Invito alla lettura di Primo Levi 8842525413


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Invito alla lettura di Primo Levi
 8842525413

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SEZIONE ITALIANA

Invito alla lettura Alfieri (G. Cappello) Alvaro (W. Mauro) Arbasino (E. Bolla) Ariosto (A. Fortichiari) Arpino (M. Romano) Bacchelli (A. Dosi Barzizza) Bassani (M. Grillandi) Bellonci (M. Grillandi) Bernari (E. Ragni) Berto (0. Lombardi) Bertolucci (S. Giovannuzzi) Bevilacqua (C. Toscani) Bigiaretti (L. Silori) Bigongiari (S. Ramat) Bilenchi (O.M. Brouwer) Boccaccio (A. Vaglio) Bontempelli (G. Cappello) Brancati (E. Lauretta) Brignetti (P. Bianucci) Buzzati (A. Arslan)

Calvino (G. Bonura) Campana (R. Jacobbi) Cancogni (.J. Fiorillo Magri) Capuana (A.P. Cappello) Cardarelli (C. Di Biase) Carducci (R. Della Torre) Cassola (G. Manacorda) Castellaneta (L. Surdich)

Chiara (E. Ghidetti) Comisso (R. Esposito) D'Annunzio (G. Bàrberi Squarotti) Dante Alighieri (W. Mauro) De Marchi (A. Gorini Santoli) De Roberto (G. Borri) Deledda (0. Lombardi) Dessi (M. Miccinesi) Eduardo (A. Bisicchia) Fabbri (G. Cappello) Fenoglio (W. Mauro) Flaiano (L. Sergiacomo) Fogazzaro (G. De Rienzo)

Gadda (E. Ferrero) Ginzburg (E. Clementelli) Goldoni (S. Torresani) Gozzano (L. Angioletti) Gramsci (W. Mauro) Guicciardini (A. Quatela) Jahier (A. Giordano) Jovine (N. Carducci) Landolfi (G. Bernabò Secchi)

Leopardi (A. Bon)

Luzi M. (M. Marchi) Machiavelli (A. Guetta) Malaparte (L. Martellini) Manzini (E. Panareo) Manzoni (M. Miccinesi) Marinetti (L. Paglia) Montale (C. Scarpati) Morante (G. Sgorlon) Moravia (G. Pandini)

Moretti (G. Zaccaria) Morselli (V. Fortichiari) Negri (A. Gorini Santoli) Nievo (G. Cappello) Ortese (G. Borri) Palazzeschi (F.P. Memmo) Palumbo (S. Folliero) Parini (M. Mezzanzanica) Parise (P. Petroni) Pascoli (R. Daverio) Pasolini (V. Mannino) Patti (E. Lauretta) Pavese (M. Tondo) Penna (A. Vaglio) Piovene (G. Marchetti) Pirandello (F. Virdia) Pomilio (M. Bonanate) Pratolini (C. Villa) Prisco (P. Giannantonio) Quasimodo (G. Finzi) Rea (S. Prina) Rigoni Stern (M. Buzzi) Romano (A. Catalucci) Rosso di San Secondo (A. Bisicchia) Ruzante (S. Torresani) Saba (P. Raimondi)

Santucci (G. Cristini) Saviane (E. Lauretta) Sciascia (G. Ambroise) Scotellaro (L. Parola Sarti) Serao (G. Buzzi) Sgorlon (C. Toscani) Silone (C. Annoni) Soldati (W. Mauro) Strati (A. Motta) Svevo (M. Lunetta)

Tasso (F. Di Carlo) Testori (A. Cascetta) Tobino (M. Grillandi) Tomasi di Lampedusa (G. Buzzi) Tomizza (M. Neirotti) Tozzi (L. Reina) Ungaretti (G. Luti)

Levi C. (M. Miccinesi)

Levi P. (E. Bianchini)

(segue in terza di copertina)

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INVITO ALLA LETTURA SEZIONE ITALIANA

Primo Levi

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EDOARDO BIANCHINI

Invito alla lettura di

Primo Levi

“MURSIA:

La sezione italiana di questa Collana è diretta da ROBERTO FEDI. EDOARDO BIANCHINI, nato a Tizzana nel 1947, già ordinario di Latino e Greco nei Licei Classici, giornalista professionista, ha collaborato con testate quotidiane locali e nazionali. Critico militante, è autore di numerosi volumi, tra cui ricordiamo // gioco delle ombre (Montecatini 1993),

Movimenti (Firenze 1996), Serti di rose e spine. Amor sacro e profano da Omero a Tasso (Firenze 1999), Italiano straniero (Perugia 1999).

LEEDS METROPOLITAN UNIVERSITY LEARNING CENTRE

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Il nostro indirizzo Internet è: http://www.mursia.com © Copyright 2000 Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A. Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy 5014/AC - Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A. - Via Tadino, 29 - Milano

Stampato da Tipografia Emiliani - Rapallo Fotocomposizione: «F.Ili Sala» - Via Comina, 16/A - Seregno

Anno 03 02

01 00

Ristampa 1,02. 344

CRONOLOGIA

1919

Primo Levi nasce il 31 luglio a Torino, nella casa di corso Re Umberto 75 dove trascorrerà tutta la vita, da Cesare e da Ester Luzzati.

1921

Nasce la sorella Anna Maria, alla quale resterà sempre legato da profondo affetto.

1934

È iscritto al ginnasio-liceo «Massimo D'Azeglio» di Torino, dove hanno insegnato antifascisti dichiarati quali Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Zino

Zini, Norberto Bobbio e Cesare Pavese (sarà suo docente per qualche mese in prima liceo).

1937

Affronta l’esame di maturità ed è rinviato alla sessione autunnale in italiano. Si iscrive all’università di Torino per seguire i corsi di chimica.

1938

Frequenta circoli antifascisti e stringe amicizia con i fratelli Artom. Legge Thomas Mann, Aldous Huxley, Sterne, Werfel, Darwin, Tolstoj.

1941

1942

Si laurea, con il massimo dei voti e la lode, con il professor Giacomo Porzio. Discute una tesi dal titolo L’inversione di Walden. Sul diploma di laurea compare la nota «di razza ebraica». Il padre è gravemente ammalato di tumore; morirà l’anno seguente. Trova lavoro in una cava di amianto a Lanzo.

Trasferitosi

a Milano, si impiega presso l’azienda farma-

ceutica svizzera Wander. Studia i farmaci per la cura del

diabete. Frequenta la casa della cugina Ada Della Torre e

CRONOLOGIA conosce Silvio Ortona, Eugenio Gentili Tedeschi, Vanda

Maestro, Carla Consonni ed Emilio Dierna. E questo l’anno in cui gli alleati sbarcano in Nord Africa e i russi difendono Stalingrado. Entra nel Partito d’ Azione.

1943

Dopo la caduta del regime (luglio) e l'arresto di Mussolini, il 13 settembre si rifugia in Valle D'Aosta. Vuole aggregarsi a un costituendo gruppo partigiano. Tradito e arrestato dalla Milizia fascista il 13 dicembre presso Brusson, viene portato al campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, in provincia di Modena.

1944

In febbraio i tedeschi assumono il comando del campo di Fossoli e lo deportano ad Auschwitz, dove giunge dopo un infernale viaggio di cinque giorni.

1945

Poco prima dell’abbandono del Lager da parte delle SS, si ammala di scarlattina. Il 27 gennaio, dopo l’arrivo delle truppe russe, viene inviato al campo di smistamento di Katowice. Lavora come infermiere. Dal mese di giugno inizia il suo viaggio di ritorno dalla prigionia attraverso la Russia Bianca,

la Romania,

l'Ungheria,

1’ Austria,

la

Germania. Il 17 ottobre è a Pescantina, in provincia di Verona. Il 19 ottobre sarà di nuovo a Torino.

1946

Si impiega nella fabbrica di vernici Duco-Montecatini di Avigliana, presso Torino. Inizia e conclude la stesura di Se questo è un uomo.

1947

Si fidanza con Lucia Morpurgo. Cerca di pubblicare il racconto-testimonianza composto l’anno precedente. Lo propone a Einaudi, ma i pareri negativi di Cesare Pavese e Natalia Ginzburg fanno respingere l’opera. La sorella Anna Maria ne consegna una copia ad Alessandro Galante Garrone,

che, dopo averla letta, la passa

Antonicelli. Con il parere favorevole di Malvano, Anita Rho, Marisa Zini e Renzo viene pubblicata da De Silva in 2.500 Cajumi la recensisce favorevolmente su

a Franco

Maria Vittoria Zorzi, l’opera copie. Arrigo «La Stampa»

insieme a // sentiero dei nidi di ragno di Calvino. Se ne

vendono solo 1.400 copie. Nel settembre si sposa con Lucia Morpurgo e nel dicembre si impiega presso la Siva di Settimo Torinese, azienda in produzione nel settore delle vernici.

CRONOLOGIA

,;

7

È

1948

Calvino recensisce favorevolmente Se questo è un uomo su «l’ Unità». Nasce la figlia Lisa Lorenza, il cui secondo

nome ricorda l’operaio torinese che aveva salvato lo scrittore a Monowitz, Lorenzo Perrone.

1952

Inizia la collaborazione con Paolo Boringhieri, responsabile delle edizioni scientifiche Einaudi. Il lavoro si protrarrà fino al 1957. Boringhieri ripropone Se questo è un uomo a Einaudi, che però palesa ancora molte perplessità.

1955

Durante una mostra sulle vicende dei deportati a Palazzo Madama, è al centro dell’attenzione dei giovani. Ripropone quindi il libro a Einaudi. Favorevoli sono i pareri di Luciano Foà e Italo Calvino. Il contratto viene firmato in luglio, ma la pubblicazione verrà solo tre anni dopo per

le difficoltà economiche della Einaudi. Levi cede i diritti d’autore per la cifra di 200.000 lire.

1957

Nasce il figlio Renzo. Spinto da amici e conoscenti, inizia a stendere La tregua e intanto viaggia per lavoro in Germania.

1958

Esce l’edizione einaudiana di Se questo è un uomo, con

1959

Il libro è tradotto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma non pare avere particolare fortuna di critica e pubblico.

1961

Se questo è un uomo viene tradotto in Francia, ma la versione non gli piace. In Germania la traduzione è curata da Heinz Riedt, con il quale apre un fitto carteggio. Inizia a corrispondere anche con il filosofo-scrittore tedesco Jean Améry, deportato ad Auschwitz (si suiciderà nel 1978). Nascono intanto alcuni racconti delle Storie naturali

una tiratura di 2.000 copie che vengono esaurite in pochissimo tempo.

(1966). Si infittiscono i rapporti con Italo Calvino, cui vengono dati da leggere i racconti. Questi scrive la quarta di copertina di La tregua ed esprime parere favorevole alla pubblicazione dell’opera nella collana di narrativa

dell’Einaudi.

1962

Inizia la stesura di La tregua. La Radio canadese ha realizzato una riduzione radiofonica di Se questo è un uomo e gli

CRONOLOGIA

ha inviato i nastri registrati in inglese. Sollecita la Rai a proporne un’edizione italiana. Con quest’ultima ha già avuto contatti per alcuni racconti destinati alla radio e alla televisione. Compie viaggi di lavoro in Germania e Gran Bretagna.

1963

In aprile La tregua viene pubblicata da Einaudi. Il libro si classifica al terzo posto al Premio Strega e alla prima edizione del Campiello di Venezia raccoglie il voto della giuria popolare. I successi fanno sì che prosegua l’attività di scrittore. Alcuni suoi racconti di fantascienza trovano accoglienza sulle pagine di «Il Giorno».

1964

Se questo è un uomo Viene ridotto in versione radiofonica e messo in onda con la regia di Giorgio Bandini.

1965

Torna ad Auschwitz per una cerimonia commemorativa, ma non rimane particolarmente colpito da questa esperienza.

1966

Con lo pseudonimo di Damiano Malabaila esce da Einaudi Storie naturali. È subito riconosciuto. La critica si mostra perplessa e divisa. Intanto, insieme all’attore Pieralberto Marché cura una riduzione teatrale di Se questo è un uomo per il Teatro Stabile di Torino. Il testo comparirà in seguito nell’ Einaudi/Teatro.

1967

Con Storie naturali riceve il Premio Bagutta, la cui giuria è presieduta da Riccardo Bacchelli.

1971

Una nuova serie di racconti viene pubblicata da Einaudi con il titolo di Vizio di forma. Iniziano i viaggi di lavoro in Unione Sovietica, a Togliattigrad. I viaggi proseguiranno fino al 1973. Da questa esperienza scaturisce la materia per La chiave a stella, che uscirà nel 1978.

1975

Opta per il lavoro di scrittore e dà le dimissioni dalla Siva,

pur rimanendone consulente fino al 1978. Nel mese di aprile esce (Einaudi) // sistema periodico (Premio Prato per la Resistenza). Per i tipi di Scheiwiller compare il primo libro di poesie, L’osteria di Brema,

già rifiutato da Einaudi.

Traduce per Einaudi i Simboli naturali di Mary Douglas.

1976

Adelphi pubblica la traduzione leviana del libro di Jacob Presser La notte dei Girondini.

CRONOLOGIA

9

1978

Esce, presso Einaudi, La chiave a stella. Nel 1979 l’opera, che apre una vivace discussione critica, vince il Premio Strega e il Premio Bergamo.

1980

La chiave a stella è tradotta in francese e riceve un lusin-

1981

Esce, presso Einaudi, La ricerca delle radici, un'antologia auspicata da Giulio Bollati, in cui raccoglie brani di autori

ghiero apprezzamento da Claude Lévi-Strauss.

a lui cari. Inizia la stesura di ciò che sarà in seguito Se non ora, quando?. Nel novembre Einaudi pubblica Lilit e altri racconti, in cui compaiono testi composti fra il 1975 e il 1981, ma anche alcune storie meno recenti. Si tratta, in

parte, di testi apparsi su «La Stampa».

1982

Ad aprile esce Se non ora, quando? che vince i premi Viareggio e Campiello. Torna di nuovo ad Auschwitz, ma stavolta l'emozione è dirompente. Prende ferma posizione contro i massacri dei palestinesi a Sabra e Chatila, e contro

la politica del governo israeliano, suscitando un vespaio di polemiche. Per espressa richiesta di Giulio Einaudi, traduce Il processo di Kafka. Il volume uscirà nella collana «Scrittori tradotti da scrittori».

1983

Traduce La via delle maschere e Lo sguardo da lontano di Claude Lévi-Strauss. Esce la traduzione di // processo di Kafka.

1984

Viene intervistato da Tullio Regge e il testo della registrazione appare presso le Edizioni di Comunità con il titolo di Dialogo. Nel mese di ottobre esce la raccolta di poesie Ad ora incerta, per i tipi di Garzanti (comprende le 27 liriche di L’osteria di Brema più 34 componimenti apparsi su «La Stampa» e alcune traduzioni da un anonimo scozzese, da Heine e da Kipling). // sistema periodico, tradotto negli Stati Uniti (The Periodic Table), riceve il plauso del premio

Nobel ebreo Saul Bellow. Il successo americano — con le favorevoli recensioni di Neal Ascherson («The New York Times Review of Books»), Alvin H. Rosenfeld («The New York Times Book Review») e John Gross («The New York Times») — si riverbera positivamente in Europa e in Italia.

Nel settembre acquista un elaboratore di testi ed è fra i

primi a passare all’informatica.

10 1985

CRONOLOGIA

Einaudi pubblica L’altrui mestiere, che raccoglie gli articoli comparsi su «La Stampa» tra il 1976 e il 1984. Si tratta di una serie di piccoli saggi sugli argomenti più disparati. Il libro vince il Premio Aquileia. Scrive l’introduzione per l’edizione tascabile di Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Hòss. Intanto Se non ora, quando? è tradotto e pubblicato negli Stati Uniti con una introduzione di Irving Howe. Un viaggio in America (Los Angeles, Bloomington, Boston) si rivela particolar-

mente ricco di soddisfazioni, ma altrettanto faticoso.

1986

La somma delle esperienze e un riepilogo della propria esistenza è affrontato, lungo la linea della memoria e della cosiddetta «zona grigia», in / sommersi e i salvati. La fiducia illuministica nella ragione sembra sgretolata in maniera irreversibile. Lo fa intendere anche la preoccupazione che manifesta a proposito del comportamento etico degli scienziati, tema su cui torna più volte in articoli e interviste. Negli Stati Uniti escono le traduzioni di La chiave a stella

e di una scelta da Lilît e altri racconti con il titolo di Moments of Reprieve. Se non ora, quando? è tradotto in Germania. È a Londra e a Stoccolma. A Torino viene intervistato da Philip Roth: l’ampio testo sarà pubblicato su «The New York Review of Books». L'Editoriale La Stampa pubblica Racconti e saggi, in cui sono raccolti vari scritti apparsi sul quotidiano.

1987

Il sistema periodico compare nelle versioni francese e tedesca nello stesso perido in cui è ricoverato per un. intervento chirurgico. Inizia la sua ultima fatica con il titolo di Chimica per signore. Ne restano solo alcuni capitoli. L'opera rimarrà incompiuta. L’ 11 aprile si toglie la vita gettandosi dalle scale della sua abitazione di Torino.

AUTOPRESENTAZIONE'

Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, causa la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli. Perciò questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. A molti, individui 0 popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto

di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo. ! Il primo brano di questa sezione è l’Autoprefazione a Se questo è un uomo, pp. 7-8; il secondo l’Autoprefazione a Ad ora incerta, p. 7; l’ultimo è il testo integrale di Perché si scrive? (in L’altrui mestiere, pp.

31-34). Per le altre citazioni dalle opere di Primo Levi, si veda l’apposita sezione 7 contenuta nella Nota bibliografica finale.

12

AUTOPRESENTAZIONE

Mi rendo conto e chiedo venia dei difetti strutturali del libro. Se non di fatto, come intenzione e come concezione esso è nato già fin dai giorni di Lager. Il bisogno di raccontare agli «altri», di fare gli «altri» partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari; il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore. Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza. Il lavoro di raccordo e di fusione è stato svolto su piano, ed è posteriore. Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato. II In tutte le civiltà, anche in quelle ancora senza scrittura, molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono: secernono quindi materia poetica, indirizzata a se stessi, al loro prossimo o all’universo, robusta o esangue, eterna o effimera. La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi? Uomo sono.? Anch’io, ad intervalli, «ad ora incerta» ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi ? È curioso notare l'uguaglianza dell’enunciato alla parte iniziale della traduzione di un verso di Terenzio (Heautontimorumenos, 77: Homo sum: humani nil a me alienum puto, «Uomo sono: e nessuna cosa

umana credo che deva essermi indifferente»), che compare nel secondo volume (1928, Anno VI) delle opere del comico latino, curata da Giovanni Lattanzi, nella Collezione Romana diretta da Ettore Romagnoli per l’Istituto Editoriale Italiano; opera certamente circolante negli ambienti della scuola media superiore nel momento in cui Levi frequentava il liceo e, con ogni probabilità, nota allo scrittore.

AUTOPRESENTAZIONE

13.

miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istinti (in media, non più di una volta all’an-

no) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale.

INI Perché si scrive? Avviene spesso che un lettore, di solito un giovane, chieda a uno scrittore, in tutta semplicità, perché ha scritto un certo

libro, 0 perché lo ha scritto cosi, o anche, più generalmente, perché scrive e perché gli scrittori scrivono. A questa ultima domanda, che contiene le altre, non è facile rispondere: non sempre uno scrittore è consapevole dei motivi che lo inducono a scrivere, non sempre è spinto da un motivo solo, non sempre gli stessi motivi stanno dietro all’inizio ed alla fine della stessa opera. Mi sembra che si possano configurare almeno nove motivazioni, e proverò a descriverle; ma il let-

tore, sia egli del mestiere 0 no, non avrà difficoltà a scovarne delle altre. Perché, dunque, si scrive? 1) Perché se ne sente l’impulso o il bisogno. È questa, in prima approssimazione, la motivazione più disinteressata. L’autore che scrive perché qualcosa o qualcuno gli detta dentro non opera in vista di un fine; dal suo lavoro gli potranno venire fama e gloria, ma saranno un di più, un beneficio aggiunto, non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma. Beninteso, il caso delineato è estremo, teorico, asintotico; è dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale un artista, cosi puro di cuore. Tali vedevano se stessi i romantici; non a caso, crediamo di ravvisare que-

sti esempi fra i grandi più lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e che quindi e più facile idealizzare. Per lo stesso motivo le montagne lontane ci appaiono tutte di un solo colore, che spesso si confonde con il colore del cielo. 2) Per divertire o divertirsi. Fortunatamente, le due varianti coincidono quasi sempre: è raro che chi scrive per

14

AUTOPRESENTAZIONE

divertire il suo pubblico non si diverta scrivendo, ed è raro che chi prova piacere nello scrivere non trasmetta al lettore almeno una porzione del suo divertimento. A differenza del caso precedente, esistono i divertitori puri, spesso non scrittori di professione, alieni da ambizioni letterarie o non, privi di certezze ingombranti e di rigidezze dogmatiche, leggeri e limpidi come bambini, lucidi e savi come chi ha vissuto a lungo e non invano. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Lewis Carroll, il timido decano e matematico dalla vita intemerata, che ha affascinato sei generazioni con le avventure della sua Alice, prima nel paese delle meraviglie e poi dietro lo specchio. La conferma del suo genio affabile si ritrova nel favore che i suoi libri godono, dopo più di un secolo di vita, non solo presso i bambini, a cui egli idealmente li dedicava, ma presso i logici e gli psicanalisti, che non cessano di trovare nelle sue pagine significati sempre nuovi. E probabile che questo mai interrotto successo dei suoi libri sia dovuto proprio al fatto che essi non contrabbandano nulla: né lezioni di morale né sforzi didascalici. 3) Per insegnare qualcosa a qualcuno. Farlo, e farlo bene, può essere prezioso per il lettore, ma occorre che i patti siano chiari. A meno di rare eccezioni, come il Virgilio delle Georgiche, l’intento didattico corrode la tela narrativa dal di sotto, la degrada e la inquina: il lettore che cerca il racconto deve trovare il racconto, e non una lezione che non desidera. Ma appunto, le eccezioni ci sono, e chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell’allevamento del bestiame e dell’apicultura. Non vorrei dare scandalo ricordando qui La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, altro uomo di cuore puro, che non si nasconde la bocca dietro la mano: non posa a letterato, ama con passione l’arte della cucina spregiata dagli ipocriti e dai dispeptici, intende insegnarla, lo dichiara, lo fa con la semplicità e la chiarezza di chi conosce a fondo la sua materia, ed arriva spontaneamente all’arte. 4) Per migliorare il mondo. Come si vede, ci stiamo allontanando sempre più dall’arte che è fine a se stessa.

AUTOPRESENTAZIONE

15

"

Sarà opportuno osservare qui che le motivazioni di cui stiamo discutendo hanno ben poca rilevanza ai fini del valore dell’opera a cui possono dare origine; un libro può essere bello, serio, duraturo e gradevole per ragioni assai diverse da quelle per cui è stato scritto. Si possono scrivere libri ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma più raramente, libri nobili per ragioni ignobili. Tuttavia, provo personalmente una certa diffidenza per chi «sa» come migliorare il mondo; non sempre, ma spesso, è un individuo talmente innamorato del suo sistema da diventare impermeabile alla critica. C’è da augurarsi che non possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: cosi ha fatto Hitler dopo aver scritto il Mein Kampf, ed ho spesso pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi. 5) Per far conoscere le proprie idee. Chi scrive per questo motivo rappresenta soltanto una variante più ridotta, e quindi meno pericolosa, del caso precedente. La categoria coincide di fatto con quella dei filosofi, siano essi geniali, mediocri, presuntuosi, amanti del genere umano, dilettanti o matti.

6) Per liberarsi da un’angoscia. Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente della confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene cosi, come è accaduto a me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla cosi com'è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé. 7) Per diventare famosi. Credo che solo un folle possa accingersi a scrivere unicamente per diventare famoso; ma credo anche che nessuno scrittore, neppure il più modesto, neppure il meno presuntuoso, neppure l’angelico Carroll sopra ricordato, sia stato immune da questa motivazione. Aver fama, leggere di sé sui giornali, sentire parlare di sé, è dolce, non c’è dubbio; ma poche fra le gioie che la vita può dare costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato cosi incerto.

To:

AUTOPRESENTAZIONE

8) Per diventare ricchi. Non capisco perché alcuni si sdegnino o si stupiscano quando vengono a sapere che Collodi, Balzac e Dostoevskij scrivevano per guadagnare, o per pagare i debiti di gioco, o per tappare i buchi di imprese commerciali fallimentari. Mi pare giusto che lo scrivere, come qualsiasi altra attività utile, venga ricompensato. Ma credo che scrivere solo per denaro sia pericoloso, perché conduce quasi sempre ad una maniera facile, troppo ossequente al gusto del pubblico più vasto e alla moda del momento. 9) Per abitudine. Ho lasciato ultima questa motivazione, che è la più triste. Non è bello, ma avviene: avviene che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica narrativa, il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha concepite; che non concepisca più immagini; che non abbia più desideri, neppure di gloria o di denaro; e che scriva ugualmente, per inerzia, per abitudine, per «tener viva la firma». Badi a quello che fa: su quella strada non andrà lontano, finirà fatalmente col copiare se stesso. È più dignitoso il silenzio, temporaneo o definitivo.

LA VITA

. «[...] i lettori non mi diano addosso [scriveva Plutarco

nella premessa alla vita di Alessandro Magno] se non riferisco tutti i fatti né narro in modo esaustivo quelli presi in esame tra i più celebrati, ma per lo più in forma riassuntiva. Io non scrivo storia, ma biografia; e non è — che nei fatti più celebrati ci sia sempre una manifestazione di virtù o di vizio, ma spesso un breve episodio, una parola, un motto di spirito, dà un’idea del carattere molto meglio che non battaglie con migliaia di morti, grandi schieramenti d’eserciti, assedi di città.»'

La biografia è dunque, oltre la certezza dei dati, un nodo di memorie,

di tenere o talvolta accorate evocazioni,

di

«odori» come quelli del primo racconto di Storie naturali, in cui il giovane dottor Morandi incontra Montesanto, che assomma la sua vita in poche fiale ordinate nell’ armadietto dei medicinali e gli dice: «- Morandi, ha mai notato con

quale potenza certi odori evochino certi ricordi?»;° insomma un’improbabile essenza “mnemagogica” cui attingere per riportare alla luce chi non è più, eppure ha fissato se stesso in parole ordinate e immutabili. Primogenito di Cesare Levi e di Ester Luzzati, Primo nasce a Torino il 31 luglio 1919 nella casa di corso Re ' Cfr. PLUTARCO, Vite parallele. Alessandro. Cesare, Rizzoli, Milano, 19945, trad. di Domenico Magnino, p. 33. Plutarco non è ignoto a Levi (cfr. Un topo, in Ad ora incerta, p. 68).

° Cfr. [mnemagoghi, in Storie Naturali, p. 8.

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LA VITA

Umberto 75. Essa sarà la sua abitazione per tutta la vita, tranne che per la tragica parentesi del Lager. La madre ha ventiquattro anni (era nata nel 1895), quarantuno il padre (era nato nel 1878), laureato in ingegneria elettronica nel 1901 e con esperienze di lavoro anche all’estero, in Belgio, Francia e Ungheria. Primo è discendente di una famiglia di razza ebraica, che vanta radici remote in Spagna e in Provenza. L’avo paterno di Levi è un ingegnere civile, quello materno un agiato mercante di stoffe che esercita il commercio nel centro di Torino.’ I genitori di Levi si sono sposati nel 1918. L’ingegner Cesare appare — anche attraverso i ricordi del figlio — una personalità piuttosto singolare, connotata da una straordinaria curiosità per tutto ciò che lo circonda; attratta dalla musica e ben poco legata all'ambiente familiare; distante dalla realtà dei figli e dalla loro educazione. Cesare sembra, più verosimilmente, un uomo abbagliato da qualsiasi novità. Fra i suoi interessi ha anche lo spiritismo e l’occulto; non è un ebreo praticante. Frequentatore di Lombroso e positivista, susciterà in Primo la curiosità per le scienze. Un legame indissolubile nella vita di Levi si stabilisce con la sorella Anna Maria, nata nel 1921, sempre vicina allo scrittore, saldo punto di riferimento della sua esistenza, che negli anni dell’infanzia è frammentata da una salute piuttosto fragile, tanto da costringere il bambino a interrompere l’istruzione elementare e a continuare la scuola privatamente, almeno per un anno. L'istruzione superiore di Levi inizia nel 1934 con l’iscrizione al ginnasio-liceo «Massimo D°’Azeglio», prestigioso istituto torinese famoso per la presenza, fra i suoi maestri, di personalità che si sono contraddistinte fino dagli anni Venti in un costante impegno antifascista.* Già in questi anni Primo inizia a interessarsi alle scienze, al di là della forte è Per queste notizie si vedano Argon (Il sistema periodico) e Il fondaco del nonno (L’altrui mestiere). L’avo paterno di Levi possedeva una casa e un piccolo podere a Bene Vagienna (Cuneo); morì verso il 1885, L’avo materno muore nel 1941. ' Marco BeLpoOLITI (cfr. Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano,

1998) ricorda Augusto Monti, Franco Antonicelli, Umberto Cosmo, Zino Zini, Norberto Bobbio e (nel corso femminile) Cesare Pavese, che

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impronta umanistica impartitagli dalla scuola classica. Sono i libri che il padre acquista i testi su cui si basa la prima educazione scientifica dello scrittore. A dispetto dell'insegnante Azelia Arici, che insiste nel sostenere che le materie scienti-

fiche non possiedono alcun valore formativo e cerca di cancellare negli allievi qualsiasi interesse per le scienze, Levi inizia le sue esperienze servendosi di un microscopio che il padre gli ha regalato. Mostra particolare attrazione per la cristallografia. Nel periodo degli studi liceali il giovane studente coltiva anche l’amore per la montagna e pratica l’alpinismo, un esercizio che si rivelerà utile per la sopravvivenza nel Lager. Intanto legge L’architettura delle cose di William Bragg, premio Nobel per la fisica, e / cacciatori di microbi; mentre

il padre cerca di spingerlo a un confronto più pratico con la vita e lo stimola a bere, a fumare, a frequentare le ragazze,

esperienze dinanzi alle quali Primo appare piuttosto restio e impacciato, forse per timidezza o per un aspetto caratteriale che sembra innato e profondamente radicato in lui: una sensibilità quasi femminile che nasce da una vita vissuta a stretto contatto con le figure della madre e della sorella Anna Maria. Dinanzi alle donne — come spesso dirà — si sente smarrito.° Curioso e in parte anomalo è l’approccio dello scrittore all’esame di maturità, che Levi sostiene nel 1937. Il giovane viene rimandato alla sessione autunnale in italiano.’ Per Marco Belpoliti ciò è determinato dalla tensione «provocata da una minacciosa cartolina del Ministero della Guerra»,* ma non è credibile che questa sia l’unica ragione del fallimento comunque sarà insegnante di Levi (cfr. E. FERRERO, Nota biobibliografica, in Primo Levi, / racconti. Storie naturali. Vizio di forma. Lilît, Einaudi, Torino, 1996, p. XXI). ° Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 2.

6 Nella conversazione registrata con Tullio Regge (1984) Levi dichiara:

«Ora, io non fumavo,

non bevevo, non avevo ragazze. Non

c’era una gran comprensione, con mio padre. Io ero sostanzialmente un romantico [...]».

? La stessa sorte tocca anche a Fernanda Pivano, che in seguito si rivelerà traduttrice e scrittrice di valore. 8 Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 3.

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scolastico. Il carattere riservato di Levi, il suo smarrirsi dinanzi all’ignoto — che pure si evidenziano in molte pagine di Se questo è un uomo e in altri scritti — devono avere contribuito a questo miracolo in negativo. All’inizio dell’autunno dello stesso anno Levi si iscrive all’università di Torino per frequentare il corso di chimica. Può continuare i suoi studi nonostante l'emanazione delle leggi razziali fasciste (1938). Inizia a leggere le opere di Aldous Huxley e di Rabelais, segue le lezioni del professor Giacomo Porzio e stabilisce stretti legami di amicizia con Alberto Salomoni e i fratelli Artom; frequenta la sinagoga e prende i primi contatti con la propaganda sionista. Quattro anni dopo, nel 1941, discute la tesi di laurea firmata dal professor Porzio. Il titolo è L’inversione di Walden. A causa delle leggi razziali Levi non ha potuto completare la sua tesi sperimentale ed è stato costretto a optare per un argomento di natura meramente descrittivo-compilatoria.° L'esame viene superato con il massimo dei voti e la lode, ma forse — come sosterrà in seguito — più come segno di antifascismo della commissione che per meriti personali. L’anno della tesi coincide con l’aggravarsi della malattia del padre, che morirà stroncato da un tumore nel 1942. Le difficoltà economiche della famiglia gli impongono di cercare una occupazione. Come primo impiego troviamo Levi in una cava di amianto presso Lanzo: un lavoro che il giovane laureato svolge al nero a causa delle sue origini ebraiche." Nel 1942 Levi è a Milano. Inizia a lavorare per la Wander, azienda farmaceutica svizzera. Studia i farmaci destinati alla cura del diabete. Ma l’ambiente milanese non è solo un luogo di lavoro. In esso si crea il tracciato della sua esistenza; la linea lungo la quale si svilupperà, anche attraverso l’esperienza del Lager, la struttura spirituale di Levi scrittoretestimone. E nel capoluogo lombardo che il neolaureato entra in contatto con giovani piemontesi che frequentano la casa della cugina Ada Della Torre, impiegata presso la casa ° L'argomento della tesi sperimentale era Comportamento dielettrico della miscela ternaria C;H;=CHCl;=C;yH;Cl, sottotesi discussa con il professor Pochettino. ' Le notizie compaiono in alcuni capitoli di 7/ sistema periodico.

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editrice Dall’Oglio. In quello spazio Levi conosce Silvio Ortona, che diventerà marito di Ada, poi capo partigiano, deputato e dirigente del PCI; Vanda Maestro, sua compagna di deportazione ad Auschwitz e vittima del campo di sterminio; Emilio Dierna, Carla Consonni e l’architetto Eugenio

Gentili Tedeschi. Dopo la caduta del regime fascista e l’arresto di Mussolini (1943) Levi stabilisce i primi contatti con il Partito d’Azione e con il Cln. Da Milano si rifugia in Valle d’Aosta e si unisce a un costituendo gruppo partigiano, ma presso Brusson viene arrestato dalla Milizia fascista e trasferito al campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, in provincia di Modena. Ha dichiarato alla Milizia di essere ebreo e non partigiano, così ha evitato la fucilazione. Ma la sua odissea deve ancora iniziare. Nel febbraio del 1944 i tedeschi prendono il comando del campo di Fossoli e decidono di deportare i prigionieri nel Lager di Auschwitz, l’«“anus mundi”, punto di drenaggio ultimo dell’universo tedesco», come lo definirà più tardi Levi.!! Così lo scrittore

ricorda quei giorni: L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una

collettiva incontrollata follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case. Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di

queste è bene che non resti memoria." La sera del secondo giorno di tradotta, Levi passa il !! Cfr. Il re dei Giudei, in Lilit e altri racconti, p. 82. ‘° Cfr. Il viaggio, in Se questo è un uomo, p. 15.

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Brennero con i compagni, e per altri tre giorni il viaggio prosegue fino a quando i deportati vengono fatti scendere ad Auschwitz. Da lì la loro separazione e la destinazione di Levi a Monowitz. Non uso all’intolleranza e alla segregazione, Levi, cresciuto in una Italia che sembra non conoscere le asprezze del razzismo antisemita, sarà costretto a scoprire a proprie spese — vivendo a contatto con ebrei di altre culture — che la sopravvivenza nel Lager è garantita a chi pensa solo a se stesso: non c’è posto per la solidarietà, né per l'umanità, la comprensione, l’aiuto. La regola dell’homo homini lupus è ineludibile. Accanto a questo, un lavoro durissimo mira a stroncare l’uomo senza pietà. Sarà per puro caso che, incontrato Lorenzo Perrone, operaio torinese libero, Levi riuscirà ad avere più cibo, a superare stenti e fame e a passare — grazie ad un evento fortuito e fortunato — al Kommando chimico del Lager. Potrà vivere in un ambiente più confortevole, non essere vittima di alcuna malattia infettiva o debilitante che lo avrebbe destinato alle selezioni per le camere a gas;

potrà passare gli ultimi tempi di prigionia in maniera relativamente tranquilla, eccetto un breve ricovero al Ka-Be (l’infermeria), fin quando, nel gennaio 1945, si ammalerà di scarlattina. Ma ancora una volta la sorte gli sarà benigna e i tedeschi abbandoneranno il Lager prima di avere mandato gli ammalati alle camere a gas. L'insegnamento che Levi trae dall’esperienza di Monowitz è spietatamente feroce: Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente ferocemente solo. Se un qualunque Null Achtzehn vacilla, non troverà chi gli porga una mano; bensì qualcuno che lo abbatterà a lato, perché nessuno ha interesse a che un «mussulmano» di più si trascini ogni giorno al lavoro; e se qualcuno, con un miracolo di selvaggia pazienza e astuzia, troverà una nuova combinazione per defilarsi dal lavoro più duro, una nuova arte che gli frutti qualche grammo di pane, cercherà di tenere segreto il modo, e di questo sarà stimato e rispettato, e ne trarrà un suo esclusivo personale

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giovamento; diventerà più forte, e perciò sarà temuto, e chi è temuto è, ipso facto, un candidato a sopravvivere.

Si delineano fino da questo momento le caratteristiche che connotano «i sommersi e i salvati». Nasce da queste crude e lucide osservazioni quel magma indistinto e ribollente dal quale prenderà vita l’ultimo libro edito nel 1986, il testamento spirituale, l’ultimo atto di un Levi che rifiuta la

vita. L'arrivo dei russi dopo la fuga precipitosa delle SS dal campo, segna la fine delle sofferenze e degli stenti. Levi, insieme a molti altri, viene trasferito a Katowice. Da lì ini-

zierà l’odissea del ritorno lungo un incongruo itinerario che toccherà la Bielorussia, il cuore della Romania, l'Ungheria, l’Austria (con un’assurda deviazione nella stessa Germania) e, infine (ottobre 1945), l’Italia, dove, dopo la breve sosta nel

campo di smistamento di Pescantina presso Verona, lo scrittore riprenderà il viaggio verso Torino. Sarà di nuovo a casa il 19 ottobre. Durante la prigionia è fortunosamente riuscito a fare avere sue notizie alla madre e alla sorella.'* Ora gli si pongono due istanze impellenti: il bisogno di trovare un lavoro e la sorda, insistente necessità di raccontare,

di testimoniare l’esperienza vissuta. Passeranno alcuni mesi prima che Levi possa essere assunto alla Duco-Montecatini di Avigliana, una fabbrica di vernici nei pressi di Torino; ma la scrittura di Se questo è un uomo inizia, a capitoli brevi, più 0 meno disordinata e disorganica, e continua fra una sosta e l’altra dal lavoro. Conclusa la stesura, seguono il riordino e la

disposizione dei capitoli. La materia non procede secondo un ordine cronologico, ma avanza per motivi e temi: quelli che, di volta in volta, hanno forza di emergere dal pozzo della coscienza, di venire alla luce in un disordine pieno di orrore. Nel narrare Levi fa sì che emozione, pietà, indignazione, scaturiscano dalle parole e dall’atmosfera che esse riescono a !3 Cfr. I sommersi e i salvati, in Se questo è un uomo, pp. 110-111. !4 Grazie a Lorenzo Perrone, Levi ha inviato due cartoline all’amica

Bianca Guidetti Serra. Ne avrà risposta per posta in franchigia (cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 6).

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creare nella loro misura, rifuggenti come sono da ogni gratui‘ta ricerca di effetto. Il lettore è quasi naturalmente costretto a naufragarvi come in un inferno senza luce. Ciò è quasi palpabile nel colloquio del prigioniero Levi con Jean, il Pikolo del Kommando chimico, in uno dei capitoli più famosi di Se questo è un uomo, Il canto di Ulisse:

[...] Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «... la terra lagrimosa diede vento...» no, è un’altra cosa. E tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna con-

cludere:

Tre volte il fè girar con tutte l’acque, Alla quarta levar la poppa in suso E la prora ire in giù, come altrui piacque... Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli,

spiegargli il Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro

destino, del nostro essere oggi qui... Siamo ormai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. — Kraut und Riiben? — Kraut und Riiben —. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: — Choux et navets. — Kaposzta és répak.

Infin che ’1 mar fu sopra noi rinchiuso." Nel 1946 Se questo è un uomo è terminato. Nel frattempo Levi si è fidanzato con Lucia Morpurgo, alla quale sono ‘ Cfr. /l canto di Ulisse, in Se questo è un uomo, p. 145.

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dedicate alcune poesie composte in questo difficile momento. Come l’avventura della deportazione è stata lunga e penosa, tale sarà pure la pubblicazione del libro: proposto alla Einaudi nel 1947, riceve pareri sfavorevoli da Cesare Pavese e da Natalia Ginzburg. Al rifiuto dell’editore torinese segue la stampa da parte della casa editrice De Silva. Ne realizza un’edizione in 2.500 copie nello stesso anno. La sorella Anna Maria ne ha consegnata una copia a Alessandro Galante Garrone che a sua volta ha interessato Franco Antonicelli. Questi ha fatto leggere il testo a Maria Vittoria Malvano, Anita Rho, Marisa Zini e Renzo Zorzi. Il parere è

stato favorevole. La prima lusinghiera recensione compare su-«La Stampa» a firma di Arrigo Cajumi, affiancata da una nota per // sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino. L’opera non ha molta fortuna. Nello stesso anno Levi si sposa con Lucia Morpurgo e si impiega alla Siva di Settimo Torinese, un’azienda che opera nel settore delle vernici. Ne

diverrà presto direttore e vi lavorerà fino al 1975, occupandosi di smalti isolanti per conduttori elettrici in rame. Dopo un anno di matrimonio, nel 1948, nasce la figlia Lisa Lorenza. Il secondo nome le è imposto a ricordo del muratore che,

a Monowitz,

ha salvato la vita allo scrittore, quel

Lorenzo Perrone che morirà suicida dopo il rientro in Italia. Nel 1955 si svolge a Palazzo Madama un incontro pubblico con i deportati dei campi di sterminio. Levi viene invitato a partecipare come autore di Se questo è un uomo. Durante l’incontro lo scrittore viene fatto oggetto di straordinarie attenzioni da parte dei giovani presenti. Ciò stimola Levi a tentare nuovamente la pubblicazione del libro con Einaudi. Stavolta le porte gli si aprono. Con l’aiuto di Luciano Foà, forte del successo che il romanzo ha ottenuto a Palazzo Madama e grazie anche alla favorevole recensione che Italo Calvino ne aveva fatta su «l’Unità» nel 1948, e a un suo nuovo positivo parere (Calvino è ormai redattore dell’Einaudi), Levi firma il contratto nel mese di luglio, ma

la pubblicazione del libro nella collana «Saggi» sarà posticipata fino al 1958 per le difficoltà economiche dell’editore. Nel frattempo lo scrittore è già consulente dell’Einaudi e collabora con Paolo Boringhieri in traduzioni e revisioni di testi scientifici (1952-57).

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LA VITA Nel 1957 è nato il figlio Renzo e dallo stesso anno è ini-

ziata la stesura del secondo libro-testimonianza, La tregua.

L’opera segue lo stesso schema strutturale di Se questo è un uomo, anche se in essa il filo cronologico sembra essere più

rispettato. L’anno successivo Se questo è un uomo uscirà con una tiratura di 2.000 esemplari, presto esauriti. Nel 1959 ne compariranno le traduzioni inglese e-statunitense, pur senza riscontri di particolare diffusione e successo. La criticata traduzione francese del libro verrà nel 1961 e sempre nello stesso anno verrà eseguita quella tedesca, ad opera di Heinz Riedt, con cui Levi entrerà in corrispondenza. Sarà questo l’anno in cui lo scrittore stabilirà stretti rapporti epistolari con il filosofo-scrittore tedesco Jean Améry, anch’egli deportato al campo di Auschwitz e poi suicida nel 1978. In questi anni Levi viaggia per lavoro in Germania e inizia a scrivere i racconti che saranno raccolti in Storie naturali (1966). I testi vengono fatti leggere a Calvino, che dà pure parere favorevole alla pubblicazione di La tregua, uscita nel 1963 e immediatamente accolta in maniera lusinghiera dalla critica, terza al Premio Strega e prima al Campiello grazie al voto della giuria popolare. Dietro la spinta dei successi nascono anche alcuni racconti fantascientifici che trovano accoglienza sul quotidiano «Il Giorno» e sul settimanale «Il Mondo». Nel 1962 Levi ha ricevuto dalla Radio canadese le traduzioni inglesi della riduzione di Se questo è un uomo, e si è mosso per interessarne la Rai a una riduzione in lingua italiana destinata alla radio e alla televisione. Le Storie naturali vedono la luce nel 1966. Si tratta di una serie di racconti già pubblicati su riviste e quotidiani. L’opera esce sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Levi, immediatamente identificato, finisce per essere considerato un punto interrogativo dalla critica che stenta a riconoscerne il valore di scrittore. E un momento difficile. Nello stesso anno, dopo la riduzione radiofonica di Se questo è un

uomo, il Teatro Stabile di Torino ne realizza una teatrale con l’intervento dell’attore Pieralberto Marché. Il testo viene pubblicato nella Einaudi/Teatro. Gli anni Settanta si aprono con la pubblicazione di Vizio di forma, nuova raccolta di racconti che non hanno successo. Ma l’equa divisione di Levi fra lavoro e scrittura è ancora capace

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di generare stimoli e interessi mirati alla narrativa. I frequenti viaggi in Unione Sovietica, a Togliattigrad, forniscono materia per definire ciò che sarà La chiave a stella (1978). L'uscita de // sistema periodico (1975) assume il valore di punto di non ritorno nella vita e nell’opera dello scrittore. È un libro «la cui gestazione è stata lenta e faticosa, ma che compendia in modo perfetto le diverse anime del suo lavoro di scrittore che si vanno delineando di libro in libro — Levi stesso, negli anni precedenti, aveva parlato di se stesso come di un centauro, di un ibrido, diviso tra la chimica e la letteratura, il linguaggio tecnico-scientifico e quello umanistico, tra l’identità italiana ed ebraica».!° Dopo essersi dimesso dalla Siva — continuerà a collaborare con l’azienda come consulente ancora per qualche anno —, L’osteria di Brema, prima plaquette poetica, compare a Milano per i tipi di Scheiwiller. Einaudi ha rifiutato le poesie, ma per l’editore torinese Levi ha tradotto i Simboli naturali di Mary Douglas. Adelphi pubblicherà la sua traduzione di La notte dei Girondini di Jacob Presser nel 1976. Nel 1978 esce La chiave a stella, che vince il Premio Strega. Le avventure di lavoro di un montatore di gru e di tralicci metallici costituiscono il nucleo narrativo, ma «la ricerca stilistica di L. si apre a esperimenti in parte nuovi in direzione del recupero di modi lessicali e sintattici di un parlato post-dialettale urbano, fortemente segnato da tratti gergali».!” Il libro ha un discreto successo anche grazie ai fermenti del mondo operaio metalmeccanico dell’Italia settentrionale, che ne accrescono

attualità e interesse. L’opera è

tradotta in francese due anni dopo, e Claude Lévi-Strauss ne dà un lusinghiero giudizio. In questi anni su «La Stampa» compaiono articoli e recensioni di Levi. La ricerca delle radici esce nel 1981 da Einaudi. Il libro !6 Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., pp. 12-13. " Cfr. A. BRANDALISE, in Dizionario critico della letteratura italiana, Utet, Torino, 1986, vol. II, p. 610.

!8 Scrive Lévi-Strauss che lo ha «letto con estremo piacere perché non v’è nulla che mi piaccia quanto l’ascoltare i discorsi di lavoro. Sotto questo profilo Primo Levi è una sorta di grande etnografo. Inoltre il libro è davvero divertente» (cfr. E. FERRERO, Primo Levi: un’antologia della critica, Einaudi, Torino, 1997, p. 403).

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contiene una serie antologica di autori cari a Levi. Contemporaneamente, partendo da appunti sparsi presi durante le conversazioni con l’amico Emilio Vita Finzi, lo scrittore inizia a stendere Se non ora, quando?. Ne completerà la stesura dopo una ricerca approfondita su libri-testimonianza, opere di storia e memoriali di varia natura. Il libro sarà pubblicato nel 1982 (aprile), mentre intanto esce Lilit e altri racconti, una serie di testi scritti fra il 1975 e il 1981, suddivisi nelle sezioni Passato prossimo, Futuro anteriore e Presente indicativo. Vi vengono raccolti testi già apparsi su «La Stampa». Nel 1982 con Se non ora, quando? Levi vince sia il Premio Viareggio che il Campiello. È l’anno in cui lo scrittore visita Auschwitz per la seconda volta.'* La suggestione è fortissima. Altri avvenimenti campeggiano nelle cronache dei quotidiani. Israele invade il Libano e scatena gli eccidi dei palestinesi nei campi di Sabra e Chatila. Levi prende ferma posizione contro l’atteggiamento del governo israeliano e provoca reazioni vivaci negli ambienti ebraici. Ancora nel 1982 traduce // processo di Kafka, che compare nella collana di Einaudi «Scrittori tradotti da scrittori». Lo scrittore ne esce psicologicamente prostrato e depresso. In seguito tradurrà anche Lo sguardo da lontano e La via delle maschere di Claude Lévi-Strauss (1984-85). Ad ora incerta è la seconda raccolta poetica di Levi. Nel dichiararsi uomo che crede poco alla poesia e tuttavia la pratica, in una intervista aggiunge che se Adorno ha scritto che dopo Auschwitz non si può più fare poesia, la sua «esperienza è stata opposta. Allora [1945-46] mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro. Dicendo poesia, non penso a niente di lirico. In quegli anni, semmai, avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non ! Una prima visita ad Auschwitz c’era stata nel 1965, ma non aveva suscitato particolare emozione nello scrittore. °° Secondo Levi neppure una guerra giustifica la protervia sanguinosa che Begin e i suoi hanno dimostrato. Si veda in proposito anche G. PANSA, Io, Primo Levi, chiedo le dimissioni di Begin, in «la Repubblica», 24 settembre 1982.

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su Auschwitz». La raccolta, che contiene anche alcune traduzioni, viene pubblicata da Garzanti nel 1984. Anche stavolta Einaudi ha rifiutato la proposta. Ma il 1984 sembra essere particolarmente favorevole allo scrittore. // sistema periodico, tradotto negli Stati Uniti, raccoglie il plauso del premio Nobel ebreo Saul Bellow, e il successo si riverbera positivamente al di qua dell’oceano, in Europa e in Italia.” L’altrui mestiere (1985) raggruppa una serie di articoli nati dalla collaborazione di Levi con «La Stampa» e, secondo quanto scrive Calvino, rivela la poliedricità degli interessi dello scrittore.’ Dotatosi di computer nel 1984, Levi scrive l’introduzione al volume Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Hòss (Einaudi, Torino,

1985). Un viaggio in America è ricco di soddisfazioni quanto stancante.” Infine / sommersi e i salvati vedono la luce nel 1986. Il libro è la summa dell’esperienza di Lager e vita. Rappresenta una sorta di resa dei conti con il tema della memoria, ma già

l’anima di Levi appare turbata, ossessionata da profondi interrogativi cui non è possibile dare risposta. Lo scrittore americano Philip Roth lo incontra a Torino. Ne nasce una lunga intervista pubblicata su «The New York Review of Books» ripresa anche da «La Stampa». Dagli interventi Levi lascia intravedere una serie di preoccupazioni tormentose,

fra cui il comportamento etico degli scienziati, tema che compare a più riprese nelle interviste. Nella sua mente si fa sempre più spazio un pessimismo senza luce, tenebroso. Racconti e saggi, pubblicato dall’Editoriale La Stampa nel ©" Cfr. G. NASCIMBENI, Levi: l’ora incerta della poesia, in «Corriere»della Sera”, 28 ottobre 1984. ® BELLOW scrive: «Siamo sempre alla ricerca del libro necessario. Dopo poche pagine mi immergevo nel Sistema periodico con piacere e gratitudine. Nulla vi è di superfluo, tutto in questo libro è essenziale» (cfr. E. FERRERO, Primo Levi: un'antologia della critica, cit., p. 404). ® I racconti «rispondono alla sua vena d’enciclopedista dalle curiosità agili e minuziose e di moralista d’una morale che parte sempre dall'osservazione»

(cfr. I. CALVINO, / due mestieri di Primo Levi, in «la

Repubblica», 6 marzo 1985). % Il viaggio coincide con la traduzione americana di Se non ora, quando?.

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1986, è l’ultima opera che appare in libreria. La Chimica per signore, di cui restano solo alcuni capitoli, ultima fatica affrontata da Levi, rimane incompiuta.

Pur essendo personaggio pubblico molto noto e richiesto, le condizioni familiari impediscono a Levi di poter aderire agli inviti che gli sono rivolti. La precaria salute della madre e della suocera, molto anziane, lo costringe in casa come in

una sorta di carcere. Dall’inizio del 1987 lo scrittore interviene anche nella polemica che investe il «revisionismo storico», pensiero che tende a ridimensionare le colpe del nazismo. Le apparizioni in pubblico sono sempre più rade. La sua vita si chiude improvvisamente 1° 11 aprile 1987. Levi si getta dalle scale della sua casa torinese di corso Re Umberto 75.



II LE OPERE Se questo è un uomo «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi. È il motto che

scandisce i tempi del Lager alla fabbrica di gomma di BunaMonowitz.' La scansione segue ritmi propri, non è temporale; dilata all’infinito lo scorrere immateriale della dimensio-

ne dell’anima, regolata solo dal ciclo del giorno e della notte: una luce in cui la fatica sembra non avere limiti e un buio che raddensa e caglia coscienza e incoscienza, dolorosa

memoria e volontà di oblìo. E la notte dell’uomo-non uomo. Nell’àmbito della letteratura concentrazionaria il primo libro di Levi si colloca in termini non tanto di narrazione diaristica degli orrori vissuti, quanto di revisione critica del reale, condizione che ne determinò appropriatamente la pubblicazione nella collana dei «Saggi» einaudiani, nonostante vada pur detto che lo stretto legame fra fatto e commento — caratteristico delle pagine leviane — niente toglie alla forza ' L'intervista di Philip Roth, inizia, fra l’altro, con questa osservazione rivolta a Levi: «La tua effettiva mania di lavorare ha un’origine più profonda. Il lavoro sembra un tema ossessivo per te, persino nel tuo libro sulla detenzione ad Auschwitz. Ma il lavoro ad Auschwitz è un’orrenda parodia del lavoro, senza scopo e senza senso; è fatica come punizione, che porta a una morte tormentosa. Si può considerare la tua intera fatica letteraria come tesa a restituire al lavoro il suo senso umano, redi-

mendo la parola Arbeit dall’irridente cinismo con il quale i tuoi datori di lavoro di Auschwitz l’avevano sfregiata» (cfr. L'uomo salvato dal suo mestiere, in P. LEVI, Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino, 1997, p. 84).

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espressiva e persuasiva, né tantomeno al valore letterario di

Se questo è un uomo. Al racconto siamo avvinti senza interruzione, trascinati da una vis narrativa che non ammette distrazioni e che finisce per coinvolgerci con lo stesso incantamento grazie al quale un film ci trascina all’interno della vicenda e ci rende parte — almeno emozionalmente passiva — della storia creata dai fotogrammi. Se unanimemente la critica riconosce a Levi la qualità di testimone equanime, scevro di qualsiasi risentimento nei con-

fronti dei tedeschi e se ne pone in luce la radice nel rigore logico della sua educazione scientifica, capace di impedire ogni enfasi di propaganda, è tuttavia il caso di ricercare l’origine di questo equilibrio anche in un altro fattore non del tutto ben apprezzato: l’umanesimo che Levi apprese negli anni della formazione liceale, quell’Aumus in cui si tentava di negare qualsiasi valore formativo alle discipline scientifiche. Nella categorizzazione del mondo diviso in sommersi e salvati; è logico ravvisare un’eco di quel giansenismo negato, tanto vivo nel Manzoni di un Adelchi che riflette sull’u-

mana condizione («loco a gentile, / Ad innocente opra non v'è: non resta / Che far torto, o patirlo») e ancora persistente nei Promessi sposi. Il tono dimesso, modesto, umile, dolorosamente cupo della scrittura di Levi, legittima considerazioni di questa natura specie laddove la tragedia vive non nella matta bestialità che offende la fisicità violata, quanto nella snaturazione dell’uomo come risultato di un evento “necessario” legato all’essere stesso. Il peccato che macchia i colpevoli non sta nella violenza fisica, ma nella condanna dell’individuo come conseguenza inevitabile della «legge iniqua»: Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona «a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto». Nel Lager, dove l’uomo è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, la legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti.’ ? Cfr. A. MANZONI, Adelchi, V, 8, 31-33. * Cfr. / sommersi e i salvati, in Se questo è un uomo, p.111.

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Levi sembra vivere come colpa la stessa esistenza, alla stregua di un Lucrezio che severamente la rileva e la situa alla radice dell’essere. Il mondo non pare finalizzato dal volere divino,* e la «legge iniqua» si fa ripresa in negativo del concetto di «provvida sventura», in maniera specular-

mente rovesciata. Questo preambolo è funzionale alla comprensione del libro, il cui titolo è emblematico della visione del mondo dello scrittore perché «costituisce già di per sé uno di quegli interrogativi della coscienza la cui drammaticità è tale da rendere superfluo il punto di domanda e quindi da escludere ogni forma di enfasi. In altre parole una domanda in cui necessariamente è già inclusa una risposta e proprio per la forza apodittica di quest’ultima».' Il pessimismo di Levi è totale fino dalle prime pagine; è punto di inizio e di ritorno di una produzione letteraria che appare come una sorta di percorso ad anello destinato a saldarsi su se stesso. Bastano poche parole per comprendere il tormento umano: Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza [...].° Anche in questo caso un richiamo a Manzoni non sembra fuori luogo. Non solo per il termine «Provvidenza», usato da Levi con una connotazione fortemente scettica e in antitesi con l’ideologia religiosa dello scrittore lombardo, ma più per * LUCREZIO ne parla in due passi del De rerum natura: II, 180-81 e V, 199, Nel primo il poeta nega che il mondo sia stato creato per noi dalla divina volontà, perché è pieno di male (nequaquam nobis divinitus esse creatam / naturam mundi: tanta stat praedita culpa, «non certo per noi dal volere divino è stata creata / la natura del mondo: di tanto male è ingombra»); nel secondo ribadisce il concetto con parole assai simili (nequaquam nobis divinitus esse paratam / naturam rerum: tanta stat praedita culpa, «non certo per noi dal volere divino è stata creata / la natura delle cose: di tanto male è ingombra»). 5 Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, Mursia, Milano,

1973 (19937), p. 69. 6 Cfr. Storia di dieci giorni, in Se questo è un uomo, p. 199.

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l'affinità che — sia pure con esiti diversi — caratterizza i due autori a livello di analisi finale, astrattiva, conclusiva di un

percorso umano e letterario. Simile a quello di Levi, infatti, era stato il tormento manzoniano quando, in // Natale del 1833 — ultima lirica del poeta rimasta incompiuta — Manzoni si era posto il problema del dolore del mondo nonostante Dio.” Sul tema dei sommersi e dei salvati — e quindi del dolore — Levi tornerà alla fine della sua vita, né saprà darsi una risposta capace di aprire varchi alla speranza, quale sembra invece caratterizzare in maniera incomprensibile il suo robusto «vicino di casa», l’ippocastano di corso Re Umberto, che «nel suo tardo cuore di legno / Sente e gode il tornare delle stagioni» pur vivendo una realtà snaturata dalla assurda violenza dell’uomo.* Se questo è un uomo si apre con una premessa illuminante, nella quale può essere ricercata e trovata la chiave di lettura dell’opera: [...] questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano. A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un

sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La " Il tema è sviluppato, in un intreccio di riflessioni fra il reale e il fantastico, nell’omonimo romanzo di Mario Pomilio (Rusconi, Milano,

1983). * Cfr. Cuore di legno, in Ad ora incerta, p. 48.

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storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo. Mi rendo conto e chiedo venia dei difetti strutturali del libro. Se non di fatto, come intenzione e come concezione esso è nato già fin dai giorni di Lager. Il bisogno di raccontare agli «altri», di fare gli «altri» partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto

da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari; il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore. Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza. Il lavoro di raccordo e di fusione è stato svolto su piano, ed è posteriore. Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato.’ Il libro è dunque la testimonianza con la quale Levi narra la deportazione ad Auschwitz nel 1944, ed è strutturato in

diciassette brevi capitoli, di cui soltanto l’ultimo ha un’articolazione cronologica.'° L’opera può essere considerata come il risultato diacronico di una concentrazione di storie indipendenti, rigorosamente desunte da fatti veri, ma verosimilmente concrezionati e fusi per mezzo di un’operazione che coinvolge memoria e senso interno del tempo: insomma una specie di sintesi logico-emozionale. Il primo capitolo, /l viaggio, serve a introdurre l’antefatto e le vicende che hanno portato l’autore al campo di prigionia di Fossoli. Da lì Levi parte con altri seicentocinquanta compagni verso l’inferno di Auschwitz, dove avviene la prima selezione dei deportati, in parte avviati al lavoro forzato e in parte destinati all’ignoto, come le donne e i bambini, fra cui ? Cfr. Autoprefazione a Se questo è un uomo, pp. 7-8. ‘° I capitoli sono: // viaggio, Sul fondo, Iniziazione, Ka-Be, Le nostre notti, Il lavoro, Una buona giornata, Al di qua del bene e del male, I sommersi e i salvati, Esame di chimica, Il canto di Ulisse, I fatti dell’estate, Ottobre 1944, Kraus, Die drei Leute vom Labor, L'ultimo, Storia

di dieci giorni.

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lo scrittore ricorda Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi. Subito dopo (Sul fondo) è narrato l’arrivo al campo di destinazione, l’attesa della doccia, l’incontro con Flesch (il

deportato che fa da interprete fra i prigionieri e le SS), la prima iniziazione al funzionamento del campo, l’incontro con un medico ungherese ex criminale e l'apposizione del numero di riconoscimento sul braccio delle vittime: Htéftling: ho imparato che io sono un Hdftling. Il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro." Dopo avere detto che i deportati del campo rientrano dal lavoro al suono di una fanfara che intona Rosamunda, lo scrittore si preoccupa di illustrare la disposizione del Lager e dei vari Block, la composizione della popolazione che vi risiede (ebrei, «triangoli verdi» o ex criminali, e «triangoli rossi» 0 prigionieri politici), i dettagli dell’abbigliamento e i riti del campo, la gerarchia con nomi e funzioni, e i vari Kommandos del Lager, definiti buoni e cattivi." La chiusa del capitolo è dittica, divisa in due brani, nel primo dei quali è acquisita con certezza la coscienza della propria condizione immutabile: Tale sarà la nostra vita. Ogni giorno, secondo il ritmo prestabilito, Ausriicken ed Einriicken, uscire e rientrare; lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi, guarire o

morire." "! Cfr. Sul fondo, in Se questo è un uomo, p. 30. !° I riti del campo sono: «ogni giorno al mattino bisogna fare il “letto”, perfettamente piano e liscio; spalmarsi gli zoccoli fangosi e repellenti con l’apposito grasso da macchina, raschiare via dagli abiti le macchie di fango (le macchie di vernice, di grasso e di ruggine sono invece ammesse); alla sera, bisogna sottoporsi al controllo dei pidocchi

e al controllo della lavatura dei piedi; al sabato farsi radere la barba e i capelli, rammendarsi o farsi rammendare gli stracci; alla domenica, sottoporsi al controllo generale della scabbia, e al controllo dei bottoni della giacca, che devono essere cinque» (cfr. Sul fondo, in Se questo è un uomo, p. 38). " Cfr. Sul fondo, in Se questo è un uomo, p. 41.

