Introduzione alla lettura del «Decameron» di Boccaccio 9788858111185

«Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì d

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Table of contents :
Capitolo I. Tra storia e letteratura
I.1. Il Decameron e la peste
I.2. Il Decameron nella storia letteraria di Boccaccio
I.3. Novella: il carattere “verbale” di un sostantivo
I.4. Teoria della novella
Capitolo II. La composizione e la trasmissione
II.1. Prima del Decameron
II.2. Scrivere il Decameron
II.3. Tornare al Decameron
II.4. La trasmissione
Capitolo III. L’architettura dell’opera
III.1. Tre cerchi
III.2. L’immagine dell’Autore
III.3. Il posto del Lettore: anzi, delle Lettrici
III.4. La cornice: un sistema statico
III.5. La brigata: un sistema dinamico
Capitolo IV. Le coordinate dell’azione
IV.1. L’identikit del personaggio e la complessità del caso
IV.2. Una ricca stratigrafia sociale
IV.3. Cronotopi e personaggi
IV.4. Firenze
Capitolo V. Le forme dell’azione
V.1. La questione del realismo
V.2. Fortuna e ingegno
V.3. L’amore
V.4. Lo spazio del meraviglioso
V.5. La cortesia: un problematico modello ideale
V.6. Ridere e sorridere
V.7. Piangere
Capitolo VI. La lingua e lo stile
VI.1. Generi, registri, modi narrativi
VI.2. La lingua “nel” Decameron: livelli espressivi, dialogicità, prospettivismo
VI.3. La sintassi e la costruzione del racconto
Capitolo VII. Il libro della convivenza
VII.1. Convivere
VII.2. Oralità e scrittura
VII.3. La responsabilità dell’interpretazione
VII.4. L’«oppinione»
Bibliografia
Capitolo I
I.1
I.2
I.3
I.4
Capitolo II
II.1
II.2
II.3
Capitolo III
III.1
III.2
III.4
III.5
Capitolo IV
IV.1
IV.2
IV.3
IV.4
Capitolo V
V.1
V.2
V.3
V.4
V.5
V.6
V.7
Capitolo VI
VI.1
VI.2
VI.3
Capitolo VII
VII.1
VII.2
Ringraziamenti
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Introduzione alla lettura del «Decameron» di Boccaccio
 9788858111185

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eBook Laterza

Giancarlo Alfano

Introduzione alla lettura del «Decameron» di Boccaccio

© 2014, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: dicembre 2013 www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari  

Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858111185 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Sommario

Capitolo I. Tra storia e letteratura

I.1. Il Decameron e la peste I.2. Il Decameron nella storia letteraria di Boccaccio I.3. Novella: il carattere “verbale” di un sostantivo I.4. Teoria della novella

Capitolo II. La composizione e la trasmissione II.1. Prima del Decameron II.2. Scrivere il Decameron II.3. Tornare al Decameron II.4. La trasmissione

Capitolo III. L’architettura dell’opera

III.1. Tre cerchi III.2. L’immagine dell’Autore III.3. Il posto del Lettore: anzi, delle Lettrici III.4. La cornice: un sistema statico III.5. La brigata: un sistema dinamico

Capitolo IV. Le coordinate dell’azione

IV.1. L’identikit del personaggio e la complessità del caso IV.2. Una ricca stratigrafia sociale IV.3. Cronotopi e personaggi IV.4. Firenze

Capitolo V. Le forme dell’azione

V.1. La questione del realismo V.2. Fortuna e ingegno V.3. L’amore V.4. Lo spazio del meraviglioso

V.5. La cortesia: un problematico modello ideale V.6. Ridere e sorridere V.7. Piangere

Capitolo VI. La lingua e lo stile

VI.1. Generi, registri, modi narrativi VI.2. La lingua “nel” Decameron: livelli espressivi, dialogicità, prospettivismo VI.3. La sintassi e la costruzione del racconto

Capitolo VII. Il libro della convivenza

VII.1. Convivere VII.2. Oralità e scrittura VII.3. La responsabilità dell’interpretazione VII.4. L’«oppinione»

Bibliografia

Capitolo I I.1 I.2 I.3 I.4 Capitolo II II.1 II.2 II.3 Capitolo III III.1 III.2 III.4 III.5 Capitolo IV IV.1 IV.2 IV.3 IV.4 Capitolo V V.1 V.2 V.3 V.4 V.5 V.6 V.7

Capitolo VI VI.1 VI.2 VI.3 Capitolo VII VII.1 VII.2

Ringraziamenti

Capitolo I. Tra storia e letteratura

I.1. Il Decameron e la peste All’inizio dell’autunno del 1347 nel porto di Messina, in Sicilia, approdarono dodici galee che avrebbero avuto un ruolo decisivo nell’Italia del Trecento. Provenivano da Costantinopoli, l’odierna Istanbul, e recavano quei prodotti orientali così tanto apprezzati in Europa. Mentre i ricchi tessuti e le spezie venivano sbarcati, i marinai che erano rimasti in navigazione per settimane si recarono nelle locande e nei postriboli della città prima di riprendere il mare per Pisa o Genova, o semmai la costa del Nord Africa. Così, tra una bevuta, una giocata a dadi e un abbraccio d’amore forse consumato in tutta fretta, la peste metteva piede in Italia: quelle navi, infatti, non avevano portato attraverso il Mediterraneo soltanto le pregiate mercanzie dell’Oriente, ma anche i topi e le loro pulci, i terribili agenti di trasmissione di un’epidemia che avrebbe cambiato la storia europea e mondiale, avviando addirittura la fine del Medioevo, e che sarebbe stata ricordata come la Peste Nera. Il flagello si era sviluppato nell’Asia centrale nel 1341 e si era velocemente diffuso verso ovest, fino ad arrivare nell’attuale Russia e sulla costa settentrionale del Mar Nero: di lì sarebbe passato a Costantinopoli tra la fine del 1346 e il 1347. Alla fine di quello stesso anno, la peste, da Messina, si spingeva a Marsiglia, che apriva la via della Francia, e a Genova, da dove avrebbe dilagato nell’Italia del Nord (Milano però fu salva). Firenze fu investita nei primi giorni della primavera del 1348. La devastazione fu estrema, e la memoria della catastrofe durò a lungo; così come per decenni ne durarono le conseguenze. Sebbene sia difficile fare calcoli precisi in riferimento a un’epoca in cui non esisteva il certificato di nascita, mancavano censimenti regolari e gli ospedali

avevano una funzione assai diversa rispetto a quella cui siamo abituati oggi, si è calcolato che durante il complessivo periodo della sua durata, cioè tra il 1347 e il 1350, la peste uccise in tutta Europa tra i 20 e i 25 milioni di persone, su una popolazione stimata intorno ai 100 milioni: morì, dunque, una persona ogni quattro od ogni cinque. Bisogna inoltre aggiungere che l’epidemia terminò del tutto solo alcuni decenni più tardi, all’inizio del secolo successivo. Una durata assai pesante da gestire, soprattutto perché ogni nuovo accesso di peste era regolarmente seguito da carestie. Il diminuito numero di manodopera e la difficoltà di procedere a semine e raccolti produssero una profonda disorganizzazione dell’economia agricola (a quell’epoca ancora la principale attività della popolazione), con effetti importanti per quanto riguarda sia l’approvvigionamento alimentare sia lo stesso funzionamento equilibrato della società. Non stupisce, pertanto, che questo periodo fu caratterizzato da fenomeni di disgregazione dell’ordine e delle abitudini sociali, che riguardarono sì l’economia, come abbiamo visto, ma anche i modi della vita in comune, i riti e le convinzioni religiose, il complessivo sistema culturale. Fu così che si rafforzarono i gruppi spirituali più “estremisti”, come i flagellanti, che praticavano dure forme di punizioni corporali; e fu così che si moltiplicarono le aggressioni ai danni delle minoranze, soprattutto gli ebrei, spesso vittima di linciaggi brutali. Al di là degli episodi violenti, pur numerosi, furono le attività quotidiane ad assumere un carattere di maggiore esasperazione, a partire dai pellegrinaggi, le processioni (che però finivano solo con l’aumentare il contagio), il particolare fervore nel culto di santi vecchi e nuovi (come san Sebastiano) cui si affidava la propria salvezza, mentre si diffondevano – lo racconta Matteo Villani nella sua Cronica – racconti di prodigi celesti e fenomeni arcani, come la caduta di «un fuoco grandissimo» in Asia o la disgustosa pioggia, avvenuta nella città di Lamech (cioè la Mecca), di «biscie con sangue ch’apuzzarono e coruppono tutte le contrade» (I IV). In effetti, uno dei problemi più grandi della peste era la mancanza di un quadro concettuale che consentisse la comprensione del fenomeno. Come solitamente accade agli esseri umani quando si trovano innanzi a fenomeni che appaiono ai loro occhi grandiosi e terribili, anche nel caso della Peste Nera la catastrofe produsse uno shock cognitivo. L’epidemia era un fenomeno naturale o soprannaturale? Era forse il segno dell’ira divina?

Oppure andava spiegata affidandosi ai calcoli astronomici? E poi, come faceva a diffondersi? Bastavano gli strumenti della medicina per affrontare un’emergenza così importante? È ancora Matteo a sintetizzare questa grande incertezza in maniera efficace: «Di questa pestifera infermità i medici in catuna parte del mondo, per filosofia naturale, o per fisica, o per arte di astrologia non ebbono argomento né vera cura» (I III). Da parte sua, Matteo non aveva dubbi a inaugurare la sua Cronica proprio con la peste, quello «isterminio della generazione umana» di cui non c’era l’uguale «dal generale diluvio in qua» (I I). Diverso fu l’atteggiamento di un gruppo di intellettuali invitati a riflettere sulle cause dell’evento da Checco di Meletto de Rossi. Il letterato, oggi dimenticato, era all’epoca il segretario del signore di Forlì, in Romagna, Francesco Ordelaffi, e poteva vantare solidi rapporti con Petrarca e Boccaccio. Anche a loro due, tra gli altri, Checco inviò in quei mesi angosciosi un sonetto dove si discuteva l’influenza degli astri quale spiegazione del morbo. Come abbiamo già accennato, era una delle ipotesi che circolavano anche tra i dotti, secondo un sistema di credenze a quel tempo diffuse e destinate ancora a una vita molto lunga, anche negli ambienti intellettuali più elevati. Proprio per questo colpisce constatare che tanto il proponente quanto i suoi destinatari interpretarono il problema in un modo del tutto differente, cogliendo cioè l’occasione dello scambio di sonetti per una riflessione incentrata sul libero arbitrio e sulla responsabilità dell’essere umano rispetto alle proprie azioni. Di conseguenza, il quadro concettuale esorbitava dal problema eziologico, cioè dalla individuazione delle cause. O meglio, la catena di cause ed effetti veniva semmai anche fatta risalire fino alla imperscrutabile giustizia divina, ma il punto centrale diventava il senso che ciascuno doveva trarre da quella terribile esperienza: occorreva un ripensamento complessivo della vita, individuale e collettiva. Un fatto eminentemente naturale finiva con l’acquistare un profondo significato: sia morale, semmai ispirando una privata “conversione”, sia politico. Furono queste le due strade su cui s’incamminarono, rispettivamente, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Il primo partì da qua, più precisamente dalla morte di Laura, per mettere mano a una profonda riorganizzazione della primitiva raccolta poetica dedicata alla donna di Avignone facendone la storia della progressiva (ma non trasparente, né

lineare) acquisizione di sé, secondo l’insegnamento dell’amato sant’Agostino. Da qui partì anche il secondo, iniziando la raccolta di quei materiali narrativi che avrebbe racchiuso dentro la storia portante dei dieci giovani fiorentini. Certo, nei Rerum vulgarium fragmenta Petrarca non racconta la peste in maniera esplicita, ma nel sonetto 336 egli contrappone la giovinezza dell’amata («[...] in su l’età fiorita | tutta accesa de’ raggi di sua stella») alla sua morte («[...] ’n mille trecento quarantotto, | il dì sesto d’aprile, in l’ora prima | del corpo uscìo quell’anima beata»). Riprendendo alla lettera espressioni e struttura sintattica del sonetto 211, dove si leggeva «Mille trecento ventisette, a punto | su l’ora prima, il dì sesto d’aprile | nel laberinto intrai, né veggio ond’esca», il poeta suggellava il rapporto iniziofine della sua storia, trovando una soluzione a quel «laberinto» d’amore, da cui aveva dichiarato di non saper uscire. Se Petrarca segna al 1348 la sua svolta esistenziale, egli non solo non offre alcuna descrizione della peste, ma non vi fa nemmeno alcun riferimento, lasciando al lettore la responsabilità della ricostruzione della vicenda. Del resto, era lo stesso genere letterario a non consentirglielo, quella poesia lirica nella quale si rappresentavano i movimenti e le avventure dell’“io”, ma non certo le avventure degli uomini e i disastri della Storia. Al contrario, Boccaccio sigilla la sua raccolta di racconti chiudendola in una cornice che non solo offre una rappresentazione dettagliata del morbo e dei suoi effetti sugli esseri umani, ma ne fa il presupposto dell’opera, il suo nucleo centrale. Senza l’epidemia, le sette giovani donne con cui si apre il racconto non si sarebbero infatti mai incontrate nella chiesa di Santa Maria Novella, né avrebbero deciso di andare via da Firenze per rifugiarsi in una villa in contado. L’Autore definisce «orrido cominciamento» le prime scene del Decameron, che egli paragona a «una montagna aspra e erta», dopo la quale si trova «un bellissimo piano e dilettevole»: è vero, insomma, che la pesantezza «del salire e dello smontare» affatica i camminanti, ma arrivare finalmente al prato sarà una consolazione tanto più «piacevole». La similitudine ha evidenti origini classiche e bibliche, ma soprattutto riprende da vicino lo schema narrativo di un’opera che, già allora, alla metà del XIV secolo, era assai celebre e che Boccaccio ammirava tantissimo: la Commedia di Dante Alighieri. Al pari del personaggioDante, costretto a fare un viaggio lungo, pauroso e faticoso per potere

finalmente giungere sul sommo della collina che lo libererà dalla morte, anche i dieci giovani della brigata decameroniana devono impegnarsi in un’esperienza che si rivela un percorso conoscitivo. Al posto della allegorica «selva» dantesca, c’è dunque la peste, un evento storico preciso che assume un profondo significato morale, costituendosi come la sintesi delle condizioni che impongono la partenza. L’azione, e di conseguenza il racconto, comincia, insomma, perché nella città si è insediata la morte. Il compito della brigata consisterà nel ritrovare le regole e le logiche della vita. È per questa ragione che Boccaccio fa iniziare la sua opera (dopo un Proemio in cui ne presenta le ragioni principali) con una potente descrizione della Peste Nera (I Introd. 8-48). Dichiaratosi testimone oculare (§§ 14 e 18), quello che potremmo definire il Narratore di primo livello espone, proprio come avrebbe fatto Matteo Villani qualche anno dopo nella Cronica, il remoto inizio dell’epidemia in Oriente e la sua successiva penetrazione nel mondo occidentale. Pur illustrando i principali aspetti della diffusione del morbo, il racconto ne sottolinea soprattutto le conseguenze psicologiche e comportamentali sulla popolazione fiorentina, spiegando come la peste produca, insieme all’emergenza sanitaria, un’altra emergenza, di carattere sociale e morale. Col dilagare dell’epidemia, infatti, i più profondi legami familiari, la ritualità abituale, il complessivo sistema della vita cittadina risultano sospesi: c’è chi fugge dalla città e chi si dà a comportamenti poco onesti, mentre i malati restano isolati e anche i parenti più stretti sono lasciati senza aiuto. Il fenomeno che segna in maniera evidente la dissoluzione dei legami societari è l’abbandono delle cerimonie funebri e del lutto (§§ 3242): i corpi lasciati addirittura insepolti o accompagnati alla tomba su una semplice asse senza copertura mettono in evidenza il carattere politico della peste, la sua terribile forza disgregatrice. Se l’inizio del Decameron è debitore della «selva selvaggia e aspra e forte» dell’Inferno dantesco, il modello su cui è esemplata la descrizione della peste va individuato nell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, testo che peraltro Boccaccio copiò di suo pugno, nel cui secondo libro (§ 4) è raccontata la peste “giustinianea” che divampò nel VI secolo d.C. In quest’opera il nostro autore poteva trovare rappresentato quello spettacolo della paura cui egli stesso aveva assistito: le case vuote che, rimaste prive di abitanti, sono lasciate ai cani domestici («relinquebantur domus

desertae habitatoribus, solis catulis domum servantibus»); le città immerse «in summo silentio» (“in un grandissimo silenzio”); i «cadaveri insepolti dei genitori» che i figli si sono lasciati indietro; i bambini febbricitanti abbandonati dai padri e dalle madri che, in preda al terrore, hanno dimenticato la pietà familiare («parentes obliti pietatis viscera natos relinquebant aestuantes»). Al di là dei singoli motivi che tornano nella Historia e nel Decameron, occorre però osservare che le due opere appartengono a mondi culturali profondamente diversi. La società cui guarda Paolo Diacono è infatti in prevalenza agraria e pastorale, dove sembrano contare meno le case vuote che le greggi rimaste sole nei pascoli, senza l’assistenza del pastore («Peculia sola remanebant in pascuis, nullo adstante pastore»). L’autore latino rappresenta uno scenario di grandi spazi, col mondo “tornato al silenzio primigenio” («in antiquum redactum silentium»): «nulla vox in rure, nullus pastorum sibilus, nullae insidiae bestiarum in pecudibus, nulla damna in domesticis volucribus» (“nessuna voce nelle campagne, nessun fischio di pastore, nessun’insidia alle greggi da parte delle belve feroci, nessun rischio per gli uccelli domestici”), e intanto il frumento non viene mietuto e i grappoli d’uva restano a marcire sulle piante mentre si avvicina l’inverno («Sata transgressa metendi tempus intacta expectabant messorem; vinea amissis foliis radiantibus uvis inlaesa manebat hieme propinquante»). L’ottica di Boccaccio è invece assolutamente urbana, e il suo epicentro è Firenze. È qui che gli ammalati sono abbandonati; è qui che le funzioni funebri non vengono più celebrate per la paura di essere contagiati dai cadaveri; è qui che gli uomini si barricano in casa «temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo»; è qui, ancora, che le compagnie di gaudenti si abbandonano a folli baccanali oscillando tra il senso della morte e l’amore della vita («Altri [...] affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima»: § 21). È dentro questo quadro che si colloca la scena dell’incontro di sette giovani donne in Santa Maria Novella, con la loro decisione di andare a rifugiarsi in una villa di campagna e l’invito a partire con loro rivolto ai tre giovani uomini che sono nel frattempo sopraggiunti nella chiesa e ai quali sono legate da rapporti di amicizia o parentela (§§ 49-88). Questa

sequenza, che l’Autore afferma di poter raccontare perché gli sarebbe stata riferita «da persona degna di fede» (§ 49), e cioè – si deve pensare – da uno dei protagonisti, fonda quel che viene definita abitualmente “cornice” o «novella portante» del Decameron, con la formazione della brigata e la narrazione della vita in comune dei dieci giovani. L’incontro in chiesa sigla il passaggio dalla peste alla vita lieta, dalla distruzione alla ricostruzione. La vita dei giovani in campagna va infatti intesa come un’esperienza di rifondazione della vita associata, basata su leggi condivise, su comportamenti ispirati alla correttezza reciproca, sulla scansione regolata del tempo. Questi aspetti sono tutti affrontati nel lungo discorso (§§ 53-72) col quale Pampinea, la più autorevole delle donne del Decameron, convince le sue compagne a spostarsi in campagna. In particolare, si deve osservare che la decisione di lasciare la città («usciamo da questa terra») e di andare a vivere «in contado», lontano dalla contaminazione, è presentata con una serie di termini di grande rilievo nell’organizzazione ideologica dell’opera: allegrezza (§ 65, 71), piacere (§ 65) e festa (§ 71) saranno le condizioni del vivere in comune, sempre tenute sotto «il segno della ragione». Tutto ciò è condensato da un avverbio che è significativamente ripreso, anche nella forma negativa, all’inizio, al centro e alla fine della proposta di Pampinea (§§ 53, 65 e 72): «onestamente». Onestà è infatti un lemma di grande importanza nello sviluppo di tutta l’opera, sul quale i giovani s’interrogheranno spesso e al quale s’impegneranno sempre ad aderire, anche nei momenti, che non mancheranno, di conflitto (cfr. infra, par. III.5).

I.2. Il Decameron nella storia letteraria di Boccaccio Ma da quale esperienza letteraria proveniva Boccaccio? Che cosa c’era alle sue spalle che poteva indurlo a intraprendere una costruzione così complessa quale si sarebbe rivelato il Decameron? La prima formazione di Giovanni Boccaccio, che era nato nel 1313 nei pressi di Firenze, avvenne, com’è noto, a Napoli, dove appena adolescente raggiunse il padre Boccaccino intorno al 1327. Lì, mentre iniziava l’apprendistato nel mondo dei mercanti, il giovane ebbe modo di perfezionare lo studio grammaticale per poi probabilmente affrontare almeno i primi elementi del diritto. Grazie alla posizione del padre, Giovanni non dovette gravitare troppo lontano dalla corte del re Roberto: frequentò infatti illustri

esponenti del mondo culturale angioino, come Paolo da Perugia, Giovanni Barrili, Barbato da Sulmona, Paolino Veneto, nonché l’eruditissimo astrologo Andalò del Negro e il calabrese Barlaam, da cui, tra i primissimi in Europa, apprese i rudimenti dell’alfabeto greco. La ricchezza della sua formazione è testimoniata da tre manoscritti, il Laurenziano XXIX 8, il Laurenziano XXXIII 31 e il Magliabechiano (Banco Rari 50), nei quali Boccaccio trascrisse brani più o meno lunghi delle opere che venne via via studiando, a partire dal periodo giovanile. Senza entrare nel dettaglio, è importante osservare che insieme alle opere dottrinali (dalle enciclopedie agli scritti teologici e morali) in questi cosiddetti “zibaldoni boccacciani” sono raccolti anche frammenti di opere letterarie, segno di una duplice attenzione, alla sapienza e alla poesia, che caratterizzerà sempre la posizione culturale dell’autore. In effetti, gli studiosi si dividono tra coloro che vedono nell’itinerario letterario boccacciano un passaggio piuttosto brusco dalle posizioni filogine giovanili all’atteggiamento misogino degli anni più tardi e coloro che ritengono di poter interpretare le dichiarazioni antifemminili della senilità (in particolare nell’epistola XXII a Mainardo Cavalcanti, del 1373, e nel Corbaccio) come una parodia. In entrambi i casi il Decameron viene considerato l’opera in cui arrivano a piena maturazione gli spunti e le esperienze del primo periodo, vissuto tra Napoli (1327-1340) e Firenze (ma con frequenti viaggi, soprattutto in Romagna, dove peraltro poté approfondire il culto per l’opera di Dante, che in quella regione era stato accolto durante l’esilio). Proprio la natura del capolavoro boccacciano, il suo carattere fortemente innovativo come anche la sua non univoca caratterizzazione ideologica (cfr. infra, cap. V), impongono di considerare in maniera più approfondita il percorso che precede la decisiva esperienza della peste e il conseguente progetto del Decameron. A questo proposito, non molti anni fa Francesco Bruni ha osservato che le opere della giovinezza rispondono a un modello culturale incentrato sulla filoginia e la preminenza della corte d’amore. L’attività letteraria è rappresentata come diretta emanazione della condizione amorosa, sia nel poemetto allegorico in terzine della Caccia di Diana (1334), sia nel Filocolo (che è un romanzo d’avventure in prosa databile tra il 1336 e il 1338), sia nel Filostrato (primo poema in ottava rima in un volgare italiano e datato al 1335 o al 1339). In tutti questi casi, come nel successivo Teseida (1340: che è il primo poema epico della

nostra letteratura) e ancora nella Elegia di madonna Fiammetta (che è il primo romanzo in prima persona, o autodiegetico, databile al 1343-1344, dopo il rientro a Firenze ma ancora in piena atmosfera napoletana), la scrittura è intimamente legata alle donne e alla donna amata in particolare, che prende il nome di Filomena o, più spesso, di Fiammetta. Bruni ha dimostrato che questa produzione boccacciana trova la sua radice, oltre che in taluni passaggi di Cino e di Cavalcanti, nel capitolo XXV della Vita nova, dove «Dante stabilisce un nesso fra le rime volgari e le donne, ignare di latino». Il merito di Boccaccio consisterebbe nell’aver esteso questo nesso, nato originariamente nell’ambito della poesia lirica, anche alla narrativa, fino alla soluzione eclatante del successivo Decameron, dove l’idea di pubblico femminile è il mastice ideologico di una complessa operazione letteraria (cfr. infra, par. III.2). Eppure, come si è accennato, negli stessi anni in cui raccontava nel Filostrato l’innamoramento di Troiolo per Criseida, dedicando le sue fatiche alla donna lontana, o in cui riscriveva le avventure di Florio e Biancifiore nelle fitte pagine del Filocolo, Boccaccio copiava nello Zibaldone Laurenziano XXIX 8 pagine d’indubbio carattere misogino e in generale d’invettiva contro il mondo femminile, come il frammento di Teofrasto, recuperato da san Gerolamo nell’Adversus Jovinianum, e come la Dissuasio Valeri dell’inglese Walter Map, in cui si convince un filosofo a non prender moglie per liberarsi da ogni impedimento nel cammino verso la conoscenza. Si trattava di testi di grande successo, ampiamente diffusi negli ambienti colti (che, è bene ricordarlo, erano quasi solo maschili) di tutta l’Europa occidentale. Era pertanto inevitabile che un ambizioso giovane letterato se ne interessasse, ma ciò non vuol dire che egli abbracciasse con convinzione quelle idee. Tuttavia, occorre aggiungere, quei testi erano in palese contrasto con la sua scelta di operare in senso filogino ribadendo con forza il ruolo dell’amore nell’educazione e civilizzazione degli esseri umani. Cerchiamo allora di vederci più chiaro. Le opere che abbiamo appena citato sono in latino; esse appartenevano pertanto all’ambito più elevato della cultura medievale, dove erudizione antica (nei limiti dell’epoca), interesse astrologico, atteggiamento misogino confluivano regolarmente in una posizione che mirava a ribadire il rapporto tra poesia e teologia, ossia sapienza. Nello stesso ambito rientravano anche le opere di alcuni autori appartenenti alla scuola “neoplatonica” di Chartres, come Alano di

Lilla e Bernardo Silvestre, che pure Boccaccio mostra di conoscere bene, facendovi riferimento anche nelle sue opere in volgare. Egli aveva familiarità con questo modello culturale sin dalla fine degli anni Trenta, come testimoniano, tra gli altri episodi, la figura del «pastore solennissimo» e astronomo Calmeta nel Filocolo, l’esercizio epistolare in latino conosciuto come Mavortis miles extrenue (epistola II), le glosse del Teseida e, qualche anno dopo, alcuni importanti passaggi del Ninfale d’Ameto (detto anche Comedia delle ninfe fiorentine, del 1342). Una simile impostazione, erudita e sapienziale, torna nella produzione matura di Boccaccio, in particolare nel complesso progetto delle Genealogie deorum gentilium (1350-59, revisione nel 1367), i cui primi tredici libri sono una presentazione, piuttosto caotica, della mitologia degli Antichi, mentre i libri XIV e XV presentano una difesa della poesia e una apologia dell’autore. La dimensione polemica nei confronti del mondo femminile, che costituisce come abbiamo visto l’altro corno di questo sistema, tornerà invece nel Corbaccio (datato al 1366), dove si legge un celebre attacco contro la produzione narrativa dei «romanzi franceschi» di Tristano, Lancillotto e compagni erranti (§ 441). Sembra allora che, una volta siglata in maniera definitiva l’amicizia con Francesco Petrarca (databile al 1351), il modello culturale alto, veicolato in lingua latina e d’impostazione misogina, abbia preso il sopravvento, non senza un certo ripiegamento di tipo religioso dovuto anche alla decisione di prendere i voti e farsi chierico (1360). Le cose sono tuttavia più complesse, se è vero che in questo medesimo periodo egli realizza un’opera, il De mulieribus claris, in cui, sul modello del De viribus illustribus di Petrarca, raccoglie 106 biografie di donne divenute celebri per gli atti nefandi o per l’eccellenza della virtù. E allora si deve convenire con le conclusioni di Francesco Bruni, il quale sostiene che Boccaccio si sia mosso tra due diversi modelli culturali, uno filogino e incentrato sul rapporto tra amore e poesia, l’altro misogino e incentrato sulla ricerca della sapienza. Ma è opportuno aggiungere che l’autore fiorentino ha compiuto uno scarto molto significativo rispetto al sistema di contrapposizione netta tra cultura latina “alta” e cultura volgare “bassa”. Inserendosi nella scia dantesca, egli ha infatti riscattato le tradizioni e i prodotti più popolari, o comunque ritenuti fin lì privi di dignità artistica, adoperandoli nelle sue opere erudite, come accade per esempio nel libro VIII del De casibus virorum illustrium (1356-60, rivisto nel

1373), il cui diciannovesimo capitolo, intitolato De Arturo Britonum rege, è dedicato a quelle vicende di re Artù che nel frattempo egli aveva appena condannato nel Corbaccio. Se, insomma, l’attività giovanile dell’autore è ispirata a un innovativo progetto di «letteratura mezzana», cioè di una scrittura che si colloca al centro tra “alto” e “basso”, con l’obiettivo di soddisfare la domanda culturale e artistica di un pubblico nuovo, in cui si sovrapponevano provenienza mercantile e ambizione aristocratica, anche il secondo ventennio della sua esperienza letteraria appare confermare per certi versi questa interferenza, pur nella prevalente interpretazione della poesia in senso erudito, latino e sapienziale. Chiarita l’operazione culturale realizzata da Boccaccio e l’orientamento filogino della sua prima produzione, napoletana e fiorentina, occorre brevemente riprendere alcune osservazioni cursorie che abbiamo dedicato alle opere della giovinezza. Già il solo elenco di queste evidenzia infatti il carattere fortemente innovativo del lavoro boccacciano, ispirato a una continua ricerca, che lo porta a sperimentare temi e soluzioni formali sempre diversi. Il primo impegno è la Caccia di Diana, un poemetto allegorico d’ispirazione mitologica e cortese scritto in terzine dantesche, così da rivelare l’indubbio debito del giovane autore nei confronti dell’Alighieri, quell’ammiratissimo modello che alcuni decenni più tardi l’amico Petrarca gli avrebbe rinfacciato di aver sempre considerato come la sua guida principale (Familiares, XXI, 15; Dante sarebbe stato la sua «prima fax» e prima «lux»). A questa operetta in terzina seguirono in pochi anni un poema in ottave e un romanzo in prosa, che costituiscono altrettante novità assolute nel sistema letterario dell’epoca, giacché nel primo caso (il Filostrato) Boccaccio faceva assurgere la forma dell’ottava rima alla dignità della scrittura, e nel secondo (il Filocolo) dilatava a dismisura l’esile raccontino francese delle peripezie di Florio e Biancifiore infarcendolo di riferimenti letterari e di significati allegorici. L’opera successiva, il Teseida, riprendeva l’uso dell’ottava, applicata questa volta alla materia mitologica (le storie di Teseo, ma interpretate in senso decisamente cortese), ricavandone il primo poema epico della letteratura italiana, la cui mancanza Dante aveva lamentato in un brano del De vulgari eloquentia («arma vero nullum latium adhuc invenio poetasse»: “non ho trovato nessun poeta in volgare che abbia cantato le armi”). Nel suo trattato teorico, l’Alighieri aveva individuato in salus, venus e virtus i tre

«magnalia», ossia i tre grandi temi della poesia, avocando a sé il terzo in quanto poeta morale. Mettendosi al lavoro su un poema epico, Boccaccio, sebbene volgesse le armi (salus) verso l’amore (venus), mostrava tuttavia di voler proseguire il grande progetto dantesco di far assurgere la poesia volgare alla pari dignità col latino. La sperimentazione continuava con l’Elegia di madonna Fiammetta, in cui il grande modello delle Heroides ovidiane (epistole in versi attribuite alle celebri amanti abbandonate) era abbassato al livello dell’ambiente mondano di Napoli e agli amori extraconiugali di tutta la tradizione cavalleresca e cortese: qui Boccaccio abbandonava nuovamente l’ottava per tornare alla prosa narrativa, aggiungendovi l’innovativa attribuzione della responsabilità narrativa – ma sempre sulla scorta di Ovidio – alla protagonista femminile. All’allegoria e alle terzine Boccaccio tornava poi nella Amorosa visione, grande celebrazione, appunto “visionaria”, del mondo angioino, mentre invece l’Ameto, pur conservando la dimensione celebrativa, era tutto spostato verso il mondo fiorentino, sulle cui colline è ambientato il racconto della potenza civilizzatrice dell’esperienza d’amore, ma adottando la forma del prosimetro, quella miscela di brani in prosa e testi in versi che dal De consolatione philosophiae di Severino Boezio era passata alla Vita nuova dell’Alighieri. Quando dunque, tra la fine del 1348 e i primi mesi del 1349, Giovanni progettava la sua raccolta di novelle, egli aveva alle spalle un ampio esercizio letterario, ispirato al costante sperimentalismo formale e all’apertura tematica, secondo le coordinate che traeva dall’opera dantesca. Impegnandosi nella grande operazione del Decameron, dove la varietà e la molteplicità sono tenute in equilibrio dentro una maglia strutturale di grande rigore, l’autore poteva trarre frutto delle sue precedenti esperienze, approfondendo il lavoro nella direzione che aveva intravisto sin dagli anni trascorsi a Napoli.

I.3. Novella: il carattere “verbale” di un sostantivo Abbiamo visto quale complessa esperienza artistica avesse già accumulato Boccaccio all’epoca in cui arrivava alla svolta biografica e letteraria del 1348. Formatosi al doppio modello culturale della letteratura colta e dell’intrattenimento di gusto cortese (la via «mezzana»), il giovane scrittore aveva praticato diverse forme di narrazione lunga, sia in versi

(Filostrato e Teseida), sia in prosa (Filocolo e Fiammetta), sia nell’ibrido ma illustre prosimetro (Ameto), che poteva vantare la filiazione da Severino Boezio (De consolatione philosophiae) e da Dante (Vita nuova). Gli mancava invece una esperienza di narrazione breve. O meglio, la sperimentazione – che aveva provato anche in questo ambito – era rientrata dentro la pratica della forma lunga, come dimostra quella sezione del quarto libro del Filocolo che racconta il lungo episodio della «corte d’amore» napoletana in cui un gruppo di conversatori riunito in brigata sollecita la regina, chiamata Fiammetta, a risolvere una serie di «questioni», ossia di situazioni dilemmatiche. La controversia, con la sua derivazione dalla quaestio, era un genere con cui l’Autore era ben familiare, in virtù della sua probabile conoscenza di testi giuridici. L’applicazione di un tipico procedimento universitario al mondo cortese era del resto un esercizio quasi banale, sia perché esisteva la tradizione francese (ma sviluppatasi anche in Italia) dei débats e in generale dei componimenti basati sul contrasto, sia perché rientrava nelle pratiche ludiche della vita aristocratica, come sembra mostrare anche il Proemio del Filostrato, in cui Boccaccio rappresenta un dibattito intorno a che cosa sia preferibile per un giovane amante che non possa coronare i suoi desideri, se limitarsi a vedere l’amata, a parlare di lei con qualcuno, oppure addirittura a «seco stesso di lei dolcemente pensare». In ogni caso, al di là di queste occasioni parziali, Boccaccio, che si era cimentato in diverse forme di narrazione lunga, sia in prosa sia in versi, di fatto esaurendo le principali possibilità previste dalla letteratura medievale, non si era invece mai misurato con la narrazione breve autonoma. Non c’era in questo nulla di particolare. Eccezion fatta per alcuni racconti attribuiti a Maria di Francia e altri sporadici casi, la narrativa “d’autore”, cioè esplicitamente riferita a un autore riconoscibile (cfr. infra, III.1), aveva di solito dimensioni maggiori, laddove la brevità era riservata alle diverse necessità della comunicazione ordinaria. Al contrario, mentre faticava a trovare un chiaro riconoscimento all’interno del sistema letterario medievale, la narrazione breve proliferava invece nelle pratiche discorsive dell’epoca, fossero di carattere pratico o destinate al solo intrattenimento. Se proviamo a fare un poco di chiarezza, possiamo raggruppare le numerose forme di brevitas narrativa in alcune tipologie principali, e in particolare: 1) le narrazioni biografiche, che trattavano la vita di religiosi

(le agiografie), di uomini illustri (sulla scorta di Valerio Massimo e delle epitomi di storia antica che all’epoca circolavano molto più che non le grandi opere storiografiche), nonché di poeti provenzali (le cosiddette vidas, che abitualmente precedevano nei manoscritti i versi); 2) le narrazioni con sfondo storico, come gli aneddoti; 3) le narrazioni di registro comico, come i fabliaux in lingua d’oïl (l’antesignana dell’odierno francese), i racconti sibaritici e le favole milesie, che, pur spesso di tradizione illustre (come nel caso delle Metamorfosi di Apuleio), attingevano ai livelli tematici e retorici più bassi; 4) le storie di maggior sostenutezza espressiva, talvolta a contenuto tragico, come i lais, per esempio quelli attribuiti a Maria di Francia; 5) i racconti a sfondo morale, come gli exempla latini; 6) le fiabe animali, risalenti alla tradizione esopica semmai incrociata con la ricca produzione di antica origine persiana arrivata sino al Mediterraneo e all’Europa per il tramite della Persia e del mondo arabo. Come si può comprendere da questa schematica tipologia, la narrazione breve attingeva a livelli culturali assai differenti, giacché era destinata a compiti molteplici ed era realizzata in ogni tipo di lingua, dal latino (exemplum, agiografia, fiabe e favole milesie di tradizione apuleiana) al volgare (aneddoti storici, vidas provenzali, fabliaux francesi, racconti morali emiliani o toscani). Ma nella gran parte dei casi questa abbondante messe di narrazioni non era destinata a circolare in maniera autonoma; essa veniva invece inserita in testi più ampi e complessi, dov’era funzionalizzata alla variazione piacevole oppure alla illustrazione esemplare, cioè addotta come prova per mostrare al lettore o all’ascoltatore l’evidenza di un precetto morale o di una verità di fede. Un primo ambito di straordinaria importanza fu la predicazione religiosa. Se già all’epoca del Concilio di Tours (813 d.C.) era stato prescritto al clero l’uso del volgare durante le omelie, cioè per il commento della lettura dei testi sacri, è con la diffusione degli Ordini predicatori (i Domenicani all’inizio del XIII secolo e i Francescani appena qualche anno più tardi) che si stabilisce un contatto più intenso con le comunità dei fedeli, le quali, ovviamente, si esprimevano in volgare, avendo perduto quasi ogni conoscenza della lingua latina (nella quale invece si continuavano a recitare le parti canoniche della messa: così fino al 1969, per effetto del Concilio Vaticano II). Per diffondere più adeguatamente i contenuti religiosi e morali del cristianesimo, i frati si

avvalsero di una serie di tecniche retoriche, che apprendevano da manuali in cui erano contenute le indicazioni necessarie per il loro esercizio spirituale (le cosiddette Artes praedicandi). A questo scopo, particolare importanza assunse l’inserimento, all’interno delle prediche, di brevi narrazioni che servivano per dare un esempio facilmente memorizzabile delle prescrizioni morali, comportamentali o religiose che il predicatore intendeva imporre: questi raccontini si chiamavano exempla (“esempi”, appunto), ed erano frequentemente raccolti in grandi repertori di facile consultazione che venivano custoditi nelle biblioteche dei conventi. Aspetto fondamentale di queste brevi narrazioni era il loro carattere elementare, con una precisa distinzione tra personaggi positivi e negativi e con una decisa linearità della trama: lo scopo era mostrare e distinguere il giusto e lo sbagliato, senza indurre dubbi negli ascoltatori, al contrario convincendoli di pochi e ben riconoscibili valori considerati assoluti e quindi indiscutibili. È importante sottolineare la natura fondamentalmente urbana dei nuovi Ordini mendicanti, sorti nei primi decenni del Duecento come risposta della Chiesa alle novità sociali e culturali introdotte dallo sviluppo delle realtà cittadine a partire dai secoli XI-XII. Il significativo inurbamento di quel periodo ebbe infatti come conseguenza la maggiore mobilità sociale (connessa peraltro alla mobilità fisica, cioè alla possibilità concreta di spostarsi liberamente) e una progressiva richiesta di autonomia rispetto al blocco di potere costituito dagli alti prelati e dalla nobiltà feudale. Se, di conseguenza, nacque una nuova aristocrazia urbana, spesso legata al commercio, al contempo si produsse una stratificazione sociale piuttosto complessa, che andava dai vertici della burocrazia cittadina alla forte tendenza associazionistica del mondo artigianale (si pensi alle Corporazioni), fino alla subordinazione degli operai più umili (che pure si sarebbero fatti sentire alla fine del XIV secolo) e alla realtà pulviscolare dei lavoranti a giornata e degli apprendisti. La nuova articolazione urbana rese necessario un apparato di funzionari e di addetti alla gestione della cosa pubblica che fossero indipendenti anche culturalmente dalle gerarchie ecclesiastiche e che fossero quindi l’espressione degli ambienti laici. Pur non potendo spiegare il sorgere degli Ordini domenicano e francescano solo in funzione anticomunale, è però evidente che nelle città italiane, e soprattutto in quelle centro-settentrionali, strette in un più fitto

tessuto connettivo (coi conseguenti, contraddittori effetti di solidarietà reciproca e di competizione), si venne giocando, soprattutto a partire dalla metà del Duecento, un interessante conflitto culturale, il cui principale strumento furono le risorse comunicative della retorica. Entrare in competizione significava infatti, prima di tutto, esprimersi in pubblico e convincere l’uditorio della giustezza delle proprie idee. In maniera estremamente raffinata lo fecero i nuovi predicatori urbani; in maniera altrettanto arguta ed efficace lo fecero anche i nuovi leader politici e culturali che animarono i Comuni del Centro e del Nord della Penisola, e in particolare della Toscana, Firenze su tutti. Risulta allora assai significativo che in un tale contesto sia apparsa verso la fine del Duecento, e proprio a Firenze, la raccolta di racconti cui si è soliti riferirsi col nome di Novellino. Pur senza entrare nella delicata questione filologica relativa alla situazione dei manoscritti che ci hanno tramandato l’opera, occorre osservare che questo nome è molto successivo alla composizione o all’originario allestimento della raccolta, che, conformemente all’usanza medievale, non presenta un titolo sintetico nella forma cui siamo abituati noi oggi. Mentre dunque Novellino è il termine “inventato” nel 1525 da Giovanni Della Casa per riferirsi a quest’opera (che intanto il suo segretario Carlo Gualteruzzi stava pubblicando quello stesso anno col titolo Le Ciento Novelle Antike: dove “antiche” doveva contrapporsi alle “nuove” del successivo Decameron), nei manoscritti medievali troviamo un prologo nel quale si fa riferimento a un «libro» che «tratta» alcuni «fiori di parlare», «belle cortesie», «be’ risposi», «belle valentie e doni». Il libro è dunque presentato come un’antologia (anthos in greco significa “fiore”), che, in quanto tale, ricicla, cioè recupera da varie fonti precedenti, dei racconti che esemplificano in maniera espressiva e chiara le principali qualità sociali: dimostrare coraggio («valentie»), adeguarsi ai principi culturali della cortesia, e soprattutto saper comunicare in pubblico («parlare», “rispondere”). Il Novellino, per continuare a chiamarlo col nome divenuto abituale, si propone infatti come modello espressivo, se è vero che sin dalla prima pagina leggiamo che chi vorrà potrà «simigliare» (cioè “imitare”) le storie che leggerà «e argomentare e dire e raccontare» secondo la loro indicazione (introducendo a quella “etica della conformità” su cui torneremo: cfr. infra, cap. V).

Il giudizio su questa operetta si è modificato nel tempo, e oggi si tende a interpretarla come il primo successo della narrativa laica breve destinata alla scrittura, del tutto differente dalla destinazione orale degli exempla. In effetti il compilatore o i compilatori che hanno arricchito la raccolta per alcuni decenni a cavallo tra XIII e XIV secolo mostrano una notevole competenza linguistica, frutto di un’abitudine radicata all’esercizio della scrittura; ancor più importante è poi la consapevolezza di lavorare a un libro, anzi, come si legge nell’intitolazione di uno dei manoscritti, a «questo libro», con una rilevante accentuazione di carattere contestuale. Dobbiamo però osservare che questi anonimi compilatori si aspettavano che i testi scritti tornassero a circolare nei canali dell’oralità (la conversazione cortese, la discussione politica, la controversia giuridica): la sequenza «argomentare e dire e raccontare» indica infatti la finalità dell’opera, rimandando a una pratica sociale complessa, caratterizzata da diversi tipi di performance pubbliche. Da qui sembra prendere le mosse Giovanni Boccaccio quando, pochi mesi dopo la fine del contagio, inizia a stendere quello che poi diverrà il suo capolavoro. Come i suoi anonimi predecessori, anche lui sceglie di accogliere materiali pluritematici; come quelli, decide di raccoglierli in un libro; come quelli, infine, rilancia la scrittura verso l’oralità. Certo, la riflessione boccacciana sulla novella, come vedremo subito, non appare sempre chiarissima né risulta del tutto uniforme nel tempo per quanto riguarda gli aspetti tematici e formali di un genere che in effetti risultava ibrido, capace di inglobare ogni tipo di racconto in ogni registro espressivo. È però indubbio che anche per lui la novella si muoveva sul confine tra oralità e scrittura. Basta fare un semplice confronto. Nelle primissime battute del Proemio, l’Autore avverte di aver voluto raccogliere nel suo «libro» (§ 1) «cento novelle, o favole o parabole o istorie» (§ 3). Non molto più avanti, verso la fine della Introduzione, allorché la brigata dei dieci giovani ha già raggiunto la villa in contado in cui ha intenzione di soggiornare, Pampinea prende la parola per spiegare che a suo avviso l’intrattenimento collettivo non dev’essere affidato ai giochi, perché c’è chi vince e chi perde, sicché «l’animo dell’una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell’altra o di chi sta a vedere». Al gioco, attività agonistica che può creare tensioni e dispute, la donna contrappone il «novella[re]», il quale «può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto» (I Introd.

111). Con una forma sintetica, si potrebbe dire che la novella è innanzitutto “novellare”, che essa è una pratica prima ancora che un genere letterario, che è un verbo più che un sostantivo: un’azione che risponde a un insieme di regole e convenzioni collettivamente riconosciute ed eseguite. Esattamente come accadeva nel Novellino.

I.4. Teoria della novella Posta in bilico tra scrittura e oralità, la novella appare inoltre attratta da un doppio fuoco strutturale: da un lato essa sembra doversi destinare a una certa organizzazione formale, a una regolarità di temi e di registri espressivi (è, tra l’altro, un effetto tipico della scrittura, che tende a fissare delle norme che limitino la libertà del parlato); dall’altro essa vive della ricca tipologia della narratio brevis, a sua volta oscillante tra la (almeno relativa) stabilità del manoscritto e la labilità della conversazione quotidiana. Un testimone d’eccezione ci fornisce una controprova interessante. Inviando all’amico Giovanni Boccaccio una lettera (la Senile XVII 3), in cui aveva copiato la sua traduzione latina della novella di Griselda (Decameron X 10), Francesco Petrarca spiegava che ne era rimasto talmente avvinto da aver deciso di impararla a memoria per poterla ripetere a piacimento tra sé e sé («ut ipse eam animo [...] repeterem») e per poterla ri-raccontare agli amici riuniti a cena («et amicis [...] confabulantibus renarrarem»). Petrarca, dunque, nel momento in cui fissava in latino e per iscritto il racconto dell’amico, non poteva impedirsi un riferimento alle normali pratiche della convivenza: «ut fit», così scriveva, e cioè “come accade di solito”, la convivenza, o confabulatio, è animata dal discorso e dal racconto (e chissà in quale lingua Francesco raccontava la storia di Griselda agli amici riuniti a cena...). La novella si conferma così genere di frontiera, situata alla confluenza tra scritto e orale, lì dove l’uso quotidiano – caratterizzato dalla molteplicità, anche formale  – s’incrocia con le necessità della codificazione. Ed è infatti qui il punto principale del grande lavoro realizzato da Boccaccio, il quale – come ha ribadito in più occasioni Michelangelo Picone – non va considerato l’“inventore” della novella, cioè colui che ha utilizzato per primo quel genere narrativo, ma il suo codificatore, ossia colui che ha individuato norme tematico-formali e statuti strutturali

applicandoli in maniera coerente a un certo insieme di testi esplicitamente coordinati. Caratteristica decisiva di questa codificazione è proprio il costante riferimento alla esecuzione del testo narrativo, che risulta così inserito in un contesto più ampio, che prevede l’ascolto, nonché la comprensione e il giudizio su quel che si è ascoltato. In questo modo, l’autore fiorentino al tempo stesso raccoglie e supera l’eredità forse più insidiosa della tradizione narrativa precedente, ossia il carattere aspettuale di un racconto che doveva veicolare una novitas, cioè una notizia ancora inaudita (come appare ancor oggi nella formula del vangelo «la buona novella» e nell’inglese news). Se la novella boccacciana presenta molti caratteri formali del racconto di un fatto non conosciuto (sino a mostrare talvolta una certa contiguità col pettegolezzo cittadino), essa funziona però sul principio del riciclaggio e del ri-uso, della rielaborazione retorica. La chiave strutturale del genere novellistico si sposta così dal contenuto alla forma, o, per dire meglio: si sposta dal puro materiale narrativo al modo della sua organizzazione. Se è qui, vedremo più avanti, il fondamento del cosiddetto realismo boccacciano, va detto che la centralità del modo significa anche una diversa costruzione del racconto: rispetto alla tradizione breve medievale, Boccaccio parte infatti dalla centralità del personaggio e delle coordinate cronotopiche (cioè di quell’intreccio tra tempo e spazio di cui si parlerà più avanti: cfr. infra, cap. IV). Resta da spiegare il significato della sequenza «cento novelle, o favole o parabole o istorie» che abbiamo ricordato un poco più su. Si è molto discusso, e ancora si discute, su quale sia il senso preciso del sintagma: se cioè favole, parabole e istorie debbano essere intesi come sinonimi di novelle, o se invece indichino dei sottogruppi, presentando una sorta di organizzazione tipologica della narrazione breve. Uno studio comparativo sul significato di tali lemmi tra i secoli XIII e XIV ha mostrato che una certa convergenza semantica era avvenuta già prima del Decameron e che pertanto la forza classificatoria della sequenza è scarsa se non nulla. Essa era però abituale nella teoria retorica del tempo, soprattutto per l’influenza della Rhetorica ad Herennium (allora attribuita a Cicerone), dove si leggeva la distinzione tra «tria genera narrationum» (“tre tipi di racconto”): la historia (che racconta le res gestae, ossia le imprese realmente avvenute), l’argumentum (che espone quelle res fictae che però potrebbero

avvenire), la fabula (che presenta le storie che non sono né vere né possibili: neque verae neque verisimiles). Sebbene resti difficile giustificare pienamente i tre termini utilizzati da Boccaccio per spiegare il suo “nuovo” termine novella, può essere utile ricordare che lo stesso autore, una quindicina di anni dopo il Decameron, avrebbe scritto le Genealogie deorum gentilium, un impegnativo e a volte caotico trattato mitologico in latino, alcuni capitoli del quale sono dedicati alla teoria della poesia e alla difesa dei poeti. Il nono capitolo del quattordicesimo libro si presenta sin dal titolo come un’apologia della pregressa attività narrativa. A questo scopo, ragionando intorno all’assunto che «composuisse fabulas apparet utile potius quam damnosum» (“aver scritto racconti è utile più che dannoso”) nello stesso periodo in cui si dedica a copiare in bella copia il suo Centonovelle, l’anziano scrittore fornisce un’importante definizione etimologica, in cui attacca chi sostiene che i poeti siano «fabulosos homines» (“chiacchieroni”), se non addirittura degli imbroglioni incantatori, spiegando che fabula risale al verbo for (“parlare”), che è principalmente un’attività collettiva, come mostrano i sostantivi del tipo confabulatio e conlocutio. Stabilito questo primo principio fondamentale, l’autore procedeva affermando che la fabula «est exemplaris seu demonstrativa», cioè “è esemplare o dimostrativa”, per cui «amoto cortice, patet intentio fabulantis» (“rimossa la corteccia, si rivela l’intenzione del narratore”). A seconda del gradiente di verità presente nella “corteccia”, secondo Boccaccio risultava possibile distinguere quattro tipi di racconto. Al primo, del tutto falso, vanno ascritte le favole di Esopo; al secondo quelle che hanno una qualche forma di verità, e dunque i miti, cioè gli antichissimi racconti dei poeti; al terzo tipo vanno fatte risalire le narrazioni che si avvicinano più alla «hystoria» che alla «fabula», e quindi i poemi eroici e le opere comiche, ma anche quelle di cui «sepissime Christus deus in parabolis usus est» (“Cristo fece di solito uso nelle parabole”). Il valore morale, il valore “storico”, o l’intenzione rappresentativa che le governa, impediscono di condannare legittimamente queste tre prime species narrative, mentre la quarta, che «nil penitus in superficie nec in absconditu veritatis habet» (“non presenta alcun livello di verità, né in superficie né in profondità”), è attribuita all’inventiva delirante delle vecchiette («delirantium vetularum inventio»).

Sarebbe interessante proseguire l’analisi del trattato latino, se non altro per scoprire che l’attenzione di Boccaccio per il complesso sfondo antropologico della narrazione è tale da fargli valorizzare anche quest’ultima tipologia. Ai nostri fini dobbiamo limitarci a osservare che, nonostante la mancata coincidenza tra la sequenza a tre tipi del Decameron e la classificazione quadripartita delle Genealogie, la definizione generale di fabula può aiutarci a spiegare, come ha ipotizzato Lucia Battaglia Ricci, il rapporto semantico che collega gli elementi della terna utilizzata nel Proemio: le novelle risulterebbero infatti dei racconti fittizi («favole») finalizzati «all’illustrazione di una verità morale» («parabole»: gli argumenta della Rhetorica ad Herennium), essendo stati in precedenza sottoposti a un trattamento stilistico e narrativo che permette loro di assumere una pretesa storicità («istorie»). Recuperando sia la riflessione tecnica dei retori antichi e moderni sull’uso della narratio brevis, sia la varia produzione di racconti finzionali, esemplari e cronachistici, Giovanni Boccaccio si conferma allora ai nostri occhi come il codificatore di un genere che era già presente nell’esperienza narrativa medievale, ma che solo col Decameron assume quelle coordinate formali e ideologico-concettuali da cui sarà caratterizzato nei secoli successivi. Tra queste caratteristiche, che costituiscono delle invarianti, vi è il peculiare legame che stringe novitas, la “novità”, e delectatio, il “piacere”, con la presentazione delle coordinate cronotopiche dell’azione e dell’identikit dei personaggi all’inizio della performance narrativa (ossia dei racconti così come sono esposti dai componenti della brigata). La novitas, come abbiamo detto, non significa che quel che viene raccontato sia “nuovo”, cioè mai raccontato da altri in precedenza; anzi, i Narratori intradiegetici, cioè i dieci giovani della brigata, alludono quasi sempre alla fonte, sia pur generica, cui avrebbero attinto (e anche questa, ma ci torneremo, è una tipica invariante). La “novità” consiste invece nell’abilità narrativa, nell’efficace montaggio dell’intreccio, in quella capacità di realizzare una finzione che possa risultare credibile. Qui, nel riconoscimento di una tecnica e nell’apprezzamento dell’abilità del narratore, risiede anche la delectatio, ossia il piacere dell’ascolto.

Capitolo II. La composizione e la trasmissione

II.1. Prima del Decameron Prima ancora di essere fermata per iscritto e accolta in un libro, la narratio brevis, nella sua molteplicità di forme e modi, anima lo sfondo sonoro in cui ogni epoca è regolarmente immersa. Racconti verosimili, aneddoti storici, notizie importanti e fatterelli della vita quotidiana, fiabe, barzellette, proverbi, leggende: la vasta tipologia delle «forme semplici» della narrazione, come le chiamò negli anni Trenta del Novecento André Jolles, ha sempre saturato l’abituale vita degli uomini che si ritrovano a vivere in gruppo. Per questa ragione, come anche abbiamo già osservato, storicamente la realtà urbana ha stimolato la codificazione di queste forme, sia per ragioni pratiche connesse all’insegnamento, in particolare della retorica, sia perché ha moltiplicato le occasioni di consumo collettivo di narrazioni. Ovviamente, anche nelle campagne feudali si raccontavano storielle, ma le occasioni di ritualità collettiva erano meno numerose e solitamente circoscritte alla piccola realtà del villaggio (come testimonia la tradizione residua di veglie o di filò nelle campagne del Centro e del Settentrione d’Italia), se non addirittura ridotte al circuito ristretto della famiglia. Per comprendere il contesto letterario nel quale cadde la composizione del Decameron occorre quindi, da una parte, tenere presenti gli specifici caratteri del mondo comunale, le spinte sociali da cui era agitato, le tensioni culturali che lo innervavano; dall’altra parte, occorre invece ragionare nei termini interni alla letteratura, in particolare per quel che riguarda il trasferimento in scrittura delle instabili, a volte imprevedibili dinamiche dell’oralità: questo passaggio fu realizzato, come nel caso del Novellino, attraverso la decisione di “raccogliere” insieme più testi narrativi caratterizzati dalla brevità.

