I quartetti per archi di Beethoven
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Quirino Principe

I quartetti per archi di Beethoven

Quirino Principe

I QUARTETTI PER ARCHI DI BEETHOVEN

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SEZIONE MUSICA

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Gli ampi intervalli e il continuo rovesciarsi del moto da ascendente a discendente, a specchio, evocano una sostanza liquida, l’elemento ac­ qua, e non si saprebbe immaginare, dopo questo inizio, un urto tra due stati d’animo più forte di quello prodotto dal Trio, dove il fraseggio ter­ nario, ancora avvertibile nello sfondo, è ormai un’eco in secondo o in terzo piano di evidenza pittorica. Il tema russo che nel Trio appare alla bt. 7 corrisponde, nella citata antologia a cura di Ivan Pratsch, al canto popolare sulle parole «Slava Bogu na nebe, slava», ossia «Gloria a Dio nei cieli, gloria». Il tema russo è esposto piano dal secondo violino, mentre il primo violino tace del tutto. Ne nasce un’estrosa pagina con­ trappuntistica in cui il tema russo viene ripreso successivamente da violoncello, primo violino e viola. Nell’antologia di Pratsch il tema è dato in la maggiore (tonalità probabilmente non originale); Beethoven 132

L’origine e la forma dell’energia

lo colloca in si maggiore. Questa melodia ci è familiare al di fuori dei quartetti di Beethoven. La conosciamo bene, poiché l’abbiamo udita tante volte nella scena dell’incoronazione in Boris Godunov di Modest Musorgskij e in due belle composizioni di Nikolaj Rimskij-Korsakov, \'Ouverture su temi russi op. 28 e l’opera ha fidanzata dello zar. Il Presto finale costituisce uno di quegli enigmi non particolarmente perturbanti che spesso s’incontrano a conclusione di partiture - ca­ meristiche o sinfoniche, o anche di grandi sonate pianistiche - ispira­ te essenzialmente da una poetica malinconica o tenebrosa. L’enigma è in primo luogo di natura estetica, ma coinvolge senza troppo pare­ re l’intera visione del mondo, implicando anche quella categoria pa­ lesemente inferiore all’estetica che è l’etica. Esso si configura nella conclusione lieta e vitale (meglio, vitalistica) di un polittico musicale mesto e persino tragico. Non si tratta dei casi in cui la chiusa trionfa­ le è lo scioglimento di un blocco e la vittoria contro le crisi e gli osta­ coli: esempio eminente, proprio una partitura beethoveniana, la Quinta Sinfonia. Stiamo parlando di altra casistica, in cui il Finale af­ fermativo si fa strada senza preparazione e suscitando sorpresa su un terreno tutto negativo, e qui è inevitabile il richiamo a due sinfonie mahleriane, la Quinta e la Settima (non la Prima, il cui Finale rispon­ de alla logica della Quinta beethoveniana). Dinanzi a simili oggetti imbarazzanti, la nostra opinione più volte dichiarata è che si tratti di un ironico e talora aspramente sarcastico “come se”, quasi che il com­ positore dicesse al pubblico e ai critici: «Volete un Finale affermativo e consolatorio? Bene, provate a immaginarlo così...». Per i due esem­ pi mahleriani, questa interpretazione è accettabile, prego di credere. Per il quartetto di Beethoven che stiamo esaminando, una simile opi­ nione finisce per banalizzare la prospettiva d’insieme. Cominciamo con lo spazzare via certe immagini proposte dai commentatori per questo Finale dell’op. 59 n. 2. Niente “trasposizione immateriale nel complesso d’archi di una marcia di pifferi e tamburi”; parole ahinoi testuali, e non facciamo il nome del responsabile poiché è persona di grande onestà intellettuale, preparazione e operosità. A parte il fatto che i pifferi e i tamburi abitualmente non marciano, o almeno non so­ no essi a marciare, il Presto che conclude il quartetto non corre affat­ to su un ritmo di marcia, e tra l’altro di sezioni o intermezzi “alla mar­ cia”, dichiarati in quel caso con parole esplicite, le sonate pianistiche e i quartetti per archi di Beethoven non scarseggiano. Se si osserva con un minimo d’attenzione l’incipit del Presto (esem133

Un mondo di energia

pio 16), e se si controlla particolarmente la parte del violoncello, con il significato dinamico del DO grave all’inizio, subito scattante verso la serie dei DO nell’ottava superiore, si ammetterà che della marcia qui non c’è traccia, e che l’idea di fondo è piuttosto quella di una ca­ valcata, alla maniera delle figurazioni ritmiche che animano il movi­ mento conclusivo dell’ouverture da Guglielmo Teli di Rossini, o il Fi­ nale dell ’Ottava di Bruckner. Insomma, rispetto alla presunta trasfigurazione della marcia, una idea, questa della cavalcata, ancora più affermativa e tanto più sor­ prendente. A sorpresa è l’immediata esposizione del primo violino: il tema, malgrado l’armatura di chiave, si propone baldanzosamente in do maggiore e conclude la sua tournure in mi minore (bt. 9), per poi ricollocarsi subito in do maggiore... e così via, giocando quasi di­ spettosamente con l’ascoltatore. Ma il gioco ha fine; si entra decisa­ mente e “seriamente” nell’area armonica di mi minore con la bt. 5 2 (vol. I, p. 1 7 2 , primo sistema). Ci si accorge in breve che la tonalità minore non conserva qui neppure una traccia del pathos ad essa con­ naturato nel I tempo. Sorge una strana e giocosa letizia nella dispet­ tosissima figurazione del primo violino (btt. 6 9 - 8 4 ) , tutta, guizzi e sal­ ti intervallari e “note sfuggite” fuori quadro, con l’impertinente hoquetus degli altri archi a far da commento. Il Più presto e il sempre for­ tissimo delle ultime ventisei battute (vol. I, p. 1 7 8 ) lasciano in chi ascolta un’impressione di forza e di perfetta salute. L’energia, sembra dire questo Finale, non deve sempre sorridere: vuole asprezza. Sol­ tanto chi sa immergersi nella notte può, al momento giusto, scorgere aperta la porta degli Elisi.

Esempio n. 16

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2. ENERGIA E UMOR NERO

Su un’asserzione più volte ripetuta da altri siamo d’accordo: che la musica di cui Beethoven ci ha fatto dono sia il linguaggio di un artista traboccante d’amore per l’umanità pur nella coscienza di non essere ricambiato da uguale amore. Ma non saremmo tanto attratti da Beet­ hoven se fossimo davvero convinti che egli abbia guardato al mondo con fiducia e simpatia. Come tutti gli uomini di eccezionale grandez­ za, fu ferito dal mondo. L’arte è grande soltanto se è alternativa alla cosiddetta realtà e se dinanzi all’esistente si esprime con le parole del disagio, della contesa e persino dell’odio. L’energia che la musica beethoveniana mette in moto e diffonde è e non può non essere un atto di ostilità nei confronti del reale. Quanto più l’opera realizzata da uno spirito superiore appare armoniosa e illuminata, perfetta e indistrutti­ bile, tanto più essa è un atto aggressivo di negazione del reale; è la ven­ detta e la giustizia contro ciò che il mondo è e continua a essere. Non sono forse questo, la Repubblica o il Simposio di Platone? Non lo è la Commedia di Dante o Don Quijote di Cervantes o Macbeth di Shake­ speare? Oseremmo dire che la Matthäus Passion e il Ring des Nibelun­ gen non sono un anti-mondo, una giustizia e una vendetta contro il re­ ale e le sue categorie d’esistenza, il potere, il privilegio, lo Stato, le Chiese, il moralismo punitivo, la burocrazia persecutoria? Anche Beethoven è di questa schiera, combatte insieme con gli altri strani vendicatori, e insieme con essi si presenta a noi come negazione non soltanto del mondo ma anche di coloro che del mondo sono i lacchè, gli artisti mediocri e gratificati dal potere, i filosofi non autentici che forniscono sostegno e legittimazione all’esistente. 135

Un mondo di energia

Se è vero che in essa è una carica ostile, l’energia della musica beethoveniana è sempre, nell’essenza, amara e rannuvolata. L’autoironia, propria degli artisti autentici, le impone spesso una maschera nobile, persino amabile. A volte l’amarezza e l’umor nero si rivelano senza schermi. Fra i quartetti per archi, tre esempi più di altri trasmettono questo scoperto stato d’animo, che tuttavia non è spleen o coacervo di emozioni e di reazioni psichiche. È un atto intellettuale, un aspro giu­ dizio. L’itinerario che suggeriamo in questo paragrafo parte dal Quar­ tetto op. 18 n. 2, prosegue con Top. 95 e approda all’op. 132, e questo punto d’arrivo segnala già con il solo enunciato come lo “stato d’ani­ mo” non sia, nel Beethoven dei grandi quartetti, una condizione psi­ chica o umorale, ma il modo d’essere dell’animo inteso come intelli­ genza del reale, come pensiero e giudizio. Il Quartetto in sol maggiore op. 18 n. 2 si apre (esempio 17) presen­ tandosi senza le tensioni che danno avvio ai due quartetti tra i quali è compreso anche in senso cronologico (inverso rispetto alla numera­ zione, che tuttavia lo colloca anch’essa in posizione intermedia), Top. 18 n. 3 e Top. 18 n. 1. A lleg ro .

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Esempio n. 17

In questo Allegro iniziale tutto sembra tendere a due obiettivi: equilibrio e assenza di problemi e di anomalie, e, in breve, un orizzon­ te sereno. Perciò, a prima vista, questo quartetto appare meno interes­ sante dei due che lo fiancheggiano e che già abbiamo incontrato in queste pagine. L’equilibrio di volumi e di forze, il cielo senza nubi, non promettono troppe emozioni né sorprese. Così sembra, appunto: ma “sembra” finché dura l’esposizione, duplicata con effetto rassicu­ rante dal ritornello. All’impressione di equilibrio senza tensioni si ac­ compagna quella di semplicità senza complicate avventure armoni­ che, suscitata soprattutto dalla brevità frettolosa con cui dal primo 136

Energia e umor nero

tema nella tonalità d’impianto (sol maggiore) un rapido e conciso pon­ te modulante conduce al secondo tema nella canonica tonalità alla do­ minante (re maggiore). Si ammira la sapiente distribuzione del dise­ gno e dei volumi di suono: il primo tema è una linea limpida del pri­ mo violino, che spicca nettamente sulla scrittura rarefatta degli altri archi, mentre il secondo tema, più corposo, è enunciato quasi all’uni­ sono e omoritmicamente da tutti e quattro gli strumenti. Un terzo ele­ mento di equilibrio è la simmetria. La prima frase è costituita da un primo inciso, un RE seguito da un agile e volante gruppo di otto bi­ scrome, e da una risposta dal ritmo puntato, quasi di marcia; ascen­ dente il primo inciso, discendente il secondo. La seconda frase è una figurazione a specchio rispetto alla prima. La nota iniziale non è più la dominante ma la mediante, il gruppo di trentaduesimi ha un orienta­ mento discendente, il disegno a ritmo puntato è decisamente ascen­ dente. Si immaginano due personaggi che da posizioni opposte si ri­ spondono a gesti, una riverenza l’uno, un controinchino l’altro. Que­ sto schema a specchio con sembianze di mondana etichetta ha fatto nascere, nel secolo XIX, la sciocca intitolazione di “Quartetto dei com­ plimenti”, malamente giustificata dall’effimera atmosfera di grazia sorridente. Fa sorridere, in realtà, la disinvoltura con la quale tutti i commentatori sorvolano su questo I tempo, liquidato come “omoge­ neo” e “cerimoniosamente levigato”. Ciò significa non saper guardare la partitura, e soprattutto non ascoltare con un minimo di attenzione. Basta attendere la fine dell’esposizione. Lo sviluppo dà l’avvio a un’esasperata frantumazione di temi e motivi e a una paurosa destabi­ lizzazione armonica. Sembra che tutto frani, che un mondo delicato e marmoreo sia scosso dalle onde di un sisma. Aspro sarcasmo e ango­ scia dissimulata risaltano in tutto l’episodio segnato da sparsi fram­ menti di due semicrome ribattute (vol. I, p. 28). E che dire dell’inizia­ le impressione di equilibrio, quando ci accorgiamo che VAllegro è un organismo amputato, senza una vera ripresa? Ci sono, in verità, due false riprese. La prima (vol. I, ivi) appare quando meno ce l’aspettia­ mo, dopo una fase concitatissima dello sviluppo, ed è affidata ostenta­ tamente, come nella prima esposizione, al primo violino. Ma tutto si limita all’inciso iniziale, al RE e al gruppo ascendente di biscrome. Non ricompare la risposta in ritmo puntato. Il gruppo di trentaduesi­ mi è ripreso subito per imitazione (un’ottava sotto) dal secondo violi­ no, e ancora alternamente dai due strumenti altre nove volte, in un oscillante avvicendarsi di crescendo e di pianissimo. L’ultima di que137

Un mondo di energia

ste imitazioni (vol. I , p. 29) è in realtà un’altra falsa ripresa, con perno sulla mediante e non sulla dominante. Di qui si parte non verso una riesposizione, ma verso una nuova e armonicamente avventurosa fase di sviluppo. Tutto diatonico, illuminato da un’armonia candida e spaziosa, è il tema che inaugura il II tempo, Adagio cantabile, in do maggiore, e an­ che la tonalità è un elemento di candore (esempio 18). Ada";«) cantabile.

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Esempio n. 18

Ma prepariamoci a sorprese in questo Adagio dominato da “spiri­ to ed eccentricità”, come nota acutamente Carli Ballola, il quale sug­ gerisce una fantasiosa denominazione in termini mozartiani: «il dialo­ go tra una nobile ed eroica Fiordiligi e un’impertinente Despina»1. “Fiordiligi” è la prima sezione dell’Adagio, in cui il limpido tema già citato è arricchito da tanti gruppetti, appoggiature, melismi di vario genere, da apparire, a mano a mano che il discorso musicale procede, come la luna dietro il fogliame di un bosco. Un “Adagio degli abbelli­ menti”, se volessimo continuare con i sottotitoli stolidi. Questa prima sezione, di sole ventisei misure, è costituita con criterio essenziale dall’esposizione del tema e da una lunga, elaborata successione caden­ zale conclusa dalla cadenza perfetta. Tutto qui, se non fosse per una specie di minuscola coda, non più di quattro misure. È la preparazio­ ne alla sorpresa molto bella che seguirà. La coda, se vogliamo chia-

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Beethoven, Rusconi, Milano 1985, p . 253. 138

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maria così, trae la sua esigua materia da una figurazione di quattro se­ dicesimi, SI-SI-LASOL, poi appiattita in quattro SOL ribattuti. Ed ecco, il frammento di quattro suoni diventa l’innervatura lineare e rit­ mica dell’inatteso Allegro che irrompe a questo punto: una sezione centrale in fa maggiore che può benissimo adattarsi, senza indurci a peccare di troppa fantasia, allo spirito di un’immaginaria Despina. La struttura di questo Allegro è singolare: quattro battute che scandisco­ no il motivo di quattro suoni due volte, in progressione discendente, e due sottosezioni ciascuna con ritornello. L'Allegro, in ritmo binario, si contrappone anche sotto questo aspetto alVAdagio cantabile, in rit­ mo ternario. La terza e ultima sezione segnala ripresa dell’Adagio e del suo tema in do maggiore, esposto questa volta all’estremo opposto della partitura rispetto alla prima esposizione, ossia dal violoncello, con una fioritura di abbellimenti da parte degli altri strumenti: spicca­ no le scale ascendenti e discendenti di biscrome, fortemente cromatiz­ zate, del primo violino, e gli arpeggi del secondo violino. Lo Scherzo (Allegro, in ritmo ternario e in sol maggiore) è fondato su un ostinato gioco di proposta e risposta in cui agiscono due figura­ zioni per moto contrario, ancora una volta a specchio (“complimento­ se”, direbbe qualcuno), in cui lo spirito di Haydn fa davvero, questa volta sì, la sua ricomparsa (esempio 19).Il

Esempio n. 19

Il Trio, sempre in ritmo ternario ma in do maggiore, riproduce con lo Scherzo lo stesso rapporto tonale che nel II tempo sussiste tra l’Ada­ gio cantabile e l'Allegro, ossia la scelta della tonalità alla sottodomi­ nante nella sezione centrale. Il tema del Trio è fatto quasi di nulla: un moto ascendente, con carattere di corale, dalla dominante alla tonica 139

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alla sopratonica alla mediante, arricchito soltanto da un trillo del pri­ mo violino sull’accento forte dell’ultimo quarto delle battute finali di ciascuna semifrase. Questa esilità tematica è “compensata” dall’alto rilievo del tema “buffo” che inaugura, esposto dal solo violoncello in apertura, il Finale, Allegro molto quasi Presto in sol maggiore e in rit­ mo binario (esempio 20). Non sfugga il carattere di questo tema e il di­ vertente uso che ne fanno subito dopo tutti e quattro gli strumenti: qui il violoncello, lungi dall’essere lo strumento amoroso e la sonda dei sentimenti profondi come sarà in Schumann o in Wagner, o il tim­ bro della meditazione filosofica ed escatologica come sarà in Brahms, ha il ruolo che nell’opera italiana spetterebbe al basso “buffo”. Quan­ to al rilievo plastico del tema, esso fa già pensare a quell’evidenza scul­ torea che ci è familiare dall’ascolto di grandi partiture dell’età di mez­ zo, il Concerto n. 3 in do minore per pianoforte e orchestra op. 37 (1802) o il Triplo Concerto op. 56 (1804).

Da questo tema, il Finale si sviluppa come una grande danza trasci­ nata dall’energia di un perpetuum mobile, e con repentini rannuvolamenti in tonalità minore (come l’episodio in cui il violoncello riespo­ ne il tema in re minore, vol. I, p. 36). Dire come ha fatto qualcuno che nel Finale il “complimento” è passato dalle sale alle piazze, e un po’ anche nei sobborghi e nelle campagne, è un fantasticare tollerabile, né gli faremo il viso dell’armi. Il Quartetto in fa minore op. 95 cade, insieme con Top. 74, nell’in­ tervallo tra i “Rasumowsky” e la siderale costellazione degli ultimi quartetti. Entrambi sono lavori senza committente, nati dal puro Kunst140

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wollen. L’op. 95, tutta amarezza e penombre rotte da lampi, ha sem­ pre creato difficoltà interpretative a critici e commentatori, ammirati e intimoriti da questa scarna e potente manifestazione di umor nero. L’op. 95 è pensiero musicale concentrato, in cui ogni termine espres­ sivo ed ogni gesto sono ridotti all’essenziale, e in cui la musica è dav­ vero poesia nel senso poundiano di “linguaggio carico del massimo si­ gnificato possibile”. In tanta densità di significato non possono man­ care reticenze e ambiguità, e ascoltando questa musica sentiamo l’energia diventare con più veemenza un’onda destabilizzante. Sap­ piamo che l’unicità di questo quartetto è sottolineata dal fatto che la sua denominazione, “Quartetto serioso”, è l’unica dovuta alla mano dell’autore in tutta la serie delle diciassette composizioni, e una delle rarissime decise da Beethoven nell’intero suo catalogo. Quanto al va­ lore di quell’aggettivo, lasciamo spazio a Giovanni Carli Ballola, colui che, come in altre circostanze, ha detto in proposito parole illuminan­ ti. «Che volle intendere il Maestro con quel “serioso”, equivalente, per noi moderni, a un “serio” posto tra allusive virgolette; a un “se­ rio”, cioè, che converrebbe moltissimo a Gustav von Aschenbach, il protagonista della Morte a Venezia manniana e che, per ciò stesso, s’offre vittima inevitabile sull’altare d’una tragica ironia?». Nella stes­ sa pagina, Carli Ballola definisce i caratteri dei quattro tempi: l’ele­ mento oscuro e inesprimibile che si nasconde dietro i violenti chiaro­ scuri e i sussulti ritmici ÔÆAllegro con brio·, l’ambiguità crudele delΓAllegretto ma non troppo-, il marasma modulante del Trio nell 'Allegro assai vivace, ma serioso; il tema morbidamente appassionato del Tina­ ie. Tutto ha il sorriso della sfinge, affascinante e sfuggente. Carli Bal­ lola conclude: «Per Beethoven il quartetto sta ormai per diventare il dominio delle supreme meditazioni: un edificio interiore, simile al Di­ vino Castello “Uno e Semplice” che Maestro Eckhart vedeva nell’ani­ ma dell’uomo, sempre più sottratto agli echi del mondo esterno e in­ formato ad una nuova, inaudita ratio che è tuttora fonte di rinnovata meraviglia; le dessin le plus idéal de tous postulato da Baudelaire»2. Se vogliamo intervenire e dire la nostra, l’op. 95 è il quartetto beethoveniano in cui la musica soffre al massimo grado il male di vivere e l’accensione di genialità che dolorosamente ne deriva; il terreno che, mentre nasconde i più mirabili tesori, trema paurosamente con il mas-

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cit., pp. 266-267.

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simo grado d’instabilità aprendosi a mille esplosioni inventive. Gli ul­ timi quartetti godono (è il caso di dirlo) di miglior salute, almeno in apparenza, o almeno reagiscono al male di vivere con la robustezza dei veterani, e il terreno che essi percorrono sembra più stabile. Que­ sto carattere di continuo sisma tellurico ha anche un significato nella storia dell’anima (non certo nella presunta “evoluzione”): l’op. 95 è un lavoro di frontiera e di cerniera. La struttura è ancora quella del quartetto precedente, Top. 74, e dei tre “Rasumowsky”, e possiamo ri­ salire fino all’op. 18, cioè lungo la linea della tradizione: è quadripar­ tita, con una palese omogeneità tonale (eppure accoglie un’anomalia eversiva) che contrasta non soltanto, com’è ovvio, con il delirio di to­ nalità dell’op. 131 ma anche con la più controllata anarchia dell’op. 127 o dell’op. 135. Se nel disegno generale e nei contorni esterni l’op. 95 è retrospettiva, nel pensiero ideativo, nella disposizione d’animo e nell’aura questo lavoro che in origine non si sarebbe dovuto rendere pubblico3 è una prefigurazione dei quartetti estremi. Esaminiamo brevemente il primo aspetto, quello legato all’espe­ rienza precedente. L’op. 95 ha tre tempi nella tonalità d’impianto, fa minore, e uno, il II, in tonalità diversa, re maggiore. La semplice articolazione ricorda i sei quartetti dell’op. 18 e gli ultimi due dell’op. 59, oltre a richiamare da vicino l’op. 74. Tutto ciò che d’insolito e di libe­ ramente ideato era venuto alla luce nei quartetti beethoveniani fino al termine dell’età di mezzo non aveva destabilizzato la tradizionale qua­ dripartizione e l’equilibrio tra le tonalità dei vari tempi. Qualche li­ cenza si era fatta strada nell’op. 59 n. 1; dopo Top. 95, la piena libertà formale esigerà spazio a partire dall’op. 127. Il mantenersi della strut­ tura tradizionale ci consente anzi di notare una curiosità. Nella scelta tonale, Top. 95 sembra l’inversione dell’op. 18 n. 1: quel quartetto del 1799 ha tre tempi in fa maggiore e uno (il il) in re minore, Top. 95 ha tre tempi in fa minore e uno (sempre il II) in re maggiore. Ma è un’in­ versione puramente nominale, una mera apparenza di parole, e non ha alcun valore né teorico né matematico né espressivo né poetico né simbolico. Nell’op. 18 n. 1 l’impianto tonale prevede uno spostamen­ to minimo, il minimo possibile: re minore è la relativa di fa maggiore, quindi una tonalità vicinissima ed anzi adiacente a quest’ultima. Nel-

3 V. a questo proposito le considerazioni di CARL D a h lh a u s, L'idea di musica asso­ luta, trad, it di Laura Daliapiccola, La Nuova Italia, Firenze 1988, p. 21. 142

Energia e umor nero

Top. 95 lo spostamento è una distanza stellare: re maggiore è tonalità lontanissima da fa minore, senza alcun rapporto diretto con essa, e una serie di modulazioni secondo il ciclo delle quinte e in virtù dell’al­ ternativa maggiore/minore richiederebbe un percorso lungo e com­ plicato per passare dall’una all’altra sfera tonale. La presenza di un tempo in re maggiore entro la cornice di un quar­ tetto in fa minore costituisce un enigma. Tentiamo di decifrare un rap­ porto tonale tanto remoto. Non abbiamo forse detto, nella prima par­ te di questo libro, che i quartetti di Beethoven racchiudono segreti? Possiamo sondarli soltanto a modesta profondità, né chiediamo di più a parole; l’ascolto rivelerà gran parte di ciò che si nasconde. Un quar­ tetto in fa minore... A parte le dodici misure del Grave che precede il Finale dell’op. 135 e che si lega strettamente, come insolita introduzio­ ne “parlata”, all’Allegro in fa maggiore che segue, c’è un solo tempo quartettistico in fa minore al di fuori dell’op. 95, in Beethoven, ed è l’Adagio molto e mesto dell’op. 59 n. 1. Il solo nominarlo ci emoziona. Sono pagine di musica concentrata e interiorizzata, ritratto di un’ani­ ma che indietreggia dinanzi al mondo per osservarlo meglio. Noi sia­ mo all’ombra del personaggio che indietreggia, e lo vediamo soltanto di spalle. Quanto all’anomalia delVAllegretto ma non troppo in re mag­ giore, interroghiamoci sulle tonalità d’impianto dei quartetti: ce n’è uno solo che si apra in re maggiore, ed è proprio il primo in ordine cro­ nologico, Top. 18 n. 3, con il I tempo che lascia fluire una distesa ener­ gia. Due immagini possono compendiare l’Adagio in fa minore dell’op. 59 n. 1 e l'Allegro in re maggiore dell’op. 18 n. 3: una mano serrata a pugno, dolorante nello sforzo di chiudersi, e una mano aperta con tut­ te le dita tese. È l’esasperazione degli estremi. Ciò che la musica espri­ me e rappresenta è soprattutto la musica stessa: possiamo pensare che Beethoven abbia voluto riassumere, nell’anomalia tonale dell’op. 95, sé stesso compositore e il proprio lavoro creativo nel comporre quar­ tetti attraverso l’idea di sforzo e di ipertensione ‘dell’animo? NelVAlle­ gretto ma non troppo la tonalità di re maggiore svela il suo lato demo­ niaco oltre i limiti del demònico beethoveniano. Strano, per una tona­ lità che Haydn associava all’idea di spazio aperto e di festosità celebra­ tiva. Ma le contraddizioni, in musica, appaiono soltanto sull’inganne­ vole dimensione lineare “del prima e del poi”, per usare l’antica termi­ nologia aristotelica; ossia, sul piano “storico”. Si dissolvono, “come gente stata sotto larve”, quando abbandoniamo la dimensione lineare e il piano storico (“storico” nel senso in cui lo storicismo ideologico in143

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tende la storia) e raggiungiamo la visione circolare del reale. Non par­ liamo, allora, di Beethoven anticipatore o profeta, come si usa dire, poiché le due parole alludono al futuro e il futuro implica il tempo; il futuro puro e semplice, irreversibile, sottintende in particolare un tem­ po rettilineo. In tal caso, anche se ci si sforza di essere ragionevoli, si dicono verità solo parziali; per esempio, che l’orientarsi del re maggio­ re beethoveniano dall’ambito istituzionale del demònico a quello ecce­ zionale del demoniaco “anticipa” il carattere virulento attribuito a questa tonalità da altri compositori “successivi”, come Gustav Mahler nel I tempo della Nona Sinfonia o nello spettrale Ländler con il quale culmina (btt. 54-71) lo Scherzo della Settima. Ebbene? Il re maggiore della Sonata KV 576 di Mozart è “già” (?) un demònico che sfiora il demoniaco. Usiamo piuttosto un altro linguaggio, non legato al tempo e immune dalla pur minima tentazione storicistica. Beethoven appare, nella non falsa ma insufficiente visione rettilinea del tempo, un artista che anticipa e preannuncia. In realtà, com’è concesso agli intelletti su­ periori, egli ha in sé una più ampia gamma di possibilità. Ciò che a vol­ te ci fa sobbalzare nella sua musica non è ciò che verrà, ma ciò che pos­ siamo definire l’universale possibile, al di là del mero esistente, e in quel possibile si possono riconoscere il passato e il futuro. Peter Oundjian, primo violino del Quartetto di Tokyo cui si devo­ no memorabili esecuzioni dell’intero ciclo quartettistico beethovenia­ no, ci offre un’indicazione preziosa. «Se si esaminano tutti i tempi len­ ti dei quartetti del secondo e terzo periodo, si nota che, a partire dall’op. 59 n. 2 (e fatta eccezione per quello dell’op. 59 n. 3 che in ogni caso è un Andante, non un Adagio), non c’è un solo movimento lento in modo minore. Quelli delle op. 74, 95, 127,130,131 e 135 sono tut­ ti in maggiore, e nell’op. 132 il Molto adagio è in modo lidio. È come se il compositore non sentisse più il bisogno di esprimere tristezza o rimorso nei suoi tempi lenti, e vi cercasse invece la riflessione o persi­ no la gioia. Ma Top. 95 in qualche modo non prende partito, in quan­ to l’intero tempo lento, dall’inizio della prima frase sino alla fine, è sotteso da un conflitto tra il maggiore e il minore. Questo tratto dona alla musica un aspetto minaccioso (threatening), che costituisce il fon­ damento della sua semplice ed essenziale bellezza»4.

4 Citato da Eric van Tassel nel booklet del cofanetto Cd L.v. BEETHOVEN, The Mid­ dle String Quartets, RCA-Victor RD60462, 1991, p p . 13-14 (trad. it. p . 50). 144

Energia e umor nero

Sul secondo aspetto, che fa dell’op. 95 un ponte tra l’età di mezzo e gli ultimi quartetti, due riflessioni non di maniera valgano a testimo­ nianza. Gerald Abraham, commentando il Finale di questo quartetto, osserva che «la luce, persino accecante, della brillante coda» è un «pas­ saggio diversissimo, sia tematicamente che per atmosfera, da tutto ciò che lo ha preceduto»; che nell’op. 95 «tutto è condensato ed ellittico, le modulazioni giungono improvvise e conducono a tonalità inaspetta­ te, il clima e le idee musicali mutano in continuazione, i temi sono sconnessi. [...] In breve, qui abbiamo un esempio isolato e molto pre­ maturo del “terzo periodo” beethoveniano»56.In parallelo, Kazuhide Isomura, la viola del Quartetto di Tokyo, ha sottolineato come una musica “non sentimentale”, caratteristica degli ultimi quartetti e ragio­ ne essenziale di differenza tra il secondo e il terzo Beethoven, sia già presente, come religiosità intellettuale e non cristiana, nell’op. 95é. Nel I tempo dell’op. 95, Allegro con brio in fa minore e in ritmo bi­ nario, l’apertura memorabile è già, come negli ultimi quartetti, forte­ mente individualizzata: un violento inciso con i quattro archi all’uni­ sono (esempio 21). F seguito da una dolce figurazione del primo violi­ no che sembra riprendere in mano la guida del discorso e frenare la ri­ bellione generale, ma nell’op. 95 il primo violino comincia a perdere la funzione di protagonista o almeno di battistrada nel proporre le idee principali. Dopo poche battute in cui il violento motto iniziale, quasi represso, sprofonda nella parte del violoncello, la ribellione dei quattro archi all’unisono riprende, più violenta e prolungata. A lìé irr o r o n hrif>

Esempio n. 21 GERALD A b r a h a m , La musica da camera di Beethoven, in AA.W ., L’età di Beetho­ ven, 1790-1830, a cura di Gerald Abraham, trad. it. di Gabriele Dotto, Donata Aldi e Maria Alessandra Lucioli, Feltrinelli, Milano 1984, p. 317. 6 Nel citato booklet del cofanetto Cd RCA-Victor RD60462, p. 13 (trad. it. p. 50).

