I fondamenti del Diritto Amministrativo 9788885570160


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I fondamenti del Diritto Amministrativo
 9788885570160

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Manuale Completo

I fondamenti del Diritto Amministrativo Laura Santoni

Versione Aggiornata 2019 Argomenti trattati

- Diritto Amministrativo, Giustizia Amministrativa - Testo aggiornato alla Legge 14 giugno 2019, n.55

A chi è rivolto

- A tutti i concorsisti che devono preparare Diritto Amministrativo

Settore Amministrativo e Giuridico

e-Book

1

libro stampato

I FONDAMENTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO @ Laura Santoni 2019 @ Edizioni Concorsipubblici.com 2019 Prima edizione digitale: Settembre 2019 Edizioni Concorsipubblici.com Via Castellabate, 30 47813 Bellaria Igea Marina (RN) http://www.librieconcorsi.com ISBN 978-88-85570-16-0

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Laura Santoni

I FONDAMENTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

3

INDICE

CAPITOLO I NOZIONI E FONTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO

1.1 La nozione di diritto amministrativo statale e europeo 1.2 Le fonti 1.2.1 Le fonti sovranazionali 1.2.2 Le fonti nazionali: le fonti primarie e le fonti secondarie 1.2.3 Focus: regolamenti, ordinanze e circolari. 1.2.4 La consuetudine e la prassi amministrativa. Le fonti secondarie dubbie

9 11 12 18 22 28

CAPITOLO II LE POSIZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE

2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6

Le posizioni giuridiche soggettive. Il diritto soggettivo L’interesse legittimo La distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo Le altre posizioni soggettive. Gli interessi diffusi Riparto di giurisdizione e tecniche di tutela La risarcibilità degli interessi legittimi

30 33 37 38 42 47

CAPITOLO III I SOGGETTI PUBBLICI

3.1 Gli enti pubblici 3.2 L’organismo di diritto pubblico 3.3 L’impresa pubblica 3.4 L’inhouseproviding 3.5 Le Autorità amministrative indipendenti 3.5.1 Le principali Autorità amministrative indipendenti 3.6 Il funzionario di fatto 3.7 L’amministrazione a livello locale

4

52 55 57 60 63 66 67 70

CAPITOLO IV IL LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6

La privatizzazione del pubblico impiego Il quadro normativo. Il ruolo della contrattazione collettiva Rapporto organico e rapporto di servizio. L’accesso all’impiego La dirigenza La micro e la macro organizzazione La giurisdizione in materia di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione

74 77 83 87 91 93

CAPITOLO V L’AZIONE AMMINISTRATIVA

5.1 I caratteri e i principi dell’azione amministrativa 5.2 Azione vincolata e azione discrezionale 5.3 Gli atti della pubblica amministrazione. Il provvedimento 5.3.1 Le patologie dell’atto amministrativo 5.4 L’attività comportamentale 5.5 La non azione: il silenzio della pubblica amministrazione 5.6 L’attività consensuale: gli accordi 5.7 L’attività di controllo 5.8 L’azione di diritto privato: rinvio

100 106 111 116 121 123 130 134 136

CAPITOLO VI L’AUTOTUTELA AMMINISTRATIVA

6.1 Il potere di riesame della pubblica amministrazione 137 6.2 Gli atti di autotutela 142 6.3 La revoca e l’annullamento del provvedimento amministrativo 145 CAPITOLO VII IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO

7.1 Evoluzione e nozione di procedimento. La Legge n. 241/90 7.2 Tipi di procedimento. La conferenza di servizi 7.3 La partecipazione al procedimento 5

152 156 164

7.4 7.5 7.6 7.7

La segnalazione certificata di inizio attività I procedimenti amministrativi composti Il silenzio: rinvio L’accesso ai documenti amministrativi: rinvio

168 170 172 173

CAPITOLO VIII LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE CONTRAENTE. IL CODICE DEI CONTRATTI

8.1 8.2 8.3 8.4 8.5 8.6 8.7

L’azione iure privatorum della pubblica amministrazione I tipi di contratti e la disciplina applicabile. Il d. lgs n. 50/16 Il procedimento a evidenza pubblica Il soccorso istruttorio Il recesso e l’esercizio dell’autotutela Il partenariato pubblico privato La giurisdizione e il nuovo rito in materia di appalti. La dichiarazione di inefficacia del contratto

174 175 181 185 186 188 190

CAPITOLO IX PARTE I I BENI PUBBLICI E IL BENE AMBIENTE

9.1 Classificazione e caratteristiche dei beni pubblici 9.1.1 I diritti della pubblica amministrazione 9.1.2 La tutela dei beni pubblici 9.2 Il bene ambiente. I principi in materia ambientale 9.2.1 Il danno ambientale 9.2.2 L’accesso in materia ambientale: rinvio

195 197 199 200 204 206

PARTE II IL GOVERNO DEL TERRITORIO E L’ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ

9.3 Il governo del territorio: l’urbanistica e l’edilizia 9.4 Il potere ablatorio della pubblica amministrazione. I presupposti dell’espropriazione 9.5 Il procedimento espropriativo 9.6 Le ipotesi di occupazione 9.7 La giurisdizione in materia espropriativa 6

207 211 213 216 218

CAPITOLO X LA RESPONSABILITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

10.1 I tipi di responsabilità 10.2 La natura della responsabilità per lesione degli interessi legittimi. Gli elementi costitutivi della responsabilità e le tecniche di tutela del privato 10.3 L’applicazione delle regole civilistiche: la responsabilità precontrattuale 10.4 Il danno da ritardo e il danno da mero ritardo 10.5 Gli altri tipi di responsabilità dell’amministrazione 10.6 La responsabilità del dipendente pubblico

223 226 232 235 238 240

CAPITOLO XI I SERVIZI PUBBLICI

11.1 La nozione di servizio pubblico 11.2 Il fondamento normativo dei servizi pubblici. Il servizio di interesse economico generale 11.3 Il contratto di servizio 11.4 Le modalità di gestione dei servizi pubblici locali 11.5 La posizione del fruitore del servizio pubblico. La carta dei servizi 11.6 La giurisdizione in materia di servizi pubblici

244 247 249 252 256 257

CAPITOLO XII L’ACCESSO AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI

12.1 I principi e la natura dell’accesso 12.2 L’interesse all’accesso e la nozione di documento amministrativo 12.3 I limiti all’accesso: i controinteressati e il diritto alla riservatezza 12.4 Figure particolari di accesso 12.4.1 L’accesso civico 12.4.2 L’accesso esercitato dai consiglieri comunali e provinciali 12.4.3 L’accesso in materia ambientale 12.5 La tutela del diritto di accesso

7

259 263 267 273 273 275 276 277

CAPITOLO XIII LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PARTE I

13. 1 La tutela giustiziale 13.2 I ricorsi amministrativi. Gli aspetti generali 13.2.1 Il ricorso gerarchico 13.2.2 Il ricorso in opposizione 13.2.3 Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica

280 282 284 286 286

PARTE II

13.3 La tutela giurisdizionale 13.4 I nuovi poteri del giudice amministrativo. La tutela dei diritti soggettivi e il superamento della pregiudiziale amministrativa 13.5 Il sistema di azioni. Il passaggio da un processo sull’atto a un processo sul rapporto 13.6 Il processo amministrativo 13.7 La tutela cautelare 13.8 Le impugnazioni e il giudizio di ottemperanza 13.9 La giurisdizione ordinaria

8

290 293 295 300 306 309 312

CAPITOLO I NOZIONE E FONTI DEL DIRITTO AMMINISTRATIVO Sommario: 1.1 La nozione di diritto amministrativo statale e europeo. - 1.2 Le fonti. - 1.2.1 Le fonti sovranazionali. - 1.2.2 Le fonti nazionali: le fonti primarie e le fonti secondarie. - 1.2.3 Focus: regolamenti, ordinanze e circolari. - 1.2.4 La consuetudine e la prassi amministrativa. Le fonti secondarie dubbie.

1.1 La nozione di diritto amministrativo statale e europeo Il diritto amministrativo consiste in quel complesso di norme che disciplinano l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione, nonché i rapporti che la stessa intrattiene con gli altri soggetti dell’ordinamento giuridico1. Le origini del diritto amministrativo si rinvengono nel XIX secolo in Francia, allorquando grande attenzione venne posta all’azione unilaterale dell’amministrazione come strumento di esercizio della sovranità statale. Tradizionalmente, le caratteristiche del diritto amministrativo si rinvengono invero nella statalità, intesa quale assoggettamento del medesimo alle norme statali, e nella specialità, in quanto è un diritto che deroga a quello proprio dei rapporti tra privati, riconoscendo infatti alla pubblica amministrazione una serie di prerogative e di poteri che la pongono in una posizione privilegiata. In realtà, tali caratteri sono oggi messi in discussione, da un lato, dalla sempre più incidente presenza del diritto europeo, il quale rappresenta dunque un ulteriore livello normativo cui il diritto amministrativo nazionale – nei limiti che si vedranno –soggiace; dall’altro lato, dall’utilizzo sempre maggiore di strumenti privatisti1.

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Sulla nozione e sui principi dell’attività amministrativa, nonché sul concetto di pubblica amministrazione, si rimanda rispettivamente ai capitoli dedicati all’azione amministrativa e ai soggetti pubblici.

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ci per l’esercizio dell’attività pubblicistica2. Invero, uno sguardo confinato all’ordinamento nazionale sarebbe oggi riduttivo, così come sarebbe fortemente limitante, poiché poco funzionale, l’esclusivo ricorso all’attività autoritativa per il perseguimento dell’interesse pubblico. Il diritto amministrativo europeo, a sua volta, racchiude tutte le norme di origine europea che incidono sul diritto amministrativo nazionale (in prevalenza, si tratta di direttive). Questa influenza si è nel tempo accresciuta, andando a toccare diversi aspetti del sistema: dai principi che governano l’azione amministrativa e il processo amministrativo, al concetto stesso di pubblica amministrazione3. Vi sono inoltre alcuni settori che sono oramai integralmente disciplinati dal diritto europeo, con conseguente uniformazione delle legislazioni nazionali. Tipico esempio è il settore degli appalti, oramai esclusivamente dominato dalle direttive europee in materia e dai principi di derivazione prettamente comunitaria4. A livello nazionale, le norme che testimoniano e che permettono l’ingresso del diritto unionale in ambito amministrativo sono innanzitutto l’art.117 Cost. che sancisce il rispetto dei vincoli comunitari nell’attività legislativa di Stato e regioni; l’art.1, comma 1 della Legge n.241/90, come modificata dalla Legge n.205/05, che assoggetta l’azione amministrativa ai principi del diritto comunitario e l’art.1 c.p.a. che recepisce il principio di derivazione europea di effettività della tutela giurisdizionale. In relazione a quest’aspetto, peraltro, mentre nel nostro ordinamento vige il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario, il diritto amministrativo europeo non conosce distinzioni tra le posizioni giuridiche tutelabili, adottando un mo-

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2.

Il riferimento è principalmente all’attività iure privatorum della pubblica amministrazione, preordinata comunque al perseguimento dell’interesse collettivo.

3.

Cosiddetta interazione orizzontale tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale.

4.

Cosiddetta interazione verticale tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale. Sul tema degli appalti, cfr. cap. VIII.

10

dello di giurisdizione unica5. Tuttavia, ciò non osta alla integrazione che si è venuta a creare tra i due ordinamenti e che porta la dottrina prevalente a parlare di europeizzazione del diritto amministrativo6. Peraltro, da tale integrazione deriva altresì la nascita dei cosiddetti procedimenti amministrativi compositi, vale a dire procedimenti le cui fasi si svolgono in parte in sede comunitaria e in parte in sede nazionale, potendosi in tal modo parlare di amministrazione multi-livello7. I principi generali che oggi governano il diritto amministrativo racchiudono quindi sia principi di derivazione comunitaria sia principi di derivazione nazionale, che l’Unione Europea (d’ora innanzi, U.E.) ha fatto propri, nell’ottica dell’armonizzazione delle legislazioni statali. 1.2 Le fonti Le fonti sono atti o fatti da cui traggono origine le norme giuridiche e che costituiscono, nel loro complesso, l’ordinamento giuridico. Si è soliti distinguere tra fonti – atto, vale a dire manifestazioni di volontà di organi atti ad emanare norme, e fonti – fatto, ossia comportamenti o atti cui l’ordinamento riconosce l’idoneità a produrre diritto. I rapporti tra le fonti vengono regolati da una serie di criteri, previsti principalmente dalla Costituzione nonché dalle disposizioni preliminari al codice civile.

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5.

La dicotomia tra diritto soggettivo e interesse legittimo è invero sconosciuta all’ordinamento comunitario. Per la trattazione completa delle posizioni soggettive, cfr. cap.II.

6.

Luigi Delpino e Federico Del Giudice, Manuale di diritto amministrativo, Simone, Napoli, 2014.

7.

I procedimenti compositi nascono nell’ambito della politica agricola e sono oggi diffusi, ad esempio, in materia di benefici finanziari e politica regionale. In particolare, si distingue tra procedimenti bottom-up, dove il provvedimento finale è comunitario e procedimenti top-down, in cui il provvedimento finale è nazionale; tuttavia, non è sempre agevole distinguere il dato normativo europeo da quello statale.

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Il criterio cronologico, cui si ricorre quando le norme che contrastano derivano da fonti dello stesso tipo; in questo caso prevale la norma successivamente approvata8. Quando invece le due norme provengono da fonti diverse, si fa applicazione del criterio gerarchico, per cui la norma di rango inferiore soccombe a quella di rango superiore, venendo annullata o disapplicata a seconda dei casi9. Infine, il criterio di competenza, che può presentarsi in due forme; precisamente, può aversi una separazione di competenza, basata sulla diversità di oggetti da normare o diversità di territorio ovvero per diversità di entrambi gli elementi; oppure, la competenza può essere determinata dalla stessa Costituzione, che predilige una determinata fonte per disciplinare una determinata materia10. Accanto alle fonti tipiche, ossia quelle espressamente previste, vi sono le fonti atipiche, così chiamate in quanto presentano alcuni elementi di differenziazione. Ad esempio atipiche sono le fonti che hanno una forza attiva o passiva diversa da quella propria delle fonti dello stesso tipo, come nel caso della legge di concessione dell’amnistia e dell’indulto che – a differenza di qualsiasi altra legge – non può essere abrogata da altra legge ordinaria. 1.2.1 Le fonti sovranazionali Oggi si è soliti parlare di fonti multivello, in quanto il processo di integrazione internazionale ed europea ha determinato il moltiplicarsi degli organi produttivi di diritto. A livello sovranazionale troviamo le fonti internazionali. I riferimenti normativi sono contenuti negli artt.10 e 117 Cost., che rispettivamente riguardano il diritto consuetudinario ed il diritto pattizio. 8.

Il principio è quello per cui lexposteriorderogatlegi priori.

9.

Si ha annullamento nell’ipotesi di legge ordinaria che contrasta con altra legge ordinaria; si parla invece di disapplicazione quando la fonte secondaria, tipicamente un regolamento, contrasta con la legge ordinaria.

10. Si fa riferimento alle riserve di legge costituzionalmente previste.

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All’interno di quest’ultimo la fonte più importante è costituita dalla CEDU, la quale acquista valore di fonte internazionale proprio con la riscrittura dell’art.117 Cost., nella parte in cui stabilisce il dovere dello Stato di rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Invero, alla Convenzione è riconosciuta una resistenza passiva qualificata (si parla di diritto pattizio rafforzato), con la conseguenza che, in caso di norma interna che vi contrasta, occorre sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art.117 Cost., qualora non sia possibile un’interpretazione comunitariamente orientata della norma stessa. Non è pertanto possibile procedere automaticamente alla disapplicazione della norma nazionale, a differenza di quanto accade in caso di contrasto con il diritto comunitario. Tale impostazione non si è modificata con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il quale non ha determinato la comunitarizzazione della CEDU – seppur da parte della dottrina inizialmente sostenuta – che quindi non è stata parificata al diritto unionale. Per quanto riguarda le fonti comunitarie, è opportuna una breve premessa circa l’evoluzione del rapporto tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario. Nel tempo il rapporto tra gli ordinamenti si è modificato, potendosi individuare schematicamente alcune tappe. Inizialmente si sosteneva che lo Stato avesse la possibilità illimitata e incondizionata di disattendere le norme comunitarie e, quindi, si riteneva vi fosse un’assoluta discrezionalità dello stesso nella limitazione della propria sovranità, con negazione assoluta di una posizione di supremazia del diritto comunitario. In seguito, fu coniata la tesi della equi-ordinazione fra ordinamenti, per cui ciascuno sarebbe stato competente in determinate materie: in particolare, l’ordinamento comunitario si sarebbe potuto occupare unicamente delle materie previste dal Trattato; per tutte le altre materie, restava indiscussa la sovranità statale (teoria separatista). Attraverso gli interventi della Corte Costituzionale, nel corso

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degli anni Settanta, si arrivò poi a sancire la primazia del diritto comunitario (cosiddetta primauté), in forza del disposto di cui all’art.11 Cost., con la dichiarazione di incostituzionalità della norma interna contrastante con la norma comunitaria11. Iniziava a indebolirsi l’idea della netta separazione fra i due ordinamenti, ancorché venisse parallelamente coniata la cosiddetta teoria dei contro – limiti, secondo cui i principi e i diritti costituzionalmente tutelati, che costituiscono il nucleo rigido dell’ordinamento, restavano comunque sovraordinati alle norme comunitarie. Si tratta dei diritti fondamentali, sui quali lo Stato manterrebbe la propria esclusiva sovranità; invero, l’art.11 Cost. contempla la limitazione di detta sovranità e non il suo totale azzeramento. La teoria dei contro – limiti pare oggi superata dalla tesi monista, oramai prevalente,che sostiene l’integrazione tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale, quali ordinamenti considerati comunicanti e coordinati fra loro. Tuttavia, in alcune pronunce si rinvengono ancora tracce della teoria dei contro – limiti, la quale sembra porsi, in alcuni casi, come l’unica via percorribile per evitare un’eccessiva ingerenza europea, tale da porre in pericolo i principi fondamentali dell’ordinamento interno12. Accogliere la tesi monista comporta non solo che lo Stato non può arbitrariamente disattendere le norme europee, ma che è altresì tenuto a disapplicare le norme interne che vi contrastano, anche qualora questo significhi mettere in discussione un giudicato nazionale13. Segni dell’integrazione tra i due ordinamenti si rinvengono, ad esempio, nella possibilità di rinviare alla Corte di Giustizia, 11. La primazia del diritto comunitario è stata per la prima volta affermata dalla Corte Costituzionale con le sentenze n.183/1973 e n.232/1975. 12. Il richiamo alla teoria dei contro – limiti si ritrova prevalentemente in ambito penale, dove, seppur l’U.E. non abbia una competenza normativa diretta, ha comunque il potere di incidere chiedendo agli Stati di attivarsi per tutelare beni di rilevanza comunitaria. 13. E’ con la sentenza n.170/1984 che la Corte Costituzionale recepisce espressamente l’obbligo del giudice e della pubblica amministrazione di procedere alla disapplicazione della norma nazionale che si pone in contrasto con il diritto comunitario.

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nell’ambito dei giudizi incidentali di legittimità costituzionale, per ottenere la corretta interpretazione della norma comunitaria in via pregiudiziale, nonché nell’obbligo di dichiarare l’illegittimità costituzionale di una norma interna per contrasto con una disposizione comunitaria – anche non direttamente applicabile - quando non sia possibile disapplicarla ovvero intrepretarla in senso comunitariamente orientato14. Altra espressione dell’integrazione fra ordinamenti si ravvisa nella possibilità di rimuovere gli effetti esterni di un giudicato nazionale, mediante la disapplicazione dell’art.2909 c.c., permettendo così allo Stato di uniformarsi ai dettami europei vincolanti15. Sul punto è opportuno in questa sede evidenziare che l’U.E. ha affermato che il giudicato non può costituire un ostacolo all’intervento correttivo, che deve poter essere esercitato senza limiti di tempo16. Nelle ipotesi di giudicato contrastante con il diritto unionale, si parla di responsabilità dello Stato – giurisdizione. I presupposti di tale responsabilità sono la violazione manifesta del diritto comunitario, la chiarezza della norma violata e l’inescusabilità dell’errore, per cui il contrasto risulta palese e manifesto. Pertanto, nei casi in cui il giudice non disapplichi la norma interna incompatibile, ovvero non proceda al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia,o ancora, non effettui l’interpretazione comunitariamente orientata della norma, sorge in capo al privato, che subisce il giudicato così formatosi, il diritto alla rinnovazione del processo oppure al risarcimento del danno. All’interno delle fonti comunitarie, si distingue tra diritto comu14. Cfr. C. Cost. 28/2010 in cui per la prima volta viene dichiarata l’incostituzionalità di una norma interna contrastante con una norma comunitaria non direttamente applicabile. 15. E’ necessario distinguere tra effetti interni, che restano fermi, nel senso che la questione decisa non può essere rimessa in discussione, ed effetti esterni, che al contrario vengono meno, in quanto altrimenti si renderebbe difficile l’esercizio dei diritti dati dall’ordinamento europeo. 16. Nella sentenza Kempter del 2008, la Corte di Giustizia afferma che il diritto comunitario non impone limiti per presentare la domanda di revisione di una decisione divenuta definitiva, lasciando libertà agli Stati membri di fissare dei termini per l’azione, nel rispetto dei principi di effettività e equivalenza.

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nitario originario scritto, costituito dai Trattati istitutivi e relative modifiche, e diritto comunitario originario non scritto, integrato dai principi generali. Altra distinzione si ha tra diritto comunitario primario, con cui si fa riferimento ancora ai Trattati, e diritto comunitario secondario, costituito principalmente da direttive e regolamenti, ma nel quale rientrano altresì le decisioni. I principi che governano le fonti comunitarie sono quello dell’effetto utile, per cui la norma deve essere interpretata in modo funzionale al perseguimento degli obiettivi di portata europea, nonché della diretta efficacia delle fonti europee all’interno dei singoli Stati, con i limiti che in seguito saranno chiariti. I trattati istitutivi sono posti al vertice dell’ordinamento europeo e hanno carattere inderogabile (per parte della dottrina, è carattere speculare a quello proprio delle norme costituzionali all’interno dell’ordinamento nazionale) e vincolante per i singoli Stati membri. Stesso valore deve riconoscersi alle sentenze della Corte di Giustizia, in relazione ai principi di diritto e all’interpretazione delle norme comunitarie che contengono nonché, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, alla Carta di Nizza, la quale recepisce a livello comunitario i diritti della persona e della personalità. I regolamenti fanno parte del diritto comunitario secondario. Tali fonti hanno portata generale e sono direttamente applicabili all’interno dei singoli ordinamenti, non abbisognando di alcun atto normativo di recepimento. In questo senso, sono già di per sé idonei a imporre obblighi e conferire diritti sia ai singoli Stati che ai loro organi e cittadini. Tecnicamente si parla rispettivamente di effetti verticali e effetti orizzontali dell’atto, vale a dire che il medesimo è invocabile sia nei rapporti cittadino – Stato che nei rapporti tra privati17. Le direttive costituiscono la fonte europea forse più complessa. In linea generale, le direttive sono atti che vincolano gli Stati in 17. Il concetto di Stato è da intendersi in senso ampio, comprensivo dei privati che svolgono funzioni pubblicistiche e degli organismi che erogano servizi pubblici.

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relazione al risultato che perseguono, lasciando libertà nei mezzi per raggiungerlo; in altre parole, tipicamente le direttive enunciano principi e criteri generali e lasciano la disciplina di dettaglio ai legislatori nazionali. A differenza dei regolamenti, le direttive non sono direttamente applicabili, ma necessitano di un atto di recepimento, che nel nostro ordinamento avviene mediante la legge annuale di delegificazione europea e la conseguente annuale legge europea18, sempreché non sia prevista una modalità specifica di recepimento19. Sempre più frequente è tuttavia l’emanazione delle direttive cosiddette self-executing, le quali si caratterizzano per un contenuto dettagliato, ponendosi così a metà strada tra le direttive tout court e i regolamenti. Invero, qualora abbia un contenuto chiaro e sufficientemente preciso con cui preveda obblighi o attribuisca diritti, tale da non rendere necessaria l’emanazione di atti ulteriori, allo scadere del termine per il suo recepimento, la direttiva produce effetti exsé al pari dei regolamenti. Del resto, in questi casi, non può addossarsi al privato la negligenza dello Stato, vanificando gli effetti della direttiva, che si produrranno ugualmente ancorché con il limite dei soli effetti verticali20. Cosa accade qualora lo Stato non adempia ai propri obblighi di recepimento? In questi casi, si parla di responsabilità dello Stato – legislatore, in quanto lo Stato non recepisce o recepisce infedelmente una direttiva comunitaria. Sulla natura di tale responsabilità la dottrina si è divisa tra coloro i quali ne sostenevano il carattere aquiliano e coloro i quali 18. E’ bene precisare che, ancorché il recepimento avvenga con legge, la fonte resta sempre la direttiva che quindi è sovraordinata alla legge ordinaria. 19. Ad esempio il recepimento può avvenire mediante regolamento di delegificazione, qualora si debba contestualmente procedere all’abrogazione delle norme nazionali contrastanti. 20. Tale limite è stato giustificato sulla base della funzione che gli è ricondotta, vale a dire quella di sanzionare lo Stato che non ha adempiuto ai propri obblighi e che quindi dovrà rispondere al privato della propria inadempienza.

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affermavano si trattasse di responsabilità contrattuale ex lege, derivante da un illecito di matrice comunitaria. La Legge n.183/2011 (Legge di stabilità) ha posto fine al contrasto, abbracciando la prima tesi attraverso il richiamo all’art.2947 c.c., che prevede il termine prescrizionale quinquennale21. Le decisioni sono atti obbligatori in tutti i loro elementi (caratteristica che le distingue dalle direttive) e che possono avere il contenuto più vario. Si parla di decisione individuale con riferimento all’atto giuridico con cui l’U.E. decide il singolo caso; si caratterizza per la validità individuale (elemento che la differenzia dal regolamento) e la vincolatività diretta nei confronti dei destinatari. Infine, non costituiscono vere e proprie fonti le raccomandazioni e i pareri; si tratta invero di atti privi di vincolatività che consistono, rispettivamente, in esortazioni rivolte al singolo Stato nell’ottica del ravvicinamento delle legislazioni e nell’espressione di opinioni su una determinata questione. La dottrina maggioritaria qualifica entrambi come espressione della soft-law, vale a dire quell’insieme di indicazioni e linee guida che orientano prassi e comportamenti in determinati settori del diritto, del tutto privi di vincolatività. 1.2.2 Le fonti nazionali: le fonti primarie e le fonti secondarie Il primo livello è rappresentato dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali, che contengono quelli che sono i principi fondamentali del diritto amministrativo. In questa sede, la trattazione si limita ad un mero elenco delle principali norme di riferimento, con rimando ai capitoli successivi in cui i diversi principi verranno analizzati all’interno dei contesti e dei settori in cui operano. Tra le disposizioni rilevanti si annoverano: l’art.5 Cost., che tutela le autonomie locali e promuove il decentramento ammini21. In caso di mancato recepimento, la responsabilità dello Stato non è solo nei confronti dell’U.E., ma anche dei propri cittadini che non hanno potuto usufruire o rivendicare i diritti o i benefici accordati dalla direttiva non recepita. Il diesa quo decorre dalla data del fatto dal quale derivano i diritti accordati dalla direttiva.

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strativo; gli artt.24 e 113 Cost., che disciplinano la tutela giurisdizionale; gli artt.42 e 43 Cost. in materia di espropriazione e programmazione economica; l’art.51 Cost., che sancisce l’accesso al pubblico impiego mediante concorso; l’art.53 Cost. sull’obbligo di concorso alle spese pubbliche; l’art.97 Cost. che sancisce l’imparzialità, il buon andamento e la riserva di legge in materia di organizzazione amministrativa; l’art.100 Cost. che sancisce l’indipendenza dei giudici amministrativi; l’art.118 Cost. sui principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione e l’art.120 Cost. che afferma il principio di leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni. La Costituzione ha un ruolo fondamentale nella disciplina delle fonti altresì in quanto alcune disposizioni prevedono espressamente che determinate materie siano trattate unicamente da fonti di rango primario, determinando quindi una riserva di legge. Tale riserva può essere assoluta, per cui non è ammessa l’ingerenza di altro tipo di fonte, oppure relativa, quando alla legge è affidata la determinazione dei principi fondamentali e dei criteri generali, rimanendo gli aspetti di dettaglio demandati alle fonti subordinate, tipicamente regolamenti22. Successivamente, si collocano le fonti primarie: le leggi ordinarie, i decreti legge e i decreti legislativi, gli statuti delle regioni ordinarie e i decreti attuativi degli statuti delle regioni speciali, nonché le leggi regionali e le leggi delle Province autonome di Trento e Bolzano. In tema di riparto di competenze fra Stato e Regioni, si veda il titolo V della Costituzione, come riformato con Legge n.3/2001, che elenca le materie di competenza esclusiva statale e le materie di competenza concorrente, con individuazione in via residuale delle materie di competenza esclusiva regionale23. Relativamente al rapporto tra Stato e regioni merita attenzione 22. Esempio di riserva assoluta si rinviene nell’art.13 Cost. in materia di libertà personale, mentre esempio di riserva relativa è contenuto nel successivo art.23 Cost., riguardante l’obbligo di prestazioni personali o patrimoniali. 23. Il riparto così delineato è diametralmente opposto a quello precedente la riforma del titolo V, in cui il criterio residuale riguardava le materie di competenza esclusiva statale.

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il potere sostitutivo riconosciuto dall’art.120 della Costituzione al primo, in caso di inerzia delle seconde nell’osservare i propri obblighi comunitari nelle materie di competenza esclusiva regionale. E’ previsto che lo Stato si sostituisca attraverso l’introduzione di una normativa cedevole, destinata ad avere efficacia qualora la regione resti inadempiente al momento della scadenza del termine di adempimento24. A completamento del quadro della fonti primarie, meritano attenzione le leggi provvedimento. Sono atti che esprimono una deformazione del sistema, nel senso che contribuiscono a scardinare il principio di tipicità nonché i caratteri di generalità ed innovatività propri delle leggi. Invero, si tratta di atti aventi valore e forza di legge emanati per risolvere casi concreti e specifici, con incisione diretta sulle posizioni soggettive dei singoli. Per tali ragioni sono state oggetto di dibattito e, in taluni casi, tacciate d’incostituzionalità25. Tuttavia, la Corte Costituzionale ne ha sancito l’ammissibilità, ancorché sia necessario un controllo stringente di detti atti e ancorché la tutela del privato a riguardo si complichi26. Invero, tali leggi sono impugnabili mediante un giudizio di legittimità costituzionale, che senza dubbio è strumento più arduo rispetto all’impugnativa di un provvedimento dinanzi all’Autorità giudiziaria amministrativa, ma che comunque garantisce il diritto di difesa. Il ruolo principale nell’ambito del diritto amministrativo, è tut24. In questi casi, la normativa statale è destinata ad operare solo nelle regioni rimaste inadempienti. 25. Secondo taluni le leggi de quibus cozzerebbero col principio di parità di trattamento, che rischierebbe di essere violato mediante previsioni di tipo particolare e magari derogatorio. 26. Ex multis: C. Cost. 17 giugno 1996, n.205 e C. Cost. 10 gennaio 1977, n.2, che affermano l’insussistenza di una riserva di amministrazione, per cui tali leggi non violerebbero il principio di separazione dei poteri. Tuttavia, la Corte Costituzionale riconosce la necessità di un vaglio rigoroso circa il rispetto del principio di ragionevolezza, per verificare che la legge provvedimento non sia lo strumento per aggirare i principi di imparzialità e uguaglianza.

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tavia giocato dalle fonti secondarie, le quali sono governate dal principio di atipicità e non possono in alcun modo contrastare con le fonti ad esse sovraordinate: Costituzione, leggi ordinarie e, a fortiori, norme europee. Si tratta di atti formalmente (o soggettivamente) amministrativi, in quanto sono emanati da una pubblica amministrazione, ma sostanzialmente normativi, poiché si caratterizzano per generalità, astrattezza ed innovatività. E’ utile in questa sede evidenziare la differenza tra atto amministrativo e attonormativo, in quanto non sempre è facile individuare se un atto integri una fonte secondaria o meno. La tesi oggi ormai pacifica ritiene che, mentre il primo si caratterizza per l’indeterminabilità dei destinatari ex ante, ma per la determinabilità degli stessi ex post, il secondo mantiene l’indeterminabilità dei soggetti cui si rivolge, in quanto non è destinato a disciplinare una vicenda specifica, ma è astrattamente applicabile una serie indefinita di volte. La distinzione è importante perché le discipline sono profondamente diverse27. Al pari dell’atto normativo, l’atto amministrativo è soggetto al diritto comunitario. Che succede nell’ipotesi in cui un atto amministrativo contrasti con una norma europea? Sul punto si sono contese il campo tre teorie principali: nullità dell’atto, basata tuttavia sulla già richiamata teoria separatista, per cui ampiamente superata. Peraltro, si è evidenziato che l’art.21 septies della L. n.241/91, il quale ha tipizzato le ipotesi di nullità, non contempla tale caso. Altra tesi, sostenuta anche da alcuna giurisprudenza recente, sostiene l’annullabilità nel caso di violazione di norma che disciplina le modalità di esercizio del potere e la nullità nell’ipotesi di violazione di norma attributiva del potere28. 27. Ad esempio, mentre la violazione della fonte secondaria comporta l’illegittimità per violazione di legge, in caso di violazione dell’atto amministrativo si configura un’ipotesi di eccesso di potere. 28. Nel primo caso si avrebbe un’ipotesi di illegittimo esercizio del potere; nel secondo caso la p.a. agirebbe in assenza assoluta di potere.

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Tuttavia, l’orientamento oggi ancora prevalente parla di annullabilità dell’atto per violazione di legge (al pari dell’ipotesi di violazione di una norma nazionale) e, peraltro, la dottrina maggioritaria ritiene non sussista un obbligo per la p.a. di agire in autotutela, la quale resterebbe attività discrezionale anche in questa ipotesi29. Resta comunque fermo che non è possibile mantenere in vita un atto contrastante con il diritto comunitario, stante il principio di supremazia, per cui l’ordinamento deve prevedere un rimedio per risolvere l’antinomia che, in caso di inattività della p.a., sarà l’impugnazione dell’atto da parte del privato30. 1.2.3 Focus: regolamenti, ordinanze e circolari. Tra le fonti secondarie, l’atto più importante – in quanto maggiormente diffuso – è il regolamento. La classificazione delle varie tipologie e la relativa disciplina sono contenute nella Legge n.400/88, la quale si riferisce letteralmente ai soli regolamenti statali, ma che vale per tutti i tipi di regolamento, qualsiasi sia l’autorità che li emana. La potestà regolamentare viene riconosciuta dalla legge31, la quale ne stabilisce altresì i limiti: invero, il regolamento non può contrastare né con la Costituzione né con la legge ordinaria e con le norme europee ed inoltre, il regolamento non può essere ema-

29. Parte della dottrina aveva invero prospettato un’ipotesi di autotutela vincolata, dovendosi fare applicazione del principio di supremazia del diritto comunitario. Tuttavia, per natura, l’autotutela può essere solo discrezionale e frutto di una valutazione non obbligata da parte della p.a. 30. Il privato potrebbe astrattamente sollecitare l’esercizio dell’autotutela, ma il rimedio principe resta l’impugnazione del provvedimento illegittimo per violazione di legge comunitaria. 31. Precisamente, la potestà regolamentare ha il medesimo ambito di operatività della potestà legislativa, per cui lo Stato può emanare regolamenti solo nelle materie di propria competenza esclusiva; nelle restanti materie (di competenza concorrente o esclusiva regionale) possono intervenire unicamente regolamenti regionali.

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nato in materia penale, dove vige il principio di riserva di legge32. Nel caso in cui il regolamento contrasti con una fonte di rango superiore, la giurisprudenza amministrativa ormai prevalente ritiene che il giudice amministrativo, nell’ambito di un procedimento di impugnazione di un provvedimento amministrativo attuativo del regolamento, debba procedere alla disapplicazione del regolamento stesso, in applicazione del principio gerarchico33. Lo stesso potere di disapplicazione è peraltro riconosciuto al giudice ordinario, che potrà conoscere incidentalmente della questione, qualora abbia carattere pregiudiziale rispetto alla controversia posta alla sua attenzione34. Di seguito verranno brevemente trattati i due tipi più importanti di regolamento. Innanzitutto, i regolamenti indipendenti, i quali disciplinano integralmente una materia che non è coperta da riserva di legge e per la quale non vi è altra disciplina vigente. E’ stata riconosciuta la compatibilità di tali atti con il principio di legalità, in forza dell’art.17 della sopra richiamata legge n.400/88 che li prevede. Tuttavia, parte della dottrina sottolinea come tale norma non pone alcun limite all’esercizio del potere regolamentare, con rischio di ingerenza del Governo nelle funzioni del Parlamento. Altra tipologia è quella dei regolamenti di delegificazione. Concepiti come strumento di semplificazione normativa, tali regolamenti sono autorizzati dalla legge ad intervenire e disciplinare una materia, previa fissazione dei criteri di esercizio del potere regolamentare nonché dei principi generali della materia stessa. 32. Più correttamente, la riserva di legge è da intendersi tendenzialmente assoluta, per cui il regolamento può integrare la norma penale solo per gli aspetti che non contribuiscono a determinarne il disvalore e che non contribuiscono a delineare l’area del penalmente rilevante. 33. Precisamente, occorre distinguere tra rapporto di simpatia, in cui il provvedimento è conforme al regolamento che, a sua volta, è contrario alla norma, e rapporto di antipatia, dove il provvedimento contrasta con il regolamento il quale, a sua volta, è contrario alla norma sovraordinata. La disapplicazione del regolamento permette di valutare la legittimità del provvedimento senza che, appunto, vi sia più il filtro regolamentare. 34. Dei poteri del giudice amministrativo e del giudice ordinario si parlerà diffusamente trattando di giurisdizione.

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Come anticipato, il potere di emanare regolamenti è previsto dalla legge, che lo attribuisce a Stato, Regioni, Comuni, Città Metropolitane e Autorità amministrative indipendenti, in determinati settori e materie35. In linea generale, i regolamenti non sono direttamente impugnabili, in quanto non sono in grado di incidere sulle posizioni soggettive del singolo. Più spesso, i regolamenti vengono impugnati unitamente agli atti che ne danno esecuzione (cosiddetta doppia impugnativa)36. Tuttavia è corretto distinguere tra regolamenti di volizione – azione, che hanno portata immediatamente lesiva in quanto hanno carattere sostanzialmente provvedimentale, e regolamenti di volizione – preliminare, che non hanno effetti lesivi propri e quindi non fanno maturare l’interesse all’impugnazione. Data la loro duttilità, vi è stato un sempre crescente ricorso all’utilizzo del regolamento, quale strumento maggiormente adattabile alle situazioni più diverse. Tuttavia, questa tendenza ha creato nel tempo una stratificazione normativa tale per cui le stesse fonti sono diventate poco accessibili e più difficilmente fruibili. La risposta al problema si è avuta con l’introduzione dei testi unici, vale a dire corpi normativi per lo più meramente programmatici, in cui vengono raccolte tutte le norme relative a una determinata materia o a un determinato settore37. Parte della dottrina considera fonti anche le ordinanze. In realtà, tali atti possono avere una duplice portata. Precisamente, le ordinanze costituiscono fonti solo se hanno ca35. Per la trattazione sulle Autorità amministrative indipendenti, si rimanda al Capitolo III. 36. Per impugnare un atto amministrativo occorre un interesse qualificato e differenziato, ossia rilevante per l’ordinamento e direttamente inciso dall’atto stesso. Avendo portata generale e astratta, il potere di incidere sulla posizione soggettiva non è riconoscibile al regolamento, bensì al successivo provvedimento di attuazione che, riferendosi ad un soggetto determinato, ne differenzia la posizione. 37. La funzione è quella di riassetto e riorganizzazione delle discipline normative; pertanto, il testo unico generalmente non ha alcuna portata innovativa e quindi non costituisce una fonte.

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rattere normativo e dettano regole generali ed astratte; diversamente, si tratterà di meri atti amministrativi38. La categoria delle ordinanze è eterogenea e comprende atti anche molto diversi tra loro.Pertanto, molto genericamente, è possibile affermare che si tratta di atti che contengono ordini, creando obblighi o imponendo divieti. Le ordinanze costituiscono spesso una deroga al principio di legalità in relazione alla tipicità dei poteri amministrativi, nel senso che ne consentono l’esercizio in modalità che fuoriescono da quelle espressamente previste. Nella maggior parte dei casi, esse trovano giustificazione in esigenze di urgenza. La figura più importante è infatti l’ordinanza contingibile e urgente, la quale non costituisce tuttavia fonte, in quanto detta un regime fortemente derogatorio rispetto alla disciplina normativa, che peraltro rivive nel momento in cui l’ordinanza cessa i propri effetti. Tali ordinanze sono invero tipicamente temporanee, in quanto sono destinate a fronteggiare una situazione di necessità che richiede un intervento tempestivo e che, per natura, è destinata a venire meno. Al pari delle ordinanze in generale, anche le ordinanze contingibili e urgenti non possono derogare alla Costituzione, non possono contenere disposizioni in materia penale e non possono contrastare con il diritto europeo, in forza del principio di primauté39. Presupposti per la loro emanazione sono quindi la contingibilità, ossia la sussistenza di una situazione imprevedibile e grave, cui non è possibile far fronte con i rimedi ordinari, nonché l’urgenza, vale a dire la necessità di intervenire senza indugio. Si parla di urgenza qualificata, per cui gli interessi coinvolti non sarebbero adeguatamente tutelati mediante le normali competenze 38. In particolare, qualora l’ordinanza costituisca un atto amministrativo, è soggetta al sindacato del giudice amministrativo e ad annullamento in caso di illegittimità. 39. Come anticipato, però, tali ordinanze possono derogare – e normalmente derogano – alla legge ordinaria. Sul rapporto con il diritto comunitario, per completezza si evidenzia che una tesi minoritaria, ritiene invece che l’ordinanza possa derogare alla norma europea, laddove il sistema comunitario non offra altro adeguato strumento per far fronte alla situazione concreta.

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di polizia amministrativa e gli strumenti tipici previsti40. Questione ampiamente dibattuta in passato riguarda il potere del Sindaco di emanare ordinanze contingibili e urgenti, nella propria veste di Ufficiale di Governo. Con un intervento nel 2008, il legislatore aveva invero ampliato tale potere in modo illimitato, rendendolo di fatto esercitabile anche in assenza dei presupposti della contingenza e dell’urgenza. La Corte Costituzionale è infatti intervenuta nel 2011, dichiarando l’illegittimità dell’art.54, comma 4, T.U.E.L. nella parte in cui prevedeva l’incondizionato potere di emanare ordinanze anche di necessità e urgenza, per violazione della riserva di legge contenuta nell’art.23 Cost.41. Diversi dalle ordinanze d’urgenza sono gli atti necessitati, i quali sono previsti dalla legge come strumenti tipici a fronte di situazioni di urgenza parimenti già tipizzate, mentre, come detto, le ordinanze intervengono in situazioni imprevedibili ed eccezionali42. Pertanto, mentre le ordinanze sono atipiche, gli atti necessitati sono tipici43 e possono derogare anch’essi alle disposizioni di legge che opererebbero in condizioni ordinarie44. Tuttavia, gli atti necessitati restano nell’ambito della tipicità e nominatività dei provvedimenti amministrativi, in quanto determinano unicamente gli effetti previsti dalla legge e non stravolgono le

40. Carattere residuale e sussidiario dell’ordinanza di necessità e urgenza, che chiude il sistema di intervento previsto dalla legge per fronteggiare situazioni straordinarie. 41. Da quanto era stato disposto con la novella del 2008, il Sindaco godeva di un potere incondizionato, del tutto slegato dai presupposti che giustificano il ricorso alle ordinanze di necessità. Sulla scia di tale potere, molti Sindaci avevano adottato le famose ordinanze in tema tossicodipendenza, lotta alla prostituzione e ronde notturne. 42. Roberto Chieppa e Roberto Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Giuffré, Milano, 2012, secondo cui gli atti necessitati rappresentano «esercizio di poteri ordinari in situazioni straordinarie.» 43. Da ciò discende che l’Autorità può ricorrere all’ordinanza d’urgenza solo qualora non sia previsto dall’ordinamento un atto necessitato tipico, idoneo a far fronte alla situazione configuratasi. 44. Ad esempio, l’art.7 della Legge n.241/90 prevede la deroga all’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento in casi di urgenza.

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regole della competenza45. Accanto alle fonti sin qui esposte, vi sono le cosiddette norme interne, vale a dire quelle norme i cui destinatari sono unicamente coloro che fanno parte di una determinata amministrazione e che disciplinano l’organizzazione interna, il funzionamento degli uffici e l’esercizio delle attività amministrative. Tra queste vi sono le circolari, le quali non hanno valore giuridico e hanno effetti esterni solo indiretti, nella misura in cui rivelano una contraddittorietà della pubblica amministrazione qualora dovessero essere disattese da alcuni funzionari o organi che vi operano46. Questa tipologia di circolari in realtà non esaurisce la categoria, che racchiude atti molto diversi tra loro, ciascuno con un proprio regime. Esistono invero anche circolari che hanno portata giuridica e rilevanza esterna, con carattere normativo se generali e astratte, ovvero amministrativo se si rivolgono a soggetti determinati. In realtà, secondo la tesi maggioritaria, ancorché siano definite circolari, gli effetti esterni che vi si riconducono smentiscono tale natura. Infatti, circolari in senso vero e proprio sarebbero unicamente gli atti che producono effetti meramente interni. Inoltre, vi sono anche le cosiddette circolari interpretative, che non costituiscono né fonti né atti meramente interni, ma che rappresentano un mero ausilio nello svolgimento di talune attività. La loro violazione non ha conseguenze giuridicamente rilevanti47. Invero, la Corte di Cassazione ne ha escluso tout court l’impugnabilità, evidenziando la totale assenza di vincolatività delle circolari interpretative. Tutt’al più la circolare potrà essere impugnata unitamente all’atto che la segue. 45. Straordinaria è quindi solo la situazione che l’atto necessitato deve disciplinare, mentre il potere di emanazione dell’atto necessitato rientra tra i poteri ordinari. 46. Si parla in questi casi di eccesso di potere per contraddittorietà dell’amministrazione. Diversa peraltro è la violazione della prassi amministrativa, che può rivelare parimenti una contraddittorietà del soggetto pubblico, comportando tuttavia unicamente conseguenze sul piano deontologico. 47. Esempio di circolari interpretative sono le circolari INPS.

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1.2.4 La consuetudine e la prassi amministrativa. Le fonti secondarie dubbie La consuetudine è fonte non scritta e consiste nella ripetizione di un determinato comportamento (elemento oggettivo) con la convinzione che sia giuridicamente dovuto (elemento soggettivo)48. Si distinguono tre tipi di consuetudine, in base al rapporto con le fonti scritte: la consuetudine praeter legem, relativa a materie non disciplinate dalla legge e ammessa dall’ordinamento. Altra tipologia è la consuetudine secundum legem, la quale ha efficacia di fonte solo se richiamata dalla legge stessa. Del tutto inammissibile è invece la consuetudine contra legem, che contempla comportamenti contrari alla legge49. Diversa è invece la prassi amministrativa, che consta sì in un comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione in modo ripetuto, ma senza la convinzione che ciò sia obbligatorio. Invero, essa non costituisce fonte, non avendo alcuna portata innovativa, ma diversamente può contribuire ad interpretare il provvedimento amministrativo che magari verta su materie ancora non disciplinate in modo esaustivo o del tutto chiaro. La contrarietà alla prassi non comporta pertanto alcuna violazione di legge, tuttavia può rivelare un atteggiamento incoerente dell’amministrazione, non in linea con i doveri deontologici che ne permeano l’azione. Per completezza, si evidenzia infine che esiste una categoria definibile di fonti secondarie dubbie, ossia di atti su cui non vi è unanimità di vedute circa la loro qualificazione50. Tra questi, rientrano i piani regolatori generali. Rimandando per la loro esaustiva trattazione alla parte dedicata all’urbanistica, è utile in questa sede tratteggiarne le diverse tesi relative alla loro natura giuridica51. 48. Parte della dottrina ritiene sia sufficiente il solo elemento oggettivo. 49. La legge può essere invero derogata solo da altra legge. 50. Fonti secondarie dubbie sono ritenuti ad esempio i bandi militari, le carte dei servizi pubblici e i piani regolatori generali. 51. Precisamente si rinvia alla parte dedicata all’espropriazione. INDICE

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Infatti, i piani regolatori generali sono considerati da alcuni atti normativi, da altri atti amministrativi e, infine, da altri esponenti ancora, atti misti, in parte normativi e in parte amministrativi. La teoria dell’atto misto pare oggi prevalere; essa identifica la parte normativa nelle previsioni astratte e generali di carattere urbanistico e la parte amministrativa, nelle previsioni di dettaglio riguardanti le zonizzazioni e le localizzazioni52. Invero, i piani regolatori sono strumenti di organizzazione e pianificazione del territorio comunale, i quali contengono prescrizioni normative, destinate a trovare esecuzione mediante i successivi atti attuativi. In relazione agli strumenti di tutela del privato nei confronti dei piani regolatori, la giurisprudenza ammette l’impugnazione sia dell’atto che adotta il piano che dell’atto che lo approva, avendo ciascuno dei quali una propria efficacia immediata53.

52. Sulla definizione di tali concetti, si veda cap. IX. 53. Ciò significa che la giurisprudenza riconosce l’interesse all’impugnazione anche del piano regolatore non ancora approvato, che potrebbe essere frutto di un procedimento di formazione viziato.

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CAPITOLO II LE POSIZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE Sommario: 2.1 Le posizioni giuridiche soggettive. Il diritto soggettivo. - 2.2 L’interesse legittimo. - 2.3La distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo. - 2.4 Le altre posizioni soggettive. Gli interessi diffusi. - 2.5Riparto di giurisdizione e tecniche di tutela. - 2.6 La risarcibilità degli interessi legittimi.

2.1 Le posizioni giuridiche soggettive. Il diritto soggettivo Le posizioni soggettive sono quelle situazioni che possono configurarsi in capo al singolo e che sono rilevanti per l’ordinamento giuridico, in quanto attribuiscono poteri, facoltà e obblighi al loro titolare. Può trattarsi di posizioni attive o passive, a seconda che il soggetto rivesta una posizione favorevole, di vantaggio, oppure di subordinazione, con limitazione alla propria libertà54. Diverso dalla posizione soggettiva è lo status, che descrive la posizione giuridica complessiva di un soggetto rispetto alla collettività in generale o ad un determinato gruppo55. In diritto amministrativo sono due le posizioni soggettive principali; una è il diritto soggettivo. La dottrina ha operato una classificazione dei diritti soggettivi, distinguendo tradizionalmente tra diritti assoluti e relativi. I diritti assoluti sono così chiamati poiché il loro titolare è in grado di realizzarli attraverso il proprio comportamento, senza la necessità della cooperazione altrui. Anzi, a fronte di un diritto soggettivo assoluto, gli altri individui devono astenersi dal porre in essere comportamenti che ne turbino il godimento e l’esercizio da parte del suo titolare. 54. Posizioni giuridiche attive sono ad esempio il diritto soggettivo, l’interesse legittimo e il diritto potestativo; mentre, posizione giuridiche passive sono l’obbligo e il dovere. 55. Ad esempio, lo status di cittadino rispetto allo Stato oppure lo status di figlio all’interno della famiglia.

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Al contrario, i diritti relativi necessitano dell’intervento altrui, in termini attivi ovvero passivi, a seconda che si tratti, rispettivamente, di diritti di credito ovvero diritti potestativi56. A fronte di questi diritti, l’ordinamento riconosce piena e immediata tutela; tanto è vero che, nel caso in cui un diritto di tal tipo resti insoddisfatto, significa che ci si trova in una situazione patologica57. Tradizionalmente, invero, il diritto soggettivo è considerato una posizione giuridica attiva, dunque di vantaggio, che riconosce al suo titolare determinate utilità e la tutela immediata e piena degli interessi che vi si ricollegano. Nell’ambito del diritto amministrativo, la categoria del diritto soggettivo ha una propria rilevanza se sol si considera che il potere pubblicistico ben può incidere su posizioni di tal tipo e che il privato ben può esercitare un proprio diritto nei confronti della pubblica amministrazione. Viene così in rilievo l’ulteriore distinzione tra diritti soggettivi perfetti e diritti soggettivi condizionati. I primi si caratterizzano per pienezza e immediatezza, in quanto riconoscono un potere diretto in capo al loro titolare e un correlativo obbligo in capo al resto della collettività o a soggetti determinati. Diritti soggettivi condizionati sono diversamente quei diritti il cui esercizio è sottoposto a condizione sospensiva e, pertanto, in attesa di espansione, ovvero risolutiva e quindi sono diritti destinati ad essere incisi da un provvedimento amministrativo e a degradare a interessi legittimi. Nel primo caso, l’esercizio del diritto è impedito da un ostacolo giuridico che richiede l’intervento della pubblica amministrazione per essere rimosso, permettendo così al diritto di espandersi nella sua pienezza. 56. Il creditore abbisogna invero della cooperazione del debitore per soddisfare il proprio interesse. Diversamente, il titolare del diritto potestativo esercita una propria facoltà, incidendo sulla sfera di un altro soggetto che versa in condizione di soggezione; esempio è il diritto di recesso. 57. In relazione ai diritti soggettivi opera generalmente la giurisdizione ordinaria, fatte salve le ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. INDICE

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Nel caso di diritto risolutivamente condizionato, la legge vuole invece evitare che il diritto del singolo impedisca il perseguimento dell’interesse pubblico. Sono entrambe posizioni di fronte alle quali l’ordinamento riconosce dunque alla pubblica amministrazione la possibilità di sacrificare o limitare il diritto del singolo a vantaggio dell’intera collettività, come accade nell’ipotesi di provvedimento che nega l’autorizzazione all’esercizio di un’attività o che dispone l’esproprio di un terreno privato. Questa distinzione si basava sulla teoria dell’affievolimento secondo cui i diritti risolutivamente condizionati sarebbero soggetti al potere amministrativo e, nel momento in cui fossero da questo incisi, degraderebbero a interessi legittimi. Come verrà nel prosieguo evidenziato, la teoria dell’affievolimento è una delle tesi coniate dalla dottrina per legittimare il risarcimento dell’interesse legittimo. Tuttavia, la stessa è stata ampiamente criticata e superata dalla giurisprudenza e dottrina maggioritarie58. Precisato ciò, dunque, il diritto soggettivo può essere definito come quella posizione di vantaggio riconosciuta ad un soggetto in ordine ad un bene della vita cui il medesimo anela; a tal fine, al titolare sono attribuiti vari strumenti di esercizio e tutela del diritto, quali facoltà, pretese e poteri, atti a soddisfare in modo pieno e immediato l’interesse al bene. Da ciò si evince che il soddisfacimento del titolare di un diritto soggettivo, non abbisogna di regola dell’intervento di alcuno; più in particolare, non occorre che vi sia l’intervento del soggetto pubblico affinché il bene anelato venga conseguito. Tuttavia, questo non significa che la pubblica amministrazione non entri mai in contatto con le posizioni di diritto soggettivo, trattandosi invero della posizione giuridica che da sempre è stata riconosciuta in capo al privato e che, da sempre, ha trovato piena 58. In realtà, il fenomeno della degradazione non ha alcun fondamento, se non quello di trovare una giustificazione al risarcimento dell’interesse legittimo, al quale diversamente, va riconosciuta autonoma tutela al pari del diritto soggettivo. Si veda nel prosieguo la più opportuna distinzione tra interessi legittimi oppositivi e interessi legittimi pretensivi.

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tutela nell’ordinamento59. Invero, non vi è mai stato alcun dubbio sulla capacità della pubblica amministrazione di ledere, mediante comportamenti illeciti, i diritti soggettivi dei privati, venendo chiamata a rispondere ai sensi dell’art.2043 c.c.60. Inoltre, vi sono diverse fattispecie proprie del diritto amministrativo, le quali sono oggi qualificate in termini di diritto soggettivo – ancorché non pacificamente – come l’accesso ai documenti amministrativi e la partecipazione al procedimento amministrativo61. Infine, è opportuno ricordare il potere del giudice amministrativo di conoscere, nell’ambito della propria giurisdizione di legittimità, anche di questioni inerenti a diritti soggettivi. Ciò è testimonianza del fatto che il diritto amministrativo si muove anche nell’ambito dei diritti e che il loro vaglio può rappresentare questione pregiudiziale in un processo amministrativo. 2.2

L’interesse legittimo

L’interesse legittimo è l’altra posizione soggettiva attiva rilevante per il diritto amministrativo. Tale figura è sconosciuta in ambito europeo; invero,il diritto e la giurisprudenza unionali non conoscono la dicotomia tra diritti soggettivi e interessi legittimi e ciò ha determinato qualche frizione in passato. Invero, inizialmente non è stata riconosciuta dal nostro ordinamento piena dignità e autonomia all’interesse legittimo, e quindi, agli occhi comunitari, la creazione di questo istituto poteva sembrare un modo per sottrarre alcune posizioni a idonei strumenti di tutela62. 59. Si ricorda che tradizionalmente solo a fronte della lesione di un diritto soggettivo, peraltro perfetto, si riconosceva un diritto al risarcimento. 60. Sulla responsabilità della pubblica amministrazione, si veda il Cap. X. 61. La tesi maggioritaria, tuttavia, qualifica la partecipazione al procedimento come interesse e non come diritto. 62. A livello comunitario, invero, non rileva tanto la qualificazione delle posizioni, quanto la pienezza e l’effettività della tutela che viene accordata.

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Tale problematica è stata tuttavia superata nel tempo, mediante una riconsiderazione dell’interesse legittimo, al quale ad oggi è riconosciuta la stessa protezione che viene accordata al diritto soggettivo63. Come verrà evidenziato, le differenze risiedono piuttosto nelle modalità di tutela, ma non nell’effettività della stessa. L’interesse legittimo nasce nel 1889, con l’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato, quale giudice di quegli interessi sostanziali diversi dai diritti soggettivi e che, sino ad allora, non avevano ricevuto alcuna tutela. All’interno dell’ordinamento manca una definizione normativa di interesse legittimo, sulla cui portata si è infatti sviluppato un intenso dibattito. La dottrina ha coniato diverse tesi. L’orientamento più risalente considerava l’interesse legittimo quale interesse occasionalmente protetto, vale a dire quale interesse che trovava tutela se e nella misura in cui la stessa veniva riconosciuta all’interesse pubblico: pertanto, la protezione era del tutto indiretta. Altra tesi identificava l’interesse legittimo con l’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa, ossia come interesse al corretto esercizio del potere pubblicistico64. In realtà, l’interesse legittimo, al pari del diritto soggettivo, ha ad oggetto un bene della vita; pertanto, tale teoria è rimasta isolata. Invero, l’azione del privato è preordinata a soddisfare un interesse egoistico e non tanto a ripristinare il corretto esercizio del potere pubblico a vantaggio della collettività. Un’ulteriore teoria identificava l’interesse legittimo con l’interesse processuale, vale a dire con l’interesse ad agire in giudizio che sorge a fronte di un provvedimento amministrativo lesivo. L’errore è evidente e consiste nel sovrapporre interesse legittimo e interesse a ricorrere. 63. A partire dalla storica sentenza delle Sezioni Unite n.500/99 è pacificamente riconosciuta la tutela risarcitoria degli interessi legittimi. 64. Parte della dottrina riteneva infatti che l’interesse legittimo consistesse nell’interesse del privato a che il provvedimento amministrativo, di cui era destinatario, fosse legittimo.

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La teoria oggi prevalente è quella normativa, dalla quale emerge che l’interesse legittimo ha natura sostanziale, in quanto si correla ad un interesse del soggetto ad un bene della vita65. La teoria parte dal presupposto che quando una norma affida alla pubblica amministrazione la cura di un interesse pubblico, tale norma si occupa e preoccupa anche degli interessi dei privati che, di volta in volta, vengono in rilievo66. Per questo, a differenza di quanto accade al diritto soggettivo, l’interesse legittimo richiede la mediazione del potere pubblicistico per essere esercitato e, addirittura, può essere sacrificato a vantaggio dell’interesse pubblico. In altre parole, il soddisfacimento del titolare dell’interesse passa attraverso l’attività della pubblica amministrazione la quale, per esigenze di tutela del superiore interesse collettivo, può far soccombere o limitare l’interesse del privato. Qui si comprende quanto sopra accennato, ossia che ciò che distingue diritti soggettivi e interessi legittimi è la modalità di protezione. Infatti, essendo entrambe le posizioni collegate ad un bene della vita cui il privato aspira, vi è sempre l’interesse dell’ordinamento giuridico ad apprestare idonea tutela. L’interesse legittimo può quindi influenzare l’esercizio del potere pubblicistico e questo rappresenta forza e limite dell’interesse legittimo stesso. Invero, se da un lato il privato sa di poter far valere la propria posizione e sa che la pubblica amministrazione deve tenerne conto, allo stesso tempo il titolare dell’interesse è consapevole che dovrà attenersi alla decisione amministrativa – purché legittima –ancorché sfavorevole. L’interesse legittimo si caratterizza dunque per essere qualificato, ossia considerato dalla norma attributiva del potere o, più in generale, dall’ordinamento giuridico, nonché differenziato, nel 65. Cfr. Ad. Plen. n.3/2011. 66. La tesi richiama l’art.97 Cost. per cui la pubblica amministrazione deve esercitare la propria attività in modo imparziale, imponendosi la necessità di contemperare interesse pubblico e interessi privati.

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momento in cui è inciso direttamente dal provvedimento amministrativo67. All’interno della categoria, si distingue tra interessi legittimi oppositivi e interessi legittimi pretensivi. Oppositivo è l’interesse del privato ad evitare un provvedimento sfavorevole, per conservare la propria sfera patrimoniale e personale nello stato in cui si trova; per questo tale interesse è definito altresì statico, in quanto il privato intende mantenere la posizione che già ha. L’interesse legittimo pretensivo invece da voce all’interesse del privato ad ottenere qualcosa che modifichi, in senso generalmente ampliativo, la propria posizione personale. In questo caso, il titolare dell’interesse attende l’emanazione di un provvedimento amministrativo a sé favorevole, che ne muti la sfera giuridica. Per questo, l’interesse pretensivo è detto anche interesse dinamico. Tali interessi si manifestano con azioni diverse da parte del privato; solitamente l’interesse oppositivo si estrinseca mediante opposizioni, come ad esempio l’opposizione ad un decreto di esproprio. L’interesse pretensivo, invece, passa attraverso richieste e domande, quale la richiesta di un’autorizzazione per lo svolgimento di un’attività. Il soddisfacimento di entrambi gli interessi dipenderà da come la pubblica amministrazione eserciterà il proprio potere. La distinzione appena descritta ha soppiantato quella tra diritti risolutivamente e sospensivamente condizionati sopra evidenziata, la quale era stata coniata per giustificare il risarcimento degli interessi legittimi, considerati inizialmente diritti soggettivi degradati a interessi, poiché incisi da un provvedimento amministrativo. Riconosciuta autonoma dignità all’interesse legittimo, la distinzione tra diritti sospensivamente e risolutivamente condizionati non ha più ragion d’essere. 67. Differenziata è la posizione del destinatario del provvedimento nonché di chi, pur non essendo destinatario, è parimenti inciso dal provvedimento amministrativo nella propria sfera giuridica.

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Ad oggi, pertanto, è possibile affermare che vi è piena equiparazione tra le due posizioni soggettive, ciascuna delle quali ha ad oggetto un bene della vita cui il privato tende e che merita protezione da parte dell’ordinamento giuridico. Del resto, a partire dall’art.24 della Carta Fondamentale, diritti e interessi trovano la medesima copertura costituzionale e ciò si evince altresì dal sistema di azioni giurisdizionali oggi previsto dal codice del processo - ci si accennerà nel prosieguo del presente capitolo - che intende accordare una tutela effettiva senza distinguere la posizione azionata dal ricorrente68. 2.3 La distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo La dottrina ha nel tempo elaborato diversi criteri per distinguere il diritto soggettivo dall’interesse legittimo. Invero, non sempre è facile comprendere se la posizione del privato di fronte alla pubblica amministrazione sia dell’una o dell’altra specie; tuttavia, resta fondamentale qualificare tale posizione in quanto diverse sono le tecniche di tutela accordate al privato e diversa è la giurisdizione. In realtà, è proprio il riparto di giurisdizione la tematica principalmente connessa alla distinzione tra diritto e interesse, figure che tradizionalmente segnano i confini, rispettivamente, della giurisdizione ordinaria e amministrativa. Il primo dei criteri è quello che distingue tra attività discrezionale e attività vincolata della pubblica amministrazione. Precisamente, a fronte dell’attività discrezionale, il privato vanterebbe una posizione di interesse legittimo, mentre la posizione sarebbe di diritto soggettivo nei casi di attività vincolata. Tuttavia, ciò non costituisce la regola, potendo l’attività discrezionale incidere su un diritto soggettivo (come nel caso di discrezionalità tecnica), ovvero potendosi configurare un interesse a fronte di un’attività vincolata, qualora il vincolo sia posto nell’interesse del privato. 68. Cfr. altresì artt.103 e 113 Cost., nonché art.30 c.p.a. che testimonia in particolare la trasformazione del giudizio amministrativo da processo sull’atto a processo sul rapporto.

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Tale distinzione è stata condivisa in passato anche dalla Cassazione a Sezioni Unite, ma ad oggi può ritenersi superata. Un altro criterio utilizzato fa leva sulla natura della norma violata dalla pubblica amministrazione, per cui se si tratta di norma di relazione, per cui l’amministrazione si trova in una posizione di parità rispetto ai soggetti con cui si rapporta,il privato vanterebbe un diritto soggettivo. Diversamente, se ad essere violata è una norma di azione, si tratterebbe di interesse legittimo. Il criterio che tuttavia oggi prevale è quello che distingue tra cattivo uso del potere e assenza di potere. Precisamente, nell’ipotesi in cui la pubblica amministrazione maleserciti il proprio potere autoritativo, il privato vanterebbe una posizione di interesse legittimo; mentre, qualora l’amministrazione agisca in assenza di una norma che le attribuisca il relativo potere, verrebbe in rilievo una posizione di diritto soggettivo. Sul punto è opportuno peraltro distinguere tra carenza di potere in astratto e carenza di potere in concreto. Nel primo caso, manca la norma attributiva del potere, per cui si tratta di ipotesi di assoluta incompetenza della pubblica amministrazione agente. Nel secondo caso, la pubblica amministrazione è investita del potere; tuttavia manca o è viziato un presupposto per il suo esercizio69. Secondo la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie, la dicotomia tra cattivo uso e assenza di potere considera la carenza di potere in astratto, dove la competenza è propria di un plesso amministrativo diverso da quello che l’ha esercitata. 2.4

Le altre posizioni soggettive. Gli interessi diffusi

Accanto a diritti soggettivi e interessi legittimi, vi sono ulteriori posizioni configurabili in capo al privato, le quali hanno una rilevanza e una portata differenti. Sulla classificazione e sulla natura di tali posizioni la dottrina non è univoca. 69. Ad esempio, l’esercizio del potere potrebbe essere subordinato al rilascio di un provvedimento da parte di un’altra amministrazione che tuttavia non ha ancora provveduto. INDICE

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Fra queste si annoverano gli interessi procedimentali, vale a dire quegli interessi che attengono al rispetto delle regole del procedimento. Alcuni ritengono che tali interessi corrispondano agli interessi partecipativi, rinvenibili in tutta una serie di disposizioni di cui alla Legge n.241/90 (comunicazione di avvio del procedimento, facoltà di depositare memorie, accesso agli atti, ecc.) che permettono al privato di far valere la propria posizione nell’ambito del procedimento. Peraltro, secondo altra parte della dottrina e la giurisprudenza prevalente, non si tratterebbe di interessi legittimi, in quanto non vi sarebbe un bene della vita sotteso, ma semplicemente l’interesse del privato al rispetto dei tempi procedurali70. Non integrano veri e propri interessi legittimi neppure gli interessi semplici, che sono connessi a doveri pubblici di portata generale; in queste ipotesi il privato ha un interesse a che la pubblica amministrazione eserciti il proprio potere discrezionale secondo opportunità e convenienza. Tali interessi attengono pertanto al merito amministrativo e sono chiamati altresì interessi amministrativamente protetti, in quanto trovano tutela solo a livello amministrativo mediante lo strumento del ricorso gerarchico71. Parte della dottrina identifica gli interessi semplici con gli usi civici, collegati a beni o servizi messi a disposizione dalla pubblica amministrazione72. Rilevanza giuridica è riconosciuta anche all’aspettativa di diritto, che è posizione spesso collegata ad altra (di interesse o di dirit-

70. Peraltro, tali interessi pare abbiano perso d’importanza con la L.15/2005 che ha introdotto l’art.21 octies nella L. n.241/90, sancendo l’irrilevanza dei vizi procedurali ai fini della legittimità del provvedimento amministrativo finale. 71. Sono interessi tutelati dalle norme cosiddette di buona amministrazione. Parte della dottrina sottolinea l’inutilità di questa categoria. 72. Il riferimento è, a titolo esemplificativo, al corretto funzionamento di un servizio pubblico, quale il trasporto ferroviario.

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to), ma che trova una propria tutela autonoma in caso di lesione73. Restano invece privi di tutela gli interessi di mero fatto. Sono posizioni che non hanno alcuna rilevanza giuridica, in quanto non sono né qualificati né differenziati, ma facenti capo alla collettività generalizzata. E’ ad esempio il caso del soggetto che non partecipa ad una gara ma che ha interesse al suo corretto svolgimento: l’ordinamento non riconosce in questa ipotesi una posizione giuridica qualificata (seppur differenziata) azionabile. Pertanto, a fronte di interessi di mero fatto, i privati dispongono in via generale del mero strumento della denuncia e solo in ipotesi eccezionali, l’ordinamento accorda azioni popolari suppletive, con cui il cittadino si sostituisce allo Stato inerte, ovvero correttive per far valere una situazione di illegittimità creata dall’amministrazione74. Interesse di mero fatto è altresì l’interesse diffuso, il quale si caratterizza per l’assenza di un titolare, facendo capo alla collettività indistinta. Tale interesse assume una dimensione super individuale e,nel momento in cui si soggettivizza, si differenzia e acquista rilevanza giuridica, integrando un vero e proprio interesse legittimo. La soggettivizzazione trasforma l’interesse diffuso in interesse collettivo, che fa capo ad una pluralità di soggetti non più indistinta, bensì determinata o, quanto meno, determinabile. Questo tipo di interesse è legato ad un bene insuscettibile di appropriazione individuale, quale ad esempio la salubrità ambientale, e trova ingresso attraverso l’art.2 Cost. e l’abbandono della visione dell’interesse legittimo come interesse squisitamente individuale. La soggettivizzazione dell’interesse diffuso si ha quando la sua tutela viene affidata ad un soggetto organizzato, deputato a rappresentare tutti coloro che ne sono portatori. 73. Si pensi al diritto di insistenza riconosciuto dall’art.28 del R.D. n.1775/1933 al concessionario di bene pubblico. 74. La possibilità di intraprendere un’azione popolare è ad esempio riconosciuta dall’art.70 T.U.E.L. che disciplina le azioni esercitabili dal cittadino in materia elettorale. Questo tipo di azioni sono considerate forme di democrazia diretta.

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Si tratta di un ente esponenziale, come ad esempio un ordine professionale o un comitato, i quali curano gli interessi comuni ai propri membri. Proprio mediante l’ente, così come strutturato e statutariamente preordinato alla salvaguardia di determinati interessi, questi ultimi si differenziano e possono essere azionati, poiché emergono dallo stato fluido in cui originariamente si trovavano75. Sui requisiti che tali enti devono soddisfare, si è pronunciata la giurisprudenza. Invero, non tutti gli enti sono idonei a trasformare un interesse diffuso in interesse collettivo. Occorre che vi sia una regolamentazione statutaria ed una preordinazione dell’ente ad operare a tutela di specifici interessi. Precisamente, la giurisprudenza afferma che non è necessaria la personalità giuridica, essendo sufficiente che l’ente dimostri la sua rappresentatività. Tuttavia, l’ente deve avere l’organizzazione e le risorse necessarie per svolgere la propria attività in modo continuativo e, dunque, non può trattarsi di una realtà occasionale. Inoltre, l’ente deve avere uno stretto collegamento con il territorio in cui si trova il bene (cosiddetto criterio della vicinitas, da indagare caso per caso). Tipico esempio sono le associazioni che operano a tutela del bene ambiente, rappresentando gli interessi di una collettività determinata, legata ad uno specifico territorio. Rispetto a tali soggetti, la giurisprudenza e le norme sono nel tempo cambiate, soprattutto nell’individuarne le caratteristiche essenziali76. Sui caratteri dell’interesse collettivo, la tesi iniziale dell’interesse seriale e omogeneo ha lasciato il posto all’interesse cosiddetto istituzionalizzato, per evitare che anche una singola voce dissonante potesse bloccare un’azione della categoria. 75. Mediante la soggettivizzazione, l’interesse non è più adespota. 76. Il riferimento è all’intervenuto superamento del criterio formale dell’iscrizione nell’elenco presso il Ministero dell’Ambiente. Enti collettivi a tutela dell’ambiente sono quegli enti che perseguono statutariamente la protezione del bene ambiente, che hanno un certo grado di stabilità e stretta afferenza col territorio che intendono tutelare.

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Invero, fermo il divieto di tutelare e differenziare le posizioni dei singoli membri, pena una disparità di trattamento, affinché l’ente si attivi non è necessario che tutti i suoi membri siano interessati alla specifica questione, altrimenti il rischio è la paralisi dell’organizzazione. Occorre infatti ricordare che l’ente non è sostituto processuale, bensì agisce per tutelare l’interesse collettivo che gli fa capo; oltre a questo, l’ente può essere portatore di interessi propri ma mai dei singoli membri77. 2.5

Riparto di giurisdizione e tecniche di tutela

Come già evidenziato, il riparto di giurisdizione è tematica strettamente connessa alla dicotomia tra diritto soggettivo e interesse legittimo. Di regola, invero, il giudice ordinario è giudice dei diritti, mentre il giudice amministrativo si occupa degli interessi78. Tuttavia, la linea di confine non è così netta. Invero, il discrimen tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa è rappresentato dall’esercizio del potere pubblicistico. Più precisamente, qualora vi sia tale esercizio, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, ancorché vi sia lesione di un diritto soggettivo. La giurisdizione ordinaria si giustifica, invero, solo in totale assenza di potere. In altre parole, il riparto di giurisdizione si basa sulla distinzione tra cattivo uso del potere e assenza di potere in astratto79. Fatta questa premessa, si intende in questa sede evidenziare quelli che sono gli strumenti a disposizione del privato e, specularmente, quelli che sono i poteri del giudice, a fronte di una lesione di diritti e interessi,lasciando tuttavia la trattazione esaustiva al capitolo dedicato alla giurisdizione. 77. In quest’ultima ipotesi si avrebbe infatti un’illegittima sostituzione processuale, che è ammessa solo nei casi previsti dalla legge. 78. Cfr. art.7 c.p.a.. 79. Come esemplificato in precedenza, tale distinzione è la stessa che viene utilizzata dalla tesi oggi maggioritaria per differenziare le posizioni di interesse legittimo e di diritto soggettivo.

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In particolare, nell’ambito della giurisdizione amministrativa, si è assistito ad un ampliamento del novero delle azioni esperibili e, parallelamente, ad un potenziamento dei poteri riconosciuti al giudice, nell’ottica di una tutela piena ed effettiva delle ragioni del privato80. Oggi il privato non può solamente chiedere l’annullamento del provvedimento amministrativo, ma ha a propria disposizione altresì la tutela risarcitoria, nonché la facoltà di chiedere la condanna della pubblica amministrazione a provvedere. A ciò si affiancano i rimedi cautelari, nonché l’azione di nullità avverso il provvedimento che, seppur nullo, è comunque suscettibile di esecuzione81. Il giudice è pertanto in grado di caducare il provvedimento amministrativo e, laddove ciò non fosse più utile ovvero non fosse sufficiente, di condannare la pubblica amministrazione a risarcire il privato ovvero ad adempiere un facere specifico. Inoltre, il giudice può intervenire in via cautelare, per evitare che in pendenza di processo, gli effetti della futura sentenza possano essere vanificati82. Al giudice amministrativo è poi riconosciuta la facoltà di conoscere incidentalmente di questioni di diritto soggettivo, laddove queste siano pregiudiziali alla decisione finale. Parallelamente, al giudice ordinario è attribuito il potere di conoscere incidentalmente di un provvedimento amministrativo, qualora questo integri un presupposto logico della controversia, potendo procedere alla sua disapplicazione83. 80. Sull’evoluzione del processo amministrativo, si veda diffusamente Cap. XIII. 81. Cfr. art.30, comma 4, c.p.a. da leggere in combinato disposto con l’art.21 septies della L. n.241/90. 82. In passato la tutela caducatoria era sufficiente in quanto l’interesse unico era il ripristino della legalità dell’azione amministrativa; oggi il sistema prevede una pluralità di azioni, anche atipiche, in linea con la visione dell’interesse legittimo quale interesse sostanziale ad un bene della vita. 83. Il giudice ordinario può conoscere degli effetti dell’atto con sindacato limitato alla legittimità dell’atto stesso, in via incidentale e con effetti inter partes. Pertanto, il sindacato non ha mai rilevanza esterna e non si spinge mai nel merito del provvedimento.

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Le azioni esperibili dinanzi al giudice ordinario sono azioni di cognizione, azioni di condanna, azioni dichiarative e azioni cautelari, che intervengono a fronte di un’attività paritetica dell’amministrazione, con portata lesiva per il privato. Come si può evincere, la tutela offerta dalla giurisdizione amministrativa coincide perfettamente con la tutela offerta dalla giurisdizione ordinaria: identici sono gli strumenti a disposizione del privato il quale, leso in un proprio diritto ovvero in un proprio interesse, potrà avvalersi dei medesimi rimedi84. Ciò dimostra quanto in precedenza affermato, vale a dire che le differenze tra diritti soggettivi e interessi legittimi non si rinvengono nell’effettività della protezione accordata dall’ordinamento. Per completezza, deve rilevarsi che il portatore dell’interesse legittimo ha a disposizione altre forme di tutela oltre a quella giurisdizionale, potendo il medesimo avvalersi altresì dei ricorsi amministrativi nonché di tutti gli strumenti riconosciutigli dalla L. n.241/90 per la partecipazione al procedimento. Tuttavia, non deve dimenticarsi che mentre il diritto soggettivo trova sempre soddisfazione piena, l’interesse legittimo resta soggetto al potere amministrativo85. Per quanto riguarda poi specificatamente gli interessi collettivi, l’ordinamento appresta alcuni strumenti ad hoc. Innanzitutto, l’azione inibitoria prevista dall’art.140 del Codice del Consumo. Essa ha carattere cautelare e mira a far cessare la condotta illecita in essere nonché ad impedirne la reiterazione in futuro86. Tale azione è quindi riconosciuta alle associazioni di consumatori e di utenti, le quali possono citare in giudizio le imprese che, 84. Le particolarità risiedono nei termini previsti per le singole azioni nonché nell’iter procedimentale previsto dai diversi codici di rito. 85. Differenza tra tutela immediata per il diritto soggettivo e tutela mediata per l’interesse legittimo. 86. Peraltro, il comma 7 della citata norma prevede altresì il pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo. Secondo parte della dottrina, si tratterebbe della prima forma di astreintes prevista dal nostro ordinamento, quale misura coercitiva di esecuzione forzata indiretta .

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ad esempio, inseriscano nei propri contratti delle clausole abusive. Al giudice viene quindi chiesto di accertare l’abusività di tal tipo di clausole e inibirne l’uso. Il successivo art.140 bis prevede l’azione di classe di tipo risarcitorio, posta a tutela dei diritti di una pluralità di consumatori che si trovino in situazioni omogenee a fronte di comportamenti scorretti posti in essere da un’impresa87. A questa si affianca la cosiddetta classaction pubblica, vale a dire l’azione contro le inefficienze della pubblica amministrazione, che ha lo scopo di ripristinare il corretto svolgimento della funzione amministrativa88. L’azione è sempre riservata ad una pluralità di utenti e consumatori, portatori di interessi omogenei, lesi dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte dei servizi ovvero dalla violazione degli standards qualitativi ed economici stabiliti dalle Autorità preposte al controllo dei diversi settori in cui operano le pubbliche amministrazioni e i concessionari di pubblici servizi89. Per lungo tempo, in realtà, si è negata tutela giurisdizionale a tali interessi, in quanto la tesi tradizionale riteneva che l’interesse a ricorrere fosse unicamente individuale e personale. Tuttavia, con la soggettivizzazione di cui si è ampiamente detto in precedenza, l’interesse collettivo si differenzia e pertanto può essere agito. Ma quali sono i soggetti a ciò deputati? La dottrina ha nel tempo elaborato diversi criteri. A partire dal criterio del collegamento territoriale, per cui la legittimazione processuale veniva riconosciuta agli enti con sede nel territorio di operatività del provvedimento, si è passati al criterio della rappresentatività, per cui veniva indagato se l’ente era effettivamente rappresentativo di quel determinato interesse. 87. E’ possibile per il singolo consumatore intervenire in un’azione di classe già intrapresa; resta comunque ferma la facoltà di agire a livello individuale. 88. Introdotta dal D. Lgs n.198/09, quale strumento ulteriore rispetto a quelli accordati dal codice del processo, per sollecitare la p.a. rimasta inerte, ad emanare atti amministrativi generali obbligatori nei termini prefissati. 89. Nell’ipotesi in cui si agisca nei confronti dei concessionari di pubblici servizi, astrattamente può affiancarsi l’azione di classe di cui al D. Lgs n.198/09 con l’azione di classe risarcitoria prevista dal Codice del Consumo. INDICE

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Tuttavia, il criterio che poi si è affermato è quello della partecipazione procedimentale, per cui la legittimazione processuale andrebbe riconosciuta a tutti quegli enti che sono legittimati a partecipare al procedimento90. E’ tuttavia opportuno evidenziare che la partecipazione procedimentale e la legittimazione processuale non coincidono perfettamente nelle loro funzioni. La prima spetta a quei soggetti che hanno interesse a partecipare alla formazione del procedimento anche al solo fine di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa. Diversamente, la legittimazione processuale richiede che il soggetto sia stato inciso dal provvedimento nella propria sfera giuridica; per cui, in relazione agli interessi collettivi, legittimati processuali sono quegli enti che non hanno solo un interesse squisitamente partecipativo, bensì che sono legittimati a partecipare in forza di un interesse difensivo, in quanto destinati ad essere incisi dal provvedimento emanando. Trattandosi di interessi legittimi, anche per gli interessi diffusi può farsi inoltre ricorso alla tutela giustiziale nonché agli strumenti di partecipazione al procedimento91 che l’art.9 della L. n.241/90 estende appunto anche ai portatori di interessi collettivi92. Concludendo, si ritiene utile evidenziare in questa sede alcune ricadute sul piano processuale della nuova visione dell’interesse legittimo quale interesse sostanziale ad un bene della vita. A livello normativo si può richiamare l’art.123 c.p.a., il quale, ancorché dettato nello specifico settore degli appalti e a questo limitato, prevede che il giudice adotti misure alternative alla dichiarazione d’inefficacia del contratto in presenza di gravi violazioni della procedura. Inoltre, la giurisprudenza riconosce la possibilità per il giudice 90. Tale tesi si è ulteriormente rafforzata con l’art.9 della L. n.241/90, nonché con l’art.4 del D.P.R. n.184/2006. 91. La legittimazione partecipativa dei portatori di interessi collettivi è stata sancita dall’art.8 del D.Lgs. n.267/2000. 92. Il dato normativo parla di interessi diffusi, ma la norma deve intendersi riferita agli interessi collettivi, vale a dire soggettivizzati e organizzati.

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amministrativo di modulare gli effetti della sentenza di annullamento, a seconda delle esigenze del caso concreto93. E ancora,la giurisprudenza sostiene oggi il carattere eccezionale dell’assorbimento dei motivi, per cui la regola è che tutti i motivi di ricorso devono essere indagati e vagliati dal giudice adito. Tali previsioni, normative e giurisprudenziali, sono tutte conseguenze del nuovo volto dell’interesse legittimo e verranno meglio approfondite nel capitolo dedicato alla giurisdizione. Sul punto si richiama una recente pronuncia delle Sezioni Unite per cui «sono ormai tramontate le precedenti ricostruzioni della figura dell’interesse legittimo e della giurisdizione amministrativa, che il primo configuravano come situazione funzionale a rendere possibile l’intervento degli organi di giustizia amministrativa, e della seconda predicavano la natura di giurisdizione di tipo oggettivo, e dunque mezzo direttamente volto a rendere possibile, attraverso una nuova determinazione amministrativa, il ripristino della legalità violata e solo indirettamente a realizzare l’interesse del privato»94. 2.6 La risarcibilità degli interessi legittimi Per completezza, si ritiene opportuno in questa sede affrontare sinteticamente il percorso giurisprudenziale che ha condotto a riconoscere il diritto al risarcimento a fronte della lesione di un interesse legittimo. Il sistema così come delineato nei paragrafi precedenti è invero il frutto di un’evoluzione molto profonda95. Tradizionalmente, la pubblica amministrazione era chiamata a 93. Il riferimento è alla logica dell’annullamento elastico o a geometrie variabili. 94. Cass. civ., sez. un., 23 dicembre 2008, n.30254. Il cambiamento si è avuto a partire dalla già citata sentenza delle Sezioni Unite n.500/99 per cui l’interesse legittimo è la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita oggetto di un provvedimento amministrativo e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene. 95. Nel dettaglio, l’argomento sarà ripreso nel capitolo dedicato alla responsabilità della pubblica amministrazione.

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rispondere solo in caso di comportamenti materiali violativi del principio generale del neminem laedere di cui all’art.2043 c.c.. Al contrario, nessuna responsabilità veniva ravvisata in caso di esercizio illegittimo dell’attività amministrativa, in relazione alla quale si è sostenuta per lungo tempo, una presunzione assoluta di legittimità96. Tale quadro derivava dalla lettura dell’art.2043 c.c. per cui il danno ingiusto era inteso esclusivamente il danno arrecato al diritto soggettivo perfetto. Il cambiamento è passato attraverso una riforma per così dire passiva: non vi è stata invero alcuna modifica legislativa, bensì un mutamento dell’interpretazione del dato normativo da parte dalla giurisprudenza97. Nel tempo si è assistito ad un graduale ampliamento del novero delle fattispecie risarcibili. Si trattava di situazioni che non avevano la consistenza del diritto soggettivo, ma che progressivamente la giurisprudenza riconduceva a tale categoria, per continuare a tenere fede allo storico dogma della irrisarcibilità dell’interesse legittimo98. Tuttavia, attraverso le perplessità sollevate dalla Corte Costituzionale prima, nonché sulla scia delle istanze comunitarie poi, la Corte di Cassazione è giunta ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art.2043 c.c.. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che tale norma contiene una clausola generale, espressa nel concetto di danno ingiusto e che ritenere ingiusto solo il danno derivante dalla lesione di un diritto soggettivo, sarebbe restrittivo e non rispondente al tenore della disposizione. 96. In tal senso, la pubblica amministrazione godeva di un privilegio rispetto agli altri soggetti dell’ordinamento giuridico. 97. Corretto è comunque richiamare il contestuale intervento legislativo che ha riconosciuto al giudice amministrativo il potere di disporre il risarcimento del danno. 98. Il riferimento principale è ai diritti cosiddetti affievoliti, per cui veniva riconosciuto il risarcimento di un interesse in qualità di diritto affievolito dal provvedimento amministrativo e destinato a riespandersi a diritto a seguito dell’annullamento del provvedimento illegittimo.

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In altre parole, anche la lesione di un interesse legittimo, qualora sussistano tutti gli elementi di cui all’art.2043 c.c., deve ritenersi meritevole di risarcimento. Pertanto, l’azione risarcitoria è fondata altresì nelle ipotesi di lesione, da parte dell’attività illegittima della pubblica amministrazione, del bene della vita cui l’interesse legittimo del privato si correla99. Questo approdo della giurisprudenza ha permesso quindi di giungere ad un sistema giurisdizionale degno di uno Stato moderno, come quello oggi previsto dal codice del processo amministrativo.

99. Roberto Chieppa e Roberto Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Giuffré, Milano 2012.

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CAPITOLO III I SOGGETTI PUBBLICI Sommario: 3.1 Gli enti pubblici. - 3.2 L’organismo di diritto pubblico. – 3.3L’impresa pubblica. – 3.4L’inhouseproviding. – 3.5Le Autorità amministrative indipendenti. – 3.6Il funzionario di fatto. 3.7 L’amministrazione a livello locale.

Accanto allo Stato vi sono altri soggetti che sono dotati di capacità giuridica pubblica e che perseguono fini di interesse pubblicistico100. La funzione amministrativa101 è quindi svolta da una pluralità di soggetti che coesistono e che trovano riconoscimento già a livello costituzionale. Le norme di riferimento sono l’art.2 Cost., che tutela le formazioni sociali in cui si estrinseca la personalità del singolo; l’art.5 Cost. che riconosce e promuove le autonomie locali; l’art.114 Cost. che elenca gli enti territoriali, nonché l’art.118 Cost. sui principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. La pubblica amministrazione si organizza secondo due direttive. La prima è l’accentramento, per cui le decisioni spettano all’amministrazione centrale, vale a dire allo Stato; dall’altra, il decentramento, per cui alcune potestà decisionali vengono conferite alle amministrazioni periferiche102. Le due logiche non sono tra loro necessariamente contrapposte, potendo coesistere nel momento in cui ciascuna di esse ha un proprio ambito di operatività. 100. Si tratta dell’amministrazione in senso soggettivo, ossia l’insieme delle strutture che svolgono la funzione amministrativa. 101. La funzione amministrativa indica la modalità di esercizio del potere pubblicistico per realizzare i compiti pubblici. 102. Cfr. art.5 Cost. Per parte della dottrina, può parlarsi di decentramento in senso burocratico, per cui alcune competenze vengono trasferite dall’amministrazione centrale a quelle periferiche, ovvero autarchico, per cui alle amministrazioni decentrate viene affidata la vera e propria cura di interessi pubblici.

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Più correttamente, accentramento e decentramento non devono intendersi in modo rigido, nel senso che non operano mai in via esclusiva, ma si coordinano all’interno dei vari settori, in ragione degli interessi che vengono in rilievo103. L’organizzazione amministrativa è ispirata ai principi di cui all’art.97 Cost.: riserva di legge, imparzialità e buon andamento. In particolare, la riserva è relativa per cui viene lasciato spazio anche alle fonti secondarie, che possono intervenire nel rispetto dei principi fissati dalle fonti primarie104. Il principio di imparzialità comporta il divieto per la pubblica amministrazione di discriminare le posizioni dei soggetti che vengono coinvolti dalla sua azione, ponendosi in modo equidistante dagli stessi nel perseguimento del miglior interesse pubblico105. Infine, il principio del buon andamento si compone dei principi di economicità, che consiste nell’ottimizzazione dei risultati; di efficienza, per cui l’azione amministrativa deve essere idonea a raggiungere l’obiettivo cui è preposta e di efficacia, quale miglior rapporto tra risorse disponibili e obiettivi raggiunti. Il successivo art.98 Cost. contempla inoltre due modelli di amministrazione. Il primo modello si caratterizza per la sua dipendenza dalla politica ed è quello che si rinviene dal livello ministeriale sino al livello locale. Il secondo modello è invece indipendente dalla politica ed è quello che caratterizza la posizione delle Autorità amministrative indipendenti, la cui legittimazione costituzionale viene infatti dai più rinvenutanel richiamato art.98 Cost.. Il novero dei soggetti pubblici si è nel tempo ampliato, attraverso il recepimento della giurisprudenza dell’Unione Europea, sviluppatasi principalmente in materia di appalti. 103. In altre parole, interviene l’amministrazione centrale laddove occorre unitarietà di disciplina; diversamente, opera l’amministrazione locale laddove occorra rispondere alle differenti esigenze delle singole realtà territoriali. Uno stesso settore può richiedere interventi sia dell’uno che dell’altro tipo. 104. Il riferimento è principalmente ai regolamenti di delegificazione. 105. L’imparzialità si distingue dalla neutralità che caratterizza le Autorità amministrative indipendenti, oggetto di trattazione nel prosieguo del presente capitolo.

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Invero, mentre tradizionalmente dottrina e giurisprudenza sostenevano la concezione formalistica della pubblica amministrazione, per cui tale è il soggetto pubblico istituito per legge che svolge attività pubblica, oggi la visione è al contrario di tipo sostanziale106. Più precisamente, ai fini della qualificazione di un soggetto quale pubblica amministrazione non deve guardarsi tanto alla sua natura o alla forma giuridica, quanto alla funzione che svolge, se preordinata o meno al perseguimento dell’interesse pubblico107. Tale nuova visione comporta necessariamente il moltiplicarsi dei soggetti che possono essere considerati pubbliche amministrazioni; infatti, il nostro ordinamento oggi riconosce nuovi soggetti pubblici, proprio di derivazione comunitaria. 3.1 Gli enti pubblici Sono i soggetti diversi dallo Stato che esercitano la funzione amministrativa a livello decentrato e costituiscono nel loro complesso la cosiddetta amministrazione indiretta108. i tratta di una categoria complessa, che racchiude una molteplicità di figure non riconducibili ad uno schema unitario. Gli elementi comuni individuabili sono la capacità giuridica e la titolarità di poteri amministrativi. Tuttavia non sempre è facile individuare l’ente pubblico, considerando altresì che la legge alle volte non qualifica espressamente un soggetto come ente pubblico, pur essendo tale. Il principale riferimento normativo è la cosiddetta Legge sul Parastato n.70/1975, che disciplina gli enti ausiliari allo Stato, stabilendo innanzitutto che nessun ente pubblico può essere costituito in assenza di una previsione legislativa. Tale requisito non è però sufficiente per individuare l’ente pub106. Si pensi all’organismo di diritto pubblico, all’impresa pubblica a all’inhouse e, più in generale, alla tendenza europea di qualificare soggetti come pubblici a certi fini e non ad altri, proprio perché l’attenzione è posta sulle funzioni concretamente esercitate. 107. Basti pensare ai privati che esercitano pubbliche funzioni e che sono assoggettati così alle regole che governano l’attività della pubblica amministrazione. 108. Così chiamata in quanto gli effetti sono imputati allo Stato centrale.

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blico; ad esso si affiancano altri elementi individuati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, quali l’assoggettamento ad un sistema di controlli pubblici, l’ingerenza dello Stato o altra pubblica amministrazione nella nomina e nella revoca dei dirigenti ovvero nelle scelte direttive, nonché la partecipazione dello Stato alle spese di gestione dell’ente. Secondo la dottrina, tali elementi permetterebbero di attribuire natura pubblicistica all’ente. Oggi l’ente pubblico è tuttavia una figura recessiva: il fenomeno della privatizzazione ha progressivamente orientato l’amministrazione verso modelli privatistici, in quanto in grado di perseguire il fine pubblicistico in ossequio ai principi di economicità ed efficienza, in modo più adeguato109. Si pensi al sempre maggiore utilizzo, specie nell’ambito dei servizi pubblici, di società per azioni in sostituzione delle precedenti aziende autonome e degli ormai superati enti pubblici economici110. Più precisamente, la linea direttiva è stata duplice: da un lato, per le funzioni che potevano essere attribuite a soggetti privati, si è proceduto direttamente alla trasformazione dell’ente pubblico in ente pubblico economico e, successivamente, in società per azioni. Dall’altro lato, le funzioni da mantenere in ambito pubblicistico sono rimaste affidate agli enti pubblici, dei quali si è operato successivamente un riordino, mediante fusioni, soppressioni e privatizzazioni111. Gli interventi legislativi negli ultimi anni sono stati molteplici e hanno portato avanti una riforma in atto già da tempo. 109. Tale fenomeno è espressione del principio di sussidiarietà orizzontale, per cui, in determinati settori, il perseguimento dell’interesse collettivo viene affidato al privato che è nelle condizioni di conseguire un maggiore profitto rispetto al soggetto pubblico. 110. Enti che svolgono attività economica in via esclusiva o prevalente in regime di concorrenza; sono costituiti dallo Stato o altro soggetto pubblico, ma operano come imprenditori e quindi, in relazione ai rapporti con il soggetto pubblico, sono assoggettati alle norme pubblicistiche; mentre all’attività imprenditoriale si applicano le norme di diritto privato. 111. Il cambiamento è stato frutto di una pluralità di interventi legislativi a partire dagli anni Novanta (cfr. Legge Bassanini n.59/1997). Dapprima si sono soppressi gli enti inutili per poi provvedere al riordino dei restanti, dei quali sono stati revisionati gli statuti ed è stata modificata la struttura, tipicamente mediante la loro privatizzazione.

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A partire dalla L. n.133/2008 che ha disposto la soppressione di ulteriori enti, rispetto a quelli già soppressi in precedenza, le cui funzioni sono state attribuite all’amministrazione vigilante ovvero all’amministrazione maggiormente competente112. Successivamente sono intervenute la L. n.122/2010, la L. n.214/2011 (cosiddetta manovra Salva Italia) nonché la L. n.135/2012 (cosiddetta Spending Review), con cui il Legislatore ha operato ulteriori tagli, nell’ottica della razionalizzazione dell’attività pubblicistica e della revisione della spesa pubblica, la cui ingenza può essere in parte imputata alla presenza di numerosi enti pubblici non necessari. Come anticipato, oggi l’ente pubblico opera, in via pressoché esclusiva, mediante la forma societaria. La privatizzazione dell’ente pubblico ha conosciuto due fasi: la prima chiamata di privatizzazione fredda o formale, consistente nella modifica della forma giuridica dell’ente; la seconda fase, detta di privatizzazione calda o sostanziale, che ha posto l’ente sul mercato, con la messa in vendita delle quote pubbliche113. Prescindendo dalla veste formale, l’attenzione è posta sulla funzione sostanzialmente svolta dall’ente; pertanto, laddove l’ente eserciti un pubblico potere, può essere sottoposto al controllo pubblico ancorché si tratti di una società per azioni. La privatizzazione è il fenomeno attraverso il quale si è passati da uno Stato interventore ad uno Stato regolatore dell’economia, vale a dire da uno Stato imprenditore con un ruolo diretto nel mercato del Paese, al pari di un imprenditore privato, ad uno Stato che vigila e controlla sul corretto funzionamento dell’economia. Tale fenomeno è segno della riconosciuta neutralità della forma societaria, la quale ben può essere utilizzata altresì per il perseguimento dell’interesse pubblicistico e per lo svolgimento di attività a vantaggio dell’intera collettività.

112. L’amministrazione subentra così a titolo universale in ogni rapporto di cui era titolare l’ente soppresso. 113. Il processo di privatizzazione è stato inciso altresì dalle istanze comunitarie, quale applicazione del divieto di discriminazione tra gli operatori economici.

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3.2

L’organismo di diritto pubblico

La prima figura di derivazione comunitaria che ha trovato ingresso nel nostro ordinamento è l’organismo di diritto pubblico. Nasce in via giurisprudenziale e trova una propria disciplina nazionale a partire dal d.lgs. n.163/2006114, con integrale recepimento della normativa europea in materia di appalti, che annovera tale soggetto tra le amministrazioni aggiudicatrici assieme allo Stato e agli altri enti pubblici territoriali. Il diritto europeo individua tre caratteristiche dell’organismo di diritto pubblico, che devono sussistere cumulativamente: il possesso della personalità giuridica (requisito personalistico), il perseguimento di un fine di interesse generale non avente carattere industriale o commerciale (requisito teleologico) e l’assoggettamento all’influenza pubblica115. In particolare, tale ultimo elemento può integrarsi in diversi modi. La sottoposizione all’influenza pubblica può infatti aversi in quanto lo Stato o altro soggetto pubblico finanzia in via maggioritaria l’attività dell’organismo116, ovvero in quanto essi ne controllano la gestione117 o costituiscono più della metà dei membri degli 114. Art.3, comma 26 del d.lgs n.163/2006, oggi abrogato e sostituito dal nuovo d.lgs. n.50/2016. 115. Cfr.C.d.S., sez. V, 30 gennaio 2013, n.570, per cui costituiscono organismi di diritto pubblico «gli enti aventi personalità giuridica, posti sotto l’influenza dominante dello Stato, degli enti locali o di altri organismi di diritto pubblico, e la cui attività sia diretta al soddisfacimento di bisogni generali, purché non suscettibili di essere soddisfatti mediante la produzione di beni ovvero fornendo direttamente servizi in un regime di concorrenza con altri operatori commerciali». 116. Da intendersi come più della metà dei finanziamenti totali. 117. Cfr. Cass. Civ., sez. un., 12 aprile 2005, n.9940, secondo cui «allorché l’organismo di diritto pubblico abbia la veste di società per azioni, la nozione di controllo deve essere ricavata dall’art. 2359 c.c.». Cons. St., sez. V, 22 agosto 2003, n. 4748 afferma che «il controllo che secondo il diritto comunitario consente di individuare una dominanza pubblica sull’organismo che ne è soggetto non consiste esclusivamente in un controllo di tipo amministrativo esercitabile dagli enti pubblici sull’organizzazione e sulla gestione dell’attività di una società, ma anche in quello conseguente all’acquisizione del pacchetto di maggioranza della società stessa o, comunque, della quota di capitale sociale idonea in concreto ad assicurarne il controllo».

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organi di amministrazione, di vigilanza o di direzione118. Invero, autorevole dottrina afferma che l’intento europeo non è stato quello di creare un nuovo soggetto pubblico tout court, quanto di evitare che alcuni soggetti che operano nello spazio economico comune, possano sottrarsi all’applicazione del diritto comunitario119. Infatti, all’organismo di diritto pubblico sono applicate le regole dell’evidenza pubblica in materia di appalti, in quanto, in questo specifico settore, esso è equiparato alle pubbliche amministrazioni. Per le ulteriori e diverse attività svolte dall’organismo, invece, trovano applicazione le regole del codice civile, poiché si tratta di soggetto formalmente privato. Come anticipato, è stata ampiamente superata la teoria per cui un soggetto formalmente privato non possa occuparsi dell’interesse pubblico. Al contrario, la veste giuridica non rappresenta alcun limite, nel senso che la forma societaria non impedisce di qualificare un soggetto come organismo di diritto pubblico120. Il requisito teleologico, che esclude il perseguimento di un interesse di carattere commerciale e industriale, comporta che l’organismo di diritto pubblico non può produrre beni o offrire servizi nel mercato, in regime di concorrenza con altri operatori, e questo è l’elemento che distingue il soggetto dequo dalla società pubblica. Invero, la giurisprudenza sostiene che se si rileva un contesto concorrenziale, questo è indice che con alta probabilità non ci si trova di fronte ad un organismo di diritto pubblico. Tuttavia, non vi è automatismo, per cui il giudice è chiamato a valutare caso per caso, considerando altresì che, accanto all’attività 118. Caratteristiche riconosciute e recepite anche dalla giurisprudenza nazionale. 119. Ciò si giustifica in quanto in questo settore non operano le normali regole della concorrenza. 120. Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 1 agosto 2011 n. 16 secondo la quale «la procedura di affidamento ha in sé natura neutra, e si connota solo in virtù della natura del soggetto che la pone in essere, essendo indispensabile, sia per la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, sia per l’applicazione del diritto pubblico degli appalti, che il soggetto procedente sia obbligato al rispetto delle procedure di evidenza pubblica, in base al diritto comunitario o interno».

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pubblicistica, l’organismo può svolgere altresì attività privatistiche, in regime di concorrenza. Si tratta del cosiddetto organismo di diritto pubblico in parte qua. La tesi tradizionale era quella del contagio, per cui, in caso di doppia attività, il soggetto sarebbe stato comunque integralmente assoggettato al diritto comunitario121. Recentemente, invece, la giurisprudenza ha cambiato orientamento, ritenendo che sia possibile scindere le attività e, laddove l’organismo si muova in un contesto concorrenziale, non vi sarebbe l’utilità di applicare le regole dell’evidenza pubblica122. 3.3

L’impresa pubblica

L’impresa pubblica è un altro istituto di derivazione comunitaria, espressione della visione sostanzialistica del soggetto pubblico123. Precisamente, è all’interno della categoria delle imprese pubbliche che emerge con chiarezza la tendenza europea ad elaborare definizioni di soggetto pubblico non unitarie, ma funzionali agli obiettivi perseguiti di volta in volta. L’impresa pubblica è un soggetto che opera all’interno del mercato concorrenziale, al pari di qualsiasi altro operatore economico, ma nei confronti del quale lo Stato o altro ente pubblico esercita un’influenza dominante. L’impresa pubblica svolge quindi un’attività economica, assumendo il relativo rischio d’impresa e perseguendo fini di lucro. Tuttavia, le imprese pubbliche sono di proprietà ovvero parte121. Cfr. C. Giust. Mannesmann 1998, secondo cui l’organismo è sempre assoggettato al diritto comunitario, in quanto la Direttiva appalti non opera alcuna distinzione e l’applicazione della normativa comunitaria deve essere certa. 122. Tale nuova interpretazione ha conseguenze rilevanti sul riparto di giurisdizione, per cui il giudice amministrativo opererà solo nelle ipotesi in cui il soggetto sia per legge tenuto alla gara pubblica. Quindi, nel caso in cui il privato opti comunque per lo svolgimento della gara pubblica, competente sarà il giudice ordinario. 123. Cfr. art.3, comma 26 del d. lgs. n.163/2006, ora abrogato, che annoverava le imprese pubbliche tra gli enti aggiudicatori.

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cipate da soggetti pubblici che ne determinano le scelte. Invero, l’influenza dominante viene presunta qualora il soggetto pubblico detenga la maggioranza del capitale ovvero il controllo della maggioranza dei voti o, ancora, il diritto di nominare la maggioranza dei componenti degli organi di direzione e vigilanza. Tale ultimo elemento differenzia l’impresa pubblica dall’organismo di diritto pubblico. Invero, diversa è la sottoposizione dell’organismo all’influenza pubblica, che integra un elemento indefettibile del soggetto. Diversamente, nell’impresa, l’influenza pubblica dipende dalla compagine sociale della stessa che – si ricorda – opera al pari di un imprenditore privato e, pertanto, resta nella sostanza soggetta alle norme civilistiche. L’impresa pubblica perciò non gode di alcun privilegio rispetto all’impresa privata; invero, soggetti che godono di privilegi non possono operare nel mercato concorrenziale, in forza del divieto di discriminazione e del principio di parità. All’impresa pubblica vengono applicate solo alcune disposizioni pubblicistiche. Innanzitutto, la disciplina relativa al danno erariale: nell’impresa deve infatti essere distinto il patrimonio del socio pubblico da quello dei privati. Nel caso di danno al primo, vi è lesione del diritto all’immagine della parte pubblica partecipante e la relativa giurisdizione spetta alla Corte dei Conti. Inoltre, l’impresa pubblica è soggetta alla procedura ad evidenza pubblica per la stipulazione di contratti, l’assunzione di personale, nonché per lo svolgimento di appalti. Più precisamente, nel caso di appalto, la procedura pubblicistica si rende obbligatoria solo se l’impresa pubblica è anche organismo di diritto pubblico oppure se opera nell’ambito di settori speciali, in cui le regole della concorrenza sono alterate in ragione di particolari interessi che vengono in rilievo. In altre parole, se l’impresa presenta le caratteristiche dell’organismo pubblico ovvero se opera in settori cosiddetti sensibili, in cui ad esempio vi sono situazioni di monopolio, la legge stabilisce la

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necessità di svolgere la gara124. Al di fuori di queste ipotesi, qualora l’impresa intenda stipulare un appalto, non è richiesto lo svolgimento della procedura di gara pubblica, in quanto operano già le normali regole concorrenziali, essendo l’impresa pubblica equiparata in toto a quella privata. L’impresa pubblica può organizzarsi in forma di ente pubblico economico – figura tuttavia del tutto superata – ovvero di azienda speciale o di società pubblica (chiamata anche società in mano pubblica), che costituisce la forma oggi di fatto esclusiva. La società pubblica, a sua volta può essere interamente di proprietà pubblica ovvero partecipata da soggetti pubblici e privati, integrando una società mista, espressione del cosiddetto partenariato pubblico-privato125. Precisamente, il socio privato viene scelto mediante gara cosiddetta a doppio oggetto, in quanto con la medesima procedura viene altresì affidato il servizio o l’attività da gestire126. L’utilizzo della forma societaria avvicina l’impresa pubblica all’organismo di diritto pubblico. Come detto, però, solo l’impresa pubblica svolge attività economica perseguendo uno scopo di lucro127 e solo per l’organismo di diritto pubblico, l’influenza dominante è un elemento costitutivo, potendo l’impresa essere diversamente strutturata128. Per tali ragioni si comprende che la nozione di organismo di 124. I settori sensibili, definiti altresì speciali, sono per la maggior parte riconducibili alla categoria dei servizi pubblici, volti al soddisfacimento di interessi collettivi e, dunque, generalmente il regime è di monopolio ovvero di concessione a privati mediante il riconoscimento di diritti esclusivi. 125. Per approfondimenti sul fenomeno del partenariato, si veda Cap. VIII. 126. Cfr. Ad. Plen. n.1/2008. 127. Tuttavia, la Cortedi Giustizia ha affermato che un ente deve essere qualificato come rivestente la qualità di organismo di diritto pubblico quando, pur perseguendo uno scopo di lucro, operi in un contesto monopolistico ovvero nell’ambito di una propria missione di servizio universale ovvero quando appaia poco probabile che debba sopportare i rischi economici collegati alla sua attività. 128. Dipende infatti dalla misura con cui il socio pubblico vi partecipa; la legge non stabilisce alcuna soglia minima o massima di partecipazione pubblica, per cui potrebbe anche non integrarsi una posizione di dominanza del socio pubblico.

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diritto pubblico è più ristretta rispetto a quella di impresa pubblica. In materia di società pubbliche è recentemente intervenuto il d.lgs. n.175/2016 chesi inserisce nel più ampio progetto legislativo di riorganizzazione della pubblica amministrazione. Tale riforma introduce per la prima volta alcune definizioni, tra le quali quelle di società a controllo pubblico e a partecipazione pubblica; tuttavia, come specificato dalla normativa, si tratta di espressioni delineate ai soli finidel decreto129. Inoltre, vengono chiariti i rapporti tra le fonti pubblicistiche e le fonti privatistiche, che hanno spesso sollevato dibattiti e perplessità in seno alla dottrina e alla giurisprudenza. Infatti, il testo dispone che «per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato»130. A tale normativa è stata data applicazione con il d.lgs. n.100 del 16 giugno 2017, divenuto efficace il successivo 27 giugno e che specifica che le pubbliche amministrazioni possono partecipare solo a società costituite nella forma di società per azioni o società a responsabilità limitata, ancorché in forma cooperativa131. 3.4

L’in house providing

Si parla diaffidamento in house quando la pubblica amministrazione affida un’attività pubblicistica ad un soggetto sottoposto al suo penetrante controllo132. Infatti, l’in house rappresenta il fenomeno opposto all’esternaliz-

129. Cfr. art.2 d.lgs. n.175/2016, secondo cui «Ai fini del presente decreto si intendono per: […] m) «società a controllo pubblico»: le società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi della lettera b); n) «società a partecipazione pubblica»: le società a controllo pubblico, nonché le altre società partecipate direttamente da amministrazioni pubbliche o da società a controllo pubblico […]». 130. Cfr. art.1 d.lgs. n.175/2016. 131. Sono escluse dalla normativa in esame le società quotate. 132. Può trattarsi, ad esempio, di reperimento o gestione di beni o erogazione di servizi.

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zazione133, con cui l’amministrazione ricorre al mercato esterno, in quanto il soggetto affidatario è in questo caso un ente strumentale, distinto dall’amministrazione affidante solo sul piano formale134. E’ figura che nasce sul finire degli anni Novanta in seno alla giurisprudenza e che integra un vero e proprio modello organizzatorio135. Tuttavia, nel nostro ordinamento già esisteva una figura simile: l’azienda autonoma, vale a dire una struttura dotata di mezzi e risorse propri dell’amministrazione di appartenenza. Infatti, come detto, il soggetto in house si distingue dalla pubblica amministrazione affidante solo sul piano formale; mentre, dal punto di vista sostanziale, è un tutt’uno con la stessa. Si parla invero di delegazione interorganica, per cui non viene svolta una gara cui possono partecipare tutti gli interessati e ciò ha comportato inizialmente frizioni con i principi unionali di concorrenza e libertà di iniziativa economica136. In realtà, è proprio la mancanza di alterità tra affidante e affidatario che giustifica il mancato ricorso alla procedura ad evidenza pubblica. I requisiti dell’in house sono stati per la prima volta individuati dalla sentenza Teckal della Corte di Giustizia che individua la partecipazione pubblica, il cosiddetto controllo analogo137 e lo 133. Tipicamente, appalto e concessione. 134. In questo senso, l’in house è fenomeno inverso rispetto ai contratti di appalto o concessione. 135. Sulla natura dell’in house si sono contrapposte due tesi: la tesi della eccezionalità, che richiama il principio di legalità; l’art. 125 d.lgs. n.163/2006 (ora abrogato) che consentiva di acquistare beni e servizi in economia mediante amministrazione diretta solo entro 50.000,00 euro; l’art. 45, comma 1, ex Codice dei Contratti, che prevedeva il contratto come forma esclusiva di realizzazione dei lavori pubblici. La seconda tesi della possibilità (preferita in ambito comunitario), secondo cui l’in house è un principio generale di auto organizzazione: non c’è violazione del principio di legalità perché si trasferiscono solo compiti esecutivi. 136. Contrapposto è il rapporto intersoggettivo che si instaura tra i contraenti in caso di esternalizzazione. 137. Si veda la definizione contenuta nel recente d.lgs. n.175/2016: «società in house»: le società sulle quali un’amministrazione esercita il controllo analogo o più amministrazioni esercitano il controllo analogo congiunto».

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svolgimento dell’attività prevalente in favore dell’amministrazione affidante.138 Il controllo è da intendersi analogo a quello che la pubblica amministrazione esercita sui suoi uffici, tale per cui non deve residuare alcun margine di scelta, né di tipo imprenditoriale né di tipo decisionale, in capo al soggetto affidatario139. Il controllo de quo è molto più pregnante rispetto al controllo societario ex art. 2359 c.c.. Inoltre, il controllo analogo nell’in house differisce altresì dall’influenza pubblica dominante tipica dell’organismo di diritto pubblico. Le esigenze sono invero opposte: mentre l’organismo nasce per individuare i soggetti che devono osservare la disciplina pubblicistica, l’affidamento in house è modello che giustifica l’esonero dalla gara pubblica. Nell’in house il controllo analogo è elemento strumentale, mentre non è un elemento richiesto per l’organismo pubblico. Per quanto riguarda l’attività, occorre distinguere tra attività svolte nei confronti dell’ente controllante, ossia attività strumentali al soddisfacimento dei bisogni dell’ente e volte a reperire i mezzi necessari affinché l’ente stesso possa svolgere le sue funzioni, e attività svolte per conto dell’ente controllante. In questo secondo caso, l’affidatario svolge direttamente l’attività dell’ente cui appartiene, rivolgendosi in prima persona agli utenti finali. L’attività può dirsi prevalente quando il principale destinatario della stessa sia l’amministrazione controllante140. La giurisprudenza aveva già individuato la percentuale dell’80% dell’attività quale spartiacque che permetterebbe di distinguere la 138. Cfr. Corte di Giustizia del 18 novembre 1999, C. 107-98. 139. L’affidatario è invero longa manus dell’affidante. Secondo la Direttiva UE n.2014/24 recepita con d.lgs. n.50/2016, ai fini del controllo analogo, il concetto di ente pubblico deve essere inteso in senso restrittivo, non rientrandovi qualsiasi soggetto che operi mediante capitali privati. 140. Se l’ente è controllato da più pubbliche amministrazioni, l’attività prevalente dovrà essere valutata complessivamente.

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figura dell’in house dalla società pubblica141. Tale soglia quantitativa è stata normativizzata con il recente d. lgs. n.50/2016 di recepimento delle ultime direttive europee in materia di appalti, quale misura che consente di qualificare l’attività come prevalente142. Tale intervento legislativo ha delineato la prima disciplina dettagliata del fenomeno dell’in house, prevedendone diverse tipologie (a stella, invertito, a cascata e frazionato) e distinguendolo dalla società pubblica. Fra gli elementi di novità spicca la possibilità della partecipazione privatistica al capitale dell’in house, sempreché ciò non si traduca nell’esercizio diun’influenza dominante sul soggetto pubblico. Peraltro, oggi è possibile limitare il ricorso all’in house per evitare che sia strumento di elusione della gara pubblica e, quindi, tutelare la concorrenza143. Tuttavia, occorre bilanciare le esigenze, in quanto non deve frustrarsi l’autonomia organizzativa delle pubbliche amministrazioni, espressione del principio di sussidiarietà verticale. 3.5

Le Autorità amministrative indipendenti

Si tratta di soggetti che nascono e si sviluppano con il passaggio da uno Stato imprenditore ad uno Stato controllore. Le Autorità amministrative indipendenti rappresentano invero lo strumento principale con cui si realizza la regolazione del mercato, vale a dire quell’attività di controllo volta a prevenire i rischi mediante l’indicazione di regole di comportamento e a sanzionare le condotte illegittime in quei settori in cui il Legislatore non ha gli

141. Analogamente al caso in cui venga meno la partecipazione pubblica totalitaria, per cui non si tratterebbe più di in house ma di società mista. 142. La violazione della soglia dell’80% costituisce grave irregolarità che può essere sanata mediante rinuncia alle attività ulteriori, pena la trasformazione genetica del soggetto in società mista. 143. Sull’evoluzione circa i limiti di utilizzo del modello in house, si veda

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strumenti per intervenire tempestivamente144. Si tratta di soggetti pubblici, costituiti per legge e posti a presidio di determinati settori in cui occorrono conoscenze (altamente) specifiche. Le origini di tali autorità sono statunitensi e, a tutt’oggi, manca una definizione normativa, per cui si è reso difficile individuare una disciplina ad hoc nonché una nozione unitaria. In effetti, è più corretto parlare di fenomeno delle Autorità indipendenti piuttosto che di soggetti tout court. La giurisprudenza amministrativa è venuta in aiuto, individuando alcuni caratteri tipici delle Autorità de quibus. Esse si caratterizzano per un’elevata autonomia dal potere pubblicistico e per un’alta competenza tecnica, necessaria nei settori cui sono deputate145. Per svolgere la propria attività di regolazione, le Autorithies godono di una serie di poteri, di tipo sanzionatorio, organizzativo e, in alcuni casi, regolamentare.146 Con il potere regolamentare, che rientra nel più generale potere di normazione, le Autorità determinano le modalità di espletamento della loro attività di regolazione e controllo. 144. E’ attività da inquadrare nell’ambito della funzione amministrativa, che realizza un bilanciamento di beni e interessi a garanzia della concorrenzialità nel mercato. 145. Cosiddetta funzione tutoria delle Autorithies. 146. La legge attribuisce inoltre alle AA.II. poteri ispettivi e di indagine, consistenti nella possibilità di chiedere notizie e informazioni ed esaminare atti; poteri di sollecitazione, raccomandazione e proposta (previsti per tutte le Autorithies) e poteri sanzionatori (previste per alcune: vd ad es. art.37 bis cod. cons. in relazione all’accertamento di clausole vessatorie); poteri decisori, quale facoltà di decidere su controversie rientranti nelle loro competenze (es. Autorità per Energia elettrice e gas che gestisce la procedura di conciliazione ed arbitrato); poteri amministrativi in senso proprio: rilascio di autorizzazioni. In tal senso, l’autorità è titolare di un potere pubblicistico, discrezionale o meno, cui si contrappone l’interesse legittimo oppositivo del privato; pertanto, è funzione marcatamente amm.va svolta però da questi organi indipendenti; (es. Antitrust che ha il potere di autorizzare intese vietate, per un periodo di tempo, se ciò comporta un miglioramento nelle condizioni di offerta a favore dei consumatori); potere arbitrale, contenzioso e semi-contenzioso, con funzione deflattiva, che comporta attività di accertamento di atti, fatti o comportamenti, secondo un procedimento para-giurisdizionale, in cui rilevano la neutralità e la terzietà (es. Antitrust che ha funzione contenziosa in relazione a reclami, istanze e segnalazioni di utenti; poteri ausiliari di moral suasion, per cui le AA.II. devono esprimere pareri e segnalazioni, nonché compilare rendicontazioni da trasmettere a Parlamento e Governo.

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Inizialmente si è discusso circa la legittimità di detto potere, in quanto non vi sarebbe alcuna previsione di legge che lo attribuisce e, inoltre, le Autorità non avrebbero alcun carattere rappresentativo che lo legittimerebbe. Tuttavia, l’asserito deficit di democraticità viene controbilanciato attraverso il riconoscimento al privato, da un lato, del diritto di partecipare al procedimento di formazione degli atti delle Autorità147 e, dall’altro lato, dalla tutela giurisdizionale che viene accordata in caso di atto lesivo o illegittimo148. In materia di atti delle Autorità, infatti, vi è piena applicazione delle norme di partecipazione contenute nella L. n.241/90, le quali costituiscono le garanzie minime che devono essere riconosciute al privato. Inoltre, la tutela giurisdizionale è affidata al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva149. L’indipendenza di tali soggetti si esprime mediante la neutralità che li caratterizza e che va oltre l’imparzialità, in quanto le Autorità sono svincolate anche dal potere politico e si pongono in posizione di indifferenza rispetto agli interessi coinvolti150. Le Autorithies godono altresì di autonomia, non solo sul piano organizzativo e organico ma, in alcuni casi, anche in senso finanziario e contabile, per cui esse possono disporre di entrate proprie. Tali elementi hanno inizialmente suscitato dei dubbi circa la legittimità costituzionale di questi soggetti. In realtà, l’art.97 Cost. riconosce e permette l’esistenza di un sistema amministrativo sganciato dal Governo; tale norma è infatti 147. Sulla natura degli atti delle Autorithies, si veda la parte dedicata all’attività discrezionale. 148. In particolare, il privato ha a disposizione il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, nonché il ricorso al giudice amministrativo che qui opera in sede di giurisdizione esclusiva; in alcuni casi specifici, è prevista una competenza funzionale del Tar Lazio e del Tar Lombardia. 149. Sulla natura del sindacato del giudice in materia di atti delle Autorithies, si veda il capitolo dedicato alla discrezionalità. 150. L’imparzialità è richiesta a tutte le pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art.97 Cost., e deve intendersi quale equidistanza dagli interessi coinvolti ed operante nei confronti dei soli cittadini.

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oggi considerata il principale fondamento giuridico del fenomeno in esame. Sulla natura delle Autorithies è stata ampiamente superata la tesi secondo cui si tratterebbe di organi para-giurisdizionali. Invero, il nostro ordinamento non conosce un soggetto terzo, che si pone a metà fra l’amministrazione e l’apparato giurisdizionale. Più correttamente, può parlarsi di autorità che svolgono compiti che potrebbero essere affidati alle amministrazioni; tuttavia, per le competenze specifiche che occorrono, si rende più opportuno affidarli a soggetti qualificati, che possiedono le competenze necessarie. La giurisprudenza maggioritaria riconosce quindi la natura amministrativa delle Autorità indipendenti, le quali tuttavia non svolgono l’attività tipica delle pubbliche amministrazioni, consistente nel contemperamento di interessi pubblici e privati. La dottrina distingue tra autorità di regolazione e vigilanza, autorità di garanzia, autorità di settore e autorità trasversali. In particolare, queste ultime non operano unicamente in specifici comparti ma, tutelando interessi pubblici di portata generale, intervengono in una pluralità di settori. E’ quindi intuibile il rischio di una commistione di competenze tra più Autorithies; si pensi, ad esempio, nel settore della concorrenza ai potenziali conflitti tra Antitrust e Garante per le comunicazioni in caso di illecito concorrenziale realizzato da un operatore di tal settore. 3.5.1 Le principali Autorità amministrative indipendenti Tra le Autorità amministrative oggi esistenti, meritano attenzione particolare le seguenti. Innanzitutto, la Consob (Commissione Nazionale per la Società e la Borsa), che costituisce la prima Autorità nata nel nostro ordinamento, con il compito di vigilare sul mercato finanziario, avvalendosi di poteri ispettivi e sanzionatori piuttosto rilevanti. Inoltre, l’IVASS (già ISVAP), Autorità del settore assicurativo, i

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cui compiti e le cui competenze sono stati recentemente riformati con la legge n. 124/2017 (Legge per il mercato e la concorrenza). Infine, altra Autorità di rilievo, considerata altresì la recente riforma del codice privacy, è il Garante per la protezione dei dati personali151. Tale organismo si occupa di vigilare il corretto trattamento dei dati della persona, avvalendosi di ampi poteri sanzionatori nei confronti dei nuovi soggetti responsabili del trattamento (cosiddetti D.P.O.), dei quali ogni realtà professionale deve dotarsi152. In ultimo, senza con ciò esaurire il novero delle Autorità oggi esistenti, vi è l’Antitrust, organismo posto a garanzia della concorrenza e del mercato, la cui normativa è stata incisa dalla sopra richiamata legge n. 124, in termini di rafforzamento e potenziamento dei poteri. 3.6

Il funzionario di fatto

Tale espressione viene utilizzata per indicare le ipotesi in cui l’atto di investitura del titolare della funzione manchi dall’origine o sia venuto meno, per cui non sussiste quel rapporto di immedesimazione organica che legittima il funzionario a manifestare validamente la volontà dell’amministrazione all’esterno153. Per tale ragione, la figura del funzionario di fatto si inserisce nel più ampio tema della competenza della pubblica amministrazione che, in queste ipotesi, agisce in assenza di potere154. Il funzionario di fatto è una figura giurisprudenziale che non trova una disciplina normativa e che nasce principalmente dall’esigenza di regimentare gli atti compiuti da un funzionario cui ab origine non era stato attribuito il potere ovvero il cui atto di investitura si riveli illegittimo. 151. Il riferimento è al decreto n. 101 del 10 agosto 2018 di approvazione del nuovo Regolamento privacy. 152. Si veda altresì il capitolo dedicato all’accesso agli atti, con riferimento al rapporto tra questo e il diritto alla riservatezza. 153. Sul rapporto di lavoro e la differenza tra rapporto organico e rapporto di servizio, si veda Cap. IV. Diverso è il rapporto di lavoro di fatto, al quale si applica l’art.2126 c.c.. 154. Il funzionario di fatto è ipotesi di vera e propria a competenza.

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Ciò in quanto, a fronte di un atto emanato da una pubblica amministrazione, si crea il cosiddetto legittimo affidamento del privato che, incolpevolmente, ha appunto confidato nella legittimità dell’atto155. Invero, deve considerarsi che generalmente il privato è all’oscuro dell’organizzazione dell’amministrazione e quindi non può sapere se, effettivamente, il funzionario con cui entra in relazione è organo della stessa156. Inoltre, anche il principio di continuità dell’azione amministrativa impone di evitare la vanificazione di atti comunque necessari e indifferibili per l’amministrazione. La funzione amministrativa, per sua natura, non ammette interruzioni, salvo che non si tratti di ipotesi di vera e propria usurpazione. In questi casi, infatti, la dottrina è ormai pacifica nel ritenere che, trattandosi di attività illecita sul piano penale, ad essa non possa ricondursi alcun effetto. In particolare, l’usurpatore agisce per un fine egoistico; mentre il funzionario di fatto, pur sapendo di agire senza averne il potere, agisce per l’interesse pubblico157. Tuttavia, fatta eccezione per questi casi, qualora l’attività compiuta dal funzionario di fatto fosse necessaria o indifferibile e qualora il privato abbia, in buona fede, fatto affidamento in tale attività, l’atto deve considerarsi valido ed efficace e deve essere attribuito all’amministrazione di cui il funzionario apparentemente apparteneva158. La dottrina parla della regola del fatto compiuto, secondo cui, una volta decorsi i termini per impugnare l’atto di investitura del funzionario, gli atti da questo compiuti sono validi. Resta ferma la 155. Il funzionario di fatto integra invero un’ipotesi giurisprudenziale di apparenza. E’ stata cassata la teoria per cui si trattasse di gestione di affari altrui, in quanto non sono coinvolti affari privatistici. Tutt’al più, la giurisprudenza riconosce l’operatività di tale istituto in relazione all’attività iure privatorum dell’amministrazione. 156. L’organo è il principale centro di imputazione attraverso cui l’amministrazione agisce. 157. Diverso è quindi l’elemento psicologico. 158. Il funzionario di fatto rientra nel cosiddetto diritto amministrativo dell’emergenza.

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possibilità di impugnarli per vizi diversi da quello di incompetenza. Più correttamente occorre distinguere tra atti che hanno contenuto favorevole per il privato e atti che al contrario hanno portata sfavorevole. Mentre per i primi si ritiene pacificamente la possibilità che siano ascritti all’amministrazione, per i secondi è necessario operare un’ulteriore distinzione. Nell’ipotesi in cui la nomina sia mancante ab initio ovvero sia stata caducata con effetto retroattivo, la tesi maggioritaria sostiene l’inefficacia ovvero la nullità degli atti del funzionario. Qualora invece l’atto di nomina sia illegittimo ma non sia stato ancora rimosso all’epoca dell’emanazione dell’atto, quest’ultimo deve considerarsi annullabile. Pertanto, se e fino a che la nomina non viene impugnata, l’atto produce i propri effetti159. Una particolare questione riguarda l’ipotesi in cui la caducazione ovvero il vizio dell’investitura riguardi il componente di un organo collegiale. La dottrina distingue tra organi reali, i quali decidono alla presenza di tutti i loro componenti e i collegi virtuali che deliberano a maggioranza. Mentre nel primo caso, gli atti emanati sarebbero annullabili per vizio di incompetenza, nel secondo caso, occorrerebbe invece procedere alla cosiddetta prova di resistenza. L’atto andrebbe annullato se si dimostrasse che, in assenza del membro non legittimato al voto, la maggioranza non sarebbe stata raggiunta. Diverso dalla figura del funzionario di fatto è l’istituto della prorogatio, che si ha quando l’organo collegiale decaduto, continui ad emanare atti in attesa del subentro del nuovo organo. Le situazioni possono essere confuse, in quanto entrambe sono poste a garanzia della continuità dell’azione amministrativa a fronte diatti compiuti in assenza di potere. In particolare, l’organo collegiale decaduto può compiere sola159. Il privato potrà impugnare congiuntamente l’atto di nomina viziato e il conseguente provvedimento se tra i due sussiste un nesso procedimentale, altrimenti non vi sarebbe interesse all’impugnazione.

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mente atti di ordinaria amministrazione ovvero atti indifferibili e urgenti dal momento della sua cessazione fino ai successivi quarantacinque giorni. Gli eventuali atti di straordinaria amministrazione che dovessero essere compiuti in questo lasso di tempo, sarebbero quindi colpiti da nullità, in quanto emanati in totale assenza di potere, al pari di qualsiasi altro atto – di straordinaria ovvero ordinaria amministrazione – che l’organo decaduto dovesse compiere successivamente al suddetto termine di quarantacinque giorni. Peraltro, in forza dell’art.97 Cost., il fenomeno della prorogatio deve essere previsto dalla legge, non sussistendo un generale principio che ne permette l’operatività automatica. 3.7

L’amministrazione a livello locale

La pubblica amministrazione centrale ha nel tempo eroso i propri compiti e le proprie competenze in favore delle realtà regionali e locali. Si pensi innanzitutto alla riforma del titolo V della Costituzione, operata dalla Legge costituzionale n.3/2001, per cui il riparto di competenze fra Stato e Regioni è stato di fatto ribaltato. Mentre prima, infatti, erano individuate le materie di competenza esclusiva regionale, oggi l’art.117 Cost. individua le materie di competenza esclusiva statale e le materie affidate alla competenza concorrente. La competenza esclusiva regionale è residuale e copre tutte quelle materie non espressamente elencate nelle categorie anzidette. Inoltre, il successivo art.118 Cost. stabilisce il principio di sussidiarietà verticale, secondo cui la titolarità generale delle funzioni amministrative è affidata ai Comuni e, solo qualora vi siano esigenze di unitarietà, sono legittimati ad intervenire Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato. Ciò in quanto si ritiene che l’intervento più vicino al cittadino possa meglio rispondere all’esigenza specifica, che risulta peculiare

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per un determinato territorio e non per un altro160. Il decentramento dei poteri si realizza in particolare attraverso le autonomie locali, che sono state recentemente interessate da alcuni interventi legislativi, non tutti dall’esito fortunato. Le riforme hanno riguardato principalmente le Province. Già con la L. n.214/2011, nell’ottica di ridimensionare i costi della politica, è stato delineato un ridimensionamento dei compiti di tali soggetti; successivamente, con la L. n.135/2012 è stato predisposto un taglio del numero delle Province, mediante accorpamento tra quelle meno estese. Tuttavia, tali testi normativi sono stati dichiarati incostituzionali per violazione dell’art.77 Cost., in quanto il Governo aveva utilizzato lo strumento del decreto legge al di fuori dei presupposti che lo legittimano161. Nell’aprile 2014 è stata approvata la cosiddetta Legge Delrio162, ispirata ad esigenze di riorganizzazione e razionalizzazione degli enti locali nonché alla necessità di una maggiore efficienza nell’esercizio delle funzioni amministrative a livello decentrato. La legge de qua ha istituito le Città metropolitane le quali, sebbene già previste dal 1990 e costituzionalizzate con la riforma del titolo V, fino a tale momento non erano ancora entrate a regime. Le Città metropolitane sono definite enti di vasta area e sostituiscono le Province espressamente individuate. Gli enti locali godono di potestà statutaria e regolamentare, in ordine all’organizzazione e allo svolgimento delle funzioni che gli sono attribuite, nonché nell’ambito di tutte le materie di competenza dell’ente. Il d.lgs. n.267/2000 (T.U. degli enti locali) riconosce altresì un’autonomia finanziaria, che gode di copertura costituzionale attraverso l’art.119 Cost. e che permette all’ente locale di imporre 160. A tale principio si affiancano i principi di differenziazione, per cui l’attribuzione delle funzioni deve considerare le caratteristiche demografiche e territoriali del singolo ente, nonché il principio di adeguatezza, per cui l’ente incaricato deve poter garantire, dal punto di vista organizzativo e strutturale, lo svolgimento delle funzioni attribuitegli. 161. Infatti, non sussistevano le ragioni di necessità ed urgenza richieste dall’art.77 Cost.. 162. Legge 7 aprile 2014, n.56.

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tributi e beneficiare di finanziamenti nel rispetto delle leggi statali in materia di finanza pubblica. Dato il rilievo conferito dall’art.118 Cost., il Comune rappresenta l’ente locale per eccellenza, non fosse che per la sua più stretta vicinanza al cittadino. L’art.3 del T.U. definisce il Comune come l’ente locale che «rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo». Gli elementi costitutivi sono il territorio (cosiddetto elemento materiale), la popolazione (che costituisce l’elemento personale) e il patrimonio, costituito dall’insieme dei beni e dei diritti di cui il Comune è titolare. Organi del Comune sono il consiglio comunale, che è organo di indirizzo politico-amministrativo, la Giunta e il Sindaco163. Il consiglio è organo rappresentativo dell’ente e ha il potere di impegnare il soggetto pubblico, esprimendone all’esterno la volontà. La giunta è l’organo esecutivo e di fiducia del Sindaco, il quale ne nomina infatti i componenti. Il Sindaco è organo monocratico e ricopre un doppio ruolo: è capo dell’amministrazione locale e organo periferico dell’amministrazione statale e, quindi, ufficiale di Governo. Quale vertice dell’amministrazione comunale, il Sindaco rappresenta l’ente, sovrintende allo svolgimento delle funzioni e degli uffici dell’amministrazione locale e ne nomina i responsabili. In veste di ufficiale di Governo, il Sindaco gode di ampia autonomia nei confronti dello Stato e dipende gerarchicamente dal Prefetto. In particolare, limitatamente al proprio territorio di competenza, al Sindaco è affidata l’attività di vigilanza necessaria per garantire la sicurezza e l’ordine pubblico e il potere di adottare i relativi atti che gli sono attribuiti dalla legge. Fra questi, notevole importanza assumono le ordinanze contingibili e urgenti, vale a dire atti che il Sindaco può emanare in 163. L’organo è il principale centro di imputazione attraverso cui l’amministrazione agisce.

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presenza di situazioni eccezionali che richiedono un intervento tempestivo e che, dunque, non possono attendere il normale iter di approvazione di una legge164. Esse sono espressione massima dell’autonomia del Sindaco, il quale deve comunque muoversi nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, ma ha ampio spazio di manovra per fronteggiare situazioni che minacciano l’incolumità del proprio territorio e della propria popolazione.

164. Sulle ordinanze contingibili e urgenti si veda Cap. I.

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CAPITOLO IV IL LAVORO ALLE DIPENDENZE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Sommario: 4.1 La privatizzazione del pubblico impiego. - 4.2 Il quadro normativo. Il ruolo della contrattazione collettiva. – 4.3 Rapporto organico e rapporto di servizio. L’accesso all’impiego. – 4.4 La dirigenza. – 4.5 La micro e la macro organizzazione. – 4.6 La giurisdizione in materia di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.

4.1 La privatizzazione del pubblico impiego La privatizzazione del rapporto di pubblico impiego si è realizzata mediante un percorso lungo e articolato. Originariamente, il lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione si caratterizzava per la natura pubblicistica non solo del datore di lavoro e delle fonti che lo regolavano, ma anche degli atti di gestione del rapporto stesso. La pubblica amministrazione operava invero tramite veri e propri provvedimenti amministrativi e non vi era alcuno spazio per la contrattazione, né nella fase genetica né in quella di gestione del rapporto165. La privatizzazione rientra nel più ampio fenomeno di riorganizzazione della pubblica amministrazione, nell’ottica di migliorarne l’efficienza e la produttività166. In tal senso, anche nel settore del lavoro, la tendenza è stata quella di avvicinare sempre più il soggetto pubblico al soggetto privato, realizzando la cosiddetta amministrazione di risultati e dando rilievo ai principi di cui all’art.97 Cost.167. 165. Il privato vantava quindi solo un interesse legittimo alla regolarità del provvedimento amministrativo. 166. Accanto alla privatizzazione del pubblico impiego si è avuta altresì la privatizzazione dei soggetti pubblici (enti pubblici trasformati in s.p.a.) e dell’attività amministrativa in generale, attraverso il sempre maggiore utilizzo di strumenti consensuali. 167. Privatizzazione come fenomeno di ristrutturazione dell’amministrazione pubblica. INDICE

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Ci si è infatti accorti che era proprio il regime pubblicistico, così come rigidamente applicato, che ostacolava il corretto funzionamento dell’attività amministrativa. Pertanto, nel tempo l’amministrazione si è orientata verso l’utilizzo di strumenti privatistici per svolgere le proprie attività, specialmente nel settore dei servizi pubblici dove, accanto alle norme giuridiche, operano anche le regole del mercato e dell’economia. Le tappe del processo possono essere individuate come segue. Il punto di partenza è rappresentato dal Testo Unico degli impiegati civili dello Stato (D.P.R. n.3/1957) per giungere gradualmente alla Legge n.93/1983, che ha introdotto la contrattazione collettiva. In questi primi trent’anni il lavoro pubblico si è progressivamente allontanato dal tradizionale modello gerarchico, con il riconoscimento di margini di autonomia ai dirigenti e l’introduzione del dovere di produttività dei pubblici dipendenti. Una svolta decisiva si è poi avuta con il d.lgs. n.29/93, che ha aperto la prima vera e propria fase della privatizzazione, in quanto è con tale intervento normativo che viene riconosciuta natura privatistica al rapporto di pubblico impiego. Contestualmente, la pubblica amministrazione ha iniziato ad essere equiparata ad un datore di lavoro privato e, di riflesso, gli atti di gestione del rapporto hanno assunto natura privatistica. Ciò ha significato l’applicazione delle regole del codice civile, salvo che per alcuni aspetti peculiari che verranno evidenziati, nonché la modifica delle posizioni soggettive vantante dai lavoratori nei confronti del proprio datore di lavoro. Il dipendente diviene titolare di diritti soggettivi e le relative controversie sono devolute al giudice ordinario. Si è infatti superata l’idea per cui la natura pubblicistica del datore di lavoro rappresentasse un ostacolo all’applicazione della disciplina privatistica. Pertanto, la genesi del rapporto si ha con la stipula di un contratto individuale e non si parla più di pubblico impiego ma, più correttamente, di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione168. 168. Pubblico infatti resta solo il datore di lavoro e non più il rapporto.

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La seconda fase si apre con il d.lgs. n.396/97 sulla contrattazione collettiva, cui è seguito il d. lgs. n.80/98 nonché il d. lgs. n.387/98 che hanno ampliato la giurisdizione del giudice ordinario. In particolare, il decreto n.80 ha per la prima volta formalizzato la natura privatistica degli atti di micro-organizzazione, ossia gli atti di gestione del rapporto169. Ad oggi, le norme in materia di pubblico impiego sono confluite nel d. lgs. n.165/2001, che rappresenta quindi il testo normativo di riferimento, le cui disposizioni integrano principi fondamentali ai sensi dell’art.117 Cost.170. Si individua una terza fase della privatizzazione con l’approvazione del d. lgs. n.150/09 (cosiddetta Riforma Brunetta) che, in particolare, ha introdotto un sistema meritocratico di valutazione delle performances dei pubblici dipendenti e ha modificato il rapporto tra legge e contrattazione collettiva, nei termini che verranno nel prosieguo analizzati. Quello che dunque oggi differenzia il lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione dal lavoro privato, è la natura del datore di lavoro nonché i vincoli costituzionali che lo guidano. Il lavoro pubblico deve invero perseguire il pubblico interesse, nel rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento. Pertanto, non potrà mai aversi una totale equiparazione tra settore pubblico e settore privato. Occorre inoltre evidenziare che non tutte le categorie di lavoratori sono state interessate dalla privatizzazione. L’art.3 del d.lgs. n.165/01 individua il personale in regime di diritto pubblico, che resta disciplinato dalle varie normative ad hoc, in ragione delle peculiari funzioni svolte da tali categorie di lavoratori. Si discute circa l’avvenuta privatizzazione dei rapporti di lavoro all’interno delle Autorità amministrative indipendenti. 169. Si veda nel prosieguo la distinzione rispetto agli atti di macro-organizzazione. 170. Si ricorda che il d.lgs. n.165/2001 è stato recentemente modificato dal d.lgs. n.75/2017 per quanto attiene l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni.

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Invero, il testo normativo non le annovera nel delineare il proprio ambito di applicazione; tali soggetti vengono citati solo in relazione ai poteri di gestione, sembrando in tal modo che la privatizzazione abbia interessato i soli atti di micro-organizzazione. La dottrina si divide tra coloro i quali ritengono la mancata indicazione all’interno dell’art.1 del decreto una semplice svista, avendo la privatizzazione interessato il rapporto di lavoro nel suo complesso, e coloro che, al contrario, ritengono che la privatizzazione resti limitata al potere di gestione. 4.2 Il quadro normativo. Il ruolo della contrattazione collettiva Come anticipato, il riferimento normativo principale in materia di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione è il d.lgs. n.165/01 nel quale sono confluite tutte le normative precedenti, nell’ottica di una razionalizzazione della materia171. Tale normativa racchiude tutte quelle che sono le fonti; prima fra tutte l’art.97 Cost. che qui opera al pari di qualsiasi altro settore dell’attività della pubblica amministrazione. Come già rimarcato, infatti, il vincolo pubblicistico permea l’intera attività e ad esso si ispira altresì lo svolgimento e l’organizzazione del lavoro, che deve garantire il buon andamento dell’amministrazione. La Costituzione prevede una riserva relativa di legge per quanto attiene l’aspetto organizzativo del personale, che pertanto può essere demandato a fonti di rango secondario. Il testo unico stabilisce che le pubbliche amministrazioni devono fissare i principi generali e le linee fondamentali dell’organizzazione dei singoli uffici. Il rapporto di lavoro è invece disciplinato dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa. Il d. lgs. n.150/09 ha statuito che le disposizioni di cui al testo unico hanno carattere imperativo e che, in caso di clausole contrattuali che le violino, si applicano gli artt.1339 e 1419 c.c.. 171. Si tratta di un vero e proprio testo unico.

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L’applicazione del codice civile non è tuttavia integrale. Una particolare differenza tra settore pubblico e settore privato è rappresentata dalle ipotesi in cui il lavoratore svolga mansioni superiori rispetto a quelle contrattualmente previste. L’art.2103 c.c. prevede infatti il riconoscimento della retribuzione prevista per le mansioni effettivamente svolte, con diritto all’assegnazione definitiva dopo un certo tempo e a determinate condizioni. Tale norma è stata ritenuta per lungo tempo del tutto inapplicabile al pubblico impiego, all’interno del quale l’incarico e la relativa retribuzione sono e restano quelli riconosciuti al momento dell’assunzione. Oggi è normativamente prevista la deroga all’art.2103 c.c. da parte dell’art.52 del d. lgs. n.165/01, per cui l’esercizio di fatto di determinate mansioni non può comportare un diverso inquadramento del lavoratore. Solo in determinati casi espressamente previsti il lavoratore può svolgere mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore, con contestuale diritto alla relativa retribuzione172. La regola resta però che eventuali modifiche di inquadramento nonché di tipo economico possono essere solo il frutto di uno sviluppo professionale o di una procedura concorsuale a cui il lavoratore ha partecipato. La giustificazione di tale diversità si rinviene nell’esigenza di garantire, accanto al precetto di cui all’art.36 Cost., l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, nonché di salvaguardare il sistema di competenze e responsabilità dei singoli funzionari. Un ruolo fondamentale nel quadro normativo è rappresentato dalla contrattazione collettiva. Nel tempo, lo spazio accordato alla contrattazione si è modificato. Precisamente, all’inizio la contrattazione collettiva non aveva al172. Ipotesi sono la vacanza di posto nell’organico, la sostituzione di un lavoratore assente ma con diritto alla conservazione del posto. Al di fuori delle ipotesi previste, l’assegnazione deve considerarsi nulla.

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cun margine di operatività, essendo tutto demandato alla legge, cui si affiancavano unicamente gli atti unilaterali e autoritativi dell’amministrazione. Successivamente, a partire dalla già citata Legge n.93/83 la contrattazione collettiva ha assunto il ruolo di fonte privilegiata, in quanto ad essa era affidata la disciplina dell’intero rapporto, anche in deroga alle disposizioni normative, salvo espresso divieto di legge. Con la Riforma Brunetta si è avuta una totale inversione dei rapporti, per cui la legge è tornata a prevalere sulla contrattazione collettiva. Oggi, solo nelle ipotesi espressamente previste, il contratto collettivo può derogare alla legge e il suo ambito di operatività è circoscritto agli aspetti dalla stessa determinati173. In particolare, restano escluse dalla contrattazione collettiva le questioni attinenti all’organizzazione in generale e al conferimento nonché alla revoca degli incarichi dirigenziali. Inoltre, la legge non prevede l’efficacia erga omnes del contratto collettivo, ma stabilisce che i singoli contratti di lavoro vi si conformino, in quanto il contratto collettivo rappresenta la tutela minima da assicurare al lavoratore174. La contrattazione collettiva avviene a due livelli: nazionale e territoriale (cosiddetta contrattazione integrativa) e ha durata triennale, con la possibilità per la singola amministrazione di intervenire in via provvisoria in caso di mancato rinnovo alla scadenza. Alla formazione del contratto collettivo, le amministrazioni non partecipano direttamente, ma vengono rappresentate dall’Aran175. Con la sottoscrizione, il contratto collettivo vincola tutte le am173. Cfr. art.40 T.U. che delinea in positivo gli aspetti di cui il contratto collettivo può occuparsi. 174. Sulla questione, cfr. C. Cost. n.309/97 che stabilisce che il meccanismo previsto dalla legge non è contrario all’art.39 Cost., in quanto al contratto collettivo non è attribuita efficacia erga omnes, indipendentemente dalla sua sottoscrizione, ma è solo previsto un adeguamento da parte dei contratti di lavoro individuali. Si raggiunge quindi il medesimo obiettivo di applicare il contratto collettivo e garantirne il rispetto, ma con un meccanismo legittimo. 175. E’ organismo con personalità giuridica pubblica che rappresenta legalmente le pubbliche amministrazioni e svolge a livello nazionale tutte le attività relative alle relazioni sindacali e alla negoziazione e successiva applicazione uniforme dei contratti collettivi; letteralmente: Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni.

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ministrazioni rappresentate, mentre per i lavoratori non iscritti, il vincolo deriva dal rinvio contenuto nei singoli contratti di lavoro. Per evitare una pluralità di azioni tra loro omogenee nonché una disuniforme applicazione della contrattazione collettiva, l’interpretazione, l’efficacia e la validità dei contratti collettivi nazionali costituiscono questioni pregiudiziali, che dovranno essere affrontate dal giudice altresì mediante interpello all’Aran176. Le disposizioni di cui al Testo Unico in esame sono vincolanti altresì per le Regioni, le quali sono state espressamente interessate dal fenomeno della privatizzazione. In particolare, il d.lgs. n.150/09 ha espressamente previsto i principi fondamentali cui le Regioni devono adeguarsi nel disciplinare i rapporti di lavoro dei dipendenti regionali, la cui normazione rientra nelle materie di competenza esclusiva regionale177. L’intervento normativo del 2009 merita un ulteriore approfondimento. Tale riforma ha invero introdotto importanti novità nell’ambito del rapporto di lavoro privatizzato. Oltre ad aver ribaltato il rapporto fra legge e contrattazione collettiva, il legislatore ha previsto una serie di incentivi economici legati alla produttività, da un lato, e nuove ipotesi di responsabilità del dipendente, dall’altro. La ratio ispiratrice della riforma era infatti quella di migliorare l’organizzazione del lavoro nonché la qualità delle prestazioni offerte, riconoscendo i meriti e sanzionando i demeriti dei dipendenti. In altre parole, è stato previsto un sistema premiale in favore di coloro che adempiono correttamente e virtuosamente ai propri doveri e una serie di sanzioni per punire gli assenteismi e le incom176. L’organo giudiziario decide autonomamente qualora le pubbliche amministrazioni non raggiungano un accordo circa l’interpretazione autentica del contratto collettivo o circa la modifica di una clausola controversa. La violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi costituisce peraltro motivo di ricorso per Cassazione. 177. La Corte Costituzionale ha affermato che la riforma del titolo V della Costituzione ha fatto venire meno per le Regioni l’obbligo di rispettare le norme socio-economiche statali, ma non l’obbligo di rispettare la disciplina statale in materia di ordinamento civile e tutela del lavoro. Resta inoltre di competenza esclusiva statale l’accesso al lavoro mediante pubblico concorso.

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petenze che contribuiscono all’inefficienza dell’amministrazione178. Alla riforma Brunetta sono seguiti ulteriori interventi normativi, ispirati ancora alla razionalizzazione dell’attività amministrativa e al risparmio di spesa. Il riferimento è, fra le altre, alla Legge n.122/2010 e alla successiva Legge n.147/2013, in tema di stabilizzazione finanziaria e competitività economica. Altri interventi hanno inciso sulla legalità e sull’integrità dell’azione e dell’organizzazione amministrativa, come la Legge n.190/2012, cosiddetta legge anticorruzione, cui sono seguiti una serie di decreti legislativi che hanno sancito il riordino degli obblighi di pubblicità e trasparenza e hanno introdotto nuove disposizioni in tema di incompatibilità di incarichi dirigenziali. A questi ha fatto seguito anche il nuovo Codice di comportamento dei pubblici dipendenti (D.P.R. del 16 aprile 2013, n.62) contenente gli obblighi di diligenza, imparzialità e buona condotta cui il lavoratore è tenuto. Per completezza, si ricorda l’intervenuta bocciatura nel 2016, da parte della Corte Costituzionale, della cosiddetta riforma Madia (Legge delega n.124/2015), la quale in realtà riguardava diversi aspetti della pubblica amministrazione e non solo il lavoro179. La Corte ha dichiarato l’incostituzionalità della legge «nella parte in cui prevede che i decreti legislativi attuativi siano adottati previa acquisizione del parere reso in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni»180. La censura aveva pertanto carattere esclusivamente formale, attenendosi quindi un intervento normativo ulteriore. Invero, si è giunti successivamente all’approvazione del d.lgs. n.74 del 25 maggio 2017 (cosiddetto decreto su performance e valutazione) che ha apportato sia modifiche sia integrazioni al decreto Brunetta. 178. Sulle sanzioni è intervenuto l’art.12 del d.lgs. n.75/2017. 179. Gli ambiti interessati dalla riforma erano, oltre al lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione - e, in particolare, alla dirigenza – le società partecipate, la digitalizzazione dell’amministrazione e i servizi pubblici locali di interesse economico generale. 180. C. Cost. 9 settembre 2016, n.251.

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In particolare, tale normativa ha introdotto gli obiettivi generali della pubblica amministrazione, legati a parametri che rendono possibile una verifica da parte dei cittadini e ha inoltre introdotto un nuovo metodo di valutazione delle prestazioni lavorative, che guarda alla performance organizzativa181. In sostanza, ciascuna amministrazione valuta l’operato del proprio organico, considerando l’organizzazione nel suo complesso, nonché alle diverse aree di competenza e ai gruppi di dipendenti. Le linee guida sono predisposte con decreto da Presidente del Consiglio dei Ministri, in concerto con la Conferenza unificata, in modo da coordinare le strategie dell’amministrazione con le politiche nazionali. A al fine sono stati istituiti gli organismi indipendenti di valutazione (OIV), i quali hanno il compito di segnalare la necessità di interventi correttivi qualora l’assetto organizzativo risulti non performante. Il decreto in esame è intervenuto anche in materia di contrattazione collettiva, novellando l’art.40 del T.U., nei termini seguenti: “la contrattazione collettiva disciplina il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali e si svolge con le modalità previste dal presente decreto. Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità, la contrattazione collettiva e’ consentita nei limiti previsti dalle norme di legge. Sono escluse dalla contrattazione collettiva le materie attinenti all’organizzazione degli uffici, quelle oggetto di partecipazione sindacale ai sensi dell’articolo 9, quelle afferenti alle prerogative dirigenziali ai sensi degli articoli 5, comma 2, 16 e 17, la materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelle di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421)”.

181. Ai cittadini è riconosciuto per la prima volta un ruolo attivo, che consiste nella possibilità di esprimere il proprio gradimento in relazione alla qualità dei servizi erogati dalle amministrazioni, rivolgendosi direttamente all’organismo indipendente di valutazione (OIV). L’eventuale giudizio negativo da parte dell’utenza può comportare il riconoscimento di una responsabilità dirigenziale.

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4.3 Rapporto organico e rapporto di servizio. L’accesso all’impiego Il dipendente pubblico è colui che pone volontariamente e dietro corrispettivo la propria attività lavorativa, in modo continuativo, alle dipendenze della pubblica amministrazione. Lo status del lavoratore gli attribuisce diritti e doveri. A titolo esemplificativo, da un lato, il dipendente ha diritto alla retribuzione, alla permanenza del rapporto, allo svolgimento delle mansioni affidategli e inerenti alla sua qualifica, diritto al riposo, alla riservatezza nonché all’esercizio dei diritti sindacali. Si tratta di diritti a contenuto patrimoniale e non patrimoniale che, assieme agli obblighi del lavoratore, rendono il rapporto di lavoro biunivoco. Dall’altro lato, il lavoratore ha infatti responsabilità e doveri di fedeltà e obbedienza182, nonché doveri di esclusività nei confronti del proprio datore, in quanto la legge stabilisce una serie di incompatibilità e il divieto di cumulo di impieghi e di incarichi183. Il dipendente pubblico è legato alla pubblica amministrazione cui appartiene da un rapporto organico, ossia un rapporto di immedesimazione che si crea mediante l’atto di investitura. Con il conferimento di un preciso incarico, infatti, il funzionario diventa elemento strutturale dell’amministrazione e ha il potere di manifestarne esternamente la volontà. Si tratta di un rapporto non giuridico, espressione unicamente della relazione interna tra organo dell’amministrazione e soggetto ad esso preposto. Tale rapporto è rilevante perché permette di imputare l’attività del funzionario all’amministrazione cui appartiene. L’atto di investitura è di regola preceduto dalla nomina con cui si instaura il rapporto di servizio, che ha come contenuto il dovere del funzionario di agire a favore dell’ente, svolgendo l’attività che gli è stata affidata184. 182. Cfr. art.51 Cost.. 183. Ad esempio, il dipendente pubblico non può svolgere attività commerciale. 184. Il rapporto di servizio può essere volontario oppure, nei casi tassativamente previsti, coattivo, come nell’ipotesi di servizio militare.

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Tale rapporto esprime al contrario la relazione esterna tra amministrazione e funzionario. Pertanto, mentre il rapporto organico intercorre tra l’amministrazione e il funzionario e sorge per effetto di un atto amministrativo di assegnazione, il rapporto di servizio ha natura giuridica e origina dall’atto di assunzione. Tipicamente, il rapporto organico presuppone l’esistenza del rapporto di servizio, in quanto il dipendente deve essere legittimato a esercitare determinate funzioni nonché a esprimere la volontà amministrativa. In altre parole, il funzionario deve essere competente per svolgere correttamente la propria attività e compiere atti validi imputabili all’ente. Tuttavia, il rapporto organico potrebbe anche instaurarsi di fatto, allorquando non vi sia un atto di assegnazione ma vi siano comunque i presupposti per la configurazione del funzionario di fatto185. L’assunzione nelle pubbliche amministrazioni avviene di regola mediante concorso, a garanzia dei principi di imparzialità e efficienza dell’azione amministrativa186. Deroghe sono previste dalla legge solo in presenza di esigenze straordinarie di interesse pubblico. Il sistema concorsuale è soggetto a determinate regole, affinché la procedura si svolga nell’assoluta trasparenza e correttezza. In particolare, occorre effettuare un’adeguata pubblicità della procedura selettiva per permettere la partecipazione a qualsiasi interessato in possesso dei requisiti necessari, che andranno valutati in modo oggettivo e trasparente. Inoltre, occorre garantire la parità tra lavoratori e lavoratrici e, più in generale, il diritto di partecipazione. Ad esempio, infatti, è possibile indire procedure con posti riservati a soggetti che hanno 185. Sul funzionario di fatto si veda Cap. III. 186. Cfr. art.97 Cost.. La regola del concorso opera anche per le cosiddette progressioni verticali, che determinano un passaggio di area e che quindi richiedono una procedura selettiva ad hoc.

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già maturato esperienza nel settore di riferimento, ma solo nei limiti espressamente previsti dalla legge187. Sulle modalità di reclutamento è peraltro intervenuto il già richiamato d.lgs. n.75/2017 che, innanzitutto, stabilisce che l’amministrazione può porre il limite degli eventuali idonei in misura non superiore al 20% dei posti messi a bando, nonché prevede la facoltà per l’amministrazione di richiedere determinati titoli o requisiti per la copertura di alcune tipologie di incarichi188. Nell’ambito della procedura concorsuale, deve essere garantito il principio dell’anonimato, per cui vengono disposti alcuni adempimenti sia a carico dei partecipanti che a carico dei commissari, per scongiurare qualsiasi tipo di favoritismo e garantire l’imparzialità delle valutazioni. Le procedure concorsuali si concludono generalmente con l’approvazione di una graduatoria definitiva, cui segue la stipula dei contratti individuali di lavoro. Il passaggio dalla fase selettiva a quella di costituzione del rapporto è fondamentale, in quanto segna altresì il passaggio dal regime pubblicistico a quello privatistico189. Le graduatorie restano in vigore per tre anni e da queste è possibile attingere successivamente, invece di indire una nuova procedura selettiva. Precisamente, oggi la giurisprudenza pare assestata sulla tesi per cui, qualora intenda assumere personale, la pubblica amministrazione sarebbe tenuta a procedere allo scorrimento della graduatoria ancora in vigore; nel caso decidesse di optare per lo svolgimento di

187. La giurisprudenza sostiene l’illegittimità dei concorsi che riservano la totalità dei posti disponibili ai soggetti interni. 188. Cfr. art. 6 del d.lgs. n.75/2017. Le pubbliche amministrazioni possono oggi indire procedure di reclutamento mediante concorso con riserva di posti (nel limite massimo el 40% di quelli banditi) oppure per titoli ed esami. 189. Le ripercussioni si hanno poi sul piano della giurisdizione, come verrà nel prosieguo esposto.

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un nuovo concorso, tale scelta andrebbe motivata190. Altre modalità alternative di accesso sono previste ad hoc per i soggetti disabili e inseriti nelle liste di collocamento191. La regola resta l’assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; tuttavia, per esigenze di carattere temporaneo o eccezionale, l’amministrazione può ricorrere a forme contrattuali flessibili previste dal codice civile, quale il rapporto di somministrazione e i contratti di formazione e lavoro192. In relazione all’impiego del personale, il legislatore è intervenuto nell’ottica di ottimizzare l’utilizzo delle risorse, introducendo il Piano triennale dei fabbisogni. L’obiettivo è quello di raggiungere maggiore efficienza e una più alta qualità dei servizi, distribuendo in modo più razionale e funzionale le risorse disponibili e assumendo i lavoratori precari che hanno superato un concorso pubblico, dimostrando quindi di avere le competenze per essere incardinati nell’amministrazione193. In passato, la pubblica amministrazione poteva conferire incarichi esterni a soggetti con cui non veniva ad instaurarsi un rapporto di dipendenza, e dunque, con i quali si realizzava una collaborazione; tale possibilità oggi è del tutto preclusa, potendo l’amministrazione ricorrere solo alle forme contrattuali anzidette.

190. Cfr. Ad. Plen. n.14/08. A differenza dell’orientamento precedente, oggi la giurisprudenza ritiene che lo scorrimento della graduatoria sia la regola. Se la pubblica amministrazione decide di non attingere alla graduatoria, dovrà diffusamente esplicitarne le ragioni. La ratio è rappresentata dalla tutela dell’aspettativa di coloro che sono in graduatoria nonché dal risparmio di spesa che si consegue evitando l’espletamento di una procedura concorsuale. 191. In queste ipotesi non si effettuano valutazioni comparative ma si verifica unicamente il possesso dei requisiti. Gli aspiranti sono titolari di diritti soggettivi la cui tutela è affidata al giudice ordinario. 192. Nel caso di collaborazioni esterne, mancando il rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione, il riparto di giurisdizione si basa sulla tradizionale distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi. 193. Il Piano triennale dei fabbisogni è accompagnato dalla previsione delle risorse finanziarie disponibili e da investire, nel rispetto della spesa sostenibile ai sensi della normativa vigente in materia.

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4.4 La dirigenza Il dirigente è un lavoratore subordinato che ricopre una posizione di elevata professionalità e che gode di autonomia e potere decisionale. In passato, i dirigenti delle pubbliche amministrazioni erano in realtà legati ai vertici politici da un rapporto di gerarchia. La prima vera svolta si è avuta con il d.lgs. n.29/93, il quale ha accentuato notevolmente l’autonomia della sfera dirigenziale, in forza del principio di separazione fra politica e amministrazione. Il dirigente ha assunto quindi una propria autonomia e rappresenta il vertice dell’amministrazione, della quale manifesta esternamente la volontà. Gli organi di governo fissano quindi gli indirizzi e i programmi che il dirigente è tenuto a realizzare e seguire, adottando tutti gli atti e i provvedimenti necessari e assumendosi la responsabilità dei risultati raggiunti dalla propria amministrazione di appartenenza. Il rapporto gerarchico viene formalmente meno con l’eliminazione dei poteri che in passato erano riconosciuti ai Ministri e che consistevano nella possibilità di incidere direttamente sugli atti compiuti dai dirigenti, mediante la loro revoca o riforma. Il Ministro conserva oggi il potere di sostituire il dirigente incompetente o responsabile di gravi violazioni con un commissario ad acta, ovvero di annullare i provvedimenti illegittimi. Tali poteri sono invero del tutto compatibili con il nuovo rapporto che si è delineato tra politica e amministrazione e che parte della dottrina ritiene più opportuno qualificare in termini di distinzione, piuttosto che separazione. Le competenze degli organi politici e quelle degli organi amministrativi sono infatti distinte, ma tendono ad intersecarsi fra loro e non a restare del tutto separate194. Invero, da un lato, le scelte politiche possono essere determinate anche mediante l’apporto del dirigente e, dall’altro lato, il vertice politico non solo fissa gli indirizzi ma mette altresì a disposizione 194. Di separazione è più corretto parlare nell’ambito delle Autorità amministrative indipendenti.

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del dirigente le risorse necessarie per attuarli. Le due sfere risultano quindi complementari. Espressione del rapporto tra amministrazione e politica è l’istituto dello spoil system. Si tratta di un modello anglosassone per cui i vertici amministrativi decadono in occasione del cambio di governo. Originariamente, la decadenza era prevista solo per i dirigenti apicali delle amministrazioni statali; successivamente, la Legge n.145/2002 ha esteso il meccanismo altresì ai vertici dei componenti dei consigli di amministrazione degli enti pubblici e delle società controllate o partecipate dallo Stato. Il sistema è stato tuttavia dichiarato incostituzionale, in quanto la cessazione degli incarichi dirigenziali non era legata ad alcuna inadempienza o responsabilità del dirigente, con totale violazione del diritto ad un giusto procedimento195. Di fatto il meccanismo di caducazione automatica e generalizzata si poneva contro il buon andamento della pubblica amministrazione, che deve essere al contrario garantito, scegliendo le persone più adatte allo svolgimento di determinate attività, senza alcuna influenza politica. Era invece evidente la ragione esclusivamente politica del ricambio dei vertici amministrativi, che peraltro vanificava qualsiasi tipo di garanzia di stabilità del rapporto di lavoro del dirigente. Con la riforma del 2009196 si ritorna alle origini e la decadenza viene prevista solo per i dirigenti apicali, la cui nomina avviene intuitu personae, ossia sulla base di valutazioni personali coerenti con l’indirizzo politico. Tale meccanismo è legittimo, in quanto mira a tutelare il rapporto di fiducia che deve necessariamente legare gli organi politici ai vertici amministrativi, a garanzia altresì della continuità dell’azione amministrativa. 195. Cfr. C. Cost. n.103/07 che ha dichiarato incostituzionale l’art.3, comma 7, della Legge n.145/02, la quale aveva azzerato una tantum tutti gli incarichi dirigenziali dello Stato. Diversamente, ad eccezione dei dirigenti apicali, la revoca dei dirigenti è possibile solo previa valutazione dei risultati. 196. Si veda l’art.19 del d.lgs. n.165/2001 così come modificato dalla riforma del 2009.

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Inoltre, la suddetta riforma del 2009 ha ulteriormente rafforzato l’autonomia dei dirigenti, ai quali ha affidato in via esclusiva la gestione degli uffici e, in generale, l’emanazione degli atti di micro-organizzazione. Una tematica rilevante in materia di dirigenza riguarda la natura degli atti di conferimento e di revoca degli incarichi dirigenziali. L’accesso al pubblico impiego avviene mediante concorso pubblico, cui segue l’assegnazione dell’incarico specifico che determina l’effettivo inserimento del dirigente all’interno dell’amministrazione. La legge parla di provvedimento di assegnazione, cui si affianca la stipula del contratto individuale, nel quale viene stabilito il trattamento economico del lavoratore. L’utilizzo del termine provvedimento ha suscitato dubbi circa la natura giuridica dell’atto di conferimento dell’incarico. Invero, dalla lettera della norma sembra che si tratti di atto amministrativo, pubblicistico. In realtà, tale qualificazione si scontrerebbe con l’avvenuta privatizzazione del rapporto di lavoro, che comporta una posizione di parità tra le parti e, come verrà ampiamente esposto, la devoluzione delle controversie al giudice ordinario. Per tale ragione, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che l’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale sia atto adottato da un datore di lavoro con capacità di diritto privato. Da ciò vengono fatte discendere due importanti conseguenze: tale atto non sarebbe soggetto alla legge sul procedimento amministrativo; si tratterebbe di atto suscettibile di essere revocato o modificato liberamente, senza i limiti previsti per l’esercizio dell’autotutela amministrativa. A sostegno di tale tesi, cui consegue l’operatività della giurisdizione ordinaria, si sottolinea la mancata qualifica del provvedimento di conferimento quale provvedimento amministrativo, nonché il fatto che si tratti di atto di micro-organizzazione, adottato dall’amministrazione con la stessa discrezionalità di un datore di lavoro privato. Inoltre, per il conferimento non sono previste procedure selettive o concorsi ma viene operata una valutazione dei curricula dei diversi candidati. Analoghe argomentazioni vengono sostenute per gli atti di revoINDICE

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ca dell’incarico dirigenziale. Si tratta anche in questo caso di atti di organizzazione interna che incidono direttamente sul singolo rapporto, risolvendolo. Un ultimo profilo relativo ai dirigenti riguarda la loro responsabilità. La responsabilità dirigenziale ha assunto un peso differente con il fenomeno della privatizzazione. Invero, passando da un’amministrazione di procedure ad un’amministrazione di risultati, si intuiscono le ricadute sul sistema di responsabilità. Alla maggiore autonomia riconosciuta ai dirigenti corrisponde una maggiore responsabilità; la responsabilità dirigenziale, infatti, si affianca a tutte le altre forme di responsabilità (disciplinare, amministrativo-contabile e penale) che possono far capo al lavoratore dipendente della pubblica amministrazione197. Quella dirigenziale è una particolare forma di responsabilità di tipo gestionale. Essa va pertanto distinta dalla generale responsabilità amministrativa; invero, non viene indagata tanto la colpa del dirigente, quanto la sua inidoneità a svolgere la funzione che gli è stata affidata. La responsabilità dirigenziale viene valutata mediante la verifica dei risultati che il dirigente consegue e, in generale, degli obiettivi che l’amministrazione cui è preposto raggiunge198. Invero, il dirigente è responsabile anche per l’omessa vigilanza sull’operato del personale dei propri uffici; per questa ragione, parte della dottrina ritiene che il dirigente sia vero e proprio datore di lavoro dei funzionari che operano nell’amministrazione che gestisce199. Il mancato raggiungimento degli obiettivi impedisce il rinnovo dell’incarico, dal quale il dirigente dovrà pertanto essere rimosso, 197. Sulla responsabilità del dipendente pubblico, si veda il Capitolo X. 198. Il d. lgs. n.150/09 parla di inerzia del dirigente, ritardo nella conclusione dei procedimenti e violazione colposa del dovere di vigilanza dei propri funzionari, con conseguente riduzione della retribuzione. Si ricorda qui l’intervento operato con il d.lgs. n.74/2017 che ha inciso sulla valutazione della performance, orientata oggi sull’organizzazione dell’amministrazione nel suo complesso. 199. Deve tuttavia osservarsi che non vi è un rapporto gerarchico tra dirigente e funzionari.

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con destinazione ad altro incarico. Nei casi di maggiore gravità, l’amministrazione potrà valutare anche di esercitare il proprio diritto di recesso dal rapporto. Un’ulteriore specifica responsabilità dei dirigenti, diversa da quella dirigenziale in senso stretto, è la responsabilità erariale per la mancata individuazione dell’eccedenza di personale, che comporta un ingiustificato esborso di risorse economiche pubbliche. 4.5 La micro e la macro organizzazione Una distinzione importante in materia di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione è quella tra micro-organizzazione e macro-organizzazione. Si è già fatto cenno a questi concetti, in particolare per evidenziare che gli atti di micro-organizzazione sono stati interessati dal fenomeno della privatizzazione, non assumendo più le vesti di provvedimenti amministrativi, bensì di atti di natura privatistica, adottati in via esclusiva dai dirigenti. Infatti, tali atti riguardano la gestione del rapporto di lavoro; essi ineriscono all’organizzazione, per così dire, minore e hanno natura paritetica. In tal senso, gli atti di micro-organizzazione sono espressione e prova della capacità di diritto privato del datore di lavoro e riguardano, ad esempio, la gestione degli uffici ovvero la gestione dei diversi ruoli di dirigenza. In generale, nell’ambito degli atti di micro-organizzazione rientrano tutti gli atti di gestione che vengono compiuti dal momento dell’assunzione sino alla risoluzione del rapporto di lavoro. Conseguenza di tale qualifica giuridica è l’assoggettamento di tali atti ai vizi tipici del diritto civile, mentre si discute circa l’operatività delle disposizioni di cui alla Legge n.241/90 in materia di atti amministrativi. Il dubbio nasce dal fatto che, nonostante la privatizzazione, non potrà mai aversi una totale equiparazione del lavoro pubblicistico a quello privatistico, in quanto datore di lavoro resta pur sempre la

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pubblica amministrazione, vincolata nella propria attività dal perseguimento dei fini pubblicistici cui la sua azione è preordinata. Resta quindi un principio di specialità della disciplina applicata al lavoro alle dipendenze dell’amministrazione pubblica. La Corte di Cassazione ritiene tuttavia che la legge sul procedimento sia inapplicabile agli atti di micro-organizzazione, in quanto si tratta di una normativa finalizzata all’emanazione di provvedimenti autoritativi, in cui l’amministrazione riveste un ruolo di supremazia. Inoltre, rispetto a tali atti non sussisterebbero tutti quegli obblighi prescritti dalla normativa de qua, fra i quali, l’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento ovvero l’obbligo di motivazione200. La giurisprudenza amministrativa condivide la generale inapplicabilità della disciplina di cui alla Legge n.241/90, fatta eccezione per il diritto di accesso che dovrebbe comunque riconoscersi al lavoratore. Tale disciplina è al contrario pacificamente applicabile in tutte le sue parti agli atti di macro-organizzazione. Si tratta degli atti che definiscono le linee fondamentali del rapporto e che si caratterizzano per la natura autoritativa, in quanto sono espressione di potestà amministrativa. Esempio di tali atti è la predisposizione delle piante organiche201 dei singoli uffici o plessi amministrativi. La distinzione fra macro e micro organizzazione rileva in quanto segna la linea di confine tra dimensione pubblicistica e dimensione privatistica e, di conseguenza, tra quanto è devoluto al giudice amministrativo e quanto al giudice ordinario. Peraltro, tale distinzione non è sempre agevole, nel senso che talvolta può risultare complesso capire se un determinato atto abbia effetti sulle scelte organizzative di fondo oppure se incida direttamente sul rapporto di lavoro individuale. 200. In realtà, l’obbligo di motivazione sussiste anche per alcuni atti di diritto privato, primo fra tutti il licenziamento. Per le ipotesi, si vedano gli interventi normativi dapprima con il d.lgs n.116/2016, poi con il d.lgs. n.75/2017 e, infine, mediante il d.lgs. n.118/2017. 201. La pianta organica individua l’insieme delle posizioni lavorative previste all’interno di una determinata amministrazione,

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Basti pensare all’ipotesi in cui si proceda alla riorganizzazione di un intero plesso amministrativo: si tratta evidentemente di un atto di macro-organizzazione, ma che altrettanto evidentemente incide sulle singole posizioni dei lavoratori. Tuttavia, occorre considerare che al giudice ordinario è attribuito il potere di conoscere incidentalmente dell’atto amministrativo presupposto e, eventualmente, di procedere alla sua disapplicazione. 4.6 La giurisdizione in materia di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione Fino alla privatizzazione del rapporto di impiego alle dipendenze dell’amministrazione, la natura squisitamente pubblicistica dello stesso ne giustificava la devoluzione alla giurisdizione amministrativa. Invero, nel quadro precedente, sia la fase organizzativa che quella di gestione si caratterizzavano per l’utilizzo esclusivo di provvedimenti amministrativi dell’amministrazione datrice e, in generale, per l’esercizio del potere autoritativo. Pertanto, il lavoratore vantava per lo più posizioni di interesse legittimo al corretto svolgimento dell’attività amministrativa. Il diritto soggettivo veniva in rilievo solo in relazione agli obblighi di carattere economico che l’amministrazione aveva nei confronti dei propri dipendenti. Non si è infatti mai discusso circa la portata del diritto alla retribuzione quale appunto diritto soggettivo202. Il processo di privatizzazione ha, da un lato, ridotto il potere autoritativo dell’amministrazione e, dall’altro lato, ha riqualificato le posizioni dei lavoratori. Il 30 giugno 1998, data di entrata in vigore del d. lgs. n.80/98, segna il termine di passaggio dalla giurisdizione amministrativa alla 202. Primo fra i diritti del lavoratore è quello alla retribuzione, rispetto al quale vige il principio di omnicomprensività, per cui il lavoratore non può percepire compensi ulteriori. Peraltro, in ambito pubblicistico la legge vieta il cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria, a differenza che nel settore privato.

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giurisdizione ordinaria. E’ termine sostanziale e non meramente processuale; pertanto, spirato tale termine, la tutela è preclusa203. Parallelamente è stato previsto il termine decadenziale del 15 settembre 2000 per la proposizione di controversie innanzi al giudice amministrativo, relative al periodo anteriore al 30 giugno 1998. La giurisprudenza ha peraltro affermato che, nel caso in cui il lavoratore deduca un comportamento unitario della pubblica amministrazione che si pone a cavallo del suddetto termine, la giurisdizione ordinaria si radica anche per il periodo anteriore al 30 giugno 1998, per evitare che vi siano due pronunce sullo stesso rapporto, da parte di due giudici diversi, e potenzialmente contrastanti tra loro. Parte della giurisprudenza inizialmente riteneva che la previsione del suddetto termine sostanziale realizzasse una disparità di tutela tra dipendenti privati e pubblici. La Corte Costituzionale ha sostenuto la ragionevolezza della scelta, in quanto volta a contenere gli effetti del trasferimento della giurisdizione e a non aggravare l’esercizio della funzione giurisdizionale. La norma di riferimento è l’art.63 del testo unico, che devolve al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative al lavoro alle dipendenze dell’amministrazione pubblica. Per parte della dottrina, tale norma avrebbe valore ricognitivo; lo spostamento di giurisdizione sarebbe invero la logica conseguenza del passaggio da un modello amministrativo di tipo burocratico ad un modello aziendalistico, che utilizza istituti tipici dell’impresa. La cognizione si estende, fra le altre, alle controversie relative al conferimento e alla revoca degli incarichi dirigenziali, alla responsabilità dirigenziale, alla contrattazione collettiva e all’indennità di fine rapporto. In particolare, in relazione agli atti di conferimento o revoca degli incarichi dirigenziali, è stata respinta la tesi secondo cui sarebbe 203. Per le controversie sorte prima di tale data permane la giurisdizione amministrativa; le controversie successive sono invece devolute al giudice ordinario. Il riferimento è al momento in cui sorge la pretesa e non al momento in cui viene esperita l’azione.

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stata affidata al giudice ordinario la tutela di interessi legittimi. Invero, tali atti hanno natura privatistica e il dirigente è titolare di posizioni di diritto soggettivo, le quali giustificano la cognizione del giudice ordinario. Si è discusso se la previsione di cui al citato articolo 63 comportasse di fatto il riconoscimento di una giurisdizione esclusiva del giudice ordinario. Tale tesi è stata tuttavia respinta, in quanto il giudice ordinario non ha alcun potere di incidere sull’atto amministrativo, ma può solo procedere alla sua disapplicazione in via incidentale. L’atto amministrativo presupposto è sostanzialmente l’atto di macro-organizzazione; infatti, come già evidenziato, gli atti di micro-organizzazione sono atti privatistici, oggetto di cognizione piena da parte del giudice ordinario. L’atto presupposto è quindi atto amministrativo che, in quanto tale, potrebbe essere impugnato dinanzi al giudice amministrativo, laddove sia direttamente lesivo di una posizione soggettiva. Tuttavia, può accadere che tale atto si ponga quale presupposto di un atto di micro-organizzazione che lo esegue e lo applica. Il potere lesivo è direttamente ricondotto a quest’ultimo, che sarà oggetto di impugnazione dinanzi al giudice ordinario, il quale potrà conoscere incidentalmente dell’atto amministrativo presupposto, senza effetti di giudicato, e procedere alla sua eventuale disapplicazione204. Tali poteri testimoniano come al giudice ordinario non sia stata attribuita alcuna giurisdizione esclusiva ma, diversamente, la tutela effettiva e piena di tutte le ragioni di diritto soggettivo azionate ab origine dal lavoratore. Peraltro, ai fini di garantire la pienezza e l’effettività della tutela, la giurisprudenza maggioritaria riconosce il potere del giudice ordinario di disporre la reintegra del lavoratore: invero, la disapplicazione accompagnata dal mero risarcimento non sarebbe soddi204. Non sempre è facile distinguere atti di macro e atti di micro organizzazione. Talvolta la legge li qualifica espressamente; negli altri casi occorre verificare se l’atto sia idoneo o meno ad incidere sulla posizione del singolo lavoratore.

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sfacente delle pretese del lavoratore illegittimamente licenziato205. Al giudice amministrativo restano devolute le controversie relative ai settori non privatizzati (cosiddetto personale non contrattualizzato) in sede di giurisdizione esclusiva, comprese dunque gli aspetti relativi ai diritti patrimoniali consequenziali206 e al risarcimento del danno207. Inoltre, la giurisdizione amministrativa opera anche in materia di concorsi; la fase selettiva resta invero interamente disciplinata dal diritto amministrativo e caratterizzata dall’esercizio del potere autoritativo. In particolare, l’accesso mediante concorso costituisce la regola non solo per l’ingresso nella pubblica amministrazione, ma altresì per il passaggio a funzioni più elevate (cosiddetti concorsi interni). Ai fini della giurisdizione, occorre distinguere tra concorsi interni che determinano una progressione, come un passaggio di area, e concorsi che invece comportano solo un passaggio di livello, senza modifica della categoria208. Mentre per i primi opera la giurisdizione amministrativa, per i secondi opera la giurisdizione ordinaria, in quanto non vi è alcuna novazione oggettiva del rapporto di lavoro. Si tratta di progressioni cosiddette orizzontali, che avvengono all’interno della stessa area e che si differenziano dalle progressioni verticali tra un’area e un’altra, ovvero tra una categoria e un’altra,

205. La tutela offerta dal giudice ordinario non può infatti essere inferiore rispetto a quella accordata dal giudice amministrativo. Si pensi alle sentenze con cui il giudice ordinario accerta il diritto del ricorrente all’assunzione e costituisce il rapporto di lavoro. La giurisprudenza maggioritaria ritiene inoltre che le sentenze di condanna del giudice ordinario possano essere oggetto di un giudizio di ottemperanza. 206. Con tale espressione si fa riferimento alle somme che spettano al lavoratore a titolo di risarcimento in conseguenza dell’annullamento del provvedimento illegittimo. Su tali questioni il giudice ordinario non può pronunciarsi, in quanto non ha a monte il potere di annullare l’atto amministrativo. 207. Cfr. art.133, lett. i) c.p.a.. 208. Il personale dipendente della pubblica amministrazione è inserito nel cosiddetto organico; l’inquadramento in senso orizzontale prevede la distinzione tra comparti e, in senso verticale, tra aree.

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dove viene ad instaurarsi un nuovo rapporto209. Analoghe argomentazioni vengono svolte in caso di mobilità: se si tratta di mobilità interna non vi è l’instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro ma solo una modificazione in senso soggettivo; pertanto, opera la giurisdizione ordinaria. Diversamente, le controversie relative alla mobilità esterna sono devolute al giudice amministrativo, in quanto la procedura comporta la valutazione comparativa dei titoli dei partecipanti e la stipula di nuovi contratti di lavoro tra amministrazione e vincitori. Il concetto di procedura concorsuale devoluta al giudice amministrativo deve intendersi comprensiva di tutti gli atti compiuti dall’emissione del bando all’approvazione della graduatoria210. Pertanto, i successivi atti di nomina, anche a seguito di scorrimento della graduatoria in vigore, restano sottratti alla giurisdizione amministrativa. In questi casi, invero, non vi è alcuna valutazione comparativa da effettuare, ma viene compiuta solo una verifica dei requisiti e, pertanto, le posizioni che vengono in rilievo sono di diritto soggettivo. In particolare, nelle ipotesi di scorrimento della graduatoria, il soggetto ha diritto alla legittimità degli atti di gestione della graduatoria stessa, nell’ottica di una possibile assunzione. Secondo la giurisprudenza ordinaria, gli idonei in graduatoria avrebbero un vero e proprio diritto all’assunzione nel caso in cui l’amministrazione decida di occupare un posto rimasto vacante. La discrezionalità sarebbe limitata alla decisione di assumere ma, una volta che l’amministrazione opti per la copertura del posto, essa sarebbe vincolata ad attingere alla graduatoria. La conseguenza è dunque che il soggetto dovrebbe rivolgersi al giudice ordinario per far valere il proprio diritto211. 209. L’istituto delle progressioni, sia economiche che di carriera, è stato toccato dal decreto 74/2017, ispirato alla valorizzazione della competenza dei lavoratori. 210. Precisamente, il termine concorso deve intendersi in senso stretto, quale procedura che comporta una valutazione comparativa, non basata su criteri automatici. Cfr. Ad. Plen. n.11/11. 211. Cfr. Cass. Civ., sez. un., 29 settembre 2003, n.14529.

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Di diverso avviso la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale la pubblica amministrazione avrebbe facoltà di scegliere se bandire ovvero attingere dalla graduatoria, con conseguente posizione di interesse legittimo del privato che dovrebbe pertanto rivolgersi al giudice amministrativo. La tesi è tuttavia minoritaria, spettando peraltro alle Sezioni Unite l’ultima parola in materia di giurisdizione. E’ evidente dunque come la diversa qualificazione dell’attività amministrativa abbia ripercussioni sul piano della tutela giurisdizionale. E’ infine pacifico che la giurisdizione amministrativa opera sempre nel caso in cui il soggetto voglia contestare l’avvio di una procedura concorsuale, a fronte dell’interesse allo scorrimento della graduatoria. Invero, in questa ipotesi il soggetto contesta l’esercizio del potere pubblicistico e, pertanto, esso aziona una posizione di interesse legittimo. Per quanto riguarda le tipologie di lavoro flessibili e, in generale, le controversie relative ai rapporti di collaborazione esterna, il riparto di giurisdizione torna a fondarsi sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, in quanto in tali ipotesi non si configura il rapporto di dipendenza del lavoratore con la pubblica amministrazione. Sempre in materia di tutela, inizialmente la giurisprudenza aveva sostenuto la possibilità di esperire altresì il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso gli atti di micro-organizzazione, ritenendo che la loro natura soggettivamente ma non oggettivamente amministrativa non fosse un ostacolo all’operatività di tale rimedio. Pertanto, sarebbe stato possibile parallelamente adire il giudice ordinario e ricorrere alla tutela giustiziale, in quanto strumenti concorrenti212. 212. Ovviamente, ferma restando la facoltà del giudice ordinario di disapplicare la decisione sul ricorso, nonché configurandosi l’improcedibilità del ricorso con la definizione del giudizio ordinario.

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La questione è stata poi definita dal codice del processo amministrativo; l’art.7, comma 8 dispone infatti che il ricorso straordinario è ammesso solo per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa, ponendo pertanto i due rimedi in termini di alternatività213.

213. Precisamente, il limite di esperibilità del ricorso opera per i ricorsi proposti dopo il 16 settembre 2010, data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo.

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CAPITOLO V L’AZIONE AMMINISTRATIVA Sommario: 5.1 I caratteri e i principi dell’azione amministrativa. - 5.2 Azione vincolata e azione discrezionale. – 5.3 Gli atti della pubblica amministrazione. Il provvedimento. – 5.3.1 Le patologie dell’atto amministrativo. - 5.4 L’attività comportamentale. – 5.5 La non azione: il silenzio della pubblica amministrazione. – 5.6 L’attività consensuale: gli accordi. - 5.7 L’attività di controllo. - 5.8 L’azione di diritto privato: rinvio.

5.1 I caratteri e i principi dell’azione amministrativa L’azione amministrativa consiste nell’attività con cui la pubblica amministrazione provvede in concreto alla cura degli interessi che le sono affidati. Infatti, l’azione amministrativa non è mai libera, ma sempre funzionale al soddisfacimento di interessi pubblici ed è soggetta al controllo giurisdizionale. Nel tempo, l’attività amministrativa si è modificata; inizialmente, si trattava di attività unicamente autoritativa, con esercizio del pubblico potere da parte dell’amministrazione, in una posizione di supremazia rispetto al privato. L’autoritatività si esprime infatti mediante atti unilaterali di diritto pubblico che sono in grado di incidere sulla sfera del privato destinatario, modificandola, anche contro la sua volontà. L’azione amministrativa che si svolge mediante atti autoritativi integra la cosiddetta funzione amministrativa214. Distinte sono la funzione di governo, la funzione legislativa e la funzione giurisdizionale. La funzione di governo individua le finalità da perseguire e l’indirizzo politico generale; la funzione legislativa fissa le regole e la funzione giurisdizionale ne controlla il rispetto. 214. Pertanto, il concetto di attività amministrativa comprende quello di funzione amministrativa.

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La distinzione più importante da compiere è quella tra attività amministrativa e attività politica. Quest’ultima, come detto, determina l’indirizzo politico. Gli atti politici si differenziano dagli atti amministrativi in quanto sono liberi nel fine; al contrario, l’atto amministrativo, anche discrezionale, è sempre vincolato al perseguimento di predeterminati scopi di interesse pubblico. Da ciò deriva l’insindacabilità degli atti politici e la soggezione degli atti amministrativi al controllo giurisdizionale215. Accanto agli atti pubblicistici, tuttavia, si sono progressivamente affiancati altri e diversi strumenti per lo svolgimento dell’azione amministrativa. Quest’ultima, invero, non richiede necessariamente l’esercizio del potere autoritativo per essere svolta, ma può avvalersi di strumenti altresì privatistici. L’amministrazione, quindi, utilizza oggi pacificamente anche strumenti di tipo negoziale, in cui le parti sono in posizione di parità sostanziale. Trattandosi comunque di attività amministrativa, anche gli atti privatistici sono vincolati al perseguimento di interessi pubblicistici e, pertanto, non si tratta mai di atti liberi nel fine216. Alla luce dell’art.97 Cost. invero, l’attività amministrativa è interamente funzionalizzata alla tutela degli interessi pubblicistici, sia che essa venga svolta mediante atti pubblicistici, sia che l’amministrazione ricorra a strumenti di diritto privato. In particolare, gli atti privatistici hanno trovato ingresso per poi svilupparsi in tutti i settori dell’amministrazione; si pensi alla generalizzazione dell’istituto degli accordi, nonché agli atti di gestione del rapporto di lavoro e alle diverse figure contrattuali civilistiche che via via sono state ritenute stipulabili anche dall’amministrazione pubblica217. 215. Più correttamente, gli atti politici sono soggetti al solo controllo della Corte Costituzionale. 216. Si tratta di autonomia negoziale limitata in quanto i fini sono predeterminati dalla legge. 217. Si pensi ai contratti di tesoreria, sponsorizzazione e leasing finanziario.

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Oggi è pacificamente riconosciuta la capacità di diritto privato dell’amministrazione; tuttavia, sulla sua portata si scontrano due tesi. Secondo la dottrina minoritaria si tratterebbe di una capacità speciale, in ragione dei numerosi elementi di differenziazione rispetto al regime privatistico, tra i quali, il perseguimento del pubblico interesse, la mancanza di libertà di forma nella stipula dei contratti, i meccanismi concorsuali e i limiti alla pignorabilità dei beni pubblici. La teoria maggioritaria ritiene però che si tratti di una piena capacità di diritto privato, in forza della disposizione di cui all’art.1, comma 1 bis della L. n.241/90, da leggere in combinato disposto con il successivo art.11, per cui la pubblica amministrazione, di regola, agirebbe mediante atti privatistici, il cui utilizzo comporta solo una rinuncia alla funzione ma non all’agire funzionale218. L’azione amministrativa è permeata da una serie di principi, alcuni dei quali di carattere nazionale, altri di derivazione europea. Nel tempo, invero, tali principi si sono moltiplicati, per far fronte ai sempre maggiori bisogni della collettività. Principale resta il principio di legalità, rectius, doppia legalità, per cui la legge attribuisce all’amministrazione i poteri necessari per agire e stabilisce i fini da perseguire mediante l’azione amministrativa. Tale principio trova il proprio fondamento normativo innanzitutto nella Costituzione, ancorché non espressamente sancito, agli artt.23, 24, 97 e 113, nonché nell’art.1, comma 1, della L. n.241/90. Conseguenze del principio di legalità sono, fra le altre, la nominatività dei provvedimenti amministrativi, il potere di autotutela - per permettere che l’azione sia sempre funzionale al pubblico interesse - l’eccezionalità dei provvedimenti con certezza privilegiata e la possibilità di esecuzione coattiva dei provvedimenti solo nei casi previsti ex lege. 218. L’art.1, comma 1bis, L. n.241/90 rappresenta un’inversione rispetto all’impostazione tradizionale secondo la quale il diritto pubblico sarebbe il diritto tipico dell’amministrazione.

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Il principio di semplificazione amministrativa risponde all’esigenza di modernizzare l’amministrazione nel suo complesso, insinuandosi a livello di procedimento amministrativo, con l’introduzione di istituti quali il silenzio assenso, la S.c.i.a. e la conferenza di servizi, che permettono una più agevole dialettica e maggiore speditezza dell’iter procedimentale. Tale principio non deve tuttavia confondersi con i processi di delegificazione, per cui si attribuisce principalmente ai regolamenti il compito di normare l’attività amministrativa e di deregolamentazione, con cui sono state eliminate o ridotte procedure legislative farraginose. Diversa ancora è la cosiddetta liberalizzazione, con cui si è sostituito il regime di preventiva autorizzazione con un sistema di controlli successivi per lo svolgimento di attività da parte del privato. Nel principio di semplificazione rientra anche il processo di informatizzazione dell’amministrazione pubblica, consacrato mediante l’approvazione di un vero e proprio Codice dell’Amministrazione Digitale219. Il C.A.D. introduce nel nostro ordinamento nuovi concetti, quale quelli di domicilio e di identità digitali, per cui ciascun cittadino ha il diritto di accedere ai servizi offerti dalle pubbliche amministrazioni mediante la propria identità telematica, eleggendo un domicilio tramite il quale comunicare con il soggetto pubblico, in tempi necessariamente più veloci. La semplificazione amministrativa deve tuttavia essere guidata dal principio di proporzionalità, per cui non deve tradursi in una lesione degli interessi privatistici e pubblicistici, i quali devono poter essere garantiti anche da un iter procedimentale semplificato220. La proporzionalità comporta che l’amministrazione non deve incidere sulle sfere giuridiche dei privati in modo eccessivo rispetto 219. D. lgs. n.82/15, così come modificato dal D. lgs. n.179/16 e integrato dal d. lgs. 13 dicembre 2017. 220. Si consideri la non operatività del meccanismo del silenzio assenso nel settore ambientale, in considerazione dei rilevanti e delicati interessi in gioco.

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a quanto necessario; la logica è quella del minor sacrificio degli interessi coinvolti. Altro principio è quello di imparzialità, per cui l’amministrazione deve porsi in una posizione di equidistanza dagli interessi che vengono in rilievo, i quali devono poi essere ponderati al fine di una scelta coerente. Tale principio è contenuto nell’art.97 Cost. che, ancorché si riferisca alla sola organizzazione, deve intendersi esteso a tutta l’attività amministrativa. A livello ordinario, l’imparzialità è stata codificata solo con la Legge n.96/2009, che ha riformato l’art.1 della legge sul procedimento. Applicazioni del principio sono il divieto di discriminazioni e favoritismi nelle procedure di gara o nell’accesso ai pubblici servizi, l’obbligo di motivazione dei provvedimenti e la garanzia del contraddittorio221. Strettamente connesso a quello di imparzialità è il principio di ragionevolezza per cui l’amministrazione, nello svolgere la propria attività, deve seguire una logica per evitare decisioni arbitrarie o irrazionali. La violazione di questo principio è infatti indice di eccesso di potere qualora si traduca in motivazioni illogiche, contraddittorie o in disparità di trattamento. L’art.97 Cost. prevede inoltre il principio di buon andamento, che impone all’amministrazione di agire nel modo più adeguato e conveniente per l’interesse della collettività. Esso si compone dei parametri di economicità, vale a dire di ottimizzazione dei risultati in relazione alle risorse possedute; efficacia, quale positivo rapporto tra obiettivi perseguiti e risultati raggiunti; efficienza, inerente al rapporto tra risorse impiegate e risultati conseguiti, per cui le prime devono essere adeguate ai secondi222. 221. L’imparzialità si distingue dalla neutralità che è tipica delle Autorità amministrative indipendenti, sulle quali si veda il Capitolo III. 222. Tali principi sono peraltro oggi tipizzati all’art.1, comma 1, L. n.241/90, per cui la loro violazione comporta una vera e propria violazione di legge.

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Fondamentale è inoltre il principio di sussidiarietà, che trova un proprio riconoscimento sia a livello comunitario che a livello nazionale. Dal punto di vista europeo, la sussidiarietà comporta che l’attuazione del diritto unionale è rimessa principalmente ai singoli Stati membri; tuttavia, l’Unione europea può intervenire qualora la dimensione sovranazionale dell’interesse richieda un intervento unitario. La sussidiarietà a livello nazionale è sancita dall’art.118 Cost., il quale prevede specularmente che lo Stato intervenga solo laddove vi siano esigenze di unitarietà, essendo la funzione di regola affidata alle amministrazioni più vicine ai cittadini. In questo senso si fa riferimento alla sussidiarietà verticale, quale criterio di ripartizione delle funzioni amministrative. La sussidiarietà orizzontale invece si riferisce alla possibilità di intervento del privato nello svolgimento dell’attività amministrativa, di cui sono espressione il fenomeno di privatizzazione dell’impresa pubblica, la liberalizzazione dei servizi pubblici e delle attività economiche private223. Centrale nell’azione amministrativa è il principio di legittimo affidamento. Esso consiste nella necessità di tutelare il privato che, in buona fede, abbia confidato nella legittimità dell’azione amministrativa. Per cui, al privato che si veda assicurata una posizione di vantaggio da un provvedimento amministrativo, la legge riconosce un indennizzo al momento della rimozione del provvedimento, ovvero dispone che l’annullamento intervenga entro un ragionevole termine224. Di derivazione giurisprudenziale europea è infine il principio di precauzione. Nasce nel settore ambientale, per poi diffondersi in tutti i settori e permette all’amministrazione di adottare provvedimenti nelle ipotesi in cui si prospetti il rischio della lesione di un 223. L’art.118 Cost. deve infatti combinarsi con l’art.41 Cost., in quanto l’autonomia privata può esplicitarsi anche nell’esercizio delle funzioni pubbliche. 224. Il riferimento principale è agli strumenti di autotutela, per i quali si veda il Capitolo VI.

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interesse pubblico rilevante, ancorché non vi sia stata ancora un effettivo pregiudizio. L’esigenza è quella di garantire una tutela ex ante piuttosto che ex post, in relazione a beni particolarmente sensibili, per cui vi è pericolo di un danno ma non vi sono le conoscenze sufficienti per accertarne l’effettiva verificazione. Si anticipa quindi la soglia di tutela che opera prima del verificarsi di una lesione225. A questi principi se ne aggiungono di ulteriori che saranno trattati nei diversi ambiti in cui vengono maggiormente in rilievo226. 5.2 Azione vincolata e azione discrezionale Nell’ambito dell’azione amministrativa, un’importante distinzione è quella tra azione vincolata e azione discrezionale. L’attività amministrativa è guidata da limiti positivi, che mantengono l’azione orientata al perseguimento del fine pubblico e limiti negativi, a garanzia della liceità dell’azione stessa. Laddove questi ultimi siano posti in modo preciso e puntuale si avrà attività vincolata, nella quale l’amministrazione accerta unicamente la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere. Pertanto, l’amministrazione non ha alcun margine di manovra e non deve compiere alcuna scelta, poiché non si prospettano alternative per le modalità di esercizio del potere. Nelle ipotesi in cui detti limiti siano invece maggiormente elastici, si avrà attività discrezionale, la quale trova parimenti fondamento nella legge227. La distinzione rileva sotto diversi profili; ad esempio, il dovere motivazionale è più o meno stringente a seconda che si tratti di attività discrezionale ovvero vincolata; l’art.21 octies L. n.241/90 ha 225. Uno dei settori in cui opera maggiormente il principio di precauzione è quello medico, caratterizzato da incertezze scientifiche, per cui si giustifica un intervento in presenza di una possibilità di verificazione dell’evento lesivo. 226. Si vedano i principi dello stand still, di leale collaborazione, di perequazione e di consequenzialità. 227. Il potere dell’amministrazione non è pertanto mai totalmente libero, ma al massimo è discrezionale.

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ambiti di applicazione differenziati per i provvedimenti vincolati, da un lato, e per quelli discrezionali, dall’altro. Inoltre, in tema di giurisdizione, si ritiene che, a fronte di attività vincolata, il soggetto possa vantare un diritto soggettivo, azionabile dinanzi al giudice ordinario; diversamente, nelle ipotesi di attività discrezionale, la posizione del privato sarebbe di interesse legittimo. In realtà, nell’ambito dell’attività vincolata, occorre distinguere tra il vincolo posto da una norma di azione e il vincolo posto da una norma di relazione. Rispettivamente, infatti, si configurerebbero un interesse legittimo e un diritto soggettivo. Inoltre, il procedimento volto all’adozione di un provvedimento vincolato ha un’istruttoria più semplice, in quanto l’amministrazione non deve compiere alcuna valutazione di merito. La discrezionalità amministrativa invece corrisponde a quell’attività che comporta la scelta, tra più comportamenti leciti, di quello più idoneo al soddisfacimento dell’interesse perseguito. La discrezionalità può attenere all’an, al quid, al quomodo e al quando emanare un provvedimento; resta sempre fermo il vincolo del fine pubblicistico228. A seconda del grado di discrezionalità, l’amministrazione ha la facoltà di decidere uno o alcuni di questi elementi; fondamentali restano il perseguimento dell’interesse collettivo e la corretta ponderazione degli interessi coinvolti nell’ambito del procedimento di formazione dell’atto discrezionale, in ossequio al principio di proporzionalità229. La nozione di discrezionalità nasce nell’ordinamento giuridico francese, per indicare quell’attività pubblica totalmente libera e sottratta a qualsiasi controllo giurisdizionale. In realtà, l’attività amministrativa, anche discrezionale, non 228. A seconda di quale aspetto sia investito dalla discrezionalità, si distinguono atti a discrezionalità massima, quali le ordinanze contingibili e urgenti, e atti discrezionali per l’emanazione ma vincolati nel contenuto, oppure atti vincolati nell’emanazione ma discrezionali nel contenuto. 229. Il perseguimento dell’interesse pubblico non giustifica mai una compromissione totale o irragionevole degli altri interessi in gioco.

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sfugge mai completamente a sistemi di controllo, i quali sono più o meno penetranti a seconda del tipo di provvedimento. Secondo la dottrina maggioritaria, la discrezionalità trova il proprio fondamento nel potere riconosciuto dalla legge all’amministrazione per il perseguimento dell’interesse collettivo; tuttavia, il concetto di discrezionalità si è modificato nel tempo. Tradizionalmente la discrezionalità è equiparata al merito amministrativo, vale a dire a quella parte dell’attività non direttamente disciplinata da norme giuridiche ma attinente ai profili di opportunità e convenienza. Nettamente distinta resterebbe la legittimità dell’azione amministrativa, che attiene diversamente al rispetto delle regole giuridiche, le quali permeano l’intera attività dell’amministrazione. Tuttavia, nel tempo la sfera del merito è stata erosa mediante la codificazione di alcuni principi, la cui inosservanza integra in tal modo vera e propria violazione di legge, nonché attraverso la sottrazione al merito di vari ambiti ricondotti oggi alla cosiddetta discrezionalità tecnica230. Pertanto, si è avuta una contrazione dell’area della discrezionalità insindacabile e, parallelamente, si è assistito a un ampliamento della sfera della legittimità e, quindi, degli aspetti dell’attività amministrativa che il giudice può sindacare. La violazione dei principi che limitano l’attività discrezionale non resta tuttavia oggi senza conseguenze. Può invero affermarsi che l’evoluzione del processo amministrativo è stata determinata – almeno in parte – dall’evoluzione delle tecniche di controllo sull’atto discrezionale. Più precisamente, il passaggio da un sistema giurisdizionale esclusivamente caducatorio dell’atto illegittimo ad un sistema in cui viene indagata la pretesa sostanziale del privato (cosiddetto passaggio da un giudizio sull’atto a un giudizio sul rapporto) deriva anche dalla valorizzazione della categoria dell’illegittimità del provvedimento per eccesso di potere. 230. Ad esempio, all’interno della Legge n.241/90 sono stati positivizzati i principi di economicità e efficacia, il cui mancato rispetto integra pertanto oggi vera e propria violazione di legge; inoltre, la giurisprudenza ritiene che anche il vizio di non proporzionalità del provvedimento non possa sottrarsi al sindacato giurisdizionale.

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Infatti, la giurisprudenza ha nel tempo fatto sempre maggiore ricorso a tale fattispecie di annullabilità, coniando diverse figure sintomatiche, indici della violazione dei cosiddetti limiti interni della discrezionalità amministrativa231. In altre parole, l’eccesso di potere rappresenta il vizio tipico del provvedimento discrezionale, in quanto non vi è violazione diretta di norme giuridiche, ma comunque vi è violazione dei limiti che ineriscono il potere pubblico. I vizi di merito che restano insindacabili attengono esclusivamente ai profili di opportunità e convenienza dell’atto amministrativo232. Istituto distinto dalla discrezionalità amministrativa è la discrezionalità tecnica. Secondo parte della dottrina, peraltro, tale termine sarebbe utilizzato del tutto impropriamente, in quanto non contempla alcuna valutazione o comparazione di interessi da parte dell’amministrazione. È attività sottratta al merito amministrativo, non attenendo a profili di opportunità e convenienza; si tratta infatti di attività che fa applicazione di quelle scienze tecniche che vengono richiamate da norme giuridiche e che concorrono in tal modo alla formazione di provvedimenti amministrativi. La norma di riferimento della discrezionalità tecnica è l’art.17 della L. n.241/90 che riconosce la facoltà per l’amministrazione di acquisire altrove gli elementi tecnici necessari ad adottare la decisione finale233. In altre parole, quando all’amministrazione occorrono cognizioni tecniche e scientifiche specifiche per esaminare le circostanze fattuali da valutare ai fini dell’adozione di un provvedimento, si ha esercizio della discrezionalità tecnica. Qualora, a seguito dell’attività tecnica, l’amministrazione mantenga una propria discrezionalità nella scelta della soluzione più 231. Si vedano nel prosieguo, le patologie dell’atto amministrativo. 232. Solo in via eccezionale sarebbe consentito un sindacato sul merito: cfr. art.134 c.p.a.. 233. Restano escluse le valutazioni affidate ad amministrazioni preposte alla tutela di determinati beni, come l’ambiente e il paesaggio.

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idonea, si parla di discrezionalità mista234 . Diversamente, laddove vi sia un’unica via percorribile, all’attività tecnica farà seguito un provvedimento vincolato. Invero, la valutazione tecnica può comportare l’applicazione di scienze più o meno opinabili, che quindi possono lasciare un successivo margine di valutazione all’amministrazione. Per quanto riguarda il sindacato del giudice sulla discrezionalità tecnica, la giurisprudenza ha conosciuto una profonda evoluzione. Inizialmente, anche tale discrezionalità era ricondotta al merito amministrativo e, pertanto, era ritenuta del tutto sottratta al controllo giurisdizionale. La svolta si è avuta con la sentenza del Consiglio di Stato n.601/1999 che ha espressamente sancito la distinzione tra discrezionalità tecnica e merito; precisamente, ancorché si tratti di accertamento di fatti potenzialmente opinabile, la discrezionalità tecnica non riguarda i profili di opportunità del provvedimento, ma un presupposto di legittimità dello stesso, attenendo più propriamente alla fase istruttoria della sua formazione. Ammessa dunque la sindacabilità dell’attività tecnica, è seguito un dibattito sulla natura del sindacato concesso al giudice. Inizialmente si riteneva che il giudice potesse operare un sindacato intrinseco e debole. Con tale espressione si intende un controllo che, facendo utilizzo di regole tecniche, anche mediante l’ausilio di un consulente, si limita a valutare la ragionevolezza e logicità della decisione amministrativa. Successivamente, si è superata tale impostazione a favore del riconoscimento di un sindacato intrinseco e forte, che si spinge alla valutazione della correttezza sia del criterio tecnico utilizzato, sia dell’esercizio del potere235. 234. La discrezionalità mista indica la combinazione tra la discrezionalità tecnica e la discrezionalità amministrativa. Tuttavia, tale espressione non è condivisa, ritenendo le due attività del tutto distinte. 235. Per completezza, si da atto che di fatto è stata superata la distinzione tra sindacato forte e debole; tuttavia, in ossequio al principio di effettività della tutela e considerato che la discrezionalità tecnica non è merito, il sindacato non può incontrare limiti nella valutazione circa il corretto esercizio del potere.

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Il codice del processo ha confermato questa impostazione, ponendo quale limite il divieto per il giudice di compiere valutazioni di opportunità e convenienza, di regola riservate all’amministrazione e consentite solo nelle ipotesi eccezionali di giurisdizione di merito. Una breve riflessione merita il controllo giurisdizionale sugli atti delle Autorità amministrative indipendenti. Tali atti sono infatti tipica espressione di un’attività discrezionale tecnica e oggi si ritiene che il giudice possa sindacare la correttezza dell’attività sotto ogni profilo, quindi relativamente al criterio tecnico utilizzato e all’esercizio del potere. In particolare, rispetto ai poteri sanzionatori dell’Antitrust236, la giurisprudenza si è spinta ancor più oltre, riconoscendo al giudice la facoltà di sostituire le sanzioni irrogate dall’Autorità, qualora ne accerti la non proporzione o irragionevolezza, di fatto quindi sostituendosi ad un potere già esercitato237. 5.3 Gli atti della pubblica amministrazione. Il provvedimento I tipi di atti adottati dalla pubblica amministrazione rispecchiano il mutamento che ha interessato le modalità di esercizio dell’azione amministrativa. Infatti, agli atti autoritativi e unilaterali si sono nel tempo affiancati, e parzialmente sostituiti, atti di natura privatistica e consensuale238. Non vi è alcuna norma che fornisce una definizione di atto amministrativo; pertanto, la dottrina ha elaborato diverse teorie239. Tradizionalmente, la concezione era molto ampia e ricomprendeva tutti gli atti pubblicistici emanati dal potere esecutivo. 236. Autorità per la tutela della concorrenza e del mercato. 237. Ciò è giustificato dall’esigenza di tutelare beni di rilevanza europea, quali la concorrenza e l’ordine pubblico economico sovranazionale. 238. Si veda nel prosieguo l’istituto degli accordi, nonché l’attività contrattuale della pubblica amministrazione al Capitolo VIII. 239. Vi sono comunque varie previsioni legislative che offrono indicazioni sulla portata dell’atto amministrativo; fra le altre, si vedano l’art.7 c.p.a. e l’art.1 della Legge n.241/90.

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Successivamente, amministrativo veniva ritenuto l’atto emanato da un’autorità amministrativa (elemento formale) nell’esercizio di un’attività amministrativa (elemento sostanziale). Altra teoria ormai superata compiva una ricostruzione dell’atto amministrativo sullo schema del negozio giuridico, distinguendo l’atto amministrativo che integrava una mera dichiarazione di scienza dall’atto amministrativo negoziale, quale dichiarazione di volontà dell’amministrazione. La dottrina più recente sostiene la teoria della procedimentalizzazione e funzionalizzazione dell’atto, il quale viene tipicamente adottato nell’ambito di un procedimento ed è preordinato al soddisfacimento del pubblico interesse, con idoneità ad incidere sulle posizioni soggettive dei privati. Più precisamente, secondo tale tesi, l’atto amministrativo è qualsiasi manifestazione di volontà e conoscenza, posta in essere da un’autorità amministrativa nell’esercizio della funzione amministrativa in relazione ad una situazione specifica e rivolto a destinatari determinati240. La dottrina maggioritaria individua gli elementi costitutivi dell’atto amministrativo in autore, destinatario, volontà, oggetto e forma. Precisamente, il soggetto è l’organo competente all’emanazione dell’atto e al quale l’atto viene dunque imputato e può trattarsi di soggetto pubblico ovvero privato esercente pubbliche funzioni. Destinatario è il soggetto nei cui confronti si producono gli effetti dell’atto e deve essere quanto meno determinabile attraverso il contenuto dell’atto stesso. La volontà è elemento essenziale; nell’ipotesi di vizio della volontà, l’atto è colpito da eccesso di potere. L’oggetto consiste nella res su cui l’atto amministrativo incide e deve essere possibile, lecito e determinato241. 240. Pertanto, non costituiscono atti amministrativi gli atti posti in essere da soggetti non amministrativi ovvero emanati non nell’ambito di una funzione pubblica, ovvero ancora i meri comportamenti e gli atti di diritto privato, ancorché adottati da una pubblica amministrazione. 241. Stesse caratteristiche dell’oggetto contrattuale ai sensi dell’art.1346 c.c..

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Tradizionalmente era prevista la forma scritta per tutti gli atti amministrativi; in realtà, tale obbligo non è mai stato previsto da alcuna norma per cui deve ritenersi operante il principio di libertà della forma242. Rispetto a tale elemento vengono in rilievo i cosiddetti atti impliciti, vale a dire atti che si pongono in termini di stretta consequenzialità rispetto ad altri precedenti atti espliciti243. Tale figura è di origine pretoria ed è stata elaborata per permettere l’impugnazione di atti rispetto ai quali il privato non avrebbe altrimenti avuto tutela244. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato che per potersi parlare di atto implicito occorre una manifestazione di volontà da parte dell’amministrazione da cui far discendere l’atto implicito, il quale deve rientrare nella sfera di competenza di quella stessa amministrazione. Inoltre, l’atto implicito deve porsi in un collegamento di stretta consequenzialità rispetto all’atto presupposto, contribuendo in tal modo ad esprimere la volontà amministrativa. L’assenza di uno degli elementi essenziali sopra descritti comporta la nullità dell’atto amministrativo. Ciò non accade qualora l’atto manchi di una (logica) motivazione. La motivazione non integra un elemento costitutivo dell’atto amministrativo, ancorché sussista un vero e proprio obbligo di legge per la pubblica amministrazione di motivare tutti i propri atti245. L’art.3 della legge sul procedimento generalizza invero l’obbligo motivazionale, a garanzia della trasparenza dell’azione amministrativa nonché del diritto di difesa dei privati interessati dall’atto 242. La forma scritta costituisce comunque la prassi. 243. Diverso è il provvedimento tacito che viene in rilievo nelle ipotesi di silenzio dell’amministrazione, in cui non vi è manifestazione di volontà. 244. In passato, l’attività comportamentale dell’amministrazione non aveva alcuna rilevanza; ma facendo dalla stessa discendere i medesimi effetti scaturenti da un provvedimento, è stato possibile portare l’attività materiale al vaglio del giudice. 245. La violazione dell’obbligo di motivazione integra una violazione di legge quando la motivazione manchi del tutto ovvero un’ipotesi di eccesso di potere qualora la motivazione sia illogica o contraddittoria.

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emanato246. L’importanza della motivazione si desume da alcune considerazioni compiute dalla giurisprudenza. In relazione alla motivazione per relationem, si sostiene che essa è ammessa ma solo se l’atto richiamato è indicato in modo preciso e reso disponibile al privato. Inoltre, la motivazione postuma è oggi ritenuta ammissibile solo per gli atti vincolati o a discrezionalità limitata. Accanto agli elementi essenziali, l’atto può avere anche un contenuto eventuale, accidentale; precisamente, può esservi apposto un termine iniziale o finale, ovvero una condizione sospensiva o risolutiva oppure un onere. Una species di atto amministrativo è l’atto di alta amministrazione, che rappresenta il momento di congiunzione tra politica e amministrazione247. Si tratta di atti caratterizzati da immediata esecutività e ampia discrezionalità e, di conseguenza, soggetti ad un controllo giurisdizionale meno penetrante248. Resta un atto amministrativo (e non politico) in quanto è atto vincolato nel fine e il cui fondamento si rinviene nell’art.95 Cost.. L’atto amministrativo per eccellenza è rappresentato dal provvedimento. E’ atto che esprime la volontà dell’amministrazione, sia in relazione al contenuto che agli effetti. La legge non fornisce una definizione del provvedimento; dottrina e giurisprudenza lo definiscono quale atto amministrativo destinato a produrre unilateralmente effetti sulle posizioni soggettive dei destinatari. Per questo, il provvedimento si distingue principalmente dagli atti strumentali, vale a dire quegli atti funzionali alla successiva 246. Gli unici atti esclusi dall’obbligo di motivazione sono gli atti politici i quali, caratterizzati da generalità e astrattezza, non hanno la capacità di incidere sulle posizioni soggettive individuali. 247. Esempio di atto di alta amministrazione è l’atto di nomina del dirigente di un’azienda sanitaria locale. 248. Precisamente, si tratta di un sindacato estrinseco, limitato alla legittimità dell’atto.

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emanazione del provvedimento e che hanno quindi carattere meramente interno al procedimento249. Invero, il provvedimento è l’atto che tipicamente l’amministrazione adotta all’esito di un procedimento, con efficacia esterna. In tal senso, il provvedimento esprime la volontà dell’amministrazione; in altri termini, è espressione del potere amministrativo. Accanto ai requisiti sopra evidenziati, tipici di tutti gli atti amministrativi e, quindi, anche del provvedimento, quest’ultimo presenta ulteriori caratteristiche proprie. Il provvedimento è unilaterale, per cui è adottato dalla pubblica amministrazione e produce effetti autonomamente. Il provvedimento è altresì autoritativo, vale a dire imperativo, per cui si impone sul privato senza necessità di collaborazione e anzi, anche contro la volontà del destinatario. Inoltre, decorsi i termini di impugnazione previsti ex lege, il provvedimento diventa stabile e può essere revocato o annullato solo dalla stessa amministrazione in via di autotutela. I provvedimenti sono governati dal principio di tipicità che permea la struttura, il contenuto e le finalità del provvedimento – tutti aspetti integralmente predeterminati dalla legge – nonché dal principio di nominatività, per cui ad ogni interesse pubblico corrisponde un modello provvedimentale prestabilito. A garanzia del rispetto del provvedimento da parte del destinatario, la pubblica amministrazione può imporne l’adempimento; si tratta dell’esecutorietà del provvedimento, quale istituto posto a garanzia dell’esigenza di certezza, che opera per i provvedimenti che non sono autoesecutivi, vale a dire in grado di produrre i propri effetti sic et simpliciter250. Oggi l’art.21 ter della L. n.241/90, così come modificato dalla Legge n.15/05, prevede che l’amministrazione che decide di pro249. L’atto interno di regola non è impugnabile, in quanto non ha alcuna capacità lesiva di posizioni soggettive, ad eccezione di quegli atti che ad esempio hanno natura vincolante (come alcuni tipi di pareri) e che sono idonei a determinare un arresto procedimentale. 250. L’esecutività, vale a dire la potenzialità del provvedimento di esplicare immediatamente i propri effetti, attiene alla sua imperatività; l’esecutorietà attiene invece al potere di autotutela.

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cedere all’esecuzione coattiva del provvedimento, è tenuta a una previa diffida nei confronti del destinatario inadempiente251. La dottrina ha operato diverse classificazioni dei provvedimenti, sulla base di diversi elementi. La più importante è riferita agli effetti, per cui si distingue tra provvedimenti accrescitivi come le autorizzazioni e le concessioni; ablatori, quale il provvedimento di espropriazione; sanzionatori; provvedimenti di secondo grado, quali annullamento e revoca in autotutela e atti di controllo. Con la digitalizzazione dell’attività si è inoltre avuta la totale equiparazione degli atti informatici agli atti amministrativi cartacei, nell’ottica della semplificazione dell’azione amministrativa. 5.3.1 Le patologie dell’atto amministrativo Con il termine patologie si indicano in generale le ipotesi di difformità dell’atto amministrativo rispetto al paradigma normativo. Si parla di irregolarità, quando la difformità è lieve, nel senso che non vengono compromessi gli interessi che la norma vuole tutelare e l’atto è pienamente valido e efficace252. L’atto è invece inopportuno quando non risponde ai principi di buona amministrazione di cui all’art.97 Cost., essendo quindi viziato nel merito. Di vera e propria inesistenza si parla quando è addirittura impossibile ricondurre l’atto nella fattispecie legale astratta, per cui è atto giuridicamente irrilevante. Tradizionalmente l’inesistenza veniva identificata con la nullità del provvedimento. La teoria è stata superata definitivamente con l’inserimento dell’art.21 septies nella legge sul procedimento, il quale elenca i casi di nullità del provvedimento, con conseguente erosione della categoria dell’inesistenza. 251. L’esecutorietà è carattere eccezionale del provvedimento ed è prevista espressamente dalla legge. 252. Ad esempio è irregolare l’atto che non contiene i termini per l’impugnazione.

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Nel diritto amministrativo la categoria della nullità ha un ambito di applicazione piuttosto ristretto, limitato alle ipotesi tassativamente elencate253. Peraltro, il provvedimento nullo non può dirsi giuridicamente irrilevante, in quanto è suscettibile di esecuzione e di conversione, a tutela dell’affidamento che il privato può maturare sulla validità dell’atto. La norma richiamata è stata introdotta dalla Legge n.15/2005; prima di tale intervento normativo, non vi era una disciplina positiva che regolasse la nullità del provvedimento, ma vi erano solo alcune disposizioni ad hoc di nullità speciali254. L’art.21 septies prevede le categorie della nullità testuale, della nullità strutturale, della nullità per difetto assoluto di attribuzione e della nullità per violazione o elusione di giudicato. Le ipotesi costituiscono un numero chiuso; tuttavia non è sempre agevole riconoscerle e distinguerle da altre ipotesi patologiche. Il difetto assoluto di attribuzione, ad esempio, non è concetto pacificamente delineato. Per una prima tesi si tratterebbe delle ipotesi di carenza di potere in astratto, per cui l’atto sarebbe stato emanato in assenza della norma attributiva del potere e di incompetenza assoluta, che si ha quando l’atto è adottato da un plesso amministrativo diverso da quello competente. Secondo un’altra tesi, tuttavia minoritaria, tale categoria comprenderebbe altresì le ipotesi di carenza di potere in concreto. Le due teorie comportano conseguenze diverse sul piano della giurisdizione: precisamente, aderendo alla prima, si dovrebbe riconoscere la giurisdizione amministrativa solo per le ipotesi di carenza di potere in concreto; mentre, seguendo la seconda tesi, opererebbe sempre il giudice ordinario. La nullità strutturale, come già accennato, si ha quando l’atto manca di uno o più dei suoi elementi costitutivi. 253. Il rapporto tra nullità e annullabilità nel diritto amministrativo è ribaltato rispetto a quanto accade nel diritto civile, dove la nullità è la forma principale di invalidità del contratto. Ad esempio, la violazione di norme imperative comporta la nullità del contratto e l’annullabilità del provvedimento amministrativo. 254. Nullità dell’accesso al pubblico impiego senza concorso; nullità degli accordi stipulati in assenza dei requisiti di forma. INDICE

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Un tempo si distingueva tra provvedimenti elusivi, che venivano colpiti dalla nullità e provvedimenti violativi annullabili; la legge oggi equipara le due fattispecie patologiche che si configurano allorquando l’amministrazione, successivamente alla sentenza, eserciti nuovamente il proprio potere in modo illegittimo, disattendendo la decisione giurisdizionale. Il codice del processo prevede la giurisdizione esclusiva solo per quest’ultima categoria di nullità. Per gli altri casi si ritiene che debba farsi ricorso ai principi generali, per cui occorre verificare se vi è o meno esercizio del potere autoritativo. L’azione di nullità è azione di accertamento che può essere esperita dal destinatario o da terzi pregiudicati nel termine decadenziale di centottanta giorni; il termine rivela che l’atto nullo è comunque produttivo di effetti ed è suscettibile di essere portato ad esecuzione mediante atti successivi, nonché di ingenerare un legittimo affidamento sulla sua validità255. Il provvedimento può essere colpito anche da nullità parziale. In realtà si tratta di un’eventualità piuttosto rara in quanto le ipotesi di nullità comportano una deficienza tale dell’atto che difficilmente potrà sopravvivere, ancorché solo in parte. Tuttavia, la nullità parziale, in forza del principio di conservazione dell’atto, comporta la resistenza della parte di provvedimento non colpita dalla patologia256. Lo stesso principio di conservazione, unitamente a quello di continuità dell’azione amministrativa, consentono infine la conversione dell’atto nullo e la sua rinnovazione. La forma generale di invalidità è tuttavia costituita dall’annullabilità, a garanzia dei principi di continuità dell’azione amministrativa, nonché di stabilità del provvedimento e di affidamento del privato. L’annullabilità è disciplinata integralmente dal diritto amministrativo, senza necessità di integrazione ad opera del codice civile. 255. Sull’azione di nullità, si veda anche il capitolo dedicato alla giustizia amministrativa. 256. Ancora più che in ambito civilistico, nel diritto amministrativo il principio di conservazione si rende utile, stante l’importanza di garantire la continuità dell’azione amministrativa.

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L’art.21 octies della L. n.241/90 elenca i casi di annullabilità: si tratta di vizi che attengono alla fase di formazione del provvedimento, che viene adottato in violazione di legge, mediante eccesso di potere o da una pubblica amministrazione incompetente. L’incompetenza prevista dalla norma de qua è da intendersi quale incompetenza relativa, per cui l’organo emanante appartiene al plesso amministrativo competente ma non è l’organo deputato all’emanazione del provvedimento. Essa integra un’ipotesi specifica di violazione di legge (id est: legge sul riparto di competenze), per cui può esservi un’incompetenza per valore, per materia o per territorio. L’eccesso di potere si configura quando l’amministrazione esercita il potere per finalità diverse da quelle previste dalla norma attributiva del potere stesso ovvero quando esercita poteri diversi da quelli previsti per quella determinata attività. E’ un vizio tipico dei provvedimenti discrezionali, in cui l’amministrazione ha margine di manovra; tuttavia, secondo parte della giurisprudenza, anche i provvedimenti non interamente vincolati oppure caratterizzati da discrezionalità tecnica potrebbero essere viziati da eccesso di potere. I casi di eccesso di potere non sono disciplinati; la giurisprudenza ha nel tempo individuato una serie di figure sintomatiche da cui si evince il malfunzionamento del potere amministrativo. Esempi sono il difetto di istruttoria, il travisamento o l’erronea valutazione dei fatti, l’illogicità o contraddittorietà della motivazione, la violazione di circolari, per cui l’amministrazione si dimostra incoerente nei confronti dei privati con cui si relaziona. Portata generale e residuale ha la categoria della violazione di legge, per cui c’è divergenza tra atto e previsione normativa, largamente intesa257. La violazione può consistere in una mancata ovvero erronea applicazione della norma e tradursi, ad esempio, in assenza di motivazione, difetto dei presupposti legali per l’adozione dell’atto, violazione dei principi del giusto procedimento, ecc. 257. La divergenza può aversi anche con norme di rango secondario.

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Un’ipotesi di violazione di legge è costituita anche dalla difformità dell’atto alla normativa dell’Unione, per cui l’atto amministrativo contrasta direttamente con il diritto comunitario, con conseguente annullamento in sede giurisdizionale ovvero in via di autotutela258. L’art.21 octies, comma 2 disciplina inoltre i cosiddetti vizi non invalidanti, vale a dire vizi la cui portata non è in grado di inficiare la validità del provvedimento. Tale categoria di vizi rappresenta la ormai riconosciuta scissione tra illiceità e invalidità del provvedimento ed è preordinata a garantire una maggiore tutela, evitando annullamenti ormai inutili o, addirittura, controproducenti. La disposizione pone quindi dei limiti all’annullamento per violazione di legge, prevedendo che, qualora le norme violate attengano ad aspetti formali o procedimentali che non influiscono sul contenuto del provvedimento, quest’ultimo non sia annullabile. L’attenzione è quindi posta su quella che può essere definita la lesività sostanziale del provvedimento. La norma introduce due ipotesi di sanatoria ex lege, per irrilevanza del vizio: la prima parte del comma riguarda i provvedimenti vincolati e dispone la loro validità qualora sia palese che l’assenza del vizio, derivante dalla violazione di norme sul procedimento o sulla forma, non avrebbe determinato un contenuto diverso. La seconda parte sembra riferirsi a tutti i tipi di provvedimento, e stabilisce che, qualora sia fornita la prova dell’identità del contenuto in assenza di vizio, la violazione delle norme procedurali non determina l’invalidità dell’atto. Le due disposizioni si pongono quindi in rapporto di specialità in relazione al tipo di vizio dedotto; inoltre, mentre nella prima parte, la norma fa riferimento alla palese identità di contenuto tra provvedimento viziato e non, nella seconda parte, è richiesta la prova di tale identità. 258. Diverso è se a contrastare con il diritto comunitario è la norma attributiva del potere: qui l’atto sarebbe colpito da invalidità derivata e il giudice dovrebbe procedere alla disapplicazione della norma statale anti-comunitaria.

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La disposizione normativa analizzata codifica il principio del raggiungimento del risultato, per cui non vi sarebbe nessun interesse del privato a chiedere l’annullamento del provvedimento; invero, l’amministrazione adotterebbe nuovamente un provvedimento con il medesimo contenuto259. Peraltro, secondo parte della giurisprudenza, la disciplina dei vizi non invalidanti limiterebbe unicamente il potere di annullamento del giudice; l’atto resta invero illegittimo e, pertanto, il privato avrebbe diritto di agire per il risarcimento. L’invalidità dell’atto amministrativo è definita derivata, quando due atti sono connessi tra loro, nel senso che un atto presupposto costituisce il fondamento di un successivo atto, detto presupponente, condizionandone la validità, sulla base di una generica e indiretta connessione. Si tratta di due atti che di regola sono autonomi e distinti, per cui è necessaria la doppia impugnativa; tuttavia, nel caso in cui tra i due atti intercorra un rapporto di stretta consequenzialità, per cui l’uno è presupposto unico e necessario dell’altro, che ne è mera esecuzione, l’invalidità del primo determinerà automaticamente l’invalidità del secondo (cosiddetta invalidità ad effetto caducante). In questo caso, l’impugnazione può essere unica, con alleggerimento dell’onere gravante sul privato. Di dubbia configurazione è l’invalidità sopravvenuta, per cui un atto, ab origine valido, per cause sopravvenute risulta non essere più conforme al dettato normativo. Tale ipotesi di invalidità riguarderebbe evidentemente i soli atti a efficacia continuativa e potrebbe essere contrastata mediante un’impugnazione con motivi aggiunti260. 5.4 L’attività comportamentale I comportamenti rappresentano una modalità di svolgimento dell’azione amministrativa. 259. Secondo la giurisprudenza maggioritaria, l’eventuale azione di annullamento andrebbe dichiarata inammissibile per difetto di interesse. 260. Sull’istituto dei motivi aggiunti, si veda il capitolo dedicato alla giustizia amministrativa.

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La loro autonomia è sancita dal codice del processo che li annovera nelle norme dedicate alla giurisdizione. Ad eccezione dei comportamenti omissivi, che vanno ricondotti alle ipotesi di silenzio, tutti gli altri comportamenti amministrativi rientrano nella categoria delle attività espressione del potere pubblicistico. Distinti infatti sono i comportamenti meramente materiali, che non sono manifestazione della potestà amministrativa. La distinzione è rilevante sul piano della giurisdizione, in quanto i soli comportamenti amministrativi sono affidati al giudice amministrativo, proprio perché sono riconducibili, almeno in via mediata, al potere autoritativo261. Precisamente, un comportamento è espressione di autoritatività qualora se ne rilevi la connessione con un provvedimento. Problematico è identificare la natura del comportamento nel momento in cui la connessione non vi sia ovvero il provvedimento venga meno. In altre parole, occorre verificare se in queste ipotesi, il comportamento degradi a mero comportamento materiale ovvero resti un comportamento amministrativo in senso stretto, con ripercussioni dal punto di vista giurisdizionale. Il tema è dibattuto nell’ambito dell’espropriazioni, con riferimento innanzitutto all’istituto della retrocessione parziale, cui si rinvia262. I comportamenti possono essere di tipo dichiarativo, quando non integrano una dichiarazione di volontà, avendo tipicamente una rilevanza meramente interna al procedimento. I comportamenti possono inoltre costituire attività esecutiva di un provvedimento ovvero sostitutiva; in questo secondo caso, si tratta di comportamenti concludenti, che testimoniano la progressiva deformalizzazione dell’attività amministrativa. Tipico esempio è l’occupazione appropriativa263. I comportamenti possono incidere anche su diritti fondamentali dell’individuo. 261. Cfr. art.133 c.p.a.. 262. Si veda Capitolo IX. 263. Per l’analisi dell’istituto, si veda Capitolo IX.

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Tradizionalmente si riteneva che solo il giudice ordinario potesse conoscere delle controversie relative ai diritti fondamentali, in quanto in queste ipotesi l’amministrazione agirebbe sempre in assenza di potere. Tale orientamento è oggi superato e la giurisdizione ordinaria si giustifica solo se si è in presenza di meri comportamenti materiali, in quanto non sono espressione del potere pubblicistico264. Diversamente, qualora si tratti di comportamenti amministrativi, come detto, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo e ciò vale anche laddove si faccia questione di diritti fondamentali265. 5.5 La non azione: il silenzio della pubblica amministrazione Il tempo dell’azione amministrativa è stato oggetto di un’attenzione sempre crescente. Sono infatti state inserite diverse disposizioni normative, segno dell’importanza sempre maggiore attribuita al rispetto dei tempi procedimentali. Si pensi in primis all’introduzione dell’art.2 nella Legge n.241/90, che sancisce il principio della certezza temporale per la conclusione del procedimento, nonché la figura del danno da mero ritardo, il potere sostitutivo dei dirigenti a fronte dell’inerzia dei funzionari, la generalizzazione dell’istituto del silenzio assenso, nonché il rito

264. Sul riparto di giurisdizione si vedano Capitoli II e XIII. 265. Si vedano i principi fissati da C. Cost. n.204/2004 e C. Cost. n.191/06.

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accelerato previsto in materia dall’art.117 c.p.a.266. Si ha silenzio tutte le volte che l’amministrazione non conclude il procedimento con un provvedimento espresso. Pertanto, diverso è il potere provvedimentale implicito, che si connota comunque per la presenza di una volontà positiva dell’amministrazione, che discende da un provvedimento o comportamento precedenti. Nel caso di silenzio, invece, la volontà positiva dell’amministrazione manca totalmente. In generale, a fronte dell’inerzia dell’amministrazione, l’ordinamento appresta due ordini di tutele: la prima di tipo preventivo, che si ha quando la legge, mediante una vera e propria fictio iuris, attribuisce rilevanza e significato al silenzio (è il caso del silenzio assenso e del silenzio diniego). La seconda tipologia di tutela interviene successivamente, per cui il privato è tenuto ad agire per contrastare gli effetti pregiudizievoli del mancato provvedimento (ipotesi di silenzio inadempimento). 266. L’evoluzione dell’ordinamento in materia di silenzio si rinviene nelle seguenti disposizioni: art. 2 della L. n.241/90 sul principio di doverosità dell’esercizio del potere amministrativo; Legge n.86/90 sulla riforma delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., con la riscrittura dell’art. 328, comma 2, c.p.; art. 17 lettera f) della L. n.59/97, quale tentativo di introdurre la regola della generale indennizzabilità dei pregiudizi derivanti dal ritardo della P.A.; L. n.205/00 che ha inserito nella L. n.1034/71 l’art. 21 bis disciplinante un rito sul silenzio (oggi trasfuso nel 117 c.p.a.); LL. n.15 e n.80 del 2005 che hanno riscritto vari articoli della legge sul procedimento, quali: l’art. 2, che stabilisce i casi in cui il silenzio dell’amministrazione continua a non avere valore provvedimentale; l’art. 19 che ha introdotto l’istituto della D.i.a., l’art. 20 che ha esteso il silenzio assenso a tutti i procedimenti ad istanza di parte con la sola eccezione dei provvedimenti rilasciati da amministrazioni preposte alla cura di interessi qualificati; L. n.69/09 che ha ridefinito i termini per provvedere riconoscendo il danno da ritardo ex art.2 bis della L. n.241/90; D.L. n.78/10 che ha riscritto l’art. 19 sulla S.c.i.a.; D.lgs. n.104/10 che contiene la disciplina del rito avverso il silenzio ex art. 31 e 117 e la disciplina dell’azione per il risarcimento del danno da silenzio ex art. 30, comma 4; D.L n.5/12 (Semplifica Italia) che ha introdotto la responsabilità dei dirigenti per il funzionario inadempiente, che ometta o emani tardivamente il provvedimento espresso introducendo, dall’altro lato, la possibilità di ricorrere al potere sostitutivo in caso di inerzia; D.L. n.83/10 per la semplificazione della documentazione necessaria in materia di S.c.i.a.; Decreto del fare n.69/13 sulla condanna della P.A. al pagamento di 30 euro giornalieri quali indennizzo per il mero ritardo.

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Il legislatore qualifica diversamente le ipotesi di inerzia dell’amministrazione, distinguendo diverse forme di silenzio. Il silenzio inadempimento si configura quando l’inerzia non è diversamente disciplinata. E’ figura giurisprudenziale che non riconosce alcun valore provvedimentale all’inerzia amministrativa. In passato, tale inerzia era qualificata quale rifiuto dell’amministrazione e, dunque, si riteneva integrasse un provvedimento negativo implicito. La tesi oggi ormai pacifica ritiene al contrario che tale silenzio integri vero e proprio inadempimento dell’obbligo di provvedere, con legittimazione dell’interessato ad agire per accertare la sussistenza dell’obbligo. Pertanto, l’espressione silenzio – rifiuto è stata del tutto superata, altresì in quanto era strettamente legata ad una visione tradizionale del processo amministrativo – parimenti superata – quale processo esclusivamente impugnatorio. La qualifica del silenzio come atto implicito sfavorevole attribuiva infatti al privato la facoltà di impugnare l’atto267. Ancorché attualmente si ritenga pacificamente che tale ipotesi di inerzia integri, al contrario, un mero comportamento omissivo, la giurisprudenza utilizza ancora il termine rifiuto. Più precisamente, la giurisprudenza parla di rifiuto nelle ipotesi di attività discrezionale e di inadempimento nei casi di attività vincolata. La dottrina preferisce invece distinguere le due espressioni. Presupposto per la configurabilità del silenzio inadempimento, è il dovere di provvedere dell’amministrazione. Come accennato, l’art.2 della L. n.241/90 sancisce l’obbligo generalizzato dell’amministrazione di concludere il procedimento mediante un atto espresso. Per parte della dottrina si tratta di una previsione espressione 267. Si trattava di una facoltà in un certo senso astratta, in quanto materialmente non vi era alcun atto da impugnare. La teoria del silenzio inespressivo, asignificativo, ha infatti permesso di superare le obiezioni circa l’assenza del provvedimento che il privato avrebbe dovuto contrastare in giudizio.

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del principio di buona fede, per cui il privato avrebbe un’aspettativa giuridicamente rilevante circa l’adozione di una decisione amministrativa268. Dalla legge sul procedimento, la disciplina del silenzio inadempimento è stata trasfusa nel codice del processo amministrativo. Il rito è contenuto all’art.117 c.p.a., il quale prevede la facoltà per il privato di inviare una previa diffida all’amministrazione prima di agire; l’azione è soggetta al termine prescrizionale di un anno, decorrente dalla scadenza del termine attribuito all’amministrazione per provvedere269. Questa previsione è posta al fine di evitare che l’inerzia amministrativa si protragga sine die. L’azione non ha natura impugnatoria ma è volta a ottenere l’accertamento dell’obbligo di provvedere in capo all’amministrazione rimasta inerte. Il privato ha a disposizione altresì l’azione risarcitoria ai sensi dell’art.30, comma 4, c.p.a., per l’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento270, da promuovere entro centoventi giorni decorrenti dalla scadenza del termine previsto per l’emanazione del provvedimento271. Nel caso in cui venga accertato il dovere dell’amministrazione di provvedere, il giudice può contestualmente nominare un commissario ad acta, affinché l’amministrazione adempia al proprio obbligo. Mentre sulla natura del commissario nell’ambito del giudizio di ottemperanza non vi sono dubbi, in questo caso la dottrina si divide272. 268. Occorre che il privato sia titolare di una posizione giuridica differenziata e qualificata. 269. La disciplina previgente prevedeva la diffida obbligatoria, che è stata eliminata dal codice del processo amministrativo. La giurisprudenza ritiene che la presentazione della diffida sia idonea a interrompere il termine di decadenza. 270. Sul danno da ritardo si veda Capitolo X. 271. Giurisprudenza e dottrina hanno sottolineato la lacuna legislativa circa i rapporti tra azione avverso il silenzio e azione risarcitoria, i cui termini non sono coordinati fra loro, per cui il privato potrebbe trovarsi costretto ad agire per il risarcimento senza ancora sapere se l’amministrazione aveva o meno l’obbligo di provvedere. La questione sembra potersi in parte riequilibrare mediante l’istituto dei motivi aggiunti. 272. Sul giudizio di ottemperanza si veda il capitolo dedicato alla giustizia amministrativa.

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Una prima tesi lo qualifica quale ausiliario del giudice; altra tesi ritiene integri un organo ausiliario dell’amministrazione e un’ultima tesi lo definisce organo misto. Preferibile e maggiormente condivisa è la tesi dell’organo straordinario dell’amministrazione, in quanto non si è in presenza di un vero e proprio giudizio di ottemperanza autonomo, ma il commissario interviene nell’ambito dello stesso procedimento instaurato avverso il silenzio. Inoltre, nell’ipotesi in esame, il commissario ha il potere di emanare veri e propri atti amministrativi, sostituendosi in tal modo alla stessa amministrazione inadempiente. Relativamente al silenzio inadempimento, altra questione rilevante riguarda i controinteressati, vale a dire coloro i quali hanno un interesse contrario rispetto al privato che vuole ottenere il provvedimento. Invero, in passato si riteneva che nel giudizio avverso il silenzio inadempimento non vi fossero controinteressati, in quanto tale silenzio non sarebbe in grado di creare posizioni giuridiche nuove, limitandosi a confermare lo stato delle cose. Tuttavia, il concetto stesso di controinteressato si è ampliato, identificandosi lo stesso non solo nel soggetto che trae benefici dal mancato provvedimento, ma anche nel soggetto che subirebbe pregiudizio dall’accoglimento della richiesta del ricorrente273. Pertanto, oggi, l’art.117 c.p.a. prevede la notifica del ricorso ad almeno uno dei controinteressati, a pena di inammissibilità. Quid iuris se dopo la formazione del silenzio, l’amministrazione emana il provvedimento? Prima dell’approvazione del codice del processo, la giurisprudenza riteneva che l’amministrazione conservasse il proprio potere di provvedere. Pertanto, l’eventuale giudizio del privato sarebbe divenuto improcedibile per cessazione della materia del contendere, nel caso di provvedimento di accoglimento, ovvero per carenza di interesse, nel caso di provvedimento di rigetto. 273. Precisamente, controinteressato è chi subisce un pregiudizio dall’emanazione del provvedimento (elemento sostanziale) e che è quanto meno identificabile dal ricorso proposto dal privato avverso l’inerzia amministrativa (elemento formale). INDICE

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L’art.117 c.p.a. prevede oggi la possibilità di impugnare il provvedimento sopravvenuto mediante motivi aggiunti nell’ambito del giudizio sul silenzio, con conversione in rito ordinario. Valore di vero e proprio provvedimento è invece riconosciuto al silenzio assenso e al silenzio rigetto. Il silenzio assenso è rimedio preventivo volto a evitare che la mancata adozione del provvedimento si traduca in effetti pregiudizievoli per il privato. Si tratta di una qualificazione formale dell’inerzia per cui, decorso il termine per provvedere, l’istanza del privato si considera accolta. Presupposti sono la corretta instaurazione del procedimento da parte dell’amministrazione e la non sussistenza di una delle ipotesi per le quali la legge esclude la formazione di tale silenzio. Precisamente, il silenzio assenso ricorre in tutte le ipotesi in cui l’amministrazione dovrebbe concludere il procedimento con un provvedimento espresso: l’obbligo di avviare il procedimento e l’obbligo di concluderlo viaggerebbero così in parallelo. In realtà, parte della giurisprudenza ritiene che l’obbligo di concludere in modo espresso sussista anche laddove il procedimento sia stato avviato senza che l’amministrazione fosse obbligata. Accanto alle ipotesi di dovere di conclusione previste dalla legge, si configurano così altre analoghe ipotesi di natura giurisprudenziale, accomunate dal particolare rapporto che viene ad instaurarsi tra amministrazione e privato. Il fondamento di questi obblighi discenderebbe direttamente dal principio di buon andamento di cui all’art.97 Cost.. Il silenzio assenso è disciplinato dall’art.20 della legge sul procedimento, modificato dalla Legge n.80/05, che ha generalizzato l’istituto a tutti i procedimenti avviati ad istanza di parte. Esclusi restano i casi in cui siano coinvolti interessi di particolare rilievo, quali ambiente e immigrazione, rispetto ai quali può configurarsi il solo silenzio inadempimento274. 274. A tutela di interessi particolarmente sensibili, la legge prevede la necessità di provvedimenti espliciti.

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Il silenzio diniego è figura residuale prevista dall’art.20, comma 4, L. n.241/90, che ricorre nelle ipotesi in cui non si configura il silenzio assenso275. Decorso il termine per provvedere, in assenza di un provvedimento espresso, l’istanza del privato viene considerata rigettata. La legge prevede ipotesi specifiche di silenzio diniego, ad esempio in materia di edilizia, accesso ai documenti amministrativi e impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione. A fronte di tale forma di silenzio non si applica il rito previsto dall’art.117 c.p.a., ma è possibile esperire unicamente l’azione demolitoria entro il termine decadenziale di sessanta giorni. Ciò conferma la natura provvedimentale del silenzio de quo, che consuma il potere amministrativo di emanare atti. Diverso è il silenzio rigetto, che ricorre nei casi di mancata pronuncia sui ricorsi gerarchici proposti avverso atti non definitivi e che consente al privato di adire le vie giurisdizionali276. Nell’ordinamento si rinvengono altre forme di silenzio. Il silenzio approvazione ha valore legale di accoglimento e riguarda i rapporti interorganici, allorquando l’atto di un’autorità amministrativa sia sottoposto al controllo di un’altra autorità. Carattere infraprocedimentale è attribuito al silenzio facoltativo che si configura quando, all’interno di un procedimento, l’esercizio di una determinata competenza sia discrezionale. Parimenti ha natura infraprocedimentale il silenzio devolutivo, quando il silenzio di un’amministrazione comporta la devoluzione della competenza ad altra amministrazione277. Il silenzio rinuncia si configura quando un potere non viene esercitato nel termine previsto; infine, si parla di silenzio illecito quando il termine per l’esercizio del potere è posto nell’interesse del privato e l’amministrazione inerte lede un vero e proprio diritto soggettivo278. 275. La norma prevede che il silenzio assenso non opera nei casi in cui la legge attribuisce al silenzio dell’amministrazione, valore di rigetto dell’istanza. 276. Sull’argomento, si veda Capitolo XIII. 277. Si vedano gli artt.16 e 17 della L. n.241/90. 278. Rispettivamente, si pensi al potere delle Regioni di annullare le concessioni illegittime entro il termine di dieci anni e, in generale, tutte le ipotesi di atti dovuti entro termini prefissati ex lege. INDICE

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5.6 L’attività consensuale: gli accordi Gli accordi sono espressione dell’evoluzione dell’attività amministrativa, tradizionalmente svolta mediante atti esclusivamente unilaterali e autoritativi e progressivamente orientatasi verso l’utilizzo di strumenti consensualistici. Gli accordi rientrano inoltre nel novero degli istituti posti a garanzia del diritto di partecipazione del privato al procedimento di formazione dell’atto amministrativo, coinvolgendolo nel momento più importante, quello decisionale. Al pari dello strumento contrattuale, l’accordo è espressione della capacità di diritto privato dell’amministrazione, per cui trovano applicazione le norme del codice civile in quanto compatibili279. A differenza dei contratti però, con l’accordo l’amministrazione non si spoglia del proprio potere autoritativo, ma opta per il suo esercizio in via consensuale. Secondo autorevole dottrina, gli accordi avrebbero introdotto il principio della negoziabilità della funzione amministrativa, in quanto l’amministrazione sceglie di esercitare il potere mediante un atto bilaterale. In tal senso, l’accordo integra un diverso modo di perseguire l’interesse pubblico che tuttavia non può derogare all’ordinario riparto delle competenze tra amministrazioni. Si distinguono due forme di accordi, l’una che interviene tra amministrazione e privato e l’altra che intercorre tra due o più amministrazioni. L’art.11 della L. n.241/90 disciplina gli accordi tra amministrazione e privato, quale strumento che rappresenta l’evoluzione del modo di esercitare l’azione amministrativa, sancendo la generalizzazione dello strumento consensualistico. Tale strumento porta vantaggi al soggetto pubblico, in quanto sicuramente minimizza il rischio di impugnazione del provvedimento. Infatti, il privato partecipa all’attività dell’amministrazione, con279. Ad esempio, all’accordo si applica l’art.1362 c.c. in materia di interpretazione.

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tribuendo a determinare il contenuto della decisione. Tradizionalmente, la partecipazione privatistica era ritenuta inopportuna, inadatta a garantire il perseguimento dell’interesse pubblico. Oggi tale impostazione è stata del tutto abbandonata, facendo leva sulle prime tipologie di accordo, previste in alcune normative di settore, attraverso le quali è stato possibile sperimentare i benefici del coinvolgimento del privato nell’attività amministrativa280. Si distinguono accordi sostitutivi e accordi di tipo integrativo. Con i primi si ha vera e propria sostituzione del provvedimento unilaterale con l’accordo, cui sono dunque imputati i relativi effetti. L’accordo integrativo, invece, è il risultato di una contrattazione tra privato e amministrazione, il cui contenuto viene trasfuso in un provvedimento, che regolerà l’assetto finale degli interessi. Tradizionalmente, i due tipi di accordi si distinguevano in quanto i soli accordi sostitutivi erano governati dal principio di tipicità. Con la Legge n.15/05 si è superato tale principio, per cui vige l’atipicità per entrambe le tipologie di accordi; tuttavia, potendo gli accordi sostitutivi intervenire solo in luogo dei provvedimenti, essi risentiranno della tipicità provvedimentale. Gli accordi si rivelano utili non solo quando l’amministrazione semplicemente sceglie di avvalersi dello strumento consensuale281 ma, in generale, in tutti quei casi in cui vi sia una vera e propria necessità di negoziare con il privato282. Non vi è invece spazio per gli accordi nelle ipotesi in cui l’amministrazione deve emanare atti normativi, atti generali, nonché atti interamente vincolati e atti che comportano effetti pregiudi280. Il riferimento è agli accordi in materia espropriativa (cessione volontaria), nel settore del pubblico impiego (accordi quadro), in ambito edilizio (convenzioni di lottizzazione) e nel settore appalti (accordo bonario). 281. Ai sensi dell’art.11, comma 4 bis, L. n.241/90, l’amministrazione che decida di procedere alla conclusione di un accordo, sostitutivo o integrativo che sia, è tenuta a emanare preventivamente una determinazione unilaterale, adeguatamente motivata rispetto all’interesse pubblico perseguito e alle ragioni della scelta di avvalersi dello strumento consensualistico. La mancanza o l’invalidità di tale determina comporta l’invalidità derivata dell’accordo. 282. Tale necessità può emergere, ad esempio, in ambito espropriativo.

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zievoli nei confronti di soggetti terzi che non hanno partecipato al procedimento di formazione. Sulla natura degli accordi, vi è stata un’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale. Tradizionalmente si sosteneva la natura autoritativa dell’accordo, rispetto al quale l’intervento del privato era qualificato come requisito di efficacia ovvero presupposto di legittimità dell’accordo stesso. Successivamente, è stata coniata la categoria dei contratti di diritto pubblico, quale tertium genus tra attività autoritativa e attività contrattuale strictu sensu intesa. Si tratterebbe di contratti il cui oggetto rientra nell’esclusiva disponibilità dell’amministrazione pubblica283. Tali orientamenti sono stati entrambi superati e oggi si contendono il campo la teoria privatistica e quella pubblicistica, senza che vi sia un’unanimità di vedute. Secondo i fautori della tesi privatistica, gli accordi sono contratti di diritto comune con oggetto pubblico, senza tuttavia integrare una terza tipologia di atto; il potere pubblicistico si porrebbe solo quale presupposto dell’accordo. A sostegno di tale tesi, si evidenzia innanzitutto il richiamo operato dalla norma amministrativa al codice civile e l’utilizzo del termine accordo al pari dell’art.1325 c.c.. La tesi pubblicistica qualifica gli accordi come vincoli prevalentemente di carattere pubblicistico, sulla base della collocazione sistematica della norma all’interno della legge sul procedimento, dell’assimilazione del recesso alla revoca in quanto esercitabile solo per sopravvenuti interessi pubblici, della previsione della giurisdizione amministrativa esclusiva, nonché della previsione di un sistema di controlli sugli accordi. Aderire all’una o all’altra tesi ha ripercussioni sul regime delle patologie dell’accordo, sull’esercizio dell’autotutela, nonché sui ri283. Per parte della dottrina, nella categoria dei contratti di diritto pubblico deve ricondursi la concessione-contratto, per cui con il provvedimento, l’amministrazione dispone di un servizio o di un bene in via autoritativa e con l’annesso contratto privatistico vengono disciplinati i profili patrimoniali.

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medi esperibili a fronte delle inadempienze dell’amministrazione. L’art.15 della L. n.241/90 disciplina gli accordi tra amministrazioni, ciascuna delle quali si occupa di un determinato profilo del pubblico interesse complessivamente perseguito con l’accordo. Pertanto, si crea un coordinamento tra diverse amministrazioni che concordano lo svolgimento di determinate attività per una migliore tutela dell’interesse collettivo284. L’attività cui si riferisce la norma deve intendersi in senso ampio, comprendente qualsiasi attività giuridica; ciò dimostra il favor del legislatore per tale istituto, la cui portata applicativa viene estesa il più possibile. Tale tipologia di accordi risente in modo significativo dell’influenza comunitaria, la quale ne ha individuato le condizioni di legittimità. Infatti, il timore sarebbe quello che le amministrazioni possano utilizzare gli accordi per procedere ad un’aggiudicazione informale e sfuggire alla disciplina in materia di gare pubbliche. Pertanto, gli accordi devono essere preordinati allo svolgimento di un interesse pubblico e devono garantire la parità di trattamento delle amministrazioni coinvolte; deve sussistere la piena collaborazione tra le amministrazioni, ciascuna delle quali deve svolgere un ruolo attivo, ancorché non in egual misura; inoltre, gli spostamenti patrimoniali non possono mai consistere in pagamenti, ma tutt’al più in rimborsi spese. A tali accordi, per quanto compatibile, si applica il precedente articolo 11. Una species del genus accordi ex art.15, sono gli accordi di programma, disciplinati dall’art.34 del T.U.E.L. e, per quanto non previsto, dallo stesso articolo 15. Precisamente, la norma speciale stabilisce un vero e proprio iter di approvazione dell’accordo285. 284. Si veda l’istituto della conferenza di servizi all’interno del Capitolo VII, per cui all’esito del procedimento, le amministrazioni in conferenza adottano spesso accordi. 285. Il procedimento di formazione si articola in fase di iniziativa, fase istruttoria, fase decisoria e fase di integrazione dell’accordo con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

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Tali accordi si riferiscono a soggetti specifici, per lo più enti locali. Si tratta di strumenti di auto-coordinamento, sulla cui natura vi è dubbio in dottrina. La tesi tuttavia maggioritaria ritiene si tratti di atti pubblicistici, doverosamente preordinati al perseguimento dell’interesse pubblico, nei quali l’amministrazione mantiene la propria posizione di supremazia nei confronti del privato. In seno all’articolo 15 è possibile ricondurre altre tipologie di accordi, tutte contenute nel Testo Unico degli Enti Locali: le convenzioni ex art.30, i consorzi ex art.31, le unioni di comuni ex art.32 e l’esercizio associato di funzioni e servizi previsto all’art.33. 5.7 L’attività di controllo L’attività di controllo è guidata dal principio di alterità, per cui l’esame degli atti e delle azioni è demandato ad un soggetto diverso rispetto a quello che li ha posti in essere e comporta l’adozione di provvedimenti di secondo grado. Il controllo è funzionale a verificare che l’azione amministrativa rispetti la legge e le regole di imparzialità e buon andamento; per questo, l’attività di controllo è strumentale a quella di amministrazione attiva. La dottrina maggioritaria ritiene che l’atto di controllo abbia natura mista: in parte esso integra una manifestazione di volontà e, in parte, si concretizza in un giudizio. Nel tempo si è passati da un sistema di controllo preventivo sugli atti ad un sistema di controllo successivo sui risultati conseguiti dall’azione amministrativa nel complesso, in un’ottica di tipo collaborativo piuttosto che sanzionatorio286. Il controllo sulla gestione è infatti oggi il tipo di controllo maggiormente esercitato ed è finalizzato a verificare il rispetto dei prin286. Il controllo preventivo sulla legittimità degli atti viene svolto nel contraddittorio fra le parti, mentre il controllo sulla gestione viene svolto applicando regole di comune esperienza e non vere e proprie regole giuridiche. Ne consegue che la questione di legittimità costituzionale non è sollevabile in sede di controllo sulla gestione.

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cipi generali che governano l’azione amministrativa, potendo avere ad oggetto anche organi – e non solo atti o attività – dell’amministrazione. Accanto a questo, tuttavia, sussistono forme di controllo sugli atti, sia in via preventiva, vale a dire prima che l’atto diventi efficace; sia in via successiva alla produzione degli effetti, potendo determinarne la caducazione. Il controllo può essere a livello intersoggettivo ovvero interorganico e l’attività di controllo può essere legittimata o dalla posizione rivestita dal soggetto controllante nei confronti del controllato (come nel caso di un rapporto di subordinazione), oppure trovare il proprio fondamento direttamente nella legge. Il potere di controllo può discendere altresì dalla Costituzione, qualora tra i soggetti vi sia un rapporto non solo di equiordinazione ma anche di reciproca autonomia e indipendenza. Il potere della Corte dei Conti è sancito dall’art.100 Cost., il quale tuttavia, secondo quanto stabilito dalla stessa Corte Costituzionale, non esaurisce i poteri di controllo di tale organo. Pertanto, la Corte dei Conti può esercitare attività di controllo ulteriori rispetto a quelle espressamente previste, purché siano strumentali alla tutela di interessi costituzionalmente rilevanti. Una riforma importante ha interessato il sistema dei controlli sugli organi e sugli atti degli enti locali. La riforma del titolo V della Costituzione ha infatti ribaltato il rapporto fra Stato e Regioni anche dal punto di vista dei controlli, nel senso che è stato eliminato il controllo preventivo di merito sulle leggi regionali e sugli atti degli enti locali, con privilegio di un controllo sulla gestione. A bilanciamento di tale nuovo assetto, resta il potere di controllo esterno della Corte dei Conti, ancorché a carattere meramente collaborativo, nonché l’attribuzione allo Stato di forti poteri sostitutivi a fronte delle inadempienze degli enti locali287.

287. Cfr. artt.119 e 120 Cost..

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5.8 L’azione di diritto privato: rinvio L’attività di diritto privato consiste nello svolgimento dell’attività amministrativa mediante il ricorso a modelli consensuali e a veri e propri strumenti di diritto privato, quali gli accordi, ugualmente idonei al perseguimento dell’interesse pubblico. Per un’ulteriore analisi, si rinvia al Capitolo VIII dedicato all’attività della pubblica amministrazione contraente.

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CAPITOLO VI L’AUTOTUTELA AMMINISTRATIVA Sommario: 6.1 Il potere di riesame della pubblica amministrazione. - 6.2 Gli atti di autotutela. – 6.3 La revoca e l’annullamento del provvedimento amministrativo.

6.1 Il potere di riesame della pubblica amministrazione Il potere di riesame consiste nella facoltà dell’amministrazione di intervenire, in via unilaterale, su un provvedimento precedentemente emesso. Invero, emanato un provvedimento, l’amministrazione mantiene il proprio potere autoritativo e può esercitarlo intervenendo su un’attività già espletata. Storicamente ,dottrina e giurisprudenza hanno dimostrato diffidenza nei confronti dei cosiddetti provvedimenti di secondo grado, vale a dire quei provvedimenti che incidono su altri precedenti provvedimenti, determinandone la modifica o la caducazione. Tale approccio poggiava, dapprima, sulla presunzione di legittimità dell’azione amministrativa; successivamente, è maturata altresì l’esigenza di evitare un pregiudizio a danno del privato interessato al provvedimento. Per cui, non solo si riteneva che l’attività amministrativa fosse di per sé sempre legittima, ma si riconosceva anche la necessità di tutelare il legittimo affidamento del privato, che aveva confidato in questa stessa legittimità. Con il termine riesame, infatti, si indica in generale il potere dell’amministrazione di tornare sui propri passi e modificare l’attività precedentemente compiuta; la ratio è quella di mantenere l’attività stessa sempre rispondente all’interesse pubblico. Prima della riforma operata dalla Legge n.15/2005, in mancanza di una normativa ad hoc, in seno alla dottrina vi era dibattito circa il fondamento del potere di riesame dell’amministrazione e

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dubbi sulla sua compatibilità col principio di legalità. Secondo una prima tesi, si sarebbe trattato di uno strumento di controllo dell’amministrazione sui propri atti, al fine di accertarne la legittimità e la compatibilità con il pubblico interesse. Secondo altra tesi, il potere di riesame consisterebbe in un potere di autoimpugnativa, necessario in quanto l’amministrazione ha un vero e proprio dovere di eliminare i provvedimenti amministrativi illegittimi. Un’ulteriore teoria riteneva si trattasse di un nuovo esercizio del potere già esercitato, il quale, nonostante l’emanazione del provvedimento, non si era del tutto consumato. La tesi tuttavia maggioritaria considera il potere di riesame quale manifestazione del generale potere di autotutela amministrativa di tipo decisorio, con cui l’amministrazione adotta provvedimenti per risolvere conflitti attuali, ovvero evitarne di futuri, a causa di propri precedenti provvedimenti. L’autotutela decisoria si distingue dall’autotutela esecutiva di cui all’art.21 ter della L. n.241/90, per cui l’amministrazione può portare coattivamente ad esecuzione i propri provvedimenti288. La nozione di autotutela decisoria nasce in dottrina e, per tale ragione, sulla sua natura e sul suo fondamento vi sono stati numerosi dibattiti. In linea generale, è possibile qualificare l’autotutela decisoria quale potere autoritativo della pubblica amministrazione strettamente connesso al potere esercitato dalla stessa in precedenza. La ratio si rinviene nell’esigenza che l’azione amministrativa risponda in ogni momento all’interesse pubblico. Invero, un provvedimento ad efficacia durevole deve soddisfare tale rispondenza non solo al momento della sua emanazione, ma per tutto il tempo della sua vigenza. In questo senso, l’autotutela si rivela quale attività strumentale all’amministrazione attiva, con lo scopo di verificare la legittimità e l’opportunità degli atti amministrativi. L’autotutela decisoria può avere ad oggetto sia atti precedente288. Sull’argomento, si veda Capitolo V nella parte dedicata all’atto amministrativo.

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mente adottati dall’amministrazione, che rapporti giuridici di diritto amministrativo. Nel primo caso, il potere di riesame può essere esercitato in modo diretto dall’amministrazione ovvero indiretto, a fronte del ricorso del privato (cosiddetta autotutela contenziosa). Esempio tipico del secondo caso sono le concessioni, delle quali, ad esempio, l’amministrazione può disporre la revoca, qualora il privato non rispetti le prescrizioni del concedente pubblico. Inoltre, parte della dottrina e la giurisprudenza ritengono che, in relazione ai rapporti contrattuali, non sussista un potere di autotutela dell’amministrazione, in quanto non vi è alcuna norma che lo prevede: gli artt.21 quinquies 21 e nonies, invero, si riferiscono letteralmente ai soli provvedimenti289. L’autotutela si definisce necessaria quando è limitata alla verifica della legittimità e dell’opportunità dell’attività amministrativa; spontanea – che qui ci occupa – quando integra una vera e propria attività di riesame del provvedimento precedentemente adottato290. Nell’ambito del potere di autotutela, l’amministrazione deve esplicitare in modo particolarmente rigoroso le motivazioni del proprio agire, spiegando le ragioni che hanno determinato il cambiamento di posizione del soggetto pubblico e che impongono il sacrificio degli interessi privati. Ciò in quanto occorre tutelare il legittimo affidamento, per cui l’attività di autotutela non sarebbe correttamente esercitata se fosse unicamente volta al ripristino della legalità dell’azione, con totale disinteresse per la posizione del privato. Il destinatario del provvedimento, invero, può in buona fede confidare nella legittimità e nella stabilità del provvedimento stesso e subire dunque una lesione nel caso di ritiro o modifica a lui sfavorevole. 289. Sul punto le Sezioni Unite hanno peraltro affermato che il potere di sospensione dell’esecuzione di un contratto deve essere previsto da una disciplina espressa che assegni un potere autoritativo all’amministrazione, in quanto le previsioni contenute nella legge sul procedimento non possono essere estese in via analogica ad ipotesi non contemplate. Diversa natura avrebbe lo strumento del recesso. 290. In realtà, su tale distinzione non vi è unanimità di pensiero, ritenendosi in via maggioritaria che l’autotutela vera e propria sia unicamente spontanea, non doverosa.

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L’esercizio del potere di riesame si caratterizza per ampia discrezionalità, nel senso che è totalmente rimesso alla volontà e alle valutazioni compiute dall’amministrazione. Non sussiste invero alcun obbligo in capo all’amministrazione di rispondere alle istanze avanzate dai privati, anche se taluni sostengono che vi sarebbe una doverosità di tipo procedimentale, ferma la discrezionalità in relazione alla decisione finale. La giurisprudenza ha peraltro affermato che sussisterebbero ipotesi di autotutela per così dire obbligatoria, qualora l’amministrazione abbia in precedenza già deciso casi analoghi, al fine di scongiurare disparità di trattamento. Al di là di queste ipotesi, se si riconoscesse un generale obbligo dell’amministrazione di agire in autotutela, di fatto si vanificherebbe il sistema decadenziale e prescrizionale di impugnazione dei provvedimenti, i quali sarebbero sine die suscettibili di essere modificati o, addirittura, annullati, con evidente frustrazione del principio di certezza e stabilità delle posizioni giuridiche. Tuttavia, la dottrina e la giurisprudenza più recenti sostengono la doverosità dell’intervento in autotutela nelle ipotesi di contrasto dell’atto amministrativo con il diritto comunitario, ovvero nei casi di esborsi ingiustificati di denaro pubblico, rispetto ai quali l’interesse collettivo sarebbe in re ipsa291. Con riferimento al caso del provvedimento emanato in violazione del diritto comunitario, peraltro, la Corte di Giustizia ha affermato che l’annullamento giudiziale del provvedimento non ritirato in autotutela e divenuto definitivo, è sottoposto alle medesime norme che disciplinano il caso di violazione del diritto interno. In altre parole, non sussiste un obbligo per il giudice di annullare il provvedimento anticomunitario e definitivo se tale obbligo non sussiste nel caso di contrasto dell’atto con il diritto nazionale. La tipizzazione del potere di autotutela si è avuta con la Legge n.15/05 che ha riformato la legge sul procedimento amministrati291. Più precisamente, non si tratterebbe tanto di ipotesi di autotutela obbligatoria, quanto piuttosto di necessaria prevalenza di interessi costituzionali, la cui tutela può comportare talvolta il sacrificio di alcuni principi generali.

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vo, mettendo così a tacere la questione relativa al fondamento normativo dell’istituto e collocandolo sotto l’ombrello della legalità. Peraltro, ciò ha posto fine alla necessità di richiamare la teoria dei poteri impliciti che la dottrina aveva scomodato per giustificare l’adozione di provvedimenti di secondo grado. Nell’esercizio del potere di autotutela, l’amministrazione è tenuta a seguire le regole di cui alla Legge n.241/90; in particolare, occorre la comunicazione al privato dell’avvio del procedimento, qualora non sussistano ragioni di urgenza che escludono l’obbligo di comunicazione, trattandosi di un vero e proprio procedimento nuovo292. Inoltre, deve essere garantita la partecipazione del privato, soprattutto in quanto è necessario valutare l’affidamento che il medesimo aveva maturato nel provvedimento oggetto di riesame. Invero, solitamente, il provvedimento di autotutela ha incidenza negativa sulla posizione soggettiva del destinatario dell’atto riesaminato. Tipicamente, l’atto di autotutela viene adottato dalla stessa amministrazione che ha emanato il precedente provvedimento, salvo che la legge non preveda diversamente293. Il potere di autotutela è riconosciuto anche a livello europeo. Storicamente, la giurisprudenza comunitaria sostiene la tendenziale intoccabilità dei provvedimenti amministrativi legittimi, limitando la revocabilità ai provvedimenti illegittimi. Con il termine revoca, in ambito comunitario, si fa riferimento ad un provvedimento discrezionale che viene emanato, previa comparazione degli interessi – pubblici e privati – coinvolti, entro un ragionevole lasso di tempo. Tali caratteristiche evidenziano la corrispondenza con l’istituto dell’annullamento previsto dal nostro ordinamento, che verrà nel prosieguo analizzato. 292. Il procedimento viene svolto in base al principio del contrarius actus, per cui la fase istruttoria sarà corrispondente a quella svolta per l’emanazione dell’atto sul quale viene esercitato il potere di autotutela. Sull’esercizio dell’autotutela nel caso di conferenza di servizi, si veda Capitolo VII. 293. Vedi il provvedimento di ratifica che elimina il vizio di incompetenza relativa.

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A prescindere dalla denominazione dell’istituto, in ogni caso, il provvedimento di autotutela è concepito quale provvedimento non doveroso, sia a livello nazionale che a livello europeo. 6.2 Gli atti di autotutela Considerato che l’amministrazione effettua un vero e proprio riesame del provvedimento emanato in precedenza, l’atto di autotutela è atto di secondo grado. Il procedimento di autotutela è infatti un procedimento di secondo grado, che può essere avviato solo se il procedimento precedente si è correttamente svolto ed è stato definito mediante l’atto conclusivo tipico. Pertanto, se l’amministrazione interviene con un nuovo provvedimento in pendenza di procedimento o incidendo su un provvedimento ad efficacia meramente interna, non si tratterà di atto di autotutela e, di conseguenza, non servirà l’avviso di avvio del procedimento294. Il potere di riesame viene esercitato dall’amministrazione mediante diversi tipi di atti, che vanno ad incidere in modo diverso sul provvedimento riesaminato. Una summa divisio si ha tra atti di ritiro e atti conservativi. Gli atti di ritiro, detti anche di caducazione o atti demolitori, sono atti che conducono alla eliminazione del provvedimento oggetto di riesame, restringendo la posizione soggettiva del privato. In questa categoria rientrano l’annullamento, la revoca, la caducazione e l’abrogazione. Caratteristiche di tali atti sono la discrezionalità, l’esecutorietà, l’obbligatorietà della motivazione295 e il vincolo di forma, per cui l’atto di ritiro deve essere adottato con il procedimento e la forma previsti per l’atto da ritirare296. 294. Si tratterà di atto infraprocedimentale. 295. Sulla motivazione, la giurisprudenza ha escluso la possibilità di una motivazione implicita, anche nei casi in cui l’obbligo di motivazione non sussisteva per l’atto ritirato. 296. La dottrina esclude la possibilità di un ritiro implicito.

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Si tratta di atti ricettizi, soggetti alle regole della legge sul procedimento, a garanzia del diritto di partecipazione del privato. Secondo una parte della dottrina, diversi sono gli atti di mero ritiro, conseguenti all’accertamento dell’illegittimità del provvedimento e non ad un vero e proprio riesame dello stesso. Altra dottrina, invece, considera anche gli atti di mero ritiro, veri e propri atti di secondo grado. Questione dibattuta ha riguardato dunque la possibilità di esercizio dell’autotutela con particolare riferimento agli atti nulli. A parere della dottrina che considera gli atti di mero ritiro veri e propri atti di autotutela, anche l’atto nullo potrebbe essere oggetto di riesame, in quanto è atto in grado di incidere materialmente sulla sfera giuridica del suo destinatario, nonché di ingenerare affidamenti sulla propria validità. In realtà, si ribatte, che in caso di atto nullo, l’amministrazione si limiterebbe all’emanazione di un provvedimento dichiarativo, in assenza di una previa comparazione di interessi, configurandosi in tal modo un’attività vincolata e non discrezionale, come invece è l’attività di autotutela. Affini agli atti di ritiro sono altri atti che hanno effetti più limitati, ma comunque negativi per il privato, e che sono parimenti espressione del potere di riesame. Fra questi: la sospensione, la riforma del provvedimento, il diniego di rinnovo e la proroga. Nel potere di autotutela è infatti pacifico vi rientri anche la facoltà dell’amministrazione di sospendere, modificare o differire gli effetti dei propri provvedimenti, in via temporanea e cautelativa297. Pertanto, l’autotutela non solo permette di determinare la (parziale) cessazione degli effetti di un provvedimento, ma altresì di modularne la produzione nel tempo per poter procedere con l’istruttoria e adottare successivamente il provvedimento di autotutela finale. L’altra macro categoria è quella dei provvedimenti conserva297. Si veda l’art.21 quater, comma 2, L. n.241/90 che riconosce un generale potere cautelare dell’amministrazione, con carattere strumentale rispetto al potere di autotutela.

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tivi, i quali sarebbero sempre da preferire, in ossequio ai principi di continuità dell’azione amministrativa e di conservazione degli atti298. Peraltro, a volte è la legge stessa a stabilire la conservazione dell’atto, facendo applicazione del principio del raggiungimento dello scopo. E’ quanto accade, ad esempio, attraverso la figura del funzionario di fatto e il regime dei vizi non invalidanti del provvedimento, per cui si opta per la validità dell’atto a fonte di un vizio che non incide sul suo contenuto299. Tipico esempio di atto conservativo è la convalida, prevista all’art.21 nonies, comma 2, della legge sul procedimento. L’inserimento della fattispecie in questa norma si giustifica in quanto, al pari dell’annullamento, disciplinato al primo comma, la convalida ha ad oggetto provvedimenti illegittimi. Tale disposizione prevede una sorta di sanatoria volontaria dell’amministrazione, che passa attraverso un nuovo atto amministrativo e, quindi, una nuova manifestazione di volontà300. Si tratta invero di un nuovo provvedimento costitutivo, caratterizzato dall’animus convalidandi dell’amministrazione e dall’efficacia ex tunc, per cui si conservano gli effetti dell’atto anche nel tempo intercorrente tra l’emanazione e la successiva convalida301. Altri provvedimenti conservativi sono la ratifica, atto specifico con cui viene eliminato il vizio di incompetenza dell’amministrazione che ha emanato l’atto, mediante un nuovo atto dell’amministrazione competente; la sanatoria, che determina il perfezionamento dell’atto illegittimo dopo la sua emanazione; la rettifica, con cui vengono corretti gli errori materiali dell’atto. Parimenti di conservazione è l’atto di conversione, che permette il mantenimento dell’atto illegittimo, riconducendolo nello schema 298. Quando è possibile, l’amministrazione deve sempre procedere alla conservazione piuttosto che all’eliminazione del provvedimento. 299. Rispettivamente, si vedano Capitoli III e V. 300. Questa ipotesi di sanatoria si affiancherebbe a quella prevista dal precedente art.21 octies che però opera ex lege, senza necessità di un nuovo provvedimento. 301. L’amministrazione dunque elimina il vizio; mentre, nello speculare istituto civilistico, il vizio diventa irrilevante con la dichiarazione del soggetto di convalidare l’atto.

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di un altro provvedimento, del quale soddisfa i requisiti di sostanza e di forma302. Infine, riconducibili alla categoria degli atti conservativi sono la consolidazione, che si ha quando decorrono i termini per l’impugnazione dell’atto – il quale potrà dunque essere annullato solo in via di autotutela303 - e l’acquiescenza, con cui il privato manifesta, in modo inequivoco, la volontà di accettare l’atto amministrativo, rinunciando alla facoltà di impugnare. 6.3 La revoca e l’annullamento del provvedimento amministrativo Revoca e annullamento rappresentano i principali atti di autotutela. Sono entrambi atti di ritiro, ossia atti con cui l’amministrazione provvede all’eliminazione di un proprio precedente provvedimento. Tuttavia, mentre la revoca comporta il ritiro del provvedimento riesaminato per ragioni di opportunità, l’annullamento interviene qualora venga riscontrata l’illegittimità ab origine dell’atto amministrativo. Entrambi gli istituti fanno però leva sull’esigenza di adeguare l’attività amministrativa al pubblico interesse. La revoca è disciplinata dall’art.21 quinquies della legge sul procedimento, il quale riconosce all’amministrazione un potere a carattere generale, esercitabile senza necessità di previsione espressa per i singoli casi. Essa segue ad una nuova valutazione che l’amministrazione compie, in relazione al merito del provvedimento, determinandone l’inidoneità a produrre ulteriori effetti. La revoca, infatti, non opera retroattivamente, in quanto il provvedimento revocato era fino a quel momento rispondente all’interesse pubblico e, pertanto, sarebbe inopportuno eliminarne altresì gli effetti precedenti304. 302. Generalmente si tratta di uno schema legale ridotto. La conversione è come detto possibile anche in riferimento agli atti nulli. 303. Gli effetti della consolidazione sono analoghi a quelli del passaggio in giudicato di una sentenza. 304. La revoca può infatti incidere su posizioni già consolidate solo in casi eccezionali e previsti ex lege. INDICE

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Il potere di revoca può essere esercitato in caso di sopravvenienze di fatto non prevedibili al momento dell’emanazione del provvedimento305, ovvero sopravvenienze di interesse pubblico. Infine, la revoca può seguire altresì ad una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario. In quest’ultima ipotesi, l’amministrazione esercita maggiore discrezionalità, in quanto non vi sono mutamenti delle condizioni di fatto o di interesse, ma è la stessa amministrazione che cambia idea306. Pertanto, dovrà prestarsi massima cautela a tutela dell’affidamento del privato. Il principale limite all’esercizio del potere di revoca è infatti il legittimo affidamento che il privato, interessato dal provvedimento, ha maturato rispetto alla stabilità dello stesso. La norma in esame prevede l’obbligo per l’amministrazione di indennizzare il privato leso dal ritiro del provvedimento. L’indennizzo non è elemento costitutivo dell’atto di revoca e la sua mancata previsione non ne comporta nemmeno l’illegittimità. Tuttavia, il privato ha il diritto di agire giudizialmente per ottenere quanto gli spetta; a questo fine non è necessaria l’impugnazione del provvedimento di revoca entro il termine decadenziale, ma il privato è tenuto ad esercitare il proprio diritto entro il termine di prescrizione. La legge stabilisce espressamente che l’indennizzo equivale al solo danno emergente307. Più precisamente, il quantum indennitario è parametrato al grado di affidamento del privato, da valutarsi in base alla conoscenza che il medesimo ha dell’atto nonché all’eventuale grado di partecipazione del privato nella determinazione del contenuto dell’atto stesso308. 305. L’elemento della non prevedibilità delle sopravvenienze di fatto è stato inserito con il D.L. n.133/14 il quale ha in tal modo introdotto un ulteriore limite al potere di revoca. 306. Questa ipotesi di revoca è espressione del cosiddetto ius poenitendi dell’amministrazione. 307. Cfr. art.21 quinquies, comma 1 bis , L. n.241/90, introdotto dal cosiddetto decreto Bersani-bis nel 2007. 308. Vi è quindi un implicito richiamo ai principi di cui all’art.1227 c.c..

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La previsione del solo danno emergente è giustificata dal fatto che la revoca integra un’ipotesi di responsabilità dell’amministrazione da atto lecito. Infatti, deve considerarsi che l’atto di revoca è un provvedimento che l’amministrazione opportunamente adotta, per mantenere la propria azione funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico. Per ottenere il risarcimento da lesione dell’interesse negativo (equivalente al danno emergente e all’eventuale perdita di una chance alternativa), il privato dovrebbe quindi provare l’illegittimità dell’atto di revoca309. La domanda risarcitoria però comporta la prova dell’elemento soggettivo in capo all’amministrazione, la quale non è invece richiesta ai fini della domanda indennitaria. Inoltre, nell’ipotesi di contestuale riconoscimento dell’indennizzo e del risarcimento, il primo andrà detratto dal secondo. In relazione all’indennizzo, peraltro, la norma desta qualche perplessità. Invero, la determinazione del quantum indennitario viene riferita ai soli provvedimenti a efficacia durevole che incidono su rapporti negoziali. Quid iuris nelle ipotesi di rapporti amministrativi? Parte della dottrina ha avanzato la tesi per cui, nelle ipotesi di revoca incidente su rapporti amministrativi, l’indennizzo comprenderebbe, a contrario, anche il lucro cessante. Tuttavia, ciò si tradurrebbe in un’ingiustificata disparità di trattamento tra i destinatari degli atti di revoca; la tesi preferibile è quella che ritiene la disposizione estesa anche ai rapporti amministrativi. Per quanto attiene ai tipi di provvedimento revocabili, è evidente che può trattarsi unicamente di atti ad efficacia durevole e a carattere discrezionale310. 309. La legittimità dell’atto di revoca, comunque, non scongiura la valutazione del comportamento dell’amministrazione. Sulla responsabilità della pubblica amministrazione e sui rapporti tra indennizzo e risarcimento per responsabilità precontrattuale, si veda Capitolo X. 