Quando l’autore fiorentino iniziò il suo lavoro esisteva già da tempo una tradizione di raccolte di racconti in prosa. Ricavandola dalla lontana India, con la mediazione della Persia (oggi Iran), la narrativa semitica, e specialmente araba, aveva infatti già adottato, e poi trapiantato in Europa, una struttura che consentiva l’organizzazione di più storie dentro un unico insieme coerente: quel che oggi chiamiamo di solito “cornice narrativa”. Ne esistevano due tipi principali: 1) il collegamento di schemi diegetici, cioè narrativi, e contenuti didattici nella forma del dialogo; 2) il collegamento di diversi episodi narrativi all’interno di un raccontoperipezia principale al fine di dilazionare un pericolo o di intrattenere la compagnia durante un viaggio. Il primo tipo, quello basato sul dialogo, è una forma particolarmente efficace nel caso dello scambio tra un maestro e un allievo, quale troviamo per esempio nel Calila e Dimna (imparentato col Panciatantra indiano e reso in latino da Giovanni da Capua col titolo Directorium humanae vitae) e nella Disciplina clericalis dell’ebreo convertito Pietro Alfonso. In queste raccolte, come anche nel più complicato Barlaam e Josaphat, la finalità principale è l’insegnamento: racconti e parabole, di conseguenza, si presentano come il travestimento piacevole (e spesso semplificato) di indicazioni morali o di contenuti sapienziali. Il secondo caso invece prevede l’inserzione dei vari racconti all’interno di un macroracconto, il che generalmente avviene, per esempio nelle Mille e una notte e nella Storia dei sette sapienti, utilizzando il procedimento “a schidionata”, cioè collegando le diverse cellule narrative attraverso la ripresa o di un medesimo protagonista, cui accadono i vari avvenimenti narrati, o di un medesimo narratore, cui spetta il compito di eseguire i racconti (come nelle Mille e una notte), o ancora di un medesimo narratario, al quale sono dedicate le storie narrate. Oltre a questa tradizione orientale va anche ricordato che lungo il XIII secolo nel mondo cristiano europeo si venne diffondendo l’usanza di allestire le raccolte di exempla, quelle brevi narrazioni utilizzabili dai predicatori a fini educativi o morali di cui abbiamo parlato (cfr. supra, par. I.3): tali raccolte utilizzavano criteri astratti di ordinamento, come per esempio il semplice ordine alfabetico, perché non erano destinate a una lettura organica; esse erano piuttosto dei depositi di reperti narrativi da riutilizzare a seconda delle necessità e delle occasioni. È piuttosto interessante osservare che l’anonimo o gli anonimi compilatori del Novellino non si attennero a nessuno di questi schemi di

cornice, valorizzando così la autosufficienza della scrittura e del libro rispetto alla dispersione dell’oralità. Questo aspetto fu determinante per la coscienza letteraria di Boccaccio; ma è necessario ribadire che egli aveva a disposizione diversi modelli per tenere insieme una pluralità di narrazioni brevi. Il nostro autore si inserisce infatti nella tradizione duecentesca, ma la sviluppa, conferendole un maggior rigore strutturale e ibridando la dimensione orientale (dialogica e spesso didattica) con la tendenza organizzativa occidentale. Ne sortisce la cornice del Decameron, che consiste nel racconto della vita di una «brigata» di sette giovani donne e tre giovani uomini che, incontratisi un martedì nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze durante la peste, partono insieme il giorno successivo per una villa in contado non molto lontana dalla città, cui fanno ritorno il mercoledì di due settimane dopo. In questo primo livello si riconosce lo schema orientale di collegamento di episodi narrativi all’interno di un racconto-peripezia principale al fine di dilazionare un pericolo (in questo caso il rischio di contagio dalla peste). È però attivo anche l’altro principio, quello di organizzazione tematica, come si evince dalla decisione dei dieci componenti della brigata di incontrarsi al pomeriggio per raccontarsi a vicenda una serie di storie piacevoli o interessanti accomunate dal rispetto di un medesimo tema, abitualmente stabilito la sera prima. Prima della scrittura del Decameron ci sono dunque almeno tre elementi: 1) il fitto mormorio urbano del racconto orale; 2) una ricca tipologia narrativa, in prosa e in verso, in latino e in volgare, con tradizione locale o straniera (soprattutto la Francia settentrionale dei romanzi cavallereschi e dei fabliaux e la Provenza delle vidas); 3) le diverse modalità di raggruppamento dei racconti. Abbiamo visto che la cornice decameroniana è una innovazione rispetto ai modelli presenti in area occidentale che Boccaccio poté conoscere e utilizzare anche prima della composizione del suo capolavoro, per esempio nella sezione del IV libro del Filocolo dedicato alle questioni dibattute nella corte d’amore governata da Fiammetta. Innovatore Boccaccio si rivela anche rispetto alla materia narrativa, mostrandosi vorace e al tempo stesso attentissimo lettore di ogni tipo di racconto, che poi rifunzionalizza nella sua opera. Coerentemente col principio del riuso, che non è solo alla base della retorica ma è carattere tipico della comunicazione quotidiana, la narrazione breve medievale riguardava

sempre un racconto “raccontato (almeno) due volte”, cioè ripreso, riciclato, plagiato da un racconto precedente che ne era la fonte. Lo stesso fece anche Boccaccio, il cui lavoro è però ispirato a una grande libertà, che gli consentì di rimodellare i materiali in maniera a volte imprevedibile, spesso parodica, oppure di fondere insieme racconti diversi. Di conseguenza, è piuttosto difficile individuare un testo-fonte da cui le novelle boccacciane deriverebbero in maniera diretta e lineare. Del resto, come è stato osservato più volte, la novella è un genere di sintesi, onnivoro, capace di intrattenere rapporti strutturali e tematici coi prodotti più diversi, dai romanzi arturiani, i lais e la produzione lirica colta fino al denso tessuto antropologico di fiabe, leggende popolari, aneddoti di vaga o impossibile attribuzione. Costanzo Di Girolamo e Charmain Lee hanno ricondotto il problema delle fonti del Decameron alla più ampia casistica dell’intertestualità, proponendo un’utile griglia in cui si distinguono quattro diversi tipi di rapporto tra il testo d’arrivo (la novella) e i materiali di partenza (le fonti). Dopo 1) il classico «testo-fonte specifico», cui abbiamo già accennato, ci sono: 2) il «racconto-fonte», quando la storia di base è identica a quella di altri testi, ma non è possibile documentare che Boccaccio ne avesse conoscenza; 3) i «temi-fonte», quando vi sono temi che sono attestati in testi letterari precedenti, che non sono però individuabili rispetto al testo boccacciano; 4) il «generefonte», quando la novella fa riferimento «non a un testo o a un racconto particolare, ma a un genere preesistente». Per fare un caso semplice, si può considerare la novella V 4, dove il motivo dell’uccello che canta di notte proviene sì dal Lai du Laüstic (di Maria di Francia), che Boccaccio poté aver presente come fonte (ossia come «testo-fonte»), ma è sfruttato in maniera del tutto differente, in quanto è articolato su una serie di associazioni oscene che tuttavia conducono a una conclusione felice. Diverso è invece il caso di V 7, in cui l’autore si muove tra il livello del genere-fonte, utilizzando una serie di elementi strutturali tipici del teatro antico (in particolare lo scioglimento finale del racconto per mezzo del riconoscimento), e l’intertestualità esplicita col quarto libro dell’Eneide, da cui è ripreso l’episodio dell’improvviso temporale estivo che permette ai due giovani protagonisti di restar soli in una chiesetta abbandonata (in Virgilio, Didone ed Enea si rifugiano in una grotta), dove si dichiarano il loro amore (V 7 10-17).

Estremamente vario è anche l’atteggiamento stilistico (e ideologico) rispetto ai racconti di cui Boccaccio si impossessa, contenuto tra i due estremi della serietà del recupero e della parodia deformante. Al primo polo si colloca per esempio la novella IV 9, il cui tema del cuore mangiato, di antica origine celtica poi ampiamente diffuso nel Medioevo europeo, anche nella materia tristaniana, è dichiaratamente tratto dalla vida del trovatore Guillem de Cabestaing, che è fonte certa. Al polo opposto si può invece collocare il rapporto più conflittuale che l’autore stabilisce coi materiali agiografici, illustri o popolari che siano. Se la religiosità costituisce uno stabile orizzonte spirituale nel Medioevo italiano, l’autore mostra di saperlo sfruttare per collocarvi degli episodi buffi, come nel caso della novella II 1 (che va compresa sullo sfondo delle narrazioni riguardanti il beato Enrico a Trento) e della successiva II 2 (la cui vicenda è costruita, più che su un vago rapporto con fonti orientali o con remoti racconti di santi, sull’enorme popolarità di san Giuliano). Un caso fortemente tendenzioso, all’interno dello stesso repertorio religioso, è infine quello di III 10, dove il rovesciamento del linguaggio devoto diviene eufemismo per alludere ai rapporti sessuali, realizzando una esplicita parodia dei racconti esemplari (peraltro diffusi in volgare, proprio in quegli anni, nell’opera del domenicano Jacopo Passavanti), in special modo quelli che narravano l’esemplare resistenza alla tentazione di san Rustico, eroe di una leggenda patristica che lo stesso Boccaccio aveva copiato in uno dei suoi zibaldoni di lavoro. Molto interessante è infine il caso di quei materiali narrativi che Boccaccio dovette recuperare in maniera diretta dall’aneddotica cittadina, dai fatti curiosi, bizzarri, scandalistici o divertenti che animavano Firenze a quell’epoca. Si tratta di un rapporto privilegiato che l’autore intrattiene con la sua città, se è vero che praticamente per tutte le novelle di ambientazione fiorentina è impossibile individuare una fonte scritta, sicché bisogna ipotizzare l’ascolto diretto dalla viva voce dei suoi informatori. Questo aspetto acquista un particolare rilievo non solo per la quantità relativa rispetto all’opera nel suo complesso, ma anche per l’attenzione metadiegetica, cioè di riflessione sull’arte del narrare, che Boccaccio vi dedica. Lo si nota in particolare nella novella VII 1, al termine della quale Emilia presenta una versione alternativa rispetto alla storia che ha appena raccontato, introducendola con la formula «alcuni dicono» (§ 31): la Narratrice espone dunque le due versioni in parallelo,

salvo poi concludere che un’altra sua informatrice, una «vicina» che è «donna molto vecchia» (insomma: un testimone affidabile), le ha detto che sono entrambe vere, ma accadute a due persone diverse in due tempi diversi (§ 33). Viene così dimostrata la concorrenza delle origini scritta e orale dei diversi reperti riutilizzati nel Decameron; e viene inoltre presentato il modo in cui si costituiscono le tradizioni narrative: per sovrapposizione di voci, per intrecci di materiali, per alternative teoriche volta a volta realizzate.

II.2. Scrivere il Decameron Pochissimo sappiamo oggi dei tempi e dei modi di composizione del Decameron. Il terminus post quem, cioè il momento dopo il quale l’opera va datata è ovviamente il 1348, quando la peste arrivò a Firenze. Ma non è dato sapere se Boccaccio si mise a scrivere e raccogliere le singole novelle già prima dell’epidemia, o se invece iniziò a partire da questa grande tragedia collettiva. Allo stesso modo, non abbiamo alcuna informazione sicura sulla durata del lavoro e sui tempi della sua conclusione, tanto più che, come vedremo (cfr. infra, II.3), l’autore tornò sul suo capolavoro in età senile. Ogni ipotesi deve dunque partire dal testo, nella forma che ci hanno trasmesso alcuni preziosi manoscritti: il Frammento Magliabechiano (ms. II, II, 8 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), il Codice Parigino (Italiano 482 della Bibliothèque Nationale de France, a Parigi), l’autografo (Hamilton 90 della Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz di Berlino) e alcuni frammenti piacentini (Vitali 26, presso la Biblioteca Passerini Landi di Piacenza); a questi va aggiunto un testimone sicuramente esemplato dopo la morte di Boccaccio, ma di altissimo pregio, il Laurenziano Pluteo 42 (a Firenze, Biblioteca Laurenziana), realizzato dal copista Francesco d’Amaretto Mannelli. Ora, al di là delle pur importanti differenze che intercorrono tra questi manoscritti, appare significativo che in tutti sia fortemente marcata l’impostazione strutturale dell’opera, che pertanto non si presenta come una “semplice” raccolta di novelle, ma come un vero e proprio libro, di cui sono pienamente riconoscibili l’organizzazione interna e i limiti d’inizio e fine dell’opera. Intorno all’immagine del libro, del resto, Boccaccio aveva inteso costruire la sua stessa identità di autore, e questo sin dagli anni napoletani,

quando aveva scritto il Filostrato e il Filocolo insistendo con grande acutezza sul loro presentarsi, appunto, come libro. Così accadeva nel poema in ottava rima, nella cui epistola proemiale si spiegava che la storia dell’amore sfortunato di Troiolo (analogo dell’amore sfortunato dello stesso autore, che si autodefiniva “Filostrato”, dando così nome all’opera) era stata realizzata in «rime» e poi ridotta «in forma d’uno picciolo libro». Così accadeva nel romanzo in prosa, nel cui primo libro Fiammetta ordina all’Autore di «comporre un picciolo libretto volgarmente parlando», ove fosse «il nascimento, lo ’nnamoramento e gli accidenti» dei due protagonisti «infino alla loro fine» (§ 26). Così accadeva inoltre, per fare un ultimo esempio, nella Elegia di madonna Fiammetta, opera fiorentina ma di atmosfera napoletana, il cui capitolo IX inizia col commiato della protagonista, narratrice autodiegetica, dal «piccolo [suo] libretto», cui segue una interessante descrizione del formato e del tipo librario che si attaglia maggiormente all’opera. Boccaccio intendeva insomma realizzare il suo inserimento nella costellazione degli autori attraverso l’immagine del libro. Potremmo considerare questa scelta come il frutto di una vera e propria politica dell’autore, soprattutto se, riprendendo le considerazioni di un esperto filologo come Alberto Vàrvaro, ricordiamo che nel Medioevo il testo «appare come il risultato di un negoziato tra copista e antigrafo», sicché le continue e tipiche fluttuazioni nella costituzione materiale dell’opera sembrano proporre una sorta di «gradiente di autorialità» variabile piuttosto che un’effettiva “personalità”, compiuta e riconoscibile, di autore. Se quella in cui visse Boccaccio era un’epoca di tradizioni attive, quando era normale l’interpolazione e la manipolazione del testo da parte del lettore, tanto più è interessante che (sul probabile modello dantesco) lo scrittore fiorentino istituisse un principio forte di autorialità; e che a questo scopo utilizzasse l’immagine del libro nella sua materialità di oggetto fabbricato. Avvalendosi dell’esperienza letteraria giovanile si coglie dunque un elemento invariante rispetto alle varianti narrative delle diverse opere, cioè l’individuazione di un’immagine fisica della autorialità, una sorta di emblema, di rappresentante simbolico dell’autore. Restando nello stesso ambito, ma restringendo l’osservazione al solo Decameron, si può constatare che in esso agiscono quattro diversi elementi di carattere peritestuale (cioè attinenti alle periferie del testo e alla sua organizzazione)

il cui fine appare convergente: stabilire la tenuta dell’opera in quanto libro, ossia testo che al tempo stesso resiste alle manipolazioni ed è distinto rispetto alle altre scritture colle quali potrebbe essere commisto (per esempio i commenti dei lettori, oppure altre novelle recuperate dalle varie tradizioni orali o scritte e aggiunte a quelle originariamente previste dall’autore). Il primo dei quattro elementi è il titolo, che presenta, definisce e circoscrive l’opera boccacciana, come si capisce facilmente leggendolo per intero: «Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini». Vi è qui la presentazione, data dal verbo «comincia», traduzione in volgare della tradizionale espressione latina “incipit” (si pensi al prosimetro di Dante, dove si legge «Incipit vita nova»); vi è la definizione, «chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto», in cui si presenta il nome e si fornisce un’indicazione ermeneutica importante sul modo in cui l’opera va letta (ci torneremo infra, par. III.2); vi è infine la delimitazione, «nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini», dove si esplicita il numero delle novelle e la loro distribuzione. Il secondo elemento è introdotto dal riferimento all’esistenza di un gruppo di narratori, che abbiamo appena letto («dette da sette donne e da tre giovani uomini»): si tratta della cornice narrativa, detta anche “storia portante”. Rimandando al prossimo capitolo per una descrizione più precisa delle sue caratteristiche peculiari, mi limito qui a osservare che la cornice, mentre assolve a un fondamentale compito strutturale, fornisce anche una raffigurazione della consistenza dell’opera, ossia della sua tenuta, della sua resistenza a ogni modificazione dall’esterno. Il terzo elemento riguarda invece il rapporto inizio-fine, che nell’opera è ben marcato dalla presenza di un Proemio al principio dell’opera e di alcune Conclusioni poste come sigillo finale. Si tratta di una esplicita sottolineatura della presenza di un «Autore» (così viene chiamato all’interno del testo), che è qualcosa di completamente differente dal riferimento alla realtà anagrafica di un autore storicamente riconoscibile (cioè Giovanni Boccaccio). Anche in questo caso abbiamo a che fare con un importante cambiamento nel modo di comunicare in letteratura, testimoniato verso la metà del secolo dalle scelte di altri autori, a partire da Francesco Petrarca e Francesco da Barberino, i quali realizzarono

un’operazione del tutto analoga: stringere insieme l’immagine dell’opera come libro e la presenza dell’Autore all’interno dell’opera, trovando la soluzione unitaria nella realizzazione di un libro manoscritto autografo, offerto come garanzia di autenticità non manipolata. Il quarto e ultimo elemento attiene invece alla ripartizione interna del testo: si tratta delle rubriche (dal latino ruber, “rosso”), cioè quelle brevi presentazioni delle singole giornate e delle singole novelle poste all’inizio di ciascun nuovo passaggio narrativo, riguardanti sia la storia portante (le giornate) sia i racconti narrati (le novelle). Questo aspetto merita attenzione per due motivi: 1) perché contribuisce a quell’immagine di compattezza e tenuta dell’opera che abbiamo visto fortemente voluta da Boccaccio; 2) perché stabilisce un rapporto dialettico con le narrazioni che introduce, spesso fornendone valutazioni ermeneutiche importanti, ma talvolta occultandone aspetti fondamentali. Nel 1937 Gianfranco Contini pubblicò Come lavorava l’Ariosto, un saggio dedicato al confronto tra i materiali autografi ariosteschi, a quell’epoca appena pubblicati, e le redazioni a stampa dell’Orlando furioso. Si trattava di uno dei primi esempi di quella che sarebbe stata più tardi chiamata la “critica delle varianti”, cioè lo studio dei modi in cui un autore trasforma la sua opera nel corso delle successive elaborazioni. Al di là dei notevoli risultati ottenuti da Contini, è per noi interessante ricordare la premessa di metodo con cui egli inaugurava il suo saggio, quando spiegava che nella comprensione di un’opera letteraria si possono assumere due atteggiamenti assai diversi: uno è «statico», e si realizza quando consideriamo l’opera come il risultato conclusivo di uno sforzo, che deve essere descritto e valutato; l’altro è «dinamico», e si realizza quando consideriamo l’opera come un processo, ossia come un «lavoro in fieri». Diversamente da quanto accade con l’Orlando furioso, per il Decameron non si è conservata quella ricca stratigrafia che permette di valutare con certezza il processo di elaborazione. Qualche traccia possiamo forse ricavarla dal confronto tra i manoscritti più antichi (o derivanti in maniera fedele da manoscritti più antichi, come nel caso del Mannelli) e l’autografo. Ma, ancora una volta, le ipotesi più suggestive emergono dall’osservazione del testo decameroniano che di solito consideriamo come un oggetto stabile e “definitivo”, ma che alcuni indizi interni inducono a considerare semmai come il risultato di un processo che si è protratto nel tempo: non la smagliante fabbrica statica che pure possiamo

ammirare, ma un fascinoso organismo i cui equilibri si sono venuti armonizzando attraverso una serie di interventi e di modifiche. Possiamo ricavare i nostri indizi da tre livelli differenti. Il primo è quello del progetto strutturale. Vi ci introduce il Proemio, in cui leggiamo che, oltre alle novelle recitate «da una onesta brigata di sette donne e tre giovani», l’opera contiene anche «alcune canzonette dalle predette donne cantate» (§ 13). Ma in realtà le “canzonette” (dal punto di vista metrico diremo più precisamente che si tratta di ballate) sono cantate da tutti e dieci i componenti, non solo dalle sette donne: si tratta di una distrazione dell’Autore? O è il relitto di una primitiva versione dell’opera basata non sul 10, numero perfetto su cui Dante Alighieri aveva costruito la Commedia, ma sul 7, numero altrettanto perfetto e allusivo, tra l’altro, della Creazione dell’Universo? Impossibile dire un’ultima parola al riguardo, ma è ben evidente che se davvero il progetto iniziale prevedeva la sola presenza di donne, il testo che poi si è imposto all’invenzione dell’artista è di sicuro più complesso e interessante. Il secondo livello riguarda la possibile influenza dei lettori sui processi compositivi. Vi alludono in maniera esplicita altri due passaggi dell’opera affidati al discorso diretto dell’Autore. Uno, piuttosto breve, si legge nelle Conclusioni dell’autore (§ 27), dove si allude al giudizio formulato da una lettrice («una mia vicina») sulla lingua delle novelle quando ormai «egli erano poche a scrivere», quando cioè l’opera era quasi conclusa. La stessa questione è affrontata, ma in maniera assai più estesa, nella Introduzione alla IV giornata, dove l’Autore sospende la storia portante della brigata per rispondere alle accuse ricevute in seguito alla diffusione delle prime trenta novelle. Nel prossimo capitolo analizzeremo nel dettaglio i singoli argomenti, qui interessa solo osservare che in due diversi luoghi si fa riferimento al fatto che l’opera sarebbe stata conosciuta, e letta, prima della sua conclusione. Secondo l’espressione di Contini, il Decameron sarebbe allora effettivamente un «lavoro in fieri», portato a termine anche attraverso un dialogo con i primi lettori. Il terzo livello riguarda addirittura i processi inventivi e il progressivo affinamento degli equilibri interni al testo quali ci sono rivelati da alcuni interessanti passaggi. Ci limitiamo qui a un solo caso, sul quale peraltro avremo modo di tornare anche più avanti. La brigata sta affrontando la prima giornata di racconti, quando il turno passa a Dioneo, il più spiritoso e malizioso tra i componenti maschili. Fino a quel momento le

novelle, pur affrontando anche questioni delicate, come per esempio la credenza nei santi, non hanno creato tensioni all’interno del gruppo, ma il nuovo narratore, dichiarando che a ciascuno è lecito raccontare la novella «che più crede che possa dilettare», presenta una storia dal piccante contenuto erotico. Le donne dapprima provano vergogna, poi, guardandosi a vicenda, trattengono a stento le risa (I 5 2). Si tratta di un passaggio assai delicato in quanto vi sono contrapposti in maniera esplicita i due principi centrali di tutta l’opera: il piacevole e l’onesto. Se Dioneo incarna il primo, coinvolgendo le sue ascoltatrici, la regina Pampinea (che è la figura di massima autorità all’interno della brigata) presiede invece al secondo, sicché non sorprende che ella lo rimproveri «con alquante dolci parolette» facendogli capire «che simili novelle non fossero tra donne da raccontare» (I 5 3). Ma la tensione è ormai stata presentata, e le restanti giornate narrative torneranno in vario modo a illustrarla, progressivamente trovando un equilibrio tra le due opposte necessità (cfr. infra, par. V.7). Il Decameron si presenta dunque a noi come un testo in movimento, cui l’autore ha lavorato per un periodo piuttosto lungo misurandosi con le ragioni interne della sua opera e con le reazioni del pubblico. Un metodo di lavoro compositivo che sembra rientrare perfettamente in quel nuovo atteggiamento impostosi nel panorama della letteratura medievale già dal XIII secolo, per cui «per la prima volta nel mondo occidentale – come ha scritto Armando Petrucci – i testi [...] potevano subire, e subivano, le vicende confuse e complesse di primi abbozzi, di prime stesure, di correzioni, di aggiunte».

II.3. Tornare al Decameron Se gli indizi interni ci inducono a pensare che la composizione dell’opera dovette essere abbastanza lunga, le prove esterne fornite dalle testimonianze manoscritte ci permettono di affermare che il Decameron fu per Boccaccio l’opera di una vita, così come, in altro modo, lo furono i Rerum vulgarium fragmenta per il suo amico Petrarca. Abbiamo detto che la composizione cominciò dopo il 1348, ma non sappiamo se subito dopo la peste o qualche tempo più avanti. Nel 1360 l’opera era però di certo conclusa, come rivela una lettera in cui Francesco Buondelmonti chiede a Giovanni Acciaiuoli di farsi restituire da un tale

Monte Belandi «il libro de le novelle di meser Giovanni Bocacci, il qual libro è mio». Il documento è molto interessante perché mostra il fitto rapporto che c’era in quei decenni tra Firenze e Napoli, dove numerosa e potente era la colonia fiorentina. Se Marco Cursi ha ragionevolmente ipotizzato che a questo stesso ambiente vada anche ricondotto il Frammento Magliabechiano, i rapporti tra le due città tornano centrali per un’altra testimonianza d’eccezione, l’epistola latina (la XXII nella raccolta delle Opere) che Boccaccio invia nel 1373 (due anni prima della morte) a Mainardo Cavalcanti, un fiorentino saldamente insediato nella capitale angioina. È un documento che ha fatto e fa ancora discutere molto, perché Boccaccio ingiunge all’amico di non far leggere l’opera alle donne di casa, smentendo in maniera clamorosa l’invio del Decameron alle lettrici che si legge nel Proemio e in altri luoghi nevralgici dell’opera. Due interpretazioni principali si contrappongono. C’è chi, come Francesco Bruni, sostiene che la richiesta di Boccaccio s’inquadra nel nuovo orientamento dell’autore, che da una certa data in poi (grosso modo dopo il 1351) si volge alla composizione di opere in latino perseguendo un progetto ambizioso di poesia filosofica rivolta ai soli dotti. C’è invece chi, come Lucia Battaglia Ricci, ritiene che la lettera non contenga una condanna dell’opera, ma solo ribadisca la sua destinazione a un pubblico colto, presente in realtà già nel Proemio e altrove, in quanto col termine «donne» non andrebbe inteso un referente reale (cioè delle donne in carne e ossa, un pubblico femminile chiaramente riconoscibile), ma un certo discorso sulla letteratura e sulla sua potenza illusionistica. In effetti, la lettera sembra distinguere tra le donne della famiglia Cavalcanti, alle quali il libro deve essere interdetto, e l’interlocutore Mainardo, al quale Boccaccio si rivolge scherzosamente dicendo che ben comprende che l’amico non abbia ancora letto libellos meos (la sua “operetta”: «picciolo libretto» aveva già chiamato l’enorme Filocolo), tenuto conto del caldo estivo, della brevità delle notti... e della presenza di una giovane moglie («Dato estivus calor, noctes breves et sponsa nova»). Forse l’epistola non è solo una caricatura, come Vittore Branca aveva pensato, ma è probabile che le indicazioni boccacciane volessero proporre una questione teorica complessa, che da una parte imponeva il controllo della lettura, dall’altra proponeva un lettore aperto e disponibile, ma

anche consapevole delle proprie responsabilità (su questo torneremo infra, par. VII.3). Del resto, una condanna definitiva dell’opera appare difficile da sostenere se consideriamo che in quegli stessi anni va indubbiamente collocata la composizione del codice autografo noto come Hamilton 90 e oggi custodito a Berlino. Com’è possibile che nel giro di pochi mesi Boccaccio, ormai anziano, si mettesse a copiare il suo capolavoro e intanto vietasse agli altri di leggerlo? Battaglia Ricci ha suggerito di cercare la risposta nella composizione materiale dell’autografo. Si tratta di un codice membranaceo «singolarmente poderoso», grosso e voluminoso, che accoglie il solo Decameron, di cui sono ben marcati sia i segnali di inizio e fine (ma si tenga presente che le prime carte del manoscritto sono andate perdute), sia le ripartizioni interne, utilizzando maiuscole di diversa altezza e colori differenti per segnalare il passaggio dalla cornice alle novelle, l’inizio vero e proprio del racconto o delle ballate, la successione delle giornate e lo spazio riservato alle rubriche. La conclusione è che le pagine del codice «sono strutturate come quelle di un libro universitario del tardo Medioevo», che rivela con chiarezza le parti dell’opera e il piano secondo cui essa è stata concepita. Questo aspetto materiale è molto importante, perché dimostra che Boccaccio aveva un preciso progetto culturale: egli aveva, del resto, una grande esperienza di copista (anche se l’autografo è pieno di errori dovuti alla distrazione) ed era ben consapevole dei processi editoriali della sua epoca. Un libro di intrattenimento avrebbe dovuto avere caratteri del tutto diversi: avrebbe dovuto essere piccolo e maneggevole, semmai impreziosito da qualche immagine, da potersi portare appresso e leggere con comodo anche in compagnia. Realizzare un libro «da banco», cioè da studiare sul leggio significava, di conseguenza, selezionare il tipo di lettore: non la dama cortese, non il mercante che si distrae per qualche ora dagli affari, ma l’intellettuale che legge e ragiona, che s’impegna in un processo di interpretazione e dialogo con il testo. Al di là del problema ecdotico, cioè della edizione filologicamente più corretta, pure fondamentale, il manoscritto berlinese fornisce dunque degli elementi di estrema importanza per una corretta interpretazione del lavoro boccacciano. Da un lato, ci permette di capire che il Decameron è l’opera di una vita, su cui Boccaccio punta per affermare la propria identità di Autore. Dall’altro, ribadisce che l’opera è stata pensata come

un insieme complesso, saldamente strutturato al proprio interno (come mostrano i segnali di passaggio esplicitati nell’autografo) e con un forte orientamento verso il lettore, invitato a cogliere l’organicità dei nessi e a impegnarsi in un lavoro ermeneutico decisivo per la comprensione dell’opera, del suo funzionamento e del suo stesso significato.

II.4. La trasmissione In un recente studio dettagliato dell’intera tradizione decameroniana, Marco Cursi ha ipotizzato che Boccaccio sarebbe in realtà intervenuto più volte per orientare la corretta lettura del Decameron, letteralmente guidando la mano di quanti per primi ne trascrissero il testo. Si tratta di un’ipotesi che ben si concilia con quella volontà di essere riconosciuto come autore che, nonostante il mutare dei progetti culturali, guidò il fiorentino per tutta la sua vita, dalla giovinezza napoletana alle opere senili d’indirizzo erudito. E si tratta altresì di un’indicazione che conferma quanto dovesse risultare insolito per i lettori contemporanei un impianto narrativo così ben strutturato, così poco disposto alla manipolazione. La storia della diffusione del Decameron mostra che l’impianto librario progettato da Boccaccio non sarebbe stato rispettato. E tuttavia la tradizione dell’opera, pur molto complessa (anche forse per la presenza di differenti redazioni d’autore oggi solo congetturabili), è nel complesso rispettosa dei suoi principali caratteri distintivi, come la distribuzione in giornate e la presenza della cornice. Certo, vi furono anche edizioni parziali o miscellanee, ma in percentuali minoritarie, salvo che nell’ultimo quarto del XV secolo, quando il contesto storico e culturale era molto cambiato. Lo stesso Cursi ha dimostrato che gli interventi dei copisti sul testo furono tutto sommato modesti, o almeno restarono isolati e non sistematici: una constatazione importante perché modifica l’illustre opinione di Vittore Branca, che per molto tempo ha prevalso, secondo cui la tradizione del Decameron sarebbe stata principalmente caratterizzata dal tenace impegno di «copisti per passione», cioè non professionisti, i quali avrebbero esemplato dei manoscritti dell’opera per il proprio consumo personale, inserendo in essi note, conti, osservazioni impertinenti rispetto al testo. I codici raggruppabili nella categoria «per passione» restano numerosi, ma almeno paritario risulta il gruppo dei

manoscritti cosiddetti «a prezzo», cioè commissionati a professionisti della copia. Si pone qui il problema del tipo di lettori del Centonovelle. Vittore Branca, cui si deve la bella definizione dell’opera come «epopea dei mercatanti», riteneva che la sua prima diffusione fosse appunto stata circoscritta all’ambiente mercantesco, soprattutto fiorentino. Lo studio complessivo dei dati rende però più articolato il quadro sociale dei fruitori, che appaiono provenire sia dal mondo dei mercanti sia da quello notarile e in genere dei funzionari e degli amministratori della cosa pubblica (per esempio i podestà): la ricezione antica fu dunque piuttosto eterogenea, raggiungendo anche i ceti più bassi. Quanto alla sua estensione geografica, finché l’autore fu in vita essa si distribuì in prevalenza lungo l’asse Firenze-Napoli, con le appendici appenniniche e pugliesi che si diramavano dalla Capitale angioina, coerentemente con le alleanze e i progetti dello stesso Giovanni; successivamente, l’epicentro sarebbe rimasto Firenze, con qualche importante eccezione nel Nord Italia. Ben presto, come dimostrano le riprese che ne poté fare Geoffrey Chaucer nei suoi Canterbury Tales (fine XIV secolo) e poi la traduzione francese di Laurent de Premierfait (1410), il capolavoro boccacciano avrebbe inoltre conosciuto una notevole fortuna internazionale. Un’ultima osservazione riguarda quelle che il Proemio indicava come il principale destinatario dell’opera, ossia le lettrici. Nella lettera a Mainardo Cavalcanti, come abbiamo visto, Boccaccio, pur senza condannare il Decameron, consigliava però vivamente all’amico di tenerlo lontano dalle donne di casa («quod inclitas mulieres tuas domesticas nugas meas legere permiseris non laudo»: “non sarei contento se tu permettessi alle nobili donne di casa tua di leggere le mie favolette”), quasi contraddicendo la chiara distinzione tra letteratura e vita che egli stesso aveva stabilito, sin dal titolo, quale cardine interpretativo nell’opera (cfr. infra, III.1). L’atteggiamento dei successivi lettori sarebbe rimasto in realtà ambivalente, irrisolto tra favorire la fruizione delle novelle, anche quelle scandalose, come esercizio per fortificare gli animi delle donne, e limitare la circolazione del libro al solo ambito maschile. Gli stessi manoscritti c’informano tuttavia di quella che dovette essere l’effettiva pratica più diffusa, ossia l’ascolto, da parte delle donne, di una lettura ad alta voce praticata dagli uomini, come già indicato nel Frammento Magliabechiano, dove troviamo un riferimento all’«onore di quelle

graziose donne», le quali traggono vantaggio dalle «belle istorie leggiendole o udendole leggiere».

Capitolo III. L’architettura dell’opera

III.1. Tre cerchi Il Decameron è un’opera dalla forte coesione testuale. Si tratta di un organismo ben congegnato, le cui diverse parti sono strette da saldi legami sintattici e logici, pur mantenendo una marcata riconoscibilità individuale. Lo stesso Boccaccio sottolineò questo aspetto nel suo autografo senile, quando distinse con maiuscole di differente altezza lo spazio dedicato alla vita della brigata da quello riservato alla novella e, all’interno di questa, tra la fase introduttiva e l’inizio vero e proprio del racconto. Seguendo l’indicazione dell’autore possiamo allora distinguere tre livelli principali. Nel primo c’imbattiamo sin dal principio dell’opera, il Proemio, con l’Autore (cioè quella maschera autoriale che si autonomina così: ma cfr. infra, III.2), che rivolge al Lettore (anzi, alle Lettrici) il suo saluto, spiegando le motivazioni che lo hanno spinto a scrivere quel che segue. Il secondo livello riguarda invece la «novella portante», in cui, rispettando ordinatamente il proprio turno, ciascun Narratore o Narratrice racconta una novella ai suoi ascoltatori (o narratari, come si dice nel gergo dell’analisi narratologica). Il terzo livello è infine quello della storia narrata (la novella vera e propria), nel quale sono contemplati i diversi personaggi in azione. A questo livello, che è quello squisitamente diegetico, può inoltre verificarsi il caso di un’ulteriore produzione narrativa: ciò accade per esempio in I 7, dove il personaggio Bergamino racconta a Can Grande della Scala la vicenda di Primasso e dell’abate di Cluny, realizzando così una vera e propria metanovella, o “novella nella novella”. Se questo tipo di incastro di racconti nei racconti è piuttosto raro nel Decameron – mentre era tradizionale nella narrativa orientale (con il caso estremo del Calila e Dimna) –, proprio per questo esso è

particolarmente significativo quando si verifica, come appare con flagrante chiarezza in VI 1, la cosiddetta novella “di madonna Oretta”. Da quanto detto è possibile sintetizzare la struttura dell’opera con l’immagine di tre cerchi concentrici: 1) il cerchio più esterno, nel quale si collocano le “persone” dell’Autore e delle Lettrici; 2) il cerchio mediano, in cui si svolge la vicenda della «lieta brigata»; 3) il cerchio più interno, dove si trovano i personaggi impegnati nell’azione. Per la corretta interpretazione del Decameron è molto importante tenere sempre presente questa logica di separazione e al tempo stesso di implicazione tra livelli. Ogni volta che leggiamo una novella, infatti, dobbiamo essere consapevoli del fatto che essa è sia una performance (non priva di elementi teatrali) realizzata all’interno del circolo dei giovani narratori, sia un momento della comunicazione che l’Autore ha attivato nei confronti delle Lettrici. Al di fuori dell’opera ci sono inoltre, ciascuno immerso nella propria realtà biologica e culturale, da una parte lo scrittore Giovanni Boccaccio (colui che realmente visse tra il 1313 e il 1375), dall’altra noi lettori, individui storici che volta per volta diamo vita al testo. Questi due poli, che si trovano, per così dire, nel mondo della vita effettivamente vissuta, intrattengono con le diverse figure e i diversi livelli testuali rapporti che vanno dall’identificazione emotiva all’apprezzamento intellettuale; dal ripudio su base morale o conoscitiva all’apprendimento di un modello di comportamento. È un altro aspetto che non può essere ignorato: Boccaccio aveva di sicuro in mente un pubblico ben determinato quando decise di travestirlo al femminile, e si aspettava senza dubbio che alcuni aspetti per lui evidenti fossero compresi dal suo lettore ideale senza ulteriori spiegazioni; di contro, un lettore di centinaia di anni dopo individua nel testo degli elementi che allo stesso autore storico sarebbero del tutto sfuggiti. Si tratta di una dissimmetria che caratterizza ogni fenomeno di ricezione estetica e che rende sempre vivo il rapporto coi testi, anche se provenienti da un passato che ci appare remoto. E proprio qui risiedono la libertà dell’interpretazione e i suoi limiti, perché la libera applicazione dell’intelligenza nella comprensione dei fenomeni artistici deve sempre mantenersi rispettosa dei vincoli che quegli stessi fenomeni impongono. Il primo di questi vincoli è proprio la struttura dell’opera.

III.2. L’immagine dell’Autore

Abbiamo visto quanto consapevole sia stato l’impegno progettuale di Boccaccio nella elaborazione del suo codice autografo senile, col quale intendeva evidenziare la struttura della sua opera e, insieme, proporre una forte intenzione “autoriale”. La stessa chiarezza emerge anche dal tipo di “immagine di Autore”, cioè dal tipo di rappresentazione letteraria della funzione autore costruita nel testo, a partire innanzitutto dai tre luoghi in cui l’Autore – con la maiuscola, in quanto raffigurazione interna all’opera dell’autore (con la minuscola) Giovanni Boccaccio – si riserva alcuni spazi per interloquire col Lettore e dirigerne la ricerca del senso. Il primo di questi è il Proemio, in cui il fruitore ideale, il Lettore appunto, viene identificato al femminile, e più precisamente individuato in quelle «donne» innamorate, che dimorano «nel piccolo circuito delle loro camerette» (§ 10). Qui sono indicate inoltre le ragioni che hanno portato alla scrittura di un’opera rivolta agli «afflitti» da chi ha a sua volta aspramente patito in passato («Umana cosa è avere compassione degli afflitti [...] io sono uno di quegli»: § 2), dove il tipo specifico di afflizione cui si fa riferimento, viene chiarito subito dopo (§ 3), è la passione d’amore, sentita fortissimamente come «noia», ossia “dolore” (in italiano antico il termine aveva un valore assai più intenso di quanto non sia oggi). Si tratta di una maschera in evidente continuità con la precedente produzione di Boccaccio, in particolare con quella napoletana, se è vero che sin dalla prima opera, la Caccia di Diana, l’Autore si era presentato come un innamorato, e se è vero che la declinazione malinconica era stata adottata già nel Filostrato, dove, dopo aver parlato della propria «gravissima noia» (torna di nuovo questo importante termine), si paragonava a Troiolo, l’infelice amante di cui il poemetto narra la tragica storia. Se nelle ottave giovanili il racconto diventava l’occasione per sfogarsi e trovare una compensazione al dolore, nel Decameron alla «noia» si contrappone un «rifrigerio» – cioè “consolazione” –, che consiste nei «piacevoli ragionamenti» con cui gli amici consolarono l’Autore al tempo della triste gioventù amorosa (§ 4) e nelle «novelle» che oggi egli intende offrire alle interlocutrici per distrarle, fornendo loro «alcuno alleggiamento» (§ 7), cioè un qualche conforto. Nelle prime pagine dell’opera la narrazione novellistica è dunque proposta come una cura contro la «malinconia» che affligge le donne segregate in casa, fornendo al tempo stesso «utile consiglio» e «diletto» (§§ 13-14; «miscere utile dulci»,

“unire l’utile al dilettevole”, era un antico precetto del poeta Orazio che circolò ampiamente nel Medioevo italiano). Come si può notare, appare subito confermata l’immagine del cerchio che abbiamo appena illustrato. Autore e Lettrici (chiameremo sempre così la funzione ricevente inscritta nell’opera) sono co-implicati nella comunicazione letteraria: essi sono cioè in dialogo. E proprio un dialogo caratterizza la seconda apparizione dell’Autore, quando prende la parola per difendersi dalle malevole accuse che gli sarebbero state rivolte dopo la diffusione delle prime trenta novelle. Le accuse riguardano: 1) la scelta delle donne come destinatarie privilegiate; 2) la sconvenienza della materia troppo bassa per un autore maturo, che dovrebbe occuparsi di argomenti seri; 3) la futilità dei racconti narrati («ciancie»); 4) la scarsa remuneratività della scrittura novellistica (cioè lo scarso rilievo sociale e professionale di un’opera di tal tipo); 5) la falsità dei racconti (cioè il fatto che egli non si sia attenuto alle versioni note). In questo secondo passaggio, l’immagine che stiamo ricostruendo si rivela piuttosto complessa. Da un lato, infatti, il topos modestiae impone all’Autore di descrivere il proprio lavoro come opera dimessa, in prosa, scritta non in latino ma in fiorentino, con uno stile umile e senza pregio. Dall’altro, egli dichiara di volersi impegnare con serietà («io non intendo di risparmiar le mie forze»). In effetti, sebbene la difesa venga realizzata in maniera sintetica, vi è tuttavia ben riconoscibile una chiara divisione degli argomenti, frutto di una consapevole costruzione retorica. L’operazione è resa ancora più interessante da un elemento che riguarda il registro espressivo, cioè la scelta di adottare uno stile che non sia né accademico né violentemente polemico, adeguato a una «leggiera risposta». Facendo riferimento alle accuse ricevute, l’Autore spiega infatti che io con piacevole animo, sallo Idio, ascolto e intendo: e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze, anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggiera risposta tormegli [cioè: le parole cattive sussurrate dagli invidiosi] dagli orecchi, e questo far senza indugio. (IV Introd. 9)

L’impegno massimo consiste dunque nel rispondere con leggerezza, come evidenzia la scelta di anteporre alla difesa argomentata (e “seria”) il racconto di una «novelletta» piacevole e istruttiva nella quale si dimostra che l’amore è una potenza naturale.

Per la verità, l’Autore dichiara di voler narrare «non una novella intera» (§ 11); è però probabile che egli intendesse solo dire che il suo racconto non è inserito dentro la storia portante, che non è un prodotto dei giovani della brigata, e che dunque non può essere annoverato tra gli altri esemplari della raccolta. Ma in ogni caso resta confermato che l’arte narrativa assume un rilievo decisivo anche nel momento in cui si tratta di concettualizzare, di riflettere e di argomentare: raccontare possiede insomma una grande dignità conoscitiva, può veicolare anche concetti filosofici complessi. Il terzo luogo in cui l’Autore interviene in persona propria è la Conclusione dell’autore, dedicata alla difesa preventiva da alcune «tacite quistioni» (o domande sottintese) che potrebbero essergli rivolte da lettrici malevole. È importante osservare che in questo luogo Boccaccio: 1) rivendica una piena autonomia stilistica, affermando che il linguaggio letterario deve adeguarsi solo alla «qualità» delle novelle, cioè all’organizzazione tematica e narrativa (§§ 4-6); 2) sottolinea la centralità dell’intentio lectoris, affermando con decisione che è l’orizzonte culturale e morale di chi legge a orientare il senso. Rispetto alla negatività del lettore cattivo o malevolo, nella stessa Conclusione viene invece ribadito il modello positivo costituito dal gruppo dei dieci giovani che si scambiano i racconti nel corso dell’opera. Il primo cerchio risulta così implicato con il secondo (quello dello scambio narrativo), il quale a sua volta, come dicevamo, si estrinseca nel cerchio più interno della vicenda raccontata. A proposito delle co-implicazioni narrative, è interessante osservare un breve passaggio della Introduzione della I giornata. Dopo aver descritto i catastrofici effetti della peste su Firenze, proprio nel punto in cui si accinge a presentare l’incontro dei dieci nella chiesa di Santa Maria Novella («addivenne [...] che»), l’Autore avverte le Lettrici che egli conosce i dettagli perché gli sono stati raccontati «da persona degna di fede» (§ 49). Non sono forniti altri indizi sull’identità di questa «persona», ma è ovvio che si tratta di qualcuno informato dei fatti: e chi altro può essere a conoscenza di quanto accade alla «lieta brigata» durante la permanenza fuori città se non uno dei componenti del gruppo? La storia interna della produzione boccacciana indurrebbe a identificare in Fiammetta l’informatore, ma certo non è lecito andare troppo oltre. Sta di fatto che l’anello esterno Autore-Lettrici risulta in questo modo ancora più saldamente intrecciato all’anello intermedio (e davvero fondamentale)

della cornice: è solo da qui, infatti, che è possibile sia scendere al livello delle novelle sia risalire a quello del Libro. A conferma di questo intreccio c’è un fatto un po’ strano, che la critica ha debitamente messo in evidenza a partire da un saggio di Lucia Marino. Nella Conclusione della III giornata Filostrato, uno dei personaggi, fa un curioso riferimento a se stesso, affermando che il suo nome «per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire mi fu imposto» (III Concl. 6). L’impositio nominis, nel caso di personaggi letterari, è ovviamente un privilegio dell’autore; nel caso del Decameron la cosa è addirittura conclamata, giacché è lo stesso Autore a spiegare di aver attribuito ai giovani della brigata «nomi alle qualità di ciascuno convenienti», celando così la loro identità affettiva (I Introd. 51). Ora, siccome Filostrato non può aver saputo nel 1348 – cioè all’epoca dei fatti – che alcuni anni più tardi uno scrittore fiorentino gli avrebbe dato quel nome per inserirlo in una sua opera, è evidente che qui si realizza un altro corto circuito tra il cerchio esterno e quello intermedio, rafforzato dall’evidente riferimento all’omonima opera giovanile (il poemetto in ottave intitolato appunto Filostrato). Si tratti di uno scherzo fatto al lettore o di un vero e proprio errore di Boccaccio nel rivedere il testo, appare in ogni caso ineludibile il carattere metaletterario dell’osservazione di Filostrato, di cui occorre distinguere due diversi significati. In quella breve battuta vengono infatti sottolineate: 1) la congruenza tra il nome del personaggio, la sua “personalità individuale” e la scelta del tema che impone alla brigata (poiché Filostrato va interpretato come “abbattuto d’amore”, le novelle raccontate durante il suo regno avranno per argomento gli amori finiti tragicamente); 2) la conseguente sapienza dell’Autore nello scegliere i nomi più opportuni per i suoi personaggi. È una prova ulteriore dello stretto legame costituito tra libro e Autore, tra l’organismo letterario e il suo principio unificatore, tanto più necessario per un’opera come il Decameron che si muove in due direzioni non facilmente conciliabili, in quanto è al tempo stesso il racconto di un’unica vicenda (la storia di dieci giovani durante la peste a Firenze) e il racconto di cento diverse vicende (le novelle narrate durante il soggiorno in contado). È un punto sottolineato peraltro dallo stesso Autore, il quale, in un interessante passaggio della già ricordata Introduzione alla IV giornata, afferma che le sue «novellette» sono scritte «senza titulo» (§ 4).

Con questa formula, egli non intende certo sconfessare il titolo proposto nell’incipit (e ripetuto nell’explicit), sul quale ci soffermeremo tra poco (cfr. infra, par. III.3). Vi è qui, invece, una precisa allusione agli Amores, una raccolta poetica di Ovidio che, a causa della materia molteplice che vi è affrontata, nel Medioevo era anche conosciuta come Sine titulo. Viene qui dunque proposta una similitudine: come nell’opera ovidiana non c’è la storia unitaria di un solo amore, ma tanti diversi racconti di tanti diversi amori, così nel Decameron non si legge la storia di un solo personaggio (come, per esempio, nell’Eneide di Virgilio o nella Commedia di Dante Alighieri), ma tante diverse novelle con le storie di tanti diversi personaggi. Per lottare contro la dispersione orale del racconto, contro quella atomizzazione narrativa tipica di ogni cultura e di ogni epoca, Boccaccio stringeva la sua opera in una forma-libro che voleva inalterabile e alla quale associava una precisa e forte immagine di Autore.

III.3. Il posto del Lettore: anzi, delle Lettrici Per la logica interna al sistema del dialogo, è evidente che a un’immagine dell’Autore corrisponda un’immagine del Lettore. Queste immagini sono entrambe parti integranti del progetto letterario di Giovanni Boccaccio, salvo che nel Decameron, come abbiamo già osservato, la seconda è, per così dire, al femminile plurale: l’Autore si rivolge infatti a delle Lettrici. La scelta era innovativa sotto diversi aspetti. Intanto, perché convocava le donne all’interno di un’opera che non si rivolge al semplice intrattenimento, giacché le novelle devono porgere, come si legge nel Proemio, «diletto» e «utile consiglio». Ne risulta una centralità intellettuale del mondo femminile che, se per certi versi s’inserisce nella scia della grande lirica stilnovistica, la supera perché fa della donna non l’oggetto della lode o il tramite della beatitudine (comunque privi di autonomia), ma un soggetto di conoscenza: nella prospettiva filogina boccacciana la lettrice è la vera protagonista del processo di comprensione e interpretazione delle novelle. La novità di inserire il lettore all’interno di una raccolta narrativa è del resto l’effetto di un modello profondamente dialogico e partecipativo dell’esperienza letteraria, che trova la sua più coerente raffigurazione nella brigata dei dieci giovani, su cui ci soffermeremo alla fine di questo capitolo (cfr. infra, par. III.5).

Ma essere protagonisti significa essere responsabili, e dunque significa rischiare. In effetti, come tanti anni dopo lo stesso Boccaccio scriverà al suo amico Mainardo Cavalcanti, l’opera potrebbe nuocere alle donne, potrebbe indurre in loro convincimenti errati, potrebbe spingerle ad assumere comportamenti imitativi anche pericolosi. L’Autore vi torna più volte in maniera più o meno esplicita, ma la questione è così urgente, così centrale, che vi si allude addirittura sin dal titolo, ripetuto, perché non vi siano dubbi, in testa e in coda all’opera, come mostra la totale sovrapponibilità tra l’incipit («Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto») e l’explicit («Qui finisce la Decima e ultima giornata del libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto»). La prima parte del titolo è piuttosto chiara e, come vedremo dopo (cfr. infra, par. III.5), ricalcando il titolo dell’Hexameron di sant’Ambrogio, si riferisce al fatto che la narrazione di novelle si prolunga per dieci giornate. La seconda parte è invece più insidiosa, perché nasconde l’allusione a un passo, ancor oggi assai famoso, della Commedia dantesca. Nel canto V dell’Inferno il personaggio Dante, guidato da Virgilio, entra in contatto con le anime condannate alla pena eterna a causa della lussuria di cui peccarono in vita. Trascinati da una bufera che non dà loro mai pace (così come il vento della passione li agitò in vita, secondo la nota legge del contrappasso), lungo le pareti del cono infernale girano vorticosamente in circolo numerosi celebri amanti, come le antiche Semiramide, Didone ed Elena, o ancora Paride e il più recente Tristano. All’improvviso appare una coppia che, nonostante la furia del turbine, procede sempre appaiata, replicando nell’oltretomba quel legame che li unì in vita; Dante, commosso dalla scena, chiede di poter parlare con loro, venendo così a scoprire che si tratta di Paolo e Francesca, due amanti protagonisti qualche anno prima a Rimini di uno scandalo erotico finito tragicamente nel sangue. Nel corso del dialogo, Dante, mostrando una curiosità forse eccessiva, chiede a Francesca di spiegargli il modo in cui nacque il loro amore, e la donna gli risponde che essi si dichiararono durante la lettura di un libro, più precisamente un romanzo cavalleresco: la storia che stavano leggendo li sedusse tanto che si sentirono spinti a imitarla. Concludendo il racconto del suo innamoramento, l’anima dannata esclama: «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse» (Inf. V 137).

Francesca allude all’episodio del Lancelot du Lac (romanzo francese in prosa del XIII secolo) in cui Lancillotto si introduce nella camera di Ginevra, la moglie di re Artù, che è peraltro il suo signore, mentre Galeotto, suo compagno fidato, rimane alla porta per fare la guardia. Con la sua esclamazione, la donna stabilisce un chiaro parallelo tra il personaggio che favorisce l’amore peccaminoso di Lancillotto e Ginevra e la vicenda da lei vissuta, dove un oggetto – più precisamente un libro d’amore e di avventure – ha creato le condizioni favorevoli perché scoppiasse il suo amore (e ne scaturisse la sua conseguente dannazione). Questo è dunque il vero peccato di Francesca: aver confuso la vita con la letteratura, replicando nella sua esperienza personale una vicenda che doveva invece restare relegata nella sola immaginazione. Noi conosciamo bene la grande ammirazione che Boccaccio nutrì per tutta la sua vita nei confronti di Dante Alighieri. Di conseguenza, è piuttosto improbabile che egli abbia voluto rendere omaggio al grande poeta alludendo a un episodio della Commedia concluso da un duplice omicidio e dalla condanna per l’eternità di tutti i protagonisti, vittime comprese. E tanto meno è probabile che egli, richiamando quell’episodio addirittura nel titolo della sua opera, intendesse avvertire il lettore di non leggere il Decameron per non rischiare di finire all’inferno. Col duplice riferimento  – alla Commedia e al precedente romanzo di Chretien de Troyes – egli aveva invece un duplice obiettivo: da un lato, intendeva nobilitare in senso cortese il mondo culturale fiorentino; dall’altro, voleva sollecitare il lettore a leggere con attenzione la sua opera, a instaurare una più complessa relazione ermeneutica col libro che aveva tra le mani, a non lasciarsi irretire dalle fole della letteratura. Alludendo al destino di Francesca da Rimini, il titolo prescrive dunque un’adeguata competenza interpretativa per il corretto consumo dell’opera: le donne che non possiedono questi fondamentali mezzi intellettuali non possono essere coinvolte nel processo letterario. È quanto ribadisce subito dopo il Proemio, nel quale viene proposta una netta distinzione all’interno del mondo femminile, separando le donne innamorate («in soccorso e rifugio» delle quali l’opera è stata infatti preparata) dalle donne cui bastano i lavori di casa («l’ago e ’l fuso e l’arcolaio», leggiamo al § 13). Ovviamente è difficile, se non impossibile, attribuire un’identità precisa, sotto il profilo storico e sociologico, ai due gruppi; anzi, è piuttosto probabile che Boccaccio non avesse in mente persone o riferimenti riconoscibili. È però

piuttosto evidente che qui egli adottava la tipica prospettiva stilnovista sulla nobiltà («Amore e ’l cor gentil sono una cosa», aveva ripetuto Dante nel ventesimo capitolo della Vita nuova sulla scorta della celebre canzone di Guinizelli Al cor gentil), riprendendola in termini generici ma di grande efficacia simbolica: le Lettrici del Decameron sono quelle che conoscono l’amore e che sono consapevoli del fatto che il racconto è un sollievo efficace contro la passione erotica, nonché un elemento che consente di ragionare sulla propria condizione, di riflettere su quanto si è vissuto. Si coglie qui con estrema evidenza il motivo per cui Boccaccio ha realizzato il primo cerchio (Autore-Lettrici) della struttura narrativa del Decameron, portando una decisiva innovazione rispetto ai modelli che poteva utilizzare. Il Lettore è infatti assente nelle varie versioni del Libro dei sette savi, è assente nel Novellino, ed è assente nelle raccolte di exempla, dove peraltro manca anche la cornice. Non che in queste opere non fosse previsto un lettore (altrimenti nessuno si sarebbe curato di realizzare un libro), ma non era progettata una immagine del lettore, una rappresentazione ideale del fruitore, dotato di caratteri specifici cui fosse affidato un compito precisamente delineato. Prendiamo un esempio concreto, il Dolopathos, realizzato verso la fine del XII secolo: l’autore, il monaco Giovanni di Alta Selva, invia il suo libro a Bertrando, vescovo di Metz. Dunque vi è un “lettore previsto”: ma è soltanto il dedicatario (e forse fu anche uno di coloro che effettivamente lessero del testo), non è il lettore ideale che l’autore prefigura, e soprattutto non è una figura interna al progetto dell’opera, cui sia demandato un compito e cui sia imposta una responsabilità. Il vescovo è un «padre», come afferma lo stesso autore: egli è dunque il garante del progetto culturale (portare per iscritto, e in latino, raccontini popolari circolanti nei poveri volgari delle donne del luogo), non ne è l’immagine del destinatario, il modello di fruitore che va coinvolto in uno specifico progetto culturale. Diverso potrebbe sembrare il caso di quelle raccolte di racconti che hanno una cornice di tipo dialogico, nella quale si legge uno scambio di battute tra due o più interlocutori. Anche in questo caso, tuttavia, si deve al massimo pensare a una possibile identificazione del lettore reale con il personaggio dell’ascoltatore cui, all’interno del testo, è rivolto il racconto del narratore di turno (di solito un saggio, come accade, ma sul versante basso e parodico, nel Dialogo di Salomone e Marcolfo): manca dunque anche

in questo caso una “immagine” del lettore. Lo conferma il caso più complesso di questa tipologia di raccolte, il Conde Lucanor, un’interessante opera castigliana scritta un paio di decenni prima del Decameron, nella quale Lucanor, a mano a mano che ascolta gli exemplos raccontatigli dal suo consigliere Patronio, li fa raccogliere in un libro. L’autore storico, don Juan Manuel, è ben consapevole della pratica effettiva manoscritta attraverso la quale si realizzava a quel tempo la trascrizione e la conservazione dei testi (ne parla esplicitamente nella premessa iniziale), ma non fa mai riferimento a un lettore presente all’interno del libro. Stesso caso anche per il Novellino, al cui fruitore è offerta un’illustrazione delle finalità dell’opera, senza che però si preveda una sua implicazione nella costruzione del testo e nella sua interpretazione. Le raccolte narrative medievali proponevano dunque una suite di testi singoli, collegati attraverso un principio esterno, tra cui il lettore poteva scegliere come procedere, eventualmente riutilizzando i racconti a proprio piacimento. Il Decameron, al contrario, impone di seguire un percorso preciso, lungo il quale lo sviluppo narrativo produce una maturazione intellettuale, dei personaggi e dello stesso fruitore. L’opera, possiamo allora concludere, racconta, tra le altre, anche la storia delle Lettrici: che è la storia del rapporto che esse intrattengono con le vicende narrate, la storia della loro attività interpretativa. L’Autore lo chiarisce in diverse occasioni, si tratti del veloce riferimento all’«utile consiglio» nel Proemio o dell’appello alle Lettrici nell’Introduzione della quarta giornata. L’attenzione di chi legge è dunque sollecitata più volte nel corso dell’opera, in particolare quando si fa riferimento alle reazioni della brigata all’ascolto di una novella o quando si mette in evidenza il comportamento di uno dei giovani. Ma è nella Conclusione dell’autore che questo fondamentale aspetto si chiarisce definitivamente, quando, anticipando i possibili rimproveri che potrebbe ricevere per aver utilizzato espressioni ambigue ed esplicite allusioni sessuali, l’Autore afferma che «[n]iuna corrotta mente intese mai sanamente parola» (Concl. aut. 11), affermando con forza la responsabilità del fruitore, ribadita dal recupero, dopo l’apparizione nel lontano Proemio dell’opera, dell’importantissimo termine «consiglio»: «Chi vorrà da quelle [scil. novelle] malvagio consiglio e malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno a alcuno» (Concl. aut. 14). È l’antica lezione di Francesca: una bella storia, di per sé, non invita né al bene né al male; essa può intrattenere e può distrarre, può sedurre e può

anche far riflettere. Se si imita nella vita reale quel che si è ascoltato o si è letto, la responsabilità non è di chi ha raccontato o scritto, né di come si è raccontato o scritto; la responsabilità è di chi non ha saputo considerare l’ambivalente, ambigua, pericolosa potenza fantastica insita nei racconti.

III.4. La cornice: un sistema statico Abbiamo già visto che alle spalle del Decameron esiste una ricca produzione narrativa medievale, di natura popolare e di natura letteraria, radicata nei costumi antropologici di una cultura per tanti versi ancora saldamente ancorata al mondo risonante dell’oralità, e al tempo stesso occhieggiante alla più consapevole tradizione scritta, latina (per esempio le Metamorfosi di Apuleio, libro assai caro a Boccaccio) e orientale. Il contatto tra oralità e scrittura aveva trovato forma nell’espediente della cornice, cioè la situazione narrativa esterna che conteneva i diversi racconti mettendone in scena il momento della produzione orale: su questa linea, ma con una spiccata intenzione innovatrice che rafforza la descrizione della performance dei narratori, s’inserisce il capolavoro di cui ci stiamo occupando. Per capire la novità dell’opera boccacciana riprendiamo il Dolopothos sive Historia septem sapientium, dov’è fedelmente recuperato lo schema narrativo tipico di questa tradizione. Lucinio, il figlio di Dolopato, re di Palermo, viene accusato ingiustamente dalla matrigna di aver tentato di violentarla; il padre condanna a morte il figlio, il quale non può difendersi perché (secondo il tipico tema romanzo del don contraignant) ha promesso a Virgilio, il suo maestro, di non parlare fino a che questi non riappaia. La mattina seguente, quando la sentenza sta per essere eseguita, innanzi alla folla raccoltasi per l’occasione si presenta un misterioso e anziano viandante, il quale si rivolge al re perché gli spieghi che cosa sta accadendo. Ricevuta la risposta, il vecchio saggio racconta una storia che dimostra i pericoli derivanti dalle scelte avventate e dalla malvagità delle donne. Il re, ascoltato a sua volta il racconto, non accoglie la richiesta del vecchio di liberare Lucinio, ma concede che la condanna sia posticipata di un giorno. Lo schema si ripete per sei volte, finché, la mattina del settimo giorno, quando ormai la folla degli alleati della matrigna reclama l’esecuzione, si presenta lo stesso Virgilio, che libera il giovane dall’obbligo di tacere. La vicenda si conclude con la messa a morte della

donna cattiva e l’esaltazione della virtù di Lucinio (il quale, peraltro, qualche tempo dopo si converte al cristianesimo). Come si può facilmente notare, questo tipo di cornice presenta due caratteri principali: 1) la narrazione è unidirezionale; 2) lo schema è aperto. Per quanto riguarda il primo punto si osserva infatti che i racconti sono tutti presentati dallo stesso tipo di narratore (i sette saggi) e rivolti allo stesso ascoltatore (il re Dolopato); il modello è così coerente da dare addirittura il titolo all’opera Dolopato (il destinatario) ossia la Storia dei sette sapienti (i narratori). Per quanto riguarda il secondo punto, è invece evidente che nell’impianto narrativo non vi è nulla che impedisca di rinviare all’infinito l’esecuzione del ragazzo. Questo è del resto esattamente quel che succede nelle Mille e una notte a Sherazade, che ogni notte, raccontando una storia al sultano che l’ha condannata a morte, fa sospendere la sentenza fino al giorno dopo. Si potrebbe anzi aggiungere che proprio la possibilità di continuare interminabilmente a raccontare costituisce il senso più profondo di questo modello narrativo. In ogni caso, è evidente che Giovanni Boccaccio si mosse in una direzione del tutto diversa, optando per uno schema originalissimo, basato sulla pluridirezionalità e sulla chiusura. Per capire l’importanza del primo aspetto, torniamo al luogo della Introduzione della prima giornata (§ 111), in cui si decide d’intrattenersi «novellando». Conosciamo già lo sfondo: a Firenze c’è la peste e le sette giovani donne e i tre giovani uomini che si sono incontrati nella chiesa di Santa Maria Novella hanno deciso di rifugiarsi in una villa del vicino contado. Una volta sistematisi, si pone il problema di come passare il tempo. Pampinea consiglia allora di evitare i giochi e le attività agonistiche, che, per il loro carattere competitivo, possono far sorgere dissapori tra i partecipanti: in loro sostituzione, aggiunge la donna, si potranno raccontare delle novelle, giacché, «dicendo uno», si offre diletto «a tutta la compagnia che ascolta» (§ 112). Dalla proposta di Pampinea si evince con chiarezza che il principio della multidirezionalità è basato sullo scambio reciproco: ciò vuol dire che non c’è un saggio che educa il suo ascoltatore, ma un circolo di pari, impegnati tutti allo stesso modo ad ascoltare e a raccontare. La forma dello scambio risponde dunque a un’impostazione “politica” e culturale profonda, come conferma la decisione di incoronare ogni giorno la regina o il re cui spetta di organizzare la giornata seguente e di fornire il tema di cui si ragionerà.