5

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Un mondo di energia

Un altro carattere che è già degli ultimi quartetti è l’organizzazione dei frammenti, o meglio la volontà di produrre frammenti per poi uni­ ficarli e fonderli, ciò che costituisce, dall’op. 95 in poi, il lavoro artisti­ co di maggiore rilievo. È come se una vita organica, vegetale o anima­ le, fosse smembrata e chimicamente dissociata negli elementi primi, per ricomporsi attraverso vie sotterranee nella forma perfetta e nella sostanza limpida di un cristallo. È difficile individuare, nel I tempo, il bitematismo della forma sonata: le idee s’incalzano a vicenda, senza lasciarsi spazio, e la riconoscibilità è presto cancellata. Due frammen­ ti tematici spiccano, entrambi in re bemolle maggiore e non, come ci si attenderebbe almeno per il “secondo tema”, in la bemolle maggio­ re, e sono l’apparizione del morbido fluire di terzine nella parte della viola dopo la violenta ricomparsa del motto iniziale (vol. II, p. 26) e l’immateriale disegno del primo violino quindici misure dopo. Nel II tempo, Allegretto ma non troppo in re maggiore e in ritmo bi­ nario, il modo maggiore fa il possibile per rivelare i suoi segreti carat­ teri di desolazione e di umor nero. Per cominciare (esempio 22), la scala discendente a mezza voce dalla tonica, con suoni dai valori am­ putati e ridotti a tre sedicesimi. Poi, sempre a mezza voce, la melodia del primo violino, la cui linea tesa verso l’alto dovrebbe irradiare fidu­ cia, se non fosse per il livido chiaroscuro prodotto da una sorta di bas­ so albertino del secondo violino e della viola e dalle alterazioni, in quest’ultimo, delle note, che scavano nel terreno armonico. Anzi, ci si accorge presto che soprattutto la viola toglie al primo violino la guida della melodia. Quel che ancora resta dell’illusoria luce diffusa dal modo maggio­ re è turbato minacciosamente nelle btt. 23-24 da due sinistri accordi che interrompono il discorso musicale proprio mentre esso stava per

Esempio n. 22 146

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assumere colori più lieti e procedere con grazia verso una cadenza perfetta. Il primo potrebbe essere una settima di dominante da risol­ versi in sol maggiore (quindi, con improvvisa ma non difficile modu­ lazione), ma la normale aggregazione di RE grave (violoncello), DO, LA e FA diesis (i due violini, mentre la viola tace per la prima metà della bt. 23) è intorbidata dall’appoggiatura del MI bemolle nel bicor­ do del secondo violino. Nella bt. 24, l’accordo prodotto dai due violi­ ni, DO, MI bemolle, LA, FA diesis, sale di un semitono, DO diesis, MI bequadro, SI bemolle, SOL, mentre violoncello e viola, come nel­ la battuta precedente, scandiscono il funebre rintocco RE-RE all’otta­ va. Ecco quindi, in contrapposizione al RE grave, una settima diminu­ ita, incrocio di due tritoni e perciò doppio diabolus in musica. Quan­ to la settima diminuita, banalizzata dagli abusi del tardo romanticismo musicale, abbia in Beethoven forza dirompente, è stato discusso am­ piamente da Theodor Wiesengrund Adorno nella Philosophie der neuen Musik, e naturalmente, in perfetto calco “adorniano”, dal dia­ volo Sammael (“angelo del veleno”) introdotto da Thomas Mann nel XXV capitolo di Doktor Faustus. L’atmosfera si fa definitivamente lu­ gubre con la funerea meditazione della viola, in re minore (voi. il, p. 32), che apre un lungo processo di tormentose modulazioni. Questo lento fluire in cui le idee tematiche si decompongono e ricompongo­ no è chiuso da un lungo trillo in crescendo del primo violino e da una frammentazione di suoni in discesa cromatica: LA acuto del primo violino, SOL diesis, SOL bequadro che precipita su un LA con un sal­ to discendente di settima, e ancora SOL diesis, SOL bequadro (il co­ lore si fa sempre più nero, l’intensità del suono va estinguendosi), un’angosciosa legatura a un altro SOL, due FA diesis pianissimo. Ago­ nia torturante. Primo violino e violoncello, ai due estremi, enunciano entrambi un sommesso RE all’ottava superiore. Finito? Non ancora. Nella battuta seguente, prolungata da una corona, il primo violino ri­ pete il RE, il violoncello scende al SI, e riappaiono la viola con un FA bequadro e il primo violino con un LA bemolle. Ecco di nuovo, sem­ pre pianissimo, una settima diminuita, questa volta non minacciosa premonitrice di ciò che verrà, come nella bt. 24, ma colma dell’ama­ rezza di ciò che è stato. Una volta estinto il prolungarsi della corona, attacca subito il III tempo, Allegro assai vivace, ma serioso, in fa mino­ re e in ritmo ternario. In fa minore? In verità, l’incipit è in do minore (esempio 23). Que­ sto “serioso” III tempo è infatti un alto esercizio di eloquenza negati147

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Esempio n. 23

va, dominato dall’impiego su vasta scala di due figure retoriche: la preterizione o paraleipsis, in cui il soggetto afferma di non voler dire una cosa, e indicando ciò che afferma di non voler dire lo dice; l’iro­ nia, cioè l’affermare qualcosa per trasmettere un significato palese­ mente contrario a chi ascolta. Se dal fa minore del I tempo al re mag­ giore del II il passaggio era avvenuto a freddo, dopo la cadenza perfet­ ta e lo stacco, qui il passaggio dallo spettrale re maggiore a un presun­ to fa minore avviene a caldo, dopo quella settima diminuita. Ma proprio nella settima diminuita s’intravede una settima di domi­ nante risolvibile in do maggiore o in do minore. È in quest’ultima tona­ lità che XAllegro assai vivace si apre, smentendo l’armatura di chiave. Ancora una volta, com’è nell’indole dell’op. 95, la prima idea musicale è un veemente motto, una figura dal ritmo incisivo e dalla linea interrot­ ta su ciò che potrebbe essere la sensibile. Il motto, come al solito, è di­ chiarato due volte (la seconda volta, trasportato una terza minore so­ pra), e i due frammenti sono separati da una pausa forte e netta. Un’al­ tra pausa identica dopo il secondo enunciato; poi, trasportato ancora una terza minore sopra, il motto riappare, ma questa volta si prolunga nel tema intero, una melodia discendente a sbalzi e segnata da conti­ nue appoggiature colme di pathos (SOL nella bt. 5, RE bequadro nel­ la bt. 6), secondo una concezione melodica di cui si ricorderà Pëtr Il’ic Cajkovskij nel Quartetto n. 2 in fa maggiore. La prima sezione di que148

Energia e umor nero

sto III tempo si colloca tutta nella sfera tonale di do minore, e l’idea te­ matica iniziale è frantumata da un’ossessiva figurazione ritmica di va­ lori lunghi e brevi separati da pause di un sedicesimo; qualcosa di ben diverso dal ritmo puntato, poiché qui il suono è continuamente con­ trassegnato dal venir meno della continuità, dal sobbalzo e dallTintermittente interruzione del respiro. Questa prima sezione, dopo un ri­ tornello, sfocia nella seconda sezione dalla mentitrice armatura di chiave con quattro bemolle (fa minore? la bemolle maggiore?); è an­ cora un dichiarare altro da quel che si dice in realtà, ancora una paraleipsis, poiché il fluente e falsamente dolce disegno in sestine di ottavi del primo violino si colloca tutto in sol bemolle maggiore. L’idea di continuità che esso suggerisce, contrapposta al respiro sobbalzante della prima sezione, è riproposto nella terza sezione in re maggiore (vol. II, pp. 37-38). Senza soluzione di continuità, la quarta sezione ri­ presenta il tema iniziale e la sua frantumazione in figurazioni ritmiche ansimanti, ma questa volta davvero in fa minore, come indica l’arma­ tura di chiave. E un breve ritorno, poiché attraversiamo ancora una quinta sezione in re maggiore e una sesta in do minore; entrambe ri­ propongono il fluire di sestine e l’idea di continuità. Finalmente, l’ul­ tima sezione {Più Allegro, vol. II, p. 40) non elude la tonalità di fa mi­ nore dichiarata in armatura di chiave e riprende, come un conciso e agitatissimo compendio, le idee della prima sezione, ossia il tema e la sua frantumazione nella nota figura ritmica. Ciascuno degli archi con­ clude con un secco FA YAllegro assai vivace. Dopo il III tempo, in cui l’organizzazione dei frammenti raggiunge la massima tensione e la più alta sapienza compositiva, sette misure di Larghetto espressivo costituiscono il ponte tra quella musica piena d’inquietudine e d’instabilità e il Finale (esempio 24). Un tempo “interno”, dunque; anche questo carattere strutturale lega fortemente un quartetto bifronte come Top. 95 ai capolavori dell’ultimo periodo, in particolare all’op. 132 e all’op. 135. Alla poeti­ ca del frammento che regge il III tempo e che anzi ha dominato fin qui l’intero quartetto, il Larghetto espressivo alterna una meditazione in cui i suoni sono profondamente fusi e connessi in un contesto polifo­ nico di suprema densità. Siamo di fronte a una scrittura bachiana, a tutti gli effetti, e sull’ideale relazione tra Johann Sebastian Bach e gli ultimi quartetti beethoveniani ritorneremo. L’ampia apertura degli in­ tervalli di ottava nella melodia si restringe alla fine nella cellula motivica che è la tipica espressione del “lamento”: l’intervallo cromatico. 149

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Esempio n. 24

Ed ecco la sua funzione di ponte. Se il ritmo ternario delYAllegretto agitato si oppone al ritmo binario del Larghetto, la continuità è rap­ presentata non soltanto dalla persistente tonalità di fa minore, ma dal graduale crescendo (secondo una procedura simile a quella che lega il III al IV tempo nella Quinta Sinfonia) per cui la cellula di un semitono ascendente SI-DO si anima a poco a poco, diventa velocissima e qua­ si un trillo (bt. 2 delYAllegretto agitato, v. esempio 24), e infine s’inverte generando la testa del nuovo, bellissimo tema, profondamente affi­ ne al tema che apre il Finale dell’op. 132. Bellissimo e terribile. La prima semifrase è martellante, la seconda è un gesto di sovrana ribellione. Questa melodia tagliente e lavorata come ferro battuto passa da uno strumento all’altro sul vibrare vicen­ devole degli altri archi, calmandosi alla fine su una figurazione scandi­ ta secondo una prosodia usata nella metrica classica, quella dello ioni­ co a maiori: due ottavi e due sedicesimi (vol. II, p. 45). In queste bat­ tute conclusive dell'Allegretto agitato s’intravedono, soprattutto nel­ l’armonia, le possibilità implicite nella scrittura cameristica di Beetho­ ven: colori schubertiani si alternano a quelli schumanniani e brahmsiani. Tutto è concluso da un Allegro in fa maggiore, in ritmo binario e dalla scrittura “mendelssohniana” (qui l’impressione è davvero irre­ sistibile) che ci solleva a un’inattesa zona di luce radiosa. L’energia che percorre il sentiero dell’amarezza ci conduce al pri­ mo dei grandi quartetti conclusivi da noi affrontati nei nostri itinera­ r i)

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ri, Top. 132.1 cinque capolavori conclusivi furono a lungo un enigma e un libro chiuso. Dopo Γamarissimo insuccesso delle loro prime ese­ cuzioni, per cinquant’anni dalla loro nascita ancora si eseguivano in rarissime occasioni, ed era difficilissimo ascoltarli. Anche i collabora­ tori più stretti del Maestro stentarono a capire la loro misteriosa gran­ dezza. Persino alcuni ammiratori e biografi di Beethoven mostrarono imbarazzo, e per giustificare l’autore sostennero che nel comporre gli ultimi quartetti il Maestro aveva i nervi tesi e logori, e che certe stra­ nezze erano l’effetto della sordità che gli aveva impedito di ascoltare la propria musica. Il celebre segretario, curatore ereditario e biografo di Beethoven, Anton Schindler, ne tentò una difesa, ma non è chiaro con quale scelta di campo: «Se i nemici di Beethoven trovarono nei suoi ultimi lavori, e soprattutto in questi cinque quartetti, null’altro se non confusione e contraddizioni, è giusto rammentare a costoro che anche la confusione è onorevole se si fonda su intenzioni grandi e no­ bili ed è il risultato di assoluta purezza nell’uso dei mezzi artistici». Valga ancora a commento la pagina proustiana sul «vieux Beethoven, de qui tout le monde se moquait». Nella musicografia dell’Ottocento, Beethoven ebbe un nemico asperrimo nel dilettante di musica Aleksandr Dmitrevic Ulybysev (1794-1858), russo ma nato a Dresda, figlio dell’ambasciatore russo nella capitale sassone. Costui portò ai limiti del virtuosismo la sciocca motivazione dell’“incomprensibilità” attribuita ai cinque quartetti conclusivi: la sordità. Incapace di ascoltare, negli ultimi anni Beetho­ ven avrebbe scritto musica ammirevole sulla carta, ma sgradevole alle orecchie. Nel 1857, manifestando ostilità verso i tre “Rasumowsky”, Ulybysev lanciò un’ironica profezia, che si è avverata a dispetto dell’astiosa bou­ tade·. «Un futuro prossimo ci farà assistere alla riabilitazione degli ulti­ mi cinque quartetti. [...] Oggi molti giudicano grandi opere i quartet­ ti op. 59. Presto saranno considerate grandi le op. 127, 130, 131, 132 e 135. Si realizzerà allora la previsione di chi intravede, negli ultimi la­ vori di Beethoven, l’avvenire del quartetto»7. Ma già diciannove anni prima Robert Schumann, nel recensire un quartetto di Karl Gottlieb Reissiger, aveva scritto: «Si tratta di un quartetto composto per lo sva-

7 Beethoven, ses critiques et ses glossateurs, EA. Brockhaus, Leipzig - J. Gavelot, Pa­ ris 1857, pp. 267 ss. 151

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go di buoni dilettanti, che seguono con affaccendato interesse cose che un artista esperto afferra gettando un solo sguardo alla pagina; un quartetto da ascoltare in un salotto illuminato dal chiarore delle can­ dele e in compagnia di belle signore. Ma i veri amanti di Beethoven chiudono a chiave le porte e assaporano la gioia di ogni battuta, l’una dopo l’altra»8. L’orientamento generale mutò nell’ultimo quarto del secolo XIX. Decisivo fu nel 1870 il saggio di Richard Wagner dedicato a Beetho­ ven. L’interpretazione wagneriana in fase matura (ne abbiamo già par­ lato, così come abbiamo illustrato i precedenti e mutevoli giudizi di Wagner) si richiama al filosofo Arthur Schopenhauer e al suo libro fondamentale Die Welt als Wille und Vorstellung (“Il mondo come vo­ lontà e rappresentazione”). Com’è noto, Schopenhauer privilegia la musica rispetto alle altre arti. L’uomo è infelice perché dipende dalla volontà che lo rende incapace di vivere un’esistenza libera dai deside­ ri. Esistono vie di liberazione: la conoscenza, l’arte, l’etica, l’ascesi. L’arte è la sola funzione teoretica che libera l’uomo dalla sua indivi­ dualità, e gli consente di guardare i fenomeni al di là dell’illusorio velo di Maja. Fra le arti, la musica è quella che più di altre coglie la com­ plessità indicibile del mondo e la solleva a un linguaggio non condi­ zionato da alcun fenomeno e perciò universale. Nel giudizio di Wag­ ner, sul cui pensiero la lezione di Schopenhauer fu decisiva, Beetho­ ven già nella prima maturità era in grado di dire cose prima inesprimi­ bili con mezzi musicali. Quando la sua sordità divenne completa, il suo isolamento gli causò certo grandi sofferenze fisiche e psichiche, ma indirizzò le sue facoltà artistiche verso un linguaggio essenziale e assoluto, non legato a “rappresentazioni” individuali ed effimere. Co­ me esempio, Wagner addusse il Quartetto op. 131, letto da lui come una grandiosa metafora dell’esistenza di Beethoven. Si è discusso all’infinito sui connotati dell’“ultimo stile” di Beetho­ ven. Walter Riezler sottolinea la maestria di sintesi nell’affrontare le massime forme, la sinfonia e la messa, ma anche, in senso dialettico e complementare, un’accentuata autonomia nella condotta delle parti e l’importanza suprema riconosciuta al minimo particolare, ciò che si avvicina, aggiungiamo noi, al culto quasi tardo-romantico e persino

8 Zweiter Quartett-Morgen, in «Neue Zeitschrift für Musik», Vili, 49 (19 giugno 1838). 152

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simbolistico o espressionistico del singolo suono, della cellula sonora sospesa sul nulla e tendente alla page bianche. Commentando la volon­ tà beethoveniana di perfezione nel condurre le voci strumentali, Riezler ricorda: «Egli annotò in un quaderno di appunti, per dodici volte in tutt’e quattro le voci, le ultime quattro battute del tempo in forma di variazioni del Quartetto in do diesis minore, mantenendo immuta­ ta la prima voce e modificando appena il basso, solo perché non era del tutto soddisfatto della condotta delle voci di mezzo. E tutto ciò quando la sordità avrebbe dovuto renderlo indifferente alle concrete esigenze del timbro. Nelle ultime sonate e negli ultimi quartetti, innu­ merevoli sono i passi dove, con una o due battute, Beethoven riesce a schiudere tutto un mondo di sensazioni»910. Un altro connotato è la presenza contemporanea di melodie singolarmente semplici, quasi in­ genue, e di fortissimi contrasti, scatenati ad arte e contemplati con la sorridente amarezza che troveremmo in Lucrezio o nelle grandi balla­ te di Goethe. Nora manca il sorriso senza nubi, e l’allegria divertita giunge talora come un’ondata rinfrescante. Come osserva ancora Riezler, il caso ha voluto che l’ultima composizione terminata poco prima del rivelarsi di una malattia più grave delle altre, quella che lo condus­ se alla morte, sia una fra le sue più ricche di umorismo: il nuovo fina­ le aggiunto all’op. 130. Gli ultimi cinque quartetti e la Große Fuge nascono in un breve tratto di tempo, tra il 1822 e il 1826. Anzi, se ricordiamo che tra la pri­ mavera del 1822 e il febbraio 1825 Beethoven attese all’op. 127, tutti gli altri nascono, si può dire, insieme. Periodo tristissimo nella vita privata di lui, illuminato da una luce persistente: la volontà di rendere omaggio a Johann Sebastian Bach, e di realizzare quella sorta di “an­ nunciazione” trasmessa al mondo, nel circoscritto ma fervido ambien­ te intellettuale di Bonn, da Christian Gottlob Neefe, primo vero mae­ stro di Beethoven e riscopritore nel 1783 del Wohltemperiertes Kla­ vier1°. A parte la consanguineità dovuta ai comuni connotati del tardo stile beethoveniano, quei quartetti sono legati da relazioni tonali quan­ to mai trasparenti, che Ivan Mahaim giudica “premeditate”. Mahaim osserva come il Quartetto in si bemolle maggiore op. 130, centro cro9 W a lte r R iezler, Beethoven, trad. it. di Oddo Piero Bertini, a cura di Piero Buscaroli, Rusconi, Milano 1977, p. 307. 10 La prima edizione del Wohltemperiertes Klavier di Jo h a n n Sebastian B ach ap­ parve a Bonn presso l’editore Simrock nel 1801. 153

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nologico e aritmetico dei cinque capolavori conclusivi, sia anche il loro centro tonale. Se suoniamo al pianoforte un accordo di quattro suoni costituito dalle toniche delle tonalità fondamentali dei due quai tetti che precedono e dei due che seguono in ordine strettamente ero nologico Top. 130, sovrapponiamo MI bemolle (op. 127, mi bemolle maggiore, ultimato nel febbraio 1825), LA (op. 132, la minore, fine 1824 - fine luglio 1825), DO diesis (op. 131, do diesis minore, dicem­ bre 1825 - prima metà di agosto 1826), FA (op. 135, fa maggiore, lu­ glio-ottobre 1826). Riconducendo i quattro suoni dalla posizione lata alla posizione stretta e assumendo il FA come suono grave, otteniamo un accordo di settima di dominante alterato dalla quinta eccedente: FA, LA, DO (diesis), MI bemolle, e risolvibile in si bemolle maggiore, tonalità dell’op. 130. Ecco unificata la costellazione, la “pèntade”, come la definì Wilhelm von Lenz11. Studiando le relazioni neppure tanto segrete tra gli ultimi cinque quartetti e la loro simbologia nume­ rica, Mahaim isola inoltre, all’interno della pèntade, la triade dei quar­ tetti centrali op. 130, op. 131 e op. 132 (la “Trilogie”, come egli la chiama), diversi, per la loro libertà formale e per il maggior numero di tempi in cui si articolano, dal primo op. 127 e dall’ultimo op. 135, che osservano la tradizionale struttura quadripartita. Abbiamo usato più volte il termine “costellazione” per indicare il gruppo degli ultimi cinque quartetti. Carli Ballola (Beethoven, cit., p. 264) parla di “galassia degli ultimi capolavori”. Queste metafore coNaissance et renaissance des derniers quatuors, vol. Il, p. 385. Cfr. (indicato anche come Guillaume de Lenz o William de Lenz), Beethoven et ses trois styles, Lavinée, Paris 1855; v. anche la nuova edizione a cura di Michel-Dimitri Calvocoressi, G. Legouix, Paris 1909. Quanto all’individuazione dell’op. 130 come “centro tonale” della pèntade, lo stesso Mahaim (op. cit.,p. 385) di­ mostra come quelle relazioni tonali così sottili e perspicue non siano né inconsapevo­ li né casuali. Nella cerchia di amici di Beethoven, secondo la testimonianza di Alfred Ebert, nel gennaio 1824 (cioè a metà del lavoro di composizione dell’op. 127) si par­ lava già di un prossimo Quartetto in la minore, e del resto, in un quaderno di conver­ sazione del maggio 1820 si trova un abbozzo riferibile al Molto adagio dell’op. 132; anteriore, quindi, all’inizio della composizione dell’op. 127. D ’altra parte, già dal 1822 Beethoven era sulle tracce del tema fondamentale della Große Fuge tratto in for­ ma retrograda dall’illustre soggetto cavato, il nome B.A.C.H. (la conclusione del tema, SI, DO, LA, SI bemolle, è il retrogrado di B.A.C.H. ossia SI bemolle, LA, DO, SI, ciò che implica la tonalità dell’op. 130, si bemolle maggiore). In un quaderno di conversazione (fine dicembre 1825) c’è un abbozzo del tema iniziale dell’op. 131, con un SI diesis caratteristico di do diesis minore. 11

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■■mologiche ci incoraggiano a proporne una nostra, un po’ greve ma non inutile, quella di “ammasso di galassie”. Ciascuno dei cinque quartetti, considerato singolarmente, è già in sé una galassia. Ciascu­ no dei tempi, ogni sezione, talora ogni cadenza e ogni inciso, ha una Mia luminosità siderale, è una stella con il suo plasma igneo e la sua u n ibile forza di gravità. Ciascuna di queste unità d’energia ha i suoi equilibri tonali all’interno ed è legata da relazioni gravitazionali con i sistemi di tonalità delle altre; talora, tra tonalità e tonalità la distanza è .ibissale, cosmica. Uno fra i molti esempi, segnalato e commentato da Charles Rosen, e la qualità inconsueta e mirabile del modo con cui Beethoven risolve armonicamente nel i tempo del Quartetto in la minore op. 132. L’espo­ sizione va dalla tonica alla sopradoininante (da la minore a fa maggio­ re). Dopo un brevissimo sviluppo, l’esposizione si ripete con un per­ corso dalla dominante alla mediante (da mi minore a do maggiore). Entrambe le sezioni sono risolte sulla tonica12. Forza centrifuga e cen­ tripeta, il cammino su quel vertiginoro progressus ad infinitum che è il ciclo delle tonalità in due direzioni opposte, la via dei diesis e la via dei bemolle, si saldano in un sistema retto da ferrei rapporti matema­ tici che nella sfera visiva si traducono in equilibri di colori e di emo­ zioni. La grandezza monumentale e spesso minacciosa dell’ultimo Beethoven nasce anche dall’instabilità di questi equilibri, sempre sul filo del rasoio, sempre paurosamente oscillanti per un gioco d’illusio­ ni ottiche simile all’immagine dantesca della Garisenda, la torre incli­ nata di Bologna, che “sembra” crollare sul capo di chi la guarda dal basso quando una nube si muove verso la sua cima. Ma non è soltan­ to un’illusione ottica: l’oscillazione c’è davvero, e l’urto è gigantesco anche se poi l’intero organismo si ricompone. I contrasti scavano in profondità con forza inaudita. Ne è esempio, come nota Riezler (Beet­ hoven, cit., p. 334) l’improvviso unisono che nell’op. 132 interrompe con quattro battute in ritmo binario il Trio dello Scherzo e il suo ritmo ternario. Nelle opere beethoveniane guidate dall’ultimo stile, tutto si accentua: l’immaginazione visionaria da un lato, la sapienza e la per­ fezione formale dall’altro. La forma, scossa da una mai sperimentata libertà, non esplode proprio perché il dominio della.scienza musicale

12

C harles R o se n ,

Le forme-sonata, trad. it. di Riccardo Bianchini, Feltrinelli, Mi­

lano 1986, p. 283. 155

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si è immensamente rafforzato, e ciò rende a volte l’impressione para dossale di una scrittura scarna, all’osso. Hans von Bülow riferisce, in merito, le parole dette da Johannes Brahms durante una conversazio ne: «Beethoven non si è mai mantenuto fedele alle leggi della forma musicale con rigore tanto spartano, come nelle ultime sonate e negli ultimi quartetti, le sue composizioni più originali e più ricche di fantasia»13. Abbiamo reso ripetuto omaggio, in queste nostre pagine, alla ma­ gnifica monografia di Walter Riezler. Ad essa ricorriamo un’ultima volta poiché Riezler ci aiuta con una potente intuizione, nel senso proprio di “visione”. Egli coglie una forma simbolica, il rapporto vo­ lume-dinamica, che vale come modello ermeneutico e illustra con un’idea densissima ciò che l’analisi comparata dovrebbe spiegare con molte pagine. La musica dell’ultimo Beethoven ha caratteri - quelli, appunto, illustrati da noi poc’anzi - che sono poeticamente compen­ diati nell’immagine goethiana dell’ultima scena di Faust (w. 1184411845): Waldung, sie schwankt heran, Felsen, sie lasten dran... Le rocce “gravano”, la foresta “ondeggia”14. Ferrea e monumenta­ le saldezza dell’arte compositiva, della polifonia e del contrappunto, e libero fluttuare dell’invenzione. All’analogia tra musica e immagine poetica si associa l’analogia con i maestri della pittura rinascimentale e postrinascimentale, in cui la concezione cristiana della vita spiritua­ le, fortissima nell’interiorità dell’artista, entra in crisi nella dinamica del mondo sensibile, mobile e instabile. Nota Riezler nella pagina ci­ tata: gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Paolina mostrano fi­ gure fluttuanti, «cariche di forza fino a scoppiarne, che invece dovreb­ bero stare ben salde sulle gambe», e una fluttuante instabilità percor­ re le figure di Rembrandt nel Figliuol prodigo. Si allarga così un fertile campo di metafore e di analogie. Il Quartet­ to in la minore op. 132 è, nella sostanza viva dell’invenzione, pittorico.

13 H a n s VON b ü l o w , Briefe und Schrifen, 8 voll., herausgegeben von Marie von Bülow, Breitkopf & Härtel, Leipzig 1895-1908, vol. ni, ρ. 445, nota. 14 W a l t e r R ie z l e r , Beethoven, c it., ρ . 3 1 2 .

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l-o è da cima a fondo, e lo è subito nel I tempo, in la minore e in ritmo !'inario, che segue di alcuni mesi la composizione della Nona Sinfonia >-d è costituito da otto misure d’introduzione lenta {Assai sostenuto) e da un Allegro, entrambi nella tonalità d’impianto {esempio 25).

Esempio n. 25

È stato notato come questa introduzione, diversamente da quel che accade per i quartetti op. 127 e 130, non sia in contrasto dramma­ tico con il tempo veloce di esposizione che segue, ma sia l’espressione di uno stato d’animo unico. Il tema fondamentale, dolente, energico e incisivo come un coltello affilato, era già anticipato dal primo violino nelle btt. 5-12 âeûlAllegro, prima dell’inattesa battuta unica di Adagio (bt. 13). La ripresa immediata dell’Allegro ripropone il tema affidan­ dolo, con una straordinaria e virtuale Klangfarbenmelodie, a tutti e quattro gli strumenti, che se lo rimbalzano una semifrase dopo l’altra in quest’ordine: secondo violino raddoppiato dal violoncello, viola, secondo violino, primo violino {esempio 26).

Esempio n. 26 157

Un mondo di energia

Così il tema si diffonde nel sangue della musica, entra in ogni capii lare, coinvolge gli strati profondi, medi e alti dell’anima e delle passio­ ni. Commentando i successivi abbozzi di questo tema, Ivan Mahaim (op. cit., vol. II, pp. 386-387) mostra come questi appunti tematici (da lui riprodotti su pentagramma) procedano alla maniera di una nebu­ losa che lentamente si condensi in materia stellare. Il primo abbozzo traccia la melodia solo nella sua prima semifrase, dalla tonica LA all’emozionante sensibile SOL diesis, seguita, come in versione defini­ tiva, da FA-MI; a questo punto, però, l’ispirazione vacilla, e Beetho­ ven non trova di meglio che ripetere la figurazione della semifrase te­ matica all’ottava più alta, partendo dalla dominante. Poi si perde. Nei successivi quattro abbozzi, Beethoven lavora con tormentosa fatica sull’iterazione martellante FA MI, e soltanto nella sesta e ultima anno­ tazione l’enigma si scioglie e l’ispirazione trova la via aperta. Al I tempo, vigorosamente e ossessivamente monotematico, segue un tempo Allegro ma non tanto in la maggiore e in ritmo ternario, con funzione di Scherzo. Anche in questo II tempo, Beethoven adotta il monotematismo: il tema, dopo la prima esposizione e il ritornello, ri­ torna variato nella sezione in fa maggiore (ma con armatura di chiave in do maggiore). Singolare come gli unisoni dei quattro strumenti, in preparazione al tema, siano melodicamente di rilievo quasi nullo, mentre nettamente disegnato è il tema vero e proprio (esempio 27):Il Allegro ma non tanto.

