Introduzione alla grandezza di Émile Zola 8861560393, 9788861560390

Mentre in Francia è giustamente considerato tra i classici, Émile Zola (1840-1902) in Italia non è ancora stato riconosc

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Introduzione alla grandezza di Émile Zola
 8861560393, 9788861560390

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Mentre in Francia è giustamente considerato tra i classici, Émile Zola

(1840-1902)

in Italia non è ancora stato riconosciuto nel suo pieno

valore: troppo spesso si ripetono riduttivi giudizi sul presunto freddo osser vatore della realtà, sullo scrittore-scienziato di

un

Naturalismo frain­

teso o deformato da artificiosi confronti con i veristi italiani; sfuggono così la potenza del suo realismo visionario e la solidità di una poetica con la quale, nell'eccelso ciclo dei Ro�tgon-Macq�tarl, l'amore per la verità trova nuovi collegamenti

tra

il quotidiano e l'universale. Attenta alle più recenti

interpretazioni critiche, ma desiderosa soprattutto di invitare alla lettura del Maestro, questa lntrod�tzione ne racconta l'opera con indiscutibile competenza e passione sterminata.

Luca Della Bianca (Milano,

1962)

ha pubblicato varie opere di narrativa e

saggistica. Il suo più recente successo è il romanzo Fin di secolo (Mursia,

2007);

nel

2004

è stato edito da Metauro il fortunato Un libero profilo di

lettera/lira italiana, adottato come testo universitario in Italia e negli Stati Uniti d'America.

111 IIECTII: 5111111 BEIIILOTTI



15,00

I�illUill

STUDI

18 Collana diretta da

Corrado Donati

© 2008 by Metauro Edizioni S.r.l. - Pesaro http://www.metauroedizioni.it [email protected] ISBN 978-88-6156-039-0 __________________________________________________________________

È vietata la riproduzione, intera o parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

LUCA DELLA BIANCA

Introduzione alla grandezza di Émile Zola

Metauro

Indice

Premessa

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1 Cronologia dell’opera 1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7 2

Il poeta Critica e narrativa Inizio dei Rougon-Macquart Il Maestro Una serie di capolavori Il maître à penser librettista La coscienza della Francia

9 12 15 18 25 30 34

Storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero 2.1 La fortune des Rougon 2.2 La curée 2.3 Le ventre de Paris 2.4 La conquête de Plassans 2.5 La faute de l’abbé Mouret 2.6 Son Excellence Eugène Rougon 2.7 L’Assommoir 2.8 Une page d’amour 2.9 Nana 2.10 Pot-bouille 2.11 Au Bonheur des Dames

41 44 48 51 55 58 62 67 70 74 77

2.12 2.13 2.14 2.15 2.16 2.17 2.18 2.19 2.20

La joie de vivre Germinal L’œuvre La terre Le rêve La bête humaine L’argent La débâcle Le docteur Pascal

82 86 95 99 102 106 110 113 117

3 Le ragioni della grandezza 3.1 La realtà dell’arte 3.2 Gli inizi: Thérèse Raquin 3.3 La costruzione dei Rougon-Macquart 3.4 L’albero genealogico 3.5 Le roman expérimental 3.6 Il ciclo dei Froment: le Trois villes 3.7 Il ciclo dei Froment: i Quatre Évangiles 3.8 Il metodo della creazione: la genesi 3.9 Il metodo della creazione: stesura e correzioni 3.10 Diffusione dell’opera Appendice bibliografica Indice dei nomi

123 128 133 137 143 145 150 154 158 161 165 173

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Premessa

Georges Brisson, studente liceale di Nantes, ha sedici anni quando nell’aprile del 1875 scrive a Émile Zola per manifestargli tutto il suo entusiasmo dopo la lettura di Thérèse Raquin, un entusiasmo tale da fargli provare venerazione per l’autore: dichiara di ardere dal desiderio di possedere qualcosa che venga da lui, anche solo una frase o una parola. Parigi all’epoca doveva sembrare irraggiungibile a un ragazzo di Nantes, per benestante che fosse. L’anno successivo a Georges pare di avere una possibilità unica: viene a sapere che Zola soggiorna a Piriac in Bretagna e calcola che, per tornare a Parigi in treno, passerà sicuramente per Nantes. Così, l’8 settembre 1876 egli scrive al Maestro a Piriac e l’implora di scendere dal treno durante la sosta nella stazione di Nantes e farsi riconoscere; lui in tal modo avrà la felicità di vedere – non chiede neanche di potergli parlare! – almeno una volta nella vita lo scrittore che ammira «da quando ha l’età della ragione». Sfortunatamente, Georges è venuto a conoscenza troppo tardi del soggiorno bretone di Zola, il quale è appena rientrato a Parigi. Non sappiamo altro su Georges Brisson. Possiamo immaginare la terribile delusione del ragazzo per il mancato incontro e la consolazione solo parziale della lettera affettuosa che Zola non avrà mancato di inviargli; ma ignoriamo se, negli anni successivi, egli abbia continuato a leggere e amare Zola o se la sua sia stata un’infatuazione passeggera. Vorremmo soprattutto sapere chi sia poi diventato Georges da adulto – posto naturalmente che abbia vissuto anche le età successive, oltre a un’adolescenza così ricca di sentimento. Forse sognava di affermarsi come scrittore, vedendo in Zola anche

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un modello, e in questo caso ha fallito. Forse invece era solo un lettore appassionato. In ogni caso, con quelle due lettere che hanno sottratto il suo nome all’oblio egli si è dimostrato uno zolista così convinto da vedere nell’autore di Thérèse Raquin, prima ancora della pubblicazione dell’Assommoir, il più gran romanziere di ogni tempo. Georges Brisson aveva uno straordinario intuito critico.

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1 Cronologia dell’opera

1.1 Il poeta I primi scritti di cui abbiamo notizia datano intorno ai suoi sedici anni: un romanzo sulle crociate, addirittura, e una prima commedia, oltre alle predilette poesie. È il periodo d’oro dell’adolescenza di Zola, quello delle tre meravigliose estati degli anni 1855-56-57, con le fughe nella natura provenzale per giornate intere trascorse all’insegna della libertà, parlando di letteratura e fantasticando sul futuro con gli altri due «inseparabili» del trio: Jean-Baptistin Baille, poi serioso professionista che oggi nessuno ricorderebbe, e Paul Cézanne, il grandissimo amico perduto senza un motivo e, dopo la giovinezza, mai più capito nella sua reale statura di artista. La felicità di quel periodo è a maggior ragione goduta dopo anni tristi. Émile Zola, nato il 2 aprile 1840 a Parigi (all’attuale numero 10 della rue Saint-Joseph, nei dintorni del palazzo della Borsa), vive a Aix-en-Provence dal 1843. Suo padre, il singolare veneziano Francesco Zolla francesizzato François Zola (allo scrittore sarà riconosciuta la nazionalità francese solo nel 1862), militare nell’esercito napoleonico, laureato in matematica, ingegnere civile, ufficiale nella Legione Straniera per un anno, di nuovo ingegnere con grandi progetti, genitore a quarantacinque anni dopo essersi sposato l’anno precedente con la ventenne Émilie Aubert, a Aix ha l’incarico di scavare un canale per il rifornimento dell’acqua potabile; fonda un’apposita società, così quando muore nel 1847 lascia debiti per decine di migliaia di franchi e via libera agli speculatori contro cui la vedova lotterà per anni. Zola avrà sempre caro il

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ricordo del padre: negli ultimi mesi di vita fotografa una composizione in cui ai suoi più recenti romanzi ha appoggiato un dagherrotipo che lo ritrae bambino con lui. Nello stesso 1847 Émile intraprende il suo iter scolastico nel convitto dove conosce il futuro giornalista e scrittore Marius Roux e il futuro scultore Philippe Solari, con i quali sarà in amicizia per decenni. Il «trio degli inseparabili» con Baille e Cézanne si forma invece nel collegio Bourbon a partire dal 1853. L’adolescenza, rievocata a distanza di trent’anni in un incantevole capitolo di L’œuvre, ha termine con il trasferimento a Parigi nel 1858: un conoscente di famiglia ha ottenuto per lui una borsa di studio al liceo Saint-Louis. Buono studente a Aix, ma sradicato nella capitale, Zola viene bocciato al baccalauréat; la seconda bocciatura a Marsiglia in autunno mette fine ai suoi studi regolari. Siamo grati a quei professori, perché in caso di promozione Zola avrebbe perso il proprio tempo con studi in legge che non c’entravano niente con lui. Intanto scrive: nel 1858-59 stende o progetta testi teatrali dei quali si è salvato il canovaccio di una tragicommedia, Annibal à Capoue; nel 1859 compone il poemetto Rodolpho sullo stile di Alfred de Musset e le prime novelle Les grisettes de Provence, perduta, e La fée amoureuse, poi compresa nei Contes à Ninon; sempre nel 1859 pubblica già qualcosa, sul giornale «La Provence» di Aix: una poesia dedicata al canale «Zola» (battezzato ufficialmente così qualche anno dopo) e La fée amoureuse. Fino al 1862 il futuro Maestro si sente poeta. Compone il «proverbio» in versi Perrette (1860), i poemetti Paolo (1860) e L’Aérienne (1861, ispirato al suo primo amore, una ragazza di Aix), che insieme al precedente Rodolpho devono costituire L’amoureuse comédie, e nel 1861 progetta un’altra trilogia poetica – dimostrando così di concepire già non singole opere, ma interi cicli, come avverrà con i grandi romanzi futuri. Questo Zola poeta sarebbe stato pubblicato parecchi anni dopo a cura di Paul Alexis, in appendice alle sue Notes d’un ami (1882), la prima biografia. Aspettando di affermarsi come poeta, Zola deve però avere di che vivere da un impiego decente, che stenta a trovare (ai Docks Napoléon resiste solo un paio di mesi). Ha tempo per leggere – magari di straforo, dai bouquinistes. Vive in case modeste o misere, con la madre o da solo, cambiando tra il 1858 e il 1867 una dozzina di indirizzi del Quartiere Latino e della

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zona tra il Luxembourg e il Jardin des Plantes; conosce l’autentica, squallida Bohème e, dopo aver tanto idealizzato la donna parlandone con gli amici, per alcuni mesi ha come compagna una noleggiabile Berthe, che a quanto sembra ispirerà la Laurence del suo primo romanzo. Vive dei suoi sogni e di letteratura, oltre che del conforto degli amici Baille e Cézanne, cui spedisce lettere lunghissime di una freschezza coinvolgente, in bilico tra la malinconia e l’entusiasmo; ha una fortissima volontà di riuscire, una tenace dedizione al lavoro che è – scrive a Baille all’inizio del 1859 – l’unico mezzo per arrivare. Ha già cominciato a interessarsi di pittura, frequentando alcuni artisti provenzali trasferitisi nella capitale; nel 1861 visita il Salon con Cézanne, a Parigi per alcuni mesi. Ci commuove ricostruire l’amicizia tra i due giovani pieni di sogni per il futuro, sogni che avrebbero concretizzato in capolavori. Il 25 marzo 1860 Zola racconta per lettera a Cézanne un sogno (che «purtroppo per ora non è che un sogno»): un libro scritto da lui e illustrato dall’amico; i loro due nomi «brillavano in lettere d’oro» e così sarebbero passati, insieme, al ricordo ammirato dei posteri. I risultati dell’epoca presente sono invece ben più modesti: la prima pubblicazione parigina è quella del componimento poetico Le nuage (musicato dall’amico Louis Marguery), su «Le Journal du Dimanche» del 17 ottobre 1861. All’inizio di marzo del 1862 Zola entra come semplice fattorino nella Librairie Hachette. È per lui la fortuna, quella senza la quale nessuno scrittore può affermarsi. Presto infatti passa all’ufficio della pubblicità della casa editrice: il giovane idealista, che ancora lavora a un poema su Giovanna d’Arco (non a caso presto abbandonato, insieme alla poesia in genere), si dimostra un talento nel cogliere i meccanismi della pubblicità e nel perfezionarli, tessendo una rete di conoscenze che tornerà utile in breve anche a lui. Con i suoi romanzi Zola saprà così coniugare il valore artistico con la vendibilità dell’opera, battendosi per un’arte nuova che attraverso il clamore suscitato attiri il pubblico di acquirenti. All’inizio del 1866 scrive all’amico Antony Valabrègue: «L’abilità consiste, una volta fatta l’opera, nel non attendere il pubblico, ma andare verso di lui e forzarlo a blandirvi o ingiuriarvi». Non sfugga la precisazione «una volta fatta l’opera»: non si tratta di andare incontro ai gusti dei lettori, ma di pilotarli provocando la reazione dei lettori stessi. Curando la pubbli-

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cità, Zola si scaltrisce presto anche nella critica letteraria; il suo primo articolo è del gennaio 1863, su «L’Athenaeum Français». È questo anche l’anno del primo Salon des Refusés: Zola, che assiste alle risate degli imbecilli davanti allo stupendo Déjeuner sur l’herbe di Manet, è tra i pochi a capire come tra i dipinti rifiutati al Salon ufficiale compaiano i nuovi capolavori dei suoi tempi.

1.2 Critica e narrativa Il 1864 è un anno di capitale importanza. Zola legge Stendhal, Flaubert e Taine, scopre Balzac e frequenta le conferenze di rue de la Paix, che sono per lui una scuola di libero pensiero: la sua università, o qualcosa di più. Presso Lacroix, editore nient’affatto secondario (ha stampato Les misérables), pubblica il suo primo libro, la raccolta dei Contes à Ninon, per il quale grazie al suo lavoro da Hachette può organizzare un battage pubblicitario come un altro esordiente si sarebbe sognato. Lacroix sarà soddisfatto delle poche centinaia di copie vendute, non potendo mirare più in alto. I Contes in effetti non erano di grande interesse per i lettori del tempo, come non lo sono per noi. Non possono però essere liquidati come testi genericamente tardoromantici e di apprendistato. Intanto, è singolare l’alternanza tra il fiabesco e l’ambientazione realista; poi colpisce il fatto che nel fiabesco traspaia a volte qualche presenza ammiccante o inquietante, la concretezza dei sensi che insidia la pace del sogno. Il tema fondamentale dei Contes è proprio il contrasto tra l’ideale e il reale, contrasto che almeno in parte spiega anche la più bella prosa della raccolta, ossia la dedica alla stessa Ninon. Un anno dopo i Contes, nel novembre 1865, Lacroix pubblica il primo romanzo di Zola, La confession de Claude: vicenda forse in larga parte autobiografica, ispirata agli anni di Bohème dello sconosciuto poeta in miseria. Del romanzo si occupa la Procura per sospetta immoralità, ma il contenuto è poi giudicato buono, perché prevale la condanna del male. All’epoca Zola scrive la sera e la notte, dopo aver lavorato dieci ore da Hachette; pubblica articoli e racconti su vari giornali, con regolarità su «Le Salut Public» di Lione e su «Le Petit Journal». Mira

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inoltre al teatro, del quale ancora ragazzo a Aix era spettatore partecipe e aspirante autore; siccome la proposta di messinscena della commedia La laide gli viene bocciata, prova a cambiar genere scrivendo il dramma a tinte forti Madeleine. Trova anche il tempo per frequentare gli amici: è già cominciata la tradizione delle riunioni artistico-conviviali del giovedì sera a casa sua. Con Baille (ritrovato a Parigi come studente dell’École Polytechnique, sarà suo amico ancora per qualche tempo), con Cézanne e un altro amico pittore nato a Aix, Numa Coste, visita il Salon rimanendo affascinato dall’Olympia di Manet. Dalla fine di gennaio del 1866 Zola è libero di dedicarsi alla letteratura, da cui però è costretto a ricavare il necessario per vivere. Con una coraggiosa scelta che si rivelerà vincente si è infatti licenziato dalla Librairie Hachette, dove era già a capo dell’ufficio della pubblicità. Il colpo è stato preparato: Zola entra subito nel nuovo quotidiano «L’Événement» come critico letterario della rubrica «Les livres d’aujourd’hui et de demain», una sorta di anteprima che collega strettamente l’aspetto della recensione con quello pubblicitario. In primavera sullo stesso giornale inizia la serie di articoli di critica d’arte che saranno raccolti a luglio in volumetto: Mon Salon. In entrambi i campi, tra i quali si muove disinvolto – nello stesso anno esce la raccolta Mes haines. Causeries littéraires et artistiques –, il giovane critico non conosce mezzi termini e non si cura né di dare una base tecnica ai suoi giudizi né di farsi nemici quando questi giudizi sono particolarmente duri. Nell’ambito della pittura, stroncando quella accademica, esalta Courbet e soprattutto Manet, che solo dopo questi articoli conoscerà di persona, aggiungendo alla stima l’amicizia; a Manet, figura per lui esemplare di artista, Zola dedica lo studio più ampio e approfondito: Édouard Manet. Étude biographique et critique, sulla «Revue du XIXe siècle» nel gennaio 1867 e in opuscolo nello stesso anno, poi aggiunto a Mon Salon nella riedizione del 1879. Intanto incomincia a frequentare il caffè Guerbois, sull’attuale avenue de Clichy, dove si riunivano i pittori delle Batignolles, quelli che saranno poi detti impressionisti. La sua importanza come critico è direttamente dimostrata in vari dipinti: Zola è ritratto da Manet (1867-68), spicca tra Monet e Renoir nel gruppo dei fedeli del Guerbois che rendono idealmente omaggio a Manet in Un ate-

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lier aux Batignolles (1870) di Fantin-Latour e compare in L’atelier de Bazille rue de la Condamine (1870) dello stesso Bazille (il più sfortunato di questi pittori, caduto ventinovenne nella guerra contro la Prussia: Zola vorrà ricordare la sua figura nel Félicien di Le rêve). Zola dimostra dunque di essere un valido critico d’arte, sapendo distinguere dalla massa dei mediocri quelli che noi sappiamo essere i grandi pittori, e d’altro canto tra la sua opera e la pittura contemporanea riscontriamo solide analogie nel modo in cui viene osservato il vero o addirittura nei temi scelti (l’incisivo L’absinthe di Degas è coetaneo dell’Assommoir). È però opportuno ricordare che egli prende in seguito una certa distanza dalla nuova pittura, quando arriva a vedervi un’esecuzione troppo veloce, dando un giudizio limitativo anche sul sommo Claude Monet, il cui occhio era invece simile in modo stupefacente a quello dello stesso Maestro dei Rougon-Macquart. Alla fine dell’Ottocento, Zola indicherà i veri maestri in Courbet e, ancor più, Manet; e riterrà Cézanne – il suo amico degli anni in cui l’amicizia ha un’importanza speciale, il precursore che insegna tanto alla pittura del Novecento – un pittore potenzialmente grande che però ha fallito non sapendo esprimersi. Ancora su «L’Événement» nel 1866 Zola pubblica alcuni ritratti letterari e, a puntate, il romanzo Le voeu d’une morte, edito in volume lo stesso anno. Il romanzo nasce come mezzo fallimento: l’opera doveva essere più vasta, ma, siccome il feuilleton non incontra il gradimento dei lettori, la seconda parte non viene scritta; per arrivare a un volume con un numero adeguato di pagine è necessario aggiungere quattro novelle battezzate Esquisses parisiennes. Ben più importante in dicembre la pubblicazione su «Le Figaro» del racconto Un mariage d’amour, poi sviluppato nel romanzo del 1867, pubblicato con lo stesso titolo in tre parti su «L’Artiste» e con il titolo Thérèse Raquin in volume. Insieme a Thérèse Raquin Zola ha scritto anche Les mystères de Marseille, edito tra il 1867 e il 1868 su «Le Messager de Provence» di Aix e in tre tomi presso una stamperia di Marsiglia (riproposto poi nella «Bibliothèque Charpentier» in nuova edizione ampiamente riveduta nel 1884). Costruito secondo i meccanismi propri del feuilleton più andante, il romanzo non è stato redatto con quella noncuranza che le distanze prese in seguito farebbero pensare. Zola infatti cerca di promuoverlo a Marsiglia metten-

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done in scena nel 1867 un adattamento preparato insieme all’amico Roux, con un fiasco totale, forse anche perché la rappresentazione durava quattro ore e mezzo. Lo scopo principale con cui è stato scritto Les mystères de Marseille è ad ogni modo quello di guadagnare qualcosa: «L’Événement» infatti ha chiuso e le collaborazioni scarseggiano, il 1867 è un anno durissimo. E Zola ora non è più solo, ma vive con Alexandrine Meley, poi sposata nel 1870, e con la madre, che resterà con loro per diversi anni. In questa cronologia dell’opera non è possibile dedicare spazio alla stimabile figura di Alexandrine se non ricordando che – donna di umili origini, gioventù non cristallina e scarsa istruzione – grazie al profondo amore per lui seppe capire bene il marito e costruirgli in casa il clima ideale per il suo lavoro.

1.3 Inizio dei Rougon-Macquart Thérèse Raquin riscuote un discreto successo, giungendo nell’aprile 1868 alla seconda edizione, aperta da un’importante prefazione dell’Autore per rispondere alle accuse di immoralità. Sia la prefazione sia lo stesso successo sono in buona misura dovuti a un attacco che è stato una vera manna per Zola, procurandogli la migliore pubblicità che egli potesse desiderare: l’articolo di Louis Ulbach dal titolo ineffabile La littérature putride, pubblicato su «Le Figaro» del 23 gennaio. Per battere il ferro finché è caldo, nello stesso 1868 Zola pubblica un nuovo romanzo, altrettanto scandaloso agli occhi dei benpensanti – e infatti la censura imperiale si mette sul chi va là –, ricavato dal dramma non rappresentato Madeleine: compare come La honte a puntate su «L’Événement Illustré» e in volume, con titolo più consono alla poetica naturalista ma molto meno bello, come Madeleine Férat, dedicato a Manet. Sul versante del giornalismo, collabora allo stesso «Événement Illustré» in veste di critico d’arte, con un nuovo «Salon» in cui tra l’altro riconosce subito la valentìa di Pissarro; e a «La Tribune», giornale di opposizione all’Impero. Spesso è trascurato questo impegno politico di Zola, ora attestato su posizioni decisamente repubblicane, impegno che richiama su di lui l’at-

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tenzione della polizia. Nell’agosto 1870, per gli articoli su «La Cloche» sarà tenuto a presentarsi in tribunale sotto l’accusa non lieve di incitamento alla disobbedienza e all’odio contro il governo; lo salverà la proclamazione dello stato d’assedio. (Gli interventi troppo acri del giornalista politico creeranno però problemi anche nella Terza Repubblica: a causa di un suo articolo, nel dicembre 1872 «Le Corsaire» verrà condannato a sospendere le pubblicazioni per due mesi). Continua intanto l’attività del critico letterario, con articoli che portano Zola anche a stringere importanti amicizie. Alla fine del 1868 va per la prima volta in visita dai fratelli Goncourt, dei quali nel 1865 ha recensito con entusiasmo Germinie Lacerteux. Jules de Goncourt muore di lì a poco, nel 1870, mentre Edmond, che vive fino al 1896, presto surclassato da quello che doveva essere un allievo e che si dimostra invece di una bravura incommensurabilmente superiore, si roderà nell’invidia e nell’astio per Zola, sfogando il malanimo in pagine velenose del Journal. Ancora nel 1895, invece, Zola dichiarerà cavallerescamente di considerare Goncourt un maestro e si adopererà perché riceva riconoscimenti ufficiali. In seguito alla recensione dell’Éducation sentimentale pubblicata su «La Tribune» nel novembre 1869, alla fine di quell’anno o all’inizio del 1870 comincia la conoscenza, presto amicizia, con Gustave Flaubert: un’intesa fondata su autentica stima professionale, al di là di qualche occasionale motivo di disaccordo. Flaubert sarà uno dei modelli di Zola, il quale nel decennale della sua morte affermerà che per lui l’autore di Madame Bovary è stato «il culto stesso della letteratura»; d’altra parte Zola avrà in Flaubert, da La fortune des Rougon fino a Nana, un lettore attento e partecipe, spesso entusiasta. Un’altra conoscenza fondamentale data all’autunno del 1869: Antony Valabrègue, critico d’arte e modesto poeta, nativo di Aix, presenta a Zola un giovane scrittore concittadino (a Aix intorno al 1840 è nata una quantità percentualmente elevatissima di letterati e artisti), Paul Alexis, che fino alla morte avvenuta nel 1901 sarà il più fedele amico del Maestro. Alla fine del 1868 Zola ha progettato il ciclo Histoire d’une famille: è l’inizio degli immensi Rougon-Macquart. L’intento è di stringere un accordo con un editore per tutti e dieci – così all’epoca – i romanzi del ciclo, per avere la serenità economica necessaria all’impresa. Il primo contratto è stipulato nell’aprile 1869 con Lacroix (presso

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il quale sono usciti anche Thérèse Raquin e Madeleine Férat): contratto dalle complesse e capziose condizioni, per le quali, in seguito al fallimento dell’editore all’inizio del 1872, Zola si trova fortemente indebitato nei suoi confronti. Da Lacroix escono i primi due romanzi dei Rougon-Macquart, le cui vicende si incrociano con la tragica fine del Secondo Impero. La pubblicazione di La fortune des Rougon a puntate è avviata su «Le Siècle» nel giugno 1870, ma è interrotta in agosto perché le notizie della guerra richiedono tutto lo spazio disponibile sul giornale. Subito dopo Sedan, il Maestro lascia Parigi per Marsiglia con moglie e madre, portando con sé l’inizio del nuovo romanzo, La curée, ma incredibilmente lasciando nella sua villetta delle Batignolles le carte preparatorie del ciclo. Andrà bene: la villetta non sarà colpita dalle bombe e il suo contenuto verrà rispettato dai rifugiati che l’hanno occupata. A Marsiglia Zola tenta l’impresa di un giornale popolare, in società con Roux e con lo stampatore dei Mystères de Marseille; dopo essere stato anche segretario di un membro del governo di Difesa Nazionale, rientra a Parigi a metà del marzo 1871, subito prima dell’inizio della Comune, quando l’Assemblea Nazionale si sposta da Bordeaux a Versailles. «Le Siècle» conclude affrettatamente in questo mese la pubblicazione di La fortune des Rougon, ma certo non è il momento per pensare all’edizione in volume. Cronista parlamentare per «La Cloche» e per «Le Sémaphore de Marseille» (giornale al quale collaborerà, con articoli di attualità parigina, fino al 1877), Zola affronta difficoltà e pericoli per recarsi a Versailles a seguire le sedute dell’Assemblea. «La Cloche», giudicata pubblicazione ostile, è soppressa dalla Comune alla metà di aprile; nonostante Parigi sia chiusa dall’assedio, Zola riesce ancora – si ignora come – a far avere al giornale di Marsiglia i suoi articoli sulla situazione nella capitale. Nel periodo più spaventoso, rischiando di essere arrestato dagli stessi comunardi, si rifugia infine nella piccola Bennecourt sulla Senna, località scoperta da lui e Cézanne e frequentata con amici artisti in tempi sereni (uno di quei piccoli paradisi terrestri che abbiamo perduto, come ben dimostrano le pagine di L’œuvre lì ambientate). Subito dopo l’orrida semaine sanglante rientra nella capitale devastata, riprendendo il lavoro di giornalista. In settembre «La Cloche» dà inizio alla pubblicazione a puntate di La curée, interrotta poco dopo in seguito a reazioni scandalizzate

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dei lettori e al conseguente suggerimento del procuratore di evitare guai con la censura. Il buffo è che, al punto in cui è giunto il feuilleton, non sono ancora incominciate le parti scabrose. Curée è il vorace pasto dei cani da caccia che si gettano insieme sulle interiora della preda (una scena del genere davanti alla corte dell’imperatore si trova in Son Excellence Eugène Rougon); in senso figurato il termine indica l’avida corsa al guadagno e agli onori, e così Zola giornalista l’ha adoperato in uno di quegli articoli su «La Cloche» che stavano per costargli un processo. Porta questo titolo il primo grande capolavoro del ciclo, da ammirare come atto di accusa contro le sfrenatezze dell’epoca di Napoleone III e da meditare in riferimento alle tradizionali divisioni della letteratura in periodi: nelle pagine erotiche di Renée e Maxime in una pazzesca serra pregna di sensualità, pagine culminanti nella metamorfosi vegetale della figura femminile, il Decadentismo sembra già incominciato, in forte anticipo, all’interno di quel Naturalismo positivista al quale è invece contrapposto dalle storie letterarie.

1.4 Il Maestro Nel 1872 l’impresa ricomincia. Fallito Lacroix poco dopo la prima edizione di La fortune des Rougon (ottobre 1871) e La curée (gennaio 1872), il Maestro passa infatti a quello che sarà il suo vero editore, Georges Charpentier. Questi si impegna a dare alle stampe tutto il ciclo: Les Rougon-Macquart. Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire, garantendo per contratto un fisso di anticipo sui diritti d’autore in cambio di due romanzi all’anno; l’impegno in questi termini in realtà non è mai stato rispettato e sarà rivisto qualche anno dopo, quando verrà stabilita una notevole percentuale sulle vendite. Charpentier, in seguito buon amico di Zola, pubblicherà tutti i Rougon-Macquart; gli ultimi due escono come «Charpentier & Fasquelle», essendosi nel frattempo associato Eugène Fasquelle (a sua volta nuovo amico di Zola), al quale Charpentier cederà la casa editrice, cosicché Fasquelle da solo sarà l’editore di Paris e degli Évangiles. Zola può pertanto ritoccare i primi due

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romanzi e riproporli nello stesso 1872, mentre è già in fase avanzata il lavoro per il terzo e sta per essere messo in cantiere il quarto: rispettivamente Le ventre de Paris, edito nell’aprile 1873 (dopo una pubblicazione a puntate sul modesto «L’État»), che è già il secondo capolavoro, grazie all’eccezionale capacità dell’Autore di raccogliere e utilizzare la documentazione dal vero per descrivere le Halles; e La conquête de Plassans del maggio 1874 (il feuilleton appare su «Le Siècle»). Il ritmo è subito preso: i Rougon-Macquart si susseguiranno al ritmo di uno all’anno fino al 1893, con l’eccezione degli anni 1879, 1881 e 1889, tutti preceduti da una pubblicazione a puntate su giornale o, in qualche caso, su rivista. La costruzione artisticoeditoriale della serie dei Rougon-Macquart non esclude intanto altre pubblicazioni. Così, subito prima di La conquête de Plassans, nel 1874 escono i Nouveaux contes à Ninon: piuttosto raccogliticci e con bozzetti di scarso valore, rispetto all’ambiguità dei primi Contes attestano la scelta operata a favore dei temi realistici. Nella dedica Zola infatti si rivolge ancora a Ninon nello stesso stile di dieci anni prima, per congedarsi – con affetto e nostalgia – da lei che rappresenta l’ideale. Il suo però non è un addio definitivo, ma un arrivederci: un giorno, chi sa quando, si rivedranno presso una certa siepe di biancospino che entrambi hanno ben presente. Il gran cuore romantico di Zola prevede un futuro ritorno all’ideale; e prevede bene. Sarà, dopo quello sentimentale della gioventù, l’ideale scientifico e umanitario degli ultimi romanzi. Zola all’epoca non è ancora uno scrittore affermato, anche se la sua situazione economica è molto migliorata. Siccome la popolarità più vasta e veloce da conseguire poteva essere offerta dal teatro, questo è un motivo per cui il Maestro ha fatto ripetuti tentativi come autore per le scene, senza arrendersi davanti a netti insuccessi. È un motivo, ma non l’unico: il teatro è per lui un’aspirazione inseguita, in una forma o nell’altra, per tutta la vita. Tra il 1873 e il 1878 vanno in scena un dramma e due commedie di Zola, la cui pubblicazione viene raccolta nel volume Théâtre del 1878: Thérèse Raquin, Les héritiers Rabourdin, Le bouton de rose. La Thérèse teatrale segue le vicende del romanzo, ma l’aspetto psicologico va inevitabilmente perduto; l’ambiziosa «tragedia moderna» riscuoterà un certo successo solo alla fine del secolo. Les héritiers Rabourdin esprimono

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un’altra ambizione: proporre in chiave moderna e naturalista un teatro alla Molière. Non è materia per un sommo romanziere; e infatti dopo la bocciatura della critica seguono poche rappresentazioni. Con Le bouton de rose Zola, ispirandosi a un racconto di Balzac, tenta addirittura la pochade. Questa volta è proprio un disastro, con fischi alla prima e critiche feroci; e Zola lascia il teatro per alcuni anni. Il fallimento teatrale porta però anche una conseguenza positiva: la nascita del gruppo degli «Auteurs sifflés», che tra il 1874 e il 1876 raccoglie con lui Flaubert, Goncourt, Daudet e Turgenev, tutti accomunati dall’essere stati fischiati come drammaturghi. Il sodalizio si basa su cene istituzionali, così come l’altro cui partecipa Zola tra il 1874 e il 1879, il «Bœuf nature», che in un primo tempo raggruppa gli amici di Aix: Alexis, Coste, Solari, Roux, Valabrègue; poi, quando il Maestro è ufficialmente divenuto tale con L’Assommoir, accoglie anche i suoi giovani discepoli Joris-Karl Huysmans, Henry Céard e Léon Hennique, oltre a Guy de Maupassant, che Flaubert ha presentato a Zola intorno al 1874 (Zola, Flaubert e Maupassant insieme: immaginarli è già un’emozione). Per completare il quadro, annotiamo che Alexis e i giovani Huysmans, Céard e Hennique costituiscono con Zola il gruppo dei Cinque e, con l’aggiunta di Maupassant, quello di Médan e delle Soirées del 1880; e che tutti questi scrittori frequentano le tradizionali riunioni del giovedì sera a casa di Zola – il quale, a dispetto di una certa ansia nevrotica che gli faceva temere di non arrivare a concludere i suoi lavori, trovava tempo per tutto. Nel 1875, grazie alla conoscenza di Turgenev, incomincia con le «Lettres de Paris» la collaborazione a «Le Messager de l’Europe» di San Pietroburgo, che subito pubblica a puntate La faute de l’abbé Mouret prima dell’uscita in volume, avvenuta a marzo. Questo Rougon-Macquart, il più lontano dalla narrativa realista insieme a Le rêve, costa all’Autore maggior impegno nella documentazione rispetto ai precedenti, richiedendo una mole di letture religiose ed ecclesiastiche. Sembra che per prepararsi egli abbia persino assistito a qualche messa. Nell’estate dello stesso anno Zola lavora a Son Excellence Eugène Rougon, il meno valido di tutti i Rougon-Macquart, che sarà pubblicato nel febbraio 1876 (feuilleton su «Le Bien Public»); e abbozza La simple vie de Gervaise Macquart, titolo “alla Goncourt” lasciato poi cadere per L’Assommoir. Per stringere

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ulteriormente i tempi già serrati di ideazione-stesura-pubblicazione, d’ora in avanti il Maestro usa dare il via al feuilleton quando la stesura non è ancora ultimata, anzi in vari casi è parecchio arretrata: L’Assommoir esce per la prima metà tra aprile e giugno del 1876 su «Le Bien Public», di cui l’Autore è critico drammatico e letterario; sospesa dal giornale per le possibili conseguenze delle reazioni scandalizzate, la pubblicazione continua da luglio a giunge a termine nei primi giorni del 1877 sulla rivista «La République des Lettres»; nello stesso mese di gennaio esce il volume da Charpentier. È il successo, grande e presto enorme: trentotto edizioni nell’anno, altre dodici nel 1878; ulteriormente rilanciato dalla pubblicazione di Nana, raggiungerà tirature che nessun romanzo aveva fino ad allora toccato. Lo scandalo del pubblico dunque rientra, a differenza di quello di larga parte della critica, anche favorevole al realismo, la quale temeva che un romanzo del genere potesse nuocere alla stessa scuola che propugnava il vero in letteratura. Di fatto, la verità con cui sono resi personaggi e situazioni è al più alto livello cui l’arte possa giungere: tutta l’inventiva dell’Autore è nella rappresentazione del quotidiano. Il giudizio più bello e più appropriato è espresso da Mallarmé: «un’opera grandiosa e degna di un’epoca in cui la verità diventa la forma popolare della bellezza». Spesso si ripete che con L’Assommoir nasce ufficialmente il Naturalismo come scuola – di «scrittori naturalisti» Zola parla già al tempo di Thérèse Raquin –, nell’occasione di una cena dell’aprile 1877 alla quale presero parte Zola, Flaubert, Goncourt e «l’editore del Naturalismo» Charpentier insieme ad Alexis, ai giovani dei Cinque e a Maupassant. In questi termini in realtà la cena fu presentata da «La République des Lettres», con un’interpretazione che né Zola né Flaubert le diedero. Goncourt invece volle credere alla fondazione ufficiale di una scuola letteraria, ma solo perché, pateticamente, era convinto di esserne a capo. Il vero Maestro, che non ha mai riposato sugli allori, già nel gennaio del 1877 incomincia a raccogliere il materiale per il successivo Rougon-Macquart, Une page d’amour, che, dopo le puntate su «Le Bien Public», sarà proposto ai lettori nell’aprile del 1878. Di argomento e ambiente ben differenti dalla storia di Gervaise, secondo il principio della variazione o del contrasto di un romanzo rispetto al precedente, Une page d’amour sembra a prima vista una storia

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sentimentale per lettrici, mentre invece è una bruciante narrazione sul richiamo del desiderio sessuale. E difatti Flaubert, i cui giudizi su Zola sono quasi sempre perfetti, gli scrisse di aver provato durante la lettura un’inquietudine dei sensi tale che non avrebbe mai dato quel romanzo a una figlia. Une page d’amour contiene il primo albero genealogico dei Rougon-Macquart, che sarà completato per il romanzo conclusivo della serie. Nell’agosto seguente il Maestro incomincia a scrivere Nana, la cui stesura si protrarrà, con intervalli, fino ai primi giorni del 1880. In una lettera a Céard annuncia un libro «divertente e terribile»; ha raccolto un ampio dossier sulle mantenute e sull’ambiente del teatro di varietà, ma niente di frivolo rimarrà nella meravigliosa rappresentazione del Secondo Impero, insieme realistica – del realismo “esagerato” di Zola – e simbolica. Gran parte di questa vetta della narrativa ottocentesca e delle opere successive è stata scritta a Médan, a una quarantina di chilometri da Parigi, nella casa di campagna (attuale sede del museo «Maison d’Émile Zola») acquistata con i proventi dell’Assommoir, in cui il Maestro trascorre vari mesi ogni anno. Di romanzo in romanzo, la proprietà si estende e la casa si amplia: vengono aggiunti la «torre Nanà», dove è sistemato lo studio – al quale nessun altro può accedere – con il monumentale camino che porta il motto Nulla dies sine linea; il «padiglione Charpentier» per ospitare gli amici; la «torre Germinal», in cui è arredata – per tacere dell’arredamento del resto della casa – una spettacolare sala da biliardo. Zola che lavora a Nana durante un inverno nevoso e rigido, isolato a Médan (con moglie e adeguato personale di servizio che provvedono a ogni necessità pratica), è per uno scrittore l’immagine della più pura felicità. Preceduto dal feuilleton su «Le Voltaire» dall’ottobre del 1879, Nana esce in volume nel febbraio 1880, rapidamente seguito da traduzioni all’estero. Il successo è trionfale. A metà del mese, casualmente nello stesso giorno, Flaubert e Huysmans esprimono entrambi al Maestro il proprio entusiasmo; Flaubert inoltre scrivendo a Charpentier definisce Zola «uomo di genio». Eppure per Nana e per il Naturalismo Zola deve affrontare uno scontro durissimo con la critica a lui ostile. Gli articoli di questo periodo costituiscono la parte più rilevante delle sei raccolte di interventi critici ordinate e pubblicate nel 1880 (la prima), 1881 (le seguenti quattro) e 1882 (l’ultima): Le

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roman expérimental, che prende il titolo dal suo saggio principale, apparso su «Le Voltaire» contemporaneamente all’inizio di Nana; Le Naturalisme au théâtre, per propugnare nella messinscena teatrale lo stesso rivoluzionario ingresso della realtà che è avvenuto in letteratura; Nos auteurs dramatiques, a favore di un teatro naturalista al quale bisogna ancora dar vita; Les romanciers naturalistes, che raccoglie studi su Balzac, Stendhal, Flaubert, sui Goncourt e su Daudet, più una panoramica decisamente dura verso molti contemporanei; Documents littéraires, appendice al precedente: qui Zola presta una certa attenzione alla poesia degli ultimi anni, per la quale, lui che da giovanissimo era un cultore di poesia romantica, non ha mai avuto vivo interesse (neanche per Verlaine e Mallarmé, sui quali pure si è espresso favorevolmente; e come critico non ha colto la somma grandezza di Baudelaire); e infine Une campagne, con gli interventi letterari e politici comparsi su «Le Figaro», al quale collabora un anno, tra il 1880 e il 1881. La fine di questa collaborazione, nel settembre 1881, costituisce una data importante: Zola si congeda dal giornalismo in genere, volendo dedicarsi interamente alla narrativa. Ancora nel 1880, due mesi dopo Nana, viene pubblicato Les soirées de Médan, che raccoglie sei racconti della “scuola naturalista” aventi per tema la guerra del 1870: con L’attaque du moulin dello stesso Zola, i testi dei “discepoli” Maupassant, Huysmans, Céard, Hennique, Alexis. L’idea è stata di Zola, che molto concretamente ha constatato essere già pronta la metà dei racconti necessari (Maupassant si incarica poi di costruire un’origine più suggestiva per il volume). L’attaque du moulin, già pubblicato nel 1877 su «Le Messager de l’Europe», è certo di buon livello, ma non di più; è anche svantaggiato dal fatto di essere seguito dallo strepitoso Boule de suif di Maupassant. Il gruppo di Médan non rimarrà a lungo compatto. Per primo se ne staccherà Maupassant, che d’altronde non ha mai creduto gran che al Naturalismo, forte del suo innato e personalissimo talento; poi Huysmans, che nel 1884 pubblicando À rebours mostrerà di aver imboccato un’altra strada. Solo Alexis rimarrà fedele al Naturalismo – e soprattutto, da vero amico, rimarrà fedele a Zola. La stesura di Nana si è protratta tanto perché Zola è stato assorbito dalla riduzione dell’Assommoir per le scene, cui ha lavorato intensamente benché la sua firma non compaia con quella di William

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Busnach e Octave Gastineau. L’Assommoir a teatro è un successo: più di duecento rappresentazioni nel 1879. I suoi personaggi e il termine «Naturalismo» divengono popolari anche tra coloro che non leggono romanzi, come dimostrano sui giornali del tempo le numerose caricature – in genere poco spiritose – di Zola. La vicenda nella versione teatrale ci può sconcertare: Virginie per vendetta su Gervaise provoca la caduta di Coupeau; il marito di Virginie uccide lei e il suo amante Lantier; Gervaise muore tra le braccia di Goujet, rivelandogli il suo amore. Sembra una parodia del romanzo, ma è questo il prezzo da pagare: Zola, che non ha la stoffa dell’autore teatrale di successo, si è appoggiato alla collaborazione di un professionista delle scene come Busnach, scaltro nell’adattare i romanzi secondo lo stile più apprezzato dal pubblico, quello melodrammatico. All’Assommoir seguiranno, sempre frutto di collaborazione ma a firma del solo Busnach, le riduzioni teatrali di Nana (1881), Pot-bouille (1883), Le ventre de Paris (1887), massacrato ancor peggio dell’Assommoir, Germinal (1888); non arriva in scena una progettata riduzione della Bête humaine. Incoraggiato dal buon esito, in questi anni il Maestro riprova anche per conto proprio con due drammi: Renée, tratto da La curée nel 1880 e andato in scena solo nel 1887; e Madeleine, una ripresa del testo risalente ancora al 1865, che nel 1889 dà finalmente una certa soddisfazione a Zola, premiandolo per la sua perseveranza. Il 1880 dunque, con Nana e quanto gira intorno al Naturalismo, è per il Maestro un anno di eccezionale importanza. Ma è per lui anche un anno di dolorosi lutti. Dopo l’amico Edmond Duranty, sfortunato romanziere, muore Flaubert, con una fine improvvisa che traumatizza Zola; e muore la madre, alla quale lo scrittore, nonostante certe difficoltà della convivenza, era profondamente legato. Prostrato da questi lutti, il Maestro saggiamente rinvia l’idea del «romanzo sul dolore» che ha progettato (e che sarà poi La joie de vivre), per non segnarlo con il proprio stato d’animo; e per reazione si dedica al brioso Pot-bouille. In questo periodo comunque peggiora il disturbo delle ossessioni, i cui inizi risalgono a parecchi anni prima, facendosi sentire soprattutto il pensiero angoscioso della morte. Leggendo il finale degli ultimi romanzi di tanti anni dopo, Fécondité e ancor più Travail, dove la morte per il protagonista è uno spegnersi privo di

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sofferenza nella più assoluta serenità nonostante la consapevolezza che alla morte segua il nulla, ci si chiede se Zola – a ridosso della sua stessa morte imprevedibile – abbia raggiunto la tranquillità interiore o se in questo modo stesse tentando di esorcizzare l’angoscia residua che la ragione da sola non riusciva a spegnere.