In astratto, anche la successione tra i dieci narratori potrebbe non terminare mai, giacché finito il primo giro in cui ognuno di loro è stato eletto re, sarebbe teoricamente possibile ricominciare da capo. Ciò nonostante, va sottolineato con chiarezza il fatto che una struttura basata sulla ripetizione di un unico identico schema (un vecchio arriva una mattina e racconta una storia; oppure una schiava racconta ogni notte una storia per rinviare la sua esecuzione capitale) non presenta nessun limite seriale, mentre al contrario la circolazione della reggenza implica che il circolo debba essere compiuto e dunque avere fine, prima che un altro circolo si possa formare. In altri termini, il solo fatto che Boccaccio abbia immaginato di mettere insieme i suoi dieci giovani in uno spazio circoscritto implica di per sé un certo sviluppo narrativo e la necessità del suo soddisfacimento (arrivare fino a dieci). Stabilita la chiusura del sistema, inevitabilmente esso tenderà anche a una maggiore strutturazione interna, a un più limpido distribuirsi delle parti. A questo proposito, è interessante osservare che la cornice decameroniana viene anche chiamata, come già sappiamo, «novella portante», espressione in cui è allusa una certa consistenza narrativa, la presenza, appunto, di una storia: il racconto della vita di una «brigata» di sette giovani donne e tre giovani uomini che, incontratisi un martedì nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze durante la peste, partono insieme il giorno successivo alla volta di una villa in contado non molto lontana dalla città, cui fanno ritorno il mercoledì di due settimane dopo. All’astratta numerologia del “dieci”, numero perfetto già utilizzato da Dante per edificare il suo poema, si aggiunge pertanto la distribuzione mondana – terrena, e anzi “politico-economica” – della settimana, qui semplicemente raddoppiata. In effetti le dieci giornate narrative si distendono nei quindici giorni che vanno dal martedì della partenza all’ultimo martedì di narrazione (quando si svolge la decima giornata), in quanto Neifile, una volta eletta regina, stabilisce che il venerdì sia consacrato alla preghiera e il successivo sabato all’igiene personale (II Concl. 5-6), in ossequio a una distribuzione razionale del tempo che la settimana successiva viene confermata da Lauretta (VII Concl. 16-17). La dimensione numerologica non va comunque sottovalutata. Boccaccio, in effetti, già nelle opere napoletane aveva mostrato un grande interesse per i rapporti simbolici tra le parti e per i significati più o meno astrologici abitualmente collegati ai numeri. È evidente, per esempio, che

egli abbia scelto il numero dieci in quanto somma degli altri due numeri perfetti: il sette (quante sono le donne) e il tre (quanti sono gli uomini). Ma nel testo si possono individuare numerose altre relazioni simmetriche, a partire dai rapporti tra le singole novelle o dal posizionamento strategico di alcuni momenti della vita della brigata. Di regola, queste relazioni sono evidenziate dalla presenza di numeri significativi che spesso si richiamano tra di loro: è il caso della messa in relazione tra la novella di ser Cepparello (I 1) e quella di madonna Oretta (VI 1), o tra la stessa I 1 e la VI 10 (in cui frate Cipolla con una squinternata predica degna di un imbonitore giullaresco inganna i contadini di Certaldo), o ancora tra la IV 5 (il tragico caso di Elisabetta da Messina) e la V 4 (il felice caso di Ricciardetto Mainardi con la figlia di Lizio da Valbona), che ne è la semplice inversione numerica (dalla successione “4, 5” a quella “5, 4”). Altri tipi di relazione sono inoltre stabiliti, a livello del contenuto, dai temi e dai motivi narrativi. Sappiamo per esempio che, a partire dalla prima giornata (a tema libero), ogni sera il re o la regina stabiliscono l’argomento generale che dovrà essere affrontato il giorno dopo, e sappiamo che da quest’obbligo è sollevato il solo Dioneo, che gode pertanto di uno specifico «privilegio» (cfr. infra, par. III.5). Ciascuna giornata riceve di conseguenza una forte unità interna dalla scelta tematica unitaria; tra le giornate possono inoltre stabilirsi collegamenti dovuti alla ripresa o al rovesciamento del tema precedente: vi è rovesciamento tra la quarta e la quinta giornata, col passaggio dagli amori che terminano tragicamente agli amori che terminano bene (e allora non stupisce che il rapporto tra IV 5 e V 4 sia sottolineato anche dal punto di vista numerologico); la ripresa è invece presente tra la settima e l’ottava giornata, entrambe dedicate alle beffe. La ricorrenza di aspetti specifici del tema, o meglio l’iterazione di alcuni elementi narrativi più circoscritti, rafforza inoltre il collegamento tra le singole novelle, come accade con la ripresa del motivo detto “del cuore mangiato” in IV 1 e IV 9, novelle che, già vincolate reciprocamente dal fatto di occupare la prima e l’ultima posizione nel trattamento del tema della giornata (la decima novella è infatti narrata da Dioneo, che, ricordiamolo, è libero di scegliere il suo argomento), sono ulteriormente collegate dal comune recupero di un contenuto folklorico assai fortunato nella lirica e nella narrativa cortesi. È importante sottolineare che queste relazioni interne all’opera non vanno considerate come una semplice curiosità o il frutto di un qualche

interesse arcano alla base del lavoro di Boccaccio. Si tratta invece dell’individuazione da parte dell’autore di uno dei dispositivi principali per ridurre la molteplicità dei racconti in unità di forma, mettendo assieme il raggruppamento tematico della materia caratteristico della tradizione occidentale (lo si trovava nelle raccolte di exempla) con la spinta educativa e dialogica tipicamente orientale. La cornice del Decameron risponde infatti sia alla necessità di organizzare la narrazione intorno a dei temi cui i narratori devono obbligatoriamente attenersi (con l’eccezione di Dioneo), sia all’obiettivo di marcare lo sviluppo diegetico nel senso dell’autoeducazione dei giovani narratori. A questo proposito è interessante osservare che nel corso del secondo Novecento due diverse ipotesi interpretative si sono confrontate per spiegare la distribuzione delle cento novelle e la successione dei temi: secondo l’ipotesi di Vittore Branca, il passaggio dalla prima novella della prima giornata alla decima novella della decima giornata risponde a un modello ascensionale, che va dal massimo dell’abiezione rappresentata da ser Cepparello (I 1) al massimo della pazienza e della modestia rappresentato da Griselda (X 10); a parere di Pamela Stewart e altri, invece, la distribuzione delle novelle risponderebbe a un modello “a baricentro”, in base al quale la centralità strutturale, numerologica, di madonna Oretta (VI 1 = cinquantunesima novella) corrisponde alla sua centralità concettuale, in quanto novella che affronta una questione “tecnica”: il saper novellare. Sebbene sia difficile individuare un’effettiva proiezione ascensionale del Decameron, va però detto che anche il passaggio da I 1 a X 10 è stato fortemente valorizzato anche da qualche commentatore antico; così come, del resto, nel Cinquecento fu assai diffusa l’identificazione di madonna Oretta come personaggio dalla condotta esemplare. Sulla possibile interpretazione del rapporto inizio/fine torneremo comunque più avanti (cfr. infra, cap. VII); qui è intanto opportuno ribadire l’influenza della Commedia sulla struttura dell’opera boccacciana: come infatti nel poema dantesco il primo canto illustra la negativa condizione di partenza, così la vicenda del Decameron è segnata dall’«orrido cominciamento» della peste (I Introd. 4). Si può allora concludere che la coerenza architettonica dell’opera boccacciana è l’effetto di una geniale sintesi tra la tradizione orientale dell’incorniciamento e la nuova

costruzione di una storia esemplare (cioè con valenza universale) realizzata da Dante Alighieri nel suo poema. Ancora per quanto riguarda la staticità e la chiusura dell’opera, ossia la sua compattezza testuale, essa si basa su due configurazioni spaziali. La prima è evidente sin dalle prime battute della vita in comune, quando la brigata si raccoglie «in cerchio» per decidere con quale gioco passare il tempo (I Introd. 109); va sottolineato che la posizione è conservata dai giovani anche dopo aver deciso l’elezione della regina, diventando così l’emblema, ossia la realizzazione visiva di un simbolo: il cerchio raffigura infatti la parità dei giovani. Se il cerchio è figura emblematica della parità di condizione dei dieci componenti, vi è un’altra figura che ne mette in risalto la qualità sociale e la separatezza rispetto alla vita ordinaria: la staticità centripeta della cornice è infatti rappresentata dall’«immagine centrale del libro», ossia, come ha spiegato Lucia Battaglia Ricci, dal giardino, che è lo spazio dentro il quale regolarmente si svolgono i ragionamenti della brigata. Facendo precipitare insieme modelli assai differenziati (dal paradiso terrestre del Purgatorio dantesco al giardino di Deduit nel poema allegorico antico francese intitolato Roman de la Rose, o semmai alle sue stesse opere giovanili, come il giardino del IV libro del Filocolo), Boccaccio cristallizza l’idea di equilibrio e armonia con la raffigurazione di una distribuzione – razionale, ordinata e massimamente piacevole – di acque, alberi e distese fiorite. Recuperando il modello cortese e innovando gli elementi più o meno antichi di un ideale utopico di lungo periodo – come mostra in particolare la presenza di piante di agrumi nel Decameron –, l’autore s’inseriva con forza nel dibattito contemporaneo, polemizzando con l’immagine penitenziale del Trionfo della morte presente tra gli affreschi che decorano il Camposanto Vecchio di Pisa: se lì gli anonimi artisti avevano voluto condannare il modello culturale cortese ispirato a una morale edonistica, al contrario lo scrittore fiorentino intende proporre un progetto di convivenza serena basata sullo scambio verbale e ispirata a «una morale rispettosa della vita e delle passioni» (come si è espressa la stessa Battaglia Ricci). Un’ultima osservazione sui componenti della brigata riguarda i loro nomi, che il Narratore di primo grado dichiara di aver scelto «non senza cagion» (§ 51). Gli studiosi si sono a lungo interrogati sul significato di questi nomi e sul loro eventuale senso allegorico, nonché sui legami tra i giovani che essi consentirebbero di dedurre. Probabilmente non è lecito

spingersi troppo oltre in una tale ricerca, se non altro perché non possediamo alcuna indicazione d’autore che ci possa indirizzare opportunamente. Tuttavia è senza dubbio vero che – al di là del gusto numerologico soddisfatto dalla somma del tre col sette – i nomi contengono chiare allusioni alla letteratura prediletta da Boccaccio. Così è per Lauretta, forse un omaggio alla donna del Canzoniere petrarchesco, e per Neifile (la “nuova innamorata”), in cui si è colto un riferimento alla Vita nuova, mentre Elissa rimanda di sicuro alla letteratura virgiliana, giacché il suo è il nome alternativo della regina Didone. In tutti gli altri casi vi è invece un richiamo più o meno esplicito a precedenti opere boccacciane: il caso di Pampinea (la “rigogliosa”) è quello più incerto, e tuttavia appare già nella Comedia delle ninfe fiorentine e nel Buccolicum carmen; Filomena è la dedicataria del Filostrato; Emilia è la protagonista del Teseida; Fiammetta, infine, è personaggio centrale nella prima produzione boccacciana, nonché protagonista dell’Elegia di madonna Fiammetta, il primo romanzo in prosa della letteratura italiana che sia scritto in prima persona. Per i maschi, si sottolinea l’apparizione di Filostrato (l’“abbattuto da amore”, secondo la falsa etimologia dell’Autore), protagonista del poema in ottave già ricordato, di Panfilo (il “tutto amore”), che è l’amante di Fiammetta nel romanzo appena citato; più sottile invece il caso del nome di Dioneo, che, se rimanda al mondo della sensualità (Venere era figlia di Dione), è però anche l’aggettivo con cui nella terza epistola in latino (del 1339) l’autore aveva descritto se stesso.

III.5. La brigata: un sistema dinamico La strutturale “chiusura” dell’opera, la sua tenuta e compattezza sono perfettamente rappresentate, abbiamo ripetuto con Lucia Battaglia Ricci, dall’immagine del giardino. Si tratta di uno spazio ricco di risonanze letterarie e mitologiche, a partire dal giardino dell’Eden sino ai ben più concreti giardini dei semplici (dove cioè si coltivavano le piante medicinali) dei conventi. Esso è infatti al tempo stesso il luogo dell’esclusività – perché è recintato, separato dal mondo esterno – e uno spazio lavorativo. Esso si situa inoltre all’intersezione tra natura e cultura, giacché le piante crescono ordinatamente, in obbedienza a un piano imposto dalla ragione umana. Esso, infine, stabilisce una triplice opposizione: con il campo agricolo, con la selva e con la città. La prima

contrapposizione riguarda il tipo di lavoro, che è brutale e faticoso nel campo, leggero e piacevole nel giardino. La seconda riguarda il tipo di esperienza: di movimento e avventura e pericolo nella selva, di stasi e conversazione e tranquillità nel giardino. La terza riguarda il tipo di società che i rispettivi spazi presuppongono: aperta e conflittuale, in città, chiusa e all’insegna della reciproca benevolenza nel giardino. Ragionare nel giardino significa dunque trovarsi a metà tra più mondi: si è lontani dai pericoli che si nascondono nella selva, dai conflitti della città e dalla fatica del campo; ma si è pure impegnati a realizzare una forma di convivenza sociale rispettando le regole che ci si è imposti. Quest’ultimo aspetto si comprende meglio quando si ricorda che all’origine del racconto portante vi è l’incontro delle giovani donne nella chiesa di Santa Maria Novella, il successivo arrivo dei loro tre compagni e la conseguente decisione di lasciare Firenze per sfuggire al contagio e, soprattutto, per sottrarsi all’impervertimento dei costumi sociali e dei comportamenti morali prodotto dalla peste. Quando si rilegge l’Introduzione della prima giornata risulta evidente che la «lieta brigata» non obbedisce al desiderio di un isolamento egoistico, ma al contrario si propone di rilanciare la vita associata: una scelta politica, che risponde alla frammentazione dei legami collettivi prodotta dalle condizioni eccezionali dell’epidemia. Risulta così oltremodo significativo che il titolo del Decameron contenga un’allusione precisa all’Hexameron, in cui sant’Ambrogio raccontava la creazione dell’Universo. Come lì il santo parafrasava e commentava il racconto biblico della Genesi, dove si racconta la creazione dell’universo culminante con l’apparizione dell’uomo nell’Eden, così Boccaccio propone nel suo libro la “ri-creazione” del mondo civile da parte di una cellula sociale, piccola ma rappresentativa della cultura cittadina, provvisoriamente rifugiatasi in un giardino. Le diverse ville che i dieci giovani occupano nel corso dell’opera vanno infatti considerate come qualcosa di ben distinto sia dallo spazio della campagna (il contado, come si diceva a Firenze: ed eccoci alla contrapposizione tra campo e giardino) sia dal castello feudale (espressione di un modello sociale non paritario). Insomma, l’opera boccacciana è tutta circoscritta dentro l’orizzonte urbano: pur sospesi nel tempo eccezionale della pestilenza e nello spazio circoscritto del giardino, in realtà i dieci non smettono mai di guardare alla città come al luogo fondativo della vita associata, quella società che

costituisce il cardine della loro esistenza e alla quale essi s’ispirano per fronteggiare la peste. L’autoeducazione in cui consiste la «novella portante» della brigata va in effetti interpretata come la reazione dei dieci protagonisti alla disgregazione politico-sociale prodotta dalla catastrofica epidemia. Ciò appare con chiarezza quando si rileggono le pagine dell’inizio dell’opera, dove si racconta lo stato di sfacelo in cui versa Firenze (I Introd. 32-42), tra dissoluzione delle famiglie e smarrimento di alcune fondamentali ritualità collettive (cfr. supra, par. I.1). Alla staticità e chiusura della cornice occorre dunque associare la dinamicità e apertura costitutive della vicenda della brigata in quanto basata sull’interscambio e in quanto orientata verso il progressivo apprendimento delle forme della convivenza. Il primo cardine della vita in comune è senza alcun dubbio la lietezza. Lo afferma con forza Dioneo immediatamente dopo l’arrivo in villa: io non so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare: li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora che io con voi poco fa me ne usci’ fuori. E per ciò o voi a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico, quanto alla vostra dignità s’appartiene), o voi mi licenziate che io per li miei pensieri mi ritorni e steami nella città tribolata. (I Introd. 93)

Come chiarisce bene l’incidentale («tanto, dico, quanto alla vostra dignità s’appartiene»), la vita lieta («festevolmente viver si vuole», ribadisce infatti Pampinea subito dopo: § 94) dev’essere contemperata col dovere di seguire una condotta onesta, cioè sempre ispirata alla «dignità» del proprio orizzonte sociale e culturale. Il “gioco” del novellare, in quanto attività che consente di “passare il tempo” evitando – come abbiamo già visto – la conflittualità prodotta dall’agonismo dei giochi e delle gare, sarà pertanto governato dal medesimo principio dell’onestà, cioè dell’onore e del decoro. Si tratta di un orizzonte tipicamente aristocratico, che il gruppetto di giovani fiorentini fa proprio sin dai primi momenti del ritiro, come ben si vede in questo brano in cui sono descritte le diverse fasi della vita in comune: Licenziata adunque dalla nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme con le belle donne, ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misero per un giardino, belle ghirlande di varie frondi faccendosi e amorosamente cantando. E poi che in quello tanto fur dimorati quanto di spazio dalla reina avuto aveano, a casa tornati trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo uficio, per ciò che, entrati in una sala terrena, quivi le tavole messe videro con tovaglie bianchissime e con bicchieri che d’ariento parevano, e ogni cosa di fiori di ginestra coperta; per che, data l’acqua allemani, come

piacque alla reina, secondo il giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere. Le vivande dilicatamente fatte vennero e finissimi vini fur presti: e senza più, chetamente li tre famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle e ordinate erano, rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono. E levate le tavole, con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente i giovani e parte di loro ottimamente e sonare e cantare, comandò la reina che gli strumenti venissero; e per comandamento di lei, Dioneo preso un liuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare. (I Introd. 103-106)

È tutto un ritmo della piacevolezza e della dignità onorevole, che riguarda il tono e gli argomenti della conversazione («ragionando dilettevoli cose»), la cadenza del passeggiare («con lento passo»), le attività in cui ci si impegna («belle ghirlande di varie frondi faccendosi e amorosamente cantando»). Non che il conflitto sia assente nel Decameron. Anzi, sono numerosi i casi in cui emergono le diverse personalità dei dieci giovani e i loro non sempre convergenti modi di comportarsi e di giudicare la realtà. Ma proprio la scelta iniziale di incentrare la vita associata sull’esercizio della parola permette di risolvere le contraddizioni in dispute verbali, in scambi linguistici e narrativi, sempre ispirati al rispetto delle regole condivise. Senza ripercorrere le diverse occasioni in cui i componenti della brigata si trovano in contrasto, qui basta ricordare che lo scontro è solitamente prodotto da novelle provocatorie, spesso interpretate in chiave tendenziosa da parte degli interlocutori: è quel che accade, per limitarsi a un solo esempio, con la provocazione lanciata da Dioneo nella novella I 4 e ammortizzata da Fiammetta, che ne propone una reinterpretazione moralmente ineccepibile. È importante considerare che non si tratta di un principio calato dall’alto, di una ragione esterna o di un precetto moralistico estraneo alla reale attività dei dieci giovani. Al contrario, l’onestà del gioco è chiaramente visibile nel sistema di invarianti che marca l’alternanza dei turni narrativi e la costruzione delle singole novelle. Il fatto che ogni volta sia riportato il commento della brigata alla novella appena ascoltata e che i Narratori intradiegetici introducano le proprie novelle con una massima morale o una riflessione di respiro teorico generale (semmai in riferimento ai racconti degli altri compagni) mostra che la cornice del Decameron non ha solo la funzione architettonica di tenere insieme la molteplice dispersione dei «casi» narrati, ma costituisce il campo nel quale

può realizzarsi quel complesso insieme di relazioni comunicative che caratterizza la vita della brigata. Ed è proprio questa profonda capacità di interagire restando sempre sul piano retorico e narrativo che fa dei dieci giovani un modello, così che una formula in apparenza generica e astratta – il “piacere onesto” – risulta l’effettivo strumento per realizzare un nuovo ordine sociale. La “vita” della brigata si rivela un processo di conoscenza (morale e retorica: comportamentale e situazionale) basato su regole della convivenza che non s’informano al principio statico di una Tavola della legge, ma al principio dinamico della circolazione narrativa. Anche per questo, se è vero che la brigata produce una vera e propria teoria del racconto, come ha proposto Edoardo Sanguineti, si tratta però di una teoria in fieri, incentrata, ha spiegato Renzo Bragantini, sulla collaborazione e la dialogicità. A questo scopo è decisiva la funzione affidata a Dioneo, il più spiritoso della compagnia fiorentina, cui è concesso, a partire dalla seconda giornata, di non attenersi al tema prefissato. Questo privilegio è sfruttato di solito dal narratore per proporre delle novelle che stabiliscono col precetto quotidiano una sorta di «adesione critica», talvolta anche di sovversione, semmai, come nel caso di V 10, nella forma dell’espletamento paradossale. Ma, soprattutto, Dioneo offre regolarmente una sintesi dei cardini narrativi della giornata, mettendosi in rapporto non con l’astratto tema che è stato indicato, quanto con le concrete soluzioni adottate dagli altri narratori. Un bell’esempio di come il dialogo intertestuale interno divenga motore dialettico è offerto dalla novella III 10, dove Dioneo, rivolgendosi ai compagni della brigata, afferma di non volersi allontanare «dall’effetto che voi tutto questo dì ragionato avete» (§ 3), per poi però raccontare non un esempio di «industria», ma un episodio incentrato sul desiderio sessuale: stabilendo un confronto implicito con le altre novelle, il giovane ne svela il funzionamento e la reale portata semantica, mostrando ai suoi compagni come essi per primi abbiano declinato in senso erotico il tema, di per sé neutro, prescritto dalla regina Neifile. Col suo atteggiamento provocatorio e spregiudicato, Dioneo fornisce allora una chiave d’interpretazione della giornata che diverge da quella proposta nel discorso ufficiale dell’Autore. Si tratta di una dialettica tra elementi strutturali (il primo e il secondo cerchio, ancora una volta) che rende più

opaca la comunicazione e che pertanto, come spesso accade nel Decameron, spinge il lettore a confrontarsi con la complessità dell’opera, partecipando a sua volta a quella dinamicità che ne è un carattere fondamentale.

Capitolo IV. Le coordinate dell’azione

IV.1. L’identikit del personaggio e la complessità del caso La prima novella del Decameron racconta la storia di ser Cepparello da Prato, un notaio che, come tanti suoi compatrioti del tempo, ha lasciato la nativa Toscana per andare a vivere a Parigi. Legato all’ambiente di Musciatto Franzesi, un abile mercante fiorentino divenuto cavaliere grazie alla sua ricchezza e alle amicizie politiche coltivate in Francia, è proprio a lui che Musciatto si rivolge per mettere a posto certi affari di prestito a usura che ha maturato in Borgogna. La prima descrizione del personaggio, pur assai sintetica («per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo»), è funzionale al tema, importante nella novella, della contrapposizione tra essere e apparire e della corrispondenza tra i nomi e le cose. Com’è chiaramente spiegato a testo, ciò è subito applicato alla complessione fisica del protagonista, giacché i parigini, non sappiendo [...] che si volesse dir Cepparello, credendo che “cappello”, cioè “ghirlanda” secondo il lor volgare a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello ma Ciappelletto il chiamavano: e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno. (I 1 9)

La rilevanza dell’aspetto linguistico è sottolineata anche nella rubrica – «Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto» (I 1 1) –, dove si nota bene che il passaggio da ser Cepparello a san Ciappelletto coincide con la trasformazione da «pessimo uomo» a «santo». L’individualità del personaggio viene così strettamente collegata al contesto ambientale, quasi fosse il frutto di una contrattazione tra le diverse forze sociali e culturali che si confrontano nella realtà storica.

Nello sviluppo della novella, il passaggio da pessimo uomo a santo (e da ser a san) è esaltato dalla dettagliata presentazione che Panfilo, il narratore, dedica al protagonista, mettendone in luce l’effettivo carattere: Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richesto, e quegli più volentieri in dono che alcuno altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e dandosi a quei tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava, e più volte a fedire e a uccidere uomini con le proprie mani si ritrovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ Santi era grandissimo, e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo. A chiesa non usava giammai, e i sacramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcuno altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitor grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giucatore e mettitore di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva iniuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato. (I 1 10-15)

Al di là della possibile storicità del personaggio (è provata l’esistenza di un Cepperello Dietaiuti da Prato), è necessario osservare che la descrizione è funzionale allo sviluppo del racconto, nonché alla presentazione non edulcorata dell’ambiente affaristico fiorentino all’estero (Musciatto protegge Cepparello perché un uomo senza scrupoli può tornargli utile). Concentrandosi sullo status professionale del personaggio e soprattutto sul suo profilo morale (che si caratterizza per la perfidia, la malizia gratuita, la violenza e l’aggressiva perversione sessuale), il Narratore prepara la mirabolante trasformazione del pessimo soggetto, realizzata attraverso tre macro-sequenze narrative: 1) partenza di Cepparello/Ciappelletto per la Borgogna, sua malattia e preoccupazione dei suoi ospiti che non sanno come risolvere il problema (§§ 16-26); 2) falsa confessione a un «santo e valente frate» (§§ 27-80); 3) morte esemplare del protagonista, sue esequie e sua apoteosi (§§ 81-88).

Lo sviluppo narrativo è un’evidente parodia dei racconti agiografici, cioè quelle storie, scritte in latino o in volgare, in cui erano esposte la vita esemplare e le opere (ossia i miracoli) dei santi. Risulta inoltre di particolare interesse che la tecnica con cui è realizzata questa parodia è basata sul rovesciamento della descrizione iniziale e al contempo sulla sua paradossale conferma. Nella confessione sono infatti recuperati tutti gli aspetti del carattere di Cepparello illustrati da Panfilo all’inizio della novella; essi, però, nelle parole del protagonista vengono mutati di segno, diventando, da orrendi vizi quali sono, prove di una straordinaria virtù (cfr. §§ 14 vs. §§ 39, 41, 46). Al tempo stesso, proprio perché rovescia la verità, la confessione conferma la propensione del protagonista alla falsa testimonianza e allo spergiuro: il che è tanto più grave perché, in vita, egli è stato notaio (e dunque ha abusato della fides publica che la professione gli conferiva) e perché, in punto di morte, ha mentito al frate (abusando della sua credulità e del particolare contesto comunicativo). Il rovesciamento è infine reso gustoso dal fatto che l’iracondia di un violento peccatore (§ 13) si risolve nella «buona ira» con cui l’uomo giusto può addirittura rimproverare i frati che non si comportano in maniera corretta (§ 50). La novella di ser Cepparello mostra in maniera esemplare quanto sia importante nell’opera boccacciana quel che Giancarlo Mazzacurati ha definito il «codice dell’identità» dei personaggi, ossia quella specie di «carta d’identità a rubriche fisse», contenente i «tratti economici, talvolta anche quelli fisionomici dei primi attori», cui spesso si aggiungono indicazioni sugli «attributi caratteriali» o su «altri elementi di psicologia sociale». Si tratta di un aspetto decisivo, forse riconducibile a quanto asserì Vittore Branca a proposito della dipendenza del Decameron dalla cultura mercantile che, coi suoi riti sociali e le sue nuove pratiche intrise di precisione e attenzione al dettaglio, introdusse importanti innovazioni anche sul piano della pratica scrittoria: dalla formalizzazione dei contratti alla nuova tendenza analitica della cronachistica contemporanea. Abbiamo in verità già osservato (cfr. supra, cap. II) che i più recenti studi fanno pensare che Boccaccio intendesse riferirsi a un orizzonte socioeconomico più vasto, come peraltro era già stato notato a proposito di alcuni aspetti della sua posizione culturale, per tanti versi convergente con la rappresentazione aristocratica e cortese a lui coeva (cfr. infra, cap. V). Ciò non toglie, tuttavia, che sotto il profilo delle tecniche narrative il capolavoro boccacciano sia effettivamente riconducibile alla nuova

attenzione per la concretezza dell’esperienza sociale e per la necessità di circoscrivere i fenomeni dentro coordinate chiare e precise. Ne consegue che il racconto sia spesso presentato come una sorta di sviluppo delle premesse fornite all’inizio della narrazione, così che la storia risulti quasi una conseguenza diretta del carattere dei protagonisti. Lo confermano le altre novelle della prima giornata, i cui personaggi sono quasi sempre figure dall’identità chiaramente riconoscibile, anche quando possono apparire generiche. È il caso dei due protagonisti della quarta novella, dove la contrapposizione tra un monaco giovane e un abate anziano è rafforzata dalla indicazione della comune appartenenza all’ordine benedettino e soprattutto dal dettaglio secondo cui la vigoria fisica del monaco «né la freschezza né i digiuni né le vigilie potevano macerare» (I 4 4). Un breve ma preciso riferimento al suo carattere rende più “corposo” e riconoscibile anche l’anonimo frate inquisitore della successiva novella sesta, il quale «come che molto s’ingegnasse di parer santo e tenero amatore della cristiana fede, sì come tutti fanno, era non meno buono investigatore di chi piena aveva la borsa che di chi di scemo nella fede sentisse» (I 6 4). Veloce e precisa anche la caratterizzazione della vittima del frate, un «buono uomo» (cioè un sempliciotto), il quale «non già per difetto di fede, ma semplicemente parlando, forse da vino o da soperchia letizia riscaldato», si lascia scappar detto di «avere un vino sì buono che ne berebbe Cristo» (I 6 5). L’ingenua battuta mostra con chiarezza lo spessore psicologico e cognitivo di questa figurina, la cui dimensione economica è chiarita subito dopo, quando, compiute le dovute indagini, il frate scopre che «li suoi poderi eran grandi e ben tirata la borsa» (I 6 6): la descrizione, qui offerta in maniera indiretta, ha però una precisa rilevanza narrativa. Da queste prime osservazioni si può dunque confermare la tendenza dei Narratori boccacciani a fornire un identikit dei propri personaggi, che spesso va oltre la semplice caratterizzazione sociale, giungendo a precisare gli aspetti più rappresentativi della loro personalità. Questa resta in ogni caso legata al loro rango e al ruolo che occupano in società (è quel che Mazzacurati chiama la «psicologia sociale»), e comunque è sempre in rapporto con il contesto storico e geografico nel quale si trovano ad agire: perciò è importante che Dioneo precisi che i suoi due protagonisti sono benedettini, così come è densa di significato l’identità fiorentina del chierico e del laico che si affrontano nella sesta novella.

L’analisi della prima giornata lascia emergere ulteriori utili elementi caratteristici della scrittura boccacciana. Innanzitutto è possibile disegnare una sorta di mappa delle provenienze sociali dei personaggi. I religiosi risultano poco numerosi: quattro e tutti frati, con due appartenenti alla conventualità urbana che si affiancano ai due benedettini su cui ci siamo già soffermati; a questi va aggiunto l’insieme del clero romano, che però fa solo una generica apparizione nella seconda novella. Assolutamente maggioritario è invece lo stato civile laico, che si estende dalle posizioni eccelse del Saladino, dei re, del signore di Verona e della nobiltà feudale dei marchesi di Monferrato (nelle novelle tre, cinque, sette e nove), passando per la condizione elevata dell’aristocrazia di corte e della grande borghesia urbana (la novella otto) e per il livello mediano di medici, mercanti e donne borghesi (nella prima, nella seconda e nell’ultima), fino a lambire il popolo minuto (nella sesta) e la collocazione incerta dei cortigiani di secondo piano presenti nella settima novella. Nella prima giornata sono dunque lasciati fuori fuoco le classi popolari e il ceto servile, che appare soltanto sullo sfondo lontano delle attività di Ciappelletto in taverna (I 1 13-14). Su una curva sociale del tutto simile si distribuisce il mondo femminile, con l’apice della marchesana di Monferrato, seguito dalla «gentil donna di Guascogna» e da «Malgherida dei Ghisolieri». Tra le donne fa però capolino la plebe, con la «giovinetta assai bella, forse figliuola d’alcuno de’ lavoratori della contrada», destinata alle attenzioni del novizio e dell’abate (I 4 5). Questa sintetica caratterizzazione impone di riflettere sulla condizione sociale femminile: preso atto che in questa giornata non compaiono religiose, va osservato che le donne sono tutte sposate o vedove; sebbene nella nona novella non sia specificato lo stato civile della «gentil donna di Guascogna», il fatto che ella venga oltraggiata di ritorno da un pellegrinaggio al Santo Sepolcro e chieda perciò giustizia al re locale, fa intendere che si tratta di una vedova che viaggia senza compagnia familiare maschile (cosa impossibile per una pulzella). L’unica donna non sposata ad apparire in questa giornata è dunque la giovinetta sedotta dai due benedettini nella quarta novella: questa è anche l’unico personaggio femminile che provenga dai ceti subalterni, nonché l’unica figura cui non sia attribuita nemmeno una battuta in discorso diretto. L’identità, è ovvio, passa innanzitutto attraverso il nome proprio. Ed è allora interessante che – per restare sempre nella prima giornata – su venti

personaggi principali, sette siano storicamente identificabili, mentre cinque sono dotati di nomi e cognomi riconducibili ai contesti geografici in cui è ambientata la novella. Se gli altri otto restano anonimi, essi sono però individuati dal loro profilo sociale (professionale o religioso), dall’indole morale e dal carattere psicologico: anche in questo senso, la muta fanciulla di I 4 fa eccezione. Oltre ai dati forniti in apertura bisogna infine tener conto delle ulteriori indicazioni caratterizzanti fornite nel corso della narrazione: si tratta di riferimenti di tipo talvolta connotativo, o semmai indiziario, come può esserlo un accenno indiretto alla loro personalità o il sintetico ritratto del modo che hanno di esprimersi e di atteggiarsi. Tra i tanti, questo è il caso di Cisti fornaio, che nella sesta giornata si presenta a messer Geri e agli ambasciatori del papa indossando «un farsetto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre» (VI 2 11): la nettezza della persona, l’urbanità e la sagacia del personaggio vengono così significate nella sintetica ma assai efficace descrizione del modo in cui è abbigliato e, poche righe più avanti, degli oggetti di cui è circondato («una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d’ariento, sì eran chiari»: ivi). In un importante libro del 1969 Hans-Jörg Neuschäfer ha confrontato il Decameron con i vari generi medievali della narratio brevis. Dalla sua analisi Neuschäfer ha dedotto che la novella boccacciana differisce dai vari prodotti romanzi e latini perché questi si limiterebbero a presentare un caso tipico, realizzato narrativamente in un modello chiaro e lineare, con uno sviluppo prevedibile a partire da premesse prive di problematicità. Al contrario, la novella, così come l’ha realizzata Boccaccio, presenta un «caso giuridico problematico» che nasce non da principi generali ampiamente accettati nel sistema culturale dell’epoca (come la contrapposizione tra “buono” e “cattivo” o tra “cortese” e “vile”), ma da «circostanze particolari e volta per volta diverse». Dal «caso tipico», lo scrittore fiorentino sarebbe così passato al «caso particolare». È evidente che questa particolarità è fornita in gran parte da quell’insieme di indicazioni individuali che abbiamo definito, con Mazzacurati, la carta d’identità del personaggio. Ma ovviamente la complessità morale e cognitiva del racconto è il prodotto di un sistema culturale più articolato, nel quale la rappresentazione degli esseri umani, delle loro aspirazioni e

dei loro conflitti non risponde a una contrapposizione assiologica indiscutibile e immodificabile (coi valori positivi da una parte e i valori negativi dall’altra), ma a una congiunzione di forze e tensioni talvolta anche contraddittorie. In un capitolo del suo libro, Neuschäfer mette a confronto la vida, ossia la biografia del poeta Guillem de Cabestaing con la novella IV 9 del Decameron, che da lì senza dubbio deriva. Lo studioso osserva che nel racconto provenzale «i ruoli sono distribuiti a priori e fissati per sempre», così che i caratteri appaiono unilaterali e le posizioni occupate dai diversi personaggi prive di ogni possibilità di rapporto: gli amanti sono positivi (anche se adulteri), il geloso è negativo (anche se subisce il tradimento della donna). Al contrario, nella novella boccacciana i due rivali appaiono all’inizio come pari in valore e uniti da un forte vincolo di amicizia, mentre l’amore è presentato come «fuor di misura», e dunque irrazionale e non legittimo; se, date queste premesse, anche Boccaccio sancisce la fine della storia con la condanna morale del marito e l’omaggio postumo alla coppia degli amanti, ciò accade perché il marito si è a sua volta avvalso dell’inganno, indulgendo peraltro nel gesto biasimevole (per quanto dotato di precedenti illustri) di strappare il cuore all’avversario per farlo mangiare alla moglie fedifraga. Pur confermando alcuni elementi tipici del codice cortese – che del resto trovava nella fonte provenzale – l’autore toscano sostituisce dunque alla «tipicità regolare» una «questione morale complessa» con la quale il lettore deve confrontarsi. È interessante osservare che circa un decennio prima di Neuschäfer, e in maniera del tutto autonoma, Salvatore Battaglia aveva presentato un ragionamento simile mettendo a confronto due exempla latini – il De dimidio amico e il De integro amico (“l’amico a metà” e “il vero amico”), di ampia diffusione medievale in tutta l’area romanza – con la novella di Tito e Gisippo (X 8), che ha identico argomento. L’analisi comparativa dei racconti rivelava allo studioso l’importanza fondamentale per l’opera boccacciana di una «carta d’identità» dei personaggi (si noti la stessa espressione utilizzata da Mazzacurati), che fornisce quelle necessarie «precisazioni» dalle quali si ricavano «un’aria di attualità» e una maggiore «concretezza» rispetto al «racconto tradizionale». Da qui, «il senso di una morale nuovamente aperta, problematica, possibilistica», che è il frutto esclusivo di un certo modo di narrare, ispirato alla individualizzazione degli attori in campo e alla identificazione precisa degli obiettivi che essi si

pongono, come anche delle limitazioni che subiscono in quanto inseriti in un campo di forze storicamente e geograficamente determinato. Un bell’esempio dello scarto tra il Decameron e i racconti medievali precedenti viene dal confronto tra Novellino LXXIII e la novella I 3. In entrambi i testi è sfruttata la tecnica del racconto nel racconto: un potente musulmano tenta di mettere in difficoltà un suo sottoposto ebreo costringendolo a rispondere a una domanda ingannevole su quale sia la religione migliore; per cavarsi d’impaccio, l’ebreo racconta la “novella dei tre anelli”, una storia tradizionale all’epoca molto diffusa, nella quale un padre, che ama i suoi tre figli allo stesso modo, quando giunge il momento di trasmettere l’anello di famiglia a uno di loro per affidargli l’eredità, commissiona di nascosto a un orafo due anelli identici al primo e ne regala uno a ciascuno dei propri figli, così che tutti e tre siano convinti di essere proprietari del gioiello autentico. La storia – che rappresenta la rivalità fra le tre religioni monoteistiche (ebraica, cristiana e musulmana), ognuna delle quali pretende di essere la sola vera – è utilizzata in entrambi i nostri testi in una chiave che si potrebbe dire (per riprendere i termini di Mario Penna, che ne studiò l’intera tradizione narrativa) tollerante, o “aconfessionale”. Al di là della comune impostazione, è interessante osservare che le due novelle si distinguono per la struttura narrativa, e che, come sempre accade in letteratura, gli aspetti formali, modellando in modo diverso il contenuto, ne mutano profondamente il significato. Le divergenze testuali sono evidenti soprattutto nel trattamento dei due protagonisti, il cui fronteggiamento avviene già a partire dalla loro presentazione. Nel testo più antico si legge che il «Soldano, avendo bisogno di moneta, fo consigliato che cogliesse cagione a un ricco Giudeo ch’era in sua terra, e poi gli togliesse il mobile suo [cioè la sua ricchezza], ch’era grande oltre numero». Assai più dettagliato risulta invece il profilo offerto nel Decameron: Saladino, il valore del quale fu tanto, che non solamente di piccolo uomo il fé di Babillonia soldano ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo tesoro e per alcuno accidente sopravenutogli bisognandogli una buona quantità di denari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano aver gli potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il quale prestava a usura in Alessandria. (I 3 6)

In quanto primo motore della storia, la figura del Saladino – che, ricordiamolo, da figura storica era stato trasformato in un personaggio leggendario, virtuoso e onorevole, assai apprezzato nel mondo occidentale – è descritta in maniera particolareggiata e contestualizzata: al di là del generico riferimento al suo «valore», il Narratore interno illustra in sintesi la storia del personaggio, precisando le ragioni del suo impoverimento e del suo stato di necessità. Se l’altro protagonista non gode della stessa minuta attenzione, ciò è dovuto al suo status sociale di uomo privato, che non ha funzione pubblica, né i relativi riconoscimenti; egli ha però un nome, a differenza di quel che accade nel Novellino, ed è insediato in un luogo concreto, per quanto esotico: Alessandria. Certo, Cesare Segre ha giustamente osservato che i racconti del Novellino sono già caratterizzati da una dimensione problematica nuova, conseguente alla eliminazione della moralità (cioè di quella parte, aggiunta al racconto, dove se ne illustra il significato morale), all’attenzione per il particolare e al gusto per l’interazione tra i personaggi (qui visibile nello sfruttamento della tecnica del motto, cioè di una battuta rapida e arguta). Ma il confronto tra le due novelle mostra che la localizzazione precisa della vicenda e il riferimento a fatti e personaggi storici riconoscibili sono assai meglio sfruttati nel capolavoro boccacciano che nell’anonima raccolta fiorentina, producendo, tra l’altro, un efficace «effetto di realtà» che ne aumenta la verosimiglianza. L’esempio ha un particolare interesse per il fatto che la logica della «carta d’identità», cioè della trasformazione del caso in una vicenda complessa attraverso l’arricchimento dell’individualità del personaggio, è applicata a una storia all’epoca già ben conosciuta. Nel corso della narrazione, il carattere di Melchisedec viene poi ulteriormente precisato, sottolineandone la sapienza religiosa, la capacità di prevedere il pericolo e la sagacia («aguzzato lo ’ngegno»: I 3 9), grazie alle quali può fare fronte alla iniziale disparità di condizione (un potente vs. un sottoposto) e stabilire con l’avversario una forma di uguaglianza basata non sulla posizione gerarchica, ma sull’elevatezza intellettuale. Il Saladino, riconosciuto il valore dell’ebreo, decide di «aprirgli il suo bisogno» spontaneamente: il passaggio dal proposito ingannevole («fargli una forza da alcuna ragione colorata»: § 7) alla sincerità sigla la conclusione del racconto, con l’offerta da parte di Melchisedec della somma necessaria e la nascita di una duratura amicizia tra i due (col Saladino che, peraltro,

conferma il suo prestigio premiando il nuovo amico con numerosi doni: § 18). Non è il caso di indulgere adesso su questo importante collegamento tra discrezione e liberalità, per cui la prudenza e la sagacia vanno insieme alla capacità di donare (somma tra le virtù, secondo l’ottica aristocratica medievale e successiva), perché vi torneremo nel prossimo capitolo. È invece necessario continuare il ragionamento sulle forme, riprendendo quanto proposto da Renzo Bragantini in una recente analisi della novella, in cui, tra l’altro, ha sostenuto che «il filtro privilegiato» per orientare la lettura corretta della novella è offerto «dalle parole introduttive dell’incaricata del racconto». Questa riflessione impone di correggere, o almeno integrare, la proposta teorica di Neuschäfer. Resta senza alcun dubbio valida la constatazione del passaggio, con la novella boccacciana, dal «caso tipico» al «caso particolare» – e ciò proprio in virtù della «carta d’identità» del personaggio e dell’integrazione degli elementi cronotopici (cfr. infra, par. IV.3) –, e tuttavia lo sfruttamento della novella da parte del narratore al fine di esemplificare con un racconto una propria affermazione di carattere generale indica la sopravvivenza di un atteggiamento pedagogico anche nel Decameron. Nella nostra novella questa continuità è ben visibile nell’introduzione di Filomena, che dichiara di voler «discendere oggimai agli avvenimenti e agli atti degli uomini» (dopo le prime due novelle dedicate a questioni collegate al divino) e di essere intenzionata «a narrarvi [una novella] la quale udita, forse più caute diverrete nelle risposte alle quistioni che fatte vi fossero» (I 3 3). Il punto è importante sia per l’implicazione, colta da Bragantini, sul reale fulcro semantico della novella, sia per una questione teorica generale. Per il primo aspetto, basta osservare che le parole della Narratrice chiariscono perfettamente che la novella non va letta come un episodio di carattere religioso, ma come un aneddoto che riguarda, appunto, gli «atti degli uomini». Per il secondo aspetto, occorre osservare che l’esplicita intenzione didattica della Narratrice fa quasi retrocedere la novella allo stadio di semplice materiale utilizzato per persuadere l’uditorio, secondo la tipica funzionalizzazione suasoria della narratio teorizzata negli antichi trattati di retorica, incrociata semmai col noto precetto oraziano del miscere utile dulci (“mescolare l’utilità alla piacevolezza”), in virtù del quale il piacere del racconto (o delectatio) è giustificato dal potenziale didattico che esso esprime.

Non si fa però fatica a individuare nel Decameron un rapporto sottile tra discorso introduttivo e novella, espressione di un atteggiamento più problematico nei confronti della stabilità dei concetti e dei valori, che appaiono concepiti come frutto di un processo di interpretazione e appropriazione, piuttosto che come norma da apprendere e ripetere. Del resto, già nelle parole di Filomena si osserva, insieme al discorso didattico, un’evidente tendenziosità nell’interpretare le novelle di Panfilo e Neifile (I 1 e 2) come racconti su «Dio» e la «verità della nostra fede». Se si osserva che, all’inizio delle due novelle successive (I 4 3 e I 5 4), anche Dioneo e Fiammetta propongono un’interpretazione altrettanto parziale e tendenziosa della serie novellistica che li ha preceduti, si può concludere che in generale i narratori tendono a orientarsi verso l’uditorio, invitato a mostrare un atteggiamento intelligente e partecipe, collaborativo e interpretativo nei confronti della narrazione che si appresta ad ascoltare. Un esempio particolarmente brillante di opacità tra introduzione e svolgimento narrativo è offerto da II 7, la cosiddetta “novella di Alatiel”, dove sono raccontate le disavventure erotiche di una «pulzella» sballottolata per anni attraverso i diversi mari e porti del Mediterraneo. Il lungo esordio con cui Panfilo introduce la novella ricorda per molti aspetti l’altrettanto lunga premessa alla novella di ser Cepparello, salvo che in questo caso la prospettiva è tutta umana e riguarda la contraddizione tra gli sforzi prodotti da chi vuole raggiungere lo scopo che si è prefissato e il folle comportamento, spesso autodistruttivo, cui la stessa persona si lascia andare dopo il successo. Le parole del Narratore sono in rapporto col tema previsto per la giornata – in cui si raccontano le vicende di «chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine» (II Introduzione 1) –, ma suonano quasi come una rettifica di tipo moraleggiante. L’intenzione didattica di Panfilo diventa chiara poco più avanti, quando invita la brigata ad accontentarsi dello stato concesso da Dio («se dirittamente operar volessimo, a quello prendere e possedere ci dovremmo disporre che Colui ci donasse», II 7 6), per concludere con la tradizionale invettiva contro i belletti delle donne: voi, graziose donne, sommamente peccate in una, cioè nel disiderare d’esser belle, in tanto che, non bastandovi le bellezze che dalla natura concedute vi sono, ancora con maravigliosa arte quelle cercate d’acrescere. (II 7 7)

Ma qual è il rapporto tra una simile premessa moralistica, pervasa peraltro da un’esplicita polemica misogina e la successiva novella in cui una donna «saracina» si trova a «fare nuove nozze da nove volte» a causa della «sua bellezza»? Contraddittorio è infatti l’argomento contro il trucco femminile in applicazione al caso di una donna che non usa creme o profumi, e le cui peripezie sono dovute soltanto al suo essere «sventuratamente [...] bella». Opaco è inoltre il rapporto tra la dichiarazione generale, secondo cui il desiderio degli uomini spesso procura loro dolore e perdizione, e la vicenda di Alatiel, le cui diverse fasi sono causate non dal desiderio della donna, ma tutt’al più dal fascino che esercita sugli uomini che via via incontra. L’ambiguità è infine esaltata nella conclusione della novella, quando Panfilo afferma che la storia della giovane «saracina» sarebbe all’origine di un proverbio assai popolare: «Bocca basciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna» (II 7 122), che contraddice in pieno la sua argomentazione iniziale, in quanto propone – peraltro adeguandosi al tema della giornata – una versione positiva delle disavventure erotiche della protagonista. Da quest’ultimo esempio possiamo dedurre che quella nuova morale che, utilizzando le parole di Salvatore Battaglia, abbiamo poco fa definito «aperta, problematica, possibilistica», e quindi ben distinta dalla rigidità dell’exemplum e del «caso tipico», si ricava sia dalla più attenta individualizzazione dei personaggi, sia da un più complesso rapporto tra discorso e racconto, ossia tra situazione comunicativa e contenuto narrativo. In questa intercapedine tra le ragioni del narratore e la vicenda narrata viene direttamente coinvolto il fruitore (sia quello interno, la brigata, sia quello esterno, il lettore), che viene chiamato a una partecipazione attiva, ben diversa della semplice ricezione di una norma morale da seguire. La maggiore complessità del caso può inoltre essere conseguenza dell’intertestualità, cioè della relazione della novella con altre opere letterarie, che non ne sono necessariamente la fonte, ma che il lettore deve tenere presenti per intendere correttamente la storia. Un bell’esempio di questa triangolazione del significato attraverso l’allusione ad altri testi è offerto dalla novella I 8, che in apparenza si presenta come un testo di estrema semplicità, con la netta contrapposizione tra l’avaro mercante genovese Erminio de’ Grimaldi (personaggio inventato, ma verosimile) e lo splendido cortigiano fiorentino Guglielmo Borsiere (che

visse realmente nella seconda metà del XIII secolo). Oltre che dallo schematismo dei valori, il significato della novella è ulteriormente chiarito da Lauretta, che addirittura interrompe lo sviluppo del racconto per prorompere in un’invettiva contro la decadenza dei costumi cavallereschi (I 8 8-10), durante la quale sottolinea la rilevanza etica della cortesia, una categoria fondante dell’identità aristocratica medievale (cfr. infra, par. V.5), e indirizza il lettore verso la corretta interpretazione del racconto come illustrazione esemplare di quella virtù. Ma la novella di Lauretta non è un semplice exemplum su cortesia e avarizia, come potrebbe far pensare l’ambientazione genovese; la donna propone invece un discorso più complesso, rivolto essenzialmente ai compagni della «lieta brigata», che sono tutti cittadini fiorentini ai quali non può sfuggire la precisa allusione a un celebre brano dantesco (Inf. XVI, 64-72), in cui Guglielmo Borsiere è presentato come perfetto rappresentante dei valori cortesi in contrapposizione alla decadenza di Firenze (ivi, 73-75), dove si sarebbe perduto il rispetto dell’antico codice morale. Riattivando la memoria della scena infernale, Lauretta (e l’Autore alle sue spalle) fa sì che dietro il fondale genovese trapeli l’immagine di Firenze (la «nostra città», come viene chiamata nel Decameron): l’intertestualità ci fa capire che l’avarizia di Erminio de’ Grimaldi va applicata ai mercanti fiorentini. La conclusione provvede a riquadrare la prospettiva assiologica, col protagonista che si ravvede dalla sua avarizia dopo una battuta arguta di Guglielmo, trasformandosi nel «più liberale e ’l più grazioso gentile uomo» genovese del suo tempo (I 8 18): viene così ripristinato l’orizzonte di senso dentro cui deve muoversi l’élite cittadina, saldando in una prospettiva comune mondo mercantile e mondo aristocratico. L’illustrazione dei valori non è però il disvelamento trasparente di un precetto, ma il frutto ambiguo dell’opacità letteraria, che impone al lettore di riflettere a partire dai dati identificativi dei personaggi, dall’ambientazione delle loro storie, dal rapporto del racconto con altri racconti e altra letteratura. Il caso tipico viene trasformato in caso particolare, cui il lettore deve accostarsi con attenzione e intelligenza.

IV.2. Una ricca stratigrafia sociale

«L’epopea dei mercatanti»: questa espressione, tratta da un capitolo del celebre Boccaccio medievale di Vittore Branca (in prima edizione nel 1956), è diventata nel tempo una vera e propria chiave di lettura del Decameron. Sono sintetizzate in questa formula l’identificazione di un movimento collettivo e omogeneo – ciò che si realizza solitamente in una “epopea” – e la proposta di riconoscere l’eccellenza del gruppo sociale dei mercanti nella realtà italiana dei secoli XIII-XIV. Vi è inoltre sottintesa un’idea di energia, di forza agonistica e combattiva che rende l’epopea un racconto delle origini: l’inizio del Rinascimento e dello splendore artistico e intellettuale d’Italia. La formula utilizzata da Branca rende in effetti con grande efficacia la presenza significativa di personaggi provenienti dal mondo dei commerci e degli scambi monetari, valorizzando in modo molto opportuno le doti umane che le novelle sembrano esaltare con maggior persistenza, a partire dalla giovinezza (e dunque l’intraprendenza e un certo “atletismo” degli individui) e dalla reattività (e dunque quella forma dell’intelligenza che si esprime principalmente nella “prontezza di spirito”). Si trattava del resto di una sorta di “atmosfera epocale”, che aveva agitato il Centro e il Settentrione della penisola italica, a partire dal XI secolo, con la ripresa del mondo urbano e, soprattutto dal XII secolo, con la rapida evoluzione di nuove forme di organizzazione amministrativa autonoma da parte delle città. Era insomma l’Età dei comuni, coi suoi statuti scritti, con la sua alta conflittualità, con l’intraprendenza dei nuovi ceti che si differenziavano nettamente dal sistema chiuso in tre status sociali (laboratores, bellatores e oratores) caratteristico del periodo feudale. E tra questi ceti senza dubbio apparivano egemoni i mercanti, i primi responsabili della grande circolazione di beni e di monete tra il Mediterraneo e il Nord Europa che si constata in quei secoli. Si trattava, peraltro, di un ambiente che Giovanni Boccaccio conosceva dall’interno. Egli era infatti figlio di quel Boccaccino di Chelino che aveva ampliato il raggio degli interessi di famiglia ben oltre Firenze, spingendosi verso Nord (fino a Parigi) e verso Sud, a Napoli, dove si era unito alla grande compagnia dei Bardi. In questa linea di affari si sarebbe inserito lo stesso Giovanni quando, arrivato adolescente nella capitale meridionale dopo una prima formazione fiorentina nell’arte del cambio e della mercatura, passò all’esperienza pratica, trafficando nella zona di Portanova, non lontano da Castel Nuovo, lì dove gli Angioini avevano

voluto creare il nuovo asse urbano intorno a cui far circolare le principali attività economiche e politiche del Regno. Questa conoscenza diretta dell’ambiente dei commerci e della personalità di chi era protagonista della nuova realtà economica si riversa senza dubbio nel Decameron, dove sono accolti in gran numero aneddoti e figure da lì provenienti. Si potrebbe anzi pensare che la stessa ricerca di un’accurata definizione degli individui, di cui abbiamo discusso in precedenza, vada interpretata come effetto di un diverso modo di guardare alla realtà: la praticità, la numerabilità, l’attenzione al dato concreto si riverserebbero nelle forme della scrittura. In effetti, ogni opera artistica deve essere inserita nel più complesso sistema culturale cui appartiene (quella che lo studioso sovietico Jurij Lotman chiamò la «semiosfera»). Ma l’opera non deriva passivamente dal quel sistema: al contrario, essa vi interagisce proponendosi come un «modello di mondo» (per usare un’altra espressione di Lotman), ossia come descrizione originale, e innovativa, della realtà storica. In altri termini, nel capolavoro boccacciano possiamo ben individuare dei rapporti di omologia tra le strutture della vita materiale e le strutture formali dell’opera (per esempio: precisione nell’indicare le entrate e le uscite nella partita doppia e precisione nel rappresentare i dettagli del carattere di un personaggio); non possiamo però dedurre che le seconde derivino direttamente dalla prima, se non come interpretazione, trasformazione e creazione di un organismo autonomo. Questa avvertenza ha un valore particolare per quanto riguarda la ricaduta ideologica dell’opera, cioè l’esplicita valorizzazione di atteggiamenti o ideali di un certo gruppo o una certa classe. Parlare del Decameron come di una «epopea dei mercatanti» significa individuarne l’aderenza al sistema di idee, comportamenti, aspettative, richieste sociali e culturali nel quale possiamo immaginare che il ceto mercantile fiorentino intendesse riconoscersi. Certo non si può negare che numerose novelle abbiano per protagonisti dei mercanti, ma nemmeno si può affermare che di questi personaggi sia sempre messa in luce la virtù. Anzi, sembra piuttosto che Boccaccio abbia inteso mostrare la complessità del mondo dei commerci, l’instabilità anche morale che lo caratterizza: complessità e instabilità rappresentata opportunamente, nella struttura narrativa, dalla tipica apertura del «caso giuridico problematico», di cui abbiamo appena parlato (cfr. supra, par. IV.1).