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Esempio n. 27

Il Trio, sempre in la maggiore e nello stesso ritmo dello Scherzo (3/4), introduce un nuovo tema dolce e fluente. Lo possiamo conside­ rare una pastorale musette, con il bordone alla dominante visibile in 158

Energia e umor nero

trasparenza. Infatti, soltanto i due violini sono impiegati nell’esposi­ zione. Il primo violino disegna la bella e semplice melodia ingentilita clair appoggiatura ascendente e dalla cadenza femminile alla fine della prima semifrase, mentre al secondo violino spettano bicordi spezzati in cui la dominante MI è il basso di riferimento. Viola e violoncello tacciono. Se sovrapponiamo la melodia del primo violino a quella spe­ cie di basso albertino del secondo, si configurano accordi di terza e se­ sta per moto parallelo, per cui si potrebbe parlare di falso bordone. Più importante di queste descrizioni è, naturalmente, l’ascolto: il dol­ ce effetto del primo violino nei suoni sovracuti si assimila al registro musette dell’organo. Energia e umor nero, tema di questo capitolo, ci invitano ancora a una rapida riflessione. L’inizio dello Scherzo (di nuovo esempio 27) ha una forza calma e trascinante verso l’alto. Il tema del primo violino che appare alla bt. 9 è tagliente e doloroso, poiché dopo l’iniziale moto ascendente una partenza sulla dominante MI potrebbe illuderci che l’ascesa continui proprio da quel quinto grado di tensione vitale e d’instabilità controllata. La linea discendente della melodia è energica e dolente; la linea ascendente e quasi minacciosa del violoncello, par­ tendo dalle profondità risonanti del registro grave, diffonde un colore scuro. Una tendenza progressiva dal bianco allo scuro si avverte ora proprio nel Trio. La musette del primo violino, che con il LA della ter­ za ottava sopra il DO centrale (btt. 2 e 13 del Trio) invade il registro sovracuto sfiorando i suoi confini per molte altre misure, ha una lumi­ nosità fantasmatica, tutt’altro che rassicurante. Poi, quando il violon­ cello abbandona il lungo pedale di tonica e si trasforma in un basso staccato e saltellante (btt. 23 ss., vol. II, p. 171), il Trio assume le mo­ venze di un Ländler campestre e scende sulla terra, fino ad assumere un carattere feroce nei già ricordati unisoni con salto di ottava (L’istesso tempo, vol. II, p. 172). Nel 1818, Beethoven aveva adombrato il progetto di una “Sinfonia nei toni antichi”, che egli avrebbe voluto scrivere insieme con un’altra poi divenuta la Nona. Per “toni antichi” sono da intendersi non sol­ tanto i modi autentici e piagali della tradizione medievale d’Occidente, ma anche i sistemi e le scale presenti nel folclore musicale europeo il cui linguaggio è estraneo al nostro temperamentum acquabile. Quin­ di, non le scale elleniche discendenti dell’era precristiana, ma le scale ascendenti secondo i modi dorico (con base RE), frigio (dal MI), lidio (dal FA) e misolidio (dal SOL), oltre alTipodorico (dal LA) e così via, 159

Un mondo di energia

e, insieme, le scale celtiche (irlandese, scozzese, gallese), con caratteri­ stiche che non coincidono con i nostri modi maggiore e minore pro­ pri del sistema tonale moderno. Fra queste caratteristiche: la struttura pentafonica e il settimo grado abbassato rispetto alla nostra scala mag­ giore, il che determina l’assenza della sensibile15. Trentatreenne, al tempo in cui componeva la Terza Sinfonia “Eroica”, Beethoven entrò in contatto con un editore di Edimburgo, George Thomson (17571851), che amava raccogliere e pubblicare canti popolari scozzesi, in­ glesi, gallesi e irlandesi. Fu per lui che Beethoven rielaborò una ricca serie di canti popolari di quelle terre a partire dal 181016. Perciò, quan­ do concepì la “Sinfonia nei toni antichi” egli era già da tempo venuto a contatto con musiche estranee al nostro sistema tonale. Il lavoro di Beethoven non mirava a rendere tonali quei canti arcai­ ci, ma tendeva proprio ad accentuare il più possibile, mediante l’ar­ monizzazione, il loro carattere “estraneo” ed esotico, partendo dal principio che fra le infinite armonie una soltanto si adatta alla specie e al carattere della melodia. Un atteggiamento diverso da quello di Jo­ hann Sebastian Bach rielaboratore di Palestrina in senso tonale.

15 Per una bibliografia minima da consigliare al lettore in cerca di melodie celtiche, di esempi illuminanti e di buona filologia: D o n a ld M acCormick, Hebridean Folk­ songs, Clarendon Press, Oxford 1969; GRACE J. CALDER The Ancient Music o f Ireland, The Dolmen Press, Dublin 1968; Caneuon Cenedlaetbil Cymru (The National Songs o f Wales), edited by E.T. Davies and Sydney Northcote, Boosey & Hawkes, London 1959; Pictures in Song, edited by Robert McLeod, Bayley & Ferguson, London 1917. 16 La prima lettera di Beethoven a George Thomson, da Vienna, è di mercoledì 5 ot­ tobre 1803 (Le lettere di Beethoven, a cura di Emily A nderson, trad. it. di A. Ernest Howell e Michela Goia Alfieri, ILTE, Torino 1968, pp. 109-110). Le raccolte di canti rielaborati da Beethoven, delle quali indichiamo gli anni di composizione, sono: 25 Iri­ sche Lieder W oO 152 [1810-1813] per voce, pianoforte, violino e violoncello, Preston, London - Thomson, Edinburgh 1814; 20 Irische Lieder WoO 153 [1810-1813] per uguale organico, Preston, London - Thomson, Edinburgh 1814-1816; 12 Irische Lie­ der WoO 154 [1810-1813] per uguale organico, Preston, London - Thomson, Edin­ burgh 1814-1816; 26 Wallisische Lieder WoO 155 [1810 circa] per uguale organico, Preston, London - Thomson, Edinburgh 1817 (ni voi. di una raccolta contenente nei primi 2 voli, analoghi canti curati da Franz Joseph Haydn e Leopold Kozeluch); 25 Schottische Lieder op. 108 [1815-1816] per una o più voci, pianoforte, violino e violon­ cello, Preston, London - Thomson, Edinburgh 1810; 12 Schottische Lieder WoO 156 [1817-1818] per uguale organico, in varie edizioni incomplete (Preston 1822, Thom­ son 1824-1825), e in edizione completa, Preston, London - Edinburgh 1839-1841. 160

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Tutto questo ha grande importanza per chi voglia ascoltare il III tempo del Quartetto op. 132 con vera intelligenza. Questo tempo Molto adagio (v. l’incipit, esempio 28) ha un sottoti­ tolo in tedesco: Heiliger Dankgesang eines Genesenen an die Gottheit, in der lydischen Tonart. In margine al manoscritto originale nella Deutsche Staatsbibliothek di Berlino è scritta da altra mano una tra­ duzione italiana: Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico. Heiliger Daafegesang eines Genesenen an die Gottheit, in der lydischen Tonart. (Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito,in modo lidico.)

Allineiamo subito alcune annotazioni. a) “Canzona” è grafia arcaica, in uso dal secolo XIII al XVI e oltre, per dire lo stesso che “canzone”. Il maldestro traduttore non intende­ va alludere in alcun modo, crediamo, alla “canzona” per voce o liuto o cembalo oppure organo dei secoli andati; si tratta soltanto di una cattiva traduzione inutilmente arcaizzante. b) Nella traduzione italiana non è reso il significato che nel testo te­ desco è dovuto all’aggettivo heilig, “sacro” (o “santo”). c) La divinità cui si fa appello è certo il Dio cristiano o almeno un concetto teistico e monoteistico, non certo una divinità naturalistica secondo pagane nostalgie. Il concetto non è tuttavia coincidente con l’idea cristiana (cattolica o riformata) del Dio creatore e trinitario, poiché ciò stonerebbe con la libertà di pensiero di Beethoven, né è immune da qualsiasi riferimento alla mitografia pagana ó almeno pre­ cristiana. Beethoven amava simili riferimenti; si pensi all’invocazione e all’atto di ringraziamento nel Finale della Sesta Sinfonia. Non vi av­ vertiamo certo una disposizione d’animo cristiana né un’estetica cri­ stiana. 161

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d) “Guarito” da che cosa? È in senso letterale o traslato? Nel 1823, Beethoven era stato colpito da una dolorosa affezione agli occhi, da aprile fino al gennaio 1824. Era stata tanto grave da richiedere l’oscu­ ramento della stanza e una benda sugli occhi durante la notte. Ma la composizione del Quartetto op. 132 ebbe inizio soltanto alla fine del 1824, e il riferimento sarebbe troppo lontano17. Meglio è pensare alla grave malattia dell’aprile-maggio 1825, che colpì lo stomaco e rim e­ stino del Maestro e fu dovuta all’eccesso di caffè, spezie, vino e alcoli­ ci d’ogni tipo. e) Il modo lidio corrisponde a una scala ascendente con base FA. Non è la nostra scala di fa maggiore, poiché c’è il SI naturale in luogo del SI bemolle. Come osserva Riezler {Beethoven, cit., pp. 309-310), la regione della sottodominante manca dello “spazio sonoro”, e la con­ seguenza è un perenne oscillare tra il do maggiore e il fa maggiore, che s’intensifica verso la conclusione di questo in tempo, dove l’apparente do maggiore s’impone sempre per poi lasciare luogo a fa maggiore. «Da Palestrina, non è più stata scritta musica così completamente “imponderabile” e fluttuante». La linea della melodia, in ritmo binario, inscindibilmente unita a procedimenti d’imitazione che la seguono come l’ombra segue la per­ sona, e l’intensità di suono sotto voce, generano una situazione poeti­ ca di profondissima concentrazione spirituale. Le ombre lunghe dei procedimenti imitativi rendono un’immagine di crepuscolo che sta cedendo alla notte stellata. Questo stato d’animo è interrotto alla fine del Molto adagio dal DO diesis del secondo violino (voi. il, p. 173), che si annuncia come sensibile di re maggiore, tonalità dell'Andante in ritmo ternario, che ora si apre con il LA del primo violino, una domi­ nante misteriosa e piena di attesa. Il LA si protende in un lungo trillo, mentre gli altri archi si rimbalzano un tema di straordinaria qualità. Né una marcia né una danza: piuttosto un gioco volante e scattante con vigorosa leggerezza, affine al Trio dello Scherzo nella Sonata per pianoforte op. 101. C’è anzi quasi lo stesso rapporto intervallare tra le tonalità: nel Quartetto op. 132 l’Andante è una terza minore sotto ri­ spetto al Molto adagio, nella Sonata op. 101 il Trio del II tempo è una

17 C fr. E d w a r d L a r k in , Storia clinica di Beethoven, appendice a M a r t in C o o p e r , Beethoven, l’ultimo decennio 1817-1827, cit., p. 498. Erano allora medici curanti del Maestro il dottor Jakob Staudenheim e il dottor Anton Braunhofer.

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terza maggiore sotto il I tempo. Anche qui, nell’op. 132, ΓAndante è poco terrestre: è aereo, e il suo volare con salti di ottava e delicate fi­ gurazioni di biscrome ha una natura libera da ogni peso materiale. Emozionante è per noi la didascalia al principio dell’Andante: Neue Kraft fühlend, “sentendo nuova forza”. È come se l’energia fosse tutta volata verso il cielo nel Molto adagio, atto di elevazione mistica entro una visione non si sa bene se trascendente o immanentistica, se cristia­ na o pagana o kantiana, ed ora dalle profondità dell’anima una rinno­ vata energia erompe e riavvia il discorso musicale nel sistema tonale consueto. Ma riprende il Molto adagio in modo lidio, con la sua luce ormai notturna e lo sdoppiamento di tonalità, fa maggiore e do mag­ giore. Ritorna con alternanza VAndante, che alla fine si apre ancora nel Molto adagio, ma con una nuova melodia, derivata certo dall’ini­ ziale cellula DO-LA ma sviluppata in un disegno che termina sul SOL, non si sa bene se sopratonica di fa maggiore o dominante di do mag­ giore. Si direbbe che il ricorso alla modalità generi qui un’illusione ot­ tica, un gioco di tonalità non messe a fuoco. Se questo cielo è nottur­ no, come lascia intendere la didascalia Mit innigster Empfindung (“con intimissimo sentimento”, scrive in italiano l’anonimo traduttore, ma sappiamo quale sia la storia semantica di Empfindung nella cultura musicale tedesca), se la notte è lunare, si direbbe che vi siano in cielo due lune, l’una il riflesso sulle nubi di quella vera. Il ricorso ad immagini visive, quasi sempre abusivo, è reso qui ob­ bligato dalla presenza di un elemento pittorico nelle tre sezioni alter­ nate in tempo Molto adagio: la luce contro l’ombra. Da questo ele­ mento pittorico nasce una particolare intensità delYEmpfindung, che raggiunge l’estasi dinanzi alla visione lunare. Proviamo ad esaminare queste analogie. L’ambiguità tonale prodotta dall’uso del modo lidio potrebbe tradursi visivamente, si diceva, nel fenomeno del doppio di­ sco lunare: la luna si riflette sulle nubi, ma l’immagine riflessa è effi­ mera poiché lo strato di nubi è instabile e fluttuante così come fluttua ed è inafferrabile l’armonia lidia nell 'Adagio molto dell’op. 132. Si è già detto come Walter Riezier associ alla musica del terzo stile beethoveniano immagini pittoriche in cui potenti volumi carichi di energia fluttuano e oscillano liberamente: Michelangelo, Rembrandt. Un pit­ tore tedesco dell’età barocca che avrebbe influenzato con le proprie scene notturne Rubens, Claude Lorrain, Rembrandt, fu Adamo Elsheimer (Francoforte sul Meno, 18 marzo 1578 - Roma, sepolto Γ11 dicembre 1610). Nel dipinto Die Flucht in Aegypten (“La fuga in Egit163

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to”, 1609), proveniente da Düsseldorf e oggi nell’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera (tavola 2), Elsheimer costruisce una massa quasi interamente controluce: nella parte superiore del quadro, un cielo uniforme dal colore verde oliva, nella parte inferiore la sagoma di un bosco di un verde opaco e cupo tendente al nero. Soltanto tre piccole zone luminose rompono l’impenetrabile oscurità. A sinistra, dove la massa boscosa è più massiccia e si spinge verso l’alto, il fuoco rutilan­ te acceso in una caverna, alla cui vampa si riscalda Giuseppe; al cen­ tro, dove la massa già ristretta si estende di nuovo pur se in minor mi­ sura, una zona anch’essa rossastra per bagliori ma soltanto di riflesso, con Maria e il bambino nella culla; a sinistra, dove la massa boscosa si assottiglia e ha termine, il disco lunare, bianco argenteo in una plaga del cielo lievemente più chiara, grigio-verde. Ciò che più attiene alle nostre analogie è il fatto che nell’unica zona luminosa del quadro non vivida di colore acceso e rosseggiante ma rischiarata da candore - così come sono tonalità “candide” il do maggiore e il fa maggiore tra cui fluttua l’ambiguità del modo lidio nell 'Adagio molto - vi sia lo sdoppia­ mento della fonte luminosa: la luna della Fuga in Egitto si riflette in uno specchio d’acqua. Così Elsheimer dà dignità di topos a un effetto pittorico molto amato, due secoli più tardi, dalla pittura preromantica e romantica. Il topos ha una storia, e la storia gli impone le varianti. Nel quadro di Elsheimer la luna è bassa sull’orizzonte. E più alta, inonda di luce argentea il cielo tanto da eclissare le stelle, è il tipico silberner Mond dei romantici, nella più complessa fra le versioni del celeberrimo qua­ dro di Caspar David Friedrich, Mann und Frau in Betrachtung des Mondes (“Uomo e donna in contemplazione della luna”, circa 1818), nella Nationalgalerie di Berlino (tavola 3). Fra le altre versioni del di­ pinto di Friedrich ve n’è ima con uomo e donna e la luna in posizione diversa, oppure un’altra, Zwei Männer in Betrachtung des Mondes (“Due uomini in contemplazione della luna”), in cui al posto della donna, silenziosa fiancheggiatrice dell’uomo alla sinistra di lui, con un velo o uno scialle sul capo e il braccio destro appoggiato con amore e fedeltà alla spalla del compagno, c’è un uomo colto nello stesso gesto, ma con il braccio appoggiato alla spalla dell’amico e sodale in un at­ teggiamento di vecchia amicizia, non di amore ineffabile. Anche la na­ tura circostante, nel dipinto con i due uomini, è più selvaggia: manca­ no i delicati alberelli sulla destra, sostituiti da un’intricata sterpaglia. La maggiore diversità è nella luce lunare: la luna sta appena sorgendo, 164

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non se ne vede il disco ma soltanto un diffuso chiarore che sbianca la zona inferiore del cielo e si diffonde misteriosamente come una candi­ da nube priva di contorni. La versione riprodotta in questo libro dalla tavola 3 è quella che presenta maggiori analogie con la musica del Quartetto op. 132 e, nel­ lo stesso tempo, con un grande testo poetico. Entra in scena finalmente la poetessa Marianne von Willemer (1784P-1860), apparsa fuggevol­ mente al principio di questo libro, e legata a Goethe da una casta affi­ nità elettiva. I suoi testi poetici sono ispirati, felici nell’invenzione e perfetti nel metro e nel linguaggio; certo, tanto elettivamente affini allo stile goethiano, da essere “strappati” alla loro vera autrice e so­ vente attribuiti a Goethe. È ciò che accadde con le due Uriche Suleika I e Suleika II, messe in musica da Schubert in due sublimi Lieder. Ver­ so il 1828, Marianne e il vecchio Goethe decisero di non vedersi più, e lei gli promise che ad ogni plenilunio avrebbe pensato intensamente a lui. Se egli avesse guardato la luna piena nel cielo notturno, avrebbe sentito in sé quel pensiero. In principio, forse, era la luna. Goethe scrisse la sua ultima grande poesia a Dornburg, il 25 agosto 1828, e la intitolò Dem, aufgehenden Vollmond (“Al plenilunio che sorge”). Willst du mich sogleich verlassen? Warst im Augenblick so nah !... «Subito vuoi abbandonarmi? Per un attimo, eri così vicina! Masse di nubi ti oscurano, ed ecco, non ci sei più. Ma tu senti la mia pena, vedo il tuo margine, lassù, brillare come una corona di stelle. La tua luce mi rivela che sono amato, anche se chi amo è ancora così lontano. Allora, in alto! Sempre più chiara, limpida via in pieno splendore? Anche il mio cuore doloroso batte più veloce: colma d’infinita beati­ tudine è la notte». Überselig ist die Nacht Nelle tre brevi strofe dell’elegia di Dornburg esiste un dramma in miniatura, un modello essenziale di teatro. C’è il grande scenario, con le nubi nere o blu e la luce bianca e diffusa dell’astro: uno di quei quadri che nella tragedia o nel melodramma sono il momento notturno e subli­ me. C’è un dialogo tra due attori, non un monologo, poiché uno dei 165

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due si esprime con le parole, l’altro parla con la sua luce. Il dipinto di Friedrich, Uomo e donna in contemplazione della luna, può essere la locandina teatrale. In questa immagine, da sempre misteriosa, donna e uomo sono vicini, e la contemplazione del plenilunio consacra la loro perfetta intesa e la loro Empfindung. Nell’elegia di Goethe essi sono lontani, ma la contemplazione della luna li unisce idealmente. Nel quadro di Friedrich c’è però un enigma in più, la doppia luna, a suggerire che al di là di ogni visione c’è “il totalmente altro”, per usa­ re le parole di Max Horkheimer, ciò che non è mai svelato fino in fon­ do. Questo particolare lega la goethiana elegia di Dornburg e il dipin­ to di Friedrich con il Molto adagio del Quartetto op. 132 di Beetho­ ven, ed ecco un altro dei possibili triangoli magici, Goethe-Beethoven-Friedrich, cui la disciplina esoterica può ricorrere perché la cate­ na delle rivelazioni cominci a saldarsi. Se immaginiamo, nell’ultima sezione del Molto adagio (vol. II, p. 178, primo sistema di pentagrammi), come simbolo musicale della luna il motivo DO-LA-SOL-DO-RE-DO, collocato in fa maggiore ma sospeso, nel secondo inciso DO-FA-SOL-LA-FA-SOL-LA-SOL della semifrase, su quell’enigmatico SOL che rende la tonalità ambigua (do maggiore?) così come essa traspare dal modo lidio, ecco la “seconda luna”, l’immagine riflessa dell’astro: l’imitazione del motivo trasposta in do maggiore, inaugurata dalla cellula SOL-MI e sospesa su un al­ trettanto enigmatico RE che suggerirebbe un’altra imitazione di sol maggiore, poiché la via aperta potrebbe prolungarsi all’infinito. Il motivo, sino al termine del III tempo, si ripete continuamente so­ vrapponendosi a sé stesso. L’effetto è di fissità ipnotica, preludio al­ l’estasi. Nell’estasi, tutto è immobile, e tutto si concentra nell’oggetto della visione, mentre il soggetto si riduce a un punto, a un angolo po­ sto al margine. Non ne vediamo il volto, poiché quel volto è il nostro, i contemplanti siamo noi, con noi soggetti s’identifica il pittore sogget­ to. Ogni scena dipinta da Friedrich è estatica, e per questo le sue figu­ re umane sono sempre effigiate di spalle. Esattamente il contrario ac­ cade in una situazione di perfetta razionalità, con i sensi svegli e le sen­ sazioni controllate: nel dipinto Las meninas di Diego Velâzquez, dove il pittore effigia sé stesso mentre guarda verso di noi che ne vediamo il volto, ma vediamo anche l’oggetto che egli ritrae, la coppia regale di Spagna riflessa nello specchio sul fondo. Il IV tempo, Alla Marcia, assai vivace, in la maggiore e in ritmo bi­ nario, è ricco di sorprese nella sua brevità. È costituito da tre sezioni. 166

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La prima, otto misure con ritornello, espone il tema con l’inciso ini­ ziale (MI-LA in ritmo puntato) affidato al solo primo violino e il se­ guito della prima semifrase al secondo violino all’unisono con il pri­ mo e agli altri due archi per moto contrario, ciò che rende un effetto di robustezza. Anzi, una spiritosa allegria viene dall’interrompersi della prima semifrase sulle due note scandite con vigore, RE e DO diesis (DO diesis e SI, con effetto analogo, alla fine della seconda se­ mifrase). È un perentorio invito a ritornare sulla terra dopo l’estasi (iesempio 29).

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La seconda sezione, sedici misure con ritornello, varia la linea me­ lodica mantenendo la figurazione ritmica. Ma il tono di robusta mar­ cia è riservato alla viola e al violoncello, mentre il secondo violino agi­ sce per moto contrario e il primo violino esce dalla cornice finora de­ lineata, acquistando leggerezza e trasformando i ritmati passi di mar­ cia in slancio lirico. La terza sezione, Più allegro (vol. II, p. 180) sfiora rapidamente le aree di la minore e di fa maggiore insediandosi in do maggiore. Il primo violino declama un recitativo sul tremolo degli al­ tri archi, lo ripete con una breve sosta in re minore, e dopo quattro battute di cadenza in miniatura (Presto) si fa sommesso in una breve battuta lenta (Poco adagio). Lina cellula a chiasmo, MI-FA, FA-MI, si rivela un’appoggiatura sulla dominante di la minore, la tonalità con la quale attacca subito il V tempo, Allegro appassionato (esempio 30), in la minore e in ritmo ternario.

167

Un mondo di energia

Ci accorgiamo subito che dalla seconda metà della cellula a chia­ smo, FA MI, è tratto il dolente richiamo che costituisce la testa del tema. A nessuno sfugge, inoltre, la parentela tra il tema e quello che apre il Finale del Quartetto op. 95. Là come qui, una cellula di due suoni che anticipa l’incipit della struttura tematica; una prima semi­ frase di due battute che altro non è se non la duplicazione della cellu­ la, rovesciata nell’op. 95 e diretta nell’op. 132; una seconda semifrase che traccia un’ampia linea melodica; un antecedente martellante ver­ so il basso e scarno di materia, e un conseguente fluido e vigoroso nel­ la carne e nel sangue. Le differenze sono tanto più notevoli. Alle­ gretto agitato dell’op. 95 (esempio 24) le otto battute che espongono il tema (btt. 3-10, vol. II, p. 41) sono una struttura binaria seguita da un’estensione di altre quattro battute che si concludono all’unisono sulla sopradominante RE bemolle. Nell’esposizione, il primo violino agisce con continuità nel ruolo di protagonista. Nel Finale dell’op. 132, la cellula martellante che è testa del tema è affidata al secondo violino (btt. 1-2), e il primo violino s’impadronisce del tratto successi­ vo del tema a partire dalla bt. 3. Poiché a questo punto il tema s’inter­ rompe sulla sottodominante e su un’armonia di settima di dominante che sembra doversi risolvere in do maggiore, tonalità relativa di la mi­ nore (ciò che in realtà non avviene), esaminiamo il tema nella sua for­ ma intera, come si presenta nelle btt. 11-26. Qui non c’è alcuna esten­ sione; la struttura binaria del tema (16 misure, un periodo musicale dai contorni esatti) ha un rigore matematico, e si conclude con una ca­ denza perfetta. Nel Finale dell’op. 95 l’energia dolorosa è incerta sulla direzione da prendere, come sembra suggerire, dopo l’estensione di quattro bat168

Energia e umor nero

tute, l’elusione rappresentata dalla sopradominante, in cui s’intravede una cadenza d’inganno in senso proprio. Nel Finale dell’op. 132, la cadenza perfetta a conclusione del tema indica come la passionalità si accompagna a decisione, o a certezza del proprio destino. In compen­ so, il rimbalzare del tema dal secondo al primo violino accentua i con­ flitti interiori, e la densa scrittura polifonica sembra appellarsi alle profondità dell’anima. Concluso il tema, una lunga clausola di sedici battute commenta la situazione emotiva con rinnovata passionalità, come un ritorno di fiamma dopo la cadenza perfetta su un inquieto fremito del secondo violino e della viola. All’inizio della clausola, ha effetto lacerante l’urto tra l’armonia di la minore prodotta dai tre ar­ chi più gravi (LA-MI-MI) e il FA del primo violino (vol. II, p. 181) che inaugura una variante dell’inciso melodico successivo, nel tema d’aper­ tura, alle due cellule martellanti. Alla bt. 51 appare un secondo tema in sol maggiore, ciò che rispon­ de a grande libertà e insieme a stretta logica, poiché questa tonalità non è, come ci aspetteremmo, secondo i canoni, la relativa maggiore di la minore (do maggiore), ma la tonalità alla dominante di tale rela­ tiva maggiore. È difficile considerare uno sviluppo la sezione succes­ siva, poiché il tema principale, ancorché in fa minore e in altre tonali­ tà, riappare più volte nella struttura originaria. Un accelerando condu­ ce a una lunga coda (Presto, vol. II, p. 186), che dopo diciotto battute in la minore si trasferisce in la maggiore. È un’energia solo apparente­ mente rischiarata da luce serena. L’energia, qui, più che lieta è sovrec­ citata, come indicano verso la conclusione i suoni staccati in sestine dei due violini col punto d’arco. Riezler (Beethoven, cit., p. 345) giudica molto dubbia l’interpreta­ zione di questo Finale. Poiché il tema principale appare tre volte inva­ riato nella tonalità fondamentale (btt. 1-34, 90-123, 176-191), alcuni studiosi lo definiscono un rondò. La triplice ripetizione si trova però anche in tempi completi di sonata, dove la prima parte viene eseguita due volte.

169

3. FORMA PLASTICA E CAVITÀ INTERIORE

Per giustificare il titolo di questo paragrafo non abbiamo migliore espediente che un piccolo repertorio di immagini e di analogie. Nei quartetti di Beethoven esistono, unificati da magistrale fusione ma rico­ noscibili in sé, modi di essere dell’energia musicale. Poiché in queste partiture l’energia è, anzi, è l’essere della musica, si tratta di autentici modi di essere dell’energia, in senso ontologico. Si è visto come l’ener­ gia sveli la propria origine e abbia una carica impulsiva, e come assuma colore in armonia con uno stato d’animo. Essa ha anche una particola­ re qualità fìsica, un tessuto materiale. Può essere una materia plastica e guizzante, che sfugge dalle dita e si muove scattando per forza propria, quasi non più modellata dal suo inventore ma balzata fuori come una molla elastica. In questi casi, è essa che determina e disegna il proprio spazio, creando intorno a sé, nell’intelletto inventivo del compositore, profonde cavità in cui ritrarsi per balzare di nuovo, inarrestabile. Lo slancio dell’energia musicale ha, naturalmente, diverse linee possibili e diversi contorni. Osserviamo tutto questo in due partiture. La prima, il Quartetto in mi bemolle maggiore op. 127, fonde le qualità enuncia­ te in un sistema combinatorio, sfumando i segmenti di giuntura ed esaltando i fattori di affinità. Si crea così un’aura poetica che avvolge la partitura dalla prima all’ultima battuta; chi ascolta è prigioniero di quell’aura, e a fatica, dopo l’ascolto, ci si libera dall’incantesimo. La se­ conda partitura, il Quartetto in fa maggiore op. 59 n. 1, esalta la qualità autonoma del colore e le diverse dinamiche della materia plastica: i vari tempi corrispondono a ciò che in pittura è il colore puro. 170

Forma plastica e cavità interiore

Il Quartetto op. 127 è il primo dei tre scritti su commissione del principe Galitzin, e l’unico dei tre che sia stato regolarmente pagato1. Lo investe una luce diffusa, calda e avvolgente: l’idea di grande spazio cavo e ricco di risonanze s’impone con forza irresistibile. L’indipenden­ za da ogni equivoco biografico e da ogni tentazione di possibili allusio­ ni aneddotiche si accorda con la serenità “neomozartiana” dell’op. 127, tutta unificata e fusa nello spirito della danza. Infatti, danze idealizzate percorrono tutta la partitura e le danno plasticità guizzante e miracolo­ sa agilità. Il Quartetto op. 127, inaugurando la serie degli ultimi capola­ vori in questo genere, apre la via anche all’idea di variazione totale come fine ultimo della musica da camera. Già a partire dal Finale dell’op. 59 n. 3, Beethoven s’incammina verso una direzione che guida non soltan­ to la quartettistica o la cameristica ma tutta la sua musica dell’ultimo pe­ riodo e del tardo stile; essa indica due forme supreme, la variazione e la fuga, come le mete sublimi e definitive dell’invenzione musicale. La tendenza è evidente negli altri due generi che, insieme con il quar­ tetto per archi, costituiscono il massimo contributo beethoveniano alla forma sonata, anzi, all’essenza più pura della musica: la sonata per piano­ forte e la sinfonia. Si noti che, per esaltare al massimo grado questa fun­ zione suprema, Beethoven colloca la variazione o la fuga nei tempi con­ clusivi. Ne sono testimonianza le due sonate pianistiche più importanti fra quelle che costituiscono il gruppo degli ultimi capolavori sonatistici (in parallelo e quasi in sincronia con gli ultimi capolavori quartettistici): Top. 106 in si bemolle maggiore, il cui Finale è una fuga a 3 voci “con alcune licenze”, e Top. 111 in do minore, il cui Finale è un tema con va­ riazioni. A sua volta, ciò è in parallelo con l’altro grandioso e conclusi­ vo approdo dell’arte pianistica beethoveniana, le 33 Variazioni in do maggiore op. 120 su un valzer di Diabelli. Si rammenti inoltre, come sug­ gello a priorie, destino segnato, che la prima composizione compiuta di 1 Gli altri due quartetti “Galitzin”, come sappiamo, sono in ordine cronologico Top. 132 e Top. 130. Quando morì nel 1827, Beethoven era in credito di un centinaio di ducati (circa 450 Gulden austriaci, che dopo la svalutazione della moneta nel 1809 corrispondevano a circa 10.800 euro attuali). La somma fu liquidata molti anni dopo dalla famiglia Galitzin al nipote di Beethoven, Karl (1806-1858), non senza che costui avviasse una poco simpatica azione giudiziaria. La circostanza poco edificante non di­ minuisce i grandi meriti del mecenate russo nei confronti di Beethoven: grazie a Ga­ litzin ebbe luogo a Pietroburgo la prima esecuzione integrale della Missa solemnis in re maggiore, il 18 aprile 1824 (6 aprile secondo il calendario giuliano in uso nella Rus­ sia zarista), venti giorni prima dell’incompleta esecuzione viennese.