1.5 Una serie di capolavori Nell’aprile del 1882 esce il decimo romanzo, Pot-bouille, e il ciclo dei Rougon-Macquart arriva così a metà. L’Autore non è disturbato più di tanto, durante la pubblicazione a puntate su «Le Gaulois», dalla causa intentata da un avvocato che si sente leso nella propria onorabilità perché un personaggio si chiama come lui e abita nella sua stessa zona. È un’altra prova della popolarità dell’opera, anche se in effetti la borghesia ha di che stizzirsi per questo libro «férocement gai», satira di vivacità eccezionale, frizzante di acre umorismo. Privo di una vera trama, eppure forte di una compattezza irreprensibile, il romanzo prende il titolo non dal senso proprio di pot-bouille come «cucina di tutti i giorni», ma da quello figurato dell’espressione faire sa petite pot-bouille, che indica la cura dedicata ai propri piccoli affari, con l’egoistica e un po’ meschina mira al personale interesse. Quando Pot-bouille esce in volume, il Maestro ha già raccolto gran parte della documentazione per il successivo Au Bonheur des Dames, esaminando per il suo immaginario grande magazzino i modelli reali del «Bon Marché», del «Louvre» e del «Place Clichy»; per la prospettiva storica, studia poi attraverso cataloghi e registri lo sviluppo del «Bon Marché» al tempo del Secondo Impero. Il risultato è finissimo, di eccezionale delicatezza – e proprio per questo può non conquistare subito come altri romanzi. Sotto l’aspetto tecnico va ammirata la formidabile orchestrazione di personaggi appartenenti a differenti ranghi sociali, in una coralità di voci molto diversa da quella dell’Assommoir. Au Bonheur des Dames esce in volume nel marzo 1883, dopo la pubblicazione a puntate su «Gil Blas», che pubblicherà il feuilleton anche dei quattro successivi Rougon-Macquart. Come l’anno precedente, al romanzo

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segue in autunno una raccolta di racconti. Nel 1882 è stata proposta quella intitolata Le capitaine Burle, dove si può ammirare un gioiello della narrazione breve: Pour une nuit d’amour, che, con le sue venature fantastiche, niente ha a che vedere con il Naturalismo. Nel 1883 è il turno di Naïs Micoulin (uscito con data 1884), che comprende il notevole racconto Nantas, oltre alla novella boccaccesca Les coquillages de M. Chabre. Il lavoro è sempre ininterrotto nonostante la raggiunta celebrità: non solo l’immensa opera dei Rougon-Macquart dev’essere portata a termine, ma i romanzi a venire devono anche essere all’altezza di quelli che costituiscono finora la grandezza dell’Autore. Quando nel febbraio del 1884 arriva in libreria La joie de vivre, il Maestro ha già cominciato a pensare al romanzo successivo, che dovrà essere il suo secondo del mondo operaio; non ha ancora le idee molto chiare, pensa a uno sciopero in una miniera, con un borghese sgozzato già nelle prime pagine. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo trascorre una settimana alle miniere di Anzin, vicino a Valenciennes, in un periodo di sciopero: visita tutti i locali, le abitazioni, parla con personale qualificato (i minatori usavano un proprio dialetto), scende sottoterra con un ingegnere seguendo lo stesso percorso dei lavoratori, affrontando con coraggio cunicoli del tutto simili a quelli nei quali in un suo antico incubo ricorrente si vedeva bloccato. La documentazione per Germinal comprenderà poi anche appunti sulla questione operaia e sul pensiero socialista, riguardo al quale le conoscenze di Zola erano però meno approfondite di quanto sovente si pensi: Marx, giustamente, non è mai stato da lui ritenuto degno di una lettura diretta. Beninteso, il punto di partenza – come l’ébauche ben dimostra – è la questione sociale, «la lotta del capitale e del lavoro»: questione che Zola prevede come «la più importante del Novecento». Ma questo punto di partenza non va confuso con il contenuto più profondo del grandioso capolavoro. Il minatore che lavora come un bruto, senza curarsi del mondo circostante, «a poco a poco diventa un uomo. Germinal»: appare così, nelle note iniziali, la parola che viene in mente da sola a Zola, «come un irrompere di luce solare che rischiara tutta l’opera» e ne costituirà il titolo. Un’illuminazione, dunque, nel romanzo del buio sotterraneo: forse sarebbe sufficiente già questo per escludere una lettura del tutto aderen-

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te a un impianto realistico e intuire come in Germinal la miniera acquisti un valore universale e ricco di valenze simboliche. La stesura di Germinal comincia nell’aprile 1884. In agosto, durante un soggiorno alle terme di Mont-Dore per certe cure della moglie, il Maestro prende appunti pensando a un prossimo romanzo, forse ancora umoristico come Pot-bouille, ambientato in una località del genere; il romanzo non sarà mai scritto perché Maupassant senza saperlo ruberà l’idea al Maestro con Mont-Oriol (1886), ma l’ispirazione sarà in parte utilizzata per Lourdes. Il feuilleton di Germinal è proposto da «Gil Blas» a partire dalla fine di novembre e continua fino al gennaio del 1885; in volume il capolavoro è in libreria a marzo di quell’anno. Sembra impossibile che un uomo, subito dopo un risultato come Germinal, possa creare qualcos’altro di grande. Invece, in aprile il Maestro ha già abbozzato L’œuvre. Per la prima volta, la preparazione di un Rougon-Macquart comporta per l’Autore l’immersione nel proprio passato, il ritorno alla Parigi degli anni dell’Impressionismo e delle sconfinate speranze di molti giovani artisti. Il giorno in cui conclude la stesura, 23 febbraio 1886, Zola scrive a Céard che in quel romanzo «i suoi ricordi e il suo cuore sono straripati». Come le origini del romanzo, è autobiografica anche una conseguenza. Risulta che Zola e Cézanne non si siano più rivisti dopo il soggiorno del pittore a Médan nell’estate del 1885 e pare indubitabile che la fine dell’antica amicizia sia legata alla pubblicazione – nel marzo 1886, dopo il feuilleton ancora su «Gil Blas» – del romanzo che ha per protagonista il pittore Claude. Questo è un personaggio immaginario, anche se in lui si ritrovano caratteristiche di vari pittori del tempo; con Cézanne ha in comune poco più dei ricordi estivi dell’adolescenza. Ma Cézanne, uomo sensibile e insieme ombroso, certo sofferente all’idea di dover restare – come all’epoca sembrava inevitabile – un artista incompreso e sconosciuto, dev’essere rimasto così profondamente ferito da quella storia di fantasia da chiudersi ulteriormente in sé e nel suo isolamento. Pare comunque che, quando sedici anni dopo gli è giunta la notizia della morte di Zola, Cézanne abbia pianto a lungo, chiuso nel suo studio, affranto per un dolore grande quanto grande era stata la loro amicizia. Torniamo ai Rougon-Macquart. Appena uscito L’œuvre, è incominciata la preparazione di La terre, che ha comportato un sog-

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giorno nella campagna della Beauce, d’estate (non c’è tempo di tornarvi in altre stagioni: per descriverla, l’immaginazione supplirà). I Rougon-Macquart prendono ora un’altra impostazione, poiché il clima letterario sta cambiando – nel 1886 escono le riviste «Le Décadent Littéraire et Artistique» e «Le Symboliste» – e Zola non è uno di quegli scrittori che, senza rendersi conto di questi mutamenti, rimangono sulle proprie posizioni. Repliche al nascente Decadentismo, che non ha ancora questo nome ma già si manifesta con un miscuglio di irrazionalismo e misticismo che al Maestro non piace, sono in modo differente sia La terre (novembre 1887, dopo il feuilleton su «Gil Blas») sia Le rêve (ottobre 1888, dopo la pubblicazione per singoli capitoli su «La Revue Illustrée»). Quest’ultimo lascia sorpresi per il suo aspetto – ingannevole – di delicata fiaba d’amore, tanto più perché il durissimo La terre ha provocato veementi reazioni. Anatole France, che solo in seguito si accosterà con passione all’opera di Zola, per La terre parla di «Georgiche della plebaglia»; altrettanto eccessiva, anche se di segno contrario, una critica su «L’Écho de Paris» per la quale il romanzo sarebbe il corrispondente dell’esiodeo Opere e giorni. La reazione più brutta sarà quella del «Manifesto dei Cinque» pubblicato su «Le Figaro»: presunte oscenità del romanzo vengono, in modo spregevole, addebitate a disfunzioni fisiche dell’Autore (qualcuna reale, non così l’inefficienza sessuale che gli viene volgarmente attribuita). I «Cinque», che niente hanno a che vedere con il gruppo raccolto anni prima intorno a Zola, sono giovani scrittorucoli i cui nomi non meritano di essere menzionati – benché quattro di loro si siano poi pentiti e abbiano onorevolmente chiesto scusa –, ma la regia dello squallido «Manifesto» pare da attribuirsi all’accoppiata Daudet-Goncourt, il primo forse convinto che si trattasse di uno scherzo, il secondo mosso da profonda invidia. Nelle Notes d’un ami (1882) di Paul Alexis stride una battuta di Zola sulla sua fedeltà coniugale: impensabile avere un’amante, perché questa sottrarrebbe tempo al lavoro. L’affermazione scherzosa sarà smentita dalla doppia vita che egli conduce da quando, alla fine del 1888, si impegna nella relazione con la ventunenne Jeanne Rozerot, che in quell’anno è stata cameriera della signora Zola e che renderà lo scrittore due volte padre felice e affettuoso – di Denise

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nel 1889 e di Jacques nel 1891 – prima che Alexandrine scopra la famiglia segreta di suo marito. È stupefacente come neppure l’amante con l’età di una figlia, la doppia paternità clandestina e gli sconquassi domestici seguiti alla scoperta da parte di Alexandrine (che poi, con dolore e amore, accetterà la situazione e arriverà ad affezionarsi ai bambini del marito) abbiano rallentato i ritmi di lavoro del Maestro. Nei suoi due studi, quello nello sfarzoso appartamento al 21bis di rue de Bruxelles, dove si è trasferito nel 1889 dalla precedente abitazione nei paraggi, e quello nella torre della casa di Médan, la costruzione del ciclo dei Rougon-Macquart entra nell’ultima fase. La scrittura è sempre preceduta da documentazione raccolta sul campo, senza fermarsi davanti alle situazioni più difficili: nel 1889 per La bête humaine Zola percorre il tragitto da Parigi a Mantes su una locomotiva, studiando il lavoro di macchinista e fuochista. In una lettera a Céard dello stesso giorno in cui ha steso le prime righe della nuova opera, il Maestro afferma poi che per finire il lavoro non gli resta altro che scrivere altrettante pagine, ogni giorno, per i successivi sei-sette mesi. Gli occorrerà qualche settimana in più, ma, dopo il feuilleton – come di consueto incominciato mentre la stesura è ancora in corso – su «La Vie Populaire», La bête humaine sarà in libreria nel marzo 1890. Il romanzo dei treni e dell’impulso omicida, un picco dei Rougon-Macquart, presenta l’intreccio più ricco e avvincente di tutto il ciclo. Sono confluiti nell’originale figura di Jacques Lantier i contributi di più fonti di ispirazione, tutte vicine nel tempo: la lettura di Delitto e castigo, tradotto in francese nel 1885; il dibattito su L’uomo delinquente di Cesare Lombroso, tradotto nel 1887, per quanto nel dossier di preparazione non compaiano appunti sull’opera del grande scienziato; i recentissimi fatti londinesi di Jack lo Sventratore. Un anno dopo, nel marzo 1891, arriva L’argent, anticipato su «Gil Blas»: l’affresco più articolato e ricco della Parigi del Secondo Impero (anche se si ispira a un avvenimento posteriore, il fallimento della banca «Union Générale» nel 1882). Il risultato è sempre eminente; nell’inizio però la costruzione è meno robusta delle precedenti, cominciando già a presentare la tendenza a quel soffocante sovraffollamento di personaggi che segnerà le opere successive ai Rougon-Macquart. Nel giugno 1892, prima che si giunga all’ultima puntata su «La Vie Populaire», esce in volume La débâcle,

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diciannovesimo e penultimo titolo del ciclo. Epopea di vasto respiro sulla guerra del 1870 – la seconda delle tre parti è per intero dedicata alla battaglia di Sedan – e sulla tragica appendice della Comune, il romanzo batte subito i record precedenti di copie vendute e sarà per vari anni il più richiesto dei Rougon-Macquart, con un numero particolarmente alto di traduzioni. A fronte della celebrità mondiale, la situazione resta ambigua e non pienamente soddisfacente per le ambizioni di Zola solo per quanto riguarda i riconoscimenti solenni in patria. Il Maestro è cavaliere della Legion d’Onore dal 1888 e ne sarà ufficiale dal 1893; per alcuni degli anni Novanta presiede la Société des Gens de Lettres (impegnandosi per una convenzione internazionale sui diritti d’autore); ma i suoi tentativi di essere ammesso all’Académie Française, con ben diciannove candidature tra il 1889 e il 1898, non sortiranno mai l’esito sperato. Le cause del fermo rifiuto degli accademici vanno individuate nei brucianti giudizi del critico Zola su tanti letterati contemporanei, ma anche nello sconfinato successo del romanziere forse giudicato troppo “popolare” e certo troppo invidiato.

1.6 Il maître à penser librettista Alla serie dei Rougon-Macquart seguirà a ruota la trilogia delle Trois villes, Lourdes (1894), Rome (1896) e Paris (1898), a sua volta seguita dall’incompleta tetralogia dei Quatre Évangiles: Fécondité (1899), Travail (1901) e Vérité (postumo, 1903), ai quali la morte impedì al Maestro di aggiungere Justice. Anche queste opere, per quanto inadatte a noi possano sembrare, sono state anticipate a puntate: il «Gil Blas» ha pubblicato Lourdes, «Le Journal» le due Villes seguenti, «L’Aurore» gli Évangiles. Trilogia e tetralogia insieme costituiscono un non dichiarato «ciclo dei Froment», il cui legame esteriore è dato ancora dall’appartenenza dei personaggi alla medesima famiglia: il padre Pierre Froment è il protagonista delle Trois villes e i suoi quattro figli, distribuiti uno per romanzo con confini così definiti che i fratelli non si incontrano mai, animano gli Évangiles. I risultati dei Rougon-Macquart sembrano già lontanissimi da

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queste narrazioni grevi, che ai nostri occhi presentano tutti i limiti delle opere a tesi. Eppure, Zola è passato senza soluzione di continuità dalla chiusura dei Rougon-Macquart all’inizio delle Trois villes. Ha deciso il romanzo di Lourdes già nel 1891, durante la stesura dell’Argent, per l’impressione provata nel vedere la cittadina dei miracoli, e nel 1892 ha raccolto sul posto la documentazione relativa subito prima di proseguire per Aix-en-Provence a rivedere “Plassans” per Le docteur Pascal, ventesimo e ultimo titolo del monumentum aere perennius. Ma, al di là di queste sovrapposizioni, il nesso più forte è costituito dal nuovo ideale della scienza e dal contrasto che Zola avverte tra questa e la rinascita mistico-spiritualista della fine del secolo: centinaia di pagine dei suoi ultimi romanzi sono motivate dalla convinzione che la partita per l’avvenire dell’umanità si giocherà in uno scontro tra la scienza, fonte di progresso e quindi di benessere, e l’oscurantismo del cattolicesimo reazionario. Questo tema forte della scienza, “ponte” verso le opere successive, non è però l’unico del complesso Docteur Pascal. Qui si effonde il «grande amore per la vita» che coincide con quelli per la scienza e per il valore del lavoro; si riepiloga l’intero ciclo, con i curiosi effetti di un romanzo che riassume una serie di romanzi e ne chiama in scena alcuni protagonisti; emergono inoltre in controluce certi aspetti autobiografici – purtroppo non convincenti come quelli inseriti in L’œuvre o La joie de vivre – in riferimento all’amore tra il maturo Zola e la giovane Jeanne. Al termine della pubblicazione a puntate su «La Revue Hebdomadaire», Le docteur Pascal è edito in volume nel giugno 1893, con allegato l’albero genealogico definitivo dei Rougon-Macquart. Il pranzo offerto a duecento invitati da Charpentier e Fasquelle, il 21 giugno, al Bois de Boulogne festeggia la conclusione di una irripetibile impresa letteraria incominciata più di vent’anni prima. Dopo l’estate, il Maestro avrebbe iniziato la stesura di Lourdes. Datano al biennio 1893-94 la nascita di due grandi nuove passioni di Zola e il ritorno, sotto nuova forma, di un’altra che l’ha accompagnato per tutta la vita. Le prime due sono la bicicletta, divertimento e mezzo utile in campagna, e la fotografia, che invece per Zola non è affatto un passatempo, bensì una manifestazione artistica in cui, senza fini professionali, egli dimostra talento, abilità tecniche e, in altra forma rispetto alla pagina scritta, un’eccezionale capacità di vedere la

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realtà. Ritorna poi l’aspirazione a proporsi sulle scene, per la quale Zola individua un’altra strada: quella di autore di libretti d’opera, forte della collaborazione con il musicista e amico Alfred Bruneau. Il Maestro ha conosciuto Bruneau nel 1888, quando è stata concordata una riduzione di Le rêve a dramma lirico; ha poi seguito la redazione del libretto di Louis Gallet ed è stato soddisfatto dell’opera, andata in scena con buoni riscontri nel 1891. Nel 1893 ha collaborato al testo, ancora firmato da Gallet, di un altro dramma lirico ricavato da una sua opera e musicato da Bruneau: L’attaque du moulin. Così, anche grazie alla frequentazione dell’Opéra e dell’Opéra-Comique in compagnia dell’amico compositore, Zola apprende i criteri tecnici per la stesura dei libretti. Alla fine del 1893 è pronto per scrivere a sua volta testi analoghi: il primo è Lazare, commedia lirica ispirata molto liberamente all’episodio evangelico, che Bruneau metterà però in musica solo dopo la morte di Zola. Del 1894 è il libretto per dramma lirico Messidor, con un soggetto che in parte sarà ripreso in Travail; l’opera è messa in scena tre anni dopo, con musica di Bruneau, e riscuote un successo più mondano che artistico. L’evento più importante del 1894 è l’uscita di Lourdes, ultimo strepitoso successo di vendite. La struttura, come sempre molto attenta, questa volta è stata tutta centrata su un criterio aritmeticogeometrico: cinque parti, ciascuna di cinque capitoli, corrispondenti alle giornate del pellegrinaggio nazionale, con una sezione dedicata alla vita di Bernadette in ogni quinto capitolo. La preparazione ha comportato un’inchiesta o indagine sul posto, grazie a un’autorizzazione speciale del responsabile ecclesiastico; ma, checché abbia affermato al proposito il Maestro, tale indagine è stata fortemente viziata dal pregiudizio con cui Zola, che aveva già in mente il piano dei suoi romanzi a tesi, è giunto a Lourdes. L’opera, come varie delle precedenti, provoca ancora una vivace polemica, ma di altro genere: questa volta si mobilita la stampa cattolica, con articoli e pamphlet. Un paio di mesi dopo l’uscita, Lourdes è inserito nell’Indice dei libri proibiti, come avverrà per il successivo Rome, e per buona misura viene messa all’Indice anche tutta l’opera zoliana precedente. La questione non turba Zola, che si dirà solo stupito delle settimane trascorse tra l’uscita del feroce Rome e il provvedimento ecclesiastico – provvedimento in effetti logico e consequenziale per gli ultimi

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due romanzi, dal momento che l’Indice era all’epoca ancora ben funzionante. Nell’ultima parte del 1894 Zola è in Italia, anche – e non soltanto – a Roma, per prepararsi alla seconda delle Villes. Nella capitale italiana riceve onori eccezionali, venendo ricevuto dal re e dal presidente del Consiglio Crispi, e accende grande attesa del romanzo. «La Tribuna» ottiene di poterne anticipare la traduzione in feuilleton, cominciando solo tre giorni dopo «Le Journal». Sarà un’amara delusione: il lettore di Rome, oggi come allora, incontrando certe descrizioni o certe improbabili figure di prelati, si chiede come Zola abbia potuto vedere una Roma siffatta. L’Autore in realtà stava procedendo secondo un ben preciso progetto: screditare Roma, città del passato, per preparare l’esaltazione di Parigi, città del futuro. Indubbiamente, al di là di certi pregevoli guizzi narrativi, il romanziere non è più all’altezza di un tempo, ma i nuovi tratti delle sue pagine sono in buona misura voluti e calibrati: negli ultimi anni Zola sceglie di proporre opere sempre meno “romanzesche” e sempre più consone al ruolo di maître à penser che ha assunto. Questa è ora la sua impostazione anche nel giornalismo, al quale egli torna nel 1895-96 su «Le Figaro», con articoli riguardanti vari argomenti di attualità (raccolti nel 1897 in Nouvelle campagne): spicca la condanna dell’antisemitismo di Pour les juifs, oltre a un articolo sui Saloni di pittura, a trent’anni da Mon Salon. Beninteso, si tratta di un maître à penser scevro di quella vanesia alterigia che segna gli esemplari d’oggigiorno. Basti pensare che nello stesso periodo si presta a un’indagine dello psichiatra Édouard Toulouse, il quale gli dedica tutta una sezione della sua Enquête medico-psychologique sur les rapports de la supériorité intellectuelle avec la névropathie (1896): l’emotività e le leggere nevrosi del Maestro, manifestate in forme compulsive e ossessive, sono da lui dichiarate senza il timore che possano apparire come debolezze. È arduo dire quanto l’Autore dei Rougon-Macquart avrebbe inciso sulla realtà a lui contemporanea se non ci fosse stato l’affaire Dreyfus o se lui ne fosse rimasto al di fuori. È anche curioso, ma indicativo del suo animo inguaribilmente romantico, il fatto che negli stessi anni dell’impegno civile Zola senta la necessità di allontanarsi dalle strettoie della realtà per respirare l’aria pura dell’utopia con gli Évangiles e, tra un romanzo e l’altro, quella della creazione artistica

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più libera con i testi delle opere liriche. Il libretto di L’ouragan, dramma ambientato in un’isola immaginaria dell’oceano, è del 1896, anche se i ritardi di Bruneau nella composizione della musica faranno sì che l’opera vada in scena solo nel 1901. Forse del 1896 è anche il libretto della fiaba Violaine la chevelue. L’enfant roi è stato terminato nel 1901 e sarà rappresentato solo postumo, con musica sempre di Bruneau. L’intreccio di questa commedia lirica è interessante. Una coppia di bravi panettieri parigini non ha figli; scoperto che la moglie ne ha però avuto uno prima del matrimonio, lui lo accetterà come figlio anche suo. Ci si domanda se l’Autore pensasse, scambiando i ruoli tra marito e moglie, alla propria vicenda con Jeanne o, come pare più probabile, pensasse a quella della moglie Alexandrine, che in gioventù ha abbandonato una figlia neonata, poi cercata invano (la bimba era morta poco dopo) per rimediare a una sterilità tanto più dolorosa a fronte del desiderio di paternità del marito. In ogni caso, insistendo sul tema della fecondità Zola dimostra di non essersi preoccupato dell’effetto che questo poteva produrre sull’animo di Alexandrine.

1.7 La coscienza della Francia L’ultimo romanzo della trilogia delle Villes, l’interminabile e pesantissimo Paris, esce nel marzo del 1898, quando la vita di Zola è nel pieno di una furiosa tempesta. Lo sforzo di raccogliere in una sola narrazione tutti gli strati sociali della capitale, con un consuntivo già rivolto all’imminente Novecento, è certo degno di considerazione. Ma la grande opera di Zola in questo periodo non è costruita con la scrittura, bensì con l’azione: un capolavoro di coraggio e abnegazione per un supremo ideale. Il suo intervento nell’affaire Dreyfus è del 25 novembre 1897, con un articolo su «Le Figaro» in difesa del vice-presidente del Senato Auguste Scheurer-Kestner, il quale, convinto dell’innocenza di Alfred Dreyfus, si trova ora vittima di una campagna giornalistica avversa (e poche settimane dopo sarà costretto a ritirarsi dalla politica). L’articolo termina con quello che sarà il motto di Zola: «La vérité est en marche, et rien ne l’arrêtera». Solo in quel mese Zola si è interessato dell’affaire, appassionandosi

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subito per lo spessore drammatico della questione e per la posta in gioco; ha saputo velocemente ordinare le informazioni e impadronirsi di tutti i risvolti grazie anche alle capacità di indagine affinate con la costruzione dei dossier per i suoi romanzi. È stato coinvolto da tre interlocutori: il pubblicista Bernard-Lazare, che ha messo la propria penna al servizio della famiglia Dreyfus; l’avvocato Leblois, con cui si è confidato il tenente colonnello Picquart dopo aver capito che il vero traditore è il maggiore Esterhazy; e lo stesso Scheurer-Kestner, cui Leblois si è rivolto. Zola impegna subito a fondo le proprie capacità di polemista, con una serie di scritti per i quali, ritenendoli un dovere, non vorrà essere pagato. Dopo il suo terzo intervento, il non altrettanto disinteressato «Figaro» davanti al calo di lettori abbandona la campagna per la revisione del processo e Zola sceglie la forma dell’opuscolo per pubblicare la Lettre à la jeunesse nel dicembre 1897 e la Lettre à la France il 7 gennaio 1898, che ben dimostrano come egli sentisse essere a rischio la libertà data dalla ragione nello scontro con la brutale ottusità del pregiudizio ignorante. A questo punto avviene l’incontro con «L’Aurore». Il 13 gennaio, due giorni dopo l’inverosimile assoluzione di Esterhazy e l’inizio del calvario di Picquart accusato di falso, «L’Aurore» pubblica la Lettre à M. Félix Faure, président de la République, genialmente intitolata J’accuse!... dal direttore politico del giornale, Georges Clemenceau. È ben noto lo scalpore immenso provocato dalla lettera aperta, con la quale il giornale vende duecentomila copie in poche ore; è anche risaputo come siano forti le accuse conclusive mosse da Zola contro gli alti ufficiali responsabili dell’errore giudiziario, presto trasformato in deliberata ingiustizia per coprire l’errore stesso, contro lo Stato Maggiore e i tribunali militari. Non va però dimenticato come il pezzo giornalistico in sé sia assolutamente magistrale: Zola, che ha calibrato la mossa con il comitato pro-Dreyfus, simula una reazione indignata all’assoluzione di Esterhazy e attraverso questa via guida il lettore in una ricostruzione sintetica e perfetta di tutto l’affaire, prima di arrivare a indicare le precise responsabilità dei singoli. L’intento di Zola, nonostante l’onestà delle sue accuse, è proprio quello di farsi denunciare per diffamazione, perché un processo contro uno scrittore di fama internazionale è un mezzo eccellente per smuovere l’opinione pubblica e arrivare alla revisione del processo contro Dreyfus.

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Se si ha almeno un’idea del clima rovente che l’affaire aveva creato in Francia, la scelta di Zola di intervenire e poi di esporsi completamente lascia senza parole. Certo egli non poteva supporre tutte le conseguenze della sua discesa in campo: non avrebbe potuto immaginare che un sudicio giornalistucolo per screditarlo avrebbe infangato la memoria di suo padre, obbligandolo ad aprire un altro fronte con articoli di risposta e complessa vicenda giudiziaria parallela alle altre. Ma, data la situazione, Zola era sicuramente in grado di prevedere a che cosa si sarebbe esposto: accuse di tradimento, insulti, plebaglia scatenata per linciarlo a parole o – quando centinaia di forsennati si scagliano sul suo fiacre, durante il processo del febbraio 1898 – per passare dalle parole ai fatti. Il Maestro inoltre sapeva bene che nei vertici della gerarchia militare serpeggiava ancora del rancore per la nuda verità sulla guerra del 1870 esposta in La débâcle; immaginava che cosa avrebbe significato per lui, emotivo e impacciato quando si trattava di parlare in pubblico (anche davanti a un pubblico amico), sedere imputato in tribunale. Poteva insomma prevedere lo sconvolgimento della sua vita, che procedeva così tranquilla tra Parigi e Médan, tra Alexandrine da una parte e dall’altra Jeanne e i bambini, e peggio ancora lo sconvolgimento dei ritmi di lavoro. A fronte di tutto ciò, l’appoggio morale e materiale dei suoi amici e la stima di tanti sconosciuti era certo troppo poco. L’azione di Zola è stata frutto di un sincero e profondo amore per la giustizia e insieme di un coraggio su cui egli ha saputo investire per il futuro, in previsione del ricordo dei posteri, passando da romanziere a «intellettuale» (il termine si è diffuso proprio in quegli anni, quindi non era frusto e sciapo come al giorno d’oggi) che incide nel proprio tempo non solo con la parola. Il piano in effetti funziona: tra il febbraio e il luglio del 1898 Zola è giudicato colpevole sia al primo processo, intentatogli dal Ministero della Guerra, la cui sentenza è però annullata dalla Cassazione; sia rispetto all’accusa di diffamazione mossagli dai tre cialtroneschi grafologi del processo Esterhazy, inchiodati anch’essi nel J’accuse per la loro parte di responsabilità; sia nel processo alle Assise di Versailles, in cui con stupida arroganza ha voluto trascinarlo il tribunale militare. Condannato a un anno di prigione e ad una pesante ammenda, convinto dai compagni del comitato che per la causa è preferibile

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una sua fuga all’estero, Zola si allontana prima di poter essere arrestato: parte per l’Inghilterra senza neppure passare da casa e senza conoscere una parola di inglese. Esule e privo di qualunque sicurezza per il futuro, Émile Zola non è mai stato così grande: con la sua stessa vita sta dimostrando, come a parole non sarebbe riuscito neppure lui, il valore della verità, della ragione, della libertà. Nell’anno trascorso in Inghilterra ha per certi periodi la compagnia di Alexandrine, per altri quella di Jeanne e dei bambini; non gli manca mai l’aiuto degli amici: Alexis, l’editore Fasquelle, Bruneau, l’incisore Fernand Desmoulin. Non interviene con altri articoli sull’argomento, perché sa che a questo punto bisogna aspettare che il meccanismo messo in moto arrivi da solo dove è necessario. Può quindi tornare a dedicarsi alla letteratura, scrivendo il primo degli Évangiles: Fécondité, il suo risultato in assoluto più basso, anche a causa di una documentazione raccolta in modo disorganico nei mesi in cui egli era impegnato nell’affaire. Il problema affrontato in questo schematico e ridondante romanzo a tesi è però fortemente sentito da Zola: la bassa natalità in Francia, fenomeno indicato come gravissimo problema morale e sociale. Il manoscritto di Fécondité è appena stato portato a termine quando Zola rientra a Parigi, all’inizio del giugno 1899, calcolando di non venire arrestato a causa degli sviluppi della situazione: la Cassazione ha rinviato Dreyfus a un nuovo giudizio, ancora però presso il tribunale militare. Il processo, svoltosi in una Rennes militarmente blindata, nel liceo che oggi porta il nome di Zola, si conclude nel settembre di quell’anno con una sentenza pazzesca: l’imputato viene nuovamente condannato – per essere graziato pochi giorni dopo –, nonostante abbiano già confessato sia il vile traditore Esterhazy sia l’infame tenente colonnello Henry, autore di prove false contro Dreyfus. La manovra politica a questo punto mira al colpo di spugna complessivo. Per questo Zola interverrà ancora con due altre lettere aperte su «L’Aurore»: la Lettre au Sénat nel marzo 1900, perché non voti l’amnistia generale, vero insulto alla giustizia; e la Lettre à M. Loubet, président de la République nel dicembre seguente, dopo l’approvazione dell’amnistia. Il Maestro ha nel frattempo riacquistato una certa serenità: può visitare l’Esposizione Universale del 1900, scattando centinaia di fotografie, e può dedicarsi al secondo degli

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Évangiles, Travail. La lettera aperta al presidente Loubet è una dichiarata conclusione: dopo il periodo di azione che la coscienza gli ha indicato come necessario, Zola ora – afferma egli stesso – tornerà al proprio lavoro di scrittore; perché la verità, per quanto si tenti di sotterrarla, verrà in ogni caso prima o poi alla luce. Così difatti è stato, anche se Zola non ha potuto vedere la conclusione del lunghissimo dramma: solo nel 1906 Dreyfus sarà completamente riabilitato, insieme all’altra vittima dell’ingiustizia, il tenente colonnello Picquart. Nel 1901 viene pubblicata la raccolta ordinata di tutti gli articoli di Zola sull’affaire: La vérité en marche, che certo non ci può entusiasmare come Germinal, ma che merita pari grado di stima. Dello stesso anno è Travail, l’utopia della nuova organizzazione del lavoro. Questo Évangile viene acclamato con viva simpatia negli ambienti dei socialisti e dei discepoli di Fourier, anche se la costruzione del Maestro è puramente ideale e poetica. Nell’agosto 1902 è ultimata la stesura del terzo Évangile, Vérité, destinato a uscire postumo non solo in volume (nel 1903, con la copertina listata a lutto), ma anche per quasi tutto il feuilleton, che incomincia una ventina di giorni prima della morte dell’Autore; il romanzo quindi non ha avuto la necessaria revisione, perché per l’edizione in volume Zola era solito lavorare ancora sul testo stampato a puntate. Con Vérité l’avversione al cattolicesimo, già viscerale in Rome, si fa ancor più livida. Su questo fronte Zola si è infatti inasprito nel periodo dell’impegno per Dreyfus, perché ha attribuito all’intera Chiesa quell’atteggiamento ottusamente antirevisionista, oltre che ciecamente antisemita, proprio invece di scalmanati estremisti che strepitavano dai loro giornali a nome del cattolicesimo. Subito dopo la conclusione di Vérité, tra l’agosto e il settembre del 1902 Zola scrive la sua ultima opera: il libretto per dramma lirico Sylvanire ou Paris en amour, basato sull’ardente amore e sulla folle gelosia di uno scultore per una stella della danza. La morte del giovane davanti alla città notturna illuminata è l’ultima immagine creata dal Maestro. L’opera si deve concludere qui; l’epilogo è solo dell’uomo. Il 28 settembre Zola rientra da Médan. La notte stessa, o più precisamente la mattina del 29, muore nella sua camera da letto, asfissiato nel sonno dal monossido di carbonio: la canna fumaria del camino è ostruita. L’esito di indagini poco approfondite è di morte accidentale, ma ci sono a tut-

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t’oggi validi motivi per sospettare che Zola sia stato ucciso da qualche fanatico come estrema conseguenza del suo impegno per Dreyfus. I funerali sono i più affollati e sentiti a Parigi dopo quelli di Victor Hugo: terminate le cerimonie ufficiali e i discorsi (dei quali si ricorda la formula conclusiva di quello di Anatole France: «Il fut un moment de la conscience humaine»), nel cimitero di Montmartre comincia a sfilare un numero interminabile di persone che vogliono rendere omaggio al Maestro. Il saluto devoto dei posteri gli sarà invece portato nel Panthéon, tempio civile dell’immortalità, nella cui cripta i suoi resti sono stati doverosamente tumulati nel 1908. A causa della morte improvvisa avviene quello che Zola ha sempre temuto: la sua opera è rimasta incompiuta. Dell’ultimo Évangile, Justice, restano infatti solo pochi appunti del dossier appena aperto, che non consentono neanche di ricostruirne le linee generali. Bisogna però dire che, con un’attività così instancabile, la morte anche in futuro avrebbe troncato qualche lavoro. Zola aveva infatti intenzione, chiusi gli Évangiles, di tornare alle scene con un’ampia serie – un ciclo, tanto per cambiare – di drammi, intitolata La France en marche, in cui ciascuna pièce sarebbe stata dedicata a un personaggio esemplare di una condizione sociale, concludendo ancora con uno scienziato come nei Rougon-Macquart: un teatro «per il popolo», leggiamo nei suoi appunti, che eserciti su di esso la sua influenza e la sua potenza a fini didascalici, morali e civili.

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Storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero

2.1 La fortune des Rougon Alle origini della dinastia è Adélaïde Fouque, nata nel 1768, figlia di un orticoltore benestante della provenzale Plassans. Rimasta orfana e sola, la diciottenne Adélaïde comincia a comportarsi in modo strano: si vocifera pertanto che abbia preso dal padre, morto pazzo (andando a ritroso con l’ereditarietà, non si finisce mai). Non sono chiacchiere prive di fondamento. Adélaïde infatti non è proprio pazza, ma sicuramente è priva di equilibrio e ha un modo di ragionare e di agire tutto suo che comporta anche conseguenze masochistiche: ad esempio sposarsi subito, lei che è un buon partito, con il primitivo Rougon, un suo contadino salariato. Non è passato neanche un anno e mezzo quando, nato da poco il figlio Pierre, Rougon crepa come un deficiente per un’insolazione presa mentre era intento a sarchiare le carote. Un anno dopo, Plassans è agitata da uno scandalo: Adélaïde, perso il marito, ha fatto di peggio dandosi come amante al selvatico Macquart, contrabbandiere e bracconiere, solitario sia nella sua catapecchia – dove, si racconta, divorerebbe bambini crudi – sia nelle bettole dove si abbrutisce ogni sera nell’alcol. Dai loro congiungimenti, che è arduo chiamare amori, nascono Antoine e Ursule. I tre bambini di Adélaïde crescono bradi, con l’unica guida del proprio istinto: Pierre picchia a proprio piacimento Antoine ed entrambi picchiano con pari brutalità Ursule. Intanto le crisi nervose della madre peggiorano in terribili manifestazioni isteriche, accompagnate da convulsioni.

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Adolescenti, i figli sono una meraviglia. Antoine ha ereditato dal padre Macquart l’inclinazione a bere e vagabondare, ma vive i suoi vizi in modo ancor più basso perché ha preso qualcosa del temperamento nervoso della madre; temperamento che si vede bene in Ursule. L’indole di Pierre è esattamente a metà tra quella di Rougon e quella della madre: pesantezza sanguigna e nevrastenia si sono equilibrate in un essere arrivista e avido, insensibile e di grossolana furbizia. Scoperte le diverse origini dei fratelli, Pierre prende a odiare Antoine e Ursule e rende sua madre una serva sottomessa, viscidamente calcolando come sbarazzarsi di tutt’e tre per appropriarsi l’intera eredità: fa in modo che Antoine non si possa sottrarre al servizio militare negli anni delle campagne napoleoniche e che Ursule si sposi senza dote, peraltro felicemente; in quanto alla madre, in attesa del manicomio si sistemerà nella stamberga di Macquart, morto ammazzato durante un’impresa di contrabbando. Restano ancora certi fastidi: i fratelli hanno comunque diritto all’eredità, la proprietà è intestata alla madre; ma a Pierre basta un paio di mosse azzeccate per derubare i familiari usando la legge, senza sentire alcun rimorso di coscienza perché la coscienza gli è sconosciuta. Il novello proprietario Pierre Rougon è il marito giusto per le ambizioni di Félicité, che se lo sposa come complice dei propri piani, o meglio come marionetta da muovere a piacimento per i propri scopi. È merito di Félicité se i figli sono superiori al rozzo padre. Eugène, avvocato, brama una posizione di potere grazie alle qualità del suo ingegno. Aristide ha una vera vocazione per gli intrighi e un trasporto amoroso particolarmente intenso per il denaro. Lo stesso talento nel tessere trame sarà dimostrato da una delle due figlie, Sidonie. Al contrario, il medico Pascal non sembra un Rougon: vive appartato, dedito ai suoi studi di fisiologia, interessato soprattutto all’ereditarietà. Nell’altra figlia, Marthe, ritornerà la fragilità psico-fisica della nonna Adélaïde. In una Plassans fortemente segnata dalle distinzioni sociali – anche nella divisione stessa della città in quartieri –, i neobenestanti Rougon si elevano all’altezza della borghesia; ma sembra che gli anni siano destinati a scorrere così, nella torpida tranquillità economica, senza poter raggiungere quella grande fortuna che le smodate ambizioni di Pierre e Félicité agognano. Eugène infatti è un avvocato inconcludente e persino pasticcione, Aristide non è arriva-

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to neppure a concludere gli studi; entrambi si lasciano impigrire dalla sonnacchiosa esistenza di provincia. Le famiglie dei fratellastri Antoine e Ursule sono segnate rispettivamente dalla tabe dell’alcolismo e da quella della malattia nervosa. Antoine non ha peraltro scelto la moglie giusta per affinare la propria discendenza. Difatti, tornato sano e salvo dalle campagne napoleoniche, durante le quali è riuscito a imboscarsi nelle retrovie crogiolandosi nella pigrizia e nel bere, Antoine ha scoperto di essere stato derubato di tutto da Pierre e per sistemarsi ha pensato bene di sposare una buona lavoratrice che lo mantenga; ha così scelto Fine, mascolino donnone baffuto, che però beve e ha una passione particolare per l’anisetta. Un ménage tranquillo: lei lavora, lui di mestiere è fannullone, entrambi bevono e ubriachi si picchiano di santa ragione, spesso senza poter ricordare perché. Nascono tre figli: Lisa parte per Parigi come bambinaia quando è ancora ragazzina; Gervaise ha una malformazione congenita a una gamba, perché concepita in una delle tante notti di ubriachezza e di botte, e nell’infanzia la sua debole costituzione fisica viene curata da Fine con regolari somministrazioni di anisetta; Jean, chi sa come mai, è un bravo ragazzo volonteroso. Quando i figli cominciano a lavorare, Antoine prende l’abitudine di sottrarre loro la paga. Per i propri comodi di sfruttatore eviterà che Gervaise si sposi con l’amante Lantier nonostante i figli che, ancora adolescente, lei ha messo al mondo. Unica consolazione domestica di Fine e Gervaise è scolarsi un litro di anisetta in assenza del padre; quando però si fanno sorprendere ubriache al ritorno di Antoine, fradicio a sua volta, volano botte da orbi. Ursule invece ha sposato un brav’uomo che la adora, tale Mouret: questi si ucciderà quando la moglie sarà spenta dalla tisi, diretta conseguenza della malattia nervosa ereditata dalla madre, lasciando i tre figli Hélène, François e Silvère. François avrà come moglie la cugina Marthe, figlia di Pierre Rougon: il matrimonio ricongiunge nell’albero genealogico il ramo Mouret, di ascendenza Macquart, con il ramo Rougon. Nel 1848 l’inizio dei grandi rivolgimenti politici fa scattare l’istinto di approfittatori dei Rougon. Essi così sono pronti nei giorni successivi al 2 dicembre 1851 ad afferrare la propria parte di fortuna. Alla notizia del colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte, infatti, una banda di insorti repubblicani si impadronisce del municipio di Plas-

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sans e si agita nei dintorni della cittadina fino a farsi prendere a fucilate dall’esercito; grazie soprattutto all’astuzia della moglie Félicité, Pierre Rougon al termine di queste vicende figura essere colui che ha riportato l’ordine in Plassans salvandola e viene ricompensato con l’ambito posto di ricevitore. Per arrivare al successo Pierre si serve di Antoine, che tradisce bassamente i compagni repubblicani; inoltre abbandona al suo destino il nipote Silvère Mouret, l’ultimogenito di Ursule. Infiammato da grandi ideali, il giovanissimo Silvère si è unito ai disorganizzati insorti, seguito dall’amata Miette che non ha voluto lasciarlo e, adolescente di gran cuore, sventola la loro bandiera. Lei cade falciata dai fucili militari; Silvère, catturato, sarà brutalmente ammazzato da un gendarme per vendetta. La macchia del suo sangue spicca in emblematico contrasto con un’altra macchia di colore, il nastrino della Legion d’Onore di cui potrà fregiarsi Pierre. Per quanto riguarda Eugène e Aristide, la loro affermazione sociale sarà raccontata presto. La morte di Silvère è il colpo di grazia per la vecchia Adélaïde, che, da lui teneramente accudita e a lui affezionatissima, appunto dopo la sua uccisione viene chiusa in manicomio. La capostipite dei Rougon-Macquart vive però ancora a lungo, fino al 1873 e all’ultimo romanzo, superando da ultracentenaria la fine del Secondo Impero. La duplice traversata del tempo, rispetto al ventennio del contesto storico di riferimento e rispetto al ventennio di scrittura, è aspetto non secondario di fascino del sublime ciclo: attesta come tra letteratura e vita ci sia una competizione volta a stabilire quale delle due abbia meno bisogno dell’altra per essere vera.

2.2 La curée Il ballo in maschera di palazzo Saccard – faraonica dimora del noto finanziere, che prospetta sul parco Monceau – è preceduto da una rappresentazione in tableaux vivants per la quale gli improvvisati artisti si sono dati tanto da fare: Gli amori del bel Narciso e della ninfa Eco. Un’incantevole mise en abyme fa sì che la stessa realtà contemporanea sia rappresentata per allusioni metaforiche e simbo-

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liche in questa frivola messinscena, incastonata nel sesto capitolo di una vicenda il cui tema è il binomio «oro e carne», ossia sfrenatezza dell’alta società nel lusso e nei piaceri sensuali durante il corrottissimo Secondo Impero. Quando il procace primo tableau rappresenta la grotta delle voluttà di Venere, nel sussurrìo tra gli spettatori sembra di avvertire, al di là delle convenienze della buona educazione, un’aumentata salivazione sintomo di titillate concupiscenze. Nel secondo tableau, quello della grotta delle ricchezze del dio Pluto, si raffigura la tentazione dell’oro. Il terzo quadro, l’unico fedele al mito, richiede invece un minimo di cultura e di sensibilità artistica per essere capito e quindi desta poco interesse tra gli spettatori. Dopo la pantomima salottiera la rappresentazione continua inconsapevole, per contrasti e contrappunti. Da un lato, l’ingordigia del bel mondo mette in scena sé stessa quando gli ospiti danno un furioso assalto al buffet, dimentichi di ogni decenza nell’arraffare a danno degli altri, nel divorare e tracannare; poi l’immoralità della festa si esibisce sotto la specie della stupidità, quando i partecipanti si divertono nel rendersi ridicoli e degradarsi obbedendo all’inappuntabile direttore del cotillon che impone una serie di figure imbecilli. Intanto però si va consumando il dramma di Renée, novella Fedra – e ancora il mito è chiave di interpretazione della realtà – di una società in cui il lusso smodato alimenta una smania insaziabile di piaceri e stronca qualunque remora morale. Il matrimonio di Renée con Aristide è d’altronde frutto di uno di quegli intrighi con cui gli approfittatori più cinici hanno raggiunto il proprio posto al sole, una volta nato il Secondo Impero, per soddisfare brame di potere e di godimento dei sensi. Aristide Rougon, il figlio apparentemente inetto di Pierre, ha vivacchiato a Plassans per anni senza combinare niente, sposandosi con la scialba Angèle da cui ha avuto Maxime e Clotilde. Nel 1848, emergendo in lui l’istinto dei Rougon, ha cominciato a calcolare chi nel mutato panorama politico dovesse rivelarsi il più forte, per vendersi a questo. La completa assenza di princìpi morali è evidente nella data di inizio del suo deciso bonapartismo: il 2 dicembre 1851. Poco dopo egli arriva a Parigi con appetiti lupini, appoggiandosi al fratello Eugène che è ancora modesto avvocato, ma eminenza politica in pectore. Grazie a lui Aristide ottiene un piccolo posto in municipio, a patto di rinunciare al

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cognome per evitare la sospetta omonimia con il suo alleato: si chiamerà Saccard. Mettendo in pratica i suggerimenti fraterni, Aristide negli uffici del municipio capta tutte le voci che girano; si rende così conto delle immense possibilità di arricchirsi con speculazioni legate ai prossimi sventramenti della città, dal momento che ancora poche persone sono a conoscenza della trasformazione di Parigi voluta dall’imperatore e progettata da Haussmann. Sapendo in anticipo dove saranno aperti i grandi boulevard, si potrebbe trasformare in oro per sé il rinnovamento urbanistico – fantastica Saccard in un tramonto dall’alto di Montmartre, mentre in un raggio di sole egli vede una pioggia di monete, infervorato fino a fendere con la mano il panorama di Parigi sognando i futuri tagli dei viali. Tutto sta a poter cominciare a investire. La sorella Sidonie, faccendiera immersa a tempo pieno in loschi affari, gli fornisce il capitale iniziale combinandogli a condizioni particolarmente esecrabili un secondo matrimonio, quando Angèle è ormai spacciata. La prescelta è Renée, che ha metà degli anni di Aristide, ha bisogno di nozze riparatrici e appartiene a un’antica famiglia di vastissimo patrimonio; ad Aristide basterebbe fingersi il seduttore per mettere le mani su una montagna di soldi. Un Rougon come Aristide non ha bisogno di riflettere per accettare il pingue e laido affare, senza neppure evitare che Angèle agonizzante senta quel che lui concorda con la sorella. Aristide dà così inizio alla sua strepitosa fortuna, che lo porterà a essere uno degli affaristi più in vista di Parigi, cacciatore di ricchezze non per godersele, bensì per investirle nuovamente in previsione di ricchezze maggiori, sempre sull’orlo del fallimento a causa dei suoi azzardi temerari. Renée non è nata con un animo guasto, anzi più volte si è affacciata in lei la nostalgia della vita sobria e pulita della sua infanzia; ma nella giovane donna prevale la forza delle tentazioni, l’allettamento dei piaceri procurati dal lusso e giustificati dalla mentalità dell’alta società del tempo. Annoiata dalla vita di piena libertà, vuota e insensata, concessale da Saccard – che sta intanto saccheggiando i beni della moglie per i propri investimenti –, Renée cerca nuove soddisfazioni, senza concepire l’esistenza di limiti e quindi senza rendersi conto di protendersi su un abisso che può risucchiarla. Maxime, nato dal primo matrimonio di Saccard, ha solo quattro anni meno della sua matrigna; siccome giunge dalla provincia, la stessa Renée si occupa

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di educarlo secondo gli amorali criteri della Parigi più corrotta. Già di suo però Maxime è un valido esempio di impoverimento o degenerazione della schiatta in tempi di marciume morale: benché non manchino caratteristiche decisamente virili – a diciassette anni ha sedotto e ingravidato una cameriera –, il figlio di Saccard ha i tratti femminei e, in ambito di scelte sessuali, le incertezze proprie di un ermafrodito. Frequentandolo assiduamente, senza accorgersene Renée scivola nella mostruosità di un rapporto incestuoso e si accende in lei una passione che presto divamperà violenta. Convinta di vivere in un mondo al di sopra della morale, dove lusso e peccato sono le due facce complementari della quotidianità, Renée fa tacere i rimorsi confrontandosi con le altre signore, il cui comportamento è più scabroso del suo. Si abbandona così alla sfrenatezza sessuale, soggiogando il succubo Maxime in ginnastiche erotiche, mentre la depravazione escogita raffinatezze di ambienti inediti, dalla stanza da bagno alla serra, per nuove tecniche di accoppiamento. La tragedia della novella Fedra, il cui figliastro è ben diverso dal casto e onesto Ippolito dell’archetipo, precipita ora verso la conclusione. Se il mito può essere chiave di lettura, l’esito della vicenda è condizionato dalla realtà dominante: quella del denaro. Maxime, essere del tutto insensibile e imbelle, si lascia fidanzare con una gobbetta ricchissima, che garantisce anche buone probabilità di lasciarlo presto vedovo (se ne andrà all’altro mondo già durante il viaggio di nozze). Travolta e sconvolta dalla passione, quando viene a sapere dell’imminente matrimonio Renée perde la testa fino a farsi scoprire da Aristide; questi però, davanti all’alternativa di rinunciare a un ghiotto affare per il quale gli occorre ancora la moglie da depredare, preferisce fingere di non sapere. L’equilibrio psichico di Renée è ormai alterato; solo una breve appendice di vita squallida la separa dalla fine. Ma il capolavoro deve ancora librarsi nell’altissimo settimo e ultimo capitolo. Questo si apre con il sopralluogo di Saccard e altri gentiluomini di una commissione nella zona delle demolizioni per il futuro boulevard Prince-Eugène, tra vecchie case sventrate che lasciano vedere gli spaccati di poveri appartamenti; sopralluogo durante il quale un industriale riconosce la stanza dove viveva ai tempi della gavetta, adesso squarciata e destinata a sparire tra poco, per sempre, insieme a ciò che resta della casa e dello stesso quartiere.

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Nessuno, neanche Baudelaire, ha dedicato una pagina altrettanto toccante alla scomparsa della vecchia Parigi sotto l’esercito di picconi mossi dagli interessi di pochi. Qualche pagina dopo, nell’ultima scena Renée si lascia sopraffare dalla nostalgia e dai rimpianti suscitati dal palazzo paterno immerso nella solenne calma dell’Île Saint-Louis. L’isola è il simbolico cuore dell’antica città serena e sana, contrapposta alla città degli affaristi, delle speculazioni e della corruzione: la storia della sventurata Renée palpita fino a farsi parte della storia di Parigi.