La novella di apertura è, da questo punto di vista, estremamente significativa. Non solo perché lo schema narrativo della falsa confessione esalta l’astuzia irriverente di ser Cepparello, che in questo modo si conferma il «pessimo uomo» di cui si parla nella rubrica (I 1 1), ma perché la straordinaria abilità attoriale del falsario e assassino e sodomita è apprezzata con divertimento dai due fratelli usurai presso i quali egli è alloggiato (I 1 78). Il comportamento del protagonista riverbera pertanto sugli altri personaggi, rivestendo l’intero ambiente mercantile di una patina di ambiguità. Una connotazione negativa viene così a ricadere anche sul primo motore dell’azione, quel Musciatto Franzesi che fu personaggio storicamente reale e realmente legato a forti interessi tra Firenze e la Francia e che qui è raffigurato come un amico e un protettore di delinquenti, dei quali è pronto a sfruttare l’audacia e la malvagità pur di portare a buon esito i propri affari (I 1 7-9). Se resta indubbio che Cepparello è un personaggio esemplare nel sistema del Decameron, tanto da occupare la prima posizione nell’opera: tale esemplarità non riguarda certo la condotta morale, o la correttezza dei comportamenti, sebbene debba anche essere valutata la solidarietà di classe espressa dal protagonista nel dedicare gli ultimi sforzi della propria vita al salvataggio degli interessi economici di due colleghi (I 1 23-29). Questo aspetto fa meglio comprendere che l’importanza del personaggio, anzi il suo stesso valore esemplare, consiste nella difficoltà di interpretare correttamente la sua impresa: imbrogliando il frate confessore, Cepparello ha agito male oppure, paradossalmente, ha agito bene? La sua azione è stata efficace, ma è per questo meritevole di apprezzamento? Ed è possibile farne un modello da imitare? La problematicità del caso è la sfida che Panfilo subito propone ai suoi compagni della lieta brigata e che coinvolge anche le Lettrici. Come avremo modo di vedere anche più avanti, l’«epopea dei mercatanti» si rivela per tanti aspetti una formula corretta – soprattutto dal punto di vista della presenza quantitativa di questo tipo di personaggi –, che ben illumina la prospettiva sociale dell’autore. Al tempo stesso, essa rischia di ridimensionare la complessità che caratterizza il Decameron, dove spesso è rappresentata anche l’aggressività dei mercanti (per esempio Ambrogiuolo, che, pur di vincere una scommessa, mente, causando la rottura nell’armonia familiare tra Bernabò e la moglie: II 9), la loro mancanza di scrupoli (è il caso di Landolfo Rufolo che in II 4 diventa

pirata per rifarsi delle perdite commerciali) e la loro avidità (si pensi alla novella VI 3, dove, a proposito delle imprese di Diego della Ratta, si legge di mercanti disposti addirittura a cedere le mogli in cambio di danari). Ma vi sono ovviamente anche numerose novelle in cui sono invece messe in evidenza l’intelligenza e l’intraprendenza di chi vive nel mondo dei commerci. Si può leggere così la storia di Landolfo, che, se è vero che non si fa scrupolo di dedicarsi alla pirateria, al tempo stesso dimostra una notevole versatilità e prontezza nel reagire a un cattivo investimento (II 4 6-9). Analoga prontezza, ma in altro campo, è quella di Rinaldo d’Asti che, dopo essere stato derubato dai briganti e rimasto seminudo esposto al freddo di una notte innevata, mostra di saper prendere al volo l’invito di una piacente vedova, cogliendo il massimo frutto dell’ospitalità (II 2 3738). Sulla medesima scia andranno poi lette le novelle di motto e di beffa cui sono dedicate le giornate VI-VII (cfr. infra, par. V.6), di cui sono per lo più protagonisti uomini e donne del ceto mercantile, specialmente fiorentino, a dimostrazione di quella preminenza anche quantitativa di cui abbiamo detto. Vale però la pena di riflettere sulla novella III 5, di cui è protagonista Ricciardo, un pistoiese «di picciola nazione» ma assai ricco, soprannominato Zima per la sua eleganza e innamorato della moglie di Francesco Vergellesi, un ricco e avaro membro della potente famiglia di Pistoia. Se, dal punto di vista narrativo, il contrasto tra i due uomini è giocato intorno alla conquista della donna, sul piano tematico e ideologico la contrapposizione verte invece sul codice comportamentale: Francesco, ispirato dall’avarizia, vuole sfruttare l’amore del giovane per farsi regalare un cavallo; l’atteggiamento di Zima è invece improntato alla cortesia, che si manifesta nel suo modo di abbigliarsi e vestire (egli è «ornato» e «pulito»: § 5), nella sua liberalità, e soprattutto nella sua capacità di esprimersi in modo raffinato. La cortesia si contrappone dunque all’avarizia, in quanto complessa disciplina individuale, che è capacità di interazione col mondo esterno e attitudine a rappresentare i propri sentimenti in forma nitida e complessa. La contrapposizione è esplicitata da Elissa nella sua introduzione, dove, esprimendosi in termini duri e con cipiglio severo, spiega che il racconto intende mostrare l’indegnità dell’avarizia. Al vizio, impersonato da Francesco, si contrappone la virtù del protagonista, il quale alla cortesia associa quella sagacia (la «sagacità» apprezzata dalla brigata in III 6 2) che

gli permette di eludere l’inganno tesogli dall’antagonista. Ottenuto il permesso di poter parlare con la donna (§ 7), avendo ben presto capito che il marito ha imposto alla moglie di ascoltare senza rispondere (§ 8), egli inscena un abile ed elegante dialogo d’amore, in cui recita entrambe le battute, dell’amante e dell’amata, riuscendo infine a conquistare l’amore a lungo sperato. La non trasparenza del mondo mercantile si rivela anche nella costante tematica del confronto con l’aristocrazia. Lo abbiamo già visto a proposito della novella in cui la contrapposizione tra Erminio de’ Grimaldi e Guglielmo Borsiere è risolta in una nuova alleanza basata meno sul prestigio economico che sulla prospettiva cortese del comportamento (cfr. supra, par. IV.1). L’incontro tra nobili e mercanti può realizzarsi anche in forme attigue al fiabesco, come accade nella novella II 3, in cui un giovane rappresentante della piccola aristocrazia fiorentina diventa usuraio per risollevare le fortune di famiglia, giungendo infine, per vie del tutto casuali, e inverosimili, a sposare la figlia del re d’Inghilterra e terminare i suoi giorni come re di Scozia. Questo “sogno di nobiltà” attribuito ai mercanti doveva peraltro rispondere alla necessità storica di una classe in ascesa che guardava ai rituali dell’aristocrazia come a un modello culturale da imitare. È il caso della celeberrima novella in cui Nastagio degli Onesti, un cavaliere ravennate di rango non alto, ma ricchissimo, si comporta secondo il tipico codice aristocratico: è largo del suo, conduce una vita elegante, è buon ospite anche quando, lasciata Ravenna per amore e trasferitosi in una tenda nella campagna di Classe, continua a invitare gli amici alla sua tavola (V 8 10-12). Cortese è anche il suo gesto conclusivo, allorché conquistato finalmente l’amore della donna, accetta di coronarlo soltanto «con onor di lei», cioè sposandola (ivi 42). Impregnata di elementi fantastici dal tenebroso sfondo folklorico, la successiva fortuna della novella, anche nelle sue interpretazioni figurative (tra cui è famosa quella di Sandro Botticelli oggi al museo del Louvre di Parigi), metterà ancora più in chiaro la vocazione del ceto mercantile fiorentino, desideroso di ispirare la sua condotta a un’ideale nobiltà. L’«epopea dei mercatanti» mostra allora una proiezione etica e culturale, e insomma un intero sistema di valori non del tutto coincidente con la pratica del commercio e l’accumulazione di ricchezza (cioè l’avarizia, secondo l’accezione antica, e

fiorentina, del termine, sinonimo di cupidigia), che sono invece caratteristiche del mondo mercantile. L’ambientazione aristocratica è più frequente nella quarta giornata, quando la conclusione tragica delle storie favorisce e anzi quasi impone l’elevatezza dei personaggi, del loro linguaggio e dei loro comportamenti. Se l’operazione boccacciana prevede che un ampio spaccato della società abbia accesso al registro sublime, così da accogliere tra gli amori infelici anche le vicende di sorelle di mercanti e di povere filatrici, d’altro canto i costumi degli aristocratici, la loro etichetta e i loro valori sono oggetto quasi esclusivo di questa giornata, come del resto accade anche nella decima. Non manca tuttavia la rappresentazione dell’albagia e della violenza nobiliari: un aspetto importante, che si ritrova anche in novelle dalla conclusione positiva, come per esempio la II 6, dove la società aristocratica duecentesca è presente coi suoi conflitti e le sue consuetudini: dalla vendetta per senso dell’onore alla ritualità con cui si esibisce il potere o si esprime il ringraziamento. La violenza dei nobili può addirittura apparire in un contesto comico, come nel caso di madonna Isabella, perseguitata dal cavaliere Lambertuccio, «spiacevole uomo e sazievole» (VII 6 6), il quale, credendo che la donna sia sola, si appresta a imporle con la forza il godimento del frutto d’amore (ivi 13), restando però beffato nelle sue aspettative. Il trattamento comico è peraltro utilizzato di frequente nel Decameron per marcare le differenze di classe. È quanto accade in VII 8, dove il triangolo amoroso – che pure è il tema della settima giornata – ha meno importanza dal punto di vista narrativo di quanta non ne abbia il rapporto tra i coniugi, sicché la prontezza di monna Sismonda nel cavarsi d’impaccio si rivela non tanto espressione della tipica furbizia femminile, quanto caratteristica sociale che la distingue dal marito. La diversa estrazione sociale dei coniugi è decisiva nello svolgimento dell’intreccio: il «ricchissimo mercatante» Arriguccio, della famiglia dei Berlinghieri, pensa «scioccamente» di «ingentilire», cioè di nobilitarsi, sposando una «gentil donna» (VII 8 5), la quale, a causa delle assenze del marito, s’innamora del giovane Ruberto. Anche questa volta, come spesso capita nel Decameron, l’identikit del personaggio è costruito attingendo alla realtà storica, senza che però sia possibile individuare un preciso riferimento a personalità effettivamente esistite. E, tuttavia, la polemica contro i mercanti che, venuti dalla campagna e arricchitisi nel commercio,

presumevano di entrare nei ranghi dell’aristocrazia cittadina doveva essere evidente per i primi lettori dell’opera, come mostrano le crude osservazioni messe in bocca alla madre della protagonista a proposito del genero, che ai suoi occhi è solo un «mercatantuzzo di feccia d’asino» venuto dalle «troiate» del «contado» con indosso delle vesti di semplice panno «romagnuolo» (ivi 45-48). La stratigrafia sociale rappresentata nel Decameron è dunque resa più complessa dalla peculiare sensibilità boccacciana nei confronti dei diversi ceti. Ritualità, modalità festive, comportamenti quotidiani e automatismi di tipo psicologico sono i principali aspetti della raccolta boccacciana, che si rivela qualcosa di ben più articolato che il semplice rispecchiamento della società fiorentina medievale. Essa, come abbiamo già detto, è piuttosto un modello di mondo, una raffigurazione della realtà che ne propone una composizione organica e concettualmente orientata. Ancora una piccola prova, tratta questa volta da uno dei risultati più fantasmagorici di tutta l’opera. Si tratta della novella VIII 9, nella quale è narrata una beffa eseguita ai danni di Mastro Simone, un presuntuoso medico proveniente da Bologna, che viene convinto dell’esistenza di un sabba, durante il quale gli iniziati sono fatti sedere a delle «tavole messe alla reale», serviti da una «quantità de’ nobili e belli servidori, così femine come maschi», in uno splendido décor di «bacini», «orciuoli», «fiaschi», «coppe» e «altro vasellamento d’oro e d’argento». Dopo aver consumato «molte e varie vivande» tra «i dolci suoni d’infiniti strumenti e i canti pieni di melodia» (VIII 9 20-21), i partecipanti trascorrono il resto della notte in compagnia di belle donne, le quali subitamente, pur che l’uom voglia, di tutto il mondo vi son recate. Voi vedreste quivi la donna de’ barbanicchi, la reina de’ baschi, la moglie del soldano, la ’mperadrice d’Osbech, la ciancianfera di Norrueca, la semistante di Berlinzone e la scalpedera di Narsia. Che vi vo io annoverando? E’ vi sono tutte le reine del mondo, io dico infino alla schinchimurra del Presto Giovanni. (ivi 23-24)

Il beffatore, sfruttando la potenza illusionistica del linguaggio, rappresenta virtuosisticamente innanzi agli occhi del medico un Paese di Cuccagna che è a metà tra l’irruenza carnevalesca dei bisogni fisici (con la centralità del basso-corporeo) e la proiezione di un ceto sociale intermedio che ambisce alla legittimazione aristocratica compiacendosi in immaginari scenari cortesi.

La vita dei Comuni, e quella di Firenze in modo particolare, era del resto caratterizzata dal conflitto: concorrenza tra gruppi, competizione tra individui, ma anche contrapposizione nei confronti di chi proveniva dall’esterno. Era, questo, un importante aspetto della stessa identità fiorentina, che tendeva a frenare l’iniziativa di quanti s’inurbavano dalla campagna o si trasferivano in città per ragioni professionali (ne parliamo più avanti, par. IV.4). Ed era un aspetto non privo di importanti ricadute politiche, bisogna aggiungere, se ricordiamo che, per assicurare equilibrio e imparzialità nell’amministrazione, i podestà fiorentini erano abitualmente dei forestieri. Questa conflittualità appare palese nella novella VIII 5, che per molti aspetti si può ricollegare al testo appena ricordato, non solo perché anch’essa è raccolta nell’ottava giornata, ma perché vi è ben rappresentata – come nella VIII 9 – la solidarietà cittadina di fronte a un membro straniero. Protagonista positivo è Maso del Saggio, autore di una beffa oltraggiosa ai danni di un laido e macilento giudice di provenienza marchigiana, al quale l’astuto personaggio riesce a togliere le brache di dosso mentre è seduto in cattedra per le udienze. Il senso dello scherzo è svelato dal narratore nell’introduzione – dove afferma che i podestà marchigiani «generalmente sono uomini di povero cuore», la cui avarizia li induce a servirsi di giudici e notai male in arnese (§ 4) – ed è ribadito nella conclusione, quando il podestà, indignato per l’offesa, viene avvertito che la beffa è stata fatta «per mostrargli» il giudizio dei fiorentini sugli uomini che ha portato con sé (VIII 5 20). Dentro questa cornice ideologica si dispiega alla perfezione la brillante sinteticità del racconto, che appare distinto in tre brevi fasi: 1) presentazione dei due antagonisti (il giudice e Maso: §§ 4-7); 2) preparazione della beffa (§§ 8-10); 3) esecuzione della beffa (§§ 11-18).

La conclusione è distinta tra il primo piano del giudice che si tira su le brache innanzi a tutti (§ 19) e la reazione del podestà (§ 20). È interessante osservare il peculiare andamento della presentazione, in cui, dopo aver contrapposto, in termini generali, il rozzo e avaro mondo marchigiano alle consuetudini disinvolte dei fiorentini, si concentra il fuoco su Maso del Saggio, sul cui punto di vista si regge la descrizione della figura del giudice e del suo comportamento (§ 7). In questo modo, la brigata e i lettori sono indotti ad assumere il punto di vista del giovane

beffatore, attraverso il quale «ven[iamo] considerando» (§ 6) il berretto lercio, gli abiti ridicoli e soprattutto le brache della futura vittima, che gli scivolano dai fianchi cadendo fino a mezza gamba. Importante è inoltre considerare che la beffa è qui un’impresa collettiva. Come, nella novella precedente (VIII 4), un prevosto è punito su iniziativa della vedova da lui insidiata ma attraverso un’azione concertata dall’intera famiglia della donna, così qui l’idea, partorita dal solo Maso, viene realizzata in gruppo, mostrando alla vittima diretta (il giudice) e alla vittima indiretta (il podestà) la solidarietà fiorentina. Si comprende a questo punto che la perfetta sincronizzazione dei tempi dell’azione e la complessiva sceneggiatura di tipo quasi teatrale – con Maso e l’amico Ribi che chiedono ragione al giudice dei torti immaginari da loro subiti, mentre Matteuzzo, nascosto sotto lo scanno, tira giù le brache al malcapitato (§§ 12-18) – sono la più chiara testimonianza di una convergenza ideologica con la quale la città rimarca la sua differenza rispetto ai forestieri. Si tratta di un modello culturale aggressivo, condiviso dalla brigata, che ride «molto» durante il racconto della scenetta (VIII 6 2), e presente anche nella rubrica: Tre giovani traggono le brache a un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco, teneva ragione. (VIII 5 1)

Come si vede, la beffa è sintetizzata ponendo in esponente i «tre giovani» e la loro azione («traggono le brache») e inserendo al centro, in bella evidenza, la vittima: «un giudice marchigiano in Firenze», collocando in posizione conclusiva il particolare strabiliante della pubblicità dell’evento. Al di là della rivalità municipale, un attraversamento delle novelle in cui appaiono i rappresentanti delle professioni tipicamente comunali (come i notai, i podestà e i giudici) mostra che il giudizio su di loro è assai raramente positivo. Abbiamo già visto il carattere avaro di Francesco Vergellesi, che partendo da Pistoia si appresta a diventare podestà in Milano, mentre è posta addirittura nel luogo incipitario la figura di ser Cepparello, notaio falsario e omicida che abusa della fides publica e della credulità di un santo confessore. Un altro notaio caratterizzato negativamente è, in II 10, l’anziano Riccardo da Chinzica, impotente a soddisfare le richieste sessuali della moglie, la giovane Bartolomea, che termina felicemente la sua storia unendosi al pirata Paganino: qui certo manca ogni riferimento alla

specifica attività di Riccardo, ma è sottolineata la presunzione di un professionista che, pur «dotato d’ingegno», è però fiacco quanto alla «corporal forza», tanto da illudersi di poter impunemente sposare una donna giovane e gagliarda quando è ormai giunto al declinare della vita. Negativa è inoltre la figura del podestà di Brescia in IV 6, il quale tenta di sedurre e poi addirittura violentare («volle usar la forza»: IV 6 35) la miserevole Andreuola, arrestata dalla guardia cittadina mentre sta portando via il povero corpo di Gabriotto, il suo amante, mortole all’improvviso tra le braccia dopo averle raccontato un sogno dai funesti presagi. È importante la reazione della giovane, che, «divenuta fortissima» (si faccia attenzione all’aggettivo), affronta con fermezza l’aggressore (tanto più colpevole perché sta esercitando la sua pubblica funzione di garante della sicurezza), dimostrando, nelle ammirate parole del Narratore, di sapersi difendere «virilmente». Se non vi sono molte altre apparizioni di figure professionali cittadine si può però inferire il giudizio non positivo di Boccaccio anche dal comportamento di Martellino, che in II 1 (una novella imparentata con quella di ser Cepparello) continua a prendersi gioco di un giudice anche quando le sue buffonerie gli stanno per costare addirittura una condanna a morte. Nella stessa serie va infine probabilmente incluso anche il giudice di IV 7, la cui scarsa capacità investigativa induce, certo involontariamente, la spaventatissima Simona a ripetere i gesti di Pasquino, procurandosi così la morte per avvelenamento. Positiva è invece la figura del podestà in X 4, protagonista di una novella che, ambientata a Bologna, è ricca di risonanze cortesi, amplificate dal carattere intertestuale di riscrittura della tredicesima questione d’amore del Filocolo, l’opera giovanile di Boccaccio, nel cui quarto libro è rappresentato il nobile intrattenersi di un’aristocratica brigata napoletana, guidata da Fiammetta. Ispirata al codice cortese è in particolare la raffinata strategia con la quale Gentile Garisendi restituisce a Niccoluccio Caccianemico, che la credeva morta, la moglie Catalina (X 4 22-46). La conoscenza del codice cortese, marcata dall’elevatezza dei sentimenti e dall’eleganza dei modi e dei discorsi, consente al protagonista di risolvere in senso positivo una situazione che si presenta tanto complessa quanto pericolosa. Un’eccezione rispetto al panorama di giudici, notai e podestà disonesti o incapaci, si direbbe, se non fosse che Gentile Garisendi è presentato fin dall’esordio del racconto come «un cavaliere per virtù e per

nobiltà di sangue raguardevole assai» (X 4 5): anche in questo caso, evidentemente, la storia propone il primato dell’aristocrazia, piuttosto che l’emersione sociale dei rappresentante dell’amministrazione civica. Un’altra categoria che nel Decameron è puntualmente descritta in termini negativi è quella dei religiosi. Non manca certo qualche frate onesto e di santa vita, come il confessore che abbiamo incontrato nella novella di ser Cepparello, ma, come appunto in quel caso, si tratta di personaggi che finiscono con l’esser sopraffatti dagli avversari per la loro stessa religiosità e credulità. Al di là di poche eccezioni, nell’opera di Boccaccio frati, monaci e abati agiscono per fini del tutto mondani, indifferenti alla regola cui dovrebbero attenersi e anzi spesso pronti a infrangere le leggi della comune convivenza. La loro caratteristica principale è pertanto l’ipocrisia, anche se il termine compare solo quattro volte nel testo, e più precisamente nelle novelle I 6 e IV 2. Nel primo caso, essa connota il carattere del frate inquisitore, svergognato dalla pronta ma in fondo ingenua battuta del «buono uomo» che egli ha condannato per puro spirito di sopraffazione e per approfittare delle sue ricchezze (I 6 17-19). Nel secondo caso, il termine descrive invece il pessimo Berto della Massa, «uomo di scelerata vita» che, fattosi religioso col nome di frate Alberto e assunte le sembianze di uomo devoto e pio (§§ 8-11), si sposta a Venezia, dove s’invaghisce della stupida madonna Lisetta, che riesce a sedurre assumendo le vesti dell’arcangelo Gabriele. Nonostante lo scarsissimo numero di occorrenze a testo, il concetto è centrale nel Decameron, come si può facilmente constatare quando si rilegga il lungo ragionamento con cui Tedaldo, travestito da frate, convince l’amante a unirsi nuovamente a lui, accusando i religiosi di agire per puro interesse personale (III 7 33-44). Se lì la prospettiva del discorso appartiene a Tedaldo, e dunque a un personaggio novellistico, nella novella senese di frate Rinaldo (VII 3) è la stessa narratrice Elissa a interrompere la narrazione per esprimere il suo giudizio sul comportamento dei religiosi: Ma che dico io di frate Rinaldo nostro di cui parliamo? Quali son quegli che così non facciano? Ahi vitupero del guasto mondo! Essi non si vergognano d’apparir grassi, d’apparir coloriti nel viso, d’apparir morbidi ne’ vestimenti e in tutte le cose loro, e non come colombi ma come galli tronfi colla cresta levata pettoruti procedono: e che è peggio (lasciamo stare d’aver le lor celle piene d’alberelli di lattovari e d’unguenti colmi,

di scatole di varii confetti piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate e con oli, di bottacci di malvagia e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati ma botteghe di speziali o d’unguentarii appaiono più tosto a’ riguardanti) essi non si vergognano che altri sappia loro esser gottosi, e credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai, le vivande grosse e poche e il viver sobriamente faccia gli uomini magri e sottili e il più sani; e se pure infermi ne fanno, non almeno di gotte gl’infermano, alle quali si suole per medicina dare la castità e ogn’altra cosa a vita di modesto frate appartenente. E credonsi che altri non conosca, oltra la sottil vita, le vigilie lunghe, l’orare e il disciplinarsi dover gli uomini pallidi e afflitti rendere, e che né san Domenico né san Francesco, senza aver quatro cappe per uno, non di tintillani né d’altri panni gentili ma di lana grossa fatti e di natural colore, a cacciare il freddo e non a apparere si vestissero. Alle quali cose Iddio provega, come all’anime de’ semplici che gli nutricano fa bisogno. (VII 3 8-12)

In questa poderosa invettiva antifratesca spiccano gli argomenti contro l’ipocrisia, vizio che sarebbe comune ai Domenicani e ai Francescani: erano discorsi ampiamente diffusi all’epoca di Boccaccio, quando nelle città italiane, e specialmente nell’Italia centrale, si agitava un profondo conflitto tra la prospettiva laica, che aveva sorretto la nascita e il rafforzamento delle realtà urbane, e il nuovo orizzonte degli ordini mendicanti, sorti proprio per agire nelle città (a differenza dei Benedettini, i cui monasteri sorgevano in zone isolate), con l’obiettivo di contrastare la cultura comunale. Se lo specifico argomento antireligioso sembra ravvivarsi ogni volta che entrano in scena i Francescani, al cui ordine appartengono il frate inquisitore di I 6, il gagliardo don Felice di III 4 e lo scellerato frate Alberto di cui si è già parlato (cfr. supra, par. IV.2), il giudizio sui religiosi è comunque negativo in generale, come mostra la seconda novella dell’opera, dove la conversione dell’ebreo Abramo è l’esito paradossale di un viaggio a Roma che gli permette di constatare il comportamento scostumato e perverso del clero nella sua interezza (I 2 19-22). Va poi detto che nel Decameron la polemica si amplia anche ai laici superstiziosi, abitualmente presi a zimbello e fatti oggetto di beffa, come accade in maniera esemplare a frate Puccio (III 4) e a Gianni Lotteringhi (VII 1). La superstizione è del resto l’argomento che Dioneo, citando proprio frate Rinaldo, utilizza per insinuare, sia pure in maniera giocosa, che la religione sarebbe addirittura negativa nel suo complesso (VII 10 30). Insieme all’ipocrisia, quel che più caratterizza i personaggi decameroniani appartenenti al clero è senza dubbio la lussuria. Se ciò si deve alla centralità del tema erotico nell’opera, va anche osservato che la È

spinta d’amore consente a volte il riscatto di alcuni religiosi. È il caso di don Felice, che si dimostra capace di soddisfare monna Isabetta, «giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta», costretta dal marito «a troppo lunghe diete» (III 4 6). Il divertente episodio si può avvicinare al tema sessuale che anima il racconto della simpatica coppia formata dal novizio e dall’abate benedettini in I 4, nonché all’incredibile vicenda di III 8, dove un ingegnoso abate si gode la moglie di Ferondo, indotto a credere di essere morto e finito in Purgatorio (salvo resuscitare quando la donna resta incinta e abbisogna pertanto di un legittimo fecondatore). Il sesso caratterizza anche il mondo religioso femminile, come mostra il successo di Masetto da Lamporecchio nel «munistero di donne assai famoso di santità» (III 1 6), dove vive una lunga e prospera vita. Più vivace è invece la situazione che anima in Lombardia il «monistero di santità e di religione» dove Isabetta, una «giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza», non può fare a meno, nonostante la sua condizione monacale, di innamorarsi «d’un bel giovane», col quale riesce a organizzare una regolare tresca; colta però in fallo dalle consorelle, la monaca è condotta innanzi alla badessa, che, nella fretta, esce dalla propria cella dopo essersi messa in testa, in luogo della regolare cuffia d’ordinanza, le brache del prete con cui stava intrattenendosi. Accortesi tutte della situazione, la madre superiora si produce in un sintetico discorso nel quale dimostra «impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere» (IX 2 18), dopo di che se ne torna rapidamente a letto con l’amante. Sulla stessa linea andrà infine interpretata la vicenda della giovanissima e ingenua Alibech, la quale, fuggita di casa per conoscere la santa vita degli eremiti, viene educata da Rustico, un giovane anacoreta, a ricacciare il diavolo nell’inferno (III 10 9-11). Appare allora evidente che il giudizio negativo si smussa quando sono in questione i valori fondanti del Decameron. È il caso dell’amore, che è sempre presentato come una forza naturale che riguarda tutti gli esseri umani. Ed è il caso della prontezza di spirito, come abbiamo accennato a proposito di III 4 e come si vede con grande chiarezza nel caso della notevole (e comicissima) performance retorica con cui frate Cipolla si disimpegna dalla difficile situazione in cui lo hanno messo i giovani burloni di Certaldo (VI 10 37-52).

Questa rassegna si può chiudere con l’unico caso di religioso presentato in termini sicuramente positivi. Si tratta dell’abate di Cluny, che appare come personaggio sia nel racconto esemplare di tipo metadiegetico raccontato da Bergamino in I 7 sia nella novella X 2, dove l’aggressione banditesca di Ghino di Tacco è il preludio di una gara di cortesie destinata a terminare con la riconciliazione tra Ghino e il suo nemico, il papa Bonifacio VIII realizzata dallo stesso abate (X 2 30-31). Nel grande affresco delle classi sociali contemporanee realizzato da Boccaccio non mancano gli strati più umili della popolazione, ossia i “ceti subalterni”. Dopo l’aristocrazia, l’ambiente mercantesco, il ceto delle professioni comunali e infine il clero, nelle novelle decameroniane sono infatti numerosi anche i personaggi provenienti dal variegato mondo dei lavoratori, di cui anzi l’autore registra con grande attenzione i differenti tipi professionali. Ciò è vero per i mercatanti, la cui complessa tipologia spazia, nell’opera boccacciana, dai protagonisti dei grandi commerci internazionali (come Musciatto Franzesi in I 1) al giovane Andreuccio, «cozzone» (cioè sensale) di cavalli in II 5, e dall’orizzonte mediterraneo di chi (come Landolfo Rufolo in II 4) va a mercatare a Cipro con abbondanza di mezzi al piccolo cabotaggio di quei commercianti, non meno intraprendenti, che portano a cavallo tutto il loro magazzino (così Rinaldo d’Asti in II 2). Ciò è altrettanto vero per il mondo dei lavoratori. Troviamo l’ortolano (come il Masetto che costruisce la sua fortuna nel convento delle suore); troviamo lo stalliere (il palafreniere di III 2); Ferondo, che, per quanto «ricchissimo», è pur sempre un semplice contadino (III 8); il fornaio Cisti (VI 2); le saracene operaie che Gostanza incontra nel suo viaggio nel Mediterraneo (V 2); il soldato tedesco Gulfardo (VIII 1). E ancora troviamo i servi: il domestico di Geri Spina che tenta invano di abusare dell’eccellente vino di Cisti (VI 2), Guccio Imbratta, che appare già in IV 7 e che in VI 10 riappare al seguito di frate Cipolla, oppure il cuoco Chichibio, capace di una battuta forse involontaria ma certo efficace (VI 4). Facendo un passo ulteriore verso la periferia della società, troviamo infine i parassiti e gli approfittatori, come il Cecco di IX 4 (personaggio celeberrimo nel Medioevo per la serie di sonetti in cui si presentava nelle vesti gaglioffe di figlio degenere e di laido taverniere) e la coppia formata da Ciacco e Biondello in IX 8 (basti ricordare che il primo è il

personaggio principale del VI canto dell’Inferno dantesco, dov’è rappresentata la punizione dei golosi). L’ambito sociale più basso è sfruttato anche dal punto di vista delle dinamiche narrative. In questo caso si tratta di personaggi positivi che si trovano provvisoriamente in difficoltà, prima di essere rimessi nel luogo gerarchico che loro compete. È quanto appare, per esempio, nel caso della bella e intraprendente Zinevra, moglie del mercante genovese Bernabò (in II 9), che – ripudiata dal marito – si traveste da uomo, adottando il falso nome di Sicurano, per mettersi al servizio di una nave catalana e poi essere ceduta, sempre sotto falsa identità maschile, al sultano. La riduzione in schiavitù è presente anche in altre due novelle dall’esito felice: quella di Teodoro, giovane rapito dai corsari genovesi in Armenia e poi rivenduto in Sicilia come uno schiavo creduto povero, prima di essere rimesso nel rango che gli è dovuto e terminare felicemente la sua storia d’amore (V 7); quella di messer Torello, addirittura paradigmatica del riconoscimento dei valori cortesi nel Decameron (X 9: cfr. infra, par. V.5). Sempre per lo schema della caduta sociale seguita dal riconoscimento delle qualità individuali e dal successivo ristabilirsi degli equilibri, si può infine ricordare la novella del «conte di Anguersa» (II 8), il quale, costretto a fuggire in esilio, vive per il resto della sua vita come servitore, prima di riconquistare lo status nobiliare dopo la confessione in punto di morte della donna che tanti anni prima lo aveva falsamente accusato di aver tradito il suo signore. Al di là di questi casi in cui predomina l’avventura (l’abbassamento sociale è infatti come una sorta di prova per conquistare i propri diritti), la rappresentazione dei ceti subalterni può anche essere realizzata in maniera seria. È quel che accade in particolare nella quarta giornata, dedicata al registro tragico, dove incontriamo Elisabetta da Messina, sorella minore di mercanti toscani trapiantati in Sicilia, la quale patisce profondamente, fino a impazzirne, la violenta vendetta dei fratelli che le uccidono il giovane amante (IV 5). Nella stessa giornata è inoltre narrata la novella di due giovanissimi operai delle filature fiorentine, Pasquino e Simona, che trovano la morte nello stesso pomeriggio a causa di una pianta avvelenata (IV 7). Elevato è infine il tono con cui Dioneo (in X 10) presenta la contadina Griselda, la cui storia costituisce uno dei casi più enigmatici di tutta l’opera.

Nonostante i casi di nobilitazione, i personaggi umili sono prevalentemente trattati nel registro comico, come risulta evidente nel caso di un’altra tessitrice, Peronella, protagonista di un’arguta riscrittura da Apuleio, celebre soprattutto per la dinamica del movimento sessuale con cui si realizza il tradimento del marito, un muratore impegnato a raschiare l’interno di un grande orcio di terracotta (VII 2). I ceti subalterni dunque fanno ridere; essi sono personaggi comici che possono essere presi in giro in quanto plebei, stupidi e rozzi (ricordiamo ancora il caso di Guccio Imbratta), o semmai perché, spinti dall’istinto naturale di sopravvivenza (come il già ricordato Chichibio), risultano capaci di un’improvvisa battuta astuta, che in fin dei conti si apparenta più alla dabbenaggine che all’arguzia. Si tratta di un meccanismo tipico della comicità, che si manifesta con chiarezza nel grande intermezzo comico della Introduzione alla giornata sesta (su cui torneremo a proposito delle dinamiche del ridere: cfr. infra, par. V.6), nel quale giungono alla ribalta della novella portante i servitori della «lieta brigata», colti in una lite che ne mette in risalto la ridicolaggine: ma anche qui il protagonismo della servitù si limita a poche battute, per quanto degne del teatro plautino, dopo le quali il codice retorico del decorum ripristina le gerarchie sociali (VI Introd. 15). Una figura professionale che nell’opera boccacciana gode di un particolare privilegio è invece quella degli artisti, di cui sono sempre messe in evidenza l’ingegnosità e l’abilità intellettuale. È ovviamente il caso eccelso di Giotto, protagonista della novella VI 5, che lo raffigura in un fulminante scambio di battute col giurista Forese da Rabatta. La narratrice Neifile dedica ampio spazio alla presentazione del pittore, che ammira per l’alta qualità illusionistica delle sue opere (quel che dipinge sembra addirittura «vero»: § 5) e, ancor più, perché egli ha abbandonato la via di chi si accontenta di «dilettar gli occhi degl’ignoranti» e si è dedicato a «compiacere allo ’ntelletto de’ savi» (§ 6). Come ha giustamente osservato Marcello Ciccuto, Boccaccio si riconosce nella figura dell’artista proprio per questo risvolto intellettuale: come l’esemplare prestezza mostrata dal pittore nel suo motto di risposta a Forese (§ 15) è il frutto di una sofisticata attività mentale, così il «massimo di aderenza al reale» delle sue pitture è «il risultato del massimo esercizio di un ingegno» impegnato nella produzione di corrette «immagini mentali».

Se identità e apparenza, come ha spiegato ancora Ciccuto, sono concetti centrali per il pensiero etico cristiano, è evidente che uno scrittore che ha iniziato la sua opera con la novella di ser Cepparello non può non mostrare un profondo interesse per il lavoro dei pittori, massimi esperti nel raddoppiamento delle apparenze e nella confusione delle identità. Ciò appare ancor più evidente nel ciclo novellistico comico dedicato al «dipintore» Calandrino (cioè al pittore, realmente vissuto, Nozzo di Perino), «uomo semplice e di nuovi costumi», e ai suoi colleghi, e suoi persecutori, Bruno e Buffalmacco (VIII 3 e 6; IX 3 e 5), ciclo cui si associa la novella VIII 9, in cui Bruno e Buffalmacco agiscono ai danni di Maestro Simone. Il primo elemento che va colto in questa serie è la storicità dei personaggi, tutti attivi a Firenze nei primi decenni del Trecento. Narrando le avventure comiche e le astuzie di un gruppo di pittori locali, Boccaccio ribadisce il primato cittadino, assicurato dall’eccellenza assoluta di Giotto, e confermato dalla presenza di un gran numero di artisti abili e aggiornati (anche lo sciocco Calandrino contempla con attenzione i recenti bassorilievi della chiesa di san Giovanni: VIII 3 6). Senza aggiungere che la fiorentinità è resa più evidente dal fatto che le novelle ambientate nel capoluogo toscano risultano pressoché tutte prive di fonti letterarie, il che lascia presumere che si tratti di episodi storici, e comunque fissatisi nella memoria collettiva cittadina per quel gusto della burla che ancora a lungo avrebbe caratterizzato la cultura locale (già nel XIII secolo Salimbene da Adam aveva affermato che i fiorentini sono «truffatores magni», cioè, appunto, “abili beffatori”). Ma l’aspetto fondamentale di queste novelle riguarda la questione delle apparenze e la forza illusionistica del linguaggio umano. Artista della parola, Boccaccio incentra la comicità del racconto sull’abilità linguistica dei suoi eroi, capaci di rendere verosimili accadimenti che sono in realtà impossibili. È il caso della prima novella, in cui Maso del Saggio, producendo frasi senza senso, presentifica innanzi agli occhi dello stupefatto Calandrino scenari fantastici di ricchezza e godimento (cfr. in particolare VIII 3 10-17), facendogli poi credere che l’elitropia, la pietra che rende invisibili, si troverebbe niente di meno che lungo le rive del torrente Mugnone. Ed è il caso, ancora più notevole, della successiva novella del ciclo, in cui Bruno, dopo aver rubato un porco a Calandrino, vanifica le sue proteste riuscendo addirittura a convincerlo che l’animale

non gli è stato sottratto ma che egli stesso lo ha venduto di nascosto per favorire una sua amante. Per provare quel che sta affermando, Bruno realizza un’impressionante forzatura logica, ricorrendo al precedente episodio dell’elitropia: Calandrino – afferma il beffatore – è un imbroglione che adesso mente in maniera spudorata sostenendo di aver subito un furto (mentre invece si sarebbe arricchito con la vendita del porco), così come spudoratamente ha mentito in precedenza quando aveva voluto far credere agli amici di aver trovato l’elitropia (mentre invece li avrebbe beffati lasciandoli come stupidi a cercar pietre nel torrente). Sfruttando la “realtà” dell’avventura precedente (Calandrino non ha mai trovato l’elitropia: il che è “vero”), Bruno contraddice ciò che qui è “effettivamente avvenuto” (Calandrino è stato “davvero” derubato): la verità, insomma, fa trionfare il falso. Nel corso dell’esposizione si è avuto modo di accennare più volte ai personaggi femminili, di cui nel Decameron è rappresentato un vasto campionario sociale e comportamentale. Si tratta del resto di una categoria fondamentale per l’opera nel suo complesso: basti pensare al Proemio, dove si distingue, come abbiamo già visto (cfr. supra, par. III.3), tra le donne innamorate e quelle cui basta «l’ago e ’l fuso e l’arcolaio» (una simile contrapposizione espone anche Pampinea in I 10 6). Vi è poi da considerare l’importante ruolo delle donne della brigata, che non solo, raggiungendo il numero simbolico di sette, costituiscono la maggioranza numerica all’interno del gruppo, ma sono le responsabili della decisione di lasciare Firenze e della successiva proposta di trascorrere il tempo raccontando novelle. Il Decameron, insomma, deve la sua esistenza e la sua stessa forma letteraria alle donne, che, di conseguenza, vi assumono una rilevanza del tutto straordinaria. Ciò non toglie, tuttavia, che nel corso dell’opera la prospettiva filogina sia talvolta contaminata da spunti misogini, spesso proposti dalle stesse Narratrici: è il caso dell’accusa lanciata dall’autorevole Pampinea nell’introduzione di I 10, dove lamenta la scarsa educazione retorica delle donne contemporanee; oppure è il caso del già ricordato (e topico) rimprovero nei confronti di quante utilizzano creme e balletti per apparire più belle. Più in generale, nell’opera sono presenti anche donne vane, o stupide, o malvage e maligne. Nella prima categoria rientra senza dubbio la veneziana madonna Lisetta, convinta che l’arcangelo Gabriele si sia innamorato di lei (IV 2), cui si associa la giovane Cesca, che, descritta

come «spiacevole, sazievole e stizzosa», nonché dotata di modi «rincrescevoli» (VI 6 5-7), si rivela presuntuosa e di cattivo carattere. Se le donne stupide e quelle vanagloriose sono generalmente oggetto di riprovazione, tanto più grave è la condanna quando mostrano brama di guadagno: come nel caso del soldato tedesco Gulfardo, il quale, «isdegnato per la viltà» di una donna, sposata, che gli ha chiesto del danaro in cambio di una prestazione sessuale, decide di punirla con una beffa (VIII 1). Diverso è il discorso per le prostitute, presenti in II 5 e in VIII 10 (due novelle che peraltro sono sottilmente collegate tra di loro), per le quali l’amore è un fatto professionale che va esercitato con occhio attento al massimo profitto, in una gara di astuzie col cliente, o vittima, che conferma l’attenzione di Boccaccio per le logiche economiche da cui è regolata la vita umana. Ancora diverso è infine il caso dello «scolare» (uno studente proveniente da Parigi) che, dopo essere stato beffato da una vedova di cui si è innamorato, organizza ai suoi danni una feroce vendetta: che qui l’elemento misogino prenda il sopravvento è indubbio, ma indubbia è anche la condanna del personaggio maschile da parte delle ascoltatrici, che giudicano il suo comportamento «rigido e constante fieramente, anzi crudele» (VIII 8 2), contrapponendogli a confronto degli esempi di vendetta più moderata. La vicenda appare tanto più interessante per il fatto che i narratori decameroniani solitamente trattano le vedove con una certa benevolenza: è il caso della donna che ospita Rinaldo d’Asti (II 2); è il caso di monna Piccarda, che si libera con onesta astuzia delle insidie del «proposto» di Fiesole (VIII 4); è il caso di madonna Francesca, che con altrettanto onesta malizia si «leva da dosso» Rinuccio e Alessandro che si sono fastidiosamente innamorati di lei (IX 1). Al versante comico fa, ancora una volta, riscontro il modulo tragico, impersonato dalla splendida figura della vedova Ghismonda, la quale, prima di darsi la morte, affronta il padre con animo virile, difendendo il proprio amore in uno dei discorsi più sapienti e raffinati dell’intero Decameron (IV 1 13-45). Molto significativa è infine la novella di Monna Giovanna, la quale, una volta divenuta vedova e dopo aver perso anche il figlioletto, decide di sposare Federigo degli Alberighi, da cui è stata lungamente amata, mostrando di saperne apprezzare la grandezza d’animo e al contempo di saperlo educare a un tenore di vita più moderato, sì da farlo «miglior massaio» (V 9 43).

L’importanza delle figure vedovili nel Decameron è dovuta probabilmente al difficile status sociale della donna nel Medioevo. Com’è spiegato nel Proemio (e poi da Emilia in IX 9 3-5), le donne erano infatti sottoposte al controllo dei maschi e in generale della famiglia, prive di reale autonomia, salvo quando, per l’appunto, si trovavano in quella strana condizione di non essere più assoggettate al marito (perché morto) e non ancora tornate dal padre o dai fratelli che ne avrebbero amministrato la dote. Ghismonda e Giovanna sono del resto figure dal destino speculare: la prima, perduto prematuramente il marito, torna sotto il controllo quasi morboso del padre, che tarda a risposarla con un altro uomo; la seconda, dopo che le sono morti lo sposo e poi anche il figlio, subisce la pressione dei fratelli che vogliono rimaritarla, ma riesce a imporre la propria scelta di un nuovo marito. Il margine di autonomia è dunque nell’uso della ragione, sempre però entro i limiti imposti dai rapporti economici di forza e dal rango che si occupa in società (l’occhio sociale dell’autore è, a questo proposito, sempre assai nitido). Per restare nell’ambito dello status femminile, ma lasciando da parte il mondo delle religiose, di cui si è parlato in precedenza, è opportuno invece ricordare che nel Decameron l’argomento delle «pulzelle» (le giovani in età da marito) e delle mogli è presentato come possibile tema novellistico in uno dei momenti di maggiore turbamento della regola aurea del decorum, cioè in occasione del contrasto tra i servi Tindaro e Licisca ambientato nella Introduzione della sesta giornata. Del dettaglio dello scontro riparleremo a proposito della tematica del ridere nell’opera (cfr. infra, par. V.6); qui importa segnalare che Dioneo, già nominato giudice del dibattito, torna più avanti sull’argomento per proporre il tema delle mogli che beffano i mariti (VI Concl. 6). In effetti, nel corso dell’opera non mancano occasioni in cui le pulzelle mostrano un forte coinvolgimento nelle cose del sesso, passivo o attivo che esso sia. A tal proposito, si può mettere a confronto la II 7, con Alatiel partecipe ma di certo vittima, con la III 10, con Alibech del tutto incolpevole ma di sicuro attiva nella ricerca del piacere sessuale: e per una soluzione intermedia si veda la V 4, dove l’onestà della fanciulla è riscattata dal matrimonio proprio nell’atto stesso in cui ella si concede all’innamorato. Nella maggioranza dei casi il protagonismo femminile riguarda comunque le donne sposate, che spesso mostrano di saper dare espressione alla fisicità naturale, al diritto dei corpi e alla ricerca del

piacere, come mostra in maniera esemplare la divertente vicenda di madonna Filippa, donna gentile, bella e innamorata che, chiamata dal marito in giudizio innanzi al podestà per averlo tradito, espone i fatti e le sue considerazioni con una «salda» e «assai piacevole» voce, così da vincere la causa, ottenendo addirittura la cancellazione dell’odioso statuto cittadino che punisce le adultere con la morte sul rogo (VI 7). La centralità del tema erotico si conferma, insomma, decisiva per l’orizzonte etico e concettuale dell’opera, così da realizzare uno spazio di autonomia che consente ai soggetti la costruzione di sé, svincolandoli dall’abituale sottomissione ai rituali delle gerarchie. Ai fini di una riflessione sullo statuto del personaggio femminile nel Decameron è dunque importante considerare il modo in cui la dimensione sociale s’incrocia col profilo caratteriale. Si può così osservare, almeno in generale, che nella fascia dell’alta aristocrazia le donne conservano sempre la loro onestà, anche quando scelgono amanti che sono loro inferiori dal punto di vista del rango. È questo di sicuro il caso delle novelle tragiche, dove Ghismonda (IV 1) e la moglie di Guglielmo Rossiglione (IV 9), pur suicidandosi, risultano vincitrici rispetto ai loro ciechi e violenti antagonisti, conservando integra la loro dignità. Non molto diverso è il discorso anche per le novelle dall’esito felice, a partire da quella in cui la moglie del marchese del Monferrato rintuzza le intenzioni del re di Francia con l’uso sagace della più tipica delle abilità domestiche femminili: la cucina (I 5). La prontezza si conferma dunque virtù somma, anche per le donne: lo spiega l’autorevole Pampinea nell’introduzione alla sua novella della prima giornata, dove esprime il rammarico per la scarsa abilità delle donne moderne nell’arte del motto (I 10 3-8). Si tratta di un impegnativo discorso in cui viene sottolineata l’appropriatezza retorica del discorso breve (i «leggiadri motti») per il mondo femminile, cui, al contrario, non si addice «il molto parlare e lungo». Una volta definito questo spazio linguistico, la regina articola la sua invettiva contro le donne contemporanee, le quali, dedicandosi solo alla cura delle vesti e dei belletti, hanno perduto quell’antica «vertù» che consisteva nel rispondere efficacemente ai propri interlocutori. La rilevanza concettuale del discorso di Pampinea si chiarisce quando spiega che la mutezza delle donne le trasforma in «statue» inerti, prive di quel carattere che distingue l’uomo dall’animale. La virtù è dunque innanzitutto virtù retorica, capacità di esprimersi e di affrontare il mondo

sotto il profilo linguistico (e di conseguenza cognitivo): la prontezza ne è il risvolto pragmatico, è la messa in atto di una potenzialità. Tra i tanti esempi, anche comici (come Alibech, che, pur nella sua mancanza di esperienza, collabora prontamente alla seduzione di Rustico), si ricorda l’eleganza di madonna Oretta (VI 1), o la reattività di Nonna de’ Pulci, capace di umiliare il vescovo di Firenze e il suo ospite straniero con una risposta tanto sintetica quanto poderosa (VI 3 10). L’ingegnosità femminile va spesso di pari passo con l’intraprendenza: si è già detto di Zinevra in II 9; ma si può allegare anche la vicenda di Gostanza che in V 2 riesce a riconquistare il suo uomo improvvisandosi addirittura consigliera militare del re di Tunisi, o quella di Giletta di Narbona, che prima, grazie alla sua conoscenza dell’arte medica, ottiene in marito l’uomo da lei desiderato, di cui poi conquista anche l’amore con l’applicazione costante unita a una sagace astuzia conclusiva (III 9). Il trionfo delle donne, che è soprattutto il trionfo della loro abilità linguistica e della loro prontezza, è sancito ovviamente nella settima giornata, con la ricca serie di beffe e trovate ingegnose che consentono alle mogli di godere liberamente dei loro amanti, e trova un’ulteriore conferma nella già ricordata destrezza di madonna Francesca (IX 1). Astuzia, cautela e abilità comunicativa caratterizzano infine l’anonima donna fiorentina, protagonista di III 3, il cui «’ngegno» è elogiato anche da Dioneo (III 4 2). L’esplicita positività del personaggio è tanto più importante perché si tratta del primo caso di applicazione dell’industria all’universo femminile e perché la novella propone in realtà la contrapposizione tra una donna di alto lignaggio e il marito «di bassa condizione» (§ 6): quantunque ricco, questi è infatti un «artefice lanaiuolo», cioè un artigiano tessile, contro la quale categoria la moglie e il suo amante si sfogano esplicitamente durante il loro primo incontro amoroso, «biasimando i lucignoli, i pettini e gli scardassi» (§ 54). Il conflitto soggiacente alla novella non è dunque di carattere culturale o morale, ma prettamente sociale, con rappresentanti della classe elevata che aggrediscono chi si trova nei ranghi inferiori. La rilevanza del protagonismo femminile sembra così contribuire alla messa in questione dell’«epopea dei mercatanti», una formula che va ripensata e meglio formulata rispetto alla prospettiva culturale che presiede alla costruzione del Decameron.

IV.3. Cronotopi e personaggi Torniamo all’incipit della novella di ser Cepparello, quando Panfilo spiega che i parigini, confondendo questo nome con la parola francese che indica il “cappello”, rinominano il personaggio, il quale, di conseguenza, «per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno» (I 1 9). Questa indicazione sembrerebbe di per sé poca cosa, priva di particolare importanza. Se non che, come abbiamo detto (cfr. par. IV.1), essa serve per sottolineare, fin dal principio del racconto, quella sorta di scollatura tra prospettive, quella dissociazione tra parola e cosa che caratterizza la storia fino alla sua conclusione, quando il ser, termine della vita quotidiana, si trasforma in san, titolo onorifico di profondo significato religioso. Ma questa particolare interpretatio nominis che avvia la vicenda del personaggio boccacciano è tanto più interessante perché viene giustificata da Panfilo con una spiegazione linguistica: i parigini attribuiscono infatti al notaio toscano un nome motivato, cioè significativo a partire dalla loro lingua («il lor volgare»). Il fatto è importante, non solo perché pone un peculiare caso di semantica del nome di persona che risponde a coordinate culturali tipicamente medievali (si pensi al capitolo XV della Vita nuova, dove Dante interpreta il nome simbolico di Giovanna come Primavera in quanto «Prima-verrà», cioè anticipatrice di Beatrice, il cui nome è a sua volta «parlante»), ma anche perché, insieme col riferimento a Musciatto Franzesi, situa la storia in un preciso contesto storico-geografico: la Francia d’inizio Trecento. Al pari della «carta d’identità» che fissa le identità individuali dei personaggi, si vede qui un’altra tendenza generale delle narrazioni decameroniane, i cui incipit, di norma, forniscono le coordinate cronologiche e spaziali dell’azione. Lo si constata con facilità aprendo l’opera a caso: I 6 4: Fu dunque, o care giovani, non è ancora gran tempo, nella nostra città un frate minore inquisitore della eretica pravità; II 5 3: Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in borsa cinquecento fiorin d’oro, non essendo mai più fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò; II 7 8: Già è buon tempo passato che di Babillonia fu un soldano, il quale ebbe nome Beminedab;

IV Introd.12: nella nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci; V 8 4: In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già assai nobili e gentili uomini, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti; VII 3 4: Voi dovete sapere che in Siena fu già un giovane assai leggiadro e d’orrevole famiglia, il quale ebbe nome Rinaldo; VIII 7 4: Egli non sono ancora molti anni passati che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d’animo altiera e di legnaggio assai gentile, de’ beni della fortuna convenevolmente abondante, e nominata Elena; X 3 4: Certissima cosa è, se fede si può dare alle parole d’alcuni genovesi e d’altri uomini che in quelle contrade stati sono, che nelle parti del Cattaio fu già uno uomo di legnaggio nobile e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan.

In tutti questi casi, e in generale in tutti gli incipit novellistici del Decameron, il Narratore sistema la sua storia in un contesto più o meno delimitato e significativo per i suoi ascoltatori. Si tratti di Firenze o del remotissimo Catai di Marco Polo, lo schema accoppia sempre l’indicazione della città o della regione dove si svolge la vicenda con una contestualizzazione temporale. Certo, la precisione cronologica può variare sensibilmente, passando dalla generica prossimità della formula «non sono ancora molti anni passati», che abbiamo appena letto (VIII 7 4), alla puntualità dell’episodio storico che troviamo invece nella novella di Cisti fornaio, la cui introduzione («avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori»: VI 3 8) ambienta la vicenda nell’anno 1300. Ma, esattamente come accade per l’identikit socio-economico e caratteriale dei personaggi, dal punto di vista della struttura narrativa, più che l’eventuale storicità del riscontro è importante il sistema di coordinate spaziali e cronologiche che configurano l’azione. Riprendendo un importante concetto dello studioso sovietico Michail Bachtin, possiamo infatti dire che le novelle decameroniane sono sempre costruite a partire da un certo cronotopo, cioè da una certa «fusione dei connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e di concretezza». Poiché, come ancora spiegava Bachtin, «il cronotopo nella letteratura ha un essenziale significato di genere», esso fornisce al lettore uno strumento fondamentale per cogliere la forma di ciascuna novella, e al tempo stesso «determina [...] l’immagine dell’uomo nella letteratura, la quale è sempre essenzialmente cronotopica». Nel Decameron si possono in verità individuare diversi modelli cronotopici, a partire dal giardino nel quale si raduna la brigata. Lo spazio

ordinato per la narrazione è infatti coerente con una certa organizzazione del tempo, fortemente ritualizzato nella sua scansione quotidiana: passeggiata all’alba, colazione, conversazione, riposo pomeridiano, riunione per il racconto novellistico, cena, recitazione della ballata e danze con cui termina la giornata. La vita della brigata, ruotando intorno al giardino – che abbiamo già ricordato essere, secondo Lucia Battaglia Ricci, l’«immagine centrale del libro» –, fornisce una certa «immagine dell’uomo», la rappresentazione di un progetto politico incentrato sulla vita associata e sullo scambio dialogico. L’esercizio della brigata – collocato in un «modello di mondo» cui corrisponde un preciso cronotopo – è a sua volta fondativo di mondi, che prendono vita attraverso la realizzazione di una certa varietà di strutture cronotopiche. Se li si passa in rassegna utilizzando ancora le categorie bachtiniane, vi si individua innanzitutto il tipo del tempo d’avventura, con novelle ambientate in un Mediterraneo tanto ampio quanto generico, nel quale conta lo spostamento (o inseguimento) incessante fino alla rivelazione o al ricongiungimento degli eroi (mi limito a ricordare la novella di Alatiel: II 7). Vi è poi il tipo del «romanzo d’avventure e di costume», dove la rappresentazione del quotidiano significa la costante “particolarizzazione” della vicenda, come mostrano, per esempio, le novelle di Rinaldo d’Asti (II 2) o tutte le novelle di beffa. Esiste poi il tipo «biografico», che è anzi piuttosto importante nell’opera, come dimostra la novella incipitaria di ser Cepparello. Non si tratta, certo, in questo terzo caso di una narrazione esaustiva della vita del protagonista, ma di un modello che si costruisce intorno a una temporalità “significativa”, dove il momento rivelatore, il passaggio netto tra il prima e il dopo è abitualmente situato in una precisa collocazione spaziale: tra i possibili esempi si può pensare alla vicenda di Andreuccio (II 5), la cui educazione al mondo degli affari avviene in un’unica notte napoletana. In tal senso si possono leggere anche le novelle tragiche della quarta giornata, i cui protagonisti (per lo più donne) sono tutti fissati in un evento drammatico che ne rivela la vera natura (si pensi alla diversa virilità di Ghismonda, di Elisabetta e di Andreuola). Le riflessioni di Bachtin ci aiutano a comprendere l’interrelazione tra indicazioni cronologiche e coordinate spaziali. È però necessario, nel leggere il Decameron, riflettere anche sull’ampia distribuzione dell’azione narrativa, che spazia da Firenze al Mediterraneo, passando per tutti i gradi

intermedi (Toscana, Italia, Europa continentale e insulare). Questa ricchezza di riferimenti sembra coerente con quella prospettiva mercantesca di cui s’è discusso in precedenza, giacché è evidente che l’ampio orizzonte dei traffici commerciali e monetari fiorentini si fosse sistemato a metà Trecento in un modello tipologico-culturale incentrato sull’apertura e moltiplicazione degli spazi, nonché sulla direzionalità temporale. Sembra pertanto corretto affermare che la dinamicità economica dell’ambiente centro-italiano fosse compresa e rappresentata (dai contemporanei) nei moduli della variazione e dell’avventura: non un mondo di ripetizioni dentro coordinate circoscritte, ma una serie di flussi di evento, contratti in picchi improvvisi. Dal punto di vista della costruzione dell’intreccio, ciò è reso dalla formula «avvenne che», che segnala regolarmente il mutamento di stato dell’azione; il risvolto etico è invece costituito dalla valorizzazione dell’intraprendenza e della prontezza; il risvolto conoscitivo, infine, consiste nella centralità dell’interpretazione e nella responsabilità del soggetto nella comprensione di ciò che lo circonda e di ciò che gli accade. Ma in letteratura la dimensione spaziale non va limitata ai soli riferimenti geografici e contestuali. Vi è infatti un ulteriore livello, che riguarda il trattamento dello spazio in quanto tale, realizzato a partire da alcune coppie oppositive ben definite: chiuso vs. aperto; naturale vs. costruito (o culturale); domestico vs. pubblico. Nel caso del Decameron le polarità spaziali assumono un ruolo particolarmente significativo sin dall’inizio, quando la brigata decide di lasciare la città per andare a vivere in una villa in campagna, ma conservando una mentalità e un atteggiamento sostanzialmente urbani (per la contrapposizione tra città e campagna cfr. infra, par. IV.4). Queste coppie oppositive sono abilmente sfruttate dai Narratori nei loro racconti: per limitarci a un solo esempio, lo si può ben vedere nella novella IX 6, in cui Pinuccio ama una «giovanetta bella e leggiadra» che abita in contado con la madre e il padre che fa l’oste. La storia è tutta concentrata in una notte, quando il protagonista e un suo amico sono ospitati in una piccola stanza dove, separati da una culletta, sono assiepati tre letti sui quali si distribuiscono i due giovani, la fanciulla e i suoi genitori. Poiché cinque persone possono dormire in tre letti solo formando delle coppie, il congegno narrativo sviluppa la combinazione progressiva delle diverse possibilità, a partire da alcune semplici

opposizioni binarie: l’immobilità dei letti e la mobilità dei loro occupanti; le relazioni tra i personaggi (se di amicizia o di parentela); il numero di persone che occupa ciascun letto (se uno o due); il tipo di relazione tra gli occupanti di un medesimo letto (se dello stesso sesso oppure di sesso differente). L’opposizione cardinale riguarda invece la motivazione nel movimento dei personaggi, se esso sia programmato (Pinuccio raggiunge il letto della sua amata: § 13) o casuale (la moglie esce dal letto del marito perché sente un rumore: § 14). L’apparente rigidità delle contrapposizioni è dinamizzata dal principio della casualità, anch’esso però assorbito nella mirabile logica del congegno narrativo, che sfrutta inoltre la contrapposizione tra immobilità dei letti e mobilità della culletta, la quale, all’inizio della notte, si trova collocata di fianco al letto degli ospiti («la madre stessa allatt[a]» il poppante che vi è sistemato: § 5). Se questa, all’inizio, funge da punto di riferimento nel buio, una volta spostata casualmente confonde l’orientamento dei personaggi, che finiscono col trovarsi accoppiati nei letti in maniera imprevista. La logica delle permutazioni porta la storia al punto di massima tensione quando Pinuccio, lasciata la giovane, finisce nel letto del padre di lei, col quale, pensando si tratti del suo amico, si vanta dell’impresa erotica appena compiuta (§§ 18-19). Lo scioglimento è realizzato, ancora una volta, grazie alla prontezza di una donna, qui la moglie dell’oste, che con un «subito avvedimento» (§ 3), compresa la situazione, entra nel letto della figlia (§ 24), così da tranquillizzare il marito, cui viene dato a credere che il giovane sia un sonnambulo. La girandola notturna, frutto del sapiente sfruttamento narrativo di alcune rigide costrizioni spaziali, termina, infine, con la piena soddisfazione di tutti. Un altro importante aspetto delle logiche spaziali concerne il viaggio. Sia per ragioni di lavoro o per diporto, vadano alla ricerca dell’oggetto amato o siano in fuga da un pericolo, i personaggi del Decameron sono per lo più colti in movimento da un posto all’altro, impegnati a destreggiarsi tra i pericoli di un ambiente inconsueto o a misurarsi con abitudini e sistemi culturali nuovi o insoliti. Basterebbe riferirsi ancora una volta alla prima novella per comprendere la rilevanza del passaggio da un luogo all’altro: non solo Cepparello riceve un nuovo nome al suo arrivo a Parigi, ma egli abbandona (provvisoriamente) i propri pessimi costumi quando si

sposta in Borgogna, favorendo così la sua successiva, e straordinaria, prova d’attore (o di ciarlatano). Il notaio toscano fa parte del numeroso gruppo di personaggi che si muovono per lavoro. Tra questi spiccano, innanzitutto, i mercanti, per i quali il movimento è fondamentale giacché su di esso è basato il profitto. Lo vediamo nelle vicende di Landolfo Rufolo e di Andreuccio da Perugia (II 4 e 5) e in quella di Salabaetto, che si reca a Palermo per vendervi i «pannilani» che sono rimasti invenduti dalla fiera di Salerno (VIII 10 9). L’affinità tra queste novelle non è dovuta alla natura dello spostamento (ché, anzi, si tratta di viaggi assai diversi tra loro), ma dalla segnalazione del tipo di acquisto economico: Landolfo raddoppia le sue fortune, Andreuccio investe cinquecento fiorini, la stessa cifra Iancofiore riesce a sottrarre con l’inganno a Salabaetto, il quale con l’astuzia gliene estorce però mille a sua volta. Proprio quest’ultima novella, alludendo al complesso sistema degli scambi commerciali tra Firenze, Napoli e la Sicilia, presenta con chiarezza il campo d’azione dei mercatanti del tempo, di cui mette in evidenza anche i rischi, tra il possibile fallimento delle imprese commerciali e la costante minaccia delle azioni di corsa (cui si allude in §§ 57-58). Anche i pirati, del resto, si spostano per lavoro: lo vediamo nella novella di Landolfo (a partire dalla “conversione” dello stesso protagonista), o nel caso di Paganino da Monaco, rapitore della moglie di Ricciardo di Chinzica in II 10. Affine è il caso dei briganti, che appaiono nella più volte ricordata novella di Rinaldo d’Asti (II 2), in quella di Pietro Boccamazza e l’Agnolella (V 3) e nella storia di Ghino di Tacco e l’abate di Cluny (X 2). Il caso di pirati e briganti aiuta a capire che lo spostamento non può essere considerato in maniera indipendente rispetto alla natura dello spazio in cui ci si muove: altro è, infatti, trovarsi in mare, con l’instabilità tipica di quell’ambiente e la relativa scarsità di luoghi di approdo (e rifugio); altro è invece attraversare un bosco o percorrere una strada. Non si tratta, semplicemente, di una varietà fisica – cui la letteratura è in fin dei conti indifferente –, ma di una varietà tipologico-narrativa, basata a sua volta su differenze topologiche: a seconda del tipo di spazio, in altre parole, capitano avventure di tipo differente. Torniamo così alla categoria di cronotopo, e al collegamento tra un determinato tipo di spazio e una certa forma del tempo che vi viene collegata. Si pensi ancora alle novelle di ambientazione marinara, nelle

quali la mancanza di riferimenti spaziali o di un tracciato da seguire si associa a una totale noncuranza per le cronologie e ancor più per la scansione del tempo. Il mare è infatti un luogo di pura azione: vi si combatte (IV 4), vi si è rapiti (II 10) o vi si rapisce (V 1), oppure ancora vi si fa naufragio (II 4, II 7); altrimenti lo si attraversa solo per raggiungere la propria mèta o per sfuggire agli inseguitori: del tutto indifferenti allo spazio nel quale ci si trova, concentrati soltanto su quel che c’è all’altro capo della traiettoria. Insomma, come spesso succede in letteratura, anche nel Decameron il mare è innanzitutto una rappresentazione della mera casualità, o al massimo un operatore di allontanamento, ciò che stabilisce la distanza rispetto alla realtà minacciosa o all’agognato oggetto del desiderio. Per quanto riguarda il trattamento della selva è interessante analizzare il caso della già ricordata novella di Pietro Boccamazza che, innamoratosi dell’Agnolella, la rapisce scappando via da Roma in direzione di Anagni (V 3). La novella è ambientata nella foresta romana, una zona che all’epoca era nota per le insidie di ogni tipo che nascondeva, e quindi adeguata per farvi svolgere assalti e controagguati (§§ 12-14), furti e aggressioni di masnadieri (§§ 31-36), fughe sugli alberi o nei fienili e apparizioni di branchi di lupi (§§ 43-44). Alle situazioni di rischio si alternano – ed è meccanismo tipico della narrazione romanzesca – momenti e luoghi di serenità e pacifica accoglienza, come la casa dei due vecchietti che ospitano Agnolella (§§ 21-28), pure momentaneamente occupata dai briganti (e la giovane si nasconde in un pagliaio per proteggere la propria vergogna: § 31), o la brigata di pastori che rifocilla Pietro, stanco e disperato dopo aver passato la notte su una quercia (§§ 46-48). Sull’orizzonte storico del feroce conflitto tra le famiglie Orsini e Colonna, Elissa allestisce dunque un racconto ampiamente basato sugli schemi della letteratura, a partire dal modello del romanzo cavalleresco (dove la foresta è per eccellenza il luogo dell’avventura) e dall’allusione alla «selva» dantesca del peccato, non senza riferimenti alla narrativa folklorica – come all’inizio del racconto, quando i due giovani si smarriscono perché prendono la strada di sinistra anziché quella di destra (§ 10: dov’è evidente la simbolizzazione, già arcaica, della sinistra come via dell’errore). La «malvagia notte» dei giovani è infine risolta al mattino dell’indomani, quando le loro labirintiche strade convergono al castello di Liello di Campo di Fiore (personaggio storico, che effettivamente

possedeva un castello nelle campagne a sud di Roma), la cui moglie li accoglie e permette loro di scambiarsi la promessa di matrimonio, intercedendo infine presso le loro famiglie per ristabilire la pace (§§ 5154). L’esempio appena analizzato mostra bene i caratteri del cronotopo dell’avventura, tendenzialmente romanzesco (per cui il racconto sviluppa dimensioni abbastanza ampie), basato sulla forte marcatura simbolica degli spazi (città vs. foresta; destra vs. sinistra; foresta vs. castello; alto vs. basso) e la netta delimitazione del tempo (tutto in una sola giornata o in una sola notte, con soluzione al mattino dopo). Un modulo simile si riscontra anche nel trattamento degli altri viaggi causati dall’amore, indipendentemente dall’esito comico o tragico (per esempio, III 9, IV 3, IV 8, V 1, V 2). Il viaggio, insomma, è la forma più semplice dell’avventura; di conseguenza esso è il meccanismo narrativo più elementare per raccontare un passaggio di condizione, una metamorfosi, una rivelazione decisiva. È uno schema di ampia pervasività antropologica, profondamente radicato in ogni tipo di cultura. Proprio per questo, è uno schema che può essere adoperato per ingannare, come accade nella straordinaria predica di frate Cipolla, il quale, beffato da due giovani certaldesi che gli hanno sottratto la falsa reliquia della penna dell’arcangelo Gabriele sostituendola con un pezzo di carbone, inventa su due piedi il lungo viaggio che lo ha portato a imbattersi in alcuni resti di san Lorenzo (il cui martirio avvenne, com’è noto, su una graticola ardente). L’efficacia del discorso è garantita sia dallo schema odeporico (il viaggio produce una suspence che lascia appunto “sospeso” l’uditorio in attesa della rivelazione finale) sia dall’utilizzo di nomi insoliti, dall’apparenza esotica: essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a altrui che a noi. Per la qual cosa messom’io in cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de’ Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto pervenni in Sardigna. [...] Io capitai, passato il Braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de’ nostri frati e d’altre religioni trovai assai. (VI 10 37-39)

La predica procede ancora a lungo (VI 10 37-52), terminando con un autentico successo presso gli ammiratissimi quanto creduloni abitanti di Certaldo (borgo non lontano da Firenze, dove peraltro è probabile sia nato lo stesso Giovanni Boccaccio), i quali premiano frate Cipolla con laute offerte, tanto più esagerate se si pensa non solo all’origine ben profana del pezzo di carbone da lui esibito (VI 10 29), ma soprattutto al fatto che Porcellana, Vinegia, Borgo de’ Greci e Baldracca, luoghi che il frate dice di aver percorso nel suo pellegrinaggio, sono in realtà vie e contrade fiorentine, così come Sardigna era una zona deserta a San Frediano (e non l’isola a sud della Corsica) e San Giorgio si trovava presso la Dogana della città. Il tour de force retorico appare dunque davvero come un viaggio trionfale – lo dice lo stesso frate – «in terra di Menzogna».