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Il secondo brano è dedicato alle trasformazioni fisico-psichiche che, in appena quindici giorni di Lager, hanno già trasformato lo scrittore. Le ultime righe sono già dolorosa testimonianza della rinuncia: Avevamo deciso di trovarci, noi italiani, ogni domeni-

ca sera in un angolo del Lager; ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più deformi, e più squallidi. Ed era così faticoso fare quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo."

In Iniziazione' Levi propone alcune riflessioni sulla confusione delle lingue nel Lager e sui comportamenti da seguire al campo per garantirsi la sopravvivenza, e porta ad esempio il sergente Steinlauf, reduce della prima guerra mondiale, che riesce a cavarsela grazie alla sua ossessione per l’igiene; mentre in Ka-Be viene affrontato il tema dell’infermeria

dove Levi finisce per un incidente sul lavoro. Vi sono narrati gli incontri con strani personaggi: Null Achtzehn, Zero Diciotto; Chajim, l’orologiaio-meccanico di precisione; 1°0landese Walter Bonn e Schmulek il fabbro; l’italiano Piero Sonnino, che ricomparirà in La tregua con il nome di Cesare. La Krankenbau (l’infermeria) viene definita limbo poiché

in essa i disagi materiali sono relativamente pochi; ma al di fuori è sempre il Lager, per cui Levi conclude che [...] i savi antichi, invece di ammonirci «ricordati che

devi morire», meglio avrebbero fatto a ricordarci questo maggior pericolo che ci minaccia. Se dall’interno dei Lager un messaggio avesse potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire

nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui.'°

‘4 Cfr. Sul fondo, in Se questo è un uomo, pp. 42-43. !s Il breve capitolo è stato inserito nell’edizione del 1958. !6 Cfr. Ka-Be, in Se questo è un uomo, p. 67.

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Questa riflessione serve a introdurre un altro dante dell’opera, un elemento che emerge solo che è sotteso ovunque, il tema della nostalgia definisce Levi, dell’«Heimweh», il «dolore della

motivo fona tratti, ma o, come la casa»:!

La baracca di legno, stipata di umanità dolente, è piena di parole, di ricordi e di un altro dolore [...]. Sappiamo donde veniamo: i ricordi del mondo di fuori popolano i nostri sonni e le nostre veglie, ci accorgiamo con stupore che nulla abbiamo

dimenticato,

ogni

memoria evocata ci sorge davanti dolorosamente nitida. Ma dove andiamo non sappiamo. Potremo forse sopravvivere alle malattie e sfuggire alle scelte, forse anche resistere al lavoro e alla fame che ci consumano: e dopo? [...] Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini [...].!

Il dolore dell’individuo si universalizza e lo si coglie nell’uso del possessivo in «le nostre donne e i nostri bambini». Alberto è l’amico che compare in Le nostre notti, il capitolo dedicato alle notti invernali e ai loro muti tormenti, ‘Il tema della “memoria dolorosa”, citato dalla critica come esplici-

to richiamo dantesco, e da Levi stesso messo in relazione con il desiderio di narrare di Francesca da Rimini a Dante, in parallelo con il proverbio yiddish «È bello raccontare i guai passati» (assai impropriamente: perché il proverbio indica la narrazione che segue ai guai, mentre invece il personaggio dantesco ricorda la felicità nel momento del dolore: Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria;

cfr. Inferno, V, 121-123) è da ricondurre, a nostro avviso, ancor più in là: al virgiliano /nfandum, regina, iubes renovare dolorem, «O regina, mi ordini di rinnovare un dolore indicibile» (cfr. Eneide, II, 3), tema

fondante del canto in cui Enea è invitato da Didone a raccontare le vicende della felicità passata e della distruzione di Troia. D'altronde la cultura classica di Levi è pacifica (e, forse, ancora poco indagata). Si veda, a esempio, l’esplicita citazione-traduzione di Catullo V, 5-6, in Z/ tramonto di Fossoli; o la ben più celata allusione, sempre allo stesso autore e passo, in Via Cigna: Forse è questa l’eternità che ci attende (ambedue in Ad ora incerta). La “memoria dolorosa”

capitolo // bosco e la via, in La tregua. '* Cfr. Ka-Be, in Se questo è un uomo, pp. 67-68.

aprirà anche il

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accompagnati dalle storie yiddish di Wachsmann il cantastorie, una figura che può essere scambiata con il Tischler di Lilft.!° Dal limbo del Ka-Be si ripiomba nell’inferno del campo, nella baracca, dove i deportati sognano un sogno individuale e al tempo stesso collettivo: la fuga dal Lager. E all’improvviso si apre la voragine onirica, in cui lo scrittore crede di essere tornato a casa, ma non riesce a stabilire contatti con i propri familiari: Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far

parola. Allora nasce in me una pena desolata, come certi dolo-

ri appena ricordati della prima infanzia: è dolore allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli per cui i bambini piangono [...].?® L'altra ossessione che domina le notti invernali è il sogno di Tantalo. I deportati sognano di mangiare, un orrore in cui «non si vedono soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distin-

ti e concreti, se ne percepisce l’odore ricco e violento», finché tutto viene interrotto dalla condanna di ogni giorno che torna: «Aufstehen, — o più spesso, in polacco: — Wstawac», alzarsi. Il lavoro è il capitolo in cui viene narrata la scansione dei tempi al campo, la giornata dedicata a una fatica senza fine. Come era accaduto per Le nostre notti, anche in questo caso siamo dinanzi a una giornata esemplare, tramata di episodi in cui compaiono, come protagonisti o comparse, alcuni dei | compagni di Levi già rammentati altrove. Resnyk è un esempio di compagno di sventura mite, che non si comporta con la ferocia disumana caratteristica del Lager. Una buona giornata, al contrario, fa da contrappunto al capitolo precedente, e mentre in I! lavoro le occupazioni quotidiane erano narrate nella loro normale routine, in questo capitolo si affronta il tema della condizione straordinaria, perché è ricomparso il sole: ! Il brano che riguarda Alberto è stato aggiunto nell’edizione del 1958.

20 Cfr. Le nostre notti, in Se questo è un uomo, p. 74.

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Oggi è una buona giornata. Ci guardiamo intorno, come ciechi che riacquistino la vista, e ci guardiamo l’un l’altro. Non ci eravamo mai visti al sole: qualcuno sorride. Se non fosse della fame! Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori simultaneamente sofferti non si sommano per intero, ma si nascondono, i minori dietro i maggiori, secondo una legge prospettica definita. Questo è provvidenziale, e ci permette di vivere in campo."

Emblematico di questa diversità provvidenziale è Templer, un prigioniero che si rivela in grado di procurarsi una pentola con cinquanta litri di zuppa. Ne toccheranno tre a testa ai prigionieri del Kommando. Da qui la domanda, fra l’ironico e il tragico: «Che si potrebbe desiderare di più?». Il lavoro diventa leggero e la giornata di sole è davvero diversa, tanto da fare quasi dimenticare la triste realtà. Con un titolo specularmente esemplato sul libro di Nietzsche, A/ di qua del bene e del male è il capitolo in cui Levi parla delle attività vietate e illegali: vestiario, cibo, sesso (riservato solo ai prigionieri politici e ai criminali, però), furto e capacità di «organizzare» qualsiasi aspetto, concreto o astratto, della vita del campo.? È quasi naturale paragonare questo capitolo con quello che il Manzoni dedica alle gride. Come nei Promessi sposi certe notizie si rivelavano funzionali alla comprensione della storia, così in Levi l’analisi tecnica delle condizioni economico-sociali del campo lo diventa in funzione della comprensione degli eventi e dei comportamenti umani esaminati in condizioni estreme. I sommersi e i salvati si presenta come il capitolo più teorico dell’opera di Levi. Il Lager è visto come «una gigantesca esperienza biologica e sociale».* Lo scrittore non si limita a una mera esposizione; analizza, estrapola leggi generali e commenta, tornando a toccare la dicotomia categoriale del mondo, quella determinante e, forse, casualmente predeterminata: ° Cfr. Una buona giornata, in Se questo è un uomo, p. 91. © Il verbo «organizzare» (gergale) indica estensivamente qualsiasi attività che possa portare un beneficio al prigioniero. © Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 147.

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Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizioni, origine, lingua, cultura e

costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a

tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.” La formulazione della parte iniziale del paragrafo appare, a chi abbia una minima esperienza scientifico-matematica, simile a quella della dimostrazione di un teorema di Euclide, con i

congiuntivi esortativi che in italiano (e nella vecchia scuola classica) traducevano gli imperativi greci dei teoremi tradotti dagli Elementi. Levi vuole dimostrare, cioè rendere vero attraverso un percorso logico-deduttivo, un suo personale e tormentoso punto di vista, una certezza da desumere attraverso una verifica: la salvezza degli uomini non dipende da loro volontà, ma da fattori fortuiti, siano concreti (la forza fisica) o

astratti (una loro qualità, una capacità di essere o di sapersi adattare), in perfetta congruenza con l’ipotesi darwiniana. Le categorie umane, secondo Levi, sono «i sommersi e i

salvati». In questo lo scrittore è testimone del dualismo occidentale ossessionato dalla contrapposizione astratta e ineluttabile di bene e di male, per la quale non esistono «gradazioni intermedie più numerose e complesse». I sommersi appartengono alla categoria dei Muselmànner, «nerbo del campo», «massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta la loro scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente». «Si esita a chiamarli vivi: si esita» scrive Levi «a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla.» Al contrario i «prominenti» appartengono alla categoria dei salvati. Ed ecco come essi si creano: [...] si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una

posizione privilegiata, un certo agio e una buona pro“ Cfr. I sommersi e i salvati, in Se questo è un uomo, p.109.

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babilità di sopravvivere, esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente ci sarà chi accetterà.” Nelle loro storie individuali, personaggi come Schepschel, Alfred L., Elias Lindzin e Henri divengono caratterizzazioni

esemplari di salvati. Con esse e in esse Levi rintraccia e razionalizza il ragionamento che lo porta al quod demonstrandum erat, alla dimostrazione, cioè, dell’enunciato del

teorema, che, come tale, sarà in seguito verificabile anche nella vita di ogni giorno, pur se — come lui stesso chiarisce — l’individuazione dei sommersi e dei salvati «è molto meno evidente nella vita comune». Ai motivi che stanno alla base della salvezza di Levi deportato, ci riconduce Esame di chimica, il capitolo in cui lo scrittore narra come è stato assegnato al Kommando

chi-.

mico. Le figure più eminenti del capitolo sono Alex il Kapo, abietto e cieco criminale, e il dottor Pannwitz, il responsabile dell’attività del settore che esamina Levi, e che è descritto

come la Sfinge dinanzi alla quale viene a trovarsi Edipo al momento dell’enigma: «alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli, e siede formidabilmente dietro una complicata scrivania». Il canto di Ulisse rappresenta una acmè a sé stante. La narrazione è imperniata su un episodio vissuto con il Pikolo del Kommando chimico, un francese cui Levi tenta di spiegare il contenuto e il senso del canto XXVI dell'Inferno di Dante. In un susseguirsi di onde liriche alternate a considerazioni raggelate dalla coscienza della realtà, quasi in una specie di dignitoso pianto a tratti interrotto 0 sospeso, Levi recupera le nozioni letterarie che ha ricevuto ai tempi del liceo. Ormai ha compreso il significato di quel «considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti» che è sotteso alla narrazione. È un implicito richiamarsi al titolo stesso del libro; un sottolineare, ancora una volta, 1’as-

surdità inaccettabile e abnorme della protasi tronca (Se questo è un uomo) che marchia la storia del deportato. Alla fine del capitolo il mare che si richiude sopra Ulisse scompare © Cfr. I sommersi e i salvati, in Se questo è un uomo, p. 114.

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tragicamente inghiottito da una realtà dissacrante e dissacrata: «— Choux et navets. — Kaposzta és répak», cavoli e rape — come un ripiombare negli inferi della realtà del tutto congrua con il forte realismo dantesco dell’Inferno. I fatti dell’estate imprime alla narrazione un ritmo diverso, segnato come dal presagio della prossima dissoluzione dell’organizzazione nazista del campo. A questo punto compare anche la figura di Lorenzo Perrone, il muratore che sarà determinante per la salvezza di Levi e che morirà suicida dopo il ritorno in Italia. I fatti narrati in Ottobre 1944 sono legati alle selezioni dei deportati avviati alle camere a gas; mentre in Kraus, unico capitolo intitolato al nome di una persona, si assiste alla storia di un deportato ungherese che capisce solo la propria lingua, al quale Levi narra — con compiaciuta perfidia — un sogno inventato di cui Kraus sarebbe il protagonista. Dedicato al Kommando chimico e all’ingresso di Levi nel laboratorio è Die drei Leute vom Labor, in cui si accenna

anche al nascere dell’idea del libro. Dai contorni piuttosto oscuri e cupi è L’ultimo, il capitolo riservato all’ultima esecuzione capitale al campo e ai furti compiuti da Alberto e dallo scrittore, quasi come particolare picaresco destinato a sdrammatizzare un contenuto altamente drammatico.’ Di fronte all’impiccagione dell’ultimo condannato nessuno si muove, esempio di sottomissione che ancora offende e suscita sensi di profonda vergogna. In Storia di dieci giorni, infine, assistiamo al precipitare

degli eventi che si susseguono fino alla liberazione. Alberto compare per l’ultima volta, Levi si ammala di scarlattina ed è ricoverato in infermeria. All’alba del 27 gennaio lo scrittore, mentre con un compagno sta portando il corpo di un morto poco lontano dal Ka-Be, assiste all’arrivo dei russi. E

l’ultima scena del libro. Da essa riprenderà La tregua. Scritto a più riprese fra il 1945 e il 1947, nelle intenzioni

di Levi il libro doveva intitolarsi / sommersi e i salvati. Il titolo dell’edizione quarantasettina fu deciso da Franco Antonicelli prendendo spunto dal componimento in versi che l’autore pone in epigrafe all'opera. La proprietà letteraria, % I particolari furono inseriti nell’edizione del 1958.

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dopo la chiusura della editrice De Silva, passò alla Nuova

Italia di Firenze.” Matrice di tutta la produzione letteraria leviana, Se questo è un uomo nasce con il dichiarato intento di dare testimonianza. Ciò tuttavia non basta a giustificare i risultati che Levi riesce a toccare nella narrazione. La sua cultura umanistica, che appare così bene assimilata (o dimenticata?) tanto da scomparire sotto una lucidità ragionativa all'apparenza più propria della cultura scientifica, sorregge il libro alla base, ed è tanto più salda laddove, mentre ci aspetteremmo

condanne e anatemi, il rapporto con la materia diventa pacato, distaccato, obiettivo, filtrato da precetti morali che non

possiamo non definire — pur con rischio di contraddizione — stoico-epicurei. Fiora Vincenti ritiene che gli interessi di natura scientifica di Levi «non costituiscano di per sé una giustificazione sufficiente e che la vera ragione per cui egli ha saputo darci di quella realtà una rappresentazione capace di coglierne i più segreti meccanismi, vada invece ravvisata, ancora una volta,

nella statura morale dello scrittore, nel suo impegno di carattere etico [...]».?® Siamo convinti che questa eticità vada ricercata nelle letture di Levi, e in specie — per questo libro — nelle scelte liceali e immediatamente post-liceali, poiché l’autore non ha avuto il tempo materiale di approfondirsi in altre direzioni: se un incremento conoscitivo c’è stato, esso è senz'altro venuto in tempi successivi, dopo il ritorno da Auschwitz.?° AI di là dei temi che vengono posti in luce di volta in volta, il vero protagonista di Se questo è un uomo sembra essere un concetto astratto che, come in Manzoni si identifi-

” Per dettagliate notizie sulla genesi e sulla storia del libro, si veda M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., pp. 148-154. ®* Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 85. ° Le prime letture di Levi si riferiscono a scrittori come Jules Verne e Jack London, consigliatigli dal padre, che al contempo cercava di tenerlo lontano da Salgari e altri minori. Da Verne Levi acquisisce un certo gusto per il fantascientifico, da London quello per la denuncia della violenza e dell’ingiustizia. Anche l’opera dell’astronomo francese Camille Flammarion fu al centro degli interessi dello scrittore. Negli

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cava nella provvidenza, in Levi può essere còlto nella «legge iniqua», la forza che provvede alle selezioni dei sommersi e dei salvati, irrazionale, cieca, imperscrutabile. Essa domina

ogni pagina, ogni capitolo di Se questo è un uomo, ed è sottesa a ogni atto, a ogni parola, sia del narratore che delle figure e dei personaggi che gli ruotano intorno. Astratta e inafferrabile — ma estremamente efficace, irriducibile, spietata —, la «legge iniqua» agisce lungo percorsi e per schemi non appurabili e cela gelosamente la sua “ragione prima”. Da qui nasce in Levi l’esigenza di un atto di fede. La spiegazione razionale del perché del dolore nel mondo rimane senza risposta: esso è, e basta. Così la coscienza del dolore diventerà misura stessa dell’esistenza, contagiando l’anima dello scrittore con l’ossessione del suicidio.” Abbiamo accennato alla predilezione di Levi per una visione del mondo in chiave dicotomica. Da questo punto di vista il concetto della «legge iniqua» è fondamentale. Levi dividendo l’umanità in due categorie, non sembra concedere agli uomini l’esercizio di un libero arbitrio, di una scelta —

fatto che li ricondurrebbe a una loro diretta responsabilità e all’immediata condanna o assoluzione. Ora, fra i sommersi e i salvati si apre una «zona grigia» in cui ciascuno può trovare la via verso l’una o l’altra direzione: non però per scelta quanto per istintive istruzioni inscritte nel codice genetico, spesso inconsce e pertanto suscettibili di attenuare responsabilità e colpa. È per questo che lo scrittore non leva mai la sua voce in maniera irata contro i carnefici. È bensì vero che i segni della condanna vi sono tutti: ma essa è ragionata, pacata, anni del liceo Levi scoprì autori quali Flaubert, Hugo, Maupassant, i classici russi, Conrad (La follia di Almayer, Il negro del «Narcissus», Lord Jim), Kafka (Le metamorfosi)

e Thomas Mann (La montagna incantata).

Della letteratura nordamericana conosce Melville (Moby Dick) e Dos Passos (42° parallelo). Legge anche Gli indifferenti di Moravia (cfr. F VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., pp. 36-38). Tra le letture

liceali spiccano i nomi di Dante, Leopardi e Manzoni. Per l’importanza che questi autori hanno assunto in Levi, si veda M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., sotto le relative voci in Dizionario, pp. 19-sgg. % Inquietante, a questo proposito, è il racconto Verso occidente, in Vizio di forma, p. 37.

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dominata dall’intelligenza dell’uomo consapevole che il bene e il male non sono mai nettamente separabili con un taglio di lama. Posto questo, potrebbe Levi portare odio e rancore nei confronti dei padroni della morte? Gli uomini — se tali sono — non tenderanno a ripetere orrori ed errori quando se ne presenti l'occasione? Non sarà così, in seguito, anche a Sabra e Chatila? La tregua

Formato anch'esso da diciassette brevi capitoli, il secondo libro di Levi si presenta come oggetto simmetrico rispetto al primo ed è parimenti preceduto da una poesia, datata 11 gennaio 1946, connessa con l’argomento di Le nostre notti in Se questo è un uomo. La poesia sarà pubblicata in L’osteria di Brema e in Ad ora incerta. Il disgelo dà avvio alla narrazione che «si svolge come una parentesi di libertà e vagabondaggio, un viaggio periglioso e complicato di ritorno». Di un’odissea si tratta, quindi, come di una iliadica “guerra di

Troia” si era trattato in Se questo è un uomo, anche se il libro, più propriamente, è stato accostato all'Inferno di Dante. Il mattino del 27 gennaio 1945 Levi e i compagni vedono giungere i primi soldati dell’ Armata rossa e il libro prende avvio dall’ultima immagine di Se questo è un uomo. Sia nel primo che nel secondo capitolo (Il Campo Grande) ci troviamo dinanzi a una serie di personaggi e figure che colpiscono e che vengono presentati con sobria incisività, ma con maggiore ricchezza di particolari rispetto a quanto avveniva in Se questo è un uomo: ciò perché ormai è mutata l’atmosfera in cui gli eventi si svolgono. La libertà è un dato di fatto e anche l’animo dello scrittore si distende e più si concede al piacere della descrizione. C’è una sorta di fluido nuovo nelle vene dei personaggi che si alternano rapi‘I capitoli del libro sono: / disgelo, Il Campo Grande, Il greco, Katowice, Cesare, Victory Day, I sognatori, Verso sud, Verso nord, Una curizetta, Vecchie strade, Il bosco e la via, Vacanza, Teatro, Da Staryje Doroghi a lasi, Da Iasi alla Linea, Il risveglio.

*° Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 181.

LA TREGUA damente, sto. Così massime quelle di

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anche se il loro aspetto resta emaciato, patito, guapossiamo seguire una galleria umana le cui punte sono rappresentate da storie straordinarie come Henek e di Hurbinek, il bambino nato nel campo:

Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sape-

va niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato

con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in | giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la

tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena."

Sarà Henek, il vicino di letto di Levi, un ragazzo ungherese di quindici anni, a prendersi cura del bimbo: Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek

avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità. Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne ema-

nava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli 8 Cfr. Il Campo Grande, in La tregua, p. 22.

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LE OPERE parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e

paziente.* Hurbinek morirà nei primi giorni del marzo 1945, «libero» scrive Levi «ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole». Ma la galleria prosegue con Peter Pavel, Kleine Kiepura, con Noah e con le infermiere Hanka e Jadzia. Kleine Kiepura è stato l’attendente e il protetto del Lager-Kapo. Personaggio ambiguo, abbandonato dal suo protettore, sarà soggetto al triste destino di morire solo, odiato e in una sorta di follia che lo porta a continuare a impartire ordini e imperiosi comandi in tedesco ad uno stuolo di schiavi inesistenti. La sua morte è un «sollievo per tutti», sottolinea Levi. Hanka è una ex Kapo, con lineamenti duri e volgari, dedita solo alla cura di se stessa dinanzi

allo specchio; Jadzia, piccola e timida, è rosa «dalla necessità impellente di un uomo». Ha come primo obiettivo Henek, ma egli non la vuole; Noah, al contrario di Jadzia,

vuole tutte le donne, poiché essa è «l’amico di tutti gli uomini e l'amante di tutte le donne». Infine ecco Frau Vita, giovane vedova di Trieste, reduce da Birkenau,

dove era stata

comandata al trasporto dei cadaveri, sempre disposta ad assistere gli ammalati; e Olga, partigiana ebrea croata, con un volto da maschera tragica, che procurava pastiglie di sonnifero ai selezionati per le camere a gas. Il greco rappresenta come un racconto nel racconto, un’unità narrativa compatta e conclusa, forse — e non a torto — la più nota del libro. In questo capitolo compare la figura di Mordo Nahum, straordinario maestro nell’arte di arrangiarsi e precettore di Levi, ingenuo sopravvissuto che impara rapidamente l’arte della sopravvivenza nella nuova condizione della libertà: Non posso dire di ricordare esattamente come e quando il mio greco scaturì dal nulla. In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio, e “ Cfr. Il Campo Grande, in La tregua, p. 23.

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brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi;$ Mordo Nahum è, dunque, uno di questi esemplari umani scaleni, difettivi

e abnormi: ma il più solare e mediterraneo

e, al tempo stesso, il più anomalo e levantino, turcoide e sfuggente. Sembra avere elaborato, con la virtù istintiva caratteristica dei filosofi ionici e presocratici, una sua filoso-

fia fisico-etica elementare, ma del tutto funzionale ai tempi e ai luoghi. Lo si vede bene nel momento in cui Levi entra nel campo di attrazione del greco e gli diventa amico, mentre Mordo gli impone di prendere il suo fardello — un intero negozio ambulante — sulle spalle: Dietro sua perentoria richiesta, io mi ero caricato il

famoso fardello. — Ma è roba tua! — avevo cercato invano di protestare. — Appunto perché è mia. Io la ho organizzata e tu la porti. È la divisione del lavoro. Più tardi ne profitterai anche tu —. Così ci incamminammo, lui primo ed io secondo, sulla neve compatta di una strada di periferia; il sole era tramontato.*

Un Dante-Levi che segue docilmente il suo maestro Virgilio dal quale molto dovrà imparare? Forse. In una atmosfera non più da inferno-Lager, ma da libertà-Purgatorio. Subito dopo l’episodio della divisione del lavoro, c’è il

primo importante insegnamento per lo scrittore che, incautamente, è in viaggio senza un buon paio di scarpe: — Quanti anni hai?

— Venticinque, — risposi. — Qual è il tuo mestiere? * Cfr. Il greco, in La tregua, p. 36. % Cfr. Il greco, in La tregua, p. 44. Si noti che «lui primo ed io secondo» è ripresa dantesca da /nf. IV, 15; XII, 114 e XXXIV,

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— Sono chimico. — Allora sei uno sciocco, — mi disse tranquillamente.

Chi non ha scarpe è uno sciocco. Era un grande greco. Poche volte nella mia vita, prima e dopo, mi sono sentito incombere sul capo una saggezza così concreta. [...] Meritavo dunque la libertà? il greco sembrava dubitarne.?”

Così, in una Cracovia che sembra tornata alle origini — in cui non esistono né regole né punti fermi, ma solo un brulicare di uomini e di eventi che si moltiplicano spontaneisticamente e senza una logica —, Levi apprende la filosofia pratica di Mordo Nahum, un unico precetto assoluto per cui «Guerra è sempre», non esiste pace, non esiste tregua, poiché — come lo scrittore osserva — «l’uomo è lupo all’uomo»: È noto che nessuno nasce con un decalogo in corpo, e ciascuno si costruisce invece il proprio per strada o a cose fatte, sulla scorta delle esperienze proprie, o altrui assimilabili alle proprie; per cui l’universo morale di ognuno, opportunamente interpretato, viene a identificarsi con la somma delle sue esperienze precedenti, e rappresenta quindi una forma compendiaria della sua biografia. La biografia del mio greco era lineare: quella di un uomo forte e freddo, solitario e loico, che si era mosso fin dall’infanzia per entro le maglie rigide di una società mercantile. Era (o era stato) accessibile anche ad altre istanze: non era indifferente al cielo e al mare del suo paese, ai piaceri della casa e della famiglia, agli incontri dialettici; ma era stato condizionato a ricacciare tutto questo ai margini della sua giornata e della sua vita, affinché non turbasse quello che lui chiamava il «travail d’'homme». La sua vita era stata di guerra, e considerava vile e cieco chi rifiutasse questo suo universo di ferro.*

Con occhi «di savio serpente», Mordo ricomparirà più ‘ Cfr. Il greco, in La tregua, p. 45. * Cfr. Il greco, in La tregua, pp. 57-58.

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tardi nel libro, promotore di un commercio di prostitute. Il capitolo, che aveva registrato la presenza di un elemento inanimato, il treno, momento di una nuova scansione dei ritmi della narrazione, proseguirà con la descrizione del campo di Katowice, dove Levi potrà ancora approfondire le sue curiosità di natura etologica. Il campo russo destinato agli ex prigionieri riproporrà un modello di convivenza forzata, più attenuato, però, rispetto al Lager. Lo scrittore incontrerà qui il «colonnello Rovi»: L’assistere al comportamento dell’uomo che agisce non secondo ragione, ma secondo i propri impulsi profondi, è uno spettacolo di estremo interesse, simile a quello di cui gode il naturalista che studia le attività di un animale dagli istinti complessi. Rovi aveva conquistato la sua carica agendo con la stessa atavica spontaneità con cui il ragno costruisce la sua tela; poiché come il ragno senza tela, così Rovi senza carica non sapeva vivere. Aveva subito incominciato a tessere: era fondamentalmente

sciocco, e non sapeva una

parola di tedesco né di russo, ma fin dal primo giorno si era assicurati i servizi di un interprete, e si era presentato cerimoniosamente al comando sovietico in qualità di plenipotenziario per gli interessi italiani. Aveva organizzato una scrivania, con moduli (scritti a mano, in bella scrittura con svolazzi), timbri, matite di vari colori e libro mastro; pur non essendo colonnello, anzi, neppure militare, aveva appeso fuori della porta

un vistoso cartello «Comando italiano — Colonnello Rovi» [...].® Circondato da una «piccola corte di sguatteri, scritturali, sagrestani, spie, messaggeri e bravacci», Rovi esiste perché ha saputo darsi una struttura; ha un potere perché glielo ha conferito la sua istintiva capacità di ragno di tessere una tela. Marja Fjodorovna e Galina presentano due figure femminili ben diverse. La prima è anche affettuosa («mi faceva piccoli

regali amichevoli»); l’altra, un’ucraina diciottenne allegra e Cfr. Katowice, in La tregua, pp. 67-68.

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graziosa, intimidisce lo scrittore, che si sente «debole, malato e sporco» dinanzi a lei, «dolorosamente conscio» del suo aspetto

miserevole, della barba mal rasata, dei suoi abiti di Auschwitz: «ero acutamente conscio dello sguardo di Galina, ancora quasi infantile, in cui una pietà incerta si accompagnava con una

definita repulsione», scrive Levi. Alla fine, tuttavia, fra i due si

stabilirà «una atmosfera di tenue confidenza reciproca». In Cesare l’attenzione dello scrittore si focalizza su uno dei personaggi più vivi del libro.‘° Come il greco Mordo Nahum può essere interpretato quale mito archetipico in chiave preomerica, la figura di Cesare — italiano trafficone, approssimativo e vitalisticamente inconcludente — può rappresentare la riduzione macchiettistica del greco in chiave comica, parodia postomerica dell’eroe, risultato di una operazione da Batrocomiomachia.

Cesare, infatti, con il suo

carattere italico (romano, millantatore, borgataro), somiglia assai a una maschera dell’atellana, pronto com’è all’inganno, ma di piccolo cabotaggio, come quando decide di ammalarsi masticando un sigaro e tenendo le foglie macere di un altro sotto le ascelle per farsi crescere la febbre. Con Cesare assistiamo a gustose scene di contrattazione mercantile in città. Notevole la vendita di una camicia — una «cosciuletta» — a un «panzone» in un episodio che ricorda il mercatino di Porta Portese, e che si conclude con una frase

illuminante e una fuga precipitosa per togliersi dalla vista dei truffati prima che si accorgano dei guasti nel tessuto: «A compà: famo resciutte, sennò questi svagano er bùcio». In Victory Day Cesare scompare e torna solo all’alba del quarto giorno successivo «malconcio e ispido come un gatto reduce da una tregenda sui tetti». Scopriremo che si è fatto

una ragazza: Rauco e torvo, come se per tre notti avesse danzato con le streghe, mi disse: — Ci siamo. Mi sono messo a posto. Mi sono fatto una pagninca." “© In Se questo è un uomo Cesare era comparso nel capitolo intitolato Ka-Be con il nome

di Piero Sonnino, il romano

che simula di essere

ammalato di dissenteria per poter passare l’inverno nell’infermeria. " Cfr. Victory Day, in La tregua, p. 99.

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L’8 maggio la guerra finisce. Da quel giorno [...] le nostre case non erano più proibite, nessun fronte di guerra più ce ne separava, nessun ostacolo concreto, solo carte e uffici; sentivamo che il

rimpatrio ci era ormai dovuto, e ogni ora passata in esilio ci pesava come piombo; anche di più ci pesava l'assoluta mancanza di notizie dall’Italia.* Seguono otto giorni di parossistici festeggiamenti, con rappresentazioni teatrali e una partita di calcio fra la squadra di Katowice e una rappresentativa degli italiani. Con questa gara improbabile, per certi aspetti irritante e per altri esilarante, il capitolo si chiude sotto una pioggia che inzuppa Levi dalla testa ai piedi, e lo scrittore si ammala di pleurite («Il terzo giorno non potevo più fare alcun movimento; il quarto, giacevo sulla branda supino, immobile, col respiro brevissimo e frequente come quello dei cani accaldati»).* I sognatori apre una nuova galleria di straordinari tipi umani, di cui vengono narrate le storie. Mentre Cesare e un altro amico di Levi, Leonardo, vanno in cerca di medicinali

per curare la pleurite dell’ammalato, ecco spuntare il Moro, Ambrogio Trovati detto Tramonto,

Cravero il torinese, il

signor Unverdorben e D’ Agata. Il Moro, «scheletrico eppure poderoso», è ribollente in una [...] collera gigantesca ma indeterminata: una collera insensata contro tutti e tutto, contro i russi e i tedeschi,

contro l’Italia e gli italiani, contro Dio e gli uomini, contro se stesso e contro noi, contro il giorno quando era giorno e contro la notte quando era notte, contro il

suo destino e tutti i destini, contro il suo mestiere che pure aveva nel sangue. ad Che fosse cinto da una disperata demenza senile, non v’era dubbio: ma c’era grandezza in questa sua demen* Cfr. Victory Day, in La tregua, p. 104. 4 Cfr. Victory Day, in La tregua, p. 105.

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za, e anche forza, e una barbarica dignità, la dignità calpestata delle belve in gabbia, la stessa che redime Capaneo e Calibano.* Ambrogio Trovati «aveva trascorso adolescenza e giovinezza fra la prigione e il palcoscenico». Truffato, aveva accoltellato per strada uno dei suoi «seduttori». Era stato accusato di omicidio «polposo» — come diceva lui stesso — perché la lama del suo coltello si era conficcata nella polpa della vittima, fra il cuore e l’ascella. «Furfante compiuto» è invece il torinese Cravero, «in cui sembrano prendere corpo e figura umana le astratte ipotesi criminose del codice penale». Attraverso Cravero, Levi riuscirà a far giungere notizie di sé alla famiglia; notizie sul suo stato di salute, strumentalmente falsate, perché il furfante cercherà di truffare la madre di Levi e di approfittare della sorella: Se mia madre gli avesse consegnato duecentomila lire, in due o tre settimane mi avrebbe riportato a casa a salvamento. Anzi, se la signorina (mia sorella, che assi-

steva al colloquio) avesse voluto accompagnarlo... Il Signor Unverdorben, «anziano e ombroso ometto di Trieste», inspiegabilmente sopravvissuto al campo di Birkenau, musicista incompreso, è compositore di un’opera lirica intitolata La regina di Navarra, ma i suoi nemici hanno scrutato tanto scrupolosamente le sue carte che infine hanno «scoperto come quattro battute consecutive dello spartito si ritrovassero identiche nei Pagliacci». D’Agata è l’unico del gruppo dei sognatori che non ha tempo di sognare perché è ossessionato dal terrore delle cimici. Siciliano, muratore, passa le notti seduto sul letto a caccia dei fastidiosi insetti. All’inizio deriso, riceve infine l'apprezzamento dello scrittore e dei compagni perché “ Cfr. / sognatori, in La tregua, pp. 114-115. Solo Cesare avvicinava il Moro «con la famigliarità impertinente degli uccelli che razzolano sulla groppa rocciosa dei rinoceronti». Cfr. I sognatori, in La tregua, p. 120. In un mese Cravero riuscirà a giungere in Italia.

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[...] D’Agata era il solo il cui nemico fosse concreto, presente, tangibile, suscettibile di essere combattuto, percosso, schiacciato contro il muro.#

| Verso sud e Verso nord sono due capitoli di viaggio. Levi, che ormai si sta ristabilendo dalla pleurite, esplora i dintorni di Katowice e respira «l’oceano d’aria che convogliava il polline degli abeti, onda su onda, dai Carpazi fino alle vie nere della città mineraria». Poi il capitano Egorov — comandante del campo — sorprende tutti con un discorso di cui si colgono perfettamente due parole come «messaggi celestiali»: «ripatriatsija» e «Odjessa». In realtà si tratta di un nuovo inganno, perché Levi e i compagni, partiti da Katowice, saranno costretti a tornare a nord, essendo per loro impossibile raggiungere Odessa e imbarcarsi alla volta dell’Italia. Nel primo dei due capitoli lo scrittore narra la storia della vecchia bottegaia grinzosa «dall’aria bisbetica e diffidente» che scrive «Al Signor Adolf Hitler, Cancelliere del Reich,

Berlino»; l’incontro di Cesare e Levi con due ragazze — Sore e sua sorella — che rifiutano di credere che i due ex prigionieri siano di razza ebraica perché non parlano l’yiddish; l’episodio in cui il dottor Gottlieb gli consegna «mezzo litro di vodka selvaggia» che, bevuta fino all’ultima goccia, sarà la cura risolutiva per la pleurite. Dopo l’incontro con altri italiani provenienti dalla Romania, il capitolo si chiude quando è ormai certo che il treno non potrà raggiungere Odessa. Subito dopo da Zmerinka il viaggio riprende verso nord, con l’oppressione di una «greve angoscia che era nata dalla delusione e dalla incertezza» riguardo al futuro. Anche gli italiani provenienti dalla Romania seguono la stessa sorte dello scrittore e dei suoi compagni di viaggio. È proprio in Verso nord, dopo che il treno ha attraversato la Beresina, a Sluzk, che compare per l’ultima volta, in chiusura di capitolo, la stupefacente figura di Mordo Nahum. 4‘ Cfr. I sognatori, in La Tregua, p. 123. 4 I Carpazi sono un’ossessione quasi sfuggente nella memoria inconscia di Levi. Essi compaiono anche in Se questo è un uomo, sempre circondati da un’aura di maligna potenza.

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Il greco compie l’ultimo miracolo chiedendo a Levi se ha bisogno di una donna: Lo guardai interdetto: temevo di non aver capito bene. Ma il greco, in ampio gesto, percorse con la mano tre quarti di orizzonte: e allora mi avvidi che in mezzo all’erba alta, sdraiate al sole, vicine e lontane, giacevano sparse una ventina di vaste fanciulle sonnacchiose. Frano creature bionde e rosee, dalle schiene poderose,

dall’ossatura massiccia e dal placido viso bovino, vestite in varie fogge rudimentali e incongrue.*

La descrizione assume i toni caratteristici della narrazione epica di figure mitiche di sirene. Il capitolo si chiude con un nostalgico «dopo di allora... non ho più rivisto il mio maestro greco, né ho più sentito parlare di lui». Virgilio, dunque, è scomparso per sempre. Una curizetta è il capitolo in cui si narra il periodo che precede l’arrivo a Staryje Doroghi (Vecchie strade), dove gli ex prigionieri vivranno nella Casa Rossa. Dopo la partenza dal campo di Sluzk, lungo una interminabile marcia in linea retta durante la quale sembra «di trovarsi sempre allo stesso posto», Cesare se ne esce con una battuta: «Per stasera io mi voglio fare una gallinella arrostita». Con un avventuroso viaggio verso l’ignoto, lo scrittore e Cesare giungono a un villaggio sperduto, dove, per prima cosa, ricevono una fucilata come saluto, ma poi iniziano una vivace contrattazione per l’acquisto di una gallina, che infine verrà ceduta in cambio dei piatti di ceramica di cui dispongono gli ex prigionieri. L'effetto comico-umoristico giunge ai massimi livelli quando Cesare si esibisce in ogni sorta di tentativo e di mimica («Cesare si sforzò perfino di fare l’uovo») per farsi capire dai russi. Sarà tuttavia lo scrittore a superare l’impiccio disegnando per terra una gallina «completa di tutti i suoi attributi, compreso un uovo a tergo per eccesso di specificazione». Così, in cambio dei piatti, Cesare e Levi hanno una «kùritsa», pasto serale per loro e per i compagni.

‘* Cfr. Verso nord, in La tregua, p. 148.

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In Vecchie strade — il capitolo che prende il nome dal paese in cui gli italiani si raccolgono (in russo: Staryje Doroghi) — Cesare tornerà a campeggiare per le sue attività di piccolo truffatore. A Vecchie Strade gli ex prigionieri giungono su una «tjeljega», il carretto del vecchio che, la sera precedente, li ha accolti al villaggio con una fucilata. Staryje Doroghi si rivela una sorpresa. All’acquartieramento nella Casa Rossa (Krasnyj Dom), dove gli italiani ricevono un chilo di pane al giorno e alcune volte alla settimana anche del «ryba» (pesce), segue il racconto dell’espediente escogitato da Cesare per incrementare i commerci. Il romano rimpolpa il pesce che gli viene dato iniettandogli acqua nella vescica natatoria. Così il «ryba» sarà più bello, più pesante, e acquisterà valore negli scambi con altri generi e oggetti. Ma [...-] un giorno ritornò nero in viso; era senza pesce, senza soldi e senza merce: — Mi sono fatto incastrare —. Per due giorni non ci fu modo di rivolgergli la parola, se ne stava raggomitolato sul paglione, ispido come un porcospino, e scendeva solo per i pasti. Gli era successa un’avventura diversa dalle solite.‘

Scopriremo poco dopo che Cesare non è stato derubato del pesce; lo ha regalato a una donna magra vestita di nero e a tre bambini pallidi seduti sulla soglia, che non mangiavano da due giorni. Il bosco e la via è un capitolo percorso da brevi, leggerissimi brividi lirici. Inizia con una riflessione sulla nostalgia; prosegue con la descrizione della foresta che si estende a sud della Casa Rossa. E il bosco in cui lo scrittore si perde nelle sue esplorazioni. Vi abitano Cantarella, un marinaio calabrese che si è messo a fare il fabbro («Possedeva un martello e una specie di rozza incudine, che aveva ricavato da un resi-

duato di guerra e incastrato in un ceppo»), una sorta di Efesto, «di magrezza ascetica, taciturno e misantropo», che vive in solitudine vestito solo di un perizoma; due ausiliarie della Wehrmacht, abbandonate dai tedeschi; il Velletrano, un ebreo trentenne reduce da Auschwitz. Mentre Cesare conti‘ Cfr. Vecchie Strade, in La tregua, pp. 172-173.

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nua i suoi traffici, i giorni di Vecchie Strade scorrono pigramente «in una interminabile indolenza» nella quale gli ex deportati iniziano ad assistere al ritorno dei soldati russi dal fronte «su carretti o a cavallo; altri ancora, in motocicletta, a stormi, ebbri di velocità, con fragore infernale». Il capitolo si chiude con una scena straordinaria, forte e cruenta, nella quale possiamo quasi cogliere fisicamente l’odore acre e dolciastro del sangue. Verso i primi di agosto ai soldati dell’ Armata Rossa seguono mandrie di cavalli razziati in Germania, di tutti i tipi, di ogni genere; e gli ex prigionieri pensano di approfittarne: I cavalli erano tanti e poi tanti: che importanza poteva avere che ne arrivasse a destinazione uno di più o uno di meno? Ma per noi, pressoché digiuni di carne da diciotto mesi, un cavallo di più o uno di meno aveva una enorme importanza. Chi aprì la caccia fu, naturalmente, il Velletrano: venne a svegliarci un mattino, insanguinato da capo a piedi, e teneva ancora in mano l’arma primordiale di cui si era servito, una scheggia di granata legata con cinghie di cuoio in cima a un randello biforcuto.” Il cacciatore ha abbattuto un animale malato. La descrizione di Levi vibra di dolorosissima pietà, ma la conclusione è spietata: «Ma lo mangiammo ugualmente». A questo episodio segue «un periodo di assurda abbondanza», mentre i russi del campo non si danno il minimo pensiero per il saccheggio. Con Vacanza Levi torna al tema della solitudine, dell’ozio forzato. Incontra un soldato russo; rivede Flora, la prostituta,

«l'italiana delle cantine di Buna, la donna del Lager, oggetto dei sogni miei e di Alberto per più di un mese, simbolo inconsapevole della libertà perduta e non più sperata»."! Lo scrittore non si farà riconoscere. La vita continuerà a scorrere ancora pigra, appena variata dalla proiezione di alcuni film. °° Cfr. Il bosco e la via, in La tregua, pp. 186-187. ° Cfr. Vacanza, in La Tregua, p. 196.

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La vena grottesca di Levi riemerge tutta in Teatro, capitolo in cui sono riassunti due spettacoli, un varietà e un più puerile e maccheronico «Naufragio degli abulici», rappresentazione nella quale gli italiani irridono se stessi e l’organizzazione russa. Nei due capitoli che seguono (Da Staryje Doroghi a Iasi e Da Iasi alla linea) la narrazione precipita in una sorta di concitato approssimarsi alla conclusione. Lo scrittore e i suoi compagni attraversano la Romania scendendo lungo la Moldavia fino alla Valacchia per poi risalire verso l'Ungheria, da cui passeranno in Austria e in Germania. Infine giungeranno al Brennero. I due capitoli appaiono sommari e frammentari, tanto che opportuna sembra l’osservazione di Marco Belpoliti che «forse la decisione di contenere il libro entro una misura precisa, come dimostrano i calcoli delle parole nel quaderno manoscritto della Tregua, ha indotto Levi ad accelerare di molto il ritmo del racconto nei tre capitoli finali». Il risveglio conclude il libro con la scena del passaggio del Brennero — che richiama quella descritta in Se questo è un uomo — e con la narrazione del sogno entro il sogno: Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro,

o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’an-

goscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche

so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prose® Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p.184.

LE OPERE

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gue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera,

temuta e attesa: alzarsi, «Wstawa©>».

In La tregua la disposizione dei racconti segue lo stesso ordine di Se questo è un uomo. Ma l'atmosfera è ormai sostanzialmente mutata. Gli orrori del Lager sono lontani nell’anima dello scrittore e, come è stato giustamente notato, l’urgenza narrativa in chiave testimoniale lascia più distesamente spazio al piacere della narrazione. Tuttavia la struttura morale di Levi non concede libertà all’invenzione se non entro limiti contenuti. E come la prima opera era stata una lucida analisi dei comportamenti umani in condizioni esistenziali spinte a limiti parossistici, La tregua si sviluppa in una analisi della vita dopo il Lager, della quale lo scrittore coglie i parametri che infine si trasformano in vicenda interiore. Definita odissea,” La tregua non lo è solo in termini meramente canonici in quanto «libro del ritorno». Essa può inserirsi nel cosiddetto genere dei nostoi proprio perché apre parentesi depistanti e apparentemente incongrue, allo stesso modo con cui il poema omerico dedicato a Odisseo ne narra le variegate vicende lungo il decennio che precede il rientro a Itaca. Parentesi apparentemente incongrue, dicevamo, perché esse, temporalmente posteriori alla “guerra troiana”, continuano a poggiare su quella esperienza che ne costituisce l’insopprimibile premessa e il necessario background: in Levi i fatti di Buna-Monowitz sono una sorta di motore immoto da cui ogni altro evento dipende — anche in futuro. E come nel poema omerico si alternano i momenti più variabili dell’umana esistenza, scene che passano dal tono severo e

nostalgico e scene che toccano aspetti più tipicamente comici nel significato etimologico del termine, così anche in La tregua gli elementi si mischiano e si alternano con pari mutevolezza secondo progressioni sequenziali ma non prestabilite. Se mai a La tregua può essere rimproverato un vizio, esso °° Cfr. Jl risveglio, in La tregua, p. 252. ” Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 100.

STORIE NATURALI

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consiste nell’affannosa brevità degli ultimi capitoli, dall’ingresso in Romania al rientro a Torino. In essi infatti, come

abbiamo detto, la narrazione è troppo franta in microepisodi nei quali nessun aspetto viene approfondito o più distesamente descritto. Accade, anche in La tregua, ciò che avevamo osservato nel racconto diaristico che concludeva Se questo è un uomo. Ma mentre là la scheletricità della conclusione poteva apparire funzionale al recupero della libertà, molto

meno convincente si rivela il procombere degli eventi di La tregua. Infine, se protagonista di Se questo è un uomo era stata la «legge iniqua», il filo conduttore di La tregua è il viaggio, costruito quasi automaticamente sui «personaggi scaleni» del libro. Maschere — tutti — della varietà tipologica umana.

Storie naturali

Dei quindici racconti che fanno parte di Storie naturali, comparso da Einaudi nel 1966 con lo pseudonimo di Damiano Malabaila, solo il primo — / mnemagoghi — risale al 1946 ed è quindi precedente a La tregua. Gli altri hanno visto la luce fra il 1952 e il 1964, in un arco di tempo in cui è ricompreso anche il secondo libro di Levi. Evidentemente oltre l'impegno letterario di natura autobiografica, Levi ha scoperto una sorta di vocazione alla narrativa di più pura invenzione, elemento che d’ora in poi gli sarà familiare in una produzione oscillante fra le personali esperienze e la fuga in avanti verso orizzonti più ampi. I racconti, per la loro brevità disarticolata e libera da qual5 I titoli dei racconti sono: / mnemagoghi, Censura in Bitinia, Il Versificatore (in «Il Mondo», 1961), Angelica Farfalla (1962), «Cladonia rapida», L’ordine a buon mercato (in «Il Giorno»), L'amico

dell’uomo, Alcune applicazioni del Mimete, Versamina, La bella addormentata nel frigo (1952), La misura della bellezza, Quaestio de Centauris (in «Il Mondo», 1961, con titolo diverso), Pieno impiego, Il sesto giorno (iniziato nel 1946-1947, terminato nel 1957), Trattamento di quiescenza. Il titolo della raccolta ricalca, attraverso la mediazione di

Rabelais, quello della Naturalis historia di Plinio il Vecchio, opera scientifico-enciclopedica del I secolo d. C.

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LE OPERE

siasi strutturazione finalizzata a una storia lunga, permettono allo scrittore di sbriciolare l’universo in forme di analisi parziale e minuta, non tali, tuttavia, da operare una reductio

minimale e scialba. Al contrario, ogni singola analisi risulta più accurata e precisa, incisiva e convincente — se non altro

perché fa filtrare da una muta riservatezza scintille delle luci che attraversano lo scrittore. Levi parla di Levi e ce ne illustra la visione del mondo non con un’opera complessa e unitaria, ma quasi sotto i lemmi di una enciclopedia che di volta in volta spiegano i vari aspetti-fenomeni della realtà; lemmi che sono storie e personaggi costretti entro una più parsimoniosa misura spaziale, un segmento-saggio da cui è possibile estrapolare norme generali e ben definite. A questo proposito l’osservazione di Marco Belpoliti secondo cui la «vastità di interessi di Levi (chimica, biologia, etnologia, filosofia, letteratura ecc.) e la pratica dei suoi due mestieri (chimico e scrittore) lo portano a essere per natura un enciclopedista», trova qui riscontro anche sul piano morale, sicché forte è la tentazione di ipotizzare che il moralismo dello scrittore possa essere epigono della poetica di un classico conosciuto negli anni del liceo: quel Plutarco delle Vite parallele e dei Moralia con il suo modo di fare biografia secondo criteri etologici così ben scolpiti nell’introduzione alla vita di Alessandro Magno.”

E a questo punto che in Levi entra in gioco un elemento fondante del suo mondo interiore, l’ironia. Essa — seguendo la via del paradosso — nelle prove migliori della raccolta «scava più nel profondo, senza restare legata, come in taluni racconti accade, alle suggestioni un po’ facili dell’intreccio fantascientifico», e finisce per cogliere una verità, per scoprire «il punto morto del mondo», l’errore che, nel processo dell’esistenza, tende a ripetersi ogniqualvolta si diano le medesime premesse. Si è così raggiunta la regola. Storie naturali, quindi, in senso ironico, perché fuori

dalle regole — almeno apparenti o scontate — della natura. Il °° Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 74. ” Cfr., in questo stesso volume, La vita, n. 1. °* Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 104.

STORIE NATURALI

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percorso dello scrittore è quello classico che, procedendo dal particolare, cerca di attingere l’universale e l’eterno serven-

dosi di un’ironia che era già stata di altri autori a lui cari (Manzoni, ad esempio, con tutto il suo retroterra legato a un Orazio satiro), ma che potrebbe essere, passo passo, ricondotta allo stesso Socrate platonico, così ossessivamente attento alle manifestazioni particolari del reale e, al tempo stesso, così scevro di volontà di giudizio e pronto a stemperare ogni pericolosa asserzione condannante grazie a un amore per l’uomo che, com'è stato giustamente osservato, assume in Levi i toni della pietas. | Questa scelta poetica di base trova piena conferma in ciò che Levi scrive per motivare e giustificare i suoi apologhi: Li ho scritti per lo più di getto, cercando di dare forma narrativa ad una intuizione puntiforme, cercando di raccontare in altri termini (se sono simbolici lo sono inconsapevolmente) una intuizione oggi non rara: la

percezione di una smagliatura nel mondo in cui viviamo, di una falla piccola o grossa, di un «vizio di forma» che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà e del nostro universo morale.” Ed ecco che, in maniera più chiara, Levi si richiama all’idea dell’«anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità». Ma ancor più è da focalizzare l’attenzione sull’«intuizione puntiforme», che indica il punto A da cui si origina — per esprimerci in termini geometrici — il segmento di un’indagine che si conclude in B, la raggiunta verità che tuttavia non permette l’apertura a un “oltre”, a un «più in là».°! Nei racconti dello pseudo-Malabaila, Levi si mantiene

saldo come un’equazione in cui, necessariamente, primo e secondo termine sono del tutto identici nei loro valori numerici o simbolici, ché altrimenti la contraddizione finirebbe 5° Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 102; e E. FERRERO, Primo Levi: un’antologia della critica, cit., p. 122. 5 Cfr. E. MONTALE, / limoni, in Ossi di seppia.

8 Cfr. E. MONTALE, Maestrale, in Ossi di seppia.

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LE OPERE

per distruggere il confronto: B non presenta via di uscita e l’unica possibile, dopo il punto terminale, è il percorso palindromo di ritorno ad A. È così che funzionano la mente e l’anima dello scrittore nell’indagine del “macro” attraverso il microcosmo. Esiste quindi una coerenza profonda, intima a tutta l’opera leviana: l’esperienza del Lager o l’apologo sono comunque «intuizioni puntiformi» e Vesistenza altro non è che un segmento geometrico, una porzione di retta, che può essere percorsa solo verso l’avanti o l’indietro — anche stavolta in due sole direzioni, secondo lo schema binario, o biunivoco e oppositivo caratteristico della coscienza e della cultura occidentale, senza stadi intermedi o altre possibilità.° Il primo racconto, / mnemagoghi («suscitatori di memorie»), che è anche il più antico in quanto risalente al 1946, ci offre un personaggio curioso e straordinario al tempo stesso, poiché ha fatto della propria vita una serie di concentrati delle sensazioni olfattive, racchiusi in provette. Il dottor Montesanto ricorre ad essi per rivivere il passato: [...] ho tratto partito dalla mia esperienza di farmacologo ed ho ricostruito, con esattezza e in forma conservabile, un certo numero di sensazioni che per me significano qualcosa.” È evidente che Montesanto rappresenta Levi ed è facile dedurlo se appena rammentiamo che il tema degli odori (acri, forti, impalpabili, acuti e di altra natura) compare, a intervalli irregolari, nelle prime due opere ed è strettamente legato al Lager. Interessante e ironico è Censura in Bitinia. Per esso il discorso può ampliarsi dalla censura alla stampa anche ad àmbiti più generali di censura delle idee, delle opinioni, 0, forse, anche al tema del conformismo

che comunque

si

manifesta come forma di censura nei confronti di chi non si integra. Un tema di grande attualità negli anni in cui il racconto è stato scritto, ma universale e mai passato di moda, °° Sembra opportuno ribadire che questa caratteristica non è solo della cultura scientifica, ma anche di quella letteraria e filosofica occidentale.

© Cfr. [ mnemagoghi, in Storie naturali, p. 9.

STORIE NATURALI

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anzi: ai nostri giorni ancor più attuale che mai. La Bitinia — lontana regione della Tracia dove Catullo si reca per visitare la tomba del fratello — è terra archetipica, mitizzazione del mondo stesso. Con icastica concisione, Levi individua nella

categoria comune del «pollo domestico» il miglior soggetto cui affidare il compito di censurare gli scritti: cani, scimmie

e cavalli «si comportano [...] in modo troppo passionale; [...] rivelano in queste circostanze un esprit de finesse che ai fini censoriali è senza dubbio dannoso». Ma le galline cui la censura viene affidata «sono capaci di scelte rapide e sicure, si attengono scrupolosamente agli schemi mentali che vengono loro imposti, e, dato il loro carattere freddo e tranquillo e la loro memoria evanescente, non vanno soggette a perturbazioni». Una denuncia, quindi, della cieca obbedienza cui si assoggettano facilmente i polli domestici della burocrazia statale e, più in generale, i conformisti di cui il mondo pullula. Il tema della tecnologia che, se usata impropriamente, può provocare guasti e danni, è affrontato in // Versificatore (in forma drammatica, quasi scena di commedia), L’ordine a buon mercato, Alcune applicazioni del Mimete, Pieno impiego e Trattamento di quiescenza. È il caso di notare che l’allarme sotto specie di ironia è lanciato da uno scrittore che sarà fra i primi a scegliere il computer come strumento di lavoro. Con il Versificatore (la macchina per scrivere versi),

il poeta potrà comporre senza fatica «due carmi conviviali, un: poemetto per il matrimonio della contessina Dimotròpulos, quattordici inserzioni pubblicitarie, e un cantico per la vittoria del Milan, domenica scorsa». Il Versificatore è una meravigliosa macchina automatica che produce grazie a semplici istruzioni connesse a quaranta “ Cfr. Censura in Bitinia, in Storie naturali, p. 17. Cfr. Lo scriba, in L’altrui mestiere, pp. 230-233.

6 Cfr. Il Versificatore, in Storie naturali, p. 21. Pare interessante notare che le letture liceali di Levi si fanno sentire nelle scelte delle opere da comporre. Si noti che i “carmi conviviali” si riconnettono ai carmina convivalia latini,

e che il “cantico” per la vittoria del Milan

(non un “canto”) richiama quello che Manzoni innalza all’urna di Napoleone nel 5 Maggio. Oltretutto il poeta parla anche di “inni sacri”, di inequivoca manzoniana memoria.

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LE OPERE

registri: epico, elegiaco, satirico, mitologico, giocoso, didascalico, persino PORN (pornografico: e la segretaria del poeta sobbalza). Il segreto sta nell’impostare le istruzioni: «[...]

basta impostare qui l’“istruzione’”’: sono quattro righe. La prima per l’argomento, la seconda per i registri, la terza per la forma metrica, la quarta (che è facoltativa) per la determi-

nazione temporale. Il resto fa tutto lui: è meraviglioso!» Graffiante l’epilogo, in cui il poeta-protagonista ci illustra l’utilità dello strumento: Posseggo il Versificatore ormai da due anni. Non posso dire di averlo già ammortizzato, ma mi è divenuto indispensabile. Si è dimostrato molto versatile: oltre ad alleggerirmi di buona parte del mio lavoro di poeta, mi tiene la contabilità e le paghe, mi avvisa delle scadenze, e mi fa anche la corrispondenza: infatti, gli ho insegnato a comporre in prosa, e se la cava benissimo. Il testo che avete ascoltato, ad esempio, è opera sua.

In L’ordine a buon mercato il posto del Versificatore è occupato dal duplicatore, che fa copie irreprensibili a venti lire e in pochi secondi, funziona a secco e garantisce nessun guasto in due anni. Con il duplicatore (quello che in seguito sarà chiamato Mimete), e in una scansione temporale quasi biblica (il quarto giorno, il quinto giorno, il sesto giorno costituiscono i “periodi” della sperimentazione della macchina), il protagonista del racconto duplica perfino esseri animati: anche una lucertola in letargo, che però, riportata alla vita, muore nel giro di poche ore. «Il settimo giorno mi riposai», dice il protagonista-dio. Ma chiede al suo fornitore se sia possibile riprodurre anche animali di maggiori dimensioni, fino a giungere all’uomo. Tuttavia si sente rispondere da Simpson: Io vendo poeti automatici, macchine calcolatrici, con-

fessori, traduttori e duplicatori, ma credo nell’anima immortale, credo di possederne una e non la voglio © Cfr. Il Versificatore, in Storie naturali, p. 29. * Cfr. Il Versificatore, in Storie naturali, pp. 40-41.

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perdere. E neppure voglio collaborare a crearne una con... coi sistemi che lei ha in animo. Il Mimete è quello che è: una macchina ingegnosa per copiare documenti, e quello che lei mi propone è... mi scusi, è una porcheria.

Lo stesso argomento è svolto anche in Alcune applicazioni del Mimete, in cui Gilberto procede a una complessa duplicazione della propria famiglia. Quando la scienza non è strumento — sembra dire lo scrittore —, ma finisce con il dominare l’uomo, allora essa è pericolosa e perciò deve essere rifiutata. L’ossessione che tormenterà Levi per tutta la vita — il problema dell’etica degli scienziati — inizia a manifestarsi fino dal suo ritorno dalla prigionia e si mostrerà particolarmente assillante negli ultimi anni della vita. Il medesimo filo conduttore che compariva in / mnemagoghi, di cui era inventore il dottor Montesanto, ricompare in Trattamento di quiescenza, il racconto che conclude la rac-

colta. Mentre il vecchio medico si era dedicato a raccogliere le sensazioni olfattive che ravvivano 1 ricordi, il protagonista del racconto finale, il signor Simpson, si occupa di piazzare sul mercato il cosiddetto Torec (il Total Recorder), una macchina in grado di registrare ogni sensazione e subsensazione, sia umana che subumana, su un nastro magnetico. Ma Simpson stesso diventa fatalmente vittima di ciò che vende, e per quanto egli abbia detto altrove di avere un’anima immortale,” nel disfacimento fisico e spirituale ha perso la battaglia col Torec, finendo con il sacrificargli tutto, «le api, il lavoro, il sonno, la moglie, i libri»:

Il Torec non dà assuefazione, purtroppo: ogni nastro può essere fruito infinite volte, ed ogni volta la memoria genuina si spegne, e si accende la memoria d’accatto che è incisa sul nastro stesso. Perciò Simpson non prova noia durante la fruizione, ma è oppresso da una noia vasta come il mare, pesante come il mondo, quando il nastro finisce: allora non gli resta che infilarne un ® Cfr. L'ordine a buon mercato, in Storie naturali, p. 62. ® Cfr. Il Versificatore, in Storie naturali, pp. 40-41.

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LE OPERE

altro. È passato dalle due ore quotidiane che si era prefisso, a cinque, poi a dieci, adesso a diciotto o venti:

senza Torec sarebbe perduto, col Torec è perduto ugualmente. In sei mesi è invecchiato di vent'anni, è l’ombra di sé stesso.”

A Simpson non rimane che leggere l’Ecclesiaste, unico libro che ancora riesce a dirgli qualcosa. Ma sotto l’esperienza del vecchio, pare si celi quella di Levi che, in metafora, sta parlando di sé; dei propri tormentosi ricordi, di cui si nutre e si perde. Angelica farfalla, L’amico dell’uomo, Versamina e Quaestio de Centauris costituiscono una parentesi all’interno della raccolta. In essi si realizzano completamente le qualità di narratore, mentre satira e denuncia restano confinate in un àmbito del tutto marginale, poiché sono i fatti a parlare da sé. Il tema di Angelica farfalla è legato alle sperimentazioni sull’uomo nella Germania nazista. Terminata la guerra, una commissione alleata deve indagare su cosa sia accaduto in una casa isolata di Berlino. Si scopre così che il professor Leeb, per sperimentare le sue teorie, si è servito di quattro vittime (due uomini e due donne) trasformate in mostruosi esseri volanti, divorati in seguito, nei tempi di carestia, dagli

abitanti delle abitazioni vicine. Levi recupera nella narrazione la severità distaccata dei libri testimoniali. La conclusione del racconto resta inquietantemente aperta, perché non si sa che fine abbia fatto il professor Leeb; e il capo della commissione d’inchiesta conclude che «del professor Leeb si risentirà parlare», nel senso che un Leeb potrà sempre tornare, con tutti i suoi. Paradossale, ma in chiave di metafora che eleva la materia volgare fino a farne un simbolo, L’amico dell’uomo (la tenia) convive con il suo ospite fino a trasformarsi nel cantore dell’ospite stesso da cui assorbe lentamente la dimestichezza con la cultura, fino a costruire, con le proprie cellule, versi e prose ritmiche in «una forma di espressione insieme altamente complessa e primitiva, in cui si intrecciano, nello " Cfr. Trattamento di quiescenza, in Storie naturali, p. 183.