2.3 Le ventre de Paris Le Halles di Parigi sono state cancellate subito dopo la fine della civiltà, tra l’infausto 1968 e gli anni Settanta, con la scellerata demolizione dei padiglioni di Baltard celebrati dal Maestro per la loro architettura fantastica e con ciò che è conseguito. È però tuttora possibile individuare dove la stretta e tortuosa viuzza Pirouette sbucava sulla lunga rue Rambuteau affacciata sulle Halles, se si usa una pianta di Parigi precedente allo scempio o, magari, una riproduzione dell’accurata topografia della zona – tra la chiesa di Saint-Eustache e il boulevard de Sébastopol – disegnata dallo stesso Maestro per il dossier preparatorio del romanzo, con le vie sopravvissute e i vicoli oggi scomparsi che si incrociano intorno al grande mercato. Il riferimento interessa perché quasi all’angolo con rue Pirouette, di fronte al padiglione del pesce, era la trionfale salumeria di Quenu e di sua moglie Lisa, nata Macquart. I percorsi della nostalgia sono leciti e inevitabili per tutti i romanzi parigini del ciclo: nel mistico pellegrinaggio sui luoghi zoliani, il devoto si commuove per la targa che ricorda dove sorgeva il grande magazzino «Au Bonheur des Dames», resta desolato per le attuali condizioni della rue de la Goutte-d’Or, e via dicendo. Il caso del Ventre de Paris è però particolare, perché qui il romanzo vive quasi per intero in virtù dell’ambiente stesso. Se riassunta, la trama appare infatti piuttosto semplice. L’ingenuo e mite Florent, deportato all’Isola del Diavolo come sovversivo alla presa di potere di Luigi Napoleone

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Bonaparte, ora evaso dopo alcuni anni, torna a Parigi stabilendosi dal fratellastro Quenu; magro e tormentato sognatore idealista il primo, agiato e carnacciuto salumaio il secondo. Anche Florent avrebbe la possibilità di scavarsi una nicchia e starsene quieto al calduccio, magari ingrassando un po’, avendo accettato un posto municipale – un paradosso per l’evaso – di ispettore del mercato. Lasciatosi invece riprendere dalle sue utopie rivoluzionarie, non si accorge del complotto stretto intorno a lui da varie persone che hanno interesse a farlo sparire. La denuncia parte da sua cognata Lisa, la quale teme che la presenza di Florent possa compromettere in modo irreparabile il quieto vivere bottegaio ed egoistico dei Quenu. Florent sarà così riportato nella stessa spaventosa colonia penale; Quenu, che pure gli vuole bene, si consolerà in fretta nel tepore del proprio benessere. Alla linearità della trama si accompagnano la limitata rilevanza del protagonista e la posizione relativamente marginale del RougonMacquart di turno; il che offre il destro per sottolineare l’importanza dei personaggi minori non solo in questo, ma in quasi tutti i romanzi del ciclo. È eccezionale la creatività del Maestro nel plasmare un numero elevatissimo di figure di secondo e terzo piano, ciascuna delle quali così vivida da fissarsi nella memoria del lettore, senza il ricorso a dozzinali macchiette o a caratteri meccanicamente impressi dall’esterno. Questa capacità sarà padroneggiata al meglio a partire da L’Assommoir; nel Ventre de Paris conservano invece qualche ascendenza letteraria sia Marjolin e Cadine, la coppia di trovatelli cresciuti bradi nelle Halles, ora giovani amanti liberi da remore sociali nel microcosmo del mercato di cui conoscono ogni angolo; sia la Saget, infernale zitella che passa la vita occupandosi dei fatti altrui. Il contributo dato alla verità dell’opera dai personaggi minori diventerà determinante quando tutti svilupperanno l’autonomia che qui possiedono la Normanna, icastica pescivendola, o il suo bambino, che con un visino da angioletto pronuncia sconcezze a ripetizione e agghiaccianti bestemmie, o ancora la piccola Pauline Quenu, futura protagonista; ma a tale risultato, quello appunto dell’Assommoir, manca ben poco. Il doveroso tributo reso alle figure di contorno non deve però falsare la prospettiva. L’ambiente delle Halles, anima del Ventre de Paris, vivrebbe come creazione artistica persino senza personaggi. È infatti risaputo come il romanzo si basi sull’abilità nel de-

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scrivere: abilità pienamente matura e già ultrarealistica, tanto da bruciare lo stesso realismo tra fiamme visionarie. Benché il paragone con la pittura sia riduttivo, è notevole il fatto che proprio in questo romanzo si introduca il pittore Claude Lantier, figlio di Gervaise e quindi nipote di Lisa Macquart, frequentatore delle Halles perché apprezza gli effetti cromatici offerti dal grande mercato: si entusiasma davanti a enormi mucchi di cavolfiori alla luce dell’alba, contempla lo spettacolo del sorgere del sole sugli ortaggi, raggiunge l’estasi tra le frattaglie di macelleria per le sfumature dei polmoni appesi. Solo in alcuni casi però il punto di vista del personaggio pittore viene assimilato a quello del narratore, che in molte occasioni procede autonomamente: come nella descrizione dei pesci appena rovesciati sui banconi, la cui dovizia si moltiplica in un susseguirsi di ulteriori immagini accostate per paragone. In effetti, l’arte del Maestro supera per più versi le caratteristiche di una pittura dal vero. In primo luogo perché la sua non è una trascrizione di ciò che l’occhio ha colto, bensì una personale interpretazione. In secondo luogo per l’uso di similitudini e metafore in imprevedibile abbondanza: i cavolfiori ammucchiati sembrano piramidi di palle da cannone, formano un gigantesco bouquet da sposa; nelle pieghe più leggere dei polmoni esposti Claude vede tutù di ballerine; tra i pesci, le spigole dalle bocche spalancate fanno pensare a un’anima troppo grossa, passata dalla gola in una stupita agonia. In terzo luogo, le descrizioni coinvolgono altri sensi oltre alla vista e ricorrono in più casi agli audaci accostamenti delle sinestesie. Si ammirino sopra le altre le pagine del sotterraneo dei formaggi nel quinto capitolo, assoluta prodezza giocata su riferimenti a tutti e cinque i sensi: qui il Maestro sublima in particolare l’ipersensibilità del proprio olfatto e, incrociando i termini con coordinate pertinenti all’udito, costruisce poco alla volta una stupefacente sinfonia di odori, fortori, esalazioni, tanfi, fetori, zaffate pestilenziali e ondate asfissianti, preceduta da un diorama di immagini di crudezza inaudita (l’ultimo formaggio della sequenza, il più atroce, emana miasmi tali da fulminare le mosche). Nonostante concedano qualcosa al gusto per la bella prosa e magari al virtuosismo, le descrizioni restano agganciate alla simbologia sulla quale si fonda il romanzo, connessa a sua volta con una simbologia che segna profondamente i primi romanzi del ciclo. Se

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nella Fortune des Rougon, come ha annotato lo stesso Maestro negli appunti preparatori, si assiste al formarsi e allo scatenarsi degli appetiti, i due romanzi successivi saranno dedicati rispettivamente alla fame di milioni (La curée) e, appunto, alla fame materiale. Quest’ultimo tema, emblematico del Ventre de Paris già nel titolo, ha una chiave di lettura prettamente politica nella ripartizione dell’umanità in Grassi e Magri teorizzata da Claude Lantier. I Magri sono i sopravvissuti idealisti democratici, come Florent. I Grassi sono tutti coloro – ma l’occhio è qui particolarmente puntato sulla piccola borghesia – che hanno appoggiato la nascita dell’Impero perché questo dava garanzia di conservarli ben pasciuti; essi infatti non si sono mai potuti riempire così bene la pancia, incuranti di chi ha fame. Placidamente Grassi sono così i salumieri di rue Rambuteau: Quenu, con la sua corpulenza un poco torpida, e Lisa, la cui florida serenità cela uno spietato egoismo nella salvaguardia del proprio benessere. La loro salumeria, improntata all’ordine e alla rispettabilità, trasudante buona salute, stracolma di grassa opulenza per soddisfare ogni appetito, è nel suo piccolo essa stessa ambiente emblematico del Secondo Impero, di cui possiede le medesime caratteristiche. Le descrizioni del Ventre de Paris, presentandosi a un livello stilistico molto alto, sono dunque improntate a una traduzione della realtà in termini immaginifici, con risvolti simbolici. Abituati a certi giudizi su Zola, ci si domanda allora dove sia il freddo e lucido osservatore della realtà, scienziato e fotografo della società contemporanea. Si potrebbe rispondere che per arrivare al saggio sul «romanzo sperimentale» mancano ancora alcuni anni; ma il fatto è che quel preteso Zola, così poco artista, non è mai esistito.

2.4 La conquête de Plassans L’efficace espediente adottato dal Maestro per costruire la seconda parte del dittico di Plassans dopo La fortune des Rougon consiste nell’annodare fra loro una minuziosa ricostruzione della situazione politica, così come poteva essere vissuta in una sottoprefettura del Sud tra il 1858 e il 1864, e una trama di sapore squisitamente

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romanzesco, incardinata sull’operato di un genio del male di ascendenze balzachiane: l’abate Ovide Faujas. Con un figuro del genere si introduce intanto nel ciclo dei Rougon-Macquart anche la nota acremente anticlericale: in Faujas vengono condannate le trame occulte della Chiesa (la cui gerarchia peraltro è rósa al suo interno da rivalità spietate), tessute in accordo con il potere sotto l’alibi di un generico perbenismo. L’anticlericalismo ha nella finzione narrativa una sua ben precisa collocazione all’interno del Secondo Impero, ma occhieggia intanto anche ai tempi in cui il romanzo è scritto e pubblicato, con un duplice impegno polemico e politico che risultava gradito – per riportare quello che è ben più di un esempio – a un lettore attento ed esigente quale Flaubert. La conquista del titolo è in effetti una «riconquista»: i centri del potere vogliono che Plassans, dove si è formata una maggioranza antibonapartista, torni al partito imperiale e scelga alle prossime elezioni un candidato gradito al regime. Per questo viene inviato a Plassans come agente segreto il sinistro abate Faujas. Le manovre del prete hanno come immediato riferimento vari personaggi della stirpe Rougon-Macquart, perché egli si installa nella casa di François e Marthe Mouret e viene appoggiato e controllato da Félicité, moglie di Pierre Rougon e signora del «salon vert», centro di discussione politica. Il termine «conquista» ha comunque un significato pregnante per l’intera macchina narrativa: tutto il romanzo è costruito sulla giustapposizione e contrapposizione di alcuni spazi e sulla lotta per possederli, occuparli, difenderli o riprenderli. Il primo di questi spazi, comprensivo degli altri, è ovviamente la stessa Plassans. La topografia dell’immaginaria cittadina provenzale è ricalcata pari pari su quella di Aix-en-Provence: sono stati sostituiti tutti i nomi, ma per il resto le due cartine sono perfettamente sovrapponibili. Tale scelta, di non poco peso trattandosi del luogo d’origine dei RougonMacquart, sposa motivazioni dettate dalla semplice prudenza con altre rispondenti alla logica della creazione artistica; e consente all’Autore sia di saldare qualche piccolo conto in sospeso con la cittadina che era stata ingrata nei confronti di suo padre sia di ricordare con affetto i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza. Plassans è a sua volta ripartita in tre zone distinte, indicative della condizione sociale (ancora riconoscibili nella piacevole Aix odierna): quella

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quieta e assorta dei nobili; la città vecchia, dalle viuzze tortuose, dove si trovano il municipio, il tribunale e il mercato; e la città nuova, popolata da borghesi. In Plassans il romanzo privilegia due riferimenti: il «salon vert» di Félicité Rougon e la casa dei Mouret. La signora Rougon ostenta neutralità e favorisce gli incontri di legittimisti e bonapartisti; in realtà la sua simulazione fa del salotto stesso il principale crocevia di manovre politiche, giacché l’operato di Félicité è più subdolo e raffinato di quello dell’abate Faujas, da lei stessa opportunamente consigliato. Casa Mouret si trova a mezza strada fra quella del presidente del tribunale, punto di riferimento per i legittimisti, e la roccaforte governativa della sottoprefettura. La collocazione della casa ha un duplice risvolto: da un lato, con coincidenza simbolica esprime la volontà del padrone di rimanere estraneo alle questioni politiche e al di fuori degli schieramenti; d’altro canto, fa sì che Faujas vi individui la base ideale per tessere le proprie trame, favorite dall’ingenuo François Mouret che pensa di aver concluso un buon affare affittandogli due stanze. Le conseguenze sono drammatiche, perché il cerchio di Plassans e quello della casa di Mouret sono concentrici: la conquista dello spazio maggiore deve partire da quello minore. Così l’abate Faujas, all’inizio pigionante, prima si trasforma in invasore di casa Mouret, piazzandovi anche la madre – una contadina primitiva, a lui devota come una cagna – e la laida coppia costituita dalla sorella e dal cognato, poi ne caccia Mouret per restare padrone assoluto. Mouret, allontanato a forza e segregato in manicomio, ossia in un luogo isolato e privo di contatti con il mondo dei viventi, tornerà alla fine del romanzo per riconquistare a sua volta il proprio spazio. La conquête de Plassans non è uno dei maggiori risultati del Maestro, ma è un romanzo con grandi personaggi. L’abate Faujas, fanaticamente compreso del proprio sacerdozio, ha nei confronti di questo una dedizione pari all’indifferenza nei confronti della fede e della morale. È portato a tessere trame, e infatti è stato incaricato di una missione delicata, ma appena giunto a Plassans non ha ancora maturato abilità luciferine: d’aspetto robusto, si mostra violento e impulsivo, iroso, rozzo; lo svantaggia la stessa brama di successo e potere; non pensa di doversi applicare una maschera o, quando se ne rende conto, non sa portarla a lungo. A Plassans egli impara

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molto: le vie oblique, le ipocrisie, la subdola pazienza di un sottile lavorìo sotterraneo che infine dà grandi e perversi risultati. Misogino, la natura l’ha bizzarramente dotato di un forte potere di fascino sulle donne; proprio su questo l’abate capisce di dover puntare per raggiungere il suo scopo, seguendo il suggerimento giunto da Félicité: piacere alle donne per espugnare Plassans. Dal momento che la conquista parte da casa Mouret, la prima vittima sarà Marthe, affascinata con il progetto caritativo dell’«Opera Pia della Vergine» volta al recupero di fanciulle perdute. Marthe ha ereditato da sua nonna Adélaïde la nevrosi, rimasta però celata per molti anni: è una tranquilla borghese, appartata e senza ambizioni come vuole suo marito. L’inizio della crisi si verifica con l’arrivo dell’abate Faujas e, in modo conclamato, con l’iniziativa dell’«Opera Pia», per la quale Marthe incomincia ad avere contatti con l’esterno. La sua vita presto cambia: sente aprirsi il cuore, entrare in lei un nuovo e sconosciuto calore, quasi l’inizio di una seconda giovinezza. Poi esplode una devozione che è solo una forma del suo morboso amore, ancora inconsapevole, per Faujas: gli slanci ardenti dell’animo, le bramosie di deliri mistici e le malamente sublimate tendenze masochiste hanno ben poco a che fare con la religione e molto invece con una nevrosi che va degenerando a passi spediti in psicosi. Marthe lascia andare la casa – tutto il suo piccolo mondo – e si disinteressa dei figli, futuri protagonisti a loro volta: Octave, mandato a lavorare a Marsiglia, si mette a far vita scapestrata; la povera Désirée non potrà che rimanere una ritardata mentale; Serge, in seguito a un attacco patologico di misticismo dopo una grave malattia, prende la decisione di farsi prete, opportunamente plagiato da Faujas che ha avuto facile gioco sul suo fragile sistema nervoso. La malattia psichica di Marthe, secondo un nesso forse non evidente al lettore, accende quella fisica: la tisi. Si precipita così fino all’atroce scena in cui Marthe, dilaniata tra il rimpianto della vita quieta di un tempo, il rimorso per aver lasciato internare il marito e il desiderio fisico di Faujas, confessa a quest’ultimo il proprio amore per lui, venendo respinta dal misogino fanatico come classico esemplare di donna: sozza tentazione vivente, maledetta creatura satanica. Anche François Mouret, come sua moglie e come per certi aspetti l’abate Faujas, nel corso della vicenda subisce una trasformazione.

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Brav’uomo, già onesto lavoratore messosi precocemente in pensione, piuttosto chiuso e limitato nel proprio guscio, metodico e preciso fino all’eccesso, François assurge alla dimensione di personaggio tragico quando viene reputato pazzo e chiuso in manicomio. Qui l’uomo – che per nascita è cugino di sua moglie e ha in comune con lei la nonna... – impazzisce davvero. Quando viene fatto evadere, in seguito a un piano a danno dei Rougon cui partecipa il sornione Antoine Macquart, la metamorfosi del personaggio è di strepitosa incisività, come la tecnica narrativa che adotta il suo punto di vista di alienato. Tornato a casa da bravo borghese e trovando invaso il proprio spazio vitale, François si muta in una belva ringhiante che, dopo aver esplorato la situazione muovendosi a quattro zampe, arde l’amatissima casa in un immane rogo. L’osservazione sul lontano prodromo del tema della bestia umana può essere accantonata per gustare la scena di Faujas caricato in spalla e difeso dalla madre: La conquête non è vertice del ciclo, ma queste ultime pagine non dovrebbero mancare in un’antologia del Maestro.

2.5 La faute de l’abbé Mouret Serge, secondogenito di François Mouret e Marthe Rougon, è entrato diciassettenne in seminario per una vocazione maturata, sotto la sicura guida dell’abate Faujas, dopo una grave malattia. Nel tetro seminario l’insensibilità della carne gli ha permesso di assaporare ineffabili gioie spirituali; devotissimo al culto della Vergine, si è abbondantemente rimbambito di litanie. Ora, sacerdote venticinquenne, vive in un misticismo morboso, sensuale, confinante con l’imbecillità e tendente alla follia. Aspirando a essere eremita per disprezzo del mondo, si è fatto assegnare la misera e decrepita chiesa di un paesucolo semiprimitivo presso Plassans, una comunità endogamica di bruti. Vive con una perpetua concreta e sbrigativa e con la sorella ritardata Désirée, che pensa solo ai suoi animali. Può dilettarsi anche della compagnia del frate educatore delle scuole cristiane, Archangias: un maleodorante caprone sguaiato, violento e crudele, misogino fino a diffidare della Madonna e a dichiarare che sarebbe

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bene strozzare tutte le femmine alla nascita. Tiriamo un respiro prima di proseguire, consapevoli che l’avversione al cattolicesimo qui fa fuoco ad alzo zero. La beatitudine del sacerdote sembra assoluta; ma la vita vera lo minaccia. Ha continuato ad aleggiargli intorno fin dall’alba di quel giorno fatale; ha pulsato tra gli animali di Désirée, provocandogli ripugnanza e nausea; ma soprattutto gli è apparsa nella prima visita alla villa chiamata Paradou, il cui parco è diventato una sorta di giungla al di fuori del mondo; a sera la potenza della vita invade il prete, che invano si difende con una preghiera vaneggiante e infine crolla vittima di una febbre cerebrale. Il dottor Pascal Rougon suo zio, avendo calibrato per Serge una terapia dei cui effetti collaterali si accorgerà troppo tardi, lo porta al Paradou, dove il custode Jeanbernat, ateo volteriano, non lo guarda neanche e Serge è affidato alle esclusive cure della nipote sedicenne Albine, cresciuta in assoluta spontaneità come una buona selvaggia. Nel pazzesco Paradou, Serge rinasce privo di memoria: lo impegnano interamente le esplorazioni con Albine in un parco simile a un’enciclopedia botanica, rigoglioso di vegetazione ben oltre i limiti del plausibile perché in abbandono da un secolo. Tra il dilagare di fioriture mostruose nel parterre, l’ipertrofica abbondanza del frutteto, gli sterminati prati e la fittissima foresta di alberi d’alto fusto (più avanti si registrerà anche una raccapricciante distesa di orrende piante grasse), Serge e Albine sono bambini che giocano, monelli che si divertono spensierati senza alcun trasalimento dei sensi. Unico pensiero che affiora, il desiderio di trovare il luogo proibito, dove l’ombra di un albero immenso dà la felicità perfetta. Poi comincia il richiamo del sesso: un malessere indefinibile, in seguito un tormento. Serge e Albine si erudiscono osservando le pitture erotiche che misteriosamente riaffiorano sulle pareti di una stanza della villa. Albine scopre il luogo dell’albero e vi trascina Serge, inebetito dall’amore; la potenza del parco li travolge, lo stesso giardino li spinge al peccato; cedendo alla legge universale dell’accoppiamento e della riproduzione, i due si congiungono carnalmente. Subito dopo, Albine è presa da una disperazione e un rammarico di novella Eva – o giù di lì; mentre Serge, rivedendo la chiesa attraverso una breccia del muro di cinta, ricorda il suo passato. Nella catastrofe li sorprende fra Archangias, che completa le parodistiche

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reminiscenze della Bibbia scacciandoli dal Paradou come una sorta di arcangelo mosso dalla ferocia dell’odio. Nuovamente sacerdote, Serge si sforza di acquietare la sofferenza nella preghiera. Il dottor Pascal, che adesso si preoccupa della salute di Albine, insistendo sugli stessi metodi di cura tenta invano di convincerlo ad andare a farle visita; si recherà invece Albine da Serge, il quale saprà resistere alla tentazione e allontanare la ragazza. Il soccorso della Grazia però non dura più di tanto. Sapendo che Albine l’aspetta, Serge infine torna al Paradou; ma in lui – rovinato per sempre – prevale ormai il prete e, quasi in trance, egli non può neppure sentire le parole della ragazza, né può amarla quando, per riprenderlo, lei gli si offre ancora. Esasperata, la stessa Albine allora caccia Serge dal Paradou, scatenando il godimento di fra Archangias che segue la scena. Serge così si riconsacra tutto al Cielo – al Crocefisso, che ha sostituito la Vergine nelle devozioni del sacerdote. Ad Albine, oltretutto incinta, sembra non restare altro che il suicidio: la ragazza raccoglie nel Paradou quintali di fiori durante una sera interminabile, li ammassa nella sua stanza e vi si chiude dentro. Le esequie saranno celebrate dallo stesso Serge: fermo, impassibile, superiore alle cose di questo mondo, perché il vero prete non ha più niente di umano. Il racconto del funerale si incrocia con quello antitetico della nascita di un vitello, che entusiasma la deficiente Désirée; ma anche, ad abundantiam, con due altre situazioni accomunate fra loro dallo spargimento di sangue: la punizione di fra Archangias, che ha gongolato per la morte di Albine e ora, dopo un colpo netto del coltello di Jeanbernat, si ritrova un orecchio di meno; e l’uccisione del porco, che Désirée ha pensato bene di programmare per quella stessa mattina. Sorge il legittimo sospetto di non essere neppure nell’ambito del realismo. È vero che nella prima parte viene delineato con maestria – anche se in modo del tutto tendenzioso, sulla base di rigidi preconcetti – il ritratto psicologico di un giovane plagiato e istupidito dal seminario, la figura di un prete nei cui slanci mistici si rivela una tara mentale congenita; contrasta però con questo ritratto già un personaggio in cui l’anticlericalismo troppo acre prende forme buffonesche: fra Archangias, non esempio di cattivo frate, ma pazzo furioso il cui aggirarsi costituisce un problema di ordine pubblico. La stessa analisi di Serge d’altronde muta profondamente. Nella terza parte si legge un

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nono capitolo spettacolare, nel quale il sacerdote, distrutto per la lotta interiore tra dovere e desiderio di Albine, passa dalla preghiera alla disperazione alle più feroci affermazioni di ateismo – come a dire che la fede è solo autosuggestione. In queste pagine (di rara potenza artistica, al di là di ogni considerazione sull’accanimento anticristiano), con Serge che assiste all’attacco della natura e al terrificante spettacolo della chiesa scossa e infine distrutta e polverizzata, una progressione lenta e calibrata alza il tono dal ritratto psicologico alle note visionarie. Nella seconda parte, quella del Paradou esplorato con Albine prima del peccato, la castissima fantasia d’amore è vissuta nella più assoluta libertà narrativa: un paio di tentativi di riprendere la verosimiglianza – i tardivi rammarichi del custode Jeanbernat per non essersi interessato del paziente di Albine, quelli del dottor Pascal per avere scaricato alla ragazza il prete da guarire e non essersene più occupato – sono tanto improbabili quanto stonati. Il registro stilistico di fatto è molto differente da quello del realismo. Nella descrizione dei fiori in particolare ricorrono continue immagini sensuali ed erotiche, inquietanti e torbide. Si insiste sui colori, su avventurose similitudini e sinestesie, su libere metafore che rimandano con insistenza a carni muliebri; si traccia un itinerario di valore simbolico, tra le rose umanizzate al femminile e i gigli della purezza. Il Naturalismo è appena nato ed è già superato: queste pagine, modello per d’Annunzio, sanno di Decadentismo. E così il lungo concerto di profumi che si alza dalla massa di fiori nella stanza di Albine suicida, in una di quelle ampie sinestesie cui si ispirerà Huysmans. Questi salderà onorevolmente i suoi debiti: nel capitolo XIV di À rebours, Des Esseintes include la storia di Serge Mouret e Albine tra i suoi libri preferiti.

2.6 Son Excellence Eugène Rougon Eugène Rougon è uno degli uomini politici più privi di sfumature di ogni tempo. Il fisico solido e massiccio gli deriva dal padre Pierre; ma molto più simile a quella di sua madre è l’intelligenza ambiziosa, opportunista e spregiudicata, potenziata da un’abnorme brama di imporsi e dal culto idolatra della propria forza. Egli ama il potere in

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quanto tale e come mezzo per esaltarsi schiacciando la disprezzata umanità; a lasciarlo fare, non limiterebbe le proprie aspirazioni prima del raggiungimento dell’onnipotenza. L’autorità, concepita come uso del pugno di ferro, si deve per lui manifestare in distribuzione di bastonate e sferzate su armenti umani che non devono neppure avere la possibilità di lamentarsi. Eugène ha costruito la propria fortuna con l’Impero, grazie a ciniche capacità di calcolo. Ben pochi in realtà saprebbero muoversi meglio di lui nella politica contemporanea: una politica fatta di intrighi sotterranei, torbide manovre elettorali, concussioni, disinvolte distribuzioni di posti pubblici, legami di interesse con il mondo degli affari e con la stampa, scambi di favori e corruzione, agili salti dei voltagabbana su posizioni opposte a quelle sostenute fino a poco prima – e quant’altro suona tristemente familiare anche a lettori di epoche differenti. Il fatto di essere così monoliticamente bramoso di dominio salva però Eugène da una colpa più deplorevole: il servilismo. All’inizio delle vicende del romanzo, mentre gli svogliati deputati del Corpo Legislativo prestano attenzione alla seduta solo quando si tratta di stanziare un capitale di soldi pubblici per il battesimo del principino imperiale, arriva la notizia delle dimissioni di Eugène dalla presidenza del Consiglio di Stato: si è trovato contrario alla volontà dell’imperatrice. E quando in seguito l’imperatore chiede al ministro Rougon di tagliare i ponti con la sua «banda» di sostegno, per la quale si espone in evidenti abusi di potere, lui replica chiedendo al contrario nuovi favori per quei compari. In effetti Eugène non possiede l’ipocrisia dell’uomo di Stato che sa sempre rimanere a galla, ma la sagacia di quello che sa ritornare dov’era, anzi arrivare ancora più in alto, dopo essere stato affondato e aver nuotato a lungo sott’acqua. Le dimissioni dalla presidenza del Consiglio simulano una scelta personale, per evitare di esibire il siluramento subìto e per prepararsi in questo modo il ritorno. La sua nuova grande occasione arriva con l’attentato contro l’imperatore, dopo il quale gli viene assegnato il ministero dell’Interno: Napoleone III, conoscendo il suo pugno di ferro, gli chiede di farne uso senza pietà, armandolo ulteriormente con la «legge di sicurezza generale», perché egli infligga sani esempi alle masse. Nella fase più autoritaria dell’Impero, Eugène si occupa dell’ordine pubblico con raffiche di arresti, di norma ordinati dopo aver ascoltato il rapporto delle spie,

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reprimendo a piacer suo ogni accenno di libertà. Spicca tra l’altro il suo vivo interesse per la stampa, che egli vorrebbe completamente sottomessa alla censura, con l’unica funzione di strumento del potere; il ministro si preoccupa anche dei romanzi d’appendice, in cui scandalosamente certe mogli tradiscono i mariti senza neppure un rimorso... I suoi eccessi creano malumori a corte: Rougon, oltrepassando il limite, potrebbe trasformarsi in una involontaria minaccia per la stabilità dell’Impero. Un errore gli costerà infine la poltrona: per dimostrare a sé stesso e ai suoi protetti fino a che punto egli possa abusare del proprio potere, ordina un’ispezione di polizia in un convento di suore. Questa volta è spacciato, perché ha toccato la Chiesa: le sue dimissioni, presentate come estrema dimostrazione di forza, saranno accettate dall’imperatore. L’alterna vicenda di Eugène Rougon, sulla quale è costruito il romanzo a lui dedicato, non è però conclusa. Tre anni più tardi, cominciata l’epoca dell’Impero fintamente liberale, Eugène in qualità di ministro senza portafogli viene incaricato da Napoleone III di sostenere il nuovo corso politico. Un suo discorso rivolto al Corpo Legislativo è un clamoroso successo che lo riporta in auge, brillante delle sue migliori qualità: lui che un tempo definiva il regime parlamentare «letamaio della mediocrità» e sosteneva a oltranza il potere assoluto, ora con spudorato voltafaccia si fa paladino della libertà, ottenendo il trionfo nella parte conclusiva dell’orazione con un iperbolico panegirico dell’Impero difensore della Chiesa e del papa. Eugène vive nel costante desiderio di dominio non solo sugli altri, ma anche su di sé: l’inflessibile autocontrollo e la tendenza a razionalizzare tutto comportano in lui il rifiuto del sesso. Perciò quest’uomo d’acciaio con la faccia di bronzo può essere clamorosamente debole. Quando ha modo di contemplare le curve della frizzante e disinibita Clorinde, figlia di una vecchia baldracca di contessa italiana, il politico tutto d’un pezzo perde la testa fino a parlarle di sé e dei propri interessi, a ruota libera, già al primo incontro. Forse è meglio non considerare neanche che questa squinternata sgualdrinella, la quale conquisterà anche l’imperatore e userà il suo ascendente su di lui per patrocinare la causa sabauda, vorrebbe essere un calco o una parodia della contessa di Castiglione; resta comunque incomprensibile il fatto che Eugène Rougon si strugga per lei a tal segno. Il gioco

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tra i due è subdolo: lei vorrebbe farsi sposare, lui vuole cavarsi l’uzzolo e poi abbandonarla. Così perde la testa fino a tentare di possedere Clorinde con la violenza, nella propria scuderia: sudato e infuocato, con gli occhi strabuzzati, delirante per i vapori caldi del fimo, tanto imbestiato da lasciarsi prendere a scudisciate dalla giovane per placarsi le carni, Eugène è protagonista di una scena sconcertante. Saprà riprendersi – a modo suo, però, imponendosi sulla situazione con tutta la forza della razionalità: le propone come marito un proprio subalterno. Clorinde ci sta e intanto si lega al dito l’offesa arrecata al suo orgoglio. Avrà presto modo di vendicarsi, perché anche nel rapporto tra razionalità e sensualità, come in politica, la vicenda di Eugène procede a fasi alterne. Quando, ministro, egli si torce ancora davanti a lei in un attacco di spasmodico e sbavazzante desiderio, Clorinde per calmargli i bollenti spiriti gli spegne una sigaretta in fronte. Il duello fra i due resta aperto: Clorinde nel penultimo capitolo assapora lo spettacolo del crollo di Eugène, ma nella pagina conclusiva si complimenta con lui, sinceramente colpita, per il grandioso ritorno. La debolezza principale del romanzo è nello sfasamento tra l’Eugène Rougon dominato dalla passione di dimostrarsi superiore e il succubo d’amore che smania per Clorinde: il primo è soltanto raccontato dalla voce narrante, mentre in azione il lettore vede il secondo. La stessa Clorinde è personaggio ben poco riuscito. Lascia inoltre perplessi l’insistenza sulla «banda» dei sostenitori di Eugène, a suo dire così preziosa. Questa «banda», che in un secondo tempo si rivela un vincolo per il ministro e infine gli viene sottratta da Clorinde, è di fatto un’accozzaglia di postulanti e scalzacani che non potrebbe sostenere neanche un candidato delle più modeste elezioni comunali; per spiegarla è necessario ricorrere all’ipotesi di una lettura in chiave caricaturale. Le pagine buone sono invece costituite dallo splendido capitolo di Parigi in festa per il battesimo dell’erede imperiale e dalla ricostruzione dell’ambiente della corte a Compiègne, dove si esibisce il servilismo più nauseante nella figura dell’anziano dignitario che, non potendo baciare la manina del principino infante – questi si spaventa nel vedersi addosso l’indecoroso vecchio –, sbaciucchia il bracco prediletto dell’imperatore. È infine memorabile, nel suo piccolo, un’impudente battuta. Eugène, sconfitto da Clorinde che ha conquistato l’imperatore, viene da lei ammonito: guai a disprezzare

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le donne. Già, risponde Eugène, lui per combattere aveva solo le proprie forze, mentre lei... Clorinde completa il pensiero: lei aveva un’altra cosa.

2.7 L’Assommoir La struttura è di rigorosa semplicità: tredici grandi capitoli o blocchi narrativi per scandire la «vita semplice di Gervaise Macquart» (come doveva in origine intitolarsi il sommo romanzo), sei per la sua ascesa e altrettanti per il suo declino, con un capitolo centrale di cerniera nel quale al trionfo della protagonista si accompagna il preludio della futura rovina. Nelle prime pagine Gervaise ha ventidue anni ed è a Parigi da poco, dopo aver lasciato Plassans con l’amante Lantier da cui ha avuto Claude e Étienne, di otto e quattro anni. Sperperata in fretta l’eredità che gli ha permesso di spostarsi nella capitale, Lantier sparisce e Gervaise per mantenere sé stessa e i bambini riprende il mestiere di lavandaia imparato da bambina. Con pochi tratti, la geometria dell’ambientazione è già stata delineata: il quartiere operaio della rue de la Goutte-d’Or, all’epoca confine tra la città vera e propria e la campagna, zona di sistemazione per molti inurbati provenienti da altre regioni della Francia. La frequentazione dello zincatore Coupeau, che pare un brav’uomo, e le nozze di Gervaise e Coupeau occupano il secondo e il terzo capitolo (nel quale, con la pittoresca comitiva del matrimonio in visita al Louvre, si apre l’unico squarcio del romanzo ambientato in un’altra zona di Parigi). Nel quarto capitolo la disgrazia dell’incidente di Coupeau sul lavoro è bilanciata in positivo dall’avvio della nuova attività di Gervaise: grazie al prestito del buon Goujet, teneramente innamorato di lei, la giovane donna affitta una lavanderia. Il prosperare di quest’ultima è argomento dei due blocchi narrativi seguenti, dove si racconta anche come Coupeau, persa ogni voglia di lavorare, si sia messo a bere. L’apoteosi di Gervaise, lavandaia rispettata e stimata nel quartiere, è costituita dalla pantagruelica cena del settimo capitolo. In questa circostanza ricompare Lantier: svolta della vicenda, inizio della curva discenden-

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te della parabola. Stretta amicizia con Coupeau, Lantier si installa in casa loro come inquilino sfacciatamente moroso e approfittatore; per l’eccessiva sicurezza riguardo alla posizione raggiunta, cedendo alla tentazione di rilassarsi a godere la prosperità, Gervaise incomincia a risparmiarsi fino a essere negligente sul lavoro, gradualmente causando la rovina della lavanderia, di cui si impadronisce la falsa amica e vera rivale di sempre, Virginie. Retrocessa da padrona a salariata, Gervaise viene attratta dall’alcol che sta rovinando Coupeau, orbitante intorno a Lantier in un sodalizio da nullafacenti; cinica canaglia, Lantier si riprende la donna – una sera in cui Coupeau per l’ubriachezza le ha allagato di vomito la stanza –, la spolpa per bene e poi appende cappello da Virginie per campare a sue spese. Siamo arrivati al dodicesimo capitolo: il decadimento psicologico e lo sfascio fisico di Gervaise, alimentati dalla tendenza a lasciarsi andare, la riducono a un crudo squallore. I figli Claude e Étienne sono sistemati altrove; la figlia Anna detta Nanà, avuta con Coupeau, dopo aver dimostrato le sue propensioni ancora dall’infanzia e poi con lo sbocciare del fisico di ragazzina, ha lasciato adolescente la disgraziata situazione familiare per intraprendere la carriera della mantenuta. Esortata a vendersi dallo stesso Coupeau, ubriacone cronico sempre in compagnia della feccia bettolante, Gervaise per fame batte il marciapiede in una sera d’inverno con la quale l’arte del Maestro si eleva a livelli sublimi. La trova il bravo Goujet, ancora devotamente innamorato di quell’antico rigoglio di donna ora crollante, e la sfama senza chiederle niente in cambio. La fine di Coupeau verrà dall’avvelenamento alcolico, con agghiaccianti attacchi di delirium tremens; quella di Gervaise seguirà a breve, dopo un’appendice di esistenza con cui la donna toccherà il fondo della miseria e del disfacimento – poco più che quarantenne, perché l’arco cronologico della narrazione va calcolato dal 1850 al 1869. L’attento gioco delle ambientazioni segue il percorso di Gervaise che arriva a conquistare un proprio spazio, quello della lavanderia, ma poi sa farlo prosperare solo per poco e, illudendosi di poter rincantucciarsi in una nicchia di benessere, si condanna a spazi sempre più ristretti e isolati, fino alla sordida tana dove morirà. La simmetrica costruzione non contrappone rigidamente una parte positiva e una negativa. Intanto, la prima parte contempla anche le

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difficoltà di Gervaise e la sua lotta per la sopravvivenza, a partire dalle pagine iniziali (quando si ritrova sola con due bambini, abbandonata da Lantier), fino al drammatico incidente di Coupeau. La monotonia dell’andamento narrativo è inoltre evitata da alcune premonitorie anticipazioni in riferimento al binomio alcol-morte, come evidente nell’apparizione di papà Bazouge, becchino perennemente ubriaco, alla fine della giornata del matrimonio. Tema centrale, accampato anche nel capitolo di cerniera, l’alcol domina la seconda parte con tutto il suo terribile rilievo sociale – un’incidenza che al lettore odierno può essere difficile immaginare – e con la sua micidiale importanza per la protagonista. Al proposito si considerino con prudenza le letture critiche secondo le quali Gervaise sarebbe predestinata all’alcolismo, deterministicamente condannata a causa dei genitori alcolomani e della bella cura di anisetta cui la madre l’ha sottoposta da bambina per irrobustirla e compensare la malformazione della gamba. Il Maestro infatti analizza con estrema attenzione il cammino di Gervaise: se la predisposizione è indubbia, la molla che inclina il piano sul quale la vita della protagonista scivola e poi precipita è costituita dal suo cedimento alla pigrizia. La volontà di Gervaise, inizialmente ferma nel rifiuto dell’alcol, viene d’altronde indebolita dal vizio preparatorio della gola, conseguente al benessere dei tempi felici della lavanderia, vizio del quale la propensione al bere sarà la piena manifestazione più che una degenerazione. Attratta anche Gervaise nell’abisso senza ritorno, l’esiziale bettola dell’Assommoir diverrà a tutti gli effetti centro del romanzo, così da giustificare il titolo dal quale è stato scalzato il nome della protagonista. Anche l’Assommoir, nella tremenda parte finale del decimo capitolo, sarà creduto da Gervaise un caldo cantuccio in cui concedersi un po’ di benessere; eppure, la prima volta che vi è entrata, la donna ne ha ben intuito la natura infernale. Ecco un altro motivo per cui è preferibile non ritenere l’alcolismo condanna a priori inflitta dall’Autore a Gervaise: perché così facendo si ridurrebbe la sinistra potenza dell’acquavite, distillata per illudere e distruggere. La pubblicazione dell’Assommoir provoca un coro di reazioni sdegnate, tanto che il primo dei due giornali su cui compare in feuilleton interrompe per prudenza la pubblicazione. Si mobilita il criticume retrivo, compreso quello di sinistra, il quale ritiene il romanzo

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lesivo dell’immagine del popolo e dannoso per la credibilità dello stesso realismo. Le urla dei moralisti sono accompagnate dagli strilli isterici dei puristi, che disapprovano l’uso dell’argot. I pennaioli in questione sono stati colpiti dall’aspetto più superficiale di quel «lavoro puramente filologico», come definito dal Maestro nella prefazione, e non ne hanno invece saputo cogliere la straordinaria portata innovatrice nella tecnica del raccontare, che supera anche quella di Flaubert. Con la scomparsa degli interventi personali di commento e divagazione dell’autore, Flaubert ha già offerto il modello di vicenda che si racconta “da sé”, attraverso cioè una voce narrante autonoma rispetto a quella dell’autore, adeguata – in Madame Bovary e nell’Éducation sentimentale, non certo nella fantasmagorica Salammbô – a una trama che riproduce la quotidianità, senza figure eccezionali né espedienti propriamente romanzeschi per l’intreccio. Zola va oltre, traducendo in un nuovo stile questo criterio dell’impersonalità: adatta la voce narrante alle caratteristiche dei personaggi, facendone una trascrizione letteraria del modo di esprimersi del popolo. Essa così è formalmente corretta e nel contempo in sintonia con i verosimili dialoghi per espressioni e lessico (le venature di argot, appunto), cadenze (si veda il ricorso a epiteti fissi per i personaggi), mentalità sottintesa. La storia di Gervaise giunge quindi al lettore da una voce anonima appartenente allo stesso quartiere della Goutte-d’Or. Una tale voce è di fatto ancora onnisciente, come caratteristico dei romanzi ottocenteschi: il narratore racconta come se fosse stato presente allo svolgersi della vicenda e in alcuni casi, con esclamazioni o espressioni indirette di giudizio, si fa sentire in modo piuttosto deciso; a differenza però della voce onnisciente tradizionale, questa pare rivolta ad ascoltatori e non a lettori. Inoltre, essa si sviluppa con lo stesso romanzo e sembra non essere stata preventivamente studiata. Dopo qualche intervento già ben udibile nel quinto e nel sesto capitolo, l’originale voce narrante emerge decisamente solo nel settimo, vale a dire verso la metà del capolavoro. Pare plausibile ipotizzare un passaggio del genere: dal discorso indiretto libero riferito a un personaggio ben determinato all’indiretto libero in riferimento a più personaggi non distinguibili fra gli altri in scene affollate e da questo, come suo sviluppo, all’espediente di una voce narrante riferita a un ipotetico e invisibile testimone appartenente allo stesso ceto

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sociale dei personaggi. Le tre diverse tecniche possono comunque coesistere e si alternano in modo evidente, a pochissime righe di distanza, nel racconto della cena di Gervaise che il lettore ha la preziosa fortuna di incontrare nel settimo capitolo. Rispetto all’impersonalità di Flaubert il realismo compie così un importante passo in avanti grazie alle accresciute potenzialità nel calarsi per così dire velocemente nei personaggi, rendendone pensieri e sensazioni in forma più diretta ed efficace. Inoltre la forma narrativa dell’Assommoir dà una dignità nuova alla gente del popolo evitando al tempo stesso ogni prospettiva di parte, idealizzante – come quella romantica – o ideologica; l’intera narrazione può sottintendere con naturalezza e senza mai scivolare nel patetico la profonda pietas sentita dall’Autore. Il dibattito sulla grande creazione appena edita, vivacissimo negli ambienti letterari milanesi, ispirerà Verga per il preteso ciclo narrativo dei Vinti fallito dopo due risultati altissimi e, in primo luogo, per concepire I Malavoglia nelle linee stilistiche e tecniche. Mentre l’importanza della novità narrativa dell’Assommoir per la nascita del Verismo stenta ancora ad essere pienamente accettata da certi ripetitivi compilatori di storie letterarie, è un luogo comune dei compilatori stessi abbozzare nel capitolo su Verga un confronto con il Maestro francese, ridotto però ad algido naturalista propenso al patologico e quindi di evidente inferiorità rispetto al siciliano. Valga il vero: la grandezza dei Malavoglia e del Mastro-don Gesualdo è indiscutibile; ma, proprio per non ridurla, non vengano impostati confronti capziosi. Anche le situazioni più atrocemente realistiche dell’Assommoir sono animate da un respiro artistico di fronte al quale ogni letterato onesto deve togliersi il cappello. Invece di cianciare su un Naturalismo mai esistito in certi termini, sarebbe sufficiente rileggere la scena finale. Gervaise, precipitata nel fondo del suo degrado, viene trovata morta in un angusto e sudicio sottoscala: cadavere di due giorni, ci si deve ricordare di lei per l’odore che si sente provenire da quell’infima tana. Papà Bazouge se ne occupa dapprima garrulo come al solito, con i suoi monologhi filosofeggianti sulla vita e sulla morte; quando però la solleva, il becchino ubriacone si commuove e adagia Gervaise nella bara con una dolcezza che da anni era sconosciuta alla donna: «Fa’ la nanna, bella mia». E il mirabile capolavoro si chiude sulla più genuina nota di poesia di tutta la narrativa realista dell’Ottocento.

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2.8 Une page d’amour La trentenne Hélène, nata Mouret e benestante vedova Grandjean, vive in trasognato isolamento a Passy, in una casa dalla quale domina il panorama di Parigi, città che le è ignota e che lei neppure desidera conoscere. Paga di una serenità non turbata dalla perdita di un marito mai amato, Hélène intende vivere sempre nella calma piatta di quel piccolo mondo in cui si è imbozzolata con la figlia Jeanne. Quest’ultima, bambina ormai prossima alla delicata soglia della pubertà, cagionevole di salute, nella sua ipersensibilità ha sviluppato un morboso attaccamento alla madre, nei confronti della quale mostra adorazione, affetto estremo e gelosia di possesso. Una crisi notturna di Jeanne è destinata a sconvolgere la tranquillità di sua madre. L’attacco di convulsioni della bambina è infatti placato dal giovane e affascinante dottor Deberle: un uomo entra così in quella casa, potendo anche apprezzare le giunoniche misure della signora, malcelate nell’agitazione di quei momenti. Nel cuore di Hélène si accende qualcosa – o è un inganno, la copertura di uno sconosciuto desiderio emergente? Il dottore dimostra presto di anelare al ghiotto colpaccio; lei cercherà di razionalizzare e sublimare, ripromettendosi di amare Deberle sempre in segreto e da lontano, senza rovinare né il matrimonio di lui né il proprio nido incantato. Ma la gratitudine per il medico che le salva ancora la figlia, ridotta in fin di vita da una ricaduta, apre larghe brecce nel cuore della donna. Infine, vittima di uno strano incrocio di circostanze nel quale non si è resa conto di invischiarsi, Hélène cede all’acre richiamo dei sensi. Sarà una delusione: il contatto fisico fa crollare la finzione dell’amore e segna la profonda distanza che la divide da Deberle. Intanto Jeanne, nell’attesa della mamma da cui si sente abbandonata, resta alla finestra sotto la pioggia. Così la spegnerà in breve una tisi galoppante, proprio come sono morte sua nonna e sua zia. Hélène per punirsi tronca con Deberle e si risposa con un patetico brav’uomo da tempo innamorato di lei, tale Rambaud, abbandonando Passy e la tomba della figlia. Con Une page d’amour il Maestro (come racconta lui stesso nell’introduzione alla riedizione illustrata del 1884) realizza un sogno risalente ancora ai suoi vent’anni: quello di un romanzo in cui Parigi,

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«con l’oceano dei suoi tetti», fosse un personaggio, o meglio l’equivalente del coro nel teatro greco. E lo realizza con risultati di formidabile bellezza. Un quadro di Parigi vista dall’alto di Passy chiude infatti ciascuna delle cinque parti del romanzo: la città al mattino, con le nebbie che si dissipano lentamente fino all’aprirsi di una mattina serena di primavera, mentre in Hélène affiora l’inconfessato desiderio di amore; un tramonto esageratamente infuocato, quando Hélène è tentata di abbandonarsi alla passione; una notte d’estate gremita di stelle su Parigi illuminata, una di quelle pagine alla lettura delle quali gli scrittori onesti ritengono di essere indegni di prendere ancora in mano la penna; la città sotto una pioggia violenta, osservata da Jeanne che si ammala aspettando il ritorno della madre; e, con fenomenale prodezza conclusiva, la Parigi di neve e ghiaccio contemplata dal cimitero di Passy, quando Hélène è nuovamente sposa ma interiormente morta e per sempre gelida nella sua sessualità. Forse però questo sogno del cuore romantico di Zola si incrocia con un’altra aspirazione più concreta: misurarsi con Madame Bovary, la cui lettura ha significato tanto per lui, perché per Zola l’ammirazione si trasforma facilmente in competizione. Il termine di raffronto non sembri troppo elevato. La creazione di Flaubert ovviamente resta imbattuta e imbattibile, ma Une page d’amour si pone a un livello altissimo per lo stile (se i quadri di Parigi trionfano per il loro vigore, non vanno trascurate altre pagine: il racconto del funerale di Jeanne è di un nitore assoluto) e per la concezione del personaggio e della sua vicenda. Il romanzo di Hélène sonda le profondità dell’animo femminile con una storia concentrata su pochissimi personaggi e si propone di analizzare una passione d’amore «come nessuno ha mai fatto»: cioè escludendo tanto le fantasticherie romantiche quanto il rischio di eccessi brutali del Naturalismo, quelli per i quali il Maestro ha decisamente optato in Thérèse Raquin; e affrontando pieghe delicatissime del cuore e della psiche, perché il desiderio di Hélène, che in larga misura resta sconosciuto a lei stessa, è di vivere un rapporto che appaghi in egual misura il cuore e i sensi. Non si tratta di un racconto sempre diretto: in più casi sono inseriti situazioni o accenni dall’apparenza innocente, in realtà allusivi della dimensione della sessualità. Senza scomodare la psicanalisi, che per sua fortuna l’epoca non conosceva ancora, nella scena di

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Hélène che in altalena vola esultante sempre più in alto si può agevolmente riconoscere il travestimento di una situazione erotica. Un ritornello della vicenda è più crudelmente esplicito. Hélène è vedova di un uomo per il quale provava solo un po’ di affetto; lui la adorava, tanto da avere l’abitudine di baciarle i piedi. Quando cede ai sensi finendo a letto con Deberle, l’inizio del contatto avviene con i gesti dell’uomo di asciugarle i piedi bagnati dalla pioggia e baciarglieli. Ancora glieli bacerà la prima notte di nozze il buon Rambaud, che per conquistarla dimostrava con Jeanne tutta la tenerezza di un aspirante padre: neanche lui, si intuisce, saprà darle quelle soddisfazioni che Hélène ambisce. La grande novità di Une page d’amour consiste proprio nel largo uso dell’allusione e nella mancanza di spiegazioni. Si consideri in che modo Hélène si trova a lasciarsi possedere da Deberle. Lei ha saputo che la frivola moglie del dottore sta per cedere a un fatuo dongiovanni; si risolve a scrivere una lettera anonima a Deberle per avvisarlo dell’appuntamento fra i due. All’ultimo momento si rende conto di quanto il suo gesto sia ignobile e si precipita sul luogo dell’imminente fattaccio – una garçonnière celata in un luogo insospettabile – per prevenire i due. Questi scappano; Hélène resta lì, senza un motivo plausibile. Quando Deberle educatamente bussa alla porta, lei gli apre subito, ancora senza alcuna ragione. Sono forzature ai fini dello scioglimento della trama? Hélène è assorta: in quel postaccio così diverso da casa sua le tornano ricordi di tanti anni prima, nella sua mente si associano idee involontarie e inspiegabili. Così finisce con l’abbandonarsi a Deberle, incurante del tempo che passa, come se non potesse far diversamente. Questo aspetto viene ripreso nel finale: Hélène non si riconosce in ciò che “quella donna” ha fatto; possibile che “quella donna” fosse proprio lei? La debolezza di nessi logici induce a formulare questa alternativa: o il romanzo pecca per incoerenza del personaggio, o con Une page d’amour siamo di fronte a una grandissima intuizione del Maestro, che subito dopo L’Assommoir, in pieno Naturalismo, anticipa il racconto dei gesti senza un perché, dettati dall’inconscio, caratteristici di tanti personaggi del Novecento. Il romanzo però non si riassume interamente nella protagonista: la figura della piccola Jeanne è strepitosa. Zola dimostra anche altrove (certe pagine del Ventre de Paris, poi in La joie de vivre) rara

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capacità di capire l’infanzia e soprattutto di saperla ritrarre dal vivo, grande prova per qualunque scrittore, senza stucchevoli convenzioni e senza artifici; qui al proposito va ammirato il capitolo della festa dei bambini. Ma con Jeanne c’è di più. Lei è un’ipersensibile, il cui rapporto con la realtà le lascia incisioni profonde nell’animo; è una bambina che ausculta con strazio la propria interiorità malata. Attendendo la mamma che l’ha tradita per andare in un posto «dove i bambini non possono andare», Jeanne lascia scorrere i propri pensieri. Per quale motivo gli altri smettono di volerle bene, mentre, se lei vuole bene, è per sempre? Il gatto che è scappato, l’uccellino morto, la bambola che si è lasciata schiacciare la testa: quante delusioni nei suoi affetti... La nostra penna cerca di inseguire quella del Maestro: Une page d’amour non brilla meno di altri titoli, nella costellazione dei Rougon-Macquart.