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Un mondo di energia

Beethoven, allora dodicenne, furono le 9 Variazioni in do minore WoO 63 su una marcia di Dressier: nella stessa tonalità della Sonata op. 111. Dans ma fin mon commencement. Quanto al genere sinfonico, chiun­ que sa che il Finale della Nona Sinfonia è a sua volta un tema con varia­ zioni. La funzione suprema delle due forme, la fuga e la variazione, è nella loro essenza: l’assoluta autogenesi della musica, ossia la possibilità, riservata fra le arti soltanto alla musica, per cui ogni idea musicale, ogni tema, ogni motivo, ogni inciso, ogni cellula, sa trarre le altre idee, le più nuove e ricche e produttive, esclusivamente da sé stessa. Il I tempo dell’op. 127, in mi bemolle maggiore, è costituito da sei misure di Maestoso in ritmo binario, e da un grande Allegro in ritmo ternario (esempio 31). Maestoso.

Esempio n. 31

Charles Rosen (op. cit., p. 282) nota come nell’op. 127 Beethoven si allontani dall’uso classico della tonalità secondo le consuetudini della forma sonata, sostituendo il contrasto tra tonica e dominante con tonicamediante e tonica-sottodominante. Ne abbiamo un esempio là dove XAl­ legro, a 34 battute dall’inizio, modula in sol minore. Di conseguenza, la riproposta delle sei misure di Maestoso è in sol maggiore (esempio 32). Poiché in principio Maestoso e Allegro hanno la stessa tonalità mentre diverso è il ritmo, la ripresa AèAAllegro è, in questo passo cen­ trale, ancora in sol maggiore. Qui il rapporto di mediante (o di terzo grado) di cui parla Rosen si articola attraverso un intervallo ascendente 172

Forma plastica e cavità interiore

di terza maggiore, MI bemolle e SOL. Dopo che YAllegro ha di nuo­ vo modulato ritornando a collocarsi in mi bemolle maggiore, una nuo­ va riproposta del Maestoso, ridotta qui a tre misure, si colloca una ter­ za minore sotto: in do maggiore. Sono soltanto venti battute, dopo le quali il tempo ritorna alla tonalità d’impianto e si conclude in mi be­ molle maggiore. All«·

Maestoso.

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Esempio n. 32

L’armonia del Maestoso è semplice e insieme di straordinario effetto: siamo subito immersi in una sfera separata e luminosa: un accordo per­ fetto seguito da una settima di dominante. E uno sprofondare in un’im­ mensa caverna di echi e di vibrazioni. La sequenza si ripete; questa vol­ ta però la voce superiore non è più la tonica ma la mediante, e si sale an­ cora, con una veste armonica più spoglia e ariosa per l’assenza di rad­ doppi, alla dominante. Dal fondo della maestosa caverna si sale per tre gradini, alla luce piena. Il primo violino, reiterando una nota di volta con una sestina di biscrome e poi con otto semibiscrome - quasi un tril­ lo dilatato -, apre la via αΆ’Allegro, in cui due temi principali si colloca­ no a brevissima distanza, nella stessa tonalità e senza ponte modulante, per cui non si può parlare di bitematismo. È piuttosto una libera meta­ morfosi della materia musicale che, uscita dalla cavità; si snoda in linee duttili e sinuose prima di distendersi in un’ampia e trionfale arcata. Un rapporto tonica-sottodominante lega il I tempo al II, Adagio, ma non troppo e molto cantabile, in 12/8 e in la bemolle maggiore. LAdagio è un’altissima meditazione, che nella semplicissima e pura li173

Un mondo di energia

nea melodica - una scala ascendente - e nella tensione armonica pro­ dotta da una prolungata armonia di settima di dominante ha in sé due grandi idee: l’ascesa da profondità abissali e Timpulso a un’elevazione senza limiti (esempio 33).

L’esposizione è seguita da cinque variazioni e da una coda. La pri­ ma variazione, nella stessa tonalità dell’esposizione e senza diverse in­ dicazioni di ritmo e di tempo, mantiene il carattere contemplativo del tema, limitandosi a renderlo più animato grazie ai valori diminuiti del­ le note. La seconda variazione, Andante con moto in 4/4 e nella tona­ lità dell’esposizione, moltiplica le note suddividendole in valori mini­ mi. Lungo questa scrittura si sviluppa un delicato dialogo tra i due violini che si scambiano le*idee e le intrecciano, mentre viola e violon­ cello creano una zona di profondità con accordi staccati. La terza va­ riazione, Adagio molto espressivo, in mi maggiore e in quattro parti (.esempio 34), ha un carattere estatico che nasce dalla tonalità tipica-

Esempio n. 34 174

Forma plastica e cavità interiore

mente “notturna” e da uno stilema molto caro a Beethoven per il suo valore semantico, indicante nobiltà e spiritualità: un arpeggio ascen­ dente sulla triade maggiore, che parte dalla tonica, tocca la mediante, ma raggiunge la dominante soltanto dopo una sosta sul sesto grado in­ teso come espansivagulden e toccante appoggiatura. È stato detto non senza ragione che in Beethoven e in altri compositori questo stilema significa “trascendenza”. Preferiamo dire che, anche senza connota­ zioni mistiche o semplicemente fideistiche, esso allude al cielo, poiché questa semantica - almeno questa! - è più che legittima. La quarta variazione (Tempo primo), di nuovo in la bemolle mag­ giore e in 12/8, riprende in sostanza la fisionomia della prima, ma con una diversa scrittura strumentale che accentua la funzione della viola e soprattutto del violoncello nell’enunciare le figurazioni del tema. Un gruppo di sette battute in do diesis minore (relativa di mi maggiore: è chiara la relazione di richiamo alla terza variazione), che modificano un breve frammento del tema, conduce alla quinta variazione, sempre in 12/8 e in la bemolle. Essa disegna la melodia con aerea soavità at­ traverso sestine di sedicesimi. Il tema traspare dalla fioritura di suoni, e ci ricorda, anche nel clima emotivo, l’Adagio della Nona Sinfonia·, un effetto addirittura accentuato dalla coda. Il III tempo, Scherzando vivace, in mi bemolle maggiore e in ritmo ternario, è una grandiosa e complessa ideazione, in cui la doppia qua­ lità dell’op. 127, il sorgere della musica da spaziose profondità e lo snodarsi di un’energia musicale disegnata in linee duttili e plastiche, raggiunge il massimo grado di evidenza e persino di provocazione [esempio 35).

Esempio n. 35

Dopo quattro accordi di tutti gli archi insieme, staccati e in pizzica­ to, tocca al violoncello esporre un tema brusco, in ritmo puntato, già 175

Un mondo di energia

caricaturale di per sé e reso beffardo da un trillo inatteso sul SI bemol­ le. La figura puntata è l’ossatura ritmica di tutto lo Scherzo, ed è inter­ rotta due volte, a breve distanza, da poche battute di Allegro in ritmo binario: una sorta di recitativo la cui evidente collocazione nello stile che l’antica retorica chiamava “comico” o “realistico” (è una sorta di burbero brontolio di viola e violoncello all’unisono) prelude alla fisio­ nomia tenebrosa e persino maligna assunta nello sviluppo dello Scher­ zo dal violoncello che si appropria del tema rovesciandolo e rendendo ancora più caricaturale la figura ritmica. La sezione Presto (vol. II, pp. 64 ss.), in ritmo ternario e in mi bemolle minore, rappresenta evidente­ mente ciò che in uno Scherzo tradizionale è il Trio. Ma il Trio, normal­ mente, è una sezione più lirica e talora idillica contrapposta al caratte­ re rustico e concitato (o, appunto, umoristico) dello Scherzo. Qui av­ viene l’inverso per eccesso, poiché il Presto, tutto costruito su valori uguali tra loro (note di un quarto) in velocissimo volo, e con una ruvi­ da e frequente alternanza di forte e piano, è una tregenda, gaia in appa­ renza, in realtà sempre guidata dalle tenebrose sonorità del violoncello che scandisce implacabile il tema, ora all’unisono con il primo violino, ora rovesciato per moto contrario come un ruvido diniego. Il Finale, in mi bemolle maggiore e in ritmo binario (senza indicazio­ ne di tempo, ma assai veloce), è un’altra grande occasione di danza ide­ alizzata, e la struttura del tema principale, una spiritosa e vivace figura­ zione più volte reiterata, ricorda il tema che apre il Finale della Settima Sinfonia, definita da Wagner “apoteosi della danza”. Questo Finale avrebbe dovuto avere, secondo un progetto originario, un’introduzione lenta: come tale può essere identificato un brevissimo Adagio scritto nel 1824 e inutilizzato2. Poco prima della conclusione, il Finale è interrotto da un Allegro con moto in 6/8 e in do maggiore. Le quattro misure in­ troduttive sono dal punto di vista formale parte integrante del Finale, e lo spazio intervallare descritto dalla prima battuta, dal SOL al LA be­ molle dell’ottava superiore, anticipa la caratteristica figurazione del tema come una sorta di Urlinie. Tuttavia, il loro modo di scendere a gradini incontro al tema, il loro atteggiarsi a “stretta”, indurrebbe a considerar­ le battute-ponte {attacca), se non fossero saldamente inquadrate nella

2 II manoscritto originale è conservato nella raccolta Koch. Cfr. G e o rg Kinsky, Die Beethoven Handschriften derSammlungLouis Koch, in «Neues Beethoven Jahrbuch», V (1933), p. 55. 176

Forma plastica e cavità interiore

cornice tonale e formale dell’ultimo tempo (esempio 36). Nella loro in­ solita funzione, sono forse un caso unico in Beethoven.

Insoliti sono anche, in questo Finale, i timbri e i registri imposti in ta­ luni casi agli strumenti. Il tema, così ricco di esprit e di grazia terrestre nella sua prima esposizione, è enunciato dal primo violino sulla quarta corda (SOL). Strana è, a sua volta, la maniera con cui è costruito. Esa­ miniamo le sedici battute occupate dall’esposizione e distinte in due fra­ si di otto battute. Nella frase antecedente (btt. 5-12 del Finale) la prima semifrase è composita. I primi due incisi (btt. 5-6) sono uguali, e ripeto­ no la cellula generatrice: quattro ottavi, MI bemolle, SI bemolle, SOL, MI bemolle, e un LA bemolle dal valore di due quarti. Un circolo chiu­ so intorno all’arpeggio di mi bemolle, e una più lunga sosta sulla sottodominante con armonia di settima di dominante (ma con l’ambiguo pe­ dale di MI bemolle tenuto dalla viola, che potrebbe suggerire, se non fosse per il FA grave del violoncello, un’armonia di sottodominante). Ma il terzo inciso alza il LA bemolle di un semitono, e il quarto e ultimo inciso della prima semifrase assume il carattere lineare che prosegue in tutta la seconda semifrase. Quest’ultima, e con essa la frase antecedente, termina con la cadenza sospesa; la frase conseguente è uguale all’antece­ dente con l’unica differenza che si conclude, e con essa l’intero periodo, con la cadenza perfetta. Il secondo periodo espone un nuovo tema che rovescia, con alcune licenze, la seconda parte del tema precedente. Stra­ ordinaria è la nobile metamorfosi del tema iniziale. Essa avviene nell’Allegro molto (voi. il, pp. 77-78). Dieci SOL del primo violino, ri­ tardando, guidano la modulazione a do maggiore. Il tempo rallenta: XAllegro molto è meno veloce della sezione precedente, e crea una zona di calma e di magica attesa. Ancora due lunghi SOL del primo violino ammorbiditi da trilli, prima sul LA bemolle, poi sul LA bequa177

Un mondo di energia

dro, e dopo tre incantate terzine in scala discendente lo stesso stru­ mento espone pianissimo il tema trasformato, su una filigrana in terzi­ ne del secondo violino (una fileuse, potremmo dire) e su un pedale di tonica del violoncello. Richiamiamo la figurazione del tema, che in principio era MI bemolle, SI bemolle, SOL, MI bemolle, LA bemolle, e che ora, dopo la modulazione a do maggiore, è naturalmente DOSOL-MI-DO-FA (una seconda volta, il FA diviene ovviamente FA die­ sis). Indichiamolo in astratto: tonica-dominante-mediante-tonica-sottodominante. La magia nobilitante deriva dal pianissimo, dal tempo più calmo, dalla fatata filigrana e dal misterioso pedale nel fondo del­ la cavità sonora, oltre che dai trilli che hanno preceduto la meraviglio­ sa pagina, ma l’elemento decisivo, senza il quale la magia non avrebbe luogo, è il ritmo ternario, che trasforma il flusso temporale rettilineo e “storico” in un chronos circolare e metastorico: prolatio maior o perfet­ ta, modellata sul numero tre, in luogo della prolatio minor o imperfet­ ta, modellata sul numero due. La sapienza pitagorica occhieggia dal fondo della nostra scienza. Un fascino irresistibile, nella metà discen­ dente dei primi quattro suoni, ha la coppia mediante-tonica dimezza­ ta nei suoi valori rispetto alla forma originaria. L'esprit e la grazia ter­ restre sono divenuti un paradiso di primitiva innocenza. Incantevole è il modo con cui questo tema trasformato e nobilitato passa da una voce all’altra: dal primo violino al secondo violino (con modulazione in la bemolle maggiore) al violoncello, con modulazione a mi maggiore e con lo strumento che sfiora i limiti inaccessibili del suo registro più acuto; finalmente, alla viola, nel momento in cui si ri­ torna a mi bemolle maggiore. Alla vigilia della prima esecuzione, avvenuta a Vienna il 6 marzo 1825, Beethoven inviò ai membri del Quartetto Schuppanzigh, in pro­ cinto di affrontare la rischiosissima prova dinanzi al pubblico, un bi­ glietto semiserio in stile militare: «Miei prodi! Ciascuno farà quanto può e compirà il proprio dovere e ciascuno s’impegna, sull’onore, di comportarsi nel modo migliore. Ciascuno di coloro che parteciperan­ no a quanto convenuto deve sottoscrivere questo foglio. Beethoven, Schindler segretario»3. Il concerto fu un insuccesso, sorte comune a tutti i grandi quartetti dell’ultimo periodo, allora e in seguito per mol-

3

D ia m o il te s to d e l b ig lie tto n e lla tr a d u z io n e ita lia n a c h e a p p a r e in

l i B a l l o l a , Beethoven, c it., p . 2 7 3 . 178

G io v an n i C ar­

Forma plastica e cavità interiore

ri decenni. Beethoven non fu presente all’esecuzione: per ovvi motivi, sarebbe stato inutile. Suo fratello Johann (1776-1848) gliene diede un resoconto catastrofico che fece andare su tutte le furie il compositore. Beethoven si lasciò andare a giudizi sferzanti contro tutti i membri del Quartetto, nessuno eccettuato, accusandoli di negligenza e incompe­ tenza professionale. Erano giudizi iniqui, essendo quella un’eccellen­ te formazione cameristica. Alcuni di loro erano spesso presi di mira dai sarcasmi di Beethoven, che per esempio, rivolgendosi per lettera a Karl Holz, lo chiamava “eccellentissimo pezzo di mogano” (lettera del 24 agosto 1825); tuttavia, il Maestro fino a quel frangente non aveva mai osato strapazzare il primo violino, uno dei più illustri solisti d’Eu­ ropa. Schuppanzigh rispose per le rime: Beethoven non era stato pre­ sente, e d’altra parte anche se lo fòsse stato non avrebbe potuto udire nulla. Inoltre, i giudizi negativi erano stati riferiti da altri non partico­ larmente competenti, e questo prestare orecchio al sentito dire era of­ fensivo per Schuppanzigh e per i suoi collaboratori. D ’altra parte, Schuppanzigh ammise più tardi che quell’esecuzione aveva posto lui e gli altri tre interpreti in gravi difficoltà, non di carattere tecnico ma di concezione: Top. 127 era troppo originale per essere capita sia pure dalla migliore formazione cameristica del mondo. Troppa era l’origi­ nalità di quella scrittura. Le due qualità di fondo che stiamo tentando di illustrare in questo paragrafo, il senso della profondità spaziosa e la plasticità delle idee musicali, sono presenti, piuttosto come elementi puri che non come sintesi in perfetta fusione, in un quartetto precedente, il primo dei “Rasumowsky”. In esso, già si è detto, ciascuno dei quattro tempi accentua una caratteristica di scrittura ed è come un colore puro fra gli altri. La straordinaria novità dell’invenzione ci colpisce per la forza irradiante con cui la scrittura quartettistica contiene in sé inesauribili possibilità realizzate prima di Beethoven da grandi Maestri, o riscoperte nei tem­ pi a venire. Presenza di infiniti possibili, magari prefigurazione, non “anticipazione storica”, non funzione precorritrice, che è cosa diversa; abbiamo già messo in guardia contro questo errore teorico, anche se è irresistibile la suggestione brahmsiana del Finale o dell’Allegro iniziale, con l’armonia piena ed anzi ricolma e traboccante di suono nei lunghi percorsi che guidano a una cadenza perfetta o nelle fantasmagorie luc­ cicanti del primo violino nel registro acuto mentre i due archi più gra­ vi vibrano da cavità abissali. Brahms, certo, ma anche Mendelssohn, e a volte Reger, Fauré, il giovane Strauss, ma senza che si veda in Beetho179

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ven il loro Messia e profeta, poiché la musica degli ultimi quartetti ha sé stessa come finalità autosufficiente. Però, quella straordinaria novi­ tà d’invenzione tanto più ci colpisce quanto più nel Quartetto op. 59 n. 1 riconosciamo, per quel che riguarda la fedeltà alla forma, un taglio da manuale, pago della tradizione e del suo magistero. Incontriamo così un I tempo tradizionalmente bitematico, con il primo tema espo­ sto addirittura senza neppure una battuta introduttiva, già in médias res, secondo il modello di incipit presente nel I tempo del Trio op. 97 “Arciduca”. Per inciso, il plastico tema con cui l’“Arciduca” si apre è parente strettissimo di quello che inaugura ex abrupto Top. 59 η. 1. C’è nell’esposizione, tra il primo e il secondo tema, un classico ponte mo­ dulante, e classico è anche il rapporto di tonalità in cui il secondo tema si colloca rispetto al primo: alla dominante. Nel tempo lento, la presen­ za di due grandi idee musicali nette e riconoscibili dovrebbe fornire gli elementi per la consueta forma di Lied a schema ternario ABA. Ideare il Finale come rielaborazione di un tema “estraneo” (in questo caso, il famoso thème russe) è un’iniziativa in armonia con usi collaudati, e d’altra parte proprio l’origine nazionale del tema richiama Haydn e i suoi. Russische Quartette op. 33. Eppure, gli atti di libertà sono molti. Il tempo lento non ha affatto una struttura tripartita, poiché le due grandi idee si alternano più volte in veste variata e sempre più comples­ sa, ed è un quasi irriconoscibile travestimento della prima a conclude­ re VAdagio. Tra VAdagio e XAllegro conclusivo non c’è soluzione di continuità e intervengono le battute-ponte secondo un uso che in Beet­ hoven ha celebri esempi nella Quinta Sinfonia e nei Concerti n. 4 e n. 5 per pianoforte e orchestra. Nel I tempo, Allegro, in fa maggiore e in ritmo binario, l’esposizio­ ne del primo tema è un fluire tranquillo ed energico di onde, parago­ nabile alla regolarità di una sinusoide {esempio 37). La qualità è esaltata dall’indimenticabile sequenza di ben diciotto battute (le sedici battute tradizionali in cui si compie un periodo mu­ sicale, più due di estensione) in cui prima il violoncello (btt. 1-8) e poi, all’estremo opposto, il primo violino (btt. 9-16) si passano di mano il tema. L’elemento caratteristico non è tanto il tema, bellissimo e plasti­ co, regolare nel flusso con le sue prime quattro note ascendenti a sca­ la da dominante a tonica e seguite dalla morbida ricaduta sulla domi­ nante, e neppure l’incantevole gioco con cui in ciascuna delle semifra­ si la seconda metà, dalla linea più movimentata in ottavi, si rovescia e si risponde, quanto piuttosto l’ostinato disegno di note ribattute e poi 180

Forma plastica e cavità interiore

di bicordi ribattuti degli altri strumenti: immutabile, come il tempo ci­ clico della natura che è diverso dal tempo storico soggetto al divenire. Il secondo e più movimentato inciso cui si alludeva viene ripreso e va­ riato dolcemente (btt. 30 ss.) dai due violini, con linee parallele a in­ tervallo di terza. Esso innerva il ponte modulante che conduce al se­ condo tema in do maggiore, melodicamente molto semplice (dolce). Il tema parte dalla mediante e si configura come scala discendente­ ascendente conclusa da un trillo sulla sensibile. Il II tempo, Allegretto vivace e sempre scherzando, in si bemolle mag­ giore e in ritmo ternario (esempio 38), è uno Scherzo senza Trio. O me­ glio, la sezione in cui il ruolo del Trio potrebbe essere adombrato, in fa minore, non introduce, secondo tradizione, un’idea nuova e contra­ stante, ma è semplicemente un controcanto rispetto agli impulsi ritmi­ ci e alle idee melodiche della parte precedente (vol. I, p. 133).

Esempio n. 38 181

Un mondo di energia

Nello Scherzo spicca il ruolo primario affidato da Beethoven al vio­ loncello, che infatti apre il II tempo scandendo una martellante figura­ zione ritmica sullo schema del piede ionico a minori·, due brevi e due lunghe. Dopo due enunciazioni di tale schema, la figurazione si sem­ plifica in una picchiettante sestina di sedicesimi. Il motivo immediata­ mente esposto dal secondo violino, tutto su note staccate, si colloca con impertinenza, in uno spirito affine a quello che anima lo Scherzo dell’op. 127, nella cornice dello stile “comico”, ma qui senza l’ambi­ guità tra umoristico e demoniaco. È un umorismo tutto aereo, quasi un omaggio all’innocenza infantile. Mirabile è fra tutti il passo (btt. 72-86, vol. I, pp. 132-133) in cui una dispettosa e pettegola variante del tema viene a costituire un dialogo tra gli archi, a due a due, con una proposta in forma diretta e una risposta in forma rovesciata; ini­ zialmente il secondo violino cui risponde la viola, poi primo e secon­ do violino. E davvero come se uno dei due strumenti dicesse “sì” e l’al­ tro ribattesse “no”. Alla fine, sono tutti richiamati all’ordine dalle bru­ sche bacchettate del violoncello. La gemma di questo quartetto, il momento in cui chi ascolta deve ridiventare serio e commuoversi sublimando il proprio stato d’animo nelle più alte zone dell’emozione estetica, è il IH tempo, Adagio molto e mesto, in fa minore e in ritmo binario (esempio 39). L’invenzione melodico-armonica, una delle più belle mai ideate da una mente umana in tutta la storia della musica occidentale, non è “sem­ plice”. È lavorata come metallo prezioso la cui duttilità consente le curvature e gli affinamenti più rischiosi per il lavoro dell’orafo.

Esempio n. 39

Le distanze intervallari in ascesa e in discesa riaffermano l’idea di profondità e di cavità cui più volte siamo ricorsi. La struttura della me182

Forma plastica e cavità interiore

lodia, prima discendente dal MI bemolle al MI bequadro un’ottava sotto e carica della tensione armonica derivante della sosta sulla sensi­ bile, poi ascendente e sospesa nella mezza luce della mediante (della mediante, si badi, “caratteristica” della tonalità minore, e quindi so­ vraccarica della mestizia dichiarata già nell’indicazione di tempo), non è nuova. Assume tuttavia un’originalità inaudita grazie alla semifrase di risposta, la cui conclusione indugia su quella sorta di sensibile ausiliaria o “sensibile della dominante” che è la sottodominante alzata di un semitono (SI bequadro). L’altissimo grado di emozione sale ancora (bit. 946) quando il violoncello riprende il tema, inizialmente esposto dal primo violino; se ne appropria donandogli il colore sombre delle profondità. Con la voce del violoncello, il tema acquista una maggiore severità meditativa, mentre il controcanto del primo violino “si lascia andare” ad una confessione dolente dal tono più dichiarato, in cui l’ani­ ma, senza più contenersi, si apre interamente. Nascono così varie occa­ sioni di dialogo a due, a tre o a quattro. Là dove esso è più fitto, soprat­ tutto quando il secondo violino riprendendo il tema non può fare a meno di variarne la seconda semifrase diminuendo i valori delle note e addensandoli quasi a confessare l’incontenibilità dei sentimenti, il piz­ zicato del primo violino in secondo piano è come un interlocutore che suggerisca la calma. Anche qui, come nell’op. 132, vien da pensare al pittore simbolo dello spirito visionario tedesco, Caspar David Friedrich. L’analogia, in questo caso, può essere suggerita dal dipinto Zwei Männer am Mee­ resufer im Abendrot (“Due uomini in riva al mare, al tramonto”, circa 1807) conservato nella Nationalgalerie di Berlino (tavola 4). C’è anche una singolarità cromatica. Fra gli straordinari esiti di colore ottenuti da Friedrich, due sono dominanti. Il pallido-violaceo è l’aura croma­ tica di due simboli eccelsi, cielo notturno e luna; lo abbiamo già visto, schermato dal controcolore verde-bruno della foresta, nella contem­ plazione lunare di uomo e donna (tavola 3), e lo troviamo, in tonalità pura e assoluta, nell’altro capolavoro del 1823 che evoca il sorgere della luna sul mare, anch’esso nella Nationalgalerie. L’altro grande esi­ to è il bruno-ocra, in due gradi diversi di luce secondo la diversa ora del giorno scelta dal pittore, alba o tramonto, e si tratta sempre di ore “al confine”, ore di transito e di mutamento, mai di giorno pieno o di notte fonda. In luce più chiara, il bruno-ocra si distende nell’estatica scena di Frau im Morgengrauen (“Donna all’alba”, circa 1808, nel Folkwang Museum di Essen). In luce più tenue, ormai confinante con 183

Un mondo di energia

l’oscurità, è la scena crepuscolare dei due uomini in riva al mare che osserviamo nella tavola 4. Entrambi i dipinti, come molti altri di Frie­ drich, sono simbolicamente distinti in due zone, la superiore più chia­ ra e uniforme, l’inferiore più scura e accidentata: cielo e terra, aldilà e mondo terreno, atemporalità e tempo presente, Jenseits e irdisches Le­ ben, il mistero dell’Altro e l’assurdo dell’esistente. Non vorremmo eccedere in fantasia, ma l’Adagio molto e mesto dell’op. 59 n. 1 ha questo colore. Il bruno, nella zona più scura del di­ pinto di Friedrich, nasce da un impasto di spento e bruciato, di rosso e di verde. Arthur Rimbaud, nel famoso sonetto Voyelles, suggerisce la sinestesia tra il rosso e il suono chiuso I, tra il verde e il suono chiuso U: sang craché e suprème clairon, sangue malsano e tromba angelica ma minacciosa, male di vivere e trascendente aldilà. Nella scala dei co­ lori, l’alta frequenza è riservata a quelli tra l’azzurro e il viola, la bassa frequenza al rosso e all’arancione. I verdi e le sfumature di bruno sono in posizione intermedia. Forse non è impossibile, in parallelo, imma­ ginare un rapporto analogico tra gli azzurri, i lilla e i violacei e le tona­ lità “dure” con molti diesis, e un rapporto simile tra i colori vicini al rosso e le tonalità con molti bemolle. Le due tonalità con quattro be­ molle, la bemolle maggiore e la relativa fa minore, sono a loro volta in­ termedie. Se, come crediamo, fa minore si adatta agli esiti cromatici del dipinto di Friedrich, non le è estranea neppure la malinconia del mare visto da chi sosta sulla spiaggia nell’ora del tramonto. Nella mu­ sica dell’Ottocento non mancano corrispondenze. Un solo esempio: in fa minore è un Lied di Johannes Brahms su testo di Joseph von Ei­ chendorff, Vom Strande (“Dalla spiaggia”) op. 69 η. 6: “Ich rufe vom Ufer verlorenes Glück...” (“Dalla riva del mare invoco la felicità per­ duta...”). Coinvolgendo Beethoven nel gioco di analogie, potremmo dire che nell ’Adagio molto e mesto il tema iniziale, angoloso e acciden­ tato, e il tema in do minore (alla dominante!) molto lineare e ampia­ mente inarcato che appare nelle btt. 24-31, iniziato dal violoncello e ripreso dopo due battute dal primo violino, sono in un rapporto ana­ logo a quello che nel quadro di Friedrich alla tavola 4 lega la zona in­ feriore alla zona superiore del dipinto. Infine, la linea del primo tema, che tende nobilmente verso l’alto ma arretra continuamente scenden­ do verso la sensibile o la sottodominante alzata di un semitono, sugge­ risce qui più che mai una personalità che indietreggia e ci si mostra sempre di spalle, come vuole la cifra simbolica di Friedrich. Le ultime sette misure del III tempo sono le battute-ponte che, con 184

Forma plastica e cavità interiore

un elementare ma fantasioso procedimento, ci conducono da fa mino­ re al fa maggiore èÆ Allegro conclusivo. Con una rapidissima e diffi­ cile cadenza virtuosistica, il primo violino compie un volo attraverso 184 semibiscrome in saliscendi. Beethoven impone una prova di diabo­ lica difficoltà agli altri archi: durante la cadenza, uno dopo l’altro il se­ condo violino, la viola e il violoncello s’inseriscono con una fulminea scala discendente di sette sessantaquattresimi e un sedicesimo, sempre in moto contrario rispetto al primo violino e in perfetto ingranaggio con le sue scale ascendenti. Sferzanti striature, o, se preferiamo, strisce di colore puro, in piena evidenza pittorica. Il passaggio di tonalità da minore a maggiore fa perno sulla dominante: un lungo trillo del primo violino sul DO, che prosegue nelle prime quattro misure dell’Allegro (.esempio 40).Il Thème rnsse.