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stesso mosaico e talora nello stesso verso, la scrittura alfabetica e la acrofonetica, l’ideografica con la sillabica, senza regolarità apparente [...]».? Al clima della Germania del dopoguerra torna Versamina, in cui il professor Dessauer, scampato alla guerra, viene a conoscenza della misteriosa morte del suo collega Kleber. Il titolo del racconto è il nome stesso della sostanza scoperta da Kleber nei i suoi studi di chimica. Essa ha una virtù assai particolare, quella di trasformare il dolore in piacere. Dopo avere sperimentato la versamina, anche Kleber ha finito con il drogarsi; e la sua vita si è conclusa con il suicidio. Il nucleo morale del racconto ruota intorno al tema del dolore «che non si può togliere, non si deve, perché è il nostro guardiano. [...] non si può sopprimerlo, farlo tacere, perché è tutt'uno con la vita, ne è il custode».”? E se da un

certo punto di vista il fine del racconto è tendenzialmente gnomico e didascalico, studiato per avvertire l’uomo che deve guardarsi dalle promesse di un facile star bene rifuggendo dalle proprie responsabilità, dall’altro Levi ci dona una briciola della sua scienza: la consapevolezza del dolore,

del necessario dolore che accompagna la condizione umana. Il lichene delle auto, protagonista di «Cladonia rapida», «differisce dagli altri licheni principalmente per l’estrema sua velocità di accrescimento e di riproduzione», e permette

a Levi di sbizzarrirsi in sottili sofismi che investono anche il sesso delle auto, sulla scia della letteratura del paradosso e dell’impossibile (vi si abbandonerà anche Ceronetti con la sua Musa ulcerosa). La bella addormentata nel frigo si svolge a Berlino nel 2115 e compare sotto forma drammatica, come scena di una rappresentazione che ha come tema l’ibernazione. La cultura classica e i ricordi liceali stanno solo apparentemente alla base della Quaestio de Centauris. Le premesse mitologiche, su cui Levi si sofferma per introdurre la narrazione di una amicizia interrotta tra un centauro e un uomo — e che assumono anche i toni alti e grandiosi di una primigenia creazione pagana («Fu un tempo mai più ripetuto, di ® Cfr. L'amico dell’uomo, in Storie naturali, p. 66. ® Cfr. Versamina, in Storie naturali, pp. 87-88.

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LE OPERE

fecondità delirante, furibonda, in cui l’universo intero sentì amore, tanto che per poco non ritornò in caos»)? da cui scaturiscono non solo il centauro, ma anche altre creature —, seguono scansioni fantastiche che ampliano gli orizzonti all’infinito; sicché non è difficile ravvisare nel racconto «l’e-

spressione più matura e più alta dell’arte dello scrittore». Al solito, tuttavia, sotto le parole di Levi si nasconde una precisa denuncia — stavolta ancor più celata del solito — nei confronti dell’opera dell’uomo che è solo capace di distruggere. Il mito greco è usato da Levi alla rovescia. Nella versione classica erano i Centauri che tentavano di violare le donne dei Lapiti durante le nozze di Piritoo e Ippodamia: la forza bruta della natura contro l’uomo, quindi, e da lì la guerra. Nel racconto leviano, invece, è l’uomo che offende la forza della natura avendo un rapporto con la donna amata dal centauro, che, offeso, fugge e scompare per sempre — una natura che rifiuta l’uomo per la sua insensibilità, per la mancanza di rispetto; un uomo che rompe ogni regola, che non sa rispettare gli altri perché non rispetta se stesso. Trachi il centauro — canta una lunghissima e antica canzone greca che non vuole tradurre (il segreto della natura celato ai mortali?) —

avverte il tradimento mentre è dal maniscalco e si sta facendo ferrare. Dopo la fuga non darà più notizia di sé. Il sesto giorno, in forma drammatica e con figure che rappresentano l’azione in veste di dramatis personae (personaggi del dramma), affronta in chiave ironico-grottesca la creazione dell’uomo come fosse il risultato di una produzione di fabbrica. L’«intuizione puntiforme» di cui Levi parla, punto di partenza dei racconti, trova, fin da questa prima raccolta, una

sua ben precisa collocazione: tanto è severo lo scrittore nei libri di testimonianza, quanto diviene nervosamente e incontenibilmente ironico, graffiante, pungente nei brevi racconti. E come se la tensione, prima concentrata e compostamente dominata, tendesse a cercare e trovasse un naturale sbocco in un divertimento verbale che esplode in paradossi destinati a farsi apologo. " Cfr. Quaestio de Centauris, in Storie naturali, p. 120. ® Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., pi 412.

VIZIO DI FORMA {

RA

L’urgenza morale non muta, ma la tensione spirituale, che non potrebbe mantenersi a lungo se non a prezzo di troppa sofferenza, si distende e si allenta in una analisi della realtà da una angolatura diversa. Sono momenti brevi, lampi che illuminano le straordinarie qualità di un acuto osservatore sempre pronto a partire da un atomo per raggiungere l’universo. In fondo la costante leviana è la logica — sia nel lavoro di chimico-ricercatore che in quello di scrittore.

Vizio di forma Pubblicata nel 1971 e composta da venti racconti scritti fra il 1968 e il 1970, la raccolta mutua il titolo da una osservazione che Levi stesso aveva fatto a proposito di Storie naturali quando aveva parlato «di una falla piccola o grossa, di un “vizio di forma” che vanifica uno od un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale». Se la prima raccolta aveva ricevuto un titolo depistante — suggerito dall’editore per non permettere al lettore di individuare con troppa facilità il contenuto dei testi —, il secondo libro di racconti nasce all’insegna di una identificazione diretta.” Un quinquennio circa intercorre fra Storie naturali e Vizio di forma, un periodo di tempo sufficientemente lungo se considerato in sé, ma pausa non eccessiva se si tiene conto

che durante il silenzio lo scrittore si è dedicato alla riduzione radiofonica di Se questo è un uomo, lavoro che ha assorbito

il suo impegno. Nel momento in cui esce Vizio-di forma, l’Italia ha già conosciuto gli anni del boom economico e si sta avviando verso i difficili anni ‘70, che segneranno il punto di inversione delle condizioni economiche e sociali, i prodromi necessari anche al tempo che stiamo attualmente vivendo. È logi% Cfr. E. FERRERO, Primo Levi: un'antologia della critica, cit., p. 122. ” I titoli dei racconti sono: Protezione, Verso occidente, I sintetici,

Visto di lontano, Procacciatori d’affari, Lumini rossi, Vilmy, A fin di bene, Knall, Lavoro creativo, Le nostre belle specificazioni, Nel Parco,

Psicofante, Recuenco:

la Nutrice, Recuenco:

il rafter, Il fabbro di se

stesso, Il servo, Ammutinamento, In fronte scritto, Ottima è l’acqua.

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LE OPERE

co quindi ritenere che l'elemento di novità, additato all’interno della raccolta, non debba essere letto esclusivamente come maturazione interiore, ma anche come forma di maggiore adesione alla realtà. È naturale pensare che Levi scrittore è anche un Levi cronista e che questi due aspetti si sovrappongono: daltronde non sono difficili nozze di questo genere se — con le dovute cautele e rilevate le debite differenze — si fa cadere l’occhio su autori come Garcfa Marquez. Un cronista, Levi, la cui cronaca non è quella delle pagine cittadine, ma di una terza pagina illustre nella quale storia e fantasia si inseguono, si intersecano, si associano e si dissociano attraverso la complicità di elementi che, se in Storie naturali erano l’ironia e certo fine umorismo, in Vizio di forma si impiantano su una amarezza più consapevole e cupa, fino a giungere alla satira e al paradosso sconcertante già presenti in Trattamento di quiescenza, laddove, su citazione dell’ Ecclesiaste, si legge che «dove è molta sapienza, è molta molestia, e chi accresce la scienza accresce il dolore». Se vogliamo, il moralismo leviano si è approfondito nel senso che è più capace di «suggerirci, attraverso la mediazione inventiva, il senso di sconsolata amarezza che inevitabilmente traspare da un lucido giudizio sulla realtà del presente» e di «trasmetterci quella sensazione di inquietudine, di malessere, spesso di angoscia, insita nella realtà stessa», che Levi redime dal puro aspetto cronachistico facendola degna di essere stemma della condizione umana. È un pessimismo più essenziale, testimoniato anche da quanto Levi stesso scrive nella Lettera 1987, al momento della ristampa del volume: «[...] si tratta di racconti legati ad un tempo più triste dell’attuale, per l’Italia, per il mondo, ed anche per me: legati ad una visione apocalittica, rinunciataria, disfattista, la stessa che aveva ispirato il Medioevo prossimo venturo di Roberto Vacca. Ora, il Medioevo non è venuto: nulla è crollato [...].

Come stiano oggettivamente le cose, non lo sa nessuno». î* Cfr. Trattamento di quiescenza, in Storie naturali, p. 183. ® Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 113. * Cfr. P. LEVI, I racconti. Storie naturali. Vizio di forma. Lilîì, cit., p. 187.

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Il «vizio di forma» non è più qualcosa che riguarda esclusivamente l’individuo come in Storie naturali. La «visione apocalittica» di cui Levi parla fa sì che l’anomalia si stacchi dal singolo e sommerga l’intera umanità. L'ampliamento degli orizzonti di quello che Levi definisce il più trascurato dei suoi libri, «il solo che non è stato tradotto, che non ha vinto premi, e che i critici hanno accettato a collo torto»,

investe il mondo, il pianeta. La catastrofe ecologica è annunziata, dall’esplosione demografica alla distruzione dell’ecosistema. Temi come questi, che potrebbero apparire scontati, sono affrontati da Levi con una maturità stilistica che pone i racconti ben al di là della semplice infatuazione di moda. Ed è proprio il senso del pessimismo e della sfiducia nell’uomo che riesce a sottrarre la narrazione al pericolo di una caduta nelle facili tentazioni dell’‘“anima bella”. Una chiave di lettura del libro la possiamo trovare in Verso occidente, racconto che indaga la funzione della vita, il suo valore e il senso che ad essa vada attribuito — una sorta dunque di concentrato “dialogo dei massimi sistemi”. E proprio la conclusione del racconto a fare luce con la gelida verità che costituisce la scienza del popolo degli Arunde: «noi preferiamo la libertà alla droga, e la morte all’illusione», scrive il capo della tribù allo scienziato che ha loro inviato il farmaco capace di rendere accettabile la vita, di togliere agli esseri animati — animali e uomini — l’insopprimibile pulsione al suicidio.” In sé la trama è fragile, secca, sobria. Anna e Walter, naturalisti studiosi di etologia, si recano-sullo sbocco di un fiordo

per studiare il comportamento dei lemming, animali che periodicamente adottano il suicidio di massa. Walter vuole confutare le teorie del professor Osiasson, che ipotizza que-

sto come il risultato della sovrappopolazione dei lemming, i quali, per motivi di spazio vitale e di cibo, procedono ad una sorta di innaturale selezione di se stessi. Il giovane studioso si accorge che i lemming che si suicidano non sono affatto affamati, che i loro corpi sono coperti da sufficienti cuscinetti di grasso: quindi la teoria di 8! Cfr. Verso occidente, in Vizio di forma, p. 205.

LE OPERE

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Osiasson non regge. Così ipotizza che, in ogni essere animato (persino nei vegetali), sia presente uno stimolo all’autoannullamento. Il tormentoso interrogativo di Walter si condensa in due battute, la domanda di Anna (l’aiutante) e la sua risposta:

— Perché un essere vivente dovrebbe voler morire? — E perché dovrebbe voler vivere? Perché dovrebbe sempre voler vivere?* Nel momento in cui Anna risponde che non ha “quasi” mai avuto dubbi sulla propria volontà di vivere, l'epilogo è già in essere. Walter è ossessionato dal desiderio di scoprire la regola universale, «una cosa che esiste, che esiste in natura, che esiste da sempre, e perciò deve essere una causa, e perciò questa causa deve essere trovata». Alla vicenda dei lemming sottoposti all’analisi, si affianca, su un piano parallelo, l’analisi dell’uomo; precisamente della tribù degli Arunde che, ultimi allo stato puro e selvaggio, non ancora contaminati dalla civiltà, sono stati scoperti da poco e mostrano, nei loro comportamenti, una tendenza perfettamente parallela a quella dei lemming: Il villaggio di Arunde ospitava gli ultimi resti della tribù degli Arunde: ne avevano appreso l’esistenza casualmente, da un articolo comparso su una rivista di antropologia. Gli Arunde, un tempo estesi su di un territorio vasto quanto il Belgio, si erano ristretti entro confini sempre più angusti perché il loro numero era in continuo declino. Questo non era effetto di malattie, né di guerre con le tribù confinanti, e neppure di alimentazione insufficiente, ma soltanto del tasso enorme di suicidi [...].

Il decano gli confermò che gli Arunde, da sempre, erano privi di convinzioni metafisiche: soli fra tutti i loro vicini, non avevano chiese né sacerdoti né stregoni, e non attendevano soccorso dal cielo né dalla terra

né dai luoghi inferi. Non credevano in premi né in punizioni [...]. *° Cfr. Verso occidente, in Vizio di forma, p. 197. |

VIZIO DI FORMA‘

0/5)

Gli Arunde, disse, attribuivano poco valore alla soprav-

vivenza individuale, e nessuno a quella nazionale. Ognuno di loro veniva educato, fin dall’infanzia, a stimare la vita esclusivamente in termini di piacere e dolore, valutandosi nel computo, naturalmente, anche i

piaceri e i dolori provocati nel prossimo dal comportamento di ognuno. Quando, a giudizio di ogni singolo, il bilancio tendeva a diventare stabilmente negativo,

quando cioè il cittadino riteneva di patire e produrre più dolori che gioie, veniva invitato ad una aperta discussione davanti al concilio degli anziani, e se il suo giudizio trovava conferma, la conclusione veniva inco-

raggiata ed agevolata.* Nel corso degli studi, un giorno, per caso, un amico di

Walter, Bruno, accenna all’alcool come farmaco che fa dimenticare. Le attenzioni dello studioso si concentrano su questa ovvia considerazione e Walter riesce a produrre una sostanza (il «fattore L») capace di inibire l’inspiegabile tendenza dei lemming al suicidio. Per questo lo scienziato provvede a spedire il farmaco anche agli Arunde, ma nel frattempo, per studiare l’effetto del farmaco sugli animali, viene travolto dalle orde dei lemming in corsa verso il mare. Così muore. Non saprà mai che il capo degli Arunde gli rispedirà il pacco-dono con un mònito per lui e per «todos los sAbios del mundo civil», tutti i saggi, gli scienziati del mondo civile: Il popolo degli Arunde, presto non più popolo, vi saluta e ringrazia. Non vi vogliamo offendere, ma vi rimandiamo il vostro medicamento, affinché ne tragga profitto chi fra voi lo vuole: noi preferiamo la libertà alla droga, e la morte all’illusione.*

Un rifiuto, quindi, a sostituire l’artificiale alla natura, e una professione di fede secondo cui è necessario assumersi le proprie responsabilità senza cercare mezzi innaturali per andare avanti. 8 Cfr. Verso occidente, in Vizio di forma, pp. 201-202. # Ibidem, p. 205.

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Ma il racconto è esemplare anche sotto altri profili. Esso è rappresentazione simbolica della realtà nella mente e nell’anima dello scrittore. Simbolo è la valle «pietrosa e stretta che comunicava coll’entroterra solo attraverso un intacco quadrato e finiva in mare con un’ampia spiaggia melmosa», simbolo della vita stessa nel suo svilupparsi a segmento fra un entroterra (a sua volta simbolo dell’origine) e il mare

(simbolo del ritorno al nulla, ovvero della liberazione dalla dimensione spazio-temporale); simbolo è la marcia dei lemming verso la morte attraverso l’«ampia spiaggia melmosa», che sembra alludere al male di vivere; simbolo lo stesso viaggio «verso occidente», la fine annunziata, il tramonto. Se per i più «l’abitudine a vivere si contrae nascendo» e se vivere significa solo riuscire «a distrarsi senza interruzioni» — facendo cioè finta di non vedere e di non capire —, la realtà è un’altra: possono «nascere individui senza amore per la vita; altri lo possono perdere per poco o molto tempo, magari per tutta la vita che gli resta; e [...] lo possono perdere, anche gruppi di individui, epoche, nazioni, famiglie». Così dal singolo la prospettiva si estende, apocalitticamente, all’intera umanità. Procacciatori di affari, che nasce da una collaborazione con la Rai ed è messo in scena per la televisione nel 1978,

tocca ancora il delicato problema dell’esistenza e dei suoi “vantaggi”. In senso ironico, dato che sul filo della fine ironia il racconto si articola e procede con disinvolta spigliatezza e fini spunti polemici sino alla conclusione, in cui il protagonista — un ipotetico mai-nato — prende la sua decisione più importante: «Il cammino dell’umanità inerme e cieca sarà il mio cammino». Vittima della trama è un non-ancora-nato che viene invitato a prendere vita umana terrestre. Per allettarlo, tre personaggi ambigui gli presentano i vantaggi che riceverebbe da una siffatta esistenza: bellezza, gioventù, forza ecc. Ma qualcosa sfugge ai «procacciatori di affari», com’essi si definiscono. A un tratto alcune immagini della realtà cadono sotto Cfr. Verso occidente, iù Vizio di forma, p. 198.

*° Il racconto si ispira a Erewhon, romanzo utopico di Samuel Butler

(1835-1902).

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gli occhi del non-nato. Da lì scattano i dubbi e le riserve, quelle appunto, per le quali alla fine deciderà di non voler essere un “privilegiato”. Tutto ciò che viene presentato come un vantaggio non è che un volgare inganno: vecchiaia, problemi e disperazione tormentano la condizione umana. E la visione del mondo ricompare lucida — ma in chiave amara — con tutte le sue implicazioni, fino al punto che si nega il libero arbitrio e la facoltà, per l’uomo, di essere fabbro del proprio destino. A ogni obiezione che il non-nato oppone ai privilegi dell’incarnarsi, le risposte dei procacciatori di affari sono evasive e superficiali: anche quest’universo è dunque parallelo al clima che si respira in Verso occidente quando lo scienziato cerca di rispondere al dolore e alla volontà del suicidio con mezzi artificiali e illusori, con il «fattore L», con l'inganno.

«Non si tratta di cose molto gravi», sarà sempre e comunque la risposta dei tre al non-nato; e i problemi che si presentano all’uomo possono essere risolti. Ma l’ottimismo a buon mercato grida la severa condanna morale dello scrittore. Temi di altro livello — l’uso indiscriminato dei mezzi della scienza e il reale pericolo che essa possa giungere a disfare il precario equilibrio che la natura si è data nel corso di milioni di anni — compaiono in racconti quali Protezione, Lumini rossi, A fin di bene e Le nostre belle specificazioni. Il problema delle responsabilità morali è al centro e viene esplicitamente affrontato nell’ultimo racconto della raccolta, Ottima è l’acqua, il cui titolo è desunto da un’ode di Pindaro (l’Olimpica I, dedicata a Ierone di Siracusa vincitore con il cavallo).

Breve di una concisione icastica, il testo sembra inserito alla fine del libro come severo mònito all’uomo che, più che fabbro di se stesso, sembra esserne il distruttore in una prospettiva di futuro prossimo. Anche in questo caso — com'era avvenuto in Quaestio de Centauris — il richiamo al classicismo è usato in prospettiva rovesciata, e sempre nella direzione di una offesa inferta dall’uomo alla natura e alla sua “sapienza” faticosamente costruita. Boero, il protagonista, deve studiare il valore del coefficiente della viscosità dell’acqua distillata. L’anomalia balza ai suoi occhi quando egli si accorge che l’acqua di un torren-

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te, pur essendo apparentemente normale, ha aumentato la sua viscosità. Le cascatelle non trascinano bolle d’aria, la superficie dell’acqua è meno increspata, il rumore dello scroscio è più sordo. Dall’analisi di un campione, Boero si accorge che l’acqua è «mostruosa», poiché è più viscosa del 30 per cento rispetto al normale. Anche il Po diventerà anomalo, poi tutto il resto:

L’anomalia si estese rapidamente nel corso dell’estate, con un meccanismo che sfidava ogni tentativo di spiegazione: si registrarono piogge viscose in Montenegro, in Danimarca ed in Lituania, mentre un secondo epicentro si andava delineando nell’ Atlantico, al largo del Marocco. [...] le gocce erano grevi e grosse, come piccole vesciche, fendevano l’aria con un lieve sibilo, e si spiaccicavano al suolo con uno schiocco particolare. Furono raccolte gocce di due o tre grammi; bagnato di quest’acqua, l’asfalto diventava viscido, ed era impossibile circolarvi sopra con veicoli gommati.* La visione finale è apocalittica. L’effetto acqua-viscosa si riversa in maniera devastante su tutto il pianeta e fa intravedere un inevitabile annientamento totale. L'idea del malessere e della responsabilità umana nella devastazione si fa sempre più viva e inquietante e viene espressa in una sorta di analisi schematica degli effetti: dai più umili ai più complessi, fino al punto che il ghiaccio diventa «elastico e tenace come l’acciaio» e il mare dei Caraibi «non ha più onde». Dedicata a Calvino e giocata su toni di fine divertissement, Il fabbro di se stesso riprende in chiave diaristica il tema dell’evoluzione umana. Il titolo sottolinea l’estrema superbia con la quale il primate superiore si arroga il diritto di definirsi autocreatore. «Io sono il fabbro di me stesso, e questo è il mio diario»,

afferma il protagonista del racconto con una superbia asserita in termini postulatici. E da qui che scaturisce subito il senso del grottesco, poiché l’essere umano si attribuisce meriti che non ha. Per certa leggerezza, sembra di respirare * Cfr. Ottima è l’acqua, in Vizio di forma, pp. 365-366.

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la stessa atmosfera che era palpabile nelle calviniane Cosmicomiche,

anche se in Calvino più lieve e divertito,

meno moralmente impegnato era l’humus creativo, libero di spaziare entro orizzonti di pura fantasia. In una progressione che tende speditamente alla conclusione, rimaniamo abbagliati dalla capacità di Levi di spiegarci, ancora una volta con una sorta di felice apologo, i meccanismi dell’evoluzione in poche battute, con l’arguzia di una sintesi felice e maliziosa. La storia dei milioni di anni si concentra in espressioni quali «Mia moglie si è messa in capo di tenersi le uova in corpo», per spiegare la gestazione uterina; o «Stasera mi ha annunciato che è riuscita a modificare sei ghiandole epiteliali, e a farne uscire qualche goccia di un liquido bianco che le sembra adatto allo scopo», per illustrare la specializzazione del seno e la produzione del latte per la prole. Oppure, per raccontare l'emersione dell’uomo dal brodo originario: «Per ora, cammino ancora strisciando sul ventre, ma conto di farmi qualche gamba fra poco, non so ancora se due 0 quattro o sei». Eppure, nella frizzante euforia del narrare per paradossi anche espressivi, non sfuggono allo scrittore i nodi più importanti della vita, al centro della quale restano comunque il sesso e la riproduzione: Dove invece il problema c’è, e grosso, e balordo, è

nella questione della riproduzione. Mia moglie fa presto a dire: pochi figli, gravidanza, allattamento. Io cerco di assecondarla, perché le voglio bene, e poi perché il grosso del lavoro tocca a lei: ma quando ha deciso di convertirsi al mammiferismo, non si è certo resa conto dello sconquasso che stava combinando.”

Siamo di fronte a un vero piccolo universo familiare in cui riemergono — per continguità — tutti i problemi connessi alla convivenza: dall’egoismo maschile («perché il grosso del lavoro tocca a lei»), al diplomatico silenzio che nasconde 8 Cfr. JI fabbro di se stesso, in Vizio di forma, p. 333. ® Ibidem.

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un motivo di contrasto e di conflittualità («non si è certo resa conto dello sconquasso che stava combinando»).

Dall’ironia corrosiva non si salva neppure la religione, misuratamente parodiata quando si dice che i figli «dovranno avere il cervello un po’ abbondante, e quindi il cranio grosso,

e allora come faranno a uscire quando sarà il momento di nascere? Finirà che partorirai con dolore». Parimenti si pone il problema della vita e della morte, allorché il fabbro vorrebbe prendere le piante come modello di sviluppo biologico:

Chi dice che la morte è inscritta nella vita non ha pensato a loro: ad ogni primavera ritornano giovani. Bisogna che io ci pensi su con calma: non potrebbero essere loro il miglior modello? Pensate: mentre scrivo,

ho qui davanti a me una quercia, trenta tonnellate di buon legno compatto; ebbene, sta in piedi e cresce da trecento anni, non deve nascondersi né fuggire, nessuno la divora e non ha mai divorato nessuno. Non basta: respirano per noi, me ne sono accorto di recente, e poi su di loro si può abitare al sicuro.” Altrettanto emblematica appare la conclusione di quello che il fabbro definisce «caro diario». Al momento dell’invenzione delle armi — minaccia oscura della forza che atterrisce la natura stessa e ne viola i princìpi — la narrazione può concludersi, perché, con la solita superbia, l’uomo pensa che «questo diario può anche finire. Con queste mie ultime trasformazioni e invenzioni, il più è ormai compiuto: da allora, nulla di essenziale mi è più successo, né penso che debba più succedere in avvenire». E proprio qui il centro nodale della storia umana: il fatto che l’evoluzione — sembra dire lo scrittore — si arresti al culmine del male, nell’istante in cui l’uo-

mo ha affinato tutte le sue capacità nocive e pensa che niente d’altro debba verificarsi — paradossalmente — per il suo bene. Il rabbino Arié-Leone di Praga è il personaggio centrale di Il servo. AI di là del dato storico — Arié visse realmente nel Cinquecento — la figura è mitologizzata e inserita in una " Cfr. Il fabbro di se stesso, in Vizio di forma, p. 336.

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atmosfera di pura leggenda. Con dell’argilla Arié costruisce un Golem, creatura rozza e gigantesca che obbedisce al padrone, che somiglia a un uomo dalla cintura in su, mentre

la parte inferiore del corpo è di materia informe. La vita che è infusa alla strana “creatura”, deriva da una piccola pergamena in cui compaiono le lettere iniziali dei principi del movimento e il nome di Dio. Se da un lato il Golem si conserva fedelissimo al padrone e diviene anche protagonista di azioni di coraggio — difende in più occasioni la comunità ebraica sottoposta a molte angherie —, dall’altro, quando Arié si dimentica di disattivar-

gli la vita, impazzisce e distrugge la casa del suo creatore. Così il ghetto, luogo in cui «la sapienza e la saggezza sono virtù a buon mercato», diviene lo scenario del disordine e del caos, della violenza allo stato puro. La figura del Golem può essere letta come simbolo di un’ossessione di Levi, la violenza alla natura. Vediamo che

[...] al momento decisivo, quando si trattò di infondere nel cranio leonino del servo i tre principî del movimento, che sono il Noùs, l’Epithumia e il Thymòs, Arié distrusse le lettere dei primi due, e scrisse su di una pergamena soltanto quelle del terzo; aggiunse sotto, in grossi caratteri di fuoco, i segni del nome ineffabile di Dio, arrotolò la pergamena e la introdusse in un astuccio

d’argento. Così il Golem non ebbe mente, ma ebbe coraggio e forza, e la facoltà di destarsi a vita solo quando l’astuccio col Nome gli veniva introdotto fra i denti. Quando si venne al primo esperimento, ad Arié tremavano le vene come mai prima. Infilò il Nome nella sua sede, e gli occhi del mostro si accesero e lo guardarono. Si attendeva che gli chiedesse: «Che vuoi da me, o Signore?», ma udì invece un’altra domanda che non gli era nuova, e che gli suonò piena d’ira: «Perché prospera l’empio?».” Il Golem che si desta alla vita, così forte, così bruto — una

parte di esso è appunto formata da materia allo stato di caos — ?! Cfr. Il servo, in Vizio di forma, p. 342.

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LE OPERE

finirà per fungere da forza naturale che si rivolta contro l’uomo che lo ha costretto ad essere com’è. In questo racconto la narrazione assume un tono più severo che in altri. » A Mario Rigoni Stern — il «sergente della neve» — è dedicato Ammutinamento, imperniato ancora sul tema della natura in rivolta. La protagonista è Clotilde, una bimba che parla con le piante: tutte tranne la gramigna perché è infestante, non muore mai e soffoca ogni altra forma di vita. Clotilde ha un segreto. Ha scoperto che alcune piante si muovono, fuggono la vicinanza degli uomini. Un ciliegio, addirittura, parla con la bimba e dice «cose su cui Clotilde non era d’accordo: che non si devono fare fiori, perché sono una lusinga all’uomo, né frutti, che sono uno spreco e un dono non dovuto. Bisogna combattere l’uomo, non purificare più l’aria per lui, sradicarsi e partire, anche a costo di morire o di ritornare selvaggi». E evidente che l’ammutinamento delle piante rappresenta la ribellione della natura alle violenze dell’uomo, tanto che solo la bambina riesce a comunicare con gli alberi poiché possiede ancora l’ingenuità e la santità del rispetto. «In questo piccolo gioiello narrativo Levi è riuscito a dar voce al segreto dolore della natura.» Racconti come / sintetici, Knall o Vilmy, riconducono Levi a un àmbito connesso agli anni in cui sono stati scritti e al senso di inquietudine e di incertezza che li hanno pervasi. Dal ragazzo che vive in maniera angosciosa l’ossessione di essere nato in provetta — tema ormai più attuale e sinistramente vero —, ai rischi della propagazione delinquenziale connessa a oggetti di consumo indiscriminato, al rapporto di succubanza.dell’essere umano a una bestiola (il «vilmy», appunto) che ha proprietà allucinogene, i racconti ripropongono, in moduli più o meno fantascientifici, i problemi della responsabilità e della libertà in una luce fosca e inquietante. Sotto forma di rapporto si presenta Visto di lontano, un rendiconto «in grafìa selenitica lineare B» in cui gli abitanti della luna esaminano la terra e i terrestri. In esso la fantasia è più libera, di una libertà che dipende dal divertimento dissacrante, come il definire gli stadi quali crateri ellittici che, in °° Cfr. Ammutinamento, in Vizio di forma, p. 352. ° Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 129.

IL SISTEMA PERÎODICO

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maniera anomala, «nella stagione estiva, emettono talvolta una lieve luminosità nelle prime ore della notte» — nel momento, è chiaro, delle partite di calcio in notturna. Qui lo scrittore assume, con certa tonale somiglianza, cadenze del romanzo lucianeo (Vera storia), archetipo del

viaggio immaginario, anche se la prospettiva è nuovamente rovesciata: in Luciano infatti il terrestre osservava i seleniti,

in Levi il selenita studia i terrestri.

E ancora sui binari della

fantascienza corre Psicofante, la macchina in grado di radio-

grafare la psicologia di un uomo — tagliente satira fantasticherie dei test psicanalitici. L'universo di Vizio di forma tocca tutti i temi e i Levi. Lo scrittore non rinuncia a sé. Mutano solo espressive, grazie a una sempre maggiore padronanza

contro le

registri di le forme stilistica.

Il sistema periodico

I ventuno racconti che compongono // sistema periodico attingono la loro motivazione sia dal successo ottenuto da La tregua, che dal desiderio di narrare gli eventi della vita di un

laureato in chimica.” «Per quanto questo si presenti come il libro più eteroclito di Levi, è anche il più amalgamato, quello in cui si passa con facilità dal tono epico a quello umoristico, dal racconto autobiografico alla divagazione linguistica o antropologica.» La raccolta si presenta fitta di trame autobiografiche — la memoria si espande a macchia e consente a Levi di parlare di se stesso, a volte in maniera esplicita, altre con il nascon-

dimento proprio della sua natura riservata. Si apre un ventaglio che va dalle origini della famiglia alle ambizioni letterarie dello scrittore. Ci sono tuttavia due racconti, Piombo e “ Argon, Idrogeno, Zinco, Ferro, Potassio, Nichel, Piombo, Mercurio, Fosforo, Oro (compare nel 1974 su «Il Mondo»), Cerio,

Cromo, Zolfo (pubblicato nel 1950 su «l’ Unità» con il titolo di Turno di notte), Titanio (comparso nel 1948 su «L'Italia socialista» con il titolo di Maria e il cerchio), Arsenico, Azoto, Stagno, Uranio, Argento, Vanadio, Carbonio (composto nel 1969, compare su «Uomini e libri» nel 1972). % Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 158.

LE OPERE

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Mercurio, che vengono generalmente considerati di pura invenzione.’ Metafora della vita umana, Piombo ha come protagonista Rodmund, che vive nel paese di Thiuda. E un esperto negromante che trasforma il piombo in oro. Tormentato da un insaziabile desiderio di conoscere,

a modo suo maschera di

un anomalo Ulisse, Rodmund vaga per il mondo, noto e ignoto, alla ricerca di una vena di piombo da sfruttare, finché

giunge in una terra ricca di quel minerale. Il vero alchimista resta però lo scrittore, che opera una serie di contaminazioni referenziali tale da creare un effetto di strana e, se vogliamo, grottesca commistione. Agli ele-

menti del romanzo immaginario aggiunge pizzichi di curiosità tratti da autori latini come Cesare del Bellum gallicum, notizie mitologiche desunte dalla tradizione nordica e vichinga, con il risultato che ciò che scaturisce crea situazio-

ni bizzarre ma non prive di fascino. A questo proposito è interessante osservare il brano che segue: [...] anch’io, quando ritorno e racconto i paesi dove sono stato, mi diverto a inventare delle stranezze; e qui se ne raccontano di fantastiche sul mio paese, per esempio che i bufali da noi non hanno le ginocchia, e che per abbatterli basta segare alla base gli alberi a cui si appoggiano di notte per riposare: sotto il loro peso, l’albero si spezza, loro cascano distesi e non si possono rialzare più.”

Nel Bellum gallicum Cesare narra della cattura delle alci, e le ultime parole del brano di Levi sono press’a poco l’esatta traduzione del passo latino.* °° Nel libro i racconti sono stampati in corsivo. " Cfr. Piombo, in Il sistema periodico, p. 95. * Cfr. CESARE, Bellum Gallicum, VI, 27: Sunt item quae appellantur alces... crura sine nodis articulisque habent. Neque quietis causa procumbunt neque, si quo adflictae casu conciderunt, erigere sese aut sublevare possunt. his sunt arbores pro cubilibus; ad eas se applicant atque ita paulum modo reclinatae quietem capiunt. Quarum ex vestigiis cum est animadversum a venatoribus quo se recipere consuerint, omnes

IL SISTEMA PERIODICO

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L’opera di contaminazione inizia da subito, almeno da quando, parlando del suo mestiere di fonditore di piombo, Rodmund esordisce con una delle frasi che si incontrano comunemente in tutte le vecchie grammatiche di apprendimento ginnasiale del greco: «In montagna è diverso, le rocce, che sono le ossa della terra, si vedono scoperte [...]».®

Vediamo così che quello che viene comunemente definito racconto di pura invenzione è una miscela di realtà e fantasia, ma di una fantasia che poggia saldamente sull’esperienza dello scrittore che narra di sé, della sua passione per l’alpinismo,

delle estasiate escursioni in montagna lungo le valli alpine. In Piombo è tutto un susseguirsi di momenti come questo, fatti di viaggio e di memoria. La memoria è tanto persistente da riportare in primo piano scene già viste, come l’incontro, al mercato, con un personaggio straordinario che sarà disposto a pagare oro per avere da Rodmund il segreto della lavorazione del metallo: [...] Era giorno di mercato, e mi sono messo in mostra col mio pezzo di piombo in mano. Qualcuno ha cominciato a fermarsi, a soppesarlo e a farmi domande che capivo a mezzo: era chiaro che volevano sapere a cosa serviva, quanto costava, da dove veniva. Poi si è fatto avanti un tale con l’aria svelta, con un berretto di lana intrecciata, e ci siamo intesi abbastanza bene [...]. Lui eo loco aut ab radicibus subruunt aut accidunt arbores, tantum ut summa species earum stantium relinquatur. Huc cum se consuetudine

reclinaverunt, infirmas arbores pondere adfligunt atque una ipsae concidunt, «Poi ci sono anche le cosiddette alci... hanno le gambe senza snodi e articolazioni. Esse non si sdraiano per riposare e se, afflitte da un qualcosa, sono cadute, non possono più alzarsi o sollevarsi. Come letto hanno le piante; si appoggiano ad esse e così, un po’ inclinate, riescono a prendere sonno. Quando i cacciatori hanno capito dalle loro tracce dove questi animali siano soliti rifugiarsi, essi sradicano, in quel

luogo, o tagliano alla base tutte le piante, ma solo quel tanto che basti a lasciare l’aspetto della pianta che sta ancora in piedi. Quando le alci, secondo la loro abitudine, vi si sono appoggiate, premono le piante con il loro peso e cadono insieme ad esse», tanto da poter essere catturate. ® Normalmente nei primi esercizi si trovano frasi come «I poeti antichi definiscono le rocce e i fiumi ossa e vene della terra».

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mi ha controfferto delle monete di bronzo con sopra un cinghiale, coniate chissà dove, ma io ho fatto l’atto di sputarci sopra: oro, e niente storie.!® Quando la trattativa finisce — e per come finisce: rapida,

sbrigativa, con un vago sapor di imbroglio — si ha l’impressione di avere assistito alle mosse di-Cesare nell’omonimo capitolo di La tregua, solo che là la vittima era un «panzo-

ne» e la merce in vendita una camicia, la «cosciuletta». Anche se Rodmund insaporisce la sua narrazione con elementi di ascendenza nordico-vichinga — fa infatti credere alla gente che incontra che si può costruire uno specchio, ma il segreto della fabbricazione è molto complicato, tanto che alla sua famiglia è stato rivelato da una dea che si chiama Frigga (la Era nordica a volte confusa con Freia o Freya, divinità dell’amore) — l’esperienza del Lager non è più distante di un passo, e riaffiora nel motivo della babelicità espressiva dovuta alla convivenza forzata di più razze nel paese in cui Rodmund è giunto: [...] non parlavano tutti la stessa lingua, e nessuno parlava la mia, e c’era una gran confusione di termini. Dicevano per esempio «kalibe», e non c’era verso di capire se intendevano ferro, o argento, o bronzo. Altri chiamavano «sider» sia ilferro sia il ghiaccio [...].!®

Ciò evoca la babilonia dei linguaggi nel campo di prigionia, dove il pane viene chiamato in mille modi diversi: solo che là l'atmosfera era tragica, mentre in Piombo è impostata su un finissimo uso dell’umorismo oscillante fra il paradossale e il grottesco. Verso la conclusione il racconto precipita nella verità che pulsa incessantemente e in maniera tormentosa nell’anima ‘® Cfr. Piombo, in Il sistema periodico, pp. 90-92. ‘©! Cfr. Piombo, in Il sistema periodico, p. 95. Si noti come Levi gio ‘chi sempre con elementi che gli sono assolutamente noti: il nome dell’acciaio (kalibe) è semplice traslitterazione, neppure fonetica, del greco xaAuy, che significa «acciaio»; mentre sider (ferro o ghiaccio) è

forma abbreviata desunta dal greco o{dnpoc.

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dello scrittore. Quando Rodmund incontra i marinai e sente di una favolosa terra dei metalli, decide di recarvisi. Parte in aprile con la nave per raggiungere l’isola di Icnusa, abitata da giganti che somigliano ai ciclopi dell’ Odissea.!® Vi giunge ed è la sua fine. Trova il piombo che, come poco prima ha detto, «è proprio il metallo della morte: perché fa morire, perché il suo peso è un desiderio di cadere, e cadere è dei cadaveri, perché il suo stesso colore è smorto-morto».!®

Rodmund comprerà schiavi e una moglie che gli assicuri una discendenza, perché la sua arte non perisca. E all'improvviso si trova vecchio, alla fine del proprio cammino: [...] e non ho perso tempo, perché le mie mani e le ginocchia hanno preso a tremare, e i miei denti vacillano nelle gengive, e si sono fatti azzurri e come quelli del mio avo che veniva dal mare. Questo Rodmund nascerà sul finire del prossimo inverno, in questa terra dove crescono le palme e si condensa il sale, e si sen-

tono di notte i cani selvaggi latrare sulla pista dell’orso; in questo villaggio che io ho fondato presso il ruscello delle api selvatiche, ed a cui avrei voluto dare un nome della mia lingua che ho dimenticato, Bak der Binnen, che significa appunto «Rio delle Api»: ma la gente di qui ha accettato il nome solo in parte, e fra di loro; nel loro linguaggio che ormai è il mio, lo chiamano «Bacu Abis».!* !@ Tenusa (la parola compare una sola volta nei testi greci) è adattamento leviano all’antichissimo nome della Sardegna. Cfr. ARISTOTELE, Mirabilia (ed. O. Apelt, 1888), 838b.20: atm dè f vMoog, 0g Éouev, eékaXetto pev mporepov ’Ixvoòocra dà TÒò Eoynpartio dar TA TepuéTpw duowdtata dvdporivo yver, «quest'isola, pare, prima si chiamava Icnussa per il fatto di essere stata formata quanto a perimetro in maniera assai simile a un’orma umana». Fra l’altro la Sardegna è indicata dal mito anche come terra dei ciclopi., ‘9 Cfr. Piombo, in Il sistema periodico, p. 91. Per l’idea di dissoluzione e morte come caduta v., oltre, Carbonio. !% Cfr. Piombo, in Il sistema periodico, p. 99. Si noti la formazione

del nome del villaggio, riadattamento fantastico ma non troppo: in tedesco ape si dice Biene (qui Binnen), mentre Abis potrebbe essere voluta storpiatura del genitivo latino apis, «dell’ape».

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La parabola della ricerca estenuante di una propria collocazione e della verità — qui simbolicamente rappresentata dal piombo, metallo velenoso — si trasforma in tragedia, perché finisce con lo snaturare l’individuo; o l’apologo indica che in questa Icnusa fantastica — che altro non è che l’Italia in cui Levi vive e scrive — tutto si è trasformato in peggio con il benessere e il consumismo che hanno tolto, come a Rodmund che si è fatto ricco, la spontaneità dei sentimenti semplici di un tempo. Un canto di rimpianto della verginità originaria, dunque, corrotta e ormai irrecuperabile, in forma di narrazione di avventure fantastiche, ma simili a quelle picaresche di La tregua. Apologo è pure Mercurio, racconto arricchito, fra l’altro, da una mappa dell’isola in cui si svolgono fatti stravaganti ma memorabili; una mappa che ha le caratteristiche delle carte dei romanzi di avventura e delle isole del tesoro. La storia si svolge, infatti, nell’isola di Desolazione e coinvolge il caporale Abrahams e sua moglie Maggie. La piattezza della loro vita viene messa in crisi dall’intrusione di quattro naufraghi. Il soldato è rimasto sull’isola insieme alla moglie non si sa bene in attesa di cosa — forse solo in funzione dei futuri eventi — dopo che tutti hanno lasciato quella sorta di luogo abbandonato da Dio in cui erano stati mandati con il compito di fare da guarnigione e da guardia a un’altra isola (si scopre subito che si chiama Sant'Elena) nella quale è stata esiliata «una persona importante e pericolosa», che intuiremo essere Napoleone. Finché il prigioniero è stato vivo, l’isola di Desolazione

è stata abitata da una dozzina di persone, poi

«l’arruffapopoli è morto, e allora è venuta una cannoniera per riportare tutti a casa».' Abrahams e Maggie sono voluti rimanere e ora vivono allevando maiali. L'isolaha un monte al centro — lo Snowdon — e una foresta. È rifugio di foche e gabbiani. L'equilibrio di coppia muta all'improvviso dopo l’arrivo di quattro personaggi scaleni: Willem, quasi un bambino, cui la donna dedica troppe attenzioni; Hendrik, un ciarlatano che gioca con le teorie di Ermete Trismegisto (è, dunque, un "© Cfr. Mercurio, in Il sistema periodico, p. 100.

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alchimista), e due italiani, Andrea di Noli e Gaetano di

Amalfi. Maggie, com’è naturale, entra in un gioco di attrazioni che preoccupa il buon caporale. Ma un evento improvviso — l’eruzione dello Snowdon — porta a un evento straordinario: la scoperta del mercurio sull’isola di Desolazione. Grazie alla distillazione del minerale la piccola comunità potrà acquistare quattro femmine che si uniranno con gli uomini, ma Maggie se ne andrà con Hendrik, mentre il caporale Abrahams formerà una nuova famiglia con la più giovane delle femmine giunte sull’isola. Qual è il messaggio di questa fantasiosa novella dell’inverosimile? L’alchimia è nascosta nell’elemento che dà nome al racconto, il mercurio: È veramente una sostanza bizzarra: è freddo e fuggitivo, sempre inquieto, ma quando è ben fermo ci si specchia meglio che in uno specchio. Se lo si fa girare in una scodella, continua a girare per quasi mezz'ora. [...] Insomma, è una materia che non mi piace [...].!®

Esso non può che rappresentare — anche in virtù dell’uso che ne verrà fatto: l’acquisto delle donne per gli abitanti di Desolazione — il denaro o il benessere, elementi negativi che rovinano tutti coloro che vi si accostano. A Desolazione tutto muterà, perché non solo Maggie se ne andrà con Hendrik, ma genererà figli dall’alchimista, figli che saranno abnormi e che Levi chiama «bestie a due dossi» (l’indefinito, primigenio Adamo androgino di Lilit), frutti di una sorta di innatura-

le connubio, quasi che Maggie fosse una nuova diavolessa. Mercurio può rappresentare dunque la profezia della distruzione del mondo ad opera di benessere e consumismo. «All’insegna della chimica, Levi ripercorre ne // sistema periodico la propria vita soffermandosi su quegli avvenimenti a proposito dei quali uno degli elementi del sistema periodico, appunto, incide un suo segno, assume il ruolo di indice

di rilevamento», così Fiora Vincenti.'!” In realtà la lucida !0 Cfr. Mercurio, in Il sistema periodico, p. 110.

9? Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 133.

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LE OPERE

volontà di Levi di dare un ordine costituito alla sua esistenza, fa sì — come ben osserva Marco Belpoliti —'* che egli trovi proprio nella tavola di Mendeleev l’elemento di unione, il filo di Arianna che collega ogni aspetto dell’esistenza. Alla fiducia nella scienza e nella ragione, in Levi si unisce sempre un’assoluta sete di conoscere: perciò la fisica sconfina nella metafisica senza soluzione di continuità. Questo è evidente nei racconti di // sistema periodico, che sembra essere la sistematizzazione di Levi scritta da Levi e per Levi: senza che ciò però porti a una soluzione definitiva, dato che il fenomeno uomo — pure studiato come elemento coordinante di un sistema periodico — tende a sfuggire di continuo, perché presenta anomalie comportamentali, specie nella zona d’ombra del suo più intimo sentire. Così non sembra del tutto accettabile l’ipotesi che questa raccolta costituisca una vera e propria svolta nella scrittura leviana: l'abbandono dei temi del Lager e l'ingresso nel solco della vera narrativa, come scriveva Calvino.'® È più giusto credere che lo scrittore abbia momentaneamente accantonato i temi che erano stati al centro della sua indagine, ma solo per il tempo necessario a maturarli e riprenderli in seguito nell’ultimo lavoro, / sommersi e i salvati, con ben altra voce e forza. Forse // sistema periodico può apparire il più freddo dei libri di Levi, perché al tempo stesso è il più personale e il più impersonale. Nel raccontarsi, con il piacere di farlo, ma anche con il pudore di non cedere a un più scoperto narcisismo, lo scrittore fa, di ogni elemento del sistema, il tramite e la via senza uscita perché chi legge possa coglierlo nella sua interezza umana. Così manca il pathos a cui ci eravamo abituati e lo stile si stacca da quello delle opere precedenti. Ma sotto la corteccia robusta vibra ancora il brivido dell’orrore e della disperazione che non si dimenticano. Argon ci narra le origini della famiglia con un testo che ha il sapore del piccolo saggio, Ferro l’amore per l’alpinismo, Potassio ripercorre i tempi dell’università, Nichel il '* Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 158. "® L'osservazione compare in una lettera del 1974 con cui Calvino comunica a Levi il suo parere favorevole alla pubblicazione del libro.

IL SISTEMA PERÎODICO

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primo impiego ottenuto con falsa identità, Fosforo la coinvolgente vita spirituale dei tempi trascorsi a Milano, Oro la sventurata e breve esperienza partigiana con il tradimento e l’arresto, Cerio si impernia su un’avventura dominata dalla

figura dell’amico Alberto (ed ecco ricomparire l’ombra del Lager), Arsenico, Azoto e Stagno rivisitano le tappe del lavoro alla Siva. Le storie di fabbrica che precedono la conclusione di // sistema periodico alludono già a nuovi interessi che saranno sviluppati in La chiave a stella. Carbonio chiude la raccolta dilatando le prospettive all’infinito. Mentre infatti Argon muoveva dalle vicende umane e dalla condizione del popolo ebraico, l’ultimo racconto mira a una sorta di ricomposizione cosmologica valida per tutti gli uomini senza distinzione di razza. Ogni individuo, in un’ottica di strette «affinità elettive», sente vicino a sé un elemento piuttosto

che un altro, ma tutti sono identicamente legati a uno ed un solo elemento, il carbonio, «perché dice tutto a tutti, e cioè

non è specifico, allo stesso modo che Adamo non è specifico come antenato».!!° La storia dell’evoluzione — anche inferiore rispetto a quella umana — è così saldamente legata all’atomo di carbonio che, grazie a un originario scarto, la vita riesce a scattare

entrando nel ciclo della fotosintesi clorofilliana, fino a permettere ulteriori e più complessi sviluppi. Con una narrazione mirabilmente sintetica ed efficacissima ecco come Levi spiega i passaggi chimici dopo che il carbonio è finito nel vino: È destino del vino essere bevuto, ed è destino del glucosio essere ossidato. Ma non fu ossidato subito: il suo bevitore se lo tenne nel fegato per più d’una settimana, bene aggomitolato e tranquillo, come alimento di riserva per uno sforzo improvviso; sforzo che fu costretto a

fare la domenica seguente, inseguendo un cavallo che si era adombrato. Addio alla struttura esagonale: nel giro di pochi istanti il gomitolo fu dipanato e ridivenne glucosio, questo venne

trascinato dalla corrente del

sangue fino ad una fibrilla muscolare di una coscia, e ‘0 Cfr. Carbonio, in Il sistema periodico, p. 230.

LE OPERE

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qui brutalmente spaccato in due molecole d’acido lattico, il tristo araldo della fatica: solo più tardi, qualche minuto dopo, l’ansito dei polmoni poté procurare l’ossigeno necessario ad ossidare con calma quest’ultimo. Così una nuova molecola d’anidride carbonica ritornò all’atmosfera, ed una parcella dell’energia che il sole aveva ceduta al tralcio passò dallo stato di energia chimica a quello di energia meccanica e quindi si adagiò nella ignava condizione di calore, riscaldando imper-

cettibilmente l’aria smossa dalla corsa ed il sangue del corridore. «Così è la vita», benché raramente essa venga così descritta: un inserirsi, un derivare a suo vantaggio, un parassitare il cammino in giù dell’energia, dalla sua nobile forma solare a quella degradata di calore a bassa temperatura. Su questo cammino all’ingiù, che conduce all’equilibrio e cioè alla morte, la vita disegna un’ansa e ci si annida.'!'

Ma Levi ha già espresso il concetto di vita come fenomeno che tende a trasformare se stesso da equilibrio dinamico (movimento) in equilibrio statico (morte) attraverso la caduta, riassu-

mendo fedelmente le intuizioni degli atomisti greci, di Epicuro e di Lucrezio. Lo ha già fatto in Piombo, quando scrive che «il piombo è proprio il metallo della morte: [...] perché il suo peso è un desiderio di cadere, e cadere è dei cadaveri» .!!° Carbonio sì chiude con una metafora che illustra il ciclo dell’elemento (fra l’altro il cerchio delle ossidazioni e delle trasformazioni dell’atomo, nel corso del racconto, si lega — per via indiretta — all’idea dell’uscire dal Lager solo attraverso una Via, il camino dei forni crematori, sotto forma di anidride carbonica).!!*

Merita rileggere il brano conclusivo, perché apre anche riflessioni di altra natura. Levi vuole narrare un’altra storia: !!! Cfr. Carbonio, in Il sistema periodico, pp. 234-235. !!? Cfr., sopra, Piombo. ! L'anidride carbonica è, per Levi, «gas che costituisce la materia prima della vita, la scorta permanente a cui tutto ciò che cresce attinge», ma soprattutto è «il destino ultimo di ogni carne»: con evidenza anche la sorte degli uomini uccisi nelle camere a gas.

IL SISTEMA PERIODICO

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Ne racconterò [...] ancora una, la più segreta, e la racconterò con l’umiltà e il ritegno di chi sa fin dall’inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestie-

re di rivestire i fatti con parole fallimentare per sua profonda essenza.!!* In essa l’atomo di carbonio

È di nuovo fra noi, in un bicchiere di latte. È inserito in

una lunga catena, molto complessa, tuttavia tale che quasi tutti i suoi anelli sono accetti dal corpo umano. Viene ingoiato: e poiché ogni struttura vivente alberga una selvaggia diffidenza verso ogni apporto di altro materiale di origine vivente, la catena viene meticolosamente frantumata ed i frantumi, uno per uno, accettati 0 respinti. Uno, quello che ci sta a cuore, varca la soglia intestinale ed entra nel torrente sanguigno: migra, bussa alla porta di una cellula nervosa, entra e soppianta un altro carbonio che ne faceva parte. Questa cellula appartiene ad un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l’ato-

mo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. È quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa sì che la mia mano corra in un

certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su ed in giù, fra due livelli d’energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo.'! L'epilogo può far pensare a tutto, compreso il suicidio che verrà e che può significare un mettere il punto alla propria esistenza. È probabile che solo in questo — a giudizio dello scrittore — risieda un margine di libero arbitrio nell’intero corso di una vita umana. ‘4 Cfr. Carbonio, in Il sistema periodico, p. 237. 15 Cfr. Carbonio, in Il sistema periodico, pp. 237-238.

LE OPERE

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L’osteria di Brema, Ad ora incerta, Altre poesie

Nel 1975 per i tipi di Scheiwiller esce a Milano, nella collana «Acquario», una plaquette con un nucleo di quindici componimenti dal titolo L’osteria di Brema. Le poesie verranno di nuovo pubblicate nel 1984 in una raccolta più ampia intitolata Ad ora incerta, presso Garzanti nella collana «Gli elefanti». Crescenzago (1943) è il titolo del componi-

mento più antico. L'altra produzione poetica di Levi data a partire dal periodo che va dall’inverno 1945 alla primavera 1946. In realtà l’attività poetica — limitata a dire il vero: una ottantina di componimenti, una decina di traduzioni e alcuni

altri testi pubblicati in Altre poesie

(Opere, vol. II, 1997) —

continuerà almeno fino al 1987.!!° Il problema che subito si pone è quale sia il rapporto fra prosa e poesia in Levi, ma ad esso Levi stesso ci aiuta a dare risposta convincente: «La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi? Uomo sono. Anch'io, ad intervalli, “ad ora incerta”, ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico»."” Ora, questa affermazione è un vero e proprio sillogismo. L’asserire che la poesia è inscritta nel nostro patrimonio genetico è far tornare il problema al punto di partenza, al fatto che la poesiaè nata certamente prima della prosa. Il passaggio intermedio

è l’incontrovertibile riconoscimento

dell’umanità dello scrittore: donde la necessità della scrittura in versi come spia ed effetto dell’essere uomo. Dunque, per Levi la poesia è una scelta? È forse il caso di credere che non lo sia del tutto o che, almeno, non lo sia a paragone e confronto di quanti, in quegli stessi anni, scrivono in versi. Non si rivela una scelta — e ci è più chiaro — se appuntiamo l’attenzione sul fatto che la poesia è inscritta nel !° Marco Belpoliti (Primo Levi, cit., p. 122) traccia così la mappa temporale della produzione poetica leviana: «Il secondo gruppo di poesie (otto), stando sempre alla datazione di Levi, è stato scritto tra il 1949

e il 1965; ma è a partire dal 1975, dopo aver abbandonato il lavoro di chimico, che Levi intensifica la sua attività di poeta: venti testi tra il 1970 e il 1987 (Altre poesie, in Opere, vol. II, 1997)».

!" Cfr. Autoprefazione, in Ad ora incerta, p. 7.

CI

L’OSTERIA DI BREMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

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patrimonio genetico, perciò è fenomeno istintivo. Di istanza, si tratta. E di una istanza aperiodica (da qui «ad ora incerta»: cioè quando la poesia decide di farsi udire e non quando vogliamo che essa si manifesti) che quanto a genesi rivendica, pur senza affermarlo, un’ascendenza romantica in senso lato:

come dire che la poesia si fa da sé e non è fatta dal poeta, cui peraltro tocca il compito di rendersi mezzo e veicolo di essa e con un fine che ben si coniuga con la felice osservazione avanzata in proposito da Cesare Segre, che cioè le poesie di Primo Levi «contengono la quintessenza dell’opera, con qualcosa in più: l’elemento parenetico, esortativo e ammonitivo. Levi, cosf sobrio nel giudicare e restio nel predicare, in queste poesie si spinge più avanti, come se l’artificialità della forma contrappesasse la solennità del linguaggio».!!* La pareneticità sorretta da un linguaggio obiettivamente démodé, avulso e disarticolato dal gusto dei tempi, può costituire l’elemento che genera, secondo Franco Fortini, il sento-

re di una poesia antiquata, che il critico definisce — noi non siamo d’accordo — da «vecchio professore» di liceo.!! Più giusto credere che la critica e il critico sappiano meglio apprezzare ciò che si aspettano di sentire e nei modi con cui se lo aspettano. Intendiamo dire — non senza una punta di polemica — che non sono né la forma né il contenuto a rendere ragione del valore di un testo poetico, quanto la loro fusione, la congruenza e, insieme, il collante morale che li unisce.

Ora, nel sistema più ampio del sentimento e della riflessione, la criticata licealità della poesia di Levi perde ogni peso in quanto pura accidentalità che in niente infrange il messaggio, poiché serve a «puntualizzare, di volta in volta, momenti particolari della vita» e, specie, nelle prove più recenti, con una «sua forza originaria, una sua capacità di

incidere a fondo, nel segno dell’amarezza».! Procederemo per temi. 118 In Introduzione a Opere, 1988, vol. II (cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 123). 49 Cfr. FE. FORTINI, L’opera in versi, in AA.VV., Primo Levi. Il pre-

sente del passato, a cura del Consiglio regionale del Piemonte-Aned, Franco Angeli, Milano, 1991, pp. 137-140, n. 1; poi in E. FERRERO, Primo Levi: un’antologia della critica, cit., pp. 163-166. 120 Cfr, FE. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., pp. 136-137.

LE OPERE

96 a. L’universo e l’esistenza umana

C’è un’ossessione che tormenta lo scrittore. È la domanda che investe la finalità della vita, se essa sia escatologicamen-

te indirizzata o meno. L’interrogativo resta irrisolto, senza risposta e, in fine, fatalisticamente accettato dall’uomo e dal poeta, come si evidenzia in 2000:

Mille più mille: un traguardo, Un filo di lana bianco, non più così lontano, O forse nero o rosso. Chi lo potrebbe dire? Saperlo è infausto. Non è dato tentare D’interrogare i numeri di Babilonia." I pochi versi introducono il concetto dell’horror vacui: chi è l’uomo, dove va, cosa accadrà. La risposta pare sospensiva: «Chi lo potrebbe dire?». Dinanzi a un interrogativo antico come

il mondo, la soluzione per Levi non può che

venire da una voce antica e al tempo stesso amica e ben nota allo scrittore: Orazio. Il breve componimento, che prende le mosse da un medievale «mille e non più mille», è in realtà un adattamento e una libera ritraduzione dell’oraziana Leuconoe"? (la poesia del carpe diem): «Saperlo è infausto», traduce infatti lo scire nefas del primo verso oraziano; e ciò che segue è rivisitazione libera di nec Babylonios / temptaris numeros — dove però il dettato è più rigorosamente assertivo e iussivo in una forma imperativa che nega ogni possibilità di conoscenza: «non tentare gli oroscopi babilonesi». Ma il nucleo leviano resta pur sempre l’oraziano quem mihi, quem tibi / finem di dederint, che fine (o che scopo) gli dèi ci abbiano dato. In Levi la tradizione rappresenta l’elemento imprescindibile che è “tràdito” perché deve essere “tradfto” in nuove prospettive. Se Orazio trovava nel consiglio epicureo del carpe diem (maltradotto: vivi alla giornata) la regola da seguire, in Levi questo precetto viene a mancare: l’atteggiamento migliore è il silenzio, per una sorta di pietas che non !°! Cfr. 2000, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. I), p. 61.

!° Cfr. ORAZIO, Odi, I, 11.

L’OSTERIA DI BRÉMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

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viene mai meno o — per risalire ancor più indietro — per una religiosissima eufemìa in senso greco, quel silenzio su ciò che comunque è e rimane ineffabile, di cui empio sarebbe parlare. In questo senso Montale avrebbe risposto con un «La più vera ragione è di chi tace».!® L’idea cosmogonica del tempo, insistente in Levi, trae sostentamento da una radice di natura scientifica, ma prima ancora che da essa, sgorga da certe suggestioni dei poeti letti nel corso della preparazione liceale, da Lucrezio o da Esiodo. Se non sono le esplicite referenze a mostrarcelo, può farlo la solennità gravissima della forma, che assume toni di natura epico-lucreziana, come in Ne! principio, ove le teorie e le dottrine materialistiche — dalla filosofia greca ai moderni — sono addensate in un dettato cupo e solenne che rammenta il poeta del De rerum natura: Splendido, librato nello spazio e nel tempo, Era un globo di fiamma, solitario, eterno, Nostro padre comune e nostro carnefice,

Da quell’unico spasimo tutto è nato."

In Le stelle nere la visione — che non potremmo definire assolutamente pessimistica, quanto piuttosto naturalistica e scientifica nel suo catastrofismo — si approfonda ancor più, poiché la consapevolezza scientifica ha finito per togliere significato anche alla bellezza impenetrabile del cielo. «Le stelle d’oggi, visibili e invisibili, hanno mutato natura. Sono fornaci atomiche» scrive Levi in Notizie dal cielo, e il poeta si rammarica del fatto che la scienza abbia cancellato il mistero trasmettendoci non più «messaggi di pace né di poesia, bensì altri messaggi, ponderosi e inquietanti, decifrabili da pochi iniziati, controversi, alieni».'! È come se Levi volesse dire che questo ultimo secoloè il secolo stesso della ! Cfr. E. MONTALE, So l’ora in cui la faccia più impassibile, in Ossi di seppia. !4 Cfr. Nel principio, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), PRE !5 Cfr. Notizie dal cielo, in L’altrui mestiere, p. 174,

LE OPERE

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rivelazione e della fine, per cui nessuno deve più cantare «d’amore e di guerra»: La luce stessa ricade, rotta dal proprio peso, E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla,

E i cieli si convolgono perpetuamente invano." Ma se «tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla», come si pone l’esistenza nell’ordine naturale? Essa è

un «Puro brusio per simulare / Che il silenzio non sia silenzio», e se è questo, ancora una volta siamo dinanzi all’ horror vacui, la paura del vuoto.

Ce lo mostra Voci. Gli uomini sono «compagni di baldoria / Ubriacati come me di parole», che sono solo goffo tentativo di dimenticare, farmaco all’incertezza della certezza:

Il luogo O sordo. L’ultima L'ultima

per anestetizzarsi dinanzi

dove andiamo è silenzioso E il limbo dei soli e dei sordi. tappa devi correrla sordo, tappa devi correrla solo."

L'immagine conclusiva è in perfetta sintonia con «viviamo e moriamo per nulla» di Le stelle nere. In Sidereus nuncius e Scacchi (II)! è affrontato invece il

tema più concreto dei rapporti fra “singolo” ed “altri”, in due momenti diversi: uno grandioso, l’altro umile; il primo attraverso la simbolica figura di Galileo, il secondo grazie all’esempio dell’uomo anonimo e comune. Galileo finirà con il dire che L'avvoltoio che mi rode ogni sera Ha la faccia di ognuno. ‘° Cfr. Le stelle nere, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), p. 39.

