Il pianoforte di Beethoven

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Teatro Comunale di Monfalcone

IL PIANOFORTE DI

a cura di Carlo de Incontrerà

Teatro Comunale di Monfalcone 15 aprile - 20 giugno 1986

Comune di Monfalcone Assessorato Istruzione e Cultura

con l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con l’Alto Patrocinio del Ministero del Turismo e Spettacolo con la collaborazione della Provincia di Gorizia, della Radiotelevisione di Lubiana, della RAI Radiotelevisione Italiana, della Cassa di Risparmio di Trieste.

Curatore: Carlo de Incontrerà

Organizzazione: Giovanna D’Agostini Ripartizione Prima del Comune di Monfalcone

Il presente volume è stato realizzato sotto gli auspici della Cassa di Risparmio di Trieste.

Tipo/lito Stella, Trieste

Le spine della vita lo ferirono profondamente, ma come un naufrago si aggrappa alla riva, egli si gettò nelle tue braccia, sorella sublime della Bontà e della Verità, consolatrice del dolore, Arte che scendi dalPalto... (Franz Grillparzer, 1827)

Quando, nel 1981,l’Assessorato alla Cultura del Comune di Monfalcone programmò la rassegna «Beethoven e il suo tempo», il Teatro era ancora in fase di costruzione. Così, accanto alla Mostra (dallo stesso titolo) im­ portata dal Teatro la Fenice di Venezia e al ciclo di conferenze, ben poco si potè fare di specificamente musicale: un concerto all’aperto, in piazza, con l’integrale delle musiche scritte da Beethoven per banda militare e un solo concerto al chiuso, sacrificato in una sala assai modesta, con la pri­ ma esecuzione della Nona Sinfonia nella versione per due pianoforti di Franz Liszt (duo Canino-Ballista). Da qui l’idea di riproporre oggi, a teatro costruito e collaudato, il ‘caso’ Beethoven con una manifestazione di largo respiro, ‘appoggiata’ alla rag­ giunta maturità culturale di Monfalcone e destinata a un pubblico che, con il passare degli anni, si è rivelato fedele e sempre più attento alla qua­ lità delle proposte. «Il pianoforte di Beethoven»: questo è dunque il titolo della rassegna che, tra il 15 aprile e il 20 giugno 1986 e nel corso di venti concerti (quattordici da camera e sei sinfonici), presenta il ‘meglio’ della produzione pianistica beethoveniana. Perché il pianoforte? Perché è stato il suo strumento («nel suonare eccel­ leva su tutti i suoi contemporanei in impeto e bravura», testimonia l’allie­ vo Carl Czerny); perché sul pianoforte egli ha sperimentato ogni nuova idea compositiva, ogni avventura armonica e timbrica, ogni «riflessione più intima e audace» (Martin Cooper); perché al pianoforte egli ha dedi­ cato una quantità ‘impressionante’ di pagine: circa due terzi del catalogo beethoveniano comprendono il pianoforte o da solo o nelle più svariate combinazioni cameristiche e sinfoniche. Questo strumento è, insomma, lo specchio «in cui si riflette per intero l’attività creativa del maestro in tutti i suoi aspetti stilistici e spirituali» (Giovanni Carli Ballola); ma non

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solo: con Beethoven, per la prima volta nella Storia della Musica, il pia­ noforte — il giovane strumento che sta finalmente imponendosi nel pano­ rama musicale del classicismo — viene esplorato massicciamente nelle sue possibilità tecniche e sonore. Di questo ‘cosmo’ pianistico beethoveniano la rassegna monfalconese of­ fre uno spaccato molto ampio: l’integrale delle Trentadue Sonate, tutta l’opera per pianoforte e orchestra, i grandi cicli di Variazioni, le ultime Bagatelle, Fogli d’Album, varie escursioni nella produzione da camera e nella Liederistica. Sul palcoscenico del Teatro Comunale sono chiamati solisti e complessi prestigiosi. A sostenere l’impegno sinfonico è l’Orchestra e il Coro della Radiotelevisione di Lubiana sotto la direzione del direttore stabile Anton Nanut, di Tamàs Vàsàry, di Muhai Tang. Jeffrey Swann, Bruno Leonardo Gelber, Alexander Lonquich, Michel Dalberto, Jean-Bernard Pommier, Tamàs Vàsàry, Francois Joèl Thiollier, Louis Lortie, Gerhard Oppitz interpretano in altrettanti recital le Sonate e le Variazioni. Due sonate (op. 13 e op. 110), le Bagatelle op. 126, il Rondo op. 5.2 e tre Fogli d’Album (tra cui Fùr Elise) sono eseguiti da Jòrg Demus con un forte-piano viennese del 1825, quale esempio della sonorità del pianoforte dell’epoca di Beethoven. Al duo Canino & Ballista tocca l’opera per pianoforte a quattro mani. Una serata di Lieder vede come protagonisti Michael Schopper e Benedikt Koehlen. Tra i complessi: il Trio Cajkovskij (Sonata op. 96 per violino e pianofor­ te, Sonata op. 5.2 per violoncello e pianoforte, Trio op. 1.1), lo Jess-TrioWien (Seconda Sinfonia, nella trascrizione fatta dallo stesso compositore, Trio op. 97 «Arciduca»). l’Ensemble Kreisleriana (Quintetto op. 16 per pianoforte e fiati). Dubravka TomsiC apre la rassegna eseguendo il Primo e il Terzo Concer­ to per pianoforte e orchestra. Tamàs Vàsàry è solista e direttore nel Quin­ to Concerto «Imperatore». Fran?ois-Joèl Thiollier esegue il Quarto Con­ certo e il Concerto in re maggiore per violino nella versione dello stesso Beethoven per pianoforte e orchestra. Johannes Kropfitsch presenta il gio­ vanile Concerto in mi bemolle maggiore (con la ricostruzione orchestrale di Willy Hess) e insieme ai fratelli dello Jess-Trio il Triplo Concerto per pianoforte violino violoncello e orchestra. Louis Lortie è l’interprete del Rondo in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra e del Secondo Concerto, mentre Jòrg Demus ritorna sul palcoscenico del Comunale quale solista nella Fantasia corale e nel Concerto in re minore K 466 di Mozart (con le cadenze di Beethoven). A completare i programmi sinfonici vengono ancora eseguite la Quinta

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e la Settima Sinfonia, Meerestille und gliìckliche Fahrt per coro e orche­ stra e alcune Ouvertures: Coriolano, Egmont, Le creature di Prometeo, Fidelio, Leonora II e Leonora III.

L’iniziativa si completa con il presente volume alla cui realizzazione han­ no contribuito studiosi di Beethoven e musicologi illustri. La prima parte del libro è dedicata al pianismo beethoveniano e si apre con un saggio di Jòrg Demus sulla storia del forte-piano della fine Settecento e primo Ot­ tocento, e sulla filologia esecutiva. Jeffrey Swann, partendo dalle forme auree del classicismo sottolinea le novità della scrittura di Beethoven, in particolare le proporzioni degli Adagi e il ruolo drammatico dei Finali. Dino Villatico segue gli ultimi itinerari pianistici beethoveniani «alla luce dei Quaderni di conversazione degli anni 1818-1823», itinerari che si sta­ gliano su una ‘scenografia’ eccezionalmente viva e si snodano su un per­ corso gremito di personaggi spesso straordinari, ma ancor più frequente­ mente caratteristici o, addirittura, patetici. La storia della Variazione, delle Goldberg alle Diabelli, viene documenta­ ta dal saggio di Piero Rattalino, un saggio che, ovviamente, mette a fuoco soprattutto la tecnica della Variazione in Beethoven e scende quindi nel­ l’analisi del gruppo di Variazioni programmate in questa Rassegna. Il rapporto tra strumento solista e orchestra nell’età classica, quel sinfonismo in cui il pianoforte «entra con un’autorità e ricchezza tale da produr­ re una miscela esplosiva e foriera di avventurose soluzioni» è oggetto del­ lo studio di Giorgio Pestelli. Mentre il sinfonismo allargato al pianoforte e al coro — quello della Fantasia op. 80 — trova una poetica definizione nel testo critico di E.T.A. Hoffmann (testo mai tradotto, finora, in italiano). La seconda sezione del libro — «Albumblàtter (con diagnosi)» — è inte­ ramente dedicata alle testimonianze di alcuni amici e ammiratori del mu­ sicista. Si tratta di ricordi che, tradotti parzialmente negli anni Venti, ap­ partengono ormai alle rarità bibliografiche: il pittore August von Kloeber parla del ritratto che fece a Beethoven nel 1813-14; Friedrich Wieck narra dell’incontro a Vienna per tentare di risolvere, almeno parzialmente, con uno speciale cornetto acustico, il problema della sordità; il poeta Ludwig Rellstab offre un’immagine particolarmente affascinante delle sue visite al Maestro; e così Franz Grillparzer; due medici, ancora, ci documentano sull’ultimo periodo della vita del musicista, e sulle sue innumerevoli malattie. Grillparzer, con le sue stupende orazioni funebri, apre la terza parte del

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libro, tutta dedicata alle celebrazioni. Così le quattro voci schumanniane di Florestan, Jonathan, Eusebius e Raro a proposito dell’erezione di un monumento al Maestro; così il frammento della lettera di Liszt a Berlioz — tracciata nell’«ineffabile bellezza» di quella «terra amata dalla luce» che è San Rossore — in cui si leva lo sdegno per la «lenta e parsimoniosa questua» del popolo francese per il monumento al «più grande musicista del secolo». Poi un giornalista, Filippo Filippi, detta una ‘corrispondenza’ da Vienna sulle Feste del 1870. Nel primo centenario della morte, invece, il saluto del popolo italiano e del Duce viene portato nella capitale austriaca dalla viva voce di Pietro Mascagni: «Lodovico van Beethoven... morto come Gesù!... Ma, come Gesù redento!... Immortale nel nostro cuore... per omnia saecula saeculorum». Dalla retorica più forsennata ai melodrammi lacrimevoli e simbolisti. Gian­ ni Gori commenta due testi ‘incredibili’: la tragedia Beethoven scritta da Pietro Cossa nel 1870 — dove «Luigi» è protagonista di una tempestosa relazione amorosa con una «Lucia» (figlia del maestro Neefe) che è, inve­ ce, la ‘solita’ pseudo «amata immortale» Giulietta (figlia di Guicciardi e sposa del cornuto conte Gallemberg); e la pièce teatrale scritta da René Fauchois nel 1906, tutta accensioni liriche e visioni oniriche. Sulla frase kantiana «La legge morale in noi...», conclusiva della Critica della ragion pratica (citata da Beethoven in uno dei suoi Quaderni), si ba­ sa la quarta parte del volume che inizia con «Beethoven e i filosofi» di Enrico Fubini. Si può parlare di una filosofia o di una estetica beethoveniana? Fubini propone una serie di considerazioni che si diramano dalla «parentela di Beethoven con Kant» per investire quindi «direttamente il nucleo centrale del pensiero musicale di Beethoven e del pensiero filosofico di Kant», ossia «la forma-sonata da una parte e il criticismo kantiano dall’altra». Il secondo contributo di questo capitolo ci viene offerto da un frammento de «Die Oper und das Wesen der Musik» di Richard Wagner (l’ultima tra­ duzione è del 1929) in cui viene riconosciuto a Beethoven «l’impulso natu­ rale di generare la melodia dall’organismo interiore della musica». Con la «Lettera a Trieste», Paolo Castaldi offre un’articolatissima analisi concettuale dei suoi collages pianistici in Anfrage (di Beethoven c’è una citazione dell’op. HO). Dalla pagina musicale scaturisce questo «raccon­ to, saggio, fantasia, visione, dissertazione», «fatto di frammenti, di esita­ zioni, di appunti, di parole», «confronti, apparentemente liberi e divagan­ ti»... «fatica», «dolore ma anche molta aggressività, e la forza di soprav­ vivere ancora, e la volontà mescolata alla pena per le molte sconfitte». Anche chi scrive queste note non ha resistito alla tentazione di lasciare una traccia saggistica affrontando un tema certamente marginale ma curioso

(«Beethoven e Trieste»). Così, le vicende di alcuni personaggi della cer­ chia viennese del musicista, che in qualche modo hanno avuto a che fare con il porto dell’impero, occupano interamente la quinta sezione del vo­ lume Sono tra gli altri, la contessina Giulietta Guicciardi — dedicataria della Sonata «Al chiaro di luna» - il dr. Gerhard von Breuning che da bambino allietò gli ultimi mesi di vita del Maestro e poi, da grande, medi­ co famoso, giunto a Trieste per motivi professionali, sposò una triestina; il console americano Alexander Wheelock Thayer, che proprio nella città adriatica scrisse la sua famosa biografia su Beethoven. In calce a questo saggio viene pubblicata, per la prima volta in italiano, la conferenza che lo stesso Thayer tenne al Casino Schiller di Trieste, nel 1877. A completamento del libro sono presentati i singoli programmi della ras­ segna monfalconese con le biografie e le fotografie degli interpreti.

Insomma, ne dovrebbe uscire alla fine un’immagine della statura di Beet­ hoven, e in particolare del Beethoven pianistico, estremamente viva, com­ piuta, nitida. Se una sola sua pagina, come disse Stefan Zweig, più che un’opera è «un mondo intero», dove «le parole sono insufficienti a com­ prenderlo tutto», dove «ogni paragone è troppo povero per l’urgenza im­ petuosa della sua sacra ricchezza: può solo venir vissuta, come la vita stes­ sa: con stupore eternamente nuovo, eternamente umile», allora l’esplora­ zione nel cosmo beethoveniano di questa rassegna, per la sua stessa vasti­ tà, dovrebbe riservare emozioni incancellabili. Spero di aver raggiunto questo obiettivo, che ho perseguito grazie alla sen­ sibile disponibilità dell’Amministrazione comunale monfalconese, cui va la mia personale riconoscenza. Un pensiero grato anche a tutti i collabo­ ratori, al musicologo Antonino Rappoccio che ha gentilmente messo a di­ sposizione il suo stupendo Hammerfliigel firmato da Ferdinand Comeretto nel 1825 ca. e a Sergio Carrino che ha permesso la consultazione della sua preziosa biblioteca beethoveniana. Il curatore Carlo de Incontrerà

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Il pianoforte di Beethoven

Forte-piano a cinque pedali, Nanette Streicher, 1821. (Casa Pasqualati, Vienna)

Jòrg Demus

Beethoven e il forte-piano

Possiamo dire che per Johann Sebastian Bach e alcuni dei suoi figli tutte le più rilevanti manifestazioni dell’universo musicale, sia strumentali che vocali, fossero più o meno egualmente significative: la musica composta da Johann Sebastian Bach per strumenti a tastiera comprende opere al­ trettanto importanti sia per organo che per clavicembalo che per clavicordo. In tarda età inoltre, Bach ebbe senz’altro modo di conoscere anche il forte-piano, soprattutto quelli di Silberman. A Wolfgang Amadeus Mo­ zart, quando era ancora un ragazzo, il padre Leopold consigliava di pren­ dere tranquillamente un clavicordo, qualora non trovasse un clavicemba­ lo che facesse al caso suo... In Joseph Haydn lo strumento a tastiera ha comunque fondamentalmente un ruolo d’appoggio e d’assieme. Circa a metà della vita di questo compositore avviene il passaggio dagli antichi strumenti, — clavicembalo e clavicordo —, a quel nuovo strumento che era il forte-piano, per il quale in seguito Haydn scrisse Sonate e Concerti di notevole valore, senza tuttavia far uso delle maggiori possibilità virtuo­ sistiche insite in questo strumento. Altro discorso per Ludwig van Beetho­ ven. Le sue opere giovanili di maggior rilievo — ad esempio le cosiddette Sonate del principe elettore, che Beethoven scrisse a undici anni — sono già musica pianistica di un notevole grado di difficoltà, mentre per lo me­ no la scrittura dell’ultimo pezzo da lui annotato nel quaderno di appunti prima di morire, Letzter Gedanke, WoO 62, è per pianoforte. Beethoven non fa differenza tra forte-piano e pianoforte: si tratta dello stesso stru­ mento che lo accompagnò per tutta la vita, trovando la sua espressione più personale nelle Sonate, sviluppando un enorme e nuovissimo poten­ ziale virtuosistico nei Concerti e nelle Variazioni; irrinunciabile strumento d’assieme e d’accompagnamento nelle Sonate con violino e violoncello (nel cui titolo originale il pianoforte occupa sempre il primo posto), nei Trii, Quartetti e Quintetti, nella musica con fiati, nei Lieder, nonché nelle ope­

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re corali. Il pianoforte è dunque lo strumento centrale dell’espressività beethoveniana, lungo tutto l’arco della sua vita. Sorprende perciò che alla que­ stione inerente agli strumenti da lui adoperati siano stati dedicati finora così poca attenzione e pochissimo spazio. Senza dubbio Beethoven da bam­ bino avrà ancora trovato i vecchi forte-piani in molte delle case dove pro­ babilmente suonava come ospite, essi tuttavia non hanno lasciato alcun segno nelle sue opere. Soltanto del Rondò in la maggiore WoO 49, tra le sue primissime composizioni, si può pensare che si adatterebbe ad un cla­ vicembalo; poi abbiamo ancora due Preludi giovanili per organo, purtroppo assai poco significativi e, d’altro canto, il fragile clavicordo non si può collegare a nessuna delle opere di Beethoven. È dunque il forte-piano, il piano a martelletti, lo strumento più peculiare di Beethoven musicista e virtuoso, che nei primi anni viennesi era quasi più famoso come pianista che come compositore. Sappiamo di una gara tra lui e il più famoso piani­ sta viennese dell’epoca, l’abate Gelinek, che tornò a casa molto demora­ lizzato commentando le nuovissime combinazioni e la tecnica spericolata e imprevedibile di quel ragazzo con le parole: «in quel giovane si nascon­ de Satana» — il che non è un complimento da poco in bocca a un religio­ so... Inoltre, due anni prima di morire — secondo l’opinione corrente era già completamente sordo (cosa che qui mettiamo in dubbio) — Beethoven acquistò un pianoforte nuovo, appositamente rinforzato e costruito per lui da Conrad Graf. Ci rimane uno schizzo a matita in cui lo si vede sedu­ to a quel pianoforte su cui è applicato una specie di megafono. Non solo si può affermare che il pianoforte fu sempre al centro della creazione arti­ stica di Beethoven, ma anche che questo strumento lo accompagnò in tut­ ta la sua evoluzione creativa. Ma di che strumenti si trattava? Possiamo suddividerli più o meno in cinque tipi, rappresentati da uno o più esem­ plari, di volta in volta il modello più recente di pianoforte fino allora co­ struito. In un primo tempo si trattava dei tipici forte-piani della fine del 18° secolo, che possiamo designare con il nome di «Mozartfluegel». Do­ po l’invenzione del pianoforte da parte di Bartolomeo Cristofori a Pado­ va verso gli ultimi anni del ’600 sembrava dapprincipio che non dovessero esserci ulteriori sviluppi nella meccanica a martelletti dato l’ottimo equili­ brio nella sonorità pur dolce e tenue, caratteristica degli strumenti da lui costruiti. Ci vollero alcuni decenni prima che la famiglia Silbermann des­ se ulteriore impulso allo sviluppo di questi strumenti, che sembra siano stati apprezzati da Johann Sebastian Bach. È provato che egli suonò i forte­ piani Silbermann alla corte di Federico il Grande e deve avervi eseguito anche delle improvvisazioni sul «Tema regale», più tardi ampliato nell’O/ferta musicale. Ma pure i costruttori dei più diversi tipi di clavicembalo non stavano con le mani in mano: introdussero nuovi registri, un meccanismo per il cre­

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scendo e il diminuendo («crescendo veneziano»). I grandi strumenti a due tastiere poi erano dei veri, brillanti strumenti da concerto, dotati di molti registri. Così il clavicembalo potè conservare ancora a lungo la sua posi­ zione dapprima di primo piano, poi paritaria con il pianoforte. Una bella dimostrazione di questa temporanea equiparazione è data da una delle ul­ time opere di Philip Emanuel Bach: il Concerto per clavicembalo e forte­ piano in mi bemolle maggiore. Anche il clavicordo ebbe ulteriori sviluppi: se ne produssero a due o addirittura a tre corde nelle note basse, e lo stru­ mento fu notevolmente ingrandito. Le mutate dimensioni comportarono però inevitabilmente anche la produzione di timbri alquanto più grossola­ ni. Fu solo nei paesi nordici che il clavicordo potè preservarsi fino al 19° secolo inoltrato. Il fattore determinante fu il graduale passaggio al piano­ forte da parte dei più importanti musicisti degli anni 1770-1780: prima Phi­ lip Emanuel Bach, poi Haydn e — ciò è molto significativo — Mozart. I Concerti per pianoforte di Mozart, ad eccezione dei primi, sono delle magnifiche opere pianistiche, impensabili su ogni altro strumento. Mo­ zart, da quel grande esecutore che era, fu il maggior propugnatore del nuo­ vo strumento in via di affermazione. Possiamo seguire quest’evoluzione — tra il 1770-80 — nelle vecchie edizioni delle opere di Mozart e Haydn, che dapprima riportano la dicitura: «per Clavicembalo o Forte-piano», «per Forte-piano o Clavicembalo», infine solo «per Forte-piano». Questa prima fioritura della musica pianistica, raggiunta grazie alle grandi opere di Mozart, coincide con una prima tappa nello sviluppo costruttivo del nuovo strumento: si tratta in tutti i casi di uno strumento a corde dall’in­ telaiatura di legno, dotato di una meccanica a martelletti e un’estensione di cinque ottave, dal fa grave fino al fa’”. Il colore dei tasti è ancora op­ posto a quello di oggi: gli attuali tasti bianchi sono neri, per lo più fatti di ebano o di bosso, quelli rialzati sono bianchi, rivestiti di osso oppure d’avorio. C’è poi un meccanismo di smorzamento per attenuare ‘ad libi­ tum’ i suoni, notevolmente migliorato da Andreas Stein ad Augsburg che fu molto lodato da Mozart in una lettera al padre. A Stein si devono an­ che molti altri miglioramenti, come l’arresto dei martelletti dopo l’attacco per evitare che saltellino; quella che oggi è una leva a pedale veniva allora azionata dal ginocchio (genouillère). Attivata allo stesso modo era un’al­ tra leva spesso presente: il ‘moderatore’, che aveva la funzione di inserire uno straterello di feltro tra le corde e i martelletti di legno rivestito di pel­ le, producendo in tal modo un meraviglioso suono simile all’arpa. Alcuni strumenti sono dotati di altri effetti come per esempio il registro di liuto, o, nei toni bassi, il registro di fagotto, per cui della pergamena veniva pre­ muta sulle corde dall’alto e il registro turco che consisteva di una percus­ sione a campanelli. E c’erano anche altri registri che però non trovarono applicazione nelle grandi opere dei maggiori compositori. Tre nomi po-

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irebbero bastare per definire il tipo di strumento a coda mozartiano: An­ dreas Stein, Anton Walter e Wenzel e Johann Schantz, i primi due prefe­ riti da Mozart, gli ultimi da Haydn. Qui la meccanica consisteva nel co­ siddetto «meccanismo di Vienna», per cui la ripetizione di una stessa nota era possibile solo dopo che il tasto era tornato alla sua posizione iniziale. Ciò non costituiva ancora uno svantaggio poiché la sua corsa era di appe­ na 3-4 mm: una ribattuta richiedeva appunto che il tasto ripercorresse so­ lo quei 3-4 mm. Ed anche armonicamente si trattava di uno strumento per­ fezionato ed equilibrato, di grande trasparenza nei toni bassi, trasparenza e piacevole sonorità dovute soprattutto alle corde di ottone, per lo più non ricoperte e solitamente solo doppie: con ciò la tenuta del discanto era piut­ tosto breve, ma, grazie alla trasparenza dei bassi, l’equilibrio tonale era nel complesso buono. Possiamo senz’altro ritenere che Mozart fosse mol­ to soddisfatto di quello strumento e che non desiderasse vi fossero appor­ tate modifiche o innovazioni. Alla sua sensibilità vocale doveva senz’altro bastare che la nota cantata più acuta (per esempio nel Flauto magico), il fa’”, fosse anche il limite superiore della tastiera. Nella strumentazione i suoi concerti per pianoforte sono perfettamente compatibili con lo stru­ mento che abbiamo descritto, con le antiche accordature e con gli archi di antica fattura. Io stesso ho provato a registrare con un unico microfono il Concerto K 414 — eseguito su strumenti storici — per inciderlo su disco, ed ho avuto risultati estremamente equilibrati in quanto a sonorità. A Vienna Beethoven dovette trovarsi di fronte a questo tipo di strumenti nelle varie sedi musicali in cui raggiunse i suoi primi grandi successi di ese­ cutore, e proprio per esso sono state composte tutte le sue opere fino agli ultimi anni del XVIII secolo. Si fa il nome soprattutto dei Schantz — e non desta meraviglia, vista la predilizione che per essi ebbe il suo maestro Haydn —. Inoltre Beethoven possedette anche un Mozartflugel, di dimen­ sioni già un po’ ingrandite di Anton Walter & Figlio. Le Sonate per pia­ noforte fino alla Sonata op. 53 sono state scritte senza dubbio per questo tipo di strumento. Più tardi Beethoven avrà a che fare con un nuovo e più moderno tipo di pianoforte. Fu di sua proprietà un pianoforte datato 1802 e costruito da Erard a Parigi, ora custodito al museo degli antichi strumenti musicali di Vienna. Questo strumento è ridotto in uno stato molto precario per l’uso che lo stesso Beethoven ne fece. Attualmente non lo si può suonare se non per piccole Bagatelle o Fogli d’album, ma se ne può studiare la costruzione e la meccanica. Sebastian Erard fu forse il più grande inventore nella storia del pianoforte dopo Andreas Stein: di ascendenza lorenese, come la maggior parte dei costruttori di strumenti francesi, per oltre un secolo fu il più importante fabbricante di pianoforti di Parigi e poi anche di Londra. Il meccanismo che ancor oggi va sotto il nome di

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«meccanica inglese» deriva da Erard, e, per la verità, dovrebbe chiamarsi «meccanica francese», ma poiché Erard aveva anche una filiale a Londra, il nome in fondo è giustificato, dato che veniva prodotto soprattutto in quella città. Attraverso una serie di staffe più in alto del martelletto si rese innanzi tutto possibile una ripetizione «semplice» della nota, più tardi, con l’introduzione del cosiddetto «scappamento doppio» una ripetizione dop­ pia. Questo meccanismo è l’unico ad essere tuttora in uso: con ciò Erard è l’inventore del pianoforte moderno. Comunque c’è una parentela diret­ ta tra il pianoforte Erard di Beethoven e lo strumento prediletto da Franz Liszt! Si può ritenere che questo pianoforte Erard, di costruzione ancora molto leggera, non sia stato in grado di sostenere del tutto il vigore con cui Beethoven suonava, mentre lo accompagnò fedelmente in tutta la sua produzione dal 1803 al 1815 circa. È dimostrato che la sua amica Nanette, figlia del costruttore di pianoforti Andreas Stein e sposata Streicher, per tutta la sua vita venne in aiuto a Beethoven coi suoi pianoforti. Questo sarebbe quindi il terzo gruppo di strumenti beethoveniani, che però sono stati oggetto di ricerca ancor me­ no degli altri. Anche perché non è rimasta traccia. Beethoven non li ha acquistati, né erano di sua proprietà: Nanette e più tardi suo figlio Jean Baptiste mettevano a disposizione di Beethoven questi strumenti, prestan­ doglieli. Probabilmente quando avevano un bello strumento nuovo lo pas­ savano a Beethoven perché lo provasse. Poiché Beethoven cambiò di abi­ tazione innumerevoli volte, è molto probabile che ad accompagnarlo nel­ la nuova casa fosse un altro strumento, uno nuovo. Questi «misteriosi» pianoforti Streicher (non ne possediamo neanche un esemplare, né ce ne rimane una descrizione precisa) potrebbero spiegare alcune discrepanze nel­ l’estensione tonale dell’opera beethoveniana. Per esempio già nella Sona­ ta op. 53 e soprattutto nel Concerto per pianoforte in sol maggiore op. 58 egli allarga l’ambito tonale di un’ottava verso l’alto, però in questo pe­ riodo Beethoven non possedeva nemmeno il pianoforte Broadwood del 1815, per altro ampliato solo di una quinta verso l’alto... Nessuno seppe spiegarsi quindi su quale strumento Beethoven avesse composto e suonato queste opere: la spiegazione sarà data dagli strumenti Streicher avuti in prestito. C’è un’ampia corrispondenza tra Beethoven e Nanette in cui si trova anche un accenno alla costruzione di un nuovo strumento, addirit­ tura sonoro abbastanza per l’accompagnamento. Lo strumento più inte­ ressante costruito da Nanette Streicher e quasi totalmente di sua invenzio­ ne è quello a ‘meccanica superiore’, di cui ci rimangono ancora degli esem­ plari in diversi musei. Qui la meccanica è posta sopra le corde e i martel­ letti cadono su di esse dall’alto anche per forza di gravità, mentre vengo­ no riportati alla posizione di partenza grazie a una molla. Questo tipo di meccanica funziona eccezionalmente bene, è veloce e scor­

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revole, ed anche il suono prodotto è molto buono, poiché la tavola armo­ nica non deve essere più attraversata dalla meccanica — che normalmente proviene dal fondo. Forse questo tipo di pianoforte sarebbe stato lo stru­ mento del futuro se la sua regolazione e soprattutto la sua accordatura non avessero costituito un problema semplicemente troppo complicato per l’uso quotidiano. Ho avuto la possibilità di suonare e registrare due Sona­ te di Beethoven su uno strumento Streicher di questo tipo al museo di Stoc­ colma: i passaggi veloci e i trilli erano di facile e piacevole esecuzione co­ me non mai. Questo pianoforte di per sé basta a dimostrare la grande ge­ nialità di Nanette Streicher e si può dire che i suoi strumenti siano i più importanti della fase mediana di Beethoven. Nel 1815 Beethoven ricevette un regalo prezioso: degli amici di Londra, tra cui il compositore di studi Cramer, il pianista Moscheles, Muzio Cle­ menti e la società Filarmonica gli donarono «honoris causa» un «moder­ nissimo» pianoforte Broadwood che a tutt’oggi è conservato al museo di Budapest. È uno dei due strumenti raffigurati in un disegno a matita che ritrae la stanza di Beethoven appena morto: vi si vedono, contrapposti, appunto questo pianoforte Broadwood e il suo ultimo pianoforte Conrad Graf. Negli ultimi anni della sua vita dunque, Beethoven ebbe in casa sta­ bilmente solo questi strumenti. Il pianoforte Broadwood fu un regalo sin­ golare che Beethoven accolse naturalmente con gioia e gratitudine: la mec­ canica più veloce e moderna, la maggior resistenza e la forza dei martel­ letti avranno senz’altro contribuito a ispirare il compositore e messo le ali alle mani del virtuoso. Le opere di questo periodo sono tutte di ardua ese­ cuzione e si può ben immaginare di eseguire su questo strumento le opere più difficili, come per esempio la Sonata op. 106. In quanto a sonorità tuttavia, gli strumenti inglesi di allora erano nettamente inferiori a quelli viennesi: lo stesso Beethoven affermò ripetutamente che il loro suono era piuttosto sordo e cupo, privo del carattere musicale cantabile dei piano­ forti viennesi. Si può ritenere che negli anni che vanno dal 1815, dopo che ebbe ricevuto il pianoforte Broadwood, al 1823, prima dell’acquisto del pianoforte Graf, ci fosse a casa di Beethoven anche uno strumento Strei­ cher che lo rallegrava coi suoi toni argentini e cantabili. Il pianoforte Broad­ wood aveva un’estensione dal fa grave al do””, quindi una quinta in più verso l’alto, senza però arrivare all’ampiezza massima, più volte richiesta da Beethoven, cioè fino al fa””. La differenza di una quarta, appunto da quel do”” al fa””, è spiegabile, ritengo, mediante l’ipotesi di un pia­ noforte Streicher di cui non ci è pervenuta testimonianza. È interessante osservare come la musica beethoveniana si faccia via via più brillante, tec­ nicamente più complessa e piena di virtuosismi circa fino alla Sonata op. 81 A, come tali virtuosismi decrescano poi nelle opere più tarde — con l’u­ nica eccezione dell’op. 106 — a partire dall’op. 90 e come i segni d’espres­

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sione si facciano sempre più importanti: molto cantabile, con affetto, espressivo, dolente, smorzando: queste indicazioni divengono sempre più difficili da rendere sullo strumento inglese, meccanicamente moderno, ma dai colori piuttosto asciutti. Fu così che Beethoven espresse il desiderio di possedere ancora una volta uno strumento viennese di qualità. Conrad Graf, il più importante costruttore di pianoforti di quel tempo (fece da tramite tra Beethoven e Johannes Brahms passando per Schubert, Men­ delssohn, Schumann, Chopin e Liszt) gliene costruì uno, appositamente per lui, verso il 1823. Non disponeva dei molti pedali e registri, che Bee­ thoven rifiutava considerandoli superflui. È uno strumento semplice nella forma, di concezione moderna per i suoi due pedali e il ‘moderatore’; par­ ticolare concessione alla sordità di Beethoven sono le corde quadruple — invece delle tre normali — nelle note alte e medie: un vero precursore del «tetracordo» costruito da Foerster nel 20° secolo... Pure questo strumen­ to è ottimamente conservato ed utilizzabile e si trova a Bonn quale più prezioso cimelio nella casa natale di Beethoven. In occasione dei festeggiamenti per il secondo centenario beethoveniano (1970) sono stati riuniti nuovamente, per la prima volta dopo la sua mor­ te, i due pianoforti della sua camera mortuaria. Ho così potuto eseguire concerti e registrazioni discografiche su entrambi gli strumenti. Contra­ riamente all’opinione comune, per cui si ritiene che Beethoven abbia già preconizzato il moderno pianoforte da concerto e che per tutta la sua vita sia stato scontento degli strumenti di allora, ritengo invece che sia stato possibile riportare in vita sul pianoforte Graf persino un’opera possente quale la Sonata op. 111! Gli acuti hanno un suono meno cantabile di quanto siamo abituati oggi, è vero, ma i bassi sono tanto più trasparenti e non così rimbombanti come oggi, mentre la grande distanza spesso presente tra bassi e acuti nelle opere tarde di Beethoven, assume un risalto unico, grazie alla trasparenza dei suoni. Questo tipo di pianoforte viennese tardo Biedermeier che Conrad Graf fu l’ultimo a produrre fino alla fine dei suoi giorni (nel 1842 vendeva la sua fabbrica a Cari Stein), senza per altro mai utilizzare rinforzi o addirittura un telaio metallico, come voleva la moda, può essere considerato l’ideale di uno strumento equilibrato. Le sue di­ mensioni sono circa quelle di un attuale piccolo pianoforte da concerto: m. 2,45 di lunghezza circa, la sua estensione è per lo più di sei ottave, dal fa grave al fa””, estensione, che Beethoven ancora in vita, viene allargata fino al do grave nei bassi e aumentata verso l’alto al fa diesis e al sol””. I toni sono equilibrati e armoniosi in tutta la tastiera. Ancora Chopin eb­ be modo di lodare i pianoforti di Graf in occasione del suo soggiorno vien­ nese, mentre tutte le opere di Beethoven, Schubert e Schumann sono per­ fettamente eseguibili su questi strumenti. La meccanica è ancora quella «viennese», la corsa dei tasti è aumentata a 6 mm circa, ma la ‘non ripeti-

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zione’ non è ancora un ostacolo di gran rilievo. Solo nella seconda metà del 19° secolo questi strumenti si fanno molto grossolani, tanto da essere abbandonati dai grandi virtuosi e compositori, mentre sussistono nelle di­ more borghesi conservatrici fino al XX secolo. Nella maggior parte dei casi il giudizio negativo che superficialmente si sente dare oggi in merito a questi strumenti dipende dal loro cattivo stato di conservazione. Ogni 50-70 anni circa uno strumento del genere richiede riparazioni radicali ed un restauro filologicamente corretto: vanno sosti­ tuite le corde arrugginite, la pelle rinsecchita, i feltri tarmati; la tavola ar­ monica tende — per la costante pressione delle corde — a perdere la cur­ vatura e tensione. Solo se restaurato con particolare dedizione e accura­ tezza, un pianoforte del tempo può rendere il suono originale come lo co­ nobbero i maestri classici. Solo nel caso di un restauro riuscito e nel caso che l’ambiente acustico offra allo strumento la necessaria risonanza e la giusta eco in uno spazio non troppo vasto e solo nell’esecuzione di brani cameristici con l’accompagnamento di strumenti altrettanto originali ot­ terremo delle soluzioni sonore atte a mediare una comprensione del tutto nuova della polifonia, delle brillanti dissonanze, del fraseggio melodico, della grazia degli abbellimenti così come, forse, si avevano in epoca classi­ ca. Per questo motivo una personalità unica nel suo genere quale Beetho­ ven va conosciuta non solo sulla base della sua biografia, delle circostanze in cui visse, della sua psiche, attraverso le lettere che scrisse e la musica che compose, ma pure in modo estremamente concreto — grazie agli stru­ menti da lui usati!

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Jeffrey Swann Il manifestarsi di un mondo nuovo nelle Sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven

Le trentadue Sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven sono consi­ derate la Bibbia del concertismo. In effetti è difficile pensare ad un altro grande artista che, come lui, si sia consacrato ad una sola forma, con tanta frequenza e costanza, nell’ar­ co della sua produzione. Il solo paragone possibile potrebbe essere infatti il rapporto che lo stesso Beethoven ebbe con i Quartetti d’archi, anche se questi furono composti a grandi gruppi e se non palesano quel personale legame del compositore, così come lo si può osservare per il pianoforte, lo strumento a lui più vicino. Beethoven ha ereditato la forma-sonata da antenati autorevoli e prolifici. Fin dall’inizio comunque, appaiono immediatamente chiare, significative differenze. Prima di Beethoven, la figura più rilevante nella storia dello sviluppo delle forme della Sonata fu Haydn. Haydn scrisse più di cinquanta Sonate per pianoforte, molte delle quali sono delle opere alquanto auda­ ci, in cui Haydn esplora innumerevoli possibilità tecniche e strutturali del­ l’emergente forma-sonata. Tuttavia Haydn non era un pianista e le sue Sonate non sono particolar­ mente significative dal punto di vista strumentale. Inoltre, a parte qualche irrilevante eccezione, l’importanza drammatica ed essenziale delle Sonate haydniane risiede prevalentemente nel primo tempo. Come si vedrà più oltre, il maggior contributo di Beethoven fu nel movimento lento e parti­ colarmente nel Finale. Anche Mozart scrisse molte bellissime Sonate per pianoforte alcune delle quali ci offrono qualche indicazione sul composi­ tore Mozart quale virtuoso. Però, in generale, l’interesse di Mozart sem­ bra concentrarsi anzitutto nel Concerto per pianoforte, una forma in cui è forse senza rivali. In più, Beethoven conosceva bene gli esempi dei mae­ stri italiani della Sonata, come per esempio Clementi. In essi il punto fo­ cale era esattamente l’opposto di quello di Haydn: esso si concentrava sul pianista, come contrapposto a ciò che è strutturale ed essenziale.

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Le primissime Sonate per pianoforte di Beethoven svelano moltissime no­ vità e i tratti stupefacenti del pensiero e del mondo sonoro beethoveniano. Da un punto di vista rigorosamente pianistico, le prime Sonate sono spes­ so, tecnicamente, le più virtuosistiche e le più innovative. Per esempio, i rapidi passaggi di accordi staccati — movimento di polso —, nel Finale dell’op. 2.3, la tecnica di rotazione nel primo movimento dell’op. 7; come pure alcuni passaggi d’ottave nello stesso movimento dell’op. 2.2 e del1*op. 10.3; la rapida successione di accordi cangianti nel primo movimen­ to della «Patetica»; sono tutte, in blocco, delle novità tecniche degli anni intorno al 1790. Inoltre, anche in queste prime Sonate, Beethoven tien d’oc­ chio l’unità strutturale sia tra i movimenti, sia all’interno degli stessi, ad un livello e con una raffinatezza superiori, forse, perfino allo stesso Haydn; per esempio l’uso di sequenze di una nota ripetuta neH’accompagnamento sia nel primo che nell’ultimo tempo dell’op. 10.3. Tuttavia la differenza più radicale tra le prime Sonate di Beethoven e le opere dei precedenti compositori, sta negli Adagi. È vero che Beethoven si rese famoso grazie all’inventiva, all’originalità e al ‘pathos’ dei suoi mo­ vimenti lenti, nonché alla sua abilità di eseguirli. I primi tempi lenti spesso rivelano l’innovazione pianistica più notevole di Beethoven: l’uso di ac­ cordi tenuti su figurazioni staccate al basso, per esempio, dell’op. 2.2 e dell’op. 7, gli accordi densamente distribuiti nel registro basso — una del­ le peculiarità stilistiche di tutta la sua carriera — nell’op. 10.3 e nell’op. 26, la scrittura melodica estremamente espressiva in stile di reci­ tativo di molti Adagi; tutte queste sono forse le novità più significative, e più significative anche di quelle, pianisticamente più ovvie, degli Allegri. Ma l’aspetto più importante del movimento lento nel primo Beethoven è il ruolo che tutto questo gioca in quanto centro e, anzi, in molti casi, in quanto apice dell’opera nella sua interezza. Quello che in Haydn e Mozart è stato visto originariamente nei termini di un qualcosa di sereno e armo­ nioso, contrapposto alla drammaticità del primo tempo, qui — Sonate op. 2.2, op. 2.3, op. 7, op. 10.3 —, il movimento lento è il movimento più drammatico. Ciò è in parte dovuto alla considerevole lunghezza dell’Adagio beethove­ niano, che in molti casi occupa metà della durata di un’intera Sonata di quattro tempi. Più importante comunque è la bellezza del materiale sono­ ro, la serietà del tono e la straordinaria unità del mezzo e del messaggio. Il ruolo dell’Adagio nelle Sonate per pianoforte è molto insolito e rivela­ tore. Da osservare in particolare che delle prime undici Sonate, compren­ dendo Vop. 22, otto hanno degli Adagi lunghi e sostenuti. Delle Sonate successive, sino alla « Waldstein», solo tre hanno degli Adagi veramente sostenuti, e uno di questi è la Marcia Funebre dell’op. 26 con una formu­ lazione completamente diversa dal solito e l’Adagio grazioso, alla manie­

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ra dell’opera buffa, dell’op. 31.1, un unicum nel suo genere. Quello che è comunque ancor più degno di nota è il fatto che nelle ultime dodici Sonate c’è soltanto un movimento veramente Adagio: il magnifico movimento lento della «Hammerklavier», il più lungo Adagio beethoveniano. Nel caso della « Wdldstein», il breve Adagio porta il titolo di «Introduzio­ ne», in quanto ponte tra il primo e l’ultimo movimento. I movimenti lenti de\V «Appassionata» e degli «Addii» sono intitolati An­ dante con moto e benché più sostanziosi di quello della «Waldstein», en­ trambi possono essere tranquillamente considerati più come nesso tra il primo e l’ultimo movimento, che come punto focale all’interno della com­ posizione nella sua interezza. Infatti l’unico altro Adagio di ampio respi­ ro nelle Sonate di Beethoven è quello dell’op. Ili, l’ultima Sonata: in que­ sto caso però esso è anche l’ultimo tempo ed è comunque un insieme di variazioni piuttosto che un movimento in forma sostenuta. Non si tratta dell’unico esempio della Sonata pianistica: tuttavia, generalmente, è con Beethoven che il tradizionale movimento sostenuto dell’Adagio tende a diventare sempre più raro. Come mai Beethoven ha usato sempre più raramente proprio quella for­ ma con cui inizialmente aveva ottenuto tanto successo? Secondo me, la questione, affrontata con grande competenza da Charles Rosen nei suoi scritti Le forme della Sonata e Lo stile classico, trova risposta nel momen­ to in cui si prende in considerazione un altro fenomeno tipicamente beethoveniano: Io sviluppo del Finale. Nelle forme classiche, fino all’età di Beethoven, il Finale era generalmen­ te considerato una sorta di intrattenimento leggero, rilassante, piacevole. In particolare Haydn era un maestro di Finali effervescenti. In Beetho­ ven, il Finale copre un ruolo nuovo: a partire da opere quali la Sonata op. 53 e op. 57, nonché la Quinta, la Settima e l’Ottava Sinfonia, il Finale diventa l’antagonista del primo movimento, tanto in potenza espressiva, quanto in contenuto drammatico. Da notare che, mentre i primi critici di Beethoven hanno elogiato i suoi Adagi, essi hanno generalmente attacca­ to i suoi Finali, definendoli «violenti e volgari». Infatti, negli ultimi lavori di Beethoven, il Finale si presenta tanto come soluzione e apoteosi delle tensioni createsi nei primi movimenti, quanto come loro antitesi. Questo nuovo ruolo del Finale come sintesi conclusiva o climax dell’opera nel suo insieme si è rivelata come la sfida più grande e spesso insuperabile, dei successori di Beethoven. È stato infatti più volte osservato come il Fi­ nale sia il ‘Tallone d’Achille’ dei musicisti dell’ottocento, quali Schubert, Brahms, Bruckner e Mahler, non appena si mettevano a comporre secon­ do gli schemi della tradizionale forma-sonata. È forse soltanto in alcuni degli ultimi brani di Mahler, in cui il Finale serve a liberare e a coronare

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le tensioni dei movimenti precedenti, che si può trovare la più felice ed innovatrice continuazione della rivoluzione beethoveniana. Perciò, mentre il Finale viene ad assumere un peso sempre più preponde­ rante nell’ambito della Sonata beethoveniana, il ruolo dell’Adagio tradi­ zionale va diminuendo di importanza. Se il Finale è il punto culminante dei primi movimenti, un Adagio troppo ampio potrebbe diventare ingombrante; se il Finale è essenzialmente l’an­ titesi del primo movimento, un Adagio sostenuto diventa qualcosa di estra­ neo all’insieme. Questa è a mio avviso, la ragione del crescente interesse da parte di Beethoven per la forma-sonata in due tempi, un ‘formato’ che abbiamo modo di vedere esplicitamente, nelle op. 54, op. 78, op. Ili, co­ me pure, implicitamente, nelle op. 53, op. 57, op, 81 e op. 109. Parallelamente, al progressivo imporsi in Beethoven del Finale si affianca il crescente sviluppo della forma della Variazione. Ritengo che uno dei ruoli della Variazione nell’ultimo Beethoven sia quel­ lo di offrire la possibilità al musicista di combinare la sostenuta espressi­ vità dell’Adagio con le complessità e il potenziale drammatico del primo o dell’ultimo movimento. Già nell’op. 26 osserviamo delle Variazioni utilizzate nel primo tempo in modo tale da farlo sembrare contemporaneamente lento e veloce: questo risultato si trova enormemente accresciuto nelle analoghe Variazioni del Finale dell’op. 109. Persino in quei casi in cui Beethoven torna al tradizio­ nale ampio movimento lento, fa spesso uso di Variazioni, come nei Quar­ tetti op. 127 e op. 131 e come pure, in un certo senso, nella Nona Sinfonia. Tutto questo è dovuto soprattutto al fatto che la forma della Variazione libera Beethoven dai limiti imposti dal tempo fisso della Sonata tradizio­ nale o dell’Adagio in forma di Lied che si impongono pesantemente ai suoi disegni formali. Il grande Adagio dell’op. 106 rende splendidamente proprio grazie all’e­ norme ampiezza e portata della Sonata nel suo insieme e per la misura e l’energia assolutamente nuove del Finale fugato. Ciononostante Beethoven trova necessario aggiungere la magica «Intro­ duzione in Largo alla Fuga» che serve per equilibrare l’Adagio con il resto della Sonata. L’ultima Sonata di Beethoven, Vop. Ili, rappresenta per molti aspetti il culmine massimo di queste varie componenti dello stile beethoveniano. I due movimenti, benché assolutamente disuguali in lunghezza, sono esem­ pi perfetti di tesi ed antitesi. Il grande ultimo movimento, che contiene alcune delle pagine più sublimi dell’inventiva pianistica di Beethoven, è contemporaneamente Variazione, Adagio e Finale. Nell’op. Ili Beetho­ ven unisce in maniera inesprimibile il grande Adagio espressivo e il grande Finale drammatico.

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Ludwig van Beethoven, Finale della Sonata op. Ill; autografo. Ludwig van Beethoven, appunti per la Sonata op. 53 «Waldstein» (Beethoven-Haus, Bonn)

Pagina autografa dal Quaderno dì Conversazione IX. (Preussiche Staatsbibliothek, Berlino)

Dino Villatico

Le ultime opere pianistiche di Beethoven alla luce dei Quaderni di conversazione degli anni 1818-1823

Alla morte di Beethoven Stephan von Breuning, suo amico d’infanzia, rac­ colse, insieme ad altre carte, i Quaderni di conversazione, taccuini sui quali i visitatori di Beethoven gli comunicavano le proprie risposte e domande. I Quaderni erano 400. Un documento prezioso per ricostruire la vita quo­ tidiana di Beethoven. «In tal modo non sono del tutto segregato dal mon­ do e da coloro che mi amano...» dichiarò Beethoven ad Anton Wilhelm Florentin Zuccalmaglio ', uno dei suoi visitatori. Naturalmente, i quader­ ni registrano soprattutto le domande e le risposte dei visitatori, perché Beet­ hoven, tranne rari casi, quando per esempio non voleva farsi intendere da chi gli stava vicino, rispondeva e domandava a voce. Dobbiamo per­ tanto immaginarci ciò che Beethoven diceva, attraverso ciò che scrivono i suoi visitatori. Altrimenti, di suo pugno, Beethoven scrive soltanto conti e appunti schematici che gli servono di pro-memoria. Curioso è il modo di tenere i conti: Beethoven non sapeva fare le moltiplicazioni, e allora somma la cifra tante volte quante sono quelle richieste per ottenere il prodotto. La lettura dei quaderni è una lettura affascinante, superato il primo delu­ dente impatto, i frammenti prendono corpo come in una registrazione dal vivo, e sembra perfino di poter udire la voce di Beethoven che risponde, dalle reazioni scritte dei suoi visitatori. Breuning consegnò poi i quaderni ad Anton Felix Schindler, violinista e direttore, amico, dopo essere stato allievo, e soprattutto factotum di Beet­ hoven. Beethoven lo usava anche per comprare la polvere dentifricia. E, forse, dentro di sé, pensava che Schindler più di questo non sapesse fare. Ma ne aveva bisogno. Nessuno si dimostrava cosi servizievole e arrende1

Ludwig van Beethoven Konversationshefte im Auftrage der Preussischen Staatsbibliothek herausgegeben von Georg Schunemann. Berlin, 1941 - 43. Traduzione italiana di Paola H. Coronedi, re­ visione letteraria e musicale di Guglielmo Barblan, Torino 1968. p. XVI11.

vole con lui. Sul nipote Karl non poteva contare sia perché Karl doveva studiare sia perché i rapporti erano tutt’altro che tranquilli. Schindler usò i quaderni per la sua biografia di Beethoven. Egli si credeva il depositario e l’erede spirituale di Beethoven: la sua immagine di Beethoven era per lui Beethoven. Pertanto distrusse tutto ciò che potesse contraddire o offu­ scare questa immagine. Soprattutto, che potesse insinuare dubbi sulla fe­ deltà e sul disinteresse di Schindler. Nel 1843 Schindler prese contatti con la Biblioteca Reale di Berlino per la vendita degli scritti di Beethoven. La trattativa durò fino al 1846, quando la Biblioteca acquistò il lascito beethoveniano. A Schindler vennero corrisposti 2000 talleri imperiali e una ren­ dita annua vitalizia di 400 talleri imperiali. Per l’acquisto spinsero Ale­ xander von Humboldt e Achim von Arnim. Quando Schindler consegnò il pacco, risultò che i quaderni si erano ridotti a 136. Egli altri 264? Schin­ dler li aveva distrutti. Per motivi politici e morali. Contenevano attacchi all’imperatore, mostravano Beethoven in questioni intime che non pote­ vano interessare i posteri. Schindler intervenne anche nei quaderni salva­ ti. Riscrivendo a penna la scrittura a matita, cancellando, commentando, stracciando qualche foglio. Rovinando, insomma, talora irreparabilmen­ te, un documento prezioso2. Finora sono stati pubblicati in edizione critica3 soltanto 37 quaderni, che vanno dal febbraio 1818 al luglio 1823. Il primo, febbraio-marzo 1818, non appartiene al gruppo di quelli venduti da Schindler, che cominciano col II Quaderno, marzo-maggio 1819. Mancano quindi ancora 100 Qua­ derni, che coprono gli ultimi quattro anni di vita di Beethoven. Per questi anni si ricorre alla traduzione francese di Jacques-Gabriel Prod’homme4, che però non è integrale. Alla comprensione musicale delle opere di Beethoven i Quaderni non ag­ giungono molto, per non dire nulla. Moltissimo però suggeriscono sul cli­ ma culturale ed emotivo in cui sorsero, con una testimonianza ancora più immediata di quella delle lettere, anche se meno articolata, più fulminea. In questo breve schizzo mi limito a considerare i riferimenti alle opere pia­ nistiche. E considero soltanto i Quaderni pubblicati integralmente. Tutto il lavoro va preso comunque come un appunto, una scheda, da sviluppa­ re. La scheda è divisa in tre parti: 1) frammenti di conversazione, come modelli esemplificativi della struttura e degli stili dei Quaderni; 2) il labo2

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Sugli interventi di Schindler v. la prefazione di Schùnemann all’ed. cit. dei Quaderni; e Luigi Magnani, Beethoven nei suoi quaderni di conversazione, Bari, 1970, pp. 9-15. Da Georg Sschunemann. ed. cit. J.-G. Prod’homme, Les Cahiers de conversation de Beethoven, 1946. Non vanno trascurali, natu­ ralmente, i primi biografi, che qui si citano di sfuggita: oltre a Schindler, Gerhard von Breuning, Alexander Wheelock Thayer, Ludwig Nohl, Theodor Frimmel e Alfred Kalischer. Per il lettore ita­ liano può essere utile, anche, il Catalogo cronologico e tematico delle opere di Beethoven comprese quelle inedite e gli abbozzi non utilizzali, a cura di Giovanni Biamonti, Torino, 1968.

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ratorio di Beethoven, scheda sul metodo di lavoro di Beethoven; 3) i dati sulle opere pianistiche, nei Quaderni.

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Frammenti di conversazione

Il consigliere aulico Karl Peters, precettore dei figli del principe Lobkowitz e contutore, insieme a Beethoven, del nipote Karl van Beethoven, un giorno di fine marzo va a trovare Beethoven, o più probabilmente sta pas­ seggiando con lui. Il foglio 20, recto e verso, del Quaderno XXVI, regi­ stra questo dialogo: Consigliere aulico Peters: Se bevo vino, le preoccupazioni si addormentano. ’Orav tov otvov euSouatv al pteptptvai Ora viene anche la religione Beethoven: sono molto mediocri quei ragazzi Peters: Dove pranza Lei? Beethoven: ho fatto preparare a casa mia. ma c’è ben poco, altrimenti la inviterei Peters: Io pranzo dal P.(rincipe) J. Schwarzen(berg) Karl è tanto cresciuto, che quasi non l’avrei riconosciuto ha superato l’esame molto bene, un bravo professore Quale impulso determina l’uomo a mettere le sue forze in attività? 5

Peters dice prima la traduzione e poi l’originale greco di una anacreonti­ ca. Ma nulla ci garantisce che l’ordine in cui troviamo le frasi sia quello di scrittura. Beethoven si portava dietro i quaderni e li porgeva all’interlo­ cutore ogni volta che pensasse di non poterne afferrare il discorso dal mo­ vimento delle labbra. Non solo, ma scriveva lui stesso quando non voleva essere inteso che dall’interlocutore. Il nipote, Karl, nel 1823 aveva 17 an­ ni. Il testo corretto dell’anacreontica è "Oxav rrlvw tòv otvov euSouaiv al |xépt|xvat

Peters cita a memoria e sbaglia o dimentica spiriti e accenti, confonde i verbi. Ma citando l’originale greco sollecita la vanità di Beethoven, che d’altra parte ammirava appassionatamente la cultura greca e leggeva Omero tradotto dal Voss. Negli ultimi anni progettava un’Orestiade o, più pro­ babilmente, un’Oreste, da Eschilo, di soli recitativi. L’oggetto della con­ versazione è Karl. Il rapporto con il nipote ha tormentato tutti gli ultimi anni della vita di Beethoven, e molto è stato scritto in proposito, spesso a sproposito. L’intensità del rapporto esce fuori con straordinaria vivezza dai Quaderni. Nipote Karl: Siamo soli oggi? Essa può benissimo rammendarla ancora.

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Nell'ed. it. cit. 1052-3. Le indicazioni degli interlocutori sono di mano di Schindler.

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Hai detto che devi averla subito. Le hai ordinato di lavare già il venerdì

Non so perché tu sia in collera. Non riesco a ricordare di aver riso. Devo invece confessare che per strada essa mi ha confidato, piangendo, che tu la tormenti troppo, e che preferisce andarsene piuttosto che sentirsi ancora maltrattare così nella sua vecchiaia.

Se le hai ordinato di lavare, essa ha fatto soltanto il suo dovere. Tuttavia, lei ammette che può anche aver capito male. Non potè trovar nessuno. Quando ti ho detto il mio parere, credevo che parlando sinceramente non sarei stato inter­ pretato male; inoltre io sono

Non posso mangiare se prima non dò sfogo al pianto; sarebbe un veleno se mangiassi con questo cruccio 6.

È evidentemente un litigio per la governante. Karl la difende ed è interpre­ tato male. La reazione di Beethoven deve essere particolarmente violenta, fino al punto di strappare il quaderno di mano al nipote e non permetter­ gli di finire una frase («inoltre io sono»). Manca la scrittura di Beethoven: ma ci immaginiamo le sue urla. Nelle pagine seguenti compare il cicalec­ cio di Schindler. Ma appena costui scompare, Karl riempie ben sei pagine per spiegarsi e spiegare. Restiamo commossi, e deve essersi commosso an­ che Beethoven, perché i due passano a questioni di vita quotidiana. Ma alla fine il nipote interviene un’ultima volta per la governante. Nipote Karl: Già prima volevo spiegarti la ragione del mio comportamento, ma non mi per­ mettesti di scrivere, ed io mi sentivo tranquillo ritenendo, secondo la tua stessa promessa, che non se ne sarebbe più parlato. Ma poiché ora mi accorgo che per risentimento non mi degni d’un’occhiata, mi vedo costretto a spiegarti la ragione per cui mi sono com­ portato così. Credevo, come ti ho precedentemente accennato, di poterti dire ciò che penso; inoltre, in presenza della vecchia non ho detto parola che potesse dimostrarle che le davo ragione, e per di più, tu hai frainteso quanto ti ho annotato. Non sostenevo che la vecchia avesse ragione, ma riportavo solo le sue parole, con il proposito di tacere. Ma poi­ ché tu stesso mi hai esortato a parlare, ho riferito la mia opinione, ritenendomi pienamente sicuro che non mi avresti impedito di esprimermi liberamente; infatti, se avessi potuto pre­ vedere che ti saresti offeso qualora avessi detto quanto pensavo, non mi sarebbe rimasta al­ tra scelta, e avrei dovuto dire: hai ragione. Ma io ho creduto di poter riportare francamente la mia opinione, per cui ho detto, che se è vero quanto afferma lei, ossia che tu stesso le avevi ordinato di lavare subito, lei ha fatto il suo dovere. — Ma in avvenire mi guarderò bene dal dire anche questo, se mi accorgo che ti offenda. Tu puoi conoscerla meglio di me; e non dico che non sia maligna, dicevo soltanto che se le cose stavano come lei sosteneva, per me non era da ritenersi meritevole di castigo. Ma questo l’hai detto soltanto adesso.

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Quaderno XXIX, carte 29-30. Ed. it. cit. pagg. 1130-31. L’indicazione dell’interlocutore è di mano di Schindler, come sempre.

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Io non la difendo affatto, tanto meno ora che so come stanno le cose; soltanto credevo che tu fossi stato un po’ troppo impetuoso e ti fossi sbagliato, tanto più che la mattina lei aveva fatto con me quei piagnistei, narrandomi che la fraintendi e le fai torto. In presenza di lei non ho detto proprio niente, e ti ho espresso sinceramente la mia opinione soltanto dopo che se ne era andata; e lei stessa deve riconoscere che la mattina le avevo detto che certamente tu non le fai torto, bensì che è lei stessa a essere in colpa quando tu la rimproveri. Anche le mie camicie sono strappate, e lei non le rammenda.

Come ti sembra la poesia? Il piede ora sta guarendo —

Può venire la vecchia? Essa ti domanda perdono; ti ha capito male, e promette di migliorare7.

È una situazione che gli studiosi della comunicazione e gli psicologi chia­ merebbero di doppio legame o paradossale. Karl è molto bravo a scioglie­ re i nodi, a ricattare, anche, lo zio con la sua stessa moneta («secondo la tua stessa promessa», scritto a caratteri latini, invece che gotici, per da­ re maggior rilievo all’affermazione; e tutto il discorso sulla libertà di pa­ rola). Ma, al di là del fatto di chi fosse nel giusto e chi nel torto, questione che può interessare solo i moralisti, ciò che colpisce è l’intensità emotiva di entrambi. Si sta giocando una partita all’ultimo sangue per la vita o per la morte. La governante è un pretesto. O l’occasione che fa esplodere le angosce d’abbandono, le paure di soffocamento, e scatena quindi l’ag­ gressività di Beethoven, lacera la fragilità di Karl che prima piange poi costruisce la sua fragilissima ragnatela di razionalità più esibita che reale. Per tutti e due era in gioco la propria vita: e tutti e due la perdono, aggre­ dendosi. La commozione che ci coglie leggendo pagine come queste sta tutta nel cogliere appunto la partita all’ultimo sangue di due che perdono, che restano entrambi sconfitti. L’opera beethoveniana nasce anche da que­ ste sconfitte. E tanto più rimpiangiamo ciò che la furia benpensante di Schindler ci ha sottratto per sempre, se pensiamo che più intime, dolorose sconfitte forse celavano i quaderni perduti e distrutti. Il benpensante, il moralista ignorano che la morale non è osservanza di leggi e divieti, ma essere quello che si è non indietreggiando davanti a nessuna oscurità di noi stessi. Ma in questo Beethoven era troppo tedesco per un austriaco. A Vienna, anche l’inferno deve farsi una faccia rispettabile. Come ultimo esempio, un colloquio tra due sordi. È tra le poche volte che i Quaderni riportano per intero un dialogo. 7 Ed. it. cit. pagg. 1134-36. Quaderno XXIX, carte 33-35. Siamo ai primi di aprile del 1823. A carta 40 (ed. it. pag. 1139) figura la visita e uno scritto di Franz Liszt, che tenne a Vienna il 13 aprile un concerto. Chiede a Beethoven di venire al concerto e di offrirgli un tema su cui variare. Beethoven non va al concerto e non gli dà nessun tema.

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Beethoven: I bagni, l’aria di campagna possono migliorare molte cose, ma non adoperi troppo presto gli apparecchi, facendone a meno ho conservato discretamente l’udito all’orecchio sinistro. — Sandra: Non ho ancora adoperato alcun congegno, ma sarò certo costretto a ricorrervi, Beethoven: è meglio per iscritto, se possibile, l’udito viene risparmiato; eppoi con gli appa­ recchi si fraintende, — Sandra: Lei non deve canzonarmi se Le dico che la mia unica speranza si basa da 8 giorni su un vecchissimo libro di medicina.

ciò consiste esclusivamente nell’usare le giovani punte di abete

gliela scriverò per esteso — Beethoven: Galvanizzare? Ma prima non riuscivo a tollerarlo Sandra: mi scriva, per favore, l’indirizzo di dove Lei risiede, e io Le manderò la ricetta com­ pleta; è molto alla mano perché il trattamento è del tutto naturale.

forse saremo entrambi così fortunati da recuperare la salute del nostro udito. Beethoven: La prego il Suo nome Sandra: Sandra Suo conterraneo Beethoven: un triste male, i medici ne sanno ben poco, e alla fine ci si stanca, specialmente quando ci si deve continuamente occupare8.

Il colloquio continua ancora per due pagine. Sandra è un commerciante, dice quanto ha pagato il libro, scritto da un medico del ’500. Chi sa che cosa avrà risposto Beethoven: a un certo punto non scrive più, segno che avrà comunicato o per segni o facendosi leggere le parole sulle labbra. Ma da quanto ha scritto emerge una profonda stanchezza, nata insieme dalla sfiducia nei medici, giustificatissima in ogni tempo, e dalla consapevolez­ za dell’inguaribilità del male. Ma si badi alla maniera con cui Beethoven comunica questa consapevolezza: è una lucida costatazione («i medici ne sanno ben poco»), che non gli strappa né imprecazioni né lamenti. È un atteggiamento di fermezza al quale Beethoven è sempre rimasto fedele. Lo scoraggiamento o lo scatto d’ira che più volte Beethoven ha manife­ stato, e non solo per la propria sordità, non vanno mai interpretati come disordinate intemperanze del carattere, romantiche espressioni di sregola­ tezza, bensì come una istintiva, diretta reazione alle avversità da parte di una mente abituata a non perdonare cedimenti morali di nessuna sorta a nessuno, e tanto meno a se stessa. Questo atteggiamento di fermezza mo­ rale era già chiaro al giovane ventitreenne che cosi scrive a A. Vocke, mer­ cante di Norimberga: «Non sono cattivo — un sangue bollente, ecco la mia colpa — la mia giovinezza, ecco il mio crimine. Non sono cattivo, veramente non sono cattivo, no; anche se moti impetuosi s’alzano spesso nel mio cuore, il mio cuore è buono 9 — Precetti. Fare il bene tutte le volte 8 9

Quaderno XXIX, carte 42-44, ed. it. cit. pagg. 114041. Ho espunto due frasi riferite al fratello che appartengono evidentemente a un’altra conversazione. La frase è una citazione dal Don Carlos di Schiller, atto li, scena 2.

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ch’è possibile, amare la libertà sopra ogni cosa, non rinnegare mai la verità, nemmeno da­ vanti a un trono» l0.

Naturalmente tanto rigore non esclude né la tenerezza né la tristezza. Il rigore morale, in Beethoven, è più una questione di libertà interiore, che di osservanza di leggi o precetti. Il che non toglie, però, che sul comporta­ mento sessuale, proprio, e degli altri, Beethoven fosse puntigliosamente tradizionalista, come dimostrano i giudizi più volte manifestati nei con­ fronti delle cognate. Questo atteggiamento di rigore interiore si fa addirit­ tura esclusivo nei confronti della pagina. Il tormento con cui Beethoven lavora alle proprie opere, il rovello che lo spinge a cercare, quasi, non l’i­ dea più bella ma quella più giusta, nella logica costruttiva dell’opera, so­ no il frutto di una concezione morale dell’arte. Non però nel senso che l’arte debba esprimere contenuti morali (in ogni caso non deve occuparsi di quelli immorali, come Beethoven rimprovera a Mozart), bensì nel sen­ so che uno sbaglio estetico è una colpa morale; una musica brutta non è solo una cosa sgradevole, è anche, da parte di chi l’ha fatta, un peccato contro la natura. In quanto restaurazione di un ordine naturale, infatti, l’arte è l’interpretazione della Natura. Lo sbaglio, la bruttezza, sono per­ tanto, più che errori, vere colpe, perché tradiscono un compito di verità, che è il compito dell’artista. Kant, Schiller, Herder, Rousseau sono me­ scolati in una concezione dell’arte a parole piuttosto confusa, ma chiaris­ sima nella tensione che anima invece la musica. Ed è questa tensione che fa coincidere lo sforzo estetico con l’aspirazione morale il segno che di­ stingue il pathos (ma anche la infinita, sublime dolcezza) di Beethoven da quello di qualsiasi altro musicista.

2.

Il Laboratorio

Beethoven aveva l’abitudine di lavorare a molte opere contemporaneamen­ te. Ma prima di cominciarne una buttava giù tutta una serie di appunti, abbozzi. Durante questo lungo, e spesso faticoso, lavoro di ricerca, l’idea dell’opera prendeva corpo a poco a poco. Oppure Beethoven aveva un’i­ dea del piano generale dell’opera, ma poi doveva trovare le idee musicali concrete che attuassero quel piano. Il piano comunque nasceva già come piano musicale (una Sinfonia con coro, una Sinfonia in una certa tonali­ tà, un Quartetto con Fuga, una grande Sonata in quattro tempi, una grande Messa, e cosi via), si trattava di realizzarlo come opera che paresse nasce­ re, germinare naturalmente da una cellula armonica, o ritmica, o melodiio La lettera è citata e tradotta da Les lettres de Beethoven recueillies, transcrites et traduites avec intro­ ductions, appendices, notes et index par Emily Anderson. Traduction des lettres d’après l’allemand par Jean Chuzeville. Torino, 1968.

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ca. La Sonata op. 53 per pianoforte, o quella op. 96 per violino e piano­ forte, o Vop. Ill, al riguardo, sono esemplari. Il piano come programma extramusicale è estraneo alla mentalità di Beethoven. Le poche volte che Beethoven sembra alludervi, non è nulla più che un suggerimento emoti­ vo, come nella Sonata op. 81a («l’Addìo»), o, com’egli stesso scrive, «piut­ tosto espressione del sentimento che pittura», e si badi che Beethoven non scrive «piuttosto sentimento che pittura», ma «Ausdruck der Empfindung», espressione del sentimento, perché la musica non è sentimento, ma appunto espressione. Comunque, a parte la Pastorale, Vop. 81a, e Vop. 13, Bee­ thoven non ha voluto titoli, e Vop. 13 ha un titolo allora di moda, generi­ co, che indica un atteggiamento sentimentale, «Patetica», e che fu messo dall’editore, non da Beethoven. Cosi, molte delle spiegazioni contenuti­ stiche che Beethoven sembra dare a Schindler, di questa o di quell’opera, sembrano spesso solo un modo per tacitare il petulante e mediocre segre­ tario. Come tutti i segretari, Schindler prese naturalmente alla lettera ciò che Beethoven diceva ironicamente. Negli anni che vanno dal 1818 al 1923 (coperti dai primi 37 Quaderni, i soli dei quali qui si fa cenno) Beethoven portò a termine le Sonate per pia­ noforte op. 106, 109, 110, 111, le 33 Variazioni su un valzer di Diabelli op. 120, la Missa solemnis op. 123,l’ouverture La consacrazione della ca­ sa op. 124; raccolse le Bagatelle op. 119 e cominciò la raccolta di quelle dell’op. 126, compiuta nel 1824. Nel 1821 comincia a lavorare metodicamente alla Nona Sinfonia che finisce nel 1824. Nel 1823 sono cominciati i Quartetti op. 127, finito nel 1824, e op. 132, finito nel 1825. Dal 1825 al 1826 fini, nell’ordine, i Quartetti op. 130, op. 133 (la Fuga pensata pri­ ma come Finale dell’op. 130), op. 131, op. 135. Un caso estremo è certa­ mente la Nona Sinfonia, e soprattutto il Finale con le voci. L’idea di una Sinfonia in re minore prende corpo fin dal 1812, subito dopo aver finito [’Ottava. Ma il progetto resta li. Dal 1817 cominciano a comparire i primi schizzi. Ma comincia a lavorare a una Sinfonia solo dal 1822. Nel 1823 sono compiuti i primi tre tempi. A questo punto Beethoven cerca un Fina­ le adeguato, e comincia a buttare giù degli schizzi, che poi vengono utiliz­ zati per il Finale del Quartetto op. 132. Intanto, già nel 1807 Beethoven aveva avuto l’idea di un’opera orchestrale la cui conclusione prevedesse raggiunta delle voci. Nel 1818 schizza il piano di una Sinfonia, diversa dalla Nona, e che dovrebbe essere la Decima. Nel 1822 Beethoven pensa di realizzare proprio con la Decima quell’opera strumentale che si conclu­ de con le voci, e pensa di usare come testo VInno alla Gioia di Schiller. Ma qui s’innesta un’altra storia, che è appunto quella dell’Znno alla Gioia e del motivo che per tutti, oggi, lo incarna. Nel 1792 Beethoven progetta di mettere in musica l’ode di Schiller (che in origine era indirizzata alla Libertà, non alla Gioia; in tedesco le due parole sono simili e hanno lo

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stesso numero di sillabe: Freiheit, Freude; Beethoven lo sapeva). Nel 1795 affiora un tema musicale, che attraverso molte rielaborazioni e applicato a testi diversi diventa il motivo dell’ode schilleriana come lo conosciamo oggi nella Nona. Il motivo musicale e l’ode di Schiller vengono messi in relazione per la prima volta nel 1822, d’estate. Alla fine dello stesso anno pensa di fare di quest’inno il Finale della Decima. Nell’autunno del 1823 l’inno diventa il Finale della Nona, in febbraio del 1824 la Sinfonia è compiuta ". Non tutte le opere di Beethoven hanno una cosi lunga e tortuosa gestazio­ ne, ma proprio l’estrema complessità della genesi della Nona chiarisce il metodo di lavoro, che può essere meno lungo, meno intricato, mai però meno complesso ed elaborato. Questa complessità, all’ascolto, si sente. Ma non come fatica, bensì come ineludibile consequenzialità. Negli ultimi anni, poi, Beethoven raggiunge anche una naturalezza discorsiva che sem­ brava prerogativa mozartiana a lui negata11 l2. Anche questa naturalezza, quasi una esibizione di semplicità, è tuttavia frutto di una meditata ricerca. Nei Quaderni, pertanto, le conversazioni toccano diverse opere nello stes­ so periodo, talora nella stessa conversazione. A ciò si aggiunga che i visi­ tatori, e in particolare Schindler, che già pensava di utilizzare ogni mini­ ma dichiarazione del maestro, chiedono pareri e spiegazioni anche di ope­ re assai lontane, e si avrà un’idea del ginepraio di riferimenti. Le note che qui si fanno seguire, comunque, non sono nulla più che ap­ punti per una lettura dei Quaderni in riferimento alle opere, e in partico­ lare alle opere pianistiche. 3.

Le ultime opere per pianoforte Lettura dei Quaderni 1818-1823

L’interlocutore più loquace, e anche il più vanitoso, dei Quaderni è natu­ ralmente Anton Felix Schindler. Risulta perfino commovente l’ingenuità con cui Schindler stesso si confessa vanitoso, non fosse poi in genere la sua petulanza anche meschina, attenta al soldo, alla precisione dei dati (an­ che interpretativi, ahinoi!), a stabilire distanze e formalità, ad assicurarsi una fama per procura. Di una festa non sa dire che quanto è costata e quali personaggi importanti vi siano intervenuti. Brucia il teatro di Mona­ co: non si preoccupa di lamentarne le vittime o informarsi se ci sono state 11 Una sintesi chiara e completa della genesi della Nona Sinfonia si può leggere in Massimo Mila, Lettura della Nona Sinfonia, Torino, 1977, pagg. 5-25. 12 «Cfr. op. 96 e op. 109: in entrambe le sonate l’attacco è quanto di più discreto si possa immaginare. La «cantabilità» con cui è attaccata l'op. 101, poi, sembra memore di ceni attacchi mozartiani, per esempio la Sonata K. 332. È come se Beethoven imparasse a suggerire più che a dire, o meglio, a cominciare un discorso che si suppone iniziato da tempo».

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vittime, fa invece il conto di quanto era costato il teatro. La sua vanità viene fuori in confessioni come questa: quanti non m’invidiano per il fatto che io mi possa allietare e gloriare della Sua stima e ami­ cizia: ho dovuto sentirmelo dire mille e mille volte!

dove la nota stonata non sta nel notare l’invidia degli altri o nel confessa­ re la gioia di essere amico di Beethoven, ma nel credere che di questo egli possa «gloriarsi» 13. Beethoven del resto non gli risparmiava rimproveri, non gli nascondeva la propria stizza. In una lettera al nipote Karl lo chia­ ma «ignobile soggetto», «miserabile»14. Eppure dobbiamo a questo igno­ bile soggetto, a questo miserabile molte informazioni sulle opere di Beet­ hoven. Gli dobbiamo, è vero, anche la distruzione di due terzi dei Qua­ derni. Il che mi pare molto difficile da perdonare. Ma prendiamo quello che c’è. Giudicare non cambia i fatti. Un anno dopo la pubblicazione della biografia di Beethoven, nel 1841, Schindler incontra a Parigi Heinrich Heine. Non fece buona impressione. Cosi lo ricorda Heine: Assai meno suggestivo della musica di Beethoven fu per me Schindler, ‘l’amico di Beetho­ ven’ quale egli si proclama ovunque e credo persino sulle carte da visita. È questo amico di Beethoven stato davvero il suo Pilade? 0 piuttosto non lo si dovrebbe collocare nel rango di quelle conoscenze insignificanti con le quali talvolta un uomo geniale si trattiene tanto più volentieri quanto più insulso è il loro chiacchierio, che offre un sollievo riposante dopo i lirici affaticati voli dello spirito? Come poteva il grande artista sopportare un amico cosi poco divertente e povero di spirito? si chiedevano i francesi, che avevano perduto ogni pa­ zienza in presenza del monotono cicalare di quell’ospite seccante. Essi non pensavano che Beethoven era sordo l5.

Non pensavano nemmeno che lo «spirito» di Beethoven si compiaceva di frizzi e lazzi assai meno leggeri di quelli amati dallo «spirito» francese16. In ogni caso Beethoven ride. Schindler non riesce nemmeno a sorridere. Più che dalle testimonianze dei suoi contemporanei il ritratto di questo famulus esce vivo dalle pagine stesse dei Quaderni: Mi usi un po’ di pazienza, caro Maestro! l’ultima volta Lei è stato troppo precipitoso, e non sono riuscito ad afferrare tutto cosi alla svelta l7. La gente reclama anche Quartetti, e di questi Lei potrà ben scriverne, senza troppo tribolare 18. Ora mi annoto subito tutto l9. 13 Quaderni, ed. cit., pag. 1020, Quaderno XXIV, 1823, carta 47, recto. 14 Lettere, ed. cit., pag. 1198, Lettera a Karl del 16.8.1823. 15 H. Heine, Divagazioni musicali, trad, di E. Roggeri, Torino, 1928. Cit. da L. Magnani,, Beetho­ ven nei suoi quaderni di conversazione, cit. 16 Per esempio, sul nome Gebauer, Beethoven gioca scrivendo: «Geh! Bauer!» (va’, contadino). Cfr. Quaderni, cit. pag. 518. 17 Quaderni, cit., pag. 1332. 18 Quaderni, cit., pag. 1121. 19 Quaderni, cit., pag. 1386.

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Tolto uno schizzo precisissimo del tema con cui attacca la Sonata op. 109, a carta 76 del Quaderno XI (marzo-aprile 1820), i riferimenti alle opere nei Quaderni riguardano in genere le trattative con gli editori o problemi di esecuzione. Questi ultimi sono naturalmente quelli che ci interessano di più, ma gli accenni sono così generici da scoraggiare anche il più fanta­ sioso lettore. Tali accenni poi non vengono dalla mano di Beethoven, ma da quella dei suoi interlocutori, che chiedono chiarimenti, sollecitano spie­ gazioni. Beethoven parlava, i suoi interlocutori non erano sordi. Siamo sordi noi, che il tempo divide dalla sua voce. Ma la voce c’è, percorre co­ me un filo segreto, sotterraneo, tutti i Quaderni. Bisogna immaginarla, questa voce. Ma c’è. E cominciamo dunque il viaggio: ci accompagnerà questa voce che non si ode, eppure provoca ogni sillaba di ciò che si legge scritto. E cominciamo proprio dal colloquio con Schindler sulla Settima Sinfonia, dal quale è stato tratto poco fa un frammento. Schindler: Che cosa ci proponiamo per oggi?

Per parte mia, oggi preferirei la Sinfonia in la, particolarmente per il secondo tempo, dove le Sue intenzioni non mi sono ancora del tutto chiare.

Mi usi un po’ di pazienza, caro Maestro! l’ultima volta Lei è stato troppo precipitoso, e non sono riuscito ad afferrare tutto cosi alla svelta. Dunque Andante = f 80 / non più quasi Allegretto — 72 = f cosi sarà meglio

A quel modo non potevo mai essere soddisfatto dell’episodio in mi maggiore, perché sempre degenerava in un Allegro — l’intero tempo — Adesso La comprendo appieno.

Più mosso il 1° clarinetto nell’episodio in maggiore? Nell’edizione completa delle Sue opere, tutto questo va indicato, perché nessuno ve lo an­ drebbe a cercare, a) Si ricorda quando alcuni anni or sono mi fu concesso di suonare davanti a Lei le Sonate op. 14? — adesso tutto è chiaro.

me ne duole ancora oggi la mano I principi anche nella parte centrale della Patetica

b)

Migliaia di esecutori non l’afferrano. In seguito alle troppe indicazioni di «Tempo rubato», potrebbe certamente ingenerarsi una confusione, questo lo credo anche io.

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prenderò nota di tutto questo più tardi, in camera mia:

anche per ciò che riguarda il Trio del terzo tempo20.

Colpisce l’esigenza di precisione e completezza. Lo spartito, o la partitu­ ra, come in questo caso, non sono letti per quello che sono, la registrazio­ ne schematica di intenzioni espressive, ma come fedeli fotografie del pen­ siero. Tutto ciò che il musicista ha voluto dire, deve risultare nella pagina scritta. Schindler allora consiglia Beethoven di scrivere questi consigli in partitura. Non tutti hanno la fortuna che ha lui di sentirsi spiegare le cose dall’autore: «tutto questo va indicato, perché nessuno ve lo andrebbe a cercare». Lo ha sentito sulla pelle. Le bacchettate sulle mani, che ancora gli dolgono. Ma ora sa come deve suonare l’op. 14. Mentre «migliaia di esecutori non l’afferrano». Beethoven deve essersi irritato a tanta pedan­ teria. Ma Schindler non capisce l’irritazione e, imperturbabile, riconosce che non si può segnare ad ogni battuta dove vada eseguito il «tempo ruba­ to». Beethoven deve averlo mandato al diavolo, o rinviato il discorso. «Prenderò nota di tutto questo più tardi». Gli Schindler comunque ab­ bondano anche oggi. Quanti revisori credono di migliorare il testo di un musicista? E quanti Schindler sanno oggi come si suona Bach, come si canta Monteverdi? Nessuno di costoro che venga colto dal dubbio che il proprio Bach, il proprio Monteverdi sia soltanto uno dei possibili infiniti Bach e Monteverdi. E chi, del resto, potrebbe dire quale sia il modo giusto di suo­ nare Bach o cantare Monteverdi? Il pittore e rimbianchino hanno in co­ mune il fatto di sporcarsi le mani, scrive Karl Kraus. Ma hanno in comu­ ne soltanto questo. Così i Beethoven e gli Schindler hanno in comune il fatto di occuparsi di suoni: ma soltanto questo. Per Beethoven i suoni fanno musica. Per Schindler riempiono una pagina. Anni fa, in Conservatorio, mi capitò un’allieva che dopo l’ottavo portava la Sonata op. HO. Curio­ so, le chiesi di farmela sentire. La lasciai suonare. Poi le chiesi,jnterrompendola alla fine del primo tempo: «Secondo te, il tema con cui attacca Beethoven questo Moderato è bello o no?» «Bellissimo!» «E allora per­ ché non lo canti?» domandai, accennando il tema sul pianoforte. «Ah!» esclamò la ragazza, sicura: «Lei vuole che prima rallenti e poi stringa!» Il computo dell’espressione è tipico di chi non riuscirà mai a cantare. Allo stesso modo, molti filologi scambiano i vocaboli che leggono nei testi per le parole dei poeti. Eppure, solo un filologo che sia anche poeta può capi­ re i poeti del passato. Il poeta che non sia filologo rischia di fraintendere le parole, il filologo che non sia poeta non coglie il significato delle parole che legge. Oppure 20 Quaderni, ed. cit., pagg. 1332-33, Quaderno XXXV, cane 8-9. Schiinemann integra in a) con «altri­ menti» dopo «perché», e in b) con «valgono» dopo «principi». Ma le frasi non hanno bisogno di queste integrazioni. Anche Schiinemann cede al bisogno di spiegare tutto.

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scatta, come Schindler, quando il poeta si rende incomprensibile: Mio Dio, come Lei è nuovamente di cattivo umore oggi — non ne posso più —.21.

Ogni pagina viene sottoposta a questo vaglio meticoloso: prossimamente verrò con la Sonata Opus 10 in do minore. Il Largo della Sonata in re mag­ giore è molto difficile da afferrare. — Lei sarà ancora molto scontento di me. — Ancora una volta, credo, e poi me ne ricorderò per sempre. Perciò La prego di aver pazienza 22.

Per favore, che tutto sia spiegato, chiaro, senza possibilità di fraintendi­ menti, senza spazio per ambiguità. E nemmeno il Fugato lo capisco, malgrado averlo sonato molte volte. — Maestro, non mi faccia per questo il viso scuro. Sto migliorando di giorno in giorno questa mancanza, perché divento sempre più maturo — e forse più giudizioso. — Forse un giorno arriverò a compren­ dere anche questo Fugato»23.

Tutto ciò doveva riuscire tanto più penoso a Beethoven, in quanto Schin­ dler chiedeva queste spiegazioni magari dopo una lite col nipote, o quan­ do la mente rincorreva altre idee. Ancora Karl Kraus: «Il borghese non tollera in casa sua niente d’incomprensibile». E invece lo sforzo di Bee­ thoven andava esattamente nella direzione opposta: di ristrutturare anche ciò che si credeva compreso. Come l’attacco della Nona, che riafferma la tonalità dopo averla resa inafferrabile. O quel ripercorrere il cammino di Bach, Haendel e Haydn che conclude le Variazioni op. 120. Ma già nel 1812 c’era stata V Ottava Sinfonia. Schindler propone ai viennesi le prime otto Sinfonie di Beethoven al Teatro della Josephstadt, nella stagione 1823-24. L'Ottava parve un salto all’indietro. Il che era vero se si pensava all’op. 31.3, all’op. 54, all’op. 24. Ma non era più vero se all’op. 24, all’op. 54, all’op. 31.3 si pensava come folgoranti anticipazioni di un passa­ to concluso. Si è mai notato quanto schubertiana suona la Sonata op. 2.2.? Beethoven non ha mai chiuso i conti con il ’700. Se mai, li chiude con 1’800. Nel sen­ so che propone al proprio secolo il modello armonico del secolo preceden­ te. Ciò che appare dirompente in Beethoven non è la novità del processo formale (armonico, ritmico, melodico) che dà respiro a una struttura di proporzioni fino a quel momento impensabili, ma il fatto che il nuovo re­ spiro sia raggiunto attraverso il potenziamento delle strutture settecente­ sche, e non attraverso il dissolvimento. Beethoven, insomma, non è We­ ber. E nemmeno Schubert, al quale comunque offre la legittimazione. La Sinfonia in do maggiore di Schubert non sarebbe mai stata possibile nel 1828, se negli anni 1811-12 Beethoven non avesse scritto la sua Settima. 21 Quaderni, cit., pag. 1121. 22 Quaderni, cit., pag. 707. 23 Quaderni, cit., pag. 1403.

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Oltretutto, Beethoven e Schubert lavoravano gomito a gomito negli stessi anni nella stessa città (Schubert muore appena un anno dopo Beethoven). Beethoven non lo sapeva, ma Schubert si. Se Beethoven glielo spiega, qualche volta anche Schindler capisce uno scher­ zo. Il conte Lichnowsky, rimasto vedovo, si innamorò della cantante Jo­ hanna Stummer, che poi sposò dopo la morte del principe Karl, suo fra­ tello maggiore. Beethoven gli fece credere di aver raffigurato questa sto­ ria nella Sonata op. 90. Il primo tempo, mit Lebhaftigkeit, con vivacità, rappresenterebbe la «Lotta tra la ragione e il cuore»; il secondo, nicht zu geschwind, non troppo mosso, la «Conversazione con la donna amata». Lichnowsky ci casca, ed è proprio Schindler, sui Quaderni, a farcelo capi­ re. Nella biografia ci casca anche Schindler. Oppure, alla perpetua ricerca di un significato della musica, storico o pittorico che sia, trasforma in ve­ rità di rappresentazione ciò che fu solo ironia di amico. Schindler: Lichnowsky esegui la Sonata op. 90 con la storia del suo matrimonio. — Sua mo­ glie stette a sentire, e da parte sua, si rese utile coi propri commenti. Lo scherzo da parte Sua fu indovinato24.

La Sonata è solo in due tempi (come l’ultima, grandissima, Sonata op. 111). Il secondo è una sorta di dolcissimo, stupendo Lied per pianoforte. Il primo, una concentratissima forma-sonata, che, come Vop.110, evita la replica dell’esposizione. Su questa sublime meditazione strumentale Bee­ thoven intesse uno scherzo. Schindler nel 1823 mostra di capire lo scher­ zo. Nel 1840 beve tutto per oro colato. Ciò deve farci capire anche il suo metodo, e renderci diffidenti delle sue interpretazioni. Il giovane Schin­ dler, del resto, si permette anche qualche cauta critica al governo, sui Qua­ derni. Lo Schindler maturo cancella quello che può cancellare, e distrugge il resto. E chi sa che il principe Lichnowsky ci sia cascato fino a un certo punto. Quando apparvero, a Parigi, nel 1823, le Sonate op. 110 e op. Ili, Lichnowsky chiede a Beethoven in prestito gli spartiti per studiarle25. Le due Sonate «riscuotono l’ammirazione generale». Anni prima, nel 1819, Joseph Czerny, il pianista al quale Beethoven affida l’educazione musica­ le del nipote, scrive sul Quaderno HI, carta 20: Lo Zmeskal adesso non ascolta altra musica se non la Sua Sonata op. 106, che io stesso gli ho suonato già diverse volte»26.

L’annotazione dimostra, tra l’altro, che anche l’ultimo, difficile, Beetho­ ven era suonato e capito da chi sapeva e voleva suonarlo e capirlo. 24 Quaderni, ed. cit., pag. 969. 25 Quaderni, ed. cit., pag. 883. 26 Quaderni, ed. cit., pag. 83. Domanovecz Nicolaus von Zmeskall era un nobile ungherese, composito­ re, violoncellista, impiegato della Cancelleria Ungherese e amico di Beethoven.

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Ai primi di maggio o alla fine d’aprile del 1823 Beethoven riceve la visita di Ignaz Schuppanzigh, di ritorno da una Tournée che lo aveva portato fino a Pietroburgo. È uno dei colloqui più intelligenti dei Quaderni. Beet­ hoven finalmente qui parla con un musicista. Cosi come quando viene a trovarlo Grillparzer, parla con uno che non solo è poeta, ma possiede un’in­ teriorità profonda, con la quale Beethoven può specchiarsi. Chiudo que­ sti brevi appunti sui Quaderni proprio con questi colloqui. Schuppanzigh, di sei anni più giovane di Beethoven, aveva fondato nel 1794, a Vienna, un quartetto al servizio dei principi Lichnowsky e Rasumovskij. Fu il pri­ mo quartetto a eseguire tutti i Quartetti di Beethoven e divenne famoso in tutto il mondo. Come forma di cortesia, Schuppanzigh adopera la ter­ za persona singolare invece della terza plurale e concorda pronomi e ag­ gettivi al singolare maschile. In italiano è impossibile rendere questa par­ ticolarità della parlata di Schuppanzigh, che per certi aspetti assomiglia alla fobia che gli schizofrenici hanno per i pronomi personali. Ma Schup­ panzigh usa correttamente i pronomi, tranne che in questa forma di corte­ sia, come provasse, davanti a Beethoven, impaccio o timidezza. Nell’ot­ tocento, comunque, il tedesco parlato prevedeva l’uso della terza persona singolare come formula di distanza tra i parlanti: Buchner la fa usare al capitano tutte le volte che si rivolge a Woyzeck, nel dramma Woyzeck. Ma li è un ufficiale che si rivolge a un subalterno. Non è questo il caso del rapporto tra Beethoven e Schuppanzigh27. Il colloquio si apre28 con un’osservazione di Schuppanzigh che immerge i due musicisti nella primavera viennese: Oggi il tempo è bellissimo, peccato che Lei non ne abbia ancora goduto29.

Subito dopo Schuppanzigh comunica che il 4 maggio darà un concerto nella sala civica con Caroline Unger e Franz Jàger30. Schuppanzigh s’informa su Schindler, che allora era primo violino al Teatro della Josephstadt, e le domande sembrano mostrare una certa diffidenza: Dove è nato Schindler? Da dove proviene Schindler? 31. 27 11 senso d’impaccio è reso molto bene in italiano quando Schuppanzigh sostituisce il pronome con il nome proprio, per es. «Field piacerebbe molto a Beethoven», invece di «Field Le piacerebbe mol­ to». Cfr. Quaderni, ed. cit., pag. 1148. 28 O si chiude. La numerazione delle carte, nel Quaderno XXX, procede a ritroso, da 13 a 1, per poi continuare regolarmente da 14 a 57. Cfr. Quaderni, ed. cit., pagg. 1145-1151. 29 Quaderni, ed. cit. pag. 1145. 30 Quaderni, ed. cit. pag. 1145. Può essere indicativo della pratica concertistica ottocentesca conoscere il programma di quel concerto, come risulta dalla recensione uscita il 17 maggio sulla Allgemeine musikalische Zeitung ósterreich. Keiserst.: si eseguirono: la Ouverture di Beethoven al Coriolano, il Concerto in re minore per violino di Maurer, la Unger cantò due arie di Rossini, la Rzehazek, nipo­ te del concertista, suonò i canti nazionali svedesi di Ries per pianoforte e in chiusura si ebbe una Polonaise di Maurer. Cfr. Quaderni, ed. cit., pag. 1145, n. 5. 31 Quaderni, ed. cit., pag. 1146.

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Schindler s’inserisce, a carta 5, nella scrittura di Schuppanzigh, probabil­ mente i due si sono quindi incontrati, e il giovane non deve aver fatto a Schuppanzigh una buona impressione. Fa quasi pena questo povero Schin­ dler, che si affanna tanto a conquistarsi la sua fetta di gloria come amico di Beethoven e non riesce simpatico a nessuno, né al nipote, né al fratello, né agli amici di Beethoven, né poi a tutti coloro coi quali è entrato in con­ tatto. All’epoca del colloquio Schindler aveva 28 anni. L’oggetto princi­ pale della conversazione tra Beethoven e Schuppanzigh diventa a un certo punto il pianoforte, la maniera di suonarlo, i pianisti che vanno per la mag­ giore in quel momento. L’idolo di Schuppanzigh è Field. John Field (Dublino, 1782 - Mosca, 1837) era un allievo di Muzio Cle­ menti. Dal 1803 viveva a Pietroburgo. Ma girava tutta l’Europa, accolto dovunque da un pubblico entusiasta. È l’inventore del Notturno per pia­ noforte. Chopin ne subi l’influsso, piuttosto forte soprattutto in area sla­ va. Ma a ragione. La musica di Field è tutt’altro che mediocre. Il suo pia­ nismo dava grande risalto agli effetti espressivi anche della tecnica bril­ lante. I passaggi di velocità si avviano a diventare, come poi in Chopin, elementi strutturali della melodia e non ornamento, abbellimento virtuo­ sistico. Sarà stata quest’attenzione ai valori espressivi a colpire Schuppan­ zigh. Ma leggiamo quello che scrive sul quaderno. Field suona bene.

bisogna sentirlo suonare Beethoven, una gioia incomparabile Field è un’ottima persona, ed è il Suo più grande ammiratore

Fuorché da Lei, non ho mai sentito trattare in tal modo lo strumento rispetto a Field, son tutte porcherie

Quel giovane ebreo, Moscheles, fa furore a Londra, cosa che non riesco proprio a capire.

Field guadagna moltissimo con le lezioni, tuttavia non gli restano mai 100 fiorini, perché spende tutto in champagne. Field piacerebbe molto a Beethoven, perché è un vero Falstaff.

Hummel ha suonato con Field un quatres mains, ma sia il profano sia l’intenditore hanno avvertito la evidente differenza. Field mi ha fatto ricordare molto Lei, quanto al modo di suonare

Field ha dato al Suo Concerto in do minore una interpretazione davvero stupenda. Recentemente a Leopoli ho udito il concerto in si bemolle maggiore di Mozart, da un allievo di chi porta il nome di Mozart; che miserevole esecuzione solistica fu quella che ci capitò di udire con nostro stupore, specialmente per la supina servilità di quelli che accompagnavano

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specialmente gli strumenti a fiato.

stiamo dicendo che Haensler è un asino 32.

Franz Grillparzer (1791-1872) è figura assai complessa della letteratura au­ striaca. Non è un grandissimo poeta né un grande drammaturgo, eppure è scrittore esemplare del mito absburgico, è anzi in qualche modo l’inizia­ tore di una serie di scrittori nei quali riconosciamo il segno della cultura austriaca. I suoi personaggi non sono sconvolti che raramente da grandi passioni o da violenti contrasti di passioni. Piuttosto tendono a soffocare la passione, ad analizzarla, ad allontanarla come un pericolo: il pericolo di perdere il dominio di se stessi, il pericolo di cambiare e quindi di trovar­ si in una situazione nuova difficile da capire, ma soprattutto il pericolo di incrinare con un disordine passeggero (il sentimento spinto all’eccesso romantico) il faticoso equilibrio delle abitudini a lungo coltivate che ga­ rantiscono la tranquillità dell’animo. Gli austriaci di oggi in genere non lo amano, un po’ come gli italiani non amano Alfieri e Manzoni. Tuttavia proprio nei personaggi di Grillparzer è possibile individuare la radice dei personaggi analitici, squassati da passioni che ostentano di controllare e che invece li portano alla rovina, dei personaggi inchiodati a una divoran­ te inerzia, che ci sembrano tipici dei romanzi di Schnitzler, di Roth e di Musil. Era quindi molto diverso da Beethoven, quanto un austriaco può essere diverso da un tedesco. E infatti i due non s’incontrarono mai su un progetto comune di opera: la Melusina e la Drahomira rimasero pro­ getti campati in aria. Beethoven avrebbe voluto un teatro d’urti, Grillpar­ zer scriveva un teatro di conversazione. Beethoven provò simpatia per lui perché lo ritenne perseguitato dall’autorità imperiale. E in parte era vero. Ma soprattutto, al di là della possibilità di una effettiva collaborazione tra il poeta e il musicista, li univa l’abitudine a guardarsi dentro. Radica­ le, intransigente, in Beethoven; più pacata, quasi rassegnata, in Grillpar­ zer. Tra i diversi colloqui registrati dai Quaderni, risalta quello avvenuto verso la metà di maggio del 1823 (Quaderno XXXII). 32 Quaderni, ed. cit., pagg. 1147-49. Haensler è Cari Friedrich Hensler, direttore del Teatro della Josephstadt e anche dei teatri di Pressburgo (Bratislava) e di Baden. Nel suo teatro furono eseguite le musiche per le Rovine di Atene di Kotzebue e l’ouverture Di Weihe des Hauses (la consacrazione della casa). All’epoca del colloquio tra Beethoven e Schuppanzigh si era in trattative per una nuova opera, che Beethoven non comporrà mai. Hensler mori nel 1825. Ignaz Moscheles (Praga. 1794 Lipsia, 1870) era un pianista e compositore assai noto, allievo di Albrechtsberger e di Salieri. Insieme a Francois-Joseph Fétis pubblicò un metodo per lo studio del pianoforte che ebbe grande diffusione e per il quale anche Chopin compose tre studi. Johann Nepomuk Hummel (Bratislava, 1778 - Wei­ mar, 1837) era uno dei pianisti più famosi d’Europa, dalla tecnica assai brillante che influì' su tutta la produzione pianistica dei primi due decenni del secolo. Echi di questo influsso si possono trovare perfino in Chopin, che però lo detestava. Fu allievo di Mozart, e questo gli procurava un grande prestigio. Veniva, infatti, considerato quasi l’erede del pianismo mozartiano. Con una certa acredi­ ne, Beethoven ci credette. Invece non si lasciò convincere Chopin, che, come del resto anche Liszt, trovava la musica di Hummel agli antipodi del pianismo mozartiano.

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Grillparzer: In campagna il male certo se ne andrebbe presto.

Lei dovrebbe bere acqua minerale acidula, a me ha procurato grande sollievo. Johannisbrunnen 33 Ma se Lei fosse tribolato come lo sono io! In più, pensi che io sono impiegato34 Devo sottostare a qualsiasi imbecille. Eppure, non vorrei vivere in alcun altro luogo E gli altri tedeschi sono affogati nella pedanteria Qui c’è del sentimento La censura non può certo prendersela con i musicisti Se si potesse sapere ciò che Lei pensa con la Sua musica!3S.

In poche righe Grillparzer concentra molti dei suoi temi fondamentali: l’ub­ bidienza alla gerarchia politica, anche controvoglia e controcoscienza (è anche il soggetto di un suo dramma, Un fedele servitore del suo signore) e l’attaccamento insieme sentimentale e vitale a Vienna, vissuta come cen­ tro del mondo. Fuori di Vienna, e dell’Austria, ci sono «gli altri tedeschi». La musica è l’arte che può dire ciò che alle altre parti è proibito: ma non solo dalla censura. Poche carte più avanti il pensiero si chiarisce. Attraverso la musica ho appreso la melodia del verso.

La musica è la sola arte che i moderni abbiano inventato. Ma già si ricomincia ad avvicinarsi al manierismo. Pittura. Poesia. Ognuno dovrebbe essere il modello di se stesso 36.

La persona che lesse per prima sul taccuino l’ultima frase aveva fatto di quella massima il proprio stile di vita. Beethoven sarà stato estremamente grato a Grillparzer di aver condensato in parole una condotta morale ch’era stata sempre la sua. E pertanto nessun altro viennese, se non Grillparzer, poteva il giorno dei funerali di Beethoven, pronunciare il commiato dei vivi che restavano a meditare su quell’eredità. Il poeta dell’introspezione e della leggerezza poteva veramente dire alla bara che affondava nella ter­ ra: «Sit tibi terra levis». (Roma, 20 febbraio 1986)

33 34 35 36

Una sorgente termale, alla lettera: fonte di Giovanni. Grillparzer era praticante di concetto al ministero delle Finanze. Quaderni, ed. cit., pagg. 1255-56. Quaderni, ed. cit., pag. 1257.

Lh Pagina autografa dal Quaderno di Conversazione IX-

Preussiche Staatsbibliothek, Berlino)

Ludwig van Beethoven, pagina delle Variazioni op. 35; autografo. (Beethoven-Haus, Bonn; Collezione Bodmer)

Piero Rattalino

Le Variazioni per pianoforte

Dopo i culmini vertiginosi delle cosiddette Variazioni di Goldberg per cla­ vicembalo (1742) e delle Variazioni canoniche su «Vom Himmel hoch» per organo (1746-47) di Bach, la variazione per strumento a tastiera deve ripartire da zero. Passata la metà del secolo succedono del resto tante co­ se, come ben sappiamo. Muore il barocco. E uno strumento inventato al­ la fine del Seicento, il pianoforte, comincia a mandare qualche timido va­ gito. La Variazione per strumento a tastiera, ripartendo da zero, sceglie un nuovo cavallo di battaglia: il pianoforte. Quattordici anni dopo la morte di Bach, nel 1764, un compositore tedesco residente a Parigi, Johann Gottfried Eckard, che l’anno prima ha pubbli­ cato delle Sonate scritte in vista di una «utilità comune al clavicembalo, al clavicordo, al pianoforte», dà alle stampe delle Variazioni su un mi­ nuetto di Exaudet (André-Joseph Exaudet è un violinista-compositore fran­ cese al servizio del principe di Condé). Le Variazioni di Eckard, destinate come tutta la musica rococò a divertire gli esecutori dilettanti, sono opera che meriterebbe una riproposta in sede concertistica: si tratta, è vero, di Variazioni puramente ornamentali, ma che rivelano una sorprendente conoscenza della tastiera ed una capacità di immaginare effetti pianistici calcolati sulla diversità dei registri (molto più differenziati, sui pianoforti dell’epoca, di quanto non siano sugli stru­ menti di oggi). Assai più semplici tecnicamente sono le prime due serie di Mozart (su Laat ons Juichen K 24 e su Guillaume de Nassau K 25), scritte e pubblicate nel 1766, nelle quali la scrittura di un compositore di otto anni diventa emblematica della destinazione ad un pubblico di dilettanti. Le esigenze editoriali condizionano del resto quasi tutte le Variazioni di Mozart, come condizionano le Variazioni di altri musicisti del rococò: ci­ teremo qui, fra i tanti, Haydn (le due Ariette con dodici Variazioni, del 1770 circa, e le deliziose Variazioni a quattro mani, del 1777 circa, intito­

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late II maestro e lo scolaro) e due figli di Johann Sebastian Bach, il Buckerburger Bach, Johann Christoph Friedrich (Variazionisu «Ah, vous di­ rai - je maman») e Cari Philipp Emanuel. Musica per dilettanti non vuol però necessariamente dire musica banale: nelle Variazioni sulla Follia di Spagna di Cari Philipp Emanuel Bach (1778 circa), ad esempio, troviamo una serie che non esiteremmo a definire geniale nel suo spaziare da un con­ trappunto ridotto alla massima semplicità ad un virtuosismo originale e ad umorismo che sarà poi di Beethoven. La stessa ricerca sulla tecnica pia­ nistica, la stessa tendenza verso il gioco, verso l’umorismo, verso un pate­ tismo sempre indiretto, rappresentato, si ritrova in tutte le Variazioni di Mozart. Nelle Variazioni di Mozart compaiono quasi costantemente alcune carat­ teristiche tecniche che, non richiedendo una grande abilità ma molto spi­ rito e il gusto del gioco elegante, possono piacere all’esecutore dilettante e agli ascoltatori della sua cerchia familiare e sociale: tali i tratti di agilità della mano destra e della sinistra, il trillo in una mano e la melodia nell’al­ tra, l’incrocio delle mani. Occasionalmente (come in alcune delle Varia­ zioni su un minuetto di Fischer, che Mozart usava egli stesso in concerto, o nelle ultime due delle Variazioni su «Lison dormati») la difficoltà tecni­ ca è più elevata e richiede un vero e proprio virtuosismo da professionisti. Mozart ha però l’occhio attento alle esigenze del suo pubblico e non ri­ schia di metterlo in imbarazzo; così come non rischia Clementi nei suoi pochi temi variati, nei quali solo di rado (ad esempio, nelle Variazioni del­ la Sonata op. 12 n. 1) si sbizzarrisce con i passi in doppie note a lui tanto cari. Le prime Variazioni di Beethoven non sfuggono al condizionamento del pubblico al quale sono destinate: le Variazioni della Sonata in re maggio­ re, terza delle cosiddette Kurfùrstensonaten (1783), contengono tre Varia­ zioni ornamentali per la mano destra, una Variazione ornamentale per la mano sinistra, la inevitabile Variazione sincopata, «espressiva», in modo minore, ed una sola Variazione, l’ultima, un po’ meno convenzionale. Le Variazioni su una marcia di Dressier (1782) seguono gli schemi usuali, e si segnalano semmai perché, insolitamente, sono in modo minore; curiosa e divertente come una barzelletta, più delle Variazioni, è però per noi la marcia di Dressier, che è un perfetto esempio dello stile parodiato da Mo­ zart nei Musicanti del villaggio. Le dodici serie di Variazioni scritte da Beethoven tra il 1790 e il 1800 non si sottraggono ai moduli correnti. Ma sono pur opere di Beethoven, e spesso presentano trovate strumentali notevoli e soprattutto divertenti, con umo­ ristici giochi di botte e risposte in registri diversi. Come le Variazioni di Mozart, anche quelle di Beethoven si distinguono nettamente tra le Variazioni dei contemporanei, da Zelter al maestro di

Beethoven Christian Gottlob Neefe, da Kozeluch a Freystàdtler, da J.G. Ferrari a Vanhal allo specialista degli specialisti, l’abate Joseph Gelinek, maestro della futura imperatrice dei francesi Maria Luigia, competitore e rivale di Beethoven nei salotti viennesi, futuro bersaglio della feroce iro­ nia di Weber. Tuttavia, la sublimazione del genere, del genere Variazioneper-dilettanti, non è né di Mozart né di Beethoven, entrambi pianisti, ma di Haydn, che pianista non era: si trova nelle Variazioni in fa minore (1793), nelle quali Haydn riesce a mantenere vivi i due canoni della Variazione per dilettanti, la riconoscibilità del tema e la media difficoltà tecnica, su­ perandone tutti i limiti. Ci riesce con un tema variato che oscilla tra ma­ linconia sognante e casta serenità perché in realtà è un doppio tema varia­ to, un tema in fa minore e un tema in fa maggiore, ciascuno con due Va­ riazioni e con un Finale a fantasia.

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Le Variazioni in fa minore di Haydn rappresentano la sintesi del rococò, allo stesso modo in cui le Variazioni di Goldberg rappresentano la sintesi del barocco. Dal punto di vista e storico ed estetico, nulla può stare al loro livello negli ultimi decenni del Settecento, tranne, s’intende, i temi variati nei Concerti per pianoforte di Mozart, che partono però da pre­ messe del tutto diverse. Se l’angolazione critica è esclusivamente estetica la Variazione per piano­ forte dei periodi rococò e protoclassico ha dunque poche probabilità di essere presa in seria considerazione. Se la prospettiva è anche sociologica, il discorso cambia. E cambia ancora se, nel caso specifico di Beethoven, si considerano le sue Variazioni giovanili come occasioni e di rapporto con un pubblico e di sviluppo di una poetica e di esplorazione dello strumento. Le Variazioni sul «Minuetto alla Vigono» delle «Nozze disturbate» di Haibl furono scritte nel 1795 e pubblicate nel 1796. Petrus Jakob Haibl o Haibel, cantante e compositore oggi non più citato neppure tra i minori, ot­ tenne ai suoi giorni successi superiori a quelli di Mozart. Il minuetto «alla Viganò» (Salvatore Viganò, ricordiamo, era un celeberrimo coreografo, con cui Beethoven avrebbe più tardi collaborato per il balletto Le creature di Prometeo) presentava la insolita caratteristica di essere in metro bina­ rio invece che ternario. A Vienna il Minuetto di Haibl fece furore e venne variato anche dal galattico Gelinek, che non disdegnò in questa occasione di giocare persino con il contrappunto canonico. Meno audaci, più convenzionali sono le variazioni di Beethoven, che non era ancora affermato e che non poteva permettersi scherzi eccentrici. Il taglio della struttura beethoveniana non è però del tutto tradizionale: due,

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non una sola, sono le Variazioni in modo minore (la quarta e la settima), e la chiusa non è brillante ma, al contrario, misteriosa, sfuggente, allusiva. Beethoven, che arriva quando già si è imposto in tutta Europa Clementi, porta il suo pubblico di dilettanti anche su una casistica tecnica che era stata in passato appannaggio dei professionisti: ottave, terze e seste nella prima Variazione, ottave — con due canoni non rigorosi: Gelinek insegna — nella dodicesima Variazione. La Variazione quinta e la Variazione se­ sta rivelano il gusto di Beethoven per l’umoristico gioco delle botte e ri­ sposte rapidissime, e nella decima Variazione il dilettante viene gratificato di un luogo topico del genere: l’incrocio della mano destra, cioè, per la precisione, del braccio destro sopra il sinistro.

2 Quattro anni più tardi, quando scrive le Variazioni su «La stessa, la stes­ sissima» dell’opera «Falstaff» di Salieri, Beethoven è già diventato un leader del mondo pianistico viennese: ha pubblicato altre tre serie di Variazioni, le Sonate op. 2 e le Sonate con violoncello op. 5, ha pronte le Sonate op. 12 con violino, sta già uscendo dalla specializzazione di pianistacompositore (Triiper archi op. 9) e sta per lanciarsi nel campo, il quartet­ to per archi, in cui domina il patriarca e suo maestro Haydn. Quattro al­ meno delle dieci Variazioni su un tema di Salieri — la seconda, la sesta, l’ottava e la nona — sembrano pensate per quartetto d’archi, e per quin­ tetto d’archi sembra pensata l’ottava, in modo minore; meno palese, ma pur sempre riconoscibile è il riferimento al quartetto d’archi nelle Varia­ zioni prima e terza. Spesso si notano, nell’opera pianistica di Beethoven, ricerche su rapporti di altezze e di spettro sonoro complessivo che vengono più tardi usate in composizioni per orchestra. Più raro è lo studio, attraverso il pianoforte, di soluzioni che verranno impiegate in complessi da camera. Quello che abbiamo segnalato è un esempio, e cospicuo, di uso da laboratorio, per così dire, del pianoforte. Le altre tre Variazioni sono invece nettamente pianistiche, con sfoggio di agilità e di brillantezza di sonorità. Particolar­ mente virtuosistica, sia pure in limiti che non eccedono le possibilità del dilettante, è la decima Variazione, che si prolunga in un Finale. Qui Beet­ hoven ci riserva una di quelle sue sorprese armoniche che lo portano a gio­ care con le tonalità come un prestigiatore; e conclude con un altro tocco di umorismo, cioè con una finta ripresa del tema che si perde in un indi­ stinto borbottio, finché due battute assolutamente banali, e perciò mici­ diali, suggellano lo scherzo. Purtroppo, la musica senza testo non riesce a far ridere, anche quando la risata ci starebbe a puntino...

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Del 1799 sono altre due serie di Variazioni, su tema di Winter e su tema di Siissmayr, che ci confermano la disinvoltura con cui Beethoven sa or­ mai trattare in modo umoristicamente salottiero qualsiasi tema alla mo­ da. Nelle Variazioni su un tema di Siissmayr notiamo però alcune piccole ma significative novità. Il pezzo è in fa maggiore. La immancabile Varia­ zione in modo minore non è però in fa minore: è in re minore, e modula in si bemolle maggiore legandosi direttamente alla Variazione successiva, che a sua volta modula in fa maggiore e si lega alla Variazione seguente. L’ultima Variazione, altra novità, inizia con un piccolo fugato a tre voci.

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Con le Variazioni sull’arietta «Venni amore» di Righini Beethoven am­ plia i consueti confini del genere: ventiquattro Variazioni. Ventiquattro nella versione a noi nota, che venne pubblicata nel 1802 con dedica alla contessa Maria Anna Hortensia von Hartzfeld nata contessa Girodin; e ventiquattro nella prima versione, della cui pubblicazione abbiamo noti­ zia da un annuncio apparso nella Wiener Zeitung nel 1791, ma di cui non ci è pervenuta alcuna copia. Mancando la versione del 1791 dobbiamo esa­ minare la versione del 1802 come opera conclusiva della giovinezza di Beet­ hoven, della, come si diceva un tempo, sua prima maniera. L’arietta di Vincenzo Righini, che è un breve pezzo da camera, è schema­ tica e scheletrica quanto basta per poter subire senza danno tutti i travesti­ menti a cui Beethoven la sottopone, e presenta anche la caratteristica di adattarsi bene ad una delle possibilità del pianoforte — la contrapposizio­ ne di suono staccato e suono tenuto — che più stanno a cuore al giovane Beethoven. Dalla schematicità sia melodica che armonica del tema sorge un lavoro di brulicante fantasia, che ha il sapore dell’improvvisazione na­ ta alla tastiera e che non esprime una vera preoccupazione di organizza­ zione formale. Vedremo poi come Beethoven organizzerà il lavoro dirom­ pente della sua immaginazione combinatoria quando si ritroverà alle pre­ se con due temi altrettanto schematici quanto quello di Righini, il tema delle 32 Variazioni in do minore e quello delle 33 Variazioni su un valzer di Diabelli. Nelle Variazioni su un tema di Righini l’organizzazione è in­ vece ancora rudimentale. C’è una divisione in due parti perché le due Va­ riazioni centrali — la dodicesima e la tredicesima — sono in modo minore (re minore rispetto alla tonalità generale di re maggiore). E c’è un netto salto qualitativo nel blocco di Variazioni dalla diciassettesima all’ultima. Qui sembra comparire il Beethoven del 1802 ma, come già detto, non co­ nosciamo la prima versione e non sappiamo in che cosa consistesse la revi­ sione. In generale Beethoven organizza il seguito delle Variazioni basan­

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dosi su contrasti di densità ritmica, e riesce così a dare fluidità ad una for­ ma a piccoli pannelli che copre l’enorme durata di circa ventidue minuti (la durata media, a quel tempo, di una Sonata in tre o anche in quattro tempi). Data la vivacità dell’invenzione e la varietà degli atteggiamenti espressivi, la insolita durata viene percorsa senza che l’ascoltatore avverta monotonia; e questo è un vero tour de force, che riporta almeno tenden­ zialmente la Variazione di Beethoven verso le concezioni spazio-temporali del barocco. Oltre a questa riuscita complessiva sono poi da segnalare le sorprese ar­ moniche dell’ultima Variazione, amplificata in un grande Finale. Ed è da segnalare l’effetto di rarefazione delle ultime righe, che sembra non essere stato ignorato dallo Schumann dei Papillons op. 2.

4 La misteriosa sparizione della prima edizione delle Variazioni su un tema di Righini ci impedisce di capire quale fosse l’entità del lavoro compiuto nel 1802 da Beethoven su una composizione vecchia ormai di dieci anni. Si trattò di ritocco? Si trattò di revisione? Si trattò di ricomposizione? Il confronto tra la versione a noi nota e le serie di Variazioni scritte negli anni 90 ci fa pensare che Beethoven... affondasse il bisturi con decisione. Ma non possiamo andar oltre questa generica ipotesi. Nel 1802, per ragioni che ci sfuggono ma che dovettero rappresentare per lui un’autentica scoperta, Beethoven guardò con occhi nuovi alla Varia­ zione per pianoforte: prima l’aveva considerata un genere minore, una con­ cessione ad un gusto salottiero da cui, giovane artista rivoluzionario come sentiva di essere, tendeva sempre più decisamente a staccarsi; poi... Una ragione possiamo però immaginarla, se non provarla. Alla fine del 1801 si stabiliva a Vienna Antonin Reicha, che verso il 1785-90 aveva vis­ suto a Bonn e si era trovato a suonare insieme a Beethoven nell’orchestra di corte. Nel 1802 fu offerto a Reicha l’incarico di maestro di cappella e insegnante del principe Louis Ferdinand di Prussia, che era pianista e compositore, e che era anche il personaggio illustre da Beethoven cono­ sciuto a Berlino nel 1796 e a cui sarebbe stato dedicato nel 1804 il Concer­ to in do minore op. 37. Reicha non accettò l’offerta del principe, ma scrisse per lui L’art de varier, quasi un trattato pratico di ben cinquantasette Va­ riazioni su un tema originale. Sarebbe diventato più tardi un grande teori­ co della composizione, Antonin Reicha, e già alla fine del Settecento i suoi interessi speculativi lo avevano portato a studiare i trattati di composizio­ ne del periodo barocco. Cosi, nell’/lrz de varier egli affrontava il genere in un modo che non era più quello galante e leggero del rococò e del pri-

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mo periodo classico, ma che tendeva invece verso la ricerca radicale sul virtuosismo pianistico e verso la trasformazione delle strutture organiche del tema. Sebbene non si abbiano notizie se non labilissime dei rapporti BeethovenReicha nei primi anni dell’ottocento, sembra tuttavia molto probabile che il rinnovato interesse del primo per la Variazione nascesse in relazione con la creazione dell’opus magnum del secondo. Composte nel 1802 due nuo­ ve serie di Variazioni, Beethoven le proposte agli editori Breitkopf & Mar­ te! di Lipsia dicendo: Tutte e due le serie sono elaborate in maniera veramente nuova e ognuna in modo diverso e distinto [...1 Ciascun tema è trattato in un suo modo particolare e in maniera diversa dal­ l’altra. Di solito, devo aspettare che siano gli altri a dirmelo quando esprimo idee nuove, perché non me ne rendo mai conto da solo. Ma questa volta — posso io stesso assicurarla che in tutte e due queste opere il metodo per quanto mi riguarda è interamente nuovo (18 ottobre 1802) '.

Quando gli editori accettarono la proposta, Beethoven chiese di pubblica­ re i due lavori con una avvertenza: Poiché queste Variazioni differiscono notevolmente dalle mie precedenti (...) le ho incluse nella serie numerica delle mie opere musicali maggiori.

Gli editori fecero orecchie da mercante quanto all’avvertenza, che avreb­ be squalificato le serie precedenti tuttora in commercio, ma misero in fron­ tespizio e op. 34 e op. 35: con il che la variazione entrava nell’Olimpo beethoveniano. Facciamo notare che poco prima erano entrate nell’Olimpo an­ che le brevi pagine raccolte nelle Bagatelle op. 33: Beethoven, per così di­ re, cominciava a prendere e far prendere sul serio tutto quel che componeva.

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Nell’op. 34 il tema, bellissimo, è in forma di canzone, e quindi di tipo tra­ dizionale; ma le sei Variazioni non si limitano ad ornamentarlo: se ne al­ lontanano invece di molto, e sono fortemente caratterizzate per quanto riguarda tonalità, ritmo, velocità. Il piano tonale segue infatti uno sche­ ma per terze discendenti: fa maggiore, re maggiore, si bemolle maggiore, sol maggiore, mi bemolle maggiore, do minore (con conclusione in do mag­ giore), fa maggiore. Com’è evidente, terminando con una piccola coda in do maggiore la Variazione in do minore, Beethoven si porta sulla domi­ nante della tonalità principale e salta il passaggio sul la bemolle maggiore. Lo schema ritmico alterna misure binarie semplici, misure binarie compo­ ste, misure ternarie. E le velocità vanno da Adagio (tema e prima Varia1

Trad, di A.E. Howell e M.G. Alfieri.

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zione) a Allegro ma non troppo (seconda Variazione), Allegretto (terza Variazione), Tempo di Minuetto (quarta Variazione), Marcia. Allegretto (quinta Variazione), Allegretto (sesta Variazione), Molto Adagio (ripresa ornamentata del tema, che Beethoven non considera Variazione). Le Va­ riazioni op. 34, pubblicate nel 1803, furono dedicate alla principessa Bar­ bara Odescalchi, allieva di Beethoven e pianista dilettante, pare, di qual­ che merito. Le Variazioni op. 35, sul tema della Contraddanza Wo O 14 n. 7 (1800-1801), già ripreso nel balletto Le creature di Prometeo (1801) e che tornerà ancora nell’ultimo tempo della Sinfonia «Eroica» (1803), sono Va­ riazioni da concerto e postulano una netta differenziazione tra tecnica ac­ cessibile ai dilettanti e tecnica da professionisti. L’inizio dell’ottocento vede sorgere la didattica dei professionisti: fenomeno molto rilevante, che na­ sce in conseguenza dello sviluppo di un nuovo virtuosismo, formatosi con Mozart e anche con Clementi nell’improvvisazione del virtuoso e che con la successiva generazione di pianisti (da Beethoven e Hummel fino a Kalkbrenner e Moscheles) si trasferisce decisamente nel campo della creazione, investendo soprattutto i generi della Variazione e del Concerto. Il significato storico dell’op. 35 di Beethoven è però più complesso e non si esaurisce nella ricerca del virtuosismo brillante. Vero è che Variazioni come la terza, la nona e la tredicesima si pongono già nella prospettiva di un virtuosismo non sperimentato nelle sonate ed anticipano modi di at­ tacco del tasto che troveranno piena attuazione solo nel Quinto Concerto. Ma l’altra grande, e maggiore novità dell’op. 35 è costituita dal Finale. Alla Fuga, dai procedimenti contrappuntistici dell’introduzione e dal «Ca­ none all’ottava» della settima Variazione. Beethoven inizia qui, dopo gli accenni di alcune delle precedenti Variazioni e di alcuni tratti delle Sona­ te, quel recupero del barocco che rappresenterà in seguito una costante della sua poetica. Le Variazioni op. 35 si aprono con la «Introduzione col Basso del Tema»; dopo l’accordo tonale (mi bemolle maggiore), il basso viene presentato da solo, in due frammenti di otto battute ciascuno ripetuti due volte; mol­ to caratteristica è la contrapposizione clamorosa di tre note in fortissimo, ed isolate, rispetto ad altre diciannove note in pianissimo ed una in piano. Dopo il basso non viene presentato il tema, ma un contrappunto «A Due», con basso e soprano. Nel seguente «A Tre», in contrappunto cosiddetto doppio, cioè reversibile, il basso passa anche a soprano e contralto, e nell’«A Quattro» diventa soprano, melodia. Finalmente, dopo tutto que­ sto sfoggio di contrappunto rivisitato alla moderna, arriva il tema, dolce e molto cantabile, ma sempre con la contrapposizione del fortissimo ver­ so la metà. La presentazione del basso ed il lavorio contrappuntistico costruitogli at-

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tomo potrebbero far pensare alla ripresa delle danze barocche, ciaccona o passacaglia, con basso ostinato. Beethoven non segue invece ancora que­ sto schema, ma varia la melodia modificando, quando lo ritiene opportu­ no, il basso. L’accostamento di stilemi diversi raggiunge il limite del colla­ ge tra la settima e la decima Variazione: la settima è un canone, l’ottava un preromantico studio melodico, la nona uno studio brillante in doppie note, la decima uno studio a mani alternate, che riprende una tecnica cara a Cari Philipp Emanuel Bach e a Haydn. Anche la quindicesima Variazione e VAllegro con brio del «Finale. Alla Fuga» introducono nel contesto classico un intermezzo barocco secondo la tecnica del collage. La quattordicesima Variazione, una Variazione preschumanniana in modo minore, potrebbe legarsi direttamente alla ripresa conclusiva del tema, Andante con moto. Beethoven inserisce invece la quin­ dicesima Variazione, Largo, che è un grande brano in stile barocco fiori­ to, e la collega alla Fuga, Allegro con brio. Al termine della Fuga lo stesso melisma, che aveva preceduto la quindicesima Variazione, ritorna per aprire VAndante con moto, ultima e ampliata esposizione del tema. La quindi­ cesima Variazione e la Fuga diventano dunque una vera e propria Fanta­ sia e Fuga barocca in un contesto contrastante, creando di nuovo un tipo di discontinuo stilistico che più tardi, con la Sonata op. 106 e con le Va­ riazioni op. 120, diventerà sintesi storica di classico e barocco.

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Il lupo perde il pelo ma non il vizio, potremmo dire anche per un perso­ naggio tetragono come il nostro Ludwig van: dopo questo meraviglioso exploit dell’op. 35, Beethoven scrive nel 1803 delie simpatiche, ma casa­ linghe Variazioni su God save the King, e delle altrettanto frivolmente inof­ fensive Variazioni su Rule Britannia: Variazioni che, ligio al suo nuovo look di Tondichter, di poeta del suono, pubblica senza numero d’opera. Si rifà però, il buon Beethoven, con il secondo tempo della Sonata op. 57, V«Appassionata», che è un mirabile studio di scomposizione di un te­ ma attraverso tre sole Variazioni. L’«Appassionata» fu terminata nel 1805. Nell’autunno del 1806 Beetho­ ven ritornò sulla Variazione con le 32 Variazioni in do minore: le pubbli­ cò nel 1807, senza dedica... e senza numero d’opera. Il che significa — ormai lo sappiamo bene — che non le annoverava tra i suoi lavori mag­ giori ma che le ammucchiava tra le composizioni d’occasione. Non si trat­ ta, in effetti, di un lavoro paragonabile, per interesse storico e per com­ plessità di costruzione, alle Variazioni op. 35, e tanto meno alle VariazioniDiabelli op. 120. E tuttavia, le 32 Variazioni in do minore rivelano l’inte­

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resse di Beethoven per l’antica forma della Variazione su un basso ostina­ to (Ciaccona e Passacaglia), e si inseriscono dunque nella esperienza del recupero dell’arte barocca che nella poetica beethoveniana, come già det­ to, è di importanza fondamentale. Si è anzi supposto che Beethoven avesse avuto modo di conoscere la Ciac­ cona per violino solo di Bach, pubblicata per la prima volta nel 1802 dal­ l’editore Simrock di Bonn, che con Beethoven aveva rapporti e d’affari e d’amicizia. Non è certo che Beethoven conoscesse questa pubblicazione. L’analisi delle 32 Variazioni in do minore dimostra tuttavia che la suppo­ sizione, per quanto non provata, non è campata in aria. La struttura del tema è ingegnosissima nella sua estrema semplicità: con dinamica forte il basso scende per cinque semitoni consecutivi e poi per un tono, la melodia sale per due toni consecutivi e poi per quattro semito­ ni; nel punto di massima divaricazione tra melodia e basso, e di massima intensità (sforzato), c’è un arresto, seguito (in piano) da una cadenza ele­ mentare. Le Variazioni sono organizzate per cicli e per gruppi: Var. I-III, sulle note ribattute (mano destra, mano sinistra, le due mani unite); Var. IV-VI, due Variazioni ritmiche che incorniciano una Variazione me­ lodica, quasi uno Scherzo con Trio; Var. VII-VIII, sugli accordi spezzati; la seconda Variazione è uno svilup­ po della prima, una Variazione della Variazione; Var. IX, isolata, sul trillo; Var. X-XI, sui tratti di agilità brillante (mano sinistra, mano destra); con la Var. XI si conclude il primo ciclo, in do minore; Var. XII-XVI, in do maggiore; si tratta di un tema con Variazioni in mi­ niatura, che inizia (Var. XII) con una variante semplificata del tema prin­ cipale, e si sviluppa in due piccoli gruppi: contrappunto in note semplici (Var. XIII) e in note doppie (Var. XIV), due Variazioni sulle ottave; le Var. XII-XVI costituiscono il secondo ciclo, quasi un intermezzo tra i due cicli maggiori; Var. XVII-XXII, caratterizzate da una prima (XVII) e da una ultima (XXII) Variazione a canone; le quattro Variazioni intermedie sono sulle scale alla massima velocità possibile (XVIII) e sui tratti di agilità di forza (mano destra, mano sinistra, mano destra); con la Var. XVII riprende la tonalità di do minore, che non verrà più abbandonata; Var. XXIII, isolata e misteriosissima, sugli accordi ribattuti; Var. XXIV-XXVII; due coppie di Variazioni di carattere contrapposto: due Variazioni leggere e scherzose, due Variazioni virtuosistiche, di scrit­ tura massiccia, sulle terze e gli accordi; Var. XXVIII-XXX, costituiscono, a rovescio, il pendant delle Var. IVVI: una melodia accompagnata in valori tutti uguali ed un corale incorni­

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ciano una Variazione di agilità di forza per le due mani; Var. XXXI-XXXII, formano il finale dell’opera, con ripresa del tema su un indistinto mormorio del basso e Variazione conclusiva seguita da un’am­ pia coda; la coda comprende un’ulteriore Variazione, la trentatreesima, non numerata come tale da Beethoven. La struttura generale dell’opera è dunque simmetrica: un pezzo (tema), undici pezzi (Var. I-XI), cinque pezzi (Var. XII-XVI), quattordici pezzi (Var. XVII-XXX), due pezzi (Var. XXXI-XXXII). È evidente il riferimento ad una forma ternaria (introduzione, A - B - A, coda), enormemente am­ plificata e molto variegata nel suo interno. Se la suddivisione ternaria appare evidente per l’alternarsi della tonalità minore e maggiore e per i caratteri espressivi, il fatto che la undicesima e la dodicesima Variazione siano direttamente collegate mette in luce un raggruppamento dei primi due cicli di Variazioni, e quindi una suddivisio­ ne binaria perfettamente simmetrica: sedici e sedici Variazioni. La simme­ tria è accentuata dal fatto che al tema corrisponde, alla fine, la non nume­ rata trentatreesima Variazione, la cui funzione architettonica si spiega dun­ que in questo senso. È evidente anche, dalla descrizione che ci siamo sforzati di dare al lettore, che per variare il tema Beethoven si basa soprattutto su formule di tecnica pianistica, ponendosi nella linea dello studio in forma di variazioni che toccherà con Vop. 13 di Schumann il suo culmine ineguagliato: il che pro­ curò e ancora procura a Beethoven i rabbuffi di qualche critico a cui la tecnica riesce sospetta. Si può ricordare a titolo di curiosità che nel 1871 Stephen Heller, ben noto anche oggi per certi suoi lavori didattici (Studi op. 45, 46, 47), scrisse 33 Variazioni sopra un tema di Beethoven op. 130, riprendendo il tema delle 32 Variazioni in do minore.

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Dopo il 1806 l’interesse di Beethoven per la Variazione pianistica cade bru­ scamente: nel 1809 egli scrisse un piccolo ciclo di Variazioni su un tema che due anni più tardi userà, come Marcia turca, nelle musiche di scena per il dramma di Kotzebue Le rovine d’Atene: un delizioso divertimento su una musica da giannizzeri a cui, sorprendentemente, viene assegnato il numero d’opera 76. Tra il 1817 e il 1818 vengono composti i Sei temi variati op. 105 e i Dieci temi variati op. 107, per pianoforte con flauto o violino ad libitum. Cosette graziosissime su arie scozzesi, austriache, ti­ rolesi e russe, tutt’altro che indegne del nome di Beethoven ma la cui in­ clusione nel catalogo numerico ci stupisce non poco, specie per uno che

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tra le due raccolte di temi variati piazzava la Sonata op. 106, la «Hammerklavier». La Sonata op. 109 composta nel 1820, e la Sonata op. Ili composta tra il 1821 e il 1822 contengono entrambe un finale in forma di Variazioni. Faremmo un torto al lettore, se pensassimo di doverlo invitare a cadere in ginocchio di fronte ai finali della 109 e della 111, che certamente ricor­ da benissimo. Parliamo invece dell’ultima serie di Variazioni di Beetho­ ven, Vop. 120, non altrettanto popolare e non altrettanto esaltata dalla critica. Le circostanze che favorirono la composizione delle Variazioni op. 120 sono assai note, tanto che basterà qui riassumerle molto brevemente. L’editore viennese Antonio Diabelli ebbe l’idea di mettere insieme una spe­ cie di Parnaso nazionale chiedendo a molti compositori residenti nell’im­ pero asburgico di scrivere ciascuno una Variazione su un suo valzer. La raccolta, pubblicata nel 1824 sotto il pomposo titolo Società Nazionale degli Artisti. Variazioni per pianoforte su un tema originale, composte dai più eccellenti compositori e virtuosi di Vienna e dell’impero Austriaco, comprendeva cinquanta Variazioni di cinquanta diversi compositori. Tra i cinquanta troviamo molti musicisti oggi sconosciuti e qualche celebrità: Schubert, Moscheles, Hummel, Czerny, Kalkbrenner, il tredicenne Liszt. Non troviamo Beethoven, perché Beethoven si era messo a lavorare sul valzer di Diabelli fin al 1819, e nel 1823 aveva consegnato all’editore un monumento di ben trentatré Variazioni, che furono pubblicate nello stes­ so anno con dedica ad Antonia Brentano, moglie del banchiere Franz e cognata di Bettina e Clemens Brentano. Siccome Vincent d’Indy sostenne un tempo una sua tesi sulle convinzioni razzistiche di Beethoven, affer­ mando tra l’altro che il compositore non aveva dedicato ad ebrei nessuna delle sue opere, non è fuor di luogo osservare che Antonia Brentano, nata von Birbenstock, era ebrea. Le Variazioni op. 120 sono la composizione che riassume in sé, in una sin­ tesi storica irripetibile, tutto il cammino a ritroso compiuto da due gene­ razioni di musicisti che avvertirono per primi il problema di inserire la crea­ zione musicale nella storia anziché nell’attualità. Partendo dalla geome­ tria elementare — ma non banale, a parer nostro — del valzer di Diabelli, Beethoven trascorre attraverso atteggiamenti stilistici diversi per conclu­ dere con cinque Variazioni di sapore arcaico, che ricordano il barocco o (l’ultima) un Settecento sentito come luogo di un’arcadia trasfigurata. La definitiva riacquisizione di stilemi del passato è un tratto fondamentale del tardo Beethoven (si pensi alle Fughe delle ultime Sonate e degli ultimi Quartetti, o all’uso della modalità antica nella Missa solemnis e nel Quar­ tetto op. 132). Qui Beethoven torna verso il barocco: le Variazioni ventinovesima e trentunesima sono due adagi barocchi (il secondo del tipo del­

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l’Adagio violinistico con fioriture improvvisate), la Variazione trentesima è una Invenzione a quattro voci, non rigorosa, e la trentaduesima è una doppia Fuga; la trentatreesima è un Tempo di Minuetto, cioè un minuetto stilizzato o trasfigurato, che il Geiringer chiama giustamente «un epilogo in cielo». Le suddivisioni strutturali non sono indicate da Beethoven; ma la cura del­ l’autore, evidentissima, nel differenziare le Variazioni mediante l’alternarsi di ritmi, velocità, modi di attacco del suono diversi, pone, a chi studia Vop. 120, il problema di individuarle. La divisione in due parti è evidente: la straordinaria ventesima Variazione, che Liszt chiamava «la sfinge» e che tanto piaceva a d’Annunzio, tutta condotta al limite di intensità pia­ no, con bassissima densità ritmica e senza che venga mai toccato il regi­ stro acuto del pianoforte, rappresenta nel modo più chiaro la conclusione della prima parte e lo spartiacque tra la prima e la seconda. Le due parti seguono quindi la proporzione della sezione aurea, perché il rapporto tra i trentaquattro pezzi (Tema e trentatré Variazioni) dell’insieme e i ventu­ no (Tema e venti Variazioni) della prima parte è uguale al rapporto tra i ventuno della prima e i tredici (Variazioni dalla ventunesima alla trenta­ treesima) della seconda parte. Anche le due parti sono a loro volta suddi­ vise secondo la sezione aurea: la prima parte presenta una suddivisione tra la dodicesima e la tredicesima Variazione, la seconda tra la ventottesi­ ma e la ventinovesima. La composizione è quindi organizzata secondo que­ sti quattro gruppi principali: I) Tema - Var. XII (13 pezzi); II) Var. XIII - Var. XX (8 pezzi); III) Var. XXI - Var. XXVIII (8 pezzi); IV) Var. XXIX - Var. XXXIII (5 pezzi). Infine, anche il primo gruppo è suddiviso secondo la sezione aurea: que­ sta suddivisione è meno evidente, ma in realtà è importantissima, perché nella quinta Variazione viene cambiata per la prima volta la struttura to­ nale del valzer (invece dell’andamento dalla tonica alla dominante e vice­ versa, nella quinta Variazione si passa dalla tonica al relativo minore della dominante e viceversa). Con la ulteriore suddivisione del primo gruppo Beethoven stabilisce quindi, all’interno della suddivisione generale secon­ do la sezione aurea, una suddivisione simmetrica: 5, 8, 8, 8, 5 pezzi. La serie delle Variazioni, che non aveva trovato se non per eccezione una vera concentrazione formale, si organizza così per gruppi e su un arco ser­ rato, scandito secondo proporzioni precise e funzionali che diventeranno un modello di organizzazione per i cicli romantici di forme brevi. Accanto alle Variazioni op. 120 terminate nel 1823 si pongono infatti subito le Vai­ ses sentimentales di Schubert, composte tra il 1823 e il 1824 e pubblicate nel 1825: un ciclo di trentaquattro pezzi, organizzato secondo rapporti for­

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mali molto sottili, che tengono conto di simmetrie geometriche e della se­ zione aurea. Il passo rivoluzionario che Schubert compie, rispetto a Beet­ hoven, riguarda la struttura tonale: mentre le Variazioni op. 120 manten­ gono ancora l’unità tonale (la tonalità di do maggiore prevale nell’arco complessivo della composizione), le Vaises di Schubert la spezzano, creando un inedito rapporto tra una prima ed una seconda area tonale, distanziate di una terza maggiore discendente.

8 Non abbiamo dati statistici sul numero di copie smerciate delle Variazioni di Beethoven, e quindi non siamo in grado di capire quale fosse il loro grado di diffusione rispetto alle Variazioni di altri compositori molto po­ polari, o rispetto alle Sonate dello stesso Beethoven. Possiamo però dire che, mentre le edizioni complete delle Sonate cominciavano già ad appari­ re verso il 1840 e si infittivano progressivamente nella seconda metà del secolo, le edizioni complete delle Variazioni furono molto rare per tutto l’Ottocento ed anche nel nostro secolo. Nel periodo in cui le Sonate, nel loro complesso, diventavano dunque un testo generalmente adottato, solo poche serie di Variazioni venivano stu­ diate da tutti gli allievi di pianoforte. La stessa sproporzione si nota nei repertori concertistici. Parecchie Sonate venivano già eseguite nel periodo 1830-50, e la prima esecuzione pubblica delle trentadue Sonate arrivò nel 1861. La prima esecuzione pubblica di tutte le Variazioni, di cui si abbia notizia, è quella di Ernò Dohnanyi, che è addirittura del 1920 e che avven­ ne nell’ambito di una presentazione dell’intera opera pianistica di Beetho­ ven (analoghe iniziative furono più tardi condotte a termine da Mieczyslaw Horszowski nel 1954 e da Robert Haag nel 1972). Nel corso dell’ottocento solo le 32 Variazioni in do minore furono vera­ mente popolari. Molti pianisti, a cominicare da Clara Schumann, ebbero però in repertorio anche le Variazioni op. 35, che vennero costantemente eseguite ma che non ottennero mai — e non l’hanno ancora veramente ottenuto — un completo gradimento, né da parte del pubblico, né da par­ te di una critica che anche recentemente le ha giudicate con sussiego, quando non le ha decisamente trattate a pesci in faccia. La ricerca tecnica di Beet­ hoven nelle Variazioni op. 35, insomma, suscitò sempre l’interesse — e il divertimento — dei professionisti, ma il pubblico preferì la maggiore semplicità e la più chiara impaginazione delle Variazioni in do minore. A parte le impopolari Variazioni op. 35 e le popolarissime 32, solo le Va­ riazioni op. 34 furono insistentemente proposte, senza fortuna, prima da Liszt e poi da Hans von Bùlow. Le altre Variazioni, comprese le Diabeili,

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destarono una certa attenzione specialmente nei concertisti che progetta­ vano cicli di serate di grande impegno culturale. Il ciclo di cinque concerti dedicati a Beethoven, che Hans von Bùlow tenne più volte negli anni 80, comprendeva le Variazioni su un tema russo, le opere 34, 35 e 120, e le 32 Variazioni in do minore; in un altro programma beethoveniano, in cui venivano incluse otto Bagatelle, Biilow inseriva le Variazioni op. 76. Nel ciclo di quattro concerti beethoveniani che Frederic Lamond tenne nei primi anni del Novecento erano comprese le opere 35, 76,120, e le 32 Variazioni. Un intero programma dedicava a Beethoven Anton Rubinstein nel suo fa­ mosissimo ciclo storico che stupì l’Europa negli anni 80; ma nessuna Va­ riazione vi era compresa. Né vi era compresa nei cicli di Nanette Auer­ bach (1875), Annette Essipova (1877), Cari Wolfsohn (1877), Charles Jarvis (1887), Carlyle Petersilea (1888), Franz Rummel (1892), Alfred Reisenauer (1900), Edouard Risler (1900), Friedrich Hàckel (1913); i cicli di Godowsky (1895) e di Gabrilovic (1915) comprendevano le 32 Variazioni in do minore. Nel ciclo di Gottfried Galston, tenuto a Monaco di Baviera tra il 1919 e il 1921 e che comprendeva ben quaranta programmi, erano con­ tenute le Variazioni su un tema russo, Vop. 35, Vop. 76, Vop. 120: meno di quante ne fossero entrate nei programmi beethoveniani di Hans von Biilow.

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Negli ultimi cinquanta-sessant’anni si son fatte sempre più rare le esecu­ zioni pubbliche delle 32 Variazioni in do minore e si sono progressivamente infittite le esecuzioni delle 33 Variazioni su un valzer di Diabelli; le esecu­ zioni delle Variazioni op. 35, che si sono mantenute costanti, non hanno reso più popolare questo lavoro che, come abbiamo detto, entusiasma so­ lo i professionisti. Non è accaduto del resto nulla che abbia fatto mutare l’atteggiamento del pubblico verso le Variazioni di Beethoven nel loro com­ plesso: le Variazioni, come blocco, sono il settore dell’arte beethoveniana meno conosciuto. In una civiltà come la nostra, che ritorna insistentemente sul passato e che si preoccupa di ampliarne la conoscenza, la scarsa attenzione che viene riservata al corpus delle Variazioni di Beethoven — e delle Variazioni di Mozart - non può non stupire. L’ammirazione per le Diabelli e per le Va­ riazioni di Goldberg di Bach è l’omaggio reverente e timoroso che viene tributato rispettosamente a due opere imponenti, monumentali. Ma la Va­ riazione destinata al dilettante, e che per definizione è dilettevole, non su­ scita simpatie. E l’umorismo non paga.

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Scomparsi oggi, in pratica, i dilettanti, il mondo del concertismo profes­ sionale ha da lungo tempo... acclimatato nella sala pubblica le Sonate di Beethoven e da tempo più breve le Sonate di Mozart: il problema del tra­ sferimento in sala di concerto delle Variazioni nate per la sala privata non è ancora stato, nonché risolto, neppur affrontato. Il vantaggio della Sonata, per cosi dire, è di poter sfruttare, nel passaggio dalla privata lettura alla pubblica rappresentazione, i grandi contrasti di tonalità, i forti contrasti espressivi, i blocchi molto differenziati — i di­ versi tempi — che mimano la divisione in quadri con cambi di scena. La Variazione è tonalmente unitaria, con una tonalità che statisticamente pre­ vale in misura elevatissima, ed è un continuum fatto di tanti tasselli, che non presenta contrasti di opposizione ma solo diversità nella somiglianza. Sono le scomposizioni, più che le Variazioni di un tema (abbiamo citato per inciso il secondo tempo de\V «Appassionata», avremmo potuto citare il secondo tempo della Sonata op. 14.2), che creano la fluidità e la flessi­ bilità della forma e che non disorientano né affaticano l’ascoltatore. Op­ pure l’interesse dell’ascoltatore può essere stimolato dalla estrema carat­ terizzazione di ogni Variazione, come nel primo tempo della Sonata op. 26 e nel finale della Sonata op. 109; oppure, come nel finale della Sonata op. Ili, la forma a Variazioni si organizza verso un punto culminante centrale. In tutti questi casi, però, il numero delle scomposizioni o delle Variazioni è limitato e la sezione a Variazioni è del resto uno dei quadri in cui si svi­ luppa la forma. Ma non appena le Variazioni diventano a sé stanti ed au­ mentano di numero, la mancanza di contrasti dialettici crea una staticità di fondo che rende difficoltoso l’ascolto (mentre non rende difficoltosa la lettura). E sebbene, come abbiamo visto, l’organizzazione della forma studiata da Beethoven sia di estremo interesse, le sue Variazioni non sti­ molano la curiosità del pubblico. La difficoltà reale dell’ascolto in sala di concerto è poi mascherata, in tut­ te le serie giovanili, dalla superficialità o dalla banale piacevolezza dei te­ mi, che provoca persino un certo imbarazzo nell’ascoltatore medio. Nella considerazione dell’ascoltatore questo tipo di Variazione prende inequi­ vocabilmente l’aspetto dell’arte applicata. Ed è in realtà arte applicata, che vuole dilettare attraverso il travestimento di un tema noto e gradito. Si potrebbe dire che, rispetto alla Sonata, la Variazione è come il cartello­ ne pubblicitario rispetto alla pittura da cavalletto. La cultura della comu­ nicazione musicale è in realtà ben lungi dall’aver fatto nel suo campo l’e­ quivalente di ciò che nella diffusione colta delle arti figurative è stato già da gran tempo compiuto per studiare e valutare il cartellone o il design. C’è comunque un problema, che è problema di fondo della cultura musi­ cale quale oggi si sviluppa attraverso il concerto pubblico e il disco: non

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si capisce la personalità di Beethoven se, accanto alle Sonate, non si cono­ scono altrettanto bene le Variazioni; non si capisce la crisi che in Beetho­ ven si verifica tra la fine del Settecento e l’inizio dell’ottocento se non si studia tutto insieme il blocco delle Sonate op. 26, 27, 28, 31, delle Varia­ zioni su temi di Salieri, Winter, Siissmayr, op. 34, e op. 35, e delle Baga­ telle op. 33. L’occasione offerta dal ciclo di concerti per i quali scriviamo queste note non è dunque tanto di colmare un’astratta lacuna di enumera­ zione, quanto di avere, di Beethoven, un’immagine non parziale e tenden­ ziosa. Concetto duro da digerire. Ma che — il lettore benevolo e paziente ci scusi per la reprimenda professorale — proprio non si può aggirare.

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Ludwig van Beethoven, frontespizio della Sonata op. 13, edizione Eder, Vienna.

Giorgio Pestelli

Beethoven. L’opera per pianoforte e orchestra

In fondo la storia del Concerto per pianoforte e orchestra dell’età classica è stato un fuoco di paglia, una violenta fiammata che si è consumata in se stessa: è stato inventato da Mozart e si è compiuto con Beethoven in poco più di venti anni. Prima di Mozart è inutile rintracciare genealogie, si può farlo solo sul filo di esteriori criteri formali; e certo, dopo Beetho­ ven si è scritto ancora moltissimo per pianoforte e orchestra; ma si tratte­ rà di cose diverse, di Concerti sì, ma impostati in un modo che aggirava il problema della forma classica, esaurito, consumato da Beethoven nel giro di pochi anni segnati da un vertiginoso processo creativo. A fine Ottocento, nell’epoca d’oro della normatività formale e del positi­ vismo storiografico, il Concerto per strumento solista e orchestra parve a molti teorici la specie «più imperfetta» del genere sonatistico, un pro­ dotto condizionato da istanze pratiche, non ideali; compromesso con no­ zioni non puramente artistiche, come virtuosismo, effetto, pubblico richia­ mo. Eppure, proprio tale impurità di partenza offre la possibilità, nel bre­ ve spazio di quel ventennio che sta fra i Concerti di Mozart e quelli di Beet­ hoven, di esplorare nuove zone dell’affettività, di saggiare nuove combi­ nazioni e quindi di riconsiderare da un nuovo punto di vista il pensiero sonatistico. L’impurità di quella forma si basa in fondo su una contraddi­ zione, sull’interferenza di due principi formali molto diversi: il primo è il principio generale del Concerto, cioè del dialogo-avvicendamento di due organismi compiuti, il solista e l’orchestra; il secondo principio è quello della forma sonata, che non cura il mezzo, l’organico strumentale, ma or­ ganizza il pensiero secondo uno schema astratto di esposizione-svilupporipresa. Da una parte quindi un criterio bipolare (un esecutore singolo in opposizione all’orchestra), dall’altra un criterio tripolare, una vicenda lineare-narrativa in tre momenti che prescinde, in linea di principio, dagli strumenti chiamati a rappresentarla. Di tale contraddizione di fondo, gli

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autori galanti del primo Settecento o non si sono accorti o, avendone pre­ so atto, hanno preferito ignorarne il nodo centrale: la forma assunta era pertanto quella di un compromesso fra i due principi sopraddetti (ad esem­ pio, esposizione dei temi da parte dell’orchestra, quindi nuova esposizio­ ne da parte del solista), pervenendo ad un tipo di struttura piena di ripeti­ zioni e genericamente ispirata alla circolarità del ritornello; il solista ave­ va di solito il primo posto nel movimento lento centrale, riducendosi l’or­ chestra a pochi strumenti di accompagnamento, mentre il finale poteva inserirsi senza problemi nella struttura tutti-ritornello sia nella forma ron­ dò, sia in quella di semplici minuetti provvisoriamente conclusivi. Solo Mozart e Beethoven in realtà prendono coscienza del dissidio di fon­ do risolvendolo da par loro e quindi annullandolo: entrambi avevano già esplorato la forma sonata in tutte le sue valenze, ma entrambi erano stret­ tamente legati, esistenzialmente legati, al pianoforte; certo, la soluzione sarà, in una compendiosa etichetta, il «sinfonismo del concerto pianisti­ co», solo che nel sinfonismo il ruolo del pianoforte entra con una autorità e ricchezza tale da produrre una miscela esplosiva e foriera di avventurose soluzioni. A rendere ancora più impressionante il risultato di Beethoven, sta la considerazione che lui si era trovato di fronte un modello già porta­ to a perfezione da Mozart; ma a favore di Mozart sta il fatto che prima di lui, nel senso indicato sopra, non c’era nulla; non si può dire quale del­ le due posizioni sia più nuova e rischiosa. Di sicuro, dopo di loro, il Concerto solistico per pianoforte riparte da po­ sizioni arretrate; sia pure con un arricchimento che esula dal presente as­ sunto, Weber, Mendelssohn, Chopin, lasciano cadere l’ideale sinfonico e scelgono il primato (e quale primato!) del solista, tenendo in vita una for­ zosa forma sonata elementare; Liszt mantiene sinfonismo e prestigio soli­ stico, ma in una sintesi personalissima che ha più poco della struttura so­ natistica e molto del poema sinfonico ciclico; Schumann approda al suo magnifico Concerto dopo aver pensato a una Fantasia; allo stesso modo del primo Concerto di Brahms, il quale solo col suo secondo Concerto (ma siamo già oltre il 1880!) riprende il filo di quel discorso in cui sinfonismo e solismo si integrano ancora una volta rivivendo storicamente l’età aurea incarnata da Mozart e Beethoven. A rendere eccezionalmente fecondo il terreno di quell’età ha contribuito certo lo sviluppo dello strumento protagonista, il pianoforte. È possibile che a ritardare la nascita di Concerti per strumenti a tastiera solisti abbia agito la funzione gregaria che il clavicembalo teneva nell’orchestra sei e settecentesca; quando il Concerto per strumento ad arco o a fiato è già formato e diffuso, il clavicembalo continua a svolgere la sua funzione di basso continuo; anche il limitato volume sonoro era un impedimento non lieve; ma già con il forte-piano la situazione cambia: al Concert Spirituel

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parigino una non meglio conosciuta signorina Lechantre lo usa nel 1768 per la prima volta (a quanto sembra) in un pubblico concerto. A metà de­ gli Anni Settanta il pianoforte moderno compie grandi progressi tecnici nel senso della robustezza sonora, varietà coloristica e precisione mecca­ nica: costruttori come gli Èrard (Parigi e Londra), gli Stein (Augusta e Vienna), Zumpe e Broadwood (Londra), Schiedmayer (Norimberga), in viva competitività, fanno compiere in breve, passi da gigante allo strumen­ to, dopo il 1780 circa ormai presente nella vita concertistica al pari del violino. È un fenomeno questo che accompagna tutta la carriera di Mo­ zart e Beethoven, e certo noi dobbiamo fare uno sforzo per ricordarci che il pianoforte, per noi lo strumento standard, con la sua nobile patina di tradizione, era per loro uno strumento giovane, in rapida evoluzione, sog­ getto a sensibili innovazioni da un anno all’altro. Tale ricchezza di possi­ bilità sonore è testimoniata, proprio alla fine degli Anni Settanta, dall’introdursi nella Sonata per pianoforte solo di un periodare che fa pensare a un contrasto con una immaginaria orchestra, a un dialogo solo-tutti: in fondo, era stata la grande invenzione del Concerto italiano di Johann Se­ bastian Bach, intrapresa su un cembalo arricchito da vari registri e ma­ nuali, ma questo grandioso esempio era rimasto senza seguito nei decenni dello Stile galante; rinasce adesso sulla tastiera del nuovo strumento: «Con­ certi senza orchestra» sono in qualche modo i primi movimenti della So­ nata K 284 di Mozart (suonata dall’autore su un pianoforte Stein dotato di pedale di risonanza, con un entusiasmo che traspare evidente in una lettera al padre) e l’Allegro con brio della Sonata op. 2 n. 3 di Beethoven, dove emerge addirittura una florida cadenza virtuosistica prima della con­ clusione. Mozart e Beethoven dunque avevano trovato la congruenza fra i due principi opposti di «Concerto» e «Forma sonata» già scrivendo per solo pianoforte; congruenza che non si troverà più in forme altrettanto nette nei prodotti successivi ancora legati alla fortuna del «concerto senza orchestra» per pianoforte solo (in Chopin, Allegro da concerto op. 46, in Schumann, Allegro da concerto op. 8, Concerto senza orchestra ovve­ ro Grande Sonata op. 14).

Nella mirabile serie dei Concerti per pianoforte e orchestra di Mozart, il primo che si pone come ineludibile modello per il giovane Beethoven è quel­ lo in mi bemolle maggiore K 271 venuto alla luce nel 1777: una pianista parigina capitata a Salisburgo, la signorina Jeunehomme, sembra sia sta­ ta l’occasione immediata di questo intrepido capolavoro, scritto alla vigi­ lia del viaggio a Parigi e maturato in terreni di favolosa lontananza rispet­ to al Concerto «per archi e cembalo» di Galuppi, Serini, Wagenseil e dei figli di Bach, Philipp Emmanuel, J. Christoph e J. Christian. La maesto­ sa solennità della tonalità di mi bemolle, l’entrata del pianoforte già alle

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prime battute, la negazione della doppia esposizione mediante l’invenzio­ ne di temi nuovi, l’abbondanza di cadenze, l’unità narrativa di tutti e tre i movimenti, sono i principali tratti formali di cui Beethoven farà tesoro di lì a poco. La serie dei successivi capolavori mozartiani si raduna poi negli anni di Vienna, divenendo un genere-guida perché proprio sul Con­ certo per pianoforte e orchestra Mozart (come compositore e solista) pun­ ta per conquistarsi il favore del pubblico e degli editori viennesi, rinsal­ dando la sua posizione di artista libero dalla commissione minuta di un signore e padrone. Sei Concerti nascono nel 1784, tre nel 1785, tre nel 1786 e ancora due negli ultimi anni, 1790 e 1791: tutti sono fondamentali per l’evoluzione linguistica di Beethoven, ma di alcuni, come i K 466, 467, 491, 503 è provato il massimo assorbimento nell’universo del più giovane mae­ stro, sia attraverso il lievito di stringenti analogie, sia per la composizione di espresse «cadenze» per questo o quel movimento, sia per la generale fisionomia del concepimento (la scelta tonale di tutti i Concerti beethoveniani ha un preciso riferimento in Mozart).

Il successo del genere «Concerto per pianoforte» negli Anni Ottanta del Settecento, sotto rincalzare dell’esempio di Mozart, ha una chiara testi­ monianza nel primo lavoro di questo tipo abbordato da Beethoven ragaz­ zo nel 1784. Il Concerto WoO 4, nella tonalità di mi bemolle maggiore è composto a Bonn negli di studio con Christian Gottlob Neefe e ci è per­ venuto solo nella parte per pianoforte (ma in una copia con accenni al­ l’orchestrazione di mano di Beethoven, base per la ricostruzione di Willy Hess): lo strumento solista è gettato in primo piano, scale, arpeggi e ab­ bellimenti (gruppetti e mordenti di evidente derivazione galante) domina­ no il discorso, solo a tratti interessato alla cantabilità: ottave spezzate, al­ cuni passaggi di doppie note rimandano al pianismo di Muzio Clementi, mentre altre formulazioni del primo movimento, che interessano la mano destra in audaci e anche disagevoli salti, sono già di schietta impronta beethoveniana (sia pure in tutt’altro clima, ritorneranno identici nella parte pianistica del grande Trio in si bemolle op. 97). La prossimità con lo stile galante e con Johann Christian Bach, su un terreno più cembalistico che pianistico, è evidente nel secondo movimento (Larghetto) ricchissimo di abbellimenti, e nel Rondò conclusivo, non lontano da certi temi di gusto francese echeggiati anche da Mozart (nella provincia musicale di Bonn, il gusto musicale della vicina Francia circolava regolarmente). È un’opera che rispecchia, più del compositore che sarà, il giovanissimo, provetto ese­ cutore e di certo servì come banco di prova alle prime esibizioni pubbliche di Beethoven: lo testimonia l’indicazione apposta sul manoscritto origina­ le, «un Concert pour le Clavecin ou Forte-piano composé par Louis Van Beethoven agè de douze ans»: dove la mentita età suggerisce il forzato pa-

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rallelo di Mozart fanciullo sostenuto da Beethoven nei primi passi della carriera. Dopo questo prologo a Bonn, il fascicolo dei Concerti per pianoforte di Beethoven si riapre a Vienna durante quel decennio 1792-1803 che vede la prima, grande maturazione dell’artista; in questo ambito i tre Concerti op. 15, op. 19 e op. 37, cui bisogna aggiungere il Rondò in si bemolle per pianoforte e orchestra WoO 6 forse già abbozzato a Bonn, documentano le tappe di sviluppo con una ricchezza inedita di dati, dovuta anche alla circostanza che di tutti e tre si è conservata la partitura autografa, conte­ nente numerose indicazioni sul processo creativo del compositore. Con i tre primi Concerti pubblicati, Beethoven intendeva senza dubbio assume­ re quel ruolo di virtuoso itinerante che nella società musicale europea sta­ va sostituendo il prestigio del vecchio maestro di cappella. Il Concerto in si bemolle op. 19 (pubblicato come Secondo Concerto) è in realtà il primo di tutti e la moderna critica delle fonti ha accertato una gestazione dell’o­ pera durata più di un decennio, a partire dal 1790, passando attraverso non meno di quattro rielaborazioni (è molto probabile, ad esempio, che il Rondò WoO 6 sia stato in origine il finale di una di questa versioni); fu completato a Praga nell’ottobre del 1789 e presentato in pubblico da Beethoven in quella città presso la Sala del Convitto durante un suo viag­ gio di concerti. Anche il Concerto op. 15 in do maggiore (Primo Concer­ to) sembra sia stato fatto conoscere nella stessa Accademia; la critica mo­ derna, sulla base di uno schizzo per una cadenza, contenuto nella raccolta di schizzi Kafka (Londra), ha dedotto che una prima redazione del Con­ certo op. 15 sia stata presentata a Vienna da Beethoven nel 1796 nel corso di Un’Accademia dei cugini Bernhard e Andreas Romberg. Di entrambi i Concerti, Beethoven parla in una lettera all’editore Breitkopf (22 aprile 1801) con un certo distacco critico: «Hoffmeister pubblica uno dei miei primi concerti che, ovviamente, non è una delle mie migliori composizio­ ni. Anche Mollo pubblica un concerto che è stato composto più tardi, è vero, ma neppure questo è una delle mie migliori composizioni del gene­ re»: tanta modestia era suggerita dalla presenza del Terzo Concerto in do minore op. 37: gli abbozzi (quaderno Kafka) sono del 1799, l’autografo è dotato 1800; l’opera, in una sola redazione (per quanto assai ricca di correzioni e pentimenti), sarà eseguita la prima volta da Beethoven nel corso della sua Accademia del 5 aprile 1803 al Theater an der Wien di Vienna. Come ha giustamente rilevato Hans-Werner Kuthen, curatore della mo­ derna edizione critica dei tre primi Concerti, «le quattro versioni del Con­ certo in si bemolle, le due di quello in do e l’unica del Concerto in do mi­ nore mostrano che la distanza fra l’abbozzo e la forma definitiva diventa sempre più piccola e che il compositore prende il sopravvento sul virtuo­ so». È anche importante ricordare che alle spalle dei tre primi Concerti

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di Beethoven sta, come stimolo e modello, la grande esperienza creativa delle Sonate per pianoforte, fino all’op. 53 esclusa: un campo di incredi­ bile ricchezza inventiva in rapporto alle possibilità di uno strumento che Beethoven (lettera del 1796 al compositore Streicher) vuole riscattare dal­ l’uso stereotipo del tempo, tipo arpa, spingendolo «persino a cantare». La genialità che nelle Sonate ha forme brevi, sintetiche, audaci e lampeg­ gianti, nei Concerti si distribuisce in campiture più riposate, in pennellate più larghe: il moderno pianismo di Clementi e della scuola londinese (co­ me Dussek) è predominante nella squadratura militaresca del Concerto in do maggiore; il Concerto in si bemolle op. 19 guarda invece a Mozart co­ me punto di avvio; e un ritorno a Mozart, sia pure da posizioni di magi­ stero compositivo ormai smaliziato, è in un certo senso il Terzo Concerto in do minore: basta confrontare il primo movimento con il Concerto K 491 nella stessa tonalità di Mozart per vedere il rapporto: il primo tema, aperto in Mozart verso lontani orizzonti armonici, viene da Beethoven chiu­ so in una rigida cornice «impero»; la coda dopo la cadenza, una delle in­ tuizioni più pregnanti di Mozart per le tonalità che trascolorano sul peda­ le di do minore, è ripresa pari pari da Beethoven, riplasmata con l’incre­ mento imprevisto del timpano chiamato a parte di protagonista. Dopo questo primo vertice, il primo lavoro che implica il pianoforte con­ certante in una forma sinfonica è il Triplo Concerto op. 56 per pianofor­ te, violino, violoncello e «accompagnamento d’orchestra», lavorato da Beethoven negli anni 1803-1804 assieme ad altre opere, fra cui emergono la Sinfonia «Eroica» e le Sonate op. 53 e op. 57 («Appassionata»), Un po’ sballottato fra questi giganti, il Triplo Concerto è un’opera fresca e gioviale, piena di spunti umoristici desunti dal tardo mondo settecente­ sco: il pianoforte vi ha una presenza intimidita di fronte al vigore del vio­ loncello e del violino, rispetto ai quali ha quasi il ruolo di equilibratore e di elemento connettivo nello spirito della musica da camera: sintomatico ad esempio è il suo impiego nel breve movimento centrale (Largo), dove non riprende mai il tema principale ma svolge, per lo più a mani parallele, un semplice tessuto di continuità armonica. Secondo Schindler l’opera fu composta per il violoncellista Kraft, il violinista Seidler e per l’arciduca Rodolfo diventato allora allievo di Beethoven: la circostanza spieghereb­ be la relativa facilità della parte pianistica (confermata da una lettera di Beethoven del 1807, in cui si allude a un rimprovero del suo editore per avere «tenuto indietro» la parte del pianoforte). La prima esecuzione pub­ blica è avvenuta a Vienna nel maggio 1808, secondo una notizia dell’« Allgemeine musikalische Zeitung» che non riporta tuttavia i nomi dei tre solisti. Ma intanto, era già venuto alla luce il Quarto Concerto in sol maggiore op. 58, composto fra il 1805 e l’anno successivo: una prima esecuzione, con Beethoven al pianoforte, si era avuta in una Accademia del marzo 1807

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interamente dedicata a musiche di Beethoven nel palazzo del principe Lobkowitz; l’ouverture Coriolano e la Quarta Sinfonia furono pure fatte co­ noscere in quella occasione. Con il Concerto in sol maggiore, dopo che il «genere» aveva riposato per circa cinque anni, Beethoven si addentra in una regione sconosciuta anche a Mozart; certo, molti e significativi so­ no ancora gli spunti dedotti dai capolavori mozartiani (il Concerto K 503 in particolare), ma è il tono generale che suona diverso, è l’atmosfera che tutto pervade a testimoniare nuove zone dell’affettività e dell’espressione: il pianoforte entra da solo, a sorpresa, con un accordo e un tema che in­ canterà Schubert e i primi romantici; accanto al genio costruttore, si fa sentire un timbro soave fatto di estrapolazioni liriche su bassi albertini or­ mai protesi in decime, di canti enunciati e non sfruttati, di parentesi e oasi in totale deroga al principio sonatistico. Nell\4nd