Il tema russo è il n. 9 della già citata raccolta di Ivan Pratsch (cfr. la nota 8 in calce a questa parte), ed è in si bemolle maggiore nella veste originale, mentre Beethoven lo colloca una quinta sopra. Le parole del testo stampato da Pratsch possono tradursi: “Ah! E questa la mia for­ tuna, la mia felicità, o il mio amaro destino?”. Strano, poiché il tema ha un carattere gaio e spavaldo, a parte il tocco di severità prodotto dalla severa armonizzazione della parola moja, che in Beethoven cor­ risponde al DO diesis del violoncello nella bt. 6. Se tra VAdagio e il Fi­ nale non c’è soluzione di continuità per quanto riguarda il ritmo, che è sempre 2/4, il brusco realismo dovuto all’entrata iniziale del violon­ cello che espone il tema, così come all’opposto il primo violino entra­ va inizialmente neWAdagio, è uno dei più repentini mutamenti di cli­ ma cui assistiamo nei quartetti beethoveniani. Il tema, variato con su185

Un mondo di energia

prema inventiva e associato ad altri due temi d’invenzione originale, è materia di una gigantografia sonora concepita anch’essa secondo mac­ chie di colore puro.

186

4. L’ESPANSIONE DELL’ENERGIA

L’impulso che nei quartetti beethoveniani spinge l’energia musica­ le ad espandersi in ogni direzione nello spazio dei suoni ha la sua gran­ diosa sfera d’azione e il suggello al suo significato nel Quartetto in si bemolle maggiore op. 130 e nella Große Fuge (in uguale tonalità) che gli è legata da un matrimonio presto sciolto e da un divorzio mai accet­ tato fino in fondo. L’azione dell’energia musicale nel suo impulso espansivo non ha lo stesso significato che attribuiamo al suo nascere dall’origine, e che è il suo affermarsi come forza fra le altre forze; non ha lo stesso significato che riconosciamo nel suo svilupparsi con dut­ tilità alla ricerca di una forma, e che è il suo collocarsi nel mondo. L’impulso all’espansione significa soprattutto alternativa radicale al mondo, e volontà di spingersi fino a sfidare il mondo contendendogli la sua qualità primaria: l’essere. L’energia musicale è più di quanto il mondo non sia. Ma il grande esempio dell’ultimo stile beethoveniano non è fra i quartetti il solo esempio in cui l’idea di energia in espansione abbia il primato. Il Quartetto op. 18 n. 6 in uguale tonalità di si bemolle mag­ giore esprime, in forme meno mature e con minore libertà immagina­ tiva, un’affine volontà, almeno nel Finale. Esistono altri caratteri co­ muni. Se si considera La Malinconia un brevissimo tempo a sé prima del finale, Top. 18 n. 6 risulta articolata in cinque tempi, e si avvicina alla libertà di concezione che assegna sei tempi all’op. 130. Sappiamo che questa è un forzatura, poiché Beethoven intendeva La Malinconia le­ gata senza soluzione di continuità al Finale dell’op. 18 n. 6. Eppure è 187

Un mondo di energia

forte la tentazione di porre in parallelo i due ultimi tempi dell’uno e dell’altro quartetto: La Malinconia e YAllegretto dell’op. 18 n. 6, la Ca­ vatina e ΓAllegro dell’op. 130. La designazione del penultimo tempo con un sottotitolo speciale in entrambi i casi, la brevità, sempre in en­ trambi i casi, di questo stesso tempo lento prima del Finale, il caratte­ re elegiaco nell’uno e nell’altro, sono più che semplici coincidenze. Nell’insieme, il Quartetto op. 18 n. 6 non è fra gli esiti memorabili di Beethoven, anzi è decisamente un’opera minore. Il primo tempo, Allegro con brio, in si bemolle maggiore e in ritmo binario (esempio 41), è costruito su un primo tema che non mostra davvero i segni di un’ispirazione naturale e felice: è artefatto, ideato con sforzo di fanta­ sia, e con il suo balzare attraverso l’arpeggio di si bemolle paga un de­ bito sia pure indiretto ai “razzi di Mannheim” (Mannheimer Raketen), cioè all’uso, tipico della scuola di Mannheim, d’inventare temi e moti­ vi disegnandoli con energica linea ascendente lungo i gradi della tria­ de: tonica, mediante, dominante, tonica, eccetera. Qui la forma, si di­ ceva, è indiretta, poiché i diversi gradi non seguono un andamento rettilineo, ma a gradino. Il secondo tema, in fa maggiore, è piatto, fin troppo amabile, costituito da una breve figura in ritmo puntato con note ribattute sulla tonica e poi sulla mediante con nota di volta supe­ riore.Il

Esempio n. 41

Il II tempo, Adagio ma non troppo, in ritmo binario e in mi bemol­ le maggiore, è l’unico fra i quattro che abbandoni la tonalità d’impian­ to a favore della tonalità di sottodominante, quindi più “morbida”. Questo aspetto, insieme con la tradizionalissima collocazione del tem­ po lento in seconda sede, fa di questo Quartetto una composizione volutamente orientata ai modelli del passato, o almeno questa è l’im­ pressione che riceviamo fin qui. Il tema iniziale è anch’esso tutt’altro 188

L’espansione dell’energia

che memorabile. Non è davvero un eccesso di fantasia adattare un al­ tro “razzo di Mannheim” (MI bemolle, SOL, SI bemolle, il solito ar­ peggio sulla triade di tonica) al tempo lento, e poi discendere allo stes­ so modo sull’arpeggio di settima di dominante (LA bemolle, FA, RE, SI bemolle). La debole qualità inventiva è compensata, ma sempre con insufficiente rilievo, dall’iterazione dei singoli suoni dell’arpeggio, sdoppiati o ternati (esempio 42).

Nello sviluppo di questo II tempo, una fitta scrittura virtuosistica non arricchisce molto la qualità inventiva. Appaiono però idee isolate di grande interesse. La scrittura, là dove nell’ultima sezione dell’Ada­ gio s’infittisce, presenta passi di buona qualità contrappuntistica. Compare uno stilema beethoveniano che abbiamo notato poco fa par­ lando delle battute-ponte tra il III e il IV tempo dell’op. 59 n. 1: le stri­ sce di colore puro tracciate da viola e violoncello in rapida discesa e per moto contrario rispetto al primo violino (didascalia: queste note ben marcate). A questo punto si apre la seconda metà dell’op. 18 n. 6, e la qualità s’innalza di colpo. Lo Scherzo (Allegro, in si bemolle mag­ giore e in ritmo ternario) è finalmente una felicissima ispirazione (esempio 43). La natura squillante della melodia e le armonie di terza e sesta suggeriscono una fanfara, gaia e insieme solenne, da occasione importante. È qui che avvertiamo, nella simbologia degli ideogrammi musicali, l’idea di un suono che si espande in onde concentriche sem­ pre più ampie: essa è suggerita dal tendere delle due parti strumenta­ li opposte, primo violino e violoncello, verso i registri estremi, quello 189

Un mondo di energia

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Esempio n. 45

La forte gestualità dell’arsi costituita dai tre sedicesimi ha il suo al­ trettanto forte contrappeso nella tesi della battuta successiva, partico­ larmente vigorosa ed anzi volutamente pesante (sforzando). Il peso è accentuato dal fatto che la prima nota della battuta è la tonica, SI be­ molle: assoluta stabilità, passo sicuro che si appoggia saldamente sul 192

L’espansione dell’energia

terreno prima di scattare nella corsa. Perciò questo finale raggiunge un grande effetto, e la melodia è di quelle che s’incidono nella memo­ ria. Parliamo anche qui d’espansione dell’energia in tutte le direzioni osservando come lo spiritosissimo tema sia davvero trattato con ine­ sauribile variabilità e rovesciato, “raddrizzato”, sprofondato, innalza­ to di scatto. Il frammento iniziale della Malinconia è riproposto per dieci misure (vol. I , p. 118) . Riprende XAllegretto, con il tema questa volta in la minore, ma è una falsa partenza, un frammento di sole quat­ tro misure e mezza. Una pausa di una misura, intera, poi di nuovo La Malinconia (sempre in la minore) ridotta alla cellula iniziale di una mi­ sura e mezza. Di nuovo il tema delXAllegretto, in sol maggiore. Il proposito di creare contrasti con poca materia in mano si realizza con efficacia. Nella coda, il tema, ristabilito in si bemolle maggiore, rallen­ ta esitante (poco Adagio) e finalmente si conclude con vertiginosa ce­ lerità nel celebre Prestissimo. Il Quartetto in si bemolle maggiore op. 130, terzo e ultimo fra quel­ li composti da Beethoven per il principe Galitzin, ha una vicenda che 10 rende unico fra i suoi simili. Si è già detto della primitiva concezio­ ne che concludeva l’op. 130 con la Große Fuge, della successiva deci­ sione dell’autore di sostituire la Fuga con un Finale meno severo e ar­ duo all’ascolto, non tanto monumentale da schiacciare l’intero blocco degli altri tempi ma pur sempre ricco di fantasia e di sapienza, e della definitiva collocazione della Große Fuge, come composizione a sé stante con il numero d’opera 133. Parleremo perciò del Quartetto op. 130 con il nuovo Finale e, a parte, della Fuga1. Sull’op. 130 esistono giudizi divergenti. Riezler giudica labile la connessione tra i vari tempi. Al I tempo “impenetrabile” e ricchissimo di contrasti seguono tre tempi di peso inferiore: un conciso Scherzo di forma tradizionale, XAndante con moto tra lo scherzoso e il serioso, e 11limpido intermezzo Alla danza tedesca. «Si spalanca poi improvvisa­ mente, nella Cavatina, la lontananza più remota: non si potrebbe im­ maginare un contrasto più brusco con quel che precede. Si apre un baratro, che Beethoven dapprima pensò di colmare con la gigantesca Fuga op. 133. L’attuale finale non è un ripiego imposto dall’incom-

1 L’avvento del compact disc ha reso possibile “manovrare” l’ascolto e scegliersi il finale che si vuole, qualora l’incisione li offra adiacenti, come avviene in quella del Quartetto di Tokyo (RCA-Victor RD60975). 193

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prensione degli ascoltatori e dalla resistenza dell’editore, e neppure la correzione di un errore. In quel che precede, erano implicite due pos­ sibilità: il potenziamento delle tensioni fino a una intensità sovrumana, col conseguente spostamento del culmine alla conclusione, oppure la distensione in una serenità che fa pur sempre presagire qua e là gli abissi del mondo» (op. cit., pp. 331-332). Rosen ammira particolar­ mente l’uso che nel I tempo Beethoven fa di quei momenti di stasi ge­ nerale nello sviluppo destinati a generare nuova tensione ed espansio­ ne, ciò che il musicologo americano chiama “punti di falso riposo” {op. cit., p. 271). Abraham, che mostra una particolare predilezione per Top. 130 e scrive che «la Cavatina compie l’impossibile» nella sfe­ ra del sublime, aggiunge che la Große Fuge, eseguita come brano a sé, non ha molto senso al principio, poiché 1’Overturn in sol maggiore fu concepita come transizione dalla tonalità di mi bemolle della Cavatina {op. cit., p. 324). Non è da condividere il giudizio di Biamonti, che nega all’op. 130 una forza poetica e Xabundantia cordis esistenti nelle op. 131 e 132, e considera questo quartetto soprattutto un capolavoro di sapienza polifonica {op. cit., p. 1018). Non per nazionalismo culturale ma per felice scelta della formula d’insieme ci sembra più illuminante di altri il giudizio di Giovanni Carli Ballola: «Il Quartetto in si bemolle maggiore è forse, tra i suoi fratelli nati dall’estremo travaglio creativo beethoveniano, quello che realizza nella forma più alta quell’aspirazione allo schilleriano Subli­ me inteso come “senso di letizia” suprema e di libertà dello spirito “non sottoposto ad altre leggi all’infuori delle proprie” e che “col suo braccio forte ci porta al di là del profondo abisso”: meta cui l’arte dell’ultimo Beethoven tende come le creature viventi tendono alla luce» {op. cit., p. 278). Il I tempo si apre con quattordici misure di Adagio ma non troppo in ritmo ternario che comincia con un grande gesto. Questo inciso può essere inteso come un riassunto simbolico di tutto ciò che Beet­ hoven ha voluto dire nei quartetti: la tonica come origine, un moto di ripiegamento e di concentrazione, un trasferimento ad altra zona dell’armonia (la dominante, simbolo universale di ciò che è “altro” e “più oltre”). La seconda semifrase si sviluppa secondo un leggero cro­ matismo che nella dolce e severa scrittura polifonica sembra scavare per aprire la strada a qualcosa che deve erompere dai suoni. Un moti­ vo soave che discende a gradini da altezze luminose s’interrompe {esempio 46). 194

L’espansione dell’energia

Adagio ma non troppo.

L’interruzione apre la via all ’Allegro in ritmo binario. Le rapide quartine di sedicesimi del primo violino hanno indubbiamente la fi­ sionomia di un tema in cui le distanze intervallari e le diversità di va­ lori ritmici che abitualmente danno personalità a una melodia sono ri­ dotte quasi a nulla. Eppure la linea disegnata dal primo violino è inci­ siva e il suo segno nella memoria musicale è marcato. Ma l’ascoltatore è sorpreso, fin dal secondo quarto della prima battuta intera άέΆ’Alle­ gro, nell’udire un altro motivo che emerge dalla voce del secondo vio­ lino, e che per la sua nitidissima fisionomia (un vero squillo di tromba tradotto in suono di strumento ad arco, con un salto dalla tonica alla sottodominante) riesce a convincerci che esso è il “vero” tema, o al­ meno la vera idea musicale che il compositore aveva preparato con l’atmosfera d’attesa àÆ Adagio ma non troppo. La decisione è diffici­ le, anche perché il discorso musicale è improvvisamente interrotto da una ripresa delÌAdagio introduttivo (Tempo primo). Cinque misure, riproposta interrotta, e riprende YAllegro. Ora il disegno in quartine di sedicesimi è enunciato dal secondo violino e dalla viola, mentre il motivo nitido e squillante appartiene al primo violino ed è riafferma­ to, una dodicesima sotto, dal violoncello. Uno strano bitematismo, o forse un tema “doppio” o due temi in simbiosi: insomma, una fune in cui i filamenti sono inseparabili. È il vero, classico bitematismo, quel­ lo che le forme sonata propongono come il loro più efficace mezzo semantico e come fonte di fertili contrasti dialettici? Ci accorgiamo molto presto che in questo indecifrabile I tempo, in questo Allegro continuamente interrotto da poche misure di Adagio ma non troppo a loro volta interrotte nella breve serie da una battuta di Allegro e non 195

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più (cfr. bt. 100, vol. II, p. 83), il bitematismo classico salta in aria. Le idee musicali, ciascuna delle quali sembra essere quella decisiva, emergono l’una dall’altra, e una più splendida dell’altra nel proprio contorno melodico-armonico. Giunti alla fine della prima lunga sezio­ ne, a conclusione dell’episodio in sol bemolle maggiore e poco prima di un’inattesa modulazione in re maggiore, avanziamo l’opinione che fino a questo punto un unico immenso tema, segnato da soste e ripre­ se, da deviazioni e da metamorfosi a catena, abbia percorso l’intero Allegro. Proprio in questo passo conclusivo, prima delle sbarre di ri­ tornello, i quattro archi all’unisono enunciano un motivo, una figura­ zione ostinata con nota di volta inferiore, che anticipa il Meno mosso e moderato (in sol bemolle maggiore, appunto! ) della Große Fuge, e la traccia dell’originario legame organico tra Top. 130 e la sua straor­ dinaria conclusione contrappuntistica emoziona proprio perché ci ri­ corda - ed è forse motivo di rimpianto - l’awenuta separazione dei due corpi stellari. Lo Scherzo (Presto) è molto breve, di sorprendente concisione se pensiamo ai suoi grandi omologhi dell’op. 95 o di alcuni numeri dell’op. 18 (esempio 47).

Insolito è anche il ritmo binario. La tonalità è si bemolle minore nel primo periodo, di re bemolle maggiore nel secondo, dopo il ritor­ nello. Il fascino vitale e il vigore dinamico, che rende l’immagine di un’intatta sanità e di operosa serenità malgrado il modo minore, nasce soprattutto dalla forza, accentuata dalla pausa nell’ultimo quarto, con cui è scandito in ciascuna battuta l’accento forte sul primo quarto, po­ nendo in grande evidenza il moto da dominante a mediante e ritorno. Il Trio in si bemolle maggiore e in 6/4 non contrasta con lo Scherzo né 196

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mostra, come vuole la consuetudine classico-romantica, una fisiono­ mia più dolce e un’invenzione melodico-armonica dai contorni appia­ nati. Anzi, sfrutta il nucleo motivico dello Scherzo e ne accentua l’aspe­ rità. La cellula del motivo ha sei suoni, anziché i quattro dell’omologa cellula nello Scherzo. La prima terna di suoni è ascendente, la secon­ da, preceduta da acciaccatura, fa perno su una nota di volta discen­ dente. La semplicità di disegno è tale che, a leggerlo sulla partitura, il tema che nasce dalla sequenza del motivo a gradi diversi può sembra­ re arido. In realtà, è un meccanismo che si espande verso l’alto con tanta forza da sfiorare la zona del demoniaco. E non ha forse sentori di zolfo ciò che avviene alla fine del Trio? Dopo il ritornello e gli echi del fortissimo diffusi all’intorno, il primo violino (diminuendo) descri­ ve una linea ascendente, una scala da DO a SI bemolle. Gli altri archi all’unisono gli rispondono a canone, alla settima inferiore. Un’altra scala ascendente, questa volta di tutti gli archi all’unisono, a partire dal DO e con valori tripli rispetto ai precedenti, raggiunge l’ottava su­ periore (ritardando). Ed ecco una scala cromatica discendente del pri­ mo violino tra il silenzio degli altri archi: un miagolio comico e insie­ me sinistro, una caricatura patibolare, interrotta da tre violentissimi suoni all’unisono (forte) di tutti gli archi: FA, FA, SOL bemolle. La diabolica scala cromatica si ripete altre due volte, con interposto il violento motivo di tre suoni. Nell 'Andante con moto ma non troppo, in re bemolle maggiore e in ritmo binario, Riezler ammirava la coesistenza del carattere scherzoso e di quello serioso. Poco scherzoso ed anzi molto serioso, con quel motivo di due suoni a semitono discendente (qui, da SI bemolle a SI doppio bemolle) che nelle poetiche musicali del Settecento è già inte­ so come “lamentoso”, è l’incipit, ma è nube passeggera, poiché il bel­ lissimo tema di eterea leggerezza proposto dalla viola e subito ripreso dal primo violino è una visione degli Elisi, un camminare nei giardini celesti punteggiato dalle note staccate in quartine del violoncello (.esempio 48). Incantevole è la frase di risposta, che balza giù dalla mediante nell’armonia di dominante suscitando l’impressione di una materia soffice e lievissima. Tutto il III tempo conserva questo tono di cristalli­ na trasparenza, senza contrasti né momenti drammatici, neppure quando modula davvero per due pagine e mezza alla tonalità di domi­ nante, la bemolle maggiore. L’assenza di ostacoli e di elementi dram­ matici è infine dichiarata alla lettera nelle due battute finali, dove il 197

Un mondo di energia

Esempio n. 48

primo violino descrive un’aerea scala ascendente su un magico tappe­ to di note ribattute dagli altri archi. Il musicologo bolognese Luigi Torchi (1858-1920) trovò una somi­ glianza per lui sorprendente tra il Minuetto dal Quartetto n. 1 di Fer­ dinando Bertoni (1725-1813) e le battute che aprono il IV tempo del Quartetto op. 130, un Allegro assai in sol maggiore e in 3/8 intitolato Alla danza tedesca (esempio 49)2. Confessiamo di non avvertire se non una vaga reminiscenza nel primo inciso del Minuetto di Bertoni, e nul­ la del tutto dal secondo inciso in poi. Alla danza tedesca. A lleg ro assai.

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Esempio n. 49

Se è vero che la natura dell’invenzione melodica e ritmica attinge alle danze viennesi delle campagne, di quelle suonate nelle feste cam­ pestri e nelle nozze di villaggio culminanti nei pranzi nuziali, Beetho­ ven trasfigura e annette alla propria ispirazione ogni traccia di musica 2

L u i g i T o r c h i , La musica strumentale italiana dei secoli X V I, X V I I e X V III, in «Rivista Musicale Italiana», 1900, fase. 2, p. 249. L’incipit del Quartetto n. 1 di Bertoni è stato riprodotto di recente anche da GIOVANNI BlAMONTl, op. cit., p. 10.

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L’espansione dell’energia

umile. È tutto suo il grazioso e divertito rovesciamento del motivo nel­ la seconda semifrase, e dopo il ritornello dell’esposizione egli si svin­ cola completamente da ogni legame con la materia “popolare”, crean­ do pagine eleganti e agili che sono il lato terrestre dell’elisio Andante con moto. Il V tempo, Adagio molto espressivo, fu prediletto da Beethoven fra le altre sue composizioni, e pare che egli, non potendo udirlo, si com­ movesse ascoltandolo con il proprio udito interiore. In mi bemolle maggiore e in ritmo ternario, ebbe dal suo autore il nome di Cavatina. Con questa parola italiana, Beethoven non intese alludere alla cavati­ na operistica e a una sua traduzione in termini puramente strumenta­ li. Diede alla parola il significato al quale proprio il V tempo dell’op. 130 si propone come paradigma: una composizione strumentale priva di sviluppo e, per conseguenza, di ripresa, un’invenzione melodica di notevole lunghezza e variata nell’ultima parte. La scrittura polifonica, di proverbiale maestria, è difficile ma leggera e ariosa, e l’armonia non ha la pienezza di accordi che abbiamo ammirato nell 'Adagio dell’op. 127. Fin dalla prima battuta, alla costruzione del tema concorrono tut­ ti i quattro archi, facendolo nascere come di sorpresa (esempio 50). C avatina.

Nella libera e ininterrotta espansione delle idee musicali che co­ stituiscono il tema (anche qui, come nell’Allegro iniziale, si può parla­ re di un tema lunghissimo ed esteso all’intera Cavatina), c’è forse un punto che segna un’articolazione, ed è alle btt. 42-48 (beklemmt, “an­ gosciato”) che accolgono un breve episodio in do bemolle maggiore. La rarissima tonalità si lega bene allo stato d’animo di turbamento prodotto dall’urgenza delle emozioni (potremmo pensare a ricordi re­ moti, a nostalgie) ed evocato dalla citata didascalia. Il passo segna dunque un’articolazione bipartita, in cui la seconda e più breve parte 199

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di sole venti misure non sviluppa il tema né gliene contrappone un al­ tro, ma ha il compito di variare leggermente la grande idea esposta con tanta ampiezza. Un ostinato balancement di ottava della viola introduce per due bat­ tute d’avvio e accompagna per quasi l’intera esposizione il tema del Fi­ nale (Allegro, in si bemolle maggiore e in ritmo binario), che sostituisce la Fuga collocata originariamente dopo la Cavatina (esempio 51). Finale.

Basta osservare visivamente questo incipit sulla partitura, per ac­ corgersi della sua olimpica bellezza. Altro che ripiego, altro che surro­ gato ! Certo, dispiace che le anticipazioni organiche della fuga presen­ ti nel I tempo abbiano subito un’amputazione. Dispiace che la figura­ zione a metà del I tempo, prefigurante il Meno mosso e moderato del­ la Große Fuge, abbia il suo oggetto di riferimento “al di fuori”, in una composizione separata a forza dall’organismo così com’era stato con­ cepito. Ebbene, queste anticipazioni che non anticipano più, questi tronconi di organi amputati, conservano un carattere di mistero, come se narrassero la storia di un’avventura musicale e di un’eccezionale vi­ cenda. Prima avevamo usato l’irriverente metafora, divorzio, ed ora potremmo parlare di intricati affari di famiglia. Detto questo, non ci stracciamo le vesti per lamentare la sostituzione. Il fulgore di questo Finale, che alcuni vorrebbero far passare per parente povero, suscita gioia. Il magnifico tema, che ricorda quello fondamentale nel I tempo (Vivace) della Settima Sinfonia, percorre un cammino continuamente modulante che si articola in distinte sezioni tonali (re minore, la be­ molle maggiore, mi bemolle maggiore) interne alla tonalità d’impian­ to del Finale. L’ultima parte è un’ininterrotta variazione, segnata da una splendida cifra d’inventiva tecnica, suU’iniziale frammento dattili­ co del tema. 200

L’espansione dell’energia

Beethoven fu accusato di non sapere scrivere fughe. O meglio, non era un’accusa: si diceva, semplicemente, che egli non le sapesse scrive­ re, ed erano magari suoi ammiratori che volevano in tal modo esaltare ancor più la grandezza del Maestro malgrado quella lacuna tecnica. Strano: a parte Bach, assunto a paradigma piuttosto che a esempio, moltissimi compositori fra i più grandi sono stati e sono giudicati tec­ nicamente deboli sotto questo aspetto, e spesso proprio in funzione della loro grandezza. In altre parole: Simon Sechter conosceva il con­ trappunto meglio di Schubert, Teodulo Mabellini padroneggiava lo stile fugato meglio di Verdi. Benissimo. Ora, poiché non è possibile affermare che Sechter fu compositore più grande di Schubert e Ma­ bellini più grande di Verdi, ci si compiace di sostenere che, magari, Schubert e Verdi furono grandi compositori proprio perché non ave­ vano familiarità con il contrappunto e con la fuga (il che, tra l’altro, è discutibile). Analogamente, molti hanno sostenuto che Chopin e Schumann furono grandi poeti della musica perché non sapevano or­ chestrare (falsissimo nei fatti!). Insomma, la tutt’altro che provata in­ competenza tecnica funge da pretesto per giustificare la ripugnante, schifosa e vituperosa equazione, genio-sregolatezza, ipocritamente la­ mentata ma in realtà segretamente desiderata e goduta: talismano dei musicisti pigri e imbecilli, anzi, degli imbecilli e dei pigri in assoluto. Si potrebbe scrivere un trattato sulla santa pedanteria di Beethoven, sul suo ammirevole perfezionismo. Naturalmente, gli errori possono essere formulati in maniera badiale, giornalistica, e magari nel dialet­ to siculo-romanesco dei “musicologi” di regime protetti dalla RAI o dai partiti politici o dalla gran cloaca universitaria, oppure detti con le intelligenti sfumature e i signorili distinguo che li rendono quasi accet­ tabili. Tale è il giudizio di Vincent d’Indy: «La fuga beethoveniana è notevolmente inferiore a quella di Bach per plasticità di scrittura ed equilibrio architettonico, ma possiede, nonostante questa inferiorità, anzi forse in ragione di essa, qualcosa di più umano: l’espressione drammatica»3. Giudizio da manuale (vero?), ma abissalmente lontano dalle rozze formule giornalistiche. Detto da un coltissimo aristocratico, da un

3 Citato da G iovanni BlAMONTl, op. cit., p. 1022. Il giudizio di VINCENT d ’In d y è ribadito, del resto, sia in Beethoven (Laurens, Paris 1911), sia nel Cours de composi­ tion (Durand, Paris 1909).