2.9 Nana La prima parte della vita di Anna detta Nanà, figlia di Gervaise Macquart e di Coupeau, è raccontata con impressionante nitidezza nell’Assommoir. Bambina, Nanà è una piccola peste a capo di una banda di coetanei, autrice di monellerie che indicano non vivacità bensì turbolenza d’animo e che accompagnano una precoce tendenza al vizio: già maliziosa e sconcia a pochi anni di vita, esamina i maschietti con il gioco cripto-osceno “del dottore”. Vive con una madre che tende a lasciarsi andare al vizio della gola e alla pigrizia, con un padre fannullone e bevitore e con un farabutto antico amante della madre, Lantier, installato a ufo in casa. Anche quest’ultimo darà un buon contributo all’educazione della piccola, insegnandole a ballare e a parlare il gergo. La curiosità morbosa di imparare come vada il mondo risulta tutta nei grandi occhi e nel volto serio con cui la bambina osserva, non vista, la sordida scena del triangolo domestico: il padre, ridotto a meno di una bestia, giace sul letto nel sonno pesante dell’ubriaco, in mezzo al vomito di cui ha inondato la stanza; la madre, sconvolta, si lascia portare in camera dall’ospite che la riprende anni dopo averla vilmente abbandonata. Cresce così una civetta bel-

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la e svergognata che vive la prima Comunione come esibizione di sé, dando a mezza voce del cochon a suo padre per buona aggiunta; poi, fulmineamente superata ogni acerbità, Nanà risplende quale adolescente di radiose e piccanti attrattive. Con le generose forme matura anche l’innata vocazione al puttanismo. Nel laboratorio dove lavora come fiorista, ascoltando le sconcezze che si raccontano operaie rotte a ogni vizio, impara quel poco che ancora non aveva appreso in rue de la Goutte-d’Or. Allettata dai piaceri di Parigi, constata quanto sia semplice procurarseli quando viene adocchiata da un attempato sporcaccione danaroso. La vita in casa intanto è diventata un inferno: anche la madre adesso è bevitrice cronica e sia lei sia Coupeau la picchiano. Una sera in cui tornando trova entrambi i genitori sfatti per l’alcol, Nanà volta loro le spalle e si allontana. Riportata a casa a suon di schiaffi o tornandovi di propria iniziativa, la ragazza attraversa un periodo di va-e-vieni dovuto non già a resipiscenza, bensì all’intento di trovare una collocazione sicura: un palazzo e non un marciapiede. E infatti, poco dopo il suo definitivo allontanamento, la si intravede ben vestita e in carrozza. Con uno dei collegamenti più saldi (benché l’addentellato della cronologia non sia impeccabile) e più belli dell’intero ciclo, si ritrova Nanà diciottenne in quella pietra miliare della letteratura che porta il suo nome come titolo. Un impresario senza scrupoli, dirigendo il teatro delle Variétés alla stregua di un bordello, lancia la giovanissima mantenuta con una farsa cretina che ridicolizza la mitologia antica per il cattivo gusto degli spettatori, La blonde Vénus (parodia a sua volta della Belle Hélène di Offenbach). Bionda, alta, formosissima, non sapendo cantare e neppure stare in scena, l’ancora sconosciuta Nanà con impudica franchezza punta tutto sulle proprie curve e pare dapprima una simpatica figliolona e nulla più. Ma quando in una scena successiva si ripresenta coperta appena da un velo, è davvero la dea dell’onnipotenza del desiderio sessuale, raffigurando l’incontrastabile potere della carne di donna il cui desiderio infiamma e strazia le viscere maschili. Ha allora inizio il suo folgorante successo di alcova: femmina imperante con capricci da bambina, portento naturale che non si cura degli effetti delle proprie azioni, Nanà guasta, corrompe, sottrae la rispettabilità a uomini stupidamente felici di rotolare nel fango per lei; è la «mosca d’oro»

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che porta con sé il marcio delle proprie origini contaminando il bel mondo. In Nanà non si trovano aspetti positivi di una certa consistenza, al di là di quel po’ di istinto materno per un bambino di cui un incidente di percorso l’ha resa madre; ma non la si può definire neppure una ragazza cattiva, perché una valutazione morale risulta difficile per un essere così istintivo e così poco raziocinante. La stessa rivalsa sociale, certo apprezzata da una ex-monella della rue de la Goutte-d’Or, figlia di lavandaia che ora trova ai suoi piedi nobili e signori, non è una soddisfazione cercata apposta. Non è insomma colpa sua se gli uomini, animalescamente calamitati, sono disposti a qualunque follia per lei, che ricambia tutti, chi più chi meno, con il disprezzo. Intricata, volubile e contraddittoria nel comportamento come una campionessa di femminilità non potrebbe non essere, probabilmente anche incomprensibile per sé stessa, Nanà non è una fredda calcolatrice. Rinuncia infatti alla ricchezza dei suoi amanti, quando già parrebbe prossima all’apice del successo, per mettersi con l’attore Fontan, un bestione egoista di ridicola bruttezza dal quale si lascia anche picchiare: estremamente donna anche in questo piacere di essere sottomessa a un maschio – si può leggere tra le righe – di raro vigore sessuale. Come attrice sul palcoscenico era negata; ma per recitare nella vita Nanà ha un talento naturale. Dalla più squallida prostituzione cui si è ridotta vivendo con Fontan, sa riemergere e salire anzi più in alto di prima sfruttando la più infelice tra le sue vittime, il conte Muffat. Questi è già stato suo amante prima della parentesi di Fontan: dapprima tormentato tra il desiderio della «bionda Venere» e gli scrupoli da casto bigotto, Muffat ha scoperto con lei il gusto del peccato, dopo che Nanà ha saputo strategicamente inasprire il suo desiderio fino a renderlo devastante. Ora, nell’illusione di poterla avere tutta per sé, Muffat la mantiene in una palazzina simile a una piccola reggia, dalla quale la giovane esercita su Parigi la sua tirannica signoria sessuale. Il conte però non è solo roso dalla passione: è anche profondamente e teneramente innamorato di lei, tanto da soffrire strazi infernali non avendone l’esclusiva. Nanà infatti, benché adorata con il tributo di un lusso sfarzoso che presto sgretola il patrimonio del conte, pone limiti precisi alla sua frequentazione e approfitta della libertà per tradirlo. Umiliato in ogni modo, Muffat

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scende sempre più in basso, fino ad abbrutirsi con lei in giochi degenerati che fanno scempio del suo decoro di ciambellano delle Tuileries e ancor più della sua dignità di uomo. Si strappa da Nanà, con lacerazione insanabile, solo quando trova a letto con lei quel decrepito vizioso del proprio suocero; ma, pur rovinato economicamente e moralmente dalla giovane, ancora piangerà per la sua morte con tutta la pazza nobiltà di irredimibile innamorato. Se Muffat precipita in un baratro, Nanà segue intanto un duplice percorso. Da un lato la sua celebrità in Parigi si allarga a dismisura, fino al trionfo in occasione del grand prix nell’ippodromo di Longchamp; d’altro canto lei rischia di smarrirsi nelle deviazioni, tra un rapporto lesbico provato per noia e presto divenuto fonte di tormento e la minaccia di una dipendenza psichica dalla ninfomania. Questi aspetti scabrosi sono però marginali; l’arte del Maestro si innalza altrove in uno dei suoi grandiosi crescendo. Il piacere di consumare, insudiciare e distruggere si ingigantisce nel duplice sperpero di denaro e di vite umane. Il primato dello sciupìo di esistenze va assegnato al caso dei fratelli Hugon, l’uno disonorato da una macchia indelebile nella carriera militare, l’altro, ancora ragazzo, suicida dopo essere stato illuso da una finzione di sentimento sincero. È però lo sperpero di denaro quello che maggiormente mina la posizione di Nanà, che lo scialacqua con sempre maggiore noncuranza o ostentazione. Bruciando in tempi vieppiù rapidi i beni degli amanti vampirizzati, con conseguente veloce ricambio degli amanti stessi, incentivando intorno a sé gli sprechi, Nanà scava un abisso in cui minaccia di sprofondare la sua stessa casa. Giunta all’estremo, non le resta che sparire in un misterioso soggiorno all’estero. Tornerà a Parigi solo per morire di vaiolo al Grand Hotel, assistita dalle compagne di meretricio d’alto bordo: le uniche che abbiano il coraggio di entrare nella sua stanza, mentre gli uomini non si avvicineranno al corpo tanto ambito ora distrutto dalla malattia. È difficile, forse impossibile trovare nella narrativa un’altra sovrapposizione così perfetta di figura reale e di simbolo. Nella sua trionfante plasticità, Nanà rappresenta la seduzione allo stato puro, la potenza della carne femminile con il suo irresistibile richiamo: nelle note preparatorie il Maestro si proponeva di scrivere il «poema dei desideri del maschio, grande leva che muove il mondo», ma

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ancor meglio definiva il futuro romanzo, con la divertita crudezza di chi annota per sé e non per i lettori, «poema del fondoschiena» inseguito, assaltato e idolatrato da tutti i maschi benestanti – in eufemismo, perché al posto di «fondoschiena» gli appunti registrano l’insistito uso del vibrante sinonimo di tre lettere in francese e quattro in italiano. Nanà è soprattutto figura simbolica della corruzione del Secondo Impero, delle follie economiche e dello sfacelo morale delle classi elevate, il che fornisce la giustificazione artistica per lo scriteriato comportamento di tutti gli uomini pronti a rovinarsi per lei – si noti, uomini dell’alta società: un popolano come Fontan se la gode, la sfrutta malmenandola e la scaccia. Il nesso è suggellato dal mirabile finale della sua morte per vaiolo, nel luglio del 1870, mentre si annuncia la guerra contro la Prussia: come il folgorante fascino di Nanà, anche l’opulenza esteriore dell’Impero ben presto si disferà e decomporrà mostrando il putridume di cui era intrisa. È ben noto che Flaubert, leggendo l’ultimo capolavoro dei Rougon-Macquart che ebbe il tempo di conoscere, definì «enorme» il romanzo e «michelangiolesca» la morte di Nanà: neppure la nostra ammirazione osa cercare aggettivi più appropriati di quelli adoperati dal massimo stilista della lingua francese.

2.10 Pot-bouille La rue Choiseul di Parigi si trova tra la Borsa e l’Opéra, nella zona delle galeries o passages. Nel novembre 1861, quando vi prende alloggio Octave Mouret appena giunto a Parigi, sulla via troneggiava uno stabile nuovo: un palazzone a quattro piani decorato e arredato per ostentare l’opulenza borghese, benché l’opportunità vincolasse il proprietario ad affittarne gli appartamenti più modesti a popolani. Questo stabile, tranne qualche sporadico squarcio su altri interni, è lo scenario in cui si svolge la grottesca e impietosa satira della borghesia parigina. Una casa abitata solo da persone perbene, di specchiata moralità – così viene presentata a Mouret dall’architetto Campardon, che accompagnandolo nel suo appartamento all’ultimo piano fa il nome

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degli inquilini per ciascuna porta: il consigliere di Corte d’Appello Duveyrier, che ospita lo stesso padrone di casa, l’anziano Vabre; i due figli di quest’ultimo, Auguste e Théophile; i Josserand... Specchiata moralità, certo. Le maschere non reggono che per le primissime pagine. Campardon, il fiero paladino di quell’universo concentrazionario di probità borghese, per consolarsi di una moglie patologicamente asessuata ha come amante sua cugina, che per comodità si porterà in casa come convivente: una poligamia che, coperta con le dovute cautele, neppure scandalizzerà, anzi non impedirà all’architetto di pontificare e stigmatizzare sulle immoralità altrui. Intanto il valentuomo è ignaro del rapporto saffico in cui la domestica ha adescato sua figlia adolescente. Théophile Vabre, privo della virilità, è tradito dalla moglie, forse non proprio dipendente da bisogni sessuali come si vocifera, ma certo isterica e fortemente desiderosa di consolazioni, resa madre da un garzone di macelleria. Subito dopo la morte si scoprirà che il Vabre padrone di casa, giudicato un rimbambito innocuo, è stato invece affetto da rimbambimento pernicioso: si è bruciato tutto in Borsa, lo scimunito, e in mezzo a furiosi scontri per l’eredità lo sfacciato uomo di legge Duveyrier completerà il disastro pappandosi con un legalissimo imbroglio l’intero palazzo. La pagherà in altro modo: disperato per il trattamento inflittogli dall’amante, Duveyrier si risolverà a un miserevole tentativo di suicidio in gabinetto; per tutto risultato avrà la faccia mutata in un’espressione solennemente asimmetrica, di grande effetto in tribunale, a causa della mascella deviata dalla maldestra rivoltellata. L’altro figlio del proprietario, Auguste, penoso valetudinario consumato dalle emicranie, è preso al laccio in mancanza di meglio dalla signora Josserand per la figlia minore Berthe. Trionfo dell’orrore, la signora Josserand: virago il cui credo si sintetizza nella dogmatica certezza che sia meglio suscitare invidia che pietà; capo indiscusso – schiacciando anche fisicamente l’umile marito – in un appartamento di sozza miseria ammantata di falso lusso; madre ossessivamente votata al suo intendimento di combinare un buon matrimonio per le figlie, alle quali ha trasmesso, oltre all’aberrante religione delle apparenze, il disprezzo per i maschi. Negli insegnamenti della signora Josserand, i mezzi giustificati dalle finalità della morale borghese vengono ad assomigliare alle più sgualdrinesche manovre di

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accalappiamento degli uomini. Berthe infatti vincola Auguste a un inevitabile fidanzamento con una trappola salottiera di rara bassezza; lei e sua sorella dimostrano un’abilità degna di meretrici all’osteria nell’ubriacare il vecchio zio degenerato per scucirgli qualche soldo. Guidato dalla narrazione, il lettore vede ben presto la realtà dietro la pantomima; ma, purché siano salve le apparenze, in tale società la mascherata potrebbe proseguire a oltranza. La condanna può giungere solo per l’adultera che, sorpresa in flagrante dal marito, metta nottetempo in subbuglio lo stabile; o ancor più per l’operaia nubile che nel ventre sporgente denunci da sola la propria colpa, giudicata senza appello dall’inflessibile portinaio custode di questo tempio del perbenismo. La falsità degli atteggiamenti viene svelata per contrasti. Ad esempio, alla solennità della scala principale, ovattata nel suo venerando decoro, si contrappone l’oscuro e fetido cavedio sul quale danno le cucine dei vari piani, una sorta di zona franca per la servitù che affacciandosi può comunicare lontano dalle orecchie padronali: e le comunicazioni consistono nello scambio di scherzi sudici fatti di allusioni rivoltanti e nella laida diffusione dei pettegolezzi più spietati, in un profluvio di sozzure che quotidianamente scorrono per quell’immonda cloaca. Ma l’autentica cartina di tornasole che svela le magagne dei bravi borghesi è il retroscena del sesso: qui gioca il suo ruolo Octave Mouret, le cui imprese erotiche, intrecciandosi o accompagnandosi a quelle di altri personaggi, costituiscono l’asse portante dell’intreccio. Il primogenito di François Mouret e Marthe Rougon è ventiduenne al suo arrivo in rue Choiseul; ha trascorso qualche anno a Marsiglia, dove è stato mandato dal padre per imparare il commercio dopo gli insuccessi scolastici e dove si è dato alla bella vita, seguendo la propria indole gaudente e cinica. Il periodo di Marsiglia spiega come Octave Mouret sia potuto giungere a Parigi già sprovincializzato, senza complessi di inferiorità nei confronti delle signore della grande città, subito pronto a intraprendere l’attività di seduttore; capace anche di accendersi – per breve tempo – di grande interesse per qualcuna, ma in definitiva convinto che le donne siano tutte piacevoli mezzi da usare per elevarsi socialmente. Per parecchio tempo in verità come seduttore il giovane non sembra un gran che: l’unica relazione è quella nata, senza alcun calcolo preventivo, con una donnina scialba dalla testo-

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lina pateticamente vuota. Per il resto, colpi mancati e goffaggini. Il grande successo sarà frutto soltanto di fortuna: quando lui è ben lontano dal pensare qualcosa del genere, l’appetitosa vedova Hédouin gli propone un matrimonio come forma di associazione per lo sviluppo del negozio di mode «Au Bonheur des Dames». L’immorale Mouret sposa così l’unica signora davvero perbene dei paraggi. La sua conquista di Parigi è però appena incominciata: occorre subito un seguito.

2.11 Au Bonheur des Dames Per essere perfettamente realista e nel contempo artista, il Maestro esagerava. Ecco perché, nel romanzo dei grandi magazzini, l’immaginario «Au Bonheur des Dames» cresce con velocità ancor più vertiginosa di quella già stupefacente dei suoi omologhi nella Parigi del Secondo Impero. Nato come negozio di “novità” della signora Hédouin, che ha quasi subito lasciato vedovo ed erede il suo exdipendente e secondo marito Octave Mouret, nel giro di cinque anni – dal 1864 al 1869 – il «Bonheur des Dames» arriva a cinquanta reparti e più di tremila dipendenti, settantamila clienti giornalieri che comportano un volume d’affari di cento milioni, toccando il record di incasso di un milione di franchi in un solo giorno. Merito di Mouret, che dal romanzo precedente è assai maturato come conquistatore di cuori femminili e ha dimostrato capacità addirittura eccezionali come venditore. Dotato di determinazione d’acciaio e volontà di dominare, portato a slanci audaci o temerari, tanto da inquietare gli azionisti, Mouret è desideroso di guadagno per poterlo investire ancora, crescere ed espandersi e nuovamente rischiare il tutto per tutto al giro successivo, affrontando gli affari con la logica di un giocatore d’azzardo e la tendenza allo smisurato. La sua è una continua scommessa sulla febbre di tempi anelanti alla spesa e allo spreco: periodo aureo, per chi ha mezzi e non conosce scrupoli. E infatti il proprietario del «Bonheur des Dames» è disinvolto e spregiudicato fino al cinismo, sia con il personale, al quale comunque le regole del tempo non garantivano alcuna sicurezza, sia principal-

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mente con la clientela. Una clientela femminile: il «meccanismo del commercio» per Mouret coincide proprio con lo sfruttamento della possibilità di spendere della donna. Il dongiovanni dimostra in effetti adeguata conoscenza della psicologia femminile, rispetto alla quale sa fare i propri interessi affascinando con scopi diversi per passatempo e per professione. Il suo «Bonheur» è studiato proprio per sedurre. La donna è dapprima colpita dall’aspetto delle vetrine, mezzo per suscitare il desiderio; entrando, trova un luogo dove tutto la solletica e dove lei si sente blandita e lusingata, non rendendosi così conto di venire spolpata. Il lavoro sottile e subdolo della tentazione deve saper superare anche le barriere poste dalle donne più equilibrate ed econome: i saldi possono far sembrare l’acquisto un affare o persino una forma di risparmio, la possibilità di reso serve ad acquietare preventivamente le coscienze. Le signore dell’alta società danarosa sono naturalmente il bersaglio preferito, ma in vista del guadagno più elevato possibile il «Bonheur» non mira soltanto alla clientela di élite: al contrario, propone molti oggetti superflui come rappresentativi di un’agiatezza e un lusso alla portata anche della media e piccola borghesia, con incitamento a spese in realtà spesso non sostenibili per la clientela in questione e quindi deleterie. Tutto contribuisce insomma a ricordare la massima di Baudelaire secondo la quale l’intrinseca natura del commercio è sempre satanica. Le strategie e tattiche di vendita di Mouret rimangono a tutt’oggi insuperate: importanza data alle vetrine; cura “mirata” nella disposizione delle merci all’interno dei reparti e dei reparti all’interno del magazzino; facoltà per le clienti di girare liberamente, senz’obbligo di acquisto; prezzi fissi dichiarati, ma largo ricorso a ribassi, saldi, vendite promozionali; bilanciamento dei profitti per cui, in ben mirati casi, si può vendere qualche articolo quasi a prezzo di costo pur di attirare le clienti; grandi investimenti in pubblicità: cataloghi, affissioni murali, réclame sui giornali o anche – con inventiva originalissima per l’epoca – sui sipari dei teatri e sui palloncini regalati ai bambini. E infine le grandi vendite a tema, che offrono al lettore pagine di abbagliante bellezza: le novità per l’estate, messe in vendita già alla fine di marzo (davvero ben poco di nuovo è stato inventato in questo campo negli ultimi centocinquant’anni!); la fiera del bianco, nella parte finale del romanzo, un incanto che si dispiega

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quando si pensava di aver già letto tutto quanto il romanzo potesse offrire di più bello in descrizioni. L’originalità di Au Bonheur des Dames consiste anche nell’essere l’unico romanzo del ciclo con un finale lieto: Denise Baudu, la ventenne orfana giunta spaurita a Parigi dalla Normandia con due fratelli a carico, assunta come commessa, sale nella gerarchia del grande magazzino e inconsapevolmente conquista il cuore del padrone, di cui è innamoratissima, fino a farsi sposare. La fresca semplicità e la tenacia formidabile unita alla dolcezza fanno di Denise uno dei più bei personaggi creati dal Maestro. Paziente, generosa e coraggiosa, Denise sopporta profonde umiliazioni al suo arrivo, poi mesi di fatica, solitudine, povertà e preoccupazioni per i fratelli; ma, anche se avere un amante le darebbe una facile possibilità di migliorare la situazione, rifugge dai compromessi morali per mantenersi pura. E tutto ciò è narrato senza che all’Autore sfugga una sola nota troppo patetica. Denise si innamora presto, come in un sogno senza speranze, del bel signor Mouret; lui è interessato, poi intenerito, puntando comunque, secondo la sua manovra abituale, a portarsi a letto la ragazza e dimenticarla. Denise, per amore e per onestà, gli resiste. Senza rendersene conto, si comporta così nel modo più opportuno che il mero calcolo avrebbe saputo suggerirle: accende uno spasmodico desiderio in Mouret, il quale infine, travolto dall’amore, arriva a proporle il matrimonio. Con innocenza Denise si rivela dunque la vendicatrice di tutte le donne, amanti e acquirenti, soggiogate dal fascino del «Bonheur» e del suo padrone. Il loro sarà un matrimonio felice, come il lettore dei Rougon-Macquart saprà una decina d’anni dopo nel Docteur Pascal. Zola però non ha inteso scrivere la storia d’una Cenerentola miracolata da una fata invisibile per la sua bontà: Denise arriva al posto di direttrice di sezione e finisce di conquistare il padrone grazie alla propria intraprendenza e alle altre qualità che ad essa si affiancano. La giovane provinciale infatti afferra ben presto i meccanismi del nuovo commercio, come i piccoli negozianti parigini non sono in grado di fare; per questi ultimi, soffocati e infine schiacciati dall’imporsi del grande magazzino, lei sente compassione, ma intuisce lucidamente come sia necessario uno sviluppo economico che porterà a una Parigi più grande, in vista della quale possono perfino essere

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accettate certe manifestazioni di forza a svantaggio dei più deboli. Denise in Mouret vede – e ama – la forza propulsiva del progresso. Comprendendo tutto questo, la giovane sa dare validi suggerimenti al padrone, tali da migliorare insieme le condizioni dei commessi e il funzionamento del magazzino e quindi da aumentare gli introiti. Ecco il punto: al Maestro non interessa scrivere una storia d’amore, ma – come si propone già nelle prime righe dell’abbozzo preliminare – il «poème de l’activité moderne», un romanzo basato su dinamismo e capacità lavorativa, incentrato sul progresso e sullo slancio verso il futuro. Il grande magazzino, emblematico dei nuovi tempi, rappresenta la modernità (anche nella sua architettura, ma in particolare nel pulsare della vita al suo interno) e i fermenti di «un secolo di azione e conquista». Il che può indurre a vedere un’identità tra dinamismo vitale e trionfo del capitalismo. Per il microcosmo del «Bonheur des Dames» sono adoperate varie immagini, non univoche: un’immensa macchina, impressionante per la sua efficienza; un Moloch le cui fondamenta hanno ricevuto il tributo di sangue della signora Hédouin, morta per un incidente durante i lavori del primo ampliamento; un essere vivente mostruoso, peggiore del prossimo Voreux di Germinal perché si estende sulla città, divorando il quartiere e mirando a imporre la propria presenza tentacolare. Principalmente però il grande magazzino è un tempio, dove la donna è nel contempo una devota, tanto da passare lì le ore prima trascorse in chiesa, un oggetto di culto, poiché come atto di ingannevole adorazione le è offerto tutto il lusso esibito, e una vittima sacrificale all’idolo del guadagno sfrenato. L’immagine del tempio torna anche capovolta, nella sua reale prospettiva demoniaca: l’ordine dei reparti è stato studiato perché in essi si succedano tentazioni via via crescenti, fino a quella suprema nel reparto di trine e merletti, sorta di sancta sanctorum alla rovescia. Il terribile culto qui praticato non si ferma davanti ad autentici sacrifici umani: pagano con la vita la signora affetta da sindrome di acquisto compulsivo e la contessa che, frustrata per non avere disponibilità di liquidi, si brucia la rispettabilità venendo sorpresa a rubare. Benché gli aspetti mostruosi facciano inorridire Denise, prevale in lei il fascino per il grande magazzino come macchina del progresso. Quest’ultimo comporta però lotta per la sopravvivenza e

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selezione naturale. All’interno del «Bonheur des Dames» serpeggiano tra il personale, accompagnate dai caustici pettegolezzi del mondo impiegatizio, fiere rivalità per scavalcarsi a vicenda nell’avanzamento o nell’ottenere la percentuale sulle vendite, fino all’odio reciproco o alla deglutita rabbia contro le clienti, mascherata da sorrisi deontologici. All’esterno la guerra, dall’esito scontato, è combattuta tra il grande magazzino e il piccolo commercio tradizionale: le storiche botteghe che rappresentano ormai un fragile anacronismo, come quella di stoffe di Baudu, zio di Denise, o quella di bastoni e ombrelli dell’eroico Bourras, incassata in una catapecchia infine polverizzata dall’espandersi del «Bonheur des Dames». L’antitesi è evidente, ma non per questo meno suggestiva: il «Bonheur» rifulge di luci e pullula di movimento, in un tripudio di vita; le antiche botteghe marciscono nell’immobilità silenziosa, nella penombra umida e muffosa che odora di morte. Il Maestro naturalmente eccede nel raffigurare questi negozi come antri sepolcrali, deborda nel ricostruire il crescendo della rovina dei bottegai. Ma ciò che prevale è il rimando metaforico o simbolico, che costituisce l’ossatura del meraviglioso romanzo. Proprio il simbolo salda nella conclusione la vicenda del tempio del commercio e del progresso a quella di Denise. La sontuosa esposizione del bianco costituisce infatti il trionfo del grande magazzino, che tocca il record di incassi, e al tempo stesso prelude alla vittoria di Denise, perché il bianco è il colore della sua purezza e del vestito di sposa che di lì a poco lei indosserà. Il lieto fine per Denise e Mouret è smagliante. Ma la vittoria di qualcuno comporta sempre la sconfitta di un altro. Poiché Mouret trionfa, le botteghe circostanti sono costrette a chiudere; poiché la protagonista sposa Mouret, soccombe quel timido commesso pateticamente innamorato di lei e ricambiato con amicizia mista a un pizzico di pietà: non potrà più offrirle il suo goffo e perdente sentimento. E anche in noi lettori la gioia per la felicità di Denise si accompagna a una punta di nostalgia: proprio innamorati non eravamo, ma anche noi provavamo del tenero per lei.

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2.12 La joie de vivre Il titolo è antifrastico per amara ironia o va preso alla lettera? La gioia di vivere di Pauline, duramente messa alla prova senza mai essere soffocata, è destinata allo scacco finale o risulta vittoriosa sul crudele gioco degli avvenimenti? I dubbi permangono a dispetto delle riletture e dei sostegni critici; il che forse dimostra che si tratta di un’ambiguità voluta. Resta comunque aperto un varco in un romanzo che in effetti ha per tema non la gioia, bensì il dolore; un romanzo nel quale, secondo la stupenda recensione di Maupassant, «si libra, uccello nero dalle ali spiegate, la morte». L’autobiografismo, di norma prudentemente evitato (fatta eccezione per L’œuvre), ha inciso poco sugli altri romanzi dell’immenso ciclo dei Rougon-Macquart. Su questo invece ha lasciato il segno, sia perché al personaggio di Lazare vengono attribuiti, in forma amplificata, disturbi di origine nevrotica dello stesso Maestro, sia perché nella vicenda si riflettono alcune situazioni e reazioni psichiche vissute dall’Autore nell’anno di pesanti lutti 1880. Non si tratta però solo di ricordi. Ciò che più conta, l’ottimismo del Maestro, basato su una solida fede nella vita, nell’umanità e nella scienza volta al progresso, in questo caso si lascia incrinare dalla lucida osservazione della realtà, si squarcia su interrogativi estremi: quale senso abbia il dolore di cui il mondo è intriso, come accettare la morte pur rifiutando ogni speranza, giudicata illusoria, sull’aldilà. L’avvio dell’intreccio e la sua connessione con il ciclo sono dati dal ricorso a una figura non rara in letteratura, quella dell’orfano: una femmina in questo caso, la decenne Pauline, rimasta sola dopo che i suoi genitori Lisa Macquart e Quenu sono stati traditi dalla florida salute di cui godevano nel Ventre de Paris. Pauline viene affidata a certi cugini paterni, gli Chanteau, unici benestanti di un paesino abbarbicato sulla costa normanna, Bonneville: un mucchietto di casupole minacciate dalle mareggiate, dove pescatori primitivi e semiferini sono attaccati alla loro vita impossibile come l’ostrica tra gli scogli per resistere alle onde (parole del Maestro: è gustoso confrontare questi disgraziati con certi pescatori siciliani di veristica memoria). Si è data da fare per Pauline la signora Chanteau, prele-

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vando a Parigi la bambina insieme al suo patrimonio di centocinquantamila franchi in titoli, che lei stessa dichiara non dover essere toccato dalla famiglia. Giunta da poco a Bonneville, Pauline dimostra la sua natura caritatevole occupandosi con sensibile dedizione dello zio Chanteau, vittima di uno degli atroci attacchi di gotta durante i quali fa vibrare la casa con le sue urla. La maturità della nuova arrivata è tale da far sì che Pauline venga trattata per certi versi come una persona già adulta: Chanteau non si perita di descriverle le raccapriccianti sensazioni causate dal suo male; il figlio Lazare, maggiore di nove anni, le confida i suoi sogni di aspirante musicista, poi abbandonati per la più concreta medicina proprio in seguito ai discorsi con Pauline durante le tante ore passate insieme. La precocità della ragazzina introduce il grande tema: il contrasto tra l’energia vitale che ribolle in lei, tutt’uno con la sua fecondità, e le costrizioni dell’esistenza. L’inizio della pubertà è un trauma, Pauline è terrorizzata svegliandosi sanguinante. La paura è presto superata grazie ai libri di medicina di Lazare, la cui lettura, dissipando l’ignoranza in cui vuole tenerla la zia Chanteau, le permette di scoprire ciò che molte donne venivano a sapere solo con il matrimonio. In questa volontà di apprendere non c’è nessun risvolto morboso: Pauline studia sé stessa senza turbamenti, mossa dallo stesso amore per la vita. La sua precocità in tal modo acquista un altro significato: per maturità mentale e sessuale Pauline è ben presto donna e potenziale madre; mentre nel concreto delle situazioni non lo sarà mai. Il suo sangue mensile, di lì a pochi anni, non sarà che doloroso segno di una magnifica energia riproduttiva sprecata. Lazare intanto si va definendo come inetto. Spentasi in fretta la passione per la medicina, il giovane si è acceso di euforico interesse per la chimica e ha concepito un vasto progetto per l’utilizzo industriale delle alghe. Sembrano esserci tutte le condizioni per avviare una fabbrica vicino a Bonneville, ma mancano i soldi. Ed ecco Pauline, ormai innamorata del cugino con cui finora è vissuta in cameratesca amicizia, offrire parte del suo patrimonio. Gli entusiasmi di Lazare però sono fuochi di paglia, che il giovane è incapace di concretizzare: investire denaro nella fabbrica, dove non si riesce neppure ad avviare la produzione, è come buttarlo direttamente in una voragine. I centocinquantamila franchi sono così destinati a sparire

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in gran parte. Quando Pauline e Lazare si fidanzano, lei innamorata e lui incline a lasciar fare, il legame della promessa di matrimonio costituisce il pretesto per il comportamento della signora Chanteau, che in seguito a un rovescio finanziario attinge senza più scrupoli dal denaro della ragazza. Poi Lazare ha un’altra delle sue idee: un sistema di argini per salvare i poveracci di Bonneville dalle maree. La trovata idiota, che finirà con un disastro, viene ovviamente finanziata da Pauline. Per queste manifestazioni di generosità della ragazza esiste ancora qualche giustificazione nel suo geloso timore di perdere Lazare: c’è infatti una rivale, Louise, attraente e fornita di pingue dote. Ma la costante e insensata attività caritativa in Bonneville rischia di provocare una certa irritazione nel lettore. Difatti, benché ottusi e – figurarsi – devastati dall’abuso di calvados, i primordiali pescatori di Bonneville hanno quel fondo di canagliesca astuzia per approfittare di Pauline con uno sfacciato accattonaggio. Si tratta comunque di cifre irrisorie rispetto a quanto le sottrae sistematicamente la zia Chanteau, che, rabbiosa con sé stessa per la situazione, si è costruita complicati alibi mentali attribuendo ogni colpa alla ragazza. Solo la ruvida e irascibile serva Véronique prende in nome della giustizia le difese della derubata. La generosità di Pauline, oltre ad essere frutto di innata bontà che vorrebbe compensare il dolore del mondo, è anche conseguenza di una frustrata volontà di darsi per generare vita. Presentandosi nella sua forma estrema come sacrificio di sé e autoannullamento, tale volontà la porta a decidere lei stessa per il futuro del cugino, facendosi nel contempo da parte. Morta infatti la signora Chanteau per una malattia cardiaca, durante la quale Pauline l’ha assistita pur venendo da lei accusata e aggredita con parole d’odio, Lazare sprofonda nella tetraggine. Per guarirlo, la cugina e fidanzata non trova niente di meglio che riportargli la frivola Louise e spingere i due a sposarsi, con strazio immenso del proprio cuore. Il matrimonio però si rivela presto un fallimento, come tutto nella vita di Lazare. Questi, inguaribile maniaco depressivo con tendenze paranoiche, succubo della tremenda angoscia di dover morire, si intestardisce in una filosofia pessimistica ricavata da Schopenhauer sostenendo intanto la presenza di un complotto universale contro di lui. Blaterando sulla necessità di sopprimere la volontà di vivere, in compenso

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Lazare si riproduce: Louise inizia una difficile gravidanza. Davanti a questo disastro di rapporto coniugale, i rimpianti di Pauline sono sterminati, lancinante è il desiderio di vivere finalmente per sé e non più per gli altri; nonostante tutto però lei saprà resistere alla terribile tentazione costituita da Lazare che, rendendosi una buona volta conto della propria penosa imbecillità, le si butta addosso in un attacco di passione. Le pagine del terribile parto di Louise, nel penultimo capitolo, per precisione di analisi e per franchezza drammatica costituiscono un risultato supremo nella rappresentazione artistica della verità. Onore al Maestro per il suo coraggio nell’affrontare il racconto di una delle situazioni più difficili con cui possa cimentarsi un narratore. Ma ancor più grande onore gli sia reso per il duello aperto nel quale in queste pagine si scontrano la vita e la morte. Parrebbe vincere la prima: insperatamente si salvano sia Louise sia, grazie proprio a Pauline, il bambino. Segue però un ultimo capitolo. A distanza di alcuni mesi, la situazione sembra cristallizzata in un andazzo deprimente ma non drammatico: il fallito Lazare e Louise formano una triste coppia litigiosa; Pauline cerca di farli andare d’accordo e intanto, in una sublimazione del suo desiderio di maternità, si occupa del bambino di Louise; continua inoltre ad accudire Chanteau, sofferente e mostruosamente deforme per la gotta, eppure così attaccato ai piaceri della vita da affrontare feroci dolori pur di non rinunciare a qualche peccatuccio di gola. La sorpresa finale è inaspettata per il lettore come per i personaggi: la rude serva Véronique, che nella casa ha sempre rappresentato il buon senso un po’ gretto, si è impiccata. A quanto pare è entrata in crisi anche lei dopo la morte della signora Chanteau, ma nessuno sa quali pensieri e quali sentimenti l’abbiano portata a una tale disperazione. Nel romanzo del dolore e della morte, una nota allegra non può che essere di umorismo nero. Non ci sfugga come è stato ritrovato il padre di Pauline, salumiere di rue Rambuteau, da pochi mesi vedovo, stroncato da un colpo apoplettico mentre lavorava: crollato con la faccia paonazza in una terrina di grasso di porco. Lo zio di Quenu, anche lui salumiere – aggiunge la signora Chanteau, raccontando impressionata il fatto –, è morto nello stesso modo.

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2.13 Germinal Non ci avventuriamo né a confermare né a smentire se sia Germinal, e non L’Assommoir o magari Nana, il vertice assoluto dei Rougon-Macquart. Che si tratti di un risultato eccelso, intanto, è fuor di discussione; e che un vertice assoluto esista, o non vadano piuttosto collocati due o tre titoli alla stessa altezza suprema, restando comunque valide le personali predilezioni, questo invece è opinabile. Ci domandiamo piuttosto a che cosa si debba la grandezza di Germinal, trovandone così la spiegazione nella pluralità di significati, nella stratificazione di varie possibilità di lettura. I risultati qui toccati dal realismo sono palpabili. Il romanzo è strutturato sull’esatta rappresentazione della vita quotidiana dei minatori: il loro lavoro (pagato una miseria), le loro case e il modo di trascorrere il tempo libero, i rapporti tra le famiglie del villaggio, le malattie e le altre difficoltà, fino agli estremi frangenti dello sciopero; e poi i particolari più crudi sulla sessualità precoce e disinvolta delle coppiette serali e in genere sulla vita istintiva di questa gente. Se però analizzato sotto il profilo strettamente storico, nell’impianto realistico si avverte qualche scricchiolio. Si considerino i vari personaggi rappresentativi delle differenti posizioni ideologiche. Étienne Lantier sostiene una confusa mescolanza di utopie socio-comuniste il cui fine ultimo è la costruzione di un paradiso in terra: un’umanità di lavoratori senza padroni, dove ognuno abbia il necessario in base ai propri meriti. I minatori lo ascoltano affascinati, a discapito dell’autorità prima riconosciuta al riformista moderato Rasseneur. L’attivista Pluchart, in collaborazione con Étienne, punta in modo non del tutto limpido a far sì che i minatori in lotta aderiscano all’Internazionale, che potrà garantire sostegno economico. Il nichilista russo Souvarine sostiene la necessità della tabula rasa e, fallito lo sciopero, mette infine in pratica il suo assioma con lo scellerato sabotaggio del Voreux; indifferente davanti allo sterminio di tanti innocenti e tanti amici, lui che si è commosso per la morte di un coniglio a cui si era concesso di affezionarsi, Souvarine incarna un principio orrendamente subìto dalla storia, secondo il quale l’idea viene prima dell’umanità. Compare perfino un prete rosso, con il suo esagitato so-

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cialismo cristianeggiante lanciato in anatemi sulla società borghese. Il fatto è che tali distinzioni piuttosto nette fra le varie posizioni, inserite nel tempo assegnato agli avvenimenti del romanzo, che dovrebbe essere il 1866-67, risultano in anticipo di qualche anno rispetto alla realtà storica, con un plateale anacronismo per quanto concerne la presenza in Francia di un esule come Souvarine una dozzina d’anni prima dell’inizio degli attentati nichilisti in Russia. Lo spostamento della cronologia consente però all’Autore di evitare ogni astrattezza nel presentare i ranghi dei lavoratori in lotta, così come anche il contrapposto capitalismo è articolato in differenti forme: il benessere altoborghese alimentato da una rendita; la piccola industria con un unico proprietario, la cui rovina trascinerà con sé quella dei suoi salariati; la potenza del grande capitale rappresentato dalla Compagnia di Montsou, che, disponendo di immense risorse, non verrà piegata dallo sciopero. L’impostazione di Germinal, comunque la si consideri, si alza sopra i limiti della cronologia e della storia: l’aderenza al vero non coincide con il valore complessivo dell’opera. Lo stesso Étienne Lantier, con la propria visione dello scontro fra il lavoro e il capitale, indica un’altra e ben più suggestiva chiave di lettura: il lavoro è l’insieme dei minatori, ciascuno con un volto, un nome, una famiglia; il capitale, quello dei padroni sconosciuti e lontani, è la terribile divinità che, nascosta nel fondo della miniera, sugge la vita dei minatori, come un sozzo idolo antropofago dal muso di bestia. Il piano della pura ricostruzione storica sarebbe troppo limitato di fronte alla dimensione artistica di Germinal, che, senza rifiutare alcun aggancio con la realtà, si pone a un livello molto superiore: quello eroico o epico. È strabiliante come, alla luce di questa considerazione, l’intero impianto del romanzo cambi prospettiva e trovino il giusto rilievo elementi che in prima lettura erano stati colti in sintonia con la poetica del realismo. Acquista un valore più solenne la stessa struttura circolare del romanzo: all’inizio Étienne, sconosciuto e privo di una meta precisa, giunge alla miniera in piena notte, nelle tenebre più fitte e fredde; nel finale, superate tutte le prove grazie alle quali ha trovato la propria identità ed è stato riconosciuto eroe, egli lascia quei luoghi nella luce serena di una tiepida mattina di primavera. Illuminate dal sole, le ultime pagine si contrappongono del resto alla

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massima parte di un romanzo in cui domina il buio sotterraneo, assoluto nel capitolo di Étienne e Catherine prigionieri in fondo alla miniera, o anche il buio notturno, come nella radura del Plan des Dames in mezzo al bosco. Qui con incontrollate utopie sulla società futura Étienne inebria i minatori in una grande adunata dapprima immersa nelle tenebre e poi rischiarata dall’alzarsi della luna: forse l’esempio migliore della perfetta adesione tra il contesto realistico e la sovrapposizione di una visione artistica superiore, che eleva la scena dai limiti delle contingenze dandole la misura di quelle creazioni che si definiscono classiche. In collegamento con il buio dominante, ma anche sotto vari altri aspetti, nel corso del romanzo torna ossessivamente il colore nero. È nero il paese e sono neri gli stessi corpi dei minatori, impregnati di polvere di carbone; sono nere, fra le tenebre del primo capitolo, persino le espettorazioni del vecchio Bonnemort, il quale, condannato dai tanti anni di lavoro sotterraneo, sputa carbone dai polmoni guasti. Come la critica recente ha opportunamente sottolineato, al nero si accosta in molte pagine un altro colore dai numerosi richiami simbolici: il rosso. Questo è nel primo capitolo il colore del fuoco: grandi fiamme nelle tenebre attirano Étienne, spingendolo a interrompere il cammino per scaldarsi. È il colore del sangue: quello degli scioperanti abbattuti dalla scarica di fucileria e, nel seguito dello stesso tragico episodio, quello del primo mestruo di Catherine, segnale di continuazione della vita in allusivo e inquietante contrasto con le immagini dei minatori uccisi. Il rosso è anche il colore della rivoluzione, con le sue immagini spettrali – e la sua realtà – di violenza e strage. Rossa è infatti, per l’ingegner Négrel e le brave borghesi che assistono magnetizzate dal fascino dell’orrore, la marcia dei minatori in sciopero: prodromo, ai loro occhi, dell’ormai imminente disastro che in un’apocalisse orgiastica travolgerà l’ordine mondiale e metterà fine alla storia della civiltà. E rosso per uno degli ultimi raggi di sole è anche il mostruoso corollario di questa sfilata degli scioperanti: l’immenso deretano della Mouquette, che la carnosa ragazzona è solita esibire per dileggio e che ora giganteggia come un ghigno di feroce minaccia. La dimensione simbolica di Germinal è incentrata sulla miniera e sul pozzo del Voreux che ne costituisce l’accesso. Già la prima volta che Étienne lo osserva, il pozzo gli pare avere l’aspetto di una belva

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acquattata, feroce e ingorda; l’immagine si farà più sinistra ancora, definendosi in quella di insaziabile mostro antropofago che inghiotte minatori. L’insistenza sull’inghiottire prepara il capovolgimento finale, quando, sabotato dal nichilista Souvarine, il Voreux inghiotte sé stesso, in un crollo – un risucchio nel nulla – in cui traspare il presagio di uno sfacelo ancor più terrificante che non la fine della società borghese: la distruzione collettiva di tutte le classi sociali, in un mondo minato dalla cieca furia. Poiché Germinal non presenta una chiave unica di lettura per nessuno dei suoi grandi temi, il lettore incontra anche il riferimento alla terra come alveo sicuro (Étienne ricercato si rifugia in un nascondiglio sotterraneo nel pozzo abbandonato del Réquillart) o come ritorno alle origini nella sepoltura (ancora in riferimento al Réquillart: qui è fatto sparire il soldato ucciso da Jeanlin). Ma il mondo ipogeo della miniera è in primo luogo un inferno nel quale i minatori devono subire, come i dannati danteschi, il perpetuo supplizio della fatica e dello stravolgimento dei connotati fisici, insieme ai tormenti dati da caldo, freddo, acqua, mancanza d’aria, buio. Realismo e dimensione mitico-poetica della miniera si accompagnano fino alle ultime pagine del romanzo, quando gli aspetti strettamente realistici tendono a sparire. Poco importa se sembra improbabile la combinazione per cui proprio Étienne, il suo bieco e vile rivale Chaval e la ragazza tra loro contesa si trovano insieme, isolati nel fondo della miniera; il protagonista, eroe classico trasferito in altra dimensione, può così nell’ultimo duello saldare il conto al nemico e finalmente lui e Catherine possono amarsi. Una lettura troppo condizionata dal realismo metterebbe persino in discussione quel rapporto sessuale dopo giorni di assoluta mancanza di cibo; ma il valore poetico di Germinal raggiunge qui il culmine. L’atto d’amore è consumato nelle viscere della terra, inizio e fine della vita; il congiungimento precede subito la morte di Catherine, che ha appena raggiunto, in ritardo, la pubertà e conosce il sesso da pubere ora per la prima volta; forse è stata fecondata, pensa Étienne quando la ragazza è ormai cadavere. È un impressionante concentrato del ciclo vita-morte, le cui sfumature predecadenti vanno ben al di là del nesso romantico di amore e morte. Catherine, spirata e già sepolta in quelle profondità, forse è incinta: la sua fine allora, siccome Étienne tornerà in superficie, non sarà stata vana. Idealmente, da quell’amore verrà alla

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luce una nuova vita, per l’inizio di una nuova umanità. I più illustri studi hanno osservato come la miniera ricordi il Labirinto e come il mostro senza volto corrisponda al Minotauro, con un Étienne dunque equivalente a Teseo; o come la miniera sia una discesa agli inferi ed Étienne un Orfeo che risale dopo aver lasciato laggiù per sempre la sua Euridice. Parallelismi del genere non vanno spinti oltre certi limiti; è più che probabile però che ricordi della mitologia greca fossero presenti alla mente del Maestro, forse anche al di là delle figure di Teseo e di Orfeo. Si pensi all’episodio in cui, tra gli inferociti minatori in sciopero, la spaventevole ira delle donne si sfoga sul bottegaio Maigrat, viscido e laido approfittatore. Non viene ucciso, costui: si ammazza da sé, precipitando dal tetto sul quale cercava sconciamente di allontanarsi, tormentato fra il desiderio della fuga e la preoccupazione di salvare la sua mercanzia. La vista del sangue scatena le megere, che infieriscono sul cadavere con orribili beffe, fino allo scempio estremo, compiuto da una vecchia a mani nude; la virilità di Maigrat, così strappata, è infilzata su un bastone e sbandierata come abominevole trofeo dalle invasate urlanti. L’atroce e ripugnante immagine può rimanere tale senza giustificazioni di sorta, beninteso. Essa però acquista tutt’altro significato se considerata, come a noi sembra, la riscrittura di una scena classica: la fine di Penteo nelle Baccanti di Euripide. La presenza di vari livelli di lettura tocca da vicino anche l’aspetto ideologico e politico dell’opera. In Germinal non c’è un personaggio portavoce di Zola, né prevale il pensiero di qualcuno, neppure quello di Étienne, benché la conclusione sia affidata alle sue riflessioni sul nuovo esercito di giustizieri sociali che sta per venire alla luce: tali riflessioni costituiscono le speranze di Étienne, così vive che il personaggio le sente come certezze, senza però alcuna presa di posizione da parte dell’Autore. Analogamente viene evitata una contrapposizione manichea tra lavoratori e borghesi. Si procede per contrasti anche violenti, soprattutto con l’uccisione della povera Cécile Grégoire ad opera di Bonnemort (la semina dell’odio dà questo frutto: un vecchio rintronato strangola la candida ragazza che distribuisce elemosina). Ma questi contrasti, così come le caratteristiche dei borghesi, non sono a senso unico. I Grégoire sono il ritratto dell’innocenza, Deneulin è un padrone e insieme un gran lavorato-

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re, l’ingegner Négrel dimostra coraggio e altruismo; e il direttore generale Hennebeau, ardentemente innamorato di una moglie dai forti appetiti e sprezzante solo con lui, ridotto a invidiare i minatori che muoiono di fame ma fanno allegramente l’amore, è un personaggio di statura tragica. D’altro canto, la considerazione del Maestro nei confronti dell’organizzazione marxista dei lavoratori appare ben limitata dall’ironia. Mentre infatti la riunione dei delegati dei minatori si scioglie in un fuggifuggi per l’imminente arrivo dei gendarmi, l’attivista Pluchart chiede di votare per l’adesione all’Internazionale: nel caos si alzano delle mani e, siccome i presenti si esprimono a nome dell’intera comunità, migliaia di minatori di Montsou risultano essersi associati. Ma sulla lunga o media distanza i sommovimenti sociali porteranno per Zola la catastrofe temuta da molti borghesi, la Grande Sera della distruzione della società e del ritorno alla barbarie? No, purché si provveda alle necessarie riforme per non esasperare i lavoratori: risposta da ricondurre alla fiducia di fondo nutrita dal Maestro nei confronti del progresso, della ragione e dell’umanità. Ed ecco definito il discorso sociale di Germinal, con l’equilibrata posizione dell’Autore. Esso costituisce il primo sentiero di lettura possibile attraverso la complessa stratificazione di temi. Rintracciamo un secondo percorso nell’antitesi tra umanizzazione dell’animale e regressione ferina dell’essere umano. In tutto il romanzo per i lavoratori della miniera sono crudamente usati, sotto forma di similitudine o di metafora, riferimenti ad animali: l’insieme dei minatori – la famiglia Maheu al risveglio, la gente che si reca al lavoro, o anche gli scioperanti che affrontano i soldati – richiama l’immagine di un armento o di un gregge; sottoterra, i minatori sono minuscoli insetti, formiche forzatamente laboriose che rischiano sempre di rimanere schiacciate nei propri cunicoli. La bestialità della gente del villaggio minerario raggiunge l’apice durante la marcia degli scioperanti. L’ingegner Négrel non riconosce nessuno, quando non visto li osserva: intontiti dalla fame, accecati dalla rabbia ancora inesplosa e dal desiderio di vendetta acceso dalle parole di Étienne (al di là delle sue intenzioni), essi formano una massa compatta e indistinta, con musi da belve. Di lì a poco si scateneranno e le donne saranno ancor più belluine degli uomini. Cagne rabbiose straziano il

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corpo di Maigrat; esseri imbestiati provocano e colpiscono i soldati, disgraziati carnefici coatti, vittime a loro volta della spirale di infiniti rancori. È risaputo come nel romanzo, secondo un proponimento fondamentale appuntato nell’abbozzo, si assista al recupero di umanità da parte di questi individui sfruttati, inconsapevoli essi stessi di appartenere alla società. Soltanto però nella conclusione, riscattati gli errori con la sofferenza, con nuove morti e con il crollo del Voreux che impone di ricominciare da capo, nella miniera scendono uomini e donne consci della propria dignità. L’impostazione di Germinal giunge a tale conclusione seguendo il processo di maturazione dei Maheu. La loro famiglia lavora nella miniera della Compagnia di Montsou da più di un secolo, forma di predestinazione ereditaria o sorte immutabile. Sono abituati, come tutti i minatori, alla subordinazione e all’istintiva obbedienza; inconcepibile per loro la vicenda di Étienne, che ha perso il posto di macchinista avendo schiaffeggiato il suo superiore in una lite. Ma proprio la frequentazione del giovane introduce il cambiamento: all’inizio dello sciopero, Toussaint Maheu, capo della delegazione che incontra Hennebeau, scopre di saper parlare della miseria che opprime i minatori e di saper chiedere, rispettosamente, condizioni accettabili per vivere. La chiusura dei superiori a ogni trattativa fa sì che i fervori di Étienne contagino i Maheu: ben presto l’iniziale proposito di uno sciopero per ottenere il miglioramento delle condizioni di vita tende a trasformarsi nell’utopia della «miniera ai minatori». La trasformazione di Toussaint Maheu da iniziale sottomesso e sfruttato senza prospettive di cambiamento a infuocato combattente è completa davanti ai soldati: egli grida che, di minatori in protesta come loro, ne verranno altri diecimila. Ed è ucciso: non dalla scarica che ha falciato vari dei suoi compagni, ma da un ultimo colpo isolato. Maheu muore da singolo, primo vero uomo di quella accozzaglia ancora semianimalesca che si va riscattando. Dopo la tragedia, con brusco voltafaccia la gente disprezza e detesta Étienne, che ne è straziato. In questo momento la vedova Maheu è la più forte: è lei a voler ancora resistere, non in vista del sognato paradiso che ha ben capito non poter arrivare, ma proprio per quella nuova dignità che i minatori si stanno acquistando, grazie al sacrificio di suo marito e degli altri caduti.

