che domanda incarnata. In che senso però un tale vivere è per il pro-cesso umano essenzialmente anche un morire? Il vivere diventa un morire, ossia un pro-de-cedere, quando nel fra-t-tempo la consapevolezza dell’ex-sistente non si interroga più solo sull’origine o sulla fine, ma anche sul trovarsi ad-dimorante, che include in sé contemporaneamente i momenti del dimorare, del ritardare e in generale dell’at-tendere nei suoi tre principali aspetti: aspettare, prendersi cura e tendere-verso. Ora, un tale at-tendere, proprio in quanto espressione sintetica di quel trovarsi ad-dimorante, si dà come situazione emotiva nella quale emerge per la prima volta la coscienza del tempo, cioè di essere un pro-cesso all’interno di un pro-cedere che si rivela anche come pro-de-cedere. Ancorché inesprimibile o comunque difficilmente formulabile con una frase chiara e comprensibile, l’emotività della situazione contiene in sé inarticolate molte delle domande che perlopiù trovano risposta conformandosi agli schemi logico-razionali che il pro-cesso in parte eredita in parte istituisce. Ma qualcosa di inappagato resta dentro. Non tutte le domande riescono infatti ad avere una risposta o a trovare una formulazione adeguata; e in ogni caso la risposta data non risulta soddisfacente per quella situazione emotiva. Ad esempio: l’occhio guarda una figura umana che lo specchio riflette. Ebbene, questa figura è la risposta della ragione, dello spirito, della rappresentazione concettuale; è una risposta convenzionale, razionale, che è bensì sufficiente a rinvigorire la forza aggregante e a riaffermare la possibilità comunicativa dell’io penso, ma che, dall’interno della propria situazione emotiva, l’addimorante sa essere solo il prodotto della
L’attesa e il negativo 231
logica, della deduzione trascendentale. Ma non è forse proprio da questo sapere di non sapere che si contraddistingue il sapiente, colui per il quale tutto il sapere umano risulta relativo a qualche cosa, a un’idea di completezza che resta tuttavia intuibile in forma di domanda e che non può trovare espressione adeguata e che si nega all’esperienza umana? Che cosa, se non questa domanda emotivamente compresa, potrebbe spiegare il motivo della continua e infaticabile ricerca umana? Tuttavia – proprio in quanto sapiente, cioè in quanto consapevole della ineffabilità e quindi della inappagabilità di quella domanda che in certi momenti diventa persino angosciosa – il saggio sa che quel sapere relativo rappresenta l’insieme dei tentativi e degli sforzi compiuti dal generale pro-cesso umano per trovare ad essa una formulazione e una risposta più appropriata. Una tale ricerca è talmente coessenziale a quel pro-cedere che si è disposti a sopportare l’onere di proseguirla anche per gli altri che prematuramente e inaspettatamente l’hanno dovuta interrompere. Ecco, noi vogliamo sapere, e in ciò manifestiamo una mancanza. Al nostro vivere manca il gusto della vita, il sapere intorno all’ex-sistere. Se da una parte la consapevolezza dell’at-tendere ad-dimorante dell’ex-sistente trova nella pro-venienza o nel da dove una possibile formulazione al problema che apre l’ex-sistenza come vivere, dall’altra, quando essa, questa ex-sistenza, diventa consapevole di sé medesima, quando cioè l’at-tendere ad-dimorante coglie sé stesso in attesa, tendente-verso, e quindi propriamente come prendersi cura, allora, repentina, non solo emerge per la prima volta la coscienza del tempo, ma quella prima formulazione, il da dove, trova anch’essa un approfondimento nel perché. L’at-tendere, infatti, non è solo un attendere al-la morte o un prendersi cura delle cose e degli altri, ma esprime in primo luogo il senso della situazione emotiva in cui si apre per la prima volta l’autentica dimensione del tempo: non quella organizzata trascendentalmente dalla ragione, ma quella che si esprime esistenzialmente nell’attesa, ossia, appunto, in quella condizione dell’intimo cogliersi – sebbene sempre temporaneamente – non solo come ex-sistenti, ma soprattutto come at-tendenti, ex-spectanti, cioè tendenti-verso e prendentisi cura. Così intesa, l’attesa non ha a che fare solo ed esclusivamente col futuro; non è solo attesa di qualcosa o di qualcuno o finanche attesa della morte. L’attesa è paradossalmente una possibi-
232
Il negativo e l’attesa
lità, anzi la possibilità esistenziale che inchioda il pro-cesso al presente, condannandolo a prendere coscienza – fortunatamente o sfortunatamente, questo non si sa, ma sicuramente per pochi attimi in tutta la sua intera vita – della propria natura transeunte e transitoria. Essa non riguarda verosimilmente il futuro: il suo ambito di influenza è il presente, il quale solo razionalmente, cioè inteso come Gegen-wart, contro-attesa, si oppone ad essa. Al contrario, l’attesa, quando si riesce a cogliere, si presenta con questa domanda: che cosa faccio io qui e ora? Perché proprio io? Perché proprio qui? Perché proprio ora? Ecco il perché costitutivo, la domanda incarnata che ritorna. Ne gustiamo intimamente tutto l’intenso sapore interrogativo, ma non riusciamo a spiegarlo e a farlo capire agli altri. Allora, come al solito, ripieghiamo alla logica comparativa, dicendo: è come se… Il che porta a concludere che la verità – cioè quel certo sapere ruotandovi intorno o saggiando il quale si diventa sapienti – è inesprimibile. Solo in questo senso si giustifica la diffidenza di sapienti come Talete e Theut verso la loquacità presuntuosa e “organettistica”, verso i sofismi macrologici e la brama ipostatizzatrice. La verità per essi è propria del pensiero: ecco perché sono così silenziosi, laconici e reticenti. D’altra parte il loro destino è stato segnato una volta per tutte nell’attimo in cui assaggiarono quella verità: un frutto dalle qualità afrodisiache, il cui sapore sfugge ad ogni definizione. Una volta assaporato non si riesce più a fare a meno di quel gusto; anzi, se ne desidera un sapere-sapore sempre più intenso attraverso una frequenza sempre più assidua. Ci si innamora di questo sapere: si diventa filosofi. La filosofia dunque non nasce solo dall’osservazione, cioè dallo sguardo che trattiene stupefatti dinanzi all’azzurrità del cielo popolato di corpi celesti e di stelle, e men che meno dinanzi alla tenebrosa morte, ma deriva soprattutto da quel trovarsi ad-dimorante, da quell’at-tendere in cui si apre l’attesa, ossia da quel sapere inesprimibile da cui emerge per la prima volta la consapevolezza del tempo e del quale il filosofo si innamora per tutta la sua vita. Ora, per il filosofo Améry, più di ogni possibile esperienza fuori del Lager, Auschwitz ha rappresentato il tradimento dell’amata. Quella terribile verità non corrispondeva più alla solenne promessa d’amore. Il suo rapporto con l’amata cultura all’interno
L’attesa e il negativo 233
del Lager si è rivelato solo un inganno, un gioco, un ludus, un semplice gioco da bambini, giacché la sua amata in quel posto ha perso immediatamente quell’alone di sacralità, quella pompa magna con cui era solita presentarsi. A proposito di questo ludus, Améry scrive qualcosa che abbiamo già evidenziato e che per noi è importante, perché ci sostiene nella nostra critica alla necessaria priorità del negativo. Scrive: Ad Auschwitz non siamo divenuti più saggi, se per saggezza s’intende una conoscenza positiva del mondo: nulla di quanto comprendemmo nel Lager non avremmo potuto comprenderlo anche fuori; nulla si trasforma in un’utile guida. Neanche nel campo siamo diventati più “profondi” […]. Inutile aggiungerei, credo, che ad Auschwitz non siamo nemmeno divenuti migliori, più umani, più benevoli nei confronti dell’uomo e più maturi moralmente. […] E tuttavia per noi – e dicendo noi intendo gli intellettuali privi di fede e non impegnati in una dottrina politica – la permanenza nel Lager spiritualmente non fu del tutto priva di valore. Vi abbiamo infatti tratto l’incrollabile convinzione che lo spirito in gran parte è effettivamente un ludus e che noi non siamo, o meglio, prima di entrare nel Lager, non eravamo che homines ludentes. Ci siamo così spogliati di parecchie presunzioni, di parecchia boria metafisica, smarrendo però anche gran parte della nostra ingenua gioia spirituale, e qualche fittizio senso della vita. (Ame1 54-55; cfr. Tod1 94)
Anche Jorge Semprún è dell’avviso di Améry: “Veramente, non c’era bisogno dei campi per sapere che l’uomo è l’essere capace delle cose migliori e delle peggiori. È di una banalità sconsolante, questa constatazione”74. Non possiamo comunque non riportare a tal proposito il commento che altrove abbiamo fatto del passo del filosofo belga: Che cosa pensare dinanzi a queste parole? L’unica cosa a cui l’esperienza concentrazionaria è servita è stata l’aver compreso che lo spirito umano fuori del Lager non è altro che un ludus, un gioco, una balla; che rispetto a quella realtà ogni possibile razionalità doveva cedere, anche se la ragione logicamente la rifiutava; che il Lager era il luogo in cui avveniva necessariamente la realizzazione del possibile, il luogo in cui la ferrata necessità bloccava l’apertura della possibilità; il luogo in cui la res cogitans esperiva se stessa come res extensa. Dinanzi a que74 J. Semprún, Le grand voyage (1963), tr. it. di G. Zannino Angiolillo, Il grande viaggio, Einaudi, Torino 1990, p. 57.
234
Il negativo e l’attesa
st[a] fras[e]… di Améry tutta la cultura umana, quella “fuori del Lager”, quella “prima del Lager”, appare come una grande balla. Bastava “qualche settimana di permanenza nel Lager […] – scrive Améry – per sbarazzarsi del tradizionale idealismo filosofico”, cosa per la quale “spiriti magari infinitamente più dotati e acuti devono lottare un’intera vita”. (Ame1 55)75
Eppure, a differenza del “prigioniero non intellettuale”, qualche pagina prima, lo stesso Améry, cioè l’intellettuale, l’“uomo di spirito”, pur essendo abituato a criticare il potere per le molte realtà che ai suoi occhi non appaiono razionali, questa volta, davanti alla realtà del Lager, si trovava spiazzato, paralizzato, perché prendeva atto che questa realtà era effettualmente razionale. Scrive: Davanti al prigioniero s’innalzava mostruosa e insuperabile la rappresentazione del potere dello stato delle SS, una realtà che non era possibile eludere e che perciò in ultima analisi appariva ragionevole. In questo senso chiunque, quale che fuori fosse stata la sua posizione spirituale, nel Lager diveniva un hegeliano: lo stato delle SS nel fulgore metallico della sua totalità appariva come uno stato in cui l’idea si era realizzata. (Ame1 43-44)
Certo, “l’uomo semplice”, dice Levi – che critica questa distinzione di Améry, e che anzi scorge nella fede e nella semplicità del prigioniero un punto di forza rispetto al prigioniero colto –, il semplice, “abituato a non porsi domande, era al riparo dall’inutile tormento del chiedersi perché” (SS 115 cn). Pur soffrendo come soffrirà ad esempio Giobbe (per riportare ancora una figura biblica cara a Levi), anche l’uomo semplice nell’omonimo testo biblico era bensì torturato dalla fame, consumato dalle malattie e angosciato dalla morte, ma non si poneva, come l’Uzita, il perché, non ripeteva quegli assillanti làmmah e maddùa‘, non si lamentava, non andava soprattutto cercando tormentosamente il motivo per cui proprio a lui era toccato quel “destino di massa”, diremmo con Etty Hillesum76. Améry e Levi 75 La cit. è tratta dal nostro Giobbe e gli altri, cap. 2, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere, se stesso, 4: La frase di Améry, cit., ora anche nella seconda prefazione a Giò. Un Giobbe del nostro tempo, op. cit. 76 Quella della Hillesum, dice Todorov, è “una storia eccezionale […]. Nella disperazione più buia, la sua vita risplende come una gemma” (Tod1 211-212).
L’attesa e il negativo 235
sono due giovani intellettuali77 (un filosofo-chimico delle idee, e un chimico-filosofo della materia) che hanno avuto la medesima sventura di incontrarsi nella Buna di Monowitz, ma con una differente visione (almeno, così pare) del modo di soggiornarvi. Come nella raffaellesca Scuola di Atene, il primo è un filosofo platonico, perché, dice Levi, mantiene il suo sguardo verso l’alto, soffermandosi raramente sul volgo del Lager; mentre lui, il sopravvissuto torinese, come un fisiologo aristotelico, osserva pietosamente e studia la popolazione del Lager, specie il suo tipico rappresentante, il “mussulmano”, “l’uomo stremato, il cui intelletto è moribondo o morto” (SS 114). In ogni caso, sia come antihegeliano che rifiuta razionalmente con lo Zurückschlagen, con la restituzione del colpo, la realtà e la logica illogica di Auschwitz, sia come hegeliano costretto a divenire consapevole del fatto che in quell’anus mundi78 si sia attuata l’identità reale-razionale, comunque sia, dice Levi, Améry non sfugge alla sconfitta finale, al suicidio (SS 49, 110). All’interno di quel campo nazista l’illogica dell’amore pietoso ha lasciato il posto alla logica della sopravvivenza, alla quale, secondo Bettelheim, si sarebbe adeguato “Pasqualino settebellezze”, che rappresenta un po’ il simbolo di tutti quelli che vi si sono adeguati, compresa la famiglia di Anne Frank79. Contro un simile tradimento, 77 Così Hilberg nel suo saggio ricorda Levi, come un “giovane intellettuale italiano” (Hil 1037). 78 È così – “culo del mondo” – che un testimone al processo di Francoforte sul Meno (20 dicembre 1963-20 agosto 1965), un medico militare di Auschwitz, definiva il Lager in cui si trovava. È il testimone 2 dell’8° Canto dell’Istruttoria di Peter Weiss (“Il Canto del fenolo”). 79 Commentando il film di Lina Wertmüller, Pasqualino settebellezze, Bettelheim, critica la logica della sopravvivenza, secondo la quale sopravvivere è “alla fine l’unica cosa che conta […] nonostante l’esistenza del male e attraverso il male che viene commesso, indipendentemente dalla forma che il male o la sopravvivenza assumono”; “è l’unica cosa che conta, a qualunque prezzo, come se colpa e sopravvivenza non fossero inestricabilmente legate […], non importa come, perché, a quale scopo […]; l’unica cosa che conta è la vita nella sua forma più cruda, puramente biologica” (Bet 203, 206). Come Bettelheim, anche Hannah Arendt solleva la questione della logica della sopravvivenza quando scrive: “La gloria della sollevazione di Varsavia e l’eroismo dei pochi altri ebrei che combatterono sono riposti proprio nel rifiuto di accettare la morte relativamente facile offerta dai nazisti, dinanzi al plotone di esecuzione o nella camera a gas” (Are2 20). Todorov trova il giudizio di Bettelheim “irrealistico e ingiusto”, ma solo per il “periodo che precede gli arresti” delle persone, e ritiene invece pertinente la sua deplo-
236
Il negativo e l’attesa
un simile disinganno da parte della cultura, occorre, secondo Améry, affermare l’antilogica della morte, il Freitod. Esso rappresenta un possibile e certamente diverso e radicale modo di salvaguardare la dignità umana, la quale, dopo quella terribile umiliazione, è stata costretta a legittimarsi su qualche altro valore. “Non si assiste a fatti e misfatti dell’uomo disumanizzato” [fra cui il tradimento della sua “amata cultura”], scrive infatti Améry, “senza che vengano messe in discussione tutte le idee circa l’innata dignità dell’uomo” (Ame1 54). Dopo Auschwitz l’amata cultura è stata deposta (Adorno, Celan, Levi, Améry), ma incredibilmente l’amore sembra non essere del tutto scomparso. Bisognerebbe ora, però, andare a ricercarlo altrove, verso ciò che è degno di essere pensato, verso il da-pensare diceva Heidegger, giacché proprio lui sapeva fin troppo bene che tutta la tradizione dell’essere – in cui quella tedesca ha indubbiamente svolto una parte preponderante – era la tradizione che ha condotto alla estrema scotomizzazione della verità, all’annichilamento dell’uomo, alla generazione di un “mondo alla rovescia”, e che come tale, non è più degna di essere pensata.
razione per quelle persone che, una volta catturate, “non abbiano scelto di morire da “uomini” combattendo” (Tod1 228). Probabilmente questa critica alla logica della sopravvivenza sorgeva spontanea in tutti e tre questi autori considerando la passività animale con cui le migliaia di ebrei polacchi e russi si facevano portare al macello dal Battaglione di Polizia 101 e dai loro Helfswilliger, dagli “aiutanti volontari” ucraini (cfr. Gol 556, nota 72).
CAPITOLO QUARTO I SOGNI CONTRARI AL DESIDERIO
[Dio] Parla nel sogno, visione notturna, quando cade il sopore sugli uomini e si addormentano nel loro giaciglio. (Giobbe, 33, 14-15)
1. La complessità dei sogni d’angoscia 1. Qui c’è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note (“è il fischio della Decauville, viene dal cantiere che lavora anche di notte”), il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me. Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e del Kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola. Allora nasce in me una pena desolata1, come certi dolori appena ricordati della prima infanzia: è dolore allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli per cui i bambini piangono; ed è meglio per me risalire ancora una volta 1
Il traduttore tedesco (Heinz Riedt) traduce la “pena desolata” de Le nostre notti (SE 53) con “verzweifelte Pein”. Adeguata la Pein, il tormento, l’angoscia, la sofferenza spirituale; meno adeguato forse l’aggettivo verzweifelte, perché questo rimanda alla Verzweiflung, alla disperazione, mentre in questo caso sarebbe forse più appropriata la Trostlosigkeit, che designa la mancanza di conforto, di consolazione (Trost), e che indica quello che, non a caso, Levi definisce il “dolore allo stato puro”.
238
Il negativo e l’attesa
in superficie, ma questa volta apro deliberatamente gli occhi, per avere di fronte a me stesso una garanzia di essere effettivamente sveglio. Il sogno mi sta davanti, ancora caldo, e io, benché sveglio, sono tuttavia pieno della sua angoscia: e allora mi ricordo che questo non è un sogno qualunque, ma che da quando sono qui l’ho già sognato, non una volta ma molte volte, con poche variazioni di ambiente e di particolari. Ora sono in piena lucidità, e mi rammento anche di averlo già raccontato ad Alberto, e che lui mi ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni così costantemente, nella scena ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata? […] Mentre così medito, cerco di profittare dell’intervallo di veglia per scuotermi di dosso i brandelli di angoscia del sopore precedente, in modo da non compromettere la qualità del sonno successivo. Mi rannicchio a sedere nel buio, mi guardo intorno e tendo l’orecchio. Si sentono i dormienti respirare e russare, qualcuno geme e parla. Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare: anche questo è un sogno collettivo. È un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo. Non si vedono soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distinti e concreti, se ne percepisce l’odore ricco e violento; qualcuno ce li avvicina fino a toccare le labbra, poi una qualche circostanza, ogni volta diversa, fa sì che l’atto non vada a compimento. Allora il sogno si disfa e si scinde nei suoi elementi, ma si ricompone subito dopo, e ricomincia simile e immutato: e questo senza tregua, per ognuno di noi, per ogni notte e per tutta la durata del sonno. (SE 53-54 cn, “Le nostre notti”)2 Sognavamo nelle notti feroci Sogni densi e violenti Sognati con anima e corpo: Tornare; mangiare; raccontare. Finché suonava breve sommesso Il comando dell’alba: “Wstawac”; E si spezzava in petto il cuore. Ora abbiamo ritrovato la casa, Il nostro ventre è sazio, Abbiamo finito di raccontare. 2
Il sogno di raccontare è quello che Levi compie ad occhi aperti anche quando, assieme a Null Achtzehn, attende il passaggio di una locomotiva dentro al campo di lavoro di Monowitz (SE 38).
I sogni contrari al desiderio239
È tempo. Presto udremo ancora Il comando straniero: “Wstawac”. (TR, 11 gennaio 1946, dall’esergo de La tregua) […] e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, e l’angoscia si fa più intensa e precisa. Tutto è ora volto in un caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta, e attesa: alzarsi, “Wstawac”. (TR, “Il risveglio”) Pochissimi attendono dormendo lo Wstawac: è un momento di pena troppo acuta perché il sonno più duro non si sciolga al suo approssimarsi. La guardia notturna lo sa, ed è per questo che non lo pronunzia con tono di comando, ma con voce piana e sommessa, come di chi sa che l’annunzio troverà tutte le orecchie tese, e sarà udito e ubbidito. (SE 56, “Le nostre notti”) Dopo di allora, ad ora incerta, Quella pena ritorna, E se non trovi chi lo ascolti Gli brucia in petto il cuore. Rivede i visi dei suoi compagni Lividi nella prima luce, Grigi di polvere di cemento, Indistinti per nebbia, Tinti di morte nei sonni inquieti: A notte menano le mascelle Sotto la mora greve dei sogni
240
Il negativo e l’attesa
Masticando una rapa che non c’è. “Indietro, via di qui, gente sommersa, Andate. Non ho soppiantato nessuno, Non ho usurpato il pane di nessuno, Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. Ritornate alla vostra nebbia. Non è mia colpa se vivo e respiro E mangio e bevo e dormo e vesto panni”. (Il superstite, AI) 3
Dinanzi a simili sogni d’angoscia – tipici delle nevrosi traumatiche e in particolare delle nevrosi di guerra – anche la Deutung freudiana si troverebbe in difficoltà, perché sembrano addirittura confutare l’interpretazione canonica, secondo cui il sogno in generale è la soddisfazione di un desiderio. Nella Traumdeutung infatti Freud si chiede: “Come possono i sogni penosi e i sogni d’angoscia essere soddisfazioni di desideri?” (Fre1 144). Per rispondere a questa domanda egli crede che occorra formularne prima un’altra: “Perché i sogni di contenuto indifferente, che si rivelano poi adempimenti di desideri, non esprimono apertamente il loro significato?”. Ciò si deve al fenomeno della “deformazione” (Entstellung) (Fre1 145), vale a dire a un “atto di censura” (Fre1 163), a quell’attività primaria del lavoro del sogno (Traumarbeit) che rende difficile la ricomposizione del contenuto latente. Ma con tutto ciò, dice Freud, “la sensazione spiacevole che ricorre nel sogno non esclude l’esistenza di un desiderio”, e quindi quella formula andrebbe così modificata: “il sogno è l’adempimento (mascherato) di un desiderio (rimosso, represso)” (ibid.). Formula che, osserva tra l’altro Lyotard, “nous enseigne celle vérité fondamentale que désir et répression naissent 3
Anche in Se non ora, quando?, attraverso il personaggio di Francine, una dottoressa francese fuggita dal Lager di Auschwitz, Levi riprende il tema del senso di colpa: “È strano [dice Francine]: era più facile crederlo [credere che la vita avesse un senso] laggiù che non qui. In Lager nessuno si uccideva. Non c’era tempo, c’era altro da pensare, al pane, ai foruncoli. Qui [fuori dal Lager: siamo nel capitolo XI: febbraio-luglio 1945] c’è tempo, e la gente si uccide. Anche per la vergogna. […] Vergogna di non essere morti. […] È difficile spiegarla. È l’impressione che gli altri siano morti al tuo posto; di essere vivi gratis, per un privilegio che non hai meritato, per un sopruso che hai fatto ai morti. Essere vivi non è una colpa, ma noi la sentiamo come una colpa” (SQ 275).
I sogni contrari al desiderio241
ensemble”4. Ciò induce Freud a concludere che l’angoscia del sogno – la “pena desolata”, il “dolore allo stato puro” – non sia dovuta tanto al suo contenuto manifesto, cioè, nel caso di Levi, all’indifferenza dei suoi ascoltatori, ma al fatto che la libido “è stata deviata dal suo scopo e non ha trovato impiego”, al fatto cioè che “la libido è stata trasformata in angoscia” (Fre1 164). Anche in questa osservazione psicanalitica si può ravvisare uno dei motivi che hanno spinto Levi a definire il Lager un “mondo alla rovescia”, un mondo dove delle “dämonische Mächte”, delle potenze demoniache hanno sovvertito e sommerso la coscienza (LD 72). Il sogno interno è quello che viene rappresentato dal principio di piacere, il quale tenta inutilmente di affermarsi posizionandosi proprio all’interno del sogno esterno, che è viceversa quello che rappresenta il principio di realtà, la realtà del Lager. Per potersi affermare esso non ha altra possibilità che quella di confrontarsi con il suo opposto. Nel sogno di Levi però si nota che ogni suo tentativo è destinato a fallire. Da questo fallimento continuo sorge in lui quella profonda pena. Una pena che gli è peraltro nota, non solo perché è simile a quella che talvolta provava anche da bambino (il pianto così straziante del bambino è in effetti segno del fatto che esso, il bimbo, in quanto proveniente da una dimensione prenatale in cui domina il principio di piacere, è ora, una volta nato, costretto a fare i conti con l’innaturale principio di realtà), ma anche e soprattutto perché ne ha già fatto più volte esperienza durante le sue notti in Lager. Ecco il motivo per cui proprio mentre sogna di provare il piacere di raccontare ha al contempo il presentimento di una minaccia incombente, teme che si tratti solo di un sogno, di un inganno dei sensi; come di fatto puntualmente avviene, perché questo sogno di pace e di ordine naturale ben presto crolla, si disfa e si discioglie, lasciandolo nel caos, nel nulla grigio e torbido del Lager. È da questa continua sconfitta del principio di piacere che nasce in Levi quella pena così profonda, intensa e dolorosa che pur di evitarla le preferisce addirittura la stessa realtà. Il dolore della realtà del Lager è dunque preferibile a quello provocato dall’incubo ricorrente generato dal sogno. Proprio come gli altri deportati, Levi non può far nulla per impedire questo doppio sogno angoscioso, questi due incubi: quello, dice Cesare Segre, “di essere nel Lager” 4
J.-F. Lyotard, Discours, figure, Kliencksieck, Paris 1971, p. 242.
242
Il negativo e l’attesa
e “quello di esserne fuori ma di non poter raccontare”, “quello di aver perso la libertà” e “quello di aver recuperato una libertà che esclude il racconto della non libertà” (PC 123). Per tutta la vita il principio di piacere tenta incessantemente di spuntarla sul principio di realtà. Il trauma concentrazionario ha però prodotto una profonda trasformazione del principio di realtà, il quale non corrisponde più al normale ordine della natura, all’ordine che l’animale sociale ha culturalmente raggiunto, a quello rappresentato dalla società civile, dalla famiglia e dalla casa, ma corrisponde al disordine del Lager, alla asociale promiscuità del Lager. Quella conclusione tuttavia non appagava Freud. Riprenderà infatti il discorso sui sogni d’angoscia non solo nel capitolo conclusivo dell’Interpretazione dei sogni, ma anche, a distanza di vent’anni, in Al di là del principio di piacere (1920) e in Inibizione, sintomo e angoscia (1925). Già nell’interessante capitolo IV della Traumdeutung è possibile individuare un dato che è presente anche in Jenseits des Lustprinzips. Nel tentativo di trovare una soluzione ai difficili problemi posti dai “sogni contrari al desiderio”, Freud indica “due principi” o due “forze” (Fre1 161): “una delle due forze che producono tali sogni, dice Freud, è “il desiderio che io abbia torto”. I sogni di Levi raggiungerebbero il loro scopo in opposizione alla formula canonica dei processi onirici. Il desiderio del sogno interno si appagherebbe nella sua immancabile dissoluzione e nel ritorno al sogno esterno. Come se il dormiente fosse intimamente consapevole della falsità del sogno interno, del sogno di pace, e della verità del sogno esterno, quella del Lager. Levi in tal caso desidererebbe non aver ragione sugli amici e parenti che nel sogno si mostrano indifferenti al suo racconto; desidererebbe cioè non fare quel sogno che dovrebbe in teoria appagarne il desiderio e che invece produce ogni volta un dolore che è paradossalmente più insopportabile di quello che egli prova quotidianamente in Lager. Per non provare questo dolore puro, egli non desidererebbe fare quel sogno. Ma non è questo il “principio” o “forza” che si ritrova in Jenseits. Ancora in quel capitolo IV Freud scrive: “Il secondo motivo dei sogni contrari al desiderio è così ovvio che lo si trascura facilmente, come ho fatto io per lungo tempo. C’è una componente masochista nella costituzione sessuale di molte persone, che deriva dalla trasformazione contraria della componente aggressiva, sadica. Quelli
I sogni contrari al desiderio243
che provano piacere, non nel dolore fisico inflitto loro, ma nell’umiliazione e tortura mentale, si possono chiamare ‘masochisti mentali’” (Fre1 162). D’istinto non ci sentiamo di condividere questa seconda ipotesi per chiarire il sogno contrario al desiderio in Levi. O forse dovremmo ipotizzare che l’assoluta impossibilità, da parte degli Häftlinge, di esprimere nel Lager la componente aggressiva sviluppasse in loro tendenze masochistiche? Pur non esitando a mettere in luce le difficoltà create dal contrasto tra la formula canonica dei sogni e “i sogni dei pazienti affetti da nevrosi traumatica” (Fre2 54), in Al di là del principio di piacere tuttavia Freud non è più disposto ad accettare quella sua ipotesi. Bisogna però avvertire che Levi considera “riduttivo” e “ridicolo” definire “nevrosi” i “grovigli” dei sopravvissuti (SS 66): a tal riguardo le interpretazioni psicoanalitiche gli sembrano “approssimative” e “semplificative”, perché, per quanto profondo, quello della psicoanalisi resta pur sempre un sapere maturato “fuori” dal mondo alla rovescia, cioè nel mondo civile, i cui parametri logici sono del tutto inadeguati a comprendere la logica del Lager (SS 65)5. La cultura in generale, dice Levi, “non era utile ad orientarsi né a capire” quell’anus mundi (SS 115): “La ragione, l’arte, la poesia, non aiutano a decifrare il luogo da cui esse sono state bandite”. In quest’opera pionieristica Freud vede in quella nevrosi una delle conseguenze meno maneggevoli della sostituzione del principio di piacere con il principio di realtà. Nello studio dei sogni d’angoscia, dice, non suscita sufficiente meraviglia il fatto che essi riportino “continuamente il paziente alla situazione dell’incidente, situazione dalla quale egli si risveglia con rinnovato terrore” (Fre2 27), e come tali rappresentino la negazione dell’assunto fondamentale del sogno. Ma, ribadisce Freud, “chiunque accetti che sia naturale che il sogno, di notte, li riporti alla situazione che ha provocato la malattia, non ha capito niente della natura dei sogni” (Fre2 28). Nonostante tutto, come si vede, egli tenta ancora di salvare la sua teoria generale sui sogni, pur indicandone i limiti. E prosegue: “Sarebbe molto più aderente alla natura dei sogni, se questi presentassero al 5
Le interpretazioni degli psicanalisti, dice Levi in tono ironico, sono quelle che “spiegano tutto” (IR 31). “Levi”, fa osservare a tal riguardo Marco Belpoliti, “frequenta le pagine di Freud, ma è poco propenso alla psicoanalisi” (RR X).
244
Il negativo e l’attesa
paziente scene del loro passato di uomini sani o speranze di cure e di guarigione”, come accade di fatto almeno nella prima parte dei sogni di Levi. “Se, malgrado le caratteristiche dei sogni dei traumatizzati, vogliamo ribadire la nostra convinzione che la tendenza fondamentale dei sogni sia l’appagamento dei desideri, ci resta ancora a disposizione una ipotesi: possiamo cioè presumere che nella condizione traumatica, la funzione del sogno, come del resto altre funzioni, sia sconvolta e deviata dai suoi scopi; altrimenti saremo costretti a chiamare in causa misteriose tendenze masochistiche dell’io” (cn). Tendenze che egli, come si è visto, aveva rilevato anche nella Traumdeutung. Giunto a queste estreme conclusioni, nella quarta parte di Aldilà del principio di piacere ammette “un’eccezione al principio che i sogni sono appagamenti di desideri” (Fre2 55). Qui egli affronta il problema da un nuovo punto di vista: quello del principio di piacere, sulla base però di un presupposto già delineato nell’ultimo capitolo dell’Interpretazione dei sogni, ossia quello riguardante la funzione positiva svolta dall’angoscia nei conflitti psichici. Nell’opera del ‘900 Freud scriveva: “i sogni sono una valvola di sicurezza della mente… tutte le cose dannose diventano innocue mediante la rappresentazione nel sogno” (Fre1 485). Ora, però, ritiene che occorra fare una precisazione, poiché una tale eccezione “non si può applicare ai sogni d’angoscia, né ai “sogni di punizione”, perché essi si limitano a sostituire l’appagamento proibito con la relativa punizione” (Fre2 55). Sono piuttosto “i sogni dei pazienti affetti da nevrosi traumatica” (Fre2 54) quelli che fanno propriamente eccezione. “Come sappiamo”, dice infatti Freud, i sogni realizzano con modalità allucinatoria l’appagamento dei desideri, e, sotto il dominio di piacere, questa è diventata la loro funzione. Ma non è nell’interesse di questo principio che i sogni dei pazienti affetti da nevrosi traumatica li riportano con costante regolarità alla situazione in cui si verificò il traumatismo. Dobbiamo allora presumere che in questo caso i sogni si prefiggano un altro obiettivo, obiettivo che deve essere raggiunto prima che cominci il principio di piacere. (cn)
Ecco i motivi della deviazione e dello sconvolgimento. Ma qual è quest’altro obiettivo che i sogni si prefiggono? Essi anzitutto “si sforzano retrospettivamente di padroneggiare lo stimolo” [traumatico] “scatenando quell’angoscia, la cui mancanza fu appunto
I sogni contrari al desiderio245
la causa della nevrosi traumatica” (Fre2 54). “I sogni che si verificano nella nevrosi traumatica” (Fre2 55) scatenano infatti l’angoscia in vista del controllo dello stimolo retrospettivo che provocò lo spavento, e quindi la nevrosi. L’angoscia (Angst) scatenata nel sogno svolge allora una funzione di controllo protettivo, e in definitiva positiva. Freud a tal proposito differenzia tra angoscia, paura e spavento. L’“angoscia” si può definire come una specie di stato d’attesa o di preparazione al pericolo, anche se ignoto. La “paura” esige un oggetto ben definito che la possa provocare. Chiamiamo infine “spavento” quella condizione in cui si viene a trovare un individuo a causa di un pericolo cui non era affatto preparato; qui è particolarmente importante il fattore sorpresa. (Fre2 27)
Da questo nuovo punto di vista, non può essere l’angoscia a “provocare una nevrosi traumatica”. “C’è anzi nell’angoscia qualcosa che protegge chi ne è soggetto sia dallo spavento che dalla nevrosi da spavento”. Lo spavento infatti “è provocato dalla mancanza di qualsivoglia attesa angosciosa del pericolo” (Fre2 54). L’“angoscia di preparazione”, insomma, costituisce “l’ultima linea di difesa posseduta dallo schermo (dell’io) contro gli stimoli”. La funzione del sogno d’angoscia è di creare uno stato d’attesa o d’allarme al fine di prepararsi a un pericolo, quello determinato dalla spaventosa esperienza traumatica vissuta nel Lager. L’angoscia pone quindi fine al sogno interno di pace e libertà per preparare Levi al risveglio, affinché questo non sia più dolorosamente traumatico. In questo senso essa è positiva, secondo Freud. Quell’attesa angosciosa preparatoria, infatti, preferisce interrompere l’appagamento del desiderio con la scena allucinatoria della raggiunta pace e della possibilità di raccontare, per evitare di riprovare ad ogni risveglio lo spavento traumatico. È chiaro dunque che avendo come scopo la produzione dell’angoscia, i sogni che si verificano nella nevrosi traumatica non solo infrangono “la regola generale” dei sogni (Fre2 55), ma “consentono […] di gettare uno sguardo su una funzione dell’apparato psichico, che, pur senza essere in contraddizione con il principio di piacere, ne è tuttavia indipendente e sembra più primitiva della tendenza a cercare il piacere e a evitare il dispiacere” (Fre2 54-55 cn). “Questo genere di sogni”, conclude Freud, “si ori-
246
Il negativo e l’attesa
gina, piuttosto, in obbedienza al principio di coazione a ripetere”, e quindi “se esiste un “al di là del principio di piacere” è del tutto logico ammettere che ci deve essere stata un’epoca in cui lo scopo dei sogni non era la realizzazione dei desideri. Con questo”, però, ribadisce Freud, “non vogliamo negare tale funzione, apparsa più tardi” (Fre2 55 cn). 2. Dall’appagamento del desiderio alla coazione a ripetere, dall’organico all’inorganico Per colpa dei “sogni contrari al desiderio” Freud è dunque costretto non solo a modificare la formula classica della teoria dei sogni, ma, sulla base della funzione di controllo dell’angoscia, è anche giunto ad ipotizzare un principio indipendente e ancora più originario di quello del piacere, a cui tali sogni obbedirebbero: il principio della coazione a ripetere. Questi sogni, Levi lo dice chiaramente, si ripetono “senza tregua, per ognuno di noi, per ogni notte e per tutta la durata del sonno”. Il loro scopo non sembra affatto essere il piacere. Obbediscono piuttosto a un principio che si pone “al di qua del principio di piacere” e che tende a “ripristinare uno stato anteriore, cui l’essere vivente è stato costretto a rinunziare sotto l’incalzare di forze perturbatrici esterne” (Fre2 61-62 cn); un principio di conservazione della “sostanza vivente”, di uno “stato antico, uno stato di partenza da cui l’essere vivente si è a un certo punto allontanato e verso il quale lotta per ritornare, attraverso i contorti sentieri della sua evoluzione” (Fre2 64 cn). È lo stato inorganico e inanimato, e quindi “chimico”, dal quale il bambino piangente si sente strappato e verso il quale si dirige la sua prima pulsione di vita; è quello stato cui alludeva anche Dante nel Convivio dicendo che “Lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima de la natura dato [cioè prima che venga formato e sviluppato dalla natura], è lo ritornare a lo suo principio” (IV, XII, 14). Indubbiamente, però, una volta nato, il ritornare (vivendo) allo stato inorganico per l’uomo non significa altro che morire. Ed è proprio la pulsione di morte, dice Freud, quella che, silente e sommessa (un po’ come lo Wstawać), nonostante la volontà di vivere, struttura il senso della vita. Morte che, paradossalmente, da questo punto di vista risulta essere il vero scopo della vita, la vera meta originaria verso cui
I sogni contrari al desiderio247
tende il vivente sia nella veglia sia nei sogni contrari al desiderio, e ciò in ubbidienza al silente e inconscio principio della coazione a ripetere, principio del ritorno allo stato inorganico, dell’eterno ritorno dell’uguale e per il quale Eros è funzione di Thánatos. In Al di là del principio di piacere, peraltro, Freud giustifica questo paradosso sia attraverso le ricerche di alcuni biologi, sia sulla base della filosofia di Schopenhauer (Fre2 79), la quale, com’è noto, ha profondamente influenzato il pensiero freudiano. Ora, sebbene sia lo stesso padre della psicoanalisi a frenare ogni tanto il corso delle sue speculazioni, il senso che queste via via acquistano ci spinge sempre più a tirare in ballo una filosofia che in tale contesto si pone come paradigmatica e che Freud d’altra parte conosce bene già da Totem e tabù: la filosofia di Anassimandro. Qui, prima ancora che in Plotino, in Platone e nello stesso Aristotele, troviamo in effetti il paradigma di ogni tendenza necessaria a ritornare a uno stato anteriore, a quello “stato di partenza da cui l’essere vivente si è a un certo punto allontanato e verso il quale lotta per ritornare, attraverso i contorti sentieri della sua evoluzione”. Questa filosofia, che coglie nell’apeiron, nell’illimitato, la coincidenza dell’arché e del télos, dell’inizio e della fine di ogni cosa, fonda il senso tragico dell’esistenza, perché mostra che la volontà di allontanamento, di indipendenza, di autonomia, di affermazione e quindi di potenza del péras, del finito e del limitato, risulta sin dall’inizio aggiogata alla necessità del moto circolare della díke, della giustizia, per la quale ogni avanzare è in realtà un inevitabile ritornare, ogni allontanarsi è un controintuitivo riavvicinarsi al proprio principio. Può darsi, aggiunge poi Freud, che questa necessità, questa “sublime Anágke” (Fre2 72), sia soltanto “un’altra di quelle illusioni che ci siamo creati ‘per sopportare il pesante fardello dell’esistenza’”. Ma l’illusione, suggeriva Leopardi – poeta noto a Schopenhauer e cultore dei filosofi antichi –, è una delle esigenze fondamentali dell’essere umano. L’illusione potrebbe consistere nel credere che l’ordine cosmologico, che in quel vitale allontanarsi dall’inorganico l’uomo, il vivente finito e organico, si è dato, possa non solo sostituire quello naturale, ma possa con esso anche sfuggire al caos, al disordine che al di là di tutto ciò permane. D’altronde, secondo Levi, l’ordine e il caos coesistono, la confusione prevale sull’ordine (LI 301), l’inatteso sfugge ad ogni controllo, le cose (anche solo una molecola), proprio perché più conosciute, possono inaspettatamente compor-
248
Il negativo e l’attesa
tarsi non come previsto, reagire non come vogliamo noi, secondo le nostre regole, le nostre formule, ma come vogliono loro. Levi accenna a questa singolare situazione in un racconto inserito in Lilít (La sfida della molecola), in cui peraltro evoca alcuni antichi pensatori materialisti come Democrito, Epicuro, Lucrezio, e lo stesso Eraclito, il quale subì l’influenza di Anassimandro. Ebbene, questa imprevedibile reazione della molecola è per Levi il simbolo di tutte quelle storture che avvengono irrimediabilmente al di là di ogni previsione; è cioè il simbolo “del prevalere della confusione sull’ordine, e della morte indecente sulla vita”. Nella consapevolezza che sarà sempre il cháos (il disordine, la morte, l’ingiustizia) a prevalere sul kósmos (l’ordine, la vita, la giustizia), gettato in questo chiasmo cosmico, l’uomo non può fare altro che battersi per l’affermazione dell’ordine razionale sull’irrazionale, del senso sull’insensato, della luce sulle tenebre. Tuttavia, la giustizia umana, la dikaiosýne, non è la giustizia apeironica, non è la dike anassimandrea, perché questa considera hybris, superbia, e adikía, ingiustizia, ogni nobile sforzo umano teso ad imporre stoicamente nel mondo la propria legge. Come Prometeo e Odisseo, gli uomini pensano infatti astutamente di poter aggirare con la ragione la dike, la legge, la giustizia cosmica che prevede la phthorá, la necessaria distruzione degli enti nello stesso luogo illimitato da cui hanno avuto la loro nascita, la loro ghénesis. In questo ritorno del péras, dell’ente limitato all’essere illimitato, durante questo suo processo, questa sua attesa, l’uomo, proprio in quanto dotato di ragione, non può tuttavia esimersi dal tentativo di razionalizzare l’irrazionale, di misurare l’immisurabile, di dire l’indicibile. Ecco perché Levi – che considera il finale del Giobbe un apocrifo, e nel quale Girard e Wiesel vedono una happy-end hollywoodiana, una “success story hollywoodienne” – dice che “il lamento di Giobbe è una delle cose più disperate che mai siano state scritte”6. Simile a questo lamento è peraltro quello di Rinaldo (il personaggio del suc6
Cfr. G. Tesio, Primo Levi, in Piemonte letterario dell’Otto-Novecento, cit., p. 246.Secondo Lévinas, osserva peraltro Simona Forti, “dal libro di Giobbe a Hegel la tentazione è sempre la stessa: rendere sopportabile la sofferenza dell’innocente conferendole un senso. […] Nella ‘sofferenza inutile’ dei milioni di morti negli stermini del secolo riecheggia, ancora una volta, il lamento di Giobbe, il grido del giusto che chiede conto dell’insensatezza del proprio dolore” (For 116).
I sogni contrari al desiderio249
citato racconto dello scrittore torinese), il quale, come l’Uzita, vorrebbe sapere almeno dove ha sbagliato, conoscere il perché di quella strana reazione della molecola. Ciò per dire insomma che anche Levi, come Lucrezio e il maestro di questi Epicuro, sa benissimo che per quanti sforzi compia naturalmente, la ragione non potrà mai liberarsi del caos e della morte; che dall’interno stesso della volontà di ordine e di vivere, opera, dice Freud, una ineliminabile tendenza al disordine, una pulsione di morte che ubbidisce al principio della coazione a ripetere, della coazione a ritornare all’inorganico. Al tal proposito non si può non constatare che la prosa testimoniale di Levi raggiunge l’intensità biblico-poetica quando si sofferma a riflettere con dolore sulla devastazione dell’umano: una distruzione resa possibile dal male inteso come volontà deliberata di far regredire l’uomo a zôon, ad animale istintivo o a corpo materico privo di ragione, a Muselmann. Quasi tutta l’opera in prosa e quella poetica costituiscono la pars destruens della sua testimonianza. Solo i due romanzi, La chiave a stella e Se non ora, quando? accennano a possibilità positive ed edificanti, alludono alla pars construens. Inoltre, sia Storie naturali che Vizio di forma propongono per il futuro un possibile positivo, cioè un futuro possibile, il quale – ecco il punto di contatto – è però sempre accompagnato come un’ombra minacciosa, subdola e all’apparenza risibile, da un vizio profondo e sempre anch’esso possibile, un vizio che ha radici proprio in quelle cause recondite che hanno condotto ad Auschwitz. “[L]’esperienza del Lager”, dice infatti Levi. “non si cancella. Può venire superata, resa indolore, addirittura resa utile come tutte le esperienze della vita, ma non si cancella” (PC 316 cn). Ecco perché sia in Se questo è un uomo sia in Storie naturali “vi è l’uomo [rispettivamente] ridotto a schiavitù da una cosa, la ‘cosa nazista’ e la ‘cosa-cosa’ cioè la macchina. [Giacché] Sempre il sonno della ragione genera mostri…” (PC 39). “Queste [Storie naturali]”, chiarisce inoltre lo scrittore, “sono storie più possibili di tante altre. Anzi, talmente possibili che alcune si sono persino avverate […], sono storie che si svolgono ai margini della Storia naturale, per questo le ho chiamate così” (PC 34). Sono “eleganti trappole morali in alcune delle quali l’uomo è dimissionario, davanti all’incalzare catastrofico delle proprie invenzioni” (PC 3839). Leggendo i racconti surreali si ha in effetti “la percezione di
250
Il negativo e l’attesa
una smagliatura nel mondo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di un ‘vizio di forma’ che vanifica uno o l’altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale” (PC 36); “smagliature piccole o grosse del nostro mondo e della nostra civiltà” (PC 96). Insomma, i racconti raccolti in Vizio di forma “sono nuove trappole morali del centauro: nascono da un’inquietudine per incombenti catastrofi tecnologiche capaci di coinvolgere tutta la società, tutto il sistema planetario” (PC 50). Non è difficile, dichiara pertanto lo stesso Levi, “ritrovare in alcuni racconti, i segni del Lager, la malvagità accettata […]; ad esempio in Versamina e in Angelica farfalla che non a caso mi sono venuti ambientati in Germania” (PC 37). I racconti successivi ai primi due testi testimoniali (Se questo è un uomo e La tregua) riflettono quindi le forme viziate che la moderna realtà può assumere dopo Auschwitz, evento che resta per Levi “il più grosso dei “vizi”, degli stravolgimenti […], il più minaccioso dei mostri generato dalla ragione”, la “mostruosa distorsione dell’umano”7. Inoltre, poiché, come si è detto, in questi racconti egli esprime le possibilità insite nella natura e potenzialmente presenti nelle scienze tecnologiche, le sorprendenti Storie naturali si possono paragonare alle opere di Paul Klee, sulle cui tele si rendeva l’invisibile, vi veniva raffigurato cioè anche quello che sarebbe potuto essere e che invece non è stato. Da una delle sue radici letterarie, Le nuove frontiere del possibile di Arthur C. Clarke, Levi svilupperà infatti tutta una serie di Storie naturali, vale a dire delle anticipazioni di possibilità scientifiche che egli prevedeva già negli anni Sessanta e che troveranno in una certa misura attuazione qualche decina di anni dopo: “Mnemagoghi” (“suscitatori di memorie”, sostanze odorose che suscitano un certo numero di sensazioni significative); il “Versificatore” o creatore di versi; il “Mimete” o duplicatore, usato dal pericoloso Gilberto, che è il personaggio simbolo del nostro secolo, dice Levi, perché utilizza quello strumento solo “per vedere che effetto fa”); la “Versamina”, la sostanza che converte il dolore in piacere e che corrompe la volontà: in tal modo non si scansa il pericolo e si va piacevolmente incontro alla morte, autodistruggendosi (si riferisce alle sostanze dopanti che vengono 7
G. Tesio, Primo Levi, in Piemonte letterario dell’Otto-Novecento, cit., pp. 163, 165.
I sogni contrari al desiderio251
somministrati ai militari per affrontare i rischi della guerra); l’“Ibernazione”; il “Calometro” o misuratore di bellezza (tarato sulla Fantesca di Sebastiano del Piombo; ma si può far ritarare su altri modelli); i “Centauri” (esseri metà uomini e metà cavallo, generati da una “panspermia” originaria, cioè dalla festa delle origini alla quale aveva preso parte anche la famiglia umana); il “Minibrain” (piccolo calcolatore o computer), il piccolo flauto, con il cui suono si riesce a comunicare con gli insetti e a sfruttarne l’attività; e infine il “Torec”, il Total Recorder, un apparecchio che consente di vivere virtualmente delle esperienze, anche di altri uomini o di altri animali, o di riviverle: e con ciò Levi anticipa la cosiddetta realtà virtuale. Sia dalla prospettiva letteraria sia da quella psicanalitica e filosofica si può quindi riscontrare una continuità tra gli scritti testimoniali e gli scritti fantastici di Levi. Oltre all’imperativo giobbico di non arrendersi mai e di continuare a lottare, a conoscere, a chiedere e a interrogarsi, oltre al dovere di continuare a raccontare e a testimoniare, c’è in essi anche l’inestirpabile e incomprensibile tendenza nichilistica che risente della lezione di Pavese e di Thomas Mann – autore, questo, che Levi amava tanto, assieme alla stessa cultura tedesca in generale8. In un racconto dal titolo significativo, Verso occidente, inserito in Vizio di forma, egli affronta a suo modo il delicato e contorto tema della pulsione di morte. È uno dei racconti più intensi e profondi perché più di altri consente di delineare lo stretto legame tra gli scritti reali della testimonianza e gli scritti surreali riguardanti le crepe del reale, i paradossi, i vizi di forma, le assurdità, le cosiddette situazioni kafkiane. Il tema è contorto perché riguarda la stessa contrarietà che caratterizza i sogni contrari al desiderio. Rifacendosi alla presunta tendenza innata dei lemming ad andare in massa incontro alla morte, e a quella della immaginaria tribù amazzonica degli Arunde, nella quale, privi di ogni cultura metafisica, gli individui possono scegliere liberamente di porre fine alla propria vita se si scoprono inadatti ad essa, Levi non solo accenna al problema dell’eutanasia, ma affronta soprattutto la classica 8
Levi, dice Lorenzo Mondo, amava “la cultura dei suoi oppressori”, i “ritmi foschi dell’espressionismo e del romanticismo tedesco” (PP 149). Nella Conversazione con Ferdinando Camon, Levi stesso dichiara infatti la sua germanofilia: “mi interessa molto la cultura tedesca, sto studiando adesso [siamo nel 1986] – da alcuni anni – la lingua tedesca, e ho amici tedeschi” (LC 21).
252
Il negativo e l’attesa
questione della contrapposizione tra pulsione di vita, Eros, e pulsione di morte, Thánatos9. Questione che con rara profondità hanno sviscerato Spinoza, Schopenhauer e Freud, come pure Jean Améry, filosofo al quale, non a caso, Levi dedicherà il sesto capitolo de I sommersi e i salvati (L’intellettuale ad Auschwitz), e non solo per il fatto che i due sopravvissuti hanno avuto e avranno un destino simile. Al conatus spinoziano e al Wille zum Leben di Schopenhauer, ossia alla tendenza ontologica degli esseri viventi a perdurare nell’essere, e alla volontà di vivere, Levi accosta e contrappone la tendenza contraria, la freudiana pulsione di morte, quella stessa che in Sein und Zeit Heidegger chiamerà Sein zum Tode, l’essere per la morte. “Perché un essere vivente dovrebbe voler morire?” si chiede Anna nel racconto. E Walter le risponde: “E perché dovrebbe voler vivere? Perché dovrebbe sempre voler vivere?” (VF 189). A causare il ribaltamento delle pulsioni di vita in pulsioni di morte certamente gli undici mesi trascorsi da Levi ad Auschwitz, nel “mondo alla rovescia”, anche se, come dirà lui stesso, “in Lager il suicidio era assai raro” (PC 68)10. Ma è sin dal principio, sin dal viaggio iniziale che Levi comincia a fare esperienza di un mondo alla rovescia, perché sorprendentemente “le inutili cure materiali”, come “i disagi, le percosse, il freddo, la sete”, risultano essere proprio ciò che salvava i deportati dal vuoto della disperazione senza fondo (SE 15). Quella carica, quella voglia di vita che, prima della deportazione, sprizzava da tutti i pori sia nel giovane Primo Levi che nell’amico canavesano, Sandro Delmastro – amico di cui si fa cenno in un capitolo de Il siste9 In Educazione alla morte (cit., p. 77) Ziemer riporta un episodio che rappresenta emblematicamente la perversione della dottrina pedagogica nazista, capace di trasformare nei bambini l’istinto di vita in istinto di morte. Per non esser riuscito a passare l’esame di ammissione allo Jungvolk, un Pimpf, un bimbo di soli dieci anni, preferiva morire. 10 Ciò si deve anche al fatto che proprio come i tentativi di fuga, anche il tentato suicidio veniva severamente vietato ai prigionieri dalla legge del Lager, perché il potere assoluto esercitato dalle SS non consentiva ad essi nessuna libera decisione, nessuna libera volontà e quindi nessun Freitod. La punizione doveva poi essere esemplare, in modo da prevenire ogni possibile imitazione da parte di altri che avessero casualmente assistito a quel disperato tentativo (Sof 73). Per questo motivo, ad esempio, Jaakov Gabai, un componente del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, dice alla SS che lo interroga su un caso analogo che il suo compagno non si era gettato volontariamente nella fossa infuocata del Bunker, ma che si era troppo avvicinato alla fossa ed è scivolato dentro (G. Greif, “Wir weinten tränenlos”, cit., p. 198).