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gran signore della musica, il residuo di errore merita almeno d’essere preso in considerazione. Da un lato, non è vero che la fuga di Bach non possieda espressione drammatica: è una drammaticità diversa, che si sviluppa nelle linee interne della scrittura contrappuntistica e non ha la forza esplosiva e dialettica della Tätigkeit beethoveniana. Dall’altro, non è vero che la fuga beethoveniana sia inferiore a quella bachiana per equilibrio architettonico; semplicemente, l’equilibrio non è il suo fine primario. Sarebbe come dire che Wagner è inferiore a Liszt nello stile delle composizioni pianistiche. Tutto questo, chiediamo scusa, conta poco, molto poco. Beetho­ ven mise le mani avanti, e volle premunirsi contro il previsto rimpro­ vero: la sua debole competenza nello scrivere fughe. Nell’edizione ori­ ginale (Artaria, Vienna, maggio 1827 e quindi postuma, con dedica all’arciduca Rodolfo) curata dallo stesso Beethoven poco prima della morte, il titolo è: Große Tuge, tantôt libre, tantôt recherchée. Questo concetto, “ora libera, ora rigorosa”, richiama l’annotazione al princi­ pio della Tuga nella Sonata in si bemolle maggiore ( !) per pianoforte op. 106, “con alcune licenze”. Beethoven si premuniva, ma più che giustificare o ammettere il fatto che egli non era nato compositore contrappuntista, il Maestro definiva tranquillamente e senza vanteria le ragioni della propria superiorità. La libertà è un bene, non un’in­ sufficienza, e non contraddice il rigore; lo contraddicono, invece, la sciatteria, il cattivo gusto e l’ignoranza. Riezler formula quest’idea con le parole giuste. «Se in questo caso la tecnica della fuga è solo un mez­ zo espressivo di cui Beethoven si vale per mostrare fin dal principio con quale serietà d’intenti è concepito quel che verrà, le cose estreme e più inquietanti ricavate da questa forma, egli le dice nella Grande Tuga op. 133, la cui potenza ha ancor oggi un che di pauroso che moz­ za il respiro e che, per la forza e l’audacia delle sue esplosioni, non è solo difficile da eseguire, ma ancor più difficile da ascoltare» (op. cit., p. 353). Ecco un nuovo dato, per noi molto prezioso: lo spavento, la paura, la minaccia, l’imminenza di una catastrofe. Senza volerlo, ab­ biamo enumerato i sottotitoli di una composizione molto più tarda e vicina a noi, e rivelatrice di una realtà innominabile: “Pericolo minac­ ciante”, “Paura”, “Catastrofe”, i tre tempi della Begleitmusik zu einer Lichtspielszene op. 34 (“Musica d’accompagnamento per una scena di film”) di Arnold Schönberg. Le ammirevoli sfumature semantiche della lingua tedesca in questo campo (prediletto dal romanticismo in­ fernale e tenebroso) ci permettono - è nostra opinione - d’individua202

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re nella terribile tregenda contrappuntistica della Große Fuge (Vol. II, pp. 210-214 e 217-223) tutte le gradazioni dell’orribile che ci attrae con il suo fascino, essendo i valori assoluti dell’orribile algebricamen­ te simmetrici ai valori assoluti del bello: l’orrore (“das Entsetzen”), il terrore (“das Grauen”), l’angoscia (“die Angst”), la paura (“die Furcht”), il raccapriccio (“das Grausen”), l’inquietante o perturbante (“das Unheimliche”) , lo spavento (“das Schreck”)4. Diciamo, allora, 4 “Oggi la Grande Fuga mi sembra essere il più perfetto miracolo in tutta la musi­ ca. Senza essere datata né storicamente connotata entro i confini stilistici dell’epoca 203

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riservandoci osservazioni più precise tra poco, che questa sensazione di spavento è l’incanto della Große Fuge. Diamo la parola a Igor Stravinskij («The Observer», 17 giugno 1962): «The Great Fugue seems to me now the most perfect miracle in music. Hardly birthmarked by its age, the Great Fugue is, in rhythm alone, more subtle than any mu­ sic of my own century». Tra il 1822 e il 1825 sono databili alcuni abbozzi beethoveniani per una ouverture sul nome BACH. Il motivo ispiratore, decifrato se­ condo la nomenclatura tedesca delle note musicali e divenuto un “soggetto cavato”, è: SI bemolle (B), LA (A), DO (C), SI naturale (H). Beethoven riprese più volte in mano il progetto senza mai realiz­ zarlo. A Bach è idealmente dedicata la Große Fuge op. 133, il cui tema fondamentale o soggetto I usa questi suoni già nelYovertura, e precisamente alla fine delVAllegro introduttivo (btt. 14-15 nell’esem­ pio 52). Li usa, come il lettore vedrà, in un altro ordine che maschera il nome BACH: HCBA, ossia SI, DO, SI bemolle, LA. Qui il motivo si torce su sé stesso, mentre nella forma pura BACH sale a gradini con bellissimo e misterioso effetto. Se osserviamo le btt. 15-16, vedia­ mo il motivo quale sarebbe nell’esatta forma retrograda, HCAB (SI, DO, LA, SI bemolle), ma trasportato un tono sopra: DO diesis, RE, SI, DO. Le battute di cui si compone la Große Fuge sono 741. Questo lo schema formale. btt. 1-30: Introduzione (Overtura) sul Tema Fondamentale (tratto dal nome BACH). Allegro in sol maggiore, Meno mosso e moderato in fa maggiore, Allegro in si bemolle maggiore. Stile libero. 30-158: Doppia Fuga iniziale sul Tema Fondamentale trattato come Soggetto I, e sul Soggetto II. Stile rigoroso. Fuga I: esposizione, sviluppo, riesposizione, coda. 159-232: Invenzione I (fugato): prima sequenza tematica sul Sog­ getto I e sul Controsoggetto I (stile libero). 233-272: Invenzione II: seconda sequenza tematica sul Soggetto I e sul Controsoggetto il. Stile libero.

in cui fu composta, la Grande Fuga, anche soltanto nel ritmo, è una composizione più sapiente e più raffinata di qualsiasi musica ideata durante il mio secolo”. 204

L’espansione dell’energia

272-413: Seconda Fuga·, terza sequenza tematica sul Soggetto I e sul Controsoggetto III. Stile rigoroso. Fuga II: esposizione, sviluppo, riesposizione, coda. 414492: Terza Fuga: quarta sequenza tematica sul Soggetto I e sul Soggetto II, trasformati. Stile rigoroso. Fuga III: esp osizion e, svilu p p o (stretto), riesposizione (ri­ capitolazione delle tre Fughe). 493-510: Invenzione III: quinta sequenza tematica sul Soggetto I, sul Soggetto II e sul Controsoggetto I. Stile libero. Triplo contrappunto. 511-662: Intermezzo. Ripresa testuale dell’Invenzione II. Secondo intermezzo. Sesta sequenza tematica. Stile libero. 662-741: Coda. Settima sequenza tematica. Stile libero. Soprattutto nello sviluppo della prima e della seconda Fuga, l’urto delle parti in contrappunto e l’implacabile ritmo puntato, una vera ca­ valcata di spettri, generano terrificanti tensioni e asperrime dissonan­ ze, come in nessun altro luogo dell’opera beethoveniana, dalle sinfo­ nie alle sonate all’altra musica da camera ai concerti per strumento so­ lista alla musica sacra. Nulla supera questo grandioso momento di espansione multidirezionale dell’energia. È un’esplosione, in cui le parti strumentali urtano ciascuna contro l’altra cercando ciascuna uno spazio incomparabilmente più vasto di quello ad esse tradizionalmen­ te riservato. È un’esplosione non distruttiva, analoga a quella che se­ gnò, pare, la nascita del cosmo. Da decine di miliardi di anni l’univer­ so è in espansione poiché continua l’esplosione da cui esso è nato, ma in questo modo l’universo nona si distrugge: si fabbrica, si fa. Così la gigantesca architettura di suoni che oscilla paurosamente negli svilup­ pi delle prime due Fughe è un monumento il cui spazio interno si espande generando paurose crepe, ma in tal modo non si frantuma: si costruisce, sempre più ampio. Sorge in noi irresistibile la tentazione di ricorrere a un’altra corre­ spondance pittorica. Il sommo artista che chiamiamo in causa è Jo­ hann Heinrich Fùssli (Zurigo, lunedì 6 febbraio 1741 - Putney Hill presso Londra, sabato 16 aprile 1825). Pensiamo al celebre dipinto Oer Nachtmahr (“L’incubo”, 1781), custodito nel Freies Deutsches Hochstift (Frankfurter Goethe-Museum) di Francoforte sul Meno {tavola 1). La più nota versione di questo capolavoro rappresenta una figura femminile distesa scompostamente su un letto, in preda a sogni 205

Un mondo di energia

angosciosi. Il capo e le braccia pendono dalla testiera del letto, sulla si­ nistra del quadro. Da un tendaggio spunta, con occhi spaventosamen­ te sbarrati, una testa cavallina, color grigio-argento. Sul bordo del let­ to, vicino al capo della donna, una mostruosa immagine felina. Tutto è bianco, nero o grigio. Soltanto i piedi della donna (la persistenza di una realtà “terrestre”?) hanno una traccia di roseo. In un’altra versio­ ne, la testa e le braccia della donna pendono a destra, e la testa di ca­ vallo sporge dal tendaggio a sinistra, non completamente uscita dall’apertura, e con occhi più lividi e spettrali. In luogo del gigantesco felino, uno gnomo deforme è seduto turpemente sul corpo della don­ na. Questa doppia versione del dipinto suggerisce un’ipotesi: che Fiissli abbia voluto accentuare un’orrenda condizione di equilibrio, quasi che l’incubo provenga da ogni direzione. Il movimento è impli­ cito nell’irruzione attraverso il tendaggio e nel fatto che una normale camera da letto di gente aristocratica o alto-borghese si popoli di mo­ stri ultraterreni. Eppure, in entrambe le versioni del dipinto il movi­ mento non è in atto. E avvenuto, e forse avverrà in forma orribile e de­ finitiva, ma nel segmento temporale che fissa la scena non c’è. Questo è il lato agghiacciante dell’invenzione di Fiissli. Così, nella Große Fuge beethoveniana, l’elemento generatore di paura è il fatto che il gigante­ sco edificio di suoni, malgrado le oscillazioni e gli urti ciclopici, stia perfettamente in piedi.

206

5. VISIONE DEGLI ELISI

Senza premessa, partiamo per il nostro quinto itinerario. Il Quar­ tetto in do minore op. 18 n. 4 ha una sua storia individuale. Il grande numero di abbozzi preparatori rende incerta la data della sua nascita e, prima, del suo concepimento. La fortuna di cui esso per molto tem­ po ha goduto è stata superiore a quella toccata agli altri cinque quar­ tetti dell’op. 18. Ciò fu dovuto in parte alle idee molto orecchiabili (il tema iniziale del I tempo è uno fra quelli del primo Beethoven che più s’incidono nella memoria), in parte alla chiarezza formale, che paga il prezzo di un’evidente convenzionalità, in parte alla scelta di una tona­ lità “tragica”, o, almeno, usata da Beethoven in grandi esempi di stile tragico come la Quinta Sinfonia. Del resto, il 1800, anno della probabi­ le redazione definitiva dell’op. 18 n. 4, richiama una folta serie di com­ posizioni in do minore nate in anni vicini. Fra esse, la Sonata per pia­ noforte op. 10 n. 1 (1796), la celebre Sonata op. 13 “Patetica” (17981799), il Trio per archi op. 9 n. 3 (1797-1798), il Trio per pianoforte, violino e violoncello op. 1 n. 3 (1794), la Sonata per violino e pianofor­ te op. 30 n. 2 (1802), il Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 37 (1800-1802). Se supponiamo, con buona approssimazione, che il pe­ riodo di composizione di questo quartetto avviato alla redazione defi­ nitiva sia stato il biennio 1799-1800, notiamo come esso si collochi al centro della cronologia comprendente tutte le composizioni citate o quasi tutte, tra il 1796 e il 1802. Atto ad appagare il gusto per il pathos elegante, il Quartetto op. 18 n. 4 fu eseguito con grande frequenza vivo Beethoven e subito dopo la sua morte, e si offrì al pubblico come un lavoro di gran successo. 207

Un mondo di energia

La critica ha il compito di rovesciare i consensi, e la sua correzione è quasi sempre un’ipercorrezione. Lo stesso Beethoven, in anni matu­ ri, mostrò fastidio per l’ammirazione riservata a questo quartetto, ed è questa una reazione comune a molti autori d’opere d’arte e di lettera­ tura che sentano lodare i loro vecchi lavori e siano consapevoli di es­ sere riusciti a fare di meglio in seguito: una sorta di gelosia a vantaggio delle creature più giovani e capaci di volare più in alto1. Giudizi più recenti fanno notare il taglio convenzionale dell’op. 18 n. 4, il contor­ no dei temi netto ma senza innovazioni originali o invenzioni fantasio­ se, il protagonismo perenne del primo violino, il trattamento delle voci strumentali secondo il criterio di canto e accompagnamento, il difetto d’inventiva che, soprattutto nel finale, costringe Beethoven a disseminare il discorso musicale di sbrigativi ritornelli per dargli con­ sistenza e corpo. In verità, queste riserve sono giustificate, poiché que­ sto lavoro ha minore fascino e minore genialità di quasi tutti i suoi fra­ telli dell’op. 18, eppure le bellezze ci sono, e non proprio là dove di solito vengono cercate. Il I tempo, Allegro ma non tanto in ritmo binario, ha una fisionomia settecentesca, haydniana in particolare. Il primo tema è esposto subi­ to {esempio 53), e si presenta con i contrassegni del pathos vibrante:

il gruppetto nella bt. 1, l’appoggiatura della sopratonica sulla tonica nella bt. 2, caratteri somatici che soprattutto nella semifrase di rispo­ sta non disdirebbero al Rossini serio di Otello o dello Stabat Mater.

1 G iovanni C a rli B a llo l a (Beethoven, cit., pp. 254-255) ricorda come, a chi negli anni della maturità lodava in sua presenza questo quartetto, Beethoven replicasse stiz­ zito: «Non è che merda, buona per il porco pubblico». 208

Visione degli Elisi

Proprio da quella seconda semifrase del primo tema è dedotto il se­ condo tema, ovviamente in mi bemolle maggiore, relativa di do mino­ re: la linea melodica è appena variata. Il ponte modulante è frettoloso, ma proprio in esso c’è qualcosa di molto bello: le codette con il salto ascendente di decima (MI bemolle, SOL) del primo violino e una figurazione tortuosa ammorbidita dal RE bemolle (settimo grado be­ mollizzato) cui il basso nella parte del violoncello fornisce un interes­ sante trattamento armonico. L’op. 18 n. 4 non ha il tempo lento. In seconda sede c’è lo Scherzo, mentre al terzo posto si colloca, secondo una consuetudine settecen­ tesca, un Menuetto. Lo Scherzo (Andante scherzoso quasi Allegretto), in do maggiore e in 3/8, ha un carattere diametralmente opposto al I tempo, ed è qui che cominciamo a trovare qualcosa di molto bello: qui, nel tempo che smentisce il carattere tragico dichiarato dalla to­ nalità d’impianto e dal taglio del tema iniziale in do minore. Nella to­ nalità di do maggiore l’invenzione non soltanto si colora di serenità ma avvicina l’ascoltatore alle arguzie del discorso musicale, facendolo entrare nel gioco (esempio 34).Il SCHERZO. j '

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Esempio n. 54

Il secondo violino ha il compito di scandire la figura ritmica ostina­ ta che continua come un rintocco interminabile per tutto lo Scherzo. È un battito d’orologio, un misurato flusso temporale, ma poiché tutto è sorridente umorismo e non accadono eventi drammatici, il fluire del tempo è rassicurante: nulla invecchia, questo mondo tradotto in mu­ sica è immutabile e sempreverde. Fra i passi più divertenti, il violon­ cello che entra in scena con pesante sfacciataggine nelle btt. 33-34, prima che si affacci un secondo motivo trillante introdotto dal primo violino (vol. I, p. 71) e le ruvide scale discendenti all’unisono di tutti e quattro gli strumenti 33 battute prima della conclusione. 209

Un mondo di energia

Il Menuetto (Allegretto) in mi bemolle maggiore è molto più veloce delle composizioni che di solito indicano questa danza (esempio 55). MENUETTO.

Il tema ha una linea sintagmatica molto lunga, costituita da figura­ zioni trocaiche a catena, ma i suoi contorni melodici e ritmici molto netti frenano la possibilità di un intenso sfruttamento armonico, e questo spiega forse la brevità della stesura. Il Trio, in la bemolle mag­ giore, si fonda su un’idea molto esile esposta inizialmente dalla viola ma arricchita da una graziosa invenzione: le terzine di note ribattute del primo violino, disposte ad arpeggio come su gradini, e velocissi­ me, tanto da creare l’impressione di un manto armonico leggero e vi­ brante. Dopo il Trio riprende il Menuetto, con l’indicazione in italia­ no: «La seconda volta si prende il tempo più Allegro». Il Finale {Allegro), in mi bemolle maggiore e in ritmo binario, insie­ me con ΓAllegro ma non tanto che apre il quartetto è il tempo più vi­ cino allo stile haydniano, per cui i due tempi centrali risultano in defi­ nitiva i più interessanti, se badiamo alle novità e alle idee insolite che nello Scherzo e nel Menuetto vengono sperimentate. Disseminato di ritornelli e artificiosamente allungato (eppure, il bellissimo tema ini­ ziale poteva essere sfruttato meno frettolosamente), esso si conclude con una stretta che riprende il tema prestissimo. Il tema (esempio 56) ha forti affinità con quello del finale nella Sinfonia in sol minore KV 550 di Mozart. Una figurazione picchiettante o scattante nella prima semifrase (nella sinfonia mozartiana, tale figurazione è un “razzo di Mann­ heim”, qui è una discesa a gradini e un’ascesa a scala) è seguita nella seconda semifrase da quattro suoni ribattuti sulla dominante; in Mo210

Visione degli Elisi

zart, sempre sulla dominante, tre suoni ribattuti sono preceduti da una nota di volta.

Esempio n. 56

Dall’ascolto del Quartetto op. 18 n. 4 ci resta un’impressione: che in un contesto volutamente “serioso”, secondo un carattere determinato anche dalla tonalità d’impianto, il II tempo apra una zona diversa, ricca di umori rasserenanti, in cui è forse da ravvisare il nucleo vivo dell’inte­ ra composizione. Spazi di intatta serenità sono proprio il contrario di quel che si dovrebbe cercare nei quartetti beethoveniani, in cui la serie­ tà taglia continuamente la strada all’umor celeste e un clima tragico può irrompere sempre alle spalle del sublime trasfigurato. La natura del Quartetto in mi bemolle maggiore op. 74 ci induce a considerare que­ sto lavoro come uno dei pochi esempi, forse l’unico, in cui la serenità celeste, fatta eccezione per i passi in cui un minimo di dialettica impo­ sta dalla forma sonata si avverte, domina gli stati d’animo. Singolare è l’assenza di contrasto tra il I e il II tempo, mentre proprio in questo rap­ porto di alternanza la tradizione classica vorrebbe creare diversità di tono e d’atmosfera. Per questo si è diffuso un giudizio riduttivo sull’op. 74, troppo dolce e uniforme nel suo carattere aereo e leggero. Questa bella scrittura quartettistica ha invece, crediamo, un’altra funzione. Essa segna la via verso una visione che Beethoven riceve in dono nell’ultima fase della sua operosità, ed è quella che lo conduce alla Nona Sinfonia e all’Arietta variata dell’op. I l i : possiamo chiamar­ la “la visione degli Elisi”, dichiarata anche testualmente nel Finale del­ la Nona e con maggiore eloquenza musicale nel suo Adagio. Così Top. 74 indica la direzione verso un altro e più grande quartetto degli ulti­ mi anni... ma non anticipiamo. 211

Un mondo di energia

Il Quartetto op. 74, nell’introduzione di 24 misure al I tempo (Poco Adagio) in ritmo binario, si apre ancora una volta con un grande ge­ sto, non drammatico ma interrogativo. In particolare, il punto interro­ gativo è il RE bemolle delle btt. 2 e 4, assimilabile, sempre in rappor­ to alla tonalità di mi bemolle maggiore, al DO diesis che chiude il motivo-motto in apertura della Terza Sinfonia. Seguono poche battute di densa e morbida polifonia, e una nobile meditazione del primo vio­ lino. Gli altri tre archi, in opposizione, enunciano un breve motivo di commento (esempio 57).

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Esempio n. 57

Sette battute di contrappunto d’alta classe hanno una funzione d’annuncio, dopo la marmorea e delicata preparazione. Sempre in op­ posizione agli altri archi,.il primo violino compie un gesto semplice e pieno di significato: una scala cromatica parte dalla sensibile e attra­ versa l’intera ottava superiore fino alla tonica, che suggella la cadenza perfetta ed è il raggio di luce dal quale prende avvio YAllegro. Il tema sembra configurarsi come un arpeggio sulla triade di tonica (forte) se­ guito da una melodia a saliscendi, in stile bachiano, del secondo violi­ no (piano). In realtà, si tratta di un “tema doppio”, analogo a quello che apre VAllegro dell’op. 130: sulla melodia del secondo violino s’in­ nesta, a partire da un lungo indugio sulla dominante, un nitidissimo disegno del primo violino. Ultimata la prima e breve esposizione del tema, i due violini dialogano rimbalzandosi un motivo di due sole note arpeggiate con pizzicato, ed è questo passo, più volte ripreso e variato, che ha suggerito l’arbitraria definizione di Harfen-Quartett attribuita all’op. 74. Un ponte modulante ridotto all’essenziale conduce al se­ condo tema in si bemolle maggiore, esposto a canone dai due violini. Qui si fa più eloquente il significato implicito nella scala cromatica del primo violino che aveva preparato YAllegro: un nuovo disegno a sali212

Visione degli Elisi

scendi del primo violino termina con una quartina ascendente di sedi­ cesimi che raggiunge la dominante nell’ottava più acuta e sale con cal­ ma solennità, lungo quattro note di un quarto, alla tonica, enuncian­ dola di nuovo al principio della battuta seguente e precipitando con un salto discendente al SI bemolle centrale, due ottave sotto. L’imma­ gine è di vivida luminosità, quasi una raggiunta visione degli Elisi, trat­ tenuta quanto basta per abituare la vista alla luce e subito perduta con quella discesa di due ottave. Il secondo SI bemolle sovracuto, legando­ si a quello grave che lo segue con funzione di appoggiatura, è un altro gran gesto colmo di pathos: indugio e rimpianto della luce amata. I colori chiari e la trasparenza del suono persistono nel π tempo, Adagio ma non troppo, in la bemolle maggiore e in ritmo ternario. La collocazione del tempo lento in seconda sede, quasi d’obbligo nella tradizione classica, ormai ci stupisce in Beethoven, che a partire dai quartetti “Rasumowsky” mostra una decisa tendenza ad assegnargli la terza sede. La melodia cantabile del tema {mezza voce) acquista un grado particolarmente caldo di luminosità grazie alla mediante come suono d’avvio {esempio 58). La sua fisionomia è la sublimazione di una berceuse·, il ritmo cullante è sostituito dall’iterazione di valori uguali, spesso prolungati e legati. Il fluire del tempo è rallentato e qua­ si s’arresta in uno stato interiore d’estasi.

La melodia del primo violino è una linea dolcemente ondulata, con una sfumatura di pathos aggiunta dall’appoggiatura del DO sul SI be­ molle nella terza battuta. Proprio quel lievissimo tocco di colore ri­ splende su un’armonia magica e misteriosa: il FA bemolle del secondo violino, sospeso tra un accordo di sottodominante con il terzo grado abbassato e un accordo di dominante con il primo grado alzato. Il 213

Un mondo di energia

tema si presenta tutto in piena luce, senza ombreggiature, e nelle btt. 18-24 lascia un’eco di sé, tra l’inno e il corale, con un’appoggiatura an­ cor più commovente della tonica LA bemolle sulla sensibile SOL (bt. 19). In questo Adagio i diversi tempi non sono mai in rapporto di op­ posizione, e nascono l’uno dall’altro. Tale è il secondo tema, in la be­ molle minore (btt. 25-35), che è una palese variante della seconda par­ te del tema iniziale. Un terzo tema, variante più lontana, è singolare per la sua linea cromatica quasi wagneriana. La ripresa del primo tema, accompagnato da accordi spezzati di biscrome che la viola e il secondo violino si scambiano in un fluire continuo, trasforma la visio­ ne estatica dell’incipit in uno stato d’estasi ininterrotta. La Quinta Sinfonia in do minore op. 67, dedicata a due nobili esti­ matori di Beethoven già destinatari di altri quartetti, Lobkowitz (cui il Maestro dedicò, oltre all’intera op. 18, proprio l’op. 74) e Rasumowsky, fu iniziata nel 1804 e ultimata al principio del 1808. Essa è perciò quasi coetanea del Quartetto op. 74. Ricordarlo è forse superfluo, ma troppo forte è la suggestione della prossimità cronologica se essa con­ ferma l’ancor più forte affinità esistente tra la Quinta Sinfonia e il ili tempo del Quartetto op. 74, Presto, in do minore e in ritmo ternario (.esempio 59).

È come se il famoso incipit della Quinta Sinfonia volasse via con celerità quadruplicata e spiccando balzi intervallari molto più ampi, come una molla che scatti raggiungendo la massima estensione. Quest’impressione dura per quattro misure e mezza, ma scompare nelle quattro successive in cui la linea della melodia esposta dal primo violino plana a gradini e pianissimo, alternando alla sensazione di scat­ to e di sobbalzo un’immagine di suprema leggerezza. Dopo il ri214

Visione degli Elisi

tornello, il motivo iniziale riprende con caratteri diametralmente op­ posti: è come se l’incipit della Quinta, restringendo questa volta al mi­ nimo gli intervalli e ripetendo ossessivamente il motivo martellante, fosse la molla compressa e pronta allo scatto. Ne deriva un carattere cupo, di misteriosa minaccia. Quando la tensione si scioglie, balza ver­ so l’alto una melodia nervosa che raggiunge il RE bemolle acuto: un lampo di luce, ma non pura, non elisia, che lascia intravedere una vi­ sione troppo lontana e filtrata attraverso l’atmosfera drammatica e non contemplativa di do minore (bt. 27). Nella pagina seguente, il motivo ripetuto e collocato a diversi gradi viene a costituire una pro­ gressione irregolare che anticipa un’altra celebre composizione, anch’essa quasi contemporanea ma questa volta di poco posteriore, l’ouverture per Egmont (1809-1810). Il Trio (Più presto quasi pre­ stissimo), in do maggiore, è aperto da un insolito procedimento: la li­ nea melodica è affidata al violoncello mentre il basso, con un capovol­ gimento che lo fa apparire la vera melodia caratterizzante, è enuncia­ to dalla viola. Poco dopo la velocissima melodia del violoncello è ri­ presa dal primo violino. Si avvicendano la ripresa dello Scherzo e quel­ la del Trio. Un’ultima riapparizione dello Scherzo termina pianissimo con un misterioso mormorio che scorre dall’uno all’altro dei quattro strumenti. Da 33 a 22 misure prima della fine, i suoni lunghi e legati del primo violino, con alterazioni cromatiche che sembrano cercare con inquietudine una modulazione risolutrice, ricordano ancora una volta la Quinta Sinfonia·, lo Scherzo, e in particolare la sua irresistibile tensione ritmica e armonica che sfocia nel grandioso Finale. Qui lo sbocco è molto diverso, a sorpresa. Anzi, per chi inevitabilmente è in­ dotto a rammentare il Finale della Quinta, la sorpresa è molto forte, e tanto più forte poiché nell’op. 74 il transito tra lo Scherzo e il Finale avviene, proprio come nella Quinta, senza soluzione di continuità: at­ tacca il Tema dei Variazioni. Qui la tensione, invece di essere mantenu­ ta altissima malgrado il senso di appagamento tonale e di chiarimento armonico, e invece di dilatarsi fortissimo scandendo i gradi della tria­ de maggiore come accade nella sinfonia, cade di colpo, e si distende in un’invenzione gentile e lieve. Il quarto e ultimo tempo dell’op. 74, Allegretto con Variazioni in 2/4, ritorna alla tonalità di mi bemolle maggiore (esempio 60). Il tema, articolato in due sezioni a domanda e risposta come vuole la tradizio­ ne, è costruito su un semplice motivo discendente di tre suoni in rit­ mo puntato, che si colloca agilmente a diversi gradi. 215

Un mondo di energia

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Esempio n. 60

Nessuna delle sei variazioni cui il tema è soggetto smentisce questo carattere di elegante serenità in piena luce. La prima variazione tra­ sforma il tema in un grazioso disegno di note staccate. La seconda lo affida alla viola lasciando agli altri archi, in omoritmia, suoni lunghi che occupano un’intera battuta, a mo’ di corale. La terza diminuisce e infittisce i valori rispetto alla seconda, ma senza rendere drammatico il discorso e lasciandolo fluire con grazia. La quarta modifica più ac­ centuatamente la melodia, e la quinta la complica con un disegno ar­ peggiato in quartine di sedicesimi, trasparente e mosso da impulsi ver­ so l’alto. La sesta è una scrittura contrappuntistica molto semplice in cui i due violini e la viola mascherano il tema stendendo su di esso un continuum melodico in quartine di ottavi, mentre il violoncello scan­ disce pianissimo un ritmo ostinato in terzine sulla tonica, che nella se­ conda sezione scende al RE bemolle, illanguidendo l’armonia. Otto battute-ponte (crescendo a poco a poco, accelerando) conducono a una breve coda di undici misure in cui i quattro archi si ricongiungono in festose quartine di sedicesimi. Nessun’ombra viene a turbare questo Finale, la cui luce è variata soltanto da improvvise e delicate gradazio­ ni di colore. Il Quartetto in do diesis minore op. 131 è fra tutti gli altri quello ideato con maggiore libertà formale. Potremmo definirlo un quartet­ to-fantasia. Gli abbozzi sono frammisti, in ordine sparso, e negli stes­ si quaderni di appunti beethoveniani, a quelli molto più compiuti e organici che preparano i quartetti op. 127, 130 e 132. A una copia di questo quartetto da lui sottoposta a revisione, Beethoven annotò: «Zusammengestohlen aus Verschiedenen diesem u. jenem» (“messo insieme con frammenti diversi presi qua e là”). Eppure pochi altri 216

Visione degli Elisi

quartetti hanno una così forte unità poetica. L’op. 131 è davvero un grande poema per quartetto d’archi articolato, piuttosto che nelle illu­ stri e canoniche forme, secondo un’incalzante sequenza di capitoli: un polittico di scene diverse con un centro ideale, che è l’ascesa verso la pura luce diffusa nello spazio. Riezler (op. cit., p. 352) si è domandato se il I tempo non sia da considerarsi una specie di fuga. Rosen (op. cit., p. 115) nota la singolarità per cui il Π tempo ha la forma di movimen­ to lento pur non essendo un tempo lento. In verità, anche i più atten­ ti sforzi di definizione formale danno risultati incompleti. Le sette parti che costituiscono Top. 131, numero tanto insolito da non per­ metterci di parlare di sperimentazione, di aggiunta o di estensione, vanno interpretati come libertà dalla cornice formale che viene con­ quistata soltanto attraverso l’esercizio attento e fedele della grande forma e attraverso l’invenzione geniale. Un’altra annotazione di Beet­ hoven nei quaderni avverte che i sette tempi, o meglio le sette parti, ri­ chiedono un’esecuzione ininterrotta, senza pause tra una parte e l’al­ tra, e infatti la scrittura stessa esclude la sbarratura che indica la con­ clusione netta e la tradizionale sosta. Tutto procede secondo un per­ corso guidato dalla logica poetica, per aspera ad astra, in cui la sereni­ tà celeste non è un momento felice appena colto e subito sfuggito, ma una certezza appagante. Accensioni luminose sono occasioni di bel­ lezza e di estasi in passi innumerevoli dei quartetti, ma altra cosa è l’ideazione di un lavoro arduo condotto nell’oscurità e fra drammati­ che inquietudini il cui percorso abbia come meta sicura lo splendore finalmente raggiunto. I lampi di luce dell’op. 18 n. 4, l’ascesa del pri­ mo violino alla tonica e alla visione degli Elisi in un passo famoso dell’op. 74 già descritto, preparano la via a conquiste che nell’op. 131 as­ sumono dimensioni gigantesche e travolgente energia, collocando la luminosa meta da raggiungere ad altezze vertiginose. Il I tempo, Adagio ma non troppo e molto espressivo in ritmo bina­ rio, si presenta come una fuga in stile non rigoroso, in cui il soggetto o dux è esposto dal primo violino, il comes dal secondo violino, alla sottodominante. A nessuno sfugge il carattere bachiano di questo tema fondamentale (esempio 61). Il tono severo e persino tenebroso di questa lunga meditazione è dovuto essenzialmente al persistere del modo minore: do diesis mino­ re inizialmente, mi bemolle minore in un breve tratto (btt. 45-53), sol diesis minore (btt. 5459), e sempre senza quei brevi snodi tonali in modo maggiore che caratterizzano, per esempio, il I tempo dell’op. 217

Un mondo di energia

95. Ma anche nell’episodio in la maggiore (bit. 60-82) domina la tri­ stezza, e l’ascesa del primo violino a suoni sovracuti non fa che accen­ tuare il colore luttuoso, cui non conviene la definizione di “mistica al­ tezza” che taluni hanno formulato. C’è forte contrasto tra VAdagio e la seconda parte, Allegro molto vi­ vace, in re maggiore e in 6/8 (esempio 62). Il mutamento improvviso di clima è dovuto non soltanto all’awicendarsi del modo maggiore al modo minore, ma soprattutto alla vivacità del ritmo trocaico e alla grande distanza tra le due tonalità. Anzi è la massima distanza possi­ bile, essendo la tonica dell’una superiore di un semitono alla tonica dell’altra. Su questo fattore fondamentale di distanza, il passaggio a una tonalità maggiore agisce in misura complementare. Si noti che il sostituirsi di re maggiore-a do diesis minore è posto in fortissimo rilie­ vo dalla cura con cui le due toniche vengono sottolineate: al lungo unisono dei quattro archi su DO diesis che conclude pianissimo l’Ada­ gio, prolungato da una corona, segue un RE, anch’esso all’unisono, che occupa l’intera battuta iniziale dell’Allegro molto vivace.

218

Visione degli Elisi

Lo sviluppo del tema, che ha un carattere di danza campestre idea­ lizzata, occupa interamente la seconda parte dell’op. 131 e ne è la so­ stanza musicale. La tensione vitale generata dal salto ascendente di ot­ tava all’inizio, lo scatto del ritmo trocaico, la funzione di saldo colle­ gamento esercitata dalla bt. 5 (la cellula ascendente RE-MI nella se­ conda metà della battuta è nello stesso tempo un elemento integrante del LA diesis che precede e un’introduzione al FA diesis che segue nella bt. 6), attivano energie sufficienti a generare un discorso ininter­ rotto e inesauribilmente vario. La terza parte, Allegro moderato, di sole undici misure, è in realtà una breve introduzione in ritmo binario al successivo Andante. La to­ nalità è problematica. In fa diesis minore è l’armatura di chiave, ma in realtà il fraseggio dei frammenti sparsi per l’aria e secchi come recita­ tivi, è inizialmente in si maggiore (esempio 63).

L’incertezza persiste nelle cinque battute di Adagio che concludo­ no questa terza parte e lasciano intendere in senso riduttivo la deno­ minazione Allegro-, il recitativo della viola sposta l’area tonale verso mi maggiore. Ma ecco un passo fondamentale e destinato a rivelare lo spirito poetico che anima l’intero quartetto: la vivace cadenza del pri­ mo violino che tre battute prima della conclusione raggiunge sulla do­ minante di mi maggiore la luce degli Elisi: stilema capitale nella se­ mantica dell’op. 131. Questa breve terza parte termina con una sosta sulla tonica MI. Essa però ha già mutato funzione al nostro ascolto ed è divenuta una dominante nel momento in cui comincia la quarta par­ te, Andante ma non troppo e molto cantabile, in la maggiore e in ritmo binario (esempio 64). L’aspetto meraviglioso dell’invenzione è la maniera di esporre il 219

Un mondo di energia

tema, cui concorrono “fraternamente” il primo e il secondo violino. I due strumenti si rubano con suprema grazia la linea melodica, e scan­ discono, in opposizione alla danza campestre che costituisce l’Allegro molto vivace, un passo svelto e libero da ogni sforzo, su un terreno agevole ormai illuminato dalla luce. I valori delle note s’infittiscono, il passo si fa sempre più veloce, sino alla sezione centrale, Andante mo­ derato e lusinghiero, dove il violoncello e la viola seguiti per imitazio­ ne dai due violini disegnano un motivo pastorale, una specie di sosta su un’altura, che ci ricorda il recitativo arioso di Falstaff nel III atto dell’opera di Verdi: «Versiamo un po’ di vino nell’acqua del Tamigi». Soltanto a questo punto la quarta parte dell’op. 131 rivela con chiarez­ za il suo carattere di tema con variazioni. La più incantevole fra le va­ riazioni è l’Adagio ma non troppo e semplice in 9/4, dove il tema viene privato della sua dinamica ritmica e trasformato in un fluire acqueo di note dal valore uniforme. Poco prima che la quarta parte si concluda, una cadenza del primo violino in rapidissima ascesa raggiunge vertigi­ nosamente la tonica, in una visione degli Elisi compiuta e folgorante. JN? 5 . Presto.

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Esempio n. 65

220

Visione degli Elisi

La quinta parte, Presto, in mi maggiore e in ritmo binario (esem­ pio 65), è un’altra danza, ruvida e gioiosa all’inizio, e sempre più ani­ mata fino a farsi vertiginosa, interrotta da richiami alterni dei quat­ tro strumenti che somigliano a squilli o a grida di gioia: SOL, SI e SOL diesis, SI (primo violino), FA diesis, SI, SOL bequadro, SI (vio­ loncello). Il clima gioioso tocca il culmine nella coda, con la melodia circola­ re a note arpeggiate sul ponticello. La festosità si arresta improvvisa­ mente quando una modulazione a sol diesis maggiore apre la sesta parte, Adagio quasi un poco andante, in ritmo ternario (esempio 66).

Questo breve e dolente intermezzo di ventotto battute introduce la settima e ultima parte, Allegro, in ritmo binario, che ritorna all’inizia­ le tonalità di do diesis minore (esempio 67).

Esempio n. 67

221

Un mondo di energia

Il violento motto iniziale e la melodia del primo violino nelle btt. 21-29 (voi. il, p. 149), che ripropone il carattere patetico già incontra­ to nel Finale dell’op. 132, svelano come la visione elisia sia scomparsa dietro le nubi. Eppure, il vigore di questo Finale suggerisce che essa non si è perduta nel nulla. Posseduta a lungo, come in sogno, è ima conquista che sopravvive nell’anima, così come i sogni possono essere rivelatori di verità.

222

6. L’ENERGIA NELL’UNIVERSO DEI FINI

A chi ascolti i quartetti di Beethoven non sfuggono le dimensioni che li disegnano; esse hanno evidenza immediata e potente. Nei nostri itinerari abbiamo osservato quale e quanto rilievo abbia sovente ima dimensione fra le altre: la profondità dello spazio musicale o la sua tendenza ad espandersi in ogni direzione, la monumentalità contrap­ puntistica o il tema che si prolunga in un unico immenso sintagma tale da invadere un intero tempo di quartetto, la cavità in cui si raccoglie l’energia concentrata o il balzo verso la luce degli Elisi, l’esplosione o il fluire tranquillo. Esistono momenti in cui una dimensione prevale sulle altre e attrae tutte le nostre forze: nel nostro ascolto, essa diventa esclusiva e unica. Tale è soprattutto l’irradiarsi dell’energia da un centro lungo raggi di­ vergenti verso infiniti punti, come avviene nelle gigantesche tensioni della Große Fuge. Esistono pagine di natura opposta: qui le diverse di­ mensioni interagiscono formando un sistema la cui tensione dinamica è trattenuta da un perfetto equilibrio di forze. Questa fisionomia inve­ ste talora interi quartetti, i quali, sotto questi aspetti, riassumono e rappresentano tutti gli altri, e con gli altri “fanno sistema”. Essi indi­ cano la possibilità di vedere tutti i quartetti beethoveniani, a distanza, come un opus continuum, un unico blocco. Abbiamo già usato una metafora cosmologica, là dove l’insieme dei quartetti di Beethoven era definito non galassia ma ammasso di galassie: la più complessa unità di aggregazione riconoscibile, allo stato attuale delle conoscenze, nell’universo fisico. Ma il moto dei quartetti è anche un sistema teleo223

Un mondo di energia

logico, un “universo dei fini”, ciò che svela come questo cosmo musi­ cale sia superiore all’universo fisico, nel cui moto di cieca e assurda espansione e contrazione nessuna finalità è riconoscibile. Il tentativo di riconoscere il fine dell’energia musicale è l’oggetto del nostro ulti­ mo itinerario attraverso i quartetti di Beethoven. Il Quartetto in la maggiore op. 18 n. 5 è vittima di giudizi riduttivi: non manca chi lo trova povero d’idee e sbiadito nell’invenzione, una sorta di pallida copia del Quartetto in la maggiore KV 464 di Mozart cui può essere avvicinato per la tonalità e per la struttura dei temi. Crediamo invece che in esso esista una bellezza diversa da quella che abbiamo ammirato in alcuni suoi fratelli dell’op. 18: il n. 3 o il n. 6. È una bellezza non drammatica né malinconica. Il I tempo, un Allegro in 6/8, suscita curiosità fin dall’esposizione del primo tema (esempio 68). L’accordo perfetto del primo violino, pieno e in posizione lata, con la dominante alla base ma con il raddop­ pio della tonica prodotto dal LA iniziale del violoncello, è un sistema stabile e compiuto.

Ma avviene subito, proprio nella parte del violoncello, la dissocia­ zione dell’accordo che si spezza nei primi tre ottavi. Interviene l’imi­ tazione del primo violino, ripresa in maniera giocosa ma esitante, e fi­ nalmente sviluppata come testa di un vero e proprio tema, di debole rilievo soltanto perché è un semplice moto ascendente che deve dare impulso al tratto seguente della melodia. Questa muta radicalmente la figurazione ritmica che diviene un moto di danza, con il bellissimo ge­ sto che nella bt. 5 lega il FA diesis al RE giocando intorno alla domi­ nante. Sono gli unici suoni legati che compaiono nella parte del primo violino entro le prime sei battute; gli altri sono suoni staccati o isolati 224

L’energia nell’universo dei fini

da pause. Anche nelle btt. 11-13 e 15-16 le sestine di sedicesimi del primo violino si succedono come unità a sé stanti. Non possiamo par­ lare di frammenti, poiché la logica che salda insieme questi suoni e queste aggregazioni non è impressionistica ma perfettamente raziona­ le. Si nota però nel linguaggio adottato dall’autore una volontà di arti­ colare e separare gli elementi del discorso: l’unità è assicurata dalla raffinata concezione armonica che pone in diretto rapporto, quasi sempre, il primo violino con il violoncello. Gli elementi isolati hanno la loro finalità nel grande contorno d’insieme. Il primo tema di questo Allegro è una novità rispetto ad altri mo­ delli sperimentati nell’op. 18. Non si assimila né al primo tema Al­ legro con brio nel n. 1 in fa maggiore, dove l’idea parte, è vero, da un motto, ma in modo tale che quest’ultimo si ripeta costruendo l’idea saldamente con un gioco di sovrapposizioni e di incastri, né alla lunga melodia che apre il n. 3, né al serrato discorso iniziale del n. 4 dove le idee procedono affiancate e collegate, né al tema arpeggiato a gradini che dà l’avvio al n. 6. L’esposizione del secondo tema dovrebbe collocarsi, secondo la tradizione, in mi maggiore, ma in realtà esso è costituito, in modo del tutto anomalo, da tre sezioni: la prima in mi minore (btt. 24-34), la se­ conda in sol maggiore (btt. 34-38), la terza in mi maggiore (btt. 39-43). L’anomalia mette in evidenza una dimensione estranea al primo tema, la profondità: da zone oscure a zone luminose. Il robusto ritmo trocai­ co è un’energia unificante che lega i suoni e gli incisi, e anche sotto questo aspetto il secondo tema contrasta con il primo, non secondo un’opposizione dialettica ma secondo la misura della densità. Il Menuetto, senza indicazione di tempo, occupa la seconda sede in luogo dello Scherzo, che negli anni in cui nasce l’op. 18 è un’acquisi­ zione salda di Beethoven. È una scelta che accentua il carattere sette­ centesco di questo quartetto, e non è certo un “passo indietro” ma un’alternativa coerente con la poetica dell’intera composizione. È un Settecento già storicizzato, e l’allusione ai grandi modelli viennesi, Haydn e Mozart, è nello stesso tempo una guida che il giovane Beet­ hoven s’impone e una guida all’ascoltatore perché egli intenda l’ambi­ to estetico in cui predisporsi. È la poetica dei minimi contrasti. Il tema del Menuetto (esempio 69) è notevole per la sua struttura di frase ter­ naria (12 misure in luogo di 8). Un’altra singolarità è la maniera, portata alle estreme conseguenze nei quartetti dell’ultimo periodo, con cui Beethoven interrompe al 225

Un mondo di energia

MENUETTO.

termine di un crescendo la grazia e la leggerezza del discorso musica­ le, sottolineata dal gruppetto nella bt. 41, con tre MI ribattuti fortissi­ mo e interrotti dalla pausa di una battuta, a rendere più perentorio il brusco richiamo alla serietà (btt. 3945, vol. I, p. 89) . È una delle po­ che volte in cui Beethoven, nell’op. 18 n. 5, si concede chiaroscuri e giochi d’opposizione, poiché l’essenza di questo Menuetto non con­ trasta con il I tempo, al quale è legato dall’identica tonalità di la mag­ giore. Manca inoltre, in tutto il Quartetto op. 18 n. 5, un contrasto to­ nale tra i diversi tempi, tutti in modo maggiore, e in un rapporto tona­ le forte e semplice, poiché anche il Finale è in la maggiore e soltanto il ΠΙ tempo, in tonalità di dominante, se ne discosta mantenendo con il suo re maggiore il più forte e organico legame con la tonalità d’im­ pianto. Né con il Menuetto contrasta, al suo interno, il Trio, sempre in la maggiore e con un leggiadro andamento di Ländler. IlAndante cantabile (esempio 70), in re maggiore e in ritmo binario, è di assoluta semplicità nel ritmo e nella melodia: una scala discenden-

Andante cantabile.

E s e m p io n . 7 0

226

L’energia nell’universo dei fini

te-ascendente per gradi congiunti ne costituisce il tema, cui seguono cinque variazioni che sono fra le pagine più originali di tutta Top. 18. La prima varia l’incipit del tema trasformandolo in ritmo puntato, e arricchisce la scala discendente-ascendente con un gruppetto; svi­ luppa procedimenti imitativi dal violoncello alla viola ai due violini e termina con un crescendo e con un vertiginoso arpeggio discendente del primo violino. La seconda ha il primo violino protagonista assolu­ to di un virtuosistico fluire di terzine. La terza usa un affascinante pro­ cedimento affidato ai due violini, un disegno in quartine di sedicesimi dall’effetto orchestrale in cui qualcuno ha visto, in germe, il mormorio dei violini divisi nel wagneriano Waldweben-Motiv. La quarta, molto breve, è una scrittura polifonica dall’armonia densa. La quinta si apre con un lungo trillo del primo violino contrapposto al disegno omofo­ nico degli altri archi. La coda semplifica gradualmente la scrittura va­ riata riconducendo il tema verso la sua forma originaria. L’ultimo tempo, Allegro, in la maggiore e in ritmo binario, si apre con un tema non originalissimo (esempio 71) e procede in tono festo­ so. La gaia animazione è interrotta periodicamente da un tema molto dilatato, costruito su note dai valori lunghi ed estese a un’intera battu­ ta, come un solenne monito che si sovrappone alla festa.

E s e m p io n . 71

Questo Finale si chiude con una pagina che ricompone in ferrea omoritmia il fantasioso procedere dell’invenzione, trascinato poco prima da effetti ricercati: il lungo tremolo in crescendo dei quattro ar­ chi, l’accelerazione (Più presto) delle ultime 26 battute, l’ossessiva ri­ petizione di un inciso con nota di volta. L’op. 18 n. 5 è un esempio raro di come sia possibile creare alternanze e alterità rinunciando ai procedimenti musicali che provocano contrasto: l’opposizione tra modo maggiore e minore tra i diversi tempi e alTintemo di un tempo, 227

Un mondo di energia

la tensione armonica, l’urto di stati d’animo. Questo quartetto non è fra i più grandi composti da Beethoven, ma è l’esempio di una conce­ zione musicale in cui la sperimentazione del nuovo riesce a trovare un terreno fertile anche in plaghe molto diverse da quelle in cui il compo­ sitore coltiva la pianta della propria irripetibile personalità. Il Quartetto in do maggiore op. 59 n. 3 è l’ultimo dei “Rasumowsky”. La sua tonalità fondamentale, posta in relazione con quelle degli altri due quartetti della terna, è il punto di riferimento e di mediazio­ ne. È la tonalità senza alterazioni in chiave, centrale nel sistema delle tonalità fondato sul ciclo delle quinte. L’op. 59 n. 1 è in fa maggiore, tonalità con un solo bemolle; Top. 59 n. 2 è in mi minore, tonalità con un solo diesis. Do maggiore è tra le altre due il termine medio e alge­ bricamente neutro. Si consideri che mi minore è la relativa di sol mag­ giore. FA è la sottodominante di DO come DO è la sottodominante di SOL. Da parti opposte, fa maggiore (o re minore) e sol maggiore (o mi minore) devono modulare, se si vuole che in quel momento la musica si liberi delle alterazioni obbligate. Fra tutte le tonalità, sol maggiore (o mi minore) e fa maggiore (o re minore) sono le più prossime a do maggiore, immediatamente adiacenti, e ne sentono la forza d’attrazio­ ne. Di entrambe, do maggiore è la “finalità armonica”. Per questo, e non soltanto per la collocazione come terzo nella triade, il Quartetto op. 59 n. 3 è l’organica conclusione dei “Rasumowsky”. L’op. 59, con ben diversa unità rispetto all’op. 18 e ai tre “Quartetti Galitzin” dove non esiste, in rapporto reciproco, questa forma così palese di conver­ genza aggregante, può essere considerata una macrostruttura musica­ le, un iperquartetto del quale i singoli quartetti “Rasumowsky” sono i tempi tra loro distinti. Un’altra osservazione sulle tonalità riguarda invece Top. 59 n. 3 in relazione ai due quartetti che abbiamo allineato nell’ultimo itinerario. Come sappiamo, sono i quartetti che, insieme con questo, potrebbero aiutarci a capire la finalità della musica nell’universo: Top. 18 n. 5 e Top. 135. Richiamiamo in breve i loro contrassegni tonali: Top. 18 n. 5 è in la maggiore, e Top. 135 è in fa maggiore. Se riconsideriamo la to­ nalità fondamentale dell’op. 59 n. 3, do maggiore, le tre rispettive to­ niche FA-LA-DO costituiscono la triade di fa maggiore, sottolinean­ do di questa tonalità una trasparente funzione di compendio totale e di ultimo approdo. Per motivi la cui ragione profonda è misteriosa ma che certamente esistono, fa maggiore è un simbolo tonale della quartettistica beethoveniana. Anzi, ne è il suggello. In fa maggiore è il pri228

L’energia nell’universo dei fini

mo quartetto di Beethoven in ordine di numerazione, Top. 18 n. 1, ed è significativo che esso sia il “primo” per una scelta volontaria dell’au­ tore e dell’editore, non per nascita naturale. È anche significativo che su tale scelta, avvenuta quando Beethoven era trentenne, non possa avere influito la decisione di collocare in fa maggiore l’ultimo (vera­ mente ultimo) quartetto, l’op. 135, per cui fa maggiore diventa ai no­ stri occhi una profezia e un destino. Questa tonalità è l’atto di battesi­ mo assegnato a posteriori all’intera serie dei quartetti e quindi secon­ do un disegno; ne è, alla fine, l’atto di consacrazione, e quasi la finali­ tà cui tendono i percorsi tonali delle diciassette partiture. L’op. 59 n. 3 è l’unico quartetto beethoveniano in do maggiore. La funzione mediatrice della tonalità, cui già si è alluso, è uno dei fattori che riducono al minimo, in questa composizione, la liricità e il pathos, e ne esaltano invece l’energia e il carattere di volontà affermativa. Ciò ha fatto nascere nel secolo XIX la denominazione di Heldenquartett (“Quartetto degli eroi”), indebita come molte altre di nostra cono­ scenza. L’unicità dell’op. 59 n. 3 è l’Introduzione al I tempo, Andante con moto, in ritmo ternario: ventinove battute “atematiche”, dalla funzio­ ne puramente e intensamente armonica, che sfociano direttamente oÆ Allegro vivace. Nessun altro quartetto beethoveniano si apre, co­ me questo, con un accordo dissonante, segno d’instabilità e di volon­ tà tesa nel massimo sforzo: il FA diesis del violoncello, il DO della vio­ la, il MI bemolle del secondo violino, il LA del primo violino (esempio 72). Introdnzione.

Si tratta di una settima diminuita in posizione lata, con la sottodo­ minante di do maggiore alzata di un semitono e quasi “sensibile della 229

Un mondo di energia

dominante”; questo suono, nella voce più grave, è la base dell’accor­ do. Ciò accresce l’instabilità e rende più carico il colore. Un’analogia con il Quartetto in do maggiore KV 465 di Mozart (Dissonanzen-Quartett) è d’obbligo, poiché i due capolavori hanno in comune lo stesso tipo d’introduzione lenta e dissonante che si apre faticosamente la via verso la luce limpida della tonalità luminosa per eccellenza. Allegrò vivace, in ritmo binario, espone subito il primo tema. Esso è costruito con frasi musicali d’insolita lunghezza (12 misure), e ne deriva un amplissimo periodo. La prima frase, caratterizzata ini­ zialmente da una sorta di saltellio e poi da uno staccato di note discen­ denti, ha una fisionomia esitante e interrogativa, cui risponde la se­ conda frase dal taglio perentorio e incisivo. Il ponte modulante è più sviluppato del consueto, e conduce a un secondo tema in sol maggio­ re, animatissimo e pieno di slancio. Nello sviluppo, l’episodio che spicca fra tutti è la sequenza di 16 battute in cui viene scandito con ostinazione il medesimo schema ritmico. Questa figurazione, che co­ stituisce quasi un “terzo tema”, si fonda sul ritmo puntato di una mi­ nima allungata a 3/4 e di una semiminima, con un’andatura altalenan­ te e regolare che, grazie alla dilatazione dei valori, si stende come un velo dolcemente agitato. Il II tempo, Andante con moto quasi Allegretto, in la minore e in rit­ mo ternario, è fuori carattere rispetto agli altri tempi dell’op. 59 n. 3, sia per la tonalità minore sia per la natura del tema principale, e ciò gli aggiunge fascino (esempio 73).

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Andatile eon moto quasi A llegretto.

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L’energia nell’universo dei fini

Il tema è esposto dal primo violino nel registro medio-grave. Già questo rende un colore insolito. La tonalità in penombra e la linea me­ lodica che non soltanto discende in profondità ma acquista una fun­ zione di scavo armonico grazie alla sensibile SOL diesis in posizione di snodo, a metà della bt. 2, danno al tema una fisionomia oscura: si av­ verte il sentore di quell’umore nero che abbiamo incontrato nell’op. 95. Questo clima è interrotto dall’apparizione tranquilla di un altro tema in do maggiore, esposto dal primo violino (vol. I, p. 188). Ma l’elemento decisivo nel caratterizzare il clima di penombra che domi­ na ΓAndante è il pizzicato del violoncello sulla dominante, che a parti­ re dalla bt. 5 e fino alla bt. 11 assume un ruolo d’imitazione tematica. Si ritorna al clima luminoso, quasi con grazia mozartiana, nel III tempo, Menuetto, Grazioso, in do maggiore e in ritmo ternario (esem­ pio 74).

Esempio n. 74

All’eleganza settecentesca si alterna la lieta rusticità del Trio. Una coda riprende il tema iniziale del III tempo affidandolo al violoncello, con effetto di sorridente umorismo, e attacca subito il Finale, Allegro molto, in do maggiore e in ritmo binario (esempio 75), uno dei tempi quartettistici di Beethoven più carichi d’energia. È una fuga non rigo­ rosa, anzi condotta con la massima libertà, in cui il suono si condensa e s’ispessisce alla fine, quando i quattro archi convergono nel perpetuum mobile in un discorso musicale d’inaudito vigore. Nella «Zeitschrift für Deutschlands Musikvereine und Dilettan­ ten» di Ferdinand Simon Gassner (Karlsruhe, 1844, terza parte) ap­ parve un canone scherzoso di Beethoven, databile all’aprile 1826 e stampato in facsimile dalla rivista. Il canone, in realtà un breve fram­ mento, è condotto sulle parole Es muß sein, es muß ein ja ja ja ja (“Così dev’essere, dev’essere un sì, sì, sì, sì”). Malgrado la modestissima im231

Un mondo di energia

portanza, il frammento non può non condurci al Quartetto in fa mag­ giore op. 135, ultimo della serie, e gli dà persino un connotato in più, esasperando il significato affermativo del celebre motto apposto da Beethoven al Finale. Da un quaderno di conversazione, sappiamo che in origine la partitura era stata ideata in tre soli tempi, e in questa for­ ma fu offerta all’editore che la rifiutò. Non sappiamo quale sia il tem­ po composto più tardi. Nel I tempo, un Allegretto in ritmo binario, sembra che davvero i frammenti sparsi di un mondo si ricompongano in un cosmo percor­ so da filosofica ironia (esempio 76).

Abbellimenti, ritmo doppiamente puntato, volanti appoggiature, tono disincantato e assenza di contrasti: tutto concorre a creare una realtà di suoni in cui dominano letizia e luce. Un clima di assoluta serenità e di vigore desideroso di movimento apre il II tempo, Vivace, in fa maggiore e in ritmo ternario (esempio 77). 232

L’energia nell’universo dei fini

L’energia che spinge la musica a volare e a planare su un’estensio­ ne sconfinata sembra possedere ùn carattere di leggerezza inafferrabi­ le. Ma in una sezione centrale (vol. II, p. 197), forze selvagge si scate­ nano con furia quasi barbarica, quando una figurazione del secondo violino, della viola e del violoncello all’unisono (un LA di un quarto, e una quartina di ottavi, FA diesis, MI, FA diesis, SOL) insiste per 48 battute in un disegno ostinato, sempre fortissimo, mentre il primo vio­ lino prosegue in un suo motivo danzante che poco prima appariva gaio ed ora ha il carattere di una danse macabre. Il III tempo, Lento assai, cantante e tranquillo, in re bemolle mag­ giore e in ritmo ternario (esempio 78), è una pagina lunare, il cui carat­ tere di sublime meditazione deve molto alla struttura perfettamente circolare della melodia.

Alla visione estatica si sostituisce per 10 battute un momento di severità (Più lento) in do diesis minore, e non è inutile il richiamo allo stato d’animo che abbiamo incontrato nella fuga iniziale dell’op. 131. 233

Un mondo di energia

Il massimo rilievo è assunto nell’op. 135 dal Finale (esempio 79). Esso è preceduto da un motto costituito da tre frammenti di motivo con una didascalia verbale, prima interrogativa e poi affermativa ed anzi rafforzata nell’affermazione dal ripetersi della risposta. «Dev’es­ sere: Così dev’essere! Dev’essere!». Arnold Schönberg, in una notissi­ ma pagina di commento, ha osservato come il primo frammento, che termina dolorosamente su LA bemolle, appaia rovesciato (con gli stes­ si intervalli, ma per moto contrario) e in modo maggiore nel secondo frammento del motto. Il terzo frammento è il retrogrado di questa in­ versione, la quale, di nuovo rovesciata e riempita da note di passaggio, dà luogo alla seconda frase del tema principale in apertura àeFFAlle­ gro, là dove comincia veramente il Finale. Tutto l’ultimo tempo nasce così dalla stessa idea, con uno sviluppo autogeno interrotto soltanto da una melodia su scala pentafonica che, nella sezione in la maggiore, sembra discesa da una sfera cristallina lontana nel tempo e nello spa­ zio (btt. 49-56, vol. II, p. 203). Il Finale, vittorioso ma pieno di asprezze e di occasionali dissonan­ ze, ci pone la domanda inevitabile: che cosa “dev’essere”? Tentando

DEH SCHWER GEFASSTE ENTSCHLUSS. G ra v e .

A lle g r o ._____________ _

Esempio n. 79 234

L’energia nell’universo dei fini

una nostra risposta, affermiamo che una sola realtà poteva essere og­ getto del fulmineo dialogo di Beethoven con sé stesso: la musica. Ciò che dev’essere malgrado tutto, malgrado l’esistente, malgrado la dolo­ rosa realtà individuale del compositore nel quale in momenti decisivi ogni essere umano si può riconoscere, è la certezza che la musica - ciò che soltanto l’ascolto e l’attenzione fedele possono svelare - è prima del mondo, indipendente dal mondo e, forse, sua origine e sua forza generatrice.

235

NOTIZIE RELATIVE AI QUARTETTI Indice in ordine numerico

Quartetto

Notizie storiche

In fa maggiore op. 18 n. 1

pp.

91-92

In sol maggiore op. 18 n. 2



91-92

In re maggiore op. 18 n. 3



91-92

In do minore op. 18 n. 4



91-92

In la maggiore op. 18 n. 5



Guida all’ascolto pp. 117-125 ” 136-140 »

111-117 207-211

91-92

»

224-228 188-194

In si bemolle maggiore op. 18 n. 6



91-92

»

In fa maggiore op. 59 n. 1



92-93

»

180-186

In mi minore op. 59 n. 2



92-93

»

125-134 228-231 212-216

92-93

»

In mi bemolle maggiore op. 74

93-94

»

In fa minore op. 95

94-95 95-96

»

140-150

»

171-179 194-200 216-222

In do maggiore op. 59 n. 3

In mi bemolle maggiore op. 127





97-98

»

In do diesis minore op. 131



98

»

In la minore op. 132



97

»

Große Fuge op. 133



97

In fa maggiore op. 135



98

In si bemolle maggiore op. 130

237

155-168 201-206



232-235

ALTRE COMPOSIZIONI DI BEETHOVEN PER QUARTETTO D ’ARCHI

È doveroso segnalare una serie di altre composizioni, alcune incompiute, destinate all’organico del quartetto per archi. La maggior parte di esse si tro­ va catalogata nel catalogo di Willy Hess [H ], e, con cospicuo arricchimento a aggiornamento di notizie storiche, nella versione riveduta e aumentata di H che dobbiamo al paziente e accurato lavoro di James F. Green, la cui versio­ ne italiana è II nuovo catalogo delle opere di Beethoven, traduzione italiana di Cristoforo Prodan, Zecchini, Varese 2006 [ g h ]. Indichiamo le singole com­ posizioni con il numero progressivo che esse hanno in GH. 1. - Preludio efuga in Fa maggiore all’ottava, per quartetto d’archi, G H 3 0 , p. 20. Barry Cooper, in Beethoven Compendium, a cura di Barry Cooper, Tha­ mes & Hudson, London 1991 [C /C ], p. 238, data questa composizione al 1794-1795. La prima edizione filologicamente attendibile fu curata da Willy Hess nel «Nagels Musik-Archiv», η. 187, Nagels Verlag, Kassel 1955. 2 . - Preludio efuga in Do maggiore alla decima, per quartetto d’archi, G H 3 1 , pp. 2 0 - 2 1 . Sulle intricate vicissitudini di questo lavoro beethoveniano, che fra l’altro hanno reso problematica la datazione, v. ancora G H , pp. 2 0 - 2 1 . La pri­ ma edizione attendibile è ancora di Willy Hess, in «Nagels Musik-Archiv», η. 1 8 6 , Nagels Verlag, Kassel 1 9 5 5 .

Delle due opere precedenti, più antiche edizioni si trovano, insieme con quelle di altri lavori o frammenti di lavori cameristici elencati in G H , nel libro del barone I g n a z VON S e y f r ie d , Beethoven’s Studien, Tobias Haslinger Ver­ lag, Wien 1 8 3 2 , ma «tali edizioni essere usate con grande cautela, dato che Seyfried ne ha alterato indiscriminatamente il testo musicale» (G H , p. 2 0 ) . 239

I Quartetti per archi di Beethoven

Nel libro di GUSTAV NO TTEBOHM , Beethovens Studien, Rieter-Biedermann, Leipzig-Winterthur 1873, sono state pubblicate, fra l’altro, la Fuga in Fa mag­ giore e la Fuga in Do maggiore, «seguendo il testo di Beethoven in quasi tut­ te le varianti e gli stadi di lavorazione» (G H , p. 2 0 ) . 3. - Prima versione, dedicata a Karl Amenda, del Quartetto in Fa maggiore per archi op. 18 n.l, G H 32, p. 21. Nel catalogo di Giovanni Biamonti [G B ], n. 225/1. Amico di Beethoven, il violinista Karl Ferdinand Amenda (17711836), nato a Lippaiken in Curlandia (nome storico della regione baltica oggi quasi interamente inclusa nel territorio della repubblica di Lettonia), nel 1792-1795 studiò teologia a Jena. Attraverso la Francia si trasferì a Lo­ sanna, dove per due anni fu insegnante di musica. Poi visse a Francoforte sul Meno e a Costanza. Giunse a Vienna nella primavera del 1798, e poco dopo fu nominato precettore dei figli del principe Franz Joseph Maximilian von Lobkowitz. Poi divenne precettore privato dei figli di Mozart, su invito di Konstanze vedova di Wolfgang Amadeus. Beethoven donò ad Amenda il ma­ noscritto autografo di quella prima versione dell’op. 18 n. 1. Il Quartetto fu sottoposto a varie modifiche, e Beethoven pregò Amenda di non mostrare mai a nessuno la prima versione. Amenda lasciò Vienna per sempre nella tar­ da estate del 1799. Ritornò in patria. Sappiamo che nel 1800-1801 esercitava la professione ecclesiastica come pastore a Wirben in Curlandia, vicino a Talsen1, nella sua terra d’origine. Rimase però in contatto epistolare con Beetho­ ven per alcuni anni, e nelle loro lettere ferve un caldo e nobilissimo affetto. Nel 1821 fu nominato vescovo della diocesi protestante di Kandau. Amenda fu uno dei pochi cui Beethovçn, con una memorabile lettera di mercoledì 1° luglio 1801, confidò l’insorgere della sua sordità. Terminato nel maggio o giugno 1799, l’autografo è custodito nel Beethoven-Haus di Bonn [collocazione SBH 714], Dopo alcuni decenni, dopo la morte di Amenda, è probabile che sua moglie Jeanette Benoit (1785-1844), trovandosi in indigenza, lo abbia venduto. È da credere che verso la metà del secolo XIX non fosse più proprietà della famiglia. Ma nel 1913, attraverso la casa d’aste di Leo Liepmannssohn, fu acquistato da Anna Kawall di Riga, di­ scendente di Amenda. Un’edizione della sezione di sviluppo del I tempo di 1 Talsen è il vecchio nome tedesco della località lettone che nella lingua nazionale ha il nome di Talsi: uno dei 109 novadi (Comuni) in cui è divisa amministrativamente la repubblica di Lettonia in seguito alla Legge di giovedì 18 dicembre 2008. In forza del­ la stessa legge, a partire da mercoledì 1° luglio 2009, il pagasts (frazione) di Virbi (nome lettone attuale del piccolo centro che nella lettera di Beethoven è chiamato, alla tede­ sca, Wirben) è stato associato a 16 altri piccoli pagasti per costituire il novads di Talsi, gravitante intorno a Ventspils, una delle 7 città principali (repuhlikas pilsétas) della Let­ tonia, centro maggiore della parte occidentale del paese, ossia dell’antica Curlandia. 240

Altre composizioni di Beethoven per Quartetto d’archi

questa primitiva versione fu edita da Karl Waack nel suo saggio Beethovens F-dur Streichquartett op. 18 No. 1 in seiner ursprünglichen Fassung, «Die Mu­ sik», II, marzo 1904, p. 418. La prima edizione completa è stata pubblicata da Joseph Wedig nel periodico «Veröffentlichungen des Beethoven-Haus», II, Bonn 1922. 4. - Minuetto in La bemolle maggiore, senza Trio, per quartetto d’archi, GH 33, pp. 21-23 (GB 64). È una composizione di 71 battute, scritta nel 17901794, pubblicata a cura di Paul Mies con il titolo Ein Menuett von L. van Beethoven für Streichquartett in «Beethoven-Jahrbuch», 1961/64, BeethovenHaus, Bonn 1966, pp. 85-86, con tre pagine di facsimili. 5. - Quartetto per archi in Fa maggiore trascritto dalla Sonata in Mi maggio­ re per pianoforte op. 1 4 n. 1, G H 3 4 , p. 2 3 (GB 3 1 5 ) . Scritto nel 1 8 0 1 - 1 8 0 2 , e dedicato alla baronessa Josephine von Braun. L’edizione originale, in parti strumentali separate, è apparsa nel maggio 1 8 0 2 in «Kunst- und Industriekomptoir». Altre edizioni: N. Simrock, Bonn 1 8 0 2 ; Riedl, Wien 1 8 1 5 ; Steiner & Co., Wien 1 8 2 2 ; Tobias Haslinger, Wien 1 8 2 6 ; a cura di Gustav Nottebohm, N. Simrock 1 8 7 5 . Il catalogo Kinsky-Halm non dà notizia sull’ubicazione del manoscritto originale (così G B , p. 3 4 0 ) . Come osserva Giovanni Biamonti (GB, p. 340), a questa trascrizione allu­ de senza dubbio la lettera di Beethoven datata Vienna martedì 13 luglio 1803, e indirizzata alla casa editrice Breitkopf & Härtel di Lipsia: egli dichiara che sarebbe ora di farla finita con quella mania contro natura (“unnatürliche Muth”) di adattare le composizioni per pianoforte a musica per strumenti ad arco, trattandosi di strumenti tra loro diversissimi. E prosegue affermando che questa trascrizione sarà l’unica in tutta la sua vita, realizzata soltanto per cedere almeno una volta alle pressioni di amici musicisti e di editori. - Trascrizione per quartetto d’archi della Fuga in Si minore dal I libro del Wohltemperiertes Klavier, η. 2 4 , di Johann Sebastian Bach, G H 3 5 , pp. 2 3 - 2 4 (G B 6 8 5 ) . Willy Hess, nell’articolo Eine Bach- und Händel Bearbeitung Beet­ hovens, in «Schweizerische Musikzeitung», voi. 9 4 , aprile 1 9 5 4 , pp. 1 4 2 - 1 4 3 , dopo attenta analisi dichiara la breve composizione databile al 1 8 1 7 . Ma, come osserva Green, Richard Kramer data questo esercizio a «prima della fine del 1 8 0 2 » . Della Fuga di Bach, la trascrizione comprende le battute 1 - 2 0 e 2 8 - 3 2 . L’autografo è di un solo foglio scritto su entrambi i lati. Appartiene alla Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna [collocazione A 8 1 ] , Da non confondere con la trascrizione, compiuta da Beethoven, per quin­ tetto d’archi (2 violini, viola, 2 violoncelli) della Fuga in Si bemolle minore dal I libro del Wohltemperiertes Klavier, η. 2 2 , di Johann Sebastian Bach (G H 6.

3 8 , p p . 2 5 -2 6 , GB 3 3 8 ).

241

I Quartetti per archi di Beethoven

7. - Trascrizione per quartetto d’archi della Fuga che si trova nella seconda parte (Allegro moderato) dell’ouverture dell’oratorio Solomon di Georg Fried­ rich Händel, G H 36, p. 24 (GB 680). Sono 69 battute. La Fuga di Händel è scritta per 2 oboi, 2 violini, viola e bassi. Gli oboi sono quasi in tutta la Fuga null’altro se non il raddoppio dei violini. Beethoven si limitò a copiare la par­ te degli archi, con lievi modifiche. Barry Cooper, in C/C, p. 275, data la com­ posizione al 1789 o ad anni vicini. Giovanni Biamonti, nel suo catalogo (p. 865), crede ragionevole «collocare il lavoro entro i limiti di tempo generali delle poche altre trascrizioni di Beethoven: 1801-1817». L’autografo è nella Deutsche Staatsbibliothek di Berlino. Il lavoro è stato pubblicato, con il fac­ simile, in «Österreichische Musik-Zeitschrift», XIV, η. 12, dicembre 1959. Beethoven considerava Händel il musicista sommo fra quelli mai esistiti. Il Tagebuch (“Diario”) di Beethoven, pubblicato da Maynard Solomon a con­ clusione del capitolo X V I e ultimo e del suo libro Beethoven. Essays ( 1 9 8 8 ) , contiene, al n. 1 5 6 , poche parole eloquenti, indirizzate a un suo falegname di fiducia che doveva ristrutturare la sua biblioteca domestica: «Uno scaffale a parte per Händel!» (traduzione italiana di Guido Zaccagnini, in MAYNARD S o l o m o n , S u Beethoven, Einaudi, Torino 1 9 9 8 , p. 3 2 5 ) . 8. - Allegretto, per un Quartetto in Si minore per due violini, viola e violon­ cello (“Pencarrow Quartet”), scritto per Richard Ford e in presenza di lui, Vienna, giovedì 27 novembre 1817. Proposto e sostanzialmente riscoperto dal Quartetto Borciani (Milano) nel 2002. 9 . - Adagio (prima versione del I tempo del Quartetto op. 1 3 1 ) . Manoscritto: alcuni lo chiamano autografo Artaria 211, su fondamenti non sicuri. France­ sco I Artaria era cugino di Carlo Artaria, per molti anni figura centrale dell’il­ lustre casa editrice musicale di Vienna, fondata da italiani della Brianza. Fi­ glio di Francesco I era Domenico III (Blevio presso Como, lunedì 2 0 novem­ bre 1 7 7 5 - Vienna (?], martedì 5 luglio 1 8 4 2 ) . Nel 1 8 0 2 il vecchio Carlo ce­ dette la casa madre a Domenico III e al suo ex dipendente Tranquillo Mollo. Divenuto successivamente genero di Carlo, Domenico III nel 1 8 0 4 si staccò da Mollo e aprì una sede autonoma della ditta Artaria. Raccolse una prezio­ sa serie di rari e importanti autografi, e nel 1 8 2 7 , dopo la morte di Beethoven, venne in possesso di molti suoi manoscritti. Sarebbe possibile che questa pri­ ma ideazione di un tardo capolavoro beethoveniano abbia fatto parte della collezione di Domenico III Artaria. Questo Adagio è stato proposto sovente dal Quartetto Borciani (Milano) guidato, fino al suo scioglimento, dal primo violino Fulvio Luciani. È stato uno fra i numeri privilegiati del suo reperto­ rio. Per quanto riguarda tutta una serie di abbozzi primitivi, fra cui idee an­ che per il Quartetto op. 1 3 1 , dà notizie utili Giovanni Biamonti (v. G B 8 3 5 8 3 9 , pp. 1 0 2 8 - 1 0 2 9 ) .

242

Altre composizioni di Beethoven per Quartetto d’archi

È recente, diffusa nel passaggio dal 2013 al 2014, la notizia che annuncia prossima la conclusione affermativa di una lunga e tormentata ricerca, relati­ va a 6 Quartetti per archi (in Do maggiore, Sol maggiore, Mi bemolle mag­ giore, Fa minore/maggiore, Re maggiore, Si bemolle maggiore), in origine at­ tribuiti, con molti dubbi, a Mozart. Il catalogo Köchel li classifica in Anhang 291a (C. 20-05); non sono da confondere con i 6 Quartetti capricciosi (di Jo­ hann Mederitsch [Gallus). Marie-Olivier-Georges du Parc Poulain, conte di Sain-Foix, ipotizzò che fossero opere giovanili di Beethoven. Ne parlano, nei loro cataloghi, Kinsky-Halm (Anhang 2), Willy Hess (Anhang 7), Antonio Bruers (n. 300), Giovanni Biamonti (nota aggiunta a Π-44, p. 1054). Ci augu­ riamo che, quando il presente libro sarà pubblicato, la verità sia stata rag­ giunta in misura certa.

243

NOTA BIBLIOGRAFICA

Segnaliamo una brevissima serie di libri e di saggi che si occupano, in tut­ to o in parte, dei Quartetti per archi di Beethoven. La lista è tanto esigua da impedirci di parlare di “lacune” o di “selezione” o di “essenzialità”. L’elenco è semplicemente arbitrario, e vuol essere soltanto un suggerimento.

1. Fonti The Letters of Beethoven, collected, translated and edited with an introduc­ tion, appendixes, notes and indexes by EMILY ANDERSON, Macmillan, London-Toronto-New York 1961; traduzione delle lettere dall’inglese di A. Ernest Howell e Michela Gioia Alfieri, traduzione delle note dall’in­ glese di Paola H. Coronedi e Massimo Pietrobon, revisione dei testi mu­ sicali di Luigi Cocchi, Le lettere di Beethoven, ILTE, Torino 1968. L’evidente limite di questa pubblicazione, pur pregevole per la qualità grafica e il corredo di note biografiche e storiografiche, è il suo essere una traduzione della traduzione dal tedesco di Beethoven e dei suoi corri­ spondenti, all’inglese della Anderson - studiosa egregia -, all’italiano dei molteplici traslatori). Si ravvisano inoltre lacune e omissioni. Oggi il pun­ to di riferimento fra le pubblicazioni epistolografiche relative a Beetho­ ven è: LUDWIG VAN B e e t h o v e n , Briefwechsel, Gesamtausgabe,

herausgegeben von Sieghard Brandenburg, 6 volumi, G. Henle Verlag, München 1996; tra­ duzione italiana di Luigi Della Croce, Epistolario, 6 volumi, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Roma - Skira, Milano 1999. In ciascun volu245

Nota bibliografica

me dell’edizione italiana, i periodi di datazione delle lettere di e a Beetho­ ven corrispondono a quelli dell’originale edizione tedesca: vol. I, ed. 1999 (1783-1807), vol. II, ed. 2000 (1808-1813), vol. Ili, ed. 2001 (1814-1816), vol. IV, ed. 2002 (1817-1822), vol. V, ed. 2003 (1823-1824), vol. VI, ed. 2007 (1825-1827). Ludwig van Beethovens Konversationshefte, im Aufträge der preussischen Staatsbibliothek, herausgegeben von Georg Schünemann, Max Hesses Verlag, Berlin 1941-1943; traduzione italiana dal tedesco di Paola H. Coronedi, prima versione italiana a cura di Guglielmo Barblan, I quaderni di conversazione di Beethoven, ILTE, Torino 1968. e r h a r d W e g e l e r , F e r d i n a n d R i e s , Biographische Notizen über Lud­ wig van Beethoven, Bädeker, Koblenz 1838; traduzione italiana e a cura di Artemio Focher, Beethoven, appunti biografici dal vivo, Moretti & Vitali, Bergamo 1993. Una generazione separava Franz Gerhard Wegeler (Bonn, giovedì 22 agostol765 - Koblenz, domenica 7 maggio 1848), medico, amico di Beet­ hoven dal 1782 quando erano lui diciassettenne e Ludwig dodicenne, da Ferdinand Ries (Godesberg presso Bonn, battezzato domenica 28 no­ vembre 1784 - Francoforte sul Meno, sabato 13 gennaio 1838), musici­ sta, allievo fedelissimo e affezionato di Beethoven. Entrambi concittadini del Maestro fin dalla nascita, quando unirono insieme i loro appunti dan­ do appunto quel titolo modesto a questo libro prezioso come il diamante Kohinoor e uscito nel maggio 1838, quattro mesi dopo la morte del più giovane dei due (“Notiz” significa “appunto”, non “notizia” che in tede­ sco è “Nachricht”), credevano di offrire ai posteri un materiale informe che altri avrebbero riordinato. Non pensavano di aver dato vita a un testo capitale, al quale tutti i biografi di Beethoven sono stati e sono debitori.

Franz G

2. Cataloghi GEORG K insky , H ans H alm , Das Werk Beethovens: thematisch-bibliographi­ sches Verzeichnis seiner sämtlichen vollendeten Kompositionen, G. Henle

Verlag, München-Duisburg 1955. Il catalogo fondamentale, punto d’arrivo, e, insieme, di partenza. Classi­ fica tutte le composizioni a noi lasciate da Beethoven in stato definitivo, compiute: quelle contrassegnate dall’autore con un numero d’opera, e quelle che egli non numerò ma di cui fu ugualmente orgoglioso e che fu­ rono eseguite. Furono ordinate da Kinsky-Halm, con il numero d’ordine preceduto dall’acronimo “WoO”, ossia “Werke ohne Opuszahl”, “corn246

Nota bibliografica

posizioni senza numero d’opera”. Mancano le “prime versioni”, le stesu­ re abbandonate, i frammenti, tutto ciò che invece, con loro grande meri­ to, avrebbero raccolto sia Willy Hess, sia Giovanni Biamonti. e s s , Verzeichnis der nicht in der Gesamtausgabe veröffentlichten Werke Ludwig van Beethovens, Breitkopf & Härtel, Wiesbaden 1957. Questa del 1957 è la versione definitiva del progetto avviato dal musicolo­ go svizzero Willy Hess (1906-1997) con un suo breve elenco del 1931, comprendente un buon numero di composizioni beethoveniane non pre­ senti nella vecchia edizione degli “opera omnia” né in Kinsky-Halm, e classificate con criteri semplici, “in chiaro”, ma rivelanti una vasta e solida conoscenza e una grande passione in quel venticinquenne suonatore di fa­ gotto, isolato e povero, che tra il 1942 e il 1971 si guadagnò da vivere suo­ nando nell’orchestra di Winterthur, la sua città natale, e che non conseguì mai un titolo accademico. L’elenco del 1931 fu ripubblicato in versione accresciuta nel «Neues Beethoven-Jahrbuch», VII (1937), (supplemento, 1939), e nel 1953 in un’edizione italiana a cura di Giovanni Biamonti.

W ILLY H

Catalogo cronologico e tematico delle opere di Beetho­ ven, ILTE, Torino 1968. Lavoro paziente e solitario, attento a tutti i connotati artistici, storici, ideologici di ciascuna composizione beethoveniana, compresi i minimi frammenti, gli appunti presi velocemente da Beethoven su foglietti volan­ ti, le annotazioni alternative a idee musicali approvate e utilizzate. In par­ ticolare, per quanto riguarda i Quartetti, Biamonti riferisce senza com­ menti le interpretazioni “letterarie” e “filosofiche” che ad essi sono state inflitte, comprese quelle, fantasiose e talora addirittura geniali nel loro fantasticare, di Arnold Schering.

G IO V A N N I B i a m o n t i ,

F. G r e e n , The New Hess Catalog of Beethoven’s Works, introduzione di Sieghard Brandenburg, Vance Brook Publishing, West Newbury (Ver­ mont) 2003; traduzione italiana di Cristoforo Prodan, Il nuovo catalogo Hess delle opere di Beethoven, introduzione all’edizione italiana di Rober­ to Diem Tigani, Zecchini, Varese 2006. Si potrebbe dire, a prima vista, che questo libro sia semplicemente la tra­ duzione italiana, a lungo attesa, del catalogo Hess. Con ciò, sarebbe già un ottimo esito editoriale, e tuttavia si potrebbe attribuirgli una scientifi­ cità imperfetta, considerandolo una traduzione della traduzione: al tede­ sco, all’inglese, all’italiano. Un po’, il caso di Emily Anderson. Ma non è così. James F. Green non si limita a tradurre il catalogo di Willy Hess: ra­ giona, deduce, corregge anche qualcosa, ma soprattutto arricchisce i lem­ mi della catalogazione con il racconto di “ciò che avvenne dopo” la siste-

Jam es

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Nota bibliografica

inazione data a Hess a questa materia un po’ nebulosa e sfuggente. E l’edizione italiana a sua volta arricchisce quella inglese originale, poiché offre al lettore e studioso italiano l’introduzione all’edizione italiana di Roberto Diem Tigani, che apre la porta alla nota del traduttore italiano Cristoforo Prodan, che a sua volta traduce l’introduzione di Sieghard Brandenburg, di cui è conseguenza la prefazione di James F. Green all’edi­ zione inglese, e il tutto accoglie in sé come nucleo i due scritti prelimina­ ri di Willy Hess, ossia l’introduzione originale (Perché è necessaria una nuova edizione completa?) e la prefazione originale. Non è da perdere il ritratto di Willy Hess tracciato con nostalgia da Brandenburg: «un picco­ lo gentleman con gli occhiali, per tutta la vita magicamente attratto dalle versioni abbandonate di composizioni poi pubblicate, dai frammenti e dalle opere perdute o incompiute del compositore» (p. X V II). Beethoven. Signori, il catalogo è questo!, Einaudi, Torino 1995. Apprezzabilissimo lavoro amatoriale, finalizzato all’alta divulgazione e all’uso che ne può fare l’ascoltatore di concerti e di opere teatrali. Il cata­ logo prende in esame le composizioni con numero d’opera e le WoO, completando i dati storici essenziali con stralci da episodi storici (talvolta aneddotici, ma significativi e documentati) e da giudizi critici. Si dà noti­ zia del catalogo Hess.

AM EDEO P o g g i , E d g a r V a l l o RA,

3. Biografie e opere generali sulla vita e sul lascito di Ludwig van Beethoven h e e l o c k T h a y e r , The Life of Ludwig van Beethoven, edited, revised and amended from the original English manuscript and the Ger­ man editions of Hermann Deiters and Hugo Riemann, concluded, and all the documents newly translated by Henry Edward Krehbiel, published by the Beethoven Association (New York), G. Schirmer, Inc., New York 1921. Questa redazione originale in lingua inglese rimase inedita fino a un quar­ to di secolo dopo la morte di Thayer. Su di essa lavorò, traducendola in tedesco, Hermann Deiters, che scavalcò precorrendola l’edizione ameri­ cana. Nacque così l’edizione tedesca, Ludwig van Beethovens Leben, 5 vo­ lumi editi a Berlino rispettivamente nel 1866,1872,1879,1907,1908, gli ultimi due con note e revisioni di Hugo Riemann; nuova edizione a cura di Hugo Riemann, che vi lavorò a partire dal 1901, Beethovens Leben, 5 volumi, Breitkopf & Härtel, Leipzig 1917 (voi. I), 1922 (vol. I l) , 1923 (vol.

A lexander W

I ll, IV , V ).

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Nota bibliografica

Ludwig van Beethoven. Leben und Schaffen, 2 volumi, O. Janke Verlag, Berlin 18842. Π saggio uscì per la prima volta nel 1859. AUG UST G O l l e r i c h , Beethoven, prefazione di Richard Strauss, Marquardt, Berlin 1903. L u i g i M a g n a n i , Goethe, Beethoven e il demonico, Einaudi, Torino 1976. W a l t e r R i e z l e r , Beethoven, Adantis Musikbuch-Verlag, Zürich 1977; edi­ zione italiana a cura di Piero Buscaroli, traduzione italiana di Piero Oddo Bertini, Beethoven, Rusconi, Milano 1977. Il libro uscì in prima edizione nel 1936 con una prefazione di Wilhelm Furtwängler. M a r t i n C o o p e r , Beethoven. The Last Decade 1817-1827, Oxford University Press, Oxford 1970; traduzione italiana di Ala Botti Caselli, Beethoven, l’ultimo decennio 1817-1827, ERI, Torino 1979. C a r l D a h l h a u s , Die Idee der absoluten Musik, Bärenreiter, Kassel-Basel 1978; traduzione italiana di Laura Daliapiccola, Didea di musica assoluta. La Nuova Italia, Firenze 1988. C h a r l e s R o s e n , Sonata Forms , W.W. Norton & Company, New York 1980; traduzione italiana di Riccardo Bianchini, Le forme-sonata, Feltrinelli, Milano 1986. G i o v a n n i C a r l i B a l l o l a , Beethoven, Rusconi, Milano 1985. Revisione e ampliamento del precedente Beethoven dello stesso autore, Accademia, Milano 1967. M AYNARD S o l o m o n , Beethoven Essays (1988); traduzione italiana di Guido Zaccagnini, Su Beethoven, Einaudi, Torino 1998. Il capitolo XVI e ultimo contiene la traduzione italiana del Tagebuch (“Diario”) di Beethoven (pp. 271-284), il cui testo è preceduto, nel mede­ simo capitolo, da un’introduzione storica. Questa traduzione non si basa sul testo inglese, bensì sull’originale tedesco, ossia sulla copia di Anton Gräffer (redatta nell’estate 1827) che si trova nell’Archivio Municipale di Iserlohn in Renania-Westfalia. M AYNARD S o l o m o n , Late Beethoven. Music, Thought, Imagination (2003); traduzione italiana di Nicola Bizzarro, Dultimo Beethoven. Musica, pen­ siero, immaginazione, Carocci, Roma 2010. P i e r o B u s c a r o l i , Beethoven, R iz z o li, M ila n o 2 0 0 4 . Ad o lph Bernhard M arx,

4. Sui Quartetti per archi Haydn, Mozart, Beethoven: étude sur le quatuor. Chez l’auteur et chez les principaux marchands de musique, Paris 1861; nuova edizione, Firmin et Didot, Paris 1884. Questo libro di Charles-Eu­ gène Sauzay (Parigi, venerdì 14 luglio 1809 - Parigi, giovedì 24 gennaio

CHARLES-EUGÈNE S a u z a y ,

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Nota bibliografica

1901), violinista e violista, allievo di Anton’n Reicha, viola nel Quatuor Baillot fino al 1840, è uno dei primi libri francesi, se non il primo, in cui si parli dei Quartetti di Beethoven con (1895) analitici e critici. W i l h e l m M a u k e , Ober Beethovens Streichquartette, in «Neue Musik-Zei­ tung», XVI, pp. 79-126. IPPOLITO V a l e t t a , I Quartetti di Beethoven, Bocca, Milano 1943. Saggio uscito nel 1905 in occasione dell’integrale dei Quartetti di Beethoven a Roma eseguiti dal Quartetto Joachim. JOSEPH DE M a r l i a v e , Les Quatuors de Beethoven, prefazione di Gabriel Fau­ ré, Alcan, Paris 1925. D A N IE L G r e g o r y M a s o n , The Quartets of Beethoven, Oxford University Press, Oxford-New York 1947. IVAN M a h a i m , Beethoven: naissance et renaissance des derniers Quatuors, 2 volumi, introduzione di Ernest Ansermet, Desclée de Brouwer, Paris 1964. Ivan Mahaim (Liegi, venerdì 25 giugno 1897 - Losanna, venerdì 3 dicembre 1965) fu una singolare e forse irripetibile figura di musicologo autentico, agguerrito e di saldissima competenza, ma di origine amatoria­ le. Medico cardiologo di professione, laureato a Losanna, fu co-fondato­ re e presidente (1946-1952) della Société Suisse de Cardiologie. Questo suo libro sui Quartetti, uscito un anno prima della sua morte e con pagi­ ne di assoluta bellezza e profondità, può essere inteso come il suo testa­ mento intellettuale. J o s e p h K e r m a n , The Beethoven Quartets, Oxford University Press, LondonMelbourne-Cape Town 1967. L u i g i M a g n a n i , Beethoven nei suoi Quaderni di conversazione, Einaudi, To­ rino 1975. G e r a l d A b r a h a m , La musica da camera di Beethoven, nel volume di AA.VV., L’età di Beethoven, 1790-1830, a cura di Gerald Abraham, traduzione ita­ liana di Gabriele Dotto, Donata Aldi e Maria Alessandra Lucioli, Feltri­ nelli, Milano 1984, pp. 279-327 (dall’edizione originale The Age of Beet­ hoven (1790-1830), edited by Gerald Abraham, Oxford University Press, London-New York 1982).

ilBUOTfCA COMUKAfll « V. JO P P i » DI U D IN I SUZIONE MUSICA r ') ·? D /j Π •

μ . H ........··« 250

D al catalogo Jaca Book R. W agner, Q. Principe, Lohengrin. Wagner e noi, 2012 — , Tannhäuser. L'umano atterrito dal soprannaturale, 2014 — , Tristano e Isotta. Eros o lo specchio della dualità, (in prep.) V. Minazzi, C. Ruini (a cura di), Atlante Storico della M u­ sica nel Medioevo, 2011 F.R. M a rtin , M. M enu, S. Raymond, Grünewald, 2012 H.W. P fe iffe r SJ., La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro, 2007, 20135 — , La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro, 2010, 20122 (versione brossurata) C.L. Fromm el, Michelangelo. I l marmo e la mente, 2014 N. D acos, H.W. P fe iffe r S.J., Michelangelo e Raffaello in Vaticano, 2009 N. DACOS, Viaggio a Roma, 2012 M.A. H o lly , Ranofsky e i fondamentali della storia del­ l’arte, 1991 L . C a s t e l f r a n c h i V e g a s , Larte medioevale in Italia e nell’Occidente europeo, 1993, 2006é — , Larte del Quattrocento in Italia e in Europa, 1996 — , Larte ottomana intorno al Mille, 2002 — , Le mobili frontiere dell’arte. Tra Medioevo e Rinasci­ mento, 2012 J. DERRIDA, La voce e il fenomeno. Introduzione al pro­ blema del segno nella fenomenologia di Husserl, 1968, nuova ed. 2010, collana Biblioteca Permanente Jaca —, Della grammatologia, 1969, nuova ed. 1998, ult. rist.

2001 — , La farmacia di Platone, 1985, nuova ed. 2007 — , Introduzione a «L’origine della geometria» di Hus­ serl, 1987, nuova ed. 2008 — , La disseminazione, 1989 — , Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, 1992 —, Memorie per Paul de Man. Saggio sull’autobiografia, 1995 —, Il segreto del nome, 1997, ult. rist. 2005 — , Addio a Emmanuel Lévinas, 1998, ult. rist. 2011 —, Paraggi. Studi su Maurice Blanchot, 2000 —, Donare la morte, 2002, ult. rist. 2008 —, Ogni volta unica, la fine del mondo, 2005 —, Economimesis. Politiche del bello, 2005

— , Inanimale che dunque sono, 2006 — , Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. 1, 2008 — , Psyché. Invenzioni dell’altro, voi. 2, 2009 — , La bestia e il sovrano. Seminari, Volume I (20012002) , 2009 — , La bestia e il sovrano. Seminari, Volume li (20022003) , 2010 — , La pena di morte. Seminari, Volume I (1999-2000), 2014 (in prep.) E. Lévinas, Totalità e infinito, 1980, ult. rist. 2012 — , Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, 1983, ult. rist. 2011 — , D i Dio che viene all’idea, 1986, ult. rist. 2007 — , Dio, la morte e il tempo, 1996, ult. rist. 2003 — , Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, 1998, ult. rist. 2002 — , Nell’ora delle nazioni. Letture talmudiche e scritti filosofico-politici, 2000 — , La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Hus­ serl, 2002 — , Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, 2004 P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, 1977, nuova ed. 1995, ult. rist. 2007 — , La metafora viva, 1981, nuova ed. 2010, collana Bi­ blioteca Permanente Jaca — , La semantica dell’azione, 1986, ult. rist. 1998 — , Tempo e racconto. Volume 1 ,1986, ult. rist. 2008 — , Tempo e racconto. Volume 2. La configurazione nel racconto di finzione, 1987, ult. rist. 2008 — , Tempo e racconto. Volume 3. Il tempo raccontato, 1988, ult. rist. 2007 — , Dal testo all’azione. Saggi sull’ermeneutica, 1989, ult. rist. 2004 — , Sé come un altro, 1993, nuova ed. 2011, collana Bi­ blioteca Permanente Jaca — , Conferenze su ideologia e utopia, 1994 — , La critica e la convinzione, 1997 — , Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, 1998, nuova ed. 2013

«Lo spoglio dell’occidente» sotto la direzione di Carlo Sini C. SlNl, Gli abiti, le pratiche, i saperi, 1996, 20032 G.H. Mead, La voce della coscienza, 1996 R. RONCHI, La scrittura della verità, 1996

G. Pasqui, La scrittura delle scienze sodali, 1996 M .P . T e l m ON, La differenza praticata. Saggi su Derrida, 1997 H. H

u sserl,

Glosse a Heidegger, a cura di C. SlNlGA-

GLIA, 1997

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Johann H einrich Fiissli (1741-1825) Nachtmahr (“Incubo”), 1781

Adam Elsheimer (1578-1610) Die Flucht in Aegypten (“La fuga in E gitto”), 1609

Caspar David Friedrich (1774-1840)

M a n n u n d Frau in B etra ch tu n g d es M o n d es (“Uomo e donna in contemplazione della luna”), 1818

Caspar David Friedrich (1774-1840)

Z w e i M ä n n er a m M eeresu fer im A b e n d ro t (“Due uomini in riva al mare, al tram onto”), 1807