!? Cfr. Voci, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), p. 55. La poesia rende omaggio al poeta francese Francois Villon citandone il v. 1720 di Le Testament. * Ambedue le poesie in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vob. ID, pp. 79 e 84.

L’OSTERIA DI BREMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

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Un Galileo-Titano, novello Prometeo che, dopo avere svelato i misteri della natura e del fuoco, proprio per questo viene punito, poiché la sua ragione, in contrasto con il conformismo del potere, finisce per essere elemento scomodo da emarginare e reprimere. In Scacchi (II) lo tesso incipit introduce un concetto ana-

logo: la necessità irrinunciabile dell’accettazione delle regole del gioco, delle convenzioni — o se vogliamo ampliare il discorso — dell’ineluttabilità dell’umana condizione, anche

dinanzi alla morte: «Per il poeta non è lecito barare, arroccarsi per finta, mentre è doveroso scrutare l’esistente senza

mai voltare gli occhi».! b. La deportazione e il Lager Al tema della deportazione e del Lager è dedicata Shemà, la più famosa delle poesie di Levi, il cui titolo trae origine dalla parola ebraica che significa «ascolta!». Datata 10 gennaio 1946, è la sintesi di Se questo è un uomo. Procede con lo

stesso andamento di certa salmodia e geremiade. Misurata, cupa, percorsa da un brivido di infelicità e orro-

re — eco ben presente delle sofferenze viste e vissute nel campo — Shemà contiene tutto il messaggio che Levi ha da lanciare e lasciare al mondo: Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi: Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri nati torcano il viso da voi.'” La maledizione è vibrante, ma non rancorosa: è severo

mònito al mondo perché ciò che è stato non abbia a ripetersi. ‘2 Cfr. M. RAFFAELI, Primo Levi, cit., p. 89. 30 Cfr. Shemà, in Se questo è un uomo (poi in L’osteria di Brema; indi in Ad ora incerta e in Opere, 1988, vol. II), p. 17.

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Alzarsi è la seconda più nota poesia di Levi.'! Essa riprende temi e motivi di un capitolo di Se questo è un uomo, le sofferenze e il sogno di Tantalo che comparivano in Le nostre notti: «Tornare; mangiare; raccontare», il recupero della libertà, il bisogno di sopravvivere, l’urgenza di narrare perché non si dimentichi cos’è stato. Al tempo stesso la breve lirica torna in parafrasi nell’ultima pagina di La tregua, che si conclude, appunto, con l’ordine di alzarsi: «Wstawab». Altrove — Il tramonto di Fossoli — la tensione appare più ammorbidita ed elegiaca, ingentilita e resa distante dal citazionismo che si serve di Catullo per esprimere considerazioni dolenti circa l’umano destino: Io so cosa vuol dire non tornare.

A traverso il filo spinato Ho visto il sole scendere e morire; Ho sentito lacerarmi la carne Le parole del vecchio poeta: «Possono i soli cadere e tornare: A noi, quando la breve luce è spenta, Una notte infinita è da dormire»!

Fòssoli rappresenta per il poeta quello che per Dante era stato l’ingresso nella selva oscura e nell’angusta valle, con tutto il tormento che può derivarne. Come Buna è l’inferno dantesco fatto realtà.'* La lirica, infatti, si apre pure con toni danteschi:

Voi moltitudine dai visi spenti, Sull’orrore monotono del fango E nato un altro giorno di dolore. !! Cfr. Alzarsi, in La tregua (poi in L’osteria di Brema; indi in Ad ora incerta e in Opere, 1988, vol. IT), p. 18. © Cfr. Il tramonto di Fossoli, in L’osteria di Brema (poi in Ad ora incerta e in Opere, 1988, vol. II), p. 24. Gli ultimi tre versi sono la tra-

duzione di Catullo, V, 4-7. !* Cfr. Buna, in L’osteria di Brema (poi in Opere, 1988, vol. ID, padss

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L’uomo disumanizzato e svuotato di ogni suo valore («Hai rotto dentro l’ultimo valore»), violentato e annullato nella sua volontà — fatto che per Levi è, come abbiamo detto,

il crimine maggiore che possa compiersi contro l’umanità — è posto al centro dell’attenzione con toni che, specie nella

terza strofa, assumono affettuose cadenze da Purgatorio:

Uomo spento che fosti un uomo forte: Se ancora ci trovassimo davanti Lassù nel dolce mondo sotto il sole, Con quale viso ci staremmo a fronte? \

L’indignazione del poeta è davvero il risultato di una educazione classica e liceale, mitemente incalzata com’è da un senso di pietà che: pare frutto di un’anima elegiaca, pur se occorre rilevare che in sé questa forma di coscienza del mondo non ha meno valore dello sdegno infuocato e irremissibile di un Dante fegatoso, vendicativo e irriducibile. Per istituire un paragone assurdo (o paradossale) — non più di tanto però, come accade per tutti i paradossi — potremmo giungere ad affermare che la poesia di Levi è, anch’essa,

più di quanto sia evidente e credibile, di ascendenza petrarchesca, come del resto tutta la lirica italiana.

Cantare può essere di sostegno a questa tesi. A che serve la poesia per Levi, oltre che a testimoniare? Serve a disacerbare il dolore, è antidoto contro la disperazione e il male

della vita, sia quello concreto che quello metafisico, rappresentato dall’horror vacui: «perché cantando il duol si disacerba» asseriva Petrarca.!* Ed ecco che in Cantare, pur nel-

l’amarissima tristezza dell’esperienza del Lager, si attinge l’oblìo: ... Ma quando poi cominciammo a cantare Le buone nostre canzoni insensate, Allora avvenne che tutte le cose Furono ancora com'erano state." 134 Cfr. F. PETRARCA, XXIII, 4.

35 Cfr. Cantare, in L’osteria di Brema (poi in Ad ora incerta e in Opere, 1988, vol. II), p. 14.

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Perfino morire diventa «una cosa lontana». E di fatto il canto attenua il dolore come una sorta di magica pozione, fa pensare ad altro, a «cose come le nuvole, / E difficili da spiegare», proprio perché esse nascono sotto l’effetto di una droga — quella stessa droga che il capo degli Arunde rifiuterà, preferendo il suicidio per sé e il suo popolo.'*° La liberazione dal campo di prigionia pesa come una condanna eterna sul capo del poeta. Ogni gioia è attenuata dalla consapevolezza del male passato, della pena assorbita fino nelle fibrille più intime. La consapevolezza del torto subìto nega ogni forma di euforia per le riconquistate identità e libertà. Pare questa la lezione che affiora da 25 febbraio

1944: Vorrei credere qualcosa oltre, Oltre che morte ti ha disfatta. Vorrei poter dire la forza Con cui desiderammo allora, Noi già sommersi, Di potere ancora una volta insieme Camminare liberi sotto il sole." Il dettato è estremamente scarno, prosastico e dolente; infine ancora avvolto, come accarezzato, da una tenerezza elegiaca soffice e sfumata. c. Il lavoro e la quotidianità

L'immagine del lavoro come assurda, immutabile ripetizione di gesti abituali e quasi condanna, è presente in Levi fino dal primo componimento, Crescenzago. Là erano correlativi oggettivi dell’idea le sirene che suonano all’alba per chiamare a raccolta gli operai e soprattutto il passeggiare della «nera e torva schiacciasassi ansante», in luci e colori di marca dantesca, che si affiancavano alla figura della ragazza

dietro a una finestra, una giovane che ° Cfr. Verso occidente, in Vizio di forma, p. 205. 4? Cfr. 25 febbraio 1944, in L’osteria di Brema (poi in Ad ora incerta e in Opere, 1988, vol. II), p. 15.

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Ha sempre l’ago e il filo nella destra, Cuce e rammenda e guarda sempre l’ora. E quando fischia l’ora dell’uscita Sospira e piange, e questa è la sua vita.!* Ma ancor più questa idea di ripetizione-condanna vibra nei versi di Lunedi, dove Levi dà carne al simbolo attraverso

l’immagine del treno «Che parte quando deve, / Che non ha che una voce, / Che non ha che una strada», per concludere che «Niente è più triste di un treno». Nella lirica l’immagine del cavallo da tiro è correlativo oggettivo dell’umana fatica: È chiuso fra due stanghe, Non può neppure guardarsi a lato. La sua vita è camminare.!® Così, con la solita tecnica anulare che gli è cara, il discor-

so di Levi torna al punto di partenza per sillogizzare che «anche un uomo è una cosa triste», e lo è forse proprio per il lavoro, che non cessa mai, pur costituendo al tempo stesso

un antidoto del dolore. Al tema della vita quotidiana che riprende è dedicata Un altro lunedi, che incede per giochi di parole e paradossi. Vi si fa, infatti, la lista dei buoni e dei cattivi, di coloro che fini-

ranno all’inferno (i giornalisti americani, i professori di matematica, i senatori e i sagrestani, i gatti e i finanzieri e in genere «Chi si alza presto alla mattina / Senza averne necessità»), e di coloro che invece andranno in paradiso (pescatori e soldati, bambini, cavalli e innamorati, assaggiatori di vino e «Quelli del primo tram del mattino / Che sbadigliano nelle sciarpe»). Il poeta conclude, quasi parodiando Lunedî, con esplicite rivisitazioni dantesche che attingono un vago sapore comico-grottesco:

!88 Cfr. Crescenzago, in L’osteria di Brema (poi in Ad ora incerta e in Opere, 1988, vol. II), p. 11. 139 Cfr. Lunedi, in L’osteria di Brema

Opere, 1988, vol. ID, p. 19.

i (poi in Ad ora incerta e in

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Così Minosse Dai megafoni Nell’angoscia Che intendere

orribilmente ringhia di Porta Nuova dei lunedî mattina non può chi non la prova."

Ma tormento del quotidiano — appena accennato dietro una disinvolta filastrocca — resta quell’«angoscia dei lunedf mattina» che ha l’amaro sapore dell’immutabile. In toni più arresi, sempre percorso da un brivido di morbida elegia, Approdo presenta una visione del mondo poco congrua a Levi. Vi si tesse l’elogio della quiete. La felicità dell’uomo è collocata nell’avere «raggiunto il porto», nella conclusione del viaggio «Che lascia — in toni danteschi — dietro sé mari e tempeste». Elogio della mediocrità, però. Perché quest'uomo che «siede e beve all’osteria di Brema» non ha più sogni, i suoi sogni «sono morti o mai nati». Per questo ha «buona pace»:

Felice l’uomo come fiamma spenta, Felice l’uomo come sabbia d’estuario, Che ha deposto il carico e si è tersa la fronte E riposa al margine del cammino. Non teme né spera né aspetta, Ma guarda fisso il sole che tramonta." Un testo, questo, tradotto-tradìto da Heine del Buch der

Lieder, che pone Levi in contraddizione con se stesso. È forse il caso di vedere nel componimento una pointe critica nei confronti del buonsenso comune, del conformismo tipico

dell’umanità che vive senza lode e senza infamia. Legata alla vita quotidiana della famiglia è /2 luglio 1980, dedicata al compleanno della moglie Lucia. Levi poeta non può donarle che «pochi versi scorbutici» per la sua festa. E il poeta si scusa con la sua «donna impaziente» che si tormenta perché la carne nuda le «faccia più male»: "° Cfr. Un altro lunedî, in L’osteria di Brema (poi in Ad ora incerta e

Opere, 1988, vol. II), p. 21. “! Cfr. Approdo, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. IM), p. 35.

L’OSTERIA DI BREMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

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Accetta, per favore, questi 14 versi, Sono il mio modo ispido di dirti cara, E che non starei al mondo senza te.!* La dimissione del dettato — umile, affettuoso, prosaico —

affonda radici in lontani echi di marca montaliana già nel tono della confidenza, ma pur anche nei «pochi versi scorbutici» che rammentano «qualche storta sillaba e secca come un ramo».'* Ma la figura femminile di Xenia sembra incombere anche nel verso finale:' «E che non starei al mondo senza te»; come dire che il poeta non potrebbe vivere senza la moglie, come vuota si è fatta per Montale la vita da quando la sua guida non può più aiutarlo a scendere le scale, metafora dell’esistenza. d. La memoria e il canto

Memoria e canto si fondono, si fanno strumento per fissare

l’esistenza; per sublimarla redimendola dalla disperazione. Memoria non solo del passato, vero anche del futuro, di ciò

che non si ha da perdere per le cose — molte — che abbiamo ancora da fare. È questo l’elemento tensivo che sorregge, con l’incredibile forza della disperazione, l’uomo annullato nel Lager che «grida di no da ogni fibra» dinanzi alla morte. E il tema di 11 febbraio 1946, lirica particolarmente intensa dedicata alla moglie. In essa Levi-poeta spiega il perché, pur posto dalla sorte fra i sommersi, sia riuscito a salvarsi: Cercavo te nelle stelle Quando le interrogavo bambino. Ho chiesto te alle montagne, Ma non mi diedero che poche volte Solitudine e breve pace. Perché mi mancavi, nelle lunghe sere Meditai la bestemmia insensata 2 Cfr. 12 luglio 1980, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), posi ‘4 Cfr. E. MONTALE, Non chiederci la parola, in Ossi di seppia. 144 Cfr. E. MONTALE, Xenia II, 5, in Satura.

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Che il mondo era uno sbaglio di Dio,

To uno sbaglio del mondo.'* Qui Levi assume la veste del vate e del profeta: certo di una realtà umile, all’interno di angusti orizzonti familiari, senza presunzione né velleità di salvare il mondo intero. Ciò che il poeta si aspetta negandosi alla morte è la sua donna, la sua presenza discreta a fianco: Tu con me accanto, come oggi avviene, Un uomo una donna sotto il sole." Altrove la memoria si fa universale in un canto meravigliosamente epico o estrapolato dall’epica come fosse un discorso diretto di un eroe, balzato fuori dagli esametri antichi che narrano mirabili imprese. E il caso di Plinio, dove la figura dello scienziato curioso — che ispira anche il titolo di Storie naturali — brilla di lampi di grandezza e tragedia sotto la colonna di fumo che si alza dall’eruzione vesuviana (24 agosto del 79 d. C.).

Ogni parlarne sarebbe un rovinare la bellezza dei versi liberi, che si estendono elastici come esametri latini. Arso dalla sete di conoscenza, lo scienziato palesa la sua decisione di assistere al fenomeno più strano che gli sia capitato. Non andrà lontano, «solo fino all’altra sponda». Ma quale? Quella del mare (e quella della vita) per osservare «quella nuvola fosca», per «scoprire donde viene questo chiarore strano».

E il momento del commiato dagli affetti familiari, con il

saluto al nipote cui vengono date le ultime disposizioni: Non vuoi seguirmi, nipote? Bene, rimani e studia; ricopiami le note che ti ho lasciate ieri.'‘” La narrazione segue il filo dell’epistola di Plinio il Giovane "° Cfr. /1 febbraio 1946, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol.

Il), p. 25. ! Cfr. ibidem. ‘’ Cfr. Plinio, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. IT), p. 41.

L’OSTERIA DI BREMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

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a Tacito.!* Il vecchio scienziato apre una riflessione sull’umana condizione con la serenità del filosofo che subito ammonisce:

La cenere non dovete temerla: cenere sopra cenere, Cenere siamo noi stessi, non ricordate Epicuro?! Mosso dallo stesso ineludibile stimolo che ha corrotto un dantesco Ulisse, Plinio s’avventura per cercare la verità da

cui trarre «un capitolo nuovo / Per i miei libri», che — si affretta a dire — «spero ancora vivranno» Quando da secoli gli atomi di questo mio vecchio corpo Turbineranno sciolti nei vortici dell’universo O rivivranno in un’aquila, in una fanciulla, in un fiore."

Nel cercare la verità, Plinio cerca se stesso e l’immortalità, che gli sarà comunque garantita sia attraverso gli scritti che attraverso la fisicità, nel moto eterno che cangia la mate-

ria di forma in forma senza mai distruggerla. La grandezza della sua figura sta proprio nella coscienza dell’eternità degli atomi. Più tenera e dolente, pure nello straordinario vigore delle immagini che si fanno anche violente, La bambina di Pompei innesca un involontario meccanismo di fusione. Non c’è distinzione fra dato storico e tragica persecuzione degli ebrei: [...] ti sei stretta convulsamente a tua madre

Quasi volessi ripenetrare in lei Quando al meriggio il cielo si è fatto nero." Di fronte alla cenere pietrificata, che ha incarcerato per

sempre le membra gentili della bambina rendendola «contorto calco di gesso, / Agonia senza fine», l’incessante pietas di Levi ‘# ! !5° is!

Cfr. Cfr. Cfr. Cfr,

PLINIO CEcILIO SECONDO il Giovane, Epistularum lib., VI, 16. Plinio, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), p. 41. ibidem. La bambina di Pompei, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988,

vol. II), p. 42.

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mostra un sussulto: agli dèi niente importa dell’ «orgoglioso nostro seme». In altre occasioni, dinanzi a condizioni estreme,

l’indignazione leviana si erge e si rivolge contro la divinità stessa con la «bestemmia insensata» del credere che il mondo è uno sbaglio divino e l’uomo uno sbaglio del mondo." Ma qui dal dolore scatta la memoria di un’altra vittima, Anna Frank, che non ha avuto dalla sorte il suo calco di gesso:

Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella, Della fanciulla d'Olanda murata fra quattro mura Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani: La sua cenere muta è stata dispersa dal vento, La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.'” E intanto riaffiora, nella «cenere muta», la suggestione catulliana del carme CI (... mutam...

cinerem), come già era

avvenuto in Foscolo. Ma l’assoluta libertà intellettuale di Levi, dovuta forse anche a una ben radicata sfiducia nell’uomo, fa sì che si accomuni agli altri esempi anche quello della scolara di Hiroshima «Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli». La condanna ignora lucidamente ogni forma di ideologia e di arrogante strumentalizzazione: la responsabilità umana è identica ovunque essa si manifesti, anche nei campi di Sabra e Chatila. È questa onestà intellettuale che fa dire a Levi, rivolto ai potenti del mondo: Tristi custodi segreti del tuono definitivo, Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.!*

Il superstite non può essere dimenticata in questa sommaria analisi, non foss’altro perché da essa è desunto il titolo della raccolta Ad ora incerta. Che Levi sia legato alla lettera‘? Cfr. 11 febbraio 1946, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol.

II), p. 25. ‘* Cfr. La bambina di Pompei, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), p. 42.

‘* Cfr. La bambina di Pompei, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), pp. 42-43.

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tura romantica da trame sottili e forse non ancora bene o del tutto esplorate non c’è dubbio. La sua stessa ricerca ossessiva di una verità che si trasforma anche in anelito all’eternità — spesso Levi pare naturalmente portato a rintracciare elementi di immanenza nella materia e nel cosmo — riconduce a una osservazione di Novalis: Wir suchen iiberall das Unbedingte und finden immer nur Dinge, «cerchiamo soprattutto l’assoluto e troviamo sempre soltanto cose». Ma l’idea stessa della genesi della poesia è di natura romantica, poiché individua nel poeta non il creatore, ma quasi una sorta di “trascrittore” delle parole poetiche che balenano intorno alla fiamma come «falene ubriache» intorno a un lume.'5 La memoria e il canto sono così uniti che quando l’una torna «ad ora incerta», sgorga necessariamente l’altro, con il più o meno dichiarato fine di fissare qualcosa che possa trasformarsi in precetto, in insegnamento; come accade al vecchio marinaio che in Coleridge ammonisce il giovane incontrato prima di una festa di nozze. E nell’insistenza del canto che chiede di essere ascoltato affonda la radice del concetto romantico di poesia come messaggio:

Dopo di allora, ad ora incerta, Quella pena ritorna,

E se non trova chi lo ascolti Gli brucia in petto il cuore." Il canto non può fare a meno di chi lo ascolti, di un pubblico quindi. Ed è il canto del Lager, con le sue atrocità, che si fa strada ed urge; con le ossessioni del Lager, il tema del

sogno di Tantalo che ricompare, e il tentativo di volersi negare da parte dell’ascoltatore, di chiudersi in difesa per non vedere, per esorcizzare il male che comunque regna nel mondo. Chi viene coinvolto cerca di tirarsi indietro rifiutando l’evidenza:

Fai Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. 15° Cfr. Un mestiere, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), p. 74. !s6 Cfr. Il superstite, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), p. 76.

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PINIA

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Ritornate alla vostra nebbia. Non è mia colpa se vivo e respiro E mangio e bevo e dormo e vesto panni. e. La natura rifugio o tormento

Per la natura rifugio o tormento è subito importante Crescenzago. In essa domina un paésaggio familiare, fatto di | umili cose, di atti ripetuti ogni giorno senza che vi sia possibilità di fuga: un piccolo universo, dagli orizzonti angusti, ma in sé perfetto e di sé pago, pure nel dolore e nelle difficoltà. La guerra è ancora lontana, remota la tragedia che presto si abbatterà sugli uomini: i ritmi della vita sono scanditi dal lavoro. Eppure ci sono tutti gli elementi dello stupore che avvalora questo microcosmo. In sestine che tradiscono «una struttura ancora scolastica e molto melodica»,'” con evidenti richiami a Dante, Leopardi e Carducci, in endecasillabi, ecco

comparire la quotidianità della periferia milanese: Tu forse non l’avevi mai pensato, Ma il sole sorge pure a Crescenzago. Sorge, e guarda se mai vedesse un prato, O una foresta, o una collina, o un lago; E non li trova, e con il viso brutto Pompa vapori dal Naviglio asciutto. Dai monti il vento viene a gran carriera, Libero corre l’infinito piano. Ma quando scorge questa ciminiera Ratto si volge e fugge via lontano, Ché il fumo è così nero e attossicato che il vento teme che gli mozzi il fiato. Nel paesaggio suburbano «le vecchie siedono a consumare l’ore / E a numerar la pioggia quando cade»; i visi dei bambini hanno il colore «della polvere spenta delle strade»; le donne «non cantano mai» perché niente c’è da cantare, se ‘? Cfr. M. RAFFABLI, Primo Levi, cit., p. 45. '* Cfr. Crescenzago, in L’osteria di Brema (poi in Ad ora incerta e

Opere, 1988, vol. II), pp. 11-12.

L’OSTERIA DI BREMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

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non fatica e ripetizione di un’esistenza non gratificante rappresentata dalla ragazza che sta dietro la finestra «sospira e piange, e questa è la sua vita». L’assurda ripetizione dei gesti quotidiani, la scansione settimanale dei ritmi della vita è già qui presente: sarà un tema caro a Levi che ricomparirà, ad esempio, in Visto di lontano, nel rapporto del selenita che dirà: «Un certo numero di fenomeni osservati sulla terra segue un ritmo di sette giorni. [...] Il ritmo settimanale è estremamente

rigido».!°

Perfino l’amore seguirà questa regola, perché gli uomini di Crescenzago «Fanno l’amore di sabato sera / Nel fosso della casa cantoniera». Eppure è un universo ancora tranquillo, una sorta di rifugio, di porto sicuro. Particolarmente significativo per una visione del mondo come inutile fatica e speranza senza speranza sembra Cuore di legno. In questo componimento Levi poeta esprime, con una sintesi felice, la regola che domina: continuare; quella stessa regola che verrà fortemente posta in discussione in Verso occidente, ove si traccia una sorta di paradossale “elo-

gio del suicidio”. L’inspiegabile sta proprio nella capacità della natura vegetale di rinnovarsi ogni anno, nonostante tutto e tutti. Nella poesia non domina, tuttavia, il senso feroce del niente: ’è, al contrario, affetto e tenerezza disperata, una affabilità

stupita dinanzi al miracolo incomprensibile che si ripete. Il vicino di casa di Levi, un ippocastano di corso re Umberto

Ha la mia età ma non la dimostra. Alberga passeri e merli, e non ha vergogna, In aprile, di spingere gemme e foglie, Fiori fragili a maggio, A settembre ricci dalle spine innocue Con dentro lucide castagne tanniche. È un impostore, ma ingenuo: vuole farsi credere Emulo del suo bravo fratello di montagna Signore di frutti dolci e di funghi preziosi. Non vive bene. Gli calpestano le radici 159 Cfr. Visto di lontano, in Vizio diforma, p. 223.

LE OPERE

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I tram numero otto e diciannove

Ogni cinque minuti; ne rimane intronato E cresce storto, come se volesse andarsene. Anno per anno, succhia lenti veleni Dal sottosuolo saturo di metano;

È abbeverato d’orina di cani, Le rughe del suo sughero sono intasate Dalla polvere settica dei viali;

Sotto la scorza pendono crisalidi Morte, che non saranno mai farfalle.!®

Una condizione, dunque, aspra e difficile per una normale sopravvivenza; particolarmente dura e poco edificante, Eppure, nel suo tardo cuore di legno Sente e gode il tornare delle stagioni.'°

A volte, come in questo caso, si ha l’impressione che l’uomo superi ogni riserva e si arrenda. Ed è proprio nei momenti in cui la ragione si lascia vincere dalla pietas che l’effetto poetico è più vivo e convincente. Il senso panico e animistico — Levi vive la natura come se avesse un’anima: si pensi, a esempio, a certe pagine di La tregua, come Il bosco e la via — trova qui una conferma e una piena legittimazione: anche in mezzo al frastuono attossicato della città, a pochi passi dalle abitazioni degli uomini. Certo è una natura umiliata dagli uomini, ma pur sempre viva e pronta a rispondere al messaggio del proprio codice genetico. Fra l’altro, occorre anche notare che l’idea della longevità delle piante è un altro dei temi leviani che ricompare in // fabbro di se stesso, in cui gli alberi sono definiti «quasi immortali».'° «Noi molti, noi pubblico, siamo ormai assuefatti come bambini viziati: il rapido susseguirsi dei portenti spaziali sta spegnendo in noi la facoltà di meravigliarci.» Quando Levi scrive queste parole su «La Stampa» (1969) in un articolo ‘° Cfr. Cuore di legno, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol.

Il), p. 48. ‘©! Cfr. ibidem. ‘© In Vizio diforma, p. 330.

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L’OSTERIA DI BREMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

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intitolato La luna e noi, in occasione del primo sbarco di

astronauti sul satellite terrestre, esprime un’altra briciola della sua allarmata preoccupazione." La luna non è più per lo scrittore quella che era il 28 giugno 1946 quando scriveva Avigliana, una sorta di idillio, giocato prosasticamente su versi che rifiutano ogni forma di aulicità a vantaggio di un’espressione più intima e pudica. La figura femminile, persona assente, priva il paesaggio di ogni valore immediato e apre il varco alla nostalgia, il tema che sarà poi dell’«Heimweh». La notte di luna piena che non va sprecata («Guai a chi spreca la luna piena, / Che viene solo una volta al mese») perde tutti i connotati magniloquenti per un moto volontario di Levi-poeta che preferisce il raccoglimento: ... E c’è perfino un usignolo, Come nei libri del secolo scorso;

Ma io gli ho fatto prendere il volo, Lontano, dall’altra parte del fosso: Lui cantare ed io stare solo, E davvero una cosa che non va.'

Il poeta, invece, ammette la presenza delle lucciole. Ed è questo il discrimine che ci fa capire la scelta: i valori, quelli più veri, appartengono al mondo della semplicità. Le lucciole non sono importanti solo perché nel loro nome rammentano a Levi la donna amata (Lucia Morpurgo, che sarà sua moglie), ma soprattutto perché sono «bestiole così miti e care / Che fanno svaporare ogni pensiero» che non sia legato all’intimità di un mondo semplice: E se un giorno ci vorremo sposare,

Spero che venga di giugno, quel giorno, E ci sian lucciole tutto intorno

Come stasera, che tu non sei qui.'° !6 Cfr. La luna e noi, in L’altrui mestiere, p. 21.

‘6 Cfr, Avigliana, in L’osteria di Brema (poi in Ad ora incerta e in Opere, 1988, vol. II), p. 28

!5 Cfr. ibidem.

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Il tema della natura violata, che perde ogni punto di riferimento, si fa avanti in toni indignati in / gabbiani di

Settimo, simbolica rappresentazione della dissoluzione dell’ordine costituito. Gli animali, che Levi definisce «i signori del cielo» con una solennità che rammenta gli albatri baudelairiani — tanto maestosi in aria quanto goffi allorquando les hommes d’équipage li catturano e li costringono a muoversi sui ponti delle navi —, qui razzolano nelle discariche dei centri urbani e vengono sviliti al ruolo di spazzini. Questi animali, dicevamo, Ingolositi dalle nostre ignobili Discariche, d’ansa in ansa più pingui, Hanno esplorato le nebbie di Caorso, I rami pigri fra Cremona e Piacenza, Retti dal fiato tiepido dell’autostrada, Stridendo mesti nel loro breve saluto. Fuggendo il mare, attratti dalla nostra abbondanza.'*

Ed ecco un paesaggio concreto che si fa paesaggio spirituale e metafisico lungo i rami del Po che vanno lenti, e i ret-

tilinei dell’autostrada, che segnano una via senza ritorno, mentre «i signori del cielo» piangono di quello stridìo mesto che diventa il pianto della natura. Gli uomini sono perfino capaci di far perdere la memoria agli altri esseri animati: i gabbiani, «immemori del passato, frugano i nostri rifiuti». Ma attenzione a quel «nostri rifiuti» che occupa nel verso finale la stessa posizione riservata — due versi prima — alla «nostra abbondanza». Un giudizio leviano, dato — diremmo con Tacito — sine ira et studio, senza partigianeria, con ragionata severità, in un parallelismo verticale che accomuna abbondanza e rifiuti. Ancora più cupa e dolorosa l’esperienza della Meleagrina, che, parlando in prima persona, da ostrica qual è, attaccata al proprio scoglio, vive una vita simile a quella umana. Levi è perfetto osservatore: sa trarre, dal “micro”, la ‘© Cfr. / gabbiani di Settimo, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988,

vol. IT), p. 45.

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regola che domina anche il macrocosmo. L’uomo, «sanguecaldo precipitoso e grosso» ha fratelli anche altrove, pur se non vuole vederlo; fra gli altri viventi, che adopera indiscriminatamente («Che cosa sai di queste mie membra molli / Fuori del loro sapore? Eppure / Percepiscono il fresco e il. tiepido, / E in seno all’acqua impurezza e purezza»): E se, murata fra le mie valve pietrose, Avessi come te memoria e senso,

E, cementata al mio scoglio, indovinassi il cielo? Ti rassomiglio più che tu non creda, Condannata a secernere secernere Lacrime sperma madreperla e perla.' La vita umana recupera la propria immagine nell’allegoria dell’ostrica, così fissa in ritmi ripetitivi: dolore, riproduzione, lavoro e creatività («Lacrime sperma madreperla e perla»). Come l’uomo — ammonirà l’ostrica — «se una scheggia mi ferisce il mantello, / Giorno su giorno la rivesto in silenzio».

f. La poesia Il senso dello smarrimento dinanzi all’opera compiuta, nuova sorta di sacro horror vacui, domina in Levi poeta che ha ormai generato la perla, una perla pronta per essere strappata a chi la generò. «Ad ogni opera nata muori un poco», scrive Levi in L’opera.'* Il labor limae, il lavoro di cesello della forma che si realizza nelle scelte esatte — massima aspirazione di Levi letterato e scienziato — è concluso ed «Ecco, è finito: non si tocca più», l’opera non può subire altre manipolazioni. «Come un veggente che guidi un cieco, / Come una dama che ti guidi a danza» la penna «Era così leggera poco prima, / Viva come l’argento vivo»: il poeta non doveva fare altro che seguirla, perché era la penna a guidare la mano — un altro modo, garbato, vago, per indicare l’urgenza del mes!6? Cfr. Meleagrina, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), p. 72. ‘ Cfr. L’opera, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. IT), p. 67.

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saggio che doveva farsi strada; per ribadire il concetto che l’opera ha un’origine arcana indipendente da volontà. Il problema si sposta ora sul «Che fare, adesso? Come staccarsene?», poiché l’opera compiuta — parte dell’uomo che muore e si cancella — ne perpetuerà l’esistenza come applicazione non fisica della legge di Lavoisier. E dinanzi all’uomo che scrive si apre una smagliatura, un gap, l’ignoto. Il momento che precede l’opera è rappresentato in Un mestiere. Nel componimento Levi ci illustra il suo concetto di ispirazione: Non hai che da aspettare, con la biro pronta: I versi ti ronzano intorno, come falene ubriache;

Una viene alla fiamma e tu l’acchiappi. Certo non è finito, una non basta, Ma è già molto, è l’inizio del lavoro."°°

La «fiamma» — urgenza del messaggio — è il catalizzatore delle «falene». La biro non è che il mezzo, lo strumento con

cui fissare sul foglio le parole che s’avvicinano troppo e vengono catturate. L'immagine della falena è antica. E presente nella poesia amorosa anche provenzale e prestilnovistica. Compare — ad esempio — in Chiaro Davanzati che si definisce «parpalion», falena appunto, che «fère a la lumera», che finisce per bruciarsi sulla fiamma; ricompare in Petrarca.'" Ma mentre nella tradizione l’immagine viene a indicare l’uomo che è bruciato dalla bellezza femminile, nuovo senso dà Levi alla metafora.

La forma ha importanza? In sostanza no. Perché le «falene ubriache» saranno

Semplici e quete e serve al tuo comando: Il padrone sei tu, non si discute.'”! La scelta finale spetta al poeta-artefice, che può essere «Caligato e togato, /Ammantato di bisso, laureato», ricalcando un concetto montaliano che compare in / limoni. Ma l’im° Cfr. Un mestiere, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), p. 74. MEG fr. FIPETRARCANCKILIN2:

169

‘" Cfr. Un mestiere, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), p. 74.

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L’OSTERIA DI BREMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

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portante è avere la «cura di non presumere», non sentirsi, cioè, genio-creatore. E anche stavolta Levi evidenzia un’idea di poesia che attinge il senso attribuitole da Platone nello Zone, ove è la divinità la vera artefice, e l’uomo, attraverso l’enthustasmòs, non è che il veicolo, il recettore del messaggio, il tra-

slitteratore senz’altro merito che quello di fare da tramite tra le idee e il mondo sensibile. Concetto che sarà romantico. Stretto legame con la tradizione letteraria, in Levi; anche in senso antiletterario. Una sorta di contraddizione che non si contraddice, dato il personaggio e certi suoi gusti di natura tardosofistica e lucianea. Antiletterarietà demistificante che è ben rappresentata in Pio, componimento-controcanto al sonetto carducciano:!”? Pio bove un corno. Pio per costrizione, Pio controvoglia, pio contro natura, Pio per arcadia, pio per eufemismo. Ci vuole un bel coraggio a dirmi pio E a dedicarmi perfino un sonetto." Il bove si indigna con il «professore, / Dotto in greco e latino, Premio Nobel». Ne mette in luce il conformismo topico e vieto che compie la più atroce delle violenze ai danni dell’animale: «La violenza di farmi non violento». Ma è un momento,

questo; uno dei tanti possibili in Levi, dominati

dal gusto permeato di sofisma: un paradosso didattico e didascalico al tempo stesso. Il bove carducciano è solo spunto, in chiave di corrosivo divertissement, per poter negare il conformismo letterario. La funzione che Levi delega alla poesia è argomento della ottava strofa di Agenda: In una notte come questa un poeta Tende l’arco a cercare una parola Che racchiuda la forza del tifone Ed i segreti del sangue e del seme.'” "Cfr. G. CARDUCCI, // bove, in Rime nuove.

"È Cfr. Pio, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. ID) p. 83. ‘7 Cfr. Agenda, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. I), p. 93.

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Il poeta-recettore «tende l’arco a cercare una parola», una parola-strale che abbia la forza del tifone, sconvolgente nella sua irriducibile verità, nella quale è forse possibile cogliere un qualche richiamo a forme di nominalismo aristotelico. Ben nascosta, invece, l’ascendenza dell’immagine, non improbabile se fatta risalire a Carducci e alla sua dichiarazione di poetica nel Congedo di Rime nuove, dove il poeta, nella fucina, crea uno strale d’oro che lancia contro il sole e si diletta a vedere come esso risplenda. Alla forza del tifone si aggiungono in Levi «i segreti del sangue e del seme», elemento ossessivo (si pensi a Lilît). D'altronde il concetto di parola/strale-messaggio di verità è coerente, se

in un’intervista del 1987 Levi dichiara di scrivere non per sé, ma per gli altri: «Non credo sia giusto scrivere per se stessi. Naturalmente, libero chiunque di farlo, non reca danno a nessuno: ma mi sembra tempo buttato».'? Dunque il valore della scrittura come messaggio è rivendicato appieno, e, in quanto tale, il messaggio deve essere significativo e didascalico. Ancor più evidente la funzione della scrittura (anche poetica) si condensa nelle parole di Delega. Con il “tu” confidenziale caro al Novecento e a Montale — di cui, peraltro,

Levi echeggia, nel tema della «chioma delle comete», i «ghiaccioli / che raccogliesti traversando l’alte / nebulose» —,!”° il poeta invita il lettore a sobbarcarsi, pur perplesso, il dovere di portare avanti l’umanità senza nulla chiedere e nulla sperare, ma con ostinazione, pazienza, umile rassegnazione. E bensì vero che Levi basa la sua educazione sulla filosofia fisica — dagli antichi ai moderni, dagli atomisti a Epicuro a Einstein — ma qui pare contemperare le sue acquisizioni con i dettati di uno stoicismo eclettico quale potrebbe essere quello di un Seneca delle Lettere a Lucilio;'” una sag! Cfr. R. Di CARO, Il necessario e il superfluo, in «Piemonte Vivo», n. 1, 1987; poi in M. BELPOLITI, Primo Levi. Conversazioni e interviste

1963-1987, cit., p. 197. © Cfr. E. MONTALE, Ti libero la fronte, in Le occasioni, Mottetti II. !” Cfr. SENECA, Ep. ad Lucil., CIV, 12: Si sapis, alterum alteri misce:

nec speraveris sine desperatione nec desperaveris sine spe, «Se sei saggio mescola l’una cosa all’altra: non sperare senza disperazione, non

disperare senza speranza».

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gezza pratica, spicciola, utile a trovare la forza interiore per resistere, valorizzando gli àmbiti del privato e dell’io:

Non spaventarti, se il lavoro è molto: C'è bisogno di te che sei meno stanco. Poiché hai sensi fini, senti

Come sotto i tuoi piedi suona cavo.!”8 E a questo punto che l’insegnamento viene pienamente espresso: « Rimedita i nostri errori: C'è stato pure chi, fra noi, S'è messo in cerca alla cieca

Come un bendato ripeterebbe un profilo, E chi ha salpato come fanno i corsari, E chi ha tentato con volontà buona. Aiuta, insicuro. Tenta, benché insicuro, Perché insicuro. Vedi

Se puoi reprimere il ribrezzo e la noia Dei nostri dubbi e delle nostre certezze.!” Ma soprattutto, conclude il poeta, «Non chiamarci maestri», non credere, cioè, che il passato debba essere acritica-

mente accettato come esempio da seguire, come una felice età dell’oro in cui tutto è stato bello e niente negativo. Non è così perché gli uomini hanno «costruito Auschwitz e distrutto Hiroshima» — una coppia di opposti che si identificano nell’ossimoro che chiude la dimostrazione.

La chiave a stella Protagonista del romanzo, pubblicato da Einaudi nel 1978, è

Tino Faussone, operaio specializzato che lavora come montatore di tralicci e ponti di ferro. La gestazione dell’opera è più o meno contemporanea a // sistema periodico, ma la sua '* Cfr. Delega, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. ID), p. 108. 1° Cfr. ibidem.

LE OPERE

120

genesi parte da più lontano. È infatti fino dagli anni de La tregua che Levi pensa di dedicare la propria attenzione al mondo del lavoro e alle sue problematiche. Pensa di scrivere una storia con il titolo di // doppio legame. Non sarà così. Ne resteranno, invece, gli appunti di racconti orali narrati allo scrittore e serviranno a La chiave a stella. Il principio genetico del libro lo troviamo in un racconto del 1977, che Levi pubblica su «La Stampa» con il titolo di Meditato con malizia. Vi compare Tino Faussone, e il racconto, con alcune correzioni, sarà il primo capitolo del nuovo libro. La chiave a stella nasce in poco più di un anno. Anch’essa è formata da capitoli-racconto come Se questo è un uomo e La tregua. La compongono quattordici quadri riuniti all’interno di una cornice che dà loro unità e continuità." Nella doppia veste di narratore e ascoltatore, Levi è il tramite dell’operaio che racconta la sua vita e le esperienze di lavoro, allo stesso modo con cui lo hanno fatto altri personaggi della letteratura: il Giovannin Bongee di Carlo Porta — come ha suggerito lo stesso Levi — oppure Tewje il Lattivendolo di Schalòm Alechém.! Nel narrare i suoi incontri con personaggi molto particolari, Faussone si serve di un linguaggio diverso perché deve rappresentare anche «un vivere diverso» da quello dello scrittore." Ed è proprio la lingua l’elemento di novità: un italiano con forti piemontizzazioni desunto dal lessico caratteristico degli operai metalmeccanici, accompagnato anche da termini tipici dei «linguaggi settoriali» (cioè delle lingue tecniche delle varie discipline del lavoro), ma anche da espressioni del gergo furbesco cittadino. «Meditato con malizia» ci presenta un Faussone sui trentacinque anni, «alto, secco, quasi calvo, abbronzato, sempre ben rasato»: !# I capitoli sono: «Meditato con malizia», Clausura, L’aiutante, La ragazza ardita, Tiresia, Off-shore, Batter la lastra, Il vino e l’acqua, Il ponte, Senza tempo, La coppia conica, Acciughe I, Le zie, Acciughe II. All’inizio Levi, richiamandosi a Manzoni, aveva pensato al titolo di Vile Meccanico,

'*' Alechém (il vero nome era Rabinovic) è uno scrittore yiddish. "#° Così Levi giustifica le proprie scelte in una intervista in «Uomini e Libri», n. 72, gennaio-febbraio 1979.

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Non è un gran raccontatore: è anzi piuttosto monotono, e tende alla diminuzione e all’ellissi come se temesse di apparire esagerato, ma spesso si lascia trascinare, ed allora esagera senza rendersene conto. Ha un vocabolario ridotto, e si esprime spesso attraverso luoghi comuni che forse gli sembrano arguti e nuovi; se chi ascolta non sorride, lui li ripete, come se avesse da fare con un tonto."* L'etica del personaggio è elementare («Se uno sta a casa sua magari è tranquillo, ma è come succhiare un chiodo. Il mondo è bello perché è vario») ed è su questo presupposto che per l’operaio-montatore il mondo deve essere visto e girato in lungo e in largo, sempre con l’imprescindibile assunto che «montare una gru è un bel lavoro, e un carro-ponte ancora di

più», dato che il modo per avvicinarsi il più possibile alla felicità è svolgere il proprio lavoro con la massima cura possibile. La prima storia che Faussone racconta è quella di un processo che segue a una ribellione di operai scatenata da un disservizio di mensa. Uno degli operai ha fatto «la fisica» — cioè il malocchio — al padrone del cantiere. Ha adoperato la foto del datore di lavoro per una sorta di rito magico che infine si è ritorto contro di lui. Ha spiegazzato, bruciacchiato e sforacchiato la foto, finché «a fine aprile il padrone si è ammalato» e poi «in dieci giorni è morto»: La famiglia ha denunciato gli operai per omicidio, anzi, per «assassinio meditato con malizia». Mi hanno detto che laggiù si dice così. Hanno dei tribunali, può capire, che è meglio non cascargli nelle unghie. Non hanno un codice solo, ne hanno tre, e scelgono uno o l’altro secondo che fa comodo al più forte, o a chi paga di più.'* Si scopre così che il processo non solo non è ancora concluso al momento della narrazione, ma che durerà ancora per un bel pezzo — una sorta di artificio che permette allo scrittore di continuare a narrare le vicende faussoniane; la cerniera 183 Cfr. «Meditato con malizia», in La chiave a stella, p. 3.

!8 Cfr. «Meditato con malizia», in La chiave a stella, p. 8.

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LE OPERE

di passaggio, insomma, al racconto successivo che si intitola Clausura. Esso ha come tema il ricordo di una brutta avventura capitata al “meccanico”. Dopo avere montato una torre di raffreddamento per un impianto industriale, il proprietario della fabbrica lo richiama precipitosamente poiché la struttura ha dei sussulti inspiegabili che si alternano a intervalli di cinque minuti. Scopriremo che il materiale ceramico calato nel cilindro si è sfarinato, creando una sorta di tappo alla base; e toccherà a Faussone entrare nel cilindro di ferro per

apportare modifiche interne alla struttura. Da qui il titolo. Chiuso all’interno di essa, il meccanico soffrirà di attacchi di claustrofobia. Ma vediamo come lui stesso racconta questa avventura. Più che tutto, mi sentivo la testa andare in giostra: mi

tornavano in mente tante cose che avevo dimenticate da un pezzo, quella sorella di mia nonna che si era fatta monaca di clausura, «chi passa questa porta—non vien più fuori né viva né morta»; e i racconti che si facevano al paese, di quello che l’avevano messo nella bara e sotterrato e poi non era morto e di notte nel camposanto batteva coi pugni per uscire. Mi sembrava anche che quel tubo diventasse sempre più stretto e che mi soffocasse come i topi nella pancia dei serpenti, e guardavo in su e vedevo la cima lontana lontana, da raggiungerla a passetti di mezzo metro per volta, e mi veniva una gran voglia di farmi tirare fuori, ma invece resistevo perché dopo tutti i complimenti che mi avevano fatto non volevo fare una figura. Insomma ci ho messo due giorni, ma non mi sono tirato indietro, e in cima ci sono arrivato. Però devo dirle che dopo di allora, ogni tanto, così all’improvviso, quel senso di topo in trappola mi ritorna: più che tutto negli ascensori."

Faussone rivive il tempo e il senso della sua prigionia attraverso le parole di Levi, che presta al personaggio la sua !© Cfr. Clausura, in La chiave a stella, p: 25.

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memoria di Auschwitz. La conclusione è brevissima e termina con queste parole:

A scuola mi avevano insegnato il concavo e il convesso: bene, io sono diventato un montatore convesso, e i

lavori concavi non fanno più per me. Ma se non lo dice in giro è meglio.!8° L’operaio non vuole passare per pavido, deve difendere la propria onorabilità di lavoratore particolarmente esperto e bravo. In La ragazza ardita il “meccanico” rivela un’altra delle sue qualità. Oltre l’orgoglio del mestiere, conosce anche pudore e riservatezza. L'episodio in cui narra un’avventura tra l’erotico e l’amoroso elide ogni particolare più esplicito. Il fatto gli permette anche di sentenziare sul rapporto a due secondo i principi di un’etica popolare e spicciola, quanto aderente alla praticità della vita quotidiana. Il desiderio di una vita normale, non girovaga, da persona che ha famiglia e vive una esistenza normale, fa dire a Faussone: [...] uno è meglio se va alla Fiat, almeno quando torna a casa si mette le pantofole e va a letto con la moglie. È una tentazione, sa: è un rischio, specie se ti sbattono

in certi paesi. No, non questo: qui son rose e fiori. E una tentazione, le dicevo, quella di mettere berta in

sacco, maritarsi e farla finita con la vita dello zingaro. Eh sì, è proprio una tentazione." Da qui nasce la confessione onde si estrapola — ma attraverso parole povere — il concetto leopardiano del fascino dei prodromi e dei sogni nella spasmodica attesa della novità e dell’evento. Faussone è andato a letto con una ragazza, ma confessa con straordinario candore: Poi l’abbiamo attaccato, il discorso, non c’è stata nes!86 Cfr. Clausura, in La chiave a stella, p. 26. 8? Cfr. La ragazza ardita, in La chiave a stella, p. 37.

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suna difficoltà, voglio dire che siamo andati a letto

insieme, tutto regolare, niente di speciale; ma ecco, una cosa gliela volevo dire: che il momento più bello, quello che uno si dice «questo non me lo dimentico mai più, finché vengo vecchio, finché tiro gli ultimi», e vorrebbe che il tempo si fermasse lì come quando un motore s’ingrippa: bene, non è stato quando siamo andati a letto, ma prima. È stato alla mensa della fab-

brica del commendatore: ci eravamo seduti vicini, avevamo finito di mangiare, parlavamo del più e del meno, anzi, mi ricordo perfino che io le stavo raccontando del mio caposervizio e della sua maniera di aprire le porte, e ho tastato la panca alla mia destra, e c’era la sua mano, e io l’ho toccata con la mia, e la sua non se n’è andata e si lasciava carezzare come un gatto. Parola, tutto il resto che è venuto dopo, è stato anche abbastanza bello, ma conta di meno.!88

All’improvviso il ritmo narrativo si distende assumendo i toni di una sottile nostalgia di natura epica in senso lato, ancor più sottolineata dalla paratassi ripetuta e insistita; una medialità espressiva che concatena le emozioni proprio nell’istante in cui le trasforma in pensieri e parole, rese più vere e persistenti nella loro quasi fulminea fugacità. Come Lucia dà l’addio ai monti in puro lirismo, Faussone canta l’ormai “caduto nel nulla”, che — per usare un’espressione cardarelliana — «lungamente ci dice addio». Ma Levi, rinnegando Manzoni, adatta le emozioni al linguaggio del suo «vile meccanico» e ce lo rende per questo ancor più vibrante e vivo, vicino in un quotidiano senza pretese. A questo processo di volgarizzazione, Levi applica — non si sa bene con quanta consapevolezza, ma molto probabilmente in maniera inconscia —'° il suo schema ritmico-poetico, la sua versificazione, quella — per intendersi — connaturata al suo stesso codice genetico. "* Cfr. La ragazza ardita, in La chiave a stella, p. 43. "* Riguardo all’inconsapevolezza degli scrittori, si veda Perché si scrive? in L'altrui mestiere: «[...] non sempre uno scrittore è consapevole dei motivi che lo inducono a scrivere [...]»; qui in Autopresentazione.

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E curioso il procedere delle frasi che sembrano versi non scanditi, con lo stesso ritmo rintracciabile in Agli amici, che scorre dimessamente e con toni caproniani.'’ Merita, credia-

mo, fare l'esperimento di tradurre-tradire il testo, trasformandolo in versi per prendere maggiore coscienza del fenomeno, che non è unico né esclusivo di La chiave a stella:'” Poi l’abbiamo attaccato, il discorso, non c’è stata [nessuna] difficoltà, voglio dire che siamo andati a letto insieme, [tutto] regolare, niente [di] speciale; ma ecco, una cosa gliela volevo dire: [che] il momento

più bello, quello che uno si dice «questo non me lo dimentico mai più, finché [di]vengo vecchio, finché tiro gli ultimi», e vorrebbe

che il tempo si fermasse lì come quando un motore s’ingrippa: bene, non è stato quando siamo andati a letto, ma prima. E stato alla mensa della fabbrica [del commendatore]: ci eravamo seduti vicini, avevamo finito [di] mangiare,

parlavamo del più e del meno, anzi, [mi] ricordo perfino che io le stavo raccontando del [mio] caposervizio e della sua maniera di aprire le porte, e ho tastato la panca alla mia destra; e c’era la [sua] mano, e io l’ho toccata con la mia, e la sua non se n’è andata e si lasciava carezzare come un gatto. Parola, tutto ‘90 Cfr. Agli amici, in Ad ora incerta (poi in Racconti e saggi, 1986; e Opere, 1988, vol. Il), p. 106. Ma si vedano anche certi versi di Lunedio

Cantare. !9! Lo stesso accade, per esempio, in Clausura, nel capoverso che inizia: «Quando il traliccio è stato finito in tutti i suoi trenta metri [...]», p. 123

LE OPERE

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il resto che è venuto dopo è stato anche abbastanza bello, ma conta di meno.

Escludendo le parole racchiuse fra le parentesi quadre, i versi sarebbero più regolari, ma chi è buon lettore di Levipoeta sa bene che l'anomalia, il «vizio di forma» — ipèrmetro o ipòmetro che sia — è usuale in lui: ciò che testimonia, a nostro avviso, l’origine prima della sua poesia nella prosa, la radice originaria della sua prosa nella poesia, non intesa come perfezione formale, ma piuttosto come fonte archetipica di emozione, scarto suggestivo, folgorazione: in altri termini «falena ubriaca» che s’avvicina alla fiamma." Subito dopo Faussone traccerà il limite invalicabile della propria confessione («Ma insomma, lei vuole proprio sapere tutto») e si limiterà a tornare a considerazioni su ciò che

Gozzano avrebbe definito «le rose che non colsi», le occasioni perdute: Sposarla, non la sposo: primo per il mio mestiere, secondo perché... sì, insomma, prima di maritarsi uno bisogna che ci pensi sopra quattro volte, e prendersi una ragazza come quella, brava, poco da dire, ma furba come una strega, bene, non so se mi spiego. Ma neanche a metterci una pietra sopra e a non pensarci più non sono buono. Ogni tanto vado dal mio direttore e mi faccio mandare in trasferta in quel paese, con la scusa delle revisioni. Una volta è piombata qui a Torino, in ferie, con addosso i blugins tutti stinti sui ginocchi, in compagnia di un ragazzo di quelli con la barba fino negli occhi, e me l’ha presentato senza fare una piega: e neanche io l’ho fatta, una piega; sentivo come una specie di bruciacuore, qui alla bocca dello stomaco, ma non le ho detto niente perché i patti erano quelli.!°3

La nostalgia ricompare, appena velata della coscienza del probabile errore che si addensa in quel bruciacuore «alla 192

Cfr. Un mestiere, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II), p. 74.

" Cfr. La ragazza ardita, in La chiave a stella, p. 44.

LA CHIAVE A STELLA bocca dello stomaco», indice di namente repressa. Faussone è — uomo, forse — sé e la negazione di coerenza e contraddizione. E portare all’eccesso, la domanda allo scrittore («Però lo sa che lei

107 una sottile gelosia, opportucome Levi, come ogni altro di se stesso nell’alternanza poiché la tensione potrebbe finale che l’operaio rivolge è un bel tipo a farmi contare

queste storie, che fuorivia di lei non le avevo mai contate a

nessuno?») altro non è che un espediente per interrompere il tracciato suggestivo; per lasciare, ancora una volta, le cose come stanno, sospese nel limbo dell’aposiopesi. In Tiresia il ritorno alla cultura classica serve a Levi solo per filosofare sul mestiere dello scrittore, che ha l’indiscusso

privilegio «di tenersi sull’impreciso e sul vago, di dire e non dire, di inventare a man salva, fuori di ogni regola di prudenza».!* Ciò spiega anche la sua genesi di scrittore: [...] in tempi lontani anch’io mi ero imbattuto negli dèi in lite fra loro; anch'io avevo incontrato serpenti sulla mia strada, e quell’incontro mi aveva fatto mutare con-

dizione dandomi uno strano potere di parola: ma da allora, essendo un chimico per l’occhio del mondo, e

sentendomi invece sangue di scrittore nelle vene, mi pareva di avere in corpo due anime, che sono troppe.'”

La natura di centauro o di anfibio — come Levi amava dire — si ripropone in piena evidenza e serve a spiegarci la genesi delle opere leviane. Non è un caso che La chiave a stella, quando esce, susciti un’ampia discussione. Dai pochi esempi che abbiamo riportato per aprire qualche spiraglio su questo libro, non dovrebbe essere sfuggito che questo è, forse, il più arioso di Levi. Arioso non nel senso che negli altri manca una tessitura ben salda e suscettibile di essere arricchita da inserti di ogni genere (ironia, umorismo, elegia, dramma, tragedia, lirismo

etc.). Solo che qui la struttura permette, grazie alla presenza di Faussone, un adattamento più efficace e funzionale alla

rappresentazione della quotidianità, a mezza via tra l'epopea !% Cfr. Tiresia, in La chiave a stella, p. 51.

95 Cfr. ibidem.

LE OPERE

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del lavoro e la normalità, tanto che a tratti la narrazione apre spiragli che fanno pensare al genere misto del poema eroicomico, con qualche effetto grottesco che insaporisce il racconto (lo stesso Tiresia vive per sette anni tramutato in donna).

Quando esce La chiave a stella, Levi è già stato “imbalsamato” dalla critica in un ruolo di scrittore-testimone e da lui ci si attende, comunque, la coerenza alla monotonia creativa.

Trovarsi dinanzi uno scrittore diverso genera — nel comune senso del termine — disorientamento: forse più nei critici che non nei lettori, capaci di recepire la novità con maggiore “disattenzione”! C’è da chiedersi, infine, chi sia Faussone e cosa rappresenti. Ma la risposta non sembra particolarmente ermetica. Faussone è Levi, un Levi sdoppiato nella sua natura binaria, un Levi che oltre che chimico è anche lavoratore della Buna, che oltre che scrittore è anche chimico: a prescindere da qualsiasi volontà o velleità di ergersi a moralista — come ben sottolinea la Vincenti — poiché questo è forse l’unico libro che non abbia tesi da dimostrare." Sotto questo profilo La chiave a stella è davvero frutto di una fantasia più libera, sicché tornano appropriate le dichiarazioni dello stesso Levi: Volevo [...] dimostrare ai lettori e a me stesso che si può fabbricare un libro senza incanalarsi nei soliti

canali (ormai un po’ interrati) della sociologia, dell’evasione, del sesso, del simbolo, della catastrofe, della violenza, dell’intimismo: volevo scrivere un libro moderno di avventure moderne, non inventate, non allusive e non troppo tristi.!** !*° Levi non crede che la critica accademica possa recare ricchi apporti al dibattito culturale: «In Italia e oggi, mi pare che questo dibattito tenda a limitarsi a una certa atmosfera alta e rarefatta», dice in un'intervista a Piero Bianucci (cfr. P. B., Una misteriosa necessità, in

«Il Nostro Tempo», 20 febbraio 1972; poi in M. BELPOLITI, Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, cit., pp. 163-166). "? Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 139. "5 In «Uomini

e Libri», n. 72, gennaio-febbraio

VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 140).

1979 (cfr. F.

LA RICERCA DELLE RADICI &

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La disarticolazione dagli schemi fissi è stata felice, a

nostro giudizio. E l’opera non ha fallito il suo intento. La ricerca delle radici

Con una Antologia personale (questo il sottotitolo del libro), in La ricerca delle radici Levi dichiara gli autori che sarebbero stati per lui fonte di suggestione.'* Il libro esce peri tipi di Einaudi nel 1981 e contiene trenta brani. Ripubblicato due anni fa nella Einaudi/Tascabili, il volume contiene uno scritto di Italo Calvino (Le quattro strade di Primo Levi), una introduzione di Marco Belpoliti (Le radici rovesciate) e una nota biobibliografica curata da Ernesto Ferrero.” Nell’autoprefazione, Levi stesso ci rende conto di questo lavoro e ce ne offre anche la chiave di lettura. Ma essa diviene pure una sorta di passe-partout per tutta la produzione leviana, e proprio in virtù della “buona fede” di cui lo scrittore ci avverte quando asserisce di aver curato il lavoro con il rigore di questa sua indiscutibile virtù: ! Sono, in ordine: Il libro di Giobbe, Omero, Ch. Darwin, W. Bragg, J. H. Rosny, G. Parini, C. Porta, J. Swift, J. Conrad, L. Gattermann, F.

Rabelais, Th. Mann, R. Vercel, H. Melville, A. de Saint-Exupéry, Marco Polo, T. Lucrezio Caro, I. Babel’, S. Alechém, G. G. Belli, B. Russell, F. Brown, il testo della ASTM, S. D'Arrigo, A. C. Clarke, Th. S. Eliot, P. Celan, M. Rigoni Stern, H. Langbein, K. S. Thorne.

200 Alla genesi del libro accenna Marco Belpoliti nell’introduzione. L’idea nasce da Giulio Bollati che pensa (1980) di affidare ad alcuni scrittori il compito di realizzare antologie come questa di Levi, destinate agli studenti della media dell’obbligo: Vengono contattati anche Calvino, Sciascia e Volponi, che non realizzeranno

mai il loro libro.

Levi, invece, «dopo aver accettato a voce la proposta di Bollati, nell’autunno dello stesso anno, con una rapidità ineguagliabile nel mondo editoriale, consegnò il frutto del proprio lavoro». Calvino ne ha parlato in una recensione (Le quattro strade di Primo Levi) comparsa su «la Repubblica» dell’11 giugno 1981 (ora nell’edizione Einaudi/Tascabili) sottolineando che (p. 239) «l’aspetto autobiografico della formazione domina anche qui nell’introduzione e nel titolo (La ricerca delle radici), ma nel corpo del libro l’aspetto che più conta è quello del sistema, dell’“enciclopedia”. La qualità principale del Levi antologista è quella di stabilire relazioni tra i testi più eterogenei».

130

LE OPERE

A un certo punto del percorso viene naturale fare i conti, tutti: quanto si è ricevuto e quanto dato; quanto è entrato, quanto è uscito e quanto resta. E un bisogno, e soddisfarlo può essere piacevole, ma provarlo è un segnale. Vuol dire che potranno avvenire ancora alcune cose, cadere rami e spuntarne di nuovi, ma le radici si sono consolidate. Quanto delle nostre radici viene dai libri che abbiamo letti? Tutto, molto, poco o niente: a seconda dell’ambiente in cui siamo nati, della temperatura del nostro . , sangue, del labirinto che la sorte ci ha assegnato. Non c’è regola; i Giornali di Bordo di Cristoforo Colombo

sono una lettura piena di midollo, ma non contengono traccia di un apporto, di un imput letterario: ci senti l’uomo di ventura, il mercante e il politico, non altro. All’estremo opposto, Anatole France è tuttora un maestro di vita e un amabile compagno di strada, eppure i suoi molti libri sembrano scaturire da altri libri a loro volta libreschi.? Un'analisi delle osservazioni su France ci permette di comprendere che significato assuma la tradizione per Levi. Nell’ipotetica scala delle influenze letterarie, le letture leviane si collocano, ovviamente, verso l’estremo opposto a Colombo, in prossimità di Anatole France: e, a questo punto, di suggestione in suggestione, di lettura in lettura, le opere nascono e si arricchiscono, si insaporiscono e creano nuovi effetti attingendo a larga mano (ma il più delle volte attribuendo nuovi significati) a calchi di memoria — volontaria 0 no, consapevole o meno — “parassitati” da ogni riga letta e apprezzata. Qualsiasi scrittore sfrutta saprofiticamente 1’ lumus su cui si impianta e si educa. Ciò è più vero per Levi, poiché il fatto dipende dalla «temperatura del nostro sangue», dal «labirinto che la sorte ci ha assegnato»? E giusta e vera anche l’osservazione che Levi avanza immediatamente dopo averci rivelato la sua natura appassionata. Ha accettato di preparare la sua antologia personale, °°! Cfr. Prefazione, in La ricerca delle radici, p. XIX. °°° Cfr. ibidem.

LA RICERCA DELLE RADICI

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ma con qualche riserva e con qualche tristezza. La riserva principale nasce appunto dal mio ibridismo: ho letto parecchio, ma non credo di stare inscritto nelle cose che ho letto; è probabile che il mio scrivere risenta più dell’aver io condotto per trent'anni un mestiere tecnico, che non dei libri ingeriti; perciò l'esperimento è un po’ pasticciato, e i suoi esiti dovranno essere interpretati con precauzione. Comunque, ho letto molto, soprattutto negli anni di apprendistato, che nel ricordo mi appaiono stranamente lunghi; come se il tempo, allora, fosse stirato come un elastico, fino a raddoppiarsi, a triplicarsi. Forse lo stesso avviene agli animali dalla vita breve e dal ricambio rapido, come i passeri e gli scoiattoli, e in genere a chi riesce, nell’unità di tempo, a fare e percepire più cose dell’uomo maturo medio: il tempo soggettivo diventa più lungo.” Le osservazioni dell’autore sono illuminanti per comprendere la sua personale capacità di sentire, le sue modalità di approccio al mondo degli “altri” e degli “altri” scrittori. La negazione che lo scrivere non nasce da quanto Levi ha letto («il mio scrivere non è costituito da quanto ho letto. Mi sembra onesto dirlo chiaramente, in queste “istruzioni per l’uso” deila presente antologia») la definiremmo solo un puro incidente di percorso in perfetta buona fede e la negheremmo con le stesse parole che la precedono: «Forse, leggendo, mi sono inconsapevolmente preparato a scrivere, così come il feto di otto mesi sta nell’acqua ma si prepara a respirare; forse le cose lette riaffiorano qua e là nelle pagine che poi ho scritto».°* Ecco, non diremmo che «forse riaffiorano», ma che certamente riaffiorano: ma tanto perché la struttura archetipica leviana è quella della desunzione (e non solo in virtù della formazione scientifica, bensì pure di quella letteraria e umanistica). L'immagine del «feto di otto mesi» è essenziale per poter spiegare la ricchezza di tramatura referenziale in Levi. D'altra parte desumere non significa, di per sé, mancanza di 20 Cfr. Prefazione, in La ricerca delle radici, pp. XIX-XX. 2 Cfr. Prefazione, in La ricerca delle radici, p. XX.