IV.4. Firenze In un recente libro sui modelli di mondo costruiti dalla scienza geografica, Franco Farinelli ha spiegato in modo tanto sintetico quanto efficace la distinzione tra spazio e luogo. Il primo termine rimanda alla possibilità di misurare le dimensioni secondo criteri omogenei e applicabili a contesti diversi. Il secondo, invece, indica «una parte della superficie terrestre che non equivale a nessun’altra, che non può essere scambiata con nessun’altra». Alla regolarità del primo si contrappone pertanto l’irregolarità, la specificità, nonché la densità culturale del secondo. Se proviamo ad applicare questi termini al Decameron, possiamo dire che da una parte esistono degli spazi – interni o esterni, urbani o naturali, ecc. –, che ricevono un trattamento differente in base ai differenti cronotopi e dunque ai diversi modelli narrativi adottati dall’autore, mentre dall’altra esiste invece uno specifico luogo, che assume nell’opera una particolare rilevanza simbolica, narrativa e ideologica. Questo luogo è Firenze. La rilevanza della città toscana è evidente a qualunque lettore, sia perché vi si ambienta più di un quinto delle novelle (e anzi ben più di un quarto, se si considerano le trame che vi partono o vi arrivano pur svolgendosi prevalentemente altrove, come per esempio la II 3 o la VIII 10), sia perché essa stabilisce l’orizzonte culturale, etico e ideologico che dà senso alla stessa pratica narrativa dei dieci giovani della brigata, che, partiti da

Firenze un mercoledì mattina dell’estate del 1348, vi fanno ritorno due mercoledì dopo. Ben inteso, anche nel caso delle novelle fiorentine è possibile individuare un certo trattamento dello spazio, una certa applicazione ai materiali narrativi di schemi cronotopici del tipo «d’avventure» e, soprattutto, «d’avventure e di costume». Ma l’attenzione onomastica, la precisione topografica, l’orientamento polemico e situazionale, col frequente rimando (per noi, oggi, difficilissimo da capire) ai pettegolezzi e in generale alla trasmissione orale di notizie e racconti, rende questi episodi particolarmente “caldi”, riscaldati da un implicito riferimento a codici condivisi, cui basta alludere perché tutti capiscano il significato sottinteso. Questo aspetto è ben chiaro quando vengono menzionati quartieri e vie e contrade fiorentine. Si trovano, in verità, indicazioni topografiche puntuali anche in storie ambientate in altre città (soprattutto nel caso di Napoli), ma nel caso di Firenze ciò accade in maniera costante. Tra i vari esempi possibili, a partire dal “ciclo di Calandrino”, il calore cui s’è appena alluso risulta evidente nel caso della novella di Gianni Lotteringhi, che sarebbe addirittura priva di senso se non si ambientasse «a Firenze nella contrada di San Brancazio» (VII 1 4). La topografia cittadina offre anzi alla narratrice addirittura la possibilità di ragionare sulle caratteristiche della diffusione orale di un aneddoto o pettegolezzo, quando, concluso il racconto, ella lo mette a confronto con un’altra versione: si tratti di due diversi finali della stessa storia o invece della contaminazione tra due vicende simili occorse a due personaggi omonimi, è interessante che Emilia nomini con precisione le contrade in cui si sarebbero svolte le due vicende, una a San Brancasio e l’altra «in Porta San Piero» (VII 1 33). Se è vero che solo i giovani della brigata – e con loro il lettore trecentesco – possono cogliere questi riferimenti in maniera appropriata, l’allusione ci permette tuttavia di entrare per un istante in quel mondo risonante di pettegolezzi, aneddoti e storielle che doveva essere la Firenze del tempo. Mondo che balugina anche altrove nel Decameron, per esempio nell’introduzione di Panfilo a una delle sue novelle, quando avverte che «Secondo che io udi’ già dire, vicino di San Brancazio [si noti ancora il dettaglio del quartiere cittadino] stette un buono uomo e ricco» (III 4 4, c.m.): un incipit che ha la forza icastica di un gesto, come del buffone che

fa l’occhiolino agli astanti per prepararli alla buffa vicenda che sta per raccontare. Lo stesso capita nella novella di frate Cipolla, la cui notevole performance non è che l’abile gioco con cui Dioneo diverte i suoi ascoltatori infarcendo la predica di riferimenti urbani che solo loro possono comprendere. Vi è, dunque, un uso che potremmo dire “distintivo” della città, giacché appunto “distingue” tra chi è dentro e chi è fuori, chi è fiorentino e chi intruso. La distinzione può diventare esclusione aggressiva, come mostra la già ricordata novella VIII 9, in cui Buffalmacco, mentre profila a Mastro Simone la possibilità di essere introdotto al fantastico sabba notturno che gli ha appena descritto, gli promette che gli farà avere come compagna la Contessa di Civillari: ella è una troppo gran donna – continua il beffatore –, e poche case ha per lo mondo nelle quali ella non abbia alcuna giurisdizione, e non che altri, ma i frati minori a suon di nacchere le rendon tributo. E sovvi dire che, quand’ella va da torno, ella si fa ben sentire, benché ella stea il più rinchiusa: ma non ha per ciò molto che ella vi passò innanzi all’uscio una notte che andava a Arno a lavarsi i piedi e per pigliare un poco d’aria: ma la sua più continua dimora è in Laterino. Ben vanno per ciò de’ suoi sergenti spesso da torno, e tutti a dimostrazion della maggioranza di lei portano la verga e ’l piombino. De’ suoi baroni si veggon per tutto assai, sì come è il Tamagnin dalla Porta, don Meta, Manico di Scopa, lo Squacchera e altri, li quali vostri dimestichi credo che sieno ma ora non ve ne ricordate. A così gran donna adunque, lasciata star quella da Cacavincigli, se ’l pensier non c’inganna, vi metterem nelle dolci braccia. (VIII 9 74-77)

Forse nemmeno per il lettore moderno è facilmente comprensibile l’allusivo sfondo scatologico che Lauretta qui allestisce per il divertimento della sua brigata, ma l’aggressività comica è resa evidente subito dopo, quando la narratrice spiega che il medico, essendo «nato e cresciuto» a Bologna, «non intendeva i vocaboli di costoro», e dunque non poteva capire il riferimento al grande deposito di feci fiorentino, a quell’epoca situato nei pressi del monastero di San Jacopo a Ripoli: il rimando topografico permette insomma di capire che la Contessa di Civillari non è altro che la principale cloaca di Firenze. L’identikit di Mastro Simone, i cui genitori sono originari del «contado» (VIII 9 50), presenta un altro elemento che permette di ragionare sulla fiorentinità dell’opera. L’opposizione tra città e campagna è infatti una delle costanti di lunga o lunghissima durata nella civiltà italiana, dall’epoca della rinascita urbana (databile grosso modo all’XI secolo) fino alla metà del Novecento, quando l’inurbamento è diventato un fatto di

massa e la stessa campagna ha perso il suo antico carattere di isolamento e arretatrezza. Questa tipica e duratura opposizione fu fortemente sentita nel rapporto tra Firenze e il contado circostante, che, se si giovò molto della vicinanza di una città così grande e prospera, dovette però subire un controllo economico occhiuto quando non spietato da parte dei cittadini, che spesso detenevano la proprietà di poderi e aziende agricole. I trattati trecenteschi e i coevi Libri di famiglia o “di ricordi” (libri manoscritti nei quali il capofamiglia segnava i principali eventi che interessavano la comunità da lui amministrata per trasmetterli in eredità al futuro capofamiglia) rivelano spesso una notevole animosità nei confronti dei contadini, tacciati di essere violenti, oziosi e inclini a non rispettare quanto pattuito. La stessa trasposizione del termine “villano”, dall’ambito denotativo di “abitante della villa” (cioè: contadino) a quello connotativo di carattere etico (“rozzo”, “ignorante”), mostra con ogni evidenza la natura culturale, oltre che politica ed economica, di una contrapposizione, che peraltro si inseriva in una tradizione antichissima, presente già in latino (rusticus vs. urbanus) e rinvenibile anche nella descrizione aristotelica della persona poco elegante (che nell’Etica nicomachea è definita agroikos). Questa contrapposizione, come ha osservato tra gli altri Michel Plaisance, è operante anche nel Decameron. Lo mostra il caso di Cimone, il figlio del «nobilissimo» Aristippo che, prima di essere trasformato dall’esperienza d’amore, preferisce «i costumi e l’usanza degli uomini grossi», cioè i contadini, piuttosto che le maniere «cittadine» (V 1 5). Una volta che si è innamorato di Efigenia, egli si riveste invece di panni adeguati, si mette a studiare, a frequentare le persone più in vista, arrivando addirittura a cambiare nel fisico, mutando «la rozza voce e rustica in convenevole e cittadina» (V 1 19). La polarità rustico vs. urbano innerva dunque l’intero orizzonte ideologico dell’opera boccacciana, dove pure la campagna non è ritratta solo in termini negativi, ma è anche presentata come un rifugio (così, d’altra parte, è per la brigata che lascia la città per sfuggire al contagio, in accordo con le prescrizioni del Consiglio contro a pistolenzia di Tommaso del Garbo), o come un luogo in cui ritirarsi onorevolmente dopo aver abbandonato la vita cittadina (è il caso di Federigo degli Alberighi in V 9). Ciò nonostante, anche nel caso in cui – come accade nella novella del prete da Varlungo e di madonna Belcolore – la realtà materiale del mondo

contadino è presentata con attenzione e curiosità, resta chiaro il distanziamento comico, visibile in questo caso nel trattamento linguistico, tutto giocato sul pedale rusticano, esaltato dalle parole terminanti col suffisso in -azzo, -ozzo o -uzzo, che è caratterizzazione tipica nella letteratura comica antica (cfr. amorazzo, parolozze, basciozzi in VIII 2 5, 6 e 38). Si tratta, in casi come questo (si veda anche la serie di Calandrino: VIII 6, IX 3, IX 5), di un gioco letterario non particolarmente aggressivo, coi contadini ridotti a personaggi un po’ buffi, ridicoli, ma in fin dei conti innocui. La situazione cambia quando lo scontro avviene in città. Lo abbiamo già visto con Mastro Simone, punito per la sua presunzione di medico, addottoratosi a Bologna ma pur sempre di origini rusticane; lo si può confermare ricordando la già citata novella VII 8 (cfr. supra, IV.2), in cui il tipico triangolo amoroso della settima giornata si tinge di scontro sociale, a causa dell’origine campagnola del marito beffato, un ricco mercante che ha pensato «scioccamente» di «ingentilire», cioè nobilitarsi sposando una «gentil donna» (VII 8 5), ma che agli occhi della famiglia della moglie resta solo un piccolo mercante venuto dalle «troiate» del «contado» (VII 8 45-48: si noti che il motivo fecale ricorre anche in VIII 9). Se tra città e contado esiste una soglia ben visibile, che distingue – dicevamo sopra – i cittadini, stretti in una comune prospettiva culturale e ideologica, dal mondo esterno, altre soglie esistono tuttavia anche all’interno della città, così da separare o unire le diverse classi urbane. Esempio caratteristico di questa conflittualità è l’episodio di Cisti fornaio (VI 2), la cui forza rappresentativa è strettamente associata alla sua precisa collocazione cronologica e spaziale. Ambientata nell’anno 1300, il riferimento al «caldo grande» che vi è presente permette, attraverso un riscontro con le cronache del tempo, di collocare l’evento in giugno. Fortemente valorizzati sono inoltre gli elementi spaziali, tanto che l’accenno ai movimenti quotidiani di Geri e dei suoi ospiti (§ 8) ha permesso agli studiosi di individuare con esattezza la collocazione del forno del protagonista. Si può pertanto presumere che la brigata e le «lettrici» cui si rivolge l’Autore nel Proemio dovevano subito riconoscere uno scenario familiare: la fiorentinità, importante in tutta la sesta giornata, qui assume quasi il carattere della domesticità, stringendo assieme quell’élite sociale e culturale che, condividendo un codice

riservato e un sistema di riferimenti assai ristretti, può facilmente coglierne le diverse allusioni. La novella è narrata da Pampinea, che in apertura propone una riflessione sul delicato rapporto tra Natura e Fortuna, cioè sulla mancata corrispondenza tra la complessione e l’indole degli uomini e l’insieme dei fattori esterni da cui la loro vita è solitamente determinata (§§ 3-6). Protagonista è Cisti, un fornaio che, divenuto «ricchissimo» con la sua professione, vive «splendidissimamente» (§ 9). A lui si associa Geri Spina, personaggio storicamente esistito che intorno al 1300 fu a capo della fazione dei Guelfi neri; oppositore è invece un «famigliare», cioè un servo di messer Geri, che ambisce a usurpare il delicato vino bianco che il fornaio ha riservato al suo signore e agli ambasciatori del papa che sono suoi ospiti. La novella è divisa in due sequenze principali: nella prima, Cisti stabilisce un rapporto (da inferiore verso i superiori) con Geri e gli ambasciatori, facendo sì che essi s’invitino da soli a gustare il suo eccellente vino; nella seconda vi è invece lo scontro tra il servo – che, inviato dal suo padrone per rifornirsi di quel buon vino, cerca di trafugarne una parte per se stesso – e Cisti, che lo umilia con una felice battuta di spirito, stabilendo al tempo stesso una comunicazione indiretta e a distanza col nobiluomo. La battuta di Cisti, incomprensibile per il servo, è infatti prontamente intesa dal suo padrone: il successo del motto rivela ai due comunicatori a distanza (Cisti e Geri) che essi condividono il codice del dono e della corretta espressione linguistica. Il decoro formale del fornaio si rivela parte di un complesso sistema semiotico che investe i diversi campi del vestire, del gestire, del parlare e del donare, grazie al quale può superare i limiti della propria identità sociale e stabilire un rapporto positivo con l’élite di cui è rappresentante messer Spina. La condivisione di un comune orizzonte, se avvicina i due protagonisti, li separa dalle persone di rango e ingegno inferiori, come appare evidente nel deciso gesto con cui Cisti allontana i suoi lavoranti quando Geri e gli ambasciatori si fermano al forno per assaggiare il vino (§ 16). La distanza sociale è ribadita nel dialogo tra Cisti e il «famigliare» di Geri (§§ 19-26), ed è infine esplicitata dallo stesso Cisti quando si reca dal nobiluomo per donargli tutto il vino che gli è rimasto (§ 28). L’intelligente fornaio si rivela così il rappresentante esemplare di una certa “fiorentinità”, che significa innanzitutto separatezza e distinzione rispetto ai ceti inferiori e al mondo esterno, implicando al tempo stesso la solidarietà tra la classe

magnatizia e chi ha risalito le gerarchie sociali, allontanandosi dai ceti subalterni, nel segno di un’alleanza tra gruppi sociali basata sul valore modellizzante della cortesia.

Capitolo V. Le forme dell’azione

V.1. La questione del realismo In un libro sul Decameron di alcuni anni fa, Mario Baratto osservò che il capolavoro boccacciano è caratterizzato da un deciso orientamento sul presente. È quanto abbiamo potuto verificare nel precedente capitolo, in particolare nelle pagine conclusive dedicate al ruolo che Firenze assume nell’opera. Essere orientati sul presente significa infatti muoversi dentro precise coordinate conoscitive, etiche e politiche, che danno ordine al mondo e senso alle esperienze che vi si fanno. E significa inoltre destinarsi al dialogo con una comunità ben definita, di cui si condividono le prospettive culturali. Nell’opera di Boccaccio, questo orientamento funziona a un doppio livello, la conversazione della brigata e la comunicazione col lettore, ma secondo un unico modello retorico e narrativo, che consiste – come abbiamo già visto – nell’attenzione con cui è presentato l’identikit dei personaggi e nella individuazione di uno scenario cronotopico riconoscibile. Al di là dei poco numerosi casi in cui la vicenda è ambientata nel passato remoto o in luoghi esotici (ma anche qui si possono ritrovare elementi che rendono il contesto più familiare), la prossimità temporale e spaziale fa sì che i racconti siano facilmente integrabili nelle strutture concettuali e comportamentali della brigata e delle «lettrici». Si potrebbe dire che nel Decameron si fa costante riferimento a un “presente situato”: solo a partire da questo si possono compiutamente comprendere le novelle. Lo dimostra un’interessante formula presente nel testo, una cui variante tipica è «come noi veggiamo assai sovente avvenire»: rinviando a una sorta di attestazione collettiva, a un riferimento condiviso («noi»), il lettore è spinto a riconoscere nel libro qualcosa che crede essere “davvero” presente nella realtà.

Si pone qui un fatto cognitivo (come faccio a capire quel che si racconta) e al tempo stesso un fatto rappresentativo (come organizzo quel che devo raccontare). A questo proposito, Pier Massimo Forni ha parlato di una sorta di «reticenza strutturale» degli incipit delle novelle, in virtù della quale una semplice allusione a luoghi, occasioni o persone permette al narratore di turno di sintonizzare la brigata su quel che si accinge a raccontare: è grazie a questa peculiare «sfumatura dei confini tra vita reale-quotidiana e vita raccontata» che nell’opera si realizza il passaggio dal noto al nuovo (il novum etimologico della novella) e il conseguente ingresso nei mondi possibili dell’invenzione narrativa. La questione del realismo boccacciano, segnalata fin dalla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1870) e ricorrente in tutti i maggiori studiosi, non riguarda soltanto un allargamento degli oggetti, delle situazioni, degli stessi tipi di personaggio. Essa va invece considerata soprattutto come una «questione modale», in cui – per ripetere le parole di Giancarlo Mazzacurati – agiscono «le scelte della retorica, l’invenzione dei personaggi e l’arte figurale». Si spiegano così le parole della Conclusione che rivendicano la piena autonomia stilistica, affermando che il linguaggio letterario deve adeguarsi solo alla «qualità delle novelle», cioè alla loro organizzazione tematica e narrativa (§§ 4-6). E si spiega anche quel passaggio dell’Introduzione alla IV giornata, in cui è proposta una difesa dell’opera non priva di elementi paradossali: Quegli che queste cose così non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli originali: li quali se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi la lor riprensione e d’amendar me stesso m’ingegnerei; ma infino che altro che parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione, seguitando la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono. (§ 39)

Accusato di aver manipolato le storie contenute nella sua opera, l’Autore spiega che la letteratura, come la retorica, è basata sul riciclaggio, sulla ripresa di racconti tradizionali, riconfigurati secondo nuove istanze formali (i modi di cui parla Mazzacurati). Gli «originali», insomma, non esistono, così come non esiste un referente storico preciso cui le storie rimandino. Il realismo del Decameron è, per così dire, autonomo: tutt’al più allude alla realtà, riportando i nomi di luoghi e persone identificabili storicamente, ma lo fa – come accade in ogni prodotto artistico – attraverso modalità proprie, di carattere linguistico, stilistico e formale. L’allusione al mondo esterno e ai codici di comprensione condivisi da una

certa comunità (l’élite fiorentina) produce, così, quel che Roland Barthes chiamò l’«effetto di reale»: non l’indicazione referenziale effettiva, ma la rappresentazione del “mondo laffuori”, della realtà storica in cui si vive, filtrata attraverso il riferimento a un universo culturale circoscritto e condiviso, ossia quel «presente» verso il quale l’opera è orientata.

V.2. Fortuna e ingegno Torniamo al Proemio dell’opera. Terminata la presentazione del progetto generale, l’Autore spiega che nelle novelle raccolte nel suo libro «piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi» (§ 14). In questa sintetica descrizione amore e fortuna sono presentati come i temi fondanti dell’opera, cardini concettuali e fonti principali del narrare in brigata. In effetti, come vedremo in questo paragrafo, si tratta dei due argomenti centrali del Decameron, presenti nella maggioranza assoluta delle novelle, nelle quali amore e fortuna governano l’attività umana, mettendo alla prova i diversi personaggi le cui storie si succedono. Questa evidenza si fa ancora più chiara quando si osserva che le due parole-tema appaiono, in questo breve passaggio, nella forma di modificatori attributivi: amore è inserito in un complemento di specificazione; fortuna è presente nella forma aggettivale. Questo non diminuisce il loro valore; al contrario, essi precisano o delimitano il significato di due termini, casi e avvenimenti, che possiamo considerare sinonimi, in quanto entrambi appartengono al campo semantico dell’azione: è l’azione umana nel suo complesso a essere circoscritta dentro gli ambiti dell’eros e della casualità. Amore e fortuna si presentano allora come il banco di prova su cui si misurano gli esseri umani. Essi costituiscono il campo di forze nel quale le donne e gli uomini agiscono e interagiscono mostrando il loro carattere, la loro indole, le capacità, le attitudini, i vizi e le virtù. A questi due macrotemi si può pertanto affiancare il concetto di ingegno, quell’ingenium che in latino significava l’insieme dei caratteri individuali specifico di ciascun uomo, il fondamento della soggettività (in un senso però ben diverso da quello moderno): non soltanto l’intelligenza o l’astuzia, ma l’ingegnosità di chi sa reagire con prontezza e agilità agli

improvvisi «casi» che gli si parano innanzi, o la saggezza di chi programma un piano razionale per ottenere quanto desiderato. A questo proposito, è degno di nota osservare che nella seconda giornata, «nella quale, sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine» (II Introd. § 1), a petto delle ventisette occorrenze del termine fortuna (più un interessante «fortunosi casi», che a II 7 6 conferma la sinonimia tra casi e avvenimenti), sono presenti ventidue occorrenze del plesso semantico formato da savio, avveduto e ingegno (nelle loro varianti morfologiche): quasi che, appunto come si diceva, non si possa pensare alla fortuna se non in associazione contrappositiva con la virtù umana. La polarizzazione sembra peraltro intervenire nello stesso corpo decameroniano, influenzandone la struttura, se è vero che alla prima giornata (a tema vario ma con forte presenza di novelle incentrate sulla prontezza di spirito) segue una sessione narrativa dedicata alla fortuna, a sua volta seguita da una giornata che raccoglie esempi di «industria» (cioè di positiva operosità umana): una bella alternanza tematica, dopo la quale il lettore affronta le venti novelle d’amore (con esito tragico ed esito lieto) che vengono narrate durante il regno di Filostrato e di Fiammetta. La polarizzazione appare inoltre ben chiara agli stessi narratori. Lo si evince dalle due introduzioni alle loro novelle in cui Pampinea ed Emilia si soffermano a ragionare sul tema prescritto. Pur ponendo l’accento su aspetti diversi, entrambe le donne contrappongono progettualità umana e casualità degli eventi. La prima sostiene che l’«occulto giudicio» della fortuna si presenta come un’incessante permutazione di fatti che avviene «senza alcuno conosciuto ordine da noi» (cioè, senza che gli uomini possano conoscerne la ragione: II 3 4). L’altra insiste a sua volta sui «movimenti varii della fortuna», ma osserva che i discorsi che le sono dedicati destano le «nostre menti», educando gli uomini e rendendoli reattivi rispetto al mutare della sorte (II 6 3). Risulta così ribadita la contrapposizione tra uomo e fortuna, o meglio l’interazione tra l’ambito della virtù umana e il complesso degli eventi e delle situazioni con cui i soggetti devono misurarsi. La fortuna è dunque un concetto cardinale nel Decameron, come mostra il brano del Proemio da cui siamo partiti, e come si evince dalla constatazione che il termine appare in tutte le altre giornate, in particolare nella quinta e nella decima (con venti e ventiquattro occorrenze). Tra

fortuna e narrazione vige del resto un rapporto assai stretto, sia perché la varietà degli eventi rende più interessante e avvincente la storia raccontata, sia perché la linearità narrativa risulta particolarmente limpida quando è basata sul succedersi di singoli eventi fortunosi (con ricadute importanti anche sui cronotopi). A questo proposito, il titolo della seconda giornata, che abbiamo riletto qualche riga più sopra, fornisce un’indicazione interessante. La prescrizione della regina Filomena impone infatti non solo di raccontare vicende in cui si passi da una situazione negativa al «lieto fine» (per cui le novelle saranno incentrate sulla peripezia), ma di farlo in modo tale che la conclusione superi le aspettative del protagonista, facendolo trionfare «oltre alla sua speranza» (il rivolgimento sarà pertanto inatteso). Si evince da ciò l’importanza della costruzione dell’intreccio, che diventa l’elemento strutturale portante delle novelle raccontate in questa giornata, con conseguenze dirette anche sulla lunghezza del racconto, che non può essere contenuto entro limiti troppo ristretti. Non sorprende pertanto che tutte le novelle della seconda giornata siano accomunate non solo dal rispetto del tema (cui si attiene anche Dioneo, che in questo caso non sfrutta il privilegio che pure gli è stato appena concordato), ma anche dalla struttura del viaggio, meccanismo del resto consueto per ogni scatenamento narrativo. Nel caso specifico, è utile distinguere tra vari tipi di viaggio, a seconda che si tratti di un’impresa liberamente perseguita (da cui conseguono disavventure impreviste), di una necessità (per sottrarsi a un pericolo o a una minaccia) o di un movimento indesiderato (ma con esito positivo). Un ulteriore sottogruppo è costituito dalle novelle in cui il viaggio è intrapreso per ragioni economiche (perché spinti ad arricchirsi o perché costretti ad abbandonare una condizione favorevole), il che accade in ben sei novelle su dieci (di carattere misto è però il viaggio in II 9). Se un altro collante interno è rappresentato dall’amore (presente ben otto volte: a riprova peraltro della continua congiunzione tra amore e fortuna), lo schema narrativo del viaggio, per quanto quasi scontato in un racconto d’avventure, si conferma legato alla dimensione economica almeno nel cinquanta per cento dei casi. Ciò non manca di avere conseguenze sull’identikit dei personaggi, che infatti sono in maggioranza mercanti, o individui costretti a viaggiare per ragioni professionali (ambito in cui rientrano anche giullari e pirati). Nel caso di appartenenti al mondo

dell’aristocrazia il viaggio è invece dovuto a importanti rivolgimenti nella loro vita: un rapimento, lo scoppio di una guerra, oppure l’esilio politico. Il viaggio è del resto una figura antichissima per rappresentare l’esperienza umana (ne abbiamo parlato supra, par. IV.3) come passaggio di stato, evoluzione continua verso una differente condizione, come formazione individuale che termina con l’acquisizione di una maggiore maturità. Per limitarci a un solo esempio, possiamo considerare la novella di Andreuccio da Perugia (II 5), che, arrivato inesperto a Napoli per acquistare cavalli, in una sola notte è sottoposto a una serie di prove che marcano in maniera potentemente simbolica il suo apprendistato alla vita adulta. La trasformazione di Andreuccio è sottolineata dalla struttura narrativa, col primo spostamento (da Perugia a Napoli) raddoppiato dall’itinerario notturno in una città misteriosa e pericolosa e addirittura triplicato dai tre movimenti verso il basso (nel chiassetto, nel pozzo, nel sepolcro: §§ 38, 66, 77) che scandiscono il progressivo maturare del personaggio. Se la novella aderisce al tema della giornata per il ruolo decisivo che vi assume la fortuna, in special modo nella forma dell’incontro casuale (con la vecchia donna, conoscente del giovane perugino; coi ladri cui si unisce nell’impresa sacrilega di saccheggiare la tomba dell’arcivescovo; con la truppa di sbirri che si abbevera al pozzo, ecc.), d’altra parte si deve osservare che il processo di conoscenza, cui il protagonista è sottoposto, ne esalta le qualità individuali, soprattutto la prontezza nell’apprendere e l’intraprendenza priva di scrupoli. Dopo essere stato ingannato dal fascino femminile e aver creduto alla favoletta della finta sorellastra siciliana, Andreuccio, «più cupido che consigliato» (§ 64), si associa ai ladri (e profanatori di tombe) e, al culmine della sua nottata, mentre sta entrando nell’arca in cui giace l’arcivescovo, giunge infine a prevedere – almeno in parte – il comportamento dei ladri, assicurandosi in anticipo una parte del bottino (che peraltro equivale alla cifra da lui perduta nella prima parte della novella). Certo, si fa fatica a ritenere positivo il comportamento del giovane perugino, fattosi ladro e sacrilego per recuperare la somma che gli è stata sottratta. E tuttavia il Narratore esterno non fa alcun riferimento a un possibile giudizio negativo di carattere morale, e al contrario presenta di scorcio il divertimento con cui la brigata fiorentina segue lo svolgimento della vicenda (II 6 2). D’altra parte, Andreuccio non fa altro che reagire ai

colpi della fortuna, contrapponendo a quelli la sua energia giovanile, così da rimarcare ulteriormente la fondamentale co-implicazione reciproca di fortuna e ingegno (nel senso di indole, temperamento, carattere) che caratterizza l’intera giornata. L’importanza di questa associazione attraversa tutto il Decameron, come mostrano le parole di Dioneo alla fine della sesta giornata, quando – al momento di presentare il suo tema, e subito prima di confessare il debito nei confronti della serva Licisca, «la quale con le sue parole m’ha trovata materia a’ futuri ragionamenti di domane» – ricorda alle «amorose donne» che nelle precedenti tornate narrative si è a lungo ragionato «della umana industria e de’ casi varii», cioè, ancora una volta, dell’ingegno e della fortuna (VI Concl. 4). L’accoppiamento proposto da Dioneo è ancora più significativo perché il termine industria, da lui utilizzato, appare nell’opera soltanto tre volte, di cui due nel titolo della terza giornata, «nella quale si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse» (III Introd. 1; identica formula in II Concl. 9). Grazie alla citazione del giovane fiorentino, possiamo così constatare che il termine, nonostante la scarsissima incidenza quantitativa, è invece fortemente rappresentativo del sistema concettuale che lo governa, costituendo il secondo polo, insieme alla varietà dei «casi», dell’intera narrazione: una rilevanza davvero notevole, se osserviamo che Dioneo non fa alcuna menzione esplicita del tema d’amore, forse sussunto in quella molteplice, onnicomprensiva “varietà” dominata dalla fortuna. L’ingegno assume del resto un ruolo importante proprio nel campo dell’amore, dove i protagonisti sono spesso impegnati nella costruzione di complesse trame per ottenere quanto sperato. Tra i tanti esempi si può prendere in considerazione la storia dell’anonima fiorentina che sfrutta astutamente l’avarizia e la credulità di un «frate» per stabilire un contatto con l’uomo che l’attrae (III 3). La donna, fingendo di lamentarsi per il comportamento poco serio di quell’uomo, il quale in realtà non la conosce ancora, utilizza il prete come veicolo per comunicargli il proprio desiderio e così dare vita alla tresca amorosa. Astuzia, cautela (§ 8) e abilità comunicativa sono espressioni dell’industria, cui la terza giornata è appunto dedicata, e che in questa novella viene applicata a quell’universo femminile le cui componenti sanno anche loro, come sottolinea la saggia Pampinea, «cautamente» operare (§ 4); una rivendicazione filogina con

cui si allinea il commento di Dioneo, che infatti elogia lo «’ngegno della donna» (III 4 2). L’ingegno è dunque una componente decisiva nel campo d’amore. Già solo limitandosi alla terza giornata, si nota infatti che l’associazione tra i due elementi è costante, anche nel versante comico: è il caso della malizia di Masecchio da Lamporecchio che si fa ortolano delle monache, della prontezza del palafreniere che si sottrae abilmente alla vendetta del re Agilulfo, della mirabolante messa in scena dell’abate ai danni di Ferondo (che si convince di essere morto e punito in Purgatorio). Anche le donne, abbiamo già visto, si mostrano capaci di utilizzare la loro intelligenza per conseguire gli scopi desiderati, come avviene in modo davvero esemplare nel caso di Giletta (III 9), figlia del medico Gerardo da Nerbona e lei stessa esperta di medicina, che grazie alle sue qualità intellettuali ottiene dal re come marito l’uomo che ama, riuscendone poi a conquistare anche l’amore unendo l’astuzia all’intraprendenza. La novella – che peraltro sfrutta ampiamente il tema del viaggio – è divisibile in tre sequenze, due dinamiche e una statica: nella prima parte della novella, Giletta si sposta dalla regione natia alla corte di Parigi, dove guarisce il re da una fistola ottenendone in cambio il marito amato sin dalla fanciullezza (§§ 10-26); nella seconda, la giovane rimette in ordine i possedimenti del marito, che nel frattempo l’ha abbandonata, disprezzandola perché di rango inferiore al suo (§§ 27-31); nella terza, infine, ella si reca in Toscana travestita da pellegrino, riuscendo a riconciliarsi col suo uomo grazie a un’astuta trovata (§§ 32-61). L’ingegnosità della donna è diversamente caratterizzata nelle tre sequenze: nella prima parte della novella la sua razionalità è rappresentata, in maniera emblematica, dalla conoscenza dell’arte  medica; nella breve fase statica che separa i due viaggi l’ingegno  è invece reso evidente dalla sua capacità di rimettere «in ordine», «con gran diligenzia e sollecitudine», la contea del marito; nell’ultima fase le sue qualità intellettuali si esprimono infine nell’attenta ponderazione con cui esamina la situazione. In quest’ultimo caso, in particolare, si deve osservare che la narratrice sottolinea il procedere razionale della protagonista, sia con le scelte lessicali, sia con la distinzione sintattica tra gli elementi di contorno (posti al gerundio e al participio) e la deliberazione (espressa al modo finito): «intendendo raccolse bene», «più tritamente essaminando», «bene ogni cosa compresa», «formò il suo consiglio» (§ 37).

Grazie al suo ingegno, Giletta riesce dunque non solo a ottenere l’uomo che ama, ma a superare la differenza sociale col marito, che all’inizio si mostra «durissimo» con una moglie che, pur assai bella, non è «del legnaggio che alla sua nobiltà bene stesse» (§ 22). Il tema filogino della novella si colora così di sfumature storiche più precise, che riguardano il rapporto tra la nobiltà feudale e i nuovi ceti intellettuali, capaci, come appunto la protagonista, di governare saggiamente. La conclusione felice della storia è sigillata da un gesto dal profondo significato rituale – la si direbbe una vera e propria investitura –, col marito che fa indossare alla moglie dei «vestimenti a lei convenevoli», sì da rendere manifesto il rango che ella ha saputo conquistarsi (§ 61).

V.3. L’amore Come abbiamo visto rileggendo il Proemio, i «casi d’amore», nelle due varianti «piacevoli e aspri», costituiscono, insieme alla “fortuna”, il tema principale del Decameron. Essi infatti superano ampiamente il limite delle due giornate che vi sono esplicitamente dedicate (la quarta e la quinta), attraversando l’intero libro, dalla novella I 4, quando il tema erotico appare per la prima volta, alla novella X 10, in cui si narra la storia di Griselda e del suo difficile matrimonio con il marchese di Saluzzo. Già da questa minima sintesi, risulta tuttavia ben chiaro che sotto la categoria “amore” vengono raggruppate vicende anche molto diverse tra di loro: altra cosa è infatti l’eros sensuale, altra la logica matrimoniale, altra ancora l’innamoramento di due giovani. Ciascuna di queste distinzioni potrebbe poi essere ulteriormente suddivisa: il matrimonio può essere la conclusione felice di una serie di disavventure (II 7 o, diversamente, III 9), può essere la condizione in cui si esercita il legame di fedeltà tra due individui (II 9), può essere l’ostacolo da superare per godere liberamente della propria sensualità (è il caso di tutte le novelle della settima giornata). “Amore” era del resto la parola centrale di tutta l’alta tradizione poetica romanza, codificatasi nel sistema cortese; come anche era il tema principale della poesia dell’autore latino di età augustea Ovidio, assai ammirato da Boccaccio. Per entrare nel sistema concettuale dell’amore decameroniano è opportuno cominciare dalla Introduzione alla quarta giornata, dove l’Autore interrompe il racconto della novella portante per prendere

direttamente la parola e difendersi dalle accuse che ha ricevuto dopo la diffusione (reale o inventata che sia) delle prime tre giornate. Prima di argomentare a sua difesa, l’Autore, come sappiamo (cfr. supra, cap. III), propone una novella, o anzi una novella “non intera” (§ 11). Vi si espone il caso di Filippo Balducci, uomo fiorentino che, rimasto vedovo, va a vivere in eremitaggio col figlio. Questi, un giorno, accompagnando il padre per la prima volta in città, dopo aver ammirato a bocca aperta le bellezze del mondo urbano, s’imbatte in «una brigata di belle giovani donne e ornate» (§ 20). Non avendo mai visto donne in vita sua, e rimasto piacevolmente turbato, il ragazzo dapprima chiede al padre «che cosa quelle fossero»; alla risposta che si tratta di una «mala cosa», che ha nome «papere» (§§ 21-23), il figlio chiede di poterne avere una da portare con sé per poterle dare a «beccare» (§ 28). La battuta paterna, «Io non voglio; tu non sai donde elle s’imbeccano!», conclude la novelletta con una clamorosa dimostrazione della «forza» della «natura» (§ 29), alla quale si appella infine lo stesso Autore per difendersi (§§ 30-32) da chi gli ha rinfacciato di essere troppo attratto dalle donne (§ 5). La questione della naturalità dell’amore, introdotto dalla cosiddetta “novella delle papere”, si prolunga nei successivi racconti. Ciò è vero, intanto, per alcuni specifici aspetti strutturali che sono stabilmente congiunti al tema amoroso, e che nella quarta giornata appaiono sovente rovesciati a causa dello sviluppo tragico che vi è richiesto. Ciò è vero, inoltre, per l’interpretazione dell’amore come forza naturale, cui è impossibile contrastare, che si ripresenta spesso nell’opera, tanto da diventarne un vero e proprio tema-guida. La naturalità dell’amore, uno dei principali assunti del Decameron, acquista una straordinaria importanza proprio nella quarta giornata. Lo si vede già, dopo la storiella di Filippo Balducci e del figlio, verso la fine dell’Introduzione, dove l’Autore afferma che chi ama, «naturalmente oper[a]», giacché occorrono «troppo gran forze» per «contrastare» alle «leggi [...] della natura» (§ 41). Parole quasi identiche si trovano successivamente nel discorso con cui Neifile introduce la sua novella, dove biasima la presunzione di chi crede di poter operare contro «la natura delle cose», in particolare contro l’amore, che è, tra le «altre naturali cose», quella che meno sopporta contrasti dall’esterno (IV 8 3-4). Il medesimo discorso viene attribuito a Ghismonda, forse uno dei più importanti personaggi di tutta l’opera, la quale, scontratasi col padre a

causa del suo amore clandestino, gli ricorda l’impossibilità di «resistere» alle «forze» del «concupiscibile desiderio» (IV 1 35), mentre il suo amante, Guiscardo, afferma semplicemente che «Amor può troppo più che né voi [scil. il padre di Ghismonda] né io possiamo» (ivi 23). Se la “novella delle papere” (una novella per così dire “extranumeraria”, come se fosse la numero centouno del Decameron) si proietta in avanti verso la sequenza della quarta giornata, essa appare imparentata anche con l’ultimo racconto della giornata precedente, dove è presentata la divertente figurina dell’ingenua e bellissima quattordicenne Alibech, la quale, partita per il deserto per apprendere dagli eremiti a servire Dio, viene introdotta da un «romito giovane» di nome Rustico a «rimettere il diavolo in Inferno» (III 10 26). Al di là del gioco metaforico – il cui significato appare chiarissimo quando si spiega che “diavolo” e “inferno” sono i nomi attribuiti agli organi genitali, rispettivamente maschile e femminile –, la novella insiste sulla giovane età dei due protagonisti, che li spinge a travalicare il servizio divino per dedicarsi a una sorta di esorcismo sessuale. Nello spazio eccezionale del deserto (dove si ritiravano i primi eremiti cristiani) e in una condizione di totale isolamento, Rustico cede di colpo alla tentazione della carne (§§ 9-24), mentre Alibech dimostra un’accesa e forse eccessiva devozione (§§ 25-26), che infine conduce l’eremita, costretto a soddisfare l’impeto religioso della ragazza, alla più completa spossatezza (§§ 27-30: cfr. anche infra, par. VI.2). Abbiamo parlato poco più sopra dello strettissimo rapporto che, nel corso dell’opera, si stabilisce tra amore e fortuna. Questa fondamentale congiunzione è particolarmente visibile nella seconda giornata, dove il tema amoroso è di frequente collegato alla giovane età dei personaggi e al protagonismo femminile, interpretato soprattutto come reattività rispetto all’occasione. È questo il caso della vedova in II 2, della principessa travestita da abate in II 3, di Violante, la figlia di Gualtieri, in II 8, nonché di Zinevra in II 9 e di Bartolomea in II 10. Va detto che questo protagonismo è spesso esaltato dalla capacità delle donne di prodursi in discorsi, anche lunghi, e comunque in difese argomentate dei propri modi di essere e dei propri progetti. In tal senso si può osservare che anche l’indubitabile passività di Alatiel (II 7) si rovescia in conclusione nel suo opposto, facendo di lei una figura esemplare, sia della giornata sia della complessiva prospettiva di senso realizzata nel Centonovelle.

Il momento apicale di questa associazione tra vivacità sessuale e abilità discorsiva si trova probabilmente nella novella di madonna Filippa (VI 7), la quale, pur non sottraendosi all’anziano marito, gli preferisce le più vigorose attenzioni di un giovane amante. Decisiva è qui la rappresentazione dei caratteri, che contrappone rigidamente moglie e marito: questi è rappresentato come un uomo pavido, che non ha il coraggio di vendicarsi da solo (§ 6) e che pertanto si rivolge alla giustizia ordinaria; la donna è invece «gentil», «bella» e soprattutto «innamorata» (§ 5), condizione privilegiata da cui trae quel «gran cuore» (§ 9) che le permette di presentarsi al podestà (chiamato a giudicare il fatto) mantenendo «fermo viso» e «salda voce» (§ 10; e si noti la reazione del podestà alla vista della donna: § 11). È importante osservare con quanta attenzione il Narratore tratteggi l’abilità retorica del personaggio: Filippa non si distingue solo per un discorso brillante e per una pronta battuta in risposta al marito con cui conclude la sua arringa (§§ 13-15 e 17). Della donna viene invece anche descritto accuratamente l’atteggiarsi e, soprattutto, il modo di parlare: la «salda voce» con cui ella si presenta al podestà diventa infatti una «voce assai piacevole» (§ 13), quando espone i fatti e le sue considerazioni a proposito del crudele statuto che punisce le adultere. La coesione sintattica del racconto è tutta nel gioco di questi due caratteri, come mostra la conclusione, in cui il marito va via tutto «confuso» per il cattivo esito del processo, mentre Filippa, «lieta e libera», torna trionfante a casa (cfr. «gloriosa», § 19). L’orchestrazione diegetica mette in evidenza anche una notevole coerenza semantica, che vale per questa singola novella come per l’opera nel suo complesso. Tenuta ferma la condanna delle donne che si danno per danaro (lo stesso, come mostra III 5, vale anche per i mariti che offrono le proprie mogli per interesse), la novella esalta la prontezza espressiva e l’ingegno di madonna Filippa, e al tempo stesso stigmatizza (come sempre nel Decameron) chi esibisce in pubblico le proprie disgrazie familiari: è Rinaldo, insomma, a essersi arrischiato in una «matta impresa» (§ 19); la donna – ottenuto il favore popolare con la sua intelligente battuta che provoca «molte risa» – esce invece vincitrice dal confronto (§ 18). L’incrocio tra giovinezza e desiderio sessuale può essere svolto nelle due direzioni opposte della rottura degli equilibri e della loro conferma (semmai passando per un precedente momento di tensione). Questo secondo aspetto è ben illustrato dalla storia di Ricciardo Manardi e di

Caterina, figlia dell’anziano Lizio da Valbona (V 4), nella cui casa i due si conoscono e innamorano, subito concordando un sotterfugio per potersi incontrare di nascosto nonostante lo stretto controllo cui la giovane è sottoposta (§§ 6-14). Ai due giovani, come in ogni schema di commedia, sono contrapposti i genitori, vecchi ma in realtà benevoli, i quali perseguono non la logica dell’amore ma il codice dei rapporti sociofamiliari: l’esito felice del racconto coincide pertanto con la riconduzione dell’amore, giovanile e intemperante, dentro i confini del matrimonio, che è limite legale e insieme forma di alleanza sociale. Anche in questo caso, tuttavia, la prospettiva dell’ordine sociale è fusa insiema al gusto per l’arguzia e l’allusione piccante. Per il primo aspetto, basta leggere la conclusione della novella, dove si spiega che, dopo la promessa, fatta in presenza dei soli genitori di Caterina, segue la cerimonia di matrimonio, svolta «come si conveniva», ossia «in presenza degli amici e de’ parenti» (§ 49). Il secondo aspetto è invece giocato al livello della intensificazione metaforica, dove il desiderio di Caterina di poter sentire il canto notturno dell’usignolo dormendo all’aperto (§ 21), si concretizza in maniera ben materiale quando all’indomani il padre la trova addormentata in braccio all’amante, il cui sesso – metaforizzato nella novella come «usignolo» – ella tiene ben stretto in pugno (§ 31): lo spostamento dall’ambito referenziale (udire il canto degli uccelli notturni perché si dorme all’aperto) a quello metaforico (dedicarsi all’amore) ribadisce scherzosamente la coincidenza naturale tra amore e giovinezza. Se nella “novella dell’usignolo” la tensione erotica giovanile viene ricondotta dentro le maglie del discorso sociale, molte altre volte l’amore appare invece come una forza perturbatrice, addirittura disastrosa. Tra i numerosi casi, basta ripensare alla straordinaria storia di Alatiel (II 7), la cui bellezza conturbante induce gli amanti nei quali via via s’imbatte a gesti estremi, spesso omicidi. Esemplari in questo stesso senso risultano inoltre le novelle della quarta giornata, a partire da quella di Ghismonda (IV 1), di Lisabetta (IV 5) e dei due Guglielmo (IV 9), nelle quali è sempre ben evidenziato il conflitto sociale e comportamentale che conduce alla conclusione tragica. Il nesso tra amore e giovinezza, abbiamo già visto, è assunto con consapevolezza da parte di Ghismonda e del suo amante, e anzi la figlia del principe di Salerno si rivolge al padre dicendogli chiaramente che, essendo lui «di carne», non può che «aver generata figliuola di carne e non di pietra o ferro», e ricordandogli, non

senza dolorosa ironia, quali e quanto forti siano «le leggi della giovanezza» (IV 1 33). Pur non avendo alcuna capacità di esprimersi, lo stesso vincolo è espresso con forza dalla sfortunata Lisabetta, la cui iterata richiesta ai fratelli di ricevere notizie di Lorenzo e, poi, del vaso («testo») di basilico nel quale ha sepolto la testa dell’amato, si traduce in un silenzio assoluto, per chiudersi infine in un delirio ossessivo in cui la fanciulla, «non restando di piagnere e pure il suo testo adimandando, piagnendo si morì» (IV 5 23). La forza antisociale dell’amore, e ancor più del desiderio fisico è affrontata anche in chiave comica, soprattutto attraverso la ripresa e la ridefinizione di un tipico motivo della commedia antica, ma diffuso anche nella cultura medievale (si veda il Lai d’Aristote): l’innamoramento di un vecchio per una donna giovane. Ne troviamo un chiaro e divertente esempio in II 10, dov’è narrato il matrimonio dell’anziano notaio Riccardo da Chinzica con la giovane Bartolomea, rapita qualche tempo dopo le nozze dal pirata Paganino. La novella è scandita in due sequenze (la vita matrimoniale e la convivenza col pirata), che appaiono l’una il rovescio dell’altra (dal vecchio al giovane, dall’astinenza alla soddisfazione sessuale). Quando il notaio raggiunge il covo del pirata per farsi restituire la moglie, la giovane donna mette in ridicolo il rispetto per le festività religiose cui l’uomo l’aveva costretta (come pretesto per non impegnarsi sessualmente), dichiarando di essere, al contrario, pienamente appagata dall’assiduità di Paganino (§§ 8-10 e 32-34). È un brano interessante, dove una donna esprime la naturalità del proprio desiderio («dovavate vedere che io era giovane e fresca e gagliarda»: § 31), ricevendo peraltro il plauso del suo Narratore, Dioneo, e l’accoglienza festosa dell’intera brigata. Alla forza del desiderio, attiva anche negli anziani, la novella X 6 contrappone il senso dell’onore e la correttezza del comportamento pubblico: Carlo I d’Angiò s’innamora delle figlie di Neri degli Uberti, un fiorentino di fazione ghibellina, che si è rifugiato nel Regno di Napoli dopo essere stato esiliato. Severamente rampognato dal suo consigliere, Guido di Monforte (§§ 24-32), il re si ravvede e sposa le giovinette a due cavalieri della sua corte (§§ 33-35). L’atto di magnificenza (virtù cui è dedicata la giornata) è in diretto rapporto con la politica, e il confronto tra la liberalità e la forza dell’amore è risolto a favore della prima. In gioco vi è infatti la centralità dell’onore, termine che ricorre nell’introduzione e

nella conclusione della Narratrice (§§ 4 e 36), nonché nel rigoroso discorso di Guido di Monforte, dove si precisa che la dignità regale impone il riconoscimento dell’onore ricevuto e il rispetto dell’onore dei sudditi (§§ 29 e 30). Il contrasto tra appetito (§§ 32 e 33) e controllo di sé («raffrenare»; «a [sé] medesimo soprastare»; «sé medesimo [...] vince[re]»: §§ 32, 33, 36) non risponde ad astratti principi morali, ma alle regole sociali e all’opportunità del governo: col suo dono conclusivo, Carlo ottempera infine ai suoi doveri di sovrano, scegliendo di rafforzare il tessuto delle alleanze piuttosto che soddisfare il suo incapricciamento senile. Ultimo esempio interessante è la novella I 10, dove maestro Alberto, un anziano e illustre medico, s’innamora di una giovane vedova, «madonna Malgherida dei Ghisolieri». Dopo il corteggiamento rituale, con il passaggio ripetuto per la «via davanti alla casa» della donna (§ 11), l’incontro decisivo avviene in un giorno di festa, quando la protagonista s’intrattiene con le amiche davanti all’uscio di casa (§ 13). Il trasferimento nel contesto urbano della tipica ritualità cortese – trasferimento che è istitutivo dell’etica decameroniana – diviene funzionale al racconto nel momento in cui il medico è invitato a spostarsi in una «fresca corte», dov’è ricevuto con «finissimi vini e confetti» (§ 14). È in questo contesto di civile convivenza che avviene lo scambio di battute mordaci tra le donne, che rimproverano l’uomo per il suo amore inopportuno e tardivo, e maestro Alberto, che ammonisce la vedova utilizzando una faceta metafora vegetale. Facendo concludere il confronto tra le risa e «con festa» (§ 20), il medico riconquista pienamente la sua dignità pubblica, riconosciutagli peraltro da madonna, la quale, però, mentre qualifica il suo interlocutore come «savio e valente uomo», lo riconduce a sua volta al rispetto delle corrette relazioni sociali, offrendosi di corrispondere in futuro a «ogni [suo] piacere», purché la sua «onestà» sia sempre fatta salva (§ 19).