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Insieme ai Maheu matura lo stesso Étienne. Le esperienze, le conoscenze e le letture – peraltro confuse – portano velocemente il giovane a imporsi come capo politico del villaggio, scavalcando il moderato Rasseneur. Ed egli ne prova piacere, per naturale ambizione, tanto più viva nel suo trionfo in occasione della riunione notturna al Plan des Dames. Il successo però è effimero. La mandria dei minatori, una volta scatenata da lui stesso, gli sfugge quasi subito di mano, desiderando il bagno di sangue come scorciatoia verso la felicità promessa. Étienne, capo già decaduto, arriva a disprezzare i compagni per gli eccessi di violenza; ma con ben maggiore avversione sarà considerato lui stesso dopo l’eccidio compiuto dai soldati. La situazione parrebbe azzerata, invece tutto trova presto la sua conclusione attraverso la catastrofe del Voreux. I minatori in salvo offrono con slancio fraterno a Négrel la propria collaborazione (la risposta alla distruzione nichilista vede dunque insieme lavoratori salariati e rappresentanza della direzione) per tentare di salvare i compagni imprigionati nella miniera. In fondo a questa si consuma la tragedia: l’uccisione di quella canaglia di Chaval, l’amore disperato di Étienne e Catherine, la morte della ragazza. Étienne viene infine salvato dai minatori guidati da Négrel: nell’abbraccio fra i due avversari – interviene la voce narrante – si legge la consapevolezza da parte di entrambi dell’immenso abisso di dolore in cui può cadere ogni generazione umana. E questa è la nota epica più alta del romanzo: un’epica virgiliana. Dopo la convalescenza, Étienne potrà allontanarsi con nuova sicurezza nell’avvenire, in buona parte dovuta all’ultimo incontro con la Maheude. La vedova di Toussaint Maheu, colpita da una catena straziante di lutti e apparentemente sconfitta nel più terribile dei modi, giacché per guadagnarsi da sopravvivere deve tornare sottoterra prestandosi a una mansione da incubo, manifesta con parole limpide ciò che comunque anche gli altri minatori pensano e gli stessi borghesi sanno: che arriverà il giorno del riscatto e della rivincita. I minatori sono animati da una dignità nuova, perché, dopo essere vissuti come bruti, si sono scoperti persone, potendo ora sperare in un cambiamento, loro che prima non conoscevano neppure la speranza. Étienne da parte sua ha la consapevolezza di essere pronto per il grande scontro. Grazie all’esperienza raccolta ha ricusato la violenza come mezzo, rendendosi conto che le asso-

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ciazioni di lavoratori, cui la legge non potrà opporsi, consentiranno di procedere molto più velocemente fino al risultato finale: sconfiggere il deforme Minotauro antropofago, al quale il lavoratore non dovrà più pagare il tributo di sangue. Il momento è già vicino: dalla terra sta per spuntare alla luce il nero esercito che imporrà la giustizia sociale. È il celeberrimo finale, spesso impropriamente attribuito al pensiero dell’Autore. O meglio, questo è il secondo dei due finali, quello che chiude il cerchio rispetto all’arrivo di Étienne nelle prime righe, in ossequio al significato sociale. L’itinerario per arrivare fin qui segue il recupero o l’acquisto di umanità, tema ben presente nel romanzo; ma in Germinal si snoda anche un altro itinerario, in direzione opposta. Il progresso è infatti preceduto da un lungo e impressionante regresso, che non si esaurisce neppure nella ferocia bestiale dello sciopero, perché ad essa segue la coda dei due omicidi perpetrati da membri della famiglia Maheu: lo scimmiesco Jeanlin assassina a sangue freddo un povero diavolo di soldato per puro piacere; anche in Bonnemort, il cui cervello è ormai un coacervo di cellule prive di sinapsi, si scatena l’impulso omicida e, con automatismo da ebete, il vecchio strangola la benefattrice Cécile. E così, in modo ancor più lampante, si assiste al regresso di Étienne, alla sua involuzione da essere umano a bestia. Nel fondo della miniera Étienne, Chaval e Catherine, prigionieri, sono mossi esclusivamente da necessità primordiali: il cibo e, per i due uomini, il possesso della femmina, quasi come garanzia di sopravvivenza della stirpe. Per Catherine, Étienne ammazza il rivale come un cavernicolo, dando inizio con questa uccisione al duello tra la morte e la vita che segna le pagine successive (il ritorno del cadavere di Chaval portato dall’acqua, l’accoppiamento fra i due, l’agonia e la fine della ragazza), pagine che si concludono con la salvezza di Étienne e quindi la sua salita alla luce: il primo, appunto, dei due finali di Germinal. È possibile leggere l’intero romanzo seguendo questo duplice andamento tra recupero e perdita della dignità umana? L’ambiguità resta irrisolta e irrisolubile. Tra animali ed esseri umani viene piuttosto il desiderio di citare il povero cavallo Bataille, che da dieci anni vive e lavora sottoterra e ricorda solo vagamente la luce del sole: l’umanizzazione di questa brava bestia ha ancora qualcosa di epico e di virgiliano. Non manca allora alcun elemento

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per porre a ragion veduta Germinal là dove il nostro entusiasmo di lettori l’ha subito innalzato: fra i classici.

2.14 L’œuvre In una notte di giugno il giovane pittore Claude Lantier sta rientrando nell’abitazione-studio dell’Île Saint-Louis, dopo uno dei suoi vagabondaggi artistici per la Parigi notturna. È da poco scoppiato un violentissimo temporale e si rovescia sulla città un diluvio, le tenebre sono squarciate da lampi che fanno balenare paesaggi surreali sul Lungosenna. Sotto il portone del palazzo egli trova una ragazza impaurita, sperduta nella città dove è appena giunta. Claude, pur mostrandosi brusco per combattere la timidezza provata davanti alle donne, la fa salire nella propria mansarda perché possa togliersi di dosso i vestiti fradici e passare la notte al riparo, comportandosi poi verso di lei in modo rude ma irreprensibile. Al mattino, la rapinosa visione della nudità della ragazza ancora addormentata è da lui contemplata con l’occhio del pittore, tanto che i suoi sensi tacciono mentre egli fissa su carta l’incanto di quella vista, corazzato dalla stessa arte contro i rischi di un coinvolgimento emotivo. Il pudore sofferente della ragazza al risveglio e il suo racconto di brava figliola intaccano poi profondamente la rudezza sempre più impacciata di Claude. Quando lei lascia la mansarda (Christine: il pittore ha appena saputo il suo nome; e la vergogna gli impedisce di chiederle se potrà rivederla), Claude si accinge a riprendere la vita consueta tentando di respingere l’accendersi di un’indefinibile dolcezza. Tentativo vano: con quell’incontro notturno, in un angolo dell’Île Saint-Louis indicato con tanta precisione che possiamo vederlo anche oggi, è cominciato il più struggente romanzo d’amore che sia mai stato scritto. Nel trinciare giudizi su uno Zola freddo osservatore della realtà, i compilatori delle nostre monocordi storie letterarie certo non tengono conto, tra le tante altre, delle meravigliose pagine di Claude e Christine sul Lungosenna nei giorni in cui fiorisce il loro amore. Tali pagine costituiscono un vertice del lirismo e nel contempo della robustezza immaginosa del Maestro, che evita ogni svenevolezza rilanciando fino

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all’azzardo con metafore veementi: gli scenari dei tramonti, distesi su spazi infiniti, richiamano mari di zolfo, scogliere di corallo, torrenti di lava, frecce d’oro in volo. Il rapporto dei due giovani all’epoca è teneramente casto: negli intervalli di libertà, venendo dalla lontana Passy, Christine raggiunge la mansarda di Claude e lui poi la riaccompagna per il primo tratto. Si può al proposito osservare che le loro camminate dall’Île Saint-Louis alle Tuileries, lettura incantevole per gli appassionati di Parigi, prese alla lettera dovrebbero occupare ore e ore per una serie innumerabile di giorni. Tale dilatazione e insieme concentrazione del tempo e dello spazio è una caratteristica fondamentale dei crescendo del Maestro; qui però ha anche un altro scopo, quello di sottrarre ai limiti del calendario l’amore nascente di Claude e Christine per presentarlo come assoluto nella vita dei due giovani e nella vicenda narrata. La passione amorosa per Christine dovrà poi competere con la più profonda passione di Claude, quella per la pittura, e sul sogno tenderà così a guadagnare terreno la realtà. Ma l’adesione a quest’ultima, in un romanzo che è il trionfo del sentimento, non potrà che essere relativa. L’etichetta dell’Œuvre come resoconto degli anni dell’Impressionismo, in effetti, a una lettura più attenta si scolla. Claude e il suo gruppo di amici artisti sono certo ispirati all’analoga cerchia frequentata dal Maestro in giovinezza, tanto che egli si riflette all’interno del romanzo nel personaggio dello scrittore Sandoz, come a garantirsi testimone. Ma la rappresentazione non potrebbe resistere alla più semplice delle analisi storiche: paradossalmente, mancano i veri artisti dell’epoca. D’altronde, lo stesso Maestro ha evitato il rischio di tali incongruenze omettendo ogni incorniciatura cronologica. La critica ha osservato con acribia come in questo romanzo si sfori il limite della fine del Secondo Impero e si faccia attraversare a Claude e a Chistine i giorni della Comune senza alcun cenno ai drammatici avvenimenti del periodo; il che sarebbe un difetto per un’impostazione rigorosamente metodologica del ciclo, ma per comprendere L’œuvre è necessario ricordare che il suo soggetto non è storico, bensì poetico. Lo stesso Claude Lantier non è strettamente ispirato a un artista individuabile, benché dipinga un Plein air le cui caratteristiche e le cui sorti richiamano con evidenza il Déjeuner sur l’herbe di Manet; tanto meno è proiezione romanzesca di Paul Cézanne, anche se qualcosa nell’aspetto fisico (già abbozzato nel Ven-

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tre de Paris) può ricordare Cézanne giovane. Claude non è neppure la raffigurazione del pittore impressionista in genere, come ben denunciano le descrizioni dei suoi dipinti. Infatti L’œuvre costituisce sì un omaggio all’Impressionismo e una testimonianza preziosa per la storia dell’arte – in particolare nel rappresentare il Salon des Refusés, con le grasse risate dei borghesi ottusi davanti alla nuova pittura misconosciuta e grande –, ma in primo luogo è l’evocazione della giovinezza vissuta sotto il segno dell’arte. Claude è l’artista che si consacra a una michelangiolesca lotta per la creazione, ma al tempo stesso è Macquart per parte di madre, nipote di Antoine Macquart e bisnipote di Adélaïde: pertanto in lui la vocazione artistica è nevrosi, malattia che corrode, ossessione devastante. In più, come sua madre Gervaise, Claude è portato al fallimento meno per le circostanze esterne che per una crepa nella sua indole. Una giuria di disonesta incompetenza gli nega sistematicamente l’accesso al Salon ufficiale, ma ciò non gli impedirebbe di creare. Invece il suo talento è inadeguato rispetto alle aspirazioni ideali di un’arte immensamente grande; la tormentosa ricerca di un’impossibile perfezione finisce così col soffocare la creatività stessa. Claude è il precursore che ha avuto l’intuizione geniale, ma che, invece di produrre, si spreca nel tentativo di trarre da essa il capolavoro assoluto, venendo in tal modo deriso e poi copiato nella sua concezione dell’arte, o meglio defraudato, senza mai essere stato autore di un’opera con cui venire riconosciuto nel giusto valore. L’inesprimibile dell’arte non può per lui essere scisso dall’essenza di Parigi. All’inizio la città è attraversata spavaldamente dal giovane pittore in compagnia del gruppo di amici artisti, nella sicurezza di conquistarla. La passione amorosa per Christine mette poi temporaneamente in secondo piano tutto il resto: è il periodo dell’idillio campestre nel paesino di Bennecourt, che termina quando si impone prepotente il richiamo della città con le sue chimere artistiche. Infine verrà l’epoca della Parigi percorsa da disperato, nella depressione causata dal trascorrere di una vita che non incomincia mai a essere quella che dovrebbe. Parigi ha un cuore, che Claude scopre e contempla dal ponte dei Saints-Pères (l’attuale Pont du Carrousel), in direzione della punta dell’Île de la Cité. Tale vista sarà il soggetto di una smisurata tela: l’œuvre per eccellenza di Claude. Egli torna per mesi nel

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suo punto di osservazione, per il timore di lasciarsi sfuggire il momento ideale dell’anno e della giornata; finalmente abbozza un’opera concepita in modo geniale; ma presto rovina tutto per il suo assillante perfezionismo. Altalenando tra entusiasmi creativi e abissi di disperazione, mentre con il passare degli anni sprofonda nel palese fallimento e nella miseria, Claude successivamente modifica in chiave simbolica la concezione dell’opera: una donna nuda su un’imbarcazione al centro dovrebbe raffigurare la bellezza di Parigi. Di fatto, la fascinosa vista iniziale viene trasformata per gradi dall’accanimento del pittore in una folle allucinazione. Si è ormai profilata da tempo anche la sconfitta di Christine nella lotta contro la rivale che le contende il possesso di Claude: la pittura. Per Claude, Christine ha rinunciato al pudore, offrendosi come modella per aiutare il pittore in difficoltà, e all’innocenza; per lui ha sacrificato una sistemazione sicura, persino un’eredità milionaria. È stata amante devota per eccellenza, fino a trascurare i propri diritti di moglie e a dare poco affetto come madre al piccolo Jacques, straziata poi dal rimpianto quando a nove anni l’infelice bambino si spegne. Ma ora Claude appartiene interamente alla donna del dipinto, fantasma della mania che l’ha assorbito; Christine così torna a essere modella come all’inizio della loro relazione, ritratta però non più per la sua bellezza, ma per dare forma a un’astrazione. Nonostante un estremo e illusorio successo della donna di carne, capace di riaccendere la passione di Claude per una notte, vince infine la donna dipinta. Anzi, forse proprio il trionfo di Christine, che non sa trattenere la gioia di aver prevalso sulla rivale, mette Claude di fronte alla tragedia della propria inadeguatezza, senza più dilazioni possibili. Egli si sente incapace di amare la pittura come la sua vocazione richiede: perciò, unico Rougon-Macquart suicida, si impicca davanti all’opera senza fine. Esiste più di una ragione per prediligere L’œuvre fra tutti i romanzi del ciclo, pur riconoscendo la superiorità di altri. Essere artisti falliti è certo la prima, ma non è condizione indispensabile, perché Claude e Christine sono fra i personaggi più intensi e autentici che il Maestro abbia creato. Il motivo più valido si ricollega probabilmente alle stagioni iniziali di questa storia d’amore: con quale trepida emozione in esse abbiamo ritrovato pagine della nostra giovinezza – vissuta o sognata.

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2.15 La terre Il primo intento, dichiarato nell’abbozzo preliminare, è di comporre «il poema vivente della terra, delle stagioni, dei lavori campestri, della gente, degli animali, della campagna intera». Il secondo intento, complementare al precedente, è di scrivere un’opera dura e provocatoria: per sbattere in faccia alla moda del roman honnête e allo sgradito genere psicologico il romanzo della corporeità, dell’impulso verso l’accoppiamento e la generazione, del trionfo degli istinti. Di fatto, La terre è una splendida galleria di brutalità e violenze, alleggerite qua e là dallo stesso grottesco dell’insieme o da episodi comici; è il romanzo più esasperato del ciclo, dove i contadini, avidi, tirchi e senza freni morali, sono esseri semiumani dagli incontrollabili appetiti; è il più esplicito nei riferimenti scabrosi e il più particolareggiato nelle crudezze. Compaiono anche accenni alle credenze religiose e superstiziose delle campagne e a certi aspetti del mondo agricolo in trasformazione (le nuove tecniche di coltivazione, il primo confuso affacciarsi di idee di rinnovamento sociale); ma, a parte Jean Macquart, che infatti non è nato contadino, è ben difficile trovare un personaggio positivo in un’opera il cui assunto fondamentale è che il possesso della terra fa perdere il senno. L’atroce vicenda si svolge tra il 1860 e il 1870 presso il paesino di Rognes, nella campagna della Beauce. Qui si è stabilito Jean Macquart, reduce dalla guerra in Italia, ex-falegname fattosi a trent’anni contadino, il quale nelle pagine iniziali prova un primo vago interesse per la quindicenne Françoise vedendola occuparsi della giovenca portata alla monta. L’azione vera e propria parte con il vecchio Fouan che divide i suoi beni tra i figli: il disgraziato Buteau e lo sfaccendato e scialacquatore Hyacinthe, detto con larvata blasfemia Jésus-Christ, bevitore cronico e re dell’osteria. Contese, liti e bramosie seguono a ruota. Buteau si decide a sposare la cugina Lise, che ha già ingravidato, quando questa e sua sorella, la Françoise di cui sopra, ereditano dal padre. Gli strascichi connessi con la spartizione dell’eredità e la presenza di Buteau incrinano i rapporti fra le due sorelle, prima indivisibili nell’affetto che le legava: Françoise infatti è ora concupita dal cognato, che lei a sua volta appetisce anche se ne respinge i

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continui attacchi malmenandolo. Sembra avere poche speranza Jean, che adesso brucia per Françoise; riuscirà invece ad averla per moglie, senza amore da parte di lei, che accetta di sposarlo soltanto per uscire da una casa in cui il cognato ogni momento le si butta addosso. D’altronde, Jean è il primo uomo che l’ha posseduta, un giorno in cui l’ha trovata in ebollizione per il solleone e allupata di Buteau. Lise, disfatta dalla gelosia, ora odia ciecamente la sorella alla quale in un tempo lontano era tanto affezionata; Françoise la ripaga per bene, riuscendo ad avere la casa e a cacciarne lei e Buteau. I due masticano proponimenti di vendetta; la aggrediranno, incinta, tra i campi, perché Françoise e Jean non abbiano eredi e i beni paterni tornino tutti alla sorella maggiore. L’orrore raggiunge le punte estreme: invece di sgravare Françoise con una fattura, mentre Lise gliela tiene ferma Buteau ne approfitta per pascersi, peraltro con piena soddisfazione di Françoise, che non ha mai anelato ad altro uomo. Lise, folle di rabbia, chiude allora i conti con la sorella scaraventando la sua pancia pregna sulla lama di una falce. Françoise agonizza e muore senza dire una parola dell’accaduto e senza far testamento a favore di Jean: le terre devono restare in famiglia e quel Macquart che l’ha sposata è un estraneo – tanto più estraneo se paragonato al suo grande amore, Buteau. Ecco dove il realismo del romanzo si fa davvero intenso: nel mostrare quanto possa essere illimitato l’amore di una donna per una canaglia senza sentimenti e senza pietà. All’uccisione di Françoise ha però assistito il vecchio Fouan, il padre di Buteau, sballottato tra lui e Hyacinthe che mirano a mettere le mani su un certo suo piccolo tesoro in titoli. Quando Buteau e Lise si rendono conto che Fouan può parlare, stabiliscono di sopprimere quel decrepito rudere che non si decide a morire. Il parricidio si trasforma in un raccapricciante scempio, raccontato senza risparmiare niente al lettore, fino all’ultima sorpresa: i bambini dell’orribile coppia hanno assistito. La fine del vecchio passa per incidente domestico; Lise e Buteau si sentono sicuri e appagati, dopo essersi presi la soddisfazione di buttare Jean fuori di casa. Siccome mancava ancora una tragedia per l’epilogo, durante le esequie del vecchio si levano fiamme da una fattoria: l’ultimo amante di una dissoluta serva, preso dalla disperazione, ha ammazzato il proprietario e appiccato il fuoco proprio quando lei, salita di rango nel letto del padro-

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ne, stava per essere nominata erede. Giustamente, Jean non ne può più di questo inferno rurale: meglio tornare nell’esercito e sparare ai Prussiani, è appena stata dichiarata guerra e la terra di Francia va ora più difesa che coltivata. La trama è talmente articolata e ricca di personaggi che qualche percorso interessante può risolversi in una veloce parte di collegamento. Così la sorte dell’ululante ritardato mentale Hilarion, che, morta la sorella-moglie Palmyre, schiavizzato dalla feroce nonna novantenne, un giorno aggredisce quest’ultima: non già in un gesto di rivolta, ma per tentare di violentarla. La nonna, comunque, lo ferma spaccandogli il cranio. È una Fouan anche lei: infatti, per il puro gusto delle contese in famiglia, ha studiato apposta la forma del suo testamento perché gli eredi si scannino fra loro. La singolare caratteristica del romanzo è che atrocità siffatte sono alternate con episodi comici – di una comicità sbracata, forma di realismo di antica ascendenza –, trionfanti in particolare nella quarta parte. Qui troviamo la baldoria della vendemmia, con immancabili sbronze e con scorpacciate d’uva che provocano repentine scariche di ventre; e, in apogeo romanzesco, la chicca dell’asino ubriaco che vomita i venti litri di mosto trincati. Nella stessa parte si insiste sull’osceno divertimento di Hyacinthe: liberare sonoramente le flatulenze intestinali, accompagnandole con scherzi o impiegandole per gare e scommesse. Con La terre l’Autore ha in effetti sfiorato il rischio di perdersi in una sfrenata sarabanda di esagerazioni; le stesse caratteristiche pertinenti al Naturalismo sono accentuate, rimarcate fino a sfiorare talvolta la caricatura. Eppure l’ordito del romanzo è attraversato da riferimenti allusivi e simbolici che con il Naturalismo non hanno niente da spartire. Intanto, le cinque parti in cui sono raccolti i capitoli si rifanno all’alternarsi delle stagioni e al loro ritorno nella concezione ciclica del tempo – quella propria della civiltà contadina, appunto –, che abbraccia anche l’illimitato succedersi delle generazioni umane. Il ciclo dell’esistenza è animato dalla fecondità: tema carissimo a Zola, nella Terre crudamente presentato sotto la specie della sessualità e fortemente congiunto con il ricorrere della morte. È ben rappresentativo al proposito l’episodio della violenza di Buteau su Françoise incinta, ammazzata subito dopo da Lise; ma al centro del romanzo le allusioni si intrecciano in modo ancor più complesso in un

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altro episodio, quello del primo rapporto sessuale di Françoise. Durante la mietitura, nella vampa canicolare, Buteau tenta come al solito di possedere la cognata, che lo respinge straziata dalla passione; così di lì a poco la surriscaldata Françoise non sa resistere a Jean, che la ghermisce tra i covoni. Al termine dell’amplesso la terra riceve quanto proviene da Jean, che si ritrae per evitare il rischio di fecondare la ragazza: al contrario di quella umana, la fecondità della terra è sempre pronta e accogliente. Subito dopo, la sventurata Palmyre, schiacciata dalla propria esistenza miserabile, stramazza sotto gli occhi di Françoise – per lei così la prima conoscenza dell’uomo si salda con lo schianto di una morte. Zola però non è un simbolista e nelle ultime righe fornisce una precisa chiave di lettura dell’opera, con le riflessioni di Jean davanti alle tombe di Françoise e del vecchio Fouan – riflessioni che seguono il commento di Hyacinthe, espresso con le consuete sonorità provenienti dal suo intestino ventoso. Forse quei morti sono in pace, si dice Jean, adesso che sono nella terra per il cui possesso spasimavano; perché continui la vita, di cui la potenza della terra è perenne manifestazione, c’è forse bisogno anche del dolore e del sangue. L’ultimo sguardo di Jean, spostandosi dalle due tombe ai solchi in cui i contadini stanno spargendo la semente, segna nell’audace costruzione romanzesca la chiusura del cerchio tra necessità della morte e continuità della vita.

2.16 Le rêve L’enigma del ciclo: in apparenza, una fantasia d’amore tessuta nel fiabesco, sconcertante per l’appassionato d’oggi così come per i lettori e i critici d’allora. Le rêve, costruito solo su cinque personaggi, è il più breve dei venti romanzi, ma per esso è stato raccolto uno dei più ampi dossier preparatori. Per non rischiare di smarrirsi tra i suoi misteri, è opportuno partire proprio dal dossier e considerare quanto fissato dal Maestro all’inizio dell’ébauche. Egli annota per sé stesso di volere scrivere il libro che non ci si attende da lui: quello che constatiamo come risultato è già l’intenzione di partenza. Si ripromette pertanto un’opera che, «rifacendo» Paul et Virginie (ennesi-

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ma manifestazione della sua passione romantica per le grandi storie d’amore), possa essere messa nelle mani di tutti i lettori e in special modo di tutte le lettrici, comprese le fanciulle: bersaglio centrato anche in questo caso, Le rêve è l’unico tra i suoi romanzi che abbia avuto tale sorte. Inoltre nell’ébauche Zola si invita a dimostrare di saper usare la psicologia, intesa (romanticamente anche qui) come lotta dell’anima tra grandi passioni, trattando inoltre i temi dell’aldilà e, ovviamente, del sogno. Come nella Joie de vivre, la protagonista è un’orfanella; ma in questo caso la sua comparsa in scena, quasi messo da parte il Naturalismo, è costruita su immagini ispirate ai senza famiglia e alle piccole fiammiferaie. Nell’immaginaria Beaumont, cittadina dimenticata dal tempo che come nel Medioevo vive raccolta intorno alla cattedrale, una nevosa notte d’inverno arriva una bambina che si salva dal gelo rannicchiandosi sotto la protezione delle sante scolpite sulla porta della grande chiesa. È Angélique, figlia della losca Sidonie Rougon che, eccezionalmente ricordatasi di essere donna oltre che mediatrice di affari, l’ha concepita sa il cielo con chi e se n’è sbarazzata alla nascita. Fuggita dal bestiale duo cui era stata affidata, a Beaumont la piccina viene raccolta e poi adottata dagli Hubert, una coppia di ricamatori di ornamenti sacri. La famiglia vive da centinaia d’anni nella stessa casa, tra i contrafforti della cattedrale, tramandandosi il mestiere di generazione in generazione; ma gli attuali Hubert non hanno avuto figli, a causa di una maledizione dal letto di morte della madre di lei, che evidentemente aveva preso molto male la fuga d’amore della figlia come via per il matrimonio. Angélique cresce in quella casa al di fuori del mondo, senza uscire se non per la messa domenicale, lavorando al ricamo in cui si rivela un vero talento. Gli inquietanti sbalzi d’umore e gli attacchi furiosi propri del suo carattere vengono gradualmente curati dall’atmosfera raccolta e tranquilla e dall’amorevole attenzione dei genitori – e il lettore sagace coglie come il Maestro stia impostando un incontro-scontro tra l’ereditarietà della race e l’influenza di un milieu che, grazie alla sua concentrazione e condensazione, riesce a prevalere. Ignorante per il resto, Angélique conosce a memoria il catechismo e si appassiona alle vite dei santi e ancor più delle sante della Legenda aurea. Quest’ultima è stata chirurgicamente sezionata dal Maestro, il quale,

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possiamo immaginare con che spasso, ne ha tratto le storie più favolose e ambigue, le più truculente e raccapriccianti, perché per esse la ragazza si entusiasmi e infervori fino a una forma di esaltazione patologica (sopita però dalla serenità dell’ambiente familiare: niente a che vedere con i fanatismi da mentecatto di Serge Mouret). Angélique arriva così a identificarsi con le vergini e martiri della Legenda e ad aspirare alla santità: forse una forma spiritualizzata dei formidabili «appetiti», ossia delle brame di elevazione sociale ed economica proprie dei Rougon. Soprattutto, la protagonista cresce convinta che il miracolo sia una costante della realtà, una soluzione donata da un intervento celeste per situazioni in cui il credente si trova in un vicolo cieco; e su questa fede nei miracoli il Maestro prepara uno scherzo clamoroso nell’ultima parte del romanzo. Nonostante la purezza e l’ingenuità di Angélique siano assolute, l’ancestrale desiderio di una felicità d’amore è così forte da prevalere anche sull’ambiente e sull’educazione, travolgendo le barriere dietro le quali i genitori, che per amore hanno sofferto, vogliono inconsciamente proteggerla. L’amore ovviamente è da lei concepito in stile con la sua virginea e celestiale visione del mondo: Angélique attende l’arrivo di un principe azzurro bellissimo, ricchissimo e innamorato di lei senza riserve, insomma perfetto. E lo attende con tale ferma intensità e tale capacità di far vivere il sogno nella realtà, che l’amato infine una notte si materializza, come evocato da lei nel piccolo mondo circostante: un giovane che dal buio del giardino la contempla. All’ambiguo rapporto tra sogno e realtà va ricollegata una serie di sdoppiamenti delle situazioni e dei personaggi. Il principe azzurro compare in un’atmosfera di impalpabile fantasia, cui si contrappone alla luce del giorno la concretezza del primo dialogo, di una freschezza incantevole. Ancora: il giovane, presentatosi come restauratore di vetrate di nome Félicien, trova un pretesto per fare qualche visita in casa Hubert, ma in tali occasioni Angélique finge indifferenza sino ad allontanarlo; la simulata freddezza si scioglie poi nelle ardenti parole di un altro incontro, loro due soli, quando Félicien ancora evocato le entra addirittura in camera nottetempo. Parole caste di una vergine immacolata, che però con esse si dà tutta in spirito, in una situazione smaccatamente morbosa – e seguiranno altre visite notturne, tutte purissime, nella stanza della fanciulla –, ma insieme su-

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blimata tanto da essere accettabile anche per le lettrici più pudibonde. L’ultimo sdoppiamento è fiabesco: Félicien non è un modesto restauratore, bensì il rampollo della nobilissima e potente famiglia degli Hautecœur. La scoperta, invece di sgomentare Angélique, le dà la certezza che il suo principe sia davvero arrivato. Tale fiducia della ragazza nella provvidenza dovrà misurarsi con la volontà di un ministro del culto: il padre di Félicien – in una combinazione piuttosto improbabile – è infatti il nuovo vescovo di Beaumont, avendo preso i voti dopo la morte dell’adorata moglie. Di aristocratica e algida durezza, egli afferma e ribadisce che non acconsentirà mai al matrimonio di suo figlio con una trovatella ricamatrice. Con questa figura di antagonista il Maestro riesce nella difficile impresa di inserire il misoclericalismo in una fiaba. Angélique dapprima conserva la serenità, perché la Legenda aurea le ha insegnato che il miracolo certamente arriverà; poi, senza più speranze, si ammala per il dispiacere. Ma anche la medievale caparbietà di un vescovo-padre può essere vinta dall’amore più puro del mondo. Il terribile Hautecœur non vuole confessarlo, ma avendo visto Angélique supplice si è commosso; quando la ragazza è ormai moribonda, vuole portarle personalmente l’estrema unzione. Finisce così con il ravvedersi e, rispolverando un’antica tradizione degli Hautecœur, opera lui stesso un intervento miracoloso salvando Angélique in un batter d’occhio, per poi dare il proprio consenso alle nozze. Il miracolo dunque, al di là di ogni previsione del lettore, avviene davvero. La sicurezza con cui il Maestro lo racconta è a dir poco sfrontata. L’audacia narrativa di questo penultimo capitolo serve d’altronde solo a preparare la catastrofe di un finale inevitabile e atroce quanto logico (in relazione a una logica interna, beninteso). Si celebra il matrimonio: Angélique si sposa con la consapevolezza di avere in sé la morte, unico possibile compimento del suo amore ideale e perfetto. E infatti, mentre sta uscendo dalla cattedrale e dal suo sogno per entrare nella realtà, nel primo bacio a Félicien la novella sposa esala l’ultimo respiro. Non è tutto. Nell’imminenza del matrimonio di Angélique, la signora Hubert, da parecchio nell’età sinodale e sposa da una trentina d’anni, si rende conto di essere incinta. Si è dunque infine spenta la maledizione materna che sembrava averla destinata alla sterilità. Forse il concepimento di questo bambino, frutto concreto benché

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tardivo dell’amore, ha un valore rilevante per il significato del romanzo. Le rêve vuole analizzare vari gradi del rapporto tra amore e realtà? Oppure vuole offrire una visione del reale per assurdo, attraverso la sua negazione? O magari il Maestro si è dedicato, se non a un divertissement, a una concessione alle proprie romantiche fantasticherie solo per spiazzare lettori e critici dopo le bestialità agresti della Terre e prima della bestialità umana dell’opera ad essa intitolata? Fatto sta che per nessun altro titolo dei Rougon-Macquart la lettura si conclude con un punto interrogativo.

2.17 La bête humaine L’intento di partenza, tramandato dagli appunti preliminari, è il più deciso: «qualcosa di allucinante, di tremendo», che si stampi indelebile nella memoria e causi «un incubo a tutta la Francia», una vicenda basata sul manifestarsi di una forza sconosciuta eppure plausibile agli occhi della scienza. Nello sviluppo dell’idea originaria si sovrappongono, combaciando a meraviglia, il progetto di un romanzo sui treni e l’ipotesi di «romanzo giudiziario», termine che per buona parte coincide con quello che noi definiremmo «poliziesco» o «giallo» – ed è straordinaria l’intuizione di una scena alla Alfred Hitchcock scritta quando il cinema non esisteva ancora, quella di Jacques testimone dell’omicidio di Grandmorin: un istante solo, il fotogramma del finestrino illuminato nel buio, mentre il treno passa velocemente davanti a lui. Le componenti del romanzo si equilibrano a vicenda: l’ambientazione ferroviaria inquadra con rigore il noir, che sarebbe potuto scivolare al di fuori del realismo verso la storia dell’orrore. Per molti anni i ferrovieri francesi sono rimasti affezionati a questo capolavoro del Maestro, sentendolo aderente alla realtà nel rappresentare la «vita del binario». La mimesi del lavoro del macchinista è di fatto eccellente: nella fenomenale sequenza del treno sotto la nevicata, in particolare, essa viene gradualmente elevata ad effetti artistici e visionari supremi, senza perdere niente della sua concretezza. A un profano viene però anche da pensare che le ferrovie del

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Secondo Impero non dovessero selezionare gran che i loro dipendenti. Il giovane macchinista Jacques Lantier convive da anni con la pulsione di farsi omicida di una donna. Il brutale sotto-capostazione Roubaud massacra di botte la moglie Séverine per animalesca gelosia; poi, con l’aiuto di lei, sopprime quel vecchio depravato del presidente Grandmorin (membro del Consiglio d’Amministrazione delle Compagnie dell’Ovest: è nelle ferrovie anche lui), che gliel’ha insudiciata ragazzina. Dopo il delitto, senza più curarsi della moglie, Roubaud si stordisce ore e ore al tavolo da gioco del caffè, dove viene sistematicamente pelato da un commissario di sorveglianza, che, considerando il proprio incarico una sinecura, passa in quel locale gran parte del suo tempo. Il cantoniere Misard, ossessionato dai mille franchi che la moglie ha ereditato e nascosto, la avvelena poco alla volta; sbarazzatosi di lei, sfascerà la casa senza riuscire a trovare il denaro. La figliastra di Misard, Flore, che si occupa del passaggio a livello presso la casa cantoniera, innamorata alla follia di Jacques, dopo avere scoperto la relazione del macchinista con Séverine provoca un incidente catastrofico al suo treno; risultata vana la strage, dal momento che i due amanti ne escono salvi, la ragazza si suicida lasciandosi annientare da un altro convoglio. Il fuochista Pecqueux è un ubriacone infido che ha per amante la moglie del capo-deposito, una viziosa con cui si è divertito tutto il personale di Le Havre; nel finale tenta per gelosia di ammazzare Jacques durante l’orario di lavoro e, precipitando avvinghiati sotto il treno in corsa, entrambi si sparpagliano in tocchi lungo il binario. Le prove psico-attitudinali per gli aspiranti ferrovieri erano dunque ancora da inventare; ma la lettura del ciclo dei Rougon-Macquart ci ha insegnato in quali limiti intendere il naturalismo, e anche il realismo, del Maestro. Il dato che interessa è che molti personaggi uccidono o, come Séverine, progettano di uccidere. I vari omicidi, portati a compimento o meno, hanno moventi disparati: vendetta, gelosia, passione, denaro – in tutti gli altri casi, tranne che per Jacques Lantier. Con una ragione per uccidere, anzi, Jacques non riesce: non si sente di sopprimere Roubaud, di cui lui e Séverine avrebbero interesse a sbarazzarsi. Dietro il suo desiderio di uccidere peraltro non si nascondono traumi psicologici né sociali; c’è, nuda e cruda, una psiche tarata per condanna congenita, una pazzia così contorta

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che Jacques si appagherà uccidendo proprio la sua amante Séverine, la quale tanto lo soddisfa e tanto è a lui legata. L’atroce male ha comunque una spiegazione scientifica: eredità dell’alcolismo delle generazioni precedenti. La grandezza della Bête humaine è prima di tutto qui, nella perfetta coincidenza di ragioni artistiche e ragioni scientifiche, o che l’arte stessa intende presentare come scientifiche. All’epoca del romanzo, in cui non erano ancora comparse le fantasiose illazioni sessuomani di Freud, i criteri di conoscenza dell’indole criminale erano offerti dalle rassicuranti classificazioni di Lombroso e in genere dalla criminologia positivista. Di questa Zola mette di fatto in luce alcuni limiti attraverso la sicumera del giudice istruttore che, affidandosi al proprio talento di individuare i colpevoli a vista, incorre in solenni cantonate. Ma ciò che al Maestro interessa principalmente è esplorare baratri della psiche in cui neppure Lombroso si è avventurato: immaginare un pericolosissimo assassino potenziale che non abbia niente di fisicamente rilevabile, anzi si presenti come un giovane perbene e piuttosto attraente; attribuirgli una follia omicida in delicatissimo rapporto dialettico con il desiderio sessuale; supporre che il male, congenito e inguaribile, determini in lui uno sdoppiamento della personalità. Jacques Lantier è difatti un Jekyll-Hyde privo dei risvolti morali del personaggio di Stevenson: le sue mani, mosse dalla bramosia di strangolare e accoltellare, possono sfuggire alla volontà dell’individuo, quando la componente razionale, humaine, si spegne e dell’endiadi o ossimoro rimane soltanto la bête. Certo, per la scienza vera e propria, persino per quella contemporanea a Zola, più di un nesso nella struttura del romanzo lascia adito a obiezioni. Ammettiamo pure, e già non è agevole, che il raptus spinga Jacques a uccidere una donna e non un uomo come conseguenza del rancore atavico del maschio per un inganno perpetrato al tempo dei cavernicoli; ma che Jacques possa amare fisicamente Séverine senza essere tentato di ammazzarla perché lei ha a sua volta ucciso, questa è una motivazione non proprio perspicua. Si valuti poi quanto sia difficilmente classificabile, ma artisticamente forte, l’immagine che rappresenta la patologia di Jacques: un’incrinatura (fêlure), attraverso la quale la coscienza e la ragione dileguano, incrinatura che un solo goccio di alcol basta a spalancare,

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ma che spesso si apre da sola, condanna del sangue avvelenato a lui trasmesso. La crepa interiore e lo sdoppiamento della personalità potrebbero fungere per Jacques da spiegazione “oggettiva” della più terribile realtà psicologica del romanzo: l’assenza di rimorsi (dopo aver ucciso Séverine, per un certo periodo Jacques arriva addirittura a sperare di essere finalmente guarito). Ma neanche gli altri assassini sono toccati dal rimorso: né Séverine per essere stata complice di Roubaud, né Flore, la quale si uccide per disperata gelosia di vedere salvi i due amanti, né il monomane Misard, e neppure Roubaud, benché dopo il crimine un malessere interiore incominci a sgretolarlo. I colpevoli della Bête humaine ignorano il pentimento, conoscono il castigo solamente per bizzarria della sorte e non hanno dunque alcuna possibilità dostoevskijana di espiazione e riscatto – tutti e a maggior ragione Jacques, spinto da incontrollabili motivazioni biologiche. Egli piuttosto, per una debolezza interiore che non riguarda la coscienza, è incapace di agire se ragiona freddamente, alla Raskolnikov, sull’opportunità di perpetrare un omicidio: la lezione morale di Delitto e castigo è così liquidata. Tra i personaggi principali, l’unico che senza uccidere rimane ucciso è la locomotiva Lison: mai così umanizzata come quando, distrutta nel pauroso disastro causato da Flore, si va spegnendo in una penosa agonia. La Lison è prima di Séverine l’unica creatura che Jacques potesse amare per la sua bellezza e le ottime qualità e, manovrandola come macchinista, potesse possedere senza il timore che il desiderio si trasformasse in raptus omicida. La Lison secondo Anatole France sarebbe un personaggio all’altezza delle creature della mitologia greca, ma per spiegare il ruolo della macchina nel romanzo dell’istinto appare imprudente tirare in causa i miti. La «bestia umana» è l’individuo primordiale, privo di remore morali e dominato da impulsi ai quali il suo germe di ragione incomincia stentatamente a strappare qualche margine, individuo che affiora ancora nel diciannovesimo secolo – Jacques è ovviamente un caso estremo, ma aspetti della «bestia umana» emergono anche in Roubaud e Misard, o in Flore e perfino in Séverine –, ossia nel secolo del progresso, di cui i treni sono emblematici. Con altro valore, quello di metafora o simbolo della Francia, il treno riempie poi l’eccelso finale: carico di soldati che, in viaggio verso la disfatta di Sedan, canta-

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no ubriachi e ignari, esso corre a velocità folle nelle tenebre, senza conducente, dopo che Jacques e il fuochista Pecqueux ci sono finiti sotto. In questo caso sì, senza dubbio, l’immagine si pone all’altezza delle creazioni della letteratura classica.

2.18 L’argent L’apogeo del Secondo Impero coincide con l’Esposizione Universale del 1867. Parigi ospita i rappresentanti più illustri delle altre nazioni, sovrani e principi, invitati dalla Francia come dalla signora d’Europa che ha organizzato un colossale banchetto, una serie di sovrumane gozzoviglie. La città pare impazzita in una perpetua festa di bandiere, musica e luce; dalle Tuileries all’Opéra, dai ristoranti dei boulevard ai teatri, il divertimento del bel mondo brucia cifre incalcolabili; la prostituzione è un fiume che straripa, la fornicazione non lascia camere libere, le orge riempiono notti intere. Parigi ostenta un potere fradicio di corruzione, come una nuova Babilonia. Ma l’opulenza sfacciata, il marciume morale e la tracotante presunzione di un bengodi interminabile nascondono, come sempre, l’inizio della fine. La pazzia in cui il piacere sconfina aleggia per la capitale e incomincia a minacciarla sinistramente; il suo sfarzo è già un preludio dell’orrendo disastro in cui crollerà un Impero di megalomane immoralità. Nel delirio generale, i fati soffiano sottili, in forme tragicamente ironiche: i visitatori francesi dell’Esposizione si entusiasmano davanti ai cannoni di Krupp esposti dai tedeschi. L’avventura in Messico a sostegno di Massimiliano d’Asburgo si è d’altronde appena conclusa con un drammatico fallimento e lo stesso Napoleone III procrastina la diffusione della notizia per non guastare la festa. In concomitanza non casuale con l’apogeo dell’Impero, la Banca Universale conosce la sua grande stagione; il vertiginoso aumento dei suoi titoli in Borsa sembra in sincronia con la musica che si leva sempre più alta dall’incessante festa parigina. La stessa sede dell’Universale è in stile con l’Esposizione: un edificio monumentale, all’insegna del lusso più chiassoso, con una facciata che fonde il tempio e il caffè-concerto. L’anima di questo gigantesco istituto di

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credito senza consistenza, larva di apparenza titanica senza contenuto, è – e non può essere che lui – Aristide Saccard. Egli l’ha fondata dopo il tracollo dal quale è stato costretto ad abbandonare il palazzo del parco Monceau e a ricominciare da zero a quasi cinquant’anni, sapendo approfittare della sbornia generale di una finanza lanciata in azzardi sempre più scriteriati. Secondo i progetti di partenza, l’Universale deve essere base per una serie già di per sé fantasiosa di affari in Medio Oriente in società con l’ingenuo e onesto ingegner Hamelin: una compagnia di piroscafi, lo sfruttamento delle miniere d’argento del Carmelo, le future ferrovie dell’Oriente; ma subito questi progetti si sono espansi in deliri su un ritorno dell’impero di Alessandro il Grande, con nuova sistemazione di tutto l’Oriente e collocazione del papa a Gerusalemme. La voce su quest’ultimo tassello dei miraggi affaristici di Saccard e Hamelin circolerà e, lungi dal provocare interrogativi sulla salute mentale del direttore generale, attirerà le simpatie degli ambienti cattolici più ferventi: Saccard per irrobustirsi punterà proprio su questi, presentandosi come baluardo del cattolicesimo in opposizione allo strapotere dei finanzieri ebrei. Mentre poi Hamelin, presidente del Consiglio d’amministrazione dell’Universale, passa in Oriente per i contatti necessari all’impresa, Saccard a sua insaputa gonfia la potenza della banca sia attraverso l’uso spregiudicato dei giornali e della pubblicità sia soprattutto giocando scelleratamente sulle stesse azioni dell’Universale; in tal modo, la banca di Saccard cresce come un gigante di dimensioni smisurate ed estrema fragilità – e al centro dell’affresco zoliano si colloca la Borsa. Nei locali di quest’ultima sono ambientate scene di efficacia dantesca. Le quotazioni vengono fissate con contrattazioni e compravendite degne di ossessi in manicomio, tra grida e un gesticolare frenetico che fa pensare a crisi epilettiche. Qui dominano le logiche spietate costruite sul denaro, spesso d’altronde sostituite dalla cieca forza dell’azzardo. La Borsa vista dall’esterno è un casinò intorno al quale il demone del gioco calamita le sue vittime. La febbre della speculazione travolge indistintamente tutti, con la sola differenza delle possibilità economiche di partenza e quindi della portata della vincita: i benestanti cercano di soddisfare una sete inesauribile di ricchezze, riducendosi a monomaniaci in caccia di milioni; i poveracci vedono

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nell’acquisto di azioni una miracolosa scorciatoia per far lievitare i risparmi fino al livello indispensabile per i propri limitati sogni. Una schiera dipende in particolare dalla Banca Universale, la cui ascesa è stata tanto clamorosa e prodiga di tante vane garanzie; numerosi tra loro sono legati alle sue sorti da investimenti di importanza vitale. L’ineluttabile crollo dell’Universale – presagio o prodromo della caduta del Secondo Impero –, accelerato dalle manovre del freddo e calcolatore banchiere rivale Gundermann, semina in tal modo rovina, distruzione e disperazione. Eppure lo sfacelo, nonostante le conseguenze giudiziarie che toccano anche l’ingenuo Hamelin, non ferma i grandi progetti della società in Oriente. Affidato alle riflessioni della sorella Caroline Hamelin, sfortunata amante di quel gaglioffo di Saccard, il finale è un inno alla vita sempre tesa al progresso anche attraverso i disastri, con corollario morale sul denaro, potenza necessaria ai fini del cammino della civiltà. La strana chiusa potrebbe parere ambigua, considerando che nel frattempo Aristide Saccard, rifugiatosi all’estero, ha ricominciato con traffici e affari sporchi; essa va però considerata ponendo il personaggio di Caroline sulla stessa linea prospettica di due altre figure. La principessa di Orviedo – uno dei tanti personaggi del Maestro vittime di ossessioni – ha la precisa volontà di distruggersi il patrimonio in beneficenza, con spese superflue e assurde di puro abbellimento delle strutture assistenziali da lei finanziate; la sua carità rischia di essere improduttiva perché non genera un miglioramento della società. L’altro personaggio è l’intellettuale marxista Sigismond Busch, che, corroso dalla tisi, vive nella sua stanza come un asceta ateo, teorizzando la società futura basata sul collettivismo e la soppressione del capitalismo e del denaro stesso; l’avversione ideologica per quest’ultimo impedisce a Busch di coglierne l’utilità sociale. Rispetto dunque a interpretazioni devianti incarnate da altri personaggi, tra i quali lo stesso Saccard, Caroline Hamelin esprime il punto di vista sano sostenuto dall’autore. Con stupore e una punta di imbarazzo si scopre dunque che il magnifico affresco potrebbe essere letto, almeno in parte, come romanzo a tesi – su un tema dichiarato dallo stesso titolo, che con questa chiave di lettura perderebbe tutta la propria efficacia. Ma un tale capolavoro ha in sé i correttivi per ogni presunto limite: il vigore dell’ispirazione e l’incisività della caratterizzazione dei personaggi

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vanno ben al di là degli schemi necessariamente limitati del romanzo a tesi. Basti considerare il figlio del protagonista: non Maxime, languido decadente di molle raffinatezza, ricchissimo, egoista e cerebralmente nullo, che – all’epoca in cui sono finiti da poco i suoi amori con la matrigna Renée, condonati dal padre per amore del denaro – tiene le distanze da Aristide per non farsi coinvolgere nei suoi affari; bensì Victor, figlio naturale avuto da Aristide Rougon appena arrivato a Parigi e non ancora ribattezzato Saccard. Riscoperto per via di un ricatto, Victor è nato da uno stupro animalescamente consumato da Aristide sulla scala di casa, con tanta foga da causare un’invalidità alla ragazza madre, ragazza poi prontamente abbandonata dal violentatore con una firma falsa sulle cambiali di risarcimento. Cresciuto nel sordidume di una baraccopoli, Victor è ora un adolescente laido, marcio fin dalla nascita, bestiale come le circostanze del suo concepimento. Quell’utopista di Caroline vuole aiutarlo mettendolo in uno degli istituti di carità dovuti alla generosità suicida della principessa di Orviedo e pertanto pieno di abbellimenti idioti. L’ingenua vuole dargli un’educazione, convinta che, una volta riscattato socialmente, il mostriciattolo potrà rivelarsi una brava persona. Risultato: Victor stupra una tenera giovane, volontaria per beneficenza, e scompare verso un futuro presumibilmente dedito al crimine.