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LE OPERE

maturità contenutistica, tecnica e stilistica; né tantomeno

«vizio di forma» o difetto di originalità. La costruzione scrittoria leviana somiglia, assai da vicino, a una di quelle periodiche ricapitolazioni del sapere che si attuano di secolo in secolo, di età in età e che, pur utilizzando materiali antichi,

sanno dare vita — per la nativa e quasi istintiva potenza dell’artefice — a edifici del tutto nuovi e a costruzioni assolutamente diverse. Perché il richiamo letterario in Levi — dalla più semplice e inconsapevole forma di suggestione al più esplicito e dichiarato citazionismo — non è esibizione e lenocinio, quanto riappropriazionedi una verità già espressa da altri. Il pericolo insito nell’antologizzazione delle proprie radici letterarie non può sfuggire a Levi, poiché l’uomo è «in buona fede»: [...] mentre la scrittura in prima persona è per me, almeno nelle intenzioni, un lavoro lucido, consapevole e diurno, mi sono accorto che la scelta delle proprie radici è invece opera notturna, viscerale e in gran parte inconscia. Ma in realtà bisognerebbe distinguere due momenti: il primo, lontano nel tempo e scaglionato su decine di anni, in cui veramente si eleggono i libri che ci accompagneranno per la vita, ed il secondo (cioè questo) in cui queste preferenze vengono sancite, catalogate, dichiarate, e giustificate nel limite del possibile. Il primo momento è genuino e non sospetto, il secondo rischia di essere tendenzioso e inquinato dal gusto dell’oggi. Mi rendo conto che alcune delle motivazioni che precedono ogni brano possono essere poco convincenti, avere sapore di «a posteriori» e di razionalizzazione. Non potrebbe essere altrimenti: non ho sposato quegli autori perché avevano quelle determinate virtù o congenialità; li ho incontrati per opera di fortuna, e le virtù sono venute fuori. Il lettore saltuario ed erratico,

il lettore che legge per curiosità, impulso o vizio e non per professione, va incontro a questo genere di sorprese felici ed inesplicabili.?5 °° Cfr. Prefazione, in La ricerca delle radici, p. XXI.

LA RICERCA DELLE RADICI

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Se esaminiamo due -dati — la sedimentazione delle letture nel corso dei decenni (primo momento) e la loro catalogazione sancita (secondo momento) — siamo in grado di capire che Levi, nella sua onestà intellettuale, ci sta dicendo che

queste sono solo in parte le sue radici, e che, forse, non sono neppure quelle più importanti e quelle che davvero contano, poiché possono risultare turbate da una razionalizzazione attuata a posteriori. Ciò è bene spiegato facendo ricorso a una delle considerazioni che riguardano la memoria proprio all’inizio di / sommersi e i salvati: La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma -fallace. [...] I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con

gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei.” È il problema dell’incorporazione dei «lineamenti estranei» unito a quello della razionalizzazione a posteriori, che deve farci riflettere. Levi ci sta dicendo che le letture che lui stesso ci propone come radici sono solo derivazioni secondarie e ancora estranee (perché ne ha coscienza), diramazioni e incrementi razionalizzati ma non davvero originari. Il nucleo originario, travisato dalla memoria, si è ormai trasformato in «lineamenti estranei» incorporati fatti parte stessa dell’uomo; quasi assorbiti, in maniera parassita, e trasformati in elementi propri, perciò sfuggenti a ogni osservazione razionale, a ogni analisi successiva. Ma come «nei contatti umani non c’è legge», così non c’è legge nel dichiarare le proprie radici: Trenta autori cavati fuori da trenta secoli di messaggi scritti, letterari e non, sono una goccia in un oceano. Molte omissioni sono dovute ai limiti di spazio, ad una eccessiva specializzazione, o alla netta coscienza che la mia predilezione è patologica [...]. Altre omissioni sono più gravi, e vengono da una mia sordità, o sensibilità, o blocco emotivo, di cui sono consapevole e non 206 Cfr. La memoria dell’offesa, in I sommersi e i salvati, p. 13.

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LE OPERE

fiero [..... Ho omesso altri testi, specie se poetici, per la ragione opposta: non mi sono sentito di proporre autori stranieri che mi sono cari, e che scrivono in lingue che io conosco (Villon, Heine, Lewis Carrol), per-

ché le traduzioni esistenti mi sembrano riduttive senza che io mi senta capace di farne di migliori; e se non ne conosco la lingua (molti russi, i lirici greci), perché so gli inganni che si annidano nelle traduzioni.”” La dichiarazione diviene quindi necessariamente arbitraria e — per ciò stesso — parziale: dunque non credibile se non con riserva. Sarebbe difficile pensare che Levi sia proprio questo, che questo sia l’uomo e lo scrittore, profondamente romantico e ammalato di romanticismo metastorico, come lui stesso ci fa intendere con una delle ultime osservazioni: Tutti o quasi i brani che ho scelto contengono o sottintendono una tensione. Tutti o quasi risentono delle opposizioni fondamentali inscritte «d’ufficio» nel destino di ogni uomo cosciente: errore/verità, riso/pianto, senno/follia, speranza/disperazione, vittoria/sconfitta.?* Dove non c’è antitesi — sta dicendo Levi con il solito procedere per sillogismi — non esiste vita (necessità della tensio-

ne); dove c’è vita c’è antitesi; quindi: vita è antitesi nello scontro degli opposti. Non crediamo che possa esistere dichiarazione di romanticismo più esplicita. Infine Levi si pone il problema della necessità di un’antologia come questa e sostanzialmente la nega: Non mi sfugge, e mi dà un leggero fastidio, il carattere lapidario-funerario di un’opera come questa, e lo vorrei sdrammatizzare:

contro la sua perversa abitudine, il

tarlo può trovare altri legni, o sapori nuovi nei legni vecchi. Solo i morti non cambiano più e non spingono altre radici, e perciò solo i morti hanno diritto alla critica.” 2"? Cfr. Prefazione, in La ricerca delle radici, pp. XXII-XXMI.

°° Cfr. Prefazione, in La ricerca delle radici, p. XXIII. °° Cfr. ibidem.

LA RICERCA DELLE RADICI

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Ciò starebbe a significare che, finché un autore è in vita, le radici non sono ancora ferme e non è prudente parlare di ricerca delle proprie radici. Si tratta, quindi, di una nuova affermazione della precarietà di qualsiasi sistema, che va perciò preso così com'è, con il beneficio d’inventario e senza la pretesa di assegnare valori definitivi e statici ai suggerimenti. Quanto alla struttura dell’antologia, premesso che i testi non seguono un ordine cronologico, essa ci è presentata da un grafico ovoidale che ha come polo superiore Giobbe — il primo dei testi antologizzati — e come polo inferiore i buchi neri — ultimo argomento trattato. Questa sorta di mappamondo leviano presenta sulla sua superficie quattro meridiani che in sequenza sono: la salvazione del riso (Rabelais, Porta,

Belli, Schalòm Alechém), l’ingiusta sofferenza umana (Eliot, Babel’, Celan, Rigoni Stern), la statura dell’uomo (Marco Polo, Rosny, Conrad, Vercel, Saint-Exupéry), la salvazione

del capire (Lucrezio, Darwin, Bragg e Clarke). All’uscita del volume non sfuggì che autori classici, ben evidenti e rintracciabili in Levi, non erano stati rammentati.

Ma da questo lo scrittore si difende dicendo: Ho deliberatamente escluso nomi che sono (o dovrebbero essere) patrimonio di ogni lettore, come Dante,

Leopardi, Manzoni, Flaubert, ecc.: se li avessi messi sarebbe stato come se, in un documento di identità, sul rigo «segni particolari» si scrivesse «Due occhi». In altre parole, ho omesso le letture che dicono qualcosa a tutti, o almeno a tutti gli scrittori italiani della mia

generazione.?!°

Levi dichiara di leggere anche autori come Calvino, Meneghello, Morante, Sciascia, Tomizza, Berto e Fenoglio.

In una intervista egli ravvisa una possibile ascendenza della sua antologia nel Pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse.?! 20 Cfr. G. Tesio, Nego di essere gran lettore di classici e di romanzi, in «Nuovasocietà», 11 luglio 1981; poi in M. BELPOLITI, Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, cit., p. 154. 2! In «Notiziario Einaudi», 1981.

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LE OPERE

Se può sembrare piacevole leggere gli autori che Levi indica come suoi cardini, ciò risulta, infine, estremamente falsante per una vera e propria analisi e, soprattutto, per un’apprezzabile comprensione di Levi, per così dire, “senza inquinamenti”. Nell’accostarci a opere di questo genere, il rischio maggiore è sempre quello di credere che ciò che è stato detto sia assoluto, mentre invece occorre ricordare con Levi che «solo i morti non cambiano più e non spingono altre radici». Se il fine dell’editore era quello di fornire strumenti di lettura agli studenti della scuola dell’obbligo, a nostro avviso esso è fallito in pieno, perché l’antologia personale di Levi pare senz'altro più adatta a un pubblico adulto e maturo, tanto scaltro da non cadere nell’equivoco che le radici leviane siano queste e queste soltanto. Il libro, quindi, ha toccato risultati antipodici rispetto allo scopo per cui era stato concepito, è divenuto “altro”: strumento prezioso, ma fuorviante.

Perciò è del tutto calzante quanto Pampaloni osserva riguardo a La ricerca delle radici: «L’autoritratto, Levi ce lo propone con grande semplicità, senza porsi minimamente come modello possibile, e insieme con grande serietà, senza compiacersi di vizi o eccezionalità rispetto agli altri. Un singolare rispetto è riservato sia ai testi dell’antologia, sia al se stesso che vi è formato, sia al lettore che è invitato a misurarsi con quei testi e insieme con il rapporto che lo scrittore ha con essi».?!°

Lilit e altri racconti

Suddiviso in tre sezioni — Passato prossimo, Futuro anteriore è Presente indicativo —, Lilit vede la luce nel 1981. I trentotto racconti che compongono il libro sono stati in gran parte pubblicati a partire dal 1975.?!" La divisione in sezioni 2!° Cfr. G, PAMPALONI, Padri e figli, in «il Giornale nuovo», 29 novembre 1981; poi in E. FERRERO, Primo Levi: un’antologia della critica, cit., p. 351. °!* Alla prima sezione appartengono: Capaneo (pubblicato nel 1959 e poi su «La Stampa» nel 1971), /l giocoliere, Lilit (che dà il titolo alla

raccolta), Un discepolo (si trova nel manoscritto de La tregua), Il nostro

LILÎT E ALTRI RACCONTI

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serve a distinguere la materia che si articola, rispettivamente, nel tema del Lager, in quello della fantascienza e, infine, in

una pluralità eterogenea che tocca memoria, antropologia, esperienza di fabbrica, narrazione realistica e altro ancora. La scelta dei titoli delle sezioni e la loro sequenza non sono casuali. Passato prossimo — come bene evidenzia Marco Belpoliti — sta a «significare che questo è un passato che non passa, che incombe con la sua prossimità anche sul presente»?!* — non diversamente dal perfetto del sistema verbale greco, che indica un’azione compiuta i cui effetti perdurano —; Futuro anteriore, con i suoi nuclei fantascientifici, si riconnet-

te sia all’idea del futuro che a quella stessa del passato (anteriore, appunto), in una sorta di profezia in chiave di verità annunziate fin dalla comparsa dell’uomo; Presente indicativo sembra accontentarsi di narrare la vita qual è — ma non è escluso che in quell’“indicativo” nasconda una qualche allusione al verbo “indicare”, come se lo scrittore volesse dire che

dai fatti narrati è possibile trarre un’indicazione su come vadano i tempi che egli vive e di cui è sempre attento testimone. La prima sezione contiene appunti, frammenti, riflessioni e storie legate al Lager. E una sorta di “ritorno di fiamma” dettato — per esplicita ammissione di Levi in più occasioni — dal desiderio di fare in qualche modo giustizia, nel senso che

le storie che vi compaiono o non sono mai state narrate nei libri di testimonianza, 0, se lo sono state, ciò è avvenuto in maniera non adeguatamente approfondita. Salvare dall’oblìo fatti e personaggi diventa quindi il preminente interesse dello scrittore, ma il tempo ormai trascorso — almeno trent'anni — sigillo, Lo zingaro, Il cantore e il veterano, La storia di Avrom, Stanco di finzioni, Il ritorno di Cesare, Il ritorno di Lorenzo, Il re dei Giudei

(sarà poi inserito, con alcuni ritocchi, in / sommersi e i salvati); alla seconda: Una stella tranquilla, I gladiatori, La bestia nel tempio, Disfilassi, Calore vorticoso, I costruttori di ponti, Self-control, Dialogo di un poeta e di un medico, I figli del vento, La fuggitiva, «Cara mamma», A tempo debito, Tantalio, Le sorelle della palude, Un testamento (gran parte di questi racconti sono stati pubblicati fra il 1977 e il 1978). Di Presente indicativo fanno parte: Gli stregoni, La sfida della molecola, La valle di Guerrino, La ragazza del libro, Ospiti, Decodificazione, Fine settimana, L’anima e gli ingegneri, Breve sogno. 24 Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p.105.

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LE OPERE

ha fatto compiere al narratore un salto di qualità quanto a maturazione e, al tempo stesso, a distacco; ha posto, fra i fatti e la voce narrante, quel diaframma che rende più impalpabili e meno afferrabili i contorni degli eventi e delle persone.” Lilît è fondamentale per quanto attiene alle tematiche della prima sezione. Esso affronta infatti, in un tutt'uno, i temi del Lager, della memoria e dell’ebraismo. Lo spunto,

che pure è memoria di prigioniero, è occasionale. Da una figura che riaffiora dal ricordo si sviluppa un tracciato di suggestioni tanto profonde da originare anche un componimento in versi.”!° Il ricordo è quello del Tischler (falegname) con cui lo scrittore si è rifugiato in un tubo di ferro per ripararsi dalla pioggia durante una giornata di lavoro in campo. La scoperta casuale che quel giorno è il compleanno di ambedue i prigionieri, fa nascere fra loro una sorta di comunione, e il falegname inizia a raccontare a Levi la storia della

diavolessa che è anche causa dei mali del mondo. La narrazione inizia con un attacco secco, echeggiante un altro famoso incipit, quello con cui Verga introduce il tema della tempesta che fa affondare la Provvidenza, la barca dei

Malavoglia:

Nel giro di pochi minuti il cielo si era fatto nero ed aveva cominciato a piovere.” Ma in Lilit il temporale serve a segnare una pausa nella tragedia. L’ebreo polacco che parla yiddish inizia con il dividere una mela con il prigioniero italiano, e mentre i due masticano «in silenzio, attenti al prezioso sapore acidulo 25 Il diaframma di cui parliamo è quello stesso cui Levi accenna in La storia di Avrom (in Lilit e altri racconti, p. 53), che «ha messo git le

sue memorie, sotto la forma di appunti scarni e dimessi, velati dalla distanza nello spazio e nel tempo»; è il «calore di fiamma lontana» di cui parla Foscolo in Notizia 13 nella traduzione del Viaggio sentimentale di Yorik (Didimo Chierico) di Sterne.

°!° Cfr. Lilit, in Ad ora incerta (poi in Opere, vol, Il), p. 36. La poesia (1965) precederebbe dunque il racconto. 2!" Cfr. Lilit, in Lilît è altri racconti, p. 18. In Verga (7 Malavoglia, X): «Tutta un tratto si era fatto oscuro che non ci si vedeva più neanche a bestemmiare».

LILÎT E ALTRI RACCONTI

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come ad una sinfonia», vedono, nel tubo di fronte al loro,

una giovane ucraina, «viso rosso e largo, lucido di pioggia», che li guarda e ride. Ciò scatena involontariamente una serie di pensieri e riflessioni: A quel tempo capitava di rado di vedere una donna da vicino, ed era un’esperienza dolce e feroce, da cui si

usciva affranti.?!*

Il Tischler sa il nome della ragazza: non quello vero, quello da dare a ogni donna quale sorgente di desiderio. E poiché Levi si mostra scettico sulle credenze del Tischler, si

innesca «la disputa fra il pio e l’incredulo», fra l'ebreo osservante dell’ Est — un Ostjuden, appunto” e l’epicureo, l’ «apicorsìm», il miscredente dell’Occidente, «a cui si insegna un po’ di ebraico a tredici anni, e poi finito...». Riappare la storia della creazione del Golem, prima forma di Adamo ed Eva uniti in una sorta di sfera che tanto somiglia a quella vagheggiata da Platone;?° e si apre il problema della lotta eterna fra uomo e donna, fra i due princìpi in contrasto, il maschile e il femminile:

Era una figura con due schiene, cioè l’uomo e la donna già congiunti; poi li separò con un taglio, ma erano smaniosi di ricongiungersi, e subito Adamo volle che Lilft si coricasse in terra. Lilft non volle saperne: perché io di sotto?”

Fra le mostruosità che popolano l’immaginario cabalisti‘co degli ebrei, Lilft la diavolessa viene ad assurgere a simbolo dei mali che affliggono i tempi e gli spazi indefiniti dell’esistenza umana.

Perfino Dio, nel racconto del Tischler, si

2!8 Cfr. Lilit, in Lilit e altri racconti, p. 20. 2! Cfr. Ostjuden, in L’osteria di Brema (poi in Ad ora incerta e in Opere, 1998, vol. II), p. 23.

20 PLATONE (Simposio, 189 sgg.) introduce un terzo sesso oltre il maschile e il femminile: l’androgino. Gli esseri che originariamente vi appartenevano erano sferici. Solo in seguito furono divisi da Zeus in due metà: l’uomo e la donna. 22 Cfr. Lilît, in Liltt e altri racconti, pp. 21-22.

LE OPERE

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contamina, perché anche lui è maschio e cede alla tentazione di unirsi alla cupa figura del dèmone una volta che — dopo la diàspora — la vera compagna di Dio, la sua presenza nel creato, si è adirata con il creatore e lo ha abbandonato per non avere sottratto gli ebrei alla dispersione. Lilft, generatrice dei figli illegittimi degli uomini, nelle cui viscere si raccoglie tutto il seme umano che va perduto fra le lenzuola per adulterio o per altro peccato, serve così a spiegare le cause di ogni sventura degli ebrei che, nella loro empietà, devono essere protetti dall’azione devastante della loro nemica. Solo un giorno giungerà qualcuno in grado di cancellarne la presenza dalla terra. E questa la speranza che guida il mondo ebraico, perché Finché Dio continuerà a peccare con Lilft, sulla Terra ci saranno sangue e dolore; ma un giorno verrà un potente, quello che tutti aspettano, farà morire Lilft, e metterà fine alla lussuria di Dio e al nostro esilio. Sì anche al tuo e al mio, Italiano: Maz’1 Tov, Buona Stella.?°

L’augurio del Tischler apre, sia pure timidamente, un varco alla speranza. Ma il racconto — che si sviluppa lungo incongrui percorsi agiomitologici — finisce con il piombare in una considerazione leviana di natura agnostica, se non addirittura atea: [...] è inesplicabile che il destino abbia scelto un epicureo per ripetere questa favola pia ed empia, intessuta di poesia, di ignoranza, di acutezza temeraria, e della tristezza non medicabile che cresce sulle rovine delle D

civiltà perdute.”

Con questo suggello, lo scrittore torna al tema dei sommersi e dei salvati; delle inesplicabili scelte del destino che, per certi aspetti, pare più forte di Dio stesso. Ma l’anello spezzato della catena sembra essersi in qualche maniera 22 Cfr. Lilit, in Lilit e altri racconti, p. 24. 23 Cfr. ibidem.

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risaldato all’improvviso, poiché nel dialogo fra il pio e l’empio (il Tischler e Levi) la comunione dello spirito ebraico si è nuovamente realizzata — anche se solo per un istante. La storia di Avrom e Stanco di finzioni si mangengono - sulla linea della salvazione, tema della prima sezione della raccolta. Nei due diversi svolgimenti gli elementi che caratterizzano la scrittura di Levi si conservano: lo stupore dinanzi alla natura si estende e occupa in primo piano la vicenda di Avrom; le peripezie straordinarie del protagonista di Stanco di finzioni ripetono i passi della salvazione di Levi lungo il percorso narrativo di La tregua. Non esiste gap nella sequenza della produzione leviana, quanto piuttosto un flusso intermittente che varia — per usare un’espressione cara allo scrittore — «ad ora incerta», con un andamento sinusoide

che a volte recupera tratti più sereni e altre ne assume di più cupi e pessimistici, pur se la costante rimane comunque una generale sfiducia nei confronti della vita e dell’uomo immerso nel suo destino o chiuso, come Faussone di La chiave a stella, nel tubo di ferro di una torre di raffreddamento.’ Avrom è un salvato. Lui, così candido nel meravigliarsi

del fatto che gli italiani non emarginino gli ebrei, osserva il mondo con lo stesso stupore di gioventù con cui lo aveva fatto Levi negli anni dell’alpinismo: Avrom rimase abbagliato dalla bellezza delle montagne, di quel lago e dei boschi, e gli sembrava assurdo venirci per fare la guerra: [...] quella traversata per la montagna scabra e deserta, e le molte altre che seguirono, furono la rivelazione di un mondo splendido e nuovo, che racchiudeva in sé esperienze che lo ubria-

cavano e lo sconvolgevano: la bellezza del Creato, la libertà e la fiducia nei suoi compagni.’

Con una ingenua freschezza — che per certi aspetti somiglia a quella di un Pin calviniano in // sentiero dei nidi di ragno —, ma con un animo più pronto a cogliere le vibrazioni metafisiche del reale, Avrom il salvato, che vivrà in un kibbutz, e che 24 Cfr. Clausura, in La chiave a stella, pp. 10 sgg. 25 Cfr. La storia di Avrom, in Lilît e altri racconti, p. 52.

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LE OPERE

aveva iniziato a perdere la propria identità fin dal momento in cui ha cominciato a peregrinare per tutta Europa alla ricerca di una propria collocazione, finirà per perdere completamente se stesso proprio nel momento in cui raggiunge la meta: «ha quasi dimenticato il polacco, il ceco e l’italiano» scrive Levi «e non ha ancora una padronanza piena dell’ebraico».??° Di lui restano solo gli appunti della sua avventura, «scarni e dimessi», osservazione che riconduce all’idea del fine della scrittura per Levi: È un uomo umile, e li ha scritti senza le ambizioni del letterato e dello storico, pensando ai suoi figli e nipoti, perché resti ricordo delle cose che lui ha viste e vissute.”? Stanco di finzioni offre il pretesto per moraleggiare sulla figura dello scrittore professionista, con il quale — si capisce fin dall’inizio — il “dilettante” è in piena rotta di collisione. Merita riflettere sul capoverso d’attacco: Chi ha avuto l’occasione di confrontare l’immagine reale di uno scrittore con quella che si può desumere dai suoi scritti, sa quanto sia frequente il caso che esse non coincidano. Il delicato indagatore di stati d’animo,

vibratile come un circuito oscillante, si rivela un tanghero borioso, morbosamente pieno di sé, avido di denaro e di adulazioni, cieco alle sofferenze del prossimo; il poeta orgiastico e suntuoso, in comunione panica con l’universo, è un omino astinente ed astemio, non per scelta ascetica ma per prescrizione medica.”

Nel dettato sentenzioso del periodo — che non ha niente da invidiare al composto tono di un Manzoni che parla del 229 segreto che si rivela a un amico?” e con la stessa vorticosità °° Cfr. La storia di Avrom, in Lilît e altri racconti, p. 53. 2? Cfr. ibidem. 2* Cfr. Stanco difinzioni, in Lilit e altri racconti, p. 54. °° Cfr. «Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia [...]», in / promessi sposi, XI. Ma si noti che anche “tanghero” è parola di manzoniana memoria: è Renzo per Don Rodrigo nel VII capitolo del

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che conduce, passo passo, alla conclusione; la stessa ironia,

lo stesso graffio impietoso, Levi definisce e si definisce implicitamente correlandosi alla figura in negativo di cui, con chimica precisione, analizza gli elementi per stabilirne la sostanza: fino a quello splendido «poeta orgiastico e suntuoso» che in realtà è «un omino astinente ed astemio», ma — si noti la stilettata all’apparenza ingenua — «non per scelta ascetica ma per prescrizione medica». La gnome a effetto, caustica, carica di perfidia («avido di denaro e di adulazioni», «cieco alle sofferenze del prossi-

mo», «omino» — e si noti quel diminutivo), ha come contrappeso l’esclamazione che segue: Ma quanto è gradevole, invece, pacificante, rasserenante, il caso inverso, dell’uomo che si conserva ugua-

le a se stesso attraverso quello che scrive! Anche se non è geniale, a lui va immediatamente la nostra simpatia: qui non c’è più finzione né trasfigurazione, non muse né salti quantici, la maschera è il volto, e al letto-

re sembra di guardare dall’alto un’acqua chiara e di distinguere la ghiaia variopinta del fondo.?"°

L’etica dell’antiletterarietà, che tornerà in Levi poeta e che affonda le sue radici anche in suggestioni montaliane,’" si preannunzia fino da questo racconto, che contamina — nella maniera alchemica cara a Levi — uno dei temi di / limoni con quello dell’uomo «che se ne va sicuro» di Non chiederci la parola. La storia di Joel Kénig, dallo stesso protagonista raccontata in Sfuggito alle reti del nazismo,” offre lo spunto per riconsiderare il tema dell’ebraismo e della tradizione nell’ottica di una massima morale che, al giovane salvato, ha insegnato il padre rabbino: «Soffrire ingiustamente è meglio che romanzo; lo sarà nel capitolo XI; come “tanghero” Renzo verrà apostrofato da un viandante cui ha chiesto qual è la via della casa di Don Ferrante (cap. XXXIV). 2% Cfr. Stanco difinzioni, in Lilit e altri racconti, p. 54. 31! Cfr. L’opera (1983) in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. II),

p. 67. ° Il libro fu pubblicato da Mursia nel 1973.

LE OPERE

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agire ingiustamente» — assunto che tuttavia potrebbe essere noto a Levi anche attraverso la stessa etica di un Socrate sempre pronto a sostenere che è meglio subire ingiustizia piuttosto che farla, anche a costo di dover morire.” Le avventure davvero straordinarie e complicatissime cui va incontro il giovane Joel — degne delle peripèteiai (peripezie) del romanzo greco — gli permettono di diventare «consapevole delle proprie straordinarie risorse», anche se oscuro resta il percorso grazie al quale la fortuna lo protegge e lo salva. Stanco di finzioni Joel lo diventa perché la sua vita, durante la persecuzione nazista, è stata tutta una finzione. E Levi si nasconde volentieri dietro la figura del fuggitivo per poter riaffermare che nello scrivere non è necessario diventa-

re professionisti. Altro racconto significativo della prima sezione è // re dei Giudei, che ripercorre la storia di Chaim Rumkowski, decano del ghetto di L6dz, «convinto egli stesso di essere un “mashfach”, un messia», poi vittima della brutalità nazista.

Questa figura così problematica e ambigua permette allo scrittore di affrontare il discorso della cosiddetta «zona grigia»: Una storia come questa non è chiusa in sé. È pregna, pone più domande di quante ne soddisfaccia, e lascia sospesi; grida e chiama per essere interpretata perché vi si intravvede un simbolo, come nei sogni e nei segni del cielo, ma interpretarla non è facile. [...]

E tipico dei regimi in cui tutto il potere piove dall’alto, e nessuna critica può salire dal basso, di svigorire e confondere la capacità di giudizio, e di creare una vasta fascia di coscienze grigie che sta fra i grandi del male e le vittime pure: in questa fascia va collocato Rumkowski. [...] in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, ** Cfr. PLATONE, Critone, 48 d: «E se sarà chiaro che così operando

si commetta ingiustizia, allora ricòrdati che bisogna rimanere fedeli al proprio posto e aspettare con animo tranquillo, e non darsi pensiero né se si debba morire né se si debba qualunque altro male patire, piuttosto che commettere ingiustizia» (cfr. PLATONE, Opere, Laterza, Bari, 1966, vol. I; trad. Manara Valgimigli, p. 82).

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la sua ambiguità è la nostra, di ibridi impastati d’argilla e di spirito; la sua febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che «scende all’inferno con trombe e tamburi», e i suoi orpelli miserabili sono l’immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale. [...] Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal .

potere e dal denaro da dimenticare la nostra fragilità essenziale: da dimenticare che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno.?* La figura del re dei Giudei rappresenta per Levi l’emblema di quella categoria umana che, assecondando il potere come i Kapo di Se questo è un uomo, si rende rea del crimine peggiore: l’asservimento completo, il masochistico desiderio di obbedire ciecamente fino all’annullamento e alla morte. Tutto questo troverà teorizzazione e sistemazione nel capitolo centrale de / sommersi e i salvati, che si intitola

appunto La zona grigia. Un’atmosfera di scherzo assurdo domina a volte nei racconti di Futuro anteriore. In Calore vorticoso la figura di Ettore gioca, con preziosi sofismi, sulle frasi palindrome, quelle che possono essere lette da sinistra a destra e viceversa. Ma le sorprese non finiscono mai e la realtà si deforma per assumere, inaspettatamente, la dimensione palindroma. Rimasto solo in città in un’estate soffocante e umida, estremamente

annoiato dagli altri che Io circondano, Ettore si

diverte a deformare nominalmente il mondo esterno; trova diletto nel creare frasi palindrome. Due episodi finiscono però per metterlo in crisi: un innesto errato di retromarcia, che lo porta a danneggiare un’auto in sosta (premonizione, come dopo scopriremo, di ciò che gli sta per accadere); e il notare, una mattina, che la barba lunga della sera precedente è regredita da sé e che non c’è bisogno di radersi. È il caso di far parlare Levi-Ettore, per afferrare l’intuizione che la realtà può essere letta a diritto e a rovescio: 24 Cfr. Il re dei Giudei, in Lilît e altri racconti, pp. 84-86.

LE OPERE

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[...] guai se tutte le frasi reversibili fossero vere, fossero sentenze d’oracolo. Eppure... eppure, quando le leggi a rovescio, e il conto torna, c’è qualcosa in loro, qualcosa di magico, di rivelatorio: lo sapevano anche i latini, e le scrivevano sulle meridiane, Sator Arepo tenet opera rotas, In gyrum imus nocte et consumimur igni. È come le corna, o come quando trovi un quadrifoglio. Non ci credi, però lo raccogli ed esiti a buttarlo via; non sai perché, ma non si sa mai. È un vizio: ebbene, sissignori, ho anch’io il mio vizio. Non bevo, non gioco, fumo pochissimo, ma ho anch’io il mio vizio, meno distruttivo di tanti altri, quello di leggere a rovescio. Non prendo l’eroina: scrivo frasi reversibili, avete qualche cosa da obiettare? Eroina motore in Italia — Ai latini erotomani or è. Ottimo, due decasillabi sonanti, e neppure del tutto insensati.”*

Ecco che la “palindromia” — «vizio di forma» del protagonista —

inizia a estendersi a macchia d’olio, fino a produr-

re la deformazione, l’anomalia — come accadeva in Ottima è l’acqua. Ma essa, forse, non è la causa dell’anomalia stessa, quanto l’effetto: un effetto che solo il personaggio anomalo e scaleno può cogliere, nel suo disagio esistenziale esplicitato per paradosso. Se bene osserviamo, Ettore è — nel suo cosmo ordinato — vittima di un disordine che affonda le radici nel conformismo: egli infatti ha una vita regolata e razionale, che tuttavia respinge, forse perché non è in grado di decidere (il problema del decidere è una delle ossessioni leviane), o perché ha deciso — con feroce indecisione — di non decidere affatto. Sembra di poterlo desumere da ciò che Ettore pensa di Elena, la sua compagna: Guai se Elena non ci fosse stata. Di sposarla non se la sentiva, e anche lei non aveva mai insistito: stavano bene così. Quando uno passa i quaranta da scapolo, deve poi fare attenzione: magari non se ne accorge, ma * Cfr. Calore vorticoso, in Lilît e altri racconti, p.118.

© In Vizio di forma, p. 362.

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certe sue abitudini possono essere fastidiose. Per esempio, se Elena fosse stata lì dietro, a leggere quello che lui scriveva. [...] i patti fra loro erano stati chiari,

niente gelosia, due persone savie in buona fede reciproca, tutto alla luce del sole.?” Il racconto è, in sostanza, una vera e propria denuncia della normalità. Ma invece di scegliere la via della riflessione ragionata, trova sfogo nel paradosso sofistico, prima attraverso la palindromità dei nomi e delle frasi — che è scardinamento del reale —, poi attraverso il rovesciamento della realtà stessa. Lo scrittore sembra augurarsi il miracolo improvviso, quello che, per usare un’espressione montaliana, «ci metta/ nel mezzo di una verità». Al tempo stesso, tuttavia, quando il miracolo sembra imminente, il terrore si riappropria di Ettore: Si sentì gonfiare dentro un’ondata di inquietudine: ieri la marcia indietro, e adesso anche la barba...? O si era raso la sera avanti? Rimase perplesso davanti allo specchio, in maglietta, con le dita sulle guance: [...] si avviò al comodino e guardò con timore l’orologio da polso che vi stava appoggiato: se avesse visto la lancetta dei secondi girare all’indietro, allora sarebbe stata finita. Ma no, tutto era in ordine. Non c’era niente di obiettivo, nessun sintomo concreto, doveva essere stata tutta colpa dell’afa e dell’umidità.?” Infine è proprio la normalità lo stato cui Ettore aspira, quella grande madre che torna a stendere sui mortali la certezza della fissità delle cose e del mondo: «Ad ogni modo sarebbe stato più cauto, d’ora in avanti: non avrebbe più esagerato». Ed ecco il rifluire di questo eroe dell’afa — si noti l’onomastica del racconto: Ettore, Elena... — nei limiti del concreto e del sensibile — cioè dell’indiscutibile, del pacifico, del piatto. 8? Cfr. Calore vorticoso, in Lilit e altri racconti, p. 119. 8 Cfr. E. MONTALE, / limoni, in Ossi di seppia. ®9 Cfr. Calore vorticoso, in Lilit e altri racconti, p. 121.

LE OPERE

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AI limite dell’onirico inquietante — ma ancora sulla linea dell’anomalia che turba un campo magnetico — è l'avventura che capita a Giuseppe in A tempo debito, metafora della certezza della morte. Il venditore di stoffe cinquantenne ha un incontro con l’angelo della morte, il killer che deve eliminarlo non si sa bene quando, come e perché.

Nonostante la stanchezza, Giuseppe non è preparato all’evento ed è colto di sorpresa; non tanto spaventato quanto destabilizzato nelle certezze, nel suo ordine di costituita routine: [...] benché stanco di molte cose, a morire non era pre-

parato. Non è detto che chi è stanco della vita, o dice di esserlo, desideri sempre di morire: in generale, desidera solo di vivere meglio.?* Nel racconto agisce la capacità di Levi di inserire nel verisimile ciò che è completamente al di fuori della realtà. La narrazione, che si sarebbe potuta svolgere entro spazi e àmbiti di fantametafisica, è calata in una realtà di magazzino

di stoffe; il killer angelo della morte è un personaggio che non ha niente di ultraterreno; persino le colpe di Giuseppe sono stravagantemente usuali: si è ferito con il ghiaccio, ha

visto sua madre mettersi le calze perché le è entrato in camera «senza chiedere permesso», «ha soffiato la ragazza al suo collega» e «lei ha fatto una brutta fine». Si può e si deve morire per questo? Ma dall’assurdo affiorano anche paure ancestrali. Giuseppe teme di morire con dolore e chiede al suo promesso assassino se ci siano modi indolori, ed è perfino disposto a pagare con un assegno per avere un trattamento privilegiato: condizione, se vogliamo, da inscrivere nell’area della «zona grigia». In Presente indicativo realtà e fantasia si intrecciano. È quanto accade in La ragazza del libro, storia che coinvolge un non «più tanto giovane» Umberto, in cura mutualistica sulla riviera, e una misteriosa figura di donna che abita in una villa, la Bomboniera,

dal nome

stravagante come

2 Cfr. A tempo debito, in Lilit e altri racconti, p. 160.

le

LILÎT E ALTRI RACCONTI

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«piccole cose di pessimo gusto» di gozzaniana memoria — una specie di Villa Amarena banalizzata. La curiosità di Umberto, che scopre il passato della donna lituana, dallo strano nome di Harmonika Grinkiavicius, in un

libro di memorie di un soldato inglese, fa sì che egli fissi un incontro con la signora. Ma da esso scaturirà solo delusione, un nuovo matematico asintoto in cui, più si è vicini alla verità, meno si riesce a raggiungerla e a coglierla. Alla domanda di Umberto se sia tutto vero ciò che ha letto di lei e dei suoi amori con l’inglese, Harmonika rispon-

de con una lunga considerazione sul tempo che muta ogni cosa: — Mi guardi. Sono passati più di trent'anni, e io sono un’altra. Anche la memoria è un’altra; non è vero che i ricordi stiano fermi nella memoria, congelati: anche loro vanno alla deriva, come il corpo. Sì, ricordo una

stagione in cui io ero diversa. Mi piacerebbe essere la ragazza del libro: mi accontenterei anche solo di esserlo stata, ma non lo sono mai stata. Non ero io a trasci-

nare l’inglese; io ricordo me stessa molle nelle sue mani, come argilla. I miei amori... sono questi che le interessano, vero? Ecco, stanno bene dove sono: nella mia memoria, scoloriti e secchi, con un’ombra di profumo, come fiori in un erbario. Nella sua sono diventa-

ti lucidi e chiassosi come giocattoli di plastica. Non so quali siano i più belli. Scelga lei: via, si riprenda il suo libro e se ne torni a Milano.”'

Dunque, la realtà non è quella che si racconta e le memorie tendono a scomparire. Gli altri sono enigmi che, pure interpretati e riprodotti, sono solo immagini di noi stessi,

nostre proiezioni. E ogni aspetto della vita è enigmatico come una pirandelliana verità. Un racconto di questa ultima sezione di Lilît non può essere dimenticato, Breve sogno. All’apparenza bonario e divertente, lievemente scanzonato, contiene brividi di sugge-

stioni di ogni tipo concentrati entro brevi orizzonti. Sembra 2 Cfr. La ragazza del libro, in Lilit e altri racconti, p. 214.

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LE OPERE

una summa di temi e motivi compressi entro la misura tacitiana della concinnitas, la brevità. In esso vibra, in maniera subdola, anche una commozione sfuggente, poiché si concentra stranamente, ma in maniera violenta, solo nella frase che chiude la narrazione; per giunta sdrammatizzata da un errore di pronuncia che verrà corretto. Lo scrittore dà l’impressione di essere super partes, del tutto lontano, mentre invece la sua partecipazione è vigile e attiva. Come titolo Breve sogno ha due (0 più) valenze: la narrazio-

ne di un sogno fatto in treno e una più ampia e profonda riflessione morale sulla vita. Il vizio della cultura classica fende e percorre Levi — come vedremo — attraverso una ripresa petrarchesca; lo trapassa dalle più remote origini (l'ossessione mitica del sogno di Tantalo, vissuta alla Buna) fino alla storia di Riccardo e della sconosciuta del treno. A questo punto dovremo affermare il postulato che la tradizione letteraria genera letteratura, dato che dalla letteratura nasce il racconto, giustifica-

to, all’inizio, anche da richiami a Tolstoj, Maupassant, Calvino. Ma Levi dà vita autonoma al testo, perché ad altro appende il proprio messaggio, a un precetto morale rappresentato dal dito alzato che la donna agita solennemente a mònito severo. Elementare la trama, profondo l’insegnamento. Riccardo, in treno, incontra una giovane inglese e, seguendo un comportamento archetipico, vorrebbe avere un qualche rapporto con lei. Lei gli si rifiuterà. L'architettura — che sta sotto un fatto in sé trascurabile — è robusta come i potenti tralicci di Faussone. L'elemento chiave è un libro “galeotto” che la non particolarmente bella inglese sta leggendo. E un’opera su Petrarca. I due si assopiscono e nel sogno che segue, Riccardo si fa Francesco che torna da Roma dopo l’incoronazione a poeta. Sente però di dormire su un materasso di foglie di alloro secche. E a disagio, perché si chiede che valore possa avere farsi un'immagine ideale di una donna per poi vivere d’essa e per essa: Provava poi anche un disagio più profondo e più serio. Era lecito, era decente per un buon cristiano, inventarsi una donna distillandola dai propri sogni allo scopo di amarne l’immagine per tutta una vita, e adoperare questo amore allo scopo di diventare un poeta famoso, e

LILÎT E ALTRI RACCONTI

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diventare un poeta allo scopo di non morire del tutto [...]? Non era un’ipocrisia?”

All’arrivo a Pisa, altro scatta nella mente di Riccardo: la giovane inglese inizia a citare Dante; il protagonista inizia a pensare a un’avventura con la giovane, come accade in certi racconti di Calvino degli Amori difficili. Dante riaffiora fra vuoti di memoria, come in // canto di Ulisse di Se questo è un uomo. Considerazioni di natura linguistica fanno capolino quando la giovane inglese usa parole quali «membra» («Si può distendere le membra?»). É a questo punto che Riccardo incomincia «a far calcoli»: può proseguire con lei fino a Salerno; può invitarla a scendere a Napoli e offrirlesi come guida della città; può lasciarla andare a Salerno, ma invitarla ad un appuntamento napoletano. Non accadrà niente di tutto questo. Ogni desiderio sarà destinato al fallimento, a non vedersi realizzato:

Quando il treno fu fermo nella stazione di Napoli, si voltò, e si trovò davanti lo sguardo della ragazza. Era uno sguardo fermo e gentile, ma con una connotazione d’attesa: sembrava che lei gli leggesse dentro in chiaro, come in un libro. Riccardo le chiese: — Perché non scende a Napoli con me? — La ragazza fece di no con il capo. Lo guardava fisso, sorrideva, ed anche lei aveva l’aria di almanaccare, di andare inseguendo una risposta che non si lasciava acchiappare. Si rosicchiava un dito, in atteggiamento infantile; poi, agitandolo solen— nemente, scandì: — Quanto piacce al mondo è breve

sogh-no. — Si pronuncia «sogno», — disse Riccardo, e si avviò nel corridoio per discendere dal vagone.” Così, come dal nulla era iniziato l’incontro, nel nulla esso

si chiude: nel silenzio, nella sospensione pensosamente “2 Cfr. Breve sogno, in Lilit e altri racconti, p. 243. A proposito dell’espressione «allo scopo di non morire del tutto», si noti l'analogia con OrazIO, Odi, III, 30, 6: non omnis moriar, «io non morirò del tutto». 23 Cfr. Breve sogno, in Lilit e altri racconti, p. 246.

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LE OPERE

penosa e svolta in toni elegiaci e petrarcheschi. La citazione del verso finale del primo sonetto del Canzoniere ha la forza del suggello apposto sull’inutilità del nostro affannarci: nostra colpa, di noi che, come uomini, continuiamo a porci sempre — senza trovare risposta — una domanda che non ha punto interrogativo, Se questo è"un uomo. Perché siamo noi pure — per immagine pindarea — solo “sogno di un’ombra”.°*

Se non ora, quando?

Le complicate vicende di un gruppo di ebrei russi e polacchi, inserite nel contesto della guerra partigiana all’interno della fiabesca cornice delle paludi e delle grandi pianure nevose della Russia, costituiscono il nucleo intorno a cui ruota e si sviluppa il racconto, pubblicato da Einaudi nel 1982. Il filo conduttore è la rivendicazione dell’umana dignità, il diritto alla verità. A questo proposito il titolo è chiarificatore: se non ora, quando gli ebrei avrebbero potuto combattere per riacquistare la dignità perduta e calpestata? La molla che ha fatto scattare in Levi l’urgenza della narrazione è ben altra che la semplice necessità di creare una epopea. Fiora Vincenti osserva che «il linguaggio di Levi procede pianamente, senza concedersi —- nemmeno quando potrebbe sembrare necessario o almeno lecito — alcuna digressione dal proprio raro, consistente equilibrio, senza permettere che la narrazione sia mai contaminata dall’enfasi, ché anzi una lieve ironia-— subliminale, diremmo — costituisce il lievito

della sua misuratissima prosa». In quest'opera Levi prende sicure distanze da ogni facile sionismo di circostanza che rischierebbe di trasformarsi in motore di antisemitismo. Le polemiche che sul finire degli anni Settanta erano scoppiate in Israele riguardo al comportamento degli ebrei europei, accusati di non essere stati capaci di opporsi alla follia hitleriana e nazista, offrono a Levi lo stimolo per dare

vita a Se non ora, quando?. Lo scrittore interviene con que2“ Cfr. PINDARO, Pitiche, VIII, 95: okLàG Dvap / divapwroc, «sogno di un’ombra / l’uomo».

2% Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 142.

SE NON ORA, QUANDO?

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sto racconto che si pone il fine di negare i presupposti delle polemiche. In altri termini è come se volesse riaffermare, contro chi in quel momento tendeva a svilire la dignità degli ebrei d’Europa, che le accuse rivolte contro di loro sono del tutto infondate. Il nucleo narrativo risale — nonostante lo scrittore lo collochi in un arco di tempo molto ristretto, il 1981 — a un racconto che un amico, Emilio Vita Finzi, gli aveva fatto molti anni

prima.” Ad esso Levi aveva dato importanza fino da subito dopo la pubblicazione di La tregua. Osserva Marco Belpoliti che forse era stato proprio un episodio del libro — la storia di un vagone agganciato dai sionisti al treno della libertà degli ex deportati — «a suscitare il ricordo dell’amico che gli aveva riferito di una banda di partigiani ebrei russi arrivati sino a Milano».?7

Il libro può perciò essere collocato nel genere dei romanzi a tesi, poiché l’opera è nata proprio con questo fine. A sostegno di questa ipotesi è l’intenso lavoro documentaristico svolto da Levi prima di dare vita alla narrazione dell’epopea del riscatto. Attraverso ricerche meticolosamente svolte sia in Italia che all’estero, lo scrittore rintraccia, nella Biblioteca

Nazionale di Parigi, il diario di un gruppo di partigiani russi: la prova, quindi, che gli ebrei d'Occidente non sono stati inerti dinanzi alla furia nazista, né incapaci di dare una ade-

guata risposta alla persecuzione.”* Un piccolo espediente — la riscrittura di alcuni detti rabbinici attribuita a un cantore ebraico, Martin Fontasch, di cui si parla nel racconto — permette a Levi di trovare anche il titolo. Pur essendo Se non ora, quando? il libro più lungo di Levi e comunemente definito romanzo, finora abbiamo avuto una certa riluttanza a classificarlo come tale. Rimane infatti

difficile definire questo libro con un termine che in sé richiama il concetto di una struttura preminentemente fantastica. Ora, Levi non inventa mai: racconta fatti, vissuti o ascoltati; vi innesta personaggi e contaminazioni comportamentali che *6 Cfr. Nota, in Se non ora, quando?, p. 261. 4? Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 142. 28 In Itinerario di uno scrittore ebreo, conferenza risalente al 1982

(ora in Pagine sparse ID).

LE OPERE

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gli sono note. Dunque è più giusto parlare di racconto lungo, piuttosto che di romanzo. La storia è lì che preme sotto i gesti e le parole; i volti, gli atti, i pensieri, sono quelli di personaggi osservati e analizzati con le analitiche qualità di un chimico di professione: ma niente c’è di totalmente fantastico, neppure quando sembra che il racconto nasca da un inatteso paradosso, da un particolare meta- o iper-reale. Viaggio, fughe, amore, morte, passione, paura — elementi alcuni dei quali erano già accennati in La ragazza del libro °* sono la miscela di cui si alimenta il tessuto di Se non ora, quando?. Odissea era stata La tregua — anche se personale odissea — e odissea è pure questa storia di Gedale e Mendel, che si muove entro un àmbito geografico simile a quello di La tregua. È un ripetere quel precedente percorso — come è stato notato — in forma diversa e con personaggi e tappe diverse. Ci sono dunque tutti i presupposti della topicità del romanzo, ma compare anche l’ineludibile datità del reale che si impianta saldamente sulla storia, se non quella dei manuali, quella dei diari di guerra — tanto che la scansione narrativa è annalistica in senso classico, ripartita in dodici capitoli in cui si raccontano avvenimenti suddivisi in sottosezioni mensila Sulla genesi e la giustificazione morale e poetica del racconto, serve ascoltare l’autore: Questo libro è nato da quanto mi ha raccontato molti anni fa un mio amico, che a Milano, nell’estate del 1945, aveva prestatola sua opera nell’ufficio di assistenza delineato nell’ultimo capitolo. In quel periodo, insieme con una fiumana di rimpatriati e di profughi, arrivarono realmente in Italia alcune bande simili a quella che mi sono proposto di descrivere: uomini e donne che anni di sofferenze avevano induriti ma non ° Cfr. La ragazza del libro, in Lilît e altri racconti, p. 209. °° La narrazione inizia dal luglio 1943. Gli anni esaminati comprendono l’arco 1943-1945 (luglio-agosto). Solo in due occasioni il ritmo

annalistico è superato da un salto di anno: il capitolo IV abbraccia i mesì dal novembre 1943 al gennaio 1944; e il TX quelli dal settembre 1944 al gennaio 1945.

SE NON ORA, QUANDO? umiliati, superstiti di una civiltà (poco nota in Italia) che il nazismo aveva distrutto fin dalle radici, stremati ma consapevoli della loro dignità. Non mi sono prefisso di scrivere una storia vera, bensì di ricostruire l’itinerario, plausibile ma immaginario,

di una di queste bande. In massima parte, i fatti che ho descritti sono realmente avvenuti, anche se non sempre nei luoghi e nei tempi che ho loro assegnati. È vero che partigiani ebrei hanno combattuto contro i tedeschi, quasi sempre in condizioni disperate, ora incorporati in bande più o meno regolari sovietiche o polac-

- che, ora in formazioni costituite solo da ebrei. Sono esistite bande vaganti come quella di Venjamin, che volta a volta hanno accettato o respinto (o talora disarmato o ucciso) i combattenti ebrei. È vero che gruppi di ebrei, per un totale di dieci o quindicimila persone, sono sopravvissuti a lungo, alcuni fino alla fine della guerra, in accampamenti fortificati come quello che ho arbitrariamente situato a Novoselki, o anche (per quanto incredibile possa sembrare) in catacombe come quella in cui ho collocato Schmulek. Azioni di «diversione», come i sabotaggi ferroviari e il dirottamento dei lanci paracadutati, sono ampiamente documentate nella letteratura sulla guerra partigiana in Europa Orientale. I personaggi, con la sola eccezione di Polina, la ragazza pilota, sono invece tutti immaginari. In particolare, è immaginaria la figura del chansonnier Martin Fontasch, ma è vero che molti cantori e poeti ebrei, famosi e modesti, nelle città e nei villaggi sperduti, sono stati

uccisi come questo Martin; e non solo negli anni 19391945, e non solo per mano dei nazisti. Inventata è dunque anche la canzone dei «gedalisti», ma il suo ritornello, insieme con il titolo del libro, mi è stato suggerito da alcune parole che ho trovate nei Pirké Avoth («Le massime dei Padri»), una raccolta di detti di rabbini famosi che fu redatta nel II secolo dopo Cristo e che fa parte del Talmud. Vi si legge (cap. I, $ 13): «Egli [il Rabbino Hillel] diceva pure: “Se non sono io per me, chi sarà per me? E quand’anche io pensi a me, che cosa

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LE OPERE

sono io? E se non ora, quando?”». Naturalmente, l’in-

terpretazione che di questo detto io attribuisco ai personaggi non è quella ortodossa. Poiché ho dovuto ricostruire un tempo, uno scenario e un linguaggio che ho conosciuti solo di striscio, ho fatto ampio ricorso a documenti, e mi è stata preziosa la consultazione di molti libri. [...]

Ne ringrazio gli Autori, insieme con tutti coloro che mi hanno incoraggiato con i loro giudizi, e le cui critiche mi hanno fatto da timone. Debbo un ringraziamento particolare a Emilio Vita Finzi, che mi ha raccontato il nòcciolo di questa storia e senza il quale il libro non sarebbe stato scritto, ed a Giorgio Vaccarino, che mi ha affettuosamente seguito ed ha messo a mia disposizione il suo portentoso archivio.” Occorre notare come lo scrittore rivendichi piena autonomia d’invenzione ai suoi personaggi — «con la sola eccezione di Polina, la ragazza pilota» —, ma è necessario anche fare

attenzione a come, subito dopo, egli si affretti a riportare nell’àmbito del concreto anche la pura invenzione: «è immaginaria la figura del chansonnier Martin Fontasch, ma è vero che molti cantori e poeti ebrei, famosi e modesti, nelle città e

nei villaggi sperduti, sono stati uccisi come questo Martin; e non solo negli anni 1939-1945, e non solo per mano dei nazisti». Ciò suffraga la nostra ipotesi secondo cui sotto ogni personaggio “inventato”, c'è sempre una persona reale che Levi ha veduto o di cui ha sentito parlare. Martin stesso potrebbe essere scambiato con la figura del Tischler di Liltt Quando Rosellina Balbi intervista Levi su questo libro, giustamente osserva che vi è una analogia fra La ricerca delle radici e Se non ora, quando?. Scrive che l’analogia sta Cfr. Nota, in Se non ora, quando?, pp. 261-262. ©? Cfr. Lilit, in Lilit e altri racconti, p. 19: «Qualche volta, a sera,

dava spettacolo in yiddish raccontando storielle o recitando filastrocche, e a me spiaceva di non capirlo. A volte cantava anche, e allora nessuno applaudiva e tutti guardavano a terra, ma quando aveva finito lo pregavano di ricominciare».

SE NON ORA, QUANDO?

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appunto nel fatto che anche nell’antologia delle letture leviane il percorso verso la «salvazione» avviene «attraverso una serie di tappe (rappresentate da altrettanti autori): la capacità di ironia, la conoscenza, la consapevolezza di ciò che significa essere uomini». La Balbi aggiunge che le pare che «l’itinerario percorso dai personaggi di questo romanzo non sia dissimile dall’itinerario intellettuale che Levi ci proponeva allora: parte anche questo dall’oppressione e dall’ingiustizia, e, attraverso una più o meno limpida presa di coscienza, perviene alla salvezza». Infine la Balbi dichiara di avere l’impressione che Levi, identificandosi con uno dei suoi personaggi, si sia, per così dire, calato nel personaggio di Mendel, il consolatore. A quel punto lo scrittore non mostra reticenze e conferma: Infatti. Nel profondo, mi sono effettivamente identificato con Mendel. Voglio dire che lui fa quello che avrei fatto io, o meglio quello che avrei dovuto fare io se ne fossi stato capace.’

In effetti il disegno della consolazione e della salvazione segna l’itinerario di questo lungo racconto, perché sembra essere il filo della speranza ciò che lega gli sbandati: la speranza di non si sa cosa, forse della riappropriazione di una identità perduta, forse del ritrovarsi ancora insieme — si immagina, non si dice che tutti raggiungeranno una patria comune, la Palestina. In realtà l’unica speranza che appare possibile, per Mendel il consolatore, è proprio la nascita del bimbo che occupa la pagina finale del libro; una speranza che si raddensa proprio nei pensieri di Mendel, quando la giovane partoriente viene condotta in sala-parto e lui e Line restano soli, seduti l’uno accanto all’altra:

Seduto accanto a Line, Mendel guardava le sue ginocchia che sporgevano dalla gonna. Era la prima volta 3 Cfr. R. BALBI, Mendel, il consolatore, in «la Repubblica», 14 aprile 1982; ora in M. BELPOLITI, Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, cit., p. 132.

LE OPERE

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che le vedeva: mai prima, se non con le dita veggenti, tremule dal desiderio, nell’oscurità dei loro giacigli ogni notte diversi, o attraverso il panno opaco dei pantaloni. Non cedere. Non cederle. Non ricominciare, sii savio, resisti. Non vivresti una vita accanto a lei, non è

una donna per la vita, e tu non hai ancora trent'anni. A trent'anni la vita può ricominciare. Come un libro, quando hai finito il primo volume. Ricominciare da dove? Da qui, da oggi, da quest’alba milanese che sorge dietro i vetri smerigliati: da stamattina. Questo è un buon luogo per cominciare a vivere. Forse avresti dovuto fare come loro, hanno avuto ragione loro, i due nebech; non hanno fatto come te con Line, hanno chiuso gli occhi e si sono abbandonati e il seme dell’uomo non si è disperso e una donna ha concepito.”* L’eterno dilemma di Levi-Mendel

non si è perduto.

L’ossessione del ricominciare sempre o dell’andare avanti,

del continuare a vivere, era già tormento che rodeva in Verso occidente; era il terrore che dominava nelle favole che si narrano su Lilît. La tragicità del libro è racchiusa nella conclusione, quando, dopo la nascita del bimbo maschio, all’apertura alla vita di una nuova vita, il baratro dell’umana ignominia si riapre improvvisamente in una sorta di condanna che non avrà mai fine, perché il giornale che un medico porta con sé reca la data del martedì 7 agosto 1945, con «la notizia della prima bomba atomica lanciata su Hiroshima». Come dire che dopo Auschwitz c’è sempre una nuova Auschwitz. E la figura di Mendel che dà sapore alla narrazione, col suo assumere toni — com'è stato osservato — di tipo sapienziale. L'educazione ebraica e la conoscenza della Bibbia consente a Levi di raggiungere — attraverso parole piane, esemplate a volte sulla narrazione di tipo manzoniano — quella gravitas che, senza essere opprimente e sentenziosa, affascina per il meditato buonsenso che contiene. «Nella galleria di personaggi che Levi ci presenta» scrive ?* Cfr. Luglio-agosto 1945, in Se non ora, quando?, p. 258. 2 In Vizio di forma, p. 195.

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Fiora Vincenti «variano, ovviamente, le caratteristiche, le

qualità, l’intensità di quella che potremmo definire la consistenza esistenziale; ma in ognuno di quegli ebrei russi o polacchi, così diversi per età, derivazione sociale e per le vicende che tragicamente hanno contrassegnato la loro vita nel recente passato, negli anni insomma in cui si è scatenata la furia distruttiva nazista, si è fatta strada a poco a poco, tra

fughe, attacchi, disperate resistenze e colpi di mano, una caratteristica comune, una uguale consapevolezza della conquista di una nuova libertà, quella stessa, appunto, in vista della quale essi avvertono che non avrebbero mai più avuto la possibilità di riscattare il proprio destino.»?9 In altri termini tutto questo potrebbe essere letto come elemento di ebraismo inteso quale coscienza di razza, tema,

anch'esso di Se non ora, quando?, sul quale però, come giustamente osserva Marco Belpoliti, «Levi non calca mai la mano» tanto che il libro «pur svolgendosi per gran parte nelle terre della Russia Bianca e nei territori dell’ Europa centrale, presenta, almeno nelle pagine finali, un vero e proprio elogio dell’Italia quale terra dolce e accogliente che si oppone al colore uniforme e al clima rigido delle lande russe».?? Un'ultima considerazione circa i personaggi. È stato notato che Levi non ha una particolare attitudine a delineare i caratteri femminili; che, in qualche modo, non riesce a dare loro vita autonoma e che lo scrittore fatica a calarsi nella loro psicologia. Questa tendenza alla stilizzazione Levi la spiega in conversazioni e interviste sostenendo che l’ascendenza biblica di molte figure femminili fa sì che esse risultino stilizzate. È il caso di supporre che il richiamo alla stilizzazione biblica sia solo una delle cause per le quali questo limite veniale può essere rilevato. Alla base della stilizzazione è forse più appropriato porre un lontano condizionamento inibente operato su Levi adolescente dalla figura del padre, che come ricorderemo lo invitava a bere, a fumare e a frequentare le ragazze. La successiva esperienza del Lager ha fatto il resto, distan256 Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 143. 257 Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit., p. 144.

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ziando da Levi ogni “concretezza femminina”. Se a questo aggiungiamo l’innato pudore dello scrittore, può essere più chiaro il motivo per cui ogni figura femminile è stilizzata. La donna è mito — ed esso è, di per sé, stilizzazione.

L’altrui mestiere

Da una serie di articoli pubblicati su «La Stampa» fra il 1976 e il 1984, nel 1985 nasce ed esce — sempre da Einaudi — il volume dal titolo L’altrui mestiere. Come è stato notato, si tratta di un libro interessante, da porre sullo stesso piano di

La ricerca delle radici. Anche in questo caso infatti siamo dinanzi a un’opera che propone una serie di referenze. Gli interessi di Levi emergono in tutta la loro varietà, investono la sua esistenza e si appendono ora al ricordo ora alle curiosità legate alle scienze (biologia, chimica, entomologia), alla linguistica e alla letteratura, alle arti e ai mestieri. Si tratta di una vera miniera di appunti e osservazioni, in cui è possibile intravedere come — per usare una immagine leviana — gli atomi di carbonio entrino nel suo organismo sotto forma di lunghe catene e vengano prima ingoiati e poi scissi; migrino, bussino «alla porta di una cellula nervosa» che appartiene al suo cervello e si trasformino in pensiero.?* Se il titolo sembra alludere a esperienze diverse da quelle vissute dallo scrittore, ciò è solo un puro “effetto ottico”: Levi si occupa dei mestieri altrui, ma anche del proprio e di quelli che gli sarebbe piaciuto fare. La meticolosa attenzione che riserva ai particolari, fa di molti dei brani del libro dei veri e propri racconti, miscele all’apparenza eterogenee, ma sapientemente dosate di fatti e riflessioni. Levi ha attinto la saggezza leopardiana delle Operette morali, quelle in cui dato e logica si fondono per raggiungere una verità da desumere. Di cinquantuno elzeviri si tratta, e di grande eccellenza. Nei quali Levi dà al lettore la sua unità di misura per leggere e interpretare la vita in tutti gli aspetti e dai più disparati punti di vista. Come confessa lui stesso nella premessa, il libro è una serie continua di «incursioni in mestieri altrui», °* Cfr. Carbonio, in Il sistema periodico, p. 238.

ti ,

L’ALTRUI MESTIERE

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risultato di «pulsioni di voyeur e ficcanaso»? Sulle qualità di Levi elzevirista ci illumina una osservazione che compare nella recensione da Calvino dedicata al volume. «Tra le pagine degne di una antologia ideale» scrive il recensore «indicherei subito Segni sulla pietra, che comincia con una “lettura” dei selciati dei marciapiedi torinesi come un documento mineralogico, antropologico, storico, e termina con amare riflessioni sull’indistruttibilità della gomma da masticare. L'occhio di Primo Levi si posa sulla città come quello di un paleontologo futuro che nelle stratificazioni dell’asfalto scoprirà “come gli insetti del pliocene nell’ambra, i tappicorona della Coca-Cola e gli anellini a strappo della birra in lattine”’».29

L’attenzione rivolta alla realtà è la stessa che lega Levi al suo mestiere di chimico: vita e chimica risultano così strettamente connesse — e non solo per come ci vengono presentate in certe meravigliose pagine de // sistema periodico —, che fra Levi scrittore e Levi chimico alla fine non esiste escursione termica. Il testo che apre L’altrui mestiere ha per titolo La mia casa. Con esso rimaniamo nell’àmbito della memoria e del quotidiano, ma soprattutto in quello della affettività, schiva e

25° Questi i titoli dei brani raccolti nel volume: La mia casa, Aldous Huxley, Ex chimico, Frangois Rabelais, La luna e noi, Tartarin de Tarascon,

Tornare a scuola, Perché si scrive?, L'aria congestionata,

Calze al fulmicotone, Contro il dolore, Dello scrivere oscuro, «Leggere la vita», Segni sulla pietra, Romanzi dettati dai grilli, Domum servavit, Il pugno di Renzo, Trenta ore sul Castoro sei, Inventare un animale, Lo scoiattolo, Il libro dei dati strani, Il salto della pulce, Tradurre ed essere tradotti, L’internazionale dei bambini, La lingua dei chimici I, La lin-

gua dei chimici II, Le farfalle, Paura dei ragni, La forza dell’ambra, Gli scacchisti irritabili, La Cosmogonia di Queneau, L'ispettore Silhouette, Scrivere un romanzo, Stabile/instabile, I padroni del destino, Notizie dal

cielo, Gli scarabei, Il rito e il riso, Il mondo invisibile, «Le più liete creature del mondo», Il segno del chimico, La miglior merce, Le parole fossili, Il teschio e l’orchidea, Il fondaco del nonno, Un lungo duello, Il linguaggio degli odori, Lo scriba, A un giovane lettore, Bisogno di paura, Eclissi dei profeti.