V.4. Lo spazio del meraviglioso Fino al XII secolo, ha spiegato Alberto Vàrvaro sulla scorta di numerosi studi precedenti, cultura alta, di ispirazione cristiana e latina classicheggiante, e cultura bassa, di carattere folklorico, semmai con radicamento pagano, non hanno dialogato. Ne conseguì una separazione

netta nella distribuzione di temi, motivi, storie e figure mitologiche tra il mondo orale e quello scritto. Solo da un certo punto in avanti, forse anche per l’avvenuto mutamento nei rapporti tra campagne e città col rafforzamento di queste ultime, la letteratura scritta cominciò ad assumere il ricchissimo patrimonio narrativo popolare, che nei secoli precedenti era rimasto relegato al consumo volatile della parola. Ciò accadde più o meno all’altezza del De nugis curialium di Walter Map (i cui materiali furono presumibilmente raccolti tra il 1154 e il 1189), diventando da quel momento in poi piuttosto normale che situazioni strane, prodigi, avventure meravigliose e fate benevole o minacciose venissero accolte nei romanzi e nei racconti brevi, tanto da costituirne uno degli aspetti più significativi e caratterizzanti. Cogliendole dalle bocche delle vecchiette e delle balie chine sulle culle dei bambini, anche Giovanni Boccaccio mostra curiosità per queste narrazioni, che – nel quattordicesimo libro del suo trattato mitologico intitolato Genealogie deorum gentilium – accorpa nel tipo di fabula la quale «nil penitus in superficie nec in absconditu veritatis habet, cum sit delirantium vetularum inventio» (“non ha verità alcuna, né al livello letterale né al livello allegorico, giacché sono invenzioni delle vecchie pazze”). Giustificati dal piacere che offrono e dall’utilizzo didattico cui si prestano, questi raccontini possono risalire dal magmatico mondo dell’oralità alla scrittura, seguendo il percorso che aveva già mostrato Apuleio nel quarto libro delle Metamorfosi, dove proprio una vecchietta («anicula») ristora la povera Carite, rapita dai briganti, raccontandole il mito di Amore e Psiche. È stata Elisabetta Menetti a volgere l’attenzione degli studiosi verso il “fantastico” decameroniano, che non è, però, del tipo fiabesco o miracolistico più tipicamente diffuso nella cultura medievale. Nell’opera boccacciana sono invece presenti «la magia, le avventure e i viaggi in terre lontane ed esotiche», o anche gli «intrecci erotici», nonché le descrizioni macabre (non molto numerose, in verità) e un certo interesse per la produzione onirica dei personaggi. La stessa categoria del fantastico va poi opportunamente intesa: non troviamo il sovrannaturale, lo strano o l’inquietante che popolano tanta letteratura a partire dall’età tardoromantica, quando si affermarono scrittori del calibro di Hoffmann ed Edgard Allan Poe. Siamo, piuttosto, nell’ambito del meraviglioso, come

testimonia l’imponente occorrenza di termini che rientrano in questo campo semantico. La stessa Menetti ha spiegato la rilevanza del tema nel Decameron, proponendone il collegamento con le teorie che nel Medioevo rivendicarono la centralità dei concetti di phantasia e imaginatio per la produzione letteraria e artistica in generale. Circa un secolo dopo, Marsilio Ficino (che, come già i teorici medievali, partiva dai commenti arabi ad Aristotele) avrebbe individuato nello spiritus phantasticus il grande traduttore tra esperienza sensibile, ricaduta emotiva e concettualizzazione razionale, confermando l’importante ruolo svolto dall’immaginazione nella vita degli esseri umani. In realtà, se proviamo a verificare la distribuzione dei lemmi inerenti al fantastico nelle opere boccacciane, troviamo che la loro incidenza è piuttosto ridotta, limitata com’è ai phantasmata che appaiono nei sogni notturni e a un «sumpto fantastico corpore», riferito a quegli spiriti inferi che “assumono sembianze visibili” per rivolgersi a Enea (cfr. Genealogie deorum gentilium, rispettivamente i libri primo e terzo). Se numerose sono invece le occorrenze del plesso semantico collegato all’“immaginare”, colpisce che il termine appaia nella descrizione del modo in cui i fiorentini reagiscono al diffondersi della peste: il sorgere improvviso di «diverse paure e imaginazioni» (I Introd. 19) conferma infatti il carattere psicologico del fantasticare, il suo collegamento con la complessiva sfera dell’emozionalità. Non stupisce, pertanto, che il meraviglioso decameroniano si applichi spesso allo schema narrativo dell’avventura. Nel Decameron, infatti, ci si meraviglia per eventi inaspettati, per il ritrovamento del marito o di un tesoro, per l’incontro decisivo che cambia la vita: ed è significativo che il venti per cento delle occorrenze inerenti al campo della “meraviglia” cada dentro la giornata dedicata alla fortuna: vi è un’ovvia relazione tra la sorpresa e il caso, spesso dovuto al peso narrativo assunto dall’inatteso e dall’inusuale. Vi sono però altri casi, in cui il meraviglioso si apparenta maggiormente allo straordinario. Certo, nel Medioevo erano ritenuti normali eventi che alla coscienza odierna appaiono inusuali se non addirittura impossibili, e perciò occorre osservare con cautela questo tipo di fenomeni per non attribuire a un’epoca così lontana schemi che sono validi solo nella modernità. Ci sono però due ambiti nei quali la rottura dell’orizzonte

quotidiano è significativamente marcato: l’irruzione del sovrannaturale e la rilevanza del sogno. Va ricordato, è vero, che nel Decameron è forte la polemica antireligiosa, e che per questo motivo l’ampio settore del miracolo e del prodigioso a carattere sacro è guardato con sospetto se non irriso in maniera esplicita (si pensi, ancora una volta, al rovesciamento del racconto agiografico realizzato in I 1). E tuttavia non manca qualche occasione in cui il mondo ultraterreno è effettivamente rappresentato, salvo essere poi interpretato in termini esclusivamente mondani. È quel che accade per esempio in V 8, dove si racconta la storia di Nastagio degli Onesti, ricchissimo gentiluomo ravennate che ama, non riamato, una fanciulla appartenente alla nobile famiglia di Paolo dei Traversari, di rango più alto del suo. A questa coppia corrispondono le due anime dannate che appaiono a Nastagio nella pineta di Classe (subito fuori Ravenna), dov’è andato a vivere dopo aver abbandonato la città per alleviare le sue pene d’amore. Questa seconda coppia è rappresentata nella tipica fissità di chi espia nel mondo ultraterreno, costretto a ripetere gli stessi gesti per l’eternità; più precisamente, Boccaccio riprende il motivo nordico (ma diffuso anche altrove in Europa) della caccia infernale, con l’uomo intento a perseguitare crudelmente la donna che in vita non lo ha corrisposto. Rispetto alla passività ripetitiva delle due anime dell’Inferno, che ricorda la staticità degli exempla, Nastagio interpreta il mondo dinamico della novella, trasformando l’inerte ripetizione della caccia e della crudele uccisione della donna in un’efficace lezione impartita all’amata. La dinamicità del protagonista consiste in questo caso nello sfruttamento della terribile scena infernale, reinterpretata come uno spettacolo da cui si ricava un chiaro insegnamento amoroso: lo dimostra l’attenzione con cui il giovane dispone i posti a tavola per assicurarsi che la sua donna assista alla punizione ultraterrena (§ 36). Si può allora osservare che in questo caso il meraviglioso orienta il senso della novella, la cui problematicità scaturisce dal trasferimento nelle pratiche aristocratiche quotidiane (il banchetto) di ciò che è per sua natura estraneo all’esperienza ordinaria (ma non alle attese culturali dell’epoca). Non molto diverso appare il ruolo del sogno, dove pure è presente il contatto tra ciò che esula dal mondo abituale e lo sfondo delle attività consuete. In tal senso è interessante rileggere l’accurato discorso sviluppato da Panfilo quando prende la parola dopo aver ascoltato la novella in cui Elisabetta vede in sogno l’amato indicarle il punto in cui è

stato ucciso e seppellito dai fratelli di lei (IV 5 11-13). Dopo aver accuratamente ragionato sullo statuto dell’attività onirica e sull’impressione di vero prodotta nel sognatore (IV 6 3-7), Panfilo propone una novella incentrata su due sogni, da cui la protagonista Andreuola trae un cattivo presentimento (§§ 10-17), inverato dall’improvvisa morte dell’amato Gabriotto (§§ 9-30). Senza seguire qui le peripezie notturne successive alla triste morte del giovane, è interessante osservare il modo in cui è sfruttata l’inquietante dimensione del mondo onirico. Non solo, infatti, le visioni notturne dei due giovani, analoghe nel contenuto, si verificano effettivamente appena essi s’incontrano, ma i sogni sembrano attingere al materiale diurno della loro vita, giacché rielaborano oniricamente lo spazio in cui gli amanti sono soliti incontrarsi, trasformandolo rispettivamente in giardino (nel sogno della donna) e in selva (nel sogno dell’uomo). All’analogia di ambientazione si affianca l’analogo trattamento del demonico: Andreuola si vede strappar via dalle braccia l’amante a opera di «una cosa oscura e terribile, la forma della quale non poteva conoscere» (§ 10); Gabriotto sogna che una cagna, una «veltra nera», gli metta «il muso in seno nel sinistro lato», strappandogli il cuore (§ 16). Questa notevole rappresentazione dei valori anche coloristici del sogno è impreziosita dal fatto che il lavoro onirico è presentato come elaborazione del significante, cioè della dimensione sonora delle parole, con una donna, Andre-uola, trasformata in un’amorosa cavri-uola che pascola in un giardino d’amore (§§ 14-16). Altro episodio onirico è in IX 7, in cui nuovamente un sogno premonitore si rivela veritiero (è un «vero sogno»: § 14, più avanti chiamato anche «visione»: IX 8 2). Questo carattere del racconto induce la Narratrice a marcarne l’autenticità, spiegando che si tratta di evento realmente accaduto «a una [sua] vicina» poco tempo prima (§ 3). Al di là della improbabile realtà del fatto narrato, è interessante osservare che allo sfondo fantastico corrisponde uno svolgimento basato invece sullo scontro (verosimile) dei caratteri. Dal punto di vista narrativo ciò è risolto nel breve ma efficace dialogo tra Talamo e Margherita, in cui l’uomo chiede invano alla moglie bisbetica di non uscire di casa e di tenersi lontana dal bosco (§§ 7-10). La contrapposizione riesce ancora più evidente grazie all’alternanza tra le battute dello scambio dialogico e il discorso diretto interiore attribuito alla donna (§ 10). In questo modo il

lettore può seguire le motivazioni, pur grette, di Margherita e comprendere il suo comportamento: convinta che il marito l’abbia ammonita a non uscire di casa per godersi liberamente una sua tresca amorosa, ella si nasconde nel bosco per tendere un agguato al supposto traditore (§ 11); purtroppo per lei, però, il sogno è veritiero. La dimensione vagamente magica della premonizione viene contemperata non solo dagli accenni all’attualizzazione storica, ma soprattutto dalla nettezza dei passaggi narrativi e dalla centralità delle motivazioni psicologiche. Il rammarico di Margherita, rimasta sfigurata dai morsi del lupo che l’ha aggredita nel bosco (§ 14), è la degna conclusione di una novella che, sebbene priva di modelli diretti, riprende il tema, diffusissimo nella letteratura di quel tempo, della donna che agisce cocciutamente, esponendosi a rischi enormi, semmai mortali, nonostante gli avvertimenti. La logica del meraviglioso, possiamo allora notare, pur funzionando efficacemente in maniera autonoma (come nel caso di IV 5 e V 8, incentrate rispettivamente su un «sogno» e su una «visione»), viene fatta rifluire dentro un preciso sistema concettuale e comportamentale: ciò che esce dall’ordinario, ciò che irrompe nel quotidiano della vicenda mettendo alla prova i protagonisti o segnandone per sempre il destino viene riassorbito nelle categorie della vita diurna. La sorpresa, o meraviglia, è allora il segno della conferma emotiva delle gerarchie abituali: il fatto è “mirabile”, ma non per questo destabilizzante. Questa sorta di “addomesticamento” del fantastico è confermata dalla novella III 8, ambientata in un paradossale Purgatorio, dove Ferondo crede di essere finito dopo morto, mentre in realtà egli è solo la vittima di una straordinaria beffa organizzata da un abate ai suoi danni per potersi godere indisturbato sua moglie. Le ascoltatrici (e “noi lettrici”) interagiscono con questo sfondo soprannaturale a partire dalla semplice concretezza del punto di vista del protagonista che rende verosimile una vicenda che, a parere della stessa narratrice, ha «troppo [...] di menzogna sembianza» (§ 3). La prospettiva di Ferondo è infatti quella di un uomo «materiale e grosso senza modo» (§ 5): ragionando in termini essenziali ed estremamente concreti, egli interagisce con quello che crede essere il Purgatorio a partire dall’orizzonte ristretto di chi deve innanzitutto soddisfare il proprio bisogno fisico. Il personaggio non va però ridotto alle sole coordinate della materialità: fatto risuscitare allo scopo di giustificare

un’indesiderata gravidanza della moglie, Ferondo, al pari del suo futuro collega Sancho Panza, è ben capace di raccontare «le più belle favole» del mondo dei morti e addirittura di propalare con la massima convinzione le rivelazioni del «Ragnolo Braghello» (§ 74), cioè, secondo una tipica deformazione popolare, dell’angelo Gabriele. È per noi impossibile sapere se Ferondo crede davvero nelle profezie e visioni che racconta dopo il suo “ritorno” dal Purgatorio, ma certo la logica del meraviglioso è uno dei tipici strumenti di quella che un tempo si chiamava la cultura dei ceti subalterni, propensa a interpretare anche i fenomeni più arcani o insoliti riconducendoli alle logiche della vita quotidiana.

V.5. La cortesia: un problematico modello ideale La cortesia rappresenta il perno etico e ideologico del Decameron. Se infatti la prontezza d’ingegno, la giovinezza, la disponibilità all’amore sono tra i principali punti qualificanti dell’opera, essi sono armonizzati dentro il codice progressivamente messo a punto nel Medioevo per l’aristocrazia dell’Europa occidentale. Un codice rigoroso e finemente regolato che è stato a lungo il principio unificatore del più ampio sistema delle virtutes cavalleresche e che la letteratura ha elaborato e trasmesso attraverso le generazioni a partire dal XII secolo. Il capolavoro boccacciano s’inserisce dentro questa tradizione, assimilandola ampiamente, ma non senza adattarla al diverso contesto fiorentino, caratterizzato da una stratificazione sociale più articolata di quanto non fosse il mondo feudale, nel quale il sistema prese origine. Proveniente dalla Francia e formalizzato in testi di grande fascino e dalla notevole penetrazione culturale (come la lirica d’amore provenzale e i romanzi arturiani), il modello cortese si diffuse in Italia già nel corso del XIII secolo, adottato dalle nuove élites delle città comunali, che in Tristano e negli eroi bretoni trovavano esemplarmente rappresentato un affascinante paradigma di socialità. Veniva così assunto e ben presto volgarizzato il De amore, testo capitale in cui Andrea Cappellano regolava l’esperienza erotica in chiave aristocratica. E si diffondevano, anche per la diaspora in Spagna e Italia cui furono costretti dopo la Crociata contro gli Albigesi (1209-1229), i poeti provenzali, la cui fin’amor (l’amore perfetto) venne rapidamente assunta dai poeti locali, a partire dalla cosiddetta Scuola siciliana, passando per Guittone d’Arezzo e la sua scuola e

arrivando infine a quella variegata avanguardia poetica duecentesca che, per influenza di Dante, siamo abituati a chiamare Stilnovismo. La conoscenza da parte di Boccaccio di questi precedenti letterari è dimostrata dai suoi zibaldoni di appunti in latino e in volgare, nei quali trascrisse di suo pugno numerosi testi ascrivibili a quella tradizione, che confermano come l’autore conoscesse il sistema cortese sin dal tempo delle sue opere napoletane. Quello stesso patrimonio si sarebbe poi riversato anche nel Decameron, dove troviamo numerosi riferimenti al De amore, ai poeti provenzali e alla poesia italiana, sia nella forma di citazione esplicita di testi e autori (si pensi alla novella IV 9), sia in maniera indiretta, a partire dalla limpida allusione presente nel sottotitolo dell’opera, che rimanda all’episodio arturiano dell’amore tra Ginevra e Lancillotto (cfr. supra, par. II.2). Priva di un contenuto univoco, la cortesia si presenta come una sorta di termine collettivo che vale per il complesso insieme delle virtù che qualificano il corretto modo di rapportarsi agli altri, in una gradazione progressiva che nell’ambito sociale ha per vertice la magnanimità, e nel campo amoroso mira alla perfezione del sentimento. Un altro aspetto specifico della cortesia è il fatto di essere una virtù relazionale: in quanto tale, essa va sempre concepita in rapporto ai suoi opposti, la villania e l’avarizia. Cortesia significa infatti saper donare e sapersi distinguere dai ceti inferiori (a partire dagli abitanti della villa: i contadini), come mostrano in maniera esemplare gli esempi già discussi di I 8, dove Erminio de’ Grimaldi è rimproverato da Guglielmo Borsiere per il suo comportamento gretto, e di VI 2, con il fornaio Cisti che, grazie ai suoi modi gentili, stabilisce un rapporto di reciproco rispetto e poi anche di amicizia con il potente Geri Spina, sancendo al tempo stesso l’esclusione dei ceti più bassi, rappresentati dai suoi lavoranti e dal servitore inviato da Geri per prendere il vino (cfr. supra, par. IV.4). La duplice contrapposizione con la villania e l’avarizia appare evidente anche nel campo amoroso. Lo mostra in maniera particolarmente efficace la novella III 5 (ne abbiamo già trattato supra, par. IV.2), il cui protagonista, uomo «di picciola nazione» ma soprannominato Zima per la sua eleganza, s’innamora della moglie dell’avaro cavaliere Francesco Vergellesi, riuscendo infine a conquistarla grazie alle sue doti cortesi. Esemplare, in tal senso, è la scena in cui la donna reagisce al delicato

discorso rivoltole dall’amante (cui ella, per ordine del marito, non può rispondere direttamente): [ella], la quale il lungo vagheggiare, l’armeggiare, le mattinate e l’altre cose simili a queste, per amor di lei fatte dal Zima, muovere non avean potuto, mossero l’affettuose parole dette dal ferventissimo amante: e cominciò a sentire ciò che prima mai non aveva sentito, cioè che amor si fosse. (III 5 17)

La cortesia sconfigge dunque l’avarizia, in quanto complessa disciplina individuale, che è capacità d’interagire col mondo esterno e di esprimersi in maniera raffinata. L’esempio del Zima mostra che Boccaccio – seguendo in ciò la tradizione stilnovista (Amor e ’l cor gentil sono una cosa, aveva cantato Dante nella Vita nuova, citando Guinizelli) –, non interpreta la cortesia come una prerogativa aristocratica basata sullo ius sanguinis, ma come condizione corrispondente all’elevatezza dell’ingegno. Un’evidente controprova della separazione tra carattere nobile e appartenenza di classe si trova in un passaggio dell’alto discorso che Ghismonda rivolge al padre Tancredi, principe di Salerno: Raguarda tra tutti i tuoi nobili uomini e essamina la lor vita, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle virtù e del valor di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. (IV 1 41)

La reversibilità cui la giovane vedova sottopone i concetti di nobile e villano ripropone la centralità della cortesia come virtù dell’animo coltivata attraverso l’educazione, così da tenere insieme l’indole (che è sintesi della soggettività individuale) col merito (che è conseguenza delle proprie azioni): le «tue parole», cui Ghismonda si riferisce rivolgendosi al padre, sono infatti gli elogi che Tancredi ha più volte rivolto a Guiscardo per il suo comportamento. La centralità della cortesia in amore è confermata dalla sua presenza anche nelle novelle di registro comico. È quel che accade in VII 7, il cui triangolo erotico (tema della settima giornata) è costituito da Egano e Beatrice, una coppia di sposi bolognesi, e da Lodovico, un giovane di origine fiorentina, ma proveniente da Parigi, che si reca a Bologna perché si è innamorato della donna dopo averne ascoltato le lodi da alcuni pellegrini di ritorno dalla Terrasanta (§ 6). Una novella di adulterio,

caratterizzata da motivi grotteschi e addirittura sadici, si apre, quindi, con l’illustre tema cortese dell’amor de lohn (“innamoramento da lontano”) e più precisamente dell’amore «per udita», già presente peraltro in I 5, con risvolto erotico, e, con esito tragico, in IV 4. «Far maravigliose cortesie»: questa e altre simili espressioni ricorrenti nel Decameron mostrano bene come la cortesia sia innanzitutto un complesso di abilità performative, di modalità dell’interrelazione umana che, per quanto possano essere codificate in astratto, vanno realizzate tenendo conto volta per volta della situazione e degli attori in gioco. Il commisurarsi all’altro (il fare) è del resto il carattere specifico di una virtù che, come s’è detto, è relazionale e relativa, cioè variabile per contenuto e valore a seconda dei contesti. In quanto fare, la cortesia ha un’eminente natura politica; essa scioglie e lega, tiene insieme e divide, stabilisce chi è simile e chi va tenuto a distanza. Lo abbiamo imparato dalla novella di Cisti (VI 2), e lo vediamo ribadito con chiarezza in gran parte della decima giornata, dov’è trattata la magnificenza, ossia la massima virtù del codice cortese, cui devono attenersi i potenti e gli uomini illustri. Trattandosi di una virtù relazionale, il cui esercizio ha un’influenza diretta sulla convivenza umana, è evidente che le novelle di questa giornata rappresentino il rapporto tra almeno due personaggi, colui che esercita la magnificenza e colui che ne viene gratificato: lo mostra peraltro l’alta frequenza del verbo onorare, che ha il senso di “trattare adeguatamente”, cioè in maniera conforme al rango e al valore del destinatario dell’onore. A un simile esercizio è dunque sottostante la logica del dono, che, in quanto gesto asimmetrico, stabilisce una differenza tra il donatore e il donatario. Il gesto, basato sulla visibilità e sulla misurabilità, se è commisurato al valore di chi riceve, esibisce d’altro canto il valore di colui che dona: esso pertanto può sviluppare processi di competizione, generando talvolta pericolosi contrasti, come mostra la novella X 3, in cui il senso di emulazione arriva a trasformarsi in invidia assassina. Ben esercitata, la cortesia può al contrario sciogliere i conflitti, stabilendo nuove forme di alleanza o rinsaldando le amicizie. Se di ciò fa fede la conclusione della stessa X 3, la dimensione politica è più chiaramente centrale nelle novelle X 6 e X 7, entrambe di ambientazione meridionale, per le quali va anche segnalata l’equa distribuzione di esemplarità tra il partito dei Guelfi e quello dei Ghibellini. Senza entrare

nel dettaglio, basta qui osservare come in entrambi i casi il gesto generoso di un re risponda a una precisa ragione politica: Carlo I d’Angiò si rinsalda nel Regno di Napoli appena conquistato reprimendo un suo desiderio capriccioso e mostrandosi generoso coi sudditi (cfr. il lungo discorso del consigliere Guido da Monforte: X 6 26-32); Pietro d’Aragona (divenuto re di Sicilia proprio in seguito alla rivolta del Vespro contro gli angioini di Carlo) inscena a sua volta la rappresentazione del potere magnanimo, ricevendo il favore della popolazione (X 7 48) e confermando al tempo stesso la gerarchia sociale. La cortesia appare, insomma, come il fondamento delle relazioni interpersonali, la virtù cardinale su cui si orienta la condotta umana nel suo complesso. È quel che spiega Filomena (X 8 3-4) nel presentare la novella in cui è celebrato il sacrificio reciproco di cui sono capaci due amici, disposti a rinunciare all’amore e anzi addirittura alla vita pur di fare il bene dell’altro. Se l’esemplarità della vicenda è accresciuta dall’ambientazione al tempo di Ottaviano e dalla mancanza di precise coordinate di tipo cronologico o ambientale, il suo aspetto forse più importante riguarda l’ampio uso del discorso diretto. Si tratta di una questione sia formale sia ideologica: facendoli parlare, Filomena mostra infatti direttamente le qualità dei due amici. La dimensione performativa della magnanimità e dell’amicizia viene così esaltata: è dimostrandosi liberali che si è liberali; è facendo gesti di amicizia che ci si dimostra amici. Se la messa in pratica di una certa virtù ne rivela l’effettivo possesso, non stupisce che in questa novella abbia molto spazio il campo semantico dell’onestà, di cui si contano ben quattordici occorrenze, distribuite soprattutto nei discorsi dei due amici, ma con tre apparizioni nelle battute conclusive della Narratrice (§§ 112, 115, 116): un riscontro linguistico che fornisce un’ulteriore prova della centralità dell’onore e dell’onestà nell’orizzonte etico del Decameron. Elaborato in ambiente feudale, dicevamo, il modello cortese fu recepito nel mondo comunale. Il passaggio non avvenne senza difficoltà, e rese necessari delicati adeguamenti rispetto a un contesto che era assai differente rispetto a quello di partenza. Il ceto dirigente delle città italiane era infatti una realtà ibrida, in cui gli esponenti della nuova, dinamica realtà mercantile si trovavano a convivere coi membri di una più o meno antica aristocrazia cittadina e con le famiglie di ricchi possidenti provenienti dal contado. Un insieme composto da elementi così

eterogenei, che in principio s’ispiravano a codici comportamentali differenti, finì tuttavia col riconoscersi in alcuni valori comuni, coordinati nel sistema della “cortesia”. Nel far questo, l’élite comunale ripeteva una tipica modalità dei gruppi emergenti, che solitamente fanno proprie le forme della precedente cultura egemone. La condotta aristocratica, con la sua teoria d’amore, il gusto per gli apparati della munificenza, la centralità dello splendore come dispendio visibile, divenne così una sorta di ideale regolativo anche per gruppi e famiglie che non avevano ascendenze nobiliari, ma che intendevano segnalare l’eccellenza del proprio status. La cortesia divenne insomma un «automodello» (come lo ha chiamato Jurij Lotman) della società comunale, alla cui definizione collaborò attivamente la letteratura, secondo quella «scala delle funzioni dell’azione sociale dell’arte», illustrata dallo studioso tedesco Hans Robert Jauss, che va «dal modello dell’identificazione attraverso la rottura [con quanto precede]» alla «produzione della norma» (che può essere fondata da zero, oppure assimilata da altri), e infine all’«adesione» alla norma stessa. Seguendo questa gradazione, si può osservare che, nel periodo a cavallo tra i secoli XIII e XIV, la norma prodotta nelle città dell’Italia centro-settentrionale consistette nell’assimilazione del modello aristocratico cortese di origine franco-provenzale. Giovanni Boccaccio, che quel modello aveva potuto conoscere da vicino durante gli anni trascorsi nel Regno di Napoli (a cui capo c’era la dinastia francese degli Angiò), si immise in questa stessa linea. Alcuni illustri studiosi, tra cui Giorgio Padoan (che in ciò si accosta al lavoro di Vittore Branca), hanno individuato nella produzione boccacciana una contrapposizione tra le opere giovanili, marcatamente connotate in senso cortese, e il Decameron, che sarebbe invece caratterizzato in direzione “borghese”, con importanti ricadute anche sulle scelte espressive, oscillanti tra un modello “astratto” di cortesia, assunto al tempo delle opere napoletane, e le spinte della vita pratica del mondo fiorentino, visibili invece nel contesto del capolavoro. In effetti, è opportuno segnalare che l’assunzione diretta di un modello culturale in un’opera d’arte è un fatto problematico, in quanto vi è sempre attivo un certo gradiente di enigmaticità, o almeno di irriducibilità a puri contenuti ideologici o concettuali. D’altra parte, non si può negare che le attività dei dieci giovani, la forma della loro

convivenza, le loro scelte espressive e comportamentali, si ispirino tutte al modello cortese, come mostra una lettura anche superficiale della ritualità che scandisce le loro giornate: Già per tutto aveva il sol recato con la sua luce il nuovo giorno e gli uccelli su per li verdi rami cantando piacevoli versi ne davano agli orecchi testimonanza, quando parimente tutte le donne e i tre giovani levatisi ne’ giardini se ne entrarono, e le rugiadose erbe con lento passo scalpitando d’una parte in un’altra, belle ghirlande faccendosi, per lungo spazio diportando s’andarono. E sì come il trapassato giorno avean fatto, così fecero il presente: per lo fresco avendo mangiato, dopo alcun ballo s’andarono a riposare, e da quello appresso la nona levatisi, come alla loro reina piacque, nel fresco pratello venuti a lei dintorno si posero a sedere. (II Introd. 2-3)

Risveglio all’alba, passeggiata serena, intrecciar ghirlande, e poi il pranzo e il riposo prima dei «piacevoli ragionamenti» pomeridiani: sono tutti elementi di una convivenza pacifica e nobilmente atteggiata, adeguata al rango sociale dei giovani componenti della classe dirigente fiorentina. Coerente con il modello cortese è poi lo scenario della narrazione, quel giardino che – lo si è discusso supra, par. III.4 – è l’«immagine centrale del libro», catalizzatore e al tempo stesso emblema dell’eccellenza della lieta brigata. Quanto alle novelle, abbiamo visto che esse si presentano come un «caso giuridico problematico», dove la morale non è un dato a priori, ma l’esito di una contrattazione, che dipende sia dalle loro strutture narrative sia dall’orientamento di chi le commenta e interpreta. Ma, nonostante vi si presentino situazioni non lineari, rispondenti a modalità non univoche, variabili a seconda delle situazioni, tuttavia anche qui prevale l’adesione ai valori della cortesia. Ed è anzi interessante notare la frequenza con cui i narratori insistono sulla mancata applicazione di quell’ideale nella società contemporanea, come mostra l’invettiva di Lauretta contro la decadenza dei costumi cavallereschi a causa dell’avarizia (I 8 8-10), che è una severa condanna del vizio anticortese per eccellenza, indirettamente riferito, attraverso un’allusione dantesca (cfr. supra, par. IV.1) alla realtà fiorentina. Una polemica non diversa si legge nelle parole di Elissa, che, «acerbetta» (III 5 2), introduce la sua novella contrapponendo l’indegnità dell’avarizia al comportamento franco e liberale. Su questa stessa linea leggiamo inoltre parole inequivocabili alla fine della sesta giornata: ne’ tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n’è rimasa, mercé della avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la

quale tutte l’ha discacciate. Tralle quali n’era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportare potessono acconciamente le spese, e oggi l’uno, doman l’altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de’ cittadini: e similmente si vestivano insieme almeno una volta l’anno, e insieme i dì più notabili cavalcavano per la città e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d’altro fosse venuta nella città. (VI 9 4-6)

La crescita parallela di ricchezze e avarizia – sostiene Elissa – ha allontanato l’élite fiorentina dalla cortesia, considerata come un «automodello» collettivo che consente di vivere in «ordine» la vita che si trascorre «insieme», distribuendo in maniera adeguata l’«onor[e]» da attribuire ai «gentili uomini» (stranieri o cittadini che siano). Non mancano tuttavia momenti più problematici, dovuti forse alla non piena sovrapponibilità degli orizzonti di comportamento previsti nei due mondi (quello feudale e quello comunale), a partire dal regime di spesa imposto dal comportamento cortese. Il tema è affrontato esplicitamente nelle novelle ottava e nona della quinta giornata, i cui protagonisti, rispettivamente Nastagio degli Onesti e Federigo degli Alberighi, rischiano di perdere tutte le loro sostanze (e il secondo diventa effettivamente povero) a causa della loro eccessiva liberalità, conseguenza del loro amore, peraltro non ricambiato. Se si può ripetere, con Henri Dupin, che si è davvero cortesi solo quando si ama, d’altra parte, sempre secondo Dupin (cui si associa il più recente lavoro di Glynnis Cropp), cortese è colui che rispetta la misura (in provenzale mezura): il controllo razionale, la ponderazione della situazione e delle persone con cui si ha a che fare è dunque elemento fondativo del sistema della cortesia, senza il quale questa si trasforma in follia (con la conseguente dissoluzione del legame societario). Lo schema appare confermato in queste due novelle: Nastagio, convinta l’amata a ricambiarlo, chiarisce che ne otterrà i favori solo «con onor di lei», cioè dopo il matrimonio (V 8 42); Federigo, ottenuto finalmente l’amore della bella, ricca e saggia Giovanna, ridimensiona il suo tenore di vita diventando «miglior massaio» (V 9 43). Il sistema conserva però una dimensione problematica. Intanto perché lo «spendere smisuratamente» di Nastagio e la spesa «senza alcun ritegno» di Federigo mostrano il difficile equilibrio tra l’ideale cortese di origine aristocratica e l’orizzonte economico dell’élite fiorentina, composta in

gran parte da esponenti di famiglie radicate nell’attività mercantile. Il conflitto tra modello ideale e pratiche sociali può realizzarsi anche in senso opposto, come nel caso di VII 7, la cui premessa narra in breve la storia del padre del protagonista, «gentile uomo fiorentino» diventato povero dopo il trasferimento a Parigi, che si dà alla mercatura e torna nuovamente «ricchissimo» (§ 4). A che cosa servono, dal punto di vista narrativo, queste informazioni su di un personaggio destinato a non apparire più nel racconto? E perché spiegare che questi allontana il figlio dalla pratica mercantile per fargli frequentare «altri gentili uomini al servigio del re di Francia» (§ 5)? L’interpretazione fiorentina dell’etica aristocratica, evidentemente, ha qui la meglio sull’economia del racconto: è più importante sottolineare l’originaria estrazione nobiliare del personaggio e la sua educazione, piuttosto che tenere strette le maglie di una novella, la cui iniziale ambientazione cortese si muta nella vicenda comica di un marito che, travestito da donna, viene picchiato dall’amante della moglie, mentre questi simula indignazione contro chi mette in dubbio la sua fedeltà al padrone, cioè proprio a quel marito che intanto sta picchiando (§§ 40-45). Diversamente problematica appare invece la novella IV 8, che Neifile introduce biasimando la presunzione di chi opera contro «la natura delle cose» e in particolare contro l’amore, che è, tra le «altre naturali cose», quella che meno sopporta resistenze e opposizioni. Il principio, più volte affermato nell’opera, è qui ribadito in chiave tragica, contrapponendo la naturalità di amore alla logica delle gerarchie sociali. Girolamo, orfano del ricco mercante Leonardo Sighieri, s’innamora di Salvestra, che è figlia di un sarto, ma incontra l’ostilità della madre, che vuole invece sposarlo con una «giovane ben nata» (§ 9). Questa ambizione nobiliare è condivisa dai tutori del ragazzo, che lo costringono a partire per Parigi, facendogli intravedere la prospettiva non solo d’imparare a reggere gli affari del «fondaco», ma soprattutto di frequentare «signori» e «gentili uomini» (§ 11). Al pari della novella VII 7, ma con esito opposto, anche questa storia assume Parigi a sfondo delle istanze nobiliari fiorentine: assurta a «luogo mentale» (per usare un’espressione di Maria Corti), la città francese diventa emblema della cortesia, mostrando al tempo stesso l’attrito di quella idealità con le pressioni e le istanze dell’appartenenza sociale. Si può chiudere questo attraversamento del concetto di cortesia con una sintetica analisi della celebre novella X 9. La novella ruota su due fulcri

concettuali: l’esaltazione dell’amicizia e la rappresentazione del matrimonio come condivisione di atteggiamenti e di prospettive. La struttura narrativa rispecchia questa bipartizione, distribuendo gli eventi in due grandi sequenze: la prima, con le cortesie di Torello e della moglie nei confronti degli ospiti sconosciuti, uno dei quali è il leggendario Saladino (§§ 7-40), raggiunge il suo apice nel riconoscimento tra il principe musulmano e il cristiano finito in schiavitù (§§ 53-60); la seconda, dopo il commiato di Torello che, in partenza per la crociata, fa promettere alla moglie di aspettarlo per un anno, un mese e un giorno (§§ 41-47), ha il suo climax nel riconoscimento dei due coniugi durante il banchetto in cui si sta celebrando il nuovo matrimonio della donna (§§ 100-112). Nonostante l’indubbia valorizzazione del matrimonio, la novella è però incentrata sull’amicizia di Torello e del Saladino, tanto più significativa perché questi consente all’amico di raggiungere la moglie facendogli fare un viaggio magico su di un letto, che in una sola notte lo fa passare da una parte all’altra del Mediterraneo. Come si evince anche da quest’ultimo dettaglio meraviglioso, la novella esula da ogni intenzione di rappresentazione verosimile, presentando un musulmano e un cristiano, peraltro di diversissimo rango sociale, che si stringono in una salda relazione personale al di là della guerra e delle incomprensioni linguistiche e religiose, in virtù della condivisione di una comune forma del vivere (si veda l’apparizione di Torello al § 7). Si tratta di un’astrazione forse eccessiva, come mostra la reazione della brigata: gli ascoltatori, infatti, non mostrano di apprezzare la novella di Panfilo (che, si ricordi, è il re della giornata), mentre Dioneo si permette addirittura un paragone provocatorio tra questa vicenda e una novella di beffa della settima giornata (X 10 2). La presa di distanza, cui fa seguito la novella di Griselda, forse la più enigmatica dell’intero Decameron, mostra che il sistema narrativo decameroniano non è espressione diretta e univoca di un codice di valori. Se è vero che l’«automodello» cortese della società comunale è stato ampiamente costruito attraverso la letteratura, il Decameron conferma il suo carattere problematico, di opera che non presenta una soluzione unitaria e univoca (quasi fosse la risposta a una sorta di mandato sociale), ma che al contrario offre all’interpretazione del lettore alcune situazioni

complesse (i «casi problematici»), che vanno intesi secondo la logica variabile della contestualizzazione, a partire dalla relatività delle situazioni.

V.6. Ridere e sorridere Si ride molto nel Decameron. E si ride in molti modi e di molti oggetti differenti. Ridono i dieci componenti della brigata e ridono i personaggi. Ridono i lettori, anche se non li possiamo vedere, perché sono nascosti dietro le pagine del libro. Un discorso sul riso, non solo a proposito del capolavoro boccacciano, non va però confuso con un discorso sul comico. Sono due aspetti strettamente connessi, certo, e tuttavia sono distinti: l’atto del ridere rientra infatti nell’ambito delle pratiche sociali e antropologiche, mentre il comico va invece considerato in una prospettiva poetica e retorica, in quanto è un fatto narrativo e linguistico che riguarda gli oggetti del riso e le tecniche per produrlo. Del resto, non si ride soltanto perché c’è qualcosa che faccia ridere. Si ride per tanti motivi, semmai perché si ritrova un amico o perché si riconosce nell’altro, fin lì sconosciuto, una persona simpatica; e poi si ride quando ci si rivolge ai bambini: si ride, insomma, per esprimere un sentimento lieto. Ed è per questo che nel Decameron è spesso descritto il modo con cui i giovani amici iniziano il loro racconto, segnalando la loro lietezza o il loro «ridente viso»: [Neifile] lietamente rispose che volentieri: e cominciò in questa guisa (I 2 2) [Elissa] tutta festevole cominciò (I 9 2) [Neifile] così lieta cominciò a parlare (II Introd. 4) [Pampinea] non meno ardita che lieta così cominciò a parlare (II 3 3) [Fiammetta] tutta ridente rispose: – Madonna, volentieri – e cominciò (III 6 2) [Filostrato] ridendo incominciò (V 4 2) [Filomena] lietamente così cominciò (VI Introd. 16) [Emilia] lietamente così cominciò a dir sorridendo (VII Introd. 10) [Elissa] ancora ridendo incominciò (VIII 3 2) [Filomena] sorridendo cominciò in questa guisa (IX Introd. 7) [Neifile] lietamente così cominciò (X Introd. 4)

Sebbene sia più frequente l’indicazione della sollecita obbedienza alla richiesta del re o della regina di turno (si vedano le occorrenze dell’aggettivo «presto» e dell’avverbio «prestamente»), e sebbene talvolta l’inizio del racconto novellistico sia segnalato in maniera meramente

denotativa col solo verbo “cominciare”, tuttavia va notata la frequenza delle formule appena elencate, che precisano il clima di serenità e di benevolenza reciproca che vige all’interno della brigata. I giovani si guardano e si sorridono, ribadendo la loro condivisione di un medesimo modello culturale, nonché la comune appartenenza all’élite della società fiorentina. In un interessante libro di taglio sociobiologico, Fabio Ceccarelli ha studiato i fenomeni umani del sorriso e del riso, individuando alla base del loro funzionamento i meccanismi della inclusione e della esclusione. Se sorridendo ci si riconosce (così da creare una inclusione di tipo positivo, basata sull’accoglienza dell’altro), il riso a sua volta ribadisce il vincolo societario perché individua colui che ne deve essere tenuto fuori (creando una inclusione di tipo negativo, basata sull’allontanamento dell’estraneo). Secondo la terminologia di Ceccarelli, già utilizzata per il capolavoro boccacciano da Giulio Savelli, chi resta fuori del circolo è lo zimbello, cioè colui che mostra di essere inadeguato rispetto al rango cui ambisce: chi ride si arroga pertanto il diritto di giudicare l’efficacia e l’adeguatezza dell’altro, sanzionando l’insuccesso col marchio del riso. È evidente l’affinità di questa teoria con il modello semiotico proposto da Lotman e Uspenskij per illustrare la logica culturale che identifica i caratteri positivi di IN (cioè l’interno, gli amici, la città, ecc.) in quanto differente da ES (cioè l’esterno, i nemici, la campagna, ecc.). Il riso, in poche parole, funge da commutatore tra IN ed ES; è il segnale con cui si stabilisce l’appartenenza all’uno o all’altro dei due regimi. Per illustrare il funzionamento di questo meccanismo nel Decameron, si può utilizzare un episodio della cornice. Siamo nella Introduzione della sesta giornata, dopo il riposo pomeridiano, quando i giovani si apprestano, come al solito, a riprendere l’intrattenimento novellistico. All’improvviso l’ordine abituale viene infranto da un «gran romore» (VI Introd. 4) causato da due servi che disputano aspramente: il giovane Tindaro è infatti scandalizzato dal discorso dell’anziana Licisca, secondo la quale le mogli tradiscono i mariti non solo dopo il matrimonio, ma anche prima, così da arrivare alle nozze avendo già perduto la verginità. L’argomento è evidentemente basso, e la scena è di conseguenza caratterizzata in senso comico-plebeo, a partire dalla scelta dei nomi dei due servi, tratti dalla commedia latina (che Boccaccio ben conosceva), e dal loro modo di comportarsi e di esprimersi. Interessante è però la

reazione della brigata: le donne accolgono infatti il discorso di Licisca con «sì gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro potuti trarre» (VI Introd. 11). Questo gesto è in netto contrasto col loro status, una sconvenienza che risalta ancor più quando si osserva che in tutto il Decameron questa espressione appare soltanto un’altra volta, in riferimento peraltro a Maestro Simone, cioè a un personaggio connotato in senso decisamente plebeo, a proposito del quale si dice che egli ride «sì squaccheratamente, che tutti i denti gli si sarebbero potuti trarre» (IX 3 25). La ripresa della medesima espressione sembrerebbe degradare le donne della brigata a un livello sociale e culturale inferiore, se non addirittura infimo: plebeo, appunto. Ma così non è, come mostra la conclusione della scenetta, nella quale, ricevuto dalla regina Elissa l’ordine di risolvere la «quistion[e]», Dioneo formula «prestamente» la sua «sentenza», dando ragione a Licisca. Col passaggio dal linguaggio comico alla linearità formulare (sia pure parodica) della quaestio, coerente con la dimensione cortese che anima la condotta della brigata, il brillante giovane realizza una sistemazione dell’equilibrio formale che è anche ricomposizione dell’ordine sociale. E infatti, quando Licisca, ascoltato il giudizio a lei favorevole, sta per riprendere la parola e vantarsi della vittoria, la regina le si rivolge «con mal viso» e la zittisce con la minaccia di farla picchiare (VI Introd. 15). Com’è evidente, l’episodio non illustra la prevalenza di una visione disincantata dell’amore (quella di Licisca) contro una concezione ingenua (quella di Tindaro). L’intermezzo serve invece per illustrare una gerarchia delle forme e dei protagonisti del comico: una scena plebea, con personaggi di rango umile che affrontano un tema piccante può anche essere accolta con un riso eccessivo, se non sguaiato; si tratterà in ogni caso solo di una temporanea sospensione dei rapporti ordinari, garantita dalla eccezionalità festiva, cioè da quella sospensione delle regole quotidiane consentita dal sistema della festa, alla quale segue però regolarmente il ripristino dell’ordine. Anche il riso si rivela pertanto un’attività regolata secondo il principio dell’onestà, cioè del comportamento corretto e adeguato al proprio rango, cui si contrappone la sanzione del ridicolo per quanti ambiscono, senza averne le forze o la reale capacità, a un rango superiore rispetto al proprio status economico o alla propria collocazione sociale. I campi di applicazione di questo meccanismo possono essere i più vari. Ciò capita, per esempio, agli uomini anziani che, come Riccardo di

Chinzica, presumono di essere «più che la natura possenti» (II 4 10), sposando donne giovani, che poi non sono capaci di soddisfare. O a coloro che, come Puccio di Rinieri, trascurano la moglie ancora «fresca e bella e ritondetta che [pare] una mela casolana» (III 4 6), perché troppo osservanti delle pratiche religiose. Nel Decameron, del resto, la conflittualità matrimoniale è spesso originata dalla inadeguatezza o dalla presunzione dei mariti, come si vede in particolare nella settima giornata (dedicata infatti alle beffe delle mogli), a partire dal caso paradigmatico di Gianni Lotteringhi, che «più avventurato [...] che savio» (VII 1 4), resta vittima della propria credulità religiosa adeguatamente sfruttata dalla sua donna in un’occasione pericolosa. Notevole è poi il caso del mercante Arriguccio Berlinghieri, che «scioccamente» decide di «ingentilire per moglie», ossia di salire la scala sociale attraverso il matrimonio con una nobildonna (VII 8 4: cfr. supra, parr. IV.2 e IV.4). La punizione patita da Arriguccio è visibilmente apprezzata dalle donne della brigata, che non riescono a trattenersi dal riderne e dal discuterne a lungo, nonostante il re Dioneo intimi loro più volte di tacere («quantunque il re più volte silenzio loro avesse imposto», VII 9 2): una reazione che ben chiarisce l’esemplarità anche ideologica della situazione, con il marito ambizioso, ma poco accorto, che diventa vittima di una beffa (e dunque è lo zimbello) perché non ha saputo rimanere nell’ambito sociale che gli compete. Da quanto detto sin qui risulta evidente che ridere è un’attività aggressiva: esso è l’esito finale di un conflitto per il riconoscimento, in cui chi occupa la posizione più alta si arroga il diritto di giudicare e sanzionare eventuali comportamenti ritenuti inadeguati. Vi sono però gradi differenti di aggressività, come ben dimostra il discorso di Lauretta nella sesta giornata, nel quale spiega che se i motti, come hanno affermato Pampinea (I 10 3-7) e Filomena (VI 1 2-4), sono adeguati alle donne in quanto espressione perfetta del discorso breve (cfr. supra, par. IV.2), gli stessi devono essere contenuti dentro una precisa «natura», giacché essi, come la pecora morde, deono così mordere l’uditore e non come ’l cane: per ciò che, se come il cane mordesse il motto, non sarebbe motto ma villania. (VI 3 3)

La pratica del motto deve quindi essere contenuta entro una precisa e attenta casistica, che impone di tener conto di «e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia» (VI 3 4), così da rispettare una sorta

di scala dell’aggressività, retorica e sociale, che andrà dal rispetto verso il simile o leggermente inferiore, come nel caso di madonna Oretta (VI 1), alla villania ben confezionata, quale per esempio produce l’elegantissimo Guido Cavalcanti (VI 9), che deride i componenti della brigata di Betto Brunelleschi, mostrando in maniera folgorante la loro inferiorità intellettuale. Alla inferiorità del deriso accenna anche Dioneo, allorché, per introdurre la novella di Pietro da Vinciolo, propone la teoria secondo cui si ride «più tosto delle cattive cose che delle buone opere, e spezialmente quando quelle cotali a noi non pertengono» (V 10 3). Già Cicerone, ma in un testo che Boccaccio non poteva conoscere, aveva spiegato che le principali fonti del ridicolo sono la turpitudo (“bruttezza”) e la deformitas (“deformità”), e che insomma esso risiede «in quei vizi che sono nella vita degli uomini» («in iis vitiis quae sunt in vita hominum»: De oratore II 236). Se in questa novella la “deformità” è costituita dall’omosessualità di Pietro, in altre occasioni, come abbiamo visto, si tratta della scempiaggine o della presunzione, o comunque di una manifesta inferiorità, che è innanzitutto di carattere sociale. Lo si vede con grande chiarezza nel trattamento dei personaggi che sono effettivamente “inferiori”, in quanto provengono dai gradini più bassi della scala sociale: come nel caso dell’apparizione di Tindaro e Licisca, la descrizione dei servi è infatti sempre connotata in chiave comica. Tra i vari possibili esempi, quello più evidente è senza dubbio rappresentato dalla descrizione di Guccio Imbratta, il servo di frate Cipolla, il quale – secondo le parole del suo stesso padrone – è «tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato, smemorato e scostumato» (VI 10 17). La triplice triade di qualità negative è subito verificata nel racconto del suo tentativo di sedurre la serva Nuta, la quale a sua volta è «grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea de’ Baronci, tutta sudata, unta e affumicata» (ivi, § 21). Come «l’avoltoio alla carogna», spiega il narratore con una similitudine assai esplicita, così Guccio si cala nella cucina dove la donna sta lavorando, cominciando a vantarsi e a fare mille promesse, senza badare al proprio aspetto misero, col cappuccio ricoperto di «untume» e il «farsetto rotto e ripezzato e intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume, con più macchie e di più colori che mai drappi fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette tutte rotte e

alle calze sdrucite» (ivi, § 23). La rozzezza, la bruttezza, la ristrettezza di mezzi e di risorse intellettuali di questo personaggio rappresentano la quintessenza del comico plebeo. Né sorprende che il tentativo di assalto sessuale provato da Guccio Imbratta (detto anche Balena e Porco) sia destinato al fallimento (ivi, § 25): la mancanza di risultati è infatti un altro aspetto dell’inferiorità sociale. La comicità di questo episodio non è però solo nel carattere esteriore e nel temperamento del personaggio, non è cioè solo l’effetto di una certa materia. Essa è invece soprattutto l’effetto di un certo trattamento linguistico, qui messo in particolare evidenza dalla scelta di presentare la buffa filastrocca con cui frate Cipolla sintetizza i vizi del suo servitore (cfr. infra, cap. VI). Vige dunque anche qui la legge del decorum, ossia quel principio di adeguamento tra oggetto ed espressione, tra materia e stile, che, elaborato dai rètori latini, fu trasmesso al Medioevo, restando poi valido per tutto l’Antico regime. Il riso è dunque anche il frutto delle scelte espressive. Lo si vede bene mettendo a confronto due novelle accomunate dall’insistenza sul dettaglio della posizione degli amanti durante l’atto sessuale. Nella prima, è rappresentato il divertente contrasto tra un novizio benedettino e il suo abate (I 4): scoperto mentre è rinchiuso nella sua cella con una giovinetta, il giovane mette l’avversario nella sua medesima situazione, salvo una fondamentale differenza che gli permette di scampare alla sicura punizione che lo aspetta. Sfruttando un buco nella porta della cella (I 4 19), il monaco scopre infatti che il suo avversario, forse perché troppo pesante, giace con la ragazza facendosela venire sopra. Così, giunto il momento in cui l’abate si accinge a rimproverare e a far incarcerare il novizio, ecco che questi risponde «prontissimamente»: Messere, io non sono ancora tanto all’Ordine di san Benedetto stato, che io possa avere ogni particularità di quello apparata; e voi ancora non m’avavate monstrato che’ monaci si debban far dalle femine priemere come da’ digiuni e dalle vigilie; ma ora che mostrato me l’avete, vi prometto, se questa mi perdonate, di mai più in ciò non peccare, anzi farò sempre come io a voi ho veduto fare. (ivi, § 21)

L’arguto gioco di parole consente al giovane di far capire all’abate, senza che però gli altri possano intendere, che essi condividono la medesima colpa di aver ceduto alla tentazione della carne. Oltre che per la situazione, resa comica dal gioco delle entrate e delle uscite dalla cella del novizio, e forse anche dalla posizione sessuale, la novella fa ridere proprio

per l’astuto e breve discorso con cui il monaco riesce a evitare la punizione che sta per essergli inflitta, creando anzi un nuovo accordo con chi stava per punirlo (alla fine i due collaborano per far uscire la giovane fuori del convento, accordandosi, però, per farvela tornare, in seguito, più volte: ivi, § 22). Se la novella (che è la prima in cui venga affrontato il sesso) produce nelle ascoltatrici una duplice reazione, che oscilla tra la vergogna («onesto rossore») e il riso, per quanto trattenuto (I 5 3), diverso è il caso nel racconto in cui Peronella giace con l’amante mentre il marito è impegnato a pulire l’interno di un grande orcio di terracotta (un «doglio»). La situazione, esplicitamente sessuale, è presentata con grande maestria dal narratore, il quale, dopo aver descritto la posizione della donna, riversa sulla bocca del vaso per dare istruzioni al marito, spiega che l’amante, che era stato in precedenza interrotto dall’improvviso arrivo del marito, si accosta alla donna che gli dà le spalle e, «in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, a effetto recò il giovinil desiderio» (VII 2 34). Le «avedute donne» della brigata riconoscono e apprezzano la strategia comunicativa indiretta di Filostrato, che, utilizzando una similitudine tratta dal mondo classico, consente loro di ridere della posizione erotica degli amanti in modo che possano fare finta («sembiante facendo») «di rider d’altro» (VII 3 2): la sottolineatura dell’Autore è importante, perché mostra che onestà e decoro possono essere salvaguardati grazie al controllo delle risorse espressive, anche quando la materia è oscena. La pratica del ridere appare dunque come uno dei monenti di verifica più importanti dell’impianto etico e concettuale dell’opera. Per comprenderne a pieno l’importanza può essere utile osservare il modo in cui Dioneo presenta il suo primo racconto, che, come abbiamo appena detto, è anche il primo che tratta del sesso. Ribadendo quanto ha già detto al momento dell’arrivo in villa (I Introd. 93), egli ricorda che «noi siamo qui per dovere a noi medesimi novellando piacere», e che quindi a ognuno è lecito di raccontare «quella novella» che a suo avviso possa più «dilettare» (I 4 3). L’argomento si ripete identico in un punto nevralgico dela cornice, allorché la corona viene passata proprio a Dioneo, il quale, dopo una sapida allusione sessuale (VI Concl. 3), torna alla questione di «donna Licisca» (§ 4), proponendo, come tema della successiva giornata, di raccontare episodi di beffe giocate dalle donne ai danni dei loro mariti.

Se non è certo la prima volta che nell’opera si affronta il tema dell’amore extraconiugale, qui Dioneo invita la compagnia a esercitarsi sulla comicità delle strutture narrative subito dopo aver affrontato, con la giornata dedicata ai motti, le strategie del comico retorico (quello che Lucie Olbrechts-Tyteca ha chiamato il «comico del discorso»). L’importanza del passaggio è data dalla serietà dell’argomento con cui il re difende la sua scelta, ricordando, per la prima volta da quando la brigata ha lasciato Firenze (con l’eccezione di un fuggevole riferimento nella novella VI 3), la terribile realtà della peste e la conseguente necessità, fatta salva l’onestà dei comportamenti, di discorrere di qualunque argomento pur di conseguire il diletto (§ 7-17). Il discorso di Dioneo è l’esplicita dichiarazione di un programma: la brigata deve raggiungere il pieno controllo dell’intelligenza e dell’espressione linguistica, così da poter affrontare tutti i temi, anche quelli più scabrosi, mantenendo distinti i “mondi possibili” della narrazione dal mondo reale della peste e della morte. Ridere si conferma, così, come la grande forma che consente di allontanare coloro che non possono e non devono essere ammessi all’interno del ristretto circolo dell’élite e, al tempo stesso, di fissare le coordinate dentro le quali l’élite deve sapersi muovere. Se diletto e onestà, piacere e decoro sono i due grandi poli che determinano il senso stesso della vita decameroniana, il riso, come strategia aggressiva che riconosce il simile e allontana il diverso, ma anche come tecnica di espressione raffinata e articolata che bisogna dimostrare di possedere, si rivela come il banco di prova più significativo per chi ambisce a condividere quella vita. Ed è significativo, in conclusione, che questa esperienza sia in qualche modo rilanciata alla “lettrice”, come dimostra uno stranissimo passaggio della nona giornata, in cui – unico caso in tutta l’opera – essa viene esplicitamente chiamata in causa. Descrivendo in iscorcio la reazione della brigata all’ascolto di una novella, il Narratore esterno dice infatti che «quanto di questa novella si ridesse, meglio dalle donne intesa che Dioneo non voleva, colei sel pensi che ancora ne riderà» (IX Concl. 1). La sovrapposizione tra il riso delle donne dentro la novella portante e il riso delle donne fuori del libro è rafforzata dal fatto che la rubrica di IX 10 presenta lo stesso gioco di parole utilizzato da Dioneo (IX 10 1, 13 e seguenti). Il contatto che così si realizza tra la rubrica (che è uno degli elementi che marcano la posizione del lettore in quanto esterno al libro) e

il discorso di Dioneo (che è invece per eccellenza interno al libro) fa sì che la lettrice sia a sua volta chiamata dentro il libro. Questa sorprendente sovrapposizione tra il mondo della brigata (dove le donne ridono) e il mondo della lettura (dove pure è una donna – «colei» – a ridere) è il sigillo della circolarità di prospettive etiche e di orizzonti culturali progressivamente realizzata nel Decameron attraverso la cornice.