2.19 La débâcle La guerra è irragionevolezza, assurdità, pazzia. La Francia, trasportata da cieca esaltazione, si è buttata nell’avventura senza rendersi conto della propria mancanza di preparazione, tanto più drammatica se confrontata con l’efficienza prussiana: una inadeguatezza per cui l’esercito si sarebbe velocemente impantanato rimanendo alla mercé del nemico. La disfatta ha dunque cause ben precise: la grottesca disorganizzazione, che impedisce i collegamenti e i rifornimenti (il Settimo Corpo d’armata è in pessime condizioni già all’inizio di agosto, quasi un mese prima della battaglia di Sedan); l’incapacità dei comandanti, non avvezzi a simili operazioni di guerra e divisi tra loro da rivalità; i rallentamenti seguiti all’affannosa mobilitazione iniziale

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e, peggio ancora, i logoranti spostamenti senza senso, magari a tentoni per mancanza di carte geografiche, fino a cacciarsi da soli nella morsa di Sedan: cosicché i primi nemici, silenziosi e minacciosi ulani, vengono avvistati solo dopo un mese di marcia e dopo aver sentito per tanti giorni parlare della fredda superiorità militare dei Prussiani, della potenza della loro artiglieria e di quanta ferocia essi dimostrino nel passaggio. A tutto ciò vanno aggiunte l’estrema debolezza dell’imperatore, velocemente crollato nel morale e nel fisico, e l’intromissione dell’imperatrice con la volontà di imporsi sui generali. Lo sfacelo della Francia è anticipato da quello di Napoleone III. È questi un personaggio che figura in più romanzi del ciclo: in La curée e Son Excellence Eugène Rougon il lettore lo ricorda quando, davanti alla bellezza femminile, il suo occhio torbido sotto le palpebre flosce si accende di lascivi desideri e fiamme di concupiscenza ravvivano l’aspetto sonnacchioso. In La débâcle per l’imperatore, già in partenza ridotto a un penoso fantoccio, Zola prova più pietà che disprezzo: malato, disperato, privo di autorità, seguito ancora dal tragico controsenso delle esagerate salmerie personali, condannato dall’imperatrice che lo vorrebbe caduto sul campo per salvare il trono del figlio, Napoleone III è ridotto a uno spettro vivente, sovrano di un Impero già agonizzante. La guerra è orrore: niente lo dimostra meglio del raccapricciante spettacolo dell’infermeria dopo la battaglia di Sedan, con i mucchi di arti amputati. È ferocia belluina, gratuita se colpisce gli innocenti: la barbara presa di Bazeilles ad opera dei Bavaresi costa la vita a un bambino malato, che muore arso nel rogo della sua casa; o spietatezza: la poveretta da lui sedotta consegna ai franchi tiratori l’infame Goliath, viscida spia, per una burla di processo e un’esecuzione immediata, lo sgozzamento – si sentenzia – che un porco come lui merita. La guerra è crudeltà disumana anche nelle sofferenze della prigionia: l’abbrutente fame nel campo di concentramento porta con sé il mostruoso episodio del cavallo massacrato e dilaniato, la cui carne come in un incubo si trasforma in fanghiglia immangiabile, e l’ancor più mostruoso dramma del bestione scemo che uccide un disgraziato commilitone per un pezzo di pane. Non c’è però solo questo: la guerra è anche eroismo, sentimento del dovere e dell’onore, amor di patria. È il signorile coraggio dell’anziano colonnello de

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Vineuil, paterno e affettuoso con i soldati, sempre a cavallo durante la battaglia anche se ferito, perché «finché si può stare in sella, va tutto bene»; o il prode sacrificio della cavalleria che, ormai certa la disfatta, si immola in una carica senza ritorno, per l’onore di Francia. È anche occasione di legittimo orgoglio, affermazione di dignità per gli uomini che alzano la fronte davanti alla comune tragedia: lascia ammirati lo stupendo episodio del placido e miope borghese Weiss che, davanti alla propria casa bombardata e alla morte di un’innocente sconosciuta, imbraccia un fucile e si mette a combattere per affermare il rispetto dovuto agli esseri umani. Asserragliato nella sua stessa casa con alcuni soldati, Weiss viene catturato dopo che la resistenza è giunta al limite estremo; e la sua fine da eroe, fucilato dai furiosi Bavaresi, non concede niente al rischio della retorica. Soprattutto davanti alla morte del tenente Rochas il lettore commosso vorrebbe rendere omaggio: veterano rozzo e sbruffone, ma vero uomo di fegato e di cuore, Rochas è ciecamente sicuro della superiorità militare francese, tanto da non vedere la sconfitta se non negli ultimi istanti, quando colpito trova ancora la forza di distruggere la bandiera perché non cada in mano al nemico – e con lui muore la leggenda di un esercito imbattibile. Il punto di vista del personaggio, per quanto lucido questo venga immaginato, non sarebbe sufficiente per una ricostruzione completa; nonostante l’espediente di informazioni che arrivano ai combattenti attraverso giornali o lettere, per il Maestro è stato necessario completare il quadro d’insieme con una voce narrante che conosce bene, a posteriori, cause ed effetti. Il procedimento non ha più niente di naturalista; e così la narrazione partecipe, dal tono vibrante e appassionato. La débâcle infatti, oltre a essere romanzo che – meglio di ogni altro di qualunque letteratura – comprende tutti gli aspetti della guerra, è epopea popolare. E in funzione di questa sono costruiti i personaggi: bidimensionali, subito leggibili e senza considerevoli trasformazioni nel corso dell’opera. Il caporale Jean Macquart rappresenta la parte sana della Francia. Contadino di buon senso, concreto e onesto, con l’istinto del dovere e dell’obbedienza, figura limpida (le tragedie di La terre, appena concluse secondo la cronologia del ciclo, sembrano già remote), Jean a quarant’anni è tornato nell’esercito per dare il proprio contributo non già all’Impero, bensì alla patria.

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Quella di Maurice Levasseur è invece una personalità debole e confusa; figlio di tempi guasti, è un giovane instabile, facile agli entusiasmi quanto allo sconforto. Si è arruolato volontario sull’onda dell’esaltazione collettiva e anche a causa della sua lettura cerebrale della guerra come necessità dell’evoluzione; ma presto sono cominciati i momenti di abbattimento, che lasciano il posto ad attacchi d’angoscia dopo il disastro di Sedan, in cui egli vede il segno della fine di un popolo e di un mondo. Tocca così al sensato Jean confortarlo, un po’ didatticamente: con quella battaglia finisce un’epoca, sì, ma non finisce certo la Francia. La profonda amicizia di Jean e Maurice, appesantita da manifestazioni di affetto che, disturbando la lettura, sembrano proprio travalicare l’amicizia stessa, è il fil rouge che attraversa l’opera. Il destino sornione, al quale in un’epopea popolare viene assegnata la regìa, vorrà infine la beffa di un incontro-scontro fra i due, militanti in schieramenti contrapposti, nella Parigi della Comune: Jean ancora soldato colpisce senza rendersene conto Maurice comunardo, cercando poi di salvarlo; morto Maurice, Jean dovrà rinunciare al sogno d’amore con la sorella dell’amico (gemella, giusto per riattizzare l’ambiguità di fondo). Alla clamorosa e melodrammatica coincidenza si trova giustificazione nella logica dell’intera terza parte. Questa non è compatta come le precedenti: benché contenga le pagine superbe dell’incendio di Parigi visto dalla Senna, non è priva di qualche collegamento piuttosto frettoloso. Ciò che però il lettore avverte di più, dopo un’analisi tanto precisa delle cause di Sedan, è la mancanza di un approfondito studio sulle origini e sugli sviluppi della Comune, i cui agganci ideologici non vengono neppure considerati. La Comune per Zola è l’ultima e più tragica conseguenza dell’immane disastro causato dall’Impero: vi fermentano sia l’eccesso di patriottismo deluso di chi, come Maurice, vede in essa una forma di estrema e orgogliosa resistenza, dopo l’inettitudine dimostrata da governanti e generali; sia la ribalderia di arruffapopoli da taverna, che sfogano istinti vandalici. Ma sui motivi per cui la follia collettiva, con il suo infernale delirio di distruzione, possa coinvolgere anche i patrioti, certamente non gettano luce le esaltate convinzioni di Maurice. Si tratta evidentemente di una scelta compositiva: invece di individuare responsabilità che riaprirebbero antiche ferite, il Maestro nella sua ricostruzio-

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ne preferisce seguire la spirale di rabbia tra i soldati del governo di Versailles, esasperati per dover combattere ancora, e i comunardi infuriati per essere trattati come nemici o delinquenti – il tutto davanti ai Prussiani, che si limitano ad assistere perché neanche loro avrebbero saputo ridurre i Francesi peggio di come si sono ridotti da soli. Entra così nel romanzo anche la guerra più assetata di sangue, quella civile, la peggiore perché alimentata dall’odio. Ma il bagno di sangue tra le fiamme ha davvero, come in altro modo elucubrava Maurice, un valore di palingenesi: ora che la rovina ha raggiunto la punta estrema, il cammino della nazione dovrà necessariamente riprendere. E questo avverrà grazie alla parte sana della Francia, ai tanti Jean Macquart. Dopo Sedan l’Impero, gonfio della propria putredine, è scoppiato lacerando la Francia; fatti a pezzi dai Prussiani, i Francesi si sono poi scannati fra loro nell’orrore supremo della Comune; ora si tratta di rimboccarsi le maniche, per rifare la patria migliore di prima. Il semplice e concreto Jean Macquart non avrebbe potuto portare a un livello più alto il ciclo che ha quasi finito di raccontare la «storia naturale e sociale» della sua famiglia.

2.20 Le docteur Pascal Nel 1872, al di là del limite cronologico del Secondo Impero e del ciclo dei Rougon-Macquart, il sessantenne dottor Pascal Rougon coltiva i propri studi placidamente ritirato nella tenuta della Souleiade presso Plassans; solo per filantropia si occupa anche di alcuni malati, privilegiando i più poveri, perché una discreta rendita gli consente di disdegnare il denaro. Con Pascal vive la nipote e figlioccia Clotilde, venticinquenne, che il fratello di lui Aristide Saccard gli ha scaricato diciott’anni prima e che, così devota da chiamare «maestro» lo zio, lo aiuta come segretaria. Clotilde è stata cresciuta da una domestica di cieca fedeltà, fervente cattolica e quindi – nella visione non imparziale di Zola – alquanto ottusa, la quale è stata autorizzata a infonderle la fede nonostante il rigoroso ateismo del dottore. La religione è così l’unico argomento che possa turbare la pace nell’anomala famigliola. Gli studi di Pascal vertono da molti anni sui princìpi

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dell’ereditarietà, per individuare i quali il medico ha preso a modello la stirpe cui egli stesso appartiene, raccogliendo tanta documentazione da riempire un enorme armadio. La sua aspirazione – che contribuisce al significato di questo sorprendente romanzo conclusivo del ciclo – è di definire le linee generali della storia dell’umanità a partire dalla «histoire naturelle et sociale» della sua famiglia. Pascal ha cominciato a studiare l’ereditarietà dopo essersi applicato alla ricerca del principio della vita, per individuare il quale (casuali le analogie con un altro medico, tale dottor Frankenstein) ha lavorato su feti e cadaveri di donne gravide; l’interesse per l’ereditarietà è infatti in Pascal tutt’uno con la fede appassionata nella verità e nella vita che, sotto l’aspetto distaccato dello scienziato ateo, riempie il suo animo generoso. Non si tratta di studi accademici: Pascal vorrebbe migliorare le condizioni dell’intera umanità, a partire dai poveretti di Plassans. Come medico filantropo ha adottato un personale metodo di cura, sperimentato prima su sé stesso, consistente nel somministrare puro succo di cervella di montone, in un primo tempo da bere mescolato con vino di Malaga, poi direttamente iniettato. I risultati sono eccellenti, quelli di un vero elisir di giovinezza. Unico lato negativo, per tutte le cervelle di montone il macellaio presenta un conto mensile assai salato. È senz’altro più economico far uso di quell’altra panacea da lui scoperta: buone iniezioni di acqua distillata. Nel personaggio di Pascal si concentrano così quattro modelli differenti: due risalenti a molti anni prima nella vita dell’Autore: Prosper Lucas, per gli studi sull’ereditarietà, e Claude Bernard, per l’elaborazione del metodo sperimentale; uno recente: Ernest Renan, per la fiducia nella scienza come garanzia di benessere futuro; più, in un gioco di specchi, il modello costituito da Zola stesso, per il suo attaccamento al lavoro e per la costruzione della «histoire naturelle et sociale» che Pascal sta ora studiando. Un duplice espediente giocato sull’ereditarietà annoda i fili di quest’ultima opera all’intero ciclo. Il riferimento principale è costituito dalle carte raccolte nell’armadio: l’intera storia dei RougonMacquart, di cui la madre di Pascal ossessivamente vorrebbe la scomparsa. La signora Félicité, vedova di Pierre Rougon – defunto il 3 settembre 1870, per un misto di indigestione e di accidente causato dalla notizia di Sedan –, dalla fine dell’Impero vive come un’ex-

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regina di Plassans, con l’unica preoccupazione che nessuna macchia guasti la rispettabilità dei Rougon. Per lei non potrebbe esserci niente di peggio di quell’armadio, che raccoglie tutto ciò che i lettori del ciclo zoliano conoscono dai diciannove romanzi precedenti. Per questo la diabolica Félicité suborna Clotilde, preda facile perché obnubilata dalla fede. La giovane una notte sta per fare piazza pulita del materiale che costituisce per suo zio il senso della vita; ma Pascal arriva in tempo e, invece di scaraventare la nipote fuori di casa come avrebbe meritato, le mostra il tutto, svelandole la storia della sua famiglia a partire dall’albero genealogico in cui sono state ricapitolate le discendenze. Questa rivelazione di Pascal costituisce il résumé del ciclo annunciato dallo stesso Zola. Altri riferimenti permettono di integrarlo con notizie su vari personaggi, in alcuni casi protagonisti di romanzi già lontani: Aristide Saccard è nuovamente in auge e, avendo investito nel giornalismo, sguazza nella Repubblica quasi come prima nell’Impero; Eugène Rougon, politico a vita, campa da deputato; Pauline Quenu, zitella, si dedica al bambino di Lazare rimasto orfano di madre; si raccolgono aggiornamenti su Octave Mouret (e sulla nostra Denise...), su Hélène, Étienne Lantier, Jean Macquart e anche sull’unico membro della famiglia lasciato in ombra dall’Autore: Sidonie Rougon, ora tesoriera di un’opera pia per ragazze madri. E l’abate Serge, in fama di santità, attende tisico la fine in una località sperduta. Il ricordo di La faute de l’abbé Mouret, tratteggiato in un precedente dialogo di Pascal e Clotilde, è struggente. Il Paradou, spianato e diviso in lotti, è scomparso per sempre; la figura di Albine, ricordata con affetto dal dottore, torna come «éternelle amoureuse» in cui si rifletterà la stessa Clotilde, con splendida chiusura di un altro cerchio creato dall’arte. La seconda forma di collegamento con gli altri titoli del ciclo è costituita da Charles, il figlio che Maxime Saccard adolescente ha generato con un amoretto ancillare. Ora quindicenne, Charles è un minorato mentale incapace di comprendere alcunché, le cui uniche manifestazioni vitali consistono nel soddisfacimento di vizi irriferibili. Le sue condizioni di salute sono spaventevoli: sanguina se appena lo si sfiora. (È la fine dei Rougon-Macquart e il Maestro non risparmia le munizioni, anzi tira compiaciuto cannonate). Charles fin dalla nascita è stato palleggiato a Plassans – in modo davvero improbabi-

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le, ma funzionale alla costruzione di questo “non-romanzo” – da un parente all’altro. Intorno a lui possono così comparire direttamente in scena, con effetti imprevedibili per il cultore del ciclo, vari personaggi ben noti. Maxime, che alla faccia di ogni plausibilità si fa un viaggetto a Plassans in cerca delle proprie radici, a poco più di trent’anni è un rudere immondo, uno sfasciume imputridito per gli stravizi. Suo padre, fornendogli donnine allegre, sta cercando di dargli il colpo di grazia per incamerare al più presto il suo patrimonio e forse anche per vendicarsi del remoto adulterio di Renée. Persino quell’animale di Antoine Macquart ogni tanto tiene Charles a casa sua. Antoine, il più gran personaggio del Docteur Pascal, ha ottantaquattro anni e, con dispetto di Félicité che ritiene una vergogna quel cognato degenere, non schiatta benché sia ubriaco fradicio ogni sera da sei decenni. Ormai l’acquavite gli fa effetto di acqua fresca e, per sentire qualcosa, deve ingollare quella a novanta gradi; il suo corpo è così impregnato di alcol che non solo egli lo trasuda, ma dalla sua bocca si esalano vapori alcolici ad ogni parola. Nonostante la presentazione, il lettore non può immaginare la fine del personaggio, che, analiticamente raccontata, costituisce la scena più sfacciata di tutto il ciclo. Antoine muore per autocombustione. Un giorno in cui il vecchio si è addormentato ubriaco con la pipa accesa sulla gamba, l’alcol di cui è imbibito sprigiona una fiammella che si estende velocemente, alimentata dallo stesso grasso del corpaccio. Di Antoine Macquart rimangono un mucchio di cenere e uno strato di fuliggine unta dispersa nella stanza. La lettura del Docteur Pascal dà la singolare sensazione di vedere in scena personaggi presentati proprio come tali, non come finzione artistica di persone reali. Nei loro rapporti, con l’esclusione di Pascal e Clotilde che sono specificatamente costruiti per quest’opera, non c’è niente di realistico; pare quasi un gioco fantastico dell’Autore l’aver fatto uscire queste figure dai precedenti romanzi per mostrare quali effetti abbia comportato su di loro il passare del tempo. Non si tratta però di un gioco gratuito: questo è uno degli aspetti per i quali Le docteur Pascal si pone come “romanzo-saggio” sui Rougon-Macquart. Il risultato non è affatto cerebrale, anzi è piacevole e schiude pagine di grande efficacia: come quelle, memorabili, della capostipite e dell’estremo pronipote l’una davanti all’altro.

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Ritrovarla in vita è per il lettore una sorpresa che fa pensare a quelle analoghe di certi sogni, in cui si scopre di poter ancora vedere una persona che si riteneva morta: benché quasi dimenticata a tanta distanza da La fortune des Rougon, Adélaïde Fouque c’è ancora. Segregata da più di un ventennio nel manicomio delle Tulettes, la Tante Dide ha centocinque anni e passa le giornate immobile e afasica sulla poltrona della sua stanza. Ogni tanto le portano Charles, perché la centenaria che vegeta e il piccolo scemo poco meno passivo di lei danno l’impressione di star bene insieme; così si può notare la loro inquietante somiglianza fisica. Finché una volta, lasciato imprudentemente da solo con l’antenata, Charles perde davanti a lei il poco sangue guasto che gli scorre nelle vene. Adélaïde allora ricorda – e il sussulto le è esiziale – la morte di Silvère, che nel tempo della finzione narrativa dista quasi esattamente il numero di anni che sono passati dalla pubblicazione del romanzo, il primo del ciclo, in cui è raccontata. La parte propriamente romanzesca del Docteur Pascal è data, purtroppo, dal rapporto incestuoso di Pascal e Clotilde. Il dottore attraversa un periodo di crisi al quale non sono estranei i suoi stessi studi: ha sempre ritenuto di essere un caso di innatismo, ma chi gli garantisce che in vecchiaia non si manifesti in lui la pazzia ereditaria? Tra le altre dimostrazioni di incipiente senilità, egli fantastica su un amore e, già che è in argomento, se lo figura molto giovane, non tardando a identificarlo con Clotilde. Va a finire che la stessa Clotilde gli rivela il proprio amore e contestualmente gli si offre. E così Pascal guarisce da tutti i suoi affanni esistenziali. In compenso però comincia un certo malessere nel lettore, che non dimentica, al di là della differenza d’età fra i due, come la nipote sia cresciuta presso quello che d’un tratto si trasforma nel suo amante. All’urtante incesto va in realtà applicata una lettura simbolica, i cui riferimenti sono leggibili negli stessi dialoghi dei personaggi: con questo amore Clotilde, incline allo spiritualismo e seriamente minacciata dalle lusinghe del cattolicesimo, si salva grazie all’autentica fede, quella nella scienzaverità, come una luce che solo ora la giovane vede pur avendola avuta sempre accanto. Nel definire il contrasto tra fede e scienza, prendendovi pesantemente posizione, Zola in tal modo chiude il ciclo della stirpe Rougon-Macquart lasciando al tempo stesso un’apertu-

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ra verso il successivo ciclo dei Froment. Nella trama del Docteur Pascal però l’aspetto innaturale del rapporto prevale sul suo valore simbolico: le malelingue si fanno sentire e Clotilde è spedita a Parigi in casa di quel depravato frollo di Maxime, che le ha chiesto aiuto per cascare a pezzi meno velocemente. Da Parigi arriva a Pascal la notizia che, proprio come i due amanti desideravano, è stato concepito un figlio. Ma la lontananza della nipote-moglie è fatale al dottore, il quale, nonostante i risultati portentosi delle sue iniezioni d’acqua, si trova velocemente agli sgoccioli a causa del cuore malandato. Clotilde non farà in tempo a rivedere vivo l’amante, né riuscirà a salvare le carte delle sue ricerche: Félicité ne fa un gran rogo nel camino, esultante e invasata come una strega in un sabba. Resterà soltanto l’albero genealogico, che Pascal ha completato in extremis aggiungendo la futura nascita dell’enfant inconnu e la presente data della propria morte: è lo schema che Zola riproduce e ogni lettore da allora trova allegato al romanzo. L’appendice dell’ultimo capitolo proietta luce retrospettiva sull’intero ciclo. Qualche mese dopo la morte di Pascal, mentre in Plassans si inaugura solennemente l’ospizio intitolato ai Rougon, in cui Félicité ha investito tutte le sue risorse come per un monumento alla famiglia che ne tramandi il nome ai posteri, Clotilde alla Souleiade allatta il suo bambino. Un bambino che per il lettore resta senza nome: poiché solo nel futuro si saprà chi egli sia realmente, ogni fantasticheria sul suo conto adesso è lecita. È forse il redentore della stirpe – o dell’intera umanità, perché, come tutti i neonati, è garanzia di futuro e quindi di salvezza. Sia come deve essere; in ogni caso, la vita è la forza più grande e la fede nella vita – che non si distingue dalla ricerca del vero, insegna Pascal – vince ogni timore. Così la sorte dell’ereditarietà, dopo aver gravato plumbea su gran parte del ciclo, si dissolve nel pulviscolo d’oro della luminosa immagine in chiusura: una mamma con il bimbo al seno. È la continuazione della vita e insieme la sua vittoria; e «vita» è proprio l’ultima parola dei Rougon-Macquart.

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3 Le ragioni della grandezza

3.1 La realtà dell’arte Dario agonizza, avvelenato per tragico errore al posto dello zio cardinale. Benedetta si strugge per l’amato e per sé stessa: ha sprecato la propria splendida giovinezza volendo arrivare intatta alle nozze con Dario, in attesa che la Sacra Rota annullasse un precedente matrimonio disgraziato. Così, infine vinta e convinta, alla presenza di spettatori si denuda e avvinghia appassionatamente Dario sul suo letto di morte. A lui non resta che spirare in tale supremo istante, seguito subito dopo dalla stessa Benedetta, alla quale la troppa emozione fa scoppiare il cuore. Forse amore e morte non sono mai stati tanto strettamente connessi in letteratura – anzi, amore e rigor mortis: istantaneo, quest’ultimo. Neppure le palpebre possono essere abbassate; i due innamorati continuano a fissarsi con ineffabile intensità. Stretti l’uno all’altra, così esposti al cordoglio e sepolti, Dario e Benedetta costituiscono il proprio monumento funebre in un amplesso quasi postumo. Una pagina di temerarietà narrativa ai limiti della sfrontatezza, nella quale – sia concesso – il buon gusto può trovare plausibili motivi per protestare: quanti, non conoscendola, la attribuirebbero alla penna di Zola? Certo, si tratta dell’ultimo periodo della sua creazione, perché la scena fa clamorosa mostra di sé in Rome; ma la precisione scientifica e la freddezza naturalista apposte dagli schematismi critici alla figura del Maestro cadono anche davanti a una lunga serie di scene che rifulgono nei Rougon-Macquart: la serra di Saccard nel-

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la Curée, il concerto olfattivo dei formaggi nel Ventre de Paris, la flora del Paradou frequentato dall’abate Mouret, la decomposizione di Nanà, la corsa del treno che chiude La bête humaine e molte altre ancora. Non si dimentichi d’altro canto che l’intero ciclo prende le mosse da una inesistente Plassans, libera ricostruzione di Aix-enProvence, ossia da una traduzione fantastica del dato reale. L’arte di Zola, da Thérèse Raquin in poi, sarà sempre giocata su uno stretto e audace rapporto tra il rigore del realismo e le impennate della fantasia, coltivata come diritto irrinunciabile del genio creatore: affermazione che potrebbe valere anche per Balzac, Flaubert e ogni grande realista di altre letterature, ma che per Zola conduce a potenzialità estreme del narrare. La formazione di Zola è romantica come più non potrebbe. A Aix, ardente di sogni e di slanci verso il futuro, vive i sedici anni nel segno di Musset e i diciotto in quello di Hugo, del quale conosce solo l’opera in versi. Gli è ugualmente ignota la portentosa carica di novità di Baudelaire, che ha rifondato la poesia con Les fleurs du mal. Soltanto a Parigi comincia a conoscere qualcosa della letteratura contemporanea, grazie a un illuminato professore di liceo; poi, ventenne, trova il terzo nume tutelare dopo Musset e Hugo: Jules Michelet. Nelle sue lettere dei primi mesi del 1860 ricorrono infatti spesso riferimenti a L’amour e a La femme, pubblicati nei due anni precedenti. Nel giovane Zola è incominciato un netto contrasto interiore tra l’aspirazione all’ideale che ha improntato la sua adolescenza e prima giovinezza e la necessità della realtà. Questo nella stessa vita, in primo luogo: egli sente fortissima la contrapposizione tra due ambienti emblematici, la natura intorno a Aix, dove lasciar correre liberi i sogni di grandezza, e certi miseri quartieri di Parigi, in cui l’esistenza è un grigio stentare tra sconfitte quotidiane. Di conseguenza il contrasto si avverte in letteratura, che per uno scrittore è un’altra dimensione della vita. A questa lacerazione personale si aggiunga la volontà, viva già nell’Autore molto giovane, di una letteratura al passo con i progressi scientifici e sociali del tempo. Un passaggio fondamentale, senza il quale non si sarebbe avuto il Maestro, è costituito dal lavoro alla Librairie Hachette, con la scoperta e la conseguente piena padronanza della realtà del libro come oggetto di vendita: qualcosa di ben differente da una silloge di versi romantici composti a lume di

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candela da un bohémien in soffitta. Non per niente, proprio lavorando nell’ufficio della pubblicità di Hachette Zola si stacca per sempre dalla poesia. Nel 1864 i suoi orizzonti letterari si aprono su prospettive sterminate. Con le conferenze di Émile Deschanel in rue de la Paix, oltre a sentir parlare per la prima volta del Traité de l’hérédité naturelle di Lucas, scopre l’opera di Balzac; legge intanto con passione Stendhal e Flaubert e l’Histoire de la littérature anglaise di Hippolyte Taine, così importante per lui che nel 1891 la metterà insieme alle poesie di Musset e a Madame Bovary per indicare i tre libri che hanno esercitato la maggiore influenza sul suo animo. Di fatto, nel 1864 Zola aderisce al realismo, come attesta, in una lettera del 18 agosto all’amico Valabrègue, la teoria dello «schermo» (écran), ricavata dalla Physiologie des écrivains et des artistes di Deschanel pubblicata in quell’anno. La realtà esatta, afferma il nascente Maestro, non può essere raffigurata tale e quale nell’opera d’arte: questa ne offrirà una riproduzione vista attraverso lo schermo dell’autore e più o meno vicina al vero a seconda che tale schermo sia classico, romantico o realista; da Zola è scelto quest’ultimo, «così perfettamente trasparente che le immagini lo attraversano e si riproducono in tutta la loro realtà». Al di là di una certa semplificazione, spiegabile con la giovane età dell’Autore, le considerazioni della lettera non sono importanti solamente per la scelta di campo a favore del realismo. Zola aggiunge infatti che lo schermo da lui scelto ha tra le proprie caratteristiche anche quella di dissimulare la propria esistenza, mentre invece anch’esso filtra le immagini. Nella teoria dell’écran possono così essere ritrovate anche le premesse del realismo visionario che costituirà la grandezza dell’opera zoliana fin da Thérèse Raquin, la cui descrizione iniziale del passage del Pont Neuf, ben lontana da quella analitica che ne avrebbe dato Balzac, è sapientemente trasformata in modo da caricarla di allusioni e suggestioni. Dopo quelle del 1864, la successiva lettura fondamentale della formazione di Zola è datata al gennaio seguente, quando egli conosce fresca di stampa la Germinie Lacerteux dei fratelli Goncourt e la recensisce con un articolo calorosamente elogiativo. Il nostro confronto con le pagine dello stesso Zola fa spiccare i limiti di Germinie in quanto a riuscita artistica (se accostata a Gervaise dell’Assommoir,

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la figura della protagonista sembra un pallido abbozzo); ma, calcolando anche gli interventi critici posteriori e in particolare lo studio compreso nei Romanciers naturalistes, non si può sottovalutare l’apprezzamento di Zola per quest’opera. L’importanza di Germinie Lacerteux non consiste solo nell’aver indicato la strada da seguire: Zola ha in alta considerazione la novità e l’efficacia dello stile dei Goncourt. Non è d’altronde solo benevola condiscendenza se, fino alla conclusione dei Rougon-Macquart, Zola dimostra di considerare Edmond de Goncourt con la riconoscente e rispettosa stima dovuta a un maestro. Si noti che nella recensione a Germinie Lacerteux Zola afferma di apprezzare, in quanto letterato del proprio tempo, i «condimenti letterari molto piccanti», le «œuvres de décadence» (e siamo nel 1865!) caratterizzate da una «sensibilità morbosa». Non sarà allora di poco conto rilevare come il pieno riconoscimento della grandezza di Balzac sia posteriore alla scoperta dei Goncourt, o meglio alla scoperta delle potenzialità insite nella loro concezione di romanzo. Due anni dopo, infatti, in una lettera del 29 maggio 1867, Zola dichiara a Valabrègue che Balzac «domina tutto il secolo» e che gli altri autori, compreso Hugo, «spariscono davanti a lui»; e aggiunge che sta meditando un grande saggio sull’autore della Comédie humaine. Il fatto che quest’ultimo progetto non sia realizzato e sia anzi accantonato presto può essere facilmente interpretato: scoperto nella sua straordinaria statura, Balzac diviene subito per Zola non tanto un modello, quanto un termine di confronto e di competizione. Niente a che vedere con l’ultimo punto di riferimento, il più grande stilista tra i romanzieri francesi del secolo, conosciuto quando ormai stanno per nascere i Rougon-Macquart. Fino al 1869, Zola ha scritto ben poco su Flaubert, pur stimandolo, come attesta la dedica rispettosa con cui gli ha inviato una copia di Madeleine Férat. Nel novembre di quell’anno recensisce L’éducation sentimentale acceso di sincero e lungimirante entusiasmo: è uno dei pochi critici contemporanei che colgono la dimensione autentica del capolavoro. Si inizia da lì a poco una forte amicizia professionale tra un grande maestro e un giovane che si sta affermando e ormai per dimostrare il proprio valore ha bisogno, più che di discepolato, di tempo per lavorare e di un editore. La scoperta artistica della realtà è maturata anche attraverso una forma di apprendimento estranea alla letteratura: sulla formazione di

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Zola l’interesse per la pittura ha lasciato un segno profondo. Grazie alla frequentazione degli impressionisti Zola ha affinato il proprio occhio, già eccezionalmente dotato nel saper cogliere ogni minimo particolare – e nel contempo l’insieme – dell’ambiente osservato, raggiungendo così una potenza visiva paragonabile a quella, suprema, di Claude Monet. La sua ênquete sur le terrain deriverà in buona parte dal metodo di lavoro della pittura en plein air; applicati alla scrittura, i princìpi di questo metodo si abbinano alla scioltezza nel prendere appunti, acquisita con la pratica del giornalismo. La lezione della nuova pittura è evidente soprattutto nelle descrizioni del Ventre de Paris, costruite peraltro spesso per sinestesie, e nell’Œuvre, per la travolgente bellezza di tante pagine, in particolare quelle del cuore di Parigi contemplato dal Pont des Saints-Pères in ore del giorno e in condizioni climatiche differenti: una serie che costituisce un perfetto parallelo con quella della cattedrale di Rouen dipinta da Monet. Il sodalizio con gli artisti e la battaglia critica per la nuova pittura lasciano anche un’altra conseguenza: il nascente Maestro matura le proprie capacità di investire in vis polemica per sostenere lo schieramento di appartenenza e, replicando con calibrate prese di posizione, porre intanto in adeguato risalto la propria opera. Così nella seconda edizione di Thérèse Raquin (1868) dichiara di appartenere al gruppo di «scrittori naturalisti», reinventando il termine naturaliste o naturiste usato da Deschanel in relazione alla critique naturelle, ossia a quella che si attiene alla fisiologia, e intendendo il Naturalismo come «studio della realtà»; intanto, con lo stesso scalpore provocato, ha alimentato la buona riuscita del romanzo, come a maggior ragione avverrà poi per il successo dell’Assommoir e di Nana. Gli interventi ufficiali di Zola in fatto di poetica rischiano però di essere per noi singolarmente limitativi: ben altri orizzonti ci si aprono se consideriamo certe dichiarazioni serbate dall’epistolario. In una lettera del 5 aprile 1875 al pittore Édouard Béliard, il Maestro si dichiara votato interamente a una letteratura fatta di vigore e intensità, nella quale portare all’estremo qualità e difetti personali e far sentire la propria impronta creatrice «in ciascuna frase, al di fuori del giusto, del vero e del bello»; insomma, una «ipertrofia di individualità». Un incontentabile «desiderio dell’enorme e della totalità» è attestato anche dalla lettera del 4 settembre 1891 a Van Santen Kolff: nel sog-

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getto cui si attacca il Maestro vorrebbe «far entrare tutto il mondo». L’aspirazione all’universale suggerisce l’uso della forma concentrata del simbolo: non quello del simbolismo decadente, legato a discese nelle profondità della psiche umana, con conseguenti ripiegamenti su sé stessi che a Zola non piacevano affatto, bensì il simbolo oggettivamente leggibile, innalzato in costruzioni di efficacia plastica: la Banca Universale di Saccard o Nanà signora del lusso e dello spreco di Parigi sono anche raffigurazioni del Secondo Impero. Risulta illuminante un passo della lettera a Henry Céard datata 22 marzo 1885: «Credo ancora di mentire, per quanto mi riguarda, nel senso della verità», dichiara il Maestro, perché alla verità si può arrivare attraverso la sproporzione e l’ingigantimento voluti, che a loro volta permettono il balzo sublime: «l’ipertrofia del particolare vero, il salto fra le stelle sul trampolino dell’osservazione esatta. La verità sale d’un colpo d’ala fino al simbolo».

3.2 Gli inizi: Thérèse Raquin Non sciupato neppure da qualche scivolata nella padronanza della voce narrante e da uno sbandamento verso l’inverosimiglianza nell’ultima parte, Thérèse Raquin riluce quale prodezza che anche isolata avrebbe conservato in una nicchia di Ottocento il ricordo del suo autore. Nella prefazione – in cui certe prese di posizione eccessivamente vibranti suonano quasi ingenue – l’Autore si dichiara appartenente al gruppo degli scrittori naturalisti e presenta l’opera come l’equivalente di un lavoro chirurgico, ripartito in capitoli come in altrettanti studi fisiologici; Thérèse Raquin può dunque senz’altro essere definito il primo «romanzo sperimentale», ma ciò che più conta è constatare come il giovane Maestro parta da certi parametri desunti dalle scienze o pseudo-scienze contemporanee, prodighe di ispirazione soprattutto se deformate da una visione spinta all’estremo e attratta dall’abnorme. Il triangolo erotico-omicida di Thérèse Raquin è costruito infatti su una schematica classificazione dei temperamenti (molto distante dal gioco sfumato e aleatorio dell’ereditarietà nei futuri Rougon-Macquart) suggerita dalla lettura della Physiologie des

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écrivains et des artistes di Deschanel: linfatico il marito Camille; nervosa Thérèse, ossia dominata dai sensi e dalle pulsioni; sanguigno l’animalesco amante Laurent. Ma, al di là della presunta analisi scientifica su tali temperamenti, la compattezza dell’opera è data dalla scansione dei tre tempi lungo i quali Thérèse e Laurent si trasformano da amanti a omicidi a sposi minacciati dalla follia per l’assillante ricordo di Camille: scansione in cui si ammira una struttura prettamente letteraria, da tragedia antica. Asciutto e lucido, durissimo e cupo, Thérèse Raquin comunica al lettore un’impressionante sensazione di angoscia. Questa è ottenuta in primo luogo grazie all’ambientazione: più che ai raggelanti squarci sull’obitorio, pensiamo al passage del Pont Neuf in cui si apre la bottega delle Raquin, tetro e muffoso come una catacomba. In secondo luogo, è ottenuta con il sapiente tema degli incubi ricorrenti. Quello del ritorno del morto è il più vistoso, ma non il più efficace, se confrontato con certe ossessioni alla Poe: il gatto sul quale si polarizzano le paure che l’orribile segreto venga scoperto e il segno del morso lasciato da Camille, nell’ultima lotta, sul collo di Laurent. Più in generale, il clima d’angoscia è costruito con la stessa forza delle immagini: si constata con un brivido che il volto del cadavere di Camille viene inconsciamente riprodotto da Laurent in tutti i suoi tentativi di imbrattatele. Il rischio di un’impostazione eccessivamente “nera” è peraltro corretto dalla nota grottesca dei ricevimenti serali con gli imbecilli giocatori di domino. Eppure tutto ciò non spiega ancora il valore dell’opera. Questo – e beninteso si parla di un valore prettamente letterario – deriva dall’assenza della dimensione metafisica e morale. Thérèse e Laurent, come viene affermato a chiare lettere nella prefazione, sono esseri istintivi fatti di nervi e carne e niente altro, bestialmente privi di libero arbitrio, mossi come prima necessità dagli impulsi sessuali. Su quest’ultimi la crudezza del romanzo, appena velata, lascia allibiti. Patologicamente insoddisfatta nel matrimonio con il malato e – intelligenti pauca – molliccio Camille, Thérèse si rivela una bollente bomba erotica nella relazione adulterina con Laurent, bruto gonfio di sangue e ignaro dei più elementari princìpi morali. Laurent è anche solleticato dall’idea di una vita da michelaccio in casa Raquin, ma il movente fondamentale dei due per sopprimere Camille è la smania di coito libero. La reciproca dipendenza

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sessuale che si instaura motiva l’orrore: durante una gita sulla Senna, Laurent affoga Camille che lo credeva un amico e Thérèse lascia, atrocemente, che il marito invochi il suo aiuto. A questo punto l’Autore gioca la carta vincente: il complesso sistema nervoso di Thérèse e quello primordiale di Laurent – appena sviluppatosi nella sua carnaccia, forse per osmosi dall’amante – hanno una reazione chimica equivalente a quello che in esseri dotati di interiorità morale sarebbe il rimorso. Sposandosi con la convinzione di acquietare i propri tormenti nel piacere, i due non potranno far altro che sommarli, frustrati ora perfino nella sessualità a causa della reciproca ripugnanza data dal contatto fisico, con l’unico sfogo di rinfacciarsi la colpa a vicenda. Si profila così l’orrendo inferno domestico di urla, accuse e percosse che, debordando fino allo sprezzo per il senso della misura, il Maestro delinea nei capitoli conclusivi. Se un fiducioso o ingenuo lettore avesse ancora qualche illusione sulla dichiarata freddezza chirurgica del romanzo, lo disingannerebbe in questi capitoli la figura tragica della vecchia Raquin, bloccata da paralisi e afasia, ma del tutto lucida e conscia di vivere con gli assassini di suo figlio: immota nemesi che nell’immagine finale si gode lo spettacolo dei cadaveri di Thérèse e Laurent suicidi. L’ispirazione scientifica desta dunque il grande scrittore, che fino ad allora aveva stentato nel trovare la propria strada. Il primo romanzo, La confession de Claude, è imperniato sullo stesso tema dei Contes à Ninon: lo scontro fra il sogno e la realtà, qui però visto in forma drammatica. Nella prefazione Zola presenta l’opera come mera raccolta delle lettere spedite agli amici provenzali dal giovane poeta Claude, trasferitosi nella capitale; lettere pubblicate in nome della verità e per l’esemplare ammaestramento in esse contenuto, in quanto testimonianza di una caduta e del conseguente riscatto. L’intento moraleggiante soffoca quello che avrebbe potuto davvero essere resoconto di autentica bohème, genuino racconto della lotta per la sopravvivenza nelle squallide soffitte in cui si stenta per il freddo e la fame. In effetti, il tentativo dell’idealista Claude di redimere Laurence, la prostituta divenuta sua amante, è fallimentare – la ragazza arriva a tradirlo con un suo amico – perché Laurence non può essere sradicata dal proprio ambiente né ripulita interiormente. Ma il giovane Autore sottolinea forse eccessivamente come, per questa chime-

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ra di romantica redenzione, Claude rischi di trovarsi contaminato per sempre e debba perciò lasciare Parigi per recuperare una vita pura. Chi, frugando nelle sue opere giovanili, vuole rintracciare i temi futuri di un sommo autore può agevolmente rimarcare l’influenza del milieu sulla sgualdrinella irredenta: osservazione interessante anche per gli zolisti, i quali però guarderanno più che altro con tenerezza al primo tentativo romanzesco del Maestro che arriverà a scrivere L’Assommoir e Germinal. Il secondo romanzo, Le vœu d’une morte, è intenzionalmente commerciale. Basterà qualche accenno alla trama. Il giovanissimo Daniel è stato incaricato dalla sua benefattrice in punto di morte di occuparsi della figlia Jeanne ancora bambina. La santa missione sarà resa più ardua dal fatto che, ritrovandola in età post-scolare, Daniel se ne innamorerà segretamente. Quando la frivola Jeanne, sposa infelice, sta per cedere a un amante, lui le invia lettere appassionate di robusto potere edificante. Jeanne le crede provenire da un fraterno amico di Daniel e, una volta vedova, confida a Daniel di amare quell’uomo che sa scrivere parole tanto belle. Il Cyrano avantilettera si fa da parte: prego, si sposino; lui ha mantenuto la promessa fatta e può morire in pace. È stato scritto principalmente a scopi alimentari anche il successivo Les mystères de Marseille, buttato giù mentre, con maggiore impegno, l’Autore lavorava a Thérèse Raquin. Gli schemi qui adottati sono quelli tipici del feuilleton, come evidente già nel titolo, con il quale il romanzo si inserisce nella scia dei tanti «misteri» che nella letteratura francese e poi anche in quella italiana, seguendo il modello di Eugène Sue e di Paul Féval, dopo le capostipiti Parigi e Londra sono stati ambientati in posti via via più improbabili. Non va presa sul serio la presentazione, secondo la quale si tratterebbe di un’opera dove tutto è vero e comprovato: essa si conforma a un certo tipo di scelta letteraria, in accordo con il giornale che avrebbe pubblicato il romanzo. Zola ha comunque prestato attenzione anche a costruire questo lavoro minore, calcolato appositamente per un successo “locale” a Marsiglia o, in altri termini, per lettori avvezzi alla grana grossa. La trama infatti è terribile, con l’impudente repubblicano che va a rapire proprio la nipote di un cattivone deputato del Regno e con l’eccellente fratello del protagonista che dedica la vita ad aiutarlo; finché non arriva, dopo il Quarantotto, un’epide-

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mia di colera che fa giustizia come una peste manzoniana in scala ridotta. Ma, così costruiti, questi Mystères furono piuttosto apprezzati e in seguito il Maestro, affermatosi con ben altri titoli, non riuscì a farli dimenticare come a quel punto avrebbe preferito. Pensò allora di dare un senso all’opera ripubblicandola con una prefazione in cui egli stesso ne dichiarava i limiti: conoscere quella narrazione di qualità così modesta avrebbe lasciato intuire al lettore la quantità di lavoro necessaria per arrivare ai Rougon-Macquart. È vero che a Zola è stato necessario tanto lavoro per diventare Zola. Ma già prima dei Rougon-Macquart, con Thérèse Raquin, il Maestro è consapevole di aver trovato la strada giusta: tant’è vero che nel successivo Madeleine Férat adotta lo stesso espediente, partendo ancora da una base scientifica. L’amour di Jules Michelet (1858) gli ha fatto conoscere la teoria dell’imprégnation, secondo la quale la donna rimane profondamente segnata dal primo uomo con cui ha avuto rapporti sessuali: può dipendere psico-fisicamente da lui e può mettere al mondo figli, pur concepiti con un altro padre, ancora somiglianti all’antico amante. È discutibile quanto Zola si fidi di questa teoria, che all’epoca gode di un certo credito, o quanto sia al proposito scettico se non consapevole della sua ridicolezza. Ciò che conta è che l’Autore vede in essa un buono spunto narrativo per dare veste letteraria organica al racconto del destino della protagonista (la dipendenza erotica di una giovane dal primo amante rimarrà d’altronde un tema forte di alcuni suoi intrecci sentimentali). Facciamo la controprova sulla trama. Madeleine, dal passato infelice e burrascoso, amante del debole Guillaume, scopre che questi, guarda cosa combina la sorte, è il grande amico del forte e virile Jacques, il suo primo amante. Lei non gli dice niente, tanto Jacques è morto in un naufragio. Guillaume, divenuto benestante grazie a un’eredità, sposa poi Madeleine e dal loro matrimonio nasce una bimba. Ma Jacques si è salvato da quel naufragio; Guillaume, tutto contento, lo porta in casa. Madeleine deve confessare al marito il proprio passato. Guillaume allora nota la somiglianza tra sua figlia e Jacques; si tormenterà sempre più, anche a causa della fanatica domestica Geneviève che minaccia anatemi divini. Madeleine, irresistibilmente attratta da Jacques, alla faccia del libero arbitrio gli si concede; la bambina subito dopo muore. Madeleine infine si avvelena davanti a Guillaume e lui,

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impazzito, danza sul suo cadavere, per la soddisfazione di Geneviève che vede nella scena il segno della giustizia divina. È facile constatare come, senza la teoria dell’imprégnation, la vicenda non sarebbe stata altro che un fosco melodramma. Thérèse e Madeleine sono casi patologici, che risaltano sul loro contesto come su uno sfondo, mentre le patologie dei Rougon-Macquart saranno sapientemente stemperate nella realtà quotidiana. Le coordinate sulle quali muoversi sono però all’epoca di Madeleine Férat già sufficientemente chiare all’Autore: determinismo in primo luogo, inteso come influenza dell’ambiente, dell’educazione e delle esperienze basilari della vita; manca solo di individuare la via che l’ereditarietà spiana all’ispirazione. Si tratta di scartare il sentimento romantico come oggetto della narrazione (non come ricchezza interiore: Zola avrà sempre un cuore profondamente romantico) e di concepire il personaggio quale individuo biologico analizzabile dalla scienza, nella consapevolezza che ciò non significa congelare l’arte, bensì al contrario aprirle vie di formidabile novità. Le prove dello scrittore sono concluse; ora prende la penna il genio.