26 Cfr. I. CALVINO, / due mestieri di Primo Levi, in «la Repubblica», 6 marzo 1985; poi in L’altrui mestiere, pp. V Sgg.

LE OPERE

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pudica dello scrittore. La misura del rapporto che Levi ha con la sua abitazione, la ricaviamo dalla conclusione: Abito a casa mia come

abito all’interno della mia

pelle: so di pelli più belle, più ampie, più resistenti, più pittoresche, ma mi sembrerebbe innaturale cambiarle con la mia.”

Ma essa emerge anche da una osservazione che lo scrittore ha fatto poco prima:

Non mi è facile parlare del rapporto che ho con lei: forse è di natura gattesca, come i gatti amo gli agi ma posso anche farne a meno, e mi sarei adattato abbastanza bene anche ad un alloggiamento disagiato, come

varie volte mi è successo,

e come mi succede

quando vado in albergo.” Per Levi la casa di corso Re Umberto è il cosmo entro cui — sia pure in maniera del tutto abitudinaria o per certi aspetti nevrotica — si è realizzata l’intera sua esistenza, nel bene e nel male — e finché morte non lo ha separato da essa. Non è vero che la sua casa «si caratterizza per la sua assenza di caratterizzazione», poiché già questo è una sorta di definizione ben precisa, almeno nella mente e nell’anima. La casa è infatti un paesaggio dell’anima, al tempo stesso così preciso e così sfuggente nella sua “normalità”. Lo capiamo quando, dopo avere dichiarato la sua somiglianza con le patelle — i molluschi che all’inizio nuotano liberamente e poi «si fissano a uno scoglio, secernono un

guscio e non si muovono più per tutta la vita» — Levi ha un sussulto nel trapasso curioso verso l’improbabile, e afferma che non potrebbe legare un elenco di nomi — da ricordare in fila con l’esercizio della mnemotecnica — agli angoli della sua casa, dato che l’artificio di una così mirabolante performance 2 Si noti che anche in // sistema periodico, Argon — dedicato alle origini della famiglia — occupa il primo posto. °° Cfr. La mia casa, in L’altrui mestiere, p. 7. °* Cfr. La mia casa, in L’altrui mestiere, pp. 6-7.

L’ALTRUI MESTIERE

163

non funzionerebbe nel suo caso, poiché nella sua «memoria tutti gli angoli di casa sono già occupati, ed i ricordi autentici interferirebbero con quelli occasionali e fittizi». A questo punto la casa di corso Re Umberto, tanto discreta e impenetrabile, regno di assoluta privatezza, inizia a rivelare alcuni dei suoi più gelosi segreti: la dislocazione geografica precisa del portaombrelli; la posizione del ferro di cavallo trovato per via dallo zio Corrado («amuleto di cui sarebbe difficile stabilire se abbia o no esercitato la sua azione protettiva»); il chiodo da cui pendeva una grossa chiave di cui si era persa la destinazione, ma che nessuno osava gettare via; il nascondiglio per il rimpiattino, luogo in cui Levi si è ferito un ginocchio su una scheggia di vetro (glielo ricorda ancora una cicatrice — segno evidente di un «passato prossimo» destinato ad avere effetti in un «presente indicativo»). E nel segno della continuità esistenziale e familiare quello stesso luogo servirà ancora, trent'anni dopo, come rifugio della figlia e, dopo ancora otto anni, dei compagni del figlio, uno dei quali, perso un dente di latte, lo ha seppellito «per misteriose ragioni magiche [...] in un buco dell’intonaco dove probabilmente si trova tuttora». Il tema del viaggio in questo mondo a un tempo angusto e infinito, prosegue con un «cammino destrogiro». Così incontriamo la stanza che nel corso degli anni ha avuto destinazioni diverse: Dopo la guerra (e il sequestro dovuto alle leggi razziali) ci hanno dormito e giocato successivamente i miei due figli, e ci ha passato molte notti mia moglie che li assisteva quando erano ammalati: io no, con l’alibi di ferro del lavoro in fabbrica e con l’egoismo olimpico dei mariti.”

Ecco riaffiorare due temi cari a Levi: il lavoro e i rapporti con la figura femminile, di cui afferriamo il valore nell’ironia di quell’«alibi di ferro» e di quell’ «egoismo olimpico» che sono testimonianza fugacissima di un senso di colpa persistente e profondo, quale compare anche in /2 lu24 Cfr. La mia casa, in L’altrui mestiere, p. S.

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glio 1980, la poesia scritta per il compleanno della moglie Lucia.?® Dall’interno di questo universo Levi esce e si espande nel paesaggio urbano che circonda la casa. E allora sono le memorie della periferia — che si è sempre più ristretta fino a saldarsi con la città — a catturare la fantasia: Altre voci famigliari salivano dalla strada in altre ore del giorno: i richiami del vetraio, dello stracciaio, del raccoglitore dei «capelli del pettine» [...]; occasionalmente, di mendicanti che suonavano l’organetto o cantavano in strada, ed a cui si gettavano monetine incartate.?° La commozione di questo passare in rassegna un ambiente intensamente vissuto è il catalizzatore dello scritto: ma sono la sobrietà e l’apparente innocuo distacco dalle cose stesse, che cementano ogni osservazione, ogni parola. Ciò accade anche in Il fondaco del nonno, rievocazione dell’attività dell’avo materno che si dipana sul filo della memoria nostalgica e dolente, all’insegna del recupero di un mondo davvero perduto. La figura del nonno — che apre i primi tre capoversi del brano con una sorta di anafora solennizzante —’ è così presentata:

Il nonno era un patriarca corpulento e solenne; era arguto, ma non rideva mai; parlava pochissimo, con rare frasi esattamente dosate, dense di significati palesi e riposti, spesso ironiche, sempre piene di tranquilla autorità. Non credo che in vita sua abbia mai letto un libro; il suo mondo era delimitato dalla casa e dalla bottega, distanti tra loro non più di quattrocento metri, che lui percorreva a piedi quattro volte al giorno. Era un abile uomo

d’affari, e in casa un altrettanto abile

2 «Abbi pazienza mia donna impaziente, / Tu macinata, macerata, scorticata, / Che tu stessa ti scortichi ogni giorno / Perché la carne nuda ti faccia più male», in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. IT), p. 51. °° Cfr. La mia casa, in L’altrui mestiere, p. 6. 26

" Cfr. Il fondaco del nonno, in L’altrui mestiere, p. 215.1 primi tre capoversi iniziano con «Il mio nonno», «Mio nonno» e, infine — con la scomparsa del possessivo —, «Il nonno».

L’ALTRUI MESTIERE

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cuoco, ma andava in cucina solo nelle grandi occasioni, per confezionare vivande raffinate ed indigeste; allora ci stava tutta la giornata, e mandava via tutte le donne, moglie, figlie, domestiche.” E interessante, in questa affettuosa rievocazione, l’analisi

della casistica dei clienti, presentati attraverso espressioni desunte dal gergo mercantile: [...] i venditori comunicavano in piemontese, interca-

lando però nella parlata una ventina di termini tecnici che i clienti (anzi, le clienti: erano quasi tutte donne) non avrebbero dovuto decifrare, e costituivano un microgergo scheletrico, un codice elementare ma

essenziale, le cui voci venivano sussurrate velocemente ed a fior di labbra. Ne facevano parte, in primo luogo, i numerali: ridotti per semplicità ad una filza di cifre, naturalmente cifrate, servivano al nonno per trasmettere al commesso quale prezzo (ridotto, o viceversa rincarato) praticare a questa o a quella cliente; infatti, i prezzi non erano fissi, ma variavano in funzione della simpatia, della solvibilità, dell'eventuale parentela e di altri fattori imprecisabili. «Missià» era una cliente noiosa; «térdes-

un» («tredici-uno») era la cliente del tipo più temuto, quella che fa tirar giù dai ripiani quaranta pezze, discute il prezzo e la qualità per due ore, e poi se ne va senza comprare.”

Nella figura della «térdes-un» non può sfuggire un’autocitazione leviana che compariva quasi identica anche all’inizio di A tempo debito.”?”° Ma ciò che più colpisce nel percorso 28 Cfr. Il fondaco del nonno, in L’altrui mestiere, p. 215. 26° Cfr. Il fondaco del nonno, in L’altrui mestiere, pp. 216-217. 0 «[...] ma quella signora non accennava ad andarsene. Aveva già

fatto tirare giù mezzo negozio, voleva un taglio di una stoffa che non esisteva in un colore che non esisteva. [...] La signora voleva ancora dare

un’occhiata alla pezza più bassa di una pila di pezze, e Giuseppe si stava arrabattando per tirarla fuori [...]». Cfr. A tempo debito, in Lilit e altri racconti, p. 157.

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della memoria è la figura patriarcale dell’avo, piena di sapienza e ricca di fascino arcano nella sua arguzia e nel suo mai ridere, nella solennità che richiama quella di una carduc-

ciana “nonna Lucia” di Davanti San Guido, anche lì evocazione di un fantasma con tutto il mondo di umile sapienza che vi si addensa. Se questi due esempi possono essere inscritti in un filone di «passato prossimo», in un’area di «presente indicativo» può invece essere annoverata la già citata Segni sulla pietra, dal cui titolo ci aspetteremmo chissà quale scoperta. Al contrario, il titolo depistante serve a Levi per affrontare con animo ludico, ma non senza un qualche segno di preoccupazione, un problema minimalissimo: lo stato dei marciapiedi di Torino. Fra realtà, finzione e paradosso, l’attenzione dello scrittore si appunta sulla consumazione delle pietre, che può dirci poco, tanto o tutto; e si conclude con un pezzo di bravura dedicato alla gomma da masticare, ultimo dei segni sulla pietra. Ma l’attacco è altisonante. Esso si rifà all’ Adhaesit pavimento anima’ mea, citato dal Salmo 119 e al tempo stesso ripresa dantesca, e si nasconde — in maniera subdola e impercettibile — fino alla conclusione della divagazione, dove viene

ripreso in termini di volgarizzamento e banalizzazione: Accanto ad altri elementi più ovvi e triviali, sono questi i segni che si ravvisano sul lastricato quando l’anima vi aderisce come la gomma da masticare, per motivo di accidia, pigrizia o stanchezza.” Anche in questo caso la struttura anulare, la linea curva caratteristica di Levi, si chiude su un giudizio morale circa le mutate condizioni dei tempi: l'altezza grave di un’archeologia quasi mitologica è contrapposta alla degradazione dell’ambiente urbano, di cui le gomme da masticare non sono che un indice con le loro macchie «di pochi centimetri, biancastre grigie o nere» destinate a durare nel tempo; quelle gomme che non sono mai state usate come arma — sottolinea Levi —, ma sono pur sempre servite come «strumento per sabotare le macchinette annullatrici dei trasporti urbani, nei °" Cfr. Segni sulla pietra, in L’altrui mestiere, p. 63.

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L’ALTRUI MESTIERE

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mesi più caldi della contestazione giovanile».”? Nell’àmbito degli interessi linguistici si colloca Le parole fossili. Lo studio dell’etimologia permette a Levi di “divertirsi” con le parole. Del resto è una sua antica passione: [...] sto parlando qui di una mia vecchia debolezza, che è quella di occuparmi a ore perse di cose che non capisco, non per edificarmi una cultura organica, ma per puro divertimento: il diletto incontaminato dei dilettanti. Preferisco orecchiare che ascoltare, spiare dai buchi di serratura invece di spaziare sui panorami vasti e solenni; | preferisco rigirare tra le dita una singola tessera invece di contemplare il mosaico nella sua interezza. [...] E certamente un vizio, ma fra i meno nocivi; al di fuori

della lettura, si manifesta nella tendenza a fare le cose che non si sanno fare; così operando, può anche capitare che si impari a farle, ma questo è un accidente, un sottoprodotto: il fine principale è il tentativo in sé, il libertinaggio, l’esplorazione. Ricordo di aver letto molto tempo fa, su questo argomento, un bellissimo saggio, naturalmente dilettantesco, del povero Paolo Monelli:

si intitolava Elogio

dello schiappino, e lodava chi si arrabatta a fare i mestieri altrui, l’autodidatta [...].??

Partendo dal termine “baita”, che lo scrittore ha rintracciato in // sergente della neve di Mario Rigoni Stern, Levi ne associa il significato (ricovero, asilo, salvezza, casa) all’e-

braico “bait”, che appunto significa «casa»: una scoperta che lo aveva lasciato perplesso e affascinato fin da bambino, ma che in questo momento gli viene confermata da un dizionario etimologico su cui può leggere che si tratta di «parola alpina risalente al sostrato paleoeuropeo dall’area basca a quella egea»,””* fatto che gli suggerisce che si tratta forse di ? Cfr. Segni sulla pietra, in L’altrui mestiere, pp. 62-63. 25 Cfr. Le parole fossili, in L’altrui mestiere, p. 207. 24 Cfr. G. Devoro, Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario

etimologico, Le Monnier, Firenze, 1966; opera ristampata due volte nel 1967, poi riedita nel 1968 e ristampata nel 1970. L'attenzione rivolta alla stessa parola (baita - bait) anche in Piombo (Il sistema periodico), p. 89.

LE OPERE

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[...] un relitto dell’età dell’oro, quando tutto il

Mediterraneo parlava la stessa lingua, prima della Torre di Babele, prima che venissero dal Nord le armate feroci dei Dori, dei Galli, degli Illiri, a portare la guerra e la confusione dei linguaggi; quando un Basco poteva dire «andiamo a baita» a un Egeo, ed essere capito.?”

L’acuta finezza del ricercatore dilettante e curioso non si arresta. Levi si avventura, con precisione da linguista, nell’indagine di parole fossili del dialetto piemontese con la consapevolezza che «le vie spontanee sono più allegre e più ricche di sorprese». E scopre anche altre parole morte, ma vive nel dialetto, come musteila, che discende dal latino nustela (la donnola), o bulé che discende da boletus (il fungo

porcino), o malavi, che corrisponde al latino male habitus, il malato, l’infermo.

Una recensione di Lorenzo Mondo dedicata alle poesie di Giorgio Caproni edite da Garzanti, offre lo spunto a Levi per scrivere I! linguaggio degli odori, partendo dall’osservazione di Mondo che nell’opera del poeta livornese gli odori assumono una grande importanza, non solo quelli «della natura, ma anche e soprattutto gli odori umani» e ancor più precisamente gli «odori di donna, tenui o vivi, soavi o aspri», visti come «messaggi, espliciti anche se enunciati in un linguaggio (per ora) indecifrato».?”°

Il tema è da sempre caro a Levi, fino dalla prima storia narrata in Vizio di forma,” ma qui la prospettiva muta perché è il Levi che riflette e che si addentra anche in una sorta di analisi scientifica suffragata dall’autorevolezza di altri scrittori: da G. K. Chesterton a Virginia Woolf a Proust — nell’episodio in cui la Petite Madeleine evoca nello scrittore, dopo vari decenni, «l’edificio immenso del ricordo”». La conclusione è che «tutti gli odori, gradevoli o no, sono straordinari suscitatori di memorie». Il decalogo dello scrittore — composto però di sole nove 275

Cfr. Le parole fossili, in L’altrui mestiere, p. 207. 2° Cfr. Il linguaggio degli odori, in L'altrui mestiere, p. 226. 2” Cfr. I mnemagoghi, in Storie naturali, pp. 5-13.

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L’ALTRUI MESTIERE

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regole — dà vita a Perché si scrive?" che costituisce pure una dichiarazione di poetica in senso lato e che, proprio per ciò, è stata riportata integralmente nell’ Autopresentazione all’inizio di questo volume. Sullo stesso livello e piano si situa anche Dello scrivere oscuro, in cui Levi, da altro punto di vista, si pone il problema della forma e delle scelte espressive, sostenendo che «la scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni 0 sentimenti da mente a mente, da luogo a luogo e da tempo a tempo, e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto», ragione per cui lo scrittore deve farsi capire «da chi desidera capirlo».?”? A metà strada tra indagine linguistica e problemi di traduzione si colloca Tradurre ed essere tradotti. L'esperienza è ardua e poco gratificante «perché tradurre è difficile, e quindi l’esito del lavoro del traduttore spesso è scadente», con la conseguenza che «il traduttore viene pagato male, e chi potrebbe essere o diventare un buon traduttore si cerca un mestiere più redditizio».?8° Un misto di curiosità linguistica, di osservazioni e di

riflessioni sugli esperimenti di cui sono spesso vittime gli animali, si ha in Lo scoiattolo, da cui ci aspetteremmo una

serie di rilievi etologici che invece non giungono. Dal cognome di un amico di Levi presentato a due zie «piuttosto anziane, che vivevano in provincia», scappa fuori la storpiatura: «Munssti Prùn». Ma Prùn significa anche «scoiattolo». Dal cognome all’animale il passo è immediato e necessario; lo è anche quello dall’animale al ricordo di “un” animale preciso. La conclusione è del tutto inattesa, perché il ricordo di uno scoiattolo usato in laboratorio, ne fa — in una

catena di associazioni — un «prigioniero» che evoca l’antica esperienza del Lager. Un aprosdòketon in chiave ironica ma amarissima conclude questo — all’apparenza — innocuo rac©? Qui in Autopresentazione, p. 13. 2? Cfr. Dello scrivere oscuro, in L’altrui mestiere, p. S1. Vi compare un giudizio negativo su Ezra Pound. 280 Cfr. Tradurre ed essere tradotti, in L’altrui mestiere, p. 109. 281 È curioso notare che anche Faussone, il protagonista di La chiave a stella, ha due zie un po’ anziane (cfr. Le zie, in La chiave a stella,

pp. 160 sgg.).

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LE OPERE

conto-elzeviro. Mentre lo scoiattolo viene fatto camminare ininterrottamente in una gabbia per stancarlo parossisticamente e per analizzarne il sangue al fine di conoscere i mutamenti indotti da uno stress continuo e valutare gli effetti dell’insonnia, Levi — o Mendel il consolatore — trasferendo nel povero animaletto un altro sé di altri tempi e condizioni, non si comporta come un «signore della morte»; spegne invece il motore elettrico che fa girare la gabbia della tortura perché

lo scoiattolo era esausto: zampettava pesantemente su quella strada senza fine, e mi ricordava i rematori delle galere, e quegli altri forzati in Cina che venivano costretti a camminare per giorni e giorni entro gabbie simili a quella per sollevare l’acqua destinata ai canali d’irrigazione. Nel laboratorio non c’era nessuno; io ho chiuso l’interruttore del motorino, la gabbia si è arrestata e lo scoiattolo si è addormentato all’istante. E dunque forse colpa mia se del sonno e dell’insonnia si sa tuttora così poco.” La bestiola sottoposta a tortura rammenta fatti e persone lontane. E immediatamente scatta la pietas, il senso del rispetto per la vita. Inattesa la battuta ironica conclusiva che accenna alla colpa di avere interrotto un importante esperimento. Ma il lettore rimane oppresso da un senso di amarezza muta. Per una delle possibili chiavi di lettura di questa e di altre opere leviane — quand’esse si imperniano sull’ironia e sull’umorismo — è importante la citazione che lo scrittore pone alla fine di Francois Rabelais. Si tratta di un pizzico di sapienza che ha da illuminare quanti — anche critici attenti — gli hanno rimproverato di non tenere la misura che si è dato nelle opere di testimonianza: Mieulx est de ris que de larmes escrire Pour ce que rire est le propre de l’homme. «Meglio è di riso che di lacrime scrivere / Perché dell’uomo è proprio il ridere.» Per lo scrittore-chimico, il riso può 282

Cfr. Lo scoiattolo, in L’altrui mestiere, p. 98.

I SOMMERSI E I SALVATI

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trasformarsi davvero in veicolo di conoscenza, poiché per mezzo di esso [...] l’uomo che sente gioia è come l’uomo che sente amore, è buono, è grato al suo Creatore per averlo creato, e perciò sarà salvato.?**

L'utilità di questi “frammenti” leviani è indubitabile. Da ogni frase, da ogni osservazione, da ogni riflessione, spuntano suggerimenti per analogie, parallelismi, raffronti e antitesi, sinallagmi con situazioni e personaggi che hanno trovato maggiore spazio altrove. La brevità dei brani, la loro concisa misura, la stringente concatenazione delle idee — che all’improvviso salta in libere associazioni — ci consentono di leggere Levi come in una sequenza di brevissimi regesti, perioche capaci di orientarci nel labirinto delle opere più note. Né la disarticolazione nuoce alla comprensione e all’analisi. Ogni testo è una piccola isola, un’aiuola, un viridarium

ricco di fiori e colori, di odori «suscitatori di memorie» e di divertissement nella più bella acqua dei migliori elzeviristi.

I sommersi e i salvati

Organizzato in otto capitoli, / sommersi e i salvati compare — ultimo libro di Levi — nel 1986.°* Il titolo è ripreso dall’omonimo capitolo di Se questo è un uomo, dove Levi teorizza il Lager quale gigantesca esperienza biologica e sociale. Con la consueta anularità di pensiero, Levi torna, una quarantina di anni più tardi, al tema centrale del primo libro e della sua esistenza, come

se intendesse dare un ordine definitivo al

caos. È per questo che il libro assume il valore di testamento spirituale. La promessa — fatta dopo La tregua — di non tor28 Cfr. Francois Rabelais, in L’altrui mestiere, p. 18. 24 I capitoli sono: La memoria dell’offesa, La zona grigia, La vergogna, Comunicare,

Violenza inutile, L’intellettuale

ad Auschwitz,

Stereotipi, Lettere di tedeschi. Il libro è aperto da una Prefazione e chiu-

so da una Conclusione.

192:

LE OPERE

nare mai più sul tema del Lager perché ormai il dicibile era già stato detto, è stata perciò disattesa.?*

A questo «vizio di forma» si possono trovare come cause impellenti il dibattito sempre più vivace che si sviluppò sui temi del Lager intorno agli anni ’70 — dibattito cui Levi prese parte attiva —, l’espandersi di una ideologia manichea connessa al Lager — con la conseguente creazione di stereotipie tendenti a dividere nettamente oppressori e oppressi in categorie di buoni e cattivi —, la nascita in Francia del cosiddetto ‘“negazionismo”— con le tesi dello storico Robert Faurisson dell’ Università di Lione e la pretesa di negare l’esistenza dei Lager — e, infine, la chiara sensazione, o meglio la coscienza che la memoria — come del resto ogni cosa umana — tende a perdersi, che «i nostri ricordi non sono incisi sulla pietra», per cui «non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accresco-

no, incorporando lineamenti estranei».?*° Levi stava già lavorando all’opera dal 1979. Alcuni dei contenuti compaiono molto prima della pubblicazione del libro e certe osservazioni sulla «zona grigia» — la stessa storia di Rumkowski — sono già presenti in // re dei Giudei. Parimenti la Prefazione e La memoria dell’offesa vengono presentate nel corso di convegni e incontri ancor prima della pubblicazione. Con quest’ultimo impegno di Levi ci troviamo dinanzi a un’opera diversa dalle precedenti, né meraviglia che gli storici di professione — oltre che i critici letterari — se ne siano occupati e, per così dire, appropriati. La contestualizzazione 25 In un’intervista rilasciata a Pier Maria Paoletti (Sono un chimico,

scrittore per caso, in «Il Giorno», 7 agosto 1963; poi in M. BELPOLITI, Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, cit., pp. 101-105), si legge: «Con l’esperienza dei Lager, allora, tutto finito?». «Ah, sì, neanche una parola. Più niente. Quello che dovevo dire l’ho detto tutto. Completamente finito.» © Per quanto riguarda il “manicheismo del Lager”, il film di Liliana Cavani, // portiere di notte, suscitò in Levi un'immediata reazione con un intervento su «La Stampa». Alle tesi di Faurisson Levi rispose con un Ma noi c'eravamo, pubblicato su «Corriere della Sera» nel 1979 (ora in Pagine sparse 1). 2? In Lilit e altri racconti, p. 78.

I SOMMERSI E SALVATI

173

delle esperienze del Lager, ma in termini di analisi e di critica più che di racconto, fanno, di questo libro, un saggio storico, non solo per la ricchezza delle riflessioni che vi si svolgono, ma più per la profondità delle considerazioni che vi vengono sviluppate. L'indagine di / sommersi e i salvati si sviluppa intorno a una serie di inquietanti domande sulle strutture gerarchiche di un sistema che sta in piedi con il fine preciso di annientare la personalità dell’uomo; su quali siano realmente i rapporti che stabiliscono le interazioni fra oppressori e oppressi; sulle qualità degli uomini che si situano nell’area neutra e incolore che sta in mezzo e divide oppressori e oppressi — la cosiddetta «Zona grigia» in cui attecchisce il collaborazionismo;

su

come possa darsi vita a un mostro; se fosse possibile o meno la ribellione nelle condizioni estreme dei campi di sterminio. In una visione del mondo marcatamente segnata da un netto dualismo che procede generalmente per opposizioni, c’è un’aporia, un gap, che è rappresentato dalla «zona grigia» o terra di nessuno che separa in maniera labile e indefinita carnefici e vittime. In essa si sviluppa una fauna antropica del tutto particolare che è studiata ed esaminata con meticolosa attenzione nel capitolo omonimo del libro. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto

di quello che avviene in un grande stabilimento industriale. I prigionieri privilegiati erano in minoranza entro la popolazione dei Lager, ma rappresentano invece una forte maggioranza fra i sopravvissuti; infatti, anche se

174

LE OPERE

non si tenga conto della fatica, delle percosse, del freddo, delle malattie, va ricordato che la razione alimenta-

re era decisamente insufficiente anche per il prigioniero più sobrio: consumate in due o tre mesi le riserve fisiologiche dell’organismo, la morte per fame, o per malattie indotte dalla fame, era il destino normale del prigioniero. Poteva essere evitato solo con un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio, grande o piccolo; in altre parole, un modo, octroyé o conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma.?* Il dramma di Levi — un dramma che si consuma in dignitose e severe riflessioni — si concentra nell’osservare che comunque, in Lager o in fabbrica, più generalmente in qualsiasi forma di organizzazione umana, c’è stata e ci sarà sempre una fascia di privilegiati che possono garantirsi un’area di azione e di sopravvivenza a danno di altri meno privilegiati o assolutamente non privilegiati. E forse questa la soglia che Levi non riesce a oltrepassare, ad accettare nonostante gli sforzi di massima razionalizzazione del problema. Ciò può far pensare ad un suo netto rifiuto della realtà nel gesto estremo della liberazione, del suicidio:

L’ascesa dei privilegiati [osserva Levi] non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. È compito dell’uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine. Dove esiste

un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben

servire da «laboratorio»: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. È una zona grigia, dai con°# Cfr. La zona grigia, in I sommersi e i salvati, pp. 27-28.

I SOMMERSI E E SALVATI

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torni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.” L’analisi della «zona grigia» è spietatamente lucida, ma soprattutto è inquietante laddove lo scrittore ci rammenta e ci ammonisce che, se vogliamo essere uomini «giusti» non dobbiamo abdicare alla ragione e alla lotta contro qualsiasi forma di privilegio, né «dimenticare che questa è una guerra senza fine».?° Un altro particolare angosciante viene messo in luce da una brevissima riflessione dello scrittore: «quanto più è dura l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». La speranza della rivolta, quindi, si fa più labile quanto più feroce è la forza oppressiva. Secondo Levi la colpa di tutto questo pesa in primo luogo non sugli individui che popolarono e popolano la «zona grigia», ma sul sistema stesso. Tuttavia fra i collaborazionisti si

distinguono due categorie: coloro che si pervertono e soggiacciono alla necessità per costrizione; e coloro che, al contrario, lo fanno con una scelta più ragionata e compiaciuta, quelli cioè che comunque hanno posizioni di comando o di Kapo, una categoria alla quale aspirano spontaneamente i sadici o i frustrati. In entrambi i casi «al di fuori della capacità e del merito, viene concesso generosamente il potere a

chi sia disposto a tributare ossequio all’autorità gerarchica, conseguendo in questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile». Una terza categoria di aspiranti al potere sono «gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori € tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro». Tutto questo è frutto e colpa del potere, di qualsiasi potere, perché esso, secondo Levi, più che logorare corrompe con il suo contagio. L'analisi della vita del Lager è per lo scrittore una via che serve a tracciare le linee essenziali della condizione umana. 289 Cfr. La zona grigia, in] sommersi e i salvati, p. 29.

20 È anche l’insegnamento di Mordo Nahum: Cfr. Il greco, in La tregua, p. 57.

«Guerra è sempre».

176

LE OPERE

Altro punto nodale all’interno di / sommersi e i salvati è il capitolo intitolato L’intellettuale ad Auschwitz, tema che si sviluppa intorno alla contrapposizione Levi-Améry, il filosofo teorico del suicidio con cui lo scrittore avrà rapporti epistolari dopo il ritorno dal Lager. Levi contesta che l’intellettuale non abbia possibilità di scampo in un campo di prigionia. O almeno contesta il fatto che la cultura non possa servire anche a determinare una possibilità di fuga e salvezza. Ricorda quali difficoltà gli si siano presentate per riconvertire in attitudine la sua inettitudine al lavoro ai fini della sopravvivenza; contesta in maniera ancor più radicale la visione di Améry che individua i portatori dei valori umanistici solo negli intellettuali e non nei tecnici e negli scienziati: [...] a differenza di Améry e di altri, il mio senso di umiliazione per il lavoro manuale è stato moderato: evidentemente non ero ancora abbastanza «intellettuale»?!

Lo scrittore affida all’intelletto e alla memoria la capacità della salvazione, poiché i ricordi della cultura e dell’educazione ricevuta gli permettevano di «ristabilire un legame col passato, salvandolo dall’oblio e fortificando» la sua identità, e conclude che il Lager gli ha permesso di analizzare l’uomo con attenzione e cura naturalistica e che «gli scopi di vita sono la difesa ottima contro la morte: non solo in Lager»: dal che non è assurdo desumere che la scelta del suicidio non è stata che la constatazione di un naufragio totale di questi importanti scopi. Tuttavia la chiave di lettura dell’opera crediamo possa essere trovata nella Conclusione, quando l’autore si pone il problema della storia e del tempo, della distruzione che esso apporta nella memoria e non solo in quella personale, ma ancor più in quella generazionale. Dopo avere osservato che la generazione degli anni ’50 già vedeva le vicende belliche come un fatto accaduto ai padri, Levi nota che quella degli anni ’80 considera la guerra e i suoi orrori come eventi lontani accaduti ai nonni. Così il 2! Cfr. L’intellettuale ad Auschwitz, in I sommersi e i salvati, p. 107.

I SOMMERSI E I SALVATI

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compito dello scrittore, di testimone diretto, vissuto come «un dovere, ed insieme come un rischio», diventa sempre più difficile e problematico. Ma le ultime pagine del libro sono una summa di osservazioni che condensano mirabilmente la visione del mondo e della vita di Levi. Realismo e utopia vi si fondono e confondono: realismo nella analisi lucida e storicamente onesta laddove lo scrittore traccia la storia delle follie naziste che potrebbero «accadere di nuovo»; utopia laddove l’autore si lascia prendere da un ottimismo della ragione che non è assolutamente certo. Accade quando Levi pensa, lasciandosi abbagliare dalla speranza, che tutto possa essere risolto intorno a un tavolo: Satana non è necessario: di guerre e violenze non ce n’è bisogno, in nessun caso. Non esistono problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo, pur-

ché ci sia volontà buona e fiducia reciproca: o anche paura reciproca, come sembra dimostrare l’attuale interminabile situazione di stallo, in cui le massime

potenze si fronteggiano con viso cordiale o truce, ma non hanno ritegno a scatenare (o a lasciare che si scatenino) guerre sanguinose fra i loro «protetti», inviando armi sofisticate, spie, mercenari e consiglieri militari invece che arbitri di pace.” L’analisi cui Levi sottopone gli avvenimenti della storia si arresta al limite della ragione che non pare inscritta, come lui stesso direbbe, nel codice genetico dell'umanità e, in specie, di una umanità riunita in gruppo, che soffre di tendenze gregarie e che ripropone, di età in età, il problema concreto — e

stavolta davvero inscritto nel codice genetico — di una perenne e sempre ripetentesi «zona grigia». L’ultima riflessione sugli stereotipi — cioè sulla creazione di forme fisse di giudizi di merito — si rivela particolarmente importante: Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana, ® Cfr. Conclusione, in I sommersi e i salvati, p. 165.

178

LE OPERE

chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri «aguzzini». Il termine allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio

parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi,

mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male.”

La parabola iniziata con Se questo è un uomo — dove non compariva mai un giudizio incauto e astioso, definitivo e irremissibile — si conclude a quasi quaranta anni di distanza,

con mirabile coerenza, con un altrettanto cauto giudizio, equilibrato ed equo. La colpa, scrive Levi in La zona grigia, è da attribuire in prima istanza al sistema e non all’individuo che si adatta. Tutto è frutto di una azione educativa, dunque: ma è colpa anche creare stereotipi, definire «aguzzini» le SS, a loro volta vittime di una educazione ricevuta. In questo tentare di distruggere gli stereotipi, in questo bisogno morale imperativo di sgombrare il campo da facili equivoci, non è errato leggere una punta di polemica nei confronti di una società che nei decenni del dopoguerra aveva creato propagandisticamente infiniti stereotipi educando le generazioni — soprattutto attraverso la scuola — ad accettare il preconfezionamento e la convenzionalità delle interpretazioni della storia. Nell’utopico mondo di Levi — perché anch’egli è utopista nella sua costante ricerca di verità, equità, giustizia — ciò suona come accusa perché è proprio nella creazione di questi elementi di conformismo che è insito il meccanismo perverso per cui tutto «è avvenuto, quindi può accadere di nuovo»:

Dopo la disfatta, la silenziosa diaspora nazista ha insegnato le arti della persecuzione e della tortura ai militari ed ai politici di una dozzina di paesi, affacciati al Mediterraneo, all’ Atlantico ed al Pacifico. Molti nuovi tiranni tengono nel cassetto la «Battaglia» di Adolf ?* Cfr. Conclusione, in I sommersi e i salvati, p. 166.

I SOMMERSI E I SALVATI

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Hitler: magari con qualche rettifica, o con qualche sostituzione di nomi, può ancora venire a taglio.” Le conclusioni sono amarissime. La coscienza vigile e la guerra eterna e senza quartiere non lasciano, obiettivamente, molta speranza a un’umanità che è sempre — e sempre sarà soggetta — a Lilît e alle sue perversioni, al «vizio di forma». Da un istante all’altro esso può inaspettatamente creare nuovi mostri.

29 Cfr. Conclusione, in I sommersi e i salvati, p. 166.

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II

TEMI E MOTIVI Indignazione e impegno morale

Non è facile tracciare una rapida analisi dei temi e dei motivi cari a uno scrittore come Levi.' Il tentativo di organizzare in forme e schemi fissi o di racchiudere entro griglie la sapienza che scaturisce dall’ «altrui mestiere», è una sorta di com-

pressione che rischia di alterare una sostanza aerea ma viva. La “polimorfia” leviana ci ostacola nel fare luce sul suo mondo semplice e al tempo stesso estremamente complesso. Al primo posto di questa incompleta analisi dobbiamo porre l’indignazione e l’impegno morale dell’uomo e dello scrittore. Tali elementi, pur costituendo due entità separate,

si rivelano complementari dato che dall’uno scaturisce e si sviluppa anche l’altro per nesso etico. Fra l’opera dello storico e quella del narratore — sostiene Fiora Vincenti richiamandosi a un saggio di H. M. Enzensberger — corre una differenza fondamentale: nell’opera del primo si annida la freddezza dell’analisi che rende la realtà «comprensibile ma non rappresentabile», in quella dello scrittore i termini vengono invece rovesciati, per cui la

realtà è «rappresentabile ma non comprensibile». La radice prima dell’indignazione in Levi si apprende e si spiega sul terreno dell’amara sorpresa in cui lo scrittore si trova coin! Un’analitica trattazione di temi e motivi in M. BELPOLITI (a cura di), Primo Levi, «Riga», n. 13, Marcos y Marcos, Milano, 1997. ? H. M. ENZENSBERGER, Letteratura come storiografia, in «Il Menabò», n. 9, 1966. è Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 147.

182

. TEMI E MOTIVI

volto quando è costretto a vivere la sua esperienza del Lager. Il sentimento in cui dato ed emozione si confondono, conferisce ai primi due libri di Levi quel carattere che li redime dalla freddezza della storia e li inserisce a pieno titolo nell’àmbito dell’arte, anche se — proprio per quanto lo stesso Levi asserisce nella premessa: «Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fattiè inventato» — essi assumono un innegabile valore di testimonianza, di storia.‘ Il titolo del primo libro è assolutamente indicativo. La protasi di periodo ipotetico — di cui è lasciato il completamento alla coscienza del lettore — si pone come l’esternazione di una severa riflessione, pur senza essere esplicita condanna. L’indignazione leviana è perciò quella della satira classicamente intesa, ove non si innesta mai né volontà di vendetta, né cedimento morale: al contrario si instaura una composta analisi dei fatti da cui si evinca il senso di angoscia per quanto «è bastato animo all’uomo di fare all’uomo». L’indignazione nonè però il puro risultato della conoscenza di fatti atroci. Levi non accusa i tedeschi “delle” o soltanto “per le” stragi compiute. Molto più egli si indigna a causa della perversione che il meccanismo delle atrocità tende a innescare. Il nucleo centrale, motore dell’indignazione, è quel fenomeno che viene analizzato nella «zona grigia», quell’area che lega le vittime ai carnefici attraverso interazioni per cui esse sono portate fuori strada da un insano e perverso desiderio di martirio che le rende succube dei loro aguzzini; sottomesse fino al punto di provare vergogna delle torture come se fossero loro le colpevoli delle atrocità. In La vergogna (I sommersi e i salvati) Levi, come premessa, contesta l’ottimismo leopardiano secondo cui «Uscir di pena / è diletto fra noi». Non è vero — sostiene — che dopo la malattia torna la salute, che «a rompere la prigionia arrivano i nostri, i liberatori, a bandiere spiegate; il soldato ritorna * Il valore della volontà testimoniale di Levi si ricava dalla formula «tornare, mangiare, raccontare». Il primo a parlare di testimonianza in Se questo è un uomo è il sergente Steinlauf che = come nota D. Del Giudice in Introduzione a Opere I, 1987 — associa l’idea di sopravvivenza a quella di testimonianza: «Perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza».

INDIGNAZIONE E IMPEGNO MORALE

183

e ritrova la famiglia e la pace». Tutto questo non è vero: al contrario — sottolinea — «l’ora della liberazione non è stata né lieta né spensierata», ma «quasi sempre ha coinciso con una fase di angoscia». E la colpa che pesa sugli innocenti, le vittime. In Il disgelo (La tregua) perfino i soldati russi che stanno arrivando soffrono questa patologia caratteristica dei prigionieri scampati alle selezioni: Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabil-

mente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia

valso a difesa.

Un esplicito esempio di indignazione lo rintracciamo nelle pagine conclusive di L’ultimo, in Se questo è un uomo: Il mese scorso, uno dei crematori di Birkenau è stato

fatto saltare. Nessuno di noi sa (e forse nessuno saprà mai) come esattamente l’impresa sia stata compiuta: si parla del Sonderkommando, del Kommando Speciale addetto alle camere a gas e ai forni, che viene esso

stesso periodicamente sterminato, e che viene tenuto scrupolosamente segregato dal resto del campo. Resta il fatto che a Birkenau qualche centinaio di uomini, di schiavi inermi e spossati come noi, hanno trovato in se stessi la forza di agire, di maturare i frutti del loro

odio.

|

L’uomo che morrà oggi davanti a noi ha preso parte in qualche modo alla rivolta. Si dice che avesse relazioni * Cfr. Il disgelo, in La tregua, pp. 10-11.

TEMI E MOTIVI

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cogli insorti di Birkenau, che abbia portato armi nel nostro campo, che stesse tramando un ammutinamento simultaneo anche tra noi. Morrà oggi sotto i nostri occhi: e forse i tedeschi non comprenderanno che la morte solitaria, la morte di uomo che gli è stata riser-

vata, gli frutterà gloria e non infamia. Quando finì il discorso del tedesco, che nessuno poté intendere, di nuovo si levò la prima voce rauca: — Habt ihr verstanden? — (Avete capito?) Chi rispose «Jawohl»? Tutti e nessuno: fu come se la nostra maledetta rassegnazione prendesse corpo di per sé, si facesse voce collettivamente al di sopra dei nostri capi. Ma tutti udirono il grido del morente, esso penetrò le grosse antiche barriere di inerzia e di remissione, percosse il centro vivo dell’uomo in ciascuno di noi: — Kamaraden, ich bin der Letzte! — (Compagni, io sono l’ultimo!)

Vorrei poter raccontare che fra di noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio, un segno di

assenso. Ma nulla è avvenuto. Siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino, e non ci siamo scoperta la testa che quando il tedesco ce l’ha ordinato. La botola si è aperta, il corpo ha guizzato atroce; la banda ha ripreso a suonare, e noi, nuovamente ordinati in colon-

na, abbiamo sfilato davanti agli ultimi fremiti del morente. Ai piedi della forca, le SS ci guardavano passare con occhi indifferenti: la loro opera è compiuta. I russi possono ormai venire: non vi sono più uomini forti fra noi, l’ultimo pende ora sopra i nostri capi, e per gli altri, pochi capestri sono bastati. Possono venire i russi: non troveranno che noi domati, noi spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende. Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riu-

sciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice. Alberto ed io siamo rientrati in baracca, e non abbiamo potuto guardarci in viso. Quell’uomo doveva essere

INDIGNAZIONE E IMPEGNO MORALE

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duro, doveva essere di un altro metallo del nostro, se questa condizione, da cui noi siamo stati rotti, non ha

potuto piegarlo. Perché, anche noi siamo rotti, vinti: anche se abbiamo

saputo adattarci, anche se abbiamo finalmente imparato a trovare il nostro cibo e a reggere alla fatica e al freddo, anche se ritorneremo. Abbiamo issato la menaschka sulla cuccetta, abbiamo fatto la ripartizione, abbiamo soddisfatto la rabbia quo-

tidiana della fame, e ora ci opprime la vergogna.“ La storia dell’ultimo giustiziato prima della liberazione, è un continuo intrecciarsi di «passato prossimo», «futuro anteriore» (come idea di tornare in futuro liberi come prima, cioè

nel passato) e «presente indicativo» (come realtà effettuale di “quella” esecuzione). Il sentimento di Levi è appena espresso in due righe: «Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci

siete riusciti, tedeschi». Un «tedeschi» che varrà per qualsiasi altro oppressore, indistintamente. Prima ancora che in questa parte del libro, l'indignazione era già comparsa nella narrazione della selezione dell’ottobre 1944. La scena si presenta con caratteristiche analoghe. Anche in quel caso l’idea della vergogna silenziosa è legata al momento in cui i prigionieri cercano di contrastare i morsi della fame, di dimenticare la propria vergogna: Adesso ciascuno sta chiaio il fondo della briciole di zuppa, e sonoro il quale vuol

grattando attentamente col cucgamella per ricavarne le ultime ne nasce un tramestio metallico dire che la giornata è finita. A

poco a poco prevale il silenzio, e allora, dalla mia cuccetta che è al terzo piano, si vede e si sente che il vecchio Kuhn prega, ad alta voce, col berretto in testa e

dondolando il busto con violenza. Kuhn ringrazia Dio perché non è stato scelto. Kuhn è un insensato. Non vede, nella cuccetta accanto,

Beppo il greco che ha vent’anni,

e dopodomani andrà

6 Cfr. L'ultimo, in Se questo è un uomo, pp. 187-189.

TEMI E MOTIVI

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in gas, e lo sa, e se ne sta sdraiato e guarda fisso la lampadina senza dire niente e senza pensare più niente? Non sa Kuhn che la prossima volta sarà la sua volta? Non capisce Kuhn che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare; potrà risanare mai più? Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn.” Indignazione è sinonimo di una pena talmente solida, compatta che, nella considerazione dell’abominio che si è

realizzato, tale sentimento induce Levi a essere blasfemo: non solo a pensare, ma perfino a dire che, se lui fosse Dio, sputerebbe a terra la preghiera del vecchio che si è salvato mentre il giovane greco ha preso il posto che, più logicamente, sarebbe toccato all’altro. Discutere se la produzione di Levi — specie in rapporto ai primi due libri — possa e debba essere posta in relazione con il neorealismo, può essere ritenuto un aspetto del tutto ininfluente e, da certi punti di vita, uno scrupolo ozioso. Se è sensato rilevare che affinità con il neorealismo ve ne sono, ciò non dovrebbe comportare necessariamente un impegno a mostrare come Levi se ne stacchi: proprio perché la carica soggettiva che il giudizio morale infonde alle testimonianze le redime dal pericolo del disimpegno neorealista così come si era connotato nel ventennio della dittatura. Giocano in Levi, anche sul piano dell’indignazione, fattori diversi e multipli: dall’educazione scolastica — di cui i primi due libri sono diretti epigoni —, all’esemplazione delle narrazioni su schemi che — come è stato ben messo in luce — ascendono direttamente a un Manzoni e insieme a un Verga verista. L'idea secondo cui necessariamente l’opera di uno scrittore debba rispecchiare gusti e tendenze dell’epoca che egli vive è da ritenere del tutto arbitraria. In realtà, sotto questo

profilo Levi costituisce una vera e propria “anomalia” all’interno del panorama letterario del suo tempo, perché si pre? Cfr. Ottobre 1944, in Se questo è un uomo, p. 164.

INDIGNAZIONE E IMPEGNO MORALE

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senta con una marcata connotazione retrò. E d’altra parte bisogna rilevare come Levi sia il meno conformista degli scrittori del dopoguerra; fatto che, mentre spiega a sufficienza il silenzio con cui è stato accolto Se questo è un uomo — ignorato fino alla data dell’edizione einaudiana — pone lo scrittore in un’area di “diversità” che può essere letta anche come scarto d’eccezione, novità non compresa e spesso fraintesa nei suoi più intimi significativi valori: quindi rivoluzione. Le scelte stilistico-contenutistiche di Levi niente possono togliere all’arte, che séguita a svilupparsi — anche dopo i primi libri — in una direzione autonoma, nel segno però della coerenza e della continuità della tradizione. Ma i temi dell’indignazione e dell’impegno morale non vengono mai meno. Questo “alto sentire” affiora costantemente anche nei racconti, sostanziato di un diverso atteggiamento, sorretto dall’ironia. In tal caso l’indignazione è il sentimento che fa da filtro all’osservazione della realtà in una dimensione diversa, quella che si dilata dal micro al macrocosmo, alla condizione di una umanità afflitta da problemi meno macroscopici di quelli del Lager — perché lontani in dimensione planetaria —, ma non per questo meno gravi e infettanti: la violenza alla natura, per esempio, e la violazione delle sue leggi. Giustamente è stato rilevato, a tal proposito, che tutta la produzione leviana ha una sola ed unica origine, il primo libro, al quale lo scrittore torna per dare ordine al caos con / sommersi e i salvati. È Levi stesso a fissare il termine della continuità tra la tematica del Lager e la sua successiva produzione quando osserva, a proposito di Storie naturali, che non le avrebbe pubblicate se non si fosse «accorto (non subito, per verità)

che fra il Lager e queste invenzioni una continuità, un ponte esiste». Come il Lager era stato una sorta di sonno della coscienza, il conformismo della vita restituita alla libertà rappresenta per lo scrittore un vizio inquietante e terribile da cui occorre, in qualche modo, scrollarsi per distruggere i mostri che ha generato: l’atomica, l'esplosione demografica, l’annunciata catastrofe ecologica. Perciò l’indignazione continua a mantenersi viva e vigile,

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TEMI E MOTIVI

attraverso ironia e paradosso, che spesso alleggeriscono il quadro senza però perdere di vista la pochezza umana, l’incapacità di capire i mòniti della storia, di apprendere, di migliorare e migliorarsi — osservazione dalla quale nasce l'impegno dello scrittore, la sua volontà di non demordere, di non cessa-

re di svolgere una funzione di “coscienza vigile” in un impegno etico specificamente rivolto alle giovani generazioni. Ce ne rende conto Delega: Non spaventarti se il lavoro è molto: C'è bisogno di te che sei meno stanco. Poiché hai sensi fini, senti Come sotto i tuoi piedi suona cavo. Rimedita i nostri errori: C'è stato pure chi, fra noi, S’è messo in cerca alla cieca

Come un bendato ripeterebbe un profilo, E chi ha salpato come fanno i corsari, E chi ha tentato con volontà buona. Aiuta, insicuro. Tenta, benché insicuro, Perché insicuro. Vedi

Se puoi reprimere il ribrezzo e la noia Dei nostri dubbi e delle nostre certezze.

Mai siamo stati così ricchi, eppure Viviamo in mezzo a mostri imbalsamati, Ad altri mostri oscenamente vivi. Non sgomentarti delle macerie Né del lezzo delle discariche: noi Ne abbiamo sgomberate a mani nude Negli anni in cui avevamo i tuoi anni. Reggi la corsa, del tuo meglio. Abbiamo Pettinato la chioma alle comete,

Decifrati i segreti della genesi, Calpestato la sabbia della luna, Costruito Auschwitz e distrutto Hiroshima. Vedi: non siamo rimasti inerti. Sobbarcati, perplesso; Non chiamarci maestri. * Cfr. Delega, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. I, p. 108.

INDIGNAZIONE E IMPEGNO MORALE

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La memoria del passato e la lezione della storia devono essere il principio morale delle nuove età e nessuno deve chiamare maestri quelli che lo hanno preceduto. Ciò è come dire che l’attenzione da rivolgere a quanto è stato deve comunque essere critica poiché, ossimoricamente, il passato è l’artefice che ha «costruito Auschwitz e distrutto Hiroshima». Il salto di qualità può dunque realizzarsi solo per mezzo della ragione, e per Levi «la ragione non può andare in vacanza» poiché è motore dell’etica e della morale attraverso la critica. In una intervista concessa a Giorgio De Rienzo e ad Ernesto Gagliano, lo scrittore così si esprime: Credere nella ragione vuol dire credere nella propria ragione, non vuol dire che la ragione governi il mondo e neppure che governi l’uomo. Avere assistito al naufragio della ragione, e qui alludo non solo al nazismo ma anche al fascismo nostrano, non deve e

non può condurre a una resa. Direi con Calamandrei che per la nostra generazione non c’è congedo. Anche per la ragione non c’è congedo, non si può andare in vacanza. Per conto mio, ho in sospetto tutte

le assenze della ragione. Per questo considero salutari tutti i mestieri che esercitano la ragione e il mio è uno di questi.!°

La posizione leviana non è affatto nuova. Essa ha permeato di sé tutta l’opera dello scrittore fino dagli inizi, tanto che già negli anni ’60, in «Uomini e Libri», era comparsa un’intervista nella quale si legge: Ben venga la denunzia, e sia essa «non equivoca e coraggiosa», ma se non contiene, accanto alla contestazione, anche una proposta, essa non vale molto. L’ingegno umano è vario e imprevedibile: fra la letteratura di consumo e l’impegno puro esiste una vasta ? I maestri intellettuali di Levi sono Montaigne e Pascal. !° Cfr. G. DE RIENZO-E. GAGLIANO, La ragione non può andare in vacanza, in «Stampa Sera», 13 maggio 1975; poi in M. BELPOLITI, Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, cit., p.116.

TEMI E MOTIVI

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terra di nessuno, da cui può scaturire il libro valido e vero, al di fuori e contro ogni schema precostituito." Dunque Levi traccia anche il confine fra impegno morale e letteratura impegnata. L'arte non può essere pura e semplice propaganda, poiché in tal caso diventerebbe conformismo e, come tale, acriticità. Ragione e impegno si rivelano inscindibili, per cui ciò che può apparentemente meravigliare nel constatare che la produzione leviana è nata sotto il segno della denuncia, non deve in alcun modo essere inteso come contraddizione. Alla creazione è lasciato quel margine di libertà che non deve inquinarsi di nessuno schema precostituito. È a questo livello che Levi rinunzia da sempre — ma con il passare del tempo in maniera ancor più consapevole e lucida — a riconoscersi nel solco della letteratura di ascendenza ebraica, indiscutibilmente legata a una visione parziale della realtà e della storia. I termini entro cui si sviluppa l’impegno morale restano, fin dall’inizio, quelli che sono connaturati all’uomo stesso,

così come compaiono nella poesia che è in epigrafe a Se questo è un uomo: Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi: Ripetetele ai vostri figli." L'impegno leviano sarà quello di non tacere, non quello di volere insegnare e propagandare un giudizio positivo o negativo; un odio che lo scrittore, proprio in virtù della sua altezza morale, rifiuta in assoluto, a prescindere dal male compiuto dai persecutori. In questo non c’è cedimento, neppure quando sembra che Levi sia distante e immemore del progetto didascalico, poiché, anche nei racconti di pura fantasia, il suo spostare l’oggetto in un “altrove”, è pur sempre un richiamare l’uomo alla qualità che lo caratterizza: quella ragione, unica " Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 165. !° Cfr. Shemà, in Ad ora incerta (poi in Opere, 1988, vol. ID), p. 17.

AMORE E NATURA,

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via di salvezza — se mai una è possibile — e unica qualità umana che non può permettersi di «andare in vacanza».

Amore e natura

L’accezione più propria che possiamo attribuire al termine “amore” in Levi è quella di pietas. Lo stupore con cui questo scrittore amico e affabile — anche se profondamente tragico e pessimista — osserva il mondo; questo suo modo di vedere le cose con gli occhi del saggio cardarelliano che «non è che un fanciullo / che si duole di essere cresciuto», e che ripone ogni sua speranza nell’opera (come Cardarelli avrebbe potuto dire: «La speranza è nell’opera. / Io sono un cinico a cui rimane / per la sua fede questo al di là. / Io sono un cinico che ha fede in quel che fa»), ebbene questo aprirsi al reale con occhi di meraviglia abbraccia l’intera umanità: ora con la gioia e il calore di chi intravede nei propri simili una ragione plausibile per esistere, ora con la malinconica consapevolezza o con la tristezza che neppure questo può bastare a redimere l’uomo dal male e dal dolore. Eppure, una fanciullesca curiosità muove e risolleva sempre, anche dopo la caduta, l’occhio di un Levi fanciullo, attento a ciò che lo circonda, sia nei momenti più cupi del

dolore e della disperazione, che in quelli più lievi dell’ironia, dell’umorismo, della apparente dimenticanza e del gioco; 0 quando la consapevolezza che Lilft domina la terra sembra assopirsi nella coscienza. La pietas leviana assomiglia a quella di un Virgilio nei confronti del buon agricoltore e del vecchio di Corico, ma al tempo stesso si estende anche su altro terreno, quello spaziato indagato dall’occhio comprensivo di un Orazio che sa come sia indominabile l’uomo, con tutti i suoi vizi che superano le virtù, ma che, ugualmente, osserva l’umanità con

comprensione e, in alcuni casi, con affettuoso divertimento." La radice della pietas affonda in una filosofia semplice e !* Cfr. V. CARDARELLI, Adolescente. 4 Il procedimento seguîto da Levi è quello logico-deduttivo dal particolare all’universale. La sua grande capacità è alternare osservazioni

TEMI E MOTIVI

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pratica, quella epicurea. A Epicuro Levi pensa e di Epicuro Levi accoglie quell’invito al riflusso entro àmbiti in cui l’affettività può meglio esprimersi a livelli più intimi, tenendo sempre presenti parametri manzoniani quali il «sentir» e «meditar», «il santo Vero / mai non tradir» e «di poco esser

contento».' Una congeniale via di espressione-trova d’altronde questo epicureismo metastorico nel rifuggire dall’espressione alta e sonante per “umiliarsi’” — anche nei momenti di massima tensione — in un tono dimesso che è naturaliter destinato a far riflettere. Il centro dell’universo leviano è l’uomo. Lo dice il titolo della prima opera, lo testimoniano i contenuti delle altre: non solo iracconti, ma anche gli elzeviri, le interviste, le divagazioni di qualsiasi natura. È l’ “uomo umano” ricavato dall’immagine della sua disumanizzazione nel Lager, l’uomo annullato che grida la sua volontà di giustizia e di riscatto (non di vendetta), l’uomo che sa tacere su ciò che è

il suo mondo di umanità quando essa viene negata. Da questo punto di vista, il silenzio acquista in Levi particolare valore, come si vede fino dalle prime pagine di Se questo è un uomo. È un silenzio che si trasforma in eufemìa, religioso silenzio:

Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case. Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria.!° È solo il senso della pietas che impone all’uomo di tacere in atto di rispettosa meditazione. La figura dell’uomo segnato dal suo destino non può ammettere nessun'altra ribellione che il più riservato silenzio. Se ancora di uomo si può parlare assai minuziose a riflessioni di carattere morale, in modo da dimostrare

quasi maieuticamente l’evidenza della realtà. ! Cfr. A. MANZONI, In morte di Carlo Imbonati, pp. 207 sgg. ! Cfr. Il viaggio, in Se questo è un uomo, p. 15.

AMORE E RE TURE,

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alle soglie del Lager, egli è colui che sa rinunziare a dire, per lasciar parlare i fatti, senza commenti che potrebbero inquinarsi d’altro. L’uomo per cui Levi ha in serbo la stima e l’incondizionato consenso, quello di cui è profondamente innamorato nel senso più alto della parola, si incarna in simbolo nella figura di Lorenzo, immagine della solidarietà e della discrezione, dell’abnegazione, del disinteresse capace di benefici senza contropartita, archetipo di un’umanità sognata da un Levi giovane fresco di studi e pieno ancora di incontaminati ideali: In questo mondo scosso ogni giorno più profondamente dai fremiti della fine vicina, fra nuovi terrori e speranze e intervalli di schiavitù esacerbata, mi accadde di

incontrare Lorenzo. La storia della mia relazione con Lorenzo è insieme lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia di un tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni realtà presente, e perciò non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si comprendono oggi i fatti della leggenda e della storia più remota. In termini concreti, essa si riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice, e.non pensava che si

dovesse fare il bene per un compenso." fa] Ma Lorenzo era un uomo;

la sua umanità era pura e

incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo." Lo stesso capitolo in cui si narra l'esecuzione dell’ultimo !? Cfr. I fatti dell’estate, in Se questo è un uomo, p. 150. !8 Cfr. /fatti dell’estate, in Se questo è un uomo, p. 154.

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TEMI E MOTIVI

condannato a morte (L’ultimo), evidenzia cosa significhi pietas per Levi. Lo pone in luce nella severità concreta della narrazione, nella vergogna che lo scrittore e i compagni provano allorquando intorno a loro, quasi fisicamente, si raddensa la coscienza di non avere mosso un dito, di non avere alzato la voce contro l’atroce insensatezza di quella esecuzione che resta fitta nella mente, scolpita nel cuore in un grido gravido di condanna e di ribellione tanto da diventare quasi iscrizione lapidaria ed eterna: «Kamaraden, ich bin der Letzte!», compagni, io sono l’ultimo. C’è sempre un “ultimo” uomo nella storia del mondo, un uomo

che è tutti gli

“ultimi” uomini di una realtà che si ripete. Verso queste figure (un Lorenzo buono e semplice, un “ultimo” che sa ribellarsi e affronta il proprio destino a testa alta) o anche verso altre di altro genere (Hurbinek, ad esem-

pio) la pietas si fa piena e partecipe. Perfino le figure in negativo sono fondamentali, nel senso che emergono come esempi da aborrire, dai quali trarre, per così dire, insegnamenti per contrapposizione. Con un procedimento circolare di fusione, l’amore per il singolo riverbera la sua luce sull’intera umanità e quello per l’umanità, a sua volta, si riversa sul singolo. L’universalizzazione di questo sentimento la rintracciamo ogni volta che Levi si assume il ruolo dell’umanità offesa per parlare al posto di chi non ha voce. La figura femminile, presente nei silenzi delle narrazioni e assente nella concretezza — se non in quella dell’àmbito familiare e, in tal caso, sfumata da estremi ritegni — affianca l’uomo da due diverse prospettive. Anche in questo caso la dualità leviana ci presenta il simbolo della femminilità fisicamente intesa sotto il segno di Lilft e quello della femminilità traslata sotto il segno della madre di famiglia, portatrice di valori e idealità concrete e sfuggenti al tempo stesso. Non esiste una donna intermedia e reale. In ambedue i casi sembra che l’autore passi da uno stereotipo all’altro, sicché pare che il fascino che la donna esercita su Levi sia comunque ambiguo e dettato da sentimenti in contrasto e non ben definiti. Quando è suscitatrice di istinti, la donna è piena di fremiti maligni. Solo nei momenti migliori, più ariosi e distesi, quando cioè l’ironia sembra anestetizzare la

AMORE E NATURA

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coscienza, si incontrano figure umanamente angeliche quale la giovane inglese che illumina Breve sogno." Ma lì la donna sembra straordinariamente acquistare una qualità più maschile che femminile: esercita la ragione e richiama alla ragione il suo incauto corteggiatore, fino a renderlo — come del resto noi che leggiamo — infelice per un rifiuto che non è tale, ma più semplicemente è un “retto ragionare”. Su altro versante l’amore che Levi ha in sé e che avvertiamo pronto a scattare sia pure in frammenti fugaci, in schegge, si manifesta nei confronti della natura e del «Creato» con la maiuscola, come

lui stesso scrive. È la frequentazione

della montagna che induce il sentimento del sublime nello scrittore. La fusione panica e l’abbandono alle solitudini e ai silenzi sono temi che si perpetuano in Levi, sia che parli delle proprie montagne, sia che — come accade in La tregua (Il bosco e la via) — si abbandoni alle affabulazioni di paesaggi di ampiezza sconfinata-infinita. Lo stesso accade per i Carpazi che determinano il clima della Buna nell’incombere di una realtà naturale che, pur lontana, è presente e segue e accompagna le tormentate vicende umane. L’amore per la natura nei racconti si fa più vivo e particolare, sia naturalisticamente che in chiave fantascientifica. E una natura animata e viva anch’essa perché parte integrante di Levi e; in certi casi, Levi stesso. Osservata da un punto di vista scientifico — si pensi a Carbonio —° o da una angolatura più ampia e descrittiva, la natura è elemento su cui riversare gran parte del proprio mondo sentimentale, con gratitudine, e con il timore che tutto si abbia a perdere per colpa di umana insensatezza. Consolatrice dei dolori e degli affanni, sfondo stesso delle pene e delle cure secondo la migliore tradizione di tutti i secoli, la natura è anche pervasa da fremiti animistici e, pro-

prio per questo, non è solo fonte di suggestione, ma anche ribelle, come in Ammutinamento.”!

!9 In Lilît e altri racconti, pp. 240 sgg.

% In // sistema periodico, pp. 229 sgg. 2! In Vizio di forma, pp. 347 sgg.