V.7. Piangere Il pianto, oltre che un moto fisico originato da cause materiali o da un’emozione intensa, è un fenomeno culturale. Non in tutte le epoche né in tutte le civiltà si è infatti pianto per le stesse ragioni e nelle stesse occasioni; né si è sempre pianto allo stesso modo: lo spiega per esempio Morte e pianto rituale nel mondo antico, dove l’antropologo Ernesto De Martino, mostrando la continuità di certi aspetti strutturali del rito tra il mondo pagano e il cristianesimo, evidenzia però la novità, anche sul piano emotivo, del pianto di Maria sul corpo del Figlio. Proprio questo incrocio tra la sensibilità individuale e i codici espressivi che ciascuna cultura precostituisce fa sì che nel Decameron siano rappresentati diversi modi di piangere: si piange infatti quando si è colti in flagrante per aver commesso una colpa (si vedano l’anonima giovinetta in I 4 14 e Caterina in V 4 44), o perché si è persa l’amata nel bosco (si vedano Pietro e l’Agnolella in V 3), o semmai mentre si viene picchiati (VII 8 20; IX 4 54). Si piange, d’altra parte, anche per la gioia di ritrovare qualcuno che si credeva scomparso per sempre (è quel che accade all’amante di Tedaldo nel momento in cui lo riconosce: III 7 67). Si piange, ovviamente, innanzi a un pericolo, come nel caso di Bartolomea, la moglie di Riccardo di Chinzica, quando viene rapita dal pirata Paganino (II 10 15), salvo poi mutare lietamente le lacrime in riso, come appunto Bartolomea, una volta scoperte le qualità amatorie del suo rapitore (ivi § 16). E tanto più si piange se ci si sente perduti, come succede ai due giovani mercanti Rinaldo e Andreuccio quando credono di essere senza scampo (II 2 17; II 5 42 e 80), e come ripetutamente accade ad Alatiel, prima di poter dare libero sfogo alle lacrime quando finalmente può raccontare le sue disavventure (II 7 97 e 101). Le lacrime sgorgano inoltre, almeno nel Decameron, quando ci si trova innanzi a un superiore: il giudice, il marito, qualcuno che possa decidere

della nostra vita. Piange, allora, la «gentil donna di Guascogna» quando si presenta innanzi al pavido re di Cipri per ottenere giustizia dell’onta ricevuta (I 9 6), e piange la straordinaria Zinevra, che, travestita nei panni maschili di Sicurano, chiede al soldano di punire Ambruogiuolo, che con un inganno l’ha messa in cattiva luce agli occhi del marito, costringendola a fuggire (II 9 67: e si noti che a § 71 è il marito a piangere mentre chiede perdono alla moglie). Piange anche Giletta di Narbona quando si fa riconoscere dal marito dopo aver superato tutte le prove che egli, crudelmente, le ha imposto, credendole insuperabili (III 9 57). La superiorità non riguarda soltanto la gerarchia sociale, ma anche la maggiore virtù: le lacrime possono pertanto accompagnarne il riconoscimento, come accade a Mitridanes, che «piagnendo corse a’ piè di Natan» in omaggio alla sua superiore magnanimità (X 3 27), o a Tito e Gisippo appena si accorgono dell’atto generoso che l’amico sta facendo sacrificandogli l’amore o addirittura la vita stessa (X 8, rispettivamente §§ 32 e 101). Le lacrime, beninteso, possono anche essere simulate. È quel che fanno la prostituta palermitana Iancofiore per ingannare Salabaetto (VIII 10 2837) e la furba, anonima donna fiorentina che scoppia in un pianto dirotto quando confessa al prete di essere importunata da un uomo che ne minaccia la fedeltà, non dimenticando però di accompagnare alle lacrime un dono («piagnendo forte, si trasse di sotto alla guarnacca una bellissima e ricca borsa con una leggiadra e cara cinturetta e gittolle in grembo al frate», III 3 29): unto adeguatamente, il prete ammonisce aspramente l’uomo, avviandone così l’avvicinamento alla donna, fino al conclusivo e piacevole incontro (ivi § 54). Ovviamente il più grande simulatore del Decameron è ser Cepparello, che, giunto al climax della sua teatralissima confessione, comincia a «sospirare e appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea» (I 1 65), sì da indurre il puro ma ingenuo confessore a dargli la «benedizione, avendolo per santissimo uomo, sì come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto» (ivi § 74). Ma non si spargono lacrime solo dentro le novelle: la commozione e il pianto agitano infatti anche la brigata, con le donne che più volte si trovano «condotte a lagrimare» (II 7 2). Solitamente, il sentimento della «compassione» segue l’ascolto di una novella triste, come accade per le disavventure di Madama Beritola o della «compassionevole novella» (II 9

2) del conte di Anguersa. Diversa la reazione nei confronti di Elena, la vedova beffatrice crudelmente punita da Rinieri, la cui storia è accolta dalle ascoltatrici decameroniane solo con «una più moderata compassione» (VIII 8 2)perché, a loro avviso, la donna avrebbe meritato il castigo. Forte è invece la loro commozione nel caso della novella di Nastagio degli Onesti, per la quale si deve anzi osservare un’interessante interferenza tra i diversi livelli narrativi: se infatti il protagonista ha «compassione della sventurata donna», cioè l’anima infernale punita atrocemente dal cavaliere il cui amore ella ha rifiutato in vita (V 8 13-31, 37-39), e se anche le donne ravennati, invitate al banchetto per assistere alla scena, si commuovono «miseramente piagne[ndo] come se a se medesime quello avesser veduto fare» (V 8 39), la stessa identificazione emotiva è prevista dalla narratrice Filomena anche per le sue ascoltatrici della brigata, alle quali promette una novella piena «di compassion», cui però non manca una conclusione «dilettevole» (V 8 3). La compassione domina inoltre, com’è ovvio, nella quarta giornata, dove si raccontano gli amori che hanno «infelice fine» (IV Introd. 1). Rimandando direttamente al testo per una verifica sull’insieme delle novelle, qui interessa soffermarsi su due episodi in cui le lacrime svolgono anche una precisa funzione narrativa: la storia di Ghismonda e quella di Elisabetta da Messina (rispettivamente IV 1 e IV 5). Per quanto riguarda la prima, notiamo che Fiammetta annuncia che rispetterà la «fiera materia» di trattare le storie delle «altrui lagrime» presentando un «pietoso accidente», «degno delle nostre lagrime» (IV 1 2). Se tra le lacrime altrui e le nostre si crea un evidente rapporto di tipo emotivo, il pianto svolge un ruolo importante nel corso del racconto, giacché caratterizza i due personaggi principali, contrapponendoli in maniera assai netta. La novella è ambientata a Salerno, in una remota epoca di dominazione normanna, e vede protagonisti il principe della città, Tancredi, e la figlia Ghismonda, che, rimasta subito vedova, torna dal padre. Poiché questi tarda a sposarla, la giovane decide di trovarsi un amante all’interno della corte paterna, e, dopo attenta considerazione, si lega a Guiscardo, «uom di nazione assai umile, ma per vertù e costumi nobile» (IV 1 6). La loro relazione, evidentemente asimmetrica e pertanto contraria alla logica aristocratica, è destinata a una tragica conclusione: scoperti per caso da Tancredi, questi ordina che il giovane sia ucciso di nascosto e che il cuore sia portato alla figlia; questa, dopo un nobile

discorso, versa del veleno sul cuore dell’amato, dopo di che lo beve, dandosi la morte. Com’è evidente già da questo breve riassunto, al di là dello sviluppo narrativo, lo scontro tra padre e figlia si articola al livello del ruolo sociale (l’esercizio del potere sovrano: chi decide), della qualità individuale (la virtù: perché si agisce), e addirittura della identità di genere (il comportamento più o meno virile che mostrano nel corso dell’azione: come si agisce). Tralasciando qui i primi due, si può osservare che il livello dell’identità di genere presenta quasi un rovesciamento delle posizioni, con il padre che, amando «teneramente» la figlia (IV 1 4; e cfr. «tenero» a § 5), mentre la rimprovera di aver tradito la sua fiducia di padre e principe feudale, finisce col piangere così tanto da singhiozzare «come farebbe un fanciullo ben battuto» (ivi, §§ 25, 29; e cfr. anche il pianto innanzi alla figlia morente: §§ 59-61). Di contro, Ghismonda si presenta «savia più che a donna per avventura non si richiedea» (§ 5), come dimostrano il lungo e ben articolato discorso che ella rivolge al padre (ivi, §§ 31-45; si notino le formule in cui la donna insiste sulla razionalità con cui ha agito: «con diliberato consiglio elessi», «con aveduto pensiero a me lo ’ntrodussi», «con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono»), nonché la dignità con cui accoglie le spoglie dell’amante ucciso e la compostezza, infine, con cui si uccide. Questa contrapposizione è evidenziata dalle lacrime: Tancredi vi si abbandona in maniera scomposta, Ghismonda le lascia scorrere, anche copiosamente, ma «senza fare alcun feminil romore» (§ 55). Non sorprende dunque che il loro confronto induca nel padre l’ammirazione per la «grandezza d’animo della figliola» (§ 46), ma soltanto dopo che questa lo ha scacciato dalla camera ingiungendogli di andar via «con le femine a spander le lagrime» (§ 45). Di opposto tenore la novella di Elisabetta, una giovane fanciulla che s’innamora di Lorenzo, che collabora con la famiglia della ragazza per la gestione degli affari in Sicilia. Scoperta la relazione dei due giovani, i fratelli organizzano la loro vendetta, uccidendo di nascosto l’amante della sorella per lavare la vergogna subita (IV 5 7-9). Costretta al silenzio dopo aver chiesto «molto instantemente» (ivi, § 10) notizie di Lorenzo, Elisabetta, «dolente e trista», si abbandona a lunghi soliloqui in cui si rivolge all’amante perduto, finché questi le appare di notte, «pallido e tutto rabbuffato», per raccontarle la verità e indicarle il punto in cui è stato seppellito (ivi, §§ 11-13). La giovane si reca sul posto e, trovato il

cadavere dell’amato, ne taglia la testa per portarlo con sé a casa (ivi, §§ 1416), dove la seppellisce in un testo, cioè un vaso, in cui coltiva una pianta di basilico: pianta e testo diventano l’oggetto ossessivo delle sue cure e del suo disidero (ivi, §§ 17-18), rappresentato fisicamente dalle lacrime che vi versa sopra, rendendolo forte e rigoglioso. Anche il basilico le viene però portata via dai fratelli, dopo che i vicini hanno fatto loro notare la strana devozione della fanciulla. In preda a un lutto angoscioso, Elisabetta chiede ripetutamente (di nuovo «con grandissima instanzia») dove sia il vaso, finché, non smettendo mai «il pianto e le lagrime», si ammala (ivi, § 20), continuando sempre a «piagnere» e a domandare «il suo testo», fino a morirne («piagnendo»: ivi, § 23). Eroina dell’azione delirante, sia quando agisce con fermezza, tagliando la testa al cadavere dell’amato («conoscendo che quivi non era da piagnere»: ivi, § 16), sia quando resta in contemplazione della reliquia, sedendo «sempre a questo testo vicina» (ivi, § 18: quasi fosse il corpo santo nel tabernacolo), Elisabetta è esaltata nel suo progressivo isolamento, che si rappresenta con la mancanza di ogni reazione rispetto al mondo esterno e il progressivo venir meno del linguaggio; alla scomparsa delle parole, che sono pur sempre lo strumento per rapportarsi al mondo esterno, corrisponde l’assolutezza del pianto, che diventa l’emblema stesso dell’identità di una fanciulla chiusa per sempre in un dolore totale, incomunicabile, definitivo. Torniamo, in chiusura, su quanto dicevamo all’inizio a proposito della ritualità del pianto. Si tratta infatti di un aspetto esplicitamente tematizzato nell’opera, e più precisamente in un passaggio molto importante della Introduzione alla prima giornata, cioè nel luogo in cui vengono fissate le coordinate generali di quanto seguirà, con la descrizione della peste, l’incontro delle giovani donne in Santa Maria Novella e la partenza per il contado. Ebbene, proprio all’inizio del racconto, il narratore extradiegetico spiega che Era usanza, sì come ancora oggi veggiamo usare, che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano e quivi con quelle che più gli appartenevano piagnevano; e d’altra parte dinanzi la casa del morto co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato; e egli sopra gli omeri de’ suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n’era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocità della

pistolenza, o in tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre nuove in lor luogo ne sopravennero. (I Introd. 32-33)

La peste ha dunque fatto cessare un’«usanza» fondamentale, uno di quei riti condivisi attraverso i quali la città si teneva insieme, riconoscendosi in un certo sistema culturale e religioso. La brigata, attraverso il racconto e il commento, proverà a ripristinare le forme della convivenza, a partire da quell’istanza antropologica fondamentale che è il racconto. Con la sua capacità di commuovere, di divertire, d’insegnare, di fare ridere e far piangere, la narrazione decameroniana si istituisce come una pratica lenitiva che permette, a metà tra l’antropologia e la politica, di ricomporre l’ordine individuale e di restaurare le forme della socialità ordinaria.

Capitolo VI. La lingua e lo stile

VI.1. Generi, registri, modi narrativi Abbiamo già visto in precedenza (cfr. supra, parr. III.2 e V.1) che nella Conclusione dell’autore Boccaccio difende la sua operazione parlando di «qualità delle novelle». È un passaggio importante, che è necessario leggere con attenzione. Vi si dice, infatti, che se in qualche punto dell’opera vi sono parole «disonest[e]», ciò è dovuto al fatto che la qualità delle novelle l’hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio da intendente persona fian riguardate, assai aperto sarà conosciuto, se io quelle della lor forma trar non avessi voluto, altramenti raccontar non poterle. (Concl. dell’autore 4)

Partendo da qui, il ragionamento dell’autore si diffonde per alcuni capoversi, al fine di affrontare i diversi aspetti che riguardano il tipo di comunicazione letteraria realizzata nell’opera. Questo passaggio precisa dunque con grande chiarezza il rapporto intercorrente tra la qualità delle novelle e la forma in cui esse devono essere raccontate. L’autore spiega che la storia (cioè la serie degli eventi che costituiscono il racconto) non è sufficiente per caratterizzare una novella, la quale impone, sempre e innanzitutto, una scelta di modi espositivi e di formule espressive. Forma e contenuto, in poche parole, non possono mai essere separati: la trama funziona solo quando è narrata secondo lo stile adeguato. Questa dichiarazione riprendeva la tipica regola medievale della corrispondenza tra livello dei personaggi e livello dello stile stabilita in base alla cosiddetta Rota Vergilii, cioè quella regola stilistica, rappresentata visivamente come un cerchio ed esemplificata con le opere del poeta latino Virgilio, che distingueva tra humilis stylus (livello basso, come la vita di pastori delle Bucoliche), mediocris stylus (livello intermedio, come i contadini al lavoro in campagna delle Georgiche) e gravis stylus (livello

elevato, come i guerrieri in città o nei campi militari dell’Eneide). Boccaccio fa però un passo avanti, perché stabilisce la necessità di differenziare gli “stili” in base alla situazione e al personaggio; e poiché la sua opera presenta un’ampia varietà di situazioni e di personaggi, la macchina del Decameron non può che muoversi all’insegna della pluralità, realizzando una corrispondente varietà di moduli e soluzioni stilistiche. La qualità, di conseguenza, varia a seconda delle novelle. Se torniamo alla serie presentata dall’autore quando parla di «cento novelle, o favole o parabole o istorie» (Proemio 13), possiamo allora capire che la varietà di situazioni e personaggi, che è sempre varietà di forme, è davvero fondamentale nell’opera, tanto da prospettare la necessità di distinguere all’interno del genere “novella” una serie di sottogeneri, caratterizzati da specifiche differenze di registro espressivo e di costruzione narrativa. Seguendo questo principio, Mario Baratto ha opportunamente proposto di individuare, all’interno del complessivo corpus novellistico, diversi «modi narrativi», cioè diverse forme della narrazione: il «racconto», dove la storia è come una «linea» che si sviluppa per «accumulazione» di «vicende»; il «romanzo», dove l’avventura è un «evento psicologico, essenziale nella storia di un personaggio»; la «novella» in senso proprio, che sarebbe «delimitata da un preciso orizzonte di spazio e di tempo». Gli altri «modi» individuati da Baratto nel Decameron ne mettono in evidenza il forte carattere teatrale, dovuto all’importanza che vi assumono la dimensione performativa dei narratori interni alla brigata (quindi la retorica) e la competizione tra i personaggi (quindi la trama: si pensi alle novelle di motto e di beffa). Lo studioso distingue così tra racconti in cui la contrapposizione si basa prevalentemente sulle azioni (da cui nasce il modulo del «contrasto») e racconti che si basano sul confronto tra caratteri (che produce il modulo della «commedia»), passando per un tipo intermedio, ancora basato sulle azioni, ma già orientato alla caratterizzazione del personaggio (da cui scaturisce il modulo del «mimo»). La novella si presenta, insomma, come una sorta di “ipergenere”: un genere onnivoro e agglutinante, capace di attrarre diverse soluzioni compositive, da quelle più elementari e lineari a quelle più complesse e sottili. La bravura di Boccaccio consiste nell’aver saputo trasporre questa varietà di soluzioni nelle forme di una lingua estremamente duttile, che

spazia dalle formule più elevate (e talvolta però pompose), quali leggiamo nell’Introduzione della prima giornata dov’è descritta la peste, alle agili battute, spesso più brevi di un rigo, in cui si definisce con chiarezza l’indole di un personaggio o il tipo di situazione che si è venuta a creare.

VI.2. La lingua “nel” Decameron: livelli espressivi, dialogicità, prospettivismo In un’opera così articolata la lingua gioca un ruolo centrale, giacché è soltanto attraverso l’espansione del lessico e la ricchezza della sintassi che si può garantire la rappresentazione di tanti personaggi, ambienti e situazioni differenti. Soffermarsi sulle risorse espressive cui attinge il Decameron si rivela pertanto necessario non solo per una sua corretta descrizione linguistica, ma soprattutto per intendere il tipo di operazione realizzato da Giovanni Boccaccio quando ha allestito la prima grande narrazione in prosa della tradizione europea moderna. Le principali strategie del cosiddetto realismo – come spesso è stato osservato – si realizzano infatti attraverso le scelte linguistiche e stilistiche: la stessa «sfumatura dei confini tra vita reale-quotidiana e vita raccontata», di cui abbiamo parlato in precedenza (cfr. supra, par. V.1), è resa possibile da un certo utilizzo del lessico, in particolare dall’arricchimento in direzione del quotidiano e del comico, cioè del più basso livello di realtà: realizzare un passaggio morbido dalla vita reale alla vita raccontata significa stabilire connessioni cognitive tra i due, rendendo abituale, conosciuto, quasi scontato il mondo pur fittizio della narrazione. Ovviamente, il lessico di per sé non basta, perché occorre una certa organizzazione del discorso che coordini i singoli elementi in una struttura compositiva unitaria, a partire dalla distinzione in più livelli narrativi che abbiamo osservato nel terzo capitolo. Ne consegue una significativa differenza tra il linguaggio adottato dal Narratore extradiegetico, come lo ha definito Michelangelo Picone (cioè colui che si dichiara «Autore»), soprattutto quando descrive la vita della brigata, il linguaggio utilizzato dai dieci giovani, e il linguaggio attribuito ai personaggi. Il primo livello è prevalentemente caratterizzato da scelte lessicali selettive, che tendono a escludere la quotidianità e la materialità degli oggetti, come mostrano già le sole prime righe del Proemio, dove sono

presenti sostantivi quali compassione, conforto, piacere, giovanezza, amore, condizione e aggettivi quali umana, altissimo, nobile, grandissima, soverchio, poco regolato, con una generale prevalenza delle forme superlative o che comunque innalzano il tono del discorso. Lo stesso si può affermare anche per quei passaggi dedicati alla brigata in cui i dieci giovani non narrano novelle, ma dialogano tra di loro, semmai al fine di fornire prescrizioni per la loro condotta di vita. Lo si vede bene in un brano della Conclusione della prima giornata, dove Filomena, che è stata appena nominata regina, si rivolge alle altre donne iniziando così il suo discorso: Carissime compagne, quantunque Pampinea, per sua cortesia più che per mia vertù, m’abbia di voi tutte fatta reina, non sono io per ciò disposta nella forma del nostro vivere dover solamente il mio giudicio seguire, ma col mio il vostro insieme; e acciò che quello che a me di far pare conosciate, e per conseguente aggiugnere e menomar possiate a vostro piacere, con poche parole ve lo intendo di dimostrare. (I Concl. 6)

La centralità della gentilezza («cortesia»), il rispetto del decoro, il concorso di onestà e razionalità («giudicio») nel conseguimento del «piacere» sono evidenziati dalla stessa compostezza espressiva. Lo conferma la prosecuzione, in cui la regina fissa il calendario giornaliero: Dato adunque ordine a quello che abbiamo già a fare cominciato, quinci levatici, alquanto n’andrem sollazzando e, come il sole sarà per andar sotto, ceneremo per lo fresco, e dopo alcune canzonette e altri sollazzi sarà ben fatto l’andarsi a dormire. (I Concl. 8)

Il notevole controllo sintattico e l’accorta selezione lessicale davvero “incarnano” la «forma del nostro vivere», cioè l’esemplare ricerca di adeguare, secondo «ordine», la convivenza quotidiana alle norme elaborate del codice culturale cortese. Diverso è il discorso per i personaggi delle novelle. Appartenenti a gruppi sociali e professionali assai diversi, immersi in contesti situazionali fortemente differenziati, il linguaggio che viene loro attribuito si estende su una gamma assai ampia, dai toni elevati dei re e dei signori d’alto rango fino alla povertà di mezzi espressivi dei personaggi più semplici o meno inseriti nelle dinamiche della relazione interpersonale. Questa notevole diversificazione produce una ricca varietà sia diastratica (cioè legata ai livelli sociali) sia diafasica (cioè dipendente dalle situazioni comunicative): meno insistita, sebbene, come vedremo, non del tutto assente, è invece la varietà diatopica, quella dovuta alla distribuzione nello spazio.

Questa diversificazione si nota bene confrontando la novella III 10 con la prima novella della giornata successiva (cfr. supra, par. V.3), dove sono presenti due racconti dal trattamento diversissimo, sebbene condividano lo stesso assunto, giacché partono entrambi dal presupposto che l’amore, inteso come concupiscenza fisica, sia una forza naturale. Nel primo caso, si tratta del rapporto tra Rustico, un giovane eremita nel deserto, e l’inesperta fanciulla Alibech: il loro incontro, di concreta carnalità, è raccontata da Dioneo con metafore parodiche dell’ambientazione religiosa della novella (esempio: «la resurrezion della carne» per significare l’erezione sessuale) e con una formula popolare passata in proverbio come «mettere il diavolo in ninferno» (“cacciare il diavolo nell’inferno”, cioè: accoppiarsi sessualmente). Nel secondo caso, la stessa questione è invece affrontata in termini tragici e nobili: Ghismonda, una giovane vedova, figlia del principe normanno di Salerno, capisce che il padre non le troverà rapidamente un nuovo sposo; ella decide, pertanto, di trovarsi da sola un amante, individuandolo in Guiscardo, uno dei servitori del principe; quando il padre scopre la relazione e per vendetta imprigiona l’amante con l’intenzione di farlo ammazzare, la donna gli rivolge un lungo discorso (IV 1 31-45), in cui spiega che, essendo egli «di carne», avrebbe dovuto capire di «aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro» e che le «leggi della giovanezza» potenziano il «concupiscibile disidero» (§§ 33-34). I personaggi sono di estrazione diversissima, sicché, pur vivendo il medesimo tipo di esperienza, non l’affrontano allo stesso modo. Essi, di conseguenza, non si esprimono alla stessa maniera: i loro discorsi si distinguono in base alle leggi della convenienza sociale; distinti sono pertanto i loro lessici e il modo in cui riescono a spiegare quel che provano. Per la versione che vede protagonisti una giovanissima fanciulla inesperta e un povero eremita malnutrito che s’incontrano in un deserto, Boccaccio adotta la soluzione comica, basata sul doppio senso e l’allusione sessuale divertente, come si vede in questo scambio di battute: essendo Rustico più che mai nel suo disidero acceso per lo vederla così bella, venne la resurrezion della carne; la quale riguardando Alibech e maravigliatasi disse: «Rustico, quella che cosa è che io ti veggio che così si pigne in fuori, e non l’ho io?». «O figliuola mia,» disse Rustico «questo è il diavolo di che io t’ho parlato; e vedi tu ora egli mi dà grandissima molestia, tanta che io appena la posso sofferire». Allora disse la giovane: «Oh lodato sia Iddio, ché io veggio che io sto meglio che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo io». (III 10 13-15)

Per la principessa normanna, che vive in un’austera reggia, egli attinge invece ai livelli alti della lingua, con una sintassi ben controllata e un evidente impegno retorico, come mostra l’incipit del suo bel discorso: Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine e ’l tuo amore: ma, il vero confessando, prima con vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dell’animo mio. (IV 1 31)

È inoltre interessante osservare la diversa partecipazione del narratore alle due situazioni ora descritte. Dobbiamo infatti ricordare il carattere “verbale” della novella (cfr. supra, par. I.3), che è sempre una narrazione, cioè una performance, sicché colui che narra agisce linguisticamente, orientandosi verso l’uditorio per divertirlo o commuoverlo con l’interpretazione del carattere dei suoi personaggi e della loro espressività (proprio come farebbe un attore). Ecco perché Dioneo, il narratore di III 10, utilizza, non senza malizia, una metafora di sfondo religioso, mentre invece Fiammetta, che espone IV 1, tralascia ogni allusione erotica, lasciando che il tema sessuale divenga un argomento trattato seriamente dalla sua protagonista con parole sagge e severe (il tutto risulta ancora più chiaro quando si accosta il discorso di Ghismonda alle sarcastiche battute di Bartolomea che, in una precedente novella, rimprovera l’anziano marito di non aver inteso che lei è ancora «giovane e fresca e gagliarda»: II 10 31). Il confronto diventa ancora più interessante quando lo si allarga alla «novella» narrata nella Introduzione della quarta giornata, quando lo stesso Autore prende la parola per difendersi dalle accuse ricevute in seguito alla pubblicazione delle prime tre parti dell’opera. Anche in questo caso viene affrontato il tema della naturalità del desiderio e della sua maggior forza presso i giovani; tema che trova la sua più limpida espressione nella battuta involontaria, quasi un lapsus, che si lascia sfuggire Filippo Balducci, il quale, dopo aver detto al figlio che le donne si chiamano «papere», risponde risentito alla sua insistita richiesta di portarne via qualcuna per crescerle nel loro eremo di montagna: «tu non sai donde elle s’imbeccano!». L’Autore sottolinea che, appena dopo aver pronunciato la battuta («incontanente»), Filippo capisce che la «natura» ha più «forza» che il suo «ingegno» (IV Introd. 29), cioè capisce che l’istinto sessuale sconfigge le precauzioni di chi tenta di comprimerlo. Ma è interessante

che questa comprensione avvenga nello stesso momento in cui il personaggio pronuncia la sua battuta: la metafora delle papere e del modo in cui si cibano, pur rimandando al mondo naturale delle relazioni tra animali, veicola infatti un’allusione oscena. La prospettiva limitata del ragazzo, che non ha mai avuto rapporti con altri esseri umani diversi da suo padre, spinge Filippo ad adottare un’espressione semplice, che però rivela l’amara scoperta dell’impossibilità di reprimere le forze del sesso: come gli animali, anche gli uomini sono spinti dalla concupiscenza naturale. Il lessico, le espressioni metaforiche, i modi di raccontare e di argomentare sono dunque coerenti con i profili dei personaggi e con le differenti situazioni. Trattandosi però di un’opera caratterizzata dalla presenza di almeno tre livelli o dimensioni percettive e linguistiche (Autore, Narratori, personaggi), si produce di frequente una sorta di corto circuito tra le diverse prospettive. Per iniziare col caso più semplice, si può osservare che al di là dell’eventuale “citazione” che un Narratore può fare dei discorsi dei suoi personaggi, riprendendone qualche espressione, si verifica anche il meno normale trasferimento inverso, con una parola, una metafora, un certo atteggiamento linguistico che passa dai Narratori ai personaggi. Il fatto, inevitabilmente, è più frequente nel caso del registro comico, come mostra il bell’esempio di III 4, dove si racconta la vicenda di uno che, volendo andare in Paradiso, consente ad altri di raggiungerlo: questa battuta, utilizzata da Panfilo per introdurre in maniera un po’ enigmatica il suo racconto, e da lui stesso ripresa nel commento conclusivo (§§ 3 e 33), viene a un certo punto attribuita anche alla protagonista della novella (§ 31). La circolazione della stessa battuta tra Narratore e personaggio assolve in questo caso a una duplice funzione: 1) ha un valore narrativo, perché fa del marito (che è un bigotto un po’ stupido) lo zimbello di una beffa, e al tempo stesso eleva la donna al livello del beffatore (frate Puccio, che si è innamorato di lei); 2) ha inoltre un valore comunicativo, perché svela che il «Paradiso» di cui si parla non va inteso in senso religioso, ma come una metafora profana per indicare il piacere fisico. Questo scambio di livelli, questa dialogicità interna dell’opera è addirittura conclamata in alcune importanti pagine della Conclusione dell’Autore, dove si afferma che allo scrittore non si deve vietare l’uso di espressioni allusive, così come, in generale, non è vietato a nessuno di dire «‘foro’ e ‘caviglia’ e ‘mortaio’ e ‘pestello’ e ‘salsiccia’ e ‘mortadello’» (§ 5).

Affermando la possibilità di assumere nel proprio discorso il lessico ordinario, l’Autore rivendica il diritto a sviluppare liberamente le metafore, soprattutto a partire dalla realtà della vita quotidiana (ancora nel 1730 Dumarsais avrebbe detto che in un solo giorno di mercato si fanno più figure retoriche di quante ne facciano i letterati in più giorni di riunione). La cosa, già notevole così, diventa davvero interessante quando si ricorda che una di queste tre coppie è effettivamente utilizzata in una novella dell’ottava giornata, dove una donna, monna Belcolore, scopre di essere stata beffata dal prete da Varlungo, il religioso cui si è concessa: La Belcolore brontolando si levò, e andatasene al soppediano ne trasse il tabarro e diello al cherico e disse: «Dirai così al sere da mia parte: “La Belcolor dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più salsa in suo mortaio: non l’avete voi sì bello onor fatto di questa”». Il cherico se n’andò col tabarro e fece l’ambasciata al sere; a cui il prete ridendo disse: «Dira’le, quando tu la vedrai, che s’ella non ci presterà il mortaio, io non presterò a lei il pestello; vada l’un per l’altro». (VIII 2 44-45)

«Mortaio» e «pestello», oggetti della realtà (il primo è il pretesto a partire dal quale il prete organizza la sua caccia sessuale), vengono dunque riutilizzati a fini metaforici, per realizzare una comunicazione obliqua e allusiva che il chierico incaricato del recupero del «tabarro» non può comprendere. L’Autore, allegando nel suo elenco conclusivo questa coppia, non si limita dunque a proporre un esempio generico, ma gioca col lettore, invitandolo a cogliere il meccanismo linguistico e narrativo della novella che è stata narrata in precedenza. Da quanto detto fin qui è evidente che la ricchezza lessicale del Decameron è uno degli strumenti utili per caratterizzare i personaggi e le situazioni in senso geografico o culturale. Ciò vale, per esempio, per gli «inserti di lessico tecnico», come ha spiegato Paola Manni, che possono realizzare una «forzatura allusiva o ironica». Ciò vale anche per l’uso di registri differenti, come si evince dalla ricca presenza di lessico della cultura materiale sia nella novella di Simona e Pasquino (IV 7), sia nella novella appena citata, dove leggiamo che il prete da Varlungo è solito omaggiare le sue parrocchiane mandando loro «e quando [...] un mazzuol d’agli freschi, ch’egli aveva i più belli della contrada in un suo orto che egli lavorava a sue mani, e quando un canestruccio di baccelli e talora un mazzuolo di cipolle malige o di scalogni» (VIII 2 11: si noti la varietà degli ortaggi), e dove vediamo monna Belcolore intrattenersi col prete mentre

intanto pulisce della «sementa di cavolini che il marito avea poco innanzi trebbiati» (§ 19). Non stupisce, di conseguenza, che il livello connotativo, cioè ulteriore, metaforico, si sviluppi a partire dai mondi della realtà raffigurata: Emilia, raccontando la triste storia di Simona, dirà che l’amore della giovinetta aumenta a mano a mano che, «filando, a ogni passo di lana filata che al fuso avvolgeva, mille sospiri più cocenti che fuoco gittava»: una filatrice, guardando il filo che le è stato portato dal ragazzo di cui è innamorata, non può fare a meno di ricordarsi costantemente di lui, «che a filar gliele aveva data» (IV 7 11). Panfilo, invece, raccontando un amorazzo contadino, mostra il suo robusto e schietto protagonista mentre si dichiara alla Belcolore, spiegandole che i preti “macinano a raccolta” (VIII 2 23): riferendosi a quei mulini che macinavano solo dopo aver raccolto acqua a sufficienza nei bacini soprastanti, con questa espressione tratta dalla vita del lavoro agricolo, il personaggio fa intendere alla sua bella che i preti sono gente accorta, che sa attendere il momento opportuno per sfogare il proprio impeto sessuale. La caratterizzazione linguistica può anche definire «un’atmosfera ambientale», per riprendere le parole di Vittore Branca, contribuendo alla collocazione in un determinato spazio geografico o socio-culturale. Lo si vede nell’uso di espressioni localmente connotate, come sono i prelievi dal volgare bolognese (I 10), genovese (II 9), veneziano (IV 2), lombardo (IV 6), napoletano (II 5), siciliano (VIII 10), per non parlare della presenza di termini catalani (X 1) o di frequenti gallicismi, adoperati, questi ultimi, non solo per segnalare la provenienza dei personaggi, ma anche per rimandare a una certa dimensione culturale e letteraria di sfondo cortese. L’espressivismo del Decameron risulta così un ulteriore aspetto del suo “realismo”: ancora una volta le forme, siano della narrazione, della retorica o della lingua, realizzano la rappresentazione del mondo mirando a far emergere non il tipo o la situazione generica, ma l’individuo e il fatto nella loro singolarità, nominata appunto in quanto tale, cioè identificata con un carattere, un nome, un’identità specifica. Dalle precedenti osservazioni emerge con chiarezza che l’inventiva lessicale raggiunge livelli particolarmente significativi nel campo della comicità. Ciò è dovuto senz’altro all’indole di Giovanni Boccaccio, al suo evidente gusto per l’osservazione minuziosa del mondo, a partire dalla vita di ogni giorno. Ma vi è probabilmente anche un’altra causa, che si

potrebbe chiamare l’attitudine prospettica, la tendenza, cioè, ad assumere un punto di vista attraverso il quale filtrare la realtà rappresentata. Si tratta in fin dei conti di un altro aspetto di quell’orientamento sul presente di cui abbiamo già parlato (cfr. supra, par. V.1) riprendendo una preziosa osservazione di Mario Baratto: è infatti evidente che l’orientamento non può che realizzarsi a partire da un preciso punto prospettico. Il comico decameroniano sorge di solito proprio da questa dialettica di prospettive. Ciò vale per il comico di situazione, per esempio le beffe; e ciò vale anche per il comico di parola, il «comico del discorso», com’è stato definito, ossia quello dovuto a effetti retorici e stilistici. Abbiamo visto che la lingua della comicità attinge spesso, nel Decameron, al mondo popolare e alla vita materiale: ma l’uso stravolto – per malizia o per stupidità – di questo lessico produce un fitto tessuto metaforico e allusivo che è appunto il prodotto di una percezione stravolta. Un bell’esempio si trova ancora nella novella del prete di Varlungo, il quale stupisce la sospettosa Belcolore dicendole che il suo mantello (il «tabarro») vale moltissimo: esso è infatti di panno fine, «di duagio infino in treagio, e hacci di quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio» (VIII 2 35). «Duagio» è una parola realmente esistente, riferito ai panni di fine fattura tessuti a Douai nelle Fiandre; «treagio» e «quattragio» sono invece parole senza senso, create dal prete furbacchione giocando sulla somiglianza fonica con duagio e sulla connessione fonica tra duagio e due (e dunque tra treagio e tre, ecc.): un panno «duagio» (cioè, avrà erroneamente inferito la Belcolore, “che vale due”) diventa nel suo discorso «quattragio» (cioè, secondo la stessa ottica distorta, “che vale quattro”), raddoppiando il proprio valore iniziale. Allo stesso modo vanno intesi gli strafalcioni dei personaggi, che, piuttosto che definirli dal punto di vista linguistico (e quindi sociologico e geografico), ne forniscono invece la caratterizzazione psicologica, spesso con immediata ricaduta narrativa. Boccaccio dunque, avrebbe detto Michail Bachtin, tratta la lingua sempre a partire da una sua «immagine», cioè da una certa concezione, che ha sempre a che fare con una determinazione singolare (perché connessa a un singolo personaggio) e che quindi corrisponde a un certo modello cognitivo e a un certo orientamento verso il mondo nel suo complesso. Come mostra il caso appena esposto, tra le prove più eloquenti di questo “prospettivismo” linguistico c’è il non-sense, una cui apoteosi è la

straordinaria predica di frate Cipolla. Questi, avendo scoperto che gli è stata sottratta la falsa reliquia che intendeva mostrare ai fedeli di un paesino toscano, è costretto a inventarsi una storia miracolosa per giustificare la presentazione di un’altra (falsa) reliquia sostitutiva (VI 10 37-52). Il personaggio, dotato per natura di una straordinaria facondia, che lo rende un «ottimo parlatore e pronto», assimilabile addirittura a «Tullio [Cicerone] medesimo o forse Quintiliano» (VI 10 7), improvvisa innanzi a un pubblico rustico e credulone il racconto di uno straordinario viaggio, che è una miscela di assurdità (dice di aver conosciuto il «gran mercante Maso del Saggio», che «schiacciava noci e vendeva gusci»: § 42), di cose ovvie presentate come fatti meravigliosi, mirabilia (quei paesi in cui «tutte l’acque corrono alla ’ngiù»: § 41), di doppi sensi insoliti (come il riferimento alle regioni chiamate Truffia e Buffia, § 39), di allusioni sessuali oscene (camminare «in zoccoli», § 40, e leggere i «capitoli del Caprezio», § 46, sono metafore tradizionali per indicare la sodomia). Ma se frate Cipolla stupisce i suoi ascoltatori per trarre vantaggio dalla loro credulità, il ricco armamentario retorico del suo discorso è invece rivolto – potremmo dire “fuori scena” – alle ascoltatrici della brigata, e di conseguenza addirittura “fuori testo”, alle lettrici del Decameron: soltanto le ascoltatrici e le lettrici possono infatti capire che il fantastico viaggio in terre lontane è in realtà la descrizione di una passeggiata lungo le strade di Firenze, partendo dalla chiesa di san Paolino per spingersi fino alla zona Oltrarno, nei dintorni di san Frediano. La brigata, siamo avvisati in conclusione, prende «grande piacere e sollazzo» dalla novella, e «massimamente del suo pellegrinaggio e delle reliquie» (VI Concl., 1): il filo diretto che si stabilisce tra Narratore e narratari conferma così la conflittualità sociale che, anche attraverso la conversazione faceta, separa il mondo della brigata (e dei lettori) dagli abitanti del contado e, in generale, da coloro che non padroneggiano le raffinate strategie della comunicazione indiretta (cfr. anche quanto detto supra, par. IV.4). Il prospettivismo implica dunque un chiaro orientamento ideologico, e addirittura un conflitto di valori. Lo possiamo constatare tornando per l’ultima volta alla novella di Alibech e dell’eremita Rustico, in cui il rovesciamento del linguaggio devoto realizzato da Dioneo (si ricordi la stravolta espressione, quasi blasfema, che parla di «resurrezion della carne») è coerente con l’uso tendenzioso che egli fa dell’argomento religioso: ambientando la sua storia nel deserto della Tebaide, il narratore

realizza infatti una parodia di quei racconti esemplari che grande successo avevano in quegli anni e che in Toscana, anzi a Firenze, e proprio in Santa Maria Novella, trovavano un formidabile strumento di diffusione nell’opera in volgare del frate domenicano Jacopo Passavanti (1302 circa1357). Nella leggenda agiografica il santo resiste alla tentazione, Boccaccio, che (come abbiamo ricordato nel par. II.1) conosceva di prima mano questo racconto, ne fa invece un esempio della potenza naturale del desiderio. Le donne della brigata, ridendo della «novella di Dioneo» e in particolare apprezzando le «sue parole» (III Concl. 1), esprimono la loro propensione per la comicità delle metafore, al contempo rivelando di aver colto la polemica del loro compagno contro la cultura religiosa e i raccontini spirituali che pure tanto successo riscuotevano a quel tempo.

VI.3. La sintassi e la costruzione del racconto In uno studio di alcuni anni fa, Cesare Segre ha spiegato che la produzione letteraria del Duecento, e soprattutto la scrittura prosastica di giuristi, cronachisti e volgarizzatori di testi latini favorì «una presa di coscienza del mondo da parte di persone che, senza consacrarsi agli studi, guardavano tuttavia la realtà con occhio acuto». È infatti un fenomeno tipico, in ogni epoca e civiltà, che la scrittura, soprattutto in prosa (perché più libera, rispetto alla poesia, da formule metriche e regole prosodiche), contribuisca alla formazione di schemi conoscitivi di tipo razionale. Stabilire in forma astratta (come accade per iscritto) quale sia l’azione principale e organizzare le conseguenti dipendenze sintattiche produce un irrobustimento delle connessioni logico-deduttive. Il grande sviluppo duecentesco dell’arte del dire, insieme al trasferimento nel mondo cittadino del codice di comportamento cortese e alla tendenza a una più attenta osservazione dei comportamenti umani «indirizzavano», inoltre, «a letture di una certa ampiezza», producendo un ulteriore rafforzamento dell’espressione scritta, in particolare con l’apparizione di una più matura prosa narrativa, il cui primo esito importante è senza dubbio il Novellino, composto tra gli ultimi anni del XIII secolo e i primi del secolo successivo, ossia circa cinquanta anni prima del Decameron. Se già questa raccolta di racconti presenta un netto avanzamento rispetto alle formule paratattiche dei primi testi in prosa con l’apparizione di forme più evolute di subordinazione sintattica e di

gerarchia concettuale, Boccaccio fa un passo ulteriore, grazie alla tendenziale congiunzione tra controllo della sintassi e controllo della narrazione. Vedremo tra poco qualche esempio concreto. Prima è necessario registrare sinteticamente alcuni dei fenomeni tipici del fiorentino del Trecento che si possono ritrovare anche nella sua prosa, a partire dalla presenza, non propriamente residuale, di un tipico fenomeno della lingua antica come la cosiddetta legge Tobler-Mussafia, cioè l’enclisi del pronome atono in apertura di periodo o dopo congiunzione coordinativa («Partissi adunque il Saladino»: X 9 39). Anche la paraipotassi conserva una certa incidenza nel Decameron, con l’uso di formule coordinative per esprimere la subordinazione («Essendo noi già posti a tavola [...], e noi sentimmo presso di noi»: V 10 32). Si tratta del resto di un fenomeno ancor oggi tipico del parlato o dei testi prodotti da chi non ha grande dimestichezza con la scrittura: la presenza nel testo boccacciano di questo particolare incrocio tra struttura della subordinazione e forme della coordinazione si può pertanto spiegare sia con la non ancora piena maturazione linguistica del volgare toscano, sia con la ricerca di effetti stilistici di vivacità, come accade anche nel caso della dislocazione di pronomi e di interi sintagmi nominali sia “a sinistra” (anticipandoli, in posizione anaforica), sia “a destra” (posticipandoli, in posizione cataforica). Stessa questione pone la presenza dei numerosi anacoluti (ossia frasi lasciate in sospeso), dovuti sì, talvolta, al non limpido controllo del periodo, ma spesso motivati da una sorta di mimèsi del parlato, e comunque interpretabili come il frutto di una ricerca espressiva. Tale è probabilmente il caso, segnalato a suo tempo da Attilio Momigliano, di una frase come questa: «Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima» (VIII 6 48). Il passaggio dal caso diretto del nome di persona alle forme in caso indiretto dei pronomi che gli si riferiscono è, se ragioniamo in termini strettamente grammaticali, un “errore”; ma la scelta di questa forma irregolare ha come risultato la messa in forte evidenza del personaggio, sulle cui sensazioni fisiche ruota tutta la novella. Se questo è il livello della “contaminazione dal basso”, che si può spiegare – dicevamo – come l’esito dell’influenza da parte del parlato o come un difetto dovuto a un ancora non raggiunto pieno controllo, per

iscritto, delle risorse linguistiche, vi è poi il livello opposto, di “nobilitazione verso l’alto”, espresso in particolare dalla tendenza – talvolta faticosa – a trasferire in fiorentino i moduli della sintassi latina, che era peraltro la lingua in cui a quel tempo s’imparava a scrivere. Questa seconda influenza si riscontra in particolare nelle zone di maggior impegno tematico o concettuale, quando il periodare può diventare fin troppo ampio, come accade per esempio nell’Introduzione alla prima giornata, dal tono assai sostenuto, talvolta anche ampolloso. Tra i principali fenomeni che rientrano in questo secondo livello è utile ricordare: le inversioni sintattiche, i costrutti infinitivi, l’uso del participio presente in costrutto assoluto o con valore attributivo («duranti ancora le parole, sopravvenne uno...»: come se fosse un gerundio), la possibilità di utilizzare a inizio di periodo il pronome relativo con valore coordinante. Il capolavoro boccacciano si muove dunque tra gli opposti poli dell’elevatezza magniloquente e dell’attrazione verso l’oralità, anche per ragioni stilistiche ed espressive. Al di là delle condizioni storiche della lingua fiorentina scritta, è del resto la sua stessa natura di opera in cui è rappresentata (per iscritto) una serie di rappresentazioni (orali) a rendere necessaria un’ampia gamma di soluzioni formali differenti, che deve consentire tanto la raffigurazione in termini oggettivi e tragici (e con sfondo morale) dello sconvolto scenario della peste, tanto la riproduzione dei livelli più bassi dell’espressione linguistica, motivati semmai da ragioni narrative: un personaggio che, sconvolto o intimorito, non riesce a controllare adeguatamente il suo discorso (si vedano, rispettivamente per i due casi, Arriguccio in VII 8 e Simona in IV 7); un imbonitore o uno stupido che si producono, in maniera più o meno consapevole, in un ragionamento ai limiti del non-sense, con i relativi fenomeni di disgregazione, anche sintattica, che gli sono caratteristici. Una descrizione della lingua del Decameron, di conseguenza, deve tener conto del luogo in cui le diverse formule sono utilizzate e del diverso orizzonte conoscitivo che, volta per volta, esse contribuiscono a riprodurre. Una frase infinitiva di conio latino può essere riferita all’Autore («crediamo la nostra vita con più forti catene esser legata al nostro corpo»: I Introd. 63), a un componente della brigata («cose tutti testificanti noi avere dell’altrui governo bisogno»: IX 1 33), o addirittura a un personaggio («Io ho sempre inteso l’uomo essere il più nobile animale che tra’ mortali fosse creato da Dio»: II 9 15), ma la formula conserva un

carattere particolarmente elevato, di enunciazione programmatica se non filosofica. E anche quando questo medesimo costrutto viene utilizzato per rendere il discorso indiretto di un personaggio («Confessò Bernabò così essere fatta la camera come diceva»: II 9 31), esso può ancora recare il segno di una certa ricercatezza espressiva; così come l’anacoluto, per quanto vada a volte attribuito a un’effettiva debolezza della sintassi dell’autore, appare legato a motivazioni narrative complessive. Per non dire poi della vocazione mimetica in senso stretto, ossia teatrale del Decameron, su cui ha scritto cose importanti Pamela Stewart. Oltre che con le scelte lessicali, è infatti proprio con la sintassi che i dieci narratori possono meglio caratterizzare i loro personaggi, al tempo stesso rendendo conto dei diversi toni, spesso legati a contesti situazionali differenti, che il loro racconto impone. Per limitarsi a un solo esempio, di tipo elevato, basta ricordare la novella di Tito e Gisippo (X 8: cfr. supra, par. V.5), un cui aspetto decisivo riguarda l’ampio uso del discorso diretto. Facendo parlare direttamente i due amici, infatti, la narratrice mostra, per così dire “in azione”, le loro nobili qualità: cosa tanto più importante se ricordiamo che entrambi i giovani hanno studiato filosofia e che pertanto sanno utilizzare adeguatamente gli strumenti della ragione e la loro espressione linguistica. Qui la selezione lessicale e la sapiente embricatura sintattica rispondono alla regola del decorum, cioè a quel giusto adeguamento tra forma dell’espressione e qualità del contenuto che andava sempre commisurato con la dignità del locutore: due giovani nobili e istruiti nelle cose della filosofia, insomma, non possono che esprimersi in maniera eccelsa, esibendo un’alta competenza retorica. Ma la loro eleganza espressiva risponde anche al tema della novella; la preponderanza del discorso diretto si spiega infatti con la dimensione performativa della liberalità, virtù esaltata nella decima giornata, nonché dell’amicizia, che ne è il principale luogo di applicazione: è realizzando concreti gesti di liberalità, cioè generosità, che si esercita quella virtù; è realizzando effettivi gesti di amicizia che ci si dimostra amico. Controllo della sintassi significa dunque anche controllo della coerenza semantica del racconto. Ma, ovviamente, è al livello della coesione narrativa che la sintassi svolge il suo ruolo principale. Lo si nota bene analizzando le rubriche, in cui la sintesi della novella è spesso efficacemente messa in risalto dalla nervatura sintattica. È quel che accade per esempio in II 3 1, dove la dinamica del racconto è delineata nella

precisa distinzione tra l’antefatto, incastonato su due verbi principali, e le peripezie di Alessandro, orchestrate su un periodo ricco di subordinate; o in II 5 1, dove la rubrica, costituita da un unico periodo in cui il verbo principale, collocato alla fine, evidenzia il ritorno «a casa sua» di Andreuccio con il prezioso gioiello, mentre la scansione degli eventi è affidata a tre participi che battono sull’arrivo a Napoli del protagonista, i «tre gravi accidenti» occorsigli «in una notte». Qualcosa di simile accade in III 5 1, che sottolinea la sagacia del protagonista, attribuendogli i tre verbi principali (dona.. parla... si risponde), seguiti dall’espressione «secondo la sua risposta poi l’effetto segue», che ribadisce la centralità dell’iniziativa individuale. La sapiente costruzione sintattica può anche assumere un certo valore connotativo, per esempio fornendo indicazioni sulla natura dei personaggi. È il caso della novella di Giletta di Narbona, di cui la narratrice Neifile sottolinea il procedere razionale sia con le scelte lessicali, sia, e soprattutto, con una costruzione sintattica che distingue tra elementi di contorno (al gerundio e al participio) e deliberazione (espressa al modo finito): «intendendo raccolse bene»; «più tritamente essaminando»; «bene ogni cosa compresa»; «formò il suo consiglio». L’alternanza di forme infinitive e di aoristi funge da descrizione della strategia di una giovane donna che, prima di agire, prende in considerazione «ogni particolarità», riuscendo infine a cogliere il meritato successo (III 9 37). Terminiamo con un ultimo esempio del notevole coordinamento tra costruzione del periodo e allestimento della scena narrativa realizzato da Boccaccio con la sua prosa. Si tratta dell’incipit della novella di Landolfo Rufolo: Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia; nella quale assai presso a Salerno è una costa sopra il mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d’Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri. Tralle quali cittadette n’è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe già uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di radoppiarla, venne presso che fatto di perder con tutta quella se stesso. (II 4 5)

La storia si apre con due periodi avvolgenti, in cui le frasi principali (rispettivamente «Credesi» e «n’è una chiamata Ravello») reggono un

sistema di subordinate di secondo, terzo e quarto grado, anche coordinate tra di loro: un elaborato sistema, che fissa in poche righe tutte le coordinate cronotopiche, sociali e psicologiche che reggono la successiva novella. Nel primo periodo, il sintetico elogio della costa tirrenica, e della zona amalfitana in particolare, ne mette in evidenza il rigoglioso tessuto urbano («piena di picciole città») e la ricchezza («di giardini e di fontane e d’uomini ricchi»), che lo stesso giro sintattico insinua essere il positivo effetto della mercatantia. Il secondo periodo stringe l’obiettivo su una di quelle «cittadette», individuandola (è Ravello, appunto), e collocandovi uno di quei ricchi uomini nominati subito prima, cui dà immediatamente un nome («chiamato Landolfo Rufolo»), un profilo psicologico (non gli basta «la sua ricchezza») e un chiaro obiettivo economico (il desiderio di «radoppiar» i suoi averi), annunciando in conclusione le peripezie che seguiranno: «venne presso che fatto di perder con tutta quella [ricchezza, anche] se stesso». Un’apertura che conferma in maniera esemplare quanto abbiamo già visto nel quarto capitolo a proposito dell’identikit dei personaggi e dell’attenta costruzione dei cronotopi, e che adesso possiamo comprendere essere il frutto del magistrale controllo linguistico dell’autore.

Capitolo VII. Il libro della convivenza

VII.1. Convivere A questo punto possiamo tornare all’inizio. Alla mossa con la quale Giovanni Boccaccio inaugura la sua opera dandole la consistenza di testo compiuto, di libro. Possiamo dunque tornare al titolo: «Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini». Ci sono qui due aspetti sui quali è importante riflettere per portare a conclusione questo nostro percorso intorno al Decameron. Da una parte, come abbiamo già sottolineato (cfr. supra, par. III.3), colpisce l’abbinamento tra titolo («chiamato Decameron») e sottotitolo («cognominato prencipe Galeotto»); dall’altra, è importante la relazione tra l’originaria oralità della produzione narrativa («novelle [...] dette») e il suo successivo trasferimento in scrittura («Comincia il libro»). A questo proposito, esplicitando il passaggio dall’oralità alla scrittura, Boccaccio segnala il cambiamento di medium, cioè di mezzo di comunicazione, e dunque anche di struttura, cui sono sottoposti i racconti. Ciò significa proporre due diversi modi di fruizione (ascoltare e leggere), e dunque due diversi pubblici: dentro il libro, ci sono le ascoltatrici della brigata, fuori del libro ci sono invece le “lettrici”. Il primo pubblico, certo fittizio, o meglio: finzionale (cioè, effetto della finzione narrativa della cornice), si propone come modello per il secondo pubblico, che è indirizzato a imitare i giovani della brigata, il loro comportamento, il loro modo di atteggiarsi e discutere e vivere insieme. I «piacevoli ragionamenti» della brigata costituiscono insomma un ideale di vita associata, fornendo quella che si può ben chiamare un’istruzione civile, cioè un insieme di indicazioni sulla convivenza umana. Da questo

punto di vista, il Decameron, descrivendo una comunità regolata dalla «forza della forma sociale», si presenta come un’opera i cui obiettivi hanno carattere etico e politico. È per questo che l’Introduzione della prima giornata si sofferma lungamente sugli effetti collettivi della peste: perché la dissoluzione dei legami familiari e cittadini (genitori e figli che si temono a vicenda; sepolture che non vengono rispettate) costituisce la situazione di partenza cui i giovani, donne e uomini, devono opporsi, inventando un modo efficace per vivere insieme. Alla fine, realizzato il loro scopo, dopo cioè essere riusciti a vivere per due settimane in «continua onestà, continua concordia, continua fraternal dimestichezza» (X Concl. 5), i compagni possono tornare a Firenze. Il libro di Boccaccio parla dunque della convivenza, della vita civile, per usare un’espressione che avrà un importante futuro a partire dal Quattrocento. La quale convivenza consiste innanzitutto nel «ragionare» insieme, cioè nel conversare, raccontare, confrontarsi verbalmente, facendo buon uso della retorica, in un impegno comune di mutuo insegnamento. È per questo che è così importante la performance, cioè l’esecuzione delle novelle: perché agendo linguisticamente, cioè narrando, si mette in opera il modello teorico che s’intende proporre, così da offrire agli ascoltatori non soltanto un bel racconto, ma anche un modo di esprimersi elegante e onesto, ossia conveniente rispetto al proprio livello sociale e a quello degli altri. Lo spiega Elissa prima ancora della partenza per il contado, quando afferma che, «se alla nostra salute vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sì fattamente ordinarci, che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua» (I Introd. 77). Se l’obiettivo è la salute, che in italiano antico vuol dire sia salute fisica sia benessere spirituale (si pensi al saluto della donna nella Vita nuova di Dante Alighieri), allora la convivenza deve essere ordinata, che è quanto dire: razionale e rispettosa delle convenzioni. L’adeguamento alle leggi retoriche e comportamentali, che è conferma del principio della convenienza, garantisce il conseguimento di «diletto e riposo» (ecco l’associazione tra dilettevole e onesto) mentre al tempo stesso allontana dal circuito della convivenza «noia e scandalo». Abbiamo detto “vita civile”: eppure la vita della brigata si svolge lontano dalla città, in un luogo separato e protetto, in un giardino, cioè in uno spazio che rappresenta (come abbiamo più volte ripetuto) la spinta modellizzante, il carattere “perfetto” e conchiuso dell’esperienza vissuta

dai dieci giovani, ma che, proprio per questo stesso carattere, rischia di restare astratto e inerte dal punto di vista politico. Come spiega con chiarezza Panfilo nella Conclusione della decima giornata, la vita lieta e onesta può anche produrre «fastidio»: può stancare. L’ideale separatezza è del resto anch’essa a rischio di conflittualità (potremmo «gavillar», insiste l’ultimo re: “cavillare”, cioè innervosirci e polemizzare tra di noi, rompendo l’armonia); di conseguenza, è «convenevole cosa» – ancora questo importante aggettivo – il «tornarci là onde ci partimmo» (X Concl. 7). La regola somma della «convenevolezza», quella cui la brigata adegua sempre il proprio comportamento, presiede dunque anche alla conclusione dell’esperienza in contado. Di più, essa mostra la natura profondamente sociale dell’essere umano, in quanto tale ostile a ogni separatezza che non sia provvisoria. La prospettiva culturale che governa il Decameron resta insomma quella cittadina, come confermano, per limitarci a due tra i tanti esempi possibili, la meraviglia del figlio di Filippo Balducci nell’ammirare le bellezze della città (IV Introduzione 19) e la conversione di Cimone al «cittadinesco piacere» dopo che egli ha conosciuto l’amore (V 1 8). Com’è stato detto di recente, nel giardino non si produce alcuna cosmogonia: ciò vuol dire che il giardino non è il luogo a partire dal quale si crea un mondo nuovo. Il giardino è piuttosto un luogo parallelo al mondo, in cui si apprendono e si esercitano (si “performano”) le virtù del mondo. In questo senso è chiaro perché le novelle siano uno strumento decisivo per apprendere la convivenza: esse infatti realizzano una ricca serie di “mondi possibili”, raffigurando situazioni che si possono verificare nella vita, coi loro conflitti, le passioni da cui sono determinate, le spinte irrazionali che producono, le occasioni imprevedibili che ne consentono la soluzione, triste o felice che sia. Gli schemata, ossia i modelli narrativi che i dieci giovani utilizzano, sono dunque altrettante simulazioni della realtà. Il fatto che i racconti siano prodotti attraverso una serie di performance narrative costituisce la riduzione a ordine (dentro una trama coerente e in un discorso ben formulato) dell’insieme caotico che la vita può volta a volta proporre. E, allora, se è vero che nel giardino non si produce alcuna cosmogonia, vi si realizza però la messa in forma del mondo. È questa forma – data dal racconto – che consente l’educazione della brigata. Ed è per questo che i dieci giovani utilizzano a volte le loro

novelle per svolgere delle considerazioni generali o per convincere gli ascoltatori della giustezza del loro punto di vista. Le novelle, come più volte viene ripetuto nel Decameron, servono sì per dilettare, per distrarre e divertire, in obbedienza al principio secondo cui la letizia sconfigge la malinconia; esse svolgono però anche un’altra funzione, più decisiva per affrontare con successo il mondo all’epoca della peste: le novelle servono per imparare a vivere. Ecco perché il principio del diletto e la regola dell’onesto non sono in conflitto tra di loro, perché è per mezzo del primo che la brigata conferma la seconda. Lo dice Dioneo con grande chiarezza proprio nel momento in cui la conflittualità all’interno del gruppo di amici rischia di diventare più alta: il tempo è tale che, guardandosi e gli uomini e le donne d’operar disonestamente, ogni ragionare è conceduto. Or non sapete voi che, per la perversità di questa stagione, li giudici hanno lasciati i tribunali? le leggi, così le divine come le umane, tacciono? e ampia licenzia per conservar la vita è conceduta a ciascuno? Per che, se alquanto s’allarga la vostra onestà nel favellare, non per dover con l’opere mai alcuna cosa sconcia seguire ma per dar diletto a voi e a altrui, non veggio con che argomento da concedere vi possa nello avvenire riprendere alcuno. Oltre a questo la nostra brigata, dal primo dì infino a questa ora stata onestissima, per cosa che detta ci si sia non mi pare che in atto alcuno si sia maculata né si maculerà con l’aiuto di Dio. Appresso, chi è colui che non conosca la vostra onestà? La quale non che i ragionamenti sollazzevoli ma il terrore della morte non credo che potesse smagare. E a dirvi il vero, chi sapesse che voi vi cessaste da queste ciance ragionare alcuna volta forse suspicherebbe che voi in ciò foste colpevoli, e per ciò ragionare non ne voleste. (VI Concl. 8-13)

Come abbiamo già visto nel paragrafo V.6, questo breve discorso sintetizza l’intera etica del Decameron, giacché distingue nettamente tra l’operare e il ragionare, tra le azioni e il racconto. Si tratta di una separazione radicale, che implica un’esclusione reciproca (o si agisce o si racconta), al punto che coloro che non raccontano possono essere legittimamente sospettati di essere «colpevoli», cioè di agire in maniera disonesta, non conforme alla convenienza. Narrare, ribadiamolo per l’ultima volta, significa ottemperare a un’istruzione civile, mettere in pratica, attraverso l’arte del discorso, regole e nozioni che potrebbero apparire generali o astratte. Ruotando stabilmente intorno al principio del decorum, il discorso narrativo può legittimamente affrontare anche temi scabrosi (il tradimento coniugale, l’omosessualità, il desiderio di vendetta), passando in rassegna le passioni,

cioè quel che spinge gli esseri umani all’azione, la molla psicologica che presiede a ogni situazione. In ciò consiste la modernità delle novelle di Boccaccio: nella rappresentazione particolarizzante di problemi generali, nella “messa in forma” di casi problematici che rendono dinamica, aperta la norma morale. Proponendo la rappresentazione di situazioni singolari dominate se non determinate dalla tensione pulsionale (ecco perché l’eros è così centrale nel Decameron), le novelle realizzano un’etica che è anche una politica. Nel giardino, è vero, non ci sono cosmogonie, c’è però, come suggerisce il riferimento a Genesi presente nel titolo stesso (cfr. supra, par. III.5), una ri-creazione: il mondo viene creato daccapo.