3.3 La costruzione dei Rougon-Macquart Grazie a uno di quegli incantevoli miracoli che testimoniano la vitalità e la concretezza della letteratura, è giunto fino a noi un appunto annotato nell’autunno del 1868 dal giovane autore di Thérèse Raquin, che definisce la presenza di «quattro mondi»: quello del popolo, dagli operai ai soldati; quello dei commercianti, che comprende anche gli speculatori delle recenti demolizioni parigine e gli industriali; quello dei borghesi, inclusi i parvenus e i loro figli; il gran mondo, nel quale alla sottintesa aristocrazia si accostano alti funzionari e uomini politici. Inoltre c’è un «mondo a parte», dove Zola raccoglie – in significativo allineamento – puttane, assassini, preti e artisti. A tale classificazione segue una lista di dieci soggetti, per un numero non precisato di romanzi in cui tutti questi mondi possono essere rappresentati: i preti (è curioso, questo soggetto viene indicato per primo; ma bisogna pensare al futuro abate Faujas, non a Serge Mouret); la vita militare; gli

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artisti; le grandi demolizioni di Parigi; un soggetto giudiziario, uno operaio, uno sul gran mondo; le donne d’intrigo nel commercio; la famiglia di un parvenu; più il romanzo iniziale della serie. Detto francamente, la suddivisione nei quattro mondi più uno non può essere definita perspicua. Ma le poche parole buttate giù sul foglietto fissano velocemente un’intuizione e la fase embrionale di un progetto, poi maturato come testimoniano le preparatorie Notes générales sur la marche de l’œuvre e sur la nature de l’œuvre, databili tra la fine del 1868 e l’inizio del 1869. Perché l’immenso ciclo dei Rougon-Macquart prendesse consistenza fu però necessario arrivare alla caduta di Napoleone III: la chiusura del Secondo Impero permise di definire i limiti cronologici della rappresentazione, il ventennio tra il colpo di Stato del presidente Bonaparte e la catastrofe della Comune (in una lettera del 4 luglio 1871, Zola scriveva a Cézanne: «Parigi rinasce. Come ti ho spesso ripetuto, è il nostro regno che arriva»). Il termine del Secondo Impero in realtà in alcuni romanzi viene scavalcato, così come all’interno dell’arco temporale scelto sono riflessi a volte avvenimenti posteriori. Una clamorosa e ripetuta svista incuriosisce in Une page d’amour, dove nel panorama della Parigi del 1853 si stagliano già l’Opéra e la chiesa di SaintAugustin, retrodatati così rispetto alla storia; segnalatogli l’errore, con raffinata ironia il Maestro rispose trattarsi di un anacronismo voluto, necessario per bilanciare le descrizioni. Stridono di più le incongruenze nella cronologia della vita di Nanà: dal romanzo a lei dedicato si desume che la sua data di nascita deve essere anticipata rispetto a quanto racconta L’Assommoir. Lo stesso Maestro dichiarò che in tre o quattro anni Nanà fa quanto avrebbe dovuto fare in dieci, ma che lo scopo del suo creatore era stato quello di non superare la fine dell’epoca di Napoleone III. In effetti, la necessità simbolica di far coincidere la morte di Nanà con l’annuncio della guerra contro la Prussia ha provocato una compressione di tutto il passato del personaggio: la logica dell’arte ha prevalso sulle richieste poco significative del realismo. Per dare il giusto peso anche a queste minuzie, che qualcuno osa persino chiamare difetti, è sufficiente considerare quanto sia alto il piano sul quale si pone il ciclo: partendo da questioni «di sangue e d’ambiente» e dall’intento di rappresentare la realtà sociale del Secondo Impero, esso di fatto costruisce o ricostruisce artistica-

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mente il mondo intero, secondo la concezione dantesca di Commedia tradotta in termini moderni e narrativi dalla Comédie humaine di Balzac. Altri modelli letterari hanno lasciato traccia del loro insegnamento, da Stendhal a Flaubert, anche i non eccelsi Goncourt con la Germinie Lacerteux; ma è indubbio che i Rougon-Macquart devono molto in primo luogo alla monumentale Comédie, o per meglio dire alla Comédie riscoperta alla luce della critica di Hippolyte Taine. La mediazione di quest’ultimo con i suoi Nouveaux essais de critique et d’histoire (1865), benché Zola avvertisse certi limiti nel suo pensiero, fu così importante da imprimersi nello stesso titolo del ciclo, Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire: histoire naturelle, considerazione degli aspetti puramente “fisiologici”; sociale, in riferimento al milieu; famille, ecco la race; mentre il Second Empire costituisce il moment. Taine da solo non poteva però bastare per evitare il rischio di ripetere Balzac, nella cui opera già si trova una società tesa all’arrivismo, al potere e al denaro, come, con ingordigia sfrenata, quella del Secondo Impero nei RougonMacquart. La preoccupazione principale di Zola durante questa fase preparatoria del ciclo è proprio quella di non ripetere il modello della Comédie humaine. Gli appunti citati conservano anche le Différences entre Balzac et moi: uno scrupolo che non sarà mai dimenticato, dal momento che nei dossier preparatori dei singoli romanzi più volte il Maestro si annoterà di stare in guardia da ricordi di personaggi o situazioni che il lavoro intrapreso può evocargli. Le différences puntano su un ambito più concentrato di interesse, per quanto riguarda sia il quadro storico sia i legami familiari dei personaggi; ciò però non sarebbe ancora sufficiente per distanziarsi da Balzac – e competere così con lui –, se non ci fosse l’interesse scientifico: l’opera dovrà essere «moins sociale que scientifique». E qui il colpo d’ala del genio consente il grande volo. Non sappiamo se Zola avesse già letto in precedenza il Traité philosophique et physiologique de l’hérédité naturelle (1847-50) di Prosper Lucas; quasi certamente se lo studia nei mesi della grande svolta, tra l’autunno del 1868 e l’inizio del 1869, conoscendolo per lettura diretta e anche attraverso le interpretazioni degli alienisti relative agli aspetti patologici. Con le teorie dell’ereditarietà il Maestro trova il criterio

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unificatore per la compattezza del ciclo, nel rispetto dell’autonomia di ciascun romanzo, e quindi la sua originalità rispetto alla Comédie humaine; ma anche un’intatta fonte di libera ispirazione. Al contrario infatti di quanto i fraintendimenti sul suo conto vorrebbero far credere, Zola non adotta una concezione di ereditarietà rigida e deterministica, bensì elabora l’albero genealogico dei Rougon-Macquart come gioco tra le possibili combinazioni (compresa la variante imprevedibile dell’innatismo). I criteri scientifici o pseudo-scientifici dell’ereditarietà costituiscono per lui un campo vasto e magnificamente fertile per la creazione, come un tavolo di biliardo per un campione razionale e metodico, ma insieme consapevole dell’imponderabile e anzi affascinato proprio dal margine di alea nel movimento delle biglie. Lo scrittore, artista e non scienziato, ha nell’ereditarietà il filo d’Arianna per analizzare il gioco del caso in vicende di individui posti in un preciso contesto sociale e storico e per disciplinare così la propria ricostruzione artistica del mondo. Quanto poi il Maestro credesse realmente nelle teorie di Prosper Lucas, è questione irrilevante non solo per noi, ma anche per Zola. Lo dichiara lui stesso, inconsapevole di consegnare l’affermazione alla posterità, in una delle Notes générales sur la nature de l’œuvre. È indifferente, annota, che la base scientifica di partenza sia o non sia assolutamente vera: si tratta solo di un’ipotesi, ricavata da trattati medici; ma una volta che questa base è stata fissata, la si accetterà come assioma per «dedurne matematicamente» l’impianto dell’intero romanzo. La dichiarazione di intenti è talmente cristallina che basterà accostare ad essa un altro passo delle Notes preliminari per avere già un compendio di poetica zoliana. Ponendosi il problema di trovare una propria originalità nel nuovo filone naturalista, di cui sarà poi capo indiscusso, ma nel quale all’inizio sarebbe risultato discepolo dei Goncourt, Zola annota che l’analisi minuziosa dei particolari non è sufficiente; occorre puntare su una serrata costruzione dell’opera, compatta nella sua logica interna e interamente animata – ecco il punto – da un «soffio di passione». Altro che freddezza da scrittore-scienziato. Il souffle de passion, che animerà le migliaia di pagine dei Rougon-Macquart, fa innanzi tutto lievitare il numero di romanzi del ciclo. In un secondo piano dell’inizio del 1869 se ne stabiliscono dieci, corrispondenti agli argomenti fissati con l’appunto sui «mondi»; nel

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1872, anno in cui il numero passa a dodici, si aggiunge qualche altro soggetto, tra cui spiccano quello sui giornali del Secondo Impero (tema poi assorbito da Son Excellence Eugène Rougon e dalla futura opera sulla Borsa) e un romanzo di argomento scientifico; tra L’Assommoir e Nana, dopo un traballante e poco significativo diciotto, si raggiunge il numero di venti romanzi previsti, benché le idee non siano sempre chiarissime: come potrà presentarsi quello «che studia la vita politica del popolo»? Già nel 1878, come attesta la nota introduttiva a Une page d’amour, è stabilita a chiusura del ciclo l’opera in cui il dottor Pascal ricostruisce la storia della famiglia: «le roman final, conclusion scientifique de tout l’ouvrage». Nel 1882-83 sono ancora distinti il romanzo sulle ferrovie e quello sul crimine, poi genialmente fusi nella Bête humaine; un posto è lasciato vuoto per un’eventuale idea improvvisa – che non mancherà, venendo intitolata Le rêve. Nel piano del 1884, infine, dove figura il tema del futuro Argent, il Maestro si propone di dedicare la sua attenzione anche ai contadini, mentre ha abbandonato l’idea della guerra in Italia del 1859 per concentrarsi su quella del 1870 – ben più impegnativa in un romanzo, ma necessaria per chiudere il cerchio –, con il seguito della Comune. Soprattutto, al primo posto fra i temi da trattare compare nel 1884 quello degli scioperi: solo adesso, subito prima della sua pubblicazione, nei progetti del Maestro prende vita Germinal. L’ispirazione, che è tutt’uno con la passione, soffia in sovrana libertà.

3.4 L’albero genealogico L’ereditarietà, ovvero la riproduzione degli esseri all’insegna del simile, può manifestarsi sotto quattro forme: ereditarietà diretta, nel ripresentarsi della natura fisico-morale paterna o materna; indiretta, per la quale ritornano caratteristiche di parenti collaterali; ereditarietà di ritorno, che si riallaccia ad ascendenti a distanza di più generazioni; ed ereditarietà di influenza, in particolare quella legata all’«impregnazione» della donna ad opera del suo primo amante. L’ereditarietà diretta può basarsi sulla predominanza del padre o della madre, nel fenomeno detto élection, o può manifestarsi in vari sottotipi di

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mélange delle caratteristiche di entrambi i genitori. Esiste anche la riproduzione degli esseri sotto il segno del dissimile: si parla allora di innatismo. Anch’esso in realtà è possibile solo per combinazione chimica, perché, se l’individuo non presenta niente di simile alle generazioni che lo precedono, ciò è dovuto al fatto che gli elementi ereditari si sono mescolati fino a confondersi. Tali pilastri del sapere sono desunti dal Traité de l’hérédité naturelle di Prosper Lucas. Giunto al Docteur Pascal, Zola aggiornerà le proprie letture, cercando, per conto del suo personaggio, la regola-madre che sorregga tutta la casistica: da L’hérédité dans les maladies du système nerveux (1886) di Jules Déjerine ricaverà la teoria del plasma germinativo, presentata nel 1885 dal biologo tedesco August Weismann, una sorta di approssimativa intuizione del codice genetico. Inoltre considererà le osservazioni del dottor Georges Pouchet, piuttosto critico nei confronti dell’impostazione di Zola da un punto di vista strettamente scientifico, ma estimatore della sua opera tanto schietto da preparargli un grafico riassuntivo, in cui ciascuno dei Rougon-Macquart è rappresentato da un cerchio diviso in settori di colore differente a seconda delle componenti ereditate. Gli approfondimenti perfezionano le conoscenze sull’albero genealogico dei Rougon-Macquart, che lo stesso personaggio del dottor Pascal, in contemporanea con l’Autore, completa nell’ultimo romanzo del ciclo. L’albero si estende su cinque generazioni, tra il 1768 (anno di nascita di Adélaïde Fouque) e il 1873 (morte di Adélaïde e di Charles Saccard) o 1874 (nascita del figlio di Pascal e Clotilde). Pierre, Antoine e Ursule, figli di Adélaïde, vengono al mondo tra il 1787 e il 1791; con essi hanno inizio rispettivamente il ramo legittimo dei Rougon, quello illegittimo dei Macquart e quello dei Mouret. Seguiamoli nello stesso ordine. I figli di Pierre Rougon e Félicité Puech nascono tra il 1811 e il 1820: Eugène non ha discendenti; Pascal ingraviderà sessantenne la nipote; da Aristide, che prende e tramanda il cognome di Saccard, nascono Maxime nel 1840, poi Clotilde, oltre al figlio naturale Victor; Sidonie nel 1851 partorisce e abbandona Angélique, di padre a noi ignoto; l’ultimogenita Marthe sposa il cugino François, unico continuatore della linea Mouret (in cui dunque si trasmette anche sangue Rougon). Antoine Macquart si sposa solo nel 1826 con

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Joséphine Gavaudan e i loro figli nascono tra il 1827 e il 1831: Lisa a Parigi sposa il salumiere Quenu e diventa madre di Pauline; Gervaise, grazie all’amante Auguste Lantier del quale i figli porteranno il cognome, è madre già a quattordici anni di Claude, a sedici di Jacques e a diciotto di Étienne, poi, sposata con Coupeau, mette al mondo forse nel 1852 Anna detta Nanà; l’ultimogenito di Antoine Macquart, Jean, sarà padre solo dopo i quarant’anni e al di là dei limiti del ciclo narrativo. Ursule Macquart, l’ultima figlia di Adélaïde, sposa il buon Mouret che la adora follemente per tutto il resto della vita, fino a uccidersi una volta rimasto vedovo; dal loro matrimonio nascono figli a grande distanza nel tempo: tra François e Hélène passano sette anni, tra Hélène e Silvère altri dieci. Hélène sarà la signora – presto vedova – Grandjean, madre di Jeanne; Silvère muore ammazzato nel 1851, durante i fatti dai quali ha inizio la fortuna dei Rougon. I Mouret continuano con François, sposo di Marthe Rougon; nel 1840 nasce Octave, elemento sano, poi arrivano Serge e Désirée, nei quali l’eredità della nevrosi, giunta a loro attraverso la madre, si manifesta rispettivamente nel misticismo morboso e nella deficienza mentale. Infine, certi ramoscelli dell’albero sono destinati a non poter svilupparsi: lo sventurato bambino di Claude Lantier e Christine, Jacques, muore idrocefalo a nove anni; Louis detto Louiset, il bambino che a Nanà è scappato di fare con chi sa chi, muore di vaiolo poco prima della madre; nel 1873 si spegne sedicenne – con l’intelligenza di un bimbo ritardato e gli istinti di un adulto depravato – Charles, l’esemplare di estrema degenerazione della schiatta che Maxime Saccard ancora ragazzo ha prodotto con una domestica sedotta. L’albero genealogico non costituisce uno schema concluso: da una parte, la scelta di farlo derivare interamente da Adélaïde non nega l’esistenza di radici precedenti, che analizzate spiegherebbero la stessa capostipite, in un processo a ritroso che non avrebbe fine; d’altra parte, i Rougon-Macquart non si estinguono nelle ultime ramificazioni a noi note. Nel Docteur Pascal si ha notizia dei due figli – un maschio e una femmina – avuti da Octave e Denise Mouret; si viene a sapere che Étienne Lantier, deportato in seguito ai fatti della Comune, vive in Nuova Caledonia e ha una figlia; mentre Jean Macquart, tornato in campagna dopo la guerra e la Comune, si è subito risposato e sta per diventare padre per la terza volta. Tutti i rami

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principali della famiglia dunque proseguiranno. Quello dei Rougon vedrà la sua continuazione nel bimbo (lasciato senza nome dalla finzione narrativa) dato alla luce nel 1874 da Clotilde, nipote e amante di Pascal: sul mistero del suo futuro, carico comunque di rasserenanti aspettative, ha termine il romanzo finale del ciclo. Se quindi all’albero viene attribuito anche un valore emblematico relativo alla continuità della vita, d’altro canto esso è perfetto nel dispiegare il ventaglio di tutte le possibili soluzioni combinatorie prospettate dal dottor Lucas. L’ereditarietà diretta può presentarsi con élection del padre, come in Gervaise, o della madre, come in Lisa, o sotto forma di mélange, come nel caso di Pierre Rougon. Un esempio di ereditarietà indiretta è offerto da Octave Mouret, che assomiglia allo zio Eugène Rougon. L’ereditarietà di ritorno, di importanza basilare tra le cinque generazioni della stirpe, è rappresentata da Marthe, Jeanne Grandjean (figlia di Hélène, nata Mouret) e Charles: la loro somiglianza all’isterica Adélaïde si manifesta saltando rispettivamente una, due e tre (tre!) generazioni. Ereditarietà di influenza, infine: Nanà, soprattutto durante l’infanzia, presenta una straordinaria somiglianza fisica con Lantier, primo amante della madre. Sono casi di innatismo Pascal Rougon e Jean Macquart: il primo a detta di sua madre stessa sembra non appartenere alla famiglia, anche se noi siamo insospettiti da certe tendenze maniacali nella sua passione per la scienza; il secondo è nella dinastia l’individuo più equilibrato in assoluto. Proprio ad essi è assegnata la continuazione della stirpe. Si noti: Pascal genera l’enfant inconnu con sua nipote, la quale sia fisicamente sia moralmente ha preso dal nonno materno e dunque non dovrebbe avere niente dei Rougon; Jean prolifica con una sana contadina, che il lettore non può conoscere, ma che parrebbe al di sopra di ogni sospetto. L’innatismo allora offre forse una possibilità di palingenesi familiare, riducendo – non azzerando, però, sia ben chiaro – i rischi connessi con la trasmissione ereditaria delle tare? Impossibile rispondere, non sapendo come rivelerà di essere l’enfant inconnu e quale indole dimostreranno di avere i nuovi Macquart nati da Jean (loro e i loro figli...). Notiamo piuttosto che il gioco del caso sull’ereditarietà esclude ogni meccanica ripartizione: non tanto il determinismo biologico, quanto l’attivismo di Pierre e l’inazione del fratellastro Antoine fanno sì che i Rougon arrivino in alto, alle posizioni del potere ufficiale, e i Mac-

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quart rimangano in posizione sociale bassa. L’eredità dell’isteria e dell’alcolismo pesa piuttosto su Gervaise Macquart e sulla generazione successiva, trasformandosi magari in genio artistico (Claude), ma con maggiore evidenza in saltuario impulso a uccidere, acceso dall’alcol (Étienne), o in estrema mania omicida (Jacques), o anche nell’assoluta mancanza di morale (Nanà). Qualche sprovveduto accenna talvolta a presunti raccordi deboli tra i romanzi dei Rougon-Macquart. La compattezza del ciclo è al contrario eccellente; si salvaguarda la possibilità di leggere le opere singolarmente, ma nel contempo, se considerato all’interno della serie, ciascun romanzo assume un significato più ampio; e Le docteur Pascal rinsalda e tira le fila del tutto. Tale compattezza narrativa è offerta in primo luogo (per quanto cioè il lettore coglie d’acchito, indipendentemente dall’impianto culturale e artistico di fondo) dalla presenza dell’albero genealogico. Su quest’ultimo si incardina anche una differenza fondamentale rispetto alla Comédie humaine: mentre Balzac ha pianificato il suo ciclo nel corso dell’opera, dopo aver pubblicato vari titoli, con una struttura elastica e smisuratamente vasta, destinata pertanto all’incompiutezza, Zola invece ha preannunciato una serie ben precisa, portata trionfalmente a compimento, che fin dall’inizio prospettava al lettore la propria continuità grazie appunto al legame familiare tra i personaggi. Allegando per la prima volta a Une page d’amour, nel 1878, una rappresentazione grafica della discendenza dei Rougon e dei Macquart, il Maestro nell’introduzione al romanzo indica due motivi per la scelta compiuta: sarebbe stato sollecitato da vari lettori, che chiedevano di essere facilitati nel collegare i personaggi passando da un romanzo all’altro a distanza di uno o più anni; ed egli stesso – continua – desiderava presentare ufficialmente ai lettori lo schema dei rapporti di parentela, ben preciso e fisso come era nella sua mente fin dal 1868, togliendo il dubbio che potesse venire costruito di volta in volta. L’albero, aggiunge Zola, è insieme fonte di ispirazione e richiamo alla disciplina. Quest’ultima affermazione è esatta quanto onesta; non è invece vero – né potrebbe essere così – che lo schema dell’albero sia rimasto immutato dalla nascita del ciclo in avanti, anche perché il numero dei romanzi previsti è intanto aumentato fino a raddoppiare. Alcuni interventi sono apportati già sul testo della Fortune des Rougon nella sua seconda

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edizione, quella del 1872, che è la prima dell’editore Charpentier: ad Antoine Macquart viene assegnata una figlia in più, Lisa, necessaria per Le ventre de Paris; Ursule Macquart si ritrova madre anche di Hélène; all’unico figlio di François e Marthe Mouret, Octave, ne vengono aggiunti due, Serge e Désirée. Già in Une page d’amour Zola ha annunciato che il grafico dell’albero sarebbe stato fornito ancora al lettore con l’ultimo romanzo; quando nel 1893 viene incluso nel Docteur Pascal, fingendolo riproduzione di quello al quale lo stesso Pascal stava lavorando, esso si è ampliato. Vi figura Angélique, nata accidentalmente a Sidonie Rougon e protagonista del non previsto Le rêve; è registrato il figlio naturale di Aristide Saccard scoperto nell’Argent, il ferino Victor; in extremis, Pascal ha annotato la futura nascita del proprio enfant inconnu. E, soprattutto, nell’albero completo è registrata l’aggiunta più acrobatica: quella di un secondogenito di Gervaise e Lantier, Jacques, nato tra Claude ed Étienne e lasciato a Plassans quando la coppia si è trasferita a Parigi con gli altri bambini. La necessità di un protagonista per La bête humaine non poteva a questo punto più trovare debito riscontro nel testo: La fortune des Rougon in edizione definitiva – non c’è niente da fare – attribuisce solo due figli alla protagonista dell’Assommoir. Gli studi sulla stirpe dei Rougon-Macquart sono dunque nella finzione narrativa portati a termine dal dottor Pascal. Questi in partenza è convinto che la storia della propria famiglia – storia costituita da grandi quadri sociali, intimi studi umani e pagine di fantasia protese verso l’alto come guglie di cattedrale – potrà nel futuro servire alla scienza per individuare sicure leggi sotto il segno del determinismo. In seguito però si rende conto di come, più si studia l’ereditarietà, meno si sia in grado di formularne princìpi incontrovertibili: quasi sistematicamente la realtà vivente smentisce le teorie, e non solo per l’influenza del contesto storico e sociale. L’ereditarietà affascina Pascal proprio perché resta «oscura, vasta e insondabile, come tutte le scienze ancora balbettanti», di fronte alle quali domina l’immaginazione. I poeti possono perciò in questo campo precedere gli scienziati stessi, come pionieri ai quali appartiene quella frontiera «tra la verità conquistata e definitiva e l’ignoto, da dove avanzerà la verità di domani». Quasi come, di lì ad alcuni anni, la psicanalisi, l’ereditarietà darà all’arte molto più che alla scienza: con essa, considera Pascal, si

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potrebbe dipingere un affresco immenso, scrivere una gigantesca commedia o tragedia umana. Qui la penna torna al Maestro, che su queste pagine appunto sta concludendo la creazione intuita dal dottor Pascal.

3.5 Le roman expérimental Architrave della costruzione teorica dei Rougon-Macquart, pubblicato contemporaneamente a Nana e quindi collocato al centro del ciclo stesso, il saggio intitolato Le roman expérimental definisce la posizione del Maestro sia nei riguardi della concezione del romanzo sia verso gli aspetti morali e sociali del ruolo dello scrittore. Com’è noto, Zola si basa sulla Introduction à l’étude de la médecine expérimentale di Claude Bernard, datata 1865: la riassume all’inizio del suo saggio e ad essa si rifà poi continuamente, anzi dichiara di limitarsi ad applicare alla letteratura il metodo sperimentale elaborato da Bernard. È meno noto il fatto che il Maestro abbia studiato l’Introduction solo nello stesso 1879 in cui il saggio è stato redatto, dunque dopo L’Assommoir, quando il suo concetto di narrativa naturalista – che risale addirittura a Thérèse Raquin – era da tempo giunto a maturazione. In realtà Le roman expérimental, oggi come ieri, è molto più citato che letto, e molto più frainteso che citato. Varrà la spesa evitare di basarsi sulle consuete due o tre frasi tra virgolette che, estrapolate dal contesto, sembrano affermare tutt’altro; con una lettura completa si constaterà che i rilievi in negativo mossi frequentemente al saggio hanno già risposta e confutazione all’interno del testo stesso di Zola. Lo scopo del metodo sperimentale consiste nell’individuare le relazioni che collegano un fenomeno alla sua causa, occupandosi del “come” e non del “perché” e basandosi sul determinismo, nesso identificato da Bernard. L’applicazione alla letteratura può dunque essere piuttosto semplice, ma il discorso di Zola ha qui solo la sua partenza: il romanziere, osservatore e sperimentatore, punta alla verità, senza la quale – possiamo integrare – il desiderio della scoperta e il metodo stesso non avrebbero senso. L’accusa mossa ai naturalisti di essere

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solo dei fotografi della realtà è da Zola, senza mezzi termini, giudicata sciocca. Dalla realtà infatti il naturalista parte; ma, al fine di analizzare la concatenazione di cause ed effetti, deve intervenire sulla presentazione dei fatti al lettore, e proprio in ciò consiste la componente di invenzione presente nell’opera. Anche nel prosieguo gli aspetti puramente artistici vengono tradotti in altri termini: lo stile ad esempio è fatto in primo luogo di logica e chiarezza. Nella lettura del Roman expérimental occorre anche tener presente che il Maestro, giunto alla metà dei Rougon-Macquart, sta teorizzando principalmente la propria opera. Il romanzo così concepito infatti vuole far luce sui meccanismi dei fenomeni umani letti in chiave rigorosamente fisiologica, in riferimento cioè all’ereditarietà e alle circostanze ambientali, con le quali l’individuo è in stretta e reciproca relazione; si tratta di un’evoluzione letteraria conseguente a quella scientifica, perché questo romanzo rifiuta l’astratta concezione dell’uomo dotato di dimensione metafisica e completa la fisiologia studiando l’uomo “naturale”, sottoposto a definite leggi chimiche e fisiche e alle influenze dell’ambiente. La figura dello scrittore-scienziato che questi agganci sembrano lasciar supporre si ridimensiona però davanti alle affermazioni successive: i romanzieri sono «moralisti sperimentali» che tendono a individuare i meccanismi di comportamento del singolo nel contesto sociale, in special modo – ecco l’inguaribile romantico – cercando di definirne le passioni, così da poter indicare come armonizzarle con la realtà circostante: qui risulta «l’utilità pratica e l’elevata moralità» dell’opera degli scrittori naturalisti. Se l’utilità può essere diretta conseguenza dell’impostazione scientifica, il riferimento alla moralità è molto meno prevedibile dal lettore; il quale scopre non trattarsi affatto di un’allusione incidentale, visto che l’Autore subito dopo innalza il tono dichiarando che gli scrittori sono i lavoratori più nobili, quelli che maggiormente possono contribuire al bene dell’umanità. Sulla definizione di artista Zola si discosta dallo stesso Bernard: artista non è chi in un’opera esprime un’idea o un sentimento personali, ma chi, analogamente allo scienziato, in partenza si pone davanti alla natura, così come questa è stata decifrata e continua a essere letta dalla scienza, mettendosi a lavorare a una nuova ipotesi da lui formulata. Davanti però all’ignoto, a certe zone oscure anche alla scienza, lo scrittore potrà cercare di precedere quest’ultima grazie

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alle proprie intuizioni, senza temere i possibili errori, libero anche di sbagliare; purché il sentimento personale, accettabile solo come primo impulso verso la creazione, sia dallo scrittore tenuto a bada con l’osservazione e l’esperimento. Il romanzo bocciato in anticipo da Zola è dunque quello dei solipsismi intimisti che non poco, dopo gli illustri prototipi del Decadentismo, ha afflitto il Novecento. Al di là di ciò, si può notare come l’ultima parte del Roman expérimental oscilli tra il principio di fedeltà alla scienza e quello di libertà della creazione; proprio in tale apparente ambiguità va trovato il senso più autentico di questo prezioso contributo tecnico. L’Introduction di Claude Bernard in verità non è che un utile aggancio per formulare una poetica ben calata nella realtà culturale del tempo, una salda teorizzazione di princìpi letterari che, così presentata, non abbia niente di accademico né di meramente artistico. Zola di fatto indica un metodo per il romanziere, ricalcato su quello scientifico in quanto da determinate premesse conduce a determinate conclusioni. Basti pensare alla soluzione della questione tecnica che maggiormente gli sta a cuore, la costruzione della trama: questa viene sottratta al gioco del caso per essere affidata al principio del determinismo, le cui potenzialità artistiche sono state scoperte dal Maestro già al tempo di Thérèse Raquin. Il saggio sul Roman expérimental segna dunque una linea di arrivo, dopo la quale il Maestro – dalla titanica sintesi di Germinal all’epica popolare della Débâcle e poi dalle indagini contemporanee delle Trois villes alle utopie a tesi degli Évangiles – saprà più volte rilanciare in altre direzioni.

3.6 Il ciclo dei Froment: le Trois villes La forza creatrice di Zola era talmente vigorosa che il Maestro costruiva la propria opera non per singoli romanzi, bensì per cicli. Non ancora giunto a termine dei Rougon-Macquart, egli inizia a progettare un «bilancio religioso, filosofico e sociale del secolo», giocato sul confronto tra la religione, vista come insieme di astrattezze oscurantiste e opprimenti, e le concrete questioni sociali del presente. Tale «bilancio» si articolerà nella trilogia delle Trois villes, intitolata a Lour-

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des, Roma e Parigi; personaggio unificante è il giovane Pierre Froment, il quale da prete in crisi passa a ripudiare la fede e poi a togliersi la tonaca e farsi artigiano, ossia attivo nella realtà moderna. Se quando impostava i Rougon-Macquart Zola si guardava dal ripetere Balzac, aprire un altro ciclo poteva ora comportare il rischio di ripetere sé stesso; rischio che invece le intenzioni legate alla nuova creazione escludono già in partenza. La stessa struttura è differente. I tre romanzi delle Trois villes sono difatti strettamente legati fra loro, così da richiedere una lettura in successione; insieme costituiscono la parabola della vita “esemplare” dell’abate Froment, lungo la quale si tirano le somme su una conclusione di secolo, con l’occhio già rivolto al seguente – immaginato ben diversamente da quel secolo catastrofico che il Novecento sarebbe stato. La trilogia dell’abate Froment costituisce però solo una prima serie all’interno di un ciclo più ampio. La chiusura con il passato segnata dalle Trois villes porta infatti come conseguenza una proiezione nel futuro, nella quale il Maestro lascia libero spazio al suo coraggioso ottimismo: la forma letteraria adottata nella successiva tetralogia degli Évangiles è pertanto quella dell’utopia sociale, in significativa concomitanza con gli anni di impegno concreto dell’intellettuale gettatosi nel groviglio dell’affaire Dreyfus. I Quatre Évangiles si saldano alle Trois villes perché, pur essendo del tutto autonomi fra loro, hanno come protagonisti i quattro figli di Pierre Froment. Un’altra famiglia, dunque, sorregge il secondo ciclo. Il che dimostra ancora, se vogliamo, un certo interesse per l’ereditarietà: Pierre è figlio di un illustre chimico, razionalista e ateo, e di una madre devota; rimane in un primo tempo influenzato da quest’ultima, consacrandosi a un Dio nel quale scoprirà di non credere quando prevarrà in lui la parte “sana”, quella paterna. I Rougon-Macquart però sono posti nella storia, all’interno della quale la creazione di fantasia si innalza in tutta la sua grandezza; i Froment sono tra il presente e il futuro, cerebrali monoliti di freddi romanzi a tesi. Il nuovo ciclo inoltre è legato da un altro fil rouge: la polemica contro la religione, già presente in precedenza in spazi appositi (La faute de l’abbé Mouret), ma adesso sviluppata in forma di battaglia continuata e sistematica. Nei romanzi dei Froment si assiste invero a un attacco frontale, già acre in partenza e poi ulteriormente inasprito, anticattolico nei primi due titoli e anticristiano

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nei successivi, contro una religione giudicata falsa e illusoria, anzi ingannevole, nemica del progresso e della scienza che soli possono risollevare gli infelici e sanare la società. Al proposito, chi fosse sensibile alla simbologia sacra dei numeri potrebbe notare come le tre Villes e i quattro Évangiles atei avrebbero sommato i loro significativi numeri in quello, altrettanto carico di valore, del sette; e come la morte improvvisa del Maestro, destinando l’ultimo degli Évangiles a rimanere solo un titolo o un progetto, abbia segnato il ciclo dei Froment con il numero sei, antitetico al divino. Ridimensioniamo: quando lo Zola antireligioso si fa particolarmente feroce, scivola su note ingenue che invitano qualunque lettore alla benevolenza; oppure indulge ai toni grotteschi di pagine gustosamente esagerate, e proprio allora tornano soffi ossigenanti dell’ispirazione di un tempo, grazie ai quali il lettore ritrova il Maestro migliore. Nel complesso, comunque, il risultato artistico di questo impegno – e qui risulta la principale differenza rispetto ai Rougon-Macquart – è desolante. Il ciclo dei Froment allinea volumoni grevi, in larga misura aridi, con tutti i limiti del romanzo a tesi: impostazione didascalica; dialoghi artificiali di dibattito teorico; presenza quasi sempre in scena del protagonista, portatore del pensiero e del giudizio dell’autore, con evidenti forzature nella necessità di renderlo erratico e tendente all’ubiquità. La valutazione però si risolleva se le Trois villes e gli Évangiles non vengono letti come romanzi, in inevitabile confronto con i capolavori precedenti, bensì come opere di carattere sociale, divulgative del pensiero di un intellettuale impegnato che adotta un tenue schema narrativo per costruire una riflessione sul presente e sul futuro, ben poco prefiggendosi di artistico già in partenza. Il giudizio va poi differenziato per i vari titoli. Il primo del ciclo, Lourdes, nonostante certi limiti avvertibili dove la calibrata struttura si fa troppo rigida, è ancora un grande romanzo. La capacità di orchestrare resta elevata, ammirevole quella di dipingere le folle in movimento nella cittadina dei miracoli; si colloca a livello altissimo la descrizione delle luci della processione notturna. Il fedele lettore zoliano ben riconosce la capacità di eccedere del Maestro, qui espressa in pagine umoristiche con le quali egli non lesina niente alla volontà di divertirsi: si assaporino l’arrivo caotico e isterico del treno dei pellegrini e, ancor più, la clamorosa pagina in cui il direttore del pellegrinaggio na-

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zionale fa immergere nella piscina, brodo immondo di morbi, il cadavere anonimo del poveretto morto in treno, invitando a pregare perché resusciti. Lourdes è una creazione di valore soprattutto perché Zola evita la condanna della credulità e anzi, stigmatizzandone piuttosto gli approfittatori, tratta con pietas il bisogno di soprannaturale della gente disgraziata, la straziante tenacia con cui gli infelici si aggrappano all’estrema speranza del miracolo. L’opera si appesantisce invece nell’insistita trattazione teorica della vicenda di Bernadette, emblema di sofferenza essa stessa, ma in fondo, conclude il Maestro, dramma di una povera minorata mentale; si rattrappisce nel preconcetto secondo il quale aver fede significherebbe abdicare alla ragione; si indurisce nel dover appoggiarsi tutta al meditabondo ciondolare dell’abate Pierre Froment. In profonda crisi, proprio nella speranza di ritrovare la fede il protagonista accompagna a Lourdes la giovane Marie, da lui amata prima della scelta sacerdotale, ora affetta da una misteriosa paralisi. Il guizzo astuto della penna del romanziere-polemista è di far avvenire il miracolo: Marie a Lourdes riprende a camminare, ricolma di salute, perché il suo male, come quello di tutti i “miracolati”, è di origine nervosa (psicosomatica, direbbero gli assertori del discutibile concetto); un male contemplato in realtà dalla scienza, anche se essa al momento non ha ancora individuato i rimedi. La splendida ragazza è invece convinta di aver ricevuto una grazia; e per questo non si sposerà, perché per guarire ha votato alla Vergine la propria verginità. Ecco i bei risultati di Lourdes, ammicca l’Autore, che alla fecondità pochi anni dopo dedicherà il primo degli Évangiles. La visita a Lourdes ha inferto un altro duro colpo al suo traballante desiderio di credere, presente ancora nonostante la fede vera se ne sia andata; Pierre Froment comunque resta prete e si butta in una temeraria impresa: scrive un libello inneggiante a un ritorno al cristianesimo delle origini, inteso come religione “sociale” di attività caritativa. L’opera rischia ovviamente di essere messa all’Indice e Pierre pensa bene di andare a difenderla davanti al papa in persona. Figurarsi: il lungo soggiorno nella Città Eterna, narrato in Rome, sarà il colpo di grazia per il prete. L’anticlericalismo del romanzo è truculento e quasi maniacale, eccessivo fino all’umorismo involontario; ma proprio gli squarci ameni salvano l’opera, riscattando le plumbee

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ossessioni. Il clero, arroccato in un’ottusa difesa del dogma, tesse trame nell’ombra; i cardinali, avulsi dalla realtà presente, mirano al seggio di Pietro come al tempo dei Borgia: appena si sparge la notizia che il papa sta poco bene, un porporato cerca di sbarazzarsi di un rivale con un classico cesto di fichi avvelenati. A capo della pazzesca associazione per delinquere è il più feroce nemico di ogni rinnovamento sociale: un Leone XIII atrocemente gretto, attaccato in modo morboso al potere, così avido da chiudersi nelle sue stanze per contare personalmente il denaro accumulato con l’obolo di San Pietro. Le pagine più esilaranti in assoluto sono poi quelle dedicate a una terribile Trastevere e ai nuovi quartieri: costruiti per speculare sulla recente capitale, questi palazzi sono invece rimasti disabitati e sono stati così invasi da torme di pezzenti che li hanno ridotti in condizioni tali da far rimpiangere la Corte dei Miracoli. Il disastro ha colpito in particolare il papa, che nel disgraziato affare si è bruciato un bel pacco di milioni. Tanto basti sulla Roma di Zola – purché però non si taccia che l’opera è ingentilita da un intenso paesaggio della Campagna Romana e dai morbidi panorami dell’Urbe contemplata dall’alto, adorni di sfumature quasi simboliste. Prima di decidersi a gettar via la tonaca, mettersi finalmente a lavorare e sposarsi, Pierre Froment resiste per qualche centinaio di ulteriori pagine volendo credere almeno nella carità, per lui unico aspetto positivo del cristianesimo: capirà come anche questa sia un’illusione, perché la necessità della carità è un male che la giustizia sociale deve eliminare; ma nel frattempo avrà continuato ad attraversare in lungo e in largo la capitale francese, così da cucire in Paris le vicende, già intrecciate con coincidenze talvolta risibili, di una quantità pletorica di personaggi. Zola qui sacrifica la propria grandezza nel tentativo di dar forma al livore anticristiano, che la finzione della storia scarica contro l’odiato simbolo del Sacré-Cœur di Montmartre in costruzione. D’altra parte, anche l’intento di denuncia sociale viene a costituire una china sdrucciolevole: la condanna dell’operato criminale degli anarchici arriva solo dopo molto spazio riservato, come loro attenuante, alle fantomatiche colpe della società. Proprio la condanna a morte di un anarchico omicida fa scattare la rabbia del fratello di Pierre, chimico e utopista: scoperto un esplosivo di potenza micidiale, che egli intendeva donare alla Francia perché

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questa potesse imporre la pace universale attraverso la propria superiorità bellica, il pericoloso idiota adesso progetta di far saltare in aria il Sacré-Cœur con qualche migliaio di pellegrini. Grazie all’ex-prete però ci ripensa: l’esplosivo sarà trasformato in propellente per motori... L’appassionato ancor più che il neofita si chiede sconcertato se questo sia lo stesso autore dell’Assommoir. Certo, per costruire Paris sono stati adottati stilemi della narrativa popolare, che risultano patetici ai lettori scaltriti d’oggidì; questa considerazione però non conforta più di tanto. Il fatto è che la plausibilità della trama sembra passare in second’ordine rispetto alla volontà di sostenere che la vera religione è la scienza, destinata a portare giustizia e felicità nel mondo. Che abbaglio, Maestro.

3.7 Il ciclo dei Froment: i Quatre Évangiles Le ambizioni su cui poggia il progetto dei Quatre Évangiles danno le vertigini. Nel dossier preparatorio si fissano i quattro pilastri di fecondità, lavoro, verità e giustizia come fondamento delle varie forme di consorzio civile: la famiglia, la città, la patria, l’umanità. Su tali pilastri si può dar vita, almeno letteraria, alla nuova società, dopo il bilancio consuntivo della precedente epoca nelle Trois villes. Il discorso adesso è tutto proiettato nel secolo a venire, l’ancora sconosciuto Ventesimo nel quale il Maestro garantisce realizzabile un ventaglio di meraviglie sociali, dalla famiglia prolifica e felice alla pace universale, per gli uomini che con la luce della ragione sapranno vincere le tenebre dell’oscurantismo. Tra le varie conquiste, anzi presupposto indispensabile per il concretizzarsi delle altre, è ovviamente il trionfo sull’aborrito cristianesimo: gli “evangelisti” Mathieu, Luc, Marc (e Jean nell’abbozzato Justice) sono annunciatori e protagonisti di una “buona novella” atea, messa in pratica grazie a risorse esclusivamente umane; dal padre ex-sacerdote non hanno ereditato le incertezze giovanili, ma solo la fede nell’uomo alla quale Pierre Froment si è convertito liberandosi dall’errore. Gli Évangiles sono dunque i libri dell’utopia, nei quali il Maestro, secondo la sua stessa dichiarazione di intenti, potrà concedersi di

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abbandonarsi «a tutto il lirismo e a tutta l’immaginazione» che sente in animo. Il pericolo di fumose bubbole filantropiche è però accuratamente evitato, perché tutto dev’essere «basato sulla scienza»: «il sogno che la scienza autorizza», annota il Maestro nell’abbozzo di un primo piano della serie. Gli approdi dell’invenzione narrativa sono invero a clamorosa distanza dalla base scientifica di partenza, al di là di un percorso compiuto dalla sola fantasia, cosicché la cronologia interna di queste narrazioni è calcolata appunto per attutire gli scompensi avvertibili in tale percorso. L’arco temporale dei romanzi è infatti molto ampio, estendendosi su decenni, ma è insieme svincolato da ogni riferimento; il tempo non ha niente di oggettivo e fluisce solo per l’attuazione dell’ideale, dando l’impressione di un continuo presente, anche per via dello slittamento in avanti di grandi questioni ben vive al tempo della pubblicazione dell’opera. Si potrebbe in effetti azzardare qualche data, calcolando a partire dalla nascita del primogenito di Pierre Froment, Mathieu, databile perché Paris è ambientato nella stessa epoca della sua stesura, e conoscendo l’età dei fratelli minori di Mathieu all’inizio del secondo e del terzo romanzo: si può così collocare la vicenda di Fécondité tra il 1925 e il 1988, quella di Travail tra la metà degli anni Venti e la metà degli Ottanta e quella di Vérité in un cinquantennio che dovrebbe partire dalla prima metà degli anni Trenta. Nell’arco di questi decenni la realtà circostante ai Froment sembra cristallizzata, senza mutamenti che non siano in funzione della vicenda stessa: nel finale di Fécondité i Froment si spostano ancora in carrozza e garantiscono l’incipiente futuro coloniale della Francia in Africa. Paradossalmente, questi romanzi dell’ottimismo trionfante sembrerebbero così negare un autentico progresso; di fatto però non esiste neppure un contesto intorno ai personaggi, che si muovono in una sorta di surreale spazio senza dimensioni, costruito appositamente per la teoria sostenuta – uno spazio poetico nelle intenzioni e freddino nei risultati. Fécondité esalta il bel vivere di Mathieu Froment e di sua moglie Marianne, infallibili nella loro precisione: ogni copula un figlio, fino a dodici. Mathieu riesce a mantenere l’abbondante prole grazie alla propria intraprendenza e alla fiducia nella terra, alla quale si dedica, lui operaio, facendosi contadino. Alla felicità feconda dei Froment si contrappone l’infelicità che prima o poi coglie tutti coloro che per

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vari motivi evitano di procreare: la coppia che vuole un solo erede (l’ha messo al mondo malaticcio e lo perde quando ormai è troppo tardi per averne un altro); i giovani sposi che, egoisti nel godersi le gioie del talamo, vogliono aspettare ad avere bambini (così, quando lo desidereranno, il figlio non arriverà più); il seduttore; la depravata che con la chirurgia sradica dal proprio corpo il rischio di gravidanze, e via elencando. Le schematiche vicende dei personaggi sono affiancate dalla trattazione parallela di altri casi paradigmatici dalle terribili conseguenze – l’orrore degli aborti e il disumano abbandono dei neonati – e sono arricchite da robuste discussioni su svariati argomenti, compresi i danni dell’allattamento delegato alle nutrici. Difatti il Maestro vuole occuparsi di ogni risvolto inerente alla necessità di vivere la procreazione secondo le leggi della natura. Quest’ultima, dal canto suo, se rispettata aiuterà gli uomini: la sua generosità sosterrà adeguatamente il loro moltiplicarsi. È qui il senso del finale, nel quale alla grande festa di famiglia del novantenne Mathieu, popolata da trecento discendenti, si presenta un bisnipote del ramo africano: i Froment hanno anche conquistato l’Africa, fondando una colonia sul Niger. Lì si svilupperà la futura Francia, lavorando la terra, proprio come Mathieu è stato “colono” in Francia abbandonando l’officina nella corrotta città e convertendosi alla campagna. All’inizio del successivo Travail l’ingegner Luc Froment è appena giunto in una cittadina industriale, Beauclair, dominata da certe acciaierie di capitalistica potenza, invitato da un amico proprietario di un altoforno in crisi, la Crêcherie. Colpito dalla miseria degli operai, dall’egoismo dei commercianti e dalla povertà delle campagne circostanti, Luc prende in mano la direzione della Crêcherie fondando un falansterio basato sull’associazione di lavoro, capitale e intelligenza. Contro di lui si alleano tutte le forze reazionarie, incluso il curato perché non poteva mancare un ecclesiastico nemico dell’umanità; ma Luc riesce infine a vincere e, assorbendo le acciaierie, associandosi le altre officine, coinvolgendo le campagne, la Crêcherie diverrà il centro di una città ideale di benessere e armonica convivenza. La critica ha agevolmente notato come Travail sia un rifacimento di Germinal: nell’utopistico futuro senza date dei Froment, accantonate come negative le ipotesi rivoluzionarie e come fallimentari le prove di forza dal basso, la generosa azione sociale di un ingegnere che si

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mette sul livello degli operai permette di ribaltare le fosche previsioni del capolavoro ambientato nel buio delle miniere. Il finale di Travail però non è tutto luminoso: risulta che in qualche altro grande Stato il benessere sociale sia stato raggiunto dopo uno scontro civile armato e un bagno di sangue. A Beauclair è giunta addirittura voce (i mezzi di comunicazione di questo ipotetico futuro lasciano un po’ a desiderare) che l’umanità tutta ha dovuto attraversare l’estrema prova di una guerra mondiale, divampata in Europa e combattuta con armi di devastante potenza; ma, aggiunge il Maestro anticipando un’utopia fallimentare, la stessa orrenda strage ha scongiurato per sempre il rischio di altre guerre, come una mostruosa catarsi che ha spalancato le porte all’età della scienza e della felicità. Tant’è. In Vérité i riferimenti all’affaire Dreyfus sono evidenti. Zola però non ha inteso scrivere un romanzo direttamente sulla vicenda: non sarebbe stato possibile, per via delle dimensioni stesse dell’affaire e a causa anche del coinvolgimento personale. L’ébauche dimostra come il terzo Évangile si fondi sull’importanza dell’istruzione primaria per un’educazione nazionale che sia garanzia della società futura. Il maestro elementare ha un compito di altissima importanza, quello di trasmettere i più autentici valori sociali e nazionali, che, ben radicati nelle generazioni future, permetteranno di salvare la Francia dallo sfacelo di un mondo fatto sprofondare dal cattolicesimo. Vérité è quindi costruito sulla contrapposizione tra la scuola sanamente laica, che può riscattare anche i derelitti della società, e quella cattolica, che invece è solo un mezzo per continuare a tenere il popolo nel buio dell’ignoranza superstiziosa. La vera istruzione dà la possibilità di usare in modo opportuno la ragione: proprio ciò che tanta gente non ha saputo fare negli anni dell’affaire (e a chi legge sembra quasi che la condanna di Dreyfus sia giunta dall’Inquisizione ecclesiastica). Il collegamento con la vicenda di Dreyfus risulta in effetti abbastanza saldo nella trama. Marc Froment sostituisce come istitutore di una cittadina di provincia l’amico Simon condannato al bagno penale a vita: facendo leva sui pregiudizi antisemiti, le forze cattoliche hanno voluto screditare l’istruzione laica indicando nell’ebreo Simon il colpevole di un orrendo crimine perpetrato su un bambino e ottenendone la condanna grazie a prove false. In anticipo su tempi che disgraziatamente sarebbero poi arrivati, Marc stacca il crocefis-

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so in classe, attirandosi così l’odio clericale; d’altro canto, perseverando in indagini private sull’orrore per cui è stato condannato il collega, scopre il vero colpevole. Soltanto chi non legge Zola poteva non individuarlo: il mostro è ovviamente un religioso della Scuole Cristiane, tale Gorgias, ben protetto dai confratelli. Grazie all’impegno di Marc, la verità viene lentamente alla luce: Simon è liberato e riabilitato, l’opinione pubblica passa dalla parte buona, fratel Gorgias in un trabocco di furioso fanatismo confessa pubblicamente la propria nefandezza inabissando sotto l’onta l’intera Chiesa. L’ottantenne Marc avrà finanche la soddisfazione di vedere la gente respingere subito una falsa accusa mossa al nipote di Simon, segno che la ragione non è più oscurata. La verità è che qui la denuncia è più aberrante che truce, troppo urlata su note raccapriccianti per risultare incisiva; gli attacchi del Maestro al cattolicesimo ormai assomigliano a una irragionevole mania. Il tema del quarto Évangile, Justice, sarebbe stato il trionfo della giustizia sociale destinata a prevalere sulle divisioni nazionali; forse Jean Froment sarebbe stato un militare – da confrontare con Jean Macquart? – a favore del disarmo e della fondazione di una repubblica universale, costruita dalla Francia. Chi sa... Chiudendo gli appunti sull’ultimo romanzo, quello non scritto, l’appassionato zolista comprende d’un tratto che i suoi cenni allo scarso valore letterario delle Trois villes e dei Quatre Évangiles sono dovuti all’immensa stima per l’Autore, stima che rende difficile accettare opere che non siano al supremo livello dei Rougon-Macquart. Ed ecco, dolcissimo e affettuoso, un senso malinconico di mancanza: il rammarico per ciò che poteva essere e non sarà mai, riporre sullo scaffale della libreria Justice a fianco degli altri titoli.