I sogni contrari al desiderio253
ma periodico (Ferro) –, quella carica vitale che aveva il crudo sapore della “carne dell’orso”, cioè “il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino” (SP 407-408)11, ebbene tutta questa carica, tutta questa volontà di vita, durante la prigionia, durante la schiavitù nel campo, è stata schiacciata, compressa, soffocata. “Oh”, esclama Levi, prima di riprendere il lavoro all’alba, “poter affrontare il vento come un tempo facevamo [con Sandro Delmastro, assaggiando la “pelle dell’orso”], da pari a pari, e non come qui, come vermi vuoti d’anima!” (SE 63). Così pressata emergerà la libido nei suoi sogni, i quali non potendo trovare piacere attraverso la scena onirica e surreale dell’incontro con i parenti che si mostrano indifferenti al racconto della sua esperienza, ossia al sogno interno, costringono Levi a preferire il sogno esterno, quello della realtà del Lager. Che è il mondo al contrario, in cui, appunto, le pulsioni di vita diventano pulsioni di morte: “ed è meglio per me”, scrive infatti Levi, “risalire ancora una volta in superficie, ma questa volta apro deliberatamente gli occhi, per avere di fronte a me stesso una garanzia di essere effettivamente sveglio”. Insomma, come si è detto, sembra di capire che il dolore della realtà del Lager sia più sopportabile del dolore allo stato puro provato nel sogno12. Verso occidente non sembra essere altro, dunque, che una vivida metafora di come egli e gli altri superstiti alla Shoah abbiano vissuto la vita post-concentrazionaria. Tuttavia, sebbene non in Lager, ma dopo il Lager, l’esperienza vissuta in questo mondo alla rovescia ha reso possibile che la proprietà della “sostanza vivente” fosse non già l’inclinazione a vivere, ma l’inclinazione a morire. Perché, 11 Il “sentimento di poter essere eterno” (RR 77), proprio della giovinezza, la continua sfida gettata per puro gioco alla morte, oltre che di Delmastro e di Levi, era anche di alcun giovani personaggi shakespeariani, del Brand di Ibsen (ove però prevaleva il senso del dovere) e di Marlow, il personaggio di Conrad, i cui scritti costituiscono un’altra radice letteraria dello scrittore torinese. 12 Dopo la liberazione, a Trzebina, vicino a Katowice, Levi fa la prima esperienza del raccontare e del non essere ascoltato: “Avevo una valanga di cose urgenti da raccontare al mondo civile: cose mie ma di tutti, cose di sangue, che, mi pareva, avrebbero dovuto scuotere ogni coscienza sulle sue fondamenta. […] I miei ascoltatori se ne andavano alla spicciolata: dovevano aver capito. Qualcosa del genere avevo sognato, nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli” (TR 191).
254
Il negativo e l’attesa
dice Levi, è come se ad Auschwitz la “volontà di vivere” si fosse ammalata, atrofizzata (VF 191), e come unico rimedio artificiale al vuoto, al nulla e al naufragio fossero rimasti solo la religione, l’altruismo, il vizio e la continua distrazione, cioè le già note cure quotidiane. Con ciò stesso, tuttavia, quella terribile esperienza ha reso anche consapevoli (sia il testimone sia in parte anche i lettori della sua testimonianza) del fatto che “la vita non ha uno scopo”, che “il dolore prevale sempre sulla gioia”, che “siamo tutti condannati a morte, a cui il giorno dell’esecuzione non è stato rivelato” (VF 190-191). Oltre che con le attività sopra indicate, a questa tremenda condizione umana si può rimediare soprattutto con “l’abitudine a vivere”, con quell’abitudine passiva che, come abbiamo già visto, Améry chiamerà “lex naturae” o “logica della vita”. Ecco cosa dice Levi in un’intervista del 1976 a proposito dei lemming13 e della loro tendenza al suicidio: ho inteso rappresentare […], uno stato d’animo, che in molti uomini – e in me – si alterna con l’altro che si suole definire “normale” […] pochi uomini dispongono di virtù sufficienti a dare uno scopo alla loro vita. Perciò, per la maggior parte di noi, la sensazione che la vita non ha frutto è giustificata, e tale è quindi anche l’angoscia esistenziale nonostante le sue “tregue”; ma una indefinita provvidenza naturale (forse darwiniana: chi non ne gode è inadatto a vivere e la sua stirpe si estingue) fa sì che di questa sterminata vanità l’uomo normale, in condizioni normali, non sia consapevole. (PC 51 cn)
Fra i pochi che in certi stati d’animo, in certi momenti di stupore esistenziale prendono coscienza che “la vita non ha frutto” e che pertanto il senso dell’esistenza si rivela essere un mero pro-de-cedere; fra i pochi che si avvedono dell’esistenza come una “sterminata vanità”, ossia come un’attesa che si può colmare con la virtù, certamente il Qohèlet, come pure il poeta recanatese e il suo amato legnaiolo. Per i molti, invece, per tutti quelli che Eraclito definiva dormienti, resta fortunatamente l’“indefinita provvidenza naturale”, 13 A proposito dei lemming, Hilberg fa notare che la loro immagine venne in mente anche a Franz Stangl, comandante nel campo di sterminio di Treblinka, quando, nell’intervista rilasciata in carcere a Gitta Sereny, parlava delle vittime ebraiche. Alla domanda su “quale fosse stata la sua reazione davanti alle vittime ebraiche”, rispose che “aveva appena finito di leggere un libro sui lemming. E che questo gli ricordava Treblinka” (Hil 1117).
I sogni contrari al desiderio255
l’“abitudine a vivere” alle prese con le cure quotidiane che consentono di non rendersi conto della vanità delle vanità. Durante il sogno, improvvisamente, Levi si accorge che nessuno più lo riconosce: i suoi interlocutori continuano a parlare tra di loro, proprio come se lui non ci fosse. Ma il riconoscimento, ricorda Kojève, costituisce proprio l’esperienza fondamentale dell’esistenza umana. Questa esperienza è alla base dell’appagamento del desiderio umano sin dalla più tenera età, in cui, ancor prima di trovare delle giustificazioni razionali della realtà e le ragioni della sua organizzazione mondana, il dolore puro della lotta per il proprio riconoscimento si esprime sia attraverso la situazione della mancanza della madre sia con la tendenza di questa a non porre più al centro delle proprie cure il figlio. È una tale purezza di dolore quella che il bambino esperisce quando avverte per la prima volta che la madre lo sta trascurando. Pur essendo carne della sua carne, sangue del suo sangue, nonostante il contatto umano che ne sancisce la reciproca appartenenza, all’improvviso essa viene percepita dal bambino come l’altro, il differente indifferente, il non-identico a sé. Se questa è mia madre – sente egli dentro di sé –, cioè se essa in definitiva sono io stesso, come può accadere che io provi in modo così profondo e ineffabile questa angosciosa esperienza della separazione irriconoscente, come di un’intima e insanabile frattura? A questa indicibile scissione, a questa ferita, che nessuna magia delle parole o astuzia della ragione può rimarginare totalmente, si può paragonare il “dolore allo stato puro” provato da Levi nei suoi sogni angosciosi. In essi, infatti, egli non rappresenta più quella “differenza” che vorrebbe affermare e testimoniare con la sua stessa presenza e soprattutto con i suoi racconti. Esperendo, per così dire, l’indifferenza degli altri, egli non diviene solo indifferente a sé stesso, ma diventa soprattutto trasparente per gli altri. Si tratta di quella diafanità che egli prova anche da sveglio, ad esempio in occasione dell’“esame di chimica” sostenuto dinanzi allo sguardo gelido del doktor Pannwitz (SE 95). Anche in fondo a questo sguardo Levi ricerca quegli elementi a lui indispensabili non tanto, dice, per “formulare nuovi capi d’accusa”, quanto piuttosto “per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano” (SE Pref.). Anche dinanzi alla SS, il corpo diafano di Levi esperisce di giorno l’indifferenza e la “pena desolata” che prova di notte nei sogni. Inoltre, il fatto che, sia nel Lager sia fuori del Lager, Levi abbia sentito la
256
Il negativo e l’attesa
necessità di tornare su questa esperienza dello sguardo diafanizzante e abbia desiderato incontrare quel tedesco “maledetto” ancora una volta nella vita civile14, non indica solo la sua inappagabile curiosità di sondare gli oscuri recessi dell’anima umana, ma esprime soprattutto la sua profonda convinzione che in fondo a quegli occhi si possa trovare il motivo del delirio tedesco: “se io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitavano mezzi diversi, avrei spiegato”, dice Levi, “l’essenza della grande follia della terza Germania” (SE 95). Dinanzi agli occhi azzurro-tedesco del Doktor, egli si sente “come Edipo davanti alla Sfinge” (SE 94): da un lato sente cioè chiaramente che “la posta in giuoco è grossa”, dall’altro prova nello stesso tempo “un folle impulso a scomparire, a sottrarsi alla prova”. Sicché, se questo è un uomo, se esso, cioè, è un essere simile a me, come può non riconoscersi in me? Come può voler rinnegare la sua umanità che è in me? Il dubbio, atroce, resta dentro, sia nell’ex deportato che nel fanciullo. Da qui nasce il perché giobbico, il bisogno angoscioso della spiegazione, della chiarificazione, un bisogno che sembra destinato a rimanere inappagato. Tutta la vita dell’uno e dell’altro verrà da allora in poi impegnata nella ricerca di una possibile risposta. Ben presto, però, entrambi si accorgono che il problema vero non consiste tanto nel che cosa chiarire, quanto piuttosto nel come esplicitarlo, nel trovare una formulazione chiara e comprensibile della questione. Possono essere considerate risposte valide quella che Otto Rank traccia nel Trauma della nascita15 o quella che Freud prospetta in Totem e tabù? Né l’una né l’altra sembrano delle risposte chiare e definitive, poiché 14 In realtà, dice Todorov, ogni volta che si prospettava un incontro, anche solo epistolare, con un ex nazista, Levi era “colto dal panico”. Il filosofo bulgaro si riferisce in particolare a uno scambio di libri tra Levi e Speer, attraverso un’amica in comune. Il testimone, osserva Todorov, avrebbe avuto “qualche problema a rispondere a una lettera a Speer, perché, “conoscendo in maniera approfondita un nazista, Levi non avrebbe potuto fare a meno di riconoscerlo nella sua umanità, ma così gli sarebbero venute a mancare le armi per difendersi contro l’intento omicida espresso nei suoi confronti dai nazisti” (Tod1 259). 15 In questo saggio Rank sostiene che “come ogni sentimento angoscioso ha l’angoscia della nascita alla base, così ogni piacere deriva in ultima analisi dalla tendenza a riprodurre il piacere originario: il piacere di stare nel ventre materno” (Das Trauma der Geburt und seine Bedeutung für die Psychoanly-
I sogni contrari al desiderio257
rispetto al problema dell’origine dell’angoscia, sostiene Freud stesso, non solo non è possibile trovare una “causa ultima”16, ma, per quanto attiene alla sua natura, sembra che sia destinata ancora a permanere nel buio più fitto17. In tal modo, l’urgenza non di definire esattamente, ma almeno di “raccontare agli ‘altri’, di fare gli ‘altri”’ partecipi” assume in Levi e negli ex internati in generale “il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari” (SE Pref.). La virgolettatura del termine “altri” sembra qui riflettere l’implicita reciprocità o l’autoreferenzialità proprie di ogni raccontare, in particolare dei racconti dei sopravvissuti al genocidio nazista. In altre parole, l’impulso narrativo di Levi non è rivolto esclusivamente ai suoi eventuali destinatari, ma soprattutto a sé stesso, affinché sia possibile capire un po’ di più, gettare un barlume di luce in più sul dubbio tenebroso che lo ha accompagnato per tutta la vita. La “pena desolata” o il “dolore allo stato puro” è ciò che costringe ogni notte l’Häftling a “risalire ancora una volta in superficie”, cioè a svegliarsi. Il suo risveglio angoscioso è il prodotto di un sonno “molto sottile” come “un velo”, tale che, scrive, se voglio lo lacero. Lo farò, voglio lacerarlo… Ecco, ho voluto, e ora sono sveglio: ma non proprio sveglio, soltanto un po’ di più al gradino superiore della scala fra l’incoscienza e la coscienza. Ho gli occhi chiusi, ma non li voglio aprire per non lasciar fuggire il sonno, ma posso percepire i rumori. (SE 53 cn)
Nel dormiveglia quell’afflizione onirica spinge Levi a decidere di svegliarsi. Ma questo voler tornare in superficie significa allora, se (1924), tr. it. di E. Ponsi, Il trauma della nascita. Sua importanza per la psicoanalisi, SugarCo, Milano 1990, p. 37). 16 S. Freud, Hemmung, Symptom und Angst (1925), tr. it. di M. Rossi, Inibizione, sintomo e angoscia, Boringhieri, Torino 1988, p. 83. 17 Ivi, p. 79. Nell’Avvertenza al saggio freudiano leggiamo: “Alla comprensione dell’essenza delle cause della nevrosi la psicoanalisi ha fornito qualche contributo, ma dopo decenni di sforzi, conclude pessimisticamente Freud, il problema si ripresenta intatto, come all’inizio” (p. 12). Nell’ottavo capitolo lo stesso Freud scrive infatti: “È tempo di riflettere. Evidentemente noi cerchiamo una formula conclusiva circa l’essenza dell’angoscia, un ‘aut-aut’ che separi, al riguardo, la verità dall’errore. Ma la difficoltà sta proprio nel fatto che non è semplice definire l’angoscia” (p. 61).
258
Il negativo e l’attesa
come si è detto, che la pena provata nel sogno è più insopportabile di quella che egli patisce da sveglio, nella cruda realtà che violentemente si staglia davanti a lui. L’impossibilità di raccontare il suo profondo tormento, cioè di comunicarlo, spiegarlo per farlo comprendere agli altri e renderli partecipi, è ancora più struggente e angosciosa del “dolore di tutti i giorni” vissuti nell’inferno del Lager. Anche in questo frangente viene riconfermato quanto Levi aveva detto nell’“esordio sentenzioso” a proposito dell’impossibilità della realizzazione di un’infelicità perfetta e assoluta, perché dietro al dolore patito in Lager, che riteneva il massimo, si celava il subdolo “dolore allo stato puro” provato di notte durante i sogni contrari al desiderio. Mentre di giorno il dolore e la sventura possono in qualche modo essere leniti dalle materiali cure quotidiane – cioè dal lavoro “come esercizio della mente, come evasione dal pensiero della morte, come modo di vivere alla giornata” (SS 98) –, di notte la funzione appagante del sogno sembra rivelare la propria impotenza di fronte al dolore puro dell’indifferenza. La scena allucinatoria creata dal sogno appare inadeguata ad elaborare l’angoscia che nasce dall’impossibilità di raccontare l’indifferenza manifestata dai parenti. E allora, si potrebbe dire con Leopardi, Allor d’angoscia/ Gridar volendo, e spasimando, e pregne / Di sconsolato pianto le pupille,/ Dal sonno mi disciolsi (Il sogno, vv. 95-98). La classica formula della Traumdeutung freudiana non riesce dunque a dare una risposta a questa domanda di Levi: “Perché questo avviene? Perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni così costantemente, nella scena ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata?”. Non c’è quindi limite alla indicibile e diuturna sofferenza degli Häftlinge. 3. L’incomunicabilità dell’offesa Questa domanda di Levi potrebbe essere formulata anche nel seguente modo: che relazione c’è tra l’angoscia che di notte sorge dalla vanificazione della tanto desiderata narrazione e il dolore psicofisico sofferto di giorno dal deportato? Perché questa sofferenza diurna si traduce costantemente proprio in quella angosciosa vanificazione notturna? C’è qualche connessione tra i due supplizi?
I sogni contrari al desiderio259
Quello che dolorosamente Levi vive di notte è il dramma dell’incomunicabilità, che è l’essenza dei suoi sogni angosciosi. All’interno dell’incomunicabile per antonomasia, cioè del processo onirico, egli vive il sogno dell’incomunicabilità, vissuto attraverso l’indifferenza degli altri. Non riesce cioè a comunicare qualcosa di cui è pur conscio e che vive in prima persona, e ciò non soltanto perché questa esperienza viene vissuta nell’ambito dell’incomunicabile per eccellenza, ma anche perché questo qualcosa che egli intende comunicare agli altri ha a che fare anch’esso con l’incomunicabilità. Ma che cos’è questo qualcosa che egli vive in prima persona? È l’offesa. È l’“incomunicabile offesa della storia”, annota Lejb Langfus, uno dei membri del Sonderkommando di Birkenau nel suo manoscritto18. E “la nostra lingua” dice Levi “manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. […] se parleremo, non ci ascolteranno, se ci ascoltassero non ci capirebbero” (SE 23). L’esperienza dell’incomunicabilità non riguarda solo la dimensione onirica, ma anche quella concentrazionaria. Le due dimensioni non sono disgiunte, ma interdipendenti e compenetrantisi: l’una rimanda all’altra, l’una si somma con l’altra ponendo il deportato dinanzi a una doppia incomunicabilità. In tal senso ha ragione Lyotard quando definisce l’esperienza dei deportati ad Auschwitz una “para-expérience”, una “parempirie”, e quindi “anonyme”19. Rispetto alla natura inesprimibile dell’offesa, però, le posizioni di Levi e di Lyotard sono contrastanti. Infatti, mentre per Lyotard, Auschwitz, in quanto “para-expérience”, rappresenta essenzialmente una “expérience de langage”20, “une affaire de langage”, nel senso che, in definitiva, qualsiasi fatto “bruto” o “realtà” non è altro che una “diégèse”21, cioè una referenza linguistica; mentre per il filosofo francese – in linea con il prospettivismo antipositivistico nietzscheano (“non ci sono solo fatti, ma interpretazioni”) e con l’ultimo pensiero heideggeriano (che fa del linguaggio la casa dell’essere) – la “realtà risulta essere un’istanza pragmatica della struttura linguistica, una funzione del linguaggio, 18 Cfr. La voce dei sommersi, cit., p. 202 cn. 19 J.-F. Lyotard, Discussions, ou: phraser ‘après’ Auschwitz, in Les fins de l’homme, cit., p. 286 ss. 20 Ibid. 21 J.-F. Lyotard, Instructions paiens, Galilée, Paris 1977, p. 18.
260
Il negativo e l’attesa
per cui “C’est toujours: je dis qu’on dit”22 (“È sempre: dico che si dice”), “Giacché occorre dire, in ogni caso”23, nel superstite invece, nonostante il suo uso accorto delle parole, c’è non solo la consapevolezza dell’impossibilità di far parlare i “fatti bruti” – dalla quale nasce in tutta la sua gravità quello che Levi stesso ha definito “Il problema di dover ‘raccontare’” (VO 6-9) –, ma c’è altresì la coscienza che nemmeno il linguaggio sia in grado di poter esprimere l’offesa. Tuttavia, immagina Levi, probabilmente “Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato”; un linguaggio, dice, di cui “si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene” (SE 110). Ad ogni modo, la particolare condizione di scacco linguistico nella quale vengono a trovarsi i sopravvissuti scampati alla Soluzione finale configura proprio la questione che sta alla base de Le différend di Lyotard. Nata dal libero gioco tra il sublime (Erhabene) kantiano e l’inconscio (Unbewusste) freudiano, tra la teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein e l’idea lyotardiana del declino dei métarécits, quest’opera ha il merito di enucleare la singolare natura dell’offesa subita da quei sopravvissuti. Il motivo per cui non vi siano parole per esprimere questa offesa significa innanzitutto per Lyotard che essa designa non un semplice danno, ma un vero e proprio torto, ossia “un danno (dommage) accompagnato dalla perdita dei mezzi per fornire la prova del danno” (7)24. Inoltre, una tale impossibilità di presentare le prove attestanti il torto subito rende il querelante (plaignant) una vittima. “Ed è proprio di una vittima”, dice Lyotard, “il non poter provare che ha subito un torto. Un querelante è qualcuno che ha subito un danno e che dispone dei mezzi per provarlo. Egli diviene una vittima se perde questi mezzi” (9). Così definito, il torto subito dalla vittima è pertanto indice del fatto che si è in presenza di un dissidio (différend) (12, 13), cioè di un particolare conflitto in cui “qualcosa richiede (“demande”) di essere espresso in una frase (être mis en phrases), e soffre del torto 22 Ibid. 23 J.-F. Lyotard, Discussions, cit., p. 287. 24 J.F. Lyotard, Le différend, Minuit, Paris 1983. Il numero si riferisce non alla pagina, ma alla riflessione.
I sogni contrari al desiderio261
di non poterlo essere all’istante” (23). Il dissidio si segnala da una siffatta impossibilità di dire, di comunicare e, quindi dalla riduzione “au silence” (13) di un’offesa extra-linguistica che purtuttavia chiede di essere espressa attraverso i racconti degli ex deportati. Tuttavia, il silenzio stesso, secondo Lyotard, non è affatto un nulla, ma è per così dire l’“espressione del nulla” e, in quanto tale, è “una phrase négative” (22). Benché privo di parole, dunque, il silenzio, proprio come il sentimento (22), esprime tuttavia qualcosa, come ad esempio quando si dice: “On ne trouve pas ses mots” (22), non trovo le parole per dirti quanto soffro, quanto sono felice, ecc.; e questo determina proprio il dissidio, ossia quello “stato instabile e l’istante del linguaggio in cui qualcosa che deve poter esser messo in frase non può esserlo ancora” (22). Ora, questa pura possibilità di dire, questa espressione in nuce in cui consiste secondo Lyotard il silenzio, come il silenzio del sentimento, indicante peraltro il fatto “che quanto c’è da mettere in frase (phraser) eccede ciò che [gli umani] possono dire al momento (phraser présentement)” (23); ebbene questa pura possibilità di dire caratterizza una situazione che è propria della condizione degli “umani” (“non dico ‘gli uomini’, dico ‘gli umani’”, sottolinea Lyotard, “cioè dei sistemi complessi che godono dell’autoreferenzialità”25), e si pone come ragione fondamentale della distinzione tra la vittima umana e l’animale, che è “un paradigme de la victime” (38). La negazione dell’identità, cioè della possibilità di poter dire “io”, di poter essere qualcuno, vale a dire il destinatore di una frase per un destinatario, è propria del totalitarismo di un regime di frase su di un altro. Tale negazione, ad esempio è quella propria dell’esigenza del discorso cognitivo o, dice Lyotard sulla scorta della lezione kantiana, quella dell’intelletto, il quale tende vanamente a spiegare e ad appropriarsi dell’“objet d’une idée de la raison” (5). “L’offesa”, dice infatti Lyotard, “è l’egemonia di un regime di una frase sull’altra, l’autorità usurpata” (149). Nella negazione arrogante, nel totalitarismo inibitore di questa autorità usurpata Lyotard riconosce il male, cioè “la proibizione delle frasi possibili in ogni istante, una sfida opposta all’occasione (occurrence), il disprezzo dell’essere” (197). Il male: la soppres25 J.-F. Lyotard, Note su sistema ed ecologia, in AA.VV., Filosofia ‘89, a cura di G. Vattimo, Laterza, Bari 1990, p. 202.
262
Il negativo e l’attesa
sione della parola. Warum? – perché? chiede Levi appena giunto in Lager, dopo che uno grande e grosso gli ha negato di placare la sua sete con un ghiacciolo attaccato alla finestra della baracca. Hier ist kein Warum – qui il perché non esiste, gli è stato risposto con un spintone (SE 25). Nel Warum? di Levi, si potrebbe dire con Yitzak Katzenelson – il poeta che la Hillesum invocava per trovare le parole al massacro del popolo ebraico – riecheggiano non solo i làmmah e i maddùa‘, i perché? di Giobbe, ma anche le grida di Geremia e del Qohèlet. Anche se, sottolinea Levi nella Prefazione al poema tragico di Katzenelson, mentre “alle domande eterne del Giobbe antico si erano levate voci in risposta, le voci prudenti e timorate dei ‘consolatori molesti’”, persino “la voce sovrana del Signore”, al contrario, “alle domande del Giobbe moderno”, cioè dello stesso poeta bielorusso, che invocava l’intervento del cielo, tanto terso quanto vuoto sovrastante il ghetto di Varsavia, “nessuno risponde, nessuna voce esce dal turbine. Non c’è più un Dio nel grembo dei cieli ‘nulli e vuoti’, che assistono impassibili al compiersi del massacro insensato, alla fine del popolo creatore di Dio”26. Il male è la soppressione della parola negli umani, cioè in coloro che essa fa essere tali. Sopprimere la parola significa negare l’essere dell’umano, ridurlo a semplice stato materiale, a vegetale, ad animale senza spirito, a mucchio di carne, a visceri in putrefazione. E il Lager, dice infatti Levi, ha ridotto l’uomo “al livello dei suoi visceri” (LD 72). È stato ridotto a pelle che, se bene acconciata, è utile per fare paralumi, guanti o borse; a catasta di ossa sporgenti sotto la carne dilacerata, ossa che, se lavorate a dovere, saranno utili per fare attaccapanni, pettini o concime per i campi. Quando Höss, per le sue ragioni, per il disfacimento dei resti delle ossa dei corpi bruciati preferì il martello al trituratore già utilizzato a Kulmhof (Hil 1039-1040), ciò fa pensare non solo ai famosi versi di una poesia di Salvatore Quasimodo (Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo), ma anche a una famosa scena del film di Stanley Kubrick, 2001. Odissea nello spazio (1968), in cui 26 Y. Katzenelson, Dos lid funm oysgeharge’etn yidshn folk, tr. it. di D. Vogelmann (dalla tr. dallo yiddish di S. Sohn), Il canto del popolo ebraico massacrato, Giuntina, Firenze 1998, pp. 6, 77 ss.
I sogni contrari al desiderio263
alcuni scimmioni, alcuni bestioni diremmo con Vico, impugnano delle ossa per spaccare altre ossa. Come si è visto, però, anche il silenzio umano è segno che quell’essere non può tuttavia essere ridotto a niente, perché è il sintomo di “qualcosa che deve poter esser messo in frase (mis en phrase) [detto, espresso, comunicato] [e che però] non può esserlo negli idiomi ammessi” (93). In questo senso Lyotard parla del silenzio come “attesa dell’Accade? (Arrive-t-il?)” (110), cioè dell’evento possibile, giacché è proprio nell’attesa di un’eventuale frase sempre in arrivo che l’essere, appunto in quanto occurrence, occasione, caso, si costituisce e si dà. Attendere in silenzio l’evento ontologico che “fa” essere vuol dire per Lyotard “prestare l’orecchio a ciò che non è presentabile nelle regole della conoscenza” (93); sicché, dal momento “che non si darebbe storia senza dissidio (différend)” (93), far luogo e onore alla storia significa soprattutto “far diritto al dissidio”, cioè “istituire nuovi destinatari, nuovi destinatori, nuove significazioni di nuovi referenti affinché il torto possa esprimersi e il querelante [il plaignant, l’offeso] cessi di essere una vittima” (21). In altre parole, ciò significa che ogni Vernichtung, e quella nazista in particolare, per quanto paranoica sia, non riesce a scrollarsi di dosso il carattere della Verneinung freudiana. La prima è alla base della concezione strumentale del linguaggio, per la quale è l’uomo l’autore delle sue frasi e dei suoi silenzi; la seconda invece caratterizza il linguaggio come universo in cui l’accadere delle frasi avviene secondo regole di un gioco al quale l’uomo prende parte. Ora, si chiede Lyotard, se l’essere umani dipende da un evento linguistico trascendentale, se la “realtà”, compresa quella umana, si dà sempre nell’istante in cui viene “universalizzata” da una frase – e in questo senso essa, questa realtà, non è altro che un prodotto linguistico e mai il risultato di un’esperienza (73), è sempre l’esito istantaneo dell’occurrence, cioè dell’occasione trascendentale che si concretizza di volta in volta in una frase, pur restando sempre un “caso”, e mai quindi una creazione del Signore (173) –; vista insomma la precedenza, l’insuperabilità e l’inevitabilità dell’essere o del linguaggio nei confronti degli individui, “al prezzo di quale errore una minaccia esercitata contro [un individuo] può minacciare la ‘sua’ frase?” (18). Minacciare un individuo vuol dire anche minacciare l’essere del linguaggio? Solo un grosso errore potrebbe condurre
264
Il negativo e l’attesa
a pensare che annientando l’individuo con ciò stesso si elimini anche la “sua” frase, cioè la frase che lo fa essere. Giacché questa frase resta, anche negativamente, anche come silenzio, cioè come sentimento che stimola la ricerca di una sua possibile espressione. È proprio in questa ricerca infinita, in questa “esplorazione degli indicibili e degli invisibili”27, nel “fare allusione all’impresentabile attraverso presentazioni visibili”28, nell’assumere come proprio oggetto privilegiato il “rivelare, il rappresentare in parole quello che manca ad ogni rappresentazione, quello che in essa si oblia”29, che Lyotard ravvisa il compito dell’arte, della letteratura e della filosofia nell’epoca postmoderna. Inestinguibile è dunque il bisogno di raccontare, ed è riconducibile alla ricerca infinita di una translitterazione che esprima l’io senza residui. Alla fine, l’esito stesso dell’intero racconto di Levi ripropone in tutta la sua drammaticità i motivi angosciosi che lo hanno spinto a raccontare. Egli ha, per così dire, compiuto un percorso circolare che alla fine lo ha riportato al punto da cui era partito. “Abbiamo finito di raccontare. /È tempo. Presto udremo ancora/ Il comando straniero: ‘Wstawać”. “È tempo”: Levi sente chiaramente che l’aver portato all’esterno i suoi tormenti, l’essere cioè riuscito momentaneamente ad appagare il suo impulso a raccontare, ha tuttavia lasciato all’interno un vuoto, “un nulla grigio e torbido” (cn) che egli immediatamente riconosce e identifica con la “realtà” del Lager. Il motivo per cui, per indicare la consapevolezza di Levi (“È tempo”) di essere ritornato all’inizio del suo percorso “narrativo”, si è ricorsi al nulla espunto dalla spiegazione del suo sogno spaventoso, risiede nel fatto che in questo nulla è possibile intravvedere una sorta di luogo comune tra esperienza concentrazionaria, onirica e narrativa. Dell’esperienza onirica, come abbiamo visto, Levi ci parla attraverso il suo doppio sogno, il sogno nel sogno: un sogno interno “di pace” e un sogno esterno “gelido”, nel quale ultimo, sia per il grigiore torbido e nebbioso, sia soprattutto per il risuonare sommesso del comando (“Wstawać”), 27 J.-F. Lyotard, La philosophie et la peinture à l’ère de leur expérimentation. Contribution à une Idée de la postmodernité, in “Aut-Aut”, 1983, n. 7, p. 11. 28 J.-F. Lyotard, La pittura del segreto nell’epoca postmoderna. Baruchello, Feltrinelli, Milano 1982, p. 55 ss. 29 J.-F. Lyotard, Heidegger et “les juifs”, Galilée, Paris 1988, p. 16 ss.
I sogni contrari al desiderio265
egli riconosce la “realtà” del Lager. Questa “realtà”, però, non è altro che quel “nulla grigio e torbido”, quell’indistinto angoscioso che egli vive nell’esperienza concentrazionaria, un nulla che fa del sogno esterno un sogno “vero” e del sogno interno un “inganno dei sensi”. La realtà del Lager è dunque il nulla che avvolge Levi nel sogno. La scena appagante e allucinatoria del sogno interno, col procedere del processo onirico, si trasforma, con un’angoscia sempre più intensa e precisa, nel nulla reale del sogno esterno, al quale egli preferisce destarsi. Infine, per quanto concerne l’esperienza narrativa, proprio come alla fine il sogno interno di pace ripropone incessantemente il “nulla grigio e torbido” nel quale Levi, attraverso il sogno esterno, riconosce la “realtà” del Lager, così alla fine del suo racconto, la testimonianza dell’offesa subita lascia nel suo animo un vuoto o il nulla reale da cui aveva preso le mosse la sua narrazione. “Dopo di allora”, infatti, “ad ora incerta”, dalle profondità del suo animo, quel nulla reale ricompare, un vuoto che né la Traumarbeit, né l’estrinsecazione narrativa, cioè la stessa attività testimoniale, sono forse riusciti a colmare. Eppure Semprún rimane sconvolto dal modo “impareggiabile” in cui il testimone torinese riesce a descrivere l’angoscia, ossia la grigia e torbida sostanza del duplice e ricorrente sogno che sia Levi sia altri deportati facevano in Lager. E se da un lato si tratta di un sogno comune, dall’altro esso contiene un sapere, un “terribile sapere” che nessuno, sottolinea Semprún, sarebbe in grado di dire meglio di Levi30. In che cosa consiste questo sapere? Quale verità rivela? Semprún l’apprende dalla chiusa de La tregua, nella quale Levi riporta ancora una volta (dopo averne parlato circa vent’anni prima nel capitolo su Le nostre notti in Se questo è un uomo) quel sogno interno a un altro sogno. Ecco il passaggio finale de La tregua (TR 325) che Semprún ripete e riprende quasi ossessivamente: “Tutto è ora volto in caos”. Il termine “volto” rende bene non solo l’idea del mondo al contrario, cioè del rivolgimento o del capovolgimento del mondo da kosmos appunto in chaos, ma anche la sensazione dell’essere avvolti, di essere destinalmente coinvolti, di appartenere da sempre a un universo deserto e vuoto, a quel tohu vabohu cui accenna la Genesi. “Sono solo al centro di 30 J. Semprún, L’écriture ou la vie (1994), tr. it. di A. Sanna, La scrittura o la vita, Guanda, Parma 1996, p. 218.
266
Il negativo e l’attesa
un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo”. Nel sogno e dal sogno Levi apprende della sua enigmatica familiarità, della sua appartenenza heimisch con questo colore e con questa essenza angosciosa che la realtà del Lager ha generato in lui. Nel sogno – solo nel sogno? – egli sa che se c’è una verità essa è quella che il Lager ha rivelato: “nulla era vero all’infuori del Lager”, e tutto il resto – “la famiglia, la natura in fiore, la casa” [das Heim in tedesco è la casa] – rispetto a tale verità, non era, non è, che menzogna, “inganno dei sensi, sogno”. Qui, ora, nel doppio sogno enigmatico e angoscioso che ritorna ad ora incerta, “ad intervalli ora fitti, ora radi”, egli sa che la vita che ha ritrovato tornando non è e non può essere altro che “breve vacanza”, vuoto rispetto a quella pienezza grigia e torbida, a quella angosciosa realtà realissima che la precede e che le succede. Come se non altro che il Lager (il male sommo, nello stesso modo del bene sommo, del Dio di Agostino e di Giobbe) avesse in sé la capacità di rivelare agli uomini la loro imprescindibile appartenenza alla morte; sicché quando essa si preannuncia con la torbida e grigia angoscia non ci sono rimedi, attività o cerimoniali che tengano. “L’11 aprile 1987”, scrive Semprún, (al quale peraltro la scrittura anziché allontanarlo lo “precipitava” nella morte), ebbene quel sabato mattina “la morte aveva […] riafferrato Primo Levi”31. Si potrebbe infine dire con Wiesel che proprio “perché [Levi] era uno scrittore”32, proprio per la sua impareggiabile capacità descrittiva, cioè per il fatto di essere in grado più di altri di focalizzare lo sguardo angoscioso della Gorgone, che alla fine Levi ne è forse rimasto pietrificato. Ora abbiamo ritrovato la casa, Il nostro ventre è sazio, Abbiamo finito di raccontare. È tempo. Presto udremo ancora il comando straniero: “Wstawac” (TR, esergo).
31 Ivi, p. 231. 32 J. Semprún, E. Wiesel, Se taire est impossible (1995), tr. it. di R. Mainardi, Tacere è impossibile. Dialogo sull’Olocausto, Guanda, Parma 1996, p. 21: “Credo che Primo Levi si sia ucciso perché era uno scrittore. Ne sono convinto. Era mio amico, L’ho conosciuto dopo la guerra”.
I sogni contrari al desiderio267
Poi andremo, ciascuno dietro alla sua cura, Poiché, come dicevo, si è fatto tardi. (AI, Congedo) È fatto tardi per vivere e per amare, Per penetrare il cielo e per comprendere il mondo. È tempo di discendere Verso valle, con visi chiusi e muti, A rifugiarci all’ombra delle nostre cure. (AI, Verso valle)
Dallo Wstawać allo Wstawać, dunque. Proprio dal risuonare della ben nota voce che pronuncia “una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa”, “una parola straniera, temuta, e attesa”, dallo “Wstawać”, dal “comando dell’alba in Auschwitz”, “Alzarsi” – “Il Kapo”, annota Levi alla fine del capitolo su Il lavoro, “si alza in piedi, si stira, e dice, sommesso come chi non dubita di essere obbedito: – Alles heraus, – tutti fuori” (SE 63) –; ebbene dal risuonare di quella parola possiamo provare in ultima analisi a capire il senso di vergogna che, dopo quell’esperienza traumatica, assaliva ad ora incerta Levi e gli altri deportati. Quando la odono essi sono già svegli. Il timore di quella parola, di quel suono, è tale da impedire loro di dormire profondamente e da interrompere brutalmente, ma anche opportunamente, i loro sogni, i loro incubi. Quell’ordine è temuto perché dura e severa doveva essere la punizione per chi disubbidiva33. La guardia sa di questo loro timore e non ha quindi bisogno di urlare come di norma si usa fare nel Lager, non ha bisogno di usare un tono imperioso. Pronuncia infatti quella parola a bassa voce perché sa che quel comando “troverà tutte le orecchie tese, e sarà udito e ubbidito”. Nonostante il tono contenuto, quella voce tuttavia segnerà in profondità e per sempre la memoria di Levi, al punto da renderla “patologica” (FS 422)34. 33 Su ciò si veda il rapporto che Primo Levi e Leonardo De Benedetti redigono nella primavera del 1945 per il Comando russo subito dopo la liberazione del Lager di Auschwitz, durante la permanenza degli ex deportati italiani presso il campo di Katowice: Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del Campo di concentramento per Ebrei di Monowitz (Auschwitz-Alta Slesia) (LD 3-35). 34 In Un “giallo” del Lager Levi dice che serba una “memoria patologica” del periodo della sua deportazione, quasi come Ireneo Funes “el memorioso” descritto da Borges (FS 422).
268
Il negativo e l’attesa
Con ciò, però, non si è detto ancora nulla sul rapporto tra questo comando e il senso di vergogna che pervade interamente Se questo è un uomo e che emerge con maggiore evidenza in alcuni capitoli come Sul fondo, Ka-Be, I sommersi e i salvati, L’ultimo, Storia di dieci giorni: vergogna dopo la selezione di Schmulek, che ha lasciato coltello e cucchiaio in infermeria (SE 47); vergogna dopo l’impiccagione dell’“ultimo”, del Letzte, un deportato che nell’ottobre del ‘44 aveva partecipato alla rivolta del Sonderkommando di Birkenau di Birkenau (SE 133); vergogna per l’orrendo spettacolo che il 27 gennaio 1945 si presenta ai russi appena entrati nel campo di Monowitz (SE 153). Questa vergogna, tra l’altro, compare esplicitamente anche in un testo che Levi scrive nel 1955 per i dieci anni della liberazione dei Lager. Vive in noi una istanza più profonda, più degna, che in molte circostanze ci consiglia di tacere sui Lager, o quanto meno di attenuarne, di censurarne le immagini, ancora così vive nella nostra memoria. È vergogna. Siamo uomini, apparteniamo alla stessa famiglia a cui appartengono i nostri carnefici. Davanti all’enormità della loro colpa, ci sentiamo anche noi cittadini di Sodoma e Gomorra; non riusciamo a sentirci estranei all’accusa che un giudice extraterreno, sulla scorta della nostra stessa testimonianza, eleverebbe contro l’umanità intera. Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz: siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione? […] È vano chiamare gloriosa la morte delle innumerevoli vittime dei campi di sterminio. Non era gloriosa: era una morte inerme e nuda, ignominiosa e immonda. Né è onorevole la schiavitù; ci fu chi seppe subirla indenne, eccezione da considerarsi con riverente stupore; ma essa è una condizione essenzialmente ignobile, fonte di quasi irresistibile degradazione e di naufragio morale. (LD 52-53 cn)
Qui, come si vede, non si tratta solo della “vergogna di non essere morti” assieme agli altri (SQ 275). Qui si tratta della vergogna che Levi prova per il fatto di appartenere a un’umanità degradata al livello di Sodoma e Gomorra, un’umanità che aveva concepito, fatto e subito Auschwitz (PC 49), e che aveva pensato, programmato e attuato la depersonalizzazione, la disumanizzazione, un processo
I sogni contrari al desiderio269
degradante al cui fondo ci sono i Muselmänner35. Questo è il problema di fondo di tutta la testimonianza di Levi. Non può trattarsi quindi solo di una vergogna personale o individuale, ma di una vergogna che ha a che fare con l’essenza umana. È soprattutto tale questione che fa di Se questo è un uomo un libro essenziale. Il titolo l’aveva scelto nel 1947 Franco Antonicelli, preferendolo a I sommersi e i salvati, pensato originariamente dallo stesso Levi. Tema di Se questo è un uomo, dice lo scrittore torinese, è infatti “il non più uomo”. Perché “Non è uomo chi opprime”, così come “non lo è più chi è oppresso”. Ist das ein Mensch? “È questo un uomo?” suona la traduzione tedesca. Spiega Levi a tal proposito: La disumanizzazione è parallela, nel senso che la disumanità del colpevole ha condotto alla disumanizzazione della vittima. […] La violenza inflitta e la violenza subita accomunano gli autori dell’abominio alle vittime di un’insanabile offesa. […] Noi provavamo vergogna perché erano uomini ad aver fatto Auschwitz e uomini ad averlo subito; noi provavamo vergogna perché ci avevano distrutti anche quando non erano riusciti ad ucciderci. (PC 48-49 cn)
C’è quindi una vergogna legata all’appartenenza a un’umanità corrotta; ma c’è anche una vergogna dovuta al fatto che una parte di essa è stata deliberatamente posta in schiavitù36, cioè costretta all’ignobile condizione di estrema passività pur dinanzi al suo previsto e inevitabile annientamento. “Noi ex deportati”, dice infatti Levi a questo riguardo, “per bisogno di verità”, “siamo equiparati agli ex 35 Dal punto di vista tanatopolitico, scrive Simona Forti, “affinché si dia un genocidio” e per produrre la “distanza emotiva tra il carnefice e la vittima” risulta indispensabile “il processo di disumanizzazione e di de-soggettivazione della futura vittima […], la spersonalizzazione del nemico” (For158). La de-individualizzazione (Ent-Individualisierung) delle vittime, scrive Welzer, rendeva ai carnefici più facile il compito di ucciderle (Wel2 138). In tal modo, esse per il Täter, per il Massenmörder, per lo sterminatore di massa diventavano solo Werkstücke, oggetti del suo lavoro (Gegenstände seiner Arbeit)” (Wel2 140). Vanificando il valore di ogni giudizio politico e morale sul suo operato, il nuovo e inarrestabile sviluppo tecnologico, osserva dal suo canto Bauman, consente nel rapporto genocidiario tra esseri umani sia una distanza psicologica sia una distanza fisica (Baum 164). 36 “Secondo una valutazione di Shirer”, ricorda Levi in uno scritto del 1975 (Così fu Auschwitz), “i lavoratori coatti in Germania nel 1944 erano almeno nove milioni” (LD 116).
270
Il negativo e l’attesa
partigiani, ed è giusto. Ma c’è una differenza sostanziale fra l’esperienza della lotta vittoriosa e l’esperienza passiva e deteriorante della prigionia” (PC 335). E poi, ecco, oltre a devastarli dentro il Lager, quella vergogna, quel senso di colpa, quel “disagio indefinito” “accompagnava i prigionieri [anche] dopo la liberazione (SS 55), perché era quasi impossibile non “volgersi indietro” a ripensare il loro essere vissuti “ad un livello animalesco” (SS 57). Il dovere imperioso di testimoniare, poi, non esime e non alleggerisce dal “pensiero”, dalla sola “supposizione”, anzi dall’“ombra del sospetto” di essere in colpa, di non aver fatto abbastanza per aiutare o per salvare gli altri in un luogo infernale in cui l’unico linguaggio comprensibile da tutti era quello delle percosse (SS 56), la regola principale era “badare prima di tutto a se stessi” (SS 60), la sola vita consentita era quella hobbesiana della “guerra continua di tutti contro tutti” (SS 108)37. I colpi, specialmente quelli portati col Dolmetscher, col nerbo di gomma, sostituivano le parole, anzi costituivano i duri lemmi del Lagerjargon, perché nel campo nazista “l’uso della parola”, quella usata “per comunicare il pensiero” e che contraddistingue l’essere umano, “era caduto in disuso” (SS 70). Non solo. Il “groviglio” in cui si muoveva Levi era tale che il suo stesso testimoniare (seppur sempre approssimativo) veniva vissuto con una certa inquietudine, perché il privilegio che la testimonianza di fatto gli accordava era vissuto come una colpa, perché il salvato continuava a sopravvivere nonostante le pene patite dai sommersi, dai non sopravvissuti (SS 64). Anche in questo senso andrebbe compreso Levi quando dice che egli era non solo onorato, ma anche gravato dalla sua responsabilità di testimone e di scrittore (SV 113). Scrittore che, ricorderà, si era ritrovato ad essere quasi suo malgrado (LT 69). 4. L’aporeticità dell’esperienza concentrazionaria Una volta varcato il cancello di Buna-Monowitz, l’oppressione morale che i quattro soldati russi a cavallo provarono dinanzi al “nulla pieno di morte” (TR 158) aveva il peso di un’offesa insana37 Alla “lotta di ciascuno contro tutti”, scrive Levi, erano poco abituati i giovani in generale; ad essa aveva rinunciato, ad esempio, il suo giovane compagno, Null Achtzehn, indifferente a tutto (SE 37-38).
I sogni contrari al desiderio271
bile che nulla mai di buono e di puro, né in futuro né tanto meno appartenente al passato, avrebbe potuto cancellare. Essa aveva la gravità di una colpa indelebile destinata a diffondersi come un contagio, di una colpa imprescrittibile che nessuna giustizia umana avrebbe potuto definire, comprendere ed estinguere. Oltre all’inestinguibilità e all’imprescrittibilità38, la profondità di questa offesa oppressiva e depressiva evidenziava anche infatti una indeterminabilità estensibile temporalmente sia in avanti che indietro. Ed è per questo motivo che Adorno sentenziava “Nessuna parola risuonante dall’alto, neppure teologica, ha un suo diritto d’essere immodificata dopo Auschwitz”39. Cioè: niente, dopo Auschwitz, sia di quanto appartiene al passato sia di quanto prospetta il futuro, poteva e doveva essere accettato come se nulla fosse successo, come se quanto non doveva assolutamente accadere non fosse mai, ugualmente e inaspettatamente, accaduto. Questo monito insomma non vale solo per il dopo, ma anche per quanto precede Auschwitz. Né testi sacri come il Giobbe o i Vangeli, né quelli di spiriti eccelsi della cultura occidentale, come Nietzsche, Hegel o Platone, potranno più essere riletti come se nulla di dirompente e di decisivo si fosse mai verificato nella storia e nella cultura umana. Ciò non toglie tuttavia che alcuni elementi della filosofia platonica, presenti ad esempio nel Teeteto, riguardanti l’indicibilità dell’idea attraverso il lógos, possano essere utili per spiegare le convinzioni di un superstite come Elie Wiesel riguardo all’essenza stessa di Auschwitz. Si può dire l’indicibile? Questa è infatti la domanda inquietante che, seppur da due contesti diversi, si pongono sia il sopravvissuto di Sighet sia il filosofo ateniese. Le parole possono descrivere, possono far rivivere un’esperienza vissuta? Sicuramente no, almeno nella sua totalità. Un’immagine, anche artistica, non è in grado, secondo Platone, di cogliere in toto la verità di un’idea. Da questo punto di vista, la medesima aporeticità provata dal lógos, e quindi dalla ratio, accomuna l’idea platonica ad Auschwitz: infatti, pur essendo dicibili, sfuggono a una dicibilità esaustiva. Sempre e solo in parte, cioè, il detto può esprimere la loro dicibilità. Ed è proprio questa dimensione fosca di indicibilità che ne determina l’incomu38 Si veda a tal proposito il saggio di Vladimir Jankélévitch, Perdonner?, tr. it. di D. Vogelmann, Perdonare?, Giuntina, Firenze 1986. 39 T.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 332.
272
Il negativo e l’attesa
nicabilità. Eppure, come ricordava dal suo punto di vista Lyotard, non c’è che il linguaggio per esprimere quell’esperienza. Tuttavia, “la discrepanza fra l’esperienza e le parole”, dice Enzo Traverso riprendendo la riflessione di Améry su questo problema aporetico, “non può essere sormontata dal linguaggio della metafora: per chi ha visto il fumo di Birkenau, la tomba scavata nell’aria di Todesfuge ‘non significa nulla’”, giacché “le parole non saranno mai all’altezza della ferita che designano, né nella forma della narrazione realista né in quella della trasfigurazione lirica” (Tra 178-179). Certo, non c’è solo il linguaggio delle parole. Sorge in ogni caso il dramma del dover involontariamente “tradire” la verità del proprio racconto, cioè di dover dire sempre altro da ciò che si dovrebbe dire. Per il superstite portatore di segreti e depositario della verità sui Lager, sebbene non tutta (SS 6-8), si profila in particolare il pericolo di essere costretti a “ripetere inconsapevolmente il gesto dei nazisti […], di ripetere il monito beffardo delle SS agli abitanti del campo”40, monito che Wiesel e Levi conoscevano bene. Il testimone torinese, poi, sembrava più fiducioso nei confronti della capacità comunicativa della parola. Non soltanto di quella prosastica, ma anche e soprattutto di quella poetica. Grazie al suo stile asciutto e concreto, ereditato dalla sua formazione scientifica, ossia dalla Scheidenkunst, dalla chimica, che è l’“arte di separare il metallo dalla ganga” (SP 34), egli è in effetti riuscito a trasmettere se non tutta, almeno buona parte della verità e della realtà di Auschwitz41. Anche se in lui, bisogna pur rilevare, questa verità difficilmente comunicabile emerge in tutta la sua drammaticità il più delle volte attraverso allusioni dense di rispetto e di pudore, attraverso i non 40 G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 146. Su ciò cfr. I sommersi e i salvati (SS 3): Levi ricorda un passo delle ultime pagine de Gli assassini sono fra noi di Wiesenthal in cui è riportato quel monito: “In qualunque modo questa guerra finisca, la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi: nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederebbe”. I nazionalsocialisti, dice a tal riguardo Adorno, “erano tanto più sicuri di non essere smascherati quanto più l’orrore cresceva e dilagava senza limiti” (Minima moralia, II, 71). 41 Scrive Levi a proposito della verità sui Lager: “la storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era paralizzata dalla sofferenza e dall’incomprensione” (SS 8).
I sogni contrari al desiderio273
detti, le parole omesse e volontariamente taciute. Quello di Levi, dice infatti Lorenzo Mondo, è “un linguaggio preciso, ma insieme esitante, controllato dal pudore, ritmato da pause di silenzio” (VO 151). Se questo è un uomo, scrive a tal riguardo Semprún, è un “libro impareggiabile”, è “un capolavoro di pudore, di straordinaria nudità nella testimonianza, di lucidità e di compassione”42. La “sobrietà” del suo stile, dicono tra l’altro Anna Bravo e Daniele Jalla, è “la forma più accettabile di quel tradimento del dolore che si commette sempre parlandone”43. È comunque solo per questa sua instancabile volontà di verità e di chiarezza – la chiarezza: “primo comandamento del suo decalogo di scrittore” (PC 106) – che, fatta forse eccezione per Todesfuge, diffidava, da una parte, della poesia di Paul Celan44 e provava, dall’altro, un certo sgomento dinanzi all’oscura e inquietante prosa di Kafka, del quale ha pur voluto tradurre il Processo. Io, dice infatti Levi, “ho sempre teso a un trapasso dall’oscuro al chiaro”, mentre “Kafka batte il cammino opposto” (FS 141). Tranne Fuga di morte, che sente come un “innesto”, poche sono poi le liriche di Celan che riesce a penetrare. E ciò forse perché, osserva Enzo Traverso, il poeta di Cernovitz scrive “in una lingua che gli appartiene e che, nello stesso tempo, percepisce come nemica, una lingua tedesca che spezza, apre e trasforma fino a trasformarla in una lingua universale del dolore e del lutto” (Tra 19). Forse perché, soggiunge Traverso, l’obiettivo di Celan “non era quello di “capire” filosoficamente o storicamente […] ma piuttosto di cogliere e restituire attraverso le parole il senso della rottura della storia partendo dalla sofferenza che ne ha segnato le vittime” (Tra 138). Todesfuge allo studioso appare invece “un’elegia di inquietante bellezza […] i cui i versi si susseguono quasi martellanti, 42 J. Semprún, La scrittura o la vita, cit., p. 230. 43 Cfr. Primo Levi. Il presente del passato, cit., p. 71 cn. Anche Welzer, sulla scorta della Arendt e di altri studiosi, insite sulla intraducibilità o sulla traducibilità tradente della realtà raccontata da alcuni testimoni (Wiesel, Améry, Borowski, Kertétsz) (Wel1 123-126). Attraverso la testimonianza di questi sopravvissuti, egli vuole provare a tracciare una Erfahrungsgeschichte des Unsagbare, una “storia dell’esperienza dell’indicibile” (ivi, p. 129). 44 Sulla considerazione critica di Levi in merito alla poesia di Celan, attraverso una densa riflessione sulla funzione della poesia in Semprún e Levi, si veda l’interessante contributo di Enrico Mattioda Il ritorno del mussulmano. Usi e senso della poesia in Jorge Semprun e Primo Levi, in Dal buio del sottosuolo. Poesia e Lager, a cura di A. Cavaglion, FrancoAngeli, Milano 2007, pp. 117-132.
274
Il negativo e l’attesa
come ripetizioni compulsive che avvolgono il lettore in una spirale o, più precisamente, lo catturano e lo trascinano come se ascoltasse una fuga” (Tra 142)45. La lettura dei versi di Celan “lo turba [turba in ogni caso Levi] e insieme lo conferma nella sua fede nella parola chiara [e perciò] sente la necessità di ripetere che ‘scrivere è trasmettere’” (PC 106). Scrivere poesia per tutti sfiora l’utopia, [dice Levi a proposito di Paul Celan] ma provo diffidenza per chi è poeta solo per pochi, o solo per se stesso. Scrivere è un trasmettere; che dire se il messaggio è cifrato e nessuno conosce la chiave? Si può rispondere che trasmettere quel certo messaggio, e in quel modo specifico, era necessario all’autore, anche se inutile al resto del mondo”. (RR 211)
In una pagina de L’altrui mestiere (Dello scrivere oscuro), egli esprime questa sua convinzione con la stessa nettezza tolstojana: “la scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente, da luogo a luogo e da tempo a tempo, e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel de45 La compulsività di questa poesia di Celan, peraltro, fa pensare anche a quella che emerge ossessivamente da alcune testimonianze di Ka-Tzetnik (si veda su ciò il nostro contributo La ripetizione coattiva, in Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah, cit.). Ne La banalità de male (1963) Hannah Arendt usa un tono ironico e critico nei confronti di Ka-Tzetnik (alias Yechiel Dinoor), perché al processo Eichmann, dice la filosofa, anziché rispondere alle domande dei giudici, questo testimone riportava proprie digressioni religiose e persino astrologiche sia su Auschwitz sia sul suo stesso nome che egli aveva assunto dopo essere sopravvissuto a quel Lager. “Ka-Tzetnik”, per Dinoor, infatti, non era un semplice pseudonimo: significava prigioniero del KZ (Ka-Zet), del Konzentration Zenter, del campo di concentramento, un nome che aveva deciso di assumere in memoria di tutti i Ka-Tzetnik morti nei K.Z.. Egli parlava di un’umanità che si sarebbe potuta ridestare solo “dopo la crocefissione di una nazione” (quella ebraica), e ciò nello stesso modo in cui l’umanità sarebbe risorta “dopo la crocefissione di un uomo” (Are2 231). Vedeva inoltre in Auschwitz una specie di stella cinerea che irradia la sua luce sul nostro pianeta (ibid.). Sorprende però questo tono sarcastico della studiosa nei confronti di quel sopravvissuto (certo particolare: un caso d’“eccezione” lo definisce lei stessa), specie se andiamo a rileggere le parole che lei aveva riportato meno di dieci anni prima nelle pagine conclusive del suo saggio su Le origini del totalitarismo (1951), dove affronta il delicato problema della comunicabilità dell’orrore, e dove tra l’altro pensa al ritorno dei sopravvissuti da quel campo proprio come una “resurrezione di Lazzaro” (Are1 603) e alla storia che essi si sforzano di ricordare come quella proveniente da “un altro pianeta” (Are1 608).
I sogni contrari al desiderio275
serto” (AM 53). Compito del testimone, pertanto, secondo lui, non è tanto il riportare, anche calligraficamente, l’incomprensibile, il caos tenebroso che la traumatica esperienza vissuta contiene, quanto piuttosto, mediante un accorto dosaggio e una giusta e ponderata scelta dei termini, quello di cercare di descriverlo e di comunicarlo a quanti più possibile e nella maniera più chiara possibile46. Ebbene, nonostante questa strenua difesa della prosa testimoniale, nel 1984, forse perché non pienamente soddisfatto delle numerose opere che continuavano intanto (già allora) ad uscire sulla realtà del Lager, egli sottolinea e motiva la sua preferenza per la poesia rispetto alla pagina documentaria: questa, infatti, confessa, “non possiede quasi mai il potere di restituirci il fondo di un essere umano: a questo scopo, più dello storico o dello psicologo sono idonei il drammaturgo e il poeta” (FS 50 cn). Sempre nello stesso anno, in occasione dell’uscita della sua seconda raccolta di poesie, Ad ora incerta, forse per confutare un’altra affermazione sentenziosa di Adorno, secondo cui dopo Auschwitz non si può più fare poesia47, Levi inoltre dichiara: La mia esperienza è stata opposta. Allora [cioè subito dopo essere rientrato in Italia] mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro. […]. In quegli anni, semmai, avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz. (PC 315-316)
Nonostante la difficoltà che, come s’è visto, Levi provava dinanzi ai versi di Celan, anche quest’ultimo, secondo Peter Szondi, avrebbe voluto e potuto dire ad Adorno le stesse parole che gli rivolse Levi, poiché Auschwitz, scrive Szondi, “non è soltanto lo scopo della poesia di Celan, ma la sua stessa condizione” (Tra 153). 46 Tre, dice tra l’altro Devolder, sono, grosso modo, le fasi che segnano lo sviluppo della scrittura in Levi: “la scrittura come terapia, come testimonianza e come esplicazione”. Esse si susseguono cronologicamente, ma, in una certa misura, ognuna è presente in ogni momento con l’altra (J. Devolder, Primo Levi: écrire et survivre, in “Bulletin trimestral de la Fondation Auschwitz”, Actes I, cit., p. 131). Alla questione “calligrafica” Levi accenna anche a proposito di un suo scritto giovanile che considerava “assolutamente puerile [e appunto] calligrafica” (LT 97). 47 T.W. Adorno, Critica della cultura e società (1949), in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, tr. it. di C. Mainoldi, Einaudi, Torino 1972, p. 22: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”.
276
Il negativo e l’attesa
Ad ogni modo, quasi a giustificarsi, però, di questo suo impulso poetico, già nella premessa di questa seconda raccolta Levi si affretta a dire che la sua parte razionale ritiene innaturale la forma poetica, forma che, ad ora incerta, il suo istinto irrazionale naturaliter assume. Tuttavia aggiunge: “Uomo sono”, e dunque, per quanto si ostini in un controllo degli istinti e a vigilare sull’emergenza del caos, anche lui ogni tanto deve cedere alla spinta dell’irrazionale, alla pulsione poetica, la quale, scrive, essendo “inscritta nel nostro patrimonio genetico”, è antropologicamente inevitabile48. In Cantare, ad esempio, una poesia del 3 gennaio 1946 compresa in quella raccolta, la riumanizzazione, l’essere ridiventati quello che si era stati prima della disumanizzazione, l’essere di nuovo solo e semplicemente uomini, giovani e non più martiri, infami o santi – anche se qualcosa nel frattempo è cambiato, è stato smosso, inciso, sconvolto –, l’essere ritornati nella dimensione umana, in cui cosa cattiva è uccidere, e morire è ridiventata cosa lontana – anche se il trauma della morte non cesserà mai di frequentare i loro sogni e di disturbare il loro sonno49 –, ebbene non solo la disumanizzazione, ma anche questa riumanizzazione è una delle cose più difficili da spiegare (AI 14), perché riguarda una profondità umana che solo il canto, solo la poesia può esprimere. Un’inspiegabile profondità umana è ad esempio quella di cui si fa cenno negli ultimi versi di Buna (28 dicembre 1945). Rivolgendosi a un compagno di Lager, il superstite dice: Se ancora ci trovassimo davanti / Lassù nel dolce mondo sotto il sole, / Con quale viso ci staremmo a fronte? Cioè, con quali occhi essi potrebbero guardarsi lassù dopo aver visto quello che i loro 48 Su ciò si veda ancora l’articolo di Enrico Mattioda, che commenta la Premessa di Levi alla seconda edizione di Ad ora incerta alla luce della Préface che nel 1997 Semprún dedica alla traduzione francese dei versi leviani: “forse per Levi, così volutamente, ostentatamente razionale, la poesia era in fondo scoperta di quel lato oscuro, ricerca di quella Schattierung [ombreggiamento] in qualche modo alternativa alla Lichtung [rischiaramento] della prosa […]. La poesia sfuggiva in parte a quell’ostinato controllo razionale che egli cercava di imporre alla propria prosa” (Il ritorno del mussulmano., in cit., p. 131). 49 Il ricordo traumatico del Lager di Monowitz o di Auschwitz Buna ritorna ad ora incerta ne Il Canto del corvo (9 gennaio 1946) per rendere inquieti i giorni e le notti del sopravvissuto. Ritorna per togliergli la gioia del sonno e per corrompergli il piacere del pane e del vino. Quello del corvo è un canto di morte, che preannuncia la morte. Infatti, dopo aver cantato Segnò col becco il suolo in croce / E tese aperte le ali nere (AI 16).
I sogni contrari al desiderio277
stessi occhi sono stati costretti a vedere laggiù? E il mondo che essi vedrebbero, sarebbe ancora dolce, avrebbe la medesima dolcezza, l’identico colore che essi percepivano prima di aver sentito rompersi dentro l’ultimo valore? Coscienti del profondo trauma subito anche dai loro occhi, cioè dell’aver visto cose che la loro mente non poteva credere, consapevoli del fatto che quanto essi ora vedono non potrà più essere visto così come veniva percepito e inteso prima del trauma, ebbene con quale viso potranno ora guardarsi reciprocamente negli occhi? E quello che i due superstiti sentono ora, potrà essere compreso anche dagli altri? Ecco, soprattutto questo resta difficile da dire, da spiegare. Sotto il sole è peraltro il refrain del Qohèlet (tashàt hashàmesh) che spesso compare in queste prime poesie di Levi. Anche in 25 febbraio 1944 (data del suo arrivo ad Auschwitz), poesia scritta il 9 gennaio 1946, l’espressione ricorre a conclusione dei sette versi. Qui ora, benché risenta del profondo desiderio di Potere ancora una volta insieme / Comunicare liberi, essa tuttavia sembra risentire di quanto e di come vissero quando erano ancora dei sommersi. Perché l’essere “sotto il sole”, il camminare liberi, salvati, non può essere disgiunto da quell’essere stati sommersi. Sicché, anche da questo punto di vista, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ’ein kal chadàsh tàshat hashàmesh. Eppure, malgrado questa sua fiducia nella parola, sia cantata che narrata, sia orale che scritta, alla fine del suo oneroso impegno testimoniale, a fronte probabilmente dell’incalzare dei revisionismi e dei negazionismi, Levi ha dovuto confessare, soprattutto a sé stesso – è sempre il primo ad assumersi la responsabilità della trasmissione della testimonianza –, quanto aveva già detto in Se questo è un uomo (“la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa…” (SE 23), ha dovuto cioè ammettere che qualcosa nella comunicazione non ha funzionato e che forse a tale scopo sarebbero più efficaci le immagini. In uno scritto del 1987, a proposito di una mostra fotografica sui Lager, poco tempo prima della sua tragica morte, dichiarava infatti sconsolato: In molte occasioni noi, reduci dai campi di concentramento nazisti, ci siamo accorti di quanto poco servano le parole per descrivere la nostra esperienza. Funzionano male per “cattiva ricezione”, perché viviamo ormai nella civiltà dell’immagine, registrata, moltiplicata, teletrasmessa, ed il pubblico, in specie quello giovanile, è sempre
278
Il negativo e l’attesa
meno propenso a fruire dell’informazione scritta; ma funzionano male anche per un motivo diverso, per “cattiva trasmissione”. In tutti i nostri racconti, verbali o scritti, sono frequenti espressioni quali “indescrivibile”, “inesprimibile”, “le parole non bastano a…”, ci vorrebbe un nuovo linguaggio per…”. Tale era infatti, laggiù, la nostra sensazione di tutti i giorni: se tornassimo a casa, e se volessimo raccontare, ci mancherebbero le parole: il linguaggio di tutti i giorni è adatto a descrivere le cose di tutti i giorni, ma qui è un altro mondo, qui ci vorrebbe un linguaggio “dell’altro mondo”, un linguaggio nato qui. Con questa mostra abbiamo tentato di adottare il linguaggio dell’immagine, consapevoli della sua forza. Si tratta, come ognuno può vedere, di fotografie sapienti, ma non ritoccate, non “artistiche”; ritraggono i Lager, in specie Auschwitz, Birkenau, e la sinistra Risiera di San Sabba, quali si presentano oggi al visitatore. Mi pare che dimostrino quanto afferma la teoria dell’informazione: un’immagine, a parità di superficie, “racconta” venti, cento volte di più della pagina scritta, ed inoltre è accessibile a tutti, anche all’illetterato, anche allo straniero; è il migliore esperanto (cn). Non sono osservazioni nuove, le aveva già formulate Leonardo nel suo Trattato della pittura; ma, applicate all’universo ineffabile dei Lager, acquistano un significato più forte. Più e meglio della parola, riproducono l’impressione che i campi, bene o mal conservati, più o meno trasformati in alti luoghi o santuari, esercitano sul visitatore; e, stranamente, questa impressione è più profonda e sconvolgente su chi non c’era mai stato che non su noi pochi superstiti.50
La drammatica questione dei limiti del linguaggio nella sua specifica funzione comunicativa – drammatica perché mette in crisi la profonda fiducia che Levi ha in esso – comincia a delinearsi ne I sommersi e i salvati, all’inizio del delicatissimo capitolo sulla “zona grigia”: “Siamo stato capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza?” (SS 24). Trattandosi di una questione spaventosamente complessa e sfaccettata, la risposta non può essere che negativa, almeno in parte; se non altro perché, dice Levi, “il linguaggio e il pensiero concettuale” per comprendere tendono per loro natura sempre a semplificare. Certo, rispetto 50 Lo scritto (Rivisitando i Lager) non compare nell’opera omnia einaudiana e uscì postumo in un catalogo di una mostra fotografica sui Lager svoltasi nel 1987 a Trieste. Parte di questa amara confessione è riportata anche nella Premessa di Alberto Cavaglion al testo di Marcello Martini, Un adolescente in Lager. Ciò che gli occhi tuoi hanno visto, Giuntina, Firenze 2008, pp. VIII-IX.
I sogni contrari al desiderio279
poi all’incomunicabilità radicale provata dai prigionieri in Lager, quella lamentata nel mondo civile non può essere che frutto di una “pigrizia mentale” (SS 68), ma una volta fuori dal Lager, quella precedente incomunicabilità per i testimoni si traduceva dolorosamente in vera e propria aporia, ineffabilità, o, come si è visto, in intrasmissibilità. Interessante a tal proposito l’analisi di Yannis Thanassekos. Poiché, secondo l’ex direttore scientifico della Fondazione Auschwitz di Bruxelles, le nostre normali categorie logiche si sono rivelate inadeguate per la comprensione razionale degli eventi estremi accaduti ad Auschwitz; poiché la loro luce, cioè, si è dimostrata incapace di squarciare le tenebre nelle quali l’umanità si è ritrovata ed è precipitata nel suo continuo “progredire”, anche le testimonianze dei reduci – i primi a subirne direttamente lo sconvolgimento logico-etico – non possono che risultare, come le digressioni proustiane, veridiche, ma non vere. Per questo suo ragionamento l’autore prende spunto da una frase di Charlotte Delbo, la nota scrittrice francese, partigiana e deportata nei Lager di Auschwitz e di Ravensbruck: “Aujourd’hui, je ne suis pas sûre que ce que j’ai écrit soit vrai. Je suis sûre que c’est véridique”. Una frase, come si può vedere, spiritualmente vicina a quella che lo stesso Levi aveva riportato in Se questo è un uomo: “Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute” (SE 93). Proprio a causa di quello sconvolgimento, il contenuto dei racconti dei sopravvissuti, nonostante la chiarezza espositiva, risultava e risulta infatti non soltanto incredibile e quindi incomprensibile, ma, proprio per questo, anche incomunicabile. Per meglio dire: i fatti e le esperienze che essi riferiscono noi certo li afferriamo, ne cogliamo il significato, ma solo in astratto. In effetti sappiamo cosa vuol dire aver fame, sentire freddo; abbiamo anche noi, nella nostra normale esperienza maturata nel mondo civile, provato il dolore, l’angoscia, il senso di colpa e la vergogna, ne comprendiamo il senso, solo che nella normalità di questo nostro mondo tutte queste esperienze, tutte queste sensazioni presentano una gravità relativa, e quindi normalmente sopportabile, e soprattutto durano poco tempo e possono essere evitabili. Le nostre categorie erano state e sono ancora normalmente tarate su quei livelli medi e relativi di comprensione e di tollerabilità, mentre gli estre-
280
Il negativo e l’attesa
mi e gli assoluti riguardavano e continuano ancora a riguardare solo l’immaginazione dei filosofi, dei poeti e degli artisti. Sicché quando i superstiti ci parlano di freddo, di fame, di sete, ecc., noi li comprendiamo bensì, però all’interno di quella normale logica esperienziale media e relativa, che è la nostra e la loro; pertanto quando ci parlano delle loro esperienze estreme e quindi anormali vissute nei Lager, essi stessi non possono fare altro che usare quelle categorie tarate, adoperando quelle medesime parole che si riferiscono ad esperienze di relativa sopportabilità. E così, mentre vorrebbero comunicarci le loro esperienze estreme e anormali, noi non possiamo apprenderle che come relative e normali, proprio perché sia il loro che il nostro linguaggio, come diceva Levi, non dispone di parole capaci di esprimere quell’offesa. Come se il nazismo, osserva Geneviève Decrop, avesse distrutto “la relazione tra la parola e la cosa”. Ma è proprio così, aggiunge, che il Terzo Reich “escamote”51, cioè elude e dissolve l’anormalità e la straordinarietà dell’offesa, cioè organizzando lo straordinario, il genocidio, attraverso i limiti del linguaggio ordinario, la normalità delle esperienze umane, banalizzando il male. Da qui l’incomunicabilità del vero e, per converso, il fatto del doversi accontentare solo del veridico, cioè di quanto il nostro linguaggio riesce a dire dell’estrema esperienza vissuta, dell’offesa. Anche da questo punto di vista, dunque, è giusto ritenere, con Thanassekos, che l’indicibilità dell’esperienza concentrazionaria non deriva esclusivamente dal contenuto di questa esperienza estrema, ma dall’incapacità del normale linguaggio ad esprimerla. E poiché, in ultima analisi, i racconti e le testimonianze dei sopravvissuti – che rientrano, secondo Thanassekos, nella “sfera del non-evenemenziale”, cioè nell’ambito della percezione che essi hanno della loro esperienza vissuta – costituiscono una delle fonti per l’esame critico di questo singolare avvenimento storico, la differenza tra il vero e il veridico finisce con il rappresentare uno dei diversi problemi metodologici che lo storico deve affrontare52. 51 Cfr. G. Decrop, La politique, l’histoire et la mémorie autour d’Auschwitz, in “Bulletin trimestral de la Fondation Auschwitz”, Actes I, cit., pp. 41, 45. 52 Su ciò si veda l’interessante contributo di Yannis Thanassekos, Positivisme historique et travail de mémoire. Les récits et les témoignages des survivants comme source historique, in “Bulletin trimestral de la Fondation Auschwitz”, Actes I, cit., pp. 19-37, in part. p. 27.
I sogni contrari al desiderio281
Fino al 1941, sostiene a tal riguardo Bauman, l’omicidio di massa, quello che verrà pianificato nel gennaio del 1942 alla Conferenza di Wannsee, era inimmaginabile e innominabile perché “niente di quanto [le persone di allora] avevano conosciuto in precedenza le [ha] preparate a credere” (Baum 127). Alla base di queste conclusioni dello studioso, come si può intuire, c’è l’identità hegeliana tra reale e razionale. Può essere pensabile o immaginabile solo ciò che è già a nostra conoscenza. In questo ragionamento si inserisce anche quello che Derrida svolge a partire dalla domanda gnoseologica “che cos’è?”53. È e può essere solo ciò che è già presente tra tutte le cose o le nozioni di cose, tra tutto ciò che è già a nostra disposizione nella memoria di tutte le cose da noi conosciute. Tutto ciò che non vi rientra, o che non è ad esse in qualche modo riconducibile, semplicemente non è, perché non può essere, in quanto non può essere immaginato. È per questo motivo che l’omicidio di massa rimase incomprensibile e quindi incredibile. Ora, pur avendone già fatto esperienza e pur costituendo ormai un fatto realmente storico, un “che cosa” tra gli innumerevoli altri, a distanza di quasi un secolo dall’affermazione del nazionalsocialismo in Germania, per le nostre società opulente, ammonisce Bauman, quell’evento “è di nuovo inimmaginabile”. E ciò nonostante la crescente eterofobia determinata dalle recenti ondate migratorie. Il che vuol dire, sottolinea Bauman sulla scorta delle analisi di Hilberg, che la possibilità dell’Olocausto non è affatto superata (Baum 126). Infatti, aggiunge, “potremmo essere ancora una volta impreparati a cogliere e a decodificare i segnali di avvertimento, nel caso in cui essi fossero, ora come allora, manifestamente intorno a noi” (Baum 128). Quello che oggi ci deve ancora preoccupare, dice insomma Bauman, è il fatto che i processi mentali che allora hanno reso possibile l’Olocausto non solo erano compatibili con la civiltà moderna, ma sono stati da essa condizionati e suscitati, rendendoli così incapaci di prevenire e di evitare quel massacro di massa (Baum 130). E questo può accadere ancora oggi. Sicché, dice il sociologo polacco, “Non è l’Olocausto ciò che troviamo difficile da comprendere in tutta la sua mostruosità. È la civiltà occidentale che l’Olocausto ha reso pressoché incomprensibile” (Baum 126). Cioè, non solo, la civiltà occidentale ha prodotto qualcosa come l’Olocausto che, a causa dell’inadeguatezza delle sue categorie logiche, le rimaneva incomprensibile, ma l’Olocausto stesso 53 J. Derrida, Politica dell’amicizia, in “aut-aut”, 242, 1991.
282
Il negativo e l’attesa
ha reso la cultura della civiltà occidentale pressoché incomprensibile a sé stessa per il fatto di averlo determinato. Il linguaggio delle immagini potrebbe allora esprimere meglio l’indicibile, come crede alla fine Levi? Wiesel è scettico su ciò, specialmente nei confronti delle opere cinematografiche, nelle quali ravvisa il rischio della spettacolarizzazione e della banalizzazione54. In film come La scelta di Sophie (1982) di Pakula (tratto dal romanzo di William Styron) o Il portiere di notte della Cavani55 (1974), ad esempio, scrive Wiesel, tutto diventa “superficiale, banale e volgare, persino la morte”56. I rapporti vittima-carnefice, ci dice un’altra testimone, non corrispondono al vero57. Sarebbe invece molto meglio, secondo Wiesel, guardare documentari come Notte e nebbia di Alain Resnais e come Shoah di Claude Lanzmann58, in cui parlano i 54 Anche Bensoussan è scettico rispetto alla funzione commemorativa assunta dai film sulla Shoah. Scrive: “Per decenni, con la pretesa di ‘mostrare’ la guerra, il cinema ha contribuito a edulcorarla. Poiché l’immagine non è un reportage crudo sulla violenza della guerra e la realtà della carneficina, la cui visione impedisce ogni forma di idealizzazione. La celebrazione e la commemorazione, paradossalmente, hanno reso più facile l’oblio dell’orrore e delle atrocità dei combattimenti. Per questo i contemporanei sono rimasti senza parole di fronte alle prime informazioni che ricevevano sulla Shoah” (Ben 76). 55 Todorov annovera la Cavani tra i “cineasti confusi e perversi” (Tod1 154). 56 Anche Marcello Pezzetti a tal riguardo sottolinea i limiti del cinema: “tranne alcune eccezioni”, dice [come ad esempio lo stesso Schindler’s List di Spielberg], “nella gran parte dei casi in cui sia stata tentata una rappresentazione dello sterminio, i risultati si sono rivelati così deludenti da indurre alcuni studiosi a parlare, in relazione a essi, di ‘pornografia’”. Anche lui, come Wiesel, indica Shoah di Lanzmann come “il primo e probabilmente impareggiabile film sulla memoria, piuttosto che sulla storia della Shoà” (Immagini e memoria della Shoà, in Educare dopo Auschwitz, cit, p. 100). 57 A. Cherchi, La parola Libertà. Ricordando Ravensbrück, cit., p. 6: “Se tutto il mare di questa terra fosse inchiostro, e tutto il cielo dell’universo fosse un foglio, penso che non sarebbe sufficiente per descrivere a fondo tutta la malvagità e i delitti più atroci di cui si sono macchiati [i nazisti]”. Una frase simile la ritroviamo ribadita anche in Yaakov Silberberg, uno dei testimoni intervistati da Gideon Greif: “Se tutti gli alberi del mondo diventassero penne e tutti gli oceani si trasformassero in fiumi di inchiostro, non si potrebbe scrivere e pienamente documentare quello che è successo con l’Olocausto” (We Wept Without Tears, Yale University Press, New Haven e London, 2005, pp. 311, 321, 334). 58 Ha perfettamente ragione Todorov quando scrive che l’opera di Lanzmann, “facendoci rivedere gli stessi volti tesi, gli stessi paesaggi, gli stessi treni […] ci costringe a partecipare – sia pure in maniera evidentemente attenuata – all’angoscia degli antichi viaggiatori. […] Più che farci capire l’orrore,
I sogni contrari al desiderio283
veri testimoni dell’Olocausto. “Ascoltate i superstiti”, intima infatti, “e rispettate la loro sensibilità ferita. Apritevi alla loro memoria sfregiata dalle cicatrici e mescolate le vostre lacrime alle loro. E smettetela di insultare i morti”59. Anche Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller (1975), secondo Bruno Bettelheim, non solo banalizza il male, ma lascia passare un messaggio discutibile, secondo cui “quello che conta è la sopravvivenza, non importa come, perché, a quale scopo”; una lezione discutibile, dunque, secondo la quale “per sopravvivere […] l’unica cosa che conta è la vita nella sua forma più cruda, puramente biologica” (Bet 202-206)60. È pro[…] cerca di farlo rivivere” (Tod1 262, 266). Siamo d’altronde perfettamente d’accordo con Claudio Vercelli a proposito del film Shoah di Claude Lanzmann (scomparso il 5 luglio 2018) e della sua capacità di interpellare e scuotere lo spettatore. Noi abbiamo visto la pellicola nel 1990, cinque anni dopo la sua uscita nelle sale. Delle quasi dieci ore della sua durata, una scena in particolare ha segnato la nostra coscienza, già turbata dalle parole di Levi, Wiesel e Améry. L’ha segnata in profondità. Inspiegabilmente. È quella in cui un contadino polacco che, da terra, simulando con il pollice il taglio della gola, avverte i deportati della loro destinazione, visto che viaggiano stipati su un treno diretto verso uno dei campi di sterminio. A quel “gesto sul collo” fa cenno Salmen Gradowski nel suo taccuino: “C’erano due giovani cristiane, là sul fondo, che osservavano i finestrini e che fecero un gesto sul collo, a significare un bagno di sangue” (cfr. La voce dei sommersi, cit., p. 42 e la nota 9 nella quale viene riportata anche la testimonianza di Richard Glazer, deportato a Treblinka). Quel semplice gesto ci ha sconvolti perché ci ha incomprensibilmente coinvolti: ci ha, cioè, subito fatto pensare che il destino che ora si abbatteva su quei poveri ebrei, sarebbe potuto toccare anche a noi, e che su quel carro bestiame avremmo potuto esserci anche noi, pur non essendo né ebrei né vissuti in quel tempo. Quel gesto ci ha non soltanto costretti ad immedesimarci nel tragico destino di quegli innocenti condannati al macello, ma ha acceso in noi, sempre in modo oscuro, anche il senso della corresponsabilità in quello sterminio. A questo genere di “corresponsabilità” allude anche Thanassekos quando parla di “autocritica” a proposito della “strategia auto-riflessiva” per la comprensione dell’evento-Auschwitz (cfr. L’evento-Auschwitz nella coscienza della modernità, in Educare dopo Auschwitz, cit., p. 43). Una corresponsabilità che, specie dopo la citata lezione di Adorno – “Nessuna parola risuonante dall’alto, neppure teologica, ha un suo diritto d’essere immodificata dopo Auschwitz” – si può rintracciare, diceva Imre Kertész, in buona parte della cultura europea, anche fra le figure più insospettabili. Una corresponsabilità che il nostro presente, purtroppo, con i suoi nostalgici sovranismi nazionali, conferma ogni giorno di più. 59 E. Wiesel, L’Olocausto profanato, in cit. 60 Per la sensibilità e per la delicatezza, invece, ci sembra si differenzi dai tre film sopra citati La vita è bella di Roberto Benigni e Vincenzo Cerami (1997).
284
Il negativo e l’attesa
prio per questo motivo, infatti, cioè per poter far leva sull’istinto di conservazione, sostiene Bauman, che, ovunque fu possibile, “i nazisti cercarono di evitare la deportazione totale” e preferirono “eseguire l’operazione per gradi” (Baum 194). Essi sfruttarono “la logica dell’autoconservazione come assoluzione dall’accusa di insensibilità morale e di nazione”. Anche se, conclude Bauman – e in ciò egli, come Bettelheim, scorge una lezione dell’Olocausto – “non è affatto scontato o inevitabile porre l’autoconservazione al di sopra del dovere morale” (Baum 278, 280). È certo “significativo”, dice dal suo canto Hilberg, “il fatto che gli Ebrei si siano lasciati uccidere senza resistenza”, come lo è il fatto che “le esecuzioni non costarono una sola vittima agli uomini delle unità di massacro”. La scelta che gli ebrei fecero di rimanere al loro posto, secondo lo studioso, dipese da una serie di fattori. Innanzitutto dal fatto che, sia in Polonia che nell’Unione Sovietica e nei Paesi baltici, credevano che “il male provenisse dalla Russia, e il bene dalla Germania”. In secondo luogo dal fatto che gli ebrei polacchi e russi non vennero informati dalla stampa e dalla radio sovietica su quello che i tedeschi stavano compiendo in Germania. In terzo luogo dall’“ingenuità” degli stessi ebrei, che cadevano spesso nelle trappole preparate dai tedeschi, e dalla stessa paura Questo non ha nulla a che fare nemmeno con La tregua di Francesco Rosi (1998), poiché – siamo d’accordo con Goffredo Fofi – fabbricato “secondo criteri pesantissimamente riduttivi e didascalici, secondo una visione fabbricata sui luoghi comuni e sugli opportunismi di oggi”. Nessun confronto pure con 18.000 giorni fa di Maurizio Donadoni (1993), sebbene questa pellicola riesca a mettere bene in luce la differenza tra le condizioni del Lager polacco di Treblinka e il campo di prigionieri che sorgeva a Ferramonti, in Calabria. C’è tuttavia forse una certa analogia con Jona che visse nella pancia della balena di Roberto Faenza (1993), ma, benché il punto di vista sia quello di un bambino, manca in esso la dimensione poetica che caratterizza il film di Benigni. Nessun paragone nemmeno con Schindler’s List di Steven Spielberg (1994), film che, secondo Ferruccio Maruffi, resta poco credibile, mentre per Liana Millu ha almeno il pregio di farci riflettere sul fatto che “nella profondità dell’animo umano vi sono anfratti così nascosti, così imprevedibili che illuminarli può risultare illusorio. Ma ci sono. Sapere che ci sono e che da essi può scattare qualcosa che rimescola e muta tutta una superficie umana, è consolante” (L. Millu, Io, ebrea numero ‘5384 A’ e il film di Spielberg, in “Il Secolo XIX”, 1994). Infine, non c’è nessuna analogia con Kapò di Gillo Pontecorvo (1959), perché in effetti, malgrado la straziante scena della selezione, sembra fare “larghe concessioni al patetico e al romanzesco” (Enciclopedia dello spettacolo, Garzanti, Milano 1986).
I sogni contrari al desiderio285
della morte che li paralizzava e che impedì loro di “trarre profitto dalla loro superiorità numerica” (Hil 326-331). Le terribili immagini della liberazione dei Lager che ci sono pervenute attraverso i documenti cinematografici – compreso quello, davvero sconvolgente, di Bergen Belsen61, immagini che Sidney Bernstein (responsabile delle riprese filmate delle truppe alleate inglesi) realizzò con il supporto di Alfred Hitchcock – non sono e non possono essere, dice Welzer sulla scorta di Günther Anders e di James Young, che poetizzazioni, ricostruzioni o rappresentazioni finzionali dell’effettiva realtà dei Lager. “Lo stato del Lager”, così come abbiamo potuto vederlo attraverso le immagini dei documentari storici, scrive infatti Welzer, “era [solo] una conseguenza [un effetto] degli esiti degli ultimi mesi di guerra”. Ciò significa che quelle immagini non svelavano (aufdecken) ma coprivano (verdecken) la realtà del Lager, coprivano cioè la normale e diuturna attività distruttiva, destrutturante e annientatrice che si svolgeva quotidianamente all’interno di essi, un’attività di umana disumanizzazione (Entmenschlichung). Le immagini delle cataste di corpi senza vita, osserva inoltre lo studioso, ci consentono solo di prendere atto del risultato dei massacri, “ma non del massacratore in actu, non delle vittime in actu”. Ecco perché, segnalando ancora una volta il fatto che la realtà di quell’orrore metteva in crisi la capacità comprensiva delle nostre categorie logiche, quel limite iconografico conduce un testimone come Wiesel ad affermare che “il passato appartiene [e non può che appartenere] ai morti, e che i sopravvissuti non si riconoscono nelle immagini e nelle idee che li riguardano” (Wel1 45-47). Se, dunque, come dice Wiesel, rappresentare è banalizzare, e, come sostiene Améry, cercare di capire non vuol dire comprendere, ancora più radicalmente per Levi “comprendere è quasi giustificare”, perché “‘comprendere’ una proposta o un certo comportamento umano significa ‘contenerlo’, contenere l’autore, mettersi al suo po61 Ad alcune immagini particolarmente toccanti della liberazione del campo di Bergen Belsen abbiamo associato l’“Et in terra pax hominibus bonae voluntatis”, ossia il secondo movimento del Gloria di Antonio Vivaldi (17161717), rivelatosi all’ascolto uno dei commenti più adeguati per quelle immagini terrificanti. Su ciò si veda il nostro contributo Et in terra pax. Osservazioni sul Gloria (RV 589) di Antonio Vivaldi, in “Nuova Rivista Musicale Italiana”, N. 1 gennaio-marzo 2012.
286
Il negativo e l’attesa
sto, identificarsi con lui. Ma nessun essere umano normale sarà mai in grado di identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri” (SE 130). Tuttavia, osserva Todorov, l’uomo non può prescindere dal comprendere, dal momento che non si accontenta di punire i colpevoli, ma “si sforza anche di scoprire il perché il crimine è stato commesso, e di agire sulle sue cause per prevenire altri crimini analoghi” (Tod2 151). Certo, “capire il male”, secondo Todorov, “non significa” solo, come diceva Levi, “giustificarlo”, ma significa “darsi i mezzi per impedirne il ritorno, come ribadiva anche Liana Millu. Ma, proprio quando intende distinguere il giudicare dal capire e quando scrive che “capire significa riconoscere la nostra comune appartenenza alla stessa umanità”, Todorov dà pienamente ragione a Levi. Infatti, il momento di capire presuppone quello del riconoscere, e questo porta alla comprensione. Non possiamo capire nulla, in effetti, se non, come diceva Derrida, presupponiamo in noi qualcosa a cui possiamo ragguagliarlo. E se quanto dobbiamo capire – in questo caso la specificità del male compiuto dai nazisti – è potenzialmente già in noi in vista di un riconoscimento comprensivo, allora ciò vuol dire che quel male è comprensibile e quindi giustificabile, in quanto rientrante nelle possibilità umane. Le obiezioni sollevate da Wiesel in merito ai rischi della banalizzazione del male evocano tra l’altro alcuni dei paradossi, dei ragionamenti nichilistici di Gorgia. Infatti, ammesso che l’essere (di Auschwitz) possa venire pensato, non può comunque venire comunicato con la parola, perché si corre il rischio che venga “tradito”; e ammesso che l’esperienza di Auschwitz possa venire rappresentata, ciò non deve, secondo Wiesel, esser fatto nelle modalità mediatiche e spettacolarizzanti, perché danno adito non solo alla banalizzazione, ma anche al revisionismo negazionista. “Oggi”, diceva infatti Wiesel in quell’articolo dell’‘89, nel quale citava tra l’altro anche la tragica fine di Levi, “il problema non è che cosa trasmettere, ma come”. Insomma, “Su ciò, di cui non si può parlare si deve tacere” sembra voler dire Wiesel, per ricordare la celebre conclusione del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein62. 62 Todorov mette in guardia inoltre sulle conseguenze della sacralizzazione del passato, poiché anziché aiutare nella comprensione del presente, esso fa da “schermo al presente […] e diventa una scusa per l’inazione” (Tod2 197). Su questo rischio di sacralizzazione dell’evento Auschwitz anche Geneviève
I sogni contrari al desiderio287
Comunque sia, sembra che di fronte all’ineffabilità dell’esperienza concentrazionaria Wiesel sia come Socrate o come alcuni personaggi dei Dialoghi platonici dinanzi all’hestía o al problema dell’esplicitazione dell’essenza dell’idea. Nello stesso modo in cui gli interlocutori greci, disquisendo intorno all’essenza, devono accontentarsi di un sapere solo superficiale quando ne propongono qualche definizione, così, dice il testimone, “coloro che pretendono di trovare in questa o in quell’altra cosa la risposta all’olocausto” devono accontentarsi di ben poco. È per questo che “ai discorsi dei dotti e alle teorie dei filosofi” il superstite preferisce “le pietre austere e semplici di Treblinka”, perché “sulla bocca del filosofo questi interrogativi sanno spesso di falso”63. Malgrado ciò, sia nel dialogante greco (specialmente in Carmide e in Lachete, come pure nello stesso Socrate) sia nell’ex deportato transilvano (ma anche in Levi), si può riscontrare lo stesso travaglio interiore, la stessa ricerca di un modo adeguato a cogliere una corrispondenza sempre più attinente tra parola ed evento; si può scorgere un analogo senso del dovere nel tentare di esplicitare compiutamente il pensiero, il ricordo, l’esperienza vissuta; si può notare infine il medesimo stupore nel vedere vanificare ogni loro sforzo. “Il superstite ha voglia di gridare, ma il grido si trasforma in mormorio”, dice Wiesel, e ciò perché durante i giorni dell’inferno nazista “cose e parole avevano perso il loro significato, il loro asse”64. In Lachete talvolta quella ineffabilità si traduce addirittura in “collera di non essere capace di esprimere proprio quanto h(a) in testa”. “Mi sembra”, dice infatti a proposito dell’idea del coraggio, “d’avere l’idea chiara di cos’è il coraggio, e non so Decrop. Alcune delle difficoltà che gli storici in questo caso specifico debbono affrontare, dice la studiosa, derivano anche dal fatto di essere “prigionieri” di “imperativi etici”, come il “Mai più!”, imperativi che contrastano con “i bisogni della ricerca”. Anche la conoscenza in questo modo si somma alle difficoltà create dall’indicibilità di quell’evento. Sicché, se, come ammoniva Wiesel, dire l’indicibile significa “commettere un sacrilegio”, allora, dice la Decrop, “tentare di comprendere sarebbe ad un tempo giustificare (se non addirittura perdonare), e ricondurre al banale ciò che deve rimanere sempre un male assoluto e non-senso radicale” (G. Decrop, La politique, l’histoire et la mémorie autour d’Auschwitz, in cit., Actes I, cit., pp. 43-44). 63 E. Wiesel, Paroles d’etranger (1982), tr. it. di O. Miani, Parole di straniero, Spirali Ed., Milano 1986, pp. 182, 7, 21, 65. 64 Ivi, pp. 9, 180.
288
Il negativo e l’attesa
come mi sia sfuggita via sì da non poterla afferrare con le parole e dire che cos’è” (Lachete, 194 b). La stessa difficoltà si profila anche nel Carmide in relazione alla saggezza, laddove, rispondendo a Socrate, Carmide dice perplesso: “Ma per Giove, o Socrate, non lo so se sono saggio o no. Ecco, come potrei sapere una cosa che anche voi non siete capaci di provare cos’è, come tu dici?” (Carmide, XXIV, 176 a)65. L’aporia, l’esperienza dell’incomunicabilità e della pietrificazione delle parole che i sopravvissuti provano davanti all’evento Auschwitz, è dunque la medesima di quella che vivono Socrate e i suoi interlocutori dinanzi all’idea-Medusa. L’evento eccede sempre il singolo fatto riportato dal testimone66; eccede la verità, perché rende inconciliabile la realtà del Lager con la razionalità della mente; e soprattutto, come si è visto, eccede il linguaggio e le sue capacità comunicative. Eppure, nonostante questa concordanza tra l’interlocutore greco e il testimone della Shoah, c’è qualcosa che li differenzia nettamente: mentre da una parte, infatti, il primo, anche sotto la spinta di Socrate, è stimolato a resistere e ad affrontare con maggiore impegno l’impresa, dall’altra parte vediamo che dalle parole del superstite emerge, chiaro, un profondo pessimismo, un dolore, una sofferenza che l’altro non poteva nemmeno immaginare. In altri termini: mentre fra i greci antichi si respira un certo ottimismo, un desiderio di voler continuare a parlare pur sapendo di non poter mai dire l’essenziale, in Wiesel e in altri sopravvissuti, come ad esempio Améry67, nonostante tutte 65 Platone, Opere complete, Laterza, Bari 1977. 66 Interessante a tal proposito la seguente analisi di Francesco Traniello: “L’evento è qualcosa che va oltre la verità perché non è esprimibile soltanto, non è riducibile a termini logico-razionali. L’evento è qualcosa che, da un certo punto di vista, non è perfettamente commensurabile. È qualcosa che non si identifica con l’idea di verità, almeno nel modo razionalistico con cui noi siamo portati a concepire la verità. Infatti il testimone dei processi in generale non è interrogato perché dia testimonianza di un evento, ma di un fatto. Ci troviamo di fronte a tre realtà che andrebbero, forse, tenute distinte: l’evento, il fatto, e la verità” (PP 103; SV 361-362). In PP il testo è riportato da Federico Cereja, La testimonianza di Primo Levi come documento di storia, il quale rimanda all’intervento di Traniello in SV. 67 Ecco cosa scrive Améry in Intellettuale a Auschwitz: “Non sia impedito agli altri di immedesimarsi. Riflettano su un destino che ieri avrebbe potuto e domani potrà essere il loro. I loro sforzi spirituali godranno del nostro rispetto, ma sarà rispetto minato da scetticismo, e nel corso del dialogo ben
I sogni contrari al desiderio289
le loro preziosissime testimonianze, e in certuni anche attraverso i loro gesti estremi (“La morte di Primo Levi” dice Lucrezi “va letta come la sua ultima, definitiva parola”68), si avverte in genere un desiderio di silenzio. Silenzio che se da un lato essi temono, come se si trattasse di una possibile vittoria dei carnefici, dall’altro ritengono che sia forse l’unica forma in cui la loro esperienza potrebbe essere espressa coerentemente. Non si è mai parlato, scritto e pubblicato così tanto, dice infatti sconsolato Wiesel69, facendo eco a quanto sosteneva lo stesso Levi a proposito delle troppe pagine documentarie. Occorrerebbe forse fare un po’ meno “rumore” intorno all’esperienza concentrazionaria. Infine, sempre con le parole di Wiesel, vorremmo ritornare sull’analogia tra l’hestía, cioè il nucleo intrasmissibile dell’idea platonica, e Auschwitz. Ebbene, come Hestia era la dea che nell’antica Grecia veniva inneggiata sia all’inizio che alla fine di ogni cerimonia religiosa, e come hestía era il focolare (privato o pubblico) attorno a cui, nel rito delle Anfidromie e delle Peristie, si doveva girare per purificare, ovvero per sancire il radicamento di un neonato o di tutto un popolo all’oikos di appartenenza, così “il regno della notte”, dice Wiesel, è l’inizio e la fine, nel senso che “tutte le strade della terra, tutti i richiami degli uomini terminano in questo luogo abitato dai fantasmi e senza possibile paragone”70. Tutto ciò che precedeva Auschwitz è finito ad Auschwitz, e tutto di nuovo non può incominciare che con Auschwitz. Tutte le strade, vecchie e nuove, portano verso quel luogo. È inevitabile non scontrarsi con le tenebre, anche se si parte dal sublime presto ammutoliremo e tra noi e noi diremo: coraggio, brava gente, datevi da fare quanto volete, ma discorrerete sempre come un cieco può discorrere del colore” (Ame1 151). 68 F. Lucrezi, La parola di Hurbinek. Morte di Primo Levi, Giuntina, Firenze 2005, cit., p. 80. 69 E. Wiesel, Signes d’exode, tr. it. di D. Vogelmann, Credere o non credere, Giuntina, Firenze, 1986, pp. 14-15. Sull’inflazione della storiografia concentrazionaria e sul fallimento delle politiche della memoria, come pure sulla fibrillazione delle iniziative celebrative intorno al Giorno della memoria, compresi i viaggi della memoria, insistono alcuni studiosi: Elena Loewenthal, Contro il giorno della memoria, add editore, Torino 2014; Valentina Pisanty, I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani, Milano 2020; Alberto Cavaglion, Decontaminare le memorie, cit. 70 E. Wiesel, Parole di straniero, cit., p. 15.
290
Il negativo e l’attesa
Platone o dall’“innocente” Giobbe. Il passato, il presente e il futuro devono e non possono non fare i conti con esso, dinanzi al quale tutto quanto rivela il suo vero volto, nello stesso senso in cui anche le idee di Teeteto possono rivelare la loro veridicità solo dopo la prova dell’anfidrómia, il confronto e la discussione con altri studiosi. I carnefici hanno quindi fatto male i loro calcoli infernali. Ogni volta che si affronta un qualsiasi argomento si finisce inevitabilmente con il confrontarsi e con il dover fare i conti con quello sconvolgimento. In tal senso ha ragione Wiesel quando dice che “Dopo Auschwitz, tutto ci riporta a Auschwitz”71. Anche Welzer, peraltro, sulla scorta della riflessione della Arendt e delle teorie di altri studiosi, sostiene che l’esperienza traumatica vissuta in Lager non può essere compresa nella sua autentica insensatezza, giacché, per acquistare senso e quindi per diventare comunicabile, essa dovrebbe venire inserita all’interno di una forma logica sensata, cioè in una struttura ordinata quale è quella del discorso (Wel1 124). E ciò vale sia per le scienze sociali, per quelle psicologiche e anche per quelle filosofiche. Da una parte, ad esempio, nonostante l’empatia ricercata nel rapporto medico-paziente, la distanza tra essi resta incolmabile. Un’incolmabilità che finisce per diventare un vero e proprio limite insuperabile quando si tratta, appunto, della realtà vissuta da un superstite dei campi di concentramento. Analogamente, dall’altra, la formazione filosofica, nel caso di Améry, non consente allo spirito di creare una relazione con la realtà del Lager, perché questa, dice Welzer, è Kulturell nicht encodierbar, “culturalmente non codificabile” (Wel1 131). La ripetizione di alcuni versi di una poesia di Hölderlin72 ad Améry, ad esempio, non fa lo stesso effetto “trascendente” o estraniante che a Levi fa la ripetizione dei versi del XXVI Canto della Commedia di Dante. “Nichts. Das Gedichte transzendierte die Wirklichkeit nicht mehr” (“Non accadde nulla. La poesia non trascen71 Ivi, p. 12 cn. Senza le aggiunte e le modifiche qui apportate, quest’ultimo paragrafo era apparso a conclusione del nostro scritto Hestia-Amphidrómia o del sublime in Platone, in Aporia, Ivrea 2004. 72 La poesia è Hälfte des Lebens (Metà della vita), del dicembre 1803. Améry riporta gli ultimi tre versi della seconda delle due sestine: Die Mauern stehn / Sprachlos und kalt, im Winde / Klirren die Fahnen (Le mura si levano mute / E fredde, nel vento stridono le banderuole: preferiamo riportare ancora la traduzione di G. Vigolo, cfr. Friedrich Hölderlin, Poesie, cit.) (Ame1 37).
I sogni contrari al desiderio291
deva più la realtà”), conferma il filosofo. Nella sua esperienza concentrazionaria, dunque, non solo la poesia perdeva la sua capacità trascendente, ma il linguaggio stesso della filosofia non riusciva più ad esprimere quella realtà, come se, per dirla con Lyotard, si fosse generato un anti-hegelismo, un dissidio inconciliabile tra il linguaggio della cultura tradizionale e quella nuova terribile realtà. In tal modo non soltanto veniva a mancare la lingua per poter esprimere quell’offesa, ma anche la possibilità che qualcun altro potesse comprendere la traumatica esperienza del deportato. Ma, dice Welzer, mentre Améry “cerca di comunicare l’impotenza delle categorie e con essa anche la rottura tra la realtà del mondo normale (gewöhnlichen Welt) e quella del Lager”; mentre cioè il superstite vuole dirci che l’esperienza da lui vissuta non è realmente comunicabile a coloro che non l’hanno vissuta (dem Unbeteiligten), esiste anche, secondo Welzer, “un secondo esempio letterario nel quale l’orrore del Lager non solo resta inaccessibile all’esperienza di coloro che vivono al di fuori di esso (Aussenstehenden), ma può persino essere sottratto alla stessa vittima” (Wel1 124). È il caso sia di Tadeusz Borowski sia di Imre Kertész. Quest’ultimo, in particolare, nel suo romanzo Essere senza destino73, dice Welzer, per sottolineare il fatto che non può esserci alcun dialogo tra uno che ha fatto l’esperienza concentrazionaria e uno che non l’ha fatto, ricorre a un artificio letterario (Kunstgriff). Per poter comprendere quanto ascolta, l’ascoltatore deve necessariamente inserirlo in un ordine logico che nulla ha a che fare con quello imposto dai nazisti nel Lager, cioè con quello accettato come naturale da Gyurka, dal giovane protagonista del romanzo. Sicché, a causa di questo dissidio logico-categoriale, l’ascoltatore si troverà paradossalmente a vivere quel medesimo stato di felice innocenza (glücklichen Unschuld) che caratterizza il giovane Gyurka. Egli è, precisa Welzer, proprio come quel bambino, perché “nulla sa delle possibilità di quell’altro mondo”, del mondo da cui “il raccontatore proviene, e questo, il giovane quindicenne”, nulla sa delle possibilità del mondo dell’ascoltatore, poiché egli è cresciuto in Lager e “sa di appartenere ancora ad esso” (Wel1 138).
73 I. Kertész, Roman einens Schicksallosen (1975), tr. it. di B. Griffini, Essere senza destino, Feltrinelli, Milano 2003, cap. 9.
CAPITOLO QUINTO LA MATERIA E IL MALE
è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo. (P. Levi, SE 152) una delle fosse era straripata. Ci avevano messo troppi cadaveri, e la putrefazione si era prodotta troppo rapidamente, per cui il liquido aveva portato a galla i corpi, gli aveva fatto superare l’orlo della fossa, ed erano rotolati giù per la collina. (Franz Stangl a Belzec)1 La riduzione dell’uomo a “materiale” […] è il più grande trionfo [del potere assoluto nazista]. (W. Sofsky, Die Ordnung des Terrors, cit., p. 319)
1. Dalla ri-velazione alla rivelazione Un cadavere ci sta dinanzi. È lì, sul letto. Il corpo è ancora intatto. Nulla, oltre alla sua prolungata immobilità, ci fa pensare che sia già deceduto. Anzi, a una persona che non sappia ancora del suo decesso, può sembrare che dorma. Gli occhi sono socchiusi, anche la bocca è socchiusa, e le dita si intrecciano sul ventre appena rigonfio. Ma oltre alla prolungata immobilità, ciò che sconvolge è soprattutto il silenzio. Siamo dinanzi a un evento unheimlich, strano. La presenza del corpo e la sua postura ci sono bensì heimisch, familia1
Cfr. G. Sereny, Into the Darkness (1974), tr. it. di A. Bianchi, In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1994, pp. 149-150. Bensoussan cita a tal proposito le parole di un frate fiorentino del XVI secolo che sembrano preannunciare quello straripamento di sangue e di liquido umano: “Ci sarà spargimento di sangue. Il sangue scorrerà lungo le strade e i fiumi: le persone navigheranno in mezzo al sangue, in laghi di sangue, in fiumi di sangue” (Ben 351).
294
Il negativo e l’attesa
ri, ma l’eccessiva immobilità e il silenzio ce le rendono nello stesso tempo unheimlich, non familiari, strane e pertanto inquietanti. Ne Il perturbante, fra le tante voci enciclopediche riportate da Freud per chiarire quell’ambiguità v’è quella, alla quale il senso da noi conferito al termine unheimlich si avvicina maggiormente: “Strano e immoto come un’immagine di pietra”2. L’essere che è sistemato su quel letto è solo l’immagine materiale dell’uomo: non è più animato e parlante. Così come appare, sembra che da un momento all’altro debba muoversi o emettere qualche suono. E invece no. Continua a restare immobile e silente. Gli occhi sembra che ci scrutino, che ci guardino serenamente in tralice, poiché così come sono, come noi li vediamo, pare che continuino a svolgere la loro funzione visiva. Inconsciamente desideriamo che quel corpo viva, che non sia semplice materia inespressiva, ma che sia ancora pervaso da un afflato vitale. Nella nostra esperienza comune, peraltro, noi non vediamo, non tocchiamo, non ascoltiamo e non ci relazioniamo con semplici corpi, con la materia grezza e strutturata in una certa maniera, ma percepiamo sempre cose che riconosciamo innanzitutto come qualcosa o qualcuno. È quanto si apprende da una delle parti più interessanti dell’analitica esistenziale di Heidegger3. Noi non ci rapportiamo con cose ma con utilizzabili, non entriamo in contatto con semplici e neutri corpi, ma con esseri che riconosciamo come umani e di cui ci prendiamo ontologicamente cura. Eppure, benché la nostra comprensione sia sempre precompresa o interpretata a priori, benché essa sia trascendentalmente o storicamente ineludibile e quindi temporalmente e spazialmente determinata, l’Unheimlichkeit, l’inquietante non familiarità della morte sembra riportare inspiegabilmente e perciò dolorosamente alla luce l’irresolubile enigma dell’unione di anima e corpo. L’evento unheimlich della morte sembra infatti suscitare una temporanea interdizione del rapporto trascendentale comprensione-precomprensione e sensibilità-concetto. Il cadavere che abbiamo dinanzi è riconoscibile certamente ancora come uomo, ma un uomo che è ormai solo 2 3
S. Freud, Il perturbante (1919), in Totem e tabù ed altri saggi di antropologia, Newton Compton Italiana, Roma 1974, p. 295. M. Heidegger. Sein und Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 19763, parr. 31-32.
La materia e il male295
materia. I tratti somatici, l’espressione del volto, il suo nome, i suoi ricordi sono sempre quelli di un essere, ma di un essere che non è più, di un uomo che non è più uomo vivente, ma solo immagine pietrificata di sé. La freddezza di quel corpo immobile e rigido, nonché l’inquietante mancanza della parola, provocano uno strano sgomento, del quale il nostro inconscio, convinto com’è della propria immortalità4, non esita a liberarsi. È lo sgomento di rivelarsi, di ri-velare un segreto che l’inconscio porta intatto in sé, ma che in occasioni come questa tende a svelarsi, anche se in modo dissimulato. In relazione a questo segreto, la circostanza funebre svolge per così dire la funzione che il sogno, il lapsus o il motto di spirito svolgono rispetto all’inconscio. Qual è questo segreto di cui l’inconscio si prende cura di celare e che, sebbene dissimulato, emerge dalla situazione luttuosa? Secondo Schelling, scrive Freud a questo proposito, “è unheimlich tutto ciò che doveva rimanere segreto ma che è venuto alla luce”5. Il cadavere è essenzialmente un-heimisch, ossia qualcosa di familiare che ci si dà nel contempo in modo strano e inquietante (unheimlich). “Il prefisso ‘un’”, precisa Freud, “è emblematico della rimozione”6. Ma che cos’è ciò su cui si esercita la rimozione, “ciò che doveva rimanere segreto” (heimlich)? È la materia umana. Questo è il segreto che l’inconscio non vuole rivelare e che, come precomprensione, presenta sempre mediante la struttura dell’in quanto. In generale ci è familiare la materia delle cose; non però la nostra. È con questa stranezza, con questa ambiguità che osserviamo un 4
5 6
Su ciò cfr. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915), in Psicoanalisi e società, Newton Compton Editori, 1970 Roma: “Come si comporta l’inconscio nei confronti della morte? Esattamente come l’uomo primitivo. Per questo aspetto, come per molti altri, esso sopravvive tutto intero nel nostro inconscio. Come l’uomo primitivo, il nostro inconscio non crede alla possibilità della propria morte e si considera immortale. […] Invece l’angoscia della morte, la cui azione subiamo più spesso di quanto non crediamo, è qualcosa di secondario e nella maggior parte dei casi deriva dal senso di colpa” (pp. 82-83). “In fondo”, scrive Freud qualche pagina prima, “nessuno crede alla propria morte, o, il che è lo stesso, ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità” (p. 75). E in ciò, sia l’uomo primitivo, sia l’inconscio sono simili al fanciullo di Hölderlin: “Egli è immortale perché nulla sa della morte” (Iperione, cit., p. 31). S. Freud, Il perturbante, in cit., p. 295. Ivi, p. 317.
296
Il negativo e l’attesa
cadavere, la cui presenza rende possibile la sorprendente rivelazione del segreto. In realtà si tratta di una ri-velazione, di qualcosa di essenzialmente ambiguo, perché reca in sé il segno della sua stessa rimozione, cioè della rimozione del segreto. La ri-velazione, infatti, non è solo il venir alla luce di qualcosa che doveva restare segreto, ma implica nello stesso tempo anche un lasciar nuovamente nel buio questo qualcosa; vuol dire appunto ri-velare: velare, coprire di nuovo. Sicché, paradossalmente, il mistero della materia umana più si svela e più si ri-vela. La situazione luttuosa ci pone così dinanzi alla eccezionale ri-velazione del segreto in cui è avvolta la materia umana. D’altra parte, non c’è ente materiale senza la sua auto-ri-velazione. Aristotele ce ne fornisce un chiaro esempio nella sua concezione della sostanza individuale come sinolo, cioè come insieme di materia e forma, dove quest’ultima, specie nell’essere umano, fa di volta in volta da velo in ogni ri-velazione della materia. Dalla storia e dall’evento Auschwitz si è appreso però che il male, specie quello incarnato dalle potenze diaboliche del nazismo, è in grado di rivelare impietosamente quel segreto e di disfarsi quindi del meccanismo trascendentale della ri-velazione; è capace cioè di ridurre violentemente l’uomo a semplice materia inespressiva. Riducendo l’uomo a materia, a ciò che l’inconscio ha da sempre mantenuto segreto, e disfacendosi in breve tempo degli schemi interiori costruiti nei secoli per la sua possibile comprensione e per la sua prevenzione, rendendo quindi con ciò stesso gli uomini delle vittime, quell’evento ha mostrato il male in tutta la sua terribile evidenza. Giacché, analizzandolo soprattutto dalla prospettiva del discorso razziale7 (ma non solo), questo risulta essere il male: la volontà umana di rivelare che l’uomo non è e non può essere altro che materia silente, materia con cui riempire fosse comuni, con cui innalzare barricate o fare massicciate, materia nauseabonda, ammasso orripilante di scheletri viventi, di bestie congelate. A questa materia, ad esempio, furono ridotti molti di quei deportati che, dopo l’ordine di evacuazione del campo di Auschwitz, le SS fecero marciare fino a Gleiwitz attraverso la campagna invernale polacca, lun7
“Il razzismo”, afferma infatti Bensoussan, “segna il trionfo del corpo e con lui la preminenza del biologico su ogni norma, su ogni altra forma di spiritualità” (Ben 176).
La materia e il male297
go la quale, per dirla con il poeta, cadeano a squadre/ Semivestiti, maceri, cruenti,/ Ed era letto agli egri corpi il gelo8. Dopo essere sopravvissuti a una letale marcia notturna, alla “deportazione entro la deportazione” dice Levi (LD 82)9, essi furono stipati dalle SS in carri bestiame scoperti che formavano il lungo treno che doveva condurli fino a Buchenwald e a Mauthausen. Per i nazisti essi erano solo corpi in attesa di diventare silente e inespressiva materia. Prima della loro completa trasformazione, però, scrive Wiesel: Improvvisamente un grido si alzò nel vagone, il grido di un animale ferito: qualcuno era appena morto. Altri, che si sentivano ugualmente sul punto di morire, imitarono il suo grido, e le grida sembravano venire d’oltretomba. In poco tempo tutti gridavano. Pianti, gemiti. Grida di disperazione lanciate attraverso il vento e la neve. Altri vagoni ne furono contagiati, e centinaia di grida si levarono contemporaneamente. Senza sapere contro chi, senza sapere perché: il rantolo di tutto un convoglio che sentiva avvicinarsi la fine. Nessuno aveva più forza, e la notte sarebbe stata ancora lunga.10
Proprio nella prefazione a La notte di Wiesel, François Mauriac definisce “male assoluto” l’evento che, tra la vita e la morte, si manifesta all’improvviso nella coscienza del bambino impiccato ad Auschwitz: la morte di Dio. Dio muore nella coscienza pura del bambino. È la sua assenza, il suo mancato intervento che ne conferma la morte. D’altra parte, quelle che sono state costrette a guardare bene in faccia la morte violacea combattere contro la vita appesa ad una corda ancora vibrante non erano più “persone”, né nel senso cristiano di “personaggi” né nel senso greco di “protagonisti” della storia: erano solo, in senso freudiano, vescicole che ubbidivano a degli impulsi11. Ma né l’annuncio nietzscheano della morte di Dio, 8
G. Leopardi, Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze (1818), vv. 143-145. 9 Un’espressione simile usa Sofsky quando afferma che il sistema reticolare dei campi (Rastersystem) era strutturato in modo tale che ogni campo appariva come un Lager nel Lager, come un Vernichtungslager in un Konzentrationslager (Sof 65, 68). 10 E. Wiesel, La nuit, tr. it. di D. Vogelmann, La notte, Giuntina, Firenze 19926, p. 100. 11 Era proprio a questo che l’antifascista cattolico Igino Giordani alludeva nel 1934, ritenendo che con l’affermazione dei totalitarismi e delle loro “mistiche della Classe, della Razza, del Sangue, della Nazione, della Forza, della
298
Il negativo e l’attesa
né tanto meno l’ideologia mistificante della conclusione del Giobbe (cioè l’idea di una redenzione conseguente alla dolorosa ingiustizia dovuta a una “sperimentazione” divina) riescono ad evitare la vergogna, il dolore e la sofferenza nei deportati. Né con Dio né senza Dio l’uomo ad Auschwitz può sfuggire al profondo orrore di riconoscersi non semplicemente come mortale, ma come materia in inarrestabile decomposizione. Analogamente, né con Dio né senza Dio l’uomo può comprendere Auschwitz12, perché proprio in quel luogo maledetto l’essere umano, che è sintesi di materia e spirito, apprende con terrore il male assoluto, cioè la sua violenta riducibilità a sola materia, a una semplice cosa materiale. Noi, infatti, che siamo nello stesso tempo cosa estesa e cosa pensante, viviamo nella consapevolezza di poter divenire in ogni momento res extensa. In sé, però, il divenire res extensa, cioè solo materia silente, non è il male, perché la res cogitans sa che questo divenire è ontologicamente inscritto nel processo naturale. Il male è piuttosto la riduzione violenta dell’uomo a materia silente e insignificante, e diviene assoluto quando la privazione dello spirito nell’uomo avviene non solo violentemente, ma programmaticamente, secondo certe ideologie deliranti. La morte naturale è dunque il male relativo, mentre la morte violenta e programmata, il genocidio, lo sterminio automatizzato, è il male assoluto. Il male emerge quindi con l’angosciosa consapevolezza di poter essere in ogni momento ridotti violentemente a materia. Ciò spiega da una parte il timore che l’uomo ha sempre provato dinanzi ad essa, e dall’altra anche i continui tentativi compiuti per dominarla. Da questo punto di vista hyletico o materiale la storia umana si deve intendere come continuo confronto e incessante lotta dell’uomo contro o “con” la materia, non già per l’affermazione dello spirito su di essa, ma per mantenere il necessario equilibrio tra materia e spirito. A questa perenne contesa si rifà l’interpretazione tragica dell’esistenza, il cui senso, per essa, emerge con la consapevolezza dell’impossibilità sia di dominare definitivamente la materia sia di Guerra”, l’uomo sarebbe stato costretto a retrocedere ad “apparato di digestione, da regolarsi col semplice contingentamento del vivere, o a strumento di mera procreazione, da controllarsi con l’eutanasia” (cfr. E. Gentile, Contro Cesare, cit., p. 390). 12 E. Wiesel, Silences et mémoire d’hommes, Seuil, Paris 1989, p. 135.
La materia e il male299
fare di questa un principio autonomo del male. Inoltre, quando si manifesta attraverso la riduzione a una materia strutturalmente diversa da quella umana, il male viene accettato e riconosciuto nella sua tragica necessità; quando invece si manifesta con una riduzione violenta alla materia umanamente organizzata, esso diventa inaccettabile, poiché l’essere umano assume e sopporta bensì la materia di cui si costituisce l’ambiente che lo circonda, ma non può assolutamente accettare sé stesso come materia. Il fatto è però che questo continuo confronto con la materia l’uomo non lo conduce solo con l’ambiente circostante, con l’esteriorità, con la natura; lo conduce anche in particolar modo con l’interiorità, in cui opera quell’istinto di morte di cui parla Freud in Al di là del principio di piacere: impulso che sembra avere come unico obiettivo il raggiungimento dello stato inorganico anteriore all’organismo umano; cioè, per dirla con le parole del Salmo 145, il ritorno a quella terra che mette fine a tutti i disegni umani. Il male si intuisce dunque nel difficile riconoscimento della materia, dell’humus, sia come ultima sia come unica essenza dell’uomo. Proponendo l’universalizzazione della massima secondo cui l’essere umano andrebbe considerato sempre come fine e mai come un mezzo, già Kant, fra l’altro, aveva evidenziato nella Critica della ragion pratica l’idea del male come attuazione violenta di una tendenza a fare dell’uomo soltanto una “cosa”. Pertanto, se dinanzi al bambino impiccato ad Auschwitz i deportati scorgono l’essere del male assoluto, cioè la morte di Dio, è perché essi, ridotti a vescicole, si avvedono che quell’equilibrio spirito-materia (segno del bene e del dover essere) è stato violentemente e deliberatamente spezzato, e che essi stanno per diventare materia silente, senza spirito, senza ruàch. Ad ogni modo, per un’esplicita identificazione del male con la materia si deve risalire alle prime tre Enneadi plotiniane. La materia, per Plotino, è il male perché, in quanto mancanza di forma, si oppone alla completezza dell’essere e del bene. Malgrado ciò, materia e forma, nello stesso modo del male e del bene, sono estremi che si attraggono reciprocamente e che costituiscono i due sommi capi dell’universo plotiniano. Non può esserci bene senza male e viceversa. In quanto materia, cioè come privazione assoluta, il male tende al bene per colmare il proprio vuoto mediante la riflessione in sé delle forme determinate che essa, materia, in
300
Il negativo e l’attesa
quanto ricettacolo, sostanzia. Il bene, come forma intelligibile, ha bisogno di ricorrere al sostrato materiale per l’individuazione e la differenziazione delle realtà e quindi in ultima analisi per la manifestazione dell’Uno come fonte primaria di essere e di vita. I corpi sono i prodotti della fusione di materia e forma: una loro eventuale scissione potrebbe essere dolorosa solo al livello del composto, cioè appunto del corpo. La materia indistinta o il male oscuro si identificano allora con quella cosa in sé o col noumeno, in direzione del quale Platone aveva indicato solo dei possibili percorsi anfidromici (essenzialmente un periodare logico-discorsivo), e più tardi Kant traccerà solo delle traiettorie asintotiche. È naturale quindi che l’anima, pur essendo forma semplice in sé, abituata com’è ad avere sempre a che fare con i composti, ad essere coinvolta cioè con i corpi, cioè con l’insieme di materia e forma, quando si trova dinanzi ad una indeterminatezza tale da rendere inadeguata ogni possibile forma di pensiero, provi una certa angustia, uno sgomento, un disorientamento angoscioso che la costringe a trovare al più presto una forma qualsiasi, pur di uscire da quello stato di perdizione. Un tale sgomento provato dall’anima dinanzi all’indeterminatezza della materia è identico a quello che gli uomini provano dinanzi al cadavere di un proprio simile. È proprio questa materia ciò dinanzi a cui l’anima dell’uomo, sempre congiunta con il corpo, prova sgomento. Dinanzi ad essa l’anima umana ri-vela angosciosamente la propria essenza materiale. Vale a dire: nella materialità del cadavere essa riconosce la propria materialità, da cui non può prescindere in quanto le è sinologicamente inseparabile come un’“ombra”. Ora, che l’anima, principio di vita per antonomasia, abbia trovato nel corpo umano la ragione della propria esistenza, costituisce quanto di più enigmatico possa esserci. Come può accadere, infatti, che un corpo si muova? Come può accadere che la materia, principio amorfico per eccellenza, possa assumere una certa organizzazione, una certa forma? E com’è che proprio questa mistura di materia e forma, che solo questa specifica mistura, abbia la capacità di autoanalizzarsi, ora come forma, ora come materia, o come l’insieme delle due? Ma soprattutto, com’è che un tale miscuglio possa pensare? E che cos’è il pensiero? Esso è, dice Plotino, ciò in mancanza di cui il corpo diviene “maggiormente corpo” (mallon
La materia e il male301
touto soma: III, 6, 6)13. L’immobilità del cadavere indica l’assenza di pensiero, assenza che è propria della materia silente. Ma corpo “in più alto grado” non è solo quello del cadavere, è anche quello dei Muselmänner rievocati da Levi: loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla. Essi popolano la mia memoria della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero. (SE 81-82 cn)
Per rendere l’uomo schiavo del proprio corpo, il totalitarismo, dice Todorov, ha cercato di separare l’anima da esso (Tod2 79). E ciò dovrebbe certo valere per i carnefici, per i massacratori. Ma per quanto riguarda le vittime, come mostra Levi in tutti i suoi scritti, questa separazione è impossibile. Anzi, è proprio da questa inseparabilità che viene generato il dolore nell’uomo, anche quando non lo manifesta apertamente, come nel caso dei Muselmänner. Ma al di là di quella terribile e malvagia tendenza ad escluderlo dagli esseri umani, perlomeno da quelli che l’ideologia nazionalsocialista non ne riteneva degni, sia per Plotino che per Levi il pensiero resta l’innata attività umana tendente a dominare, organizzare, definire e ordinare la materia. Ne Il sistema periodico, in effetti – il “volume più primoleviano di tutti”, secondo Italo Calvino (AM VI), – Levi vede nella materia “la grande antagonista dello Spirito” (SP 458), l’“avversario”, il “non-io” contro cui condurre e vincere una “interminabile battaglia” (SP 573). Essa è la “Hyle”, l’“Urstoff” (SP 463) in opposizione a cui l’uomo ha costruito la propria dignità. “[La] nobiltà dell’Uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita”, dice infatti Levi, “nel farsi signore della Materia”; e “vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi” (SP 466). Neces13 Per le Enneadi plotiniane ci siamo rifatti sia alla traduzione di V. Cilento (Laterza, Bari 1947) sia a quella di G. Faggin (Rusconi, Milano 1992).
302
Il negativo e l’attesa
sario quindi “il confronto con la Materia-Mater, con la madre nemica” (SP 462): “la Materia con la sua passività sorniona, vecchia come il Tutto e portentosamente ricca di inganni, solenne e sottile come la Sfinge” (SP 463); “la materia stolida [che] manifesta un’astuzia tesa al male, all’ostruzione, come se si ribellasse all’ordine caro all’uomo” (SP 627): lo abbiamo visto in Lilìt, a proposito de La sfida della molecola. Il confronto con essa deve pertanto essere deciso e risoluto, “non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere” (SP 498). D’altra parte, Levi lo dice chiaramente nelle linee conclusive della sua Appendice a Se questo è un uomo: il passato concentrazionario “mi ha reso più ricco e più sicuro” (SE 349); vivendo, scrivendo e meditando su quegli avvenimenti “ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo”. Ma questa “fortuna”, si affretta a precisare, è “toccata a pochissimi”, e a lui, oltre alla preponderante fortuna, sono stati d’ausilio l’“allenamento alla vita di montagna”, il “mestiere di chimico”, l’“interesse, mai venuto meno, per l’animo umano”, la volontà di “sopravvivere allo scopo preciso di raccontare”: ma soprattutto, ecco, forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale (SE 349-350 cn).
2. Il male come volontà di ridurre l’uomo a res extensa Quando si dice che nel Lager la res cogitans ha esperito sé stessa come res extensa si accenna evidentemente a un dualismo ontologico, in cui però, a causa del venire meno dell’originario equilibrio tra le due res, la prima non ha potuto riaffermare il sopravvento sulla seconda. E ciò anche se, come si sa, a partire perlomeno dai misteri orfici e dal pitagorismo, la cultura occidentale, nonostante il suo materialismo, è sempre stata e continua ad essere a favore dello spirito e delle sue forme pure, cioè delle idee e dei concetti. A partire dal Timeo platonico, ad esempio, la superiorità dello spirito
La materia e il male303
sulla materia raggiunge la propria legittimazione filosofica. Da ora in poi l’anima, attraverso il cristianesimo, inizierà contro il corpo una durissima lotta, un duro lavoro di rimozione ri-velativa, i cui echi si odono ancora oggi nei mea culpa e nella comune e spiazzante esperienza pirandelliana del non poter cogliere sé stessi come cosa davanti ad uno specchio. Come si è visto, però, nonostante questa rimozione culturalmente ri-velante, il Lager, proprio in quanto “mondo alla rovescia”, ha ridotto violentemente l’essere umano alla sua essenza materica. Todorov lo dice in maniera ancora più chiara: “il totalitarismo ci rivela quello che la democrazia lascia in penombra” (Tod1 151-152). Ancora meglio: i Lager “rivelano la verità di situazioni normali”. Per questa loro funzione egli li considera come “una specie di lente d’ingrandimento che permette[va] di vedere distintamente ciò che restava sfocato nell’andamento abituale delle vicende umane” (Tod1 275-276). Sappiamo a tal riguardo degli sforzi che Levi doveva compiere per continuare a vedere nel suo compagno di baracca Sómogyi non una “cosa” ma un uomo14. Ciò significa che qualsiasi rivelazione fuori del Lager era ed è una ri-velazione, nel senso che quelle poche volte che il pensiero si accorge della “cosa” rimossa lo fa dandone subito e necessariamente anche un’interpretazione coprente e deviante. L’anima sgomenta, diceva infatti Plotino, si affretta a dare una forma all’indistinto. Fuori del Lager vigeva e vige dunque il dominio dello spirito e della cultura spirituale rimuovente e ri-velante; dentro il Lager, invece, venendo violentemente meno la rimozione, gli uomini non si rivelano altro che cose. Hanno certamente ragione Fabio Levi e Domenico Scarpa quando, a commento dell’articolo del 9 febbraio 1975 di Levi, Così fu Auschwitz (una sintesi del Rapporto su Auschwitz che Levi e De Benedetti redassero tra il 1945 e il 1946), con particolare riferimento all’“esperienza fondamentale” che i deportati hanno vissuto nel Lager, scrivono: “È come se i sopravvissuti al Lager […] fossero 14 Cfr. F. Levi e D. Scarpa, Un testimone e la verità, cioè la loro osservazione finale al Rapporto sulla organizzazione igienico sanitaria del campo di Concentramento per Ebrei di Monowitz (Auschwitz-Alta Slesia), una testimonianze scritta da Levi assieme a Leonardo De Benedetti subito dopo il loro ritorno dalla deportazione, tra il 1945 e il 1946 (ora in Così fu Auschwitz), nella quale descrivono “l’esperienza non-umana ‘di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo’” (LD 155 cn).
304
Il negativo e l’attesa
detentori di una verità per tutti gli altri assai meno evidente, quasi un segreto”. Ma forse questo segreto non consiste solo nel fatto che l’uomo – come dice Levi e come dirà lo stesso Quasimodo in Uomo del mio tempo (1946) – sia rimasto fondamentalmente un “sopraffattore […] a dispetto di millenni di codici e di tribunali” (LD 114; 181-182 cn). La verità inquietante (unheimlich) che, nonostante secoli di civiltà e di cultura umanistica, è emersa lo stesso, pur sapendo tutti che non doveva assolutamente emergere, riguarda non solo l’animalità dell’uomo, ma anche la sua materialità, poiché questo incorreggibile animale sopraffattore, liberandosi violentemente della ri-velazione culturale, è stato in grado di ricondurre l’uomo alla sola essenza materica e di mostrarlo e di considerarlo come semplice cosa. Dopo la lettura di Se questo è un uomo di Levi e de La notte di Wiesel, come si è visto, si può giungere alla conclusione che il male umano consista nella violenta, deliberata e programmata riduzione dell’uomo a materia. Tuttavia, guardando il problema da una prospettiva scientifica, l’uomo non è forse anche materia? Sì, certo, ma non è solo materia. L’uomo è l’insieme inseparabile di materia e spirito, di corpo e pensiero. È corpo pensante. È pensiero corporeo. E il male consiste nel voler recidere violentemente il legame che li rende un sinolo. L’uomo non è né pura materia né puro spirito, né cosa né puro pensiero. Dall’insieme umano il materialismo fisicalista tende a rimuovere il pensiero, la res cogitans; viceversa l’idealismo tende a rimuovere il corpo, la res extensa. L’origine del male si può scorgere nell’estremizzazione e nella radicalizzazione di queste due opposte rimozioni culturali. La cultura umana si è affermata nel tempo oscillando ideologicamente tra queste due prospettive, tra queste due rimozioni. Rimuovendo lo spirito, il fisicalismo meccanicistico rende l’uomo solo una cosa pensante o capace di calcolare (come in Hobbes); rimuovendo, viceversa, la materia, l’idealismo rende l’uomo in io puro, un pensiero cosificante, capace cioè di istituire o di porre la materia (come in Fichte). La cultura umana si è sviluppata e strutturata sulla contrapposizione di queste due Weltanschauungen, su queste due visioni culturali del mondo e dell’uomo. E, secondo il paradigma manicheo, al darsi di alcune condizioni storiche talvolta si afferma l’una, talvolta l’altra; talora l’una appare più vera dell’altra, e viceversa. Dall’imposizione dell’una sull’altra nascono i conflitti umani.
La materia e il male305
Un fisicalista potrebbe chiedere: al di là della platonica, aristotelica, kantiana, schopenhaueriana e heideggeriana struttura dell’in quanto, noi non siamo e non ci presentiamo innanzitutto come dei corpi materici? Niente e nessuno, nemmeno il Philonous di Berkeley (precursore dell’idealismo moderno), potrebbe rispondere negativamente. Noi siamo materia e l’idealismo è stato sin dall’antichità la sua filosofia rimuovente. L’idealismo antico e moderno ha rimosso con la cultura dello spirito la materialità umana che il Lager ha purtroppo violentemente svelato, negando così quella cultura, cioè l’umanesimo. Giacché questo ha fatto il nazismo e farà ogni politica a vocazione sterminatoria: sacrificare l’umano in nome di un millantato neo-umanesimo. Pertanto, ogni tentativo di ripristinare una supposta indipendenza dell’essenza materica, cioè di assolutizzarla, ogni tentativo cioè di rompere l’equilibrio sinologico – dal momento che la materia costituisce ciò su cui si è sempre esercitata la rimozione o la censura culturale – non può essere per lo spirito che una gravissima offesa, e quindi un male. Inoltre, in quanto originario oggetto di rimozione spirituale, la materia segue l’identico destino dell’istinto, perché liberare l’istinto barbarico significherebbe la fine della civiltà. E in effetti questo è stato Auschwitz: una “rottura della civiltà”; una rottura di cui, sottolinea Enzo Traverso nel suo saggio su Auschwitz e gli intellettuali, pochi intellettuali (ad eccezione certo di Jaspers e dello stesso Thomas Mann), si sono accorti, sia durante la guerra sia nell’immediato dopoguerra, anche fra quelli che hanno militato nell’antifascismo resistenziale. Ad esempio, scrive lo storico, il testo di Sartre, Réflexions sur la question juive, “può essere interpretato come un documento rivelatore dell’incapacità, da parte della cultura europea dell’immediato dopoguerra, di vedere Auschwitz come una rottura di civiltà e di partire da questa constatazione per cercarne le origini”. Come se “l’Europa e il mondo occidentale rifiutassero di portare lo sguardo sull’evento mostruoso che avevano partorito”. Sia per Jaspers che per Mann, infatti, “Pensare Auschwitz non significava commiserare le vittime ma ‘identificarsi’ ai carnefici, assumendone la colpa, attraverso un difficile e tormentato esercizio di empatia critica” (Tra 20-21, 27). In altre parole, rivelare l’essenza materica dell’umano implicherebbe l’estinzione dello spirito e l’annichilamento della cultura. “Nessun valore umano psichico o culturale era tenuto in conto”,
306
Il negativo e l’attesa
scrive infatti Leonardo De Benedetti nella sua deposizione su Monowitz, “ma tutti [i deportati] indistintamente entravano a far parte di una massa amorfa tenuta in ordine dalla paura e dalle punizioni corporali” (LD 41 cn). Freud si era accorto subito di questo pericolo occupandosi dell’ambivalenza affettiva. Ecco perché, pur facendo della psicanalisi la scienza dell’inconscio e delle pulsioni, continuava a ripetere in ogni saggio, a partire dalla Traumdeutung, che la civiltà può essere assicurata dalla eterna e dura lotta della ragione contro l’istinto. Alla fine del suo breve ma intenso saggio sul cerimoniale, scrive ad esempio: “Una progressiva rinuncia agli istinti costituzionali, la cui estrinsecazione potrebbe generare la soddisfazione primaria dell’ego, risulta essere uno degli elementi fondamentali per lo sviluppo della civiltà umana”15. Idealmente parlando, inoltre, per questa civiltà umanistica il peggior male per l’uomo non consiste solo nel percepirsi come una cosa, ad esempio come una cosa cadaverica, ma anche nell’essere trattato come una cosa, come uno schiavo. Al contempo, però, la schiavitù è stata ed è paradossalmente una delle istituzioni di cui l’umanità, civilizzata o meno, non riesce a fare a meno. Ecco perché – al netto della concezione aristotelica dello schiavitù: la più coerente dal punto di vista di quel paradosso –, con la propria cultura ri-velante e con l’istituzione dei diritti umani, tale civiltà cerca di fare in modo che la cosificazione non possa mai rivelarsi completamente, in modo da non svelare la sua intima esigenza. Nello stesso tempo, però, c’è da dire che, malgrado ciò, buona parte dello sforzo dell’umana conoscenza tende proprio verso quella cosa, verso le cose stesse, si potrebbe dire ad esempio con Husserl. Rimane comunque intollerabile per l’uomo, in quanto sintesi di res cogitans e res extensa, percepirsi solo come res extensa. Dalle testimonianze dei sopravvissuti abbiamo appreso che il Lager è stato il luogo in cui la riduzione al materico è stata premeditata e attuata con violenza, e ciò equivale al male assoluto, al male sommo. In tal modo, esso era il luogo in cui il male ha potuto raggiungere la sua massima espressione. Quando l’essere umano viene brutalmente rivelato solo nella sua essenza materica è segno che è stata vio15 S. Freud, Comportamenti ossessivi e pratiche religiose (1907), in Totem e tabù, cit., p. 252.
La materia e il male307
lata e annullata la possibilità rimuovente della ri-velazione. Quando insomma la ri-velazione diventa rivelazione, allora il male coglie il suo fine supremo. Questo il male, l’alto rischio che occorre evitare. Questo il pericolo contro cui lo spirito (la res cogitans, la ragione) non smette di impegnarsi, per tentare di sventarlo in tutti i modi. Gli uomini non possono e non devono più permettere che dei loro simili, razzialmente motivati verso un neo-umanesimo, verso un nuovo ordine politico e sociale, violentino ancora la sacra ri-velazione. L’umanità non deve più permettere che venga pianificato il proprio annientamento. Se vuole conservarsi come specie, essa dovrà continuare sulla vecchia e impervia strada della cultura e della dura lotta di questa contro l’istinto, il quale, senza il contrappeso della ragione o mettendo questa al suo servizio, è capace di effettuare il male come riduzione violenta dell’essere umano a materia. Questa non è evidentemente la strada dell’idealismo, che nega o fa della cosa in sé, dell’elemento materico, un non-io, in ogni caso un prodotto dell’io; e non è nemmeno quella del fisicalismo, che nega o fa del pensiero, dell’elemento spirituale, un prodotto della materia; è bensì la strada tracciata dalla psicanalisi sulla scorta del dualismo ontologico cartesiano e schopenhaueriano, cui si ispira in parte anche la stessa filosofia leopardiana. Ma fino ad ora non si è forse anche asserito a più riprese che proprio questa cultura, cioè la cultura occidentale, indispensabile per impedire la frattura del legame rimuovente, rappresenta anche il principio della necessaria priorità del negativo che qui intendiamo criticare? Occorre chiarire ancora, dunque, un tale principio e dire che cosa si intende qui per negativo. Il negativo che un tale principio dialettico presuppone non è affatto l’istinto o la rivelazione materica in sé, quanto piuttosto la convinzione che occorra necessariamente provocare quell’istinto, rivelare quel materico e dunque attuare volontariamente il male, allo scopo ben preciso di accrescere la potenza positiva del bene. Il negativo, di cui qui critichiamo la necessaria priorità, non è quello strutturale all’essere umano, cioè né l’odio freudianamente inteso come pulsione aggressiva né il male nietzscheanamente inteso come risentimento, perché sia l’uno che l’altro, osserva ad esempio Simona Forti, finiscono con il coincidere con “la condizione della possibilità della soggettività” (For 79).
308
Il negativo e l’attesa
Il male secondo Nietzsche, scrive questa studiosa, commentando la Genealogia della morale, non è né una sostanza metafisica né un dato immanente alla realtà, ma l’espressione del risentimento con cui gli “inadatti alla durezza della vita naturale” cercano di rovesciare la sofferenza che la forza aristocratica degli adatti produce in loro (For 58). Per Nietzsche l’incapacità di affermare sé stessi nell’esteriorità, affrontando le durezze che questa comporta, spinge l’essere umano risentito verso il proprio interno, in cui istituisce dispositivi psichici in grado di opporsi e di negare la realtà esteriore. Ma proprio in questa opposizione e negazione i dispositivi si affinano, si strutturano e si consolidano, determinando tutto ciò che è a fondamento della Zivilisation. Da questo punto di vista, osserva giustamente Forti, “anche in Nietzsche, il negativo trova un suo impiego positivo”, benché i due poli non giungano mai a una sintesi dialettica (For 65). Certo, infervorato dalle letture darwiniane e sulla scorta del pólemos eracliteo, a fronte del negativo, cioè della durezza della vita, delle necessarie leggi della natura, nonché quindi del bellum omnium contra omnes, in quell’opera Nietzsche accenna alla distinzione tra morale aristocratica e morale del gregge, che corrisponde a quella tra adatti e inadatti. Non tutti gli inadatti sono però necessariamente destinati ad essere sottomessi alla forza aristocratica degli adatti. Molti di loro possono essere educati alla forza e alla durezza grazie alla pedagogia ispirata al principio della necessaria priorità del negativo, pedagogia che ha nel Drill la sua più evidente estrinsecazione. Ciò significa dunque che al contempo questo principio supera e integra la lezione darwiniano-nietzscheana. La forza e la durezza, le qualità che mettono in grado di subire e di fare il male o il negativo, si possono cioè anche acquisire. Inteso come “forza in sé, come potenza distruttrice e pulsione verso il nulla”, il male o la possibilità del male, si può, grazie al Drill, rendere positivo attraverso l’educazione al negativo, e così sfuggire alla sua “neutralizzazione”, specie attraverso la teodicea hegeliana, che riduce la potenza del male a “semplice negatività, a concezione della possibilità del procedere dialettico dello spirito” (For 41). Grazie alla pedagogia del Drill, quindi, anche in Nietzsche il negativo, inteso come male e come sofferenza, diviene “funzionale al positivo” e al bene, diventa addirittura “condizione stessa della libertà” (For 8). È proprio per questo motivo, cioè per la possibilità che il Drill darà agli inadatti, ai deboli e ai perdenti di diventare adatti, forti e
La materia e il male309
vincenti, che, ricorda ancora la studiosa (For 59), Nietzsche verrà letto e apprezzato sia dai nazionalisti nel Primo conflitto mondiale, sia dai nazionalsocialisti nel Secondo. Ovvio, a differenza che negli aristocratici, inizialmente negli inadatti non c’è la potenza in atto; ma con la volontà questa potenza può essere posta in atto. Ottenere la messa in atto della potenza mediante la volontà vuol dire riabilitare e stimolare negli inadatti – in “tutti coloro che non potevano dire di sì alla vita” (For 3) –, le “tendenze animali”, la “sublime malvagità” cui Nietzsche fa cenno nella Genealogia della morale (For 60). Così educati, anche gli inadatti sapranno dire di sì alla vita. Ma questo loro sì sarà solo la premessa dello Ja che pronunceranno dinanzi al loro Führer, nel quale credono che la vita, la potenza e la forza della vita si incarnino, al fine di sottomettere violentemente le vittime predestinate, alle quali, per ragioni razziali, veniva negata non solo la possibilità di rendersi adatti, ma anche quella del semplice vivere. Ad ogni modo, considerate in astratto, cioè lontano dalla storia, le bizzarre idee nietzscheane hanno la stessa forza di quelle schopenhaueriane: ci destano alla nostra condizione e ci spingono a superarla. Ma calate nella storia, nel duro farsi storico dell’agire umano, quelle idee tragiche, come si è purtroppo visto, e come ha sottolineato Lukács, sono risultate una ulteriore legittimazione teorica di quella barbarie nella quale Nietzsche stesso, come s’è visto, auspicava ogni tanto la ricaduta per irrobustire l’anima degli uomini troppo civilizzati. A ciò accennava, come si è più volte ripetuto, il frammento 477 di Umano, troppo umano. Titolo che, proprio alla luce di quell’auspicio nietzscheano, si dovrebbe più ragionevolmente mutare in Disumano, troppo disumano. È per questo motivo che dissentiamo qui dalla Forti quando crede che Nietzsche voglia solo “disorientare il lettore per portarlo a sospettare delle sue abituali e radicate convinzioni […] relative alle ‘idee moderne democratiche’”, per “mostrargli”, cioè, come aveva fatto lo stesso Thomas Mann nelle Considerazioni di un impolitico, proprio sulla scorta del filosofo tedesco, “l’altra faccia della democrazia” (For 278). Quel presunto tentativo di disorientamento ha provocato non solo l’abbandono della democrazia, ma anche l’allontanamento dall’idea di umanità. Un allontanamento e un abbandono che, dopo i pur travolgenti ottant’anni di pace in Europa, la guerra in Ucraina ci sta purtroppo di nuovo facendo avvertire.
310
Il negativo e l’attesa
Il negativo che critichiamo non è, dunque, quello dato strutturalmente, cioè il negativo naturale, ma è quello opportunamente ricercato, provocato e affrontato perché da esso e solo da esso si crede che si possa ottenere un positivo. Il negativo non è nemmeno l’inatteso risvegliarsi dell’istinto rimosso, né la momentanea rivelazione del materico, ma è quella brama tragico-dionisiaca, tipicamente nietzscheana, che per l’accrescimento della volontà di potenza e di potere non vede altra soluzione che la periodica discesa nella barbarie. E in effetti, testimonia Levi, in Lager sono venute meno “anche la fratellanza e la solidarietà, ultima forza e speranza degli oppressi”. Lo conferma anche Shlomo Venezia, membro del Sonderkommando di Birkenau. È venuto meno anche il sentimento della pietà, sentimento che, secondo Rousseau e lo stesso Hobbes16, viene ancora prima del pensiero e che è quindi a fondamento dell’uomo. In Lager ritorna in auge l’homo homini lupus e il bellum omnia contra omnes, quel fondamento di verità cui Nietzsche si richiamava nel saggio Su verità e menzogna in senso extramorale. In Lager dice infatti il superstite torinese, vive “la lotta di tutti contro tutti”; in esso “il primo nemico è il tuo vicino, che insidia il tuo pane e le tue scarpe, che con la semplice sua presenza ti sottrae un palmo di giaciglio. […] La legge del campo ne ha fatto un lupo: tu stesso devi lottare per non diventare lupo, per rimanere uomo”. Sì, nel Lager si tocca “il fondo della barbarie” (LD 111-112; SS 108): ed è speranza che quanto qui si documenta venga visto e ricordato come una non ripetibile aberrazione fino al più lontano avvenire. È speranza di ogni uomo che queste immagini siano percepite come un orrendo ma solitario frutto della tirannide e dell’odio: che se ne ravvisino le radici in molta della sanguinosa storia dell’umanità, ma che il frutto non dia di nuovo seme, né domani né mai. (LD 113 cn)
3. Il male come piacere di osservare l’anticipazione della riduzione a materia Il duro compito dell’uomo deve consistere pertanto non nell’annientare l’istinto (cosa impossibile), ma nell’incessante e inevitabi16 Secondo Hobbes, “Pietà è quell’immagine o prefigurazione di una nostra futura calamità che deriva dal percepire la calamità di un altro” (Gol 457).
La materia e il male311
le lotta della ragione contro di esso, al fine di mantenere l’equilibrio spirito-materia, e quindi in definitiva per assicurare con ciò la continuità della civiltà e della cultura, ovverosia la civiltà della cultura o la cultura della civiltà. Venendo naturalmente al mondo con il proprio avversario, cioè con la materia, l’uomo non può sottrarsi a questo destino di lotta spirituale. La sua principale attività sarà pertanto la ri-velazione o la rimozione del materico. Questa ri-velazione non è affatto una semplice rivelazione, un disvelamento, ma consiste, al contrario, nel continuo tentativo di sfuggire alla semplice considerazione di sé stessi come esseri puramente materiali. La negatività del negativo non consiste pertanto in questa inevitabile attività culturalmente ri-velante e rimuovente, ma nella pretesa, da parte del positivo o della cultura positivistica, tanto vana quanto dolorosa per l’umanità, di poter ad esempio innalzarsi all’autenticità umana solo attraverso l’esperienza negativa della morte propria o degli altri: nel primo caso la morte diventa addirittura “bella morte”, nel secondo diventa quella “brutta” e luttuosa cui si è accennato a proposito del cadavere deposto sul letto. Il sommo male che si può arrecare a un uomo resta pur sempre la morte, anche se il Lager ha cancellato ogni idea di “bella morte”, persino quella di morte naturale. Un episodio di “trattamento inumano” a tal riguardo è quello che apprendiamo dalla testimonianza di un altro sopravvissuto. Un giovane, racconta Ka-Tzetnik, viene aggredito dalle SS “con i calci dei fucili e gli stivali fino a farlo cadere privo di coscienza. E quando lo rianimano con secchi d’acqua, continuano a battere fuori di lui quel poco di vita che gli rimane. Tre volte lo uccisero, tre volte lo rianimarono per ucciderlo ancora tre volte”17. “Il nemico”, scrive anche Levi a tal riguardo, “non doveva soltanto morire, ma morire nel tormento” (SS 96). D’altronde nel Mein Kampf è detto a chiare lettere: “In tutti i casi un ideale che lotta contro certe follie, deve essere inumano. Solo in questo modo si può rinvigorire la sua lotta” (Hit 211 cn). 17 Ka-Tzetnik 135633, Sunrise over Hell (1977), tr. it. di F. Tedeschi, Alba sull’inferno, Rizzoli, Milano 1978, pp. 37-38 cn. “Tra i realizzatori”, scrive a tal proposito Goldhagen, “vigeva la massima inespressa che la morte non fosse la pena sufficiente per quei malfattori [per gli ebrei] su scala mondiale: bisognava vendicare i danni che avevano provocato; dovevano subire una “harte Sühne”, un duro castigo; dovevano pagare il fio delle loro infinite malefatte” (Gol 414).
312
Il negativo e l’attesa
Non si trattava solo di uccidere [dice ancora Levi nel 1979] – e anche questo mi pare che contribuisca a definire il carattere ferino [dell’] odio razziale. Si può anche uccidere in modo pietoso; un condannato a morte per lo più si uccide in modo pietoso, avendo pietà di lui, gli si concedono le ultime volontà; invece la strage degli Ebrei dell’Europa orientale soprattutto, è avvenuta nel modo più insensatamente crudele, è avvenuta uccidendo i figli davanti agli occhi della madre, è avvenuta provocandone la morte solo dopo una serie di dolore superfluo [proprio alla “violenza inutile” verrà dedicato un intero capitolo de I sommersi e i salvati], di umiliazioni superflue, di demoralizzazione, deportando […] poiché c’era la volontà precisa di demolire l’umano nell’uomo prima ancora di ucciderlo. E questa credo che sia veramente una cosa unica nella storia, in questa pur sanguinosa storia dell’umanità. (IR 32 cn)
“Solo una umanità a cui la morte è divenuta non meno indifferente dei suoi membri, una umanità che è già morta a se stessa”, scrive Adorno, “la può impartire per via amministrativa a un numero illimitato di esseri umani”18. A differenza che nei gulag sovietici, in cui, dice Todorov, è “il lavoro della storia e della natura” che si incarica dell’eliminazione delle classi nemiche e in cui “la privazione della vita non è uno scopo”, “nei campi di sterminio [nazisti] la morte diventa uno scopo a sé” (Tod2 108-109). Qui, si potrebbe dire con Celan, der Tod ist ein Meister aus Deutschland, la morte è un maestro proveniente dalla Germania. Ma i tedeschi, oltre ad essere, come dice Celan, maestri di morte, o, per usare un’espressione di Welzer, Tötungsexperten, esperti nei massacri (lo si era visto, tra l’altro anche a proposito dello sterminio degli armeni), sono maestri anche nell’arte dell’eufemismo e della perifrasi, in quella della menzogna e nel saper mantenere il segreto relativo alle operazioni di sterminio, come pure erano maestri nell’arte di celarle anche a sé stessi, vale a dire nella tecnica della rimozione e della razionalizzazione, cioè nella giustificazione psicologica delle loro criminose azioni e decisioni, le quali, evidentemente, andavano contro la morale cristiana, della quale peraltro, anche qui, sono stati notoriamente maestri, avendola coltivata per secoli. A tal riguardo si può certamente affermare che uno degli “strumenti psicologici estremamente complessi, messi a punto da secoli di sviluppo culturale tedesco” (Hil 1092), consiste nella nota razionalizzazione che 18
T.W. Adorno, Minima moralia, cit., III, 148.
La materia e il male313
ha la sua espressione popolare nel fare di necessità virtù, la quale altro non è che una delle varianti più note e più visibili del principio della necessaria priorità del negativo. La virtù, nel caso dei nazisti, consiste infatti nella capacità di preventivare un negativo da cui poter necessariamente ricavare un positivo. Dal punto di vista del soccombente la rivelazione o la riduzione dell’uomo a materia può significare provare in sé stessi l’orribile esperienza dell’abbandono e della fine; dal punto di vista dell’omicida, invece, ciò implica il piacere di aver avuto l’occasione di anticipare la propria morte attraverso quella altrui. L’esultanza orgogliosa o la spietata indifferenza del carnefice non deriva tanto o solo dal fatto dell’essere riuscito a conservare la propria vita sopprimendo la sua vittima, quanto piuttosto dal fatto che da quell’omicidio egli ha avuto la possibilità di anticipare virtualmente la propria morte, la propria riduzione a materia, senza tuttavia morire. Nel corpo del cadavere egli ha avuto la possibilità di vedere virtualmente sé stesso da morto. Nella Russia occupata del ’42, ad esempio, Welzer accenna a una specie di turismo delle esecuzioni (Executionstourismos), ossia al voyerismo di soldati e civili che, malgrado fosse formalmente vietato, si radunavano tuttavia ai bordi delle fosse per assistere ai massacri degli ebrei. Anche il tentativo di effettuare le operazioni durante la notte non risolse il problema della pulsione (voyeuristischer Macht) che spingeva lucrezianamente a vedere la morte degli altri come un’anticipazione senza rischi della propria (Wel2 133-134). Una tale visione è quanto c’è di più sublime, perché chi osserva può bensì vivere anche la propria morte, senza tuttavia morire. Un po’ come predicava Meister Eckhart, secondo il quale “wir uns verhalten sollen, als ob wir tot seien, so daß uns nichts mehr trüben könne, weder Lieb’ noch Leid”19, noi dobbiamo comportarci come se fossimo già morti, di modo che niente ci possa turbare, né l’amore né il dolore (cn). Al di là della vittima e del carnefice20, l’incipit del secondo libro del De rerum natura21 ci dà inoltre la possibilità di considerare il 19 Meister Eckhart, Vom Wunder der Seele. Eine Auswahl aus den Traktaten und Predigten, Philipp Reclam Jun., Stuttgart, 1998, p. 47. 20 Nei campi di concentramento nazisti, diceva Bettelheim, “le vittime tendevano a identificarsi coi loro carnefici” e con ciò, conclude Adorno, “il dominio si tramanda attraverso i dominati” (Minima moralia, cit., III, 117). 21 Dolce è mirar dalla riva, quando sconvolgono i venti / l’ampia distesa del mare, l’altrui gravoso travaglio, / non perché rechi piacere che uno si trovi
314
Il negativo e l’attesa
significato del male sommo anche dal punto di vista dello spettatore22. L’oscuro piacere che questi prova quando ha l’occasione di osservare attraverso gli altri il tragico raggiungimento del materico, ossia la lenta o rapida trasformazione della res cogitans in res extensa, non deriva, secondo Lucrezio, dalla sofferenza degli altri (e ciò è ancor più vero per chi ha fatto l’inumana esperienza del Lager), ma dal fatto, in sé sublime, che la morte degli altri dà quanto meno la possibilità di vedere o di prevedere, proprio nel senso di ex-spectare, del guardare dal di fuori la nostra futura morte23. Il guardare l’altrui doloroso travaglio24 permette, cioè, non solo di scorgere e di riconoscere i mali di cui siam fatti liberi, ma anche di separarci piacevolmente da essi. Il piacere di cui parla Lucrezio non deriva, però, solo dalla sicurezza di essere separati dal male che la visione a distanza ci garantisce, ma anche dalla possibilità di prevederlo. Con tale previsione, all’osservatore non è data solo la possibilità di prevenire e di correggere i suoi errori, ma anche di a soffrire, / ma perché scorgere i mali di cui siam liberi è dolce: / e dolce è assistere, senza che si partecipi al rischio, / gli aspri scontri di guerra in campo aperto: ma nulla / è dolce più dello starsene nei ben muniti castelli / che edificò la serena speculazione dei savi, / donde è concesso guardare gli altri dall’alto, e vederli / qua, là vagare, e sbandati cercar la via della vita, / e manovrar coll’ingegno, e far valere i natali, / e faticando sforzarsi a gara il giorno e la notte / di giungere alla ricchezza e di acquistarne il potere. (Lucrezio, De rerum natura, tr. it. di B. Pinchetti, La natura, Bur, Milano 19887). 22 Sulla questione della violenza e del male nella Shoah anche dalla prospettiva dello spettatore si veda in particolare R. Hilberg, Perpetrators, Victims, Bystanders, tr. it. di D. Panzieri, Carnefici, vittime, spettatori, Mondadori, Milano 1994. A tal riguardo, scrive Simona Forti: “Il male […] è un evento che si fa sistema […], nel senso di intrico di soggettività […], di attori e ideatori malvagi (pochi), di esecutori zelanti e convinti (pochi) e di spettatori disinteressati, non semplicemente indifferenti (tanti). Solo questa combinazione può produrre la vittima assoluta […]” (For 210). 23 Il mussulmano, dice a tal proposito Sofsky, era lo “specchio della miseria nel quale gli altri dovevano riconoscersi. In esso la propria morte (eigene Tod) era continuamente presente. Ciò che capitava al mussulmano poteva capitare a chiunque altro. […] Vederlo morire significava anticipare il proprio morire (eigene Sterben vorasuzusehen), un morire che era molto più terribile della morte” (Sof 235). “Era troppo dispendioso”, dice Yaakov Silberberg, “usare il gas per loro [per i mussulmani], e quindi venivano gettati nel fuoco vivi” (We Wept Without Tears, cit., p. 321). 24 Sulla scorta dei saggi di Hilberg, anche Welzer dedica alcune pagine del suo saggio sui Täter al Voyerismus, in cui si fa cenno proprio alla “Schaulust am Unglück anderer”, al piacere di osservare la disgrazia altrui (Wel2 205).
La materia e il male315
trarre un certo piacere dal fatto di poter constatare, attraverso gli altri, quale sia lo stato materico a cui egli stesso è destinato a ridursi, senza averlo tuttavia ancora raggiunto. Il piacere dell’osservazione nasce insomma dalla previsione della nostra morte mentre siamo ancora vivi. Ma l’osservazione (spectare) non è solo il videre generico o analitico; è anche un tueri, un conservare, mantenere, custodire, salvare; un prendersi cura in senso lato. L’osservazione del travaglio altrui, in cui si scorge (cernere) un imminente ritorno a quello stato materico da cui occorre mantenersi ben lontani e separati, non implica solo il piacere della separazione da quello stato: comporta altresì la conservazione, il mantenimento, la custodia proprio di questa complicata situazione visiva della separazione, alfine di poter continuare a trarne piacere. In tal modo si può dire che lo spettatore sia preso in un rapporto attrazione-repulsione, perché la sublime contemplatio comprende in sé i due principali momenti antitetici dell’esperienza del videre: quello della separazione (cernere) e quello della conservazione (tueri). Potremmo pertanto concludere dicendo che esiste un negativo, un dato ontologico (l’istinto, l’essenza materica del cadavere, la morte) contro cui l’umanità non può fare a meno di lottare per la salvezza di sé e della propria civiltà; ed esiste altresì un negativo posto o imposto, il negativo pseudontologico (l’esperienza mimetica della morte, propria e degli altri, il male sommo come violazione volontaria o arbitraria del legame della ri-velazione), attraverso cui la cultura dialettica della necessaria priorità di questo negativo crede non già di cancellare definitivamente il negativo ontologico (impossibile), ma di imitarlo e di sostituire ad esso quello pseudontologico, all’unico scopo di formare e di irrobustire la coscienza delle nuove generazioni, al fine di accrescerne la forza e la durezza e di affermarne la volontà di potenza. 4. Il male come trasferimento della necessità dal negativo naturale a quello artificiale In sintesi e schematicamente: da un lato lo spirito, pensando di fare il bene, ha rimosso nel tempo la materia e gli istinti, considerati come un male. Questo lavoro di rimozione coincide con la lunga storia della cultura umanistica. Opponendosi a questa cultura e vo-
316
Il negativo e l’attesa
lendo quindi deliberatamente fare il male al fine di giustificare la propria politica razziale, dall’altra parte, il nazismo, attraverso il Lager, ha riportato violentemente in primo piano la materia, revocando scientemente e scientificamente da essa ogni rimozione. Naturale allora che l’uomo sia rimasto traumatizzato: perché dopo essere stato per secoli educato dalla religione e dall’etica a una cultura spirituale – il cui scopo principale è sempre stato la ri-velazione rimuovente della materia e il controllo degli istinti, cioè di quell’animalità che, ben prima di Hobbes, Aristotele riconosceva nello politikón zôon, nell’animale politico –, si vede ora inaspettatamente e violentemente ridotto a una delle sue radici, cioè a quella materico-ferina; riduzione che, pertanto, per quella cultura umanistica non può che risultare incomprensibile e intollerabile, perché rappresenta il male assoluto, il negativo assoluto, l’irrazionale assoluto. E ciò anche se per il meccanismo dialettico, su cui pur si fonda la nostra stessa cultura ri-velante, non può esserci agathón senza kakón, affermazione del bene e quindi del positivo, senza un negativo, vero o falso che sia, il quale dovrà essere necessariamente non posto, ma presupposto, cioè ontologicamente già dato, per venire poi rimosso. Sarà solo per il principio della necessaria priorità, che è una ripresa, una distorsione, un piegamento di quel meccanismo ontologico a fini pseudontologici, che si dovrà porre il negativo, anche là dove esso non sia già dato. Per il principio della necessaria priorità del negativo non ci può essere insomma affermazione dello spirito e della ragione senza porre prima necessariamente la negazione della materia e dell’istinto; non ci può essere bene senza porre o imporre prioritariamente il male. In ogni caso, presupposto o posto che sia, il male o il negativo per quel meccanismo logico-dialettico risulta necessario per l’affermazione del bene o del positivo. Di questo fatto, cioè del non poter fare a meno del negativo, è consapevole non solo il positivo, simbolo delle forze del bene, ma anche il negativo stesso, simbolo delle forze del male. Una volta preso atto della propria indispensabilità, il negativo ne dispone come di una carta che può giocare quando vuole, come un atout, come un temibile privilegio che può far valere al momento opportuno. La riduzione al materico è infatti il vessillo del materialismo razziale che le forze del male sbandierano cinicamente durante la loro ininterrotta lotta contro le forze ri-velanti e riequilibranti del bene. Le quali, a loro volta, però, per il loro vantaggio – ecco il
La materia e il male317
nocciolo della questione – quando intendono affermare la loro positività, sapendo che non potrebbero farlo senza la presenza ostile del negativo, necessariamente lo richiamano, lo evocano come uno spauracchio, talora nelle forme più dure e spietate (come ad esempio il già ricordato principio dell’eticità della guerra), talaltra in quelle meno dure, a seconda delle situazioni. Non solo dunque a quel malvagio ricatto del materialismo razziale, ma anche a questa folle e irragionevole strategia dialettica del positivo si rivolge la nostra critica alla necessaria priorità del negativo. Essa si rivolge quindi non già contro il negativo ontologico o dato, ma esclusivamente contro quello pseudontologico, ossia posto o imposto. In che cosa risiede allora il negativo di cui si intende fare la critica? Esso risiede nell’assurda convinzione che l’uomo possa imparare a conoscere sé stesso solo dopo aver fatto esperienza della sofferenza e della morte. Da qui il richiamo nietzscheano alla necessità della guerra, alla lotta di tutti contro tutti, alla barbarie, all’omicidio, al genocidio. Ma l’elogio della guerra e della violenza, ricorda tra l’altro Hannah Arendt, è solo la logica conseguenza dell’elogio smodato del vitalismo nietzscheano e soreliano, di cui si sono inebriate le politiche totalitarie25. “Soprattutto Lenin e Hitler”, osserva dal suo canto Todorov, […] adotteranno dal darwinismo l’idea della lotta senza quartiere [cioè della guerra], come legge generale della vita e della storia” (Tod2 45 cn). Un’idea che ha il suo teorico ispiratore in Hobbes e che troverà prima in Bacone e poi in Darwin la sua consacrazione scientifica. Il fatto che, dice Todorov, nella natura vi siano sempre e necessariamente due forze contrapposte (due classi, due razze) che si fronteggiano “in una lotta spietata”, spinte da una selezione naturale, costituisce “la verità del mondo”. Ora, “una volta riconosciuta questa verità”, data da una natura considerata come magistra vitae, all’uomo non resta che assecondarla, imitarla e continuarla attraverso l’ausilio e l’uso accorto della tecnica all’unico scopo di perfezionare e di potenziare l’uomo. A questo punto non resta che “aggiungere [sovrapporre e sostituire, diremmo] la selezione artificiale”, cioè quella applicata dalla volontà scientifica, “alla selezione naturale”, scoperta dalla scienza medesima. “È 25
H. Arendt, On Violence (1969), tr. it. di S. D’Amico, Sulla violenza, Guanda, Parma 2001, p. 75.
318
Il negativo e l’attesa
proprio così”, conclude il filosofo, “che la tecnica, che è il campo della volontà, può richiamarsi alla scienza, che cerca di conoscere la necessità” (Tod2 54 cn). Sicché, se “la guerra è la verità della vita [e della natura], non c’è alcuna ragione di astenersi dal praticarla” (Tod2 79). Assumendo come fondamento della propria politica razziale l’autoregolazione della natura, il nazismo, scrive a tal proposito la Forti (For 183), “avrebbe funzionato in piena consonanza con le leggi biologiche che, per necessità della natura, implicano una lotta senza quartiere delle forze vitali contro gli agenti portatori di morte” (For 166); “giocando a una sorta di nietzscheana innocenza del divenire, che celebra soltanto la forza del forte”, e letteralizzando le metafore biologiche e zoologiche, il potere nazista non ha solo trasformato la biopolitica in tanatopolitica, non ha soltanto moralizzato il processo della selezione naturale (“la volpe non può provare pietà per l’oca”) (For 183), ma, aggiungiamo noi, ha fatto di questo processo naturale anche la propria pedagogia, una sorta di magistra vitae. In tal modo, traslando e applicando nell’etica, nella politica e nella storia lo stesso insegnamento competitivo e selettivo che apprende guardando alla potenza mitica, all’Idea della natura attraverso il darwinismo sociale, esso si autolegittima come ideologia. La lotta per l’esistenza, ossia il processo naturale di selezione, fu uno dei concetti che il darwinismo mise a disposizione dell’ideologia razziale fatta propria dagli imperialisti europei di fine XIX secolo. Tale ideologia venne sostenuta da evoluzionisti utilitaristi come Herbert Spencer, il quale, dice la Arendt, “trattò le scienze sociali come parte della biologia”. Per garantire questa associazione tra scienze sociali e biologia si approfondì l’eugenetica, la quale, osserva la filosofa, venne sviluppata negli anni Venti del Novecento, specialmente in Germania, come reazione al pessimismo espresso da Il tramonto dell’occidente di Spengler. Per assicurare dunque lo sviluppo e il radicamento dell’ideologia razzista – ad un tempo frutto e giustificazione per l’imperialismo europeo, soprattutto in Africa – è bastato semplicemente, osserva con raro acume la Arendt, “trasformare il processo di selezione naturale, operante all’insaputa degli uomini, in uno strumento fisico “artificiale”, consapevolmente impiegato”26. 26 Ivi, pp. 249-250 cn.
La materia e il male319
La biologia influenzò molto la vita culturale nella metà del XIX secolo, sino a sostenere con Max Weinreich che “le leggi naturali scoperte per le piante e gli animali dovevano essere valide anche per l’uomo” (Baum 106). Una tale assimilazione di piante, animali e uomini riguardava soprattutto la legge naturale della sopravvivenza, l’inevitabile lotta vittoriosa dei più adatti sugli inadatti, dei forti sui più deboli, così come aveva asserito entusiasticamente Nietzsche nella Genealogia della morale. Tutto ciò venne mutuato dalla politica razziale del Terzo Reich e fu interpretato dai nazisti come un Kampf, come una lotta necessaria, come un dovere morale contro tutti coloro che venivano percepiti come unwertes Leben, come vita indegna, come vita senza valore (Baum 102). Ebbene, questo tipo di trasformazione, che la Arendt coglie alle origini del razzismo, questa specie di trasferimento da paradigmi naturali a paradigmi artificiali, cioè approntati dall’uomo, è dello stesso genere di quello che, a nostro avviso, la stessa umanità tedesca – così amante della Kultur e della positività insita nel negativo, cioè del paradigma messo in pratica pedagogicamente attraverso il Drill27 – ha attuato trasferendo la necessità del negativo naturale nella necessità del negativo artificiale. Dovendo necessariamente subire il negativo della natura o naturale, gli uomini hanno col tempo imparato a proprie spese la sua dura lex, ma nel contempo si sono formati sia nel corpo che nella mente. E quel negativo, naturalmente, non poteva che essere necessario e prioritario o antecedente rispetto all’esperienza formativa cha da esso l’uomo ricava. Questo trasferimento di paradigma, che 27 Il Drill, dice a tal proposito Todorov, è un “culto anteriore al nazismo […] che fa parte di quella che è stata definita ‘psicologia nera’ (il padre deve picchiare il figlio per farne un uomo), lo si ritrova anche nell’addestramento militare prussiano, durante il quale vengono imposti esercizi spossanti, marce chilometriche con un grosso peso sulle spalle, in nome dell’idea che ogni sofferenza in più è per il tuo bene e che invece di lamentarsene se ne deve essere orgogliosi. Il nazismo si appropria di queste ‘tradizioni’ e le integra in un sistema coerente” (Tod178 cn). Le esperienze affettive invece, soggiunge Todorov, sono fondamentali per il bambino, perché “contengono il germe delle categorie etiche. […] senza l’amore primario, senza la certezza iniziale di essere circondato di cure e di carezze, [senza la “disposizione alla felicità”, senza la capacità di amare, senza il rapporto amore-gioia che giustifica l’esistenza di ogni vita umana], il bambino rischia di crescere in uno stato di atrofia etica, di nichilismo radicale; e, divenuto adulto, di compiere il male senza averne la minima coscienza” (Tod2 169, 361).
320
Il negativo e l’attesa
noi qui abbiamo considerato come un vero e proprio principio, come principio della necessaria priorità del negativo, non è altro poi che quello che poeti, letterati e filosofi hanno riportato e decantato nelle loro opere. Si pensi solo a Dante, a Hölderlin, a Leopardi, a Hegel, a Nietzsche, ad Heidegger, e a tutto il retaggio giudaico-cristiano, alla lezione del Giobbe e alla buona novella dei Vangeli sinottici. Ebbene, questa antica cultura della necessità del negativo ha trovato nell’eticità della guerra (specialmente nella Prima guerra mondiale) una delle sue espressioni più impressionanti, dal momento che ha determinato, dice Emilio Gentile, l’apocalisse della modernità. I “meccanismi intellettuali” che il nazismo, “come catarsi e come promessa di un mondo nuovo”, ha evidenziato, dice dal suo canto Bensoussan, erano in effetti già “stati rodati nel corso della Grande guerra” (Ben 75), i cui massacri, tra l’altro, non saranno altro che “l’anticamera del genocidio” (Ben 61). Massacri che furono sperimentati una decina di anni prima, al tempo della colonizzazione tedesca della Namibia, con lo sterminio del popolo herero28. La Grande guerra, aggiunge lo storico francese, “fu il modello formativo” degli studenti völkisch, cioè dei giovani tedeschi nati a cavallo tra Otto e Novecento, e che erano controllati dalla destra mediante le organizzazioni studentesche (Ben 72). Se, come insegnano la natura e la cultura, è davanti al negativo che l’uomo può formarsi, allora perché non riprendere questo negativo paradigmatico, perché non farne il modello fondamentale della propria formazione psicofisica? Ma se il negativo tarda naturalmente ad arrivare, se ancora non è disponibile, allora perché non anticiparlo, perché non realizzarlo artificialmente, arbitrariamente? E ciò sapendo che a più negativo, sia in quantità che in qualità, corrisponde una formazione umana più completa e più profonda. In questa anticipazione artificiale del negativo consiste il male, la violenza non rispettosa dei tempi lunghi e lenti della natura. Scrive a tal proposito la Arendt: “il terrore esegue sul posto le sentenze di morte che, a quanto suppone, la natura avrebbe pronunciato contro razze e individui “inadatti a vivere”, o la storia contro le “classi morenti”, senza attendere i processi più lenti e meno efficaci della natura e della storia. […] [Nel] perfetto regime totalitario […] qualsiasi azione mira ad accelerare il processo della natura e della storia” (Are1 639-640). 28 “[L]’Africa nera fu il laboratorio di quella violenza estrema che si scatenerà in Europa qualche decennio dopo” (Ben 90).
La materia e il male321
Nel Novecento, con la deflagrazione del Primo conflitto mondiale, assunto, dice inoltre la Arendt, come una stupida e irreparabile fatalità (Are1 372), oltre che nell’idea dell’eticità della guerra, il principio della necessaria priorità del negativo si concretizzò più efficacemente in un cinismo generalizzato che venne scambiato per saggezza: un cinismo consapevole, dunque, che si espresse in un odio indefinito per tutto e per tutti (Are1 373). Quello stesso “odio indifferenziato” che per la Hillesum “è la cosa peggiore che ci sia”, perché è “una malattia dell’anima”29. Il cinismo odioso divenne pertanto la modalità fondamentale che rendeva possibile la realizzazione di quel principio. In particolare, sostiene ancora la filosofa, sia la “generazione del fronte”, o “generazione delle trincee”, sia quelle cresciute nell’epoca imperialista, pensavano che la guerra e le sofferenze ad essa connesse fossero “uno strumento del progresso storico” e che “la lotta di tutti contro tutti era la legge dell’universo”: l’uomo doveva adeguare la sua condotta ad essa e la “crudeltà” era ritenuta non solo una delle massime virtù umane, ma anche uno degli atteggiamenti più scandalosi per sorprendere e quindi per opporsi all’ipocrisia della società borghese degli anni Venti (Are1 456-463). “La guerra”, osserva a tal riguardo la Arendt, commentando l’opinione di una delle sue fonti (Hanna Hafkersbrink), “era stata vissuta [da quella generazione] come “la più potente delle azioni di massa”, capace di cancellare le differenze individuali, in modo tale che persino la sofferenza, che tradizionalmente aveva contraddistinto gli individui con una sorte unica, non scambiabile, poteva essere interpretata come “uno strumento del progresso storico” (Are1 456 cn). E poi anche per quanto riguarda più propriamente la questione della necessaria priorità del negativo, la filosofa è ancora più tranchant: “La grande fiducia di Hegel e di Marx nel “potere dialettico della negazione” […] si basa su un pregiudizio filosofico molto più antico [risale infatti a Eraclito]: che il male non è altro che un modus privativo del bene, che il bene può anche derivare 29 E. Hillesum, Dagboek van Etty Hillesum 1941-1943 (1986), tr. it. di C. Passanti, Diario 1941-1943, Adelphi 2014, p. 30 (15 marzo 1941). L’annotazione della Hillesum viene riportata anche nel capitolo che Todorov dedica alla giovane olandese in Insoumis (2015), tr. it. di E. Lana, Resistenti. Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia, Garzanti, Milano 2016, p. 39.
322
Il negativo e l’attesa
dal male; che, in breve, il male non è altro che una temporanea manifestazione di un bene ancora nascosto” (Are1 61). “Oggi, nella cultura di massa”, dice dal suo canto Adorno, “progresso e barbarie sono così strettamente intrecciati, che solo un’ascesi barbarica (barbarische Askese) contro quella e contro il progresso dei mezzi sarebbe in grado di ristabilire il non-barbarico (Unbarbarische)”30. Rispetto alla possibilità di una redenzione dell’individuo ex negativo, cioè a partire dalla dolorosa alienazione che la società tecnicizzata e tardo industriale produce, il pensiero dialettico di Adorno considera quel negativo certamente come qualcosa di prioritario, ma non (almeno sembra) come necessario, perché il pensiero critico, pur con tutti i suoi limiti culturali, cerca di prevenirne la necessità e quindi di evitarla. In altre parole, per il filosofo il negativo è ad un tempo necessario come condizione della presa di coscienza dell’alienazione da parte dell’individuo, e non necessario come qualcosa da evitare da parte del pensiero critico. Tuttavia, sulla scorta di Hölderlin, egli ritiene che ci possa essere redenzione non già evitando, ma facendo piuttosto l’esperienza del negativo, cioè superando la dolorosa pericolosità del negativo. E in questo si può dunque vedere che anche per lui il negativo non è solo prioritario, ma anche necessario. Ciò detto, due sono, secondo Bauman, i possibili approcci alla spiegazione dell’Olocausto31. Il primo: nonostante tutti i suoi sforzi, la cultura e la civilizzazione non sono riusciti a superare lo stato ferino hobbesiano. Il secondo: proprio questa civilizzazione e questa cultura, specie nella modernità burocratica e razionalizzante, hanno reso più disumano l’essere umano, perché hanno sostituito gli istinti naturali con condotte artificiali (Baum 139). Dal nostro punto di vista è possibile prospettare un terzo approccio: malgrado tutti i loro sforzi, la cultura e la civilizzazione, specie nella modernità, non potevano non creare le condizioni per l’attuazione dell’Olocausto32, perché questi loro sforzi 30 T. W. Adorno, Minima moralia, cit., I, 30. 31 L’Olocausto, sottolinea tra l’altro Bauman, non può essere ridotto in un “trauma privato”, in “un’offesa subita da una sola nazione” (Baum 9). 32 “L’Olocausto”, scrive in particolare Bauman, “fu pensato e messo in atto nell’ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato
La materia e il male323
erano sin dall’inizio condizionati da un principio culturale che li ha sempre vanificati: il principio della necessaria priorità del negativo. Un principio secondo cui, come si è già detto e che qui ribadiamo ulteriormente in termini generali, per poter ottenere il positivo non si può non presupporre e superare necessariamente il negativo, e ciò al punto da doverlo persino generare quando questo non si desse. La cultura deve almeno in astratto presupporre il negativo per poter garantire il progresso civilizzatore verso il positivo. Nello stesso modo, oltre che sul piano culturale e soprattutto pedagogico, anche sul piano concreto il nazismo non può prescindere dal negativo della politica sterminatoria, cioè dalla Vernichtung, per poter attuare il proprio progresso, vale a dire la realizzazione di uno Stato positivo, privo di ogni negativo, uno Stato perfetto, ossia radicalmente decontaminato da ogni impurità negativa. Per questo l’azione della necessaria priorità del negativo si può riscontrare anche nell’azione burocratica, nella quale, dice Bauman, “l’autovalutazione morale positiva dei suoi soggetti” non può prescindere dalla “disumanizzazione degli oggetti dell’azione burocratica” (Baum 150). Ora, questo “modello burocratico di azione”, sottolinea Bauman, “si è sviluppato nel corso della modernizzazione”, è un frutto della modernità, e come tale può funzionare in tutti i settori della società, può essere utilizzato per tutti i fini, non solo dunque per l’Olocausto. In ultima analisi, la critica che noi qui muoviamo alla cultura muove dal fatto che essa ha sempre fatto proprio il principio teologico della necessaria priorità del negativo, del quale ha forse preso coscienza solo con la realtà dei Lager nazisti e grazie alla testimonianza dei superstiti. Lager che per Adorno costituiscono il completamento di “ciò che lo sviluppo incessante della tecnica ha deciso da tempo” per gli uomini33, e alla cui verità quella testimonianza si avvicina sempre come intentio obliqua, cioè in maniera necessariamente anfidromica. E se quella di Levi vi si approssima più delle altre, ciò si deve forse non solo al fatto che il suo linguaggio oggettivo e volutamente privo di orpelli e digressioni riesce a descrivere meglio il meccanismo che riduceva gli uomini a cose,
33
della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale umano: ecco perché è un problema di tale società, di tale civiltà e di tale cultura” (Baum 11). T. W. Adorno, Minima moralia, cit., I, 18.
324
Il negativo e l’attesa
ma anche al fatto che forse più di altri testimoni, dopo aver fatto esperienza della cosificazione umana, egli ha avuto modo di riflettere a fondo su di essa. 5. Politikón-zôon o dell’eterna lotta dello spirito contro la materia Pur tenendo conto delle interessanti conclusioni di Todorov sull’inestinguibilità dell’impulso morale nei deportati, è ormai diventato un tópos della letteratura concentrazionaria la convinzione secondo la quale ad Auschwitz lo spirito, la cultura e la morale hanno subìto un definitivo tracollo, se non un vero e proprio annichilamento, un azzeramento dei valori. Com’è noto, ben prima di Auschwitz Nietzsche parlava di nichilismo, e con Auschwitz esso da presagio filosofico diventò storico factum brutum, da tendenza ideale divenne reale. Il nulla ambiguo che il filosofo dello Zarathustra ravvisava nella fiacca cultura europea di fine Ottocento divenne il nulla univoco e inequivocabile del Lager, simbolo storico della barbarie da lui stesso auspicata. A fronte della secolare decadenza dei valori cristiano-borghese da lui prevista, auspicata e persino accelerata con il martello in mano, decadenza che porterà dritto alle due guerre mondiali e ad Auschwitz, egli propose una Umwertung aller Werte, una “rivalutazione di tutti i valori”. E in effetti dopo Auschwitz si dovrebbe veramente inaugurare un nuovo e più consapevole incipit per la cultura, poiché quasi tutta quella del passato, e non soltanto molta di quella che si è affermata a cavallo tra XIX e XX secolo, non può più essere credibile. Occorrerebbero nuovi valori, uno spirito più accorto e più intraprendente che sappia fuoriuscire anche dal dualismo nietzscheano nichilismo attivo/nichilismo reattivo. Con Auschwitz infatti non si è rivelato solo il fallimento della cultura tedesca, ma anche di tutta quella occidentale. Tutta questa cultura si è rivelata come un semplice tentativo di sottomettere l’Antagonista assoluto, cioè la materia: un tentativo purtroppo dolorosamente fallito ad Auschwitz e con Auschwitz. Nichilismo era quello che Nietzsche ha rintracciato nel secolarizzarsi della storia. Il nulla fu ciò che la cultura scoprì in sé all’interno del Lager. Il nulla è quello che resta dopo l’esperienza concentrazionaria. La struttura della cultura ad Auschwitz è ceduta al soffio velenoso, ardente e distruttivo del drago nazista, la cui violenza si
La materia e il male325
è dimostrata inaudita perché ha violentemente confutato nello spirito la convinzione unilaterale (e proprio per questo inattendibile e illusoria) di essere non solo il vero Protagonista, ma di aver, come tale, già ottenuto la meglio nell’eterno conflitto contro l’Antagonista, contro la materia34. Le continue rielaborazioni degli assunti che stanno alla base delle leggi morali e dell’etica, nonché quelle che riguardano i teoremi, le definizioni, i corollari e le tesi scientifiche non sono altro che il generale tentativo di consolidare l’impalcatura su cui si regge quella illusione. La lotta dello spirito (protagonista) contro la materia (antagonista) è come un lungo scontro, un continuo agone, alla fine del quale non si sa chi sia il vincitore e chi il vinto. Il primo però, proprio perché consapevole di questa incertezza di fondo sull’esito del conflitto, tenta continuamente di convincere l’“altra” – il che significa in parte anche sé stesso (in quanto incarnato in un corpo) e quindi di autoconvincersi – di aver già avuto la meglio e per questo presenta una quantità innumerevole di documenti culturali, di attestati e relazioni tese alla certificazione, o meglio all’autocertificazione, perlomeno legale, della propria vittoria, dal momento che non ne può ottenere la certezza fattuale. Questa instancabile e ansiosa attività di consolidamento dell’autocertificazione culturale attorno al nulla dell’illusione di vittoria è propria della ragione. Le dimostrazioni e spiegazioni teoretico-pratiche che questa continua a produrrre attorno a quel nucleo di incertezza sono simili agli esili fili di un’immensa ragnatela con cui il ragno spirituale, l’instancabile e millenario tessitore, cerca di “coprire” quella inevitabile e incolmabile falla, cioè l’angosciosa incertezza che per tutto il tempo lo spirito cerca di superare andando disperatamente alla ricerca di una benché minima assicurazione, di una conferma, di un solo gesto allusivo, di un simbolo, di una metafora, di un qualsiasi tropo che in qualche modo possa placare il suo bisogno di certezza. La semplice forza dell’Avversario consiste però nel non dare mai conferme. Lo spirito propone domande su domande, ma l’altro non 34 La violenza, scrive Simona Forti commentando Sofsky, è “lo strumento più potente per fare a pezzi l’identità umana, il mezzo in grado, come nessun altro, di ridurre la complicata trama di relazioni di una biografia a quella materialità completamente oggettivata che caratterizza la vittima inerme” (For 154 cn).
326
Il negativo e l’attesa
risponde, e in ciò è peggio del Dio di Giobbe. Infatti alla fine lo spirito si accorge smarrito che anche i fenomeni naturali non sono altro che sue interpretazioni, cioè rappresentazioni o proiezioni spirituali. Lo spirito domanda: “Ammetti di aver perso?”. La materia non risponde, resta silente. Allora “ingenuamente” quello crede che questo silenzio significhi verosimilmente una risposta e si convince del suo carattere affermativo, positivo. Naturalmente vi sono periodi in cui una tale opera di ingenuo autoconvincimento è più massiccia, e periodi in cui lo è meno. L’idealismo romantico tedesco con il suo inevitabile sviluppo positivista è stato senza dubbio una delle forme più profondamente ingenue che la lunga storia della travagliata ricerca di una ammissione nemica ricordi. Di una tale colossale ingenuità si avvide già Leopardi nella Ginestra, e soprattutto se ne accorsero coloro che ne hanno verificato l’inesorabile e dolorosa inconsistenza: Améry e Bettelheim, solo per fare qualche esempio35. Anche per Levi, lo abbiamo visto, “la materia è la grande antagonista dello Spirito” (SP, Zinco), è la molecola che sfida la ragione (LI, La sfida della molecola). Ma egli la osservava con l’occhio benevolo e “comprensivo” del chimico, poiché per lui (anche questo l’abbiamo già sottolineato) “vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi”. Auschwitz rappresenta un unicum proprio perché, a differenza di tutte le altre forme di violenza del passato, non ha tenuto in nessun conto dei valori morali in cui si sono cristallizzati i secoli di progressivo autoconvincimento spirituale. Anche per questo motivo Hegel (e con lui anche tutto l’idealismo tedesco) si era sbagliato, in quanto aveva ritenuto che la propria filosofia fosse l’unica ad essere stata in grado di strappare, mediante e in virtù della negazione, con la necessaria priorità del negativo, un consenso all’altro, un accordo, benché sempre in modo implicito, 35 Améry: “l’eterno progresso dell’umanità altro non era che un’ingenuità del diciannovesimo secolo” (Ame1 43). Bettelheim: “Quella guerra (la 1ª guerra mondiale) ci costrinse a riconoscere che nonostante i grandi progressi scientifici, tecnologici e intellettuali, l’uomo è tuttora preda di forze irrazionali che lo spingono alla violenza e alla distruzione” (Bet 23); “sembra che non rimanga più nulla in grado di offrire protezione. Non solo, ma non siamo più sicuri di potere mai più, in futuro, essere capaci di distinguere quello in cui possiamo aver fiducia e quello da cui invece bisogna difendersi” (Bet 24).
La materia e il male327
ossia dialettico. Auschwitz è la più bruciante smentita dell’hegelismo, perché la dialettica, in quanto espressione e metodo proprio dello spirito, non si è rivelata universalmente valida, soprattutto per due aspetti, tra loro correlati, della infondata presunzione dello spirito medesimo. Le capacità chirurgiche e mediche che esso vantava si sono rivelate inattendibili e pertanto simili a quelle di certi guaritori occasionali. Le ferite che esso aveva promesso di rimarginare definitivamente si riaprono violentemente e talvolta la loro recrudescenza è talmente straziante che trascinano il ferito all’autodistruzione. Il character indelebilis (Ame1 74) di queste ferite è quello che Levi rivive nei suoi sogni ad ora incerta e che Améry scopre angosciosamente in sé, inducendolo alla ferma convinzione che “nessuna (loro) ‘rimozione’ è possibile” (Ame1 78). Auschwitz è la violenta, subdola e inaspettata riapparizione del nemico, la riaffermazione della materia, dell’oggetto che distrugge in poco tempo l’immensa e complessa tela realizzata pazientemente dal concetto. Accordando la necessaria priorità al negativo, l’hegelismo aveva veramente creduto di aver definitivamente ipnotizzato il nemico con il pendolo della dialettica; aveva veramente confidato nella forza dei suoi incantesimi; aveva veramente pensato di esser riuscito ad imprigionare il nemico nell’atmosfera rarefatta e diafana dello spirito che la trama triadica dischiude. La lotta contro l’avversario (negativo materico) è leale non quando se ne sfrutta subdolamente la potenza, ma quando lo si rispetta come tale. Dinanzi ad esso e alla sua semplice epifania, l’astuzia della ragione si è dimostrata ancora più ingenua di quella coscienza immediata che con tanta forza lo spirito si appresta a superare, pur promettendole di conservarne la traccia nell’Aufhebung. Ma che cosa significa tutto questo rancore verso l’hegelismo? Questa nostra rabbia contro l’arroganza e la presunzione dello spirito nei confronti della materia, torniamo a domandare, non presuppone forse un’ulteriore utilizzazione di Auschwitz, anche solo come pretesto, visto che ha dato modo all’avversario di rifarsi? L’inatteso risveglio dell’avversario non ci è forse servito ad esprimere, assieme ad altri, tutta la profonda sfiducia verso questa filosofia? Non è servito, insomma, come occasione per poter finalmente avere nella realtà la controprova dell’assurdità dell’idealismo, prova che ogni volta il pensiero intuiva senza però poterla dimostrare? Assolutamente no. Noi crediamo infatti che Améry avesse ragione quando
328
Il negativo e l’attesa
affermava che tutto ciò che ha compreso nel Lager, e quindi anche le pretese dello spirito, avrebbe potuto comprenderlo tranquillamente anche fuori. Auschwitz ha solamente messo alla prova la presunzione dello spirito riguardo la definitiva resa del nemico. Dopo Auschwitz occorrerebbe pertanto non l’abbandono puro e semplice della lotta da parte dello spirito – impossibile –, ma l’inaugurazione di una nuova era spirituale; un’era in cui lo spirito possa diventare più rispettoso del suo avversario, in modo da non sfruttarlo come semplice e necessario protrettico per il progresso dell’intelligenza umana; un’era insomma in cui la cultura prenda finalmente coscienza della necessità di fuoriuscire dall’ambito asfissiante della dialettica e del suo proprio fondamento, il principio della necessaria priorità del negativo. Che cosa significa diventare più rispettosi dell’avversario, della materia? Significa abbandonare quell’astuzia della ragione che tende a sostituire il raggirato con i propri raggiri e a fare dell’opera del caso e della natura un prodotto della propria volontà; tende cioè ad obliare l’antagonista fino al punto da credere che sia veramente finito, domato, e che ci si possa permettere di allentare la presa. L’avversario però è invincibile: questo deve capire lo spirito, anche e soprattutto perché vincerlo, piegarlo, dominarlo, sottometterlo ottiene come controreazione il Lager e la perdita di sé. Ogni presunta vittoria, ogni preannunciato sbandieramento festeggiante la resa del nemico si è sempre rivelato una grave sconfitta per lo spirito. Fino ad arrivare ad Auschwitz, dove la sconfitta è stata totale. Dopo questa tremenda disfatta, esso non potrà più riprendere l’eterna lotta contro l’avversario supponendo dialetticamente di poterne ancora sfruttare la stessa forza, di poter far valere l’esperienza acquisita e di poterlo così abbindolare e plagiare. Da Auschwitz lo spirito non può ricavare un bel nulla, perché è proprio il nulla spirituale che l’esperienza concentrazionaria gli ha lasciato in eredità. A questo punto gli spiriti dialettici sarebbero già pronti a rimbrottare: non è forse da questo vuoto nulla, da questo negativo, che lo spirito deve necessariamente ripartire per continuare a tentare di imporsi sull’avversario? Non si riconfermerà così ancora una volta quel tanto criticato principio della necessaria priorità del negativo? Negativo, anzitutto, non è il materico, l’avversario in sé, bensì il modo in cui lo spirito intrattiene il rapporto con esso.
La materia e il male329
Negativa per lo spirito è l’esperienza del materico; non però del materico in generale, bensì del proprio materico, cioè del proprio corpo. Il corpo è talmente insopportabile per lo spirito che a un certo punto è stato obliato, rimosso; esso – dice Améry citando Sartre – è “le négligé”, “le passé sous silence” (Ame3 54). (Un destino che oggi, tra l’altro, nel tempo dell’informatizzazione del lavoro, sembra toccare anche a ciò che resta del “corpo” della classe operaia). Senza mezzi termini, senza filtri, Auschwitz ha semplicemente messo a nudo il materico dinanzi allo spirito. Una tale esperienza diretta del materico, prima ancora di provocare un possibile sconvolgimento psichico, conduce a chiedersi ad esempio se questa “cosa” che ora è qui dinanzi a me, così ammucchiata insieme ad altre simile ad essa, in una postura diversa dalla normale, sia un uomo oppure no. Certo, noi ci accorgiamo del nostro corpo. Ma noi chi? Noi che cosa? Chiamiamo noi lo “spirito”, forse per comodità. Noi ci accorgiamo del nostro corpo, ma non ci impressioniamo, non proviamo nessun orrore. È la struttura dell’in quanto che ce ne risparmia la sconvolgente esperienza. Heidegger diceva che non si può cogliere l’Esserci se non come uomo. Ma non è proprio il contrario che sostiene Levi, quando dice che doveva sforzarsi di considerare uomini quelle “cose” che, come “la cosa Sómogyi” (SE 153), ogni tanto cadevano dai pagliericci imbrattati di Auschwitz? Ja, ja, jawohl, avrebbe risposto prima di lasciarsi andare Sómogyi: “Con l’ultimo sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l’urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle, del capo”. Se questo è un uomo è, in senso spirituale, la prima e l’ultima opera di Levi, l’unica testimonianza di Levi. Anche perché I sommersi e i salvati, del 1986, come si è detto, non è solo il titolo originario che Levi aveva dato al suo primo racconto, ma è anche il capitolo “centrale” di questo racconto, nel senso che occupa realmente il centro nella distribuzione dei diciassette capitoli. Con il saggio del 1986, infatti, egli ritornerà a sviluppare il tema principale di quel capitolo, quello della “zona grigia”, concernente la sfumata molteplicità dei modi in cui l’animo umano si comporta quando viene posto dinanzi a condizioni particolarmente estreme. I sommersi e i salvati, dice tra l’altro Simona Forti, è una sorta di “controtesto” rispetto a I demoni di Dostoevskij, perché la figura della “zona grigia” si oppone al dualismo che lo scrittore russo coglie tra il bene e il male (For 387).
330
Il negativo e l’attesa
In questa figura, dice la Forti, risiede “la verità” (For 391) che Levi rivela in quel saggio a proposito dello stretto rapporto tra male e potere: un male che si manifesta in tutta la sua “banalità” fatta perlopiù di “demoni mediocri”, una banalità36 che si radica sostanzialmente nella tendenza innata nell’uomo ad assolutizzare la propria vita, ossia a preferire, come dicono Bettelheim, la Arendt e lo stesso Levi, quel tipo di vita alla morte dignitosa, quella che sarebbe certamente seguita a un’opposizione al male totalitario. Inoltre, Se questo è un uomo si conclude con il capitolo dedicato alla Storia di dieci giorni, parte che Levi, sotto l’urgenza del raccontare, aveva scritto di getto, prima di ogni altra. Sicché, almeno da questo punto di vista, si può dire che l’inizio della scrittura e della narrazione, ossia della tanto desiderata testimonianza, cominci con la fine dell’esperienza concentrazionaria, con quella temporalmente più vicina. Se questo è un uomo termina insomma con la Storia di dieci giorni, e questa a sua volta si conclude con il rumore che il corpo senza vita del chimico ungherese Sómogyi, appunto, provoca cadendo a terra dalla branda come una cosa. Rumore che Levi registra sia dentro la baracca degli infettati, sia fuori, sulla “neve grigia”, sulla “neve corrotta”, dove egli, con l’aiuto di Charles, depone quel corpo, quella cosa, perché la fossa comune era ormai piena (TR 157). Essi svolgono questa operazione dinanzi allo sguardo incredulo, imbarazzato e pieno di vergogna dei quattro russi a cavallo che avevano appena varcato la soglia dell’Arbeitslager di Monowitz. Questa dunque l’offesa che i tedeschi hanno arrecato all’uomo: la cosificazione, la riduzione dell’uomo a materia. Non ci può essere esperienza più dilaniante di questa. Si tratta, dice Levi, di un’esperienza “non-umana”, perché tale è quella “di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo” (SE 152). Una cosa-uomo dalla quale è stata violentemente cancellata ogni traccia spirituale, e quindi anche l’originaria capacità di attendere, ossia la consapevolezza di ex-sistere, poiché venendo meno ogni memoria e ogni speranza, questa cosa con può fare altro che sistere. Enti, comunque, non più degni di avere un nome, bensì solo un’arida cifra, come quella che si può incidere sulle cose o sulle bestie. Null Achtzehn, Zero Diciotto, ad esempio, è “nulla più che un involucro” (SE 36 La Forti, però, preferisce “parlare di ‘normalità del male’, piuttosto che di ‘banalità del male’” (For 249).
La materia e il male331
37). Ridotto a un siffatto livello, il pensare per esso diventa pertanto “inutile”, e chi assiste impotente a una tale riduzione finisce, dice Levi, con lo stancarsi perfino dell’attendere, che è l’ultima possibilità che resta all’uomo di pensarsi come ex-sistente. Negativa, dunque, non è la materia in sé, ma la convinzione spirituale che solo da un precedente e necessario confronto, auspicabilmente vittorioso, con essa sia possibile ottenere una positiva affermazione dello spirito. È assurdo – e Auschwitz lo ha dimostrato in tutta evidenza: ecco il nucleo della nostra tesi – pensare di fare dell’esperienza vittoriosa e necessariamente dolorosa dello spirito sulla materia, una materia che esso definisce come negativo, una magistra vitae. Anche perché una tale lectio implica inevitabilmente la soppressione dei discipuli. Il problema in tutta la sua contraddittorietà si potrebbe esplicitare anche nel seguente modo: è solo dal memento mori che lo spirito riceve uno stimolo in più per valorizzare la vita? È solo prendendo coscienza della sua morte che l’uomo può apprezzare la propria vita? La magistra era in realtà la Gorgone, perché ha pietrificato i suoi alunni. Un tale corso propedeutico alla vita, affidato allo sguardo di Medusa, non poteva che condurre i discepoli direttamente alla morte. In questo senso va dunque inteso il negativo materico, cioè come rapporto necessariamente doloroso con la materia, alla quale lo spirito, per farle intendere che la rispetta, le dà bensì la necessaria priorità, ma solo per realizzare il suo proprio progetto che prevede l’affermazione e il potenziamento di sé. Sconfiggere e piegare la materia non significa affatto, dunque, annientarla, ridurla a niente. Al contrario: più ci si innalza su di essa e più essa, come reazione, aumenta la sua mole. In ciò risiede l’ambiguità della rivelazione dell’obliato. Compito della cultura e dello spirito non può che essere la ri-velazione della materia per salvaguardare l’equilibrio rispettoso con essa. Facendo fallire drammaticamente questo essenziale compito spirituale, cioè spezzando quell’equilibrio, Auschwitz ha viceversa (da qui anche il senso del “mondo al contrario”) rivelato solo l’essenza materiale dell’uomo. Ciò significa allora che la materia è invincibile, perché anche una presunta e poco probabile vittoria su di essa da parte dello spirito ne moltiplica incommensurabilmente la massa. Negare la materia in ogni caso vuol dire negare sé stessi come materia pensante, come res cogitans: ecco il motivo dell’ipertrofia, della crescita anormale
332
Il negativo e l’attesa
della res extensa. L’impulso spirituale verso la nientificazione e l’interdizione della materia nientifica sorprendentemente anche quella parte di materia attraverso cui lo spirito individualizzato emette le sue sentenze. Ma nientificare la materia spiritualizzata significa sostanzialmente morire. La materia è invincibile giacché proprio quando lo spirito sembra ormai aleggiare festoso, leggiadro e opulento su di essa, quando sembra avanzare tecnologicamente senza freni verso la sicura vittoria, proprio allora essa si manifesta in tutta la sua terrificante, inattaccabile, desertica, calcificante, asfissiante, velenosa, cancerosa e mortale presenza. Con l’antagonista, quindi, lo spirito deve continuare necessariamente a confrontarsi: non può d’altronde fare altro. Dopo Auschwitz esso deve smettere di credersi il protagonista e deve scendere piuttosto nell’agone come un semplice agonista che lotta lealmente rispettando l’avversario. Rispettarlo significa comprendere che l’agonia è comune e interminabile, e che fin quando essa si protrarrà nel reciproco rispetto degli agonisti non vi potranno essere né vinti né vincitori. L’agonisma, cioè il premio dell’agonia, non può essere altro che la possibilità di proseguire questa lotta, questo ludus, questo gioco equilibrato di forze che solo un’inammissibile ottusità potrebbe far cessare definitivamente. L’importante dunque non è tanto l’affermazione del proto o dell’anti, quanto piuttosto quella dell’ago, dell’agere, cioè della possibilità di continuare ad agire e a cogitare, per dare così luogo ad un fra-t-tempo in cui at-tendere, naturalmente o no, all’Inatteso come vita e come morte. In una conferenza del 1979 sull’intolleranza razziale, Levi scrive: “se siamo uomini è perché abbiamo imparato a metterci al riparo, a contravvenire, a ostacolare certi istinti che sono la nostra eredità animale” (IR 23). Infatti “il pregiudizio razziale”, dice, “è qualcosa di assai poco umano”: è pre-umano, precede l’uomo, appartiene al mondo dell’animale, al mondo animalesco piuttosto che al mondo umano (IR 21). E ciò può anche essere dimostrato dal fatto che “la maggior parte dei crani che trovano gli archeologi, negli scavi […] in Africa orientale, sono crani sfondati – e qualcuno li ha sfondati” (IR 18). È stata ovviamente la cultura, cioè la riflessione sull’esperienza, che ci ha messo al riparo da questi istinti animali, pre-umani e pre-storici, consolidando così nel tempo e nella storia la cosiddetta civiltà umana. E lo ha fatto, specie negli ultimi secoli, tra Otto
La materia e il male333
e Novecento, cercando una spiegazione razionale a quegli istinti, che però razionali non sono (IR 24). Ora, nonostante tutti i ripari e i rimedi approntati nel tempo dalla cultura, l’evento Auschwitz ha dimostrato che l’irrazionale resta nel razionale e il razionale nell’irrazionale, il pre-umano o l’inumano nell’umano, l’animalità o disumanità nell’umanità. E ciò non può voler dire altro se non che tutti gli argini culturali non sono stati mai perfetti e che presentano un certo grado di permeabilità. Questo evento fa pensare che ci siano momenti nella storia umana in cui si rende fisicamente visibile la biforcazione di due universi paralleli e coesistenti, in uno dei quali, dice Tullio Regge, commentando con Primo Levi l’ipotesi meta-fisica di Everett e Wheeler, accade l’opposto di quello che si verifica in quell’altro (LR 49-50). Nel caso di Auschwitz i due universi, pur essendo opposti, non sono affatto separati: coesistono nello stesso tempo, rientrano nella medesima storia. Come se nel mondo, dice Salmen Gradowski, ci fossero due cieli e due lune37 entrambi gli universi fanno parte dell’umano, dell’in-dividuo, dell’unica radice che a un certo punto si divide in due, assumendo una bipartizione in-dividuale che fa prendere strade opposte: l’umano e l’inumano. Fa bene a tal proposito Marco Revelli38 in un suo recente saggio ad insistere sulla nozione di in-umanità, cioè sulla costitutiva e antropologica interdipendenza tra umano e disumano, sul profondo legame e sulla coesistenza dell’inumano nell’umano. D’altronde non può essere che così: lo aveva fissato Aristotele nella Politica, definendo l’uomo politikón zôon, “animale politico”. Infatti come il politikón o l’umana politicità (la forma) non può originariamente prescindere dallo zôon (to zôon, naturalmente neutro), non può cioè esimersi dal fare costantemente i conti con l’animalità, così dal suo canto lo zôon (la materia), l’animalità, non può evitare di rapportarsi e di fare i conti con le esigenze sociali del politikón, con l’essenza politica dell’uomo, con la cosiddetta civiltà. È dall’inevitabile confronto con lo zôon, infatti, che si determina e si definisce la cultura, che si sviluppano la paidéia, l’humanitas, la philantropia, la philía, 37 S. Gradowski, Sonderkommando. Diario di un crematorio di Auschwitz, 1944, cit., p. 77 38 M. Revelli, Umano Inumano Postumano. Le sfide del presente, Einaudi, Torino 2020, pp. 17, 18, 22, 51, 59, 79, 86, 122.
334
Il negativo e l’attesa
l’amore, l’amicizia, l’educazione, la cura per gli esseri umani. Proprio perché presi in un continuo pólemos, proprio perché, diremmo con George Steiner, destinalmente costretti in una sorta di “enigma odioso”, la loro stretta interdipendenza, il loro ontologico dualismo fa sì che entrambi gli elementi antitetici, possano bensì reciprocamente evitarsi, ma non mai tuttavia annientarsi. Possano astutamente eludersi ma non elidersi. Sicché come la politica potrà e dovrà certo educare, rimuovere, smussare le zanne all’animalità, ma non estirparla del tutto, nello stesso modo l’animalità potrà mettere in mora, rendere del tutto inutile la cultura politica, ma non ottunderne definitivamente l’impulso terapeutico. La storia insegna in effetti che in base a certe condizioni – condizioni che possono essere anche opportunamente e quindi “politicamente” predeterminate (e ciò mostra l’enigmatica e odiosa natura di quel rapporto dialettico, analogo sotto certi aspetti a quello tra eros e thánatos) –, quando ad esempio gli esseri umani si trovano a dover lottare per la loro sopravvivenza, nonostante tutti gli sforzi da loro compiuti nel dover star dietro al continuo conflitto politikón-zôon per la conquista e l’affermazione della civiltà, ebbene proprio in quelle circostanze, proprio in quella civiltà, la civile politicità, la paidéia, l’humanitas vengono meno e su di esse si erge vittoriosa l’animalità della bestia trionfante39. Sicché, da questo punto di vista, di epoca in epoca, 39 In una delle Storie naturali di Levi, Il sesto giorno l’uomo, secondo lo staff tecnico-amministrativo nominato dal Creatore per la formazione degli esseri viventi, doveva assumere la forma di un uccello. Ma all’ultimo momento il Creatore fa di testa sua: si procura sette pani d’argilla e, pur tenendo conto dei parametri base che aveva fornito ai suoi tecnici, modella a suo piacere una “creatura anomala”, una “bestia verticale”, alla quale, come ultimo tocco, l’artista infonde un alito, un leggero soffio, grazie al quale comincia ad animarsi e a muoversi. Forse con il titolo Il sesto giorno Levi ha voluto evocare l’origine di quella “bestia verticale”. Può darsi inoltre che anche l’intensità del titolo Se questo è un uomo risenta proprio di questa impostazione scientifica, di questo sguardo oggettivo, eppur non tuttavia freddo, ma dolorosamente distaccato e quindi tragico, con cui lo scienziato osserva le sue cavie, il chimico, nel nostro caso, osserva le reazioni tra gli elementi. “Lo sguardo che Levi getta sul mostruoso mondo dei campi”, scrive infatti Devolder, “è incontestabilmente quello dello scienziato” (J. Devolder, Primo Levi: écrire et survivre, in cit., p. 129). Un’impostazione che gli ha consentito di affrontare la testimonianza in maniera così radicale, cioè senza inutili orpelli descrittivi. E in effetti il racconto di Levi si avverte subito come veridico perché ha l’essenzialità di una relazione, di un rapporto, di un resoconto scientifico.
La materia e il male335
quasi in un eterno avvicendarsi manicheo, sulla scena del tempo o della storia umana, quest’ultima, con tutte le sue res gestae non sembra essere altro che il risultato del pólemos in-umano (nel senso di intra-umano, di interno all’uomo), dell’imprescindibile confronto naturale tra zôon e politikón. Oltre che dalla mitologia, esempi suggestivi di una siffatta in-umanità ci provengono anche dalla letteratura. Ad esempio da Kafka. La Metamorfosi, La colonia penale, Il processo (del quale non a caso esiste anche una traduzione di Primo Levi) ne sono la vivida e inquietante rappresentazione, dal momento che anticipano di qualche anno una delle emersioni più sconvolgenti dell’in-umano dalla storia, il nazionalsocialismo. Dopo lo Stagirita e ancora più chiaramente di Tolstoj, sia Kafka che lo stesso Freud hanno colto nell’uomo questa costitutiva e inquietante (un-heimlich) ambiguità antropologico-affettiva. L’impressionante rapidità con cui l’uomo si ri-assuefà alla sua natura ferina, all’insetto in lui connaturato, la docilità con cui l’Io si piega alle esigenze radicali dell’Es, mettono in luce non solo l’insuperabilità di quella coesistenza dialettica, ma spiegano e giustificano anche l’emersione e la periodica affermazione dello zôon sul politikón. Più o meno nello stesso periodo, anche Heidegger (il filosofo che, dice la Arendt, “diede al nazismo una patina di rispettabilità in seno all’élite universitaria”40) in Essere e tempo toccava il tema della dualità del Dasein, mettendo bene in risalto la differenza tra esserci inautentico ed esserci autentico. A destare l’uomo dalla sua inautenticità in vista di un eventuale recupero dell’autenticità è l’Angst, l’angoscia dinanzi alla possibilità della propria morte. Mentre da un lato l’uomo inautentico (più vicino in tal senso all’essere che si lascia vivere nella sua gettatezza come un animale) ha paura e rimuove la propria morte rifuggendone l’imminente possibilità, dall’altro lato, viceversa, l’essere autentico (più vicino all’essere incivilito: non però nel senso della Zivilisation, del politico, ma in quello della Kultur, dell’impolitico manniano) l’accetta, l’anticipa e, come l’uomo nobile di Meister Eckhart, vi convive, facendone lo scrigno salvifico e autentificante della sua intera vita. Senza il confronto angoscioso con la morte – la quale, in quelle condizioni po40 H. Arendt, L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo, a cura di Francesco Fistetti, Editori Riunuti, Roma 2001, p. 105.
336
Il negativo e l’attesa
liticamente predisposte, diverrà persino così “bella” e significativa da essere assunta come simbolo delle divisioni “Totenkopf” (“Testa di morto”) formate da quegli in-dividui che giustamente Levi definisce “bestie verticali”41 –, senza il confronto con essa, dunque, con la morte, per il filosofo di Messkirch, come pure per l’autore delle Considerazioni di un impolitico, non si dà la possibilità per il passaggio dall’inautenticità animale all’autenticità razionale. Anche qui, dunque, sul piano dell’esistenzialismo heideggeriano, si prende atto dell’ontologica imprescindibilità dallo zôon (perché senza di questo, paradossalmente, non si dà politikón, cioè paidéia, cultura, civiltà, umanità), e al contempo la si prende a pretesto per continuare a giustificare il principio della necessaria priorità del negativo. La cultura, la civiltà, l’educazione occidentale si sviluppano dunque a partire dalla presa d’atto consapevole dell’esistenza della reciprocità, del dualismo, della dialettica e della imprescindibilità dei due elementi antitetici che coesistono nell’in-dividuo: cioè in un ente che pur manifestandosi come unità, contiene tuttavia in sé una dualità polemica capace di formarlo dall’interno attraverso una sorta di Selbstbildung, di autoformazione. Sicché, come sul piano ontologico non si dà possibilità alcuna per il politikón, per la civilizzazione politica, per la convivenza civile e sociale degli individui senza l’originario e continuo conflitto con lo zôon, così dalla prospettiva di questa analitica esistenziale non c’è possibilità di una vita autentica senza il confronto angoscioso con la morte. Ciò induce a pensare che il politikón appartenga allo zôon nello stesso modo costituivo in cui ogni essere vivente appartiene alla morte. Nel senso che non può sfuggirgli, non può prescinderne. In termini schematici si potrebbe inoltre dire che senza il necessario e ontologico rapporto con il “negativo” 41 “Che razza di esseri umani sono, che razza di mostri quelli che non sono mai sazi di uccidere [quelli che non si stancano mai di infliggere agli altri i peggiori tormenti], per i quali ogni miseria che riversavano sugli ebrei [per i quali la miseria che hanno riversato su vittime pacifiste e indifese, tanto avverse alla violenza] altro non era che uno stimolo a spingerli in una miseria ancora più profonda e più spietata [uno stimolo a far precipitare queste stesse vittime verso sventure ancora più terribili e spietate]?” È la stessa domanda che Thomas Mann si pone in due articoli degli anni Quaranta, Ebrei nel terrore (1942) e Un popolo duraturo (1944), ora compresi in Fratello Hitler e altri scritti sulla questione ebraica (Mondadori, Milano 2005, cn).
La materia e il male337
(zôon, animalità, inumano, Un-heimlichkeit) non c’è autoformazione, costruzione ed edificazione del “positivo” (paidéia, umanità, cultura); che la civiltà non è altro che l’esito temporalmente e variamente determinato dalla sua continua lotta contro il suo proprio e intimo disagio, perché non ci può essere sanità senza il continuo impegno nel trovare la giusta terapia, nel curare la propria congenita malattia, nel sanare la propria ferita intesa nel senso duplice del phármakon. Non è infatti soltanto la civiltà “progredita” (quella raggiunta nel ‘900) a determinare il disagio dell’animalità: è, viceversa, grazie anche a questo disagio che si forma e si struttura la civiltà. Stretti nel loro enigmatico destino, le due componenti coesistono e sono cooriginarie, come lo sono in Kant l’Io e la materia. Ma proprio come in Kant, che lega in modo gnoseologicamente inestricabile oggetto e concetto, non c’è sviluppo trascendentale dell’Ich denke senza l’impatto con i dati eterogenei della sensibilità che esso trova dinanzi a sé, così non può esserci umanizzazione senza l’imprescindibile confronto dell’in-dividuo con la sua costitutiva ferinità. E come l’Io kantiano accompagna ogni sua rappresentazione e intuizione, così la ragione umana non solo accompagna ma talvolta persino sostiene e pianifica le esigenze dei suoi istinti belluini. Da qui il senso del nodo, dello steineriano enigma odioso. È proprio la ragione, ricorda infatti ancora la Arendt, che rende l’uomo ancora più pericoloso e violento della bestia42. Esattamente da questa originaria e antropologica dipendenza del politikón dallo zôon, del “positivo” dal “negativo”, la civiltà occidentale ha desunto il proprio modello culturale e pedagogico di umanizzazione e di civilizzazione. Una civiltà, questa, nella quale la religione giudeo-cristiana è stata una delle forme cultuali e culturali che ha maggiormente contribuito ad infondere quel modello nella mente degli uomini. Giobbe e Gesù sono le figure simboliche di questo modello. Esse rappresentano il fatto per cui non vi può essere alcun positivo senza un necessario e precedente confronto con il negativo; non ci può essere salvezza o redenzione senza aver prima patito i necessari tormenti apparentemente ingiusti della shechìn ra‘, della piaga maligna, o i tormenti della croce. Per questa civiltà non si dà alcuna vera redenzione, formazione, Bildung, pai42
H. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 66.
338
Il negativo e l’attesa
déia senza essere stati prima messi alla necessaria prova (nisayòn) della morte; una morte che in entrambi i casi verrà bensì vissuta con estremo dolore, con profonda angoscia (quella stessa Angst di cui parlava Heidegger, necessaria per l’autenticità), ma che alla fine si rivelerà solo apparente (nel caso del Cristo) e addirittura impossibile (nel caso dell’Uzita), in ogni caso, consapevolmente o no, in funzione di una vita più autentica; un dolore infine che, secondo quel modello – ecco la sua follia –, quanto più è profondo, atroce e disumano, quanto più fa desiderare la morte, tanto più può essere redentivo e formativo. Interessante da questo punto di vista la riflessione di Levi a proposito della differenza tra l’educazione del soldato russo e quella del soldato tedesco: la prima gli sembra fondata su “una disciplina interiore nata dalla concordia, dall’amore reciproco e dall’amore di patria”, quella tedesca gli pare invece esteriore, cioè “meccanica e servile”; è per questo motivo, dice, che quella alla fine prevarrà su questa (TR 195-196). In effetti, sebbene si incarni in modo differente nelle diverse culture cristiane (quella ortodossa e quella cattolica e protestante), il principio della necessaria priorità del negativo per i russi (per Tolstoj e Dostoevskij) è vissuto e accettato come qualcosa di naturale o di soprannaturale, non legato in ogni caso alla volontà umana, mentre per i tedeschi (per Nietzsche e Heidegger) esso viene acquisito e inculcato come un metodo attraverso il Drill, uno strumento formativo approntato dalla volontà umana. I personaggi dei due romanzieri russi si trovano già nel negativo e, accettandolo come un destino, sanno trasfigurarlo in positivo; le figure di uomo nuovo e di essere autentico proposte dai due filosofi, invece, desiderano e vanno incontro al negativo, perché presumono di trarne beneficio in termini di autenticità, di forza e di potenza. I primi l’attendono con sapiente rassegnazione, ma non lo realizzano (il modello poetico è il legnaiolo leopardiano); i secondi invece lo provocano, l’anticipano e lo realizzano, predisponendolo come un meccanismo regolabile e quindi sfruttabile a piacere (il modello poetico è quello hölderliniano di Patmos). È forse per questo motivo che Nietzsche sentiva più consonanti alle sue corde dionisiache i demoni suicidi dostoevskiani. Insomma, per prendere congedo dalla sfera del trascendente, nella quale i russi collocavano sia il negativo che il positivo (la morte e la vita, la guerra e la pace), i tedeschi fanno del negativo un di-
La materia e il male339
spositivo messo a punto da loro stessi per poter anticipare i possibili benefici ricavabili da esso, secondo il principio della salvezza (Rettung) che discende necessariamente dal pericolo (Gefahr). Da questa anticipazione voluta deriva, soprattutto per essi, la necessaria priorità del negativo. Una volta radicata in profondità nella cultura umana, una volta assimilata dalle menti e nelle opere più rappresentative dell’umanità – per sommi capi: la dottrina eraclitea degli opposti, la Divina Commedia, l’etica pietista luterano-kantiana, il Drill prussiano (che rende possibile, dice Bensoussan, la militarizzazione delle mentalità o del pensiero) (Ben 240), il goethiano Bildungsroman, cioè il romanzo di formazione, l’idealismo hegeliano, la poesia romantica (Patmos di Hölderlin, persino La quiete dopo la tempesta di Leopardi), la già citata filosofia di Nietzsche e di Heidegger, desiderose di barbarie e di angoscia –, questa logica della necessaria priorità del negativo diviene dunque ben presto quella che ne L’apocalisse della modernità lo storico Emilio Gentile definisce “eticità della guerra”. Logica che condurrà nel ‘900 gli uomini al loro reciproco massacro nelle due guerre mondiali. Un’etica che lo storico ravvisa in molti rappresentanti della cultura tra Otto e Novecento e che ha certamente nel Nietzsche dell’aforisma 477 di Umano, troppo umano uno dei suoi epicentri più inquietanti: frammento il cui titolo ha un sapore sorprendentemente hegeliano (Indispensabile la guerra), nel quale, come abbiamo visto (Cap. 2, 4) – siamo nel 1878, data importante per molti motivi, soprattutto per l’inizio dell’espansionismo imperialistico in Africa e per il delinearsi dell’ambizioso trialismo austro-ungarico che porterà dritto all’eccidio di Sarajevo – si dice che per la sopravvivenza della civiltà l’umanità europea di quel tempo aveva “bisogno non solo di guerra, ma addirittura delle guerre più grandi e terribili – ossia di temporanee ricadute nella barbarie” (cn). Un’idea folle e profondamente occidentale che, come si vede, va ben oltre non solo quella kantiana della pace perpetua, ma anche oltre quella conciliante dei ricorsi storici vichiani. Un’idea, questa nietzscheana, che peraltro, come si è visto, discende coerentemente da una concezione della verità che il filosofo dell’Übermensch intende in senso extra-morale e che ravvisa nell’hobbesiano bellum omnium contra omnes.
340
Il negativo e l’attesa
Ciò per dire che solo in apparenza l’uomo, anche quando è divenuto politicamente più acculturato ed educato, riesce a liberarsi dallo zôon che reca in sé e dal male che questo secerne. Lo sapeva bene Epicuro. Anzi, lo zôon si riaffaccia quando il politikón, la cultura politicizzata e incarnata dal Leviatano, mostra tutta la sua fragilità, specie nei momenti in cui la lotta per la sopravvivenza si fa più dura. Anche oggi, purtroppo, con la dissoluzione della politica, con il moltiplicarsi dei demoni invisibili del potere, capaci di imporsi con una forza pietrificante43; oggi che con la postumanità biotecnologica diciamo di fatto “addio alla cultura”, perché ci affidiamo a un Apparato tecnologico44, con il quale ci illudiamo di correggere i danni generati dall’inumanità; ebbene oggi con l’inesorabile venir meno non solo della philía, della solidarietà sociale, ma anche della pietas, cioè del sentimento che Rousseau poneva a fondamento dell’essere umano; oggi, con l’attuale sovrapporsi delle emergenze che come tanti noiosi nodi vengono al pettine del progresso; oggi, infine, nel nostro confuso presente, con il distanziamento epidemiologicamente motivato del prossimo, e per di più con l’inaspettata guerra in Ucraina, non possiamo che assistere, ancora una volta meravigliati, al suo odioso risorgere, alla rinascita dello zôon. “Una volta introdotto nella storia”, dice Todorov, “il male non scompare con l’eliminazione del suo protagonista originario. Ancora oggi i crimini di Hitler […] contribuiscono alla propagazione del male”. “[…] il male non è un’aggiunta accidentale alla storia dell’umanità, di cui ci si potrebbe sbarazzare facilmente; esso è legato alla nostra stessa identità; per eliminarlo, bisognerebbe cambiare specie” (Tod2 203, 340).
43 Su ciò si vedano anche altri due saggi di Marco Revelli, La politica perduta, Einaudi, Torino 2003 e I demoni del potere, Laterza, Bari 2012. 44 Assai interessante tal proposito il saggio di Livio Bottani, Addio alla cultura, Aracne, Torino 2014.
CAPITOLO SESTO LA DIVINA SOFFERENZA
Poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso. (P. Levi, SE 23) Tra i ricordi recenti dell’umanità, nessun livello di sofferenza supera quello raggiunto nei campi di concentramento, il quale ha rivelato il profondo malessere del mondo che ci ha preceduti, responsabile della creazione di tali istituzioni. Se non vogliamo che un giorno tornino Auschwitz e Kolyma, dobbiamo trarre il massimo partito dall’insegnamento dei lager e cercare di capire quali siano le ragioni profonde della loro esistenza. (T. Todorov, Di fronte all’estremo, p. 246 cn)
1. Jonas, Ricoeur, Pareyson e il valore espiativo del dolore Auschwitz, dice Hans Jonas, rappresenta per la storia umana una sorta di “eone”, un’“epoca del processo cosmico”1 in cui si è prodotta una profonda frattura, una ferita che nessun phármakon può rimarginare, un “vizio di forma” diremmo con Levi, che, pur volendo, nessun contenuto narrativo surreale è in grado di eliminare definitivamente. Questa crepa cosmica rappresenta l’evento negativo da cui la ragione è dialetticamente impossibilitata a ricavare un risultato positivo razionale, poiché viene da esso impedita nella sua attività speculativa. La negazione, infatti, secondo la logica hegeliana, corrisponde al momento dialettico o negativo razionale, nel quale la negatività può essere riconosciuta solo dalla ragione 1
H. Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine judische Stimme, tr. it. di C. Angelino, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, il melangolo, Genova 1989, pp. 24, 35.
342
Il negativo e l’attesa
medesima. Com’è possibile però riconoscere questa negatività se ad Auschwitz la ragione è stata privata della propria essenza, cioè della capacità di comprendere la realtà attraverso le proprie categorie? Secondo Lyotard, infatti, come abbiamo già visto (Cap. IV, 3), Auschwitz rappresenta non una semplice esperienza, ma una “para-esperienza”, una meta-esperienza. Bloccando il meccanismo dialettico nel momento del negativo e impedendone così il riconoscimento, essa rende impossibile ad un tempo sia il normale compiersi dell’esperienza, cioè la sua assimilazione e la sua stessa trasmissione, sia il suo funzionamento anche dopo il 1945, impedendo così di consolidare, cioè di superare, conservare e inverare i nostri schemi logici al fine di giustificare la necessaria priorità del negativo, intesa come condizione della possibilità del vero e del giusto storici, ossia, in una parola, del positivo. Prima di Auschwitz il pensiero dialettico si poteva ritenere il fondamento che rendeva giustificabile la razionalità del reale procedere storico, e con essa anche il nostro stesso essere nel mondo; essere che, come accettazione persuasa di un simile fondamento onto-logico, era essenzialmente simile a quello del servo della gleba nel sistema feudale carolingio, nel quale la struttura sociale, politica ed economica traeva la propria legittimazione da quella religiosa o ecclesiastica. In quell’universo medievale, oltre che come ragion d’essere, Dio veniva compreso dagli uomini come sommo bene e onnipotente. Ora, dopo Auschwitz, secondo Jonas, diviene oltremodo necessario, soprattutto sul piano della teologia speculativa, rimettere in discussione non solo il nostro rapporto con Dio, ma anche il rapporto tra Dio e mondo. E ciò anche sulla scorta soprattutto della ormai nota sentenza di Adorno: “Nessuna parola risuonante dall’alto, neppure teologica, ha un suo diritto d’essere immodificata dopo Auschwitz” (vedi supra Cap. 4, 4). A causa della negazione della ragione che l’evento Auschwitz ha rappresentato per l’umanità, la problematizzazione di questo duplice rapporto religioso, non potendo più trovare adeguata espressione dinanzi al tribunale di una ragione storico-dialettica – anche perché, secondo Jaspers, la meta-esperienza dei campi di annientamento nazisti ha segnato la “più orrenda distruzione di tutto il nostro mondo materiale e morale”2 –, dovrà allora, per dirla con 2
K. Jaspers, La colpa della Germania, cit., p. 17.
La divina sofferenza343
un’espressione di Roland Barthes, svolgersi dinanzi al “degré zéro de la culture”, a cui quell’evento ha condotto. Più che nel cristianesimo – il quale, aspettandosi la salvezza dall’aldilà, attribuisce a Satana la creazione dell’al di qua – una tale problematizzazione può trovare espressione nell’ebraismo, secondo cui, al di là di haSatàn, è Dio l’unico vero artefice del mondo, degli umani, della loro legge e della loro storia, e quindi non solo di Sodoma e Gomorra, ma anche di Auschwitz, evento che per l’ebreo rimette in discussione il ruolo stesso di Dio. Una tale messa in discussione emerge in tutta la sua emblematica drammaticità nel Giobbe, testo con cui, vale la pena ribadire, non a caso si apre l’“antologia personale” leviana, cioè La ricerca delle radici. Attraverso le parole di Eliu si apprende che Dio Parla nel sogno, visione notturna, quando cade il sopore sugli uomini e si addormentano sul loro giaciglio; apre allora l’orecchio degli uomini e con apparizioni li spaventa, per distogliere l’uomo dal male e tenerlo lontano dall’orgoglio, per preservarne l’anima dalla fossa e la sua vita dalla morte violenta. Lo corregge con il dolore nel suo letto e con la tortura continua delle ossa; quando il suo senso ha nausea del pane, il suo appetito del cibo squisito; quando la sua carne si consuma a vista d’occhio e le ossa, che non si vedevano prima, spuntano fuori, quando egli si avvicina alla fossa e la sua vita alla dimora dei morti. (Gb 33, 15-22 cn)
È davvero questa la somma bontà che Dio sa profondere negli uomini? È spaventandoli e scarnificandoli che egli li ama? Se è così, dovremmo allora pensare che anche Auschwitz, come lo stesso inferno dantesco, sia stato voluto dalla divina potestate? Ma “quale Dio ha permesso che ciò accadesse?” si chiede lo stesso Jonas3. La sua risposta: proprio perché “Auschwitz rappresenta […] per l’esperienza ebraica della storia una realtà assolutamente nuova e inedita, [realtà] che non può essere compresa e pensata con le categorie teologiche tradizionali”; e poiché, in quanto filosofo, egli “non intende rinunciare sic et simpliciter al concetto di Dio”, non ci si può sottrarre dal pensare che una tale volontà divina di terrore e morte sia anch’essa una divinità sofferente4, una divinità che si rammarica e quasi si vergogna per aver usato il perverso meccanismo dialetti3 4
H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, cit., pp. 22-23. Ivi, p. 28.
344
Il negativo e l’attesa
co della necessaria priorità del negativo (perfettamente funzionante fino al 1945) come punizione protrettica al raggiungimento della positività della giustizia e del bene. E ciò soprattutto perché, prosegue, egli, “somma bontà, […] durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz […] restò muto […] tacque”. Non solo. Jonas osa affermare che Dio “non intervenne, non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo”; poiché nell’“epoca del processo cosmico” conclusosi con Auschwitz, Dio “ha abdicato ad ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo […], non ha reagito ‘con la mano forte e con il braccio teso’”5. Dopo Auschwitz, insomma, secondo il filosofo tedesco, il concetto di Dio si presenta privo della sua tradizionale connotazione base: l’onnipotenza6. In una problematica analoga a quella delineata da Jonas si possono inquadrare le riflessioni che Luigi Pareyson, da un punto di vista cristiano, svolge in Filosofia del libertà7. Se, secondo la lezione schellinghiana, il male in Dio resta una mera possibilità, come spiegare allora la sua cruda realtà nel mondo? Per il filosofo valdostano non vi sono dubbi: il “ridestatore del male, come insegna il racconto biblico, è l’uomo. L’origine del male è Dio, ma il vero autore ne è l’uomo, che di questa realizzazione porta l’intera responsabilità”. Ma perché l’uomo opera il male nel mondo e da che cosa gli deriva questa potenza? Egli, dice Pareyson, riesce a ridestare “il male dormiente in Dio” quando, assumendo “un atteggiamento blasfemo”, avanza la “pretesa di rifare l’originazione divina […] prendendo il posto di Dio”. Ma l’uomo non è Dio. Egli non sa e non ha saputo “padroneggiare la negatività”, la “riserva” o la “carica di negatività” che la libertà gli ha concesso. Sicché, ogni volta che ha voluto sostituirsi a Dio, compiendo in tal modo il male, la negatività – nello stesso 5 6
7
Ivi, pp. 35-36. Ecco cosa dice a tal proposito Elisa Springer, testimone viennese e naturalizzata italiana, deportata ad Auschwitz e a Bergen Belsen, nelle pagine in cui racconta il suo ritorno a casa: “Ho ritrovato Dio… mentre spingeva le mie paure al di là dei confini del male e mi restituiva alla vita, con una nuova speranza: io ero viva in quel mondo di morti. Dio era lì, che raccoglieva le mie miserie e sollevava il velo della mia oscurità. Era lì, immenso e sconfitto, davanti alle mie lacrime” (Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione, Marsilio, Milano 1997, p. 118 cn). L. Pareyson, Filosofia della libertà, il melangolo, Genova 1989, pp. 27-33.
La divina sofferenza345
modo della materia, come si è visto nel precedente capitolo – gli si è rivoltata contro facendolo scadere “al di sotto del suo livello umano”. Tuttavia, dopo l’irreversibile caduta nell’abisso del male, Pareyson crede che l’uomo possa ancora trovare una salvezza proprio nella sofferenza patita. E ciò anche se le “concezioni dialettiche otto e novecentesche” non hanno permesso a questa sofferenza, frutto della “tragedia cosmoteandrica”, di presentarsi come “unica speranza di debellare il male”, in quanto non l’hanno sufficientemente distinta dal male. Tra il male e la sofferenza, invece, secondo questo filosofo, c’è una differenza fondamentale: il primo è “distruttivo” e “devastante”, la seconda salvifica ed espiativa. “Il male”, ribadisce, riconfermando la sua opposizione alla necessità, “non può essere costruttivo”, perché “anche se estremizzato […] non porta con necessità dialettica alla positività mediante un capovolgimento” (cn). In questa sua chiara presa di posizione contro la necessità dialettica Pareyson ci trova dunque pienamente consenzienti, poiché il male che l’uomo ha potuto fare ad Auschwitz non è certo un male “costruttivo”, come si tende contro ogni ragione a credere. Giacché, continua il filosofo – anche lui, come Levi, ex partigiano nelle file di Giustizia e Libertà –, “Che l’uomo abbia ridestato il male dormiente in Dio è già sconvolgente, ma come abbia potuto farlo è cosa vertiginosa e terrificante, tanto profondo, fosco, tenebroso, e diciamo pure insondabile, è l’abisso del male”. Il dolore è insomma per Pareyson “l’energia nascosta nel mondo” e capace di sconfiggere il male; esso è l’unica forza in grado di far “invertire la rotta” alla decadenza dell’uomo. Per lui il “motore della storia” e “molla del progresso” non è già l’hegeliana potenza del negativo aggiogata alla necessità dialettica, ma è la sofferenza, grazie alla quale il male può venire superato e trasformato in bene. Al punto che portare la responsabilità della colpa potrà significare recare in sé la possibilità di riscatto e di purificazione. Intesa però come punizione, la sofferenza non salva, perché “la stretta giustizia […] non esce dai confini del male”. Né, sostiene a tal riguardo Jaspers, è salvifica, umiliante e quindi espiativa la “pietà”, poiché, sotto il suo abito di “culto per gli antenati”, oltre ad elementi a cui come tedeschi “ci sentiamo attaccati e affezionati”, essa contiene anche elementi che “non solo non amiamo, ma addirittura rigettiamo come assolutamente alieni e estranei a noi”8. 8
K. Jaspers, La colpa della Germania, cit., pp. 128-130.
346
Il negativo e l’attesa
La colpa, come traccia del passato nel presente, dice dal suo canto Ricoeur9, condiziona il futuro. Essa può condizionarlo in due modi: subendolo passivamente o attivamente. Quando la traccia si subisce passivamente blocca e zittisce; quando invece si subisce attivamente apre e reclama. Il passato, inoltre, inteso come definitivamente concluso ed esaurito (vergangen), non è un essente-stato (gewesen), perché l’essente-stato è anzitutto un essente che è stato e che continua ad essere; è un passato che, ben lungi dall’essere dimenticato, reclama di essere. Reclama nella forma della domanda, nella forma cioè della riformulazione. Non richiede di scoprire la causa, la verità, ciò a cui rimanda la traccia. Richiede e domanda solo di essere riformulato, ridetto; non però ripetuto tale e quale, ma in altri modi, da altri punti di vista. L’essente, che è stato, reclama e attende una sua riformulazione. Questo suo attendere apre o prospetta la dimensione del futuro, rivelando così l’influenza che il futuro può avere sul passato attraverso la riformulazione nel presente dell’essente stato. Certo, l’essente è stato. Questo è innegabile. Ma esso attende una diversa formulazione della storia inscritta nella traccia. Esso attende che si dia un nuovo senso a questa storia. Questo significa che ciò che è stato dell’essente-stato e che reclama di venire reinterpretato, può essere o appesantito con il senso di colpa o con lo spirito di vendetta, oppure alleggerito con la liberazione, l’apertura e lo spirito del perdono. Il che non significa affatto annullare il passato. Significa solo dargli un altro senso: un senso di apertura con una nuova ricostruzione da una nuova prospettiva, e quindi, di fatto, una nuova costruzione per il futuro. Il lavoro dello storico pertanto non deve essere solo ri-costruttivo, ma anche costruttivo. Deve essere una ricostruzione che non si limita a lasciare il passato così com’è, ma a farne motivo di contingenza e dunque di possibilità di cambiamento e di futuro. Egli non deve guardare al passato solo dal presente; deve guardarlo anche dal futuro, perché il suo esaminare il passato è sempre influenzato dalle sue 9
P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato (1998), il Mulino, Milano 2004 (si veda in part. il terzo capitolo: “La passeità nel movimento della temporalità”, pp. 35-45). Ricoeur è stato deportato nell’Oflag 83 di Wietzendorf, ove assieme a Mikel Dufrenne ha cominciato a tradurre le Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica di Husserl.
La divina sofferenza347
attese per il futuro. La sua non deve essere solo una retrospezione, ma anche una prospezione. Lo storico non deve rappresentare soltanto il presente degli uomini del passato, ma anche il presente del futuro che quegli uomini hanno sognato. Solo in questo modo egli spezzerà il determinismo storico e aprirà spiragli di contingenza e di possibilità nella storia. In tal modo lo storia non sarà più considerata o vissuta come una fatalità, come un destino immodificabile, come una necessità, ma come un essente-stato, come un passato suscettibile di reinterpretazione, aperto a un nuovo senso. Sicché, proprio quella traccia, quella ferita della storia (generale o individuale) può essere anzi occasione di rinascita non solo per il singolo individuo, ma anche per la riappropriazione della tradizione e della storia di una nazione e finanche dell’intero continente europeo. Ecco perché Ricoeur parla di “risorse terapeutiche”: le ferite del passato anziché inchiodare e condannare all’immodificabilità, possono rappresentare, con il perdono, motivo di rinascita. Bisogna anzi, da questa singolare prospettiva, investire, fondarsi sul proprio passato, su ciò che si è, sul nostro proprio essente-stato, sulla propria traccia; una traccia che rimanda a una ferita, ad un trauma storico che tende a sfuggire nella latenza e a permanere nell’oblio; una traccia, il cui dolore reclama e attende di essere espresso, rivisto. Occorre investire sulla propria ferita, per sublimarla, con la cultura, con il culto di questa ferita propria, non già però per lasciarsene schiacciare, ma per trarne linfa nuova e salvifica; per redimersi sia come persona sia come popolo. Questo dovrebbe essere il compito degli educatori pubblici: far riscoprire il valore salvifico, redimente (ossia liberatorio) e autentificante delle proprie ferite passate, dell’essente-stato, dell’essente che continua ad essere nel presente e che, come è appunto l’inconscio, accompagna come un’ombra tutta la nostra vita cosciente. Proprio come l’ich denke kantiano, che accompagna ogni nostra rappresentazione. Riscoprire il valore liberatorio e autentificante della nostra ferita del passato con la ripresa di quei sogni non concretizzati, di quelle promesse non realizzate che furono, in quanto essenti-stati (gewesen), degli uomini del passato e che per vari motivi non sono stati compiuti. Compiere l’incompiuto del passato. Fare non solo storia, ma fare la storia. Ecco il compito che ci attende, secondo Ricoeur.
348
Il negativo e l’attesa
Anche Pareyson, come Ricoeur, ravvisa nelle ferite del passato una risorsa terapeutica. Il filosofo italiano sembra più netto quando afferma: solo il dolore salva. Solo “la volontà di sofferenza” redime, perché è “recupero di schiettezza originaria e di sorgiva genuinità”. Non certo però, precisa, nel senso di Ricoeur, il dolore “subìto”, poiché, inteso come tale, non farebbe che “moltiplicare il male”. Soltanto quello “accettato, anzi voluto, anzi desiderato e cercato” salva. Solo un simile dolore tragicamente inteso è in grado di aprire “il cuore dolorante della realtà” e di svelare “il segreto dell’essere”: “il destino dell’uomo è l’espiazione e […] il dolore è il senso della vita e l’anima dell’universo”. E perché mai il dolore ha un potere simile? Perché, scrive Pareyson, in linea con Jonas, esso è il dolore divino sorto dalla volontaria autolimitazione di Dio per far posto al mondo e per le delusioni che l’uomo gli ha creato. In questa “consofferenza” divina e umana, che costituisce “uno dei capisaldi del pensiero tragico”, “il dolore si manifesta […] come nuova copula mundi […], perno della rotazione dal negativo al positivo, […] ritmo della libertà, […] fulcro della storia, […] pulsazione del reale, […] vincolo fra tempo e eternità”. Non seguendo il versante hegeliano della negatività, ma quello dostoevskiano e nietzscheano dell’affermazione redentiva, la questione della necessità, come si vede, si ripresenta anche nel pensiero tragico pareysoniano attraverso l’idea del dolore redimente. Tuttavia, nel suo breve scritto sulla libertà la preoccupazione di Pareyson non è soltanto quella di rendere redentiva e costruttiva la sofferenza, ma soprattutto quella di trovare un’alternativa filosofica reale al dominio della necessità dialettica. Come possibilità redentiva la sofferenza è, secondo Pareyson, come si è detto, “uno dei capisaldi del pensiero tragico”, secondo cui “fra l’uomo e Dio non [c’è] collaborazione nella grazia se prima non c’è stata nella sofferenza; […] senza il dolore il mondo [appare] enigmatico e la vita assurda; […] senza la sofferenza il male [rimane] irredento e la gioia inaccessibile”: non può esserci in ultima analisi “quiete” senza una precedente “tempesta”, né piacere senza l’affanno, né possibilità hölderliniana di salvezza se non là dove c’è il pericolo. René Girard e Levi (quest’ultimo anche alla luce della poesia leopardiana), due attenti studiosi del Libro di Giobbe, ossia di uno dei testi biblici emblematici della sofferenza redentiva e della rivol-
La divina sofferenza349
ta contro Dio, avvertono però: “la perfezione è delle vicende che si raccontano, non di quelle che si vivono” (SP 632), e che la storia a lieto fine riportata in quel testo ricalca fedelmente una “success story hollywoodienne”10. Si tratta infatti, osserva a tal riguardo lo scrittore torinese, di un quadro stereotipo proposto infinite volte, consacrato dalla letteratura e dalla poesia, raccolto dal cinematografo: al termine della bufera, quando sopravviene “la quiete dopo la tempesta”, ogni cor si rallegra. “Uscir di pena/ è diletto fra noi”. Dopo la malattia ritorna la salute; a rompere la prigionia arrivano i nostri, i liberatori, a bandiere spiegate; il soldato ritorna, e ritrova la famiglia e la pace. A giudicare dai racconti fatti da molti reduci, e dai miei stessi ricordi […] [n]ella maggior parte dei casi, l’ora della liberazione non è stata lieta né spensierata: scoccava per lo più su uno sfondo tragico di distruzione, strage e sofferenza [Cfr SE 134-153]. Non “piacer figlio d’affanno”: affanno figlio d’affanno. L’uscir di pena è stato un diletto solo per pochi fortunati, o solo per pochi istanti, o per animi molto semplici; quasi sempre ha coinciso con una fase d’angoscia. (SS 53)
Sulla base di queste parole di Levi crediamo pertanto che vi siano motivi altrettanto validi per dubitare che il male, il dolore e la sofferenza possano essere reinvestiti produttivamente. Oltre alla critica mossa da Girard all’epilogo del Libro di Giobbe, ci sono motivi altrettanto fondati per ritenere che non sempre chi ha perso tutto e versa nel dolore ed è straziato dall’angoscia riesca con ciò ad invertire la rotta e ad avviarsi verso il regno di Dio che con l’espiazione crede di essersi guadagnato. Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso. (SE 23 cn)
Abbiamo voluto evidenziare quest’ultima parte del pensiero di Levi perché esso, concepito in situazioni inumane, sembra porsi in qualche modo non solo come la drammatica giustificazione della tragica fine dell’autore, ma anche come una secca smentita del re10 R. Girard, La route antique des hommes pervers, cit., p. 212 ss.
350
Il negativo e l’attesa
taggio teo-filosofico dei Vangeli11 che, facendolo proprio, Schelling (uno dei filosofi idealisti più cari a Pareyson) sintetizza in uno dei passi più significativi degli Erlanger Vorträge che ci permettiamo di riportare per intero: Dunque, chi vuole collocarsi nel punto iniziale della filosofia veramente libera deve abbandonare anche Dio. Vale qui il detto: chi vorrà conservarlo lo perderà, e chi lo abbandona lo ritroverà. Colui soltanto è arrivato al fondo di se stesso ed ha conosciuto tutta la profondità della vita, che in un punto ha abbandonato tutto ed è stato abbandonato da tutto, per il quale tutto è sprofondato, e che si è visto solo, di fronte all’infinito: un passo enorme che Platone ha paragonato alla morte. Ciò che secondo Dante sta scritto sulle porte dell’inferno dovrebbe iscriversi, con un senso diverso, anche sull’ingresso della filosofia: “Lasciate ogni speranza, o voi che entrate”. Chi vuol veramente filosofare deve rinunciare a ogni speranza, a ogni desiderio, a ogni nostalgia; non deve voler nulla né sapere nulla, sentirsi del tutto povero e nudo, abbandonare tutto per guadagnare tutto (alles dahingeben, um alles zu gewinnen). Difficile è questo passo, difficile è separarsi, per dire così, anche dall’ultima sponda. E che le cose stiano così lo vediamo dal fatto che pochissimi ne sono stati capaci.12
È comunque verosimile che il motto che Dante immaginava iscritto sopra la porta dell’inferno e che Schelling immaginava su quella della filosofia avrebbe potuto facilmente sostituire quello che grandeggia sopra al cancello del Lager di Auschwitz. Lo conferma Haim Herman, uno dei membri del Sonderkommando di Birkenau, nel suo manoscritto lasciato in una bottiglia di vetro e ritrovata nel febbraio del 1945 nei pressi del campo: “Se vo11 Matteo, X, 39: “Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la sua per causa mia, la troverà”. Marco, VIII, 35: “Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”. Luca, XVII, 33: “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece l’avrà perduta la salverà”. Giovanni, XII, 25: “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. 12 F.W.J. Schelling, Conferenze di Erlangen, in Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, tr. it. di L. Pareyson, Mursia, Milano 1974, pp. 203-204. Per un approfondimento di questo passo schellinghiano in rapporto a Primo Levi e per un ulteriore contributo alla critica della necessaria priorità del negativo rimandiamo al secondo capitolo (parr. 5-6) del nostro Giobbe e gli altri, cit., ora anche nella seconda postfazione di Giò. Un Giobbe del nostro tempo, cit.
La divina sofferenza351
lete, questo è l’inferno, ma l’inferno di Dante è ben più ridicolo rispetto alla realtà di qui e noi siamo i suoi testimoni oculari, che non devono sopravvivere”13. Ma la metafora dell’inferno, secondo Sofsky, è del tutto inappropriata anche solo per farsi una rappresentazione adeguata del potere nazista, poiché nel Lager non c’erano mostri demoniaci a lavoro, ma semplici guardie e torturatori, e soprattutto perché “ciò che l’inferno faceva ai morti, il Lager lo faceva agli esseri viventi” (Sof 319). 2. Confutazione del provvidenzialismo Per la concezione provvidenzialistica della storia, a cui a loro modo si rifanno gli autori poc’anzi citati, il male rappresenta una condizione necessaria per il raggiungimento asintotico del bene nel mondo. Il finalismo aristotelico attraverso lo stoicismo diviene provvidenzialismo, benché il dio di Aristotele non provvedesse né prevedesse. Solo nell’era cristiana, infatti, gli stoici possono introdurre un principio attivo, razionale e immanente identificabile col divino e capace di ordinare il mondo dall’interno in vista di un fine necessario. Nella storia della filosofia moderna troviamo questo principio, questo razionalismo immanentistico o idealismo finalistico nella dialettica hegeliana, che ne rappresenta la massima espressione. Sia nella sua esplicitazione antica sia in quella romantica questo provvidenzialismo finalistico esclude ovviamente l’intervento del caso. Per una tale concezione teleologica del mondo, infatti, nulla avviene per caso, ma tutto si dà e diviene sempre in base a un certo ordine prestabilito, a un ordine teologico dato. Con e dopo Auschwitz questa concezione provvidenzialistica si è dimostrata infondata non solo sul piano storico-dialettico, ma anche sul piano religioso, specie nella sua matrice agostiniana. Con Auschwitz, insomma, è stata dimostrata l’infondatezza del provvidenzialismo storico-religioso proprio della cultura occidentale. “Oggi”, dice ad esempio Levi, “io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di 13 Cfr. La voce dei sommersi, cit., p. 231.
352
Il negativo e l’attesa
Provvidenza” (SE 140)14. Proprio dinanzi al continuo ripetersi di fenomeni di intolleranza razziale, sembra in effetti che quella dura lezione della storia non sia servita a niente. Ne danno conferma i dolenti moniti degli ultimi sopravvissuti alla Shoah. Non solo perché quel sacrificio di milioni di vite umane non sembra aver determinato un miglioramento nella natura dell’uomo, ma perché, come sostiene Améry contro tutta quella cultura della necessità del negativo, un eventuale miglioramento si potrebbe raggiungere anche senza offendere e sacrificare la vita degli esseri umani. L’inutilità di una simile violenza oltraggiosa è quella dinanzi alla quale si accendeva non solo la rabbia dell’ateo Ivan Karamazov15 (che Pareyson mirabilmente interpreta dal punto di vista cristiano)16, ma anche di recente quella di Mario Rigoni Stern, soprattutto a proposito della riabilitazione degli ex nazisti nei paesi baltici dopo lo scorporamento di questi territori dall’Unione Sovietica: “Ma è possibile”, si domanda incredulo l’autore de Il sergente nella neve, “che tutto questo sangue, che tanti milioni di morti non abbiano insegnato niente alle generazioni che vennero dopo? Ma proprio la lezione della storia non serve a niente?”17. Tuttavia, se non a insegnare alle nuove generazioni la dura lezione della storia, Auschwitz sarà stato utile almeno, come si è accennato, a verificare l’infondatezza della concezione provvidenzialistica della storia. Eppure, si dirà, cosa sarebbe stata ad esempio l’opera del Foscolo senza il Trattato di Campoformio, o quella di Dante senza il doppio gioco di Bonifacio VIII, oppure 14 Anche in un passaggio de I sommersi e i salvati Levi ribadisce la stessa convinzione: “l’esperienza del Lager, la sua iniquità spaventosa, mi ha confermato nella mia laicità. Mi ha impedito, e tuttora mi impedisce, di concepire una qualsiasi forma di provvidenza o di giustizia trascendente: perché i moribondi in vagone bestiame? perché i bambini in gas?” (SS 117). 15 E ciò sebbene anche Dostoevskij, proprio come Nietzsche e come tanti altri intellettuali di fine Ottocento, scorgesse nella guerra un’occasione migliorativa per l’umanità, una “cosa utilissima” (Gen 115-116). Al contrario di quanto sostiene il cristianesimo, più che purificare e nobilitare l’uomo, l’eccesso di sofferenza, come quella provata dai deportati, dai sotto-uomini, nei Lager nazisti, dice Margarete Buber-Neumann (sopravvissuta al gulag staliniano e al campo di Ravensbrück), abbrutisce e peggiora (Tod2 124). 16 L. Pareyson, La sofferenza inutile in Dostoevskij, in “Giornale di Metafisica”, 1982, pp. 123-169. 17 Cfr. “La Stampa”, 9 settembre 1991.
La divina sofferenza353
quella di Platone senza la condanna di Socrate? Probabilmente ben poca cosa rispetto a quanto esse rappresentano per la nostra cultura. Incredibilmente, però, l’attività di questi autori era protesa proprio ad evitare quegli eventi e quelle decisioni storiche che, pur ostacolandola o nell’ostacolarla, hanno tuttavia finito con l’affermarla. Essi, cioè, sono diventati “celebri”, cioè degni di memoria storica, nonostante, se non proprio grazie, alla loro netta, tenace e palese opposizione a quegli eventi. Malgrado una tale opposizione, dunque, proprio questi eventi oppositivi hanno determinato le condizioni necessarie per l’affermazione e il riconoscimento del valore delle loro opere. Lo stesso Levi lo confessa per sé in più occasioni: se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla (SE, Appendice, p. 349); se non avessi fatto l’esperienza di Auschwitz probabilmente non avrei mai scritto niente, non avrei avuto la motivazione, l’incentivo per scrivere (SV 132); se lo sono diventato [intellettuale] poi, lo devo paradossalmente proprio all’esperienza di Auschwitz. (SS 106)18
Inoltre, durante un’intervista del 1975 dice pubblicamente: il Lager è stato per molti di noi, ma per me in specie, un osservatorio. Cioè un altro modo d’immagazzinare esperienze. Sono sempre positive le esperienze, sono dei mattoni con cui si costruisce. Ora, il Lager […] ha significato per me anche un cumulo di esperienze. E di una ricchezza tale che ci posso attingere ancora adesso. (PC 63-64)
Pur rientrando nello spirito della cultura occidentale, che è radicata nella religione giudeo-cristiana, tuttavia, a differenza di tale cultura, che volente o nolente ha generato l’evento Auschwitz, queste dichiarazioni di Levi non concepiscono affatto un simile evento attraverso il principio della necessaria priorità del nega18 A tal proposito, Jean Samuel – uno dei compagni di prigionia di Levi: dopo l’evacuazione del Lager di Auschwitz fu tra i “rideportati” (SS 5) nella marcia della morte da Monowitz a Gleiwitz, così drammaticamente raccontata da Wiesel ne La notte – sostiene che a suo avviso “Primo serait devenu un grand écrivain sans Auschwitz, pas le même assurement!” (cfr. Depuis lors, nous nous sommes revus souvent, in Primo Levi. Il presente del passato, cit., p. 25).
354
Il negativo e l’attesa
tivo. In esse egli non considera affatto questo principio come un presupposto necessario, poiché ha solo avuto “sfortunatamente” la possibilità di fare di necessità virtù, di cogliere cioè nel negativo unico ed estremo di Auschwitz – cioè in un’offesa che non avrebbe certo mai voluto subire – anche un’opportunità, più unica che rara, di ricavare un positivo. “Anche la più tragica e inumana delle esperienze”, commenta a tal riguardo Devolder, “può avere un lato positivo (côté positif), quello di comprendere le persone”. Frutto di questa umana comprensione, suggerisce lo studioso belga, sono ad esempio i ritratti unici e senza giudizi di persone che possiamo trovare nell’opera di Primo Levi19. Questo positivo per lui e per alcuni altri deportati, consiste nel fatto di aver potuto considerare il Lager come un’Università, nella quale hanno avuto modo di comprendere più a fondo l’essere umano e quindi anche sé stessi, di apprendere a “guardar[s]i intorno e a misurare gli uomini” (SS 114). Tuttavia, secondo Francesco Lucrezi, che riflette sul significato della morte di Levi, il negativo di Auschwitz non consente solo di ricavare quell’imprevedibile positivo, poiché inculcando violentemente nella mente dei prigionieri il senso della vergogna e il senso di colpa, è come se avesse innescato in essi una “bomba ad orologeria”, la cui “deflagrazione può giungere anche a grande distanza di tempo”, anche a quarantadue anni di distanza20. “La forza mortifera di Auschwitz anche quarant’anni dopo non sembra[va] ancora essersi esaurita”, dice anche Devolder21. Il quale tra l’altro aggiunge: pur volendo scrivere tutto su Auschwitz, egli non può malgrado tutto trovare una risposta alla sua ultima questione: Perché? […] E in effetti non è facile spiegare perché, anche per un uomo come Levi che sembrava aver assimilato come pochi altri la sua esperienza di Auschwitz, che l’aveva persino definita “una ricchezza”, che aveva trovato nella testimonianza, dopo Auschwitz, un nuovo senso alla sua vita, giacché la vita, anche per lui, era diventata troppo pesante.22
19 20 21 22
J. Devolder, Primo Levi: écrire et survivre, in cit., p. 134. F. Lucrezi, La parola di Hurbinek. Morte di Primo Levi, cit., p. 36. J. Devolder, Primo Levi: écrire et survivre, in cit., p. 137. Ivi, pp. 135-136.
La divina sofferenza355
Per Lucrezi, in altre parole, l’in-umanità di Auschwitz non ha prodotto solo il positivo (virtù) nel negativo (necessità), ma ha prodotto nello stesso tempo anche il negativo (vergogna, colpa) nel positivo (Università). Come se quella positività ottenuta avesse avuto un prezzo, un pegno, una Grundschuld, un’insistente “colpa” fondamentale da pagare. Secondo questa tesi, inoltre, nella sua inaudita inumanità Auschwitz per Levi avrebbe rappresentato un’inattesa opportunità che lo ha spinto a concepire, scrivere e assumere la sua testimonianza, la quale, espressa in quello stile volutamente chiaro, esatto e comprensibile, che deve alla sua formazione chimica23, gli sarebbe stata utile in qualche modo anche per respingere e per differire il suo “naufragio spirituale”. A proposito del significato della morte di Levi e tenendo conto di quanto egli scrive con parole di rara profondità in Se questo è un uomo (“poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere sé stesso”, SE 23 cn), si può aggiungere che con la sua propria morte egli abbia non solo confutato la lezione provvidenzialistico evangelico-schellinghiana (Luca, XVII, 33: “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece l’avrà perduta la salverà), ma abbia con ciò confermato anche il fatto che egli stesso ha sempre considerato il negativo di Auschwitz non sulla base del 23 Ecco, a proposito dello stile testimoniale, il “decalogo privato” di Levi: “Tu scriverai conciso, chiaro, composto; eviterai le volute e le sovrastrutture; saprai dire di ogni parola perché hai usato quella e non un’altra; amerai ed imiterai quelli che seguono queste stesse vie” (RR 187). “Il suo scrivere”, dice inoltre Levi a proposito dello stile di Conrad, “era simile a lui” (RR 71). Ebbene, la stessa cosa si può dire indubbiamente anche di Levi. Tra l’altro proprio lo scrittore polacco, “ibrido” come lo scrittore torinese, ha ispirato in Levi la figura di Faussone, la figura di lavoratore che ama il suo lavoro e che in questo lavoro trova la felicità. Oltre che in Giovinezza di Conrad, semi della “sobria epopea del fare” di Libertino Faussone (l’espressione è di Italo Calvino, nota a RR, 241) si possono trovare sia nel capitano Renaud, il protagonista del romanzo di Roger Vercel, Remorques (RR 111), sia in Starbuck, un personaggio di Moby Dick di Melville (RR 125), sia in Prévot, il pilota de La terra degli uomini di Saint-Exupéry (RR 129): “Io sono felice del mio mestiere. Mi sento un contadino degli scali”. Dall’Antologia personale che Levi riporta ne La ricerca delle radici si apprende comunque che al suo stile letterario appartengono la logica morale di Russell, la vena tragicomica del Belli, la saggia ironia di Shalòm Alechèm, il materialismo lucreziano, la curiosità di Marco Polo, la cautezza e la competenza tecnico-scientifica di alcuni personaggi di Melville e di Saint-Exupéry.
356
Il negativo e l’attesa
principio della sua necessaria priorità. Non è già infatti l’evento in sé di Auschwitz o della morte che costituisce il negativo, bensì il fatto che esso venga culturalmente assunto come prioritariamente necessario per la formazione spirituale dell’uomo. Da qui, come si è più volte accennato, l’idea dell’eticità pedagogicamente formativa della guerra, intesa come situazione del tutto inumana in cui la possibilità di perdere la vita fa sì che l’atto di andare incontro alla morte diventi non solo segno di coraggio, ma anche perfino “bello”. Da qui il mito dell’uomo-soldato che non ha titubanze dinanzi all’amaro calice24; la mitizzazione del Drill, dell’educazione alla sopportazione del dolore e al confronto con la morte. Come se l’andare bellamente e coraggiosamente incontro alla morte in battaglia o in qualsiasi altra situazione pericolosa fosse la sola possibilità per la formazione spirituale dell’uomo25. Come se solo l’angoscia heideggeriana fosse l’unico stato d’animo capace di rendere autentico l’essere umano. Come se la gioia, che l’amicizia e l’amore sanno generare, non esistesse. 24 Cfr. E. Mann, La scuola dei barbari, cit., p. 105. 25 A proposito dell’attrazione che i tedeschi, amanti della Kultur o della “cultura del tragico”, subiscono dalla morte, ecco, suggerisce opportunamente Bensoussan, cosa diceva George Clemenceau: “È una caratteristica dell’uomo amare la vita. I tedeschi invece non hanno questo istinto. […] Sono infatti pervasi da un desiderio patologico e satanico di morte. Quanto amano la morte! La guardano come se fosse una divinità, tremanti, in stato di ebbrezza, quasi estasiati […]. Per loro anche la guerra è un patto con la morte” (Ben 242, 293). La cultura o il culto per il tragico si sarebbe sviluppato nel popolo tedesco, secondo Isaiah Berlin, dopo la sconfitta nella Guerra dei Trent’anni: la Francia “schiacciò pesantemente il suo spirito, col risultato che la cultura tedesca si provincializzò, frammentandosi e disperdendosi in queste minuscole, grette corti provinciali”. Tale sconfitta ingenerò in essa “una sorta di gigantesco complesso d’inferiorità nazionale, che prese forma in questo periodo, nei confronti dei grandi dinamici Stati dell’Occidente, e soprattutto della Francia, questo brillante, scintillante Stato che era riuscito a schiacciare e umiliare i tedeschi, questo grande paese che dominava le scienze e le arti e tutte le province della vita umana, esibendo un’arroganza e un successo di cui non s’era mai visto l’uguale. Ciò radicò in Germania un tenace senso di tristezza e di umiliazione” (I. Berlin, Le radici del Romanticismo, cit., p. 70). Oltre che a seguito della Guerra dei Trent’anni, questa decisione di chiudersi in sé stessa sarebbe stata presa dalla Germania, secondo Bensoussan, anche dopo la sconfitta contro gli eserciti della Rivoluzione, sconfitta che ha determinato anche il rifiuto dell’Illuminismo. Una decisione regressiva, dice lo storico francese, che ha finito per tracciare un nuovo corso della storia tedesca, il Sonderweg, il “sentiero speciale” (Ben 232).
La divina sofferenza357
3. Il negativo in Vico e in Nietzsche tra barbarie dei sensi e barbarie della riflessione Quanto precede – vale a dire quanto si è detto sulla concezione provvidenzialistica che trova il proprio fondamento nel principio della necessaria priorità del negativo – si può sintetizzare richiamandoci anche alla vichiana eterogenesi dei fini, concetto in base al quale, secondo una certa legge metafisica, si generano fini diversi da quelli che ci si era proposti agendo, si sviluppano cioè qualità positive proprio dalla lotta contro un negativo oppositivo. Legge che giansenisticamente Manzoni riconduce infatti alla provvidenza e che più laicamente Hegel ripropone come List der Vernunft, astuzia della ragione. E, come si è detto, risulta in ogni caso del tutto evidente che è anche e soprattutto attraverso questo concetto e questa legge metafisica che si esprime il principio della necessaria priorità del negativo: da un lato e dapprima c’è l’opposizione, la lotta per fare in modo che qualcosa non avvenga perché ritenuto ingiusto per sé in generale; dall’altro lato e in séguito c’è invece la sconcertante constatazione che proprio quel qualcosa non solo si è verificato ugualmente, ma il più delle volte finisce con il costituire ciò in rapporto a cui la lunga e dura lotta contro di esso determina una imprevedibile realizzazione positiva. La lotta contro ciò che si vuole negare, contro ciò che si considera negativo, favorisce in qualche modo l’affermazione individuale e conferisce un senso positivo sia all’esistenza dell’individuo sia alla storia del popolo per il quale egli ha combattuto. Foscolo, si diceva prima, negò recisamente il Trattato napoleonico, ma nell’esprimere questa negazione egli ha realizzato sé stesso: è diventato Foscolo. Nello stesso modo, in vista del superamento della borghesia capitalistica, Marx diventò il simbolo del riscatto del proletariato; per cui: senza capitalismo niente Marx, e soprattutto niente affrancamento. Senza l’Impero Romano ci sarebbe stato un Cristo? Forse un Gesù, ma non un Redentore. Ancora più assurdamente, senza nazifascismo niente valori della letteratura resistenziale e concentrazionaria, compresa ovviamente quella di Levi. Questo, in sintesi, anche il pensiero di Dante, autore, com’è noto, molto amato dallo scrittore torinese. Pensiero che è al fondo della Commedia (Inferno, II 16-24; III 4-6) e del De monarchia (II, VI, 4; II, IV, 5; XXX, IX, 1; XXX, IX, 3). Secondo il sommo poeta, Dio non solo rese necessariamente prioritario l’Im-
358
Il negativo e l’attesa
pero Romano (con tutto ciò che esso significò per gli ebrei e per i cristiani), ne fece cioè conditio sine qua non del cristianesimo, ma, cosa ancora più sconvolgente, in quanto sommo bene, egli è addirittura l’architetto spirituale sia della porta collocata all’inizio dell’inferno, sia paradossalmente di tutta la città dolente che si trova al di là di essa. Scrive infatti in maiuscoletto su quella porta: GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE:/ FECEMI LA DIVINA POTESTATE,/ LA SOMMA SAPIENZA E ‘L PRIMO AMORE (Inferno, III, 4-6). Tra i versi di Dante che Levi si sforza di ricordare nel noto capitolo di Se questo è un uomo su Il canto di Ulisse, il “si metta” corrisponde al “misi me”26. Entrambe le espressioni sono importanti perché è l’umanità stessa che si pone oltre quei limiti imposti non dalla natura, ma da quell’altrui, a cui, secondo la sua giustizia, piacque che la nave con tutti i naviganti sprofondasse nelle acque torbide dell’inferno, non solo nell’inferno medievale, ma anche in quello della modernità, ossia nell’inferno del Lager. Sebbene “inaspettato”, quindi, l’anacronismo tra medioevo e modernità costituisce quel “gigantesco” legame che unisce il passato al presente e che Levi intuisce in un solo istante ora che si trova nel Lager, mentre è di corvée per il rancio insieme a Pikolo: un legame che, dice a quest’ultimo, spiega “forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…” (SE 101-103)27. Nell’“intuizione di un attimo”, proprio lì, in quel luogo, nel Lager, nel luogo dove il negativo domina pienamente realizzato, Levi prende improvvisamente coscienza di “qualcosa di gigantesco”, cioè di un “umano e necessario e pure inaspettato anacronismo”, il cui chiarimento potrebbe spiegare, non solo a lui ma anche a 26 “Nell’orrore del campo”, scrive Todorov, commentando alcuni passi di Germaine Tillion (deportata a Ravensbrück), “occuparsi del mondo piuttosto che impietosirsi di sé stessi aiuta a resistere” (Tod2. 353). Si tratta di un genere di resistenza che, come sappiamo, sapeva opporre anche Levi, per il quale, come per la Tillion, “l’attività stessa dello spirito […] diventa a sua volta virtù” (Tod2 362). 27 E in effetti, a proposito di questo profondo legame tra modernità e medievalità tedesca, “Quando Hitler parlava degli Ebrei”, osserva acutamente Hilberg, “parlava ai Tedeschi un linguaggio familiare. Quando copriva di ingiurie le sue vittime, ridava vita a un atteggiamento medievale. Quando si scagliava selvaggiamente contro gli Ebrei, era come se avesse risvegliato i Tedeschi da un lungo sonno per ricondurli all’antica ostilità” (Hil 13).
La divina sofferenza359
tutti noi, il “perché del [loro] destino, del [loro] essere oggi [lì]”, nel Lager di Auschwitz. Questo anacronismo, in quanto umano, necessario e inatteso, riguarda “qualcosa di gigantesco”, qualcosa che è talmente grande e dilatato da collocarsi fuori dal tempo. Meglio: riguarda un errore cronologico che è talmente ampio e profondo da collocarsi fuori dal tempo. È pertanto un fenomeno astorico, un’epifania che in un istante penoso lascia intuire Levi la ragione, il come e forse anche il perché del “come altrui piacque”28. Si tratta di un fenomeno astorico che tuttavia si manifesta nel tempo, cioè in un medioevo irrazionale nel quale Levi coglie la continuità con la modernità razionale. E che cos’è che lega in modo umanamente necessario e inatteso il passato medievale al presente della modernità? È il principio del negativo teodiceale che Dante riporta sulla porta dell’inferno: un negativo necessariamente prioritario perché a quell’altrui, a quell’alto fattore, divina potestate, somma sapienza e primo amore, così piacque, affinché solo così, cioè solo attraverso attraversando quella porta infernale e quella città dolente l’uomo, espiando i propri peccati, potesse finalmente redimersi e meritare così il positivo. Quell’anacronismo, quel negativo, quell’errore gigantesco della storia, quella nuova porta dell’inferno, scuote Levi perché ne intuisce la divina necessità che sta alla base di una teodicea che concerne e si applica sull’intera umanità. Perché, però, l’anacronismo Auschwitz appare a Levi anche “inaspettato”? E chi mai in effetti si sarebbe aspettato che un fenomeno simile potesse verificarsi nella storia, dopo che per secoli la cultura umana, l’umanesimo culturale, specie quello religioso e delle scienze umane, non ha fatto altro che impegnarsi e lottare per l’affermazione del bene e del positivo? Chi poteva mai attendersi una tale in-umanità dall’umano, una tale inclinazione, una simile disponibilità al male radicale? Il Lager, dice Levi, era il “mondo della negazione” (SE 109), la “Welt der Verneinung”, perché in esso gli uomini avevano reso possibile – nel senso del “misi me” dantesco – la realizzazione del negativo. O meglio: assumendo il negativo sempre come prioritario, gli uomini civilizzati hanno reso necessario e reale quello che era solo possibile e immaginabile. Un nazista come Heydrich se n’era 28 Si veda ancora di Enrico Mattioda, Il ritorno del mussulmano., in cit., pp. 128-129.
360
Il negativo e l’attesa
reso perfettamente conto (vedi Introd. 3). Gli uomini hanno insomma incredibilmente creato le condizioni per realizzare storicamente quello che era possibile solo poeticamente, hanno realizzato l’inferno dantesco. Dall’interno del laboratorio dell’Arbeitslager di Monowitz, ripensando al proprio recente passato, all’anno precedente, Levi infatti dice: “uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie” (SE 127 cn). Di più: la realtà di Auschwitz ha superato la feconda fantasia del poeta, perché il mondo della Verneinung è stato realizzato in special modo come mondo della Vernichtung, dell’annientamento. Da una pagina di Modernità e Olocausto di Bauman appendiamo che per lo storico tedesco Hans Mommsen “la storia dell’Olocausto sembra essere il mene tekel dello stato moderno” (Baum 251), cioè, secondo quanto si legge nel libro di Daniele (5, 25), la scritta sul muro che annuncia un presagio di sventura, quasi ad avvertire che si raccoglie quello che si è seminato. Ma non è soltanto con la nascita dello Stato moderno e con la relativa razionalizzazione burocratica supportata dallo sviluppo tecnologico che si sono gettate le basi per l’attuazione dell’omicidio di massa, cioè dell’Olocausto. Certo, dice Mommsen, questo processo storico della civiltà occidentale ha determinato la forma mentale, cioè l’“addestramento” a convivere con quel sistema burocratico. Ma un tale addestramento, una tale acculturazione, una siffatta forma mentale, insomma una tale predisposizione all’omicidio era già inscritta a chiare lettere nei testi sacri, nei miti e nei poemi che gli uomini hanno elaborato e scritto agli albori della civiltà moderna. Sia nella cultura ebraica che in quella greca, il sacrificio umano assunse gradualmente la forma di una violenza punitivo-preventiva che nel tempo, specie con il cristianesimo ben presto diffuso in tutta Europa, si cristallizzò nel principio della necessaria priorità del negativo. Se la violenza espletata nel rituale del sacrificio di una vittima era un elemento imprescindibile dalla natura umana preistorica, essa, storicizzandosi e acculturandosi, poté diventare almeno funzionale alla sua stessa limitazione, utile a limitarne la portata sia in termini qualitativi che quantitativi. Il sacrificio o l’olocausto della vittima (Isacco, Ifigenia), in quanto negativo, poté infatti essere evitato dall’intervento provvidenziale, salvifico e quindi positivo di Yahweh o di Artemide. Resta il fatto, però, che per la coscienza quel negativo rimaneva pur sempre necessario per ottenere il positivo, cioè la salvezza. Sicché senza
La divina sofferenza361
l’aggiramento del negativo non si poteva aspirare al positivo. A sua volta, però, non ci sarebbe potuto essere aggiramento del negativo senza il negativo stesso, il quale restava necessario sia per il suo aggiramento sia per ottenere il positivo che un tale aggiramento promette. È questa logica sacrificale che permane alla base della civiltà occidentale, una logica che si evidenzia a chiare lettere non solo sul piano culturale, religioso e mitico-poetico, ma ora anche su quello storico, etico e politico. Con lo Stato totalitario a vocazione razziale, il negativo, il sacrificio, l’olocausto diventa ora necessario non solo qualitativamente, cioè per migliorare o purificare la razza, ma anche quantitativamente, cioè per sacrificare una minoranza indesiderata e infetta a vantaggio di una maggioranza sana e pura. E soprattutto ora la logica sacrificale, una volta affidata al necessario meccanismo dell’apparato burocratico, diviene più concreta e reale, poiché può garantirsi quel positivo senza il ricorso all’intervento provvidenziale e salvifico, attuando nei fatti quel sacrificio della vittima, l’olocausto vero e proprio. Il ricorso al negativo, dunque, ora non è più solo intenzionale e ammonitivo, non lascia più intendere cioè alla possibilità di un’eventuale salvezza, ma è realizzato nei fatti: Abramo uccide Isacco senza il provvidenziale intervento di Yahweh, Ifigenia non viene più salvata all’ultimo momento dalla dea Artemide sostituendola con una cerva. Sicché, per un’umanità addestrata nei secoli ad ottemperare culturalmente, cioè solo in funzione monitoria e quindi formativa, al principio della necessaria priorità del negativo, questo mancato intervento (come si è visto con Jonas) non può apparire che scandaloso. Infatti, per quanto permanga nella sua necessaria priorità, ora però il negativo da possibile diviene scandalosamente reale. Con l’Olocausto viene dunque violentemente strappato il velo dell’apparenza di cui si ammantava il negativo sempre possibile, e viene rivelata la dura realtà del negativo, cioè quella della Vernichtung, della Endlösung der Judenfrage. Da un punto vista hegeliano si potrebbe inoltre dire che il “negativo” consista in uno dei “fatti bruti”, cioè in uno dei necessari esiti del travaglio spirituale della storia, e che il “positivo” derivi non dall’intervento provvidenziale esterno ad essa, ma dall’astuzia della ragione che opera dall’interno dello spirito stesso. In tal modo, attraverso questa logica astuta dello spirito, la storia si autoregolamenta, nello stesso modo in cui la logica non meno astuta
362
Il negativo e l’attesa
del mercato regolamenta il mondo dell’economia. Il riferimento a Hegel consente di segnalare ulteriormente la presenza della necessità del negativo all’interno del sistema dialettico che è alla base della nostra intera cultura. Da questo punto di vista, il negativo è ciò contro cui si oppongono la cultura, la civiltà e la coscienza storica degli uomini, i quali si battono affinché non sia concessa ad esso nessuna possibilità realizzativa. Come si è visto, però, nello stesso tempo e nello stesso modo sorprendente e astuto, è proprio attraverso questa dura lotta contro di esso, dice Hegel, che si esprime, si sviluppa e si realizza positivamente l’opera degli uomini, producendo un incremento della civiltà e un continuo perfezionamento della cultura. Cultura che, malgrado quel travaglio, non ha fatto e non fa altro – esemplarmente attraverso Eraclito, Giobbe, Platone, Gesù, gli Evangelisti, Dante, Boccaccio, Leopardi, Hölderlin, Hegel, Nietzsche, Heidegger – che ribadire e riconfermare quella necessità del negativo. Dinanzi a una simile continuità culturale, sembra si sia costretti a supporre che, pur nella sua dura e dolorosa lotta contro il negativo, la cultura non solo non voglia, ma anche non debba e non possa disfarsene definitivamente; anche perché, malgrado una certa sicumera, ha tuttavia l’intima consapevolezza di non poterlo dominare completamente, di non potersene insignorire. Sicché, sotto questo aspetto, il negativo risulta identificabile con la fortuna cui accenna Machiavelli nel Principe, dal momento che è solo con l’astuzia che la ragione può tentare di aggiogarlo al fine di sfruttarne le “potenzialità”. Il negativo ha pertanto per la cultura un’ambiguità analoga a quella che la morte (della filosofia) ha per Blanchot29, la malattia ha per Svevo e il phármakon, come ci ha fatto notare Derrida, ha per Socrate. Per riprendere la similitudine nietzscheana dell’aforisma 477 di Umano, troppo umano (vedi supra, Cap. 2, 4), si può inoltre aggiungere che il negativo per la cultura occidentale è come quel fiume rovinoso che d’improvviso straripa trascinando con sé violentemente tutto ciò che incontra nel suo fluire selvaggio. La sua potenza 29 “La verità”, scrive Blanchot a proposito della presunta morte della filosofia in Hegel, Nietzsche e Heidegger, “è che non vogliamo perdere niente. Vogliamo superare, andare al di là, e nello stesso tempo dimorare. Vogliamo congedare e conservare, rigettare e ricomprendere, rifiutare e ottenere tutto in questo rifiuto” (M. Blanchot, Lentes funérailles, in L’amitié, Gallimard, Paris 1971, p. 107).
La divina sofferenza363
furibonda è quella che, in tempi e circostanze più favorevoli, cioè dopo la tempesta, fa muovere i “meccanismi delle officine dello spirito”. Per Nietzsche, insomma, come per Burckhardt, dal quale egli mutua quell’immagine, è necessario che ogni tanto i fiumi superino gli argini, se no quelle officine rimarrebbero senza energia e quindi si arrugginirebbero. Ora, con una tale similitudine egli non solo recupera ciò contro cui lotta, cioè la dialettica hegeliana, ma ripropone in particolare una metafora che Machiavelli aveva già utilizzato nel capitolo XXV, 2 del Principe. Proviamo brevemente a raccostarle: (Nietzsche): dai torrenti e dai fiumi che qui prorompono e che certo travolgono con sé pietre e immondizie di ogni genere e rovinano i campi di colture delicate, vengono poi mossi con nuova forza, in circostanze favorevoli, i meccanismi delle officine dello spirito (die Räderwerke in den Werkstätten des Geistes). (Machiavelli): Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, judico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra parte, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potersi in alcuna parte obstare. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti (cn) e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso.
Anche in Machiavelli, dunque, troviamo l’ambiguità del negativo, considerata sia dal punto di vista generale o del principio, sia da quello particolare o del principe. Ma troviamo anche la necessità di un siffatto negativo ambiguo. Scrive il fiorentino: E se, come io dicessi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d’Israel fussi stiavo in Egitto, ch’e’ Persi fussino oppressi da’ Medi, e la eccellenzia di Teseo, che gli Ateniesi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che in Italia si reducessi nel termine che ella è di presente, e che la fussi più stiava che gli Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che gli Ateniesi, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa; ed avessi sopportato d’ogni sorte ruina. (XXVI,1 cn)
364
Il negativo e l’attesa
Ma mentre in Nietzsche sembra che la necessità del negativo venga considerata come conditio sine qua non del “sovrappiù di forza” e di potenza, e non si voglia affatto, proprio come in Lutero e nello stesso Yahweh, porre rimedio all’abbattersi rovinoso della fortuna, e che anzi vi sia la profonda convinzione che solo dopo l’evento negativo vi possa essere un’autentica affermazione del volere umano, al contrario in Machiavelli si intravvede chiaramente la possibilità, propria del virtuoso leopardiano, di attendere (nel senso di prendersi cura), anticipare e di prevedere e quindi di ovviare, o quanto meno di mitigare, le conseguenze negative che l’intervento della fortuna potrebbe determinare. Per Nietzsche, la virtù dell’uomo risiede nella lotta impari contro la natura; per Machiavelli essa invece consiste nell’anticipare la fortuna, nell’adoprarsi per tempo al fine di evitarne le conseguenze negative, il che le conferisce una capacità di incidenza sul reale più o meno pari a quella della fortuna stessa. Non deve inoltre risultare strano il fatto che anche nella Scienza nuova di Vico si trovi quell’allegoria, anche perché c’è chi è convinto che si possa comprendere meglio il pensiero vichiano rapportandolo con quello machiavelliano30. Scrive Vico: Perché la dilicatezza è una minuta virtù, e la grandezza naturalmente disprezza tutte le cose picciole; anzi, come grande e rovinoso torrente non può far di meno di non portar seco torbide l’acque e rotolare i sassi e tronchi con la violenza del corso… (822)
Anche per il filosofo napoletano, come per lo storico fiorentino, osserva infatti Enzo Paci, “il ricorso alla barbarie seconda non è in ogni caso determinato e necessario”31. La barbarie seconda o della “riflessione” è quella in cui può cadere l’uomo civile, mentre la barbarie prima o “barbarie dei sensi” è quella propria dei bestioni 30 B. Croce, La filosofia di G. Vico, Laterza, Bari 1947, 4a, pp. 128-129; L. Bergel, La Scienza nuova de Vico et le problème de la décadence, in “Archives de Philosophie”, 40, 1977, pp. 177-201. 31 E. Paci, cfr. l’Introduzione alla scelta di brani dell’Autobiografia e della Scienza nuova, Paravia, Torino 1951, p. XVIII. Anche Paci, tra l’altro, proprio come Ricoeur, in quanto internato militare nel Lager di Wietzendorf, ha conosciuto gli effetti della barbarie nazifascista.
La divina sofferenza365
umani, degli uomini ancora non ancora civilizzati. Seguendo un certo corso storico, la “sfrenata libertà dei popoli”, secondo Vico, può condurre alla “piggiore” di tutte le tirannidi, alla “tirannide perfetta”, ossia all’“anarchia” (1101), la quale costituisce il “gran malore” delle moderne e civilizzate nazioni. Sebbene si diano altri possibili corsi storici – che la Scienza nuova, cioè la scienza storica e filologica, può segnalare –, l’insistere su quel corso intrapreso, il perseverare in quel “gran malore” genera inevitabilmente una involuzione o un decadimento che Vico chiama, appunto, “barbarie della riflessione”, la quale è propria dell’umanità progredita. Questa barbarie della riflessione, questa decadenza della modernità era probabilmente quella che nell’aforisma 477 di Umano, troppo umano Nietzsche scorgeva nell’“umanità supercolta e quindi necessariamente fiacca” degli Europei del suo tempo. Ora, mentre Nietzsche, come rimedio a questa malattia storica ed epocale, auspicava e proponeva calorosamente una temporanea ricaduta nella barbarie dei sensi, Vico, viceversa, proprio per evitare un tale ricorso storico, una tale regressione allo stato ferino, seguendo l’impostazione del Machiavelli e sulla scorta dei Nómoi di Platone, indicava due possibilità, due rimedi (1103): la téchne della Scienza nuova, di cui si occupano lo storico e il politico, e la phrónesis thaumastèn, la meravigliosa intelligenza divina, vale a dire la provvidenza, di cui si occupa il filosofo. Qui, però, tenendo conto di quanto ha detto Levi a proposito dell’impossibilità di credere in una provvidenza dopo Auschwitz, ci sentiamo esentati dal trattare il rimedio provvidenziale e proviamo a considerare solo quello storico-politico. Guardando infatti metodologicamente32 indietro e a fondo nella storia, per capire “se, a quelle occasioni, luoghi e tempi, potevano nascere altri benefici divini, co’ quali, in tali o tali bisogni o malori degli uomini, si poteva condurre meglio a bene e conservare l’umana società” (344 cn), la Scienza nuova può consentire di non rifare nel presente quegli errori che in particolari situazioni e momenti storici i nostri avi, volenti o nolenti, commisero. Dalla storia si può apprendere, ad esempio, che la monarchia (Augusto per la Roma della fine del I sec. a.C., il principe per Machiavelli e l’impero di Arrigo VII per Dante) costi32 Cfr. A. R. Caponigri, Time and Idea: The Theory of History in Giambattista Vico, London 1953, tr. it. di G. Gava, Tempo e Idea. La teoria della storia in Giambattista Vico, Casa Ed. Prof. Riccardo Pàtron, Bologna 1969, pp. 205, 207.
366
Il negativo e l’attesa
tuì una soluzione possibile che evitò a una città o a una nazione di precipitare nella barbarie dei sensi. Ciò significa che, pur essendo causa efficace della regressione alla barbarie dei sensi, la barbarie della riflessione non ne è tuttavia causa sufficiente, perché, grazie ai suggerimenti della Scienza nuova, quel declino, quell’imbarbarimento ulteriore e più rude si può evitare. Secondo gli interpreti di Vico, e secondo Vico stesso, la barbarie si può dunque evitare. È certo importante sapere che essa risiede sempre come possibilità in-umana all’interno dell’uomo e che può essere destata in qualunque momento, in qualsiasi epoca. Ancora più importante, però, come diceva Machiavelli e come suggeriva anche Vico, è ricercare con intelligenza tutti i modi possibili per evitarla, per deviarla come una lava incandescente verso canali opportunamente e preventivamente creati con la tecnica storico-politica, in collaborazione con gli stessi filosofi, di modo che la sua potenza letale possa temporaneamente esaurirsi senza provocare danni irreparabili. La decadenza non diventa inevitabile, dice infatti Croce, “se uomini di stato e filosofi, lavorando concordi, possono serbare la perfezione raggiunta e raffrenare la dissoluzione minacciante”33, possono non eliminare ma almeno affrontare con dignità e coraggio il “problema del male”34. Inteso come regressione alla barbarie dei sensi, il negativo per questi autori, dunque, non solo non è necessario, ma non è nemmeno necessaria la sua priorità in vista di un positivo o di un “sovrappiù di forza”. Risulta solo possibile. Diventerebbe invece reale qualora non ci si disponesse e non ci si opponesse per tempo al fine di evitarne con intelligenza e coraggio le conseguenze nefaste. Anche noi ci sentiamo di dire, assieme agli autori qui consultati, che il ricorso alla barbarie non è e non deve essere necessario e si può evitare. Come? Cominciando, per esempio, a meditare su questo passo critico-pratico della Pratica della Scienza nuova: mentre i popoli son ben costumati, essi operano le cose oneste e giuste più che ne parlano, perché l’operano, più che per riflessione, per sensi: ma, quando sono guasti e corrotti, allora, perché mal soffrono 33 B. Croce, La filosofia di G.B. Vico, cit., p. 131. 34 Ivi, p. 124.
La divina sofferenza367
internamente sentirne la mancanza, non parlan d’altro che d’onestà e di giustizia (come naturalmente avviene ch’uomo non d’altro parla che di ciò ch’affetta d’esser e non lo è); e, perché sentono resister loro la religione (la qual non possono naturalmente sconoscere e rinniegare), per consolare le loro perdute coscienze, con essa religione, empiamente pii, consagrano le loro scellerate e nefande azioni.35
Tuttavia, se nulla si potesse fare per impedire il passaggio dalla barbarie della riflessione alla barbarie dei sensi; se, malgrado tutti gli sforzi compiuti, i tentativi della tecnica storico-politica si dimostrassero insufficienti a deviare e ad arginare l’anarchia degli uomini e la loro violenza ferina, allora e solo allora, sostengono alcuni interpreti di Vico, sarebbe preferibile il ricorso storico alla barbarie dei sensi, la quale, a differenza della barbarie della riflessione, fornisce un accrescimento della “forza primitiva” che può innalzare ad un livello più alto le forme della vita36, e forse anche, direbbe lo stesso Levi, a una maggiore conoscenza della natura umana. A tal proposito, Croce, che vede in Vico il vero erede di Machiavelli, afferma (forse non senza una certa retorica tipica tempo): “Senza passione, senza forza, senza autorità non sorge l’umanità; i migliori sono i forti, e dai duri domini dei forti escono poi le società ingentilite e civili che a quei domini formano contrasto, e nondimeno senza quella barbarie generosa, non sarebbe”37. Ma l’impossibilità di rimediare al male e alla violenza non vuol dire affatto, come si potrebbe credere, presupporlo come condizione necessaria del bene. Essa non presuppone già, come in Nietzsche e nella cultura della necessaria priorità del negativo, il dovere morale di provocarlo in vista dell’accrescimento della potenza, attraverso, ad esempio, l’eticità della guerra. Ad ogni modo, la lezione che si può trarre dalla dottrina vichiana è di far valere la dignità umana anche dopo la scomparsa della provvidenza, della “divina architetta”38. Questa dottrina si potrebbe sintetizzare nel seguente modo: il nostro compito, in quanto esseri 35 G. Vico, Opere, a cura di F. Nicolini, Riccardo Ricciardi Ed., Milano-Napoli 1953, p. 875. 36 Cfr. A.R. Caponigri, Tempo e Idea, cit. p. 211; E. Paci, Introduzione, cit., pp. XXXVII-XXXVIII; B. Croce, La filosofia di G. Vico, cit., pp. 127, 136-137; L. Bellofiore, La dottrina della Provvidenza in G.B. Vico, Padova, 1962, p. 25. 37 B. Croce, Machiavelli e Vico, in Filosofia. Poesia. Storia, Riccardo Ricciardi Ed., Milano-Napoli 1951, pp. 583-587 cn. 38 L. Bellofiore, La dottrina della Provvidenza in G.B. Vico, cit., p. 30.
368
Il negativo e l’attesa
umani, è di conservare la specie umana. E ciò anche sulla base del conatus spinoziano, secondo cui “Ciascuna cosa, per quanto sta in essa, si sforza di perseverare nel suo essere” (Etica, parte III, VI prop.). Quando, però, a causa dell’inevitabile vita associata, in cui si stabiliscono altrettanto inevitabilmente dei rapporti di forza, un tale compito viene assunto da alcuni (che assurgono a Signori) a scapito di altri (sottomessi come Servi), allora, sotto la spinta funesta dell’odio, specie nella sua declinazione razziale, dalla civiltà fin qui raggiunta si ricade nella barbarie. Vico si è sforzato di evidenziare le cause che determinano periodicamente nella storia un simile pericolo; cause che ravvisa proprio là dove non dovrebbero essere ricercate, ossia nel periodo di maggiore floridezza ed espansione della cultura dei popoli. Oltre ad esse, in quegli stessi periodi, le sue analisi storiche hanno colto anche alcune chance che si offrono ai popoli prima di decadere completamente nella barbarie. In tal senso questa non è necessaria, né va ricercata o desiderata a tutti i costi in quanto “purga” di tutti i mali precedenti. Soprattutto la Seconda guerra dei Trent’anni (1915-1945), così la definisce Domenico Losurdo39, ci ha infatti dimostrato che quel ricorso alla barbarie non è servito proprio a niente, anzi, non ha fatto altro che peggiorare le cose. Assieme a Mario Rigoni Stern, come abbiamo visto, lo hanno riconosciuto e ribadito tutti quelli che sono stati costretti o che erano convinti di partire per la guerra, sia i sommersi, con la loro assenza e con il loro silenzio, quelli cioè che non sono più tornati, sia i salvati, quelli che, con le loro angosciose testimonianze (pensiamo soprattutto a quelle di Levi), sono ritornati. È solo per gli hegeliani, dunque, per i dialettici irriducibili, che il male, anche quando non genera altro che sconvolgente orrore, appare con un certo fascino, come un benefico negativo capitalizzabile. Proprio in questo genere di “egoismo estremo”40, in questa forma di scetticismo individualistico, consiste verosimilmente l’estrema violenza della riflessione tanto deprecata da Vico. È in questa riflessione capitalizzante e calcolante, in questa iper-riflessione, 39 D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, cit., p. 202. Dello stesso autore si veda anche Il peccato originale del Novecento, Laterza, Bari 1998, p. 35 ss. 40 L. Bergel, La Scienza nuova de Vico et le problème de la décadence, in cit., p. 188.
La divina sofferenza369
in questa meditatio mortis tanto cara all’Occidente e alla sua Kriegsideologie, direbbe ancora Losurdo41, che probabilmente risiede il vizio che abbiamo qui identificato col principio della necessaria priorità del negativo. Ecco perché, secondo gli studiosi, Vico ha compreso meglio e più a fondo di Hegel la natura del male; male che, “una volta commesso, crea non già il bene, ma ancora più male; anche se l’uomo è talvolta capace di sormontare gli effetti del male, ciò non vuol dire affatto che il male sia bene”42. Su ciò, ossia sull’autogenerazione del male e della violenza, Levi, da Se questo è un uomo fino a I sommersi e i salvati, è sempre stato chiaro. In particolare nella conclusione dell’ultima sua opera possiamo leggere: “Neppure è accettabile la teoria della violenza preventiva: dalla violenza non nasce che violenza, in una pendolarità che si esalta nel tempo invece di smorzarsi” (SS 165). È solo con la cultura dunque che, al di là dello scetticismo nietzscheano, si può evitare la barbarie. Questo ci suggeriscono Machiavelli, Vico e lo stesso Croce. Ma allora perché gli inni futuristi alla guerra e alla bella morte? Perché l’esaltazione dell’“amor del pericolo” in Filippo Tommaso Marinetti? Perché il decadentismo? Perché la distruzione degli uomini-cose nei Lager? Perché il ritorno al cannibalismo, sia dentro43 che fuori dai campi di sterminio? La barbarie dei sensi è comprensibile, poiché riguardava un’era in cui gli uomini non conoscevano altra legge che quella della forza per sedare le contese. Ma la barbarie della riflessione, ossia quella che si raggiunge nonostante o proprio per il grado di civiltà raggiunto, non risulta comprensibile, perché la sua violenza si è rivelata ancora più selvaggia e distruttiva della prima, perché viene espressa ed esercitata consapevolmente. Nella Scienza nuova di Vico andavamo alla ricerca di una confutazione del principio della necessaria priorità del negativo. Con l’aiuto di alcuni studiosi siamo riusciti a vedere meglio dove si trovavano i luoghi di quest’opera in cui esso viene confutato. Grazie al loro contributo abbiamo potuto constatare che la nostra tesi era 41 D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, cit., p. 10 ss. 42 L. Bergel, La Scienza nuova de Vico et le problème de la décadence, cit., p. 190 cn. 43 Cfr. B. Vasari, Mauthausen bivacco della morte (1945), Giuntina, Firenze 1991, p. 44.
370
Il negativo e l’attesa
condivisa da altri e in modo particolare dal Bergel. Questa tesi in estrema sintesi si può riassumere dicendo, ancora con Bergel, che con quella confutazione non si vuole certo criticare la razionalità o la civiltà in sé; si vuole piuttosto far vedere come in esse vi sia come incistato una sorta di vizio, un eccesso di riflessione che finisce con lo speculare anche sul male. Quando il male stesso diventa necessario alla sopravvivenza della riflessione allora è evidente che in questa si annida, per dirlo con Levi, un vizio di forma. E per me, dice infatti quest’ultimo, “il Lager […] è stato il più grosso dei “vizi”, degli stravolgimenti […] il più minaccioso dei mostri generati dal sonno della ragione” (PC 36), una “mostruosa distorsione dell’umano”44. Un vizio paradigmatico, dunque, quello di Auschwitz, che, come il dolore patito in questo Lager, vizia e contagia non solo le altre forme di racconto adottate da Levi, ma anche quelle forme di dolore provate da lui dopo Auschwitz45.
44
G. Tesio, Primo Levi, in Piemonte letterario dell’Otto-Novecento, cit., p. 165 loc. cit. 45 Si domanda infatti Francesco Lucrezi: “l’aver conosciuto quel dolore infinito fa sì che esso riappaia dovunque, in tutti i dolori?” (cfr. La parola di Hurbinek. Morte di Primo Levi, cit., p. 38).
CONCLUSIONE IL PROBLEMA CULTURALE DOPO AUSCHWITZ
Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che sia così. (P. Levi, SE 23 cn)
1. Critica della cultura Per tentare di rimediare al male del mondo, sostiene giustamente Odo Marquard1, la cultura, con un ribaltamento in senso teodiceale o provvidenziale, l’ha reso condizione della possibilità del bene, cioè un motivo di compensazione. Un ribaltamento dialettico esemplarmente espresso nei già ricordati versi hölderliniani di Patmos: Ma là dove è il pericolo, cresce anche ciò che salva. Tuttavia, una volta culturalmente attuato con la conversione dialettica del negativo in positivo secondo il principio compensativo della necessaria priorità del negativo, nella modernità quel rimedio si è cominciato a criticare, in quanto faceva leva su strumenti e metodi della politica e dell’economia capitalistica. A causa di ciò, osserva Marquard, nella società del benessere si avverte la strana nostalgia del passato malessere, nostalgia che si manifesta con condotte di vita premoderne e comunque alternative a quelle del presente2. Ebbene, una tale critica alla cultura compensativa della modernità, avverte il filosofo tedesco, potrebbe ridestare i pericoli del fascismo, che era ed è contrario ad ogni cultura “altra”, non solo a quella che si opponeva ad esso3. 1 2 3
O. Marquard, Apologie der Zufälligen (1987), tr. it. di G. Carchia, Apologia del caso, Il Mulino, Bologna 1991. Ivi, pp. 131-133. Ivi, p. 125.
372
Il negativo e l’attesa
Attenzione, egli ci dice: la cultura è l’unico vero alleato che abbiamo nella dura lotta contro il negativo. Non criticatela! Essa si batte contro il male, anche se, come sostenevano gli antichi scettici e i pensatori ellenisti in generale, non potrà mai liberarsene una volta per tutte. Anche per il semplice fatto, potremmo aggiungere, che non può esserci vittoria su di esso senza necessariamente presupporlo. Per piegarlo e vincerlo temporaneamente la cultura ha bisogno di suggerne l’energia e la forza nefasta. E in ciò essa, attraverso il mito di Odisseo e la ragione hegeliana, dimostra tutta la sua astuzia. Tutte le disavventure e i pericoli hölderliniani non sono altro, allora, che occasioni, spesso opportunamente propiziate, per affinare quell’astuzia, per accrescerne la potenza compensativa, per migliorare in ultima analisi l’umanità. Proprio in questo opportunismo consiste la colpevole contraddizione cui va incontro la cultura quando pensa di sfruttare compensativamente il principio della necessaria priorità del negativo. Per l’eroe greco e per la sua ragione astuta tutto ciò rappresenta indiscutibilmente un guadagno, anche se i suoi frati, i suoi compagni di viaggio non potranno fare ritorno alla loro petrosa Itaca. Il motore della storia (della nave) è il negativo, e pertanto la cultura, se vuole aumentare sempre più la sua potenza contro di esso, non solo deve ricorrere alla sua unica fonte di energia, che è appunto il negativo, ma deve altresì strutturarsi in modo da accogliere e trasmettere questa necessaria priorità del negativo. La sete di avventura imperialistica di cui parlava Nietzsche in quell’aforisma di Umano, troppo umano, non è altro in realtà che un modo per propiziarsi e per andare dionisiacamente incontro alla disavventura, al rischio, al pericolo, poiché, secondo lui, solo così, solo da questo doloroso negativo potrà sortire dialetticamente un potenziamento del positivo. Ora, secondo Marquard questo motivo dialettico-teodiceale della filosofia compensatoria è presente anche nella modernità. “La mia tesi”, scrive, è che “quest’idea di compensazione” – la quale “tien conto anziché di una riparazione dei mali, della possibilità di compensarli” – “sia un motivo di teodicea nella filosofia moderna”4. Anche noi, ovviamente, ravvisiamo nel principio della necessaria priorità del negativo un motivo teodiceale o provvidenziale e ne facciamo la critica; Marquard invece sostiene che anche una tale critica, specie quando viene intesa 4
Ivi, p. 107.
Conclusione373
nostalgicamente in opposizione alla politica e all’economia della modernità, possa dar adito, forse anche inavvertitamente, a strani rigurgiti fascisti. In questo senso ha ragione Carchia quando nella Presentazione al saggio di questo filosofo scettico dice che in quest’ultimo c’è poco spazio per la critica e che, malgrado tutti gli sforzi compiuti per superare l’idealismo, alla fine l’autore reintroduce dalla finestra del concetto di “compensazione” quello che aveva fatto uscire dalla porta dell’assolutismo hegeliano. In effetti è proprio in questa dialetticità salvifica che risiede la trappola in cui Hegel cattura tutti i suoi possibili critici. Compresi Kierkegaard e Nietzsche, ma non certo Schopenhauer, perché mentre i primi due, per dare un senso alla loro esistenza, hanno bisogno e vanno disperatamente e dionisiacamente alla ricerca del negativo e del dolore, il terzo, proprio perché convintamente pessimista, non ha bisogno di andare a cercarlo, perché, accettandolo come un dato ontologicamente insuperabile, ne fa la tonalità fondamentale dell’esistenza. I primi ricercano il negativo anche dove non c’è, l’altro, invece, un po’ come Leopardi, lo vede come il fondamento persistente dell’esistenza. Nello stesso modo in cui, quindi, non può esserci benefico superamento culturale del male senza il male, così non ci può essere nemmeno critica dell’idealismo senza Aufhebung, di cui, dice Carchia, il concetto di compensazione è un’ulteriore declinazione. Certo, non ci può essere che superamento compensativo del male, ma la cultura diviene criticabile quando si fa propiziatrice del negativo per garantirsi il positivo. Si tratta in fondo della logica bellicista, secondo la quale la guerra viene intesa non solo come occasione di potenziamento politico ed economico, ma anche come miglioramento etico e sociale. Insomma, il problema che, con Adorno, ci preme sollevare, anche infine attraverso il confronto con la tesi di Marquard – la quale, come ha visto bene Carchia, ricade inevitabilmente nel vortice del principio occidentale della necessaria priorità del negativo – è il seguente: dopo Auschwitz è ancora possibile credere nelle capacità salvifiche della cultura, in quelle rimarginative dello spirito e nell’astuzia speculatrice della ragione? È ancora possibile pensare di adottare il vecchio metodo teodiceale del reinvestimento capitalistico del negativo, dello sfruttamento dell’energia insita nel male? Auschwitz, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, non ha forse sancito la morte reale dello spirito e dell’umanità nell’uomo? Prendere atto di questa verità equi-
374
Il negativo e l’attesa
vale davvero ad essere apocalittici? Dopo Auschwitz sembra essere più giusto fare riferimento all’umano in considerazione dell’essenza caduca e casuale del suo destino. In realtà l’evento Auschwitz ha lasciato un vuoto incolmabile nel pro-cesso umano in generale. È per questo che, anche a fronte della tesi di Marquard, sarebbe davvero ingenuo e superficiale non sospettare più di nulla nella modernità, a maggior ragione della cultura medesima. Certo, dopo Auschwitz la vita in qualche modo è pur continuata; molti addirittura nulla sanno di quest’evento e per molti altri non è mai realmente esistito. La vita con il progresso corre veloce e la cultura per starle tachicardicamente dietro deve, anzi vuole istintivamente alleggerirsi, nel senso che vuole “razionalmente” dimenticare. La cultura è colpevole5 perché, a tutti i livelli, ha accettato acriticamente la necessaria priorità al negativo. Ora, però, Marquard, ci dice di non criticarla, di perdonarla perché per opporsi al male essa ha dovuto farne addirittura la condizione della possibilità del bene. Ma di quale attuale bene Auschwitz è stato la condizione della possibilità? O davvero pensiamo che sia così “ovvia” questa apparente assenza di orrore? Per cui, secondo la logica di Marquard, visto che non abbiamo niente di cui temere e niente da criticare, allora ci mettiamo, così, a criticare la cultura. Noi critichiamo la cultura perché, fino all’evento Auschwitz, ci ha sempre fatto credere che voleva salvare l’uomo e invece lo ha distrutto o ha partecipato attivamente, ossia poeticamente e scientificamente, alla sua distruzione. Ecco perché quest’essere ora non può più definirsi “uomo” – Se questo è un uomo! Ist das ein Mensch? – ma, più realisticamente, pro-cesso. Ecco perché la cultura artistica preferisce nascondersi dietro le moderne astrazioni rifuggendo dalla così tanto amata riproduzione dal “vivo”. La cultura e l’arte, specie in questo I sec. d. A. (dopo Auschwitz) amano l’astratto, non solo – e forse non tanto – per un generico declino dei loro stessi valori o per una conseguente esigenza di nuovi mezzi espressivi, cioè per questioni poetiche ed estetiche, quanto piuttosto perché hanno compreso che le ragioni ipnotiche della rappresentazione o della cultura rappresen5
Anche Liliana Picciotto Fargion, con il suo Libro della memoria, si era posta come compito quello di vedere “se la cultura sia davvero un baluardo contro la barbarie o [se], al contrario, la cultura conviva, anzi, accompagni la barbarie” (Storia e memoria nella coscienza ebraica, in Educare dopo Auschwitz, cit., p. 110).
Conclusione375
tativa sono drammaticamente venute meno e sono state svelate nella loro intrinseca falsità. L’abbandono della rappresentazione esprime la critica nei confronti della tradizione culturale, la quale ci ha sempre illusi facendoci vedere qualcosa che in realtà non era. La perfezione, la bellezza, la bontà, l’armonia, l’aspirazione alla libertà, la purezza, la semplicità, Dio, l’amore, la felicità, un paesaggio con un prato verde, una lunga fila di alberi, al centro un piccolo gruppo di case, da una fuoriesce un tenue filo di fumo, uomini e donne (non ci sono bambini) sono intenti nel loro lavoro, altri, fermi, contemplano l’aureo orizzonte. Tutto sembra vero, troppo vero. Sembra un quadro di Caspar David Friedrich. Nell’astrazione la cultura continua bensì, ma quasi vergognandosi di apparire quello che era stata fino a ieri, autonegandosi come nel suprematismo russo. In fondo, attenendosi alle riflessioni di Lyotard sul sublime kantiano, è proprio solo come “sublime” che l’arte oggi può ancora essere accettata dalla critica, cioè segnata dalla pena dell’autonegazione, da quella astratta opacità che caratterizza la pagina di Adorno; è solo così che essa espia consapevolmente la sua grave colpa commessa in passato. Se c’è quindi un pericolo non è tanto quello che Marquard ravvisa con preoccupazione nella critica alla cultura e contro cui vorrebbe metterci in guardia, quanto piuttosto quello di rinunciare deliberatamente a fare una critica filosofica della cultura. 2. Il presente ha dimenticato la lezione di Auschwitz L’idea nietzscheana di Umwertung, di transvalutazione, riguardava una crisi di valori che, anche se lentamente, stava tuttavia inesorabilmente compiendosi. Essa concerneva non già l’attualità nietzscheana, bensì il futuro, compreso il nostro stesso presente, nel senso che conteneva e proponeva dispositivi etici inattuali che avrebbero potuto essere attivati solo successivamente, a crisi sopraggiunta. Ora, sostenere che Nietzsche abbia potuto prevedere un esito della crisi così inconcepibile e inimmaginabile come quello che si è avuto con i campi di sterminio nazisti è forse un po’ eccessivo, ma è sicuro che nelle periodiche regressioni nella barbarie egli vedeva l’unica possibilità per la riaffermazione e il rafforzamento dello spirito umano. E forse a tal riguardo ha ragione Marcuse in Eros e civiltà quando, al contrario di Nietzsche, sostiene
376
Il negativo e l’attesa
che il dominio e la distruzione dell’uomo da parte dell’uomo, vale a dire la ricaduta nella barbarie prevista e auspicata dal filosofo dello Zarathustra, non costituisce affatto come pensava quest’ultimo, una regressione, bensì “il compimento non represso di ciò che le conquiste moderne offrono all’uomo nella scienza, nella tecnica e nell’esercizio del potere”6. Per Marcuse e per Günther Anders, allievi critici di Heidegger, Auschwitz e Hiroshima non sono affatto la causa paradigmatica dell’annientamento dell’umanità, ma due effetti dello sviluppo tecnologico delle società moderne e razionalmente industrializzate. Per questi due filosofi, esse, scrive infatti Enzo Traverso, quelle due manifestazioni emblematiche del male di cui è capace l’umanità, esprimono “una tendenza intrinseca alle società moderne”, “la tendenza alla distruzione di un’umanità ormai ‘obsoleta’ che rimane al cuore della civiltà tecnologica”; esprimono il persistere delle loro cause “in seno alla modernità capitalistica industriale”, la “finalità di dominio […] intrinsecamente legata alla razionalità delle società moderne” (Tra 94, 98-99). Ciò significa, insomma, osserva ancora Traverso commentando il pensiero di Adorno, che “non si poteva più considerare la ricaduta nella barbarie come una minaccia o come un’eventualità, ma piuttosto come la realtà vissuta, come un segno distintivo del presente” (Tra 118), come la realizzazione di un destino che era già pericolosamente immanente, già inscritto nella cultura occidentale. In effetti, la rottura dei vincoli umani si è di fatto realizzata, la caduta nell’abisso barbarico si è realmente verificata, ma quale guadagno se n’è tratto per il futuro e per il nostro presente? L’attuale guerra in Ucraina ci ha fatto regredire di un secolo! Da alcune delle testimonianze dei sopravvissuti da noi qui esaminate si è appreso che il guadagno è stato nullo. Levi: “poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso” (SE 23 cn). Wiesel: “Auschwitz vuol dire morte, la morte totale, assoluta, dell’uomo e di tutti gli uomini, della parola e dell’immaginazione, del tempo e dello spirito”7. Améry: “nulla di quanto comprendemmo nel 6 7
H. Marcuse, Eros and Civilisation. A Philosophical Inquiry into Freud, tr. it. di L. Bassi, Eros e civiltà, Torino, Einaudi 1968, p. 52; il passo è citato anche da E. Traverso (Tra 99). E. Wiesel, For Some Measure of Humility, in “Sh’ma, A Journal of Jewish Responsibility”, 5, 31 ottobre 1975, pp. 314-16 (il passo è citato da Bettelheim (Bet 96 cn).
Conclusione377
Lager non avremmo potuto comprenderlo anche fuori” (Ame1 54 cn). Bettelheim: “Per coloro cui era venuta a mancare la volontà di vivere e di sperare, la fine era vicina”8. Queste testimonianze per noi hanno un alto valore, perché oltre a confutare la convinzione troppo ottimistica che sta alla base del progetto nietzscheano, rappresentano di fatto una secca smentita di quell’altra convinzione, quella schellinghiana, la quale, come abbiamo visto, trova il proprio fondamento legittimante nello spirito sinottico dei Vangeli, secondo cui, per dirla in soldoni, per ottenere tutto bisogna prima perdere tutto; per entrare nel regno dei cieli o della filosofia si deve prima abbandonare tutto, ogni speranza, ogni bene, tutto. Il che ha significato e continua purtroppo ancora a significare: chi vuole salvare la propria anima deve prima perderla; oppure, detto in toni profetici: chi vuole salvare l’uomo deve prima distruggerlo. Rieccoci dunque a Nietzsche, il quale, nonostante le note critiche al cristianesimo, ne accetta evidentemente lo spirito vivificante. Non c’è remissione o indulgenza cristiana dei peccati senza peccato, non c’è miglioramento dell’uomo senza una precedente caduta nella barbarie. Se questo, in ultima analisi, è l’insegnamento che la cultura e la politica, nonostante Auschwitz, continuano a riproporre (le vicende belliche del nostro presente continuano purtroppo a dimostrarlo), allora vuol dire veramente che non si intende cambiare, e che si vuole andare avanti come se nulla fosse successo. Ad Auschwitz, dice infatti Wiesel, si è consumata la morte totale dello spirito e di tutti quei valori che su di esso si fondavano. “Auschwitz”, ammoniva a sua volta Ka-Tzetnik, “non sarà stato altro che fumo, se l’umanità non saprà trarne la sua lezione; e del resto, se Auschwitz dovesse essere dimenticato, come se non fosse esistito mai, l’uomo avrà dimostrato di non meritare che la sua esistenza si perpetui”9. Con Auschwitz, avverte dal suo canto Levi, “contro ogni previsione”, “un evento fondamentale ed inaspettato è avvenuto”. “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo” (SS 164). Anche la Arendt ripete lo stesso ammonimento, lo stesso timore: la “fosca possibilità”, scrive, che un giorno si commettano crimini simili, “non è affatto da escludere”. 8 9
Sopravvivere, cit., p. 104 cn. Ka-Tzetnik 135633, La fenice venuta dal Lager, tr. it. di H. Brinis Mondadori, Milano 1969, p. 313.
378
Il negativo e l’attesa
E le ragioni particolari per cui non è da escludere che qualcuno faccia un giorno ciò che hanno fatto i nazisti, sono ancora più plausibili. L’enorme incremento demografico dell’era moderna coincide con l’introduzione dell’automazione, che renderà “superflui” anche in termini di lavoro grandi settori della popolazione mondiale; e coincide anche con la scoperta dell’energia nucleare, che potrebbe invogliare qualcuno a rimediare a quei due pericoli con strumenti rispetto ai quali le camere a gas di Hitler sembrerebbero scherzi banali di un bambino cattivo. È una prospettiva che dovrebbe farci tremare. (Are2 279) Un’unica cosa sembra certa: possiamo dire che il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati egualmente superflui […]. Il pericolo delle invenzioni totalitarie è che oggi, con la popolazione e lo sradicamento in rapido aumento dovunque, intere masse di uomini sono di continuo rese superflue nel senso della terminologia utilitaristica. […] C’è da temere che i campi di concentramento e le camere a gas, che rappresentano indubbiamente la soluzione più sbrigativa del problema del sovrappopolamento, della superfluità economica e dello sradicamento sociale, rimangano non solo di monito, ma anche di esempio. (Are1 629 cn)
Da un lato c’erano i Lager, dall’altra tutti coloro che vi venivano concentrati ed eliminati, cioè tutti i “diversi” rispetto alla Volksgemeinschaft hitleriana, tutti i “difformi” rispetto alla forma totalizzante, unica e compatta degli identici; dall’altra parte c’erano insomma tutti gli scarti e i superflui accantonati e accatastati per essere velocemente sfruttati, gasati e inceneriti nelle fosse o negli impianti di cremazione. Si trattava di una Volksgemeinschaft il cui modello totalitario si andava espandendo a macchia d’olio per tutta l’Europa e che, dopo il Secondo conflitto mondiale, si era anche affermato sia nell’estremo occidente che nell’estremo oriente, sia come capitalismo militarista, sia come comunismo populista. L’intento discriminatorio di questa tendenza alla separazione coatta o alla selezione non sembra affatto peraltro essere scomparso dal mondo contemporaneo: è stato anzi ridestato alla fine degli anni Settanta dal neoliberismo, utilizzando sia la logica perversa del low cost (nella quale si può scorgere uno dei “segni dell’esclusione”10, 10 A. Casiccia, Segni dell’esclusione. Patrimoni, lusso, diseguaglianza crescente, Biblioteca di “Historia Magistra, collana diretta da Angelo d’Orsi, Accademy University Press, Torino 2016.
Conclusione379
che un po’ ricorda la teoria platonica della copia e dell’originale) sia il perenne e ormai costitutivo stato di emergenza e di crisi. Sulla stessa linea pessimistica arendtiana si muove anche lo storico Browning11, perché avvisa: Qui non si tratta […] di spiegare perché i tedeschi comuni – in quanto membri di un popolo completamente diverso dal nostro e plasmato da una cultura che non permetteva altri modi di pensare e agire al di fuori del genocidio [come ritiene Goldhagen] – si siano messi a massacrare gli ebrei con zelo non appena ne ebbero l’opportunità. Si tratta invece di spiegare perché degli uomini comuni – plasmati da una cultura certamente peculiare ma pur sempre inserita nella tradizione occidentale, cristiana e illuminista – in determinate circostanze abbiano volontariamente compiuto il più grande genocidio della storia umana. Perché è importante stabilire quale delle due interpretazioni sul Battaglione 101 [formato da uomini comuni] sia più vicina alla verità? Sarebbe molto consolante se Goldhagen avesse ragione: in tal caso, solo pochissime società possiederebbero i prerequisiti storici e culturali per realizzare il genocidio, e i regimi potrebbero votarsi allo sterminio solo quando le popolazioni fossero convinte della sua urgenza, legittimità e necessità. Se cosi fosse, il mondo sarebbe un luogo più sicuro, ma io non sono tanto ottimista. Temo invece di vivere in un mondo in cui la guerra e il razzismo sono onnipresenti, in cui i governi dispongono di poteri sempre più vasti di mobilitazione e di legittimazione, in cui il senso di responsabilità personale è sempre più attenuato dalla specializzazione e dalla burocrazia, e in cui il gruppo dei pari esercita notevoli pressioni sul comportamento e stabilisce le norme morali. Purtroppo, in un mondo come questo, i governi attuali con propositi di sterminio avranno buone possibilità
11
Goldhagen dedica l’intera prima parte del suo saggio all’evoluzione specificamente tedesca dell’antisemitismo eliminazionista. Com’è noto, alla sua tesi, che attribuisce la colpa della Shoah a tutto il popolo tedesco nel suo insieme e non solo ai nazisti, si contrappone quella di Browning, il quale invece sostiene che una tale inclinazione al genocidio non è solo una caratteristica specifica del popolo tedesco, ma di ogni altro Stato, se si pongono certe condizioni. Anche il fatto che il giudeicidio sia stato realizzato da uomini comuni sembra legittimare la tesi di Browning, poiché anche gli Stati contemporanei sono composti da uomini comuni. D’altro canto, pur nel suo stile volutamente distaccato, Hilberg sembra essere più vicino alla tesi di Goldhagen che a quella di Browning. Si vedano in particolare le pagine de La distruzione degli Ebrei d’Europa relative alla conflittuale spartizione dei beni espropriati agli ebrei (Hil 368-374).
380
Il negativo e l’attesa
di riuscita se tenteranno di indurre gli “uomini comuni” a diventare i loro “volenterosi carnefici.12
Sulla medesima lunghezza d’onda si collocano anche le seguenti sconfortanti osservazioni di Hilberg: Col passare del tempo, la distruzione degli Ebrei europei finirà per passare in secondo piano.[…] L’eccesso nazista è ora divenuto un evento che appartiene alla storia – ma un avvenimento che, tuttavia, conserva tutta la sua singolarità. […] anche se il risultato appartiene già al passato, il fenomeno profondo non è ancora scomparso. […] In realtà, i governanti dei secoli anteriori mancavano semplicemente di mezzi […]. Quanto ai burocrati del futuro, avranno ancora meno problemi; sono oggi di gran lunga meglio attrezzati di quanto non lo fossero i nazisti. In breve, uccidere è diventato un compito sempre meno difficile. […] Il perpetratore di oggi può uccidere senza nemmeno toccare i condannati, senza sentirli, senza vederli. (Hil 1289-1290)
Il totalitarismo è dunque un rischio potenziale e reale presente nelle società moderne, sia in quelle democratiche (da cui è sorto 12 C. R. Browning, Uomini comuni, cit., Postfazione, pp. 243-244 cn. Si vedano a tal proposito anche le conclusioni di Ulrich Herbert: se al fondo della società tedesca al tempo del nazionalismo c’era l’indifferenza e il disinteresse, allora, dice lo storico tedesco, “il genocidio non riguarda solo quella situazione storicamente unica e quella specifica società degli anni Trenta e Quaranta, ma diventa in maniera angosciante di scottante attualità” (All 8687). Sulla stessa linea pessimistica di Browning e di Herbert anche Todorov: “Ho sentito molte persone parlare della crudeltà, della depravazione della ‘razza tedesca’. Come sarebbe rassicurante pensare così e circoscrivere così i disastri! La verità è che razzismo e nazismo sono fenomeni le cui cause non possono essere né ‘razziali’ né ‘nazionali’” (Tod2 359-360). A proposito della crudeltà, ecco cosa annota Bauman sulla scorta degli esperimenti di Milgram e di Zimbardo: “L’origine della crudeltà è più sociale che legato al carattere”, nel senso che è “dal contesto sociale e non dalla malvagità dei partecipanti” a questo esperimento che veniva risvegliata la loro crudeltà: veniva cioè risvegliato l’“Eichmann latente” o “dormiente” che era dentro di essi. Un tale risveglio del lato cruento della persona è dunque suscitato da un contesto sociale creato ad hoc da un’autorità “risoluta, univoca e monopolistica”, da un’autorità cioè che si è liberata di ogni pluralismo e di ogni altra autonomia, e alla quale la persona ubbidisce ciecamente, dal momento che il lato morale della sua coscienza era ancora addormentata. Solo in casi rari, dice Bauman, “gli individui hanno trovato [in loro stessi] la forza e il coraggio di resistere [e di opporsi] agli ordini dell’autorità”, “hanno dato [cioè] la priorità alla propria coscienza” (Baum 228-231).
Conclusione381
il nazismo) sia in quelle socialiste (da cui è sorto lo stalinismo), specialmente, direbbe il Thomas Bernhard di Estinzione, in quelle a maggioranza cattolica13, spaventate dal pericolo bolscevico. Anche perché, sostiene Bauman, “nessuna delle condizioni sociali che resero possibile Auschwitz è davvero venuta meno, e […] non si è presa alcuna efficace misura per impedire a tali possibilità e condizioni di generare altre catastrofi analoghe” (Baum 29). Proprio alla luce dei timori fondati per il reiterarsi di fenomeni razzistici, siamo d’accordo con il sociologo e storico polacco-americano Jan Tomasz Gross quando sostiene che “se non riusciremo mai a ‘capire’ perché [l’Olocausto] è avvenuto, abbiamo però il dovere di capire con chiarezza tutti i suoi risvolti”. E siamo soprattutto d’accordo con lui quando afferma che “sotto questo riguardo esso diventa un episodio fondante della sensibilità moderna, pur costituendo anzitutto un momento essenziale in qualsiasi riflessione sulla condizione umana”14. Occorre pertanto vigilare, ammonisce la Arendt nel suo saggio su Le origini del totalitarismo, testo che, da questo punto di vista, andrebbe inteso come un antidoto contro quelle possibili degenerazioni. Le società moderne infatti si caratterizzano soprattutto per un’economia fondata sull’inarrestabile sviluppo tecnologico 13 “Mussolini”, annota Emilio Gentile, “fu il primo dei nuovi Cesari, sorto nella cattolica Italia, dove la democrazia fu soppressa fra il 1922 e il 1925. Nel 1923, la democrazia subì una nuova sconfitta nella cattolica Spagna con l’avvento della dittatura del generale Miguel Primo de Rivera; poi, nel 1926, nella cattolica Polonia si insediò la dittatura del generale Jósef Piłsudski; nella cattolica Lituania, la dittatura di Antanas Smetona e nel cattolico Portogallo la dittatura di António de Oliveira Salazar” (Contro Cesare, cit., p. 270). 14 J.T. Gross, Neighbors (2001), tr. it. di L. Vanni, I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedawbne in Polonia, Mondadori, Milano 2002, p. 12. A Jadwabne, osserva Gross, “Quelli cui gli ebrei si trovarono con orrore e, oserei dire, con stupore furono volti familiari. Non anonimi individui in divisa, ingranaggi di una macchina da guerra, agenti che eseguivano degli ordini, ma vicini di casa, quelli della porta accanto, che scelsero di uccidere e presero parte a un sanguinoso pogrom come volenterosi carnefici” (p. 102); “gli Einsatzgruppen […] non forzarono la popolazione locale a partecipare direttamente all’eliminazione degli ebrei” (p. 113). Anche Goldhagen, come sappiamo, mette al centro del suo saggio su I volontari carnefici di Hitler questo aspetto relativo all’antisemitismo eliminazionista dei tedeschi (cfr. in part. il terzo capitolo della prima parte). Il nazismo, dice infatti lo storico statunitense, fece della civile Germania (e non solo della Germania purtroppo) un paese soggetto a pogrom (Gol 93).
382
Il negativo e l’attesa
inteso come ideologia a cui conformare pensiero ed agire etico. Progresso e rovina, scrive ancora nella Prefazione alla prima edizione (1950) di questo saggio (Are1 LXXX), sono “due facce della stessa medaglia”. L’uno, diciamo, è il “positivo”, l’altra il “negativo”. Gli elementi storico-politici costitutivi di questa dialettica progresso-rovina che la studiosa intravede sono essenzialmente quattro: l’imperialismo (o “l’espansione per l’espansione”), la borghesia (o il “potere per il potere”), l’antisemitismo (“non il semplice odio contro gli ebrei”) e il totalitarismo (cioè il “male assoluto”). L’antigiudaismo-antisemitismo, sottolinea in particolare Bensoussan, “non è affatto da considerarsi un epifenomeno della storia tedesca, quanto piuttosto una delle caratteristiche culturali e politiche più pregnanti” (Ben 268-269). Secondo la filosofa si tratta inoltre di capire il “segreto meccanismo” (cn) che connette questi elementi e che, una volta connessi, dà l’avvio a un “processo di disintegrazione” rappresentativo della “tentazione irresistibile” che è a fondamento della storia e della cultura occidentale. Con una tale questione, così posta dalla Arendt, non ci discostiamo dunque dal nostro discorso se in quel “meccanismo” scorgiamo le stesse Räderwerke, gli stessi meccanismi che Nietzsche vedeva attivarsi all’interno di quelle Werkstätte des Geistes, delle prodigiose officine dello spirito che nella modernità, all’insegna del motto Arbeit macht frei, proprio delle ideologie totalitarie, daranno luogo ai “laboratori” Auschwitz. I Lager infatti per la Arendt sono stati essenzialmente dei laboratori dove si è sperimentata la trasformazione della natura umana, la quale, “così com’è, si oppone al processo totalitario” (Are1 628). In verità, l’esperienza dei campi di concentramento [scrive la Arendt] dimostra che gli uomini possono essere trasformati in esemplari dell’animale umano, e che la “natura” è “umana” soltanto nella misura in cui schiude all’uomo la possibilità di diventare qualcosa di estremamente innaturale, cioè un uomo. […] Perché distruggere l’individualità è distruggere la spontaneità, [senza della quale gli uomini] non rimangono altro che sinistre marionette con volti umani, che si comportano tutti come il cane dell’esperimento di Pavlov, che reagiscono con perfetta regolarità anche quando vanno incontro alla propria morte, e che si limitano a reagire. (Are1 62cn)
Conclusione383
[…] Non è in gioco la sofferenza […] né il numero delle vittime. È in gioco la natura umana in quanto tale. (Are1 628)15
La segretezza di quel meccanismo risiede nella capacità di rovinare, nell’innata tendenza alla disintegrazione che contraddistingue tutti e quattro gli elementi distruttivi citati e quindi la stessa barbarie. È dunque la rovinosa barbarie ciò che in ogni forma di progresso deve restare segreto. Ed è soprattutto con il totalitarismo che il lato negativo e oscuro del progresso, cioè il segreto che doveva rimanere segreto, è venuto alla luce in tutta la sua forza sconvolgente e disintegrante: “La corrente sotterranea della storia occidentale è finalmente venuta alla superficie usurpando la dignità della nostra tradizione” (Are1 LXXXII). Nietzsche credeva che la forza travolgente e devastante della barbarie, disintegrando i valori della nostra tradizione, avrebbe messo in moto i meccanismi dello spirito per dare all’umanità più potenza e con essa anche nuove forme di progresso. La Arendt smentisce questa convinzione nietzscheana, perché le rovine del presente prodotte dal totalitarismo rendono vani tutti gli sforzi per poter non solo recuperare un passato intatto, ma anche per poter prefigurare un futuro migliore. La rovinosa barbarie che disintegra i valori che rendevano dignitosa l’esistenza umana a prescindere dalle differenze etniche, non è altro che quel negativo che doveva restare scientemente nascosto dietro il processo evolutivamente e storicamente necessario, cioè del positivo umanistico promesso. Ciò significa che le conseguenze negative del progresso erano note (e continuano ad esserlo) non solo ai fiduciosi promotori di questo movimento progressista, ma anche, a diversi livelli, alla grande massa che li sosteneva con la sua passiva o attiva accettazione, con la sua promozione pratica o teorica. Da qui probabilmente la convinzione della Arendt riguardo “l’appoggio dato dalle masse al totalitarismo”; appoggio che, specifica, “non deriva né dall’ignoranza né dal lavaggio del cervello” (Are1 LV, nota alla Pref. del 1966)16. A differenza della dittatura staliniana, il totalitarismo na15 A proposito di questo andare ordinatamente incontro alla propria morte, si veda supra cap. III, 1. 16 La questione ebraica, pur nella sua apparente insignificanza, scrive la Arendt, ha potuto “mettere in moto l’intera macchina infernale di un apparato di potere totalitario” (Are1 3) perché ha trovato in tutta Europa, non solo tra i cattolici, un profondo astio antisemita.
384
Il negativo e l’attesa
zista, nonostante tutti i vani tentativi compiuti per nascondere le proprie nefandezze, ha osato invece mostrare sempre più spavaldamente quel segreto, ossia la rovinosa barbarie che, attraverso il suo nuovo ordine mondiale, voleva imporre come atto insieme di supremazia e di distinzione rispetto alle altre politiche sterminatorie, come ad esempio quella attuata dai Giovani Turchi nei confronti del popolo armeno o quella messa in atto da Stalin contro i kulaki. La rovinosa barbarie sterminatrice coincide dunque con un siffatto negativo, fronteggiando e gestendo il quale il nazismo e tutte le politiche a vocazione razzial-sterminatoria credevano, con Nietzsche, di poter aumentare la loro forza, la loro potenza, di poter affermare la loro supremazia su tutti coloro che ritenevano deboli, inadatti e pericolosi. Una barbarie che paradossalmente non si può nemmeno definire “disumana”, perché, in tutta la sua irrazionalità, era anzi il frutto di precise scelte razionali, di azioni calcolate dall’intelligenza umana. In questo senso quel negativo risulta in ogni epoca necessario, perché in tal modo diviene la condizione necessaria per poter aumentare nell’uomo la capacità di sopportarlo, vale a dire per poter superare i limiti umani di sopportabilità dell’orrore, al fine di avvantaggiarsi su altri uomini che, per rispetto di quei limiti, non osano superarli. Allo scopo di legittimare il raggiungimento di un “positivo”, cioè l’accrescimento, anche e soprattutto etico, della propria potenza, l’ideologia della guerra, abbiamo appreso da Domenico Losurdo e da Emilio Gentile, non può prescindere dal rifarsi al principio della necessaria priorità del negativo, ossia al principio che giustifica la violenza e la brutalità. Si tratta, suggerisce la Arendt, della medesima logica perversa che è alla base dell’ideologia borghese-capitalista del progresso (Are1 193 ss), la quale, attraverso l’imperialismo di alcuni Stati, vede nelle popolazioni colonizzate solamente degli ostacoli che limitano l’inarrestabile corsa verso un accumulo sempre maggiore di potere e di forza. Rendendolo asintoticamente incontenibile, la perversione di questa logica fa sì che il progresso dell’umanità non si accontenti mai dei risultati appena raggiunti ed è spinta, secondo il Nietzsche di Umano, troppo umano, a richiamarsi di nuovo al principio della necessaria priorità del negativo, cioè a ricorrere a nuova violenza, a nuove ricadute nella barbarie, a nuove “distruttive catastrofi” (Are1 201), proprio al fine di superare quei limiti appena raggiunti. Come se
Conclusione385
l’angelo della storia, dice la Arendt mutuando una celebre immagine kleeiana ripresa da Benjamin, non potesse arrestare con le sue ali il “vento di tempesta” che lo spinge alla cieca verso il futuro, lasciando al contempo dinanzi a lui un cumulo di macerie sempre crescente. Lo spinge alla cieca verso il futuro, perché l’essere alato della storia dà le spalle al futuro, e ciò significa che procede regredendo, nello stesso senso dialettico in cui, la Arendt accennava al rapporto progresso-rovina. 3. A ripartire dal valore dell’amicizia Ad ogni modo, ormai consapevoli della morte dello spirito e della spiritualità culturale da esso generata nei secoli, coscienti cioè del fatto che in tale cultura Auschwitz abbia rivelato un’intrinseca debolezza, una falla, un vizio (dialettico, teodiceale, provvidenzialistico, compensativo) che si annidava sia nelle eccelse che nelle misere emanazioni dello spirito stesso e che qui abbiamo colto nel principio della necessaria priorità del negativo; ben sapendo d’altra parte di non essere più disposti a riproporre quelle idee viziate, che cosa si dovrebbe insegnare oggi nella scuola ai giovani? Quali dati culturali, che non siano inficiati da quel generale vizio, occorrerebbe trasmettere loro? Quali contenuti proporre? Con quale forma e in quale modo? In sintesi: su quali valori impostare la cultura e l’istruzione attuali, se con Auschwitz essi sono stati cancellati di colpo tutti quanti e se non ci si vuole ovviamente arrendere all’indifferenza del conservatorismo? Infatti, dice Todorov, “perché il male si realizzi, non basta che alcuni agiscano, bisogna inoltre che la maggior parte degli altri se ne stia in disparte, indifferente. E di questo, come ben sappiamo, siamo tutti capaci” (Tod1 155). Il vizio (sia di forma che di contenuto) insito nello spirito, come abbiamo detto, è quello proprio della dialettica come corollario del principio della necessaria priorità del negativo. Esso consente ad un tempo l’agevolazione e la giustificazione dei fatti che hanno condotto ad Auschwitz. Ne è l’agevolazione e la giustificazione perché nella cultura occidentale il negativo ha svolto una funzione necessariamente prioritaria, non solo come motore della storia, ma soprattutto perché senza di esso non
386
Il negativo e l’attesa
si sarebbe potuto dare né salvezza spirituale né tanto meno la condizione per filosofare. Ecco perché il filosofo amava andare incontro alla morte. Abbandonare tutto, essere abbandonati da tutti, sentire l’angoscia della fine, provare il dolore fisico, la macerazione della carne, patire la fame, la sete, venire privati di tutto per ottenere tutto e per poter così guadagnare il regno dei cieli, il regno della filosofia: ebbene, questo è il vizio dello spirito occidentale, un vizio che funge da vero protrettico, in quanto ha realtà solo nel pensiero, non fuori di esso. Infatti, ammesso e non concesso che questo principio sia valido, che il valore dell’essere cioè derivi dialetticamente solo dall’esperienza del nulla, ossia del negativo; supposto con Nietzsche che la prioritaria discesa nella barbarie sia veramente necessaria per apprendere l’effettivo valore della civiltà e della cultura, allora il Lager dovrebbe rappresentare a pieno titolo il più convincente motivo di quella cultura. Se, insomma, secondo questo principio, i veri valori della vita, nella loro essenza, si possono apprendere solo essendone deprivati, se un valore umano come la libertà può essere compreso in tutta la sua profondità solo all’interno del Lager o in luoghi simili, ciò significa che anche il Lager è paradossalmente una possibile e più estrema legittimazione di questo principio. Ma è proprio di questa paradossale legittimazione che qui si è provato a fare la critica. Dal punto di vista del vizio insito nella fenomenologia dello spirito occidentale, pertanto, l’esistenza del Lager rende legittimo il principio dialettico della necessaria priorità del negativo, e quest’ultimo a sua volta giustifica l’esistenza di quello. La cultura giustifica il Lager perché, secondo essa, non può esservi progresso civile senza un precedente e necessario regresso nella barbarie. In ciò consiste il suo ineliminabile vizio, e il Lager realizza in maniera estrema l’idea viziata insita in essa. In quanto estrema realizzazione del principio viziato insito nella cultura ed esplicitabile nella necessaria priorità del negativo, il Lager ha dunque posto brutalmente la cultura dinanzi al proprio vizio, e in quel preciso momento, dice Améry, essa ha preso coscienza di essere stata un ludus, un cerimoniale rispetto a quella disumana realizzazione. Un cerimoniale inteso in senso freudiano, cioè come un meccanismo psichico ripetitivo e coattivo, necessario e difensivo, poiché ogni scostamento da
Conclusione387
esso genera non solo la realtà del Lager, ma con esso anche l’angoscia della reificazione, della violenta riducibilità a “materia bruta” (SS 100). Rendendo inoltre il negativo necessariamente prioritario, la cultura lo positivizza, lo utilizza in vista dell’arricchimento dell’esperienza, rendendolo così di fatto, come si è visto in Marquard, conditio sine qua non del positivo. Ciò vuol dire che subìto passivamente il negativo risulta distruttivo, invece subendolo attivamente, cioè valorizzandone la forza, rendendolo qualcosa di necessario o di indispensabile per l’uomo, diventa, come abbiamo visto anche in Ricoeur e Pareyson, positivo, edificante, fortificante, espiativo, redentivo (si pensi a Mission, il film del 1986 di Roland Joffé, nel quale la colonna sonora di Ennio Morricone esprime proprio questo genere di positività sempre potenzialmente presente lungo tutta la dolorosa vicenda redimente). Auschwitz svela il trucco, il vizio della cultura; la rivela cioè come cerimoniale, gioco, ludus, espediente. E per essa non c’è cosa più grave e più umiliante di questa rivelazione; così come per l’uomo non c’è cosa più dolorosa che la sua riduzione a semplice materia. Per superare questa dolorosa umiliazione, dice Bettelheim (Bet 86 ss), allo spirito non resta che il meccanismo della negazione, poiché le sue conclamate capacità chirurgiche nel rimarginare le ferite sono state ormai definitivamente svelate come pura finzione, come cataplasmi, come trucchi di illusionisti, di incantatori. Da un punto di vista più generale, poi, si potrebbe dire che il materico rappresenti per il cerimoniale quello che, nell’at-tendere del pro-cesso umano, l’aspettare tendente-verso rappresenta per il prendersi cura. Il vizio della cultura, dunque, analogamente al cerimoniale psicoanalitico, è quel meccanismo di cui lo spirito non riesce a fare a meno17 per evitare la realtà del Lager e per difendersi dalla possibile e orribile riduzione in esso del materico. Ciò malgrado, all’interno dei campi di sterminio, dinanzi alla violenza inattesa e inaudita che si è realizzata in essi, questa cultura ha dimostrato tutta la sua essenza cerimoniale, cioè la sua astrattezza e la sua inconsistenza, poiché lo spirito in essi è stato dissolto, è improvvisamente evaporato, e quanto è rimasto è solo materia bruta, res extensa, sostanza estesa organica e inorganica, “minimo denominatore” materiale, mostruosa “eguaglianza 17 S. Freud, Comportamenti ossessivi e pratiche religiose, in cit., p. 244.
388
Il negativo e l’attesa
primaria” a cui, scrive la Arendt in una pagina toccante e di rara profondità, tutti vengono violentemente ridotti e nella quale si riflette “l’immagine dell’inferno”18. Dinanzi a un simile e inaudito vuoto spirituale, dopo l’inattesa morte dello spirito e di tutti i valori che su di esso si fondavano, abbiamo domandato a un ex deportato quali possano essere, dopo Auschwitz, i valori su cui poter ancora contare e tali comunque da essere degni di venire tramandati alle nuove generazioni19. Senza esitare il sopravvissuto rispose con una sola parola: l’amicizia. E subito dopo ci raccontò un episodio per renderne l’idea20. Anche Bettelheim ravvisa nella solidarietà “un’armonia segreta” (Bet 230), un’armonia che emerge in tutta la sua portata in “situazioni estreme” come quelle appunto che i deportati hanno vissuto nei 18 “Poi vennero le fabbriche della morte e tutti morirono insieme: giovani e vecchi, deboli e forti, malati e sani. Morirono non come individui, non come uomini e donne, bambini o adulti, ragazzi o ragazze, buoni o cattivi, belli o brutti, ma furono ridotti al minimo denominatore comune della vita organica, sprofondati nell’abisso più cupo dell’eguaglianza primaria. Morirono come bestiame, come cose che non avevano né corpo né anima e nemmeno un volto su cui la morte avrebbe potuto apporre il suo sigillo. È in questa eguaglianza mostruosa, senza fraternità né umanità – un’eguaglianza che i cani e i gatti avrebbero potuto condividere –, che si scorge, come riflessa in uno specchio, l’immagine dell’inferno” (H. Arendt, L’immagine dell’inferno, cit., p. 100 cn). 19 Da un’esigenza simile muoveva la riflessione di Gadamer sull’amicizia, anche se il contesto a cui si riferiva riguardava la “catastrofe della prima guerra mondiale” (H.G. Gadamer, L’anima alle soglie del pensiero nella filosofia greca, cap. IV: Amicizia e conoscenza di sé. Il ruolo dell’amicizia nell’etica greca, ed. Bibliopolis, Napoli 1988). 20 Questo episodio è riportato in uno dei racconti del lager racchiusi da Ferruccio Maruffi in un suo libro del 1992, Codice Sirio (L’uovo di Pasqua, pp. 23-25). Dello stesso testimone piemontese si vedano La pelle del latte (I racconti del “dopo” lager) (1996); La fanciulla vestita di blu (1999); Laggiù dove l’offesa (Rivisitando i luoghi della memoria) (2001). Deportato nel campo di concentramento di Mauthausen-Gusen, Maruffi si è sempre prestato a portare la sua preziosa testimonianza ai giovani nelle scuole. A tal proposito, ricorda Todorov, Jean Améry “suggeriva d’introdurre nel programma delle ultime classi liceali qualche testimonianza di ex detenuti, perché tutti ne conoscessero l’esperienza” (Tod 246). Quell’episodio riportato da Maruffi viene ricordato anche da un suo compagno di prigionia, Quinto Osano, in un pensiero poetante (Il martire di Pasqua) in Perché ricordare. Ricordi e pensieri di un ex deportato, cit., p. 40. Abbiamo ricordato anche noi questo triste episodio nel nostro Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah, cit., pp. 97-125: Gusen tra vecchia e nuova Bibbia.
Conclusione389
Lager. Secondo Bettelheim, infatti, “la vera lezione dei campi di concentramento” risiede in questo, e cioè nel fatto che “dal non aver neppure lo spazio per distendersi la notte, dal non aver abbastanza cibo per vivere, il sopravvissuto ha imparato che persino in simili condizioni, anzi proprio in simili condizioni, si può scoprire un’armonia segreta che permette di andare avanti, di vivere in pace con gli altri e con se stessi” (Bet 230 cn). Ora – per riformulare il problema posto all’inizio, cioè il problema culturale dopo Auschwitz, e per esprimere anche in estrema sintesi la tesi del nostro lavoro – chiediamo: questa “armonia segreta”, una tale solidarietà, una siffatta amicizia, in tutta la sua portata autentificante, non potrebbe nascere anche in situazioni non più estreme, anche in situazioni extra-concentrazionarie o nella normale vita civile? Insomma, il segreto di quell’“armonia” non potrebbe venire svelato anche nelle situazioni non estreme? Se si risponde di no, allora si vorrà dire che l’amicizia di cui noi possiamo in qualche modo godere nella nostra vita civile altro non è che una copia sbiadita di quella che vissero i deportati, e che quindi noi non potremo mai avvertire quell’“armonia”. Ma, dice Levi parlandoci dell’offesa patita dai deportati nel “fondo” di Auschwitz: “Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che sia così” (SE 23 cn). Sì, è bene che sia così.
INDICE DEI NOMI
Adorno T.W., 37n, 83, 154, 191, 191n, 193, 193n, 197, 197n, 205, 208, 236, 271, 271n, 272n, 275, 275n, 283n, 312, 312n, 313n, 322, 322n, 323, 323n, 342, 373, 375, 376. Agamben G., 272n. Agostino (sant’), 148, 266. Ahlwardt H., 137. Alechem S., 355n. Allen W.S., 142, 143, 143n. Allert T., 10, 46, 59, 60. Améry J., 10, 14, 16, 17, 34, 37, 38, 41, 42, 54, 107, 169, 220, 221, 222, 223, 224, 226, 227, 228, 229, 229n, 232, 233, 234, 234n, 235, 236, 252, 254, 272, 273n, 283n, 285, 288, 288n, 290, 290n, 291, 326, 326n, 327, 329, 352, 376, 386, 388n. Anassimandro, 122, 247, 248. Anders G., 99, 285, 376. Antelme R., 177. Antonicelli F., 269. Arendt H., 11, 13, 16, 16n, 23, 37, 38, 38n, 47, 49n, 61, 69, 70, 82, 85, 144, 145, 202n, 208, 216, 235n, 273n, 274n, 290, 317, 317n, 318, 319, 320, 321, 330, 335, 335n, 337, 337n, 377, 381, 382, 383, 383n, 384, 385, 387, 388n. Aristotele, 191, 247, 296, 316, 333, 351. Bacone F., 317. Badiou A., 207, 207n.
Baer R., 127n. Baioni G., 124, 124n. Barthes R., 343. Bataille G., 69, 100, 100n. Baudrillard J., 11, 18, 42, 212, 213, 214. Bauer G., 15. Bauman Z., 11, 15, 47, 49, 125, 126, 144n, 269n, 281, 284, 322, 322n, 323, 360, 380n, 381. Beaufret J., 191, 193. Beccaria Rolfi L., 103n. Beckett S., 154. Beethoven L. (van), 100. Belli G.G., 355n. Bellofiore L., 367n, 368n. Belpoliti M., 9, 243n. Benjamin W., 82, 83, 384. Benigni R., 283n, 284n. Bensoussan G., 7, 11, 14, 15, 16n, 21, 52, 146, 147, 148, 149, 282n, 293n, 296n, 320, 339, 356n, 382. Bergel L., 364n, 369n, 370. Berkeley G., 305. Berlin I., 141n, 143, 356n. Bernhard T., 381. Bernstein S., 285. Bertin A., 191. Bertram E., 133. Bettelheim B., 11, 100, 235, 235n, 236n, 283, 284, 313n, 326, 326n, 330, 376n, 377, 387, 388. Bismarck O. (von), 86, 142, 143. Bixio A., 191n. Blanchot M., 362, 362n, 363n.
392
Boccaccio G., 15, 362. Bonifacio VIII, 352. Borges J.L., 267n. Borowski T., 273n, 291. Bottani L., 40, 340n. Bracher K.D., 150n. Bravo A., 10, 273. Browning C.R., 56, 63, 63n, 112, 112n, 379, 379n, 380n. Bruck E., 15. Bruno G., 203. Bruto, 220, 221. Buber-Neumann M., 352n. Buffon G.L., 147. Burckhardt J., 219, 363. Calcagno G., 10. Calvino I., 301, 355n. Camon F., 9, 251n. Cantoni R., 123. Caponigri A.R., 366n, 367n. Carchia G., 371n, 373. Cartesio R., 29. Casiccia A., 378n. Casorati F., 178. Cavaglion A., 27n, 153n, 273n, 278n, 289n. Cavani L., 282, 282n. Celan P., 7, 82, 116, 157, 236, 273, 273n, 274, 274n, 275, 276, 312. Cerami R., 283n. Cereja F., 288n. Cervelli I., 222. Chaplin C., 212. Cherchi A., 166, 166n, 282n. Clarke A.C., 250. Clemenceau G., 356n. Colli G., 152n, 186n. Conrad J., 253n, 355n. Croce B., 192n, 364n, 366, 366n, 367, 367n, 368n, 369. Dambitsch D., 170n. Dante Alighieri, 15, 26n, 36, 172, 173, 174, 220, 225, 246, 290, 297,
Il negativo e l’attesa
320, 350, 351, 352, 357, 358, 359, 362, 366. Darwin C., 45, 317. De Benedetti L., 10, 267n, 303, 303n, 306. Decrop G., 280, 280n, 287n. Delbo C., 279. Del Boca A., 89n. Deleuze G., 11, 42, 209, 210, 211, 212, 214. Delmastro S., 252, 253, 253n. Democrito, 248. De Negri E., 196n, 197n. Derrida J., 153, 153n, 189, 189n, 190, 193n, 205, 281, 281n, 286, 362. Devolder J., 27n, 275n, 334n, 354, 354n. Diels H., 122n, 187n. Di Giorgi F., 26n, 170n. Dilthey W., 130. Dix O., 219. Donadoni M., 284n. Dörr A., 66. Dostoevskij F., 15, 209, 329, 338, 352n. Dufrenne M., 346n. Dührer A., 132. Dujardin J., 145. Eichmann A., 11, 37, 38n, 39, 70, 78, 125n, 202n, 274n, 286, 380n. Eicke T., 104n. Elias N., 143. Eliot T.S., 220. Epicuro, 248, 249, 340. Eraclito, 15, 107, 122, 154, 166, 178, 186, 186n, 188, 192, 199, 216, 218, 219, 248, 254, 321, 362. Erasmo, 226n. Esiodo, 164. Everett H., 333. Evtušenko E.A., 157. Faenza R., 284n. Faurisson R., 165. Fichte G., 164, 203, 304.
Indice dei nomi393
Fidus (K. Höppener), 137. Fink E., 178, 178n, 179, 188, 201. Fofi G., 284n. Forti S., 11, 202n, 248n, 269n, 307, 308, 309, 314n, 318, 325n, 329, 330, 330n. Foscolo U., 352, 357. Franco F., 154. Frank A., 100. Frank H., 73, 111. Freud S., 11, 16, 29, 31, 42, 127, 146, 154n, 186, 195, 195n, 196, 229, 240, 241, 242, 243, 243n, 244, 245, 246, 247, 249, 252, 256, 257, 257n, 294, 294n, 295, 295n, 299, 306, 306n, 335, 376n, 387n. Friedrich C.D., 52, 121, 131, 375. Fromm E., 74, 74n. Gabai, J., 252n. Gadamer H.G., 388n. Gallino G., 10. Gentile E., 11, 121n, 145n, 150n, 215, 216n, 217n, 218, 219, 220, 298n, 320, 339, 381n, 384. Geremia, 262. Gesù, 47, 77, 110, 132, 193, 193n, 194, 217, 337, 357, 362. Giannantoni G., 122n, 186n. Giobbe, 15, 25, 26, 28, 41, 110, 184, 193, 194, 194n, 195, 202, 202n, 217, 225, 234, 234n, 237, 248, 248n, 262, 266, 271, 290, 298, 320, 326, 337, 343, 348, 349, 350n, 362. Giordani I., 297n. Giovanni (evangelista), 350n. Girard R., 193, 194, 194n, 248, 348, 349, 349n. Giuliano W., 10. Glazer R., 283n. Gobineau J.A. (de), 137. Goebbels J., 50n, 286. Goethe J.W. (von), 60n, 132, 174. Göring H., 50n.
Goldhagen D., 11, 47, 48, 49, 50n, 57, 62, 63, 63n, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 79, 80, 81, 82, 91, 110, 111, 114, 115, 116, 117, 128n, 210n, 311n, 379, 379n, 381n. Gončarov I.A., 107. Gorgia, 286. Gradowski S., 50n, 57, 57n, 165, 283n, 333, 333n. Grass G., 17, 17n. Grassano G., 163n. Greif G., 56, 57n, 58, 91, 138, 252n, 282n. Gross J.T., 381, 381n. Habermas J., 191. Hafkersbrink H., 321. Hegel G.W.F., 11, 15, 22, 24, 35, 67, 87, 107, 121, 121n, 122, 123, 128, 165, 165n, 177, 187, 192, 192n, 193n, 196, 196n, 197, 197n, 198, 198n, 199, 200, 209, 216, 218, 219, 248n, 271, 320, 321, 326, 357, 362, 362n, 369, 373. Heidegger M., 14, 16, 20n, 21n, 29, 35, 42, 103, 123, 128, 131, 141, 178, 178n, 179, 179n, 182, 188, 189, 189n, 190, 191, 191n, 193, 193n, 200, 217, 223, 227, 228, 236, 252, 264n, 294n, 320, 329, 335, 338, 339, 362, 362n, 376. Herbert U., 380n. Herman H., 350. Hertz R., 155. Heschel A.J., 205n. Hess R., 88, 88n. Heydrich R., 37, 78, 360. Hilberg R., 11, 38, 38n, 50, 50n, 51n, 53, 54, 54n, 55, 56, 72, 72n, 73, 73n, 74, 76n, 78, 89n, 90, 92, 95, 96, 97, 100, 101, 102, 111, 126n, 127, 138, 147, 151n, 235n, 254n, 281, 284, 314n, 358n, 379n, 380. Hilckman A., 121n. Hillesum E., 35, 235, 235n, 262, 321, 321n.
394
Himmler H., 53n, 58, 62, 64, 65, 68, 72n, 74, 75, 79, 81, 91, 92, 95, 111, 146, 150, 151, 151n, 286. Hitchcock A., 285. Hitler A., 10, 11, 45, 49, 49n, 55, 59, 60, 60n, 61, 65, 68, 77, 78, 79, 85, 86, 87, 88, 88n, 90, 92, 99n, 101n, 102, 102n, 103, 104, 105, 106, 109, 110, 113, 129, 131, 136, 137, 140, 141, 142, 154, 286, 317, 336n, 340, 358n, 378, 381n. Hobbes T., 304, 310n, 316, 317. Hofer H., 145n. Hölderlin F., 15, 103, 134, 155, 196, 197n, 200, 290n, 295n, 320, 322, 339, 362. Höppener K., 137. Horthy M., 51n. Höss R., 10, 58, 87, 91, 92, 101, 104n, 107, 127n, 128n, 173n, 262. Hugenberg A., 140. Husserl E., 306, 346n. Ibsen H., 18, 223, 253n. Isaac J., 146n. Isaia, 17, 159. Jäger G., 170n. Jalla D., 10, 273. Jankélévitch V., 38, 271n. Jaspers K., 46, 123, 127, 128, 128n, 131, 165, 165n, 305, 342, 342n, 345, 346n. Jenninger P., 45, 46, 46n, 127, 128, 153. Joffé R., 387. Jonas H., 341, 341n, 342, 343, 343n, 344, 348, 361. Joyce J., 220. Jünger E., 20, 130, 133, 143, 146n. Kafka F., 100, 100n, 273, 335. Kant I., 15, 30, 164, 198, 198n, 199, 299, 300, 337. Katzenelson Y., 262, 262n.
Il negativo e l’attesa
Ka-Tzetnik, 35, 70, 274n, 311, 311n, 377, 377n. Kaufman K., 55. Keller A., 150. Kertész I., 51, 54, 283n, 291, 291n. Kierkegaard S., 15, 122, 123, 123n, 128, 129, 229n, 373. Klee P., 250. Kojève A., 11, 196, 197, 199, 201, 255. Kranz W., 122n. Kubrick S., 262. Langfus L., 57, 259. Lanzmann C., 282, 282n, 283n. Lenin N., 317. Leopardi G., 12, 15, 19, 83, 163, 175, 182, 184, 185n, 186, 199, 200, 201, 202, 203, 203n, 229, 229n, 247, 258, 297n, 320, 326, 339, 362, 373. Levi F., 154n, 303n. Levi P., 7, 9, 10, 13, 14, 16, 17, 18, 25, 25n, 26, 26n, 27n, 28, 29, 31, 34, 35, 35n, 36, 37, 39, 40, 40n, 41, 45, 54, 55, 87, 89n, 102, 103n, 121, 122, 124, 125, 127, 127n, 151, 153, 153n, 154, 156, 163, 163n, 164, 166, 167, 168, 168n, 169, 170, 170n, 171, 171n, 172, 173, 174, 174n, 175, 176, 177, 179, 183, 184, 184n, 185, 185n, 194n, 195, 201, 202, 203, 205, 206, 218, 220, 224, 227, 229, 234, 235, 235n, 236, 237n, 238n, 240n, 241, 242, 243, 243n, 244, 245, 246, 247, 248, 248n, 249, 250, 250n, 251, 251n, 252, 253, 253n, 254, 255, 256, 256n, 257, 258, 259, 260, 262, 264, 265, 266, 266n, 267, 267n, 268, 269, 269n, 270, 270n, 272, 272n, 273, 373n, 274, 275, 275n, 276, 276n, 277, 278, 279, 280, 282, 283n, 285, 286, 287, 288n, 289, 289n, 290, 293, 297, 301, 302, 303, 303n,
Indice dei nomi395
304, 310, 311, 312, 323, 326, 327, 329, 330, 331, 332, 333, 334n, 335, 336, 338, 341, 345, 348, 349, 350n, 351, 352n, 353, 353n, 354, 354n, 355, 355n, 357, 358, 358n, 359, 360, 365, 367, 369, 370, 370n, 371, 376, 377, 389. Lévinas E., 248n. Lietz H., 106. Linneo, 147. Loewenthal E., 289n. Losurdo D., 21n, 216, 368, 368n, 369, 369n, 384. Luca (evangelista), 350n, 355. Lucrezi F., 289, 289n, 354, 354n, 355, 370. Lucrezio, 32, 35, 248, 249, 314, 314n. Ludendorff E., 106. Lukács G., 12, 127, 128, 129, 130, 131, 309. Lutero M., 132, 216, 225, 225n, 226n, 364. Luzzatto A., 39, 40n. Lyotard J.-F., 42, 125, 193, 193n, 195n, 205, 213, 213n, 214, 240, 241n, 259, 259n, 260, 260n, 261, 261n, 263, 264, 264n, 272, 291, 342, 375. Machiavelli N., 16, 362, 363, 364, 365, 366, 367, 368n, 369. Magliano T., 71, 71n, 165, 166n. Mahler G., 155. Maida B., 67n, 103n. Maistre J.M. (de), 17. Mann E., 64n, 82n, 84, 84n, 113, 113n, 356n. Mann H., 143. Mann T., 46, 128, 142, 146, 152, 206, 218, 251, 305, 309, 336n. Mantegazza R., 82, 83, 83n, 84, 171, 171n. Manzoni A., 200n, 357. Marc F., 220. Marco (evangelista), 350n.
Marcuse H., 375, 376, 376n. Marinetti F.T., 369. Marquard O., 371, 371n, 372, 373, 374, 375, 386. Marr W., 48. Martini C.M., 15, 15n. Martini M., 278n. Maruffi F., 39, 284n, 388n. Marx K., 85, 86, 129, 195, 195n, 199, 203, 321, 357. Matteo (evangelista), 350n. Mattioda E., 273n, 276n, 359n. Mauriac F., 297. McDonald D., 47n. Meister Eckhart, 217, 313, 313n, 335. Menandro, 186. Meghnagi D., 26n. Melville H., 355n. Milgram S., 380n. Miller A., 65n. Millu L., 35, 116n, 170n, 284n, 286. Minoia C., 40n. Mommsen H., 360. Mondo L., 251n, 273. Morricone E., 387. Mosè, 225. Mosse G.L., 12, 60, 60n, 61, 132, 133, 134, 136, 137, 138, 139, 140, 141. Mussolini B., 89n, 108n, 154, 154n, 381n. Negri A., 12, 203, 203n, 204. Nemes L., 57n. Neumann F., 125n. Nietzsche F., 11, 16, 22, 35, 67, 97, 107, 121, 123, 123n, 124, 124n, 126, 127, 128, 129, 131, 132, 133, 134, 142, 146, 148, 151, 152n, 153, 154, 186, 192, 192n, 195, 200, 206, 209, 210, 211, 212, 216, 218, 219, 271, 308, 309, 310, 319, 320, 324, 338, 339, 352n, 357, 362, 362n, 363, 364, 365, 368, 372, 373, 375, 377, 382, 383, 384, 386. Novalis, 132, 149, 200.
396
Novelli Glaab L., 170n. Ohlendorf O., 97. Osano Q., 26n, 388n. Owen W., 217. Paasch K., 137. Paci E., 365, 365n, 367n. Pakula A.J., 282. Paolo (san), 17, 42, 132. Pareyson L., 122, 122n, 165n, 177n, 341, 344, 344n, 345, 348, 350, 350n, 352, 352n, 387. Pascal B., 71, 71n, 203. Pascoli G., 200, 200n. Pasolini P.P., 84. Patterson D., 39n. Pavese C., 251. Pavlov I.P., 382. Pezzetti M., 282n. Picciotto Fargion L., 374n. Pisanty V., 289n. Platone, 14, 15, 27, 27n, 29, 113, 178, 178n, 189, 189n, 191, 247, 271, 288n, 290, 290n, 300, 350, 353, 362, 365. Plotino, 247, 299, 300, 301, 303. Pohl O.,115, 115n. Poli G., 10. Polo M., 355n. Pontecorvo G., 284n. Qohèlet, 15, 202, 254, 262, 277. Quasimodo S., 262, 304. Raboni G., 174. Rank O., 256, 256n. Rawicz P., 39n. Regge T., 9, 333. Resnais A., 282. Revelli M., 333n, 340n. Ricoeur P., 341, 346n, 347, 348, 365n, 387. Riedt H., 25n, 237n. Rigoni Stern M., 352, 368. Rilke R.M., 131, 173, 174.
Il negativo e l’attesa
Rosi F., 284n. Roth P., 163, 163n. Rousseau J.-J., 310, 340. Russell B., 355n. Rust B., 107. Sackar J., 57. Saint-Exupéry A. (de), 355n. Salomon E. (von), 82, 82n, 143. Samuel J., 41, 353n. Sartre J.-P., 123, 180, 305, 329. Scarpa D., 303, 303n. Schelling F.W.J., 15, 41, 128, 129, 177, 177n, 187, 295, 350, 350n. Scheubner-Richter E. (von), 89n. Schlegel (fratelli), 132. Schnitzler A., 143. Schopenhauer A., 107, 124n, 128, 129, 135, 198, 198n, 199, 247, 252, 373. Segre C., 241. Semprún J., 233, 233n, 265, 265n, 266, 266n, 273, 273n, 276n. Sereny G., 254n, 293n. Sessi F., 11, 55. Shakespeare W., 221. Schauwecker F., 133, 134. Shirer W.L., 269n. Silberberg Y., 282n, 314. Simmel G., 130. Socrate, 27, 28, 189, 190, 193, 194, 220, 287, 288, 353, 262. Sofocle, 192. Sofsky W., 12, 35n, 93, 112, 116, 117, 118, 119, 120, 179, 180, 293, 297n, 314n, 325n, 351. Speer A., 58, 256n. Spencer H., 318. Spengler O., 318. Spielberg S., 282n, 284n. Spinoza B., 252. Springer E., 344n. Streicher J., 64n, 225n. Stangl F., 254n, 293. Steiner G., 51, 51n, 334. Styron W., 282.
Indice dei nomi397
Svevo I., 362. Swift J., 168n. Szondi P., 275. Tacito, 133. Talete, 232. Tasso T., 182. Tesio G., 10, 41, 174n, 184n, 248n, 250n, 370n. Thanassekos Y., 207, 208, 208n, 279, 280, 280n, 283n. Tieck L., 132. Tillion G., 358n. Todorov T., 12, 13, 26n, 35, 36, 128n, 145, 216, 224, 225, 226, 235n, 236n, 256n, 282n, 286, 286n, 301, 303, 312, 317, 319n, 321n, 324, 340, 341, 358n, 380n, 385, 388n. Tolstoj L., 335, 338. Traniello F., 288n. Traverso E., 12, 17, 17n, 38n, 47n, 272, 273, 305, 376, 376n. Tzsolt B., 51n. Vasari B., 369n. Vattimo G., 179n, 190, 190n, 191n, 192, 192n, 261n. Venezia S., 57n, 116, 116n, 310. Vercel R., 25, 25n, 355n. Vercelli C., 283n. Vico G., 16, 263, 357, 364, 364n, 365, 366, 366n, 367, 367n, 368, 368n, 369, 369n, 370. Vidal-Naquet P., 125, 125n. Vigolo G., 197n, 290n.
Vivaldi A., 285n. Wagner R., 67, 135. Weber M., 146. Wehler H.U., 142, 143. Weil S., 215. Weinreich M., 319. Weiss P., 100n, 235n. Weizenbaum J., 15n. Weizsäcker R. (von), 46. Welzer H., 12, 46, 52, 53, 56, 57, 58, 59, 61, 62, 63n, 68, 69, 71, 75, 76, 76n, 77, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 98, 99, 100, 107, 125n, 126, 143, 269n, 273n, 285, 290, 291, 312, 313, 314n. Wertmüller L., 235n, 283. Wheeler J., 333. Wiesel E., 14, 15, 25, 34, 36, 45, 45n, 54, 125, 154, 248, 266, 266n, 271, 272, 273n, 282, 282n, 283n, 285, 286, 287, 287n, 288, 289, 289n, 290, 297, 297n, 298n, 304, 353n, 376, 376n, 377. Wiesenthal S., 272n. Winnig A., 135n. Wittgenstein L., 28, 260, 286. Young J., 285. Zevi T., 147n. Ziemer G., 67n, 81n, 90, 101n, 103n, 108n, 252n. Zimbardo P., 380n.
FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna 750. Giuseppe Fornari, Alle origini dell’Occidente. Preistoria, antica Grecia, modernità 751. Mario Alai, Filosofia analitica del linguaggio. Autori e problemi del Novecento 752. Antonio De Simone, Amor vitae. Stili e forme dell’arte nell’estetica di Georg Simmel 753. Federica Porcheddu, Ripensare il terzo a partire da Levinas. Trascendenza e reciprocità 754. Floriana Ferro, Amore e bellezza. Da Platone a Freud 755. Nicla Vassallo, Stefano Leardi, Fatti non foste a viver come bruti. Brevi e imprecisi itinerari per la filosofia della conoscenza 756. Giorgio Palumbo, Vincoli di gratuità. Rispondere delle grazia di esistere 757. Roland Barthes, Il Neutro. Corso al Collège de France (1977-1978). Testo stabilito, annotato e presentato da Thomas Clerc. Introduzione all’edizione italiana, traduzione e cura di Augusto Ponzio 758. Milosh F. Fascetti, Il laboratorio segreto dell’anima 759. Andrea Bizzozero, Antonino Clemenza, Carlos Alberto Gutiérrez Velasco (a cura di), Crisi dell’Umano oggi? Tra immanenza e trascendenza 760. Enrico Giorgio, Prolegomeni a una teoria della ragione, vol. 1 761. George Ivan, Tempo sacro e tempo profano. Per una filosofia della storia di Mircea Eliade 762. Simona Langella, Maria Silvia Vaccarezza e Michel Croce (a cura di), Virtù, legge e fioritura umana. Saggi in onore di Angelo Campodonico 763. Jean Soldini, Il cuore dell’essere, la grazia delle attrazioni. Tentativi di postantropocentrismo 764. Stefano marino (a cura di), Estetica, tecnica, politica: immagini critiche del contemporaneo 765. Francesco de Stefano, Dialogo sopra i massimi sistemi quantistici. Il dibattito sull’epistemologia della meccanica quantistica, Prefazione di Franco Fabbro 766. Roberto Bertoldo, Sistema transitorio. Dialogo sui sistemi di pensiero 767. Andrea Amato, L’uomo: storia di una separazione. Il compito e il destino dell’uomo 768. Riccardo Pugliese, Il sentimento paralizzante del possibile.La vertigine della libertà in Kierkegaard e Sartre 769. Paolo Vidali, Storia dell’idea di natura. Dal pensiero greco alla coscienza dell’Antropocene 770. Stefano Bevacqua, Il cerchio mai chiuso. Mente, cervello, corpo, ambiente: dalla relazione all’individualità 771. Enrico Cerasi, Filippo Moretti, Tradire Dante. Riflessioni sull’enigma del male a partire dalla “commedia” dantesca 772. Emiliano Alessandroni (a cura di), La Rivoluzione d’Ottobre e il pensiero di Hegel, Con un saggio di Domenico Losurdo, Prefazione di Giovanni Sgro’, Postfazione di Stefano G. Azzarà
773. Fabio Treppiedi, L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze 774. Vincenzo Frungillo, Il rischio e la perdita. Su identità e linguaggio in Martin Heidegger 775. John Ellis McTaggart, Commentario alla Logica di Hegel, a cura di Mauro Cascio 776. Gabriele Pulli, Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio 777. Fabio Vergine, Oltre l’umano. La concezione trascendentale della temporalità nel pensiero di Gilles Deleuze 778. Aldo Marrone, E.M. Cioran, lo stilista senza colonna 779. Paolo Landi, Coscienza e realtà nella storia del cinema 780. Giuseppe Polistena, Politica, questa sconosciuta. Genesi e identità del comportamento politico, prefazione di Giorgio Galli 781. Francesco Massobrio, Scienza e fede a confronto. Ripensare il paradigma a partire dall’uomo 782. Davide Fazio, Antonio Ledda, Michele Pra Baldi, Percorsi di logica 783. Pellegrino Favuzzi, Il pensiero politico di Ernst Cassirer. Filosofia della cultura tra democrazia e mito 784. Antonella Mancusi, Il riscatto dello sguardo. Il sentimento della crisi, l’Atene oggi 785. Igor Pelgreffi, Figure dell’automatismo. Apprendimento, tecnica, corpo 786. Francesca Iannelli, Federico Vercellone e Klaus Vieweg (a cura di), Approssimazioni: echi del Bel Paese nel sistema hegeliano. Wirkungsgeschichte della filosofia di Hegel in Italia 787. Davide Perrotta, Eliahu Alexander Meloni, Natura e cultura nella genesi della coscienza collettiva 788. Giuliano Campioni, Nietzsche e lo spirito latino 789. Graziano Pettinari, La fenomenologia contro se stessa. Lévinas, Ricoeur, Derrida 790. Michel Serres, Il parassita 791. Ambrogio Cazzaniga, Lo stile filosofico del pensare Storia e teoria 792. Thomas Hobbes, Vita di Thomas Hobbes di Malmesbury. Le due autobiografie latine, traduzione e cura di Luca Tenneriello 793. Antonio Rainone, La sartoria di Lacan. Sulle geometrie del desiderio e l’etica del godimento 794. Giovanni Formichella, Il fuoco della filosofia 795. Antonio De Simone, Metropoli e fotografia 796. Augusto Ponzio, Quadrilogia. La differenza non indifferente; Elogio dell’infunzionale; Fuori luogo; In altre parole 797. Marco Christian Santonocito, Il tempo tra Oriente e Occidente 798. Paolo Musso, Silvia Milone, Loredana Parolisi, Covid, la lezione del pacifico. Come i paesi avanzati di Asia e Oceania hanno contenuto il virus e perché noi non li abbiamo imitati 799. Cintia Faraco, L’agire politico tra poesia e potere. Solone 800. Enrico Cipriani,Il fantastico mondo del linguaggio 801. Giacomo Cozzi, Daedala tellus. La Natura nel Quattrocento 802. Paolo Del Debbio, L’oikonomia aristotelica nell’insegnamento universitario tra Due e Trecento 803. Marco Favaro, La maschera dell’antieroe. Mitologia e filosofia del supereroe dalla Dark Age a oggi 804. Rossella Bonito Oliva, Etica in figure, a cura di V. Carofalo e D. Salottolo
805. Alberto Postigliola, Filosofia e politica nel secolo dei Lumi. Studi su Montesquieu e Rousseau, a cura di Mariassunta Picardi 806. Luciano Arcella, L’uomo: un accidente culturale 807. Lucrezia Fava, Heidegger e la gnosi 808. Giacomo Pezzano, 4 minuti. Filosofia per i tempi che corrono 809. Lorenzo Manera, Elementi per un’estetica del digitale. Media interattivi e nuove forme di educazione estetica 810. Sergio A. Dagradi, Nel vuoto. Tra filosofia e senso dell’esistenza umana 811. Claudio Crivellari, Educazione e formazione. Spunti di riflessione tra filosofia e pedagogia 812. Marco de Paoli, Campanella. La città del sole. La percezione magica del mondo e l’utopia 813. Georges Noël, La Logica di Hegel, a cura di Mauro Cascio 814. Piergiorgio Della Pelle, Croce e Pareto. Sulla scienza sociale (1891-1897) 815. Giacomo Marramao, Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo 816. Antonio De Simone, Il destino del presente. Storia, tempo e vita. Simmel e noi 817. Lorena Grigoletto, Lógoi. Sul sentiero “Orfico-pitagorico” di María Zambrano 818. Marco di Feo, Fondamenti di olologia. Ontologia del mondo della vita nella prospettiva dell’intero 819 Antonio Lizzadri, Dal realismo scientifico al realismo interno. Putnam verso il pragmatismo 820. Michel Henry, Filosofia e fenomenologia del corpo. Saggio sull’ontologia biraniana, traduzione, postafazione e cura di Gaetano Iaia 821. Claudia Caneva, I diversi modi di dire persona 822. Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sistema dell’intera filosofia e della filosofia della natura in particolare, a cura di Andrea Dezi 823. Mikel Dufrenne, Per una filosofia non teologica, a cura di Roberto Revello 824. Alessandro Nannini, Al di qua del logos 825. Edoardo Raimondi, Hegel tra Alexandre Kojève ed Eric Weil. Storia, filosofia e politica all’ombra del Sapere Assoluto 826. Francesco Brancato, L’enigma sinfonico 827. Leopoldo Sandonà, Dialogica filosofica 828. Annalisa Caputo (a cura di), Filosofia e istituti tecnici 829. Patrizia Fantozzi, Della Croyance al cinema. A partire da Gilles Deleuze 830. Franco Ricordi, Filosofia del cuore. Pascal, l’Occidente e la Sovrapolitica 831. Adelchi Scarano, La formazione dei medici. Scienza e relazione 832. Giovan Battista De Gattis, Essere adulto nella società 5.0 833. Cecilia Nobili, Riccardo Saccenti (a cura di), Filosofia e convivialità. Dall’antichità al Medioevo 834. Francesco Giuseppe Trotta, Tragedie e salvazioni. Studio su Unamuno e Ortega y Gasset 835. Antonio De Simone, Lo spirito del mondo. L’inquietudine del divenire. Scritti su Hegel 836. Francisco Suárez, L’unità individuale e il suo principio. La V Disputazione Metafisica 837. Mario Tronti, Hobbes e Cromwell. Con un’appendice di scritti sul politico, a cura di Damiano Palano, postafazione di Michele Filippini
838. Voltaire, Herbert Marcuse, Che cos’è la tolleranza, a cura di Pierre Dalla Vigna 839. Giovanni Scoto Eriugena, Il cammino di ritorno a Dio. Testi tratti dal Periphyseon, a cura di Vittorio Chietti 840. Matteo Losapio, Dèi Respinti. Metafisica degli scarti 841. Fabienne Brugère, L’etica della cura 842. Livio Rossetti, Ripensare i presocratici. Da Talete (anzi da Omero) a Zenone 843. Elisabetta Di Stefano, Estetica urbana. Atmosfere e artificazione negli spazi della città 844. Leonardo Pricoli, L’energia dell’uomo. Il tema della diversità nel pensiero di Wilhelm von Humboldt 845. Antonio G. Balistreri, La scritttura come scoperta 846. Graziella Travaglini, La catarsi in Aristotele, tra mimesis e phantasia 847. Alessandro Nannini, Il segno e l’immagine. Estetica e semiotica delle arti da Du Bos a Lessing 848. Carmen Metta, Studi sulla funzione espressiva e sulla filosofia della cultura. Un commento al Nachlass di Ernst Cassirer, prefazione di Christian Möckel 849. Sara Pasetto, L’idea di Europa nel pensiero di Edmund Husserl. Attualità e inattualità 850. Paolo Landi, L’insieme e il sistema
Finito di stampare nel mese di giugno 2023 da Puntoweb S.r.l. – Ariccia (RM)