VII.2. Oralità e scrittura Per molti secoli gli scrittori non hanno cercato di essere originali. Al contrario, ripetere la stessa storia è stato a lungo considerato tanto inevitabile quanto necessario, sicché la cultura narrativa del Medioevo e di molti secoli successivi, fino al Romanticismo, si presenta come una cultura del ri-uso, del riciclaggio e della ripetizione. Ciò non toglie che non venisse giudicato negativamente chi copiava: altro era imitare, altro prelevare in maniera passiva e sfacciata. La bravura dello scrittore, la sua maestria consisteva nell’appropriarsi di contenuti già noti, ma variandoli con sapienza: la cultura del ri-uso era al tempo stesso una cultura della variazione. Questo aspetto ci permette di comprendere il rapporto di Giovanni Boccaccio con le sue fonti, la libertà di assimilazione, il prelievo a volte addirittura scontato, l’esplicita ripresa di temi, storie, materiali che egli traeva dal ricco patrimonio romanzo, religioso e classico. L’abbiamo visto riprendendo le considerazioni di Costanzo Di Girolamo e Charmain Lee sulla differenza tra testo-fonte, racconto-fonte, tema-fonte e genere-fonte (cfr. supra, par. II.1): è spesso difficile stabilire da quale opera Boccaccio tragga gli elementi che poi rifonde nelle sue novelle, in quanto questi sono regolarmente sottoposti a sapienti processi di combinazione e variazione. Ma c’è anche un’altra ragione, di carattere strutturale, che riguarda nuovamente il rapporto tra oralità e scrittura. Abbiamo ormai ripetuto più volte che nel Decameron è rappresentata una serie di performance narrative: i giovani della brigata narrano ai loro compagni delle storie, che

poi, insieme allo stesso contesto narrativo, colui che si autodefinisce Autore ha riportato per iscritto nel libro che abbiamo tra le mani. Si tratta di un dispositivo bifronte, a metà rivolto verso la dimensione “originariamente” orale della vita dei dieci giovani e a metà risolto nella confezione materiale di un libro-codice, cioè di un manoscritto (semmai autografo) le cui pagine, rilegate, impongono al lettore di attraversare l’opera secondo un certo ordine. Numerosi secoli di cultura alfabetica e, dalla metà del XV secolo, tipografica, ci hanno fatto sempre più concentrare su questo secondo aspetto, quello materiale del “formatolibro”, sicché si è indebolito (e talvolta perso del tutto) il senso di quell’altra metà, del contesto comunicativo “in presenza”, del dialogo in cui la brigata è immersa. In alcuni dei precedenti paragrafi abbiamo provato a restituire al Decameron la sua originaria dinamicità, nonché il gusto per la buona realizzazione narrativa che caratterizza la vita della brigata (la quale giustamente è stata considerata in passato anche come «pubblico teatrale»). La rinnovata attenzione alle dinamiche rappresentative e attoriali si è condensata, potremmo dire, nell’attenzione sempre maggiore che ha goduto negli ultimi decenni la novella di madonna Oretta, in cui viene ferocemente rappresentata la goffagine di un cattivo narratore: Messer lo cavaliere [...] cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima, ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola e ora indietro tornando e talvolta dicendo: «Io non dissi bene» e spesso ne’ nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava: senza che egli pessimamente, secondo le qualità delle persone e gli atti che accadevano, profereva. (VI 1 9, corsivo mio)

Come mostra bene la frase che ho sottolineato, la malagrazia del cavaliere-narratore non consiste soltanto nelle continue interruzioni del racconto e nel mancato rispetto dell’ordine sequenziale della vicenda, ma nella pessima recitazione, che non rispetta la qualità dei personaggi, tradendo, di conseguenza, quella «qualità delle novelle» (Concl. dell’autore 4) che abbiamo visto (cfr. supra, par. VI.1) essere per Boccaccio assolutamente decisiva. Altrettanto importante è però anche rileggere la reazione della donna, che può essere considerata come il perfetto ritratto dell’ascoltatrice insoddisfatta: «a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se inferma fosse stata per terminare» (VI 1 10). In poche righe, insomma, viene fissato il centro

retorico dell’arte novellistica, che è prima di tutto actio, cioè esecuzione, performance, come s’è ripetuto più volte: e quindi orientamento del discorso sull’ascoltatrice. Lo dissero bene, del resto, i lettori antichi del Decameron, i quali più volte tornarono su questo aspetto: chi, come Monsignor Della Casa nel Galateo, segnalando la necessità di «aver quello accidente o novella o istoria, che tu pigli a dire, bene raccolta nella mente, e le parole pronte ed apparechiate […] percioché questo è appunto il trotto di madona Orretta» (anche se nello stesso trattatello, appena poche righe prima, i giovani della brigata sono tacciati di aver «contrafa[tto] più che a donna o a gentiluomo non si sarebbe convenuto, a guisa di coloro che recitan le comedie»); chi, come il commentatore di Aristotele Alessandro Piccolomini, spiegando che l’autore di un dialogo «recita minutamente tutte le parole et tutti i gesti» dei personaggi; chi invece, come il senese Girolamo Bargagli, invitando i narratori reali – quelli che si ritrovavano a corte o alle feste nel mondo italiano del Cinquecento – a iniziare le loro novelle facendo «come il buono sonatore», cioè proponendo di fare «un discorsetto avanti alla novella» col quale si accenna «il soggetto del quale si ha da parlare e l’utilità insieme che di tal novella si possa trarre», rendendo «docile insieme e benevolo [...] l’ascoltante». Anche se Della Casa, Piccolomini e Bargagli scrissero alla metà del XVI secolo, duecento anni dopo il Decameron, le loro osservazioni ci sono ancora preziose per comprendere quanto importante fosse l’abilità espositiva nell’arte novellistica, che non era affatto un’arte solo letteraria, cioè rivolta alla scrittura, ma era al contrario fortemente radicata nella cultura retorica del discorso pronunciato. D’altra parte, Giovanni Boccaccio realizzò la codificazione del genere “novella” proprio perché trasferì in scrittura una pratica del tutto naturale com’è il racconto. Raccontare è un atto naturalmente umano; è un’attività diffusa in ogni epoca e in tutte le civiltà; è un tratto distintivo della specie, che permette anche di valutare la crescita degli individui, le cui abilità linguistiche si valutano in base all’uso dei tempi verbali del passato e della distinzione tra il “prima” e il “dopo”. Raccontare è innanzitutto un atto orale, col quale ci scambiamo informazioni, commenti, insegnamenti; è lo strumento per ingannarci a vicenda (la menzogna prevede sempre una narrazione implicita); è insomma il modo

principale per trascorrere il tempo (semmai riuscendo a rappresentarlo nel suo scorrere, che è forse la prima causa dell’angoscia). Boccaccio ha “bloccato” attraverso la scrittura questo mondo ciarliero, confuso, risonante delle necessità e delle passioni di tutti i giorni, ma scrivendo la cornice lo ha potuto rappresentare in quanto tale, cioè nella sua dinamicità, ma anche nella sua transitorietà e futilità. Il Decameron, mettendo quasi “in scena” l’attività del novellare (la novella è un “verbo”, abbiamo detto al principio di questo libro), ha incamerato la dimensione dissipativa del racconto, il suo scomparire a mano a mano che viene prodotto. Verba volant, le “parole pronunciate volano”, dicevano gli antichi romani: far vedere che volano lasciandole volare è la specifica potenza della novella, in quanto genere letterario che non ha perduto il suo originario radicamento nell’oralità anche quando è stato trasferito nel medium del libro scritto (in virtù del quale, per completare il proverbio latino, scripta manent: “le parole scritte stanno ferme”). È a questo livello, senza alcun dubbio, che Boccaccio ha operato in maniera davvero geniale. Racconti scritti sono esistiti anche prima del Decameron, ovviamente, e le raccolte di origine orientale, organizzate in un sistema d’incorniciamento, avevano già realizzato la giunzione di oralità e scrittura. Ma quei libri, dal Libro di Sindibad al Calila e Dimna o alla Disciplina clericalis, asservivano il racconto orale all’insegnamento; al pari delle raccolte di exempla, in altri termini, essi tendevano a trattare i racconti come puro materiale narrativo, da inserire in un discorso di altra natura (pedagogico, innanzitutto). La raccolta boccacciana ha invece animato il racconto in narrazione, in atto specifico, entro certi limiti autonomo dall’insegnamento. Certo, sin dall’inizio l’autore afferma che le lettrici parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. (Proemio 14)

E del resto un’indicazione simile è proposta talvolta dagli stessi componenti della brigata, che sembrano voler indirizzare i loro compagni verso un certo convincimento o un certo comportamento che ritengono corretto. Ma nella pratica del novellare l’intenzione dimostrativa entra in una dialettica legata al contesto situazionale, cioè al fatto di stare insieme, e al contesto narrativo, cioè a quanto è stato raccontato in precedenza;

una dialettica, come vedremo adesso, che appare sempre orientata verso l’interpretazione della brigata. Nel Decameron, in altre parole, il racconto è fruito in quanto tale, come un’attività piacevole che spinge ad assumere un atteggiamento problematico. In questo consiste l’onestà: nel novellare.

VII.3. La responsabilità dell’interpretazione Abbiamo già discusso nel terzo capitolo il significato del riferimento a Francesca da Rimini, il personaggio del quinto canto dell’Inferno dantesco, nel “sottotitolo” del Decameron. Indicando in Galeotto il “cognome” della sua opera, Boccaccio alludeva al modello di relazione immaginaria, cioè narcisistica e inconsapevole, indotta dai romanzi bretoni che tanto successo avevano da più di cento anni in tutta la penisola italiana, a Rimini (la città di Francesca), come a Firenze e a Napoli (le città di Boccaccio). La questione è molto delicata, ed è bene cercare di capirla bene. Abbiamo già detto (cfr. supra, par. III.3) che l’allusione al personaggio dantesco non va presa alla lettera: il Decameron non va cioè considerato come un “seduttore”, come un libro che suggerisca alle donne comportamenti disonesti spingendole a dimenticare il proprio dovere sociale e familiare e a lasciarsi trascinare dalla passione erotica. E tuttavia non c’è dubbio che il rapporto tra titolo e sottotitolo è stridente, anzi contraddittorio: il primo, col riferimento a sant’Ambrogio (autore dell’Hexameron), rimanda a Genesi, e quindi alla fondazione dell’intero Creato e della vita umana in generale; il secondo addita l’inferno a chi si dedica alle letture piacevoli. Ancora una volta, evidentemente, è in gioco il sottile equilibrio tra onesto e piacevole, tra la “retta via” del discorso serio e le «pulcerrime ambages», cioè i “bellissimi errori”, dei romanzi d’amore, come li aveva chiamati Dante nel De vulgari eloquentia (I, 10). Boccaccio, come anche abbiamo osservato, non si trova schierato da nessuna delle due parti, giacché non sembra propendere né per la verità teologica, né per il puro intrattenimento dei romanzi d’amore. All’epoca del Decameron, egli continua a puntare su quella che Francesco Bruni ha chiamato (interpretando un passaggio del Filocolo) la «mezzana via»: il che vuol dire che egli si sforza di realizzare un percorso intermedio tra il discorso morale delle opere serie e il puro divertimento dei testi popolari, ma anche di trovare una via innovativa tra la dispersione orale del

racconto e dell’intrattenimento cortese e la fissazione scritta (semmai in latino) cui si dedicavano i litterati, i “dotti”, che soli conoscevano le tecniche della cultura alfabetica. A queste due forme o codici comunicativi corrispondevano due pubblici tra loro ben diversi: il primo, diffuso tra le corti e gli ambienti frequentati dalle élites comunali, utilizzava il volgare e mirava principalmente al piacevole; il secondo, chiuso nelle scuole e nei circuiti ristretti dell’alta cultura specialistica, si affidava al latino e aveva come obiettivo la verità. Che il secondo ambito non riguardi il Decameron si vede bene in più passaggi, soprattutto in un breve inserto della Conclusione dell’Autore, dove si distingue tra il mondo della brigata e le «scuole de’ filosofanti» (§ 7), e in un esplicito passaggio della decima giornata, dove Fiammetta, quindi una Narratrice di grande autorevolezza, fa la seguente dichiarazione: Splendide donne, io fui sempre in opinione che nelle brigate, come la nostra è, si dovesse sì largamente ragionare, che la troppa strettezza della intenzion delle cose dette non fosse altrui materia di disputare: il che molto più si conviene nelle scuole tra gli studianti che tra noi, le quali appena alla rocca e al fuso bastiamo. (X 6 3)

La strettezza significa, evidentemente, il rigore del ragionamento, l’attitudine conflittuale della disputa filosofica e teologica: questa è roba da universitari, da studiosi, da uomini. Le donne, invece, una volta liberatesi dalla pura esistenza materiale, possono ambire a un’esperienza estetica di tipo più elevato: lo conferma anche l’utilizzo, come per un effetto di sordina, dei termini rocca e fuso, che evidentemente rimandano al brano iniziale (Proemio 13), in cui si distingue tra le donne innamorate, cui il libro è rivolto, e le altre, escluse dalla comunicazione narrativa. Le donne promosse al consumo estetico, e quindi ritenute simili alle giovani componenti della brigata, nelle quali possono peraltro rispecchiarsi, devono saper praticare il percorso mezzano che abbiamo visto. Esse devono mostrare di sapersi districare tra il piacere e l’ammaestramento, devono lasciarsi prendere dalle situazioni narrative, senza mostrare un eccesso di zelo moralistico, e devono sapervi leggere le coordinate culturali, etiche e sociologiche (financo politiche) che innervano le novelle. In poche parole: le donne ammesse nel circuito culturale della brigata devono mostrarsi capaci di interpretare i racconti, di stabilire con le narrazioni non solo una relazione empatica (tale per cui, volta a volta, ne piangeranno o rideranno: cfr. supra, parr. V.7 e V.6), ma soprattutto un rapporto ermeneutico, di comprensione e di messa a

distanza, nonostante il coinvolgimento emotivo, pure fondamentale per comprendere il senso profondo di una storia. La lettrice del Decameron è dunque invitata a interpretare. La responsabilità individuale di chi fruisce il testo è del resto il grande argomento della Conclusione dell’autore. È un fatto importante: congendandosi dal suo lavoro, l’autore spiega che la «qualità delle novelle» gli ha imposto a volte situazioni narrative forse moralmente discutibili, ma che, proprio per la loro «qualità», non avrebbero mai potuto essere raccontate in un modo diverso. L’impossibilità di «altramenti raccontar», continua l’autore, non ha però reso eccessiva la licenzia: nelle novelle dei giovani, non si trovano «cose non assai convenienti né a dire né a ascoltare a oneste donne», anzi non ve n’è nessuna così «disonesta» che, «con onesti vocaboli dicendola», non possa essere ascoltata da chiunque (§ 4). L’autore può pertanto concludere di aver fatto «convenevolmente», cioè – come mostra la ripresa di un termine concettualmente forte come convenevole – di aver adottato un comportamento narrativo adeguato al contesto. Rivendicata la necessità poetica di rispettare il tema e il modo delle sue novelle e la necessità retorica di rispettare le modalità performative della brigata (che si è intrattenuta non nelle «scuole de’ filosofanti», ma «ne’ giardini, in luogo di sollazzo»: § 7), l’autore si rivolge alle sue lettrici, affidando loro la responsabilità della ricezione. Il responsabile della moralità e del decoro viene così individuato nel destinatario, secondo il principio che nessuna mente «corrotta», cioè depravata, «intese mai sanamente parola» (§ 11). Il discorso è così importante da ispirare ad Autore un ragionamento che sembra esemplato sulla strofa della celebre canzone di Guinizelli Al cor gentil rempaira sempre amore: nel cosiddetto manifesto dello Stilnovismo si spiega infatti che la viltà non può mai essere nobilitata, risultando simile al fango, che, pur colpito dal «sole tutto ’l giorno, / vile reman», cioè non si nobilita trasformandosi in pietra preziosa; allo stesso modo le menti «che tanto oneste non sono» non possono deturpare le cose ben fatte, così come, all’inverso, il «loto» non può essere perfezionato dai «solari raggi» (§ 11). E, aggiunge ancora l’autore, così dico delle mie novelle. Chi vorrà da quelle malvagio consiglio e malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno a alcuno, se forse in sé l’hanno, e torte e tirate fieno a averlo: e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno, né sarà mai che altro che utile e oneste

sien dette o tenute, se a que’ tempi o a quelle persone si leggeranno per cui e pe’ quali state son raccontate. (§§ 13-14)

«A que’ tempi o a quelle persone si leggeranno per cui e pe’ quali state son raccontate»: la brigata, in altre parole, dà la misura della lettura corretta; essa è il modello comportamentale cui ispirarsi; è l’immagine culturale fondativa della convivenza. Un modello ideale cui Paolo e Francesca, illusi dal libro galeotto, non seppero invece adeguarsi.

VII.4. L’«oppinione» E allora chiudiamo il nostro ragionamento. Le novelle sono dedicate alle donne; alle donne che vivono in brigata; alle donne che vivono in brigata durante un’emergenza sanitaria e sociale gravissima. Le novelle sono consumate in un tempo e in uno spazio resi eccezionali dalla peste. Eccezionali non nel senso che non sono replicabili; eccezionali nel senso che sono generati da una situazione eccezionale. Rispetto a questa situazione le novelle si presentano come una risposta etica, se non, addirittura, politica. Questa risposta è la convivenza attraverso il racconto e per mezzo di una soluzione espressiva intermedia, né popolare né professionale, che potremmo definire “cortese-moderna”, cioè né feudale né esclusivamente aristocratica. Per riprendere ancora una volta la preziosa indicazione di Lucia Battaglia Ricci, il giardino della brigata è dunque davvero la figura emblematica del libro: uno spazio lontano tanto dai fondachi dei mercanti quanto dalle «scuole dei filosofanti». Uno spazio nel quale si esercitano due arti: la retorica, che permette di controllare il discorso, rendendolo fluido e condivisibile; l’interpretazione, che consente d’interagire col discorso altrui, giudicandolo, assumendolo o prendendone le distanze, sempre però partendo dalla consapevolezza che la lettera è ingannatrice (si rischia di fare la fine della giovane Francesca...). Se il Decameron richiede questa duplice competenza (infatti ciascun membro della brigata è volta per volta narratore e interprete), allora si possono meglio chiarire i rapporti inizio/fine dell’opera: che riguardano tutti e tre i cerchi di cui abbiamo parlato all’inizio (cfr. supra, par. III.1). È quel che accade al livello dell’Autore, il quale, dopo aver aperto con il

Proemio rivolto alle donne, chiude il suo discorso congedandosi con una Conclusione. Lo stesso accade al livello della brigata, la quale, dopo aver deciso, su iniziativa di Pampinea (I Introd. 53, sgg.) di recarsi in villa, di lì si muove per tornare indietro a Firenze, questa volta su istanza di Panfilo (X Concl. 2, sgg.). Più sottile è invece il discorso da fare per le novelle, in cui il rapporto tra inizio e fine non è giocato sull’architettura dell’opera ma sulla dimensione fluida, aperta, dinamica del confronto problematico tra i giovani della brigata. Al livello di questo terzo cerchio colpisce infatti l’interessante dialettica tra Panfilo e Dioneo, rispettivamente primo e ultimo narratore. È una dialettica non univoca, per la quale sembra difficile dare una risposta definitiva, soprattutto perché entrambi risultano guidati da una medesima intenzione. Del secondo abbiamo detto più volte, e in particolare abbiamo ricordato l’enigmaticità della novella di Griselda, la quale – posta al termine di una giornata ricca di indicazioni comportamentali – non sembra offrire, nelle intenzioni del Narratore, un modello da seguire (Dioneo afferma di voler «ragionar d’un marchese, non cosa magnifica ma una matta bestialità, come che ben ne gli seguisse alla fine»: X 10 3). Del primo va invece adesso ricordato l’importante discorso con cui, introducendo la novella di ser Cepparello, insiste sull’instabilità, provvisorietà e relatività della prospettiva umana: Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, così in sé e fuor di sé esser piene di noia, d’angoscia e di fatica e a infiniti pericoli sogiacere; alle quali senza niuno fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci, se spezial grazia di Dio forza e avvedimento non ci prestasse. (I 1 3)

Mescolati alle cose del mondo, noi uomini non possiamo pentrare con «l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente», sicché sbagliamo, ci confondiamo, restiamo abbagliati: in una parola, siamo «da oppinione ingannati» (§ 5). Ecco, l’invito di Fiammetta a non essere troppo stretti nel ragionamento (X 6 3), le Conclusioni dell’autore e le considerazioni proemiali di Panfilo sembrano configurare una prospettiva coerente. I ragionamenti della brigata, le novelle del Decameron, il libro che abbiamo tra le mani forniscono sì un modello di comportamento, ma soprattutto un metodo del vivere sociale. Parlando, gli uomini ragionano sul mondo, spesso mossi dall’intenzione di ingannare gli altri (si vedano, ancora una volta, le

spendide novelle II 5 e VIII 10, peraltro entrambe radicate nell’esperienza napoletana). Ragionando sul mondo, gli uomini (e le donne) si muovono secondo l’opinione: l’instabilità conoscitiva e appetitiva, la mutevolezza di ciò che si crede e si desidera sono la dimensione specifica della natura umana. Noi ci muoviamo dunque sempre a partire dall’oppinione. Il discorso stesso, come mostra la sua “arte”, e cioè la retorica, si realizza proprio a partire dall’opinione; sulla stessa, come mostra il Decameron, si orienta l’interpretazione. La convivenza non è altro che la socializzazione delle opinioni e dei sentimenti di ciascuno, con gli scontri inevitabili che tutto ciò produce. La narrazione non è altro che lo spostamento su di un piano fantastico delle opinioni e dei sentimenti di ciascuno. I “mondi possibili”, infine, sono quelle passerelle, sempre provvisorie e sempre instabili, che ci permettono di condividere le nostre opinioni e i nostri sentimenti. È questa, probabilmente, la principale lezione del Decameron.

Bibliografia

Le opere di Boccaccio sono citate dall’edizione delle Opere di Giovanni Boccaccio diretta da Vittore Branca per i Classici Mondadori, fatta eccezione per il Decameron, che si cita dall’edizione a cura di G. Alfano, M. Fiorilla e A. Quondam (testo curato da Fiorilla), Milano, Rizzoli, 2013. Tra le bibliografie e gli strumenti della ricerca, mi limito a ricordare la sezione bibliografica in V. Branca, Linee di una storia della critica al “Decameron”. Con bibliografia boccaccesca completamente aggiornata, Milano, Società Dante Alighieri, 1939, cui segue E. Esposito, Boccacciana. Bibliografia delle edizioni e degli scritti critici (1939-1974), Ravenna, Longo, 1976, e J.P. Consoli, Giovanni Boccaccio. An Annotated Bibliography, New YorkLondon, Garland, 1992. A partire dal 1963, c’è il Bollettino bibliografico della rivista «Studi sul Boccaccio» [= SB] e dal 1991 la voce Giovanni Boccaccio della Bibliografia Generale della Letteratura Italiana [= BiGLI], Roma, Salerno Editrice. Le Concordanze del ‘Decameron’ furono pubblicate a cura di A. Barbina, a Firenze presso Giunti-Barbèra nel 1969. Ricchissimi di spunti e suggestioni sono infine i tre volumi di Boccaccio visualizzato: narrare per parole e per immagini fra Medioevo e Rinascimento, curato da V. Branca (Torino, Einaudi, 1999). Per quanto riguarda le risorse disponibili sul web, utile strumento di aggiornamento è la banca dati curata dall’Ente Nazionale Giovanni Boccaccio (http://www.casaboccaccio.it/bibliografia: parte dal 1975, perché è la continuazione della citata bibliografia a stampa di E. Esposito). Una bibliografia è presente anche sul sito della American Boccaccio Association: http://www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/heliotropia/ Interessante anche il Decameron Web, sviluppato dalla Brown University: http://www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/dweb/index.php Si segnala infine il Decameron Ipertestuale dell’Università di Zurigo: http://www.rose.uzh.ch/static/decameron/index3 Una buona versione del Decameron, con testo elettronico interrogabile, si legge anche nel sito: http://www.bibliotecaitaliana.it

Capitolo I I.1

Sulla Peste Nera si può leggere K. Bergidolt, La peste nera e la fine del Medioevo [1997], Casale Monferrato, Piemme, 2002; in maniera più estensiva il fenomeno è stato analizzato da G. Benvenuto, La peste nell’Italia della prima età moderna. Contagio, rimedi, profilassi, Bologna, Clueb, 1996. Per Firenze, G.A. Brucker, Florence and the Black Death, in M. Cottino-Jones e E.F. Tuttle (a cura di), Boccaccio. Secoli di vita, Ravenna, Longo, 1977, pp. 21-30. Si veda inoltre Ilaria Tufano, Boccaccio, Petrarca e i cronisti: immagini della peste, in Apocalissi e letteratura, numero monografico di «Studi (e Testi) italiani», 15 (2005), pp. 65-80 (con bibliografia ulteriore). Per la discussione tra gli intellettuali italiani si legga l’utile sintesi di N. Tonelli, Sonetti sulla Peste Nera, in Atlante della letteratura italiana, a c. di S. Luzzatto e G. Pedullà, vol. I, Dalle origini al Rinascimento, a c. di A. De Vincentiis, Torino, Einaudi, 2010, pp. 216-220 (nello stesso volume, pp. 221-223, si vedano anche i grafici preparati da G. Castelnuovo e C. Mabboux, I letterati e l’epidemia del 1348). Della Historia Langobardorum di Paolo Diacono esiste una edizione commerciale con testo a fronte, accompagnata da traduzione e note di A. Zanella e introduzione di B. Luiselli, pubblicata dalla Bur. Laura Pani ha recentissimamente scoperto il codice dove Boccaccio copiò l’Historia Langobardorum: cfr. L. Pani, «Propriis manibus ipse transcripsit». Il manoscritto London, British Library, Harley 5383, in «Scrineum Rivista» 9 (2012), pp. 305-325. Il rapporto con gli affreschi del Camposanto di Pisa è stato brillantemente indagato da L. Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del Trionfo della morte, Roma, Salerno, 1987. Tra coloro che hanno riflettuto sul rapporto del Decameron con le condizioni storiche determinate dall’epidemia si segnalano in particolare i lavori di K. Flasch, Poesia dopo la peste: saggio su Boccaccio (Roma-Bari, Laterza, 1995), per quanto riguarda la rivoluzione cognitiva e filosofica realizzata da Boccaccio, e F. Cardini, Le cento novelle contro la morte: Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo (Roma, Salerno, 2007), per l’insistenza sulla «rifondazione» etica e civile realizzata nell’opera. L’espressione «novella portante» si trova in C. Muscetta, Giovanni Boccaccio, in Letteratura italiana. Storia e testi: vol. II, Il Trecento, a cura di Id., Bari, Laterza, 1972, pp. 1-366. Per la «vita lieta», cfr. M. Veglia, La vita lieta: una lettura del “Decameron”, Ravenna, Longo, 2000; per la centralità culturale della categoria dell’onestà, cfr. P. Cherchi, L’Onestade e l’onesto raccontare del “Decameron”, Firenze, Cadmo, 2004. I.2 Traggo le notizie sulla vita dell’autore da V. Branca, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, Firenze, Sansoni, 1997. Informazioni biobliografiche accurate si leggono anche in L. Battaglia Ricci, Boccaccio, Roma, Salerno, 2000; si può consultare la più sintetica guida di L. Surdich, Boccaccio, Bologna, il Mulino, 2008. Le osservazioni di F. Bruni si leggono nel suo Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, il Mulino, 1990. L’ambiente culturale napoletano è stato presentato in maniera magistrale da F. Sabatini, Napoli angioina. Cultura e società, Napoli, Esi, 1975; si trovano delle interessanti novità in N. De Blasi, Ambiente urbano e linguistico di Napoli angioina (con testimonianze da Boccaccio), in «Lingua e stile», XLIV (2009), pp. 173-208. Boccaccio conosceva peraltro assai bene il volgare napoletano, come ha mostrato F. Sabatini in Italia linguistica delle origini, Lecce, Argo, 1996 (dove pubblica la cosiddetta “epistola napoletana” dell’autore fiorentino).

Il rapporto di Boccaccio con Dante è fondamentale: utile al riguardo la ricostruzione di R. Mercuri, Genesi della tradizione letteraria italiana in Dante, Petrarca e Boccaccio, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, Storia e Geografia, vol. I, L’età medievale, Torino, Einaudi, 1987, pp. 229-455. Per il rapporto con Petrarca, si può invece leggere il breve ma intenso saggio di F. Rico, La “conversione” di Boccaccio, in Atlante della letteratura italiana, a c. di S. Luzzatto e G. Pedullà, vol. I, Dalle origini al Rinascimento, a c. di A. De Vincentiis, Torino, Einaudi, 2010, pp. 224-228. Per la complessa storia dell’origine dell’ottava, importanti le conclusioni di M. Picone, Boccaccio e la codificazione dell’ottava, in Boccaccio: secoli di vita, Atti del Congresso internazionale Boccaccio 1975, Università della California, Los Angeles, 17-19 ottobre 1975, a c. di Cottino-Jones M. e Tuttle E.F., Ucla, Center for medieval and Renaissance studies, Ravenna, Longo, 1977, pp. 53-65. Ma si veda il breve consuntivo di L. Bartoli, Considerazioni attorno ad una questione metricologica. Il Boccaccio e le origini dell’ottava rima, in «Quaderns d’Italià», 1999-2000, pp. 91-99. La bibliografia sulle opere boccacciane si può trovare nei citati manuali di Battaglia Ricci e Surdich. I.3 Per la brevitas, si vedano le considerazioni di M. Picone, Introduzione, in Id. (a cura di), Il racconto, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 7-52. Per i concetti di esempio ed esemplarità, definiti a partire da J.-T. Welter, L’“exemplum” dans la littérature religieuse et didactique du Moyen Âge, Toulouse-Paris, Guitard, 1927 (ristampa del 1973), mi limito a ricordare S. Battaglia, L’esempio medievale [1959] e Dall’esempio alla novella [1960], in Id., La coscienza letteraria del Medioevo, Napoli, Liguori, 1965 (rispettivamente pp. 447-485 e pp. 487548), nonché il volume collettivo dedicato a Rhétorique et Histoire. L’“exemplum” et le modèle de comportament dans le discours antique et médiéval, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome», XCII (1980), pp. 9-179, e in C. Bremond et alii, L’“exemplum”, Brepols, Turnhout-Belgium, 1982. Su exemplum e novella decameroniana, cfr. anche S. Marchesi, Stratigrafie decameroniane, Firenze, Olschki, 2004. Ottime introduzioni alla storia medievale degli Ordini mendicanti in R. Antonelli (L’Ordine domenicano e la letteratura nell’Italia pretridentina) e C. Bologna (L’Ordine francescano e la letteratura dell’Italia pretridentina), entrambi in Letteratura italiana, cit., vol. I, Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982 (rispettivamente pp. 681-672 e 729-798). Per il Novellino rinvio alla recente edizione di A. Conte (Roma, Salerno, 2001) e al saggio di C. Segre, La novella e i generi letterari, in Id., Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, 1993, pp. 109-119. Si legge utilmente anche S. Battaglia, Capitoli per una storia della novellistica italiana. Dalle origini al Cinquecento, a c. di V. Russo, Napoli, Liguori, 1993 (ma i saggi lì raccolti furono scritti tra il 1943 e il 1968). Sulla novella come performance si vedano, in particolare, G. Baldissone, Le voci della novella. Storia di una scrittura da ascolto, Firenze, Olschki, 1992 e G. Alfano, Nelle maglie della voce. Oralità e testualità da Boccaccio a Basile, Napoli, Liguori, 2006. Gli studi sull’oralità non possono prescindere dal fondamentale saggio di P. Zumthor, La lettera e la voce. Sulla “letteratura” medievale [1983], Bologna, il Mulino, 1984. I.4

Dell’epistola di Petrarca con la traduzione latina della “novella di Griselda” – che si può anche leggere sul sito www.bibliotecaitaliana.it – esiste un’edizione curata da L.C. Rossi (Palermo, Sellerio, 1991). Sul significato della sequenza novelle, favole, parabole e istorie, si possono consultare, dopo le osservazioni di P.D. Stewart (Retorica e mimica nel «Decameron» e nella commedia del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1986) e di P.M. Forni (Realtà/verità, in Lessico critico decameroniano, a cura di R. Bragantini e P.M. Forni, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 300-319), gli utili lavori di L. Battaglia Ricci («Una novella per esempio». Novellistica, omiletica e trattatistica nel primo Trecento) e di S. Sarteschi (Valenze lessicali di “novella”, “favola”, “istoria” nella cultura volgare fino a Boccaccio), entrambi in Favole, parabole, istorie: le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento, a cura di G. Albanese, L. Battaglia Ricci e R. Bessi, Roma, Salerno, 2000 (rispettivamente alle pp. 31-53 e 85-108). Per il motivo della corteccia e del midollo in area romanza, si possono leggere due bei saggi di L. Spitzer, Il prologo ai “Lais” di Maria di Francia e la poetica medievale [1943-44], e La «lettera sulla bacchetta di nocciolo» nel “Lai de Chevrefeuil” [1946-47], entrambi contenuti in Id., Saggi di critica stilistica, con un prologo e un epilogo di G. Contini, a cura di L. Lazzerini, Firenze, Sansoni, 1985 (rispettivamente alle pp. 69-81 e 82-94). Cfr. inoltre M. Picone, Boccaccio e la codificazione della novella. Letture del “Decameron”, a cura di N. Coderey, C. Genswein e R. Pittorino, Ravenna, Longo, 2008.

Capitolo II II.1 Il libro di André Jolles cui si allude in apertura è Forme semplici [1930], ora in Id., I travestimenti della letteratura. Saggi critici e teorici (1897-1932), Milano, Bruno Mondadori, 2003. La cornice narrativa è stata affrontata praticamente da tutti gli studiosi dell’opera boccacciana, a partire dall’esposizione di S. Battaglia, Capitoli per una storia della novellistica in Italia, cit. e da V. Branca, Boccaccio medievale (I ed. 1956), con introduzione di F. Cardini, Milano, Rizzoli, 2010. Interessanti i contributi di A. Vàrvaro (Forme di intertestualità. La narrativa spagnola medievale tra Oriente e Occidente [1985], in Id., Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma, Salerno, 2004, pp. 501-514) e di M. Picone (Tre tipi di cornice novellistica: modelli orientali e tradizione narrativa medievale, in «Filologia e critica», XIII [1988], pp. 3-26), cui vanno affiancate le considerazioni di Segre, La novella e i generi letterari, cit. Per la cornice decameroniana, cfr. L. Marino, The “Decameron” Cornice: Allusion, Allegory, and Iconology, Ravenna, Longo, 1979; E. Grimaldi, Il privilegio di Dioneo. L’eccezione e la regola nel sistema “Decameron”, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1987; L. Surdich, La cornice di Amore. Studi sul Boccaccio, Pisa, ETS, 1987; F. Fido, Il regime delle simmetrie imperfette. Studi sul “Decameron”, Milano, Franco Angeli, 1988; M. Guglielminetti, Il circolo novellistico. La cornice e i modelli sociali, in La novella italiana, a cura di E. Malato, Roma, Salerno, 1989, pp. 83-102 (poi in Id., Sulla novella italiana. Genesi e generi, Lecce, Milella, 1990); A. Asor Rosa, Decameron, in Letteratura italiana, cit., Le Opere, vol. I, Dalle origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp. 473-591. Sul

complesso delle funzioni che si possono attribuire alla cornice, cfr. F. Bruni, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, il Mulino, 1990. La complessa questione delle fonti del Decameron è stata affrontata con grande razionalità da C. Di Girolamo e C. Lee, Fonti, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 142-161. Per un’applicazione su una tipologia diversificata, cfr. il saggio L. Surdich, Esempi di “generi letterari” e loro rimodellizzazione novellistica, in Autori e lettori del Boccaccio, Atti del Convegno internazionale di Certaldo, 20-22 settembre 2001, a c. di M. Picone, Firenze, Cesati, 2002, pp. 141-177. II.2 Il ragionamento sviluppato in questo paragrafo è stato ispirato da uno stimolante saggio di G. Contini, Come lavorava l’Ariosto [1937], in Id., Esercizî di lettura, Torino, Einaudi, 19822, pp. 232-241. Le riflessioni di A. Vàrvaro si leggono nel suo Il testo letterario, in Lo spazio letterario del Medioevo, 2. Il Medioevo volgare, vol. I, La produzione del testo, t. I, dir. da P. Boitani, M. Mancini, A. Vàrvaro, Roma, Salerno, 1999, pp. 387-422. Imprescindibili sono i lavori di L. Battaglia Ricci: Ragionare nel giardino, cit.; Scrivere e leggere novelle tra ’200 e ’300, in La novella italiana, cit., pp. 629-655; nonché la monografia Boccaccio, cit. Nel corso del ragionamento faccio inoltre esplicito riferimento ad Armando Petrucci, Scrivere il testo, in La critica del testo. Problemi di metodi ed esperienze di lavoro, Atti del Convegno di Lecce, 22-26 ottobre 1984, Roma, Salerno, 1985, pp. 209-227. Per la funzione delle rubriche e il loro rapporto con le novelle, rimando invece ad A. D’Andrea, Il nome della storia, Napoli, Liguori, 1982, e A. Milanese, Affinità e contraddizioni tra rubriche e novelle del «Decameron», in SB XXIII (1995), pp. 89-111. II.3 Per la discussione filologica si deve tener conto di V. Branca-P.G. Ricci, Un autografo del “Decameron”. Codice Hamiltoniano 90, Padova, Università degli Studi, 1962 e di A. Petrucci, Il ms. Berlinese Hamiltoniano 90. Note codicologiche e paleografiche, in G. Boccaccio, “Decameron”. Edizione diplomatico-interpretativa dell’autografo, a cura di C. Singleton, Baltimore-London, Johns Hopkins University, 1974, pp. 647-661. La tradizione complessiva è stata discussa da Corrado Bologna, Tradizione testuale e fortuna dei classici, in Letteratura italiana, cit., vol. VI, Torino, Einaudi, 1986, pp. 445-928 (in part. le pp. 648663) e poi messa a punto con grande precisione da M. Cursi, Il “Decameron”: scritture, scriventi, lettori. Storia di un testo, Roma, Viella, 2007. Di carattere più puntuale il lavoro di S. Carrai, La prima ricezione del “Decameron” nelle postille di Francesco Mannelli, in Autori e lettori di Boccaccio, cit., pp. 99-111. Per il rapporto tra mise en page dell’autografo e organizzazione narrativa, cfr. F. Malagnini, Il sistema delle maiuscole nell’autografo berlinese del «Decameron» e la scansione del mondo commentato, in SB XXXI (2003), pp. 31-69. Si tenga adesso presente M. Fiorilla, Per il testo del ‘Decameron’, in «L’Ellisse», (V) 2010, pp. 9-38, nonché la Nota filologica dell’ed. Bur del Decameron regolarmente usata in questo libro. Sulla reale identità delle «donne» dedicatarie del libro si è interrogata L. Battaglia Ricci, Le donne del ‘Decameron’, in Dante e Boccaccio, a cura di E. Sandal, Roma-Padova, Antenore, 2006, pp. 167-212.

Utili, infine, le sintesi proposte da F.P. Terlizzi (La circolazione delle «tre corone» nel tardo Medioevo, in Atlante della letteratura italiana, cit., pp. 206-215) e S. Jossa (La fortuna delle «tre corone» in età moderna, in Atlante della letteratura italiana, cit., vol. II, Dalla Controriforma alla Restaurazione, a c. di E. Irace, Torino, Einaudi, 2011, pp. 680-683).

Capitolo III III.1 L’architettura decameroniana è stata felicemente descritta da F. Fido, Il regime delle simmetrie imperfette, cit. e Id., Architettura, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 13-33. Il rapporto tra il primo e il secondo cerchio è analizzato da M. Picone, Autore/narratori, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 34-59. Le tecniche d’inserzione dei racconti sono studiate in un breve ma denso saggio di G.B. Tomassini, Il racconto nel racconto. Analisi teorica dei procedimenti d’inserzione narrativa, Roma, Bulzoni, 1990. L’implicazione di livelli facilita i processi di identificazione dei lettori: i rapporti tra pubblico e opera sono oggetto delle ricerche dei sociologi e degli studiosi di estetica; qui ci si può limitare a ricordare J. Mukarovsky, La funzione estetica in rapporto alla realtà sociale, alle scienze, all’arte [1936], Torino, Einaudi, 1973 e H.R. Jauss, Apologia dell’esperienza estetica [1972], Torino, Einaudi, 1985. III.2 L’apparizione dell’Autore in persona propria per difendere l’opera da reali o possibili attacchi è stata ampiamente discussa. Tra le esposizioni più chiare si segnala quella di R. Mercuri, Genesi della tradizione letteraria italiana, cit., in partic. pp. 471-557. Per la “qualità della finzione”, cfr. l’interessante lavoro di W. Trimpi, Muses of One Mind. The Literary Analysis of Experience and its Continuity, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1983. Del riferimento di Filostrato a se stesso parla Marino, The “Decameron” cornice, cit. Sull’unitarietà del testo cfr. M. Picone, L’invenzione della novella italiana. Tradizione e innovazione, in La novella italiana, pp. 119-154. III.4 Sul “cognome” del Decameron ha svolto suggestive considerazioni G. Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale, Roma, Meltemi, 2005. Il Dolopathos si può leggere in traduzione italiana: Giovanni di Alta Selva, Dolopato ovvero il re e i sette sapienti (1184), Palermo, Sellerio, 1997. Il massimo sostenitore del modello ascensionale è probabilmente stato V. Branca, Boccaccio medievale (I ed. 1956), con introduzione di F. Cardini, Milano, Rizzoli. Cfr. P.D. Stewart, La novella di madonna Oretta e le due parti del «Decameron», in Ead., Retorica e mimica, cit., pp. 19-38. Cfr. inoltre C. Van Der Voort, Convergenze e divaricazioni fra la prima e la sesta giornata del «Decameron», in SB XI (197980), pp. 207-241, nonché Picone, L’invenzione della novella, cit. e Fido, Architettura, cit. Le interpretazioni cinquecentesche che mettono in evidenza il modello ascensionale o la figura di madonna Oretta sono, rispettivamente, il Discorso fatto sopra il Decameron pubblicato nel 1571 da Francesco Sansovino (in Cento novelle: Cento novelle scelte da più nobili scrittori della lingua volgare con l’aggiunta di cento altre novelle antiche) e il Dialogo de’

giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare di Girolamo Bargagli pubblicato a Siena nel 1572. Per il giardino, rimando ancora ai citati Battaglia Ricci, Boccaccio ed Ead., Ragionare nel giardino. III.5 Rimando ancora a Veglia, La vita lieta, cit. e Cherchi, L’Onestade e l’onesto raccontare, cit. Mi riferisco inoltre a E. Sanguineti, Gli “schemata” del “Decameron” (in Id., Il chierico organico. Scritture e intellettuali, a c. di E. Risso, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 44-57), e a R. Bragantini, Dialogo, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 93-115 (poi in Id., Le vie del racconto. Dal “Decameron” al “Brancaleone”, Napoli, Liguori, 2000, pp. 7-32).

Capitolo IV IV.1 I saggi cui faccio riferimento sono: G. Mazzacurati, Rappresentazione, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 269-299; V. Branca, Boccaccio medievale, cit. Gli altri riferimenti generali sono invece i lavori di H.-J. Neuschäfer (Boccaccio und der Beginn der Novelle. Strukturen der Kurzerzählung auf der Schwelle zwischen Mittelalter und Neuzeit, 1969, una cui trad. parziale si legge in Picone (a cura di), Il racconto, cit., pp. 299-310) e di S. Battaglia (Capitoli per una storia della novellistica italiana, cit.). Interessante anche P. Marconi, Forme dialogiche e metamorfosi dell’identità nel “Decameron”, in «Filologia e critica» XXIV (1999), pp. 33-56. Sull’intertestualità, cfr. C. Segre, Intertestualità e interdiscorsività nel romanzo e nella poesia, in Id., Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1982, pp. 103-118. Per il nome proprio nel Decameron, cfr. G. Herczeg, I cosiddetti nomi parlanti nel Decameron, in Atti e memorie del VII congresso di scienze onomastiche. Sezione antroponimica, Firenze, Istituto di glottologia dell’Università degli studi, 4 voll., vol. 3°, 1963, pp. 189199, L. Sasso, L’«interpretatio nominis» nel Boccaccio, SB XXI (1980), pp. 129-174, nonché B. Porcelli, Il nome nel racconto. Dal “Novellino” alla “Commedia” ai novellieri del Trecento, Milano, Franco Angeli, 1997 (spec. pp. 32-68) e le osservazioni di P. Manni, Il Trecento toscano. La lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, Bologna, il Mulino, 2003. Una breve ma utile riflessione sui personaggi della prima giornata, con particolare attenzione per il gruppo degli “intellettuali”, si trova in M. Picone, Il principio del novellare: la prima giornata, in M. Picone e M. Mesirca (a cura di), Introduzione al “Decameron”, Firenze, Cesati. Per un’analisi di I 1, cfr. C. Delcorno (Metamorfosi boccacciane dell’“exemplum”, in Id., Exemplum e letteratura, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 265-294) e L. Surdich (Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 2001). Per I 3, cfr. R. Bragantini, Appunti sull’ordine dei racconti e l’organizzazione testuale del “Decameron”, in Boccaccio in America, a cura di E. Filosa e M. Papio, Ravenna, Longo, 2012; per una lettura di II 7, cfr. M. Fiorilla, Introduzione a Giovanni Boccaccio, Decameron, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2011, pp. XV-LIX. IV.2

L’«epopea dei mercatanti» è la formula discussa da V. Branca, Boccaccio medievale, cit.; si sofferma sull’attrazione esercitata dal mondo aristocratico nel Decameron G. Padoan, Il Boccaccio, le muse, il Parnaso e l’Arno, Firenze, Olschki, 1978; tra i tanti studiosi che hanno analizzato la complessità sociale dell’opera, mi limito a ricordare il lavoro complessivo di M. Baratto, Realtà e stile nel «Decameron», Roma, Editori Riuniti, 1984; il peculiare trattamento degli artisti è oggetto del lavoro di M. Ciccuto, Figure d’artista. La nascita delle immagini all’origine della letteratura, Firenze, Cadmo, 2002. Per le donne, cfr. il lavoro di Claude Cazalé Bérard, Filoginia/Misoginia, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 116-141. Per le informazioni storiche e biografiche, rimando a V. Branca, Giovanni Boccaccio, cit., mentre il mondo angioino è presentato magistralmente da F. Sabatini, Napoli angioina. Cultura e società, Napoli, Esi, 1975. Tra gli strumenti teorici utilizzati in questo paragrafo, segnalo J. Lotman, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti; trad. it. di S. Salvestroni, Venezia, Marsilio, l’indagine sul conflitto di modelli culturali nel Medioevo di F. Bruni, Testi e chierici del Medioevo, Genova, Marietti, 1991, nonché il saggio di P. Camporesi su Cultura popolare e cultura d’élite fra Medioevo ed età moderna, in Storia d’Italia, vol. IV, Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981. IV.3 Il discorso sulla nominazione di Cepparello allude a un bel saggio di G. Genette, Verosimiglianza e motivazione, in Figure II. La parola letteraria, [1969], Torino, Einaudi, 1972. Il concetto di cronotopo viene da M. Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di poetica storica [1937-38], in Id. Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1975, pp. 231-405. Utile ragionare anche attraverso il concetto di “mondi possibili”, su cui cfr., tra gli altri, Th. Pavel, Mondi di invenzione [1986], Torino, Einaudi, 1992 e L. Dolezel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili [1998], Milano, Rizzoli, 1999. Per la IX 6: Baratto, Realtà e stile nel «Decameron», cit.; G. Almansi, The Writer as Liar. Narrative Technique in the «Decameron», London-Boston, Routledge & Kegan Paul, 1975; C. Segre, Da un letto all’altro: un tema novellistico [1990], in Id., Notizie dalla crisi, cit., pp. 98-102: la perfezione di questa novella risalta dal confronto coi testi romanzi che presentano lo stesso racconto, e che forse Boccaccio poté avere presenti (cfr. Di Girolamo e Lee, Fonti, cit.). IV.4 Il saggio di F. Farinelli s’intitola Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Torino, Einaudi, 2003. Per la rappresentazione letteraria del conflitto, cfr. M. Plaisance, Città e campagna (XIII-XVII secolo), in Letteratura italiana, cit., vol. V, Le Questioni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 583-634. Interessanti i saggi di A. Robin, C. Perrus, R. Bragantini. M. Schnbuch, A. Fontes Baratto e E. Zunino raccolti in La città nel “Decameron”, Atti della giornata di studi (16 ottobre 2009), a cura di A. Vettori, «Quaderni dell’Hôtel de Galliffet», XXV (2010).

Capitolo V V.1

I principali saggi utilizzati o citati in questo paragrafo sono: Baratto, Realtà e stile nel «Decameron», cit.; Padoan, Il Boccaccio, cit.; P.M. Forni, Realtà/verità, in Lessico critico decameroniano, cit. pp. 300-319; Mazzacurati, Rappresentazione, cit.; per la “qualità della finzione”, si rimanda nuovamente a W. Trimpi, Muses of One Mind, cit. Il celebre saggio di R. Barthes, L’effetto di reale [1968], si può leggere in Id., Il brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988, pp. 150-159. V.2 Fortuna e ingegno sono questioni capitali per la comprensione e l’interpretazione dell’opera. Sterminata è pertanto la bibliografia al riguardo; i primi approfondimenti possono essere realizzati consultando le principali monografie citate, come quelle di Muscetta, Asor Rosa, Battaglia Ricci, Surdich. Per il significato degli abiti, cfr. invece E. Weaver, Dietro il vestito: la semiotica del vestire nel «Decameron», in La novella italiana, cit., pp. 701-710. V.3 Per la IV giornata, cfr. R. Fedi, Il “regno” di Filostrato. Natura e struttura della Giornata IV del “Decameron”, in «MLN», 102 (1987), pp. 39-54. Un’interpretazione della “novella delle papere” in M. Picone, Le papere di fra Filippo (Intr. IV), in Id., Boccaccio, cit., pp. 171183. Per la novella V 4 e la fonte di Maria di Francia: Di Girolamo e Lee, Fonti, cit. Per I 10, Picone, Il “gabbo” di Maestro Alberto (I.10), in Id. Boccaccio, cit., pp. 125-135. V.4 La questione del fantastico è stata introdotta da T. Todorov, La letteratura fantastica [1970], Milano, Garzanti, 1977. In Italia ha fatto chiarezza sulla questione R. Ceserani, Il fantastico, Bologna, il Mulino, 1996. Per il quadro medievale, si può leggere A. Vàrvaro, Apparizioni fantastiche. Tradizioni folcloriche e letteratura nel Medioevo, Bologna, il Mulino, 1993 e il precedente D. Poirion, Il meraviglioso nella letteratura francese del Medioevo [1982], Torino, Einaudi, 1988. Per l’opera boccacciana, cfr. E. Menetti, Il “Decameron” fantastico, Bologna, Clueb, 1994. Il concetto di spiritus phantasticus è stato illustrato magistralmente da R. Klein in uno dei capitoli di La forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, Torino, Einaudi, 1975. Per la novella V 8, cfr. la lettura di C. Segre, La novella di Nastagio degli Onesti (Dec. V 8): i due tempi della visione, in Id., Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino, Einaudi, 1979, pp. 87-96. Sulla cultura dei ceti subalterni, mi limito a rimandare a P. Camporesi, Rustici e buffoni. Cultura popolare e cultura d’élite tra Medioevo ed età moderna, Torino, Einaudi, 1991. V.5 L’orizzonte concettuale della cortesia, diffuso in tantissime opere in versi e in prosa dell’area romanza, a partire dall’area di irradiazione francese (nelle due lingue d’oc e d’oïl) è stato studiato da H. Dupin, La courtoisie au moyen âge: d’après les textes du 12. et du 13. siècle [1931], Genève, Slatkine reprints, 1973. Più specifici ma assai ricchi sono inoltre gli studi di G.M. Cropp, Le vocabulaire courtois des troubadours de l’époque classique, Genève, Droz, 1975, e J. Bumke, Höfische Kultur. Literatur und Gesellscha im hohen Mittelalter, Band 1, Münich, Deutscher Taschenbuch, 1984, la cui introduzione avverte

giustamente di distinguere, in queste opere letterarie, tra Fiktion e Realität. Il sistema trovò già nel Medioevo una sistemazione nel celeberrimo De amore di Andea Cappellano (cfr. l’ed. curata da S. Battaglia: Trattato d’amore, testo latino del XII secolo, con due traduzioni toscane inedite del XIV secolo, Roma, Perrella, 1947). Due analisi di I 8 si leggono in V. Kirkham, The Tale of Guglielmo Borsiere (I.8), in E. Weaver (a c. di), The «Decameron» First Day in Perspective, Toronto, Toronto University Press, pp. 179-206, nonché in M. Picone, L’uomo di corte e l’ideale cavalleresco: Guglielmo Borsieri (I.8), poi in Id., Boccaccio, cit. 111-123. Parigi nel medioevo come luogo mentale è il titolo di un saggio del 1978 di Maria Corti (ora in Ead., Storia della lingua e storia dei testi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1989, pp. 33-44). Al «sorriso di messer Torello» è dedicato uno dei saggi contenuti in F. Fido, Il regime delle simmetrie imperfette. Studi sul “Decameron”, Milano, Angeli, 1988. Rimando infine a Veglia, La vita lieta, cit. Sulla valenza sociale del testo letterario, utilizzo il già citato Jauss, Apologia dell’esperienza estetica. V.6 Per la dialettica, anche funzionale, tra sorriso e riso, cfr. F. Ceccarelli, Sorriso e riso. Saggio di antropologia biosociale, Torino, Einaudi, 1988, utilizzato da G. Savelli, Riso, in Lessico critico decameroniano, cit. pp. 344-371. La fondazione sociologica della questione del riso si trova in É. Dupréel, Le Problème sociologique du rire, «Revue Philosophique», 106 (1928), pp. 213-260. Importante il saggio di L. Olbrechts-Tyteca, Il comico della retorica, Milano, Feltrinelli, 1977. Lo schema semiotico adottato nel testo è stato proposto da J. Lotman e B. Uspenskij, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 1975. Per le dinamiche interne al testo e per i diversi modi di ridere, rinvio a G. Alfano, Nelle maglie della voce, cit.; vale la pena di osservare che la risata a bocca aperta viene descritta allo stesso modo nel Cunto de li cunti di Basile: «foro le belle parole de s’egroca accompagnate da cossì graziusi ieste e co smorfie cossì belle che potive cacciare li diente da quante le ’ntesero» (cfr. ed. Rak, Milano, Garzanti, 1986, p. 268). Come presentazione della sesta giornata è utile M. Picone, Leggiadri motti e pronte risposte: la sesta giornata, in Id. Boccaccio, cit., pp. 163-186. Sul rapporto tra «torre malinconia» e «porre diletto», cfr. infine M. Plaisance, Funzione e tipologia della cornice, in La novella italiana, cit., pp. 103-118. V.7 Per la dimensione culturale legata al piangere, si rimanda innanzitutto a E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico [1958], Torino, Bollati Boringhieri, 2008. Per la realtà medievale cfr. P. Nagy-Zombory, Pleurs, in Dictionnaire du Moyen Âge, publié sous la direction de C. Gauvard, D. De Libera, M. Zink, Paris, Puf, 2002, pp. 1117-1118. Interessante adesso l’opera collettiva Lachrymae: mito e metafora del pianto nel Medioevo, a cura di F. Mosetti Casaretto, con la collaborazione editoriale di R. Ciocca, indici a cura di C. Piccone, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2011. Per la quarta giornata, cfr. Roberto Fedi, Il “regno” di Filostrato. Natura e struttura della Giornata IV del “Decameron”, in «Modern Language Notes», 102 (1987), pp. 39-54 e M. Picone, L’«amoroso sangue»: la quarta giornata, in Picone e Mesirca, Introduzione al “Decameron”, cit., pp. 115-139. Per la novella IV 1, cfr. D. Delcorno Branca, Boccaccio e le storie di re

Artù, Bologna, il Mulino, 1991 e M. Picone, Dal “lai” alla novella tragica: Ghismonda (IV.1), Id. Boccaccio, cit., pp. 185-198, che ne hanno mostrato i fitti rapporti intertestuali col Deus amanz e con lo Chievrefoil di Maria di Francia, rivelando che il recupero boccacciano della tradizione oitanica avviene alla luce dell’insegnamento dantesco e delle esigenze di autorappresentazione cortese tipiche del mondo comunale dell’epoca. Per la novella IV 5, cfr. invece la lettura multipla coordinata da M. Lavagetto, Il testo moltiplicato. Lettura di una novella del «Decameron», Parma, Pratiche editrice, 1982. Per il rapporto con la canzone, cfr. M. Picone, La “ballata” di Lisabetta (IV.5), poi in Id. Boccaccio, cit., pp. 215-234 e I. Tufano, “Qual esso fu lo malo cristiano’. La canzone e la novella di Lisabetta (“Decameron”, IV, 5), «Critica del testo» (2007), pp. 225-239.

Capitolo VI Fondamentali per la redazione del capitolo sono stati i lavori di A. Stussi (Lingua, in Lessico critico decameroniano, cit., pp. 192-221) e di P. Manni (Il Trecento toscano. La lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio, Bologna, il Mulino, 2003): a questi si rimanda anche per l’ulteriore bibliografia specialistica. VI.1 La presentazione dei «modi narrativi» si legge in Baratto, Realtà e stile nel «Decameron», cit. VI.2 L’espressione «forma del nostro vivere» si spiega dentro la storia di lunga durata ricostruita da A. Quondam, Forma del vivere. L’etica del gentiluomo e i moralisti italiani, Bologna, il Mulino, 2010. La caratterizzazione linguistica dei personaggi, anche in senso geografico, è alla base delle riflessioni di V. Branca, Una chiave di lettura per il «Decameron». Contemporaneizzazione narrativa ed espressivismo linguistico, in G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1999, pp. VII-XXXIX. Per il rapporto tra scelte linguistiche e dimensione realistica, cfr. Padoan, Il Boccaccio, cit., nonché le osservazioni di A. Quondam, nella Introduzione all’ed. citata della Bur, sull’occorrenza unica di tanti lemmi. Per il comico “del” discorso rimando nuovamente a Olbrechts-Tyteca, Il comico della retorica, cit., mentre di «immagine della lingua» ha parlato M. Bachtin, La parola nel romanzo [1934-35], in Id., Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, pp. 67-230. L’atteggiamento conflittuale di Boccaccio verso il mondo della predicazione è stato studiato in particolare da Delcorno (Exemplum e letteratura, cit.) e la sua scuola; importanti osservazioni anche in Bruni, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, cit. Sulle letture boccacciane si possono vedere i saggi raccolti in Gli zibaldoni di Boccaccio: memoria, scrittura, riscrittura, a c. di M. Picone e C. Cazalé Bérard, Firenze, Cesati, 1998. VI.3 Il saggio di C. Segre sulla prosa italiana del Duecento è raccolto in Id., Lingua, stile e società, Milano, Feltrinelli, 1976 (sull’italiano medievale in generale, cfr. R. Casapullo,

Storia della lingua italiana. Il Medioevo, Bologna, il Mulino, 1999). La prima descrizione accurata della sintassi boccacciana si legge nella recensione di A. Mussafia all’edizione del Decameron (1857) di P. Fanfani (si legge in A. Mussafia, Scritti di filologia e linguistica, Padova, Antenore, 1983, pp. 1-94). Importante anche il contributo di A. Momigliano nel suo commento al Decameron, Milano, Vallardi, 1924. Sulla teatralità del Decameron hanno scritto, tra gli altri, cose importanti N. Borsellino, Rozzi e Intronati. Esperienze e forme di teatro dal «Decameron» al «Candelaio», Roma, Laterza, 1974 e Stewart, Retorica e mimica, cit. Nei secoli successivi, il modello decameroniano sarebbe rimasto importante per la lingua del teatro comico italiano; una discussione complessiva, che riguarda anche l’individuazione, da parte di Pietro Bembo, delle parti più elevate del Decameron come modello per la prosa, si può leggere in P. Trovato, Storia della lingua italiana. Il primo Cinquecento, Bologna, il Mulino, 1994.

Capitolo VII VII.1 L’espressione «forza della forma sociale» è di E. Auerbach, Tecnica di composizione della novella, Roma, Vignola Editore, 1996; V. Kirkham (in The Sign of Reason in Boccaccio’s Fiction, Firenze, Olschki, 1993) ha parlato di un «microcosm founded on the principle of reason». Per le osservazioni di carattere semiotico, rimando ancora a Lotman, La semiosfera, cit. e a Lotman e Uspenskij, Tipologia della cultura, cit. L’osservazione sull’assenza di cosmogonia nel Decameron è di F. Mariani Zini, L’économie des passions. Essai sur le “Décaméron” de Boccace, Villeneuve d’Ascq, Presses Universitaires du Septentrion, 2012. Sui mondi possibili, oltre alla bibliografia ricordata nel par. IV.3, segnalo il recentissimo contributo di M. Palumbo, I mondi possibili del «Decameron», in Boccaccio e i suoi lettori. Una lunga ricezione, Atti del Convegno internazionale, BolognaRavenna 7-9 novembre 2012, Bologna, il Mulino, 2013. Cfr. anche E. Sanguineti, Gli “schemata” del “Decameron”, cit. VII.2 Su oralità e scrittura rimando ancora al libro di Frasca, La lettera che muore, cit. e alla bibliografia lì discussa; piace inoltre ricordare A. Vàrvaro, «Noi leggiavamo un giorno per diletto»: esperienza letteraria ed esperienza storica nel Medioevo, in Id., Identità linguistiche e letterarie nell’Europa romanza, Roma, Salerno, 2004, pp. 256-269. Per la dimensione teatrale, oltre ai titoli segnalati nel par. VI.3, cfr. A. Staüble, La brigata del “Decameron” come pubblico teatrale, «Studi sul Boccaccio», 9 (1975-76), pp. 103117. Il primo, tra gli studiosi moderni, a ricondurre la riflessione sulla novella VI 1 è stato G. Almansi, Lettura della novella di madonna Oretta, in «Paragone-Letteratura», XXII (1972), pp. 139-143, seguito dal più analitico studio di A. Freedman, Il cavallo del Boccaccio: fonte, struttura e funzione della metanovella di Madonna Oretta, in «Studi sul Boccaccio», IX (1975-76), pp. 225-241. Da allora il prestigio di madonna Oretta è venuto sempre più aumentando. Per quanto riguarda invece gli autori cinquecenteschi, indico qui in sintesi i riferimenti: G. Della Casa, Il Galateo overo de’ costumi, in Id., Rime e

prose, Venezia, Nicolò Bevilacqua, 1558 (ne esistono numerose edizioni moderne); A. Piccolomini, Annotazioni nel libro della Poetica d’Aristotele, Venezia, Guarisco, 1575; G. Bargagli, Dialogo de’ giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare [1572], a cura di P. D’Incalci Ermini, introduzione di R. Bruscagli, Siena, Accademia senese degli Intronati, 1982.

Ringraziamenti

Questo libro è nato dalla gentile sollecitazione di Giuseppe Antonelli, e deve molto al confronto che ho avuto con lui e con due amici romani, Carla Chiummo ed Emilio Russo. Come sempre, fondamentale è stato il consiglio di Matteo Palumbo, che ha a mano a mano letto con me i capitoli. Assai importanti sono state inoltre le discussioni con Gabriele Frasca e con Pietro Mancini; Anna Masecchia mi ha spinto a perseverare. A Maurizio Fiorilla e Amedeo Quondam, con i quali ho lavorato al commento del Decameron adesso pubblicato dalla Bur, va il mio ringraziamento per avermi fatto trascorrere un periodo tanto impegnativo quanto divertente che mi ha spinto a un ripensamento complessivo dell’opera di Boccaccio. Ci sono infine i miei studenti della Seconda Università di Napoli, giovani camminatori che devo ringraziare per la paziente intelligenza con cui mi hanno seguito nei percorsi del Decameron. Il libro è dedicato a due amici napoletani dai quali negli anni ho imparato moltissimo: sono Cesare Colletta e Felice Ciro Papparo.