3.8 Il metodo della creazione: la genesi La prodigiosa ricchezza di produzione del Maestro è strettamente collegata, al di là dell’insondabile potenza del genio creatore, con il metodo di lavoro. Questo si basa in primo luogo sul dossier preparatorio, la cui struttura è nata con Le ventre de Paris e si è perfeziona-

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ta negli anni seguenti, fino alla compiutezza raggiunta con la costruzione di Nana. Diamo un’idea di questo impressionante lavoro preliminare, che ogni sedicente o cosiddetto scrittore dovrebbe conoscere. Per il dossier il Maestro usava gli stessi fogli di piccolo formato (circa tredici centimetri per diciotto) usati per la stesura del romanzo. Il numero di questi fogli per gli appunti aumenta negli anni, oltre ovviamente ad essere più corposo per specifiche necessità relative alla singola opera: 216 per L’Assommoir, 953 per Germinal, 875 per L’argent, ben 1244 per La débâcle e più di 2000 per Rome. Ogni titolo dei Rougon-Macquart, avendo nuova ambientazione e nuove caratteristiche, richiedeva di ricominciare da capo con la raccolta di materiale; riciclare la documentazione, sia pur parzialmente, era impensabile per uno scrittore che vedeva la partenza di un nuovo romanzo proprio nella ricerca – basandosi così non su ciò che l’esperienza già gli aveva fatto conoscere, ma su ciò che l’indagine l’avrebbe portato a scoprire. Bisogna considerare altresì che, se straordinaria è la raccolta di appunti, ancor più notevole è l’abilità di utilizzare poi gli appunti presi; anch’essa dovette essere affinata con il costante lavoro, come dimostra la presenza di qualche piccolo inciampo nel Ventre de Paris. Il dossier si articola in cinque parti distinte. La prima è l’abbozzo (ébauche), in forma di monologo, con uso della prima persona e con tutta la modestia dei grandi nel fissare i proponimenti sui temi da trattare: je voudrais, «vorrei», è un inizio ammirevole. Nell’ébauche si parte da un’idea generale con valore programmatico, scendendo poi a riferimenti più concreti, in modo tale da definire le linee generali del romanzo. Seguono le schede dei personaggi (fiches-personnages), con i dati relativi a età, mestiere, caratteristiche fisiche, morali e biologiche, queste ultime in stretta relazione con l’ereditarietà per i Rougon-Macquart. La terza parte è costituita dagli appunti presi sul posto (notes d’enquête), per le vie di Parigi o in trasferte apposite: nel dipartimento del Nord per Germinal, nella Beauce per La terre, a Lourdes e a Roma per gli omonimi romanzi-reportage, lungo il tragitto dello sventurato esercito del 1870 ripercorso per La débâcle. Nelle dichiarazioni di metodo rilasciate soprattutto in occasione di interviste (da considerare sempre con prudenza), in cui amava sottolineare la logica rigorosa della propria costruzione dell’opera

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narrativa, Zola presentava in particolare le notes d’enquête come precedenti all’ideazione della trama, che da esse sarebbe derivata. La raccolta di materiale del dossier invece non è sempre scandita in fasi distinte e procede più volte di pari passo con l’elaborazione della struttura di fantasia: ad esempio, studiando la rue de la Goutte-d’Or il Maestro individua dove collocare la lavanderia di Gervaise, che dunque aveva già in mente. Al di là di ogni altra considerazione, le notes dimostrano una stupefacente capacità di vedere, grazie anche alla conoscenza della pittura, e di rendere subito con la parola, come appreso dalla pratica del giornalismo che richiedeva massima velocità nell’appuntare. Non solo: il genio creatore era sorretto da una prodigiosa memoria visiva, tale da poter conservare almeno per alcune ore, prima di fissarli sulla carta, tutti i particolari osservati. Infatti, se l’Autore poteva tenere in mano matita e taccuino quando per Le ventre de Paris perlustrava le Halles o assisteva di notte all’arrivo dei carri degli ortolani, si è certo dovuto limitare a rapidissimi appunti istantanei, ampliati alla fine della giornata, nel percorrere le gallerie dei minatori centinaia di metri sottoterra, come ha fatto per Germinal, o mentre viaggiava su una locomotiva allo scopo di documentarsi sul lavoro dei macchinisti, come ha ritenuto necessario per scrivere La bête humaine. Per più versi insomma compulsare le notes d’enquête può essere per l’appassionato fonte di ammirazione, oltre che di scoperte. Tra gli appunti dell’Assommoir, ad esempio, figura il rigagnolo di scolo di una tintoria, quello che nel romanzo con valore emblematico cambierà colore in diverse fasi della vita di Gervaise: scoprire che il Maestro l’ha davvero visto è commovente. Restano altre due parti del dossier da considerare. La quarta è costituita dalla documentazione specifica (documents techniques). Qui vengono raccolte schede di lettura personale di opere storiche, scientifiche, tecniche, inclusi i glossari di argot per L’Assommoir e, per Au Bonheur des Dames, i cataloghi dei grandi magazzini, setacciati nel lessico con la collaborazione della moglie; per Germinal Zola inserì una serie di articoli di giornale sugli scioperi in miniera, per La débâcle sunteggiò le relazioni dei generali e utilizzò il diario, ben più prodigo di suggerimenti, che un volontario della guerra del 1870 gli fece avere – colpo di fortuna dovuto alla celebrità – diffusasi la notizia che il Maestro stava raccogliendo materiale sull’argomento.

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Sempre tra i documents techniques vengono tesaurizzate le informazioni passate da esperti, direttamente intervistati o richiesti di mettere per iscritto conoscenze possedute grazie alla loro professione: due capireparto e una commessa per Au Bonheur des Dames, un pittore per L’œuvre, persone pratiche della Borsa e di banche per L’argent; tra gli altri esperti, fidandoci della notizia fornita da Paul Alexis aggiungiamo almeno lo spretato per ricostruire l’ambiente del seminario in La faute de l’abbé Mouret. La raccolta di informazioni più divertente fu senza dubbio quella sui retroscena dei ménage borghesi per la preparazione di Pot-bouille, consistente in pettegolezzi piccanti passati dagli scaltriti amici Alexis, Céard, Huysmans (ancora lontano dalla conversione) e Maupassant. In questa sezione possono comparire schizzi e piante dei luoghi, disegnati in occasione delle ricognizioni. Nell’ultima parte dei dossier seguono le “scalette”, che da Nana in poi sono tre: il plan général; il primo plan détaillé con inserimento della documentazione e con disposizione per capitoli; il secondo plan détaillé, una sorta di abbozzo di stesura del singolo capitolo che ci si accinge a iniziare. La ripartizione in capitoli e il loro eventuale accorpamento in varie parti sono attentamente curati. In una lettera del 1882 a Giuseppe Giacosa, il Maestro dichiara che le sue opere sono costruite come sinfonie musicali; in realtà prevale soprattutto l’aspetto della simmetria, già evidente nell’Assommoir, poi calcolata con precisione geometrica in Lourdes. A fronte di tanto ordine va però osservato come tra un plan e l’altro o tra il plan e il testo steso possano intercorrere profonde modifiche, anche su aspetti fondamentali, e come alcune parti del lavoro appaiano improvvisate seguendo l’estro e lasciando correre la penna. Il rigore di composizione dunque non è presupposto scientifico della scrittura, bensì risultato di un lavoro squisitamente artistico. Con le dichiarazioni per così dire ufficiali sui criteri di preparazione del romanzo è opportuno confrontare quanto in privato il Maestro confida a Huysmans nella lettera del 20 maggio 1884: più egli procede nel lavoro, più si convince che le opere in gestazione sfuggono del tutto alla volontà degli autori. Si può accostare a questa un’altra preziosa affermazione dell’epistolario. In una lettera del giugno 1890 Zola citando un detto di Flaubert afferma che, se prendere appunti è

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dovere di onestà intellettuale, di questi appunti bisogna poi anche sapere all’occorrenza non curarsi. Applicazione di tale principio è la clamorosa indifferenza nei confronti del verisimile alla quale dobbiamo l’eccelso finale della Bête humaine. Infatti, conversando con un funzionario delle ferrovie, Zola gli domandò che cosa sarebbe stato di un treno rimasto privo sia di macchinista sia di fuochista; l’ingegnere rispose che non sarebbe avvenuto niente di particolarmente grave, perché il treno in pochissimo tempo avrebbe via via rallentato fino a fermarsi. Avuta una risposta così rassicurante e così poco artistica, il Maestro mise da parte questo appunto per concepire in libertà una delle più grandiose immagini di tutta la sua opera.

3.9 Il metodo della creazione: stesura e correzioni Il confronto tra le dichiarazioni rilasciate dallo stesso Zola sul proprio metodo di lavoro e le confidenze rintracciabili nell’epistolario è davvero illuminante. Non che le seconde smentiscano le prime, ma le rettificano e le integrano, permettendo di sapere come funzionasse l’officina del Maestro. Nelle lettere, che in assenza di un diario hanno conservato il ritratto autentico dell’Autore, troviamo prove inequivocabili – e potrebbe essere diversamente, per un sommo scrittore? – di quanta fatica comportasse la scrittura, pur nella sua amata necessità, di come potesse perfino essere causa di tormento nel prendere forma. Zola al proposito non si perita di usare espressioni intense come «tour de force da lasciarci la pelle», per Germinal, o «spezzarsi le reni» riguardo al peso del lavoro che si è imposto, riferendosi non solo all’impresa di far nascere demiurgicamente il romanzo dalla massa di materiale raccolto, ma anche al travaglio tecnico e stilistico. Ammettiamo il dubbio: con queste confidenze epistolari il Maestro potrebbe anche posare nel senso opposto. Non per niente, le due espressioni citate provengono rispettivamente da una lettera del 1884 a un altro scrittore, Alphonse Daudet, e da una del 1881 all’intelligente giornalista olandese Jacques Van Santen Kolff, perseverante tanto nel divulgare l’opera di Zola quanto nel bersagliarlo di domande su di essa. È comunque indiscutibile che ansie e dubbi

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accompagnano il Maestro durante la stesura – stando ancora alle sue parole, per Germinal si tormentava fin sulle virgole – e oltre: una volta pubblicato il libro, egli evita di aprirlo temendo di riscontrarvi qualche menda; sarà per lui addirittura un sacrificio rileggere i propri romanzi di anni prima per tirare in modo coerente le fila della dinastia nel Docteur Pascal. Secondo la versione divulgata da Zola stesso, invece, il lavoro procedeva con tale metodica flemma da potersi addirittura calcolare in partenza la data di conclusione; la sicurezza garantita dal ritmo quotidiano – Nulla dies sine linea era il suo motto – e dall’insieme del lavoro preliminare, ossia dal dossier, sarebbe stata tale da permettergli di scrivere senza neppure dover correggere. Così il Maestro ha affermato in una nota e citata intervista rilasciata nel 1878 a Edmondo De Amicis: un ritmo quotidiano di produzione equivalente a tre pagine a stampa, su fogli privi di correzioni perché ogni frase era già stata elaborata alla perfezione prima di essere messa per iscritto, fogli subito aggiunti ai precedenti e non più rivisti fino alla stampa del testo. In effetti il Maestro ha il proprio punto di forza nella costanza quotidiana del lavoro (possibile a sua volta per le circostanze e i ritmi di vita dell’epoca). La scrittura occupa tre-quattro ore del mattino, al termine delle quali sono stati vergati, su una facciata sola, cinque fogli equivalenti a tre pagine di stampa secondo l’impostazione tipografica della sua casa editrice. È vero che essi portano poche correzioni; ma, usando i fogli di piccolo formato di cui si è detto per il dossier, in caso di ripensamenti il Maestro poteva ricominciare da capo, trascrivendo ed eliminando il foglio precedente, come provato da qualche scampolo di brutta copia che, infilatosi fra altri appunti, è stato conservato. I ritocchi e le modifiche vengono però apportati soprattutto in seguito. Assestati definitivamente i propri meccanismi editoriali all’inizio degli anni Ottanta, il Maestro usa da allora operare, dopo la stesura manoscritta, una sistemazione del testo a tre livelli: sulle bozze per la pubblicazione in feuilleton, quando ha per la prima volta il vantaggio di vedere il testo non manoscritto; nel passaggio dall’edizione in feuilleton, che l’Autore considera transitoria, all’edizione in volume, lavorando sulle stesse colonne del feuilleton ritagliate; sui due giri di bozze per l’edizione in volume. È quindi leggenda creata dallo stesso Autore l’assenza di correzioni. La scrittura

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comunque è preparata da un plan così robusto che non dovranno esserci ampi rifacimenti o spostamenti all’interno del romanzo: Zola, sicuro sotto questo profilo, può avviare la pubblicazione a puntate quando la stesura non è ancora ultimata. D’altro canto, a ben vedere il Maestro non ha mentito al giornalista De Amicis, ma forse si è limitato a tacere qualcosa: in effetti egli metteva quotidianamente da parte la sua quantità di fogli di scrittura pulita (non detto: pulita perché bella copia di una minuta eliminata), che non avrebbe rivisto fino alle operazioni di stampa (non detto: per “stampa” vanno intese le bozze, con le quali si inizia un analitico lavoro di revisione). L’edizione in volume di tutti i romanzi del Maestro, con l’eccezione della Confession de Claude, è stata preceduta da una pubblicazione a puntate in appendice a un giornale o su rivista. Essa, a differenza di quanto si potrebbe oggi pensare, non “bruciava” il romanzo, ma al contrario ne preparava il successo o, per i primi titoli, cercava di predisporre un’accoglienza favorevole da parte dei lettori, oltre a essere – non bisogna sottovalutare – fonte già di guadagno; inoltre, come si è appena visto, da una certa epoca in poi fu dall’Autore considerata fase intermedia nell’elaborazione dell’opera stessa. Se si accostano i tempi di raccolta di materiale e di stesura, le date della prima e dell’ultima puntata del feuilleton e quella della prima edizione dell’opera in libro, non scordando gli altri contemporanei lavori del Maestro, si ha l’ammirevole quadro di un’attività costante e instancabile. Limitiamoci a qualche considerazione relativa al ciclo dei Rougon-Macquart, escludendone i primi due titoli per le particolari vicende sia della stesura sia del feuilleton. L’appassionato e il fanatico dell’opera zoliana possono constatare che, per la massima parte dei titoli del ciclo, l’edizione in volume è posteriore alla fine del feuilleton da un minimo di un giorno a un massimo di due mesi (beninteso, si sta facendo riferimento alla data di edizione ufficialmente registrata). Dall’Assommoir in poi, l’opera è proposta in feuilleton quasi sempre prima della fine della stesura, con un anticipo che può essere notevole: la puntata iniziale dell’Assommoir appare circa sette mesi prima che il romanzo venga ultimato. Nel caso di Nana, la cui composizione si è prolungata in modo anomalo, la pubblicazione a puntate si conclude neanche un mese dopo che le ultime righe sono state messe per iscritto. Il tempo di stesura – non calcoliamo quello di

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raccolta del dossier – varia sensibilmente. Per la mancanza di dati precisi su alcuni titoli, è impossibile calcolare quale romanzo sia stato scritto più velocemente; è probabile che nessuno abbia richiesto meno di cinque mesi circa. La stesura più protratta è quella di Nana, che occupa complessivamente diciassette mesi, inclusi però larghissimi intervalli; la più lunga con un lavoro continuativo è quella della Terre, che ha richiesto quattordici mesi. Dopo di questa si collocano i lavori di un anno per L’Assommoir e di dieci mesi per Germinal, L’œuvre e La débâcle. Per Le rêve è stato necessario lo stesso tempo dell’Argent, sette mesi e mezzo, nonostante le dimensioni del romanzo di Angélique appaiano minime rispetto alla mole dell’altro e nonostante l’apparente esilità della trama.

3.10 Diffusione dell’opera La statura artistica dell’opera e la quantità di copie vendute, due aspetti spesso del tutto indipendenti fra loro, sono nel caso del Maestro strettamente correlate. Prima dell’Assommoir le vendite non sono strepitose: nel 1876 La curée è arrivato alla quinta edizione e Le ventre de Paris alla quarta, ma si devono intendere tirature da mille copie ciascuna. L’Assommoir invece vende trentottomila copie nel 1877 e quattro anni dopo, in seguito al rilancio avvenuto con Nana, tocca le centomila. Nana dal canto suo nel solo 1880 si diffonde tra ottantunmila acquirenti. Il più grande successo all’uscita è ottenuto da La débâcle: centosessantaquattromila copie nel 1892. L’ultimo trionfo è quello dei centoventimila Lourdes acquistati in un mese; poi le cifre, pur sempre ragguardevoli, non seguono più tale tenore. Le vendite di Rome sono già più basse rispetto a quelle di Lourdes; particolarmente delicata appare la posizione di Paris, che giunge in libreria pochi giorni dopo il processo a Zola. Benché entri in gioco anche l’inferiore valore letterario degli ultimi romanzi, risulta comunque evidente che la forte flessione nelle vendite – non solo per le nuove uscite, ma anche per i precedenti titoli – è dovuta alla battaglia per Dreyfus, pagata con il distacco o il boicottaggio da parte di tanti suoi lettori fino ad allora affezionati. Ad ogni modo, nell’anno della

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morte di Zola sono state vendute 1.775.000 copie dei Rougon-Macquart: i più letti sono La débâcle, circa duecentomila copie, e Nana, sulle centonovantamila; seguono L’Assommoir e La terre e, a un quinto posto da centomila, si piazzano alla pari Germinal e Le rêve. Aggiornate al presente, le vendite assommano a molti milioni di copie, ma un calcolo preciso è impossibile. Ai primi posti in Francia risultano Germinal e L’Assommoir – almeno per il primo, però, bisognerebbe ripulire il totale dalle copie acquistate per costrizione scolastica –, seguiti fino a pochi anni fa da Nana e La bête humaine e oggi invece da Au Bonheur des Dames. I dati sulle vendite consentono di fare due conti in tasca all’Autore. Gli inizi sono anche per il futuro Maestro stentati e mortificanti. Per la prima edizione dei Contes à Ninon egli non avrà niente, anzi si deve impegnare a pagare le spese di pubblicità; perché compaia in libreria Thérèse Raquin, deve concedere all’editore ben seicento copie escluse dai diritti d’autore. Nei primi anni dei Rougon-Macquart, con l’editore originario Lacroix e con il primo contratto di Charpentier le clausole sono complesse e fluttuanti e il pattuito non è sicuro. I guadagni decollano grazie al contratto del 1875, quando viene stabilita una buona percentuale sulle vendite: 40 centesimi a volume, su un prezzo di copertina di 3 franchi e 50. La percentuale salirà a 50 centesimi già nel 1877; resterà tale per le opere minori, mentre per i Rougon-Macquart e i romanzi seguenti aumenterà ancora a 60 centesimi, poi 75 dal 1892. Si calcoli che ciascun titolo è anticipato dal feuilleton, venduto, dopo il trionfo di Nana, per una cifra tra i venti e i cinquantamila franchi; e in vari casi è seguito a breve distanza dall’edizione illustrata popolare Marpon-Flammarion, a dispense, che assicura altri diritti d’autore. Il Maestro inoltre non deve dividere con l’editore i diritti di traduzione, se questa è concessa prima che il romanzo sia edito in volume; le traduzioni dopo L’Assommoir sono in effetti diffuse in tutto il mondo – Italia, Portogallo e Spagna, Impero Austro-Ungarico, Russia, Stati Uniti –, ma molto spesso non sono autorizzate e, pur dando notorietà immensa, non hanno riscontro economico. Altri introiti provengono dai diritti sulle riduzioni sceniche dei romanzi. Si può calcolare con affidabile approssimazione che subito dopo Germinal Zola guadagnasse ottanta-centomila franchi all’anno, raddoppiati al tempo di Lourdes e scesi a cinquanta-sessantamila

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nel 1898-99; con altro calcolo risulta che la serie dei Rougon-Macquart alla sua conclusione, escludendo quindi le vendite degli anni seguenti al 1893, abbia fruttato all’Autore un milione e mezzo di franchi. Per un raffronto, si consideri che nel 1878 la casa di campagna di Médan fu acquistata per novemila franchi. L’influenza dell’opera del Maestro sulle altre letterature, oltre che su quella francese, fu di eccezionale portata, tanto grande che una pur sommaria analisi travalicherebbe i confini di questo studio. Limitiamoci a ricordare che dalle discussioni milanesi sulla novità dell’Assommoir e ancor più dall’interesse per la sua inedita voce narrante popolare e collettiva Verga partì per I Malavoglia (1881); l’autore dell’interrotto ciclo dei Vinti non fu però mai uno zoliano, mentre Federico De Roberto con lo splendido I viceré (1894) ha saputo trarre frutto originale dall’opera del Maestro. In Portogallo il grande José Maria Eça de Queiroz, che poi conoscerà personalmente Zola e nel 1885 progetterà con lui una non realizzata «Biblioteca Internazionale del Naturalismo», è ancora di formazione balzachiana e flaubertiana (come dimostra O primo Basilio, 1878). Pare solo una combinazione se il suo capolavoro, O crime do padre Amaro (1875), coetaneo di La faute de l’abbé Mouret, ha un titolo simile a quest’ultimo: la vicenda narrata, pur incentrata sugli amori di un prete, è in realtà differente e il fulgido romanzo portoghese ha valore artistico autonomo. In Grecia, dove approdò con una tempestiva traduzione di Nana, il Naturalismo assunse massima importanza per i letterati sostenitori della dhimotikì, “vera” lingua popolare, contrapposta alla letteraria katharévousa di uso ristretto all’élite colta. Negli Stati Uniti la lezione del Naturalismo venne fatta propria dal giovane Stephen Crane, dotato di precoce e vigoroso talento. All’audace Maggie, a girl of the streets (1893) Crane fece seguire il virile The red badge of courage (1895), ambientato sui campi di battaglia della guerra civile americana, memore della Débâcle zoliana; sbalorditivo per la lucidità di analisi – l’autore non aveva nessuna esperienza personale di guerra –, il breve romanzo è fortemente anticipatore e innovativo nell’originale tecnica di scrittura, costituendo uno dei modelli sulla base dei quali Ernest Hemingway avrebbe costruito il proprio caratteristico stile.

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Appendice bibliografica

1. Edizioni di riferimento L’edizione basilare di riferimento diventerà presto o è già diventata Émile Zola, Œuvres complètes, sotto la direzione di Henri Mitterand, Paris, Nouveau Monde Éditions, 2002-2007 (edizione in corso alla chiusura di questa bibliografia), in 21 tomi: è la prima cronologica, con annessa ampia scelta delle lettere e degli articoli giornalistici. Per i Rougon-Macquart la più citata è l’edizione della «Pléiade» diretta da Armand Lanoux: Paris, Gallimard, 1960-1967, 5 volumi, poi costantemente aggiornata a cura di Henri Mitterand; ma si segnala anche l’edizione a cura di Colette Becker (con la collaborazione di Gina Gourdin-Servenière e Véronique Lavielle), Paris, Robert Laffont, 1991-1993 (20022), anch’essa in 5 volumi. Tutti i Rougon-Macquart e alcuni altri romanzi sono presenti nella collezione «Folio Classique» della Gallimard, con ottimi apparati critici e giusta quantità di note adeguate.

2. Dossier preparatori I manoscritti dei Rougon-Macquart sono conservati alla Bibliothèque Nationale de France (tranne quello di Nana, che è finito a New York); insieme ad essi si trovano i dossier preparatori. Di questi ultimi è in corso l’edizione, prevista in 10 volumi e intitolata La fabrique des Rougon-Macquart. Édition des dossiers préparatoires, a cura di Colette Becker, con la collaborazione di Véronique Lavielle, Paris, Honoré Champion; tra il 2003 e il 2006 sono stati pubblicati i primi tre imponenti volumi, fino a Pot-bouille. In precedenza Henri Mitterand ha curato una selezione ordinata degli appunti del Maestro, intitolandola Carnets d’enquêtes. Une ethnographie

166 inédite de la France (Paris, Plon, 1986); incredibilmente e lodevolmente il volume è stato tradotto in Italia: Taccuini. Un’etnografia inedita della Francia, Torino, Bollati Boringhieri, 1987.

3. Testi imprescindibili Con caratteri particolari andrebbero evidenziati i tre testi di fondamentale importanza per una conoscenza critica della vita e dell’opera del Maestro: la monumentale biografia completa, perfetta e definitiva e due raccolte di dati di impareggiabile ricchezza e utilità. Ad essi dobbiamo gran parte delle nostre conoscenze di fondo, anche se il presente studio – con esiti di cui siamo i soli responsabili – è stato costruito sulla base della lettura diretta dell’opera zoliana: Henri Mitterand, Zola, Paris, Fayard, 1999-2002, in 3 volumi: I. Sous le regard d’Olympia (1840-1871); II. L’homme de Germinal (1871-1893); III. L’honneur (1893-1902); Alain Pagès - Morgan Owen, Guide Émile Zola, Paris, Ellipses, 2002; Colette Becker - Gina Gourdin Servenière - Véronique Lavielle, Dictionnaire d’Émile Zola, Paris, Robert Laffont, 1993 (con un dizionarietto dei personaggi dei Rougon-Macquart che sarebbe stupendo se fosse sempre attendibile). Vogliamo aggiungere il catalogo, arricchito da importanti saggi, della meravigliosa mostra «Zola» tenuta alla Bibliothèque Nationale «François Mitterrand» di Parigi dal 18 ottobre 2002 al 19 gennaio 2003: Michèle Sacquin (a cura di), Zola, Paris, Bibliothèque Nationale de France / Fayard, 2002. Per una consultazione segnaliamo anche Étienne Brunet, Le vocabulaire de Zola, Genève-Paris, Slatkine-Champion, 1985, 3 volumi.

4. Sulla vita La biografia di Henri Mitterand di cui sopra ha reso superate le precedenti: Henri Troyat, Zola, Paris, Flammarion, 1992; Frederick Brown, Zola. A life, New York, Farrar-Straus-Giroux, 1995 (trad.: Zola. Une vie, Paris, Belfond, 1996); Philip Walker, Zola, London-Boston, Routledge & Kegan Paul, 1985. Una curiosità (non altro) che può essere ancora citata in quanto tale è la biografia “sceneggiata” di Armand Lanoux, Bonjour, monsieur Zola, Paris, Hachette, 1964.

167 Sono stati ristampati negli ultimi anni: Paul Alexis, Émile Zola. Notes d’un ami, Paris, Maisonneuve & Larose, 2001 (1a ed.: Paris, Charpentier, 1882), piacevolissima prima biografia del Maestro; Denise Le Blond-Zola, Émile Zola raconté par sa fille, Paris, Grasset, 2000 (1a ed.: Paris, Fasquelle, 1931); Alfred Bruneau, À l’ombre d’un grand cœur. Souvenirs d’une collaboration, Genève, Slatkine, 2002 (1a ed.: Paris, Fasquelle, 1931). Consente di ammirare molte fotografie scattate dal Maestro e di conoscere tutto sulla sua seconda arte François Émile-Zola - Massin, Zola photographe, Paris, Hoëbeke, 1990. Segnaliamo inoltre: Evelyne Bloch-Dano, Madame Zola, Paris, Grasset, 1997, per conoscere la figura di Alexandrine; Jean-Claude Le Blond-Zola, Zola à Médan, Société Littéraire des Amis d’Émile Zola, 1999; e Émile Zola, Lettres à Jeanne Rozerot (1892-1902), a cura di Brigitte Émile-Zola e Alain Pagès, Paris, Gallimard, 2004.

5. Bibliografia della critica In questa selezione segnaliamo solo studi in volume sull’opera complessiva, partendo dal 1990. Per gli anni precedenti e per tutti gli approfondimenti necessari rimandiamo a David Baguley, Bibliographie de la critique sur Émile Zola, 1864-1970, University of Toronto Press, 1976 e Bibliographie de la critique sur Émile Zola, 1971-1980, University of Toronto Press, 1982; ricordiamo che per gli anni successivi al 1980 possono essere consultati i «Cahiers Naturalistes» (v. sotto). Robert Lethbridge - Terry Keefe, Zola and the craft of fiction, Leicester University Press, 1990; Gian Carlo Menichelli (a cura di), Il terzo Zola: Émile Zola dopo i Rougon-Macquart, Atti del Convegno Internazionale NapoliSalerno 27-30 maggio 1987, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1990; Henri Mitterand, Zola. L’histoire et la fiction, Paris, PUF, 1990; Alain Pagès, Émile Zola, un intellectuel dans l’affaire Dreyfus, Paris, Séguier, 1991; William Berg, The visual novel. Émile Zola and the art of his times, Pennsylvania University Press, 1992; Sylvie Collot, Les lieux du désir. Topologie amoureuse de Zola, Paris, Hachette, 1992; Colette Becker, Les apprentissages de Zola: du poète romantique au romancier naturaliste (1840-1867), Paris, PUF, 1993; Alain Pagès, Émile Zola: bilan critique, Paris, Nathan, 1993; Halina Suwala, Autour de Zola et du Naturalisme, Paris, Champion, 1993; Colette Becker, Émile Zola, Paris, Hachette, 1994; Paul Warren (a cura di), Zola et le cinéma, Paris / Sainte Foy (Québec), Presses de la Sorbonne / Presses de l’Université Laval, 1995; Auguste Dezalay (a cura di), Zola sans

168 frontières, Actes du Colloque International de Strasbourg, Presses de l’Université de Strasbourg, 1996; Dominique Fernandez - Ferrante Ferranti, Le Musée d’Émile Zola: haines et passions, Paris, Stock, 1997; Henri Guillemin, Zola, légende et verité, Bats (Landes), Utovie, 1997; Sylvie Thorel-Cailleteau, Zola, Presses de l’Université de Paris-Sorbonne, 1998; Chantal Pierre-Gnassounou, Zola. Les fortunes de la fiction, Paris, Nathan, 1999; Kristof H. Haavik, In mortal combat: the conflict of life and death in Zola’s «RougonMacquart», Birmingham (Alabama), Summa Publications, 2000; Riccardo Reim, La Parigi di Zola, Roma, Editori Riuniti, 2001; Frédéric Robert, Zola en chansons, en poésies et en musique, Bruxelles, Mardaga, 2001; Micheline van der Beken, Zola: le dessous des femmes, Bruxelles, Le Cri, 2001; Marie-Ange Voisin-Fougère, L’ironie naturaliste. Zola et les paradoxes du sérieux, Paris, Champion, 2001; Veronika Beci, Émile Zola, Düsseldorf-Zürich, Artemis und Winckler, 2002; Colette Becker, Zola. Le saut dans les étoiles, Paris, Presses de la Sorbonne Nouvelle, 2002; Jean Bedel, Zola assassiné, Paris, Flammarion, 2002; Olivier Got, Les jardins de Zola. Psychanalyse et paysage mythique dans «Les Rougon-Macquart», Paris, L’Harmattan, 2002; Jean-Pierre Leduc-Adine (a cura di), Zola. Genèse de l’œuvre, Paris, CNRS, 2002; Henri Mitterand, Passion Émile Zola. Les délires de la vérité, Paris, Textuel, 2002; Mario Petrone, Essais zoliens, Napoli, L’Orientale, 2002; Gianni Rizzoni - Alain Pagès, L’ultima notte di Émile Zola, Milano, Scheiwiller, 2002; François-Marie Mourad, Zola critique littéraire, Paris, Champion, 2003; Gisèle Séginger (a cura di), Zola à l’œuvre, Atti del Convegno di Strasburgo 9-10 dicembre 2002, Presses Universitaires de Strasbourg, 2003; Dorothy Speirs - Yannick Portebois - Paul Perron (a cura di), Zola, l’homme récit, Atti del Convegno di Toronto 13-15 settembre 2002, Société Litteraire des Amis d’Émile Zola, 2003; Hannah Thompson (a cura di), New approaches to Zola, Selected papers from the 2002 Cambridge Centenary Colloquium, London, The Émile Zola Society, 2003; Marie-Ange Voisin-Fougère (a cura di), Zola et le rire, Atti del Convegno di Digione 30 maggio-1 giugno 2002, Neuilly-les-Dijon, Les Éditions du Murmure, 2003; Béatrice Laville (a cura di), Champs littéraires fin de siècle autour de Zola, Atti del Convegno di Bordeaux 17-18 dicembre 2002, Presses Universitaires de Bordeaux, 2004; Jean-Pierre Leduc-Adine - Henri Mitterand (a cura di), Lire/Délire Zola, Paris, Nouveau Monde, 2004 (Atti del Convegno tenuto alla Bibliothèque Nationale de France nell’ottobre 2002); Mario Petrone - Giovanna Romano (a cura di), Actualité de Zola en l’an 2000, Atti del Convegno Internazionale del maggio 2000, Napoli, L’Orientale, 2004; Michèle Sacquin (a cura di), Zola et les historiens, Paris, Bibliothèque Nationale de France, 2004 (Atti del Convegno tenuto alla Bibliothèque Nationale «François Mitterrand» di

169 Parigi l’11 gennaio 2003); Anna Gural-Migdal - Robert Singer, Zola and film, Jefferson, McFarland, 2005; Sophie Guermès, La religion de Zola. Naturalisme et déchristianisation, Genève, Slatkine, 2006 (1a ed.: Paris, Champion, 2003); Anna Gural-Migdal - Carolyn Snipes-Hoyt (a cura di), Zola et le texte naturaliste en Europe et aux Amériques: généricité, intertextualité et influences, Lampeter, Edwin Mellen Press, 2006.

6. Riviste «Les Cahiers Naturalistes» sono editi dalla «Société Littéraire des Amis d’Émile Zola», che organizza ogni anno dal 1903 il commemorativo «Pèlerinage de Médan». Dedicati principalmente all’opera di Zola, ma anche agli altri autori del Naturalismo, i «Cahiers» sono pubblicati dal 1955, due numeri per anno fino al 1974 e in seguito un corposo volume unico, attualmente sotto la direzione di Alain Pagès. Fra i «Cahiers» degli ultimi anni segnaliamo tre numeri monografici: Bilan et perspectives (1993), Le centenaire de «J’accuse» (1998) e Le centenaire de la mort (2003). Gli altri due fondamentali aggiornamenti periodici sono offerti dal «Bulletin of the Émile Zola Society», dell’associazione londinese; e da «Excavatio», rivista pubblicata dal 1992 a cura della «Association Internationale d’Études sur Zola et le Naturalisme» (AIZEN), di base canadese-statunitense.

7. Edizioni italiane Per ricostruire le vicende editoriali di Zola in Italia fino al 1958 si può consultare Gian Carlo Menichelli, Bibliographie de Zola en Italie, Institut Français de Florence, 1960: benché purtroppo incompleta, la raccolta di dati è ampia e testimonia la grande attenzione riservata a Zola in Italia fino al primo ventennio del Novecento. L’interesse è incominciato al tempo dell’Assommoir, a Milano, perché all’interno della Scapigliatura era fortissima la propensione al «vero» in letteratura; fu un interesse alimentato anche dalle origini italiane dello scrittore e ravvivato poi dal coinvolgimento di Zola nell’affaire Dreyfus (al processo contro Zola fu data dai giornali massima rilevanza). La divulgazione dell’opera zoliana in Italia non è però mai stata organica. Tutti i romanzi dei Rougon-Macquart sono apparsi – prontamente o in ritardo – in traduzione, ma nessun editore ne ha mai pubblicato la serie completa, neanche Treves che presenta la successione di titoli più

170 lunga. La situazione negli ultimi anni è drasticamente peggiorata: non solo opere ammirande come La curée, Una pagina d’amore e Pot-bouille possono essere trovate solo sul mercato antiquario; ma per i romanzi ristampati si adoperano a volte ancora traduzioni così datate e grossolane da provocare fastidio nella lettura (Germinal nel catalogo di Einaudi e di Rizzoli, Nanà negli Oscar Mondadori). Altre traduzioni invece sono all’altezza: La bestia umana e La gioia di vivere di Rizzoli e i romanzi tradotti da Garzanti (benché spiacciano due o tre sbadataggini nella traduzione di L’opera), tra cui spicca un ottimo Assommoir. Più che lodevole l’iniziativa della Newton & Compton di proporre negli anni Novanta vari titoli in nuove traduzioni, includendo anche romanzi vasti come Il denaro e La disfatta. Ci auguriamo che questi appunti risultino presto superati per via di nuove edizioni finalmente accurate. Le traduzioni dei primi tempi possono peraltro non essere affidabili per la disinvoltura con la quale si operava sul testo. In una nota introduttiva a Sua Eccellenza Eugenio Rougon nella seconda edizione Simonetti, datata 1881, il traduttore afferma di avere scelto di «smorzare certe tinte troppo accese, e di velare certi quadri viventi troppo recisi», giudicando «indispensabile questa censura se volevasi far entrare nella nostra letteratura e lettura militante questo parto portentosamente verista del romanziere francese». Ci piace fare menzione di questa dimenticata casa editrice Simonetti di Milano, che ha per prima pubblicato Zola: Sua Eccellenza Eugenio Rougon nello stesso 1876, Un matrimonio d’amore (Thérèse Raquin) nel 1877. Ci limitiamo a pochi altri cenni: Treves ha pubblicato L’Assommoir come Lo scannatoio (e pazienza per il titolo) nel 1878; Nanà è stato subito tradotto nel 1880, sempre a Milano, da Golio – e nello stesso anno il simpaticissimo Cletto Arrighi dava alle stampe il romanzo delle vicende ambrosiane della protagonista: Nanà a Milano. I romanzi del ciclo dei Froment sono stati subito tradotti: Le tre città (Lourdes, Roma, Parigi) dalle edizioni della «Tribuna» di Roma, gli Evangeli (Fecondità, Lavoro, Verità) dalla Roux e Viarengo di Torino, che (in seguito STEN) ha anche ripreso Le tre città. I titoli dei Rougon-Macquart in traduzione italiana sono i seguenti: La fortuna dei Rougon, La cuccagna (che è un buon modo di rendere l’intraducibile La curée), Il ventre di Parigi, La conquista di Plassans, Il fallo dell’abate Mouret (così nella storia delle nostre traduzioni; oggi, se finalmente il grande romanzo fosse riedito, sarebbe opportuno usare il termine «colpa»), Sua Eccellenza Eugène Rougon (ma abbiamo solo traduzioni con «Eugenio»), L’Assommoir, Una pagina d’amore, Nanà, Quel che bolle in pentola o Dietro la facciata (per l’intraducibile Pot-bouille), Al Paradiso delle Signore (che può andare, benché nell’originale il «paradiso» non ci sia), La gioia di vivere, Germinal, L’opera, La terra, Il sogno, La bestia umana, Il

171 denaro, La disfatta, Il dottor Pascal. Alcune edizioni del passato sono ricorse a titoli differenti, tra cui annotiamo i più gustosi: Sogno d’amore (La fortuna dei Rougon), Napoli, Bideri, 1908; La curée o I carrozzoni dell’impero, ibidem, 1908 (Simonetti nel 1880 aveva optato per La caccia ai milioni); La conquista di Plassans o L’invasione del prete, Firenze, L’Elzeviriana, 1903; Le avventure del ministro Rougon, Napoli, Lubrano, 1910 (che nella sua semplicità è forse il titolo più sciocco che si potesse trovare); L’Assomuàr, Milano, Pavia, 1879; Voluttà della vita, Roma, Sommaruga, 1884 e poi gli editori seguenti, per La joie de vivre; La débacle (senza il circonflesso), Roma, Voghera, 1907, preferibile comunque a Eroismo francese e crudeltà tedesca: episodi della guerra franco-prussiana, Napoli, Società Editrice Partenopea, 1916. Desideriamo da ultimo ricordare l’illimitata e devota passione zoliana di Felice Cameroni, che si definì «zoliste à jet continu» e recensì con entusiasmi incontrollabili le opere del Maestro dal 1874 al 1902. Si può consultare Felice Cameroni, Interventi critici sulla letteratura francese, a c. di Glauco Viazzi, Napoli, Guida, 1975.

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Indice dei nomi

ALEXIS, PAUL 10, 16, 20, 21, 23, 28, 37, 157, 167 ARRIGHI, CLETTO 170 AUBERT, ÉMILIE 9 BAGULEY, DAVID 167 BAILLE, JEAN-BAPTISTIN 9, 10, 11, 13 BALZAC, HONORÉ DE 12, 20, 23, 124, 125, 126, 135, 141, 146 BAUDELAIRE, CHARLES 23, 48, 78, 124 BAZILLE, FRÉDÉRIC 14 BECI, VERONIKA 168 BECKER, COLETTE 165, 166, 167, 168 BEDEL, JEAN 168 BÉLIARD, ÉDOUARD 127 BERG, WILLIAM 167 BERNARD, CLAUDE 118, 143, 144, 145 BERNARD-LAZARE 35 BLOCH-DANO, EVELYNE 167 BONAPARTE, LUIGI NAPOLEONE V. NAPOLEONE III BRISSON, GEORGES 7, 8 BROWN, FREDERICK 166 BRUNEAU, ALFRED 32, 34, 37, 167 BRUNET, ÉTIENNE 166 BUSNACH, WILLIAM 24 CAMERONI, FELICE 171

CÉARD, HENRY 20, 22, 23, 27, 29, 128, 157 CÉZANNE, PAUL 9, 10, 11, 13, 14, 17, 27, 96, 97, 134 CHARPENTIER, GEORGES 18, 21, 22, 31, 142, 162 CLEMENCEAU, GEORGES 35 COLLOT, SYLVIE 167 COSTE, NUMA 13, 20 COURBET, GUSTAVE 13, 14 CRANE, STEPHEN 163 CRISPI, FRANCESCO 33 D’ANNUNZIO, GABRIELE 58 DAUDET, ALPHONSE 20, 23, 28, 158 DE AMICIS, EDMONDO 159, 160 DEGAS, EDGAR 14 DÉJERINE, JULES 138 DE ROBERTO, FEDERICO 163 DESCHANEL, ÉMILE 125, 127, 129 DESMOULIN, FERNAND 37 DEZALAY, AUGUSTE 167 DREYFUS, ALFRED 33, 34, 35, 37, 38, 39, 146, 153, 161, 169 DURANTY, EDMOND 24 EÇA DE QUEIROZ, JOSÉ MARIA 163 ÉMILE-ZOLA, BRIGITTE 167

174 ÉMILE-ZOLA, FRANÇOIS 167 ÉMILE-ZOLA, JACQUES 29 ESTERHAZY, CHARLES-FERDINAND 35, 36, 37 EURIPIDE 90 FANTIN-LATOUR, HENRI 14 FASQUELLE, EUGÈNE 18, 31, 37 FAURE, FÉLIX 35 FERNANDEZ, DOMINIQUE 168 FERRANTI, FERRANTE 168 FÉVAL, PAUL 131 FLAUBERT, GUSTAVE 12, 16, 20, 21, 22, 23, 24, 65, 66, 68, 74, 124, 125, 126, 135, 157 FOURIER, CHARLES 38 FRANCE, ANATOLE 28, 39, 109 FREUD, SIGMUND 108 GALLET, LOUIS 32 GASTINEAU, OCTAVE 24 GIACOSA, GIUSEPPE 164 GIOVANNA D’ARCO 11 GONCOURT, EDMOND E JULES DE 16, 20, 21, 23, 28, 125, 126, 135, 136 GOT, OLIVIER 168 GOURDIN-SERVENIÈRE, GINA 165, 166 GUERMÈS, SOPHIE 169 GUILLEMIN, HENRI 168 GURAL-MIGDAL, ANNA 169 HAAVIK, KRISTOF H. 168 HAUSSMANN, GEORGES EUGÈNE 46 HEMINGWAY, ERNEST 163 HENNIQUE, LÉON 20, 23 HENRY, JOSEPH 37 HITCHCOCK, ALFRED 106 HUGO, VICTOR 139, 124, 126 HUYSMANS, JORIS-KARL 20, 22, 23, 58, 157 KEEFE, TERRY 167 LACROIX, ALBERT 12, 16, 17, 18, 162 LANOUX, ARMAND 165, 166

LAVIELLE, VÉRONIQUE 165, 166 LAVILLE, BÉATRICE 168 LEBLOIS, LOUIS 35 LE BLOND-ZOLA, DENISE 28, 167 LE BLOND-ZOLA, JEAN-CLAUDE 167 LEDUC-ADINE, JEAN-PIERRE 168 LEONE XIII, 149 LETHBRIDGE, ROBERT 167 LOMBROSO, CESARE 29, 108 LOUBET, ÉMILE 37, 38 LUCAS, PROSPER 118, 125, 135, 136, 138, 140 MALLARMÉ, STÉPHANE 21, 23 MANET, ÉDOUARD 12, 13, 14, 15, 96 MARGUERY, LOUIS 11 MARX, KARL 26 MASSIMILIANO D’ASBURGO 110 MASSIN 167 MAUPASSANT, GUY DE 20, 21, 23, 27, 157 MELEY, ALEXANDRINE 15, 28, 29, 34, 36, 37 MENICHELLI, GIAN CARLO 167, 169 MICHELET, JULES 124, 132 MITTERAND, HENRI 165, 166, 167, 168 MOLIÈRE 20 MONET, CLAUDE 14, 127 MOURAD, FRANÇOIS-MARIE 168 MUSSET, ALFRED DE 10, 124, 125 NAPOLEONE III 18, 43, 48, 59, 60, 110, 114, 134 OFFENBACH, JACQUES 71 OWEN, MORGAN 166 PAGÈS, ALAIN 166, 167, 168, 169 PERRON, PAUL 168 PETRONE, MARIO 168 PICQUART, GEORGES 35, 38 PIERRE-GNASSOUNOU, CHANTAL 168 PISSARRO, CAMILLE 15 POE, EDGAR ALLAN 129

175 PORTEBOIS, YANNICK 168 POUCHET, GEORGES 138 REIM, RICCARDO 168 RENAN, ERNEST 118 RENOIR, PIERRE-AUGUSTE 13 RIZZONI, GIANNI 168 ROBERT, FRÉDÉRIC 168 ROMANO, GIOVANNA 168 ROUX, MARIUS 10, 15, 17, 20 ROZEROT, JEANNE 28, 31, 34, 36, 37 SACQUIN, MICHÈLE 166, 168 SCHEURER-KESTNER, AUGUSTE 34, 35 SCHOPENHAUER, ARTHUR 84 SÉGINGER, GISÈLE 168 SINGER, ROBERT 169 SNIPES-HOYT, CAROLYN 169 SOLARI, PHILIPPE 10, 20 SOUBIROUS, BERNADETTE 32 SPEIRS, DOROTHY 168 STENDHAL 12, 23, 125, 135 STEVENSON, ROBERT LOUIS 108 SUE, EUGÈNE 131

SUWALA, HALINE 167 TAINE, HIPPOLYTE 12, 125, 135 THOMPSON, HANNAH 168 THOREL-CAILLETEAU, SYLVIE 168 TOULOUSE, ÉDOUARD 33 TROYAT, HENRI 166 TURGENEV, IVAN 20 ULBACH, LOUIS 15 VALABRÈGUE, ANTONY 11, 16, 20, 125, 126 VAN DER BEKEN, MICHELINE 168 VAN SANTEN KOLFF, JACQUES 127, 158 VERGA, GIOVANNI 66, 163 VERLAINE, PAUL 23 VIAZZI, GLAUCO 171 VOISIN-FOUGÈRE, MARIE-ANGE 168 WALKER, PHILIP 166 WARREN, PAUL 167 WEISMANN, AUGUST 138 ZOLA, FRANÇOIS 9 ZOLLA, FRANCESCO 9

2008 Metauro Edizioni s.r.l., Pesaro Finito di stampare nel mese di marzo 2008 presso la tipografia Litocolor di Pesaro Printed in Italy