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TEMI E MOTIVI

Scienza e fantascienza Scienza e fantascienza si completano, tanto che l’una non

può prescindere dall’altra e viceversa. Questo carattere di complementarità può essere spiegato senza troppo affanno. Se ci è consentito stabilire una proporzione, il reale sta all’ironia come la scienza alla fantascienza. Ciò implica necessariamente che, come l’ironia serve a Levi a demistificare la realtà nei suoi lati più spiacevoli, così la fantascienza è la strada, il tramite attraverso il quale Levi demistifica la scien-

za e nega — in buona sostanza — uno scientismo che appare comunque estremamente pericoloso, poiché nella scienza non tutto è buono, non tutto è da accettare, non tutto è da accogliere come incremento migliorativo del percorso umano. Al contrario la scienza presenta molti lati oscuri e molti pericoli: la creazione di mostri, la violenza alla natura, l’inquinamento, la catastrofe ecologica.

Se è vero — come Levi sostiene citando l’Ecclesiaste — che «dove è molta scienza, è molta molestia, e chi accresce la scienza accresce il dolore», la ragione — che non può andare in vacanza — deve vigilare e avvertire dei pericoli a cui si va incontro accettando acriticamente ogni novità. Occorre ora puntualizzare che la fantascienza leviana non è puro divertimento, né assoluta invenzione. Generalmente essa nasce dalla scienza stessa ed è — proprio per i termini della proporzione che abbiamo impostato — il versante ironico ed esorcizzante della scienza medesima. Essa può contare su invenzioni di tipo espressivo che raggiungono splendidi risultati quanto più ironica e meno sfiduciata è la molla che fa scattare la scrittura. In altri termini è quando Levi assume l’anima rabelaisiana che anche la fantascienza si alleggerisce e diviene non racconto dell’impossibile, ma premonizione del futuribile. In questo caso — ciò avviene ad esempio in alcuni testi di Il sistema periodico — Levi si connota anche sotto un altro aspetto determinante per quanto riguarda il valore della sua scrittura. Egli dà saggio di estrema bravura nella difficile veste del divulgatore, l’intermediario che, partecipando °° Cfr. Trattamento di quiescenza, in Storie naturali, p. 183.

SCIENZA E FANTASCIENZA

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come un anfibio a due mondi, riesce a trasmettere alla realtà

che sta più in basso la geometria del mondo delle idee con la facilità e la felicità espressiva necessarie e sufficienti a che anche i profani possano cogliere istintivamente i meccanismi dell’incomprensibile. Un esempio di questa qualità ce lo offre la descrizione dell’ossidazione dell’atomo di carbonio nell’omonimo racconto:

L’atomo di cui parliamo, accompagnato dai suoi due satelliti che lo mantenevano allo stato di gas, fu dunque condotto dal vento, nell’anno 1848, lungo un filare di viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, di esservi inchiodato da un raggio di sole. Se qui il mio linguaggio si fa impreciso e allusivo, non è solo per mia ignoranza: questo avvenimento decisivo, questo fulmineo lavoro a tre, dell’anidride carbonica, della luce e del verde vegetale, non è stato finora descritto in termini definitivi, e forse non lo sarà per

molto tempo ancora, tanto esso è diverso da quell’altra chimica «organica» che è opera ingombrante, lenta e ponderosa dell’uomo: eppure questa chimica fine e svelta è stata «inventata» due o tre miliardi d’anni addietro dalle nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimentano e non discutono, e la cui temperatura è identica a quella dell’ambiente in cui vivono. Se comprendere vale farsi un'immagine, non ci faremo mai un’immagine di un happening la cui scala è il milionesimo di millimetro, il cui-ritmo è il milionesimo di secondo, ed i cui attori sono per loro essenza invisibili. Ogni descrizione verbale sarà mancante, ed una varrà l’altra: valga quindi la seguente. Entra nella foglia, collidendo con altre innumerevoli (ma qui inutili) molecole di azoto ed ossigeno. Aderisce ad una grossa e complicata molecola che lo attiva, e simultaneamente riceve il decisivo messaggio

dal cielo, sotto la forma folgorante di un pacchetto di luce solare: in un istante, come un insetto preda del

ragno, viene separato dal suo ossigeno, combinato con idrogeno e (si crede) fosforo, ed infine inserito in una

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TEMI E MOTIVI

catena, lunga o breve non importa, ma è la catena della vita. Tutto questo avviene rapidamente, in silenzio, alla

temperatura e pressione dell’atmosfera, e gratis: cari colleghi, quando impareremo a fare altrettanto saremo «sicut Deus», ed avremo anche risolto il problema della fame nel mondo. Ma c’è di più e di peggio, a scorno nostro e della nostra arte. L'anidride carbonica, e cioè la forma aerea del carbonio di cui abbiamo finora parlato: questo gas che costituisce la materia prima della vita, la scorta permanente a cui tutto ciò che cresce attinge, e il destino ultimo di ogni carne, non è uno dei componenti principali dell’aria, bensì un rimasuglio ridicolo, un’«impurezza»,

trenta volte meno abbondante dell’argon di cui nessuno si accorge. L’aria ne contiene il 0,03 per cento: se l’Italia fosse l’aria, i soli italiani abilitati ad edificare la vita sarebbero ad esempio i 15.000 abitanti di Milazzo, in provincia di Messina. Questo, in scala umana, è un’acrobazia ironica, uno scherzo da giocoliere, una incomprensibile ostentazione di onnipotenza-prepotenza, poiché da questa sempre rinnovata impurezza dell’aria veniamo noi: noi animali e noi piante, e noi specie umana, coi nostri quattro miliardi di opinioni discordi, i nostri millenni di storia, le nostre guerre e vergogne e nobiltà e orgoglio. Del resto, la nostra stessa presenza sul pianeta diventa risibile in termini geometrici: se l’intera umanità, circa 250 milioni di tonnellate, venisse ripartita come un rivestimento di spessore omogeneo su tutte le tèrre emerse, la «statura dell’uomo» non sarebbe visibile ad occhio nudo; lo spessore che si otterrebbe sarebbe di circa sedici millesimi di millimetro.” L'analisi del brano ci permette di notare che in poche linee si concentra tutta l’interezza umana di Levi. C’è la scienza e il fantastico — i paradossali calcoli sulla statura dell’umanità o sul peso complessivo dei viventi; ma c’è anche la spiegazione della fotosintesi in termini fantastici e al tempo stesso colloquiali; c’è il giudizio morale sull’umanità, ® Cfr. Carbonio, in Il sistema periodico, pp. 232-233.

SCIENZA E FANTASCIENZA

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con le sue divergenze di opinioni e le sue guerre; ma c’èx anche l’amore per. la natura e le piante, altro elemento-tema dello scrittore; c’è tracciata, infine, la storia dell’umanità (l’anidride carbonica come forma terminale di ogni essere vivente, a cui si connette la tragedia di Auschwitz, campo dal quale si può uscire solo attraverso il camino). Tutto ciò appare coeso da una forza che, a livello chimico-fisico, si definisce interatomica e, ad altro livello, etica e

morale. La tensione didascalica di Levi e la sua voglia di richiamare costantemente alla ragione stanno proprio annidate in questo continuo additare un dovere che non è scritto da nessuna parte, ma cheè inscritto nel codice genetico — suo e di tutti gli altri uomini. È la doppia natura di centauro (chimico e scrittore) che permette a Levi, il giovane bocciato in italiano all'esame di maturità, di trasgredire dalla descrizione scientifica alla narrazione senza sbavature, senza non solo frattura, ma neppure incrinatura o sgrano di sorta. Scienza e fantascienza, dicevamo, in Levi si completano. Si integrano cementate da una coesione etica. Levi è testimone, in senso lato, di tutto e in ogni circostanza. Fantascienza non evasione, ma mònito: ecco perché la sua produzione in

questo campo può essere pacificamente accostata a illustri precedenti come /984 di George Orwell o I mondo nuovo di Aldous Huxley.

In questo àmbito in Levi si colloca anche la passione di immaginare straordinarie invenzioni tecnologiche, che è motivo ricorrente fin da quando ci propone il racconto sugli odori «suscitatori di memorie», / mnemagoghi appunto, che risale al

1947. L’ordine a buon mercato, Alcune applicazioni del Mimete (la macchina che serve a riprodurre cose e perfino persone), Il versificatore sono esempi di questo disfrenarsi della fantasia premonitrice. A fianco di questi orrori si collocano anche altre invenzioni straordinarie: il Calometro, che misura la bellezza; il Minibrain, che costringe gli insetti a compiere determinati lavori; il Vip-Scan, analizzatore delle “persone veramente importanti” o il Torec (la macchina che ricorda tutto, il cui nome è il risultato di acronimi: Total Recorder); il casco che è capace di far vivere a chi lo indossa scene e situazioni irreali, antenato della macchina che serve a introdurci

nella realtà virtuale dei nostri computer. Tutto questo non è

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TEMI E MOTIVI

disgiunto da problematiche di natura etica nello stesso domandarsi se e quanto sia legittimo vivere esperienze siffatte.* In Vizio di forma le invenzioni straordinarie proseguono anche in altre direzioni come accade in / sintetici, che allude alla manipolazione genetica — realtà che oggi viviamo —, o con il Knall dell’omonimo racconto, marchingegno capace di dare la morte a distanza ravvicinata, o lo Psicofante — sempre nell’omonimo racconto —, la macchina che serve a creare la mappa dell’anima di chi vi gioca appoggiandovi sopra la mano. In ognuno di questi casi, come bene osserva Marco Belpoliti, lo scrittore inserisce «elementi decisamente inquietanti che Levi è un maestro a disporre in quasi tutti i suoi racconti fantascientifici».” Perfino il computer — Levi lo acquista nel 1984 — gode di una particolare attenzione da parte dello scrittore.’ Il paragone Golem-computer è dettato dal fatto che anche la macchina — come il Golem di uno dei racconti — prende vita solo quando gli viene inserito il dischetto di avvio nel drive. Ma già Levi aveva previsto l’uso di un marchingegno simile in // Versificatore.” L'intelligenza leviana è tuttavia tale da usare la ragione e da non farsi serva della macchina stessa — come si evidenzia da ciò che lo scrittore dice nel Dialogo con Tullio Regge. L'educazione umanistica gli impone di non delegare niente all’intelligenza artificiale, che va utilizzata solo se ed in quanto strumento. L'utilità della macchina sta soprattutto nel fatto che essa ammette la possibilità di poter correggere gli scritti senza ricorrere a nuove battiture integrali dei testi — fatto da non sottovalutare in termini di risparmio di tempo e lavoro. Dolore, felicità e infelicità L’idea di dolore misura di tutte le cose e della stessa esistenza, meridiana interna della coscienza dell’esistere, trova * Cfr. E. ZOLLA, Un miracolo di Primo Levi profeta della realtà virtuale, in «Corriere della Sera», 1° giugno 1993. ® Cfr. M. BELPOLITI, Primo Levi, cit, p. 87. °° Personal Golem, che compare come articolo su «La Stampa»; poi inserito in L’altrui mestiere (cfr. Lo scriba, pp. 230 sgg.). © In Storie naturali, pp. 19 sgg.

DOLORE, FELICITÀ E INFELICITÀ

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esplicita teorizzazione in Un testamento, che sintetizza la sapienza che un padre intende trasmettere al figlio perché possa affrontare la vita. La disgrazia più grande per l’uomo è quella di diventare insensibile al dolore. Dice il padre: Dio ti guardi dal diventare insensibile al dolore. Solo i pessimi fra noi si induriscono al punto di ridere dei loro pazienti quando soffrono sotto la nostra mano. L'esperienza insegnerà anche a te che il dolore, anche se forse non è l’unico dato dei sensi di cui sia lecito dubitare, è certo il meno dubbio. E probabile che quel sapiente francese di cui mi sfugge il nome, e che affermava di essere certo di esistere in quanto era sicuro di pensare, non abbia sofferto molto in vita sua, poiché altrimenti avrebbe costruito il suo edificio di certezze su una base diversa. Infatti, spesso chi pensa non è sicuro di pensare, il suo pensiero ondeggia fra l’accorgersi e il sognare, gli sfugge di tra le mani, rifiuta di lasciarsi afferrare e configgere sulla carta in forma di parole. Ma invece chi soffre sì, chi soffre non ha dubbi mai, chi soffre è ahimè sicuro sempre, sicuro di soffrire ed ergo di esistere. È mio augurio che tu divenga un maestro nell’arte nostra, e che tu non abbia mai ad esserne l’oggetto passivo; ma se mai questo ti dovesse accadere, come a me è accaduto, il dolore della tua carne ti fornirà la brutale certezza di essere vivo, senza che tu debba attingerla

alle sorgenti della filosofia. Abbi dunque in istima quest'arte: essa farà di te un ministro del dolore, ti farà arbitro di porre termine ad un lungo dolore passato per mezzo di un breve dolore presente, e di prevenire un lungo dolore di domani grazie alla trafittura spietata inferta oggi. I nostri avversari ci scherniscono dicendo che noi siamo buoni a trasformare il dolore in denaro: stolti! È questo il miglior elogio del nostro magistero.” È evidente che Levi, in questo racconto, rivela una conce-

zione del dolore che prescinde da qualsiasi tipo di teologia 28 Cfr. Un testamento, in Lilit e altri racconti, pp. 176-177.

TEMI E MOTIVI

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del male. Inteso come fatto puramente fisiologico, il dolore serve a conoscere la realtà, a dare il senso e la misura del tempo e dello spazio: insomma dell’essere stesso, secondo una visione di tipo materialistico-leopardiano. Ma per lo scrittore non esiste solo il dolore fisico nel mondo. Altra è, infatti, la situazione che si presenta in Dialogo di un poeta e di un medico: Non gli mancavano certo le parole per descrivere il suo male: sentiva l’universo (che pure aveva studiato con

diligenza e con amore) come un'immensa macchina inutile, un mulino che macinava in eterno il nulla a fine di nulla; non muto, anzi eloquente, ma cieco e

sordo e chiuso al dolore del seme umano; ecco, ogni suo istante di veglia era intriso di questo dolore, sua

unica certezza; non provava altre gioie se non quelle negative, e cioè le brevi remissioni della sua sofferen-

za. Percepiva con spietata lucidità come questa, e non altra, fosse la sorte comune di ogni creatura pensante, tanto da avere spesso invidiato l’inconsapevole gaiezza degli uccelli e delle greggi. Era sensibile allo splendore della natura, ma in esso ravvisava un inganno a cui ogni mente non vile era tenuta a resistere: nessun uomo dotato di ragione poteva negarsi a questa consapevolezza, che la natura non è all'uomo né madre né maestra; è un vasto potere occulto che, obiettivamente, regna a danno comune.”

Quando il giovane poeta si reca dal medico per presentare il caso, la sua condizione non è certo quella dell’uomo che

soffre fisicamente, ma piuttosto quella di chi è ossessionato dall’angoscia. La concezione leopardiana del «piacer figlio d’affanno» vibra nelle parole del giovane poeta; ma qualche tregua — ammette il giovane — c’è e c’è stata. È alla sera — temperando Leopardi con Foscolo — che egli trova un po’ di pace, «quando l’oscurità e il silenzio della campagna gli consentivano di dedicarsi ai suoi studi, anzi, di barricarsi in © Cfr. Dialogo di un poeta e di un medico, in Lilît e altri racconti,

pp. 136-137.

DOLORE, FELICITÀ E INFELICITÀ

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essi come in una cittadella», nel momento stesso in cui si assopisce in lui lo «spirto guerrier ch’entro [gli] rugge». Al centro della sua angoscia c’è un altro elemento che fa negare

l’idea dell’assoluta fisicità del dolore in Levi: la figura della donna. Essa è — per il giovane poeta sotto cui si cela lo scrittore — il centro del dolore spirituale («Esitò, poi aggiunse di aver sempre avuto con le donne un rapporto doloroso»), una sorta di sdoppiamento da cui nasce una terribile sofferenza. Uno dei capoversi di Violenza inutile illustra in maniera sufficientemente chiara la perfetta complementarità di dolore fisico e dolore spirituale: Occorre fare violenza (utile?) su se stessi per indursi a parlare del destino dei più indifesi. Cerco, ancora una volta, di seguire una logica non mia. Per un nazista ortodosso doveva essere ovvio, netto, chiaro che tutti

gli ebrei dovessero essere uccisi: era un dogma, un postulato. Anche i bambini, certo: anche e specialmente le donne incinte, perché non nascessero futuri nemici. Ma perché, nelle loro razzie furiose, in tutte le città

e i villaggi del loro impero sterminato, violare le porte dei morenti? Perché affannarsi a trascinarli sui loro treni, per portarli a morire lontano, dopo un viaggio insensato, in Polonia, sulla soglia delle camere a gas? Nel mio convoglio c’erano due novantenni moribonde, prelevate dall’infermeria di Fòssoli: una morì in viaggio, assistita invano dalle figlie. Non sarebbe stato più semplice, più «economico», lasciarle morire, o magari ucciderle, nei loro letti, anziché inserire la loro agonia nell’agonia collettiva della tradotta? Veramente si è indotti a pensare che, nel Terzo Reich, la scelta migliore, la scelta imposta dall’alto, fosse quella che comportava la massima afflizione, il massimo spreco di sofferenza fisica e morale. Il «nemico» non doveva soltanto morire, ma morire nel tormento.”

Ma l’idea del dolore — tema, se vogliamo, centrale in Se questo è un uomo, pur legato al fine della testimonianza e 30 Cfr. Violenza inutile, in I sommersi e i salvati, p. 96.

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TEMI E MOTIVI

della memoria, ma presente in tutte le opere di Levi — sul piano morale si sposta ora a livello di nostalgia (in chiave attenuata e morbida) ora di disperazione e vergogna quando, per esempio — come nel caso dell’ultima esecuzione in Lager — la coscienza della muta sottomissione agli aguzzini fa acquisire ai deportati la consapevolezza di non essere più uomini per la loro ormai avvenuta nullificazione. Da qui l’angoscia che non può essere esorcizzata né anestetizzata con alcun farmaco, perché connessa alla trama stessa del tessuto umano, di per sé aspirante all’esprimersi in piena libertà. Ma nel mondo non esiste solo il dolore umano. Nella “panalgìa universale” leviana si collocano anche gli animali, per i quali Levi tiene un diverso atteggiamento, da buon logico e razionale quale egli è. In Contro il dolore infatti, dopo avere preso le mosse da un articolo di un teologo morale che sostiene che «sarebbe lecita una certa misura di sofferenza inflitta-agli animali solo perché “ogni animale è al servizio dell’uomo”: infatti, il creato è “dono di Dio all’uomo”, lo scrittore, analizzando l’istintiva etologia degli animali (i felini sono

«splendide macchine

per uccidere»,

il cuculo è

«assassino dei suoi fratellastri appena schiuso dall’uovo» ecc.), conclude che gli animali non sono di per sé creature «cattive»: [...] ma pare necessario ammettere che le categorie morali, il bene e il male, non si attagliano ai subumani. La gigantesca sanguinaria competizione che è nata con la prima cellula, e che tuttora si svolge intorno a noi, sta al di fuori, o al di sotto, dei nostri criteri di comportamento." Così: Gli animali devono bensì essere rispettati, ma per motivi diversi. Non perché sono «buoni» o utili a noi (non tutti lo sono), ma perché una norma scritta in noi,

e riconosciuta da tutte le religioni e le legislazioni, ci *! Cfr. Contro il dolore, in L’altrui mestiere, p. 47.

DOLORE, FELICITÀ E INFELICITÀ

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intima di non creare dolore, né in noi né in alcuna creatura capace di percepirlo. «Arcano è tutto / fuor che il nostro dolor»; le certezze del laico sono poche,

ma la prima è questa: è ammissibile soffrire (e far soffrire) solo a compenso di una maggior sofferenza evitata a sé o ad altri.” La conclusione a cui Levi giunge è il non credere che la vita di un corvo o di un grillo valga quanto la vita umana, e che è perfino dubbio «se un insetto percepisca il dolore al modo nostro», «ma lo percepiscono probabilmente gli uccelli e certamente i mammiferi»: perciò è «compito di ogni uomo diminuire per quanto può la tremenda mole di questa “sostanza” che inquina ogni vita, il dolore in tutte le sue forme».* Contiguo a questo tema, se non altro per opposizione categoriale, sta quello della felicità. Felicità è sospensione d’affanno in termini leopardiani, è dimenticanza della propria condizione, ma in un gioco perverso di prospettive, come lo scrittore fa capire in Una buona giornata: Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori

simultaneamente sofferti non si sommano per intero nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori dietro i maggiori, secondo una legge prospettica definita. Questo è provvidenziale, e ci permette di vivere in campo. Ed è anche questa la ragione per cui così spesso, nella vita libera, si sente dire che l’uomo è

incontentabile: mentre, piuttosto che di una incapacità umana per uno stato di benessere assoluto, si tratta di una sempre insufficiente conoscenza della natura complessa dello stato di infelicità, per cui alle sue cause, che sono molteplici e gerarchicamente disposte, si dà un solo nome, quello della causa maggiore; fino a che questa abbia eventualmente a venir meno, e allora ci si stupisce dolorosamente al vedere che dietro ve n’è un’altra; e in realtà, una serie di altre.” ® Cfr. Contro il dolore, in L’altrui mestiere, pp. 47-48.

3 A questo proposito cfr. Lo scoiattolo, in L’altrui mestiere, pp. 95 sgg. * Cfr. Una buona giornata, in Se questo è un uomo, p. 91.

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TEMI E MOTIVI

Dunque essere felici può significare solo inganno, sospensione della pena, errore di prospettiva. Nella natura umana, nemica di ogni infinito, il perfetto relativismo fa sì che felicità e infelicità siano solo momenti in cui gli eventi maggiori nascondono dietro di sé eventi minori o di minore importanza, in una alternanza di cure materiali che, se da un lato impediscono la durevolezza della felicità, dall’altro servono ad anestetizzare e a distogliere l’attenzione dell’uomo dalla sua condanna: l’idea della futura sventura.

IV

LA CRITICA «Solo i morti non cambiano più e non spingono altre radici, e perciò solo i morti hanno diritto alla critica.»' Con questa osservazione Levi conclude la sua prefazione a La ricerca delle radici, attingendo al commento di F. C. S. Schiller allo

Snark di Lewis Carroll. Per Schiller è regola etica che «soltanto gli scrittori morti devono essere commentati, visto che

non sono più in grado di spiegare se stessi, né di perturbare le spiegazioni di coloro che si dedicano al compito piacevole, e talvolta non privo di utilità, di rendere chiaro ciò che prima era oscuro, e profondo ciò che prima era solo chiaro». Ciò premesso, è importante chiarire che per affrontare una ricognizione esauriente della critica leviana strumenti indispensabili sono i lavori di Ernesto Ferrero (Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di, Einaudi, Torino, 1997) e di Marco

Belpoliti (Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano, 1998).

Se questo è un uomo

Di fronte alla novità, le risposte che vengono date sono generalmente di due tipi: da una parte apprezzamenti che restano sul piano della pura convenzionalità, in una linea di conformismo che finge di apprezzare il nuovo, ma che in realtà non lo afferra; dall’altra un interesse che si fa presto

silenzio. La diffidenza dell’uomo — osserverebbe Levi — per tutto ciò che è estraneo, la sua istintiva avversione nei con-

fronti della diversità fanno sì che, per negazione o rimozio' Cfr. Prefazione, in La ricerca delle radici, p. XXIV.

LA CRITICA

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ne, si passi rapidamente oltre. È il concetto tucidideo secon-

do cui gli uomini sono più inclini ad adottare giudizi “già confezionati” che non richiedono sforzi mentali per ottenere un risultato. In mezzo a questi estremi determinati da criteri di puro comodo, ha osservato Alberto Cavaglion® che solo due testimonianze si sono distinte all’apparire del primo libro di Levi: una di Arrigo Cajumi* e l’altra di Italo Calvino. Cajumi — che affianca a Levi // sentiero dei nidi di ragno — sostiene che Se questo è un uomo «è un gran libro, perché s’impernia, spontaneamente, sul problema capitale: quello dell’uomo che vive ad arbitrio d'uomo, nel mondo moderno». Circa un anno dopo Calvino recensisce il libro focalizzandone i due aspetti caratterizzanti: quello testimoniale e «le pagine di autentica potenza narrativa che rimarranno nella nostra memoria», riuscendo a cogliere con acutezza il versante di Levi-narratore. Dopo l’intervento di Calvino è la volta di Cesare Cases, che comprende che di arte si tratta e intravede in Levi una sorta di moderno Ulisse pronto «a riprendere il viaggio e la speranza».° Ma passeranno poi più di dieci anni prima che si torni a parlare di Levi, finché Franco Antonicelli, lo stesso

che ha fatto pubblicare il libro da De Silva, con un suo intervento ripropone il caso Levi dopo l’edizione einaudiana dell’opera.’ Metterà in luce che nel libro di Levi non c’è «lo spettacolo rivissuto dei singoli dolori», ma «il ripensamento ? Cfr. TUCIDIDE, I, 20: «Così intraprendono molti, con troppa leggerezza, la ricerca della verità, e preferiscono arrestarsi agli elementi immediati, che non esigono applicazione e studio» (in Guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 1980, trad. di Ezio Savino, p: 15).

* Cfr. A. CAVAGLION, Primo Levi e Se questo è un uomo, Loescher, Torino, 1993, pp. 57 sgg. * Cfr. A. CAIUMI, [Immagini indimenticabili, in «La Stampa», 26 novembre 1947. ° Cfr. I. CALVINO, Un libro sui campi della morte. «Se questo è un uomo», in «l’ Unità», 6 maggio 1948. ° Cfr. C. CASES, Levi racconta l’assurdo, in «Bollettino della comunità israelitica di Milano», maggio-giugno 1948. ® Cfr. F. ANTONICELLI,

maggio 1958.

L'ultimo della catena, in «La Stampa», 31

SE QUESTO È UN UOMO

209

morale del Dolore, come esperienza suprema dell’umanità». Ciò amplierà le prospettive di Se questo è un uomo, riconosciuto come opera valida anche dal punto di vista letterario. Così, riaccesosi il dibattito sul primo libro di Levi, Piero

Caleffi si rammarica che il libro non abbia avuto successo sin dal primo apparire: «una grave ingiustizia» scrive «perché si tratta di un’opera anche letterariamente elevata»; men-

tre Adriano Seroni° apprezza l’efficacia eccezionale della narrazione, e Giulio Goria! oltre al valore testimoniale del libro pone in luce che in esso possiamo «riscoprire una chiara parola di poesia». Bruno Fonzi' a sua volta nota che «della realtà non ci vengono semplicemente riferiti i dati, essa è filtrata attraverso una sensibilità e un pensiero che la trasformano in altissima esperienza morale e civile, e di cui

ci è trasmesso il messaggio con l’efficacia, la felicità espressiva d’un artista raramente dotato». Il merito principale dell’opera sarebbe dunque uno sfuggire a tutte le lusinghe della parola e un sostanziarsi di una complessa e profonda riflessione morale. Saverio Tutino! mostra di apprezzare la «misura di linguaggio rara presso un giovane», dote che permette una sapiente ricostruzione realistica e il recupero pieno della ragione anche in «una materia così immane»; mentre Claudio Varese"! parla di «lingua rigorosa che ha una dignità tra moralistica e storica» e riconosce a Levi una «forza di vigilanza morale» che lo instrada sulla via di scelte letterarie che sono «una lezione di stile» per gli altri scrittori. Infine Mario Spinella!‘ focalizza la chiarezza d’analisi di Levi, grazie anche a una capacità e a un rigore morale che niente concedono alla facile retorica. Il modo di scrivere di Levi è quello «di un italiano colto che si esprime nella lingua in cui è abituato a pensare»: il libro è dunque compatto e pieno di dignità «nella sobria e riflessa meditazione». La tra8 Cfr. P. CALEFFI, Se questo è un uomo, in «Avanti!», 8 luglio 1958.

® Cfr. A. SERONI, Se questo è un uomo, in «l’ Unità», 11 luglio 1958. 0 Cfr. G. GORIA, Se questo è un uomo, in «Il Paese», 16 luglio 1958. !! Cfr. B. Fonzi, L'uomo a zero, in «Il Mondo», 29 luglio 1958. !° Cfr. S. TUTINO, in «Rinascita», n. 8, 1958.

138 Cfr. S. VARESE, in «Nuova Antologia», marzo 1959. ‘4 Cfr. M. SPINELLA, Se questo è un uomo, in «Il Contemporaneo»,

ottobre 1960.

210

LA CRITICA

duzione americana del libro viene apprezzata, nella recensione del «New York Herald Tribune» del 28 dicembre 1959 con queste parole: «Avrete certo letto altre cronache di questo moderno ritorno alla barbarie, altrettanto precise nei particolari: ma nessuna [...] a livello di questa per stile ed effica-

cia». Il 1° dicembre del 1962 il «Rheinischer Merkur» attribuisce all’opera il significato di «contributo di particolare valore ed originalità alla letteratura nata all’ombra dei campi di concentramento»; ma in «Die Zeit», qualche tempo prima,‘ si erano messi in luce l’intelligenza, la sensibilità, «un acuto spirito di osservazione» e una equilibrata elaborazione critica delle esperienze, qualità che hanno permesso allo scrittore di affrontare la narrazione di una realtà davvero inesprimibile. La tregua

Quando nel 1963 Einaudi pubblica La tregua nei «Coralli», è Franco Antonicelli ad occuparsene per primo con un intervento su «La Stampa»,'° «probabilmente per averlo letto in bozze». Egli pone l’accento sul tema del nostos, cioè del ritorno, che non è «una semplice appendice» di Se questo è un uomo, perché lo scrittore «ha saputo dare nel complesso a questo secondo libro non soltanto una continuità cronologica e un certo disegno di fatti, ma quel senso interno e umanitario che lo pervade» che è poi il senso di una «incredibile tregua nella storia del mondo». Paolo Milano," paragonando i due libri di Levi, dà preminenza a La tregua perché nella «castità dei suoi interventi» e «nel suo continuo far luogo alla gente che lo circonda, le doti del Levi uomo e scrittore risaltano anche più vive», sicché La tregua colpisce per «la qualità dell’intelletto, e la forza dell’animo, di colui che la !5 29 settembre 1962. '‘ Cfr. F. ANTONICELLI, Fu difficile ridivenire uomini per i reduci scampati ai Lager, in «La Stampa», 20 marzo 1963. ‘” Cfr. E. FERRERO, Primo Levi: un’antologia della critica, cit., p. 313. * Cfr. P. MILANO, La guerra quella di sempre, in «L'Espresso», 21 aprile 1963.

LA TREGUA



211

racconta». Per Milano il ventennio passato fra i fatti e la scrittura si è risolto a tutto vantaggio di una maturazione umana di Levi conferendo ancor più vigore al suo «potere riflessivo» e nota in Levi un «gusto dell’indagine in certo modo scientifica». Lorenzo Gigli' nel sottolineare che le conclusioni del reduce da Auschwitz non sono — e non potrebbero essere — ottimiste, riconosce

che Levi sa dare alla narrazione

la

potenza delle grandi descrizioni nel presentarci, in un libero esame venato di virile malinconia, «paesaggi indimenticabili dell’ Europa distrutta, dal Volga alla Pianura Padana, e vi colloca fatti corali ed episodi individuali ritagliati nei cartoni d’una realtà appena trasfigurata e poeticamente interpretata». Sulla falsariga di questi giudizi Gian Carlo Ferretti,” notando somiglianze e differenze con il primo libro, vede in La tregua una prova più frammentaria in cui manca una fusione perfetta fra narrazione e riflessione morale, ma conclude che il «gusto ironico e divertito, pervaso di sottintesa simpatia, detta a Levi alcuni ritratti indimenticabili» e che

comunque il pessimismo di Levi e la sua «angosciata impotenza dopo tanti anni di pace e di vita civile, devono farci seriamente pensare». Il terzo posto allo Strega” riapre il sipario su La tregua. Giansiro Ferrata” vede in Levi, «padrone di un suo mondo di ricordi che è poco dire straordinario, il fuori-legge letterario» che «ha reso anche il suo nuovo libro un piccolo testo esemplare nel genere», senza che però si debba dimenticare in lui il moralista, perché dentro «la vivacità d’una simpatia umana o di un impulso pietoso, si può spesso rintracciare qui un giudizio severo». Giancarlo Vigorelli? nota che questo non è il secondo libro di Levi, ma «un altro libro», poiché «tanta è !° Cfr. L. GIGLI, Da Auschwitz alla vita, in «Gazzetta del Popolo», 24 aprile 1963. Cfr. G. C. FERRETTI, Torna dopo «la tregua» l’incubo di Auschwitz, in «l'Unità», 15 maggio 1963. ! Dietro Natalia Ginzburg e Tommaso Landolfi. ® Cfr. G. FERRATA, Fenoglio scrittore della Resistenza. Primo Levi e il ritorno da Auschwitz, in «Rinascita», 6 luglio 1963. 2 Cfr. G. VIGORELLI, // testimone Levi, in «Tempo», 13 luglio 1963.

ZA12

LA CRITICA

la prodigiosa carica narrativa di questo scrittore non-professionale, che di colpo sa condurre per mano un personaggio con la prepotenza, e la persuasione, d’un narratore nato», qualità che concilia a Levi il lettore «che avverte rabdomanticamente la perfetta concordanza che intercorre fra esperienza e scrittura, tra maturità umana e maturazione letteraria». Ogni pagina «ha il peso addosso della verità». Accostando il testo a Una giornata di Ivan Denisoviè di Aleksandr Solzenicyn, Vigorelli intuisce e rileva il passaggio di ambedue gli scrittori «dall’essere testimoni al farsi narratori». Per Paolo Spriano”' la chiave di lettura di questo secondo libro di Levi va invece ricercata in una «umanità liberata, e liberata non solo dalla guerra, ma dalle stesse

costrizioni della vita “normale”’». Nell’agosto del 1963 sia Mario Lunetta” che Walter Pedullà?° propongono un loro intervento. Lunetta insiste sulla coscienza storica che Levi ha del suo popolo e delle persecuzioni cui è stato soggetto e, a proposito del linguaggio, osserva che l’autenticità di Levi scrittore non-professionista lo rende «un narratore di alto, nobilissimo livello» per il rifiuto di mezzi espressivi di facile consumo. Pedullà al contrario punta l’attenzione sulla «ferma coscienza letteraria» di Levi che conta sulla sua professione di chimico per un’analisi lucida del reale rifiutando gli «elementi “ambigui», sicché lo scrittore ha prodotto il suo «diario più che con l’umile concretezza del cronista con la lucida intelligenza dello storico e il partecipe risentimento del moralista». Anche Carlo Bo a questo punto non può tacere e cerca di giustificare il suo ritardo nell’occuparsi di Levi.” Osserva che la materia «assolve il libro dalla regola delle circostanze,

facendone a suo modo un piccolo testo di morale umana» e che la narrazione «non si perde né in speculazioni sentimentali né in allargamenti politici». Secondo Bo, lo scrittore «ha una sua verità, ma preferisce confrontarla con le cose: prefe°* Cfr. P. SPRIANO, in «l’ Unità», 14 luglio 1963.

® Cfr. M. LUNETTA, in «Paese Sera», 2 agosto 1963. °° Cfr. W. PEDULLÀ, in «Avanti!», 8 agosto 1963. ” Cfr. C. Bo, Un prigioniero torna a casa, in «Corriere della Sera», 8 settembre 1963.

STORIE NATURALI

213

risce, da uomo che non fa il mestiere dello scrittore ma quello del chimico, provarle, sperimentarle». Le conclusioni cui

giunge il critico sono che «Primo Levi ha trovato la sua strada proprio col soccorso di questa capacità di ordinare pazientemente la materia di sangue e di dolore, insomma rispettando le cose e non esaltandole o denigrandole»: questi, per il critico, sono frutti tali «che la letteratura sola non può offrire». Carlo Salinari* apprezza il fatto che La tregua, in cui domina «la malinconica consapevolezza del tragico destino degli uomini», possa lasciare «largo posto all’osservazione disinteressata, al ritratto divertito, alla rappresentazione cordiale e umoristica»; mentre Alfredo Todisco — dopo avere incontrato Levi — conclude che in futuro «gli storici che vorranno sviscerare questa nostra epoca, è probabile che metteranno più proficuamente le mani sulle testimonianze dell’outsider Levi, scritte a passo “tradizionale”, che non sui

testi ultramoderni di molti letterati innovatori», poiché «i libri di questo chimico intelligente hanno trovato un linguaggio schietto, in cui fatti e personaggi dell’inferno dei Lager non stingeranno tanto facilmente».?

Storie naturali

Con Storie naturali, Levi inaugura un nuovo percorso nella sua carriera di scrittore. Tre anni prima, nel 1963, Vigorelli pronosticava che Levi avrebbe potuto scrivere «anche un libro prosciolto dalle esperienze concentrazionarie» e in questo aveva ragione. Solo che la critica resta attonita dinanzi alle storie di Damiano Malabaila, lo pseudonimo con cui Levi tenta di far rimarcare il cambiamento di rotta. Attonita e anche divisa sui giudizi. Per un verso essa coglie nei racconti una mancanza del rigore e della austerità proprie delle prime due opere; per un altro essi sono considerati 28 Cfr. C. SALINARI, Guerra senza tregua, in «Vie Nuove», 17 ottobre 1963. ® Cfr. A. TopIsco, La «chimica» di due scrittori, in «Corriere della Sera», 1° marzo 1964.

214

LA CRITICA

solo sotto il profilo del puro divertimento e dell’evasione. Solo pochi critici più attenti cercarono una ragione di continuità e di non-soluzione rispetto alle prime opere, ma il risultato dell'operazione critica è una caduta degli interessi che Se questo è un uomo e La tregua avevano fatto agglutinare intorno allo scrittore. Il pregiudizio che pesa su Levi è la sua non-professione di scrittore, il fatto che egli sia comunque ritenuto un non-professionista, pur di alto rango e livello. È Paolo Milano ad occuparsi per primo di Storie naturali. È il critico attento a focalizzare l’attenzione su Trattamento di quiescenza e Versamina, emblematici per comprendere la passività con cui l’uomo di quegli anni si adatta al proprio ambiente socio-culturale fino a «dimettersi dalla vita in proprio». Per Milano Levi analizza «il nostro ottuso desiderio di estromettere dalla vita tutto il dolore, e la bruta demenza in cui sboccherebbe il consumo di un analgesico universale», la versamina, appunto. Sfugge però al critico l’importanza di altri racconti, considerati come «trovate satiriche o “scherzi”’» che, se pure gustosi, sarebbero «di peso intellettuale assai vario». Con più cura e perspicacia Lorenzo Mondo” sa trovare un legame fra il vecchio e il nuovo Levi e, a proposito di Angelica farfalla, nel rilevare l’atteggiamento dello scrittore sospeso fra «la meraviglia per le possibilità della scienza e l’orrore per i suoi approdi», sostiene che è «in questa protesta per la condizione umana umiliata e offesa che la voce di Primo Levi si fa nuovamente persuasiva, riscattando l'abilità, spesse volte esteriore, della maggior parte dei suoi racconti». Armando La Torre” coglie invece l’aspetto nuovo della fisionomia dello scrittore nel suo essere pronto a opporsi «alla cosificazione e distruzione dell’uomo, ieri perpetrate in termini mostruosi dal nazismo e dalla guerra, oggi, in forme di “assurda” civiltà, dalla scienza e dalla tecnica»: una chiave interpretativa, quindi, che alla lunga si rivela giusta ® Cfr. P. MILANO, Lettera aperta a Damiano Malabaila, in «L'Espresso», 9 ottobre 1966. " Cfr. L. MonDO, Storie di vecchie e nuove alchimie che si muovono tra orrore e sorriso, in «Gazzetta del Popolo», 12 ottobre 1966. * Cfr. A. LA TORRE, in «l'Unità», 19 ottobre 1966.

STORIE NATURALI

215

nelle prospettive. A Giuliano Gramigna, premesso che il titolo è ironico e mistificatorio per i racconti che sono «eleganti (e magari agghiaccianti) distorsioni del corso della natura», piacciono le trovate di Levi, che sono «quasi sempre ingegnose, elegantemente assurde»; e il critico appunta l’attenzione su Angelica farfalla, perché «non mostra, non spiega apertamente: lascia solo per un attimo intravedere la mostruosità» a cui darebbe origine ogni forma di manipolazione genetica. Solo sull’aspetto del comico si appunta invece il giudizio negativo di Claudio Marabini* laddove scrive con seriosità che è «difficile, insomma, credendo nell’uomo, di scherzare

sulla sua morte; e Levi crede nell’uomo troppo profondamente, e ha visto la morte troppo da vicino per poter giocare e avere soltanto quel minimo di disperata voglia dello scherzo per inscenare una danza. Da cui, in certe pagine, un sapore di gratuita — pur elegante — esercitazione». In questo caso pare essere il pregiudizio classificatorio a nuocere allo scrittore, ormai

visto ed etichettato

come

il testimone

di

Auschwitz, senza via di scampo come le mille figure di Se questo è un uomo. Sul comico insiste anche Walter Pedullà,®

un comico ora sfavillante ora tenue, ora spensierato, ora caustico. Per il critico certi accostamenti (fantascienza e parlato, ad esempio) «fanno esplodere un’allegria che fa dimenticare i “mostri” della tecnica». Ma limitante è il giudizio conclusivo: «Ciò che la fantasia di Levi non ha saputo fare è produrre invenzioni comiche capaci di ribaltarsi all’estremo limite del dramma, come è prerogativa dei grandi umoristi». Il punto massimo di fraintendimentoè rappresentato dal giudizio stroncante di una nota redazionale di «quaderni piacentini»: le Storie naturali sono «un libro fallimentare: cattiva letteratura, pessima fantascienza»; insomma da non leggere. Ma contro questa condanna si leva la voce di Cesare 3 Cfr. G. GRAMIGNA, Diabolica farfalla, in «Corriere d’informazione», 22 ottobre 1966.

# Cfr. C. MARABINI, Le favole di Primo Levi, in «il Resto del Carlino», 3 Cfr. dicembre 3 Cfr.

16 novembre 1966. W. PEDULLÀ, / «rimorsi» di Primo Levi, in «Avanti!», 1966. «quaderni piacentini», VI (1967), n. 29, p. 15.

16

216

LA CRITICA

Cases?” che, con una lettera alla redazione della rivista, rico-

nosce a Levi di essersi ritagliato «una zona “italiana” di fantascienza, in cui al posto della crudeltà della migliore fantascienza americana c’è la malinconia umanistica, al posto dello stile immediato e sbrigativo una maggior consapevolezza linguistica e un ineliminabile bagaglio culturale; al posto dei grattacieli e delle astronavi un’atmosfera casalinga di gabinetti scientifici, vecchi professori e commessi viaggiatori». Pur ritenendo le prove diseguali, Cases sostiene che proprio «l’autenticità e la modestia dell’impresa» gli «rendono cari i risultati, e di gran lunga preferibili a ogni altro tentativo del genere» a lui noto. Cases aggiunge che se «respingiamo proprio quel che c’è di più genuino» in Levi «come il tentativo di un “letterato” di “accostarsi” a un genere, lo spingeremo a rinchiudersi fra le sue vernici o a mietere altri premi letterari, dimostrando non già la sua inidoneità alla rivoluzione, ma la nostra». E con una pointe estremamente ironica, il critico chiude il suo intervento inviando «domanda in carta bollata di lire quattrocento» alla redazione di «quaderni piacentini» affinché «le Storie naturali di Damiano Malabaila vengano tolte dall’elenco dei libri da non leggere». Vizio di forma

Anche Vizio di forma, al suo apparire nel 1971, suscita una serie di perplessità da parte dei critici. Con ogni evidenza la società letteraria italiana, tanto spesso disattenta nella valutazione dei valori dei nuovi acquisti e non meno pigra nell’accettare innovazioni e cambiamenti nelle situazioni per così dire “ormai definite”, stenta ancora ad accogliere questo secondo versante dell’anima leviana di «favoleggiatore satirico» e «di arguto narratore di science-fiction».* Fra i primi ad occuparsi della nuova raccolta, Carlo Bo” ” Cfr. C. CASES, Difesa di «un» cretino, in «quaderni piacentini», VI (1967), n. 30; poi in Patrie lettere, Einaudi, Torino, 1987, pp. 138-143. * Cfr. F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, cit., p. 181. ® Cfr. C. Bo, Il vizio di vivere, in «Corriere della Sera», 4 aprile

1971.

VIZIO DI FORMA '

ZA

riesce a cogliere il segno della novità negli strumenti e nella struttura della prosa, sostenendo che «quando nei due documenti indimenticabili Levi registrava le conseguenze del primo “vizio”, lo faceva con un accento di pietà, senza mai adoperare veleni, senza ricorrere ad alcun lenocinio sentimentale». Al contrario in Vizio di forma i segni superstiti di questo registro sono «pochi e privi di una reale consistenza: si ha l'impressione che sia mutato non già il punto di vista ma il sistema della ricerca» perché «Levi mette l’accento sull’ironia e nello stesso tempo sposta l’angolo d’individuazione e questo probabilmente dipende dal fatto che al tempo del Lager era in qualche modo uno storico mentre qui si sente piuttosto nelle vesti di uno scienziato». Il risultato per Bo è tuttavia congruo con le premesse dei libri di testimonianza, e cioè Levi, anche in questa prova, «non viene meno a quella che è la sua sostanziale virtù di scrittore, il senso dell’equilibrio». La stessa ironia, mai portata ai limiti della distruttività, si fa, infine, portatrice di speranze, mirando

all’accelerazione verso il recupero della ragione e alla riaffermazione della «virtù sostanziale dei sentimenti». Sul versante opposto e in chiave negativa Daniele Del Giudice‘ evidenzia la discontinuità della tensione poetica,

spesso oscillante «dal simbolo perfettamente calzato al luogo poetico più comune e scontato». Uno degli strali maggiormente acuminati del critico riguarda il linguaggio che è «un po’ vecchio nella sua struttura e comunque troppo geometrico, in cui i simboli ed i personaggi tradiscono qualche volta l’intento polemico ed appaiono come altrettante tesi messe lì, a dimostrare ad ogni costo il teorema». Giorgio Calcagno‘ riesce ad apprezzare una novità, la capacità di Levi di spostare l’idea del Lager dall’ambito storico all’ambito più ampiamente umano e attuale. Per il critico è l’ora di farla finita di battersi contro i mostri del passato; è giunto il momento di passare ad altro e di «denunciare

il nuovo lager, nel quale l’uomo moderno sta imprigionando 4° Cfr. 16 aprile 4! Cfr. Tempo»,

D. DEL GIUDICE, L’uomo, questo distruttore, in «Paese Sera», 1971. G. CaLcagnO, Ancora un Lager per Primo Levi, in «Il nostro 18 aprile 1971.

218

LA CRITICA

se stesso, insieme con il proprio universo». Le qualità di Levi tecnico e scienziato permettono allo scrittore di entrare nel problema dell’equivoco della scienza vista come un fine anziché come un mezzo: il linguaggio concreto, che segue anche un «rigoroso formulario tecnologico», attraverso l’ironia si trasforma in una «logica geometrica, e proprio per questo tanto più irreale, spinta fino al paradosso» che evidenzia come i «racconti migliori non sono quelli dove domina la fantasia, ma la logica». Per queste ragioni il libro è «un atto d’amore verso l’umanità minacciata da sé stessa», e, al contempo, un rinascere della speranza proprio là dove si annuncia l’epilogo apocalittico della distruzione totale. Paolo Milano‘ rimprovera a Levi il suo sostanziale ottimismo; poiché il pubblico esce dalla lettura «dopo momentanee apprensioni, in sostanza purtroppo rassicurato». In realtà nel suo giudizio Milano è forse condizionato da un elemento di moda, l’idea del catastrofismo tipica di quegli anni; e non sa superare questo pregiudizio. Il critico, nel ritenere le prove di Vizio di forma piuttosto blande, più che limitarsi a un’analisi sembra pretendere dallo scrittore una rivoluzione che non può certo venire dalla letteratura, e non sembra riuscire ad apprezzare una caratteristica peculiare di Levi: la sua elegia, che

comunque non può essergli attribuita a vizio. Tuttavia Milano coglie segni di particolare interesse in racconti come Verso occidente, in cui è svolto il tema del «suicidio etico». Giulio Nascimbeni* ritiene che Levi voglia instillare nel lettore una «“sostanziale confidenza per il futuro”’» proprio mentre l’unica certezza sembra essere la constatazione che non sarà possibile tornare indietro perché «non esisterà più la via di scampo nel rifugio nel passato»; mentre Gino Nogara,* chiedendosi se la ragione potrà bastare da sola a salvare l’umanità — come sembra far credere Levi —, osserva che quella del Lager è una «condizione

permanente

irreversibile, la

necessità a cul non ci si può sottrarre» in «forme di annienta* Cfr. P. MILANO, Il vizio di forma e l’errore di sostanza, in «L'Espresso», 25 aprile 1971. * Cfr. G. NASCIMBENI, in «La Domenica del Corriere», 18 maggio 1971. * Cfr. G. NOGARA, // «vizio di forma» secondo Levi è negli assurdi della tecnologia, in «Gazzetta del Popolo», 19 maggio 1971.

VIZIO DI FORMA'

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mento o di annihilimento» spostate su altri piani. Per il critico, Levi «in Vizio di forma ha puntato soprattutto all’incidenza immediata dell’allegoria crudele e ironica» per ottenere una «dimostrazione per absurdum del nostro modo di organizzare l’esistenza». Ma questa assurdità strutturale finisce per salvare la persona con i suoi valori, la società e la natura stessa.

Mario Spinella,‘ tenendosi accosto alle posizioni di Milano, nel notare che è un fondo di pessimismo a muovere Levi, pone l’accento sul fatto che lo scrittore non accetta del tutto questo cupo sentire. Nella oscillazione tra «denunzia totale e bisogno di credere» lo scrittore toglierebbe «forza alla prima e credibilità al secondo», tanto da sospendere «il

suo discorso in un vuoto solo sostenuto da una abilità tecnica del narrare e dall’impegno della lingua». «Molti medi scrittori di fantascienza hanno fatto e fanno meglio, dandoci

immediato brivido esistenziale che qui invece non nasce», osserva Spinella. E aggiunge che questo è frutto di una sostanziale inconsapevolezza di Levi che «sembra non sapere ciò che vuole comunicarci». Più acuto ed equilibrato il giudizio di Pietro Bianchi, che coglie in pieno il procedimento artistico di Levi in un metodo «subdolo, innocuo all’apparenza e di fondo grave e drammatico» per cui si arriva «alla tensione, e poi all’esplosione del tema, per gradi insensibili, attraverso la più ovvia esperienza quotidiana». Questa svolta dell’arte di Levi va dunque seguita con attenzione, poiché lo scrittore non è né un pessimista né un seguace di Rousseau che ambisce a insensati ritorni al mito del “buon selvaggio”. Walter Mauro‘ intuisce l’efficacia espressiva del nuovo Levi. In essa trova giusta collocazione «il discorso fantascientifico», e «cosmicomico» che era già iniziato con Storie naturali. Quanto a cercare un rapporto fra la prima e la seconda produzione leviana, il critico nota che non c’è sostanziale frattura fra i due momenti, perché «nella misura 4 Cfr. M. SPINELLA, Primo Levi: «Vizio di forma», in «Rinascita», 4

giugno 1971. 4 Cfr. P. BIANCHI, Preoccupazioni e ambizioni del nuovo Levi, in «Il Giorno», 7 luglio 1971. # Cfr. W. MAURO, in «Il Telegrafo», 8 luglio 1971.

220

LA CRITICA

in cui i Lager distruggevano ogni possibile reattività individuale, nella stessa misura la tecnica e la scienza tendono a disarticolare ogni possibile facoltà razionale dell’uomo» che resta così isolato in una sorta di «terra bruciata dalla quale il suo tentativo di ritorno e di reinserimento risulterà vano, come lo era stato all'indomani della notte nazista della ragione».

Il sistema periodico

Il sistema periodico apre una fase della scrittura di Levi ancor più ritagliata e scientificamente definita. Lorenzo Mondo, considera il libro una lettura di quelle «che si possono consigliare ad occhi chiusi». Per il critico il linguaggio è «preciso e sommesso», risultato di una grande misura. L'elemento di maggiore rilievo che fa di questo libro un’opera importante è il recupero della dimensione memorialistica. Nel libro c’è «una dilatazione di anni e di temi» entro cui si svolge «la storia di un giovane che si educa alla vita nella stretta di eventi terribili e riesce a cicatrizzare le ferite senza perdere la sua disposizione pensosa, interrogante sulla natura e sull’uomo», che oltretutto si amplia sull’ambiente culturale e sociale delle comunità ebraiche piemontesi. Tutto ciò che è narrato — dalla passione per l'alpinismo, al piacere del lavoro eseguito a regola d’arte — diventa una specie di breviario di «elementare moralità, di una quotidiana decenza» dalla quale saranno nutriti ed educati «i più decisivi e aspri rifiuti». Come la chimica rappresenta per Levi la «verifica al pensiero di Aristotele, di Spinoza e di Kant» poiché consente di «“dragare il ventre del mistero”, di raggiungere la stoffa dell’universo», così l’analisi della realtà con occhi di chimico demistifica le menzogne ufficiali. Il racconto Argon è particolarmente suggestivo per Natalia Ginzburg. La scrittrice ne apprezza la galleria di ritratti che vi compaiono, e accosta questa prosa a «certe ironiche e meravigliose prose di Saba». La sensazione di «avere ‘ Cfr. L. MoNDO, Le vitali alchimie, in «La Stampa», 24 maggio 1975. * Cfr. N. GINZBURG, Fra guerra e razzismo, in «Corriere della Sera», 25 maggio 1975.

IL SISTEMA PERIODICO

221

illuminato un mondo scomparso dalla terra» è viva. Ma ciò che più conta per la Ginzburg è il fatto che // sistema periodico recupera la storia di «una adolescenza che ha conosciuto l’esperienza dell’emarginazione» e che, per tappare la falla, «cerca il proprio destino in maniere cieche, appassionate e confuse: gli esperimenti scientifici, le letture, le gite in montagna, le amicizie, i tentativi sentimentali», mezzi per misurare le proprie forze. Le prove migliori della raccolta sono per la Ginzburg i racconti «in cui l’orrore del futuro e delle prossime persecuzioni si presenta allo sguardo senza alcun riparo», come avviene in Oro. Il sistema periodico viene visto come sintesi delle precedenti esperienze letterarie da Paolo Milano,° che apprezza Argon come il testo più convincente; mentre Arcangelo Leone De Castris” rileva nella raccolta una sorta di integrazione di due differenti discipline, la chimica e la letteratura. Ma circa il modo di interpretare la realtà, Luigi Baldacci?” osserva che dietro di esso si profila un modo «che postula ottimisticamente l'esigenza di una fede (laica), suppone una decifrabilità dell’universo e una supremazia dell’uomo». E questa, in buona sostanza, una riserva di fondo; ma niente toglie a Levi, cui va

riconosciuto il «bilancio morale di questo libro, nel quale molti uomini di buona volontà si riconosceranno». Ciò è anche «il segno di un rifiuto dell’altra realtà, che è fatta di sconfitte, di dolorose scissioni (tra la letteratura e la storia), di acclarata impotenza a cambiare (con la letteratura) le cose». Levi è dunque «lo scrittore meno decadente che oggi abbia l’Italia» perché crede ancora ai valori tramontati per i decadenti e «ne fa tutt'uno con la sua professione di scrittore». Sul linguaggio e l’apporto che viene dal «parlar vivo» si sofferma Domenico De Robertis.*® Come la chimica è «l’alfabeto di lettura della realtà», attraverso di essa si crea un 5° Cfr. P. MILANO, Poesia e prosa della chimica, in «L'Espresso», 22 giugno 1975. 5! Cfr. A. LEONE DE CASTRIS, «Rinascita», 25 luglio 1975.

Levi: il sistema periodico, in

® Cfr. L. BALDACCI, Primo Levi e R. Celletti, in «Giornale d’Italia»,

27-28 agosto 1975. 5 Cfr. D. DE ROBERTIS, L'alfabeto della natura, in «Il Tempo», 11

ottobre 1975.

DOD:

LA CRITICA

alfabeto che serve all’interpretazione del reale, sicché il libro è «il grafico di una formazione intellettuale passata al saggio dei singoli elementi», in cui «ragioni della testimonianza e ragioni della scrittura coincidono». Il critico conclude che la

«descrivibilità poetica coincide, al limite, con la semplice descrivibilità. La poesia, ancora leopardianamente, passa attraverso una “nuova scienza”: un nuovo De rerum natura».

La chiave a stella

La chiave a stella accomuna nel dibattito critico il tema del mondo del lavoro, quello della lingua e quello della felicità nello svolgere il proprio mestiere. Siamo negli anni ‘70 e il mondo del lavoro è visto in chiave assolutamente negativa, come spersonalizzazione e sfruttamento disumanizzante. Lorenzo Mondo,“ definendo questo libro «inconsueto», accosta la figura del protagonista Faussone a quella di un pavesiano Ciau Masino e ne apprezza «la modica millanteria dell’operaio specializzato del Nord, la prudenza davanti alle novità, lo spontaneo solidarismo, la malinconia, anche, di chi è abituato a prendere sul serio la vita» e si concede pochi abbandoni. Imperniato solo su parametri politici è il giudizio di Corrado Stajano” che, definito il libro «molto bello e insolito», lo giudica un contributo destinato a tener viva la discussione sui problemi non risolti del mondo del lavoro, un libro

la cui filosofia è rappresentata dal «racconto della fatica quotidiana, il continuo esame da sostenere, le battaglie vinte e

quelle perse e soprattutto il gusto dell’opera finita e ben fatta». Che si tratti di visione politica lo dimostra quanto Stajano stesso dice: «La moralità del lavoro vale in assoluto ed è soprattutto un onere per chi vuole il cambiamento,

il

progresso, la rivoluzione liberatrice». Più ampio e articolato il giudizio di Giovanni Raboni? “ Cfr. L. MoNDO, Un operaio così, in «La Stampa», 8 dicembre 1978.

* Cfr. C. STAJANO, /! lavoro e la sua qualità, in «Il Messaggero», 11 dicembre 1978. °° Cfr. G. RABONI, Riesce a creare suspense col montaggio di una gru, in «Tuttolibri», 23 dicembre 1978.

LA CHIAVE A STELLA

228

che — escludendo per Levi un viver di rendita per i suoi antichi successi — definisce lo scrittore un forte sperimentalista sotto la parvenza di un tranquillo. La novità e l’originalità del romanzo in racconti separati sta nel fatto che «Levi [...]

ha scoperto che si può creare e mantenere in vita un interesse, un coinvolgimento, addirittura una suspense di tipo squisitamente narrativo anche raccontando le fasi del montaggio di una gru, o la posa in

mare di un immenso

traliccio, o

l’“agonia” di un ponte». Giuliano Gramigna” focalizza l’attenzione sul rapporto Levi-Faussone, fatto di «simpatia e di consenso all’etica del

lavoro, ma anche di antagonismo, scontro dialettico, ovattato ma indubbio, quasi fra due culture». Enrico Deaglio” coglie il valore della novità del linguaggio di Faussone e la sua unicità di personaggio. L’interrogativo più importante che però il critico si pone è quello di domandarsi se davvero il modello di Faussone sia un modello di libertà e in quali termini,

perché è certo che l’operaio «guarda con distacco quelli che non ce l’hanno, [...] non fa nulla per liberare gli altri». Ma

sarebbe errore di prospettiva — a nostro giudizio — credere che la rivoluzione potesse giungere dalla letteratura o da «quella “letteratura industriale” di Ottieri, Calvino, Vittorini,

che però si esaurì quasi subito». Geno Pampaloni” apprezza il modo di raccontare di Levi «ordinato, concreto, lievemen-

te pedantesco o didattico, sorretto da una specie di allegria timida, un buonumore di fondo controllato dalla buona edu-

cazione o dall’autoironia». Per Paolo Milano® Faussone diventa una delle più felici invenzioni leviane, con quel suo

perfetto oscillare linguistico sospeso tra la «proverbialità dialettale» e il «gergo di fabbrica». Infine, sulla linea di Stajano — di cui accoglie alcune

5 Cfr. G. GRAMIGNA, Il lavoro come un amore, in «Corriere della Sera», 24 dicembre 1978.

5 Cfr. E. DEAGLIO, La nevrosi dell’operaio Faussone, in «Lotta Continua», 30 dicembre 1978.

5° Cfr. G. PAMPALONI, / ferri del mestiere, in «il Giornale», 14 gennaio 1979. 8 Cfr. P. MILANO, Il tecnico e la sua anima, in «L'Espresso», 21 gennaio 1979.

224

LA CRITICA

osservazioni — Alberto Asor Rosa“' focalizza la propria attenzione sul ritmo del discorso e sulla precisione del disegno: Faussone «ritraduce nel proprio linguaggio la concentrazione e i passaggi, con cui realizza il proprio lavoro quotidiano»; ma la distanza del protagonista dall’operaio-massa è «molto, molto più grande di quella che passa fra un levriere e un volpino». In fondo per il critico Levi e Faussone sono simili o accomunati dal desiderio di inseguire qualcosa che sfugge, in maniera nostalgica e sentimentale: «un rapporto umano a suo modo pieno con il mondo».

La ricerca delle radici

La ricerca delle radici non suscita particolare interesse. Gli interventi sono limitati. Per Italo Calvino,® che sembra cogliere appieno il valore dell’antologia, l’aspetto autobiografico della formazione di Levi «domina anche qui nell’introduzione e nel titolo, ma nel corpo del libro l’aspetto che

più conta è quello del sistema, dell’“enciclopedia”» e la «qualità principale di Levi antologista è quella di stabilire relazioni tra i testi più eterogenei». Lorenzo Mondo” osserva che la mappa leviana è singolare ed è la moralità dello scrittore a «trovarsi punti di appoggio davvero originali» nei testi più disparati; mentre Geno Pampaloni* situa la qualità più importante dell’antologia nel fatto che il libro è «spoglio di enfasi»: il filo conduttore dell’opera nasce dal singolare rispetto che «è riservato sia ai testi dell’antologia, sia al se

stesso che vi è formato, sia al lettore che è invitato a misurarsi con questi testi e insieme con il rapporto che lo scrittore ha con essi».

®' Cfr. A. AsoR Rosa, Lo scrittore, l'operaio e il levriere, in

«l’ Unità», 24 giugno 1979. °° Cfr. I. CALVINO, Le quattro strade di Primo Repubblica», 11 giugno 1981.

Levi, in «la

“ Cfr. L. Monpo, Le nostre oscure radici e le stelle dell’utopia, in «La Stampa», 9 luglio 1981. %“ Cfr. G. PAMPALONI, Padri e figli, in «il Giornale nuovo», 29 novembre 1981.

LILÎT E ALTRI RACCONTI

225

Liltt e altri racconti

Un unico motivo legherebbe le tre sezioni di Lilit e altri racconti e Giorgio Bàrberi Squarotti lo individua nella «indagine mite e paziente sulla spesso inesplicabile e misteriosa manifestazione del bene e del male nel mondo». Per il critico la materia è svolta in una forma «discreta e quasi antifrastica»; la narrazione è acuta e precisa e i risultati dell’indagine «raggiungono un perfetto equilibrio», specie nei tre racconti che, a suo giudizio, rappresentano momenti esemplari: Lilit, Il ritorno di Lorenzo, La bestia nel tempio.

Domenico Starnone osserva che Levi appartiene alla categoria degli scrittori «che scrivono lasciando dentro la scrittura un po’ di voce», come dire che nelle pagine leviane c’è ancora l’eco di una dimensione orale della narrazione. Questa qualità di Levi dipende dal fatto che egli «continua a metter giù pagine all’apparenza senza vistose malizie letterarie, come se un’associazione di idee, o la caduta di un inter-

detto, un improvviso rigurgito di memoria trovasse noi lì pronti a prestargli orecchio, e lui subito a parlare senza stare a badare troppo alle parole». Un Levi affabulatore, dunque. Carlo Sgorlon’ mette in luce che «il gusto di raccontare» di Levi contagia immediatamente il lettore e lo avvince grazie ad una sorta di mirabile estro combinatorio. Carlo Bo® individua nei racconti di Lilit «una consistenza ferma e solida» permeata di «intelligenza che non è soltanto letteraria» e che soprattutto non mira alla riuscita e alla dimostrazione della propria abilità, ma che riesce a dominare la struttura dei racconti che risulta «complessa nonostante il quadro estremamente preciso e sicuro» e che gioca sapientemente «su un rapporto algebrico di rimandi, di richiami e di inattese soluzioni». 6° Cfr. G. BARBERI SQUAROTTI, Primo Levi: Dio creò il male e lo chiamò Lilit, in «La Stampa», 5 dicembre 1981.

6 Cfr. D. STARNONE, Lilit nel fango del Lager, in «il manifesto», 13 dicembre Cfr. bre 1981. 8 Cfr. dicembre

1981. C. SGORLON, Galleria di «tipi», in «Il Gazzettino», 13 dicemC. Bo, Alle radici dell’uomo, in «Corriere della Sera», 27 1981.

226

LA CRITICA

Giudizio negativo esprime al contrario Giorgio De Rienzo,’ per il quale la sezione migliore è quella di «passato prossimo», ancora dedicata alle esperienze del Lager. Per il critico la scrittura di Levi che passa dal vero all’invenzione diventa «scadente» perché quando «o si proietta in un futuro fantascientifico (Gladiatori, Disfilassi) o guarda al presente che lo circonda (Self-control, La fuggitiva) le cadute di stile sono anche rovinose». La conclusione è stroncante: «Levi non trova un linguaggio adeguato alla sua invenzione fantastica, né riesce a interpretare il presente in scrittura: qui,

ripete — e qualche volta persino in modo maldestro — i vecchi percorsi di Pavese». Armando La Torre” si fa attento su Decodificazione, che

investe l’ambiguità dei codici e i difetti del linguaggio, per concludere che «il senso di una parola, la sua vitalità, è nella sua dialettica interna, nella sua espressività rovesciata, nel suo senso altro, nel suo contrario» sicché non c’è verso di chiudere la vita nell’àmbito angusto di una parola definitiva. Negativo il giudizio di Claudio Marabini” che parla di «fastidiosa separazione dalla realtà» e continua a preferire il Levi delle opere di testimonianza: non dovrebbe allontanarsi da esse. Se non ora, quando? All’apparire di Se non ora, quando? Paolo Spriano” osserva con molta acutezza che «Levi ci dà un altro libro fantastico e vero» al tempo stesso. Alla base della simpatia che il romanzo raccoglie, starebbe, per Spriano, il progressivo articolarsi e approfondirsi della psicologia dei personaggi che all’inizio compaiono quasi fissi come archetipi e che via via si lascia© Cfr. G. DE RIENZO, /l Lager diventato idillio della memoria,

in

«Famiglia Cristiana», 27 dicembre 1981. ® Cfr. A. LA TORRE, L’inquietudine in forma di parola, in «l’ Unità», 14 gennaio 1982. "" Cfr. C. MARABINI, Dal Lager arrivano altre voci, in «Il Resto del

Carlino», 22 febbraio 1982.

°° Cfr. P. SPRIANO, Questa terra è la mia terra, in «l’ Unità», 20 aprile 1982.

SE NON ORA, QUANDO?

209)

no coinvolgere da sensazioni ed emozioni nuove e insolite. Per Luigi Surdich” i piani su cui si svolgono gli avvenimenti sono due, il primo dei quali è documentaristico e l’altro di

natura ideologico-morale; e il riscatto degli ebrei sbandati avviene proprio attraverso la memoria della loro collettiva coscienza ebraica. Ondeggiante fra «la volontà di resistere e quella tutta umana di cedere», il ritmo del romanzo, secondo Giuseppe Marchetti,” finisce per assumere

«la pacatezza solenne e

semplice di un grande romanzo della natura» in cui si recupera tutto il perduto e cioè la «potenza della creazione, il grido fatale della moltiplicazione, l'obbedienza al comando biblico che “rende liberi”’» gli uomini. Ma Marchetti ha già negato la sistemazione convenzionale di Levi nell’area delle opere memoriali di guerra e di prigionia, perché lo scrittore ha raggiunto una matura capacità di muoversi in altra direzione. Vitalità e freschezza rileva Lorenzo Mondo” nel romanzo: «Levi ha trovato — oltre a cose non udite ancora — la forza di una tradizione, l’erratico ma inestinguibile terreno

della cultura ebraica» ed ha saputo «integrare nella sua opera l’esperienza del viaggiatore e quella del sedentario» fondendo il tutto in una «tranquilla sapienza connaturata al fatto stesso di esistere». Per Claudio Magris” Se non ora, quando? è una sorta di itinerarium mentis verso la presa di coscienza della propria dignità. Se la storia del romanzo occidentale è antiepica per eccellenza, con Levi, secondo il critico, si percorre in parte la via inversa e l’epica — quella degli ebrei perseguitati — entra a far parte del romanzo. Anche per Geno Pampaloni” il libro di Levi è epico e rappresenta una saga ebraica del tutto ignota alla nostra lette8 Cfr. L. SURDICH, Un’epica fuga di ebrei verso l’amara libertà, in «Il Secolo XIX», 30 aprile 1982. % Cfr. G. MARCHETTI, La guerra degli ebrei, in «La Gazzetta di Parma», 8 maggio 1982. * Cfr. L. Monpo, Marcia verso l’Eden, in «La Stampa», 19 maggio

1982. % Cfr. C. MagRIS, Epica e romanzo in Primo Levi, in «Corriere della

Sera», 13 giugno 1982. © Cfr. G. PAMPALONI,

nuovo», 29 giugno 1982.

// destino ha due anime, in «il Giornale

228

i

LA CRITICA

ratura. Il critico conclude che questo è «il libro più maturo di Primo Levi», perché «è certo un libro di respiro, qualità e rango europei, come da noi accade di rado». Filippo Gentiloni” nel definire «biblico» il libro, focalizza il fatto che Levi riesce a «ragionare senza razionalismi; ironizzare, ma senza sarcasmi; fare, ma demitizzando ciò che si fa». I

personaggi di Se non ora, quando? non hanno le certezze né la superbia degli israeliani, ma piuttosto somigliano ai personaggi «lieti e folli di Chagall». Come Pampaloni, Enzo Forcella” prende le mosse dal blitz israeliano in Libano, una spedizione punitiva vista come «un nuovo capitolo all’itinerario “plausibile ma immaginario” raccontato nel libro» di Levi. L'unico personaggio più autentico e diverso, secondo il critico,

è Mendel, che «sa

che sul piano individuale come su quello collettivo la vita non può mai ricominciare veramente e radicalmente» e che comprende che la Palestina non sarà mai la terra promessa il cui miraggio ha fatto muovere i partigiani ebrei fino a Milano, ma solo il nuovo stato degli ebrei, con le contraddi-

zioni che ne possono conseguire.

Il processo Interventi critici si registrano anche sulla traduzione di Il processo di Franz Kafka. Destinata ad aprire una collana nuova («Scrittori tradotti da scrittori»), Levi affronta l’esperienza come fatto creativo pur se — come ha più volte sottolineato — non riconosce in sé alcuna affinità con l’autore tradotto, di cui subisce solo un certo fascino e, soprattutto, un turbamento che alla fine lo fa scendere in uno stato di profonda prostrazione spirituale. Oreste Del * Cfr. F. GENTILONI, Quando la stella di David era la bandiera dei perseguitati, in «il manifesto», 29 giugno 1982. ® Cfr. E. FORCELLA, Il sangue non si paga col sangue, in «Il Messaggero», 4 luglio 1982. © In una intervista a Germain Greer (cfr. Germaine Greer Talks to Primo Levi, in «The Literary Review», novembre 1985; poi in M.

BELPOLITI, Primo Levi. Conversazioni e interviste

1963-1987, cit., con il

titolo di Colloquio con Primo Levi, trad. Erminio Corti, p. 75), Levi così

L’OSTERIA DI BREMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

229

Buono,® dopo avere confrontato le traduzioni disponibili sul mercato librario italiano, riconosce a Levi il merito di buon

mediatore fra «gradevolezza e filologia», ma soprattutto «tra Kafka e se stesso reduce da Auschwitz, da orrori reali peggiori di quelli immaginari». Italo Alighiero Chiusano,* notando che il risultato della traduzione è «di “classicità mediana”’», aggiunge che «Levi cerca l’espressione energica e ferma: che dia in lingua italiana l’equivalente non solo semantico ma anche stilistico e timbrico del dettato originale». In buona sostanza Levi non ricorre mai «al bagaglio delle espressioni proprie», non si permette di «“levizzare” Kafka»; e il critico conclude che questo non «è poco, anzi è molto». Enzo Siciliano* osserva infine che la traduzione «ha il tocco della pena compatta che distingue i libri di Levi» sostanziato da «una severità finanche ostica, finanche inarti-

stica». Ma per il critico il risultato presenta un suo fascino proprio in una sorta di «strano accattivante ritmo».

L’osteria di Brema, Ad ora incerta, Altre poesie

L’osteria di Brema, prima esperienza poetica di Levi in una plaquette edita da Scheiwiller nel 1975, anche se poco notata, non sfugge all’attenzione di Lorenzo Mondo.* In un suo intervento il critico parla di una prova «appartata e probabilmente laterale, che ci restituisce per vie inedite l’affabile,

integra figura di Primo Levi». Vita di Lager e vita di lavoro, sia pure nella libertà — nota Mondo —, nelle prime due poesie risponde: «Lei saprà che ho tradotto // processo [...].Fu un lavoro non difficile, ma molto doloroso. Mi ammalai mentre lo eseguivo. Conclusi

la traduzione in uno stato di profonda depressione che durò per sei mesi. Si tratta di un libro patogeno». 8! Cfr. O. DEL Buono, /l nuovo Processo, in «La Stampa», 28 aprile

1983. 8 Cfr. A. CHIUSANO, «Il Processo» di Kafka rivisto da Primo Levi, in

«Giornale di Sicilia», 11 maggio 1983. 8 Cfr, E. Siciliano, Quando tradurre è una medicina, in «Corriere

della Sera», 8 maggio 1983. # Cfr. L. Monpo, Dal Lager non si esce, in «La Stampa», 19 dicem-

bre 1975.

230

LA CRITICA

sono, per certi aspetti, simili: sirene e fatica ogni giorno su ambedue i versanti per una «umanità svigorita che si sveglia ogni volta ad un giorno di dolore». La vicinanza elettiva alla cultura tedesca viene rilevata e fissata («[...] di là discendono le parafrasi poetiche [Rilke], di là i nordici lividori che

accompagnano i tempi della fame e delle guerre contadine»); ma il male di cui soffre Levi — osserva Mondo — si estende anche al presente, come avviene in Via Cigna, nuovo Lager trasportato all’interno di una Torino tutta nebbia e inferno: «Una volontà maligna ha infettato l’universo», sottolinea il critico «anche la natura è “caduta”, e sull’uomo fatto più piccolo e improtetto l’autore si curva con tenerezza e trepidazione [...]». Mondo coglie in assoluto l’aspetto più caratteristico di quella che definisce un’esperienza «appartata e probabilmente laterale»: l’elegia di Levi. Quando nel 1984 compare Ad ora incerta, con molto acume e sensibilità Giovanni Raboni” coglie il vero valore della poesia di Levi. Non va dato «affatto per scontato» sostiene «che la poesia di Primo Levi rappresenti, com’egli stesso sembra suggerire, un fatto necessario, ma marginale». Di questo avviso siamo anche noi. Pertinentissima, e fra le più giuste che siano mai state avanzate su Levi, ci pare l’osservazione che «la scrittura poetica di Levi abbia, sin dall’inizio (ed è in ogni senso un inizio, giacché i primi versi precedono Se questo è un uomo), lo stesso solenne acume morale, la stessa forza di memoria, ammonimento e pietà, che rendono così sostanziosa, così giusta, così naturalmente memorabile la sua prosa». La prosa di Levi si sviluppa da un presupposto poetico e ad esso ritorna fino a essere la poesia motore della prosa e la prosa, a sua volta, motore di riflessione poetica. Una poesia aspra, scalena come i personaggi cari a Levi, impregnata — se vogliamo — di «vizi di forma» e di anomalie, ma indubitabilmente vera, umana e capace di dire qualcosa, lasciare un messaggio di orrore e di umana pietà ad un tempo. Giustamente osserva Raboni che il lavoro di Levi è sempre stato — specie a partire dagli anni ’70 — al di fuori «delle linee di ricerca tipiche e portanti della poesia ita* Cfr. G. RABONI, Primo Levi, un poeta vero ad ora incerta, in «Tuttolibri», 17 novembre 1984.

L’OSTERIA DI BRÉMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

231

liana contemporanea», ma — sottolinea — «non nell’ignoranza di esse». Raboni definisce questo lavoro leviano «sottilmente, suggestivamente anacronistico, sorretto da una robusta e affettuosa conoscenza di alcuni grandi autori del passato», che individua a partire da Orazio e fino allo Heine del Buch der Lieder, da cui «Levi ci dà, in appendice, otto felicissime versioni». Raboni si domanda se Levi abbia seguìto un percorso dal polo del dilettantismo a quello del professionismo poetico con l’acquisizione di maggiore padronanza e consapevolezza della propria lingua e dei «magnifici trucchi del mestiere», ma conclude che l’impulso della sua poesia è «eteronomo», nasce cioè dalla «ragione e dalla lettura mora-

le della realtà» che gli permettono di «capire la propria sofferenza e di vivere la propria indignazione come patrimonio comune a tutti gli uomini». In questo consiste, dunque, il valore poetico dei componimenti di Levi. I contenuti di Ad ora incerta sono oggetto di attenta indagine anche da parte di Giovanni Tesio,* e Italo Rosato.” La lettura di Tesio — che pare più fredda e fragile delle brillanti intuizioni di Raboni — parte dalla considerazione che la radice della poesia leviana ha le stesse diramazioni e tematiche della prosa: offesa, Lager, solitudine, guerra eterna, lungo una scelta espressiva che prende le massime distanze da Petrarca adottando una «quasi prosa» in toni colloquiali e di confessione affettuosa. Si tratta dunque di un esame attentamente filologico. L'intervento di Italo Rosato — dopo una serie di considerazioni storico-compositive — sottolinea che la matrice della scrittura leviana è duplice: «Prosa memorialistica e poesia sono le forme, diverse e compresenti, nelle quali s’incanala una esigenza affabulatoria incoercibile, nata a contatto di accadimenti troppo gravi per essere taciuti». Rosato coglie perfettamente le differenze fra Levi e i suoi contemporanei. L'esperimento neorealistico — nota — che si originava dal voler narrare le proprie esperienze come 8 Cfr. G. TEsIO, Premesse Piemontesi»,

XIV,

su Primo

Levi poeta,

1985, n. 1; poi in G. TESsIO, Piemonte

in «Studi letterario

dell’Otto-Novecento, Bulzoni, Roma, 1991. # Cfr. I. Rosato, Primo Levi. «Ad ora incerta», in «Autografo», II,

n. 5, 1985, pp. 95-99.

232

straordinarie,

LA CRITICA

è comune anche a Levi, ma «gli esiti formali

dei versi di Levi sono molto lontani da quelli dei coetanei neorealisti, che restavano piuttosto modesti»: «Gli esperimenti neorealisti tendevano a rimodellare sul parlato le strutture formali della poesia, desiderando colmare lo stacco tra letteratura aulica e vita quotidiana. Levi sembra assai lontano da questi rovelli (tipici, talora, di una categoria di intellettuali e scrittori in fase di brusca e un po’ volontaristica riconversione), avviandosi per una strada molto personale di ricerca espressiva». In generale la poesia di Levi si connota — secondo Rosato — come «retoricamente molto sorvegliata, in cui le prevalenti figure della ripetizione e della accumulazione mirano a favorire la penetrazione e la persistenza del messaggio presso il lettore»; in cui le forme metriche chiuse «sono scavalcate», con un ritmo a volte e alternatamente «accelerato rallentato o franto». Quanto all’uso delle fonti, Rosato nota finemente che «la selezione e il ri-uso dei materiali testuali altrui avviene per impulso di una forte tensione esistenziale (che giunge fino all’identificazione della fonte)», tanto che, anche ove si arrivi quasi al limite del nudo e crudo citazionismo, «accanto a un alto ‘tasso di lettera-

rietà” avvertiamo sempre «la sensazione di una “sincerità” assoluta» in Levi, un’assoluta mancanza, in lui, di trucco e lenocinio. Conclude Rosato: «In generale, la serietà programmatica dell’operazione poetica, e la fiducia accordata al linguaggio — che è il dato che rende questo libro simpaticamente démodé —, è confermata dall’eventuale confronto di uno stesso motivo o di una stessa intuizione, nelle sue realizzazioni in versi o in prosa: la Autobiografia (di Empedocle), il racconto dell’uomo che cerca sul suo corpo i segni di tante Vite passate, anche pre-umane, svolge su un registro stilistico “alto” ciò che nel racconto // fabbro di se stesso, in Vizio di forma, era un divertimento atteggiato nei modi del linguag-

gio colloquiale e familiare». Franco Fortini* non è d’accordo sul considerare poesia, e buona poesia, quella di Levi. Scrive: «Si può essere d’accor8 Cfr. F. FORTINI, L’opera in versi, in AA.VV., Primo Levi. Il presente del passato, a cura del Consiglio regionale del Piemonte-Aned, Franco Angeli, Milano, 1991, pp. 137-140.

L’OSTERIA DI BREMA, AD ORA INCERTA, ALTRE POESIE

233

do con Levi: questi versi non sono eccellenti; anche se, come mi proverò a dire, ve ne sono che vanno letti con attenzione perché hanno una loro verità ed un loro timbro da comunicarci». I versi di Levi «sono, nella loro maggioranza, deboli in quanto versi, in quanto cioè si presentano come iscritti nel genere che nel nostro e anche nel passato secolo è quello delle cosiddette “poesie”». Il critico rileva che quanto più le poesie si rifanno ad una esperienza sentita e vissuta, tanto più cadono facilmente in un eccesso di pathos e tanto meno gli «paiono formalmente adempiute». Rilevato che Levi ha come precedente illustre e piemontese il Lavorare stanca di Pavese o certe poesie di Jorge Luis Borges «con la loro andatura dimostrativa», Fortini ritiene che a Levi «mancasse — e lo sapeva benissimo — una attrezzatura retorica capace di reggere in versi i temi diaristici e aneddotici che gli erano più congeniali». La conclusione di Fortini è che le poesie di Levi «non sono abbozzi o accenni delle prose; stanno a tutta la sua opera di prosa come Shemà sta a Se questo è un uomo, il grido di apertura di chi si vieta quello finale. Sono accordi di preludio e vogliono dire: Ascoltate, questi accordi vengono dalla metà non razionale, si spengono

subito e subito

comincia il discorso implacabile della prosa e della ragione, ma leggendoli non dimenticate mai quella nota stridula, inspiegabile e irragionevole come l’esistenza, da cui ha avuto inizio». Massimo Raffaeli,* dopo avere osservato che Levi come poeta si considera un abusivo, aggiunge che «se l’autore, sia pure a intervalli di decenni, continua a scrivere versi e a un certo punto decide di pubblicarli, ciò significa che ne avverte più o meno oscuramente l’importanza e la necessità», e sot-

tolinea che nonostante «la vena discontinua, la poesia di Levi non ha comunque nulla di occasionale e nemmeno di estemporaneo, a dispetto delle date di composizione che l’autore puntualmente mette in calce ad ogni singolo testo». Raffaeli osserva che «al contrario, la critica più recente mette in luce un intento di sistemazione organica, per nuclei tematici e raccordi interni, secondo il quale, nota Marco Belpoliti, «il “corpus” poetico di Levi può essere paragonato ® Cfr. M. RAFFAELI, Primo Levi, pp. 101 sgg.

234

LA CRITICA

a un canzoniere, a una raccolta, per quanto frammentaria e disomogenea, di versi in cui si depositano tracce dell’esperienza dell’autore, senza alcuna differenza tra eventi esteriori

e interiori». Quanto alla forma, Raffaeli osserva che essa per Levi «non è un valore in sé, ma vale solo nella misura in cui è utile a trasmettere e rafforzare la verità di un fatto, di un sentimento, di un pensiero».

L’altrui mestiere

Italo Calvino” coglie subito l’importanza che L’altrui mestiere può assumere nella produzione leviana e nel suo intervento osserva che alcuni dei testi sono scritti «con un’eleganza degna della tradizione italiana dei Redi e degli Algarotti», e che gli oggetti della massima attenzione di Levi sono «le parole e gli animali». «Nelle sue divagazioni linguistiche» scrive Calvino «dominano la mente ricostruzioni di come le parole si deformano con l’uso, nell’attrito tra la dubbia razionalità etimologica e la sbrigativa razionalità dei parlanti.» Ma l’acutezza di Levi è ancor più evidente negli scritti che riguardano la letteratura, dove lo scrittore riesce a evidenziare una straordinaria «capacità d’osservare» che gli è caratteristica primaria: «Insomma,» conclude Calvino «la stessa disposizione di spirito anima in Primo Levi l’abito mentale scientifico, la misura dello scrittore e del moralista». Sulle curiosità di Levi che, da dilettante, riesce a realizzare opere perfette come il professionista, si attarda Domenico Starnone.” L'autore di Se questo è un uomo viene definito «nonno ideale», perché sembra appartenere a quella categoria di uomini «che sanno rispondere a un bel mucchio di perché e sempre con belle informazioni che sollecitano la fantasia», beninteso rifuggendo accuratamente da qualsiasi tentativo di «stucchevoli ottimismi della ragione». La lingua di Levi viene perfettamente definita nelle sue qualità salienti. * Cfr. I. CALVINO, I due mestieri di Primo Levi, in «la Repubblica», 6 marzo 1985. "" Cfr. D. STARNONE, Primo Levi scrittore e nonno manifesto», 8 marzo 1985.

ideale, in «il

L’ALTRUI MESTIERE

285

Essa è «secca, precisa, in familiarità con l’univocità del linguaggio scientifico, sia con l’indeterminatezza ricca di vibrazioni della letteratura». Michele Rago” analizza i progressivi incrementi del linguaggio di Levi, che nel corso dei decenni si è molto arricchito. Per il critico il libro risulta unitario nonostante la varietà di argomenti, occasioni e umori. Il secondo mestiere di Levi, quello di studioso delle scienze, non costituisce una frattura con il mondo della scrittura, perché «la passione per ciò che narra o osserva, non può mai distaccarsi dall’invincibile gusto di divertirsi e divertire». Il critico però prende le distanze da Levi sul problema dello «scrivere oscuro», perché, pur ammesso che il fine dello scrivere sia quello di farsi capire, «è azzardato trasformare una poetica personale in un criterio critico o trasferirla in una prospettiva storico-letteraria» dato che il concetto di oscurità è variabile a seconda delle epoche. Laura Mancinelli,” in un’intervista dedicata a L’altrui mestiere, intravede nello scrittore un «uomo

“totale’”’» che

può permettersi di essere, a un tempo, scrittore e scienziato, poiché affronta con la stessa competenza ed entusiasmo sia il proprio che l’altrui mestiere. Sulla caduta delle ideologie e delle verità che vengono accettate per fede indiscussa, si basa l’ottimismo del suo linguaggio ed è — secondo la Mancinelli — «il messaggio contenuto appunto nell’Eclissi dei profeti», dove Levi conclude che «abbiamo visto che la condizione umana è incompatibile con la certezza [...]. Il domani dobbiamo

costruircelo noi, alla cieca, a tentoni».

Leone Piccioni” ritiene che Levi non abbia fatto «in niente il mestiere degli altri», ma che si è semplicemente «riservato

un terreno molto favorevole alla sua qualità di scrittore»; e conclude dicendo che non possiamo che «essergli grati di questo libro, per gli insegnamenti» che ne riceviamo.

® Cfr. M. Rago, Tra ragni, pipistrelli e mestieri, in «l’ Unità», 22 marzo 1985. ® Cfr. L. Mancinelli,

Un «curioso»

della vita, con amore,

in «Il

Secolo XIX», 23 aprile 1985. % Cfr. L. PICCIONI, // dilettante curioso, in «Il Tempo», 7 giugno 1985.

236

LA CRITICA

I sommersi e i salvati

Pier Vincenzo Mengaldo” è fra i primi ad affrontare l’analisi di / sommersi e i salvati. Il libro al tempo stesso «turba e illumina le nostre coscienze», e rivela l’incredibile equanimità

con cui Levi è capace di guardare al passato e ai propri persecutori. Ciò — osserva Mengaldo — sta alla base delle «doti del buono storico» che non possono prescindere da una «razionalità intrepidamente chiara e distinta». Questa qualità razionale di marca illuministica e piemontese che nello scrittore «fa corpo con l’abito scientifico-professionale del chimico», può anche — secondo Mengaldo — «non accontentare sempre e tutti», ma è necessaria per addivenire a un qualche risultato di onesta verità. Su binari di rigore e prudenza, in / sommersi e i salvati l’analisi del Lager è affrontata da ogni punto di vista. Per il suo immacolato razionalismo, dunque, il libro di Levi è «oltre che un capolavoro saggistico, una riflessione di grandissima importanza». Fra le pagine esemplari Mengaldo cita quelle dedicate alla «zona grigia» e soprattutto quelle che riguardano il dovere morale di non «rendere il colpo». Ma ciò che il critico apprezza è la «limpidità mentale, e perciò di argomentazione, e di scrittura» che alla fine ci aiuta ad affrontare l'orrore del Lager e a «confrontarci da uomini con esso». Lorenzo Mondo” interviene nel dibattito partendo dal presupposto che niente — neppure Se non ora, quando? — è riuscito a liberare Levi dal suo incubo; e osserva che nella sua «rigorosa, tagliente imparzialità di uomo della Legge, figlio del Libro, Levi non risparmia sforzo per capire gli stessi aguzzini, per mettere in chiaro le possibili attenuanti». La novità di / sommersi e i salvati sta nel fatto che Levi «si rivela come mai prima d’ora grande moralista, maturato dalla riflessione assidua sui temi vertiginosi che gli sono stati imposti per destino ma che ha saputo eleggere e fare suoi». Le pagine di Levi, «agnostico professo e catafratto», sono per questo «così intimamente religiose, così turbate davanti al sacro mistero del male». * Cfr. P. V. MENGALDO, Ricordando con lucidità gli orrori dei Lager, in «La Nuova Venezia», 12 giugno 1986. * Cfr. L. Monpo, Lo spavento dei giusti, in «La Stampa», 4 luglio 1986.

di

ISOMMERSI E I SALVATI

257

Cesare Cases” parte con l’osservare che la definizione di «perdonatore» data da Jean Améry a Levi non si attaglia allo scrittore, poiché Levi non ha mai dimenticato l’offesa subita,

considerato che anche con / sommersi e i salvati si torna ai temi del Lager. Ma la considerazione che «ci sono attimi di umanità anche in chi è diventato esecutore meccanico del male» e che «quando il meccanismo s’inceppa [...] dietro la sua spietata astrattezza spunta il volto dell’individuo», permette a Levi di giudicare in modo diverso. Per Cases la «cultura umanistica e quella scientifica sono alla base di quel miscuglio di comprensione e di legittima incomprensione che ha permesso a Levi di scrivere i suoi libri migliori», tra cui / sommersi e i salvati si colloca a buon diritto. «Se gli uomini fossero tutti una massa damnationis» scrive Cases «non esisterebbe quella “zona grigia” in cui il bene e il male non si possono separare col coltello e cui Levi applica le sue grandi capacità analitiche. E una zona “al di là del bene e del male”, non perché il bene e il male non ci siano, ma perché la situazione di necessità li fa sfumare uno nell’altro e li rende meno rilevanti per un giudizio globale.» Infine, tuttavia, nonostante tutto, in Levi resta «il convincimento che,

superata l’intrusione dell’irrazionale, il razionalismo scientifico riuscirà a rimettere in carreggiata se stesso e il mondo». Queste ed altre considerazioni Cases svilupperà e approfondirà nel saggio introduttivo a Opere I (1987). Per Giovanni Raboni” nessun torto peggiore potrebbe essere fatto a Levi che lodando d’ufficio / sommersi e i salvati «in considerazione della gravità dei temi che affronta, dell’indiscutibile nobiltà delle idee che esprime e della quantità di sofferenza [...] depositata in esso». Il critico tuttavia non crede «che Levi abbia voluto scrivere un libro nobile o edificante», ma piuttosto un libro «essenzialmente polemico e “irritante”», con l’intento lucido di demistificare un certo pericoloso tentativo di falsificare la storia per organizzarne l’oblio attraverso schemi intellettualistici presuntuosi e sugCfr. C. Cases, Levi ripensa l’assurdo, in «L’Indice dei libri del mese», luglio 1986. % Cfr. G. RABONI, Quanto è scomodo il buon senso, in «I Unità», 3 settembre 1986.

238

LA CRITICA

gestivi come era avvenuto nel film // portiere di notte di Liliana Cavani. Se il fine di Levi è — per Raboni — quello di irritarci, l’irritazione ha il compito altissimo di «riproporci la verità, la nuda, insuperabile oggettività dei fatti», perché noi dimentichiamo lasciandoci allettare da interpretazioni troppo facili di quello che è il dato storico. / sommersi e i salvati sono dunque «una sfida alle sottigliezze dell’intelligenza in nome di un solido, dolente senso comune; una sfida alle labi-

rintiche delizie della complessità in nome di una memoria elementare, opaca, faticosa; una sfida alle meraviglie dell’ir-

razionale in nome di una razionalità rozzamente, eroicamente irriducibile». Dunque il fine del libro — per Raboni — è il «ricordare l’irripetibile» perché l’irripetibile non abbia a ripetersi. Una interpretazione che piacque molto a Levi stesso. Per chiudere questa rapida rassegna, spenderemo qualche parola sull’intervento di Sergio Quinzio,” il cui interesse è polarizzato dai temi della «zona grigia» e della «vergogna». Egli osserva acutamente che proprio a Levi, laico e non credente, spetta il compito altissimo di rivendicare, paradossalmente, tutta la giustizia di Dio «che i credenti hanno dissolto nell’idea della provvidenza». E, per Quinzio, attraverso un «disperato attaccamento alla memoria» (elemento «fondamentalmente ebraico») e a uno scrupoloso bisogno di giustizia che Levi scopre «la miseria delle stesse vittime, anche di se stesso dunque, mentre si fa carico — vergognandosene — dell’ingiustizia del mondo».

” Cfr. S. Quinzio, Non si salvi chi può, in «L'Espresso», 7 settembre

1986.

V NOTA BIBLIOGRAFICA Opere di Primo Levi Se questo è un uomo, De Silva, Torino, 1947; Einaudi, Torino, 1958.

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Malabaila); ripubblicato nel 1979 con il nome di Primo Levi. Vizio di forma, Einaudi, Torino, 1971. II sistema periodico, Einaudi, Torino, 1975. L’osteria di Brema, Scheiwiller, Milano, 1975. La chiave a stella, Einaudi, Torino, 1978. La ricerca delle radici, Einaudi, Torino, 1981. Lilit e altri racconti, Einaudi, Torino, 1981. Se non ora, quando?, Einaudi, Torino, 1982. Ad ora incerta, Garzanti, Milano, 1984.

Dialogo, conversazioni con Tullio Regge, Edizioni di Comunità, Milano, 1984. L’altrui mestiere, Einaudi, Torino, 1985. I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 1986.

Racconti e saggi, Editrice La Stampa, Torino, 1986. Opere I (Se questo è un uomo, La tregua, Il sistema periodico, I sommersi e i salvati), Einaudi, Torino, 1987. Opere II (Romanzi e poesie), Einaudi, Torino, 1988.

Opere II (Racconti e saggi), Einaudi, Torino, 1990. Opere, Einaudi, Torino,

1997, voll. 2 (con 480 pagine disperse,

170

pagine di note ai testi e una bibliografia degli scritti di Levi). Scritti su Primo Levi

1. BIOGRAFIE F. CAMON (a cura di), Autoritratto di Primo Levi, Edizioni Nord Est,

240

NOTA BIBLIOGRAFICA

Padova,

1987 (poi riedito come

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1997. M. AnIssiMmov, Primo Levi ou la tragédie d’un optimiste, J. C. Lattes, Parigi, 1996.

M. BELPOLITI (a cura di), Primo Levi, «Riga», n. 13, Marcos y Marcos, Milano, 1997 (interviste con D. Amsallem, P. Valabrega, S. Strati e

F. Pappalardo La Rosa, A. Gozzi, A. Rudolf). Ip. (a cura di), Primo Levi. Conversazioni e interviste 1963-1987, Einaudi, Torino, 1997. P. LEVI, Opere, Einaudi, Torino, 1997, vol. I. M. BELPOLITI, Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano, 1998. M. SpapI, Le parole di un uomo. Incontro con Primo Levi, Di Renzo, Roma, 1998.

2. RASSEGNE RAGIONATE DELLA CRITICA E BIBLIOGRAFIE

F. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, Mursia, Milano, 1973 (19937). G. GRAssaANO, Primo Levi, La Nuova Italia, Firenze, 1981. E. FERRERO (a cura di), Primo Levi: un’antologia della critica, Einaudi, Torino, 1997. M. BELPOLITI, Primo Levi, Bruno Mondadori, Milano, 1998.

3. STUDI E ATTI DI CONVEGNI

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in

«Studi piemontesi», fasc. 2, novembre 1971.

Ip., Primo Levi. Ritratti critici di contemporanei,

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Einaudi, Torino, 1987; poi in versione ampliata in «L’Indice dei libri del mese», n. 10, novembre

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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incontro Cittadella

Biennale (atti di un

convegno del 1991). M. CiconI, Primo Levi. Bridge of Knowledge, Berg, Oxford-Washington DC, 1995. AA.Vv., Shoah, mémoire et écriture: Primo Levi et le dialogue des savoirs, a cura di G. Santagostino, L’Harmattan, Paris-Montréal,

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di G. Tesio, Einaudi Scuola, Torino, 1997.

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4. PRINCIPALI INTERVENTI CRITICI SULLE SINGOLE OPERE

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242

NOTA BIBLIOGRAFICA

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e sorriso, in «Gazzetta del Popolo», 12 ottobre 1966. G. GRAMIGNA, Diabolica farfalla, in «Corriere d’informazione», 22 ottobre 1966. C. MARABINI, Le favole di Primo Levi, in «il Resto del Carlino», novembre 1966.

W. PEDULLÀ, I «rimorsi» di Primo Levi, in «Avanti!», 1966.

16

16 dicembre

Nota redazionale, in «quaderni piacentini», VI (1967), n. 29, p. 15.

C. CASES, Difesa di «un» cretino, in «quaderni piacentini», VI (1967), n. 30; poi in Patrie lettere, Einaudi, Torino, 1987, pp. 138-143. 4 d. Vizio di forma

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G. NOGARA, Il «vizio di forma» secondo Levi è negli assurdi della tecnologia, in «Gazzetta del Popolo», 19 maggio 1971. M. SPINELLA, Primo Levi: «Vizio di forma», in «Rinascita», 4 giugno 1971. P. BIANCHI, Preoccupazioni e ambizioni del nuovo Levi, in «Il Giorno»,

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sto 1975. D. DE RoBERTIS, L'alfabeto della natura, in «Il Tempo»,

11 ottobre

1975. 4 f. La chiave a stella L. Monpo, Un operaio così, in «La Stampa», 8 dicembre 1978. C. STAJANO, Il lavoro e la sua qualità, in «Il Messaggero», 11 dicembre 1978.

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244

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Quando

la stella di David era la bandiera

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8 maggio 1983. A. CHIUSANO,

«I! Processo»

di Kafka

rivisto da Primo

Levi, in

«Giornale di Sicilia», 11 maggio 1983. 4 m. L’osteria di Brema e Ad ora incerta L. Monpo, Dal Lager non si esce, in «La Stampa», 19 dicembre 1975.

NOTA BIBLIOGRAFICA

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4 n. L’altrui mestiere I. CALVINO, / due mestieri di Primo Levi, in «la Repubblica», 6 marzo 1985. D. STARNONE, Primo Levi scrittore e nonno ideale, in «il manifesto», 8 marzo 1985.

M. Rao, 7ra ragni, pipistrelli e mestieri, in «l'Unità», 22 marzo 1985. L. MANCINELLI, Un «curioso» della vita, con amore, XIX», 23 aprile 1985.

in «Il Secolo

L. PICCIONI, // dilettante curioso, in «Il Tempo», 7 giugno 1985. 40. / sommersi e i salvati

P. V. MENGALDO, Ricordando con lucidità gli orrori dei Lager, in «La Nuova Venezia», 12 giugno 1986. C. CASES, Levi ripensa l’assurdo, in «L’Indice dei libri del mese», luglio

1986. L. Monpo, Lo spavento dei giusti, in «La Stampa», 4 luglio 1986. G. RABONI, Quanto è scomodo il buon senso, in «l’ Unità», 3 settembre

1986. S. QuINZIO, Non si salvi chi può, in «L'Espresso», 7 settembre 1986. C. CASES, Introduzione a P. LEVI, in Opere I, Einaudi, Torino, 1987. C. Ozick, Recensione a / sommersi e i salvati, in «The New Republic», 21 marzo 1988 (poi in E. FERRERO [a cura di], Primo Levi: un’anto-

logia della critica, Einaudi, Torino, 1997, pp. 148 sgg.). 5. TEMI, MOTIVI, ASPETTI PARTICOLARI

AA.VvV., Primo Levi as Witness, Atti del convegno

svoltosi nel 1989

presso la Princenton University, a cura di P. Frassica, Casalini libri, Fiesole, 1990 (interventi di: C. Cases, Sodio e potassio: scienza e visione del mondo in Primo Levi; F. Ferrucci, La casa di Primo Levi;

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246

NOTA BIBLIOGRAFICA

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capovolte;

L. Mondo,

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Levi

e Dante;

G.

Santagostino, Primo Levi e le facce nascoste del tempo; G. Tesio, A proposito di una biografia mancata). G. VARCHETTA, Ascoltando Primo Levi. Organizzazione, narrazione, etica, Guerini e Associati, Milano, 1991 (è una monografia sul tema del lavoro). J. NYysTEDT, Primo Levi e il mondo animale, in «Actes du XII Congrès des Romanistes Scandinaves», Aalborg, University Press, 1993, vol.

I. AA.Vv., Primo Levi, a cura di Marco Belpoliti, numero monografico di «Riga», n. 13, Marcos y Marcos, Milano, 1997 (con le seguenti voci di dizionario: M. Belpoliti, Animali; G. Bertone, Antologia; A. Cavaglion, Asimmetrie;

D. Scarpa, Chiaro/oscuro;

G. P. Biasin,

Contagio; S. Bartezzaghi, Cosmichimiche; R. Gordon, Etica; F. Sessi, Finzione; P. Pauletto, Frontiere; M. Lollini, Golem; D. Amsallem, IMluminista; S. Nezri, Iterazioni; P. Valabrega, Mano/cervello; M. Raffaeli, Memoria/ricordi; D. Giglioli, Narratore; L. Grazioli, Necessità; I. Rosato, Poesia; E. Affinati, Responsabilità;

M. Porro, Scienza; F. M. Cataluccio, Sopravvissuti; L. Scarlini, Teatro; M. Sebregondi,

Triangolazioni; D. Bidussa, Verbi; M. J.

Calvo Montoro, Visitatore). S.1. Levi testimone F. CEREIA-A. BRAVO, Ex deportato Primo Levi, in «La rassegna mensile

di Israel», 1988. J. DE VOLDER, Scrivere e sopravvivere, in «La rassegna mensile di Israel», LVI (1989), nn. 2-3, maggio-dicembre. AA.Vv., Primo Levi. Il presente del Passato, Franco Angeli, Milano, 1991 (atti del convegno curato da A. Cavaglion). M. LOLLINI, Primo Levi e il problema della testimonianza, in «Il piccolo

Hans», vol. 72, inverno 1991-1992, D. SCARPA, Lager e Gulag, Levi e Herling, scrittori della responsabilità, in «Lo straniero», n. 1, 1997. AA.Vv., Primo Levi per l’Aned, l’Aned per Primo Levi, a cura di A. Cavaglion, Franco Angeli, Milano, 1997 (contiene testi già editi nelle pubblicazioni dell’ Aned). 5.2. Levi e la scienza V. DE Luca, Tra Giobbe e i buchi neri, Istituto grafico editoriale italiano, Napoli, 1991. R. PIERANTONI, // sistema Aperiodico, in Primo Levi. Il presente del passato, Franco Angeli, Milano, 1991. G. BORRI, Le divine impurità. Primo Levi tra scienza e letteratura, Luisé

Editore, Rimini, 1992.

NOTA BIBLIOGRAFICA

‘ 247

S. NEZRI, Primo Levi: du voyage du déporté aux voyages de l’écrivain, in «Colloque international Voyager aux XIX et XX siècles», Université de Provence, Aix-en-Provence, 1994.

S. NEZRI, Primo Levi et les voix de la mémoire, in «Cahiers d’Études Romanes», Université de Provence, n. 18, 1994. E. MaTTIODA, L’ordine del mondo, Liguori, Napoli, 1998.

5.3. Levi e la lingua P. V. MENGALDO,

Lingua e scrittura in Levi, in Introduzione a P. LEVI,

Opere III. Racconti e saggi, Einaudi, Torino, 1990; poi in E. FERRERO (a cura di), Primo Levi: un’antologia della critica, Einaudi, Torino, 1997.

J. NYSTEDT, / forestierismi nel lessico di Primo Levi, in «Italianistica scandinava», Atti del Terzo Congresso degli Italianisti scandinavi, Università di Turku, 1992.

Ip., Lunghezza della frase e interpunzione: mezzi stilistici in Primo Levi, in «Studi di linguistica teorica e applicata», XXI (1992), nn. 1-2.

Ip., Le opere di Primo Levi viste al computer. Osservazioni stilolinguistiche, in «Acta Universitatis Stocholmiensis», Stockholm, 1993. S. BARTEZZAGHI, Cosmichimiche, in M. BELPOLITI (a cura di), Primo

Levi, numero monografico di «Riga», n. 13, Marcos y Marcos, Milano, 1997. 5.4. Levi e l’ebraismo P. VALABREGA, Primo Levi e la tradizione ebraico-orientale, in «Studi Piemontesi», XI (1982), n. 2, pp. 296-310; poi in E. FERRERO (a cura di), Primo Levi: un'antologia della critica, Einaudi, Torino, 1997. H. STUART HuGuEs, Prigionieri della speranza, il Mulino, Bologna, 1983 (nel capitolo dedicato a Levi). S. LEvi DELLA TORRE, L'eredità di Primo Levi, in «La rassegna mensile

di Israel», maggio-dicembre 1989, pp. 191-204; poi in E. FERRERO (a cura di), Primo Levi: un’antologia della critica, Einaudi, Torino, 1997.

A. CAVAGLION, Argon e la cultura ebraica piemontese, in Primo Levi. Il presente del passato, Franco Angeli, Milano, 1991. D. MEGHNAGI, La vicenda ebraica. Primo Levi e la scrittura, in Primo Levi, a cura del Consiglio regionale del Piemonte-Aned, Franco Angeli, Milano, 1991, pp. 152-161; poi in E. FERRERO (a cura di), Primo Levi: un’antologia della critica, Einaudi, Torino, 1997. D. AMSALLEM, Le symbolisme du chien: Primo Levi et la litterature

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ÎO9Sì

248

NOTA BIBLIOGRAFICA

A. CAVAGLION, La scelta di Gedeone: appunti su Primo Levi e l’ebraismo, in «Journal of the Institute of Romance Studies», n. 4, 1996. 6. OPERE DI CARATTERE GENERALE

G. BÀRBERI SQUAROTTI, La narrativa italiana del dopoguerra, Cappelli, Bologna, 1967. G. MANACORDA, Storia della letteratura italiana contemporanea (19401965), Editori Riuniti, Roma, 1967. A. SERONI, Esperimenti critici sul Novecento letterario, Mursia, Milano,

1967. V. VOLPONI, Prosa e narrativa dei contemporanei, Studium, Roma, 1967. I. SCARAMUCCI, Studi sul Novecento, I.P.L., Milano, 1968. F. GRISI-C. MARTINI, Incontri con i contemporanei, Edizioni Scolastiche

Mondadori, Milano, 1970. M. OLIVIERI-T. SARASSO, Il Novecento italiano, Paravia, Torino, 1972. N. BoBBIO, Trent'anni di storia della cultura a Torino (1920-1950), ed. Cassa di Risparmio, Torino, 1977, p. 104. W. MauRO, in AA.VV., Novecento, Marzorati, Milano, 1979, vol. VII, pp. 6885-6898. 7. OPERE UTILIZZATE PER LE CITAZIONI 7.1. Primo Levi Se questo è un uomo, Einaudi/I coralli 184, Torino, 1963. La tregua, Einaudi/I coralli 176, Torino, 1963, sesta edizione.

Se questo è un uomo, versione drammatica in collaborazione con Pieralberto Marché, Einaudi/Collezione di teatro 99, Torino, 1966.

I racconti. Storie naturali. Vizio di forma. Lilit, Einaudi/Tascabili. Letteratura 374, Torino, 1996. Vi si traggono le citazioni relative a Storie naturali e Vizio di forma. II sistema periodico, Einaudi/Tascabili. Letteratura 203, Torino, 1994. La chiave a stella, Einaudi/Tascabili. Letteratura 57, Torino, 1999. La ricerca delle radici, Einaudi/Tascabili. Letteratura 471, Torino, 1997. Lilit e altri racconti, Einaudi/Nuovi Coralli 320, Torino, 1994. Se non ora, quando?, Einaudi/Gli struzzi, Torino, 1982, terza edizione,

prima ristampa. Ad ora incerta, Garzanti/Gli elefanti, Milano, 1998, seconda edizione. L’altrui mestiere, Einaudi/Tascabili. Letteratura 495, Torino, 1998. I sommersi e i salvati, Einaudi/Tascabili. Letteratura 59, Torino, 1999. 7.2. Altri autori E. VINCENTI, Invito alla lettura di Primo Levi, Mursia, Milano, 19937, M. BELPOLITI (a cura di), Primo Levi. Conversazioni e interviste 19631987, Einaudi/Gli struzzi 486, Torino, 1997,

NOTA BIBLIOGRAFICA E. FERRERO

249

(a cura di), Primo Levi: un’antologia

della critica,

Einaudi/PBE. Filologia. Letteratura. Linguistica. Critica letteraria 644, 1997. M. BELPOLITI, Primo Levi, Bruno Mondadori/Biblioteca degli scrittori,

Milano, 1998. M. RAFFAELI, Primo Levi, Garzanti Milano, 1998.

Scuola/di cosa parlano i poeti,

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INDICE DEI NOMI

Adorno Theodor Wuserpund, 28. Alechém Schalòm (pseudonimo di Schalòm Rabinovic), 120,

129, 135. Alessandro Magno, 17, 62. Algarotti Francesco, 234. Alighieri Dante, 38, 42, 45, 46,

49, 110, 135, 151.

Améry Jean (pseudonimo di Hans Meyer), 26, 176, 237. Antonicelli Franco, 18, 25, 43,

208, 210.

Bluter Samuel, 76. Bo Carlo, 212, 216, 225. Bobbio Norberto, 18. Bollati Giulio, 129.

Bonaparte Napoleone, 65, 88. Borges Jorge Luis, 233. Boringhieri Paolo, 25. Bragg William, 19, 129, 135. Brandalise Adone, 27. Brown Fredric, 129. Cajumi Arrigo, 25, 208. Calamandrei Piero, 189.

Apelt O., 87. Arici Azelia, 19. Aristotele, 87, 220. Artom fratelli, 20. Artusi Pellegrino, 14. Asor Rosa Alberto, 224.

Caleffi Piero, 209. Calvino Italo, 25, 26, 29, 78, 79,

Babel’ Isaak Emmanuilovi6, 129,

Cardarelli Vincenzo (pseudonimo

Calcagno Giorgio, 217.

90, 129, 135, 150, 151, 161, 208, 223, 224, 234. Caproni Giorgio, 168.

135. Balbi Rosellina, 156, 157.

Baldacci Luigi, 221. Balzac Honoré de, 15. Bàrberi Squarotti Giorgio, 225.

Begin Menahem, 28. Belli Giuseppe Gioachino, 129, ISS Bellow Saul, 29. Belpoliti Marco, 18, 19, 23, 27,

31, 40, 44, 45, 46, 59, 62, 83, 90, 94, 95, 118, 128, 129, 185, 1437 IS38MS791593173, 181, 189, 200, 207, 228, 233.

di Nazareno Cardarelli), 191. Carducci Giosue, 110, 117, 118. Carrol Lewis, 14; 15, 134, 207. Cases-Cesare, 208, 215, 216, 237. Catullo Gaio Valerio, 38, 65, 100.

Cavaglion Alberto, 208. Cavani Liliana, 172, 238. Celan Paul, 129, 135.

Ceronetti Guido, 69. Cesare Caio Giulio, 84.

Chagall Marc (Mark Sagal), 228. Chesterton Gilbert Keith, 168.

Chiusano Italo Alighiero, 229. Clarke Arthur C., 129, 135.

Berto Giuseppe, 135.

Coleridge Samuel Taylor, 109.

Bianchi Pietro, 219. Bianucci Piero, 128.

Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini); 15.

252

INDICE DEI NOMI

Colombo Cristoforo, 130. Conrad Joseph, 45, 129, 135. Consonni Carla, 21. Corti Erminio, 228. Cosmo Umberto, 18.

Frank Anna, 108.

D'Arrigo Stefano, 129.

Gattermann Ludwig, 129. Gentili Tedeschi Eugenio, 21. Gentiloni Filippo, 228. Gigli Lorenzo, 211.

Darwin Charles, 129, 135. Davanzati Chiaro, 116. De Rienzo Giorgio, 189, 226. De Robertis Domenico, 221.

Deaglio Enrico, 223. Del Buono Oreste, 228, 229. Del Giudice Daniele, 182, 217. Della Torre Ada, 20, 21. Devoto Giacomo, 167. Di Caro Roberto, 118. Dierna Emilio, 21. Dos Passos John, 45.

Freud Sigmund, 15. Gagliano Ernesto, 189.

Galante Garrone Alessandro, 25. Garcia Marquez Gabriel, 72.

Ginzburg Natalia, 25, 211, 220,

221 Goria Giulio, 209. Gozzano Guido, 126.

Gramigna Giuliano, 215, 223. Greer Germaine, 228. Guidetti Serra Bianca, 23.

Heine Heinrich, 104, 134, 231.

Dostoevskij Fédor Michailoviè, 15. Douglas Mary, 27

Hesse Hermann, 135. Hillel il Vecchio, 155.

Einstein Albert, 118. Eliot Thomas Stearns, 129, 135.

Hitler Adolf, 15, 55, 178. Hòss Rudolf, 29. Hugo Victor, 45.

Empedocle, 232. Enzensberger H. M., 181.

Huxley Aldous, 20, 161, 199.

Epicuro, 92, 107, 118, 192. Esiodo, 97. Euclide, 41.

Kafka Franz, 28, 45, 228, 229. Kant Immanuel, 220.

Faurisson Robert, 172.

La Torre Armando, 214, 226. Landolfi Tommaso, 211.

Fenoglio Giuseppe, 135. Ferrata Giansiro, 211. Ferrero Ernesto, 19, 27, 29, 63, 71, 95, 129, 136, 207, 210. Ferretti Gian Carlo, 211. Flammarion Camille, 44, Flaubert Gustave, 45, 135. Foà Luciano, 25. Fonzi Bruno, 209, Forcella Enzo, 228.

Fortini Franco (pseudonimo di Franco Lattes), 95, 232, 233.

Foscolo Ugo, 108, 138, 202. France Anatole, 130.

Kònig Joel, 143.

Langbein Hermann, 129. Lattanzi Giovanni, 12. Lavoisier Antoine-Laurent, 116. Leone de Castris Arcangelo, 221.

Leopardi Giacomo, 45, 110, 135, 202. Levi Aldo, 36. Levi Anna Maria, 18, 19, 25. Levi Cesare, 17, 18. Levi Emilia, 36. Levi Lisa Lorenza, 25. Levi Renzo, 26. Lévi-Strauss Claude, 27, 28.

253

INDICE DEI NOMI! Lombroso Cesare, 18. London Jack (John Griffith London), 44. Luciano di Samosata, 83. Lucrezio Caro Tito, 33, 92, 97, 129, 135. Lunetta Mario, 212. Luzzati Ester, 17.

Orwell George (pseudonimo di Eric Blair), 199. Ottieri Ottiero, 223.

Maestro Vanda, 21.

Pampaloni Geno, 136, 223, 224,

Magnino Domenico, 17. Magris Claudio, 227. Malvano Maria Vittoria, 25. Mancinelli Laura, 235. Mann Thomas, 45, 129. Manzoni Alessandro, 32, 33, 34,

40, 44, 45, 63, 65, 120, 124, 135, 142, 186, 192. Marabini Claudio, 215, 226. Marché Pieralberto, 26.

Marchetti Giuseppe, 227. Maupassant Guy de, 44, 150. Mauro Walter, 219. Melville Hermann, 45, 129.

Meneghello Luigi, 135. Mengaldo Pier Vincenzo, 236 Milano Paolo, 210, 211, 214,

218, 219, 221, 223. Mondo Lorenzo, 168, 214, 220,

DIPANZZASIIAT]: 22942303236. Monelli Paolo, 167.

Montaigne Michel Eyquem de, 189. Montale Eugenio, 63,97, 105, 118.

Monti Augusto, 18. Morante Elsa, 135. Moravia Alberto, 45. Morpugo Lucia, 24, 25, 104, 113, 164. Mussolini Benito, 21. Nascimbeni Giulio, 29, 218. Nietzsche Friedrich, 40. Nogara Gino, 218.

Novalis (pseudonimo di Friedrich

Leopold von Hardenberg), 109. Omero, 129. Orazio Quinto Flacco, 63, 96,

151, 191,231. Ortona Silvio, 21.

227, 228. Pansa Giampaolo, 28. Paoletti Pier Maria, 172.

Parini Giuseppe, 129. Pascal Blaise, 189. Pavese Cesare, 18, 25, 226, 233. Pedullà Walter, 212, 215. Perrone Lorenzo, 22, 23, 25, 43, 193, 194. Petrarca Francesco, 101, 116, 150, 231. Piccioni Leone, 235. Pindaro, 77, 152. Pivano Fernanda, 19. Platone, 117, 139, 144. Plinio Gaio Secondo il Vecchio, 61. Plino Gaio Cecilio Secondo il Giovane, 106, 107. Plutarco di Cheronea, 17, 62. Pochettino A., 20. Polo Marco, 120, 129, 135. Pomilio Mario, 34. Porta Carlo, 129, 135. Porzio Giacomo, 20. Pound Ezra, 169. Presser Jacob, 27. Proust Marcel, 168.

Quinzio Sergio, 238. Rabelais Frangois, 20, 61, 129, 135, 161, 170. Raboni Giovanni, 222, 230, 231,

237238.

254

INDICE DEI NOMI

Raffaeli Massimo, 99, 110, 233, 234.

Starnone Domenico, 225, 234. Sterne Laurence, 138.

Rago Michele, 235.

Surdich Luigi, 227.

Redi Francesco, 234.

Swift Jonathan, 129.

Regge Tullio, 19, 200. Rho Anita, 25. Riedt Heinz, 26. Rigoni Stern Mario, 82, 129, 135, 167. Rilke Rainer Maria, 230.

Tacito Publio Cornelio, 107, 114. Terenzio Publio Afro, 12. Tesio Giovanni, 135, 231. Thorne K.S., 129. Todisco Alfredo, 213.

Romagnoli Ettore, 12.

Tolstoj Lev, 150.

Rosato Italo, 231, 232.

Tomizza Fulvio, 135. Tucidide, 208. Tutino Saverio, 209.

Rosny (pseudonimo di JosephHenri-Honoré Boéx), 129,

L35ì Roth Philip, 29, 31. Russell Bertrand, 129.

Vacca Roberto, 72. Vaccarino Giorgio, 156. Valgimigli Manara, 144. Varese Claudio, 209.

Saba Umberto, 220.

Vercel Roger, 129.

Saint-Exupéry Antoine de, 129,

Verga Giovanni, 138, 186. Verne Jules, 44. Vigorelli Giancarlo, 211, 212, 218%

Rosseau Jean-Jacques, 219.

195%

Salgari Emilio, 44. Salinari Carlo, 213. Salomoni Alberto, 20. Savino Ezio, 208. Schiller Ferdinand Commind

Villon Frangois, 98, 134.

Seneca Lucio Anneo, 118. Seroni Adriano, 209.

Vincenti F., 33, 44, 45, 60, 62, 63, 7034723828995 1281152; 159, 181, 190, 216. Virgilio Publio Marone, 14, 49, 56, 191. Vita Finzi Emilio, 28, 153, 156. Vittorini, 223.

Sgorlon Carlo, 225.

Volponi Paolo, 129.

Siciliano Enzo, 229. Socrate, 63, 144.

Woolf Virginia, 168.

SolZenicyn Aleksandr, 212. Spinella Mario, 209, 219. Spinoza Benedetto, 220. Spriano Paolo, 212, 226. Stajano Corrado, 222, 223.

Zini Marisa, 25. Zini Zino, 18. Zolla Elémire, 200. Zorzi Renzo, 25.

Scott, 207. Sciascia Leonardo, 129, 135. Segre Cesare, 95.

INDICE DELLE OPERE DI LEVI

Altre poesie, 94-119, 229-234.

Se questo è un uomo, 11, 20, 21,

Altrui (l’) mestiere, 11, 18, 29, 65,97, 113, 124, 160-171, 200, 204, 205, 234-235.

23) D4AT25: 207 31-46152;.95; 59, 60, 61, 71, 88, 100, 120, 145, 151, 152, 171, 178, 182, 183, 185, 186, 187, 190, 192, 193, 203, 205, 207-210, 214, DISPZION2S0N2339234? Sistema (il) periodico, 18, 20, 27, 29, 83-93, 119, 160, 161, 162, 167, 195, 196, 198, 220-222.

Chiave (la) a stella, 27,91, 119-

129, 141, 169, 222-224. Chimica per signore, 30. Lilit e altri racconti, 21, 28, 136152, 154, 156,165, 172,195, 201, 202, 225-226. Ora (ad) incerta, 11, 17, 28, 34, 38,

46, 94-119, 125, 126, 138, 139, 143, 164, 188, 190, 229-234. Osteria (l’) di Brema, 27, 46, 94119, 139, 229-234. Pagine sparse I, 172. Pagine sparse II, 153. Racconti e saggi, 29, 125. Ricerca (la) delle radici, 27, 129-

136, 156, 160, 224. Se non ora, quando?, 28, 29,

152-160, 226-228, 236.

Sommersi (i) e î salvati, 29, 90,

133, 137, 145, 171-179, 182, 187, 203, 230, 236-238. Storie naturali, 17, 26, 61-71, 72,

73, 106, 168, 187, 196, 200, 213-216, 219. Tregua (la), 26, 37, 38, 43, 46-61,

83, 86, 88, 100, 112, 120, 136,141, 153, 154, 156, 171, 175, 183, 195, 210-213.

Vizio di forma, 26, 45, 71-83, 102, 111, 112, 146, 158, 168, 195, 200, 216-220.

INDICE GENERALE

CRONOLOGIA TIR

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Se questo è un uomo, 31; La tregua, 46; Storie naturali,

61; Vizio di forma, 71; Il sistema periodico, 83; L’osteria di Brema, Ad ora incerta, Altre poesie, 94 (a. L’universo e l’esistenza umana, 96; b. La deportazione e il Lager, 99;

c. Il lavoro e la quotidianità, 102; d. La memoria e il canto, 105; e. La natura rifugio o tormento, 110; f. La poesia, 115); La chiave a stella, 119; La ricerca delle radici, 129; Lilit e altri racconti, 136; Se non ora, quando?, 152; L’altrui mestiere, 160; I sommersi e i salvati, 171.

MII

TENDE MOTIVISSRE,

iii SI

IRR

TO

181

Indignazione e impegno morale, 181; Amore e natura, 191; Scienza e fantascienza, 196; Dolore, felicità e infe-

licità, 200.

IV: ad7A/CRIMIGAS IMBRIANI Se questo è un uomo; 207; La tregua, 210; Storie naturali, 213; Vizio di forma, 216; Il sistema periodico, 220; La chiave a stella, 222; La ricerca delle radici, 224; Lilit e altri racconti, 225; Se non ora, quando?; 226; Il Processo, 228; L’osteria di Brema, Ad ora incerta, Altre poesie, 229; L’altrui mestiere, 234; I sommersi e i salvati, 236.

V.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Indice dei nomi

207

Invito alla lettura Verga (S. Zappulla Musétarà)

Vittorini (S. Briosi)

Invito alla lettura

SEZIONE ITALIANA Volponi (E. Baldise) Zavattini (L. Angioletti)

SEZIONE STRANIERA

Andric (D. Zandel - G. Scotti)

Jiménez (A. Martinengo-Perugini)

Apollinaire (C. Bologna) Babel’ (R. Grieco) Beckett (P. Bertinetti) Bellow (G. Garofoli) Bernanos (M.A. La Barbera) Blok (E. Bazzarelli)

Joyce (C. Marengo Vaglio)

Boll (L. Borghese) Borges (C. Vian) Breton (D. Galateria) Bulgakov (E. Bazzarelli) Camus (S. Zoppi) Canetti (M. Galli) Céline (R. della Torre) Conrad (M. Curreli) Eliot (V. Fissore) Eluard (N. Braidotti) Faulkner (R. Mamoli Zorzi) Fitzgerald (B. Nugnes) Garcia Lorca (G. Caravaggi) Garcia Marquez (R. Paoli) Genet (S. Torresani) Gide (A.P. Campra Mossetto) Greene (C. Comellini) Hardy (E. Paganelli) Hemingway (G. Cecchin) Hesse (E. Banchelli) Huxley A. (S. Manferlotti) Tonesco (S. Torresani)

James H. (F. Marroni)

Kafka (C. Lajolo) Lawrence D.H. (M. Merlini) Machado (P. Caucci) Mann Th. (C. Becagli) Melville (R. Bianchi) Miller H. (G. Picca) Musil (G. Dolei) Nabokov (A. Carosso) Orwell (G. Zanmarchi) Osborne (P.F. Gasparetto) Pasternak (G. Spendel) Pound (L. Cantelmo Garufi) Proust (M.L. Belleli) Queneau (G. Poli) Rilke (A. Destro) Roth (M. Sechi) Saint-Exupéry (V. Gianolio) Salinger (E. Ranaboldo) Sartre (W. Mauro) Solzenicyn (E. Klein) Steinbeck (F. Garnero) Tolkien (E. Lodigiani) Twain (G. Carboni)

Weiss P. (A. Pasinato) Wells (A. Monti) Wilder Th. (M. Torelli - F. Conta) Woolf (M. Merlini) Yourcenar (G. Poli)

| | Invito alla lettura x

x

La Collana propone a quanti si accostano alla letteratura contemporanea un «invito» alla lettura critica dei testi, fornendo gli strumenti necessari per penetrare nel mondo espressivo degli scrittori e coglierne i rapporti con la cultura italiana di questo secolo. | Ogni volume, dedicato a un singolo scrittore, è così articolato: e le cronologie

parallele, che danno risalto alle corrispondenze

significative tra la biografia dello [scrittore e i fatti della storia politica e culturale; * il profilo della vita dello scrittore e della sua personalità artistica

e intellettuale:

i

|7

* le opere, analizzate singolarmente in un panorama completo e inquadrate criticamente, con un ‘èssen sizione degli argomenti;

* i temi più significativi ricorrenti nella pr * gli orientamenti della critica;

delloscrittore;

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|

* la bibliografia, essenziale e ragionata: e l’indice dei nomi;

|

* l’indice delle opere.

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ISBN 88-425-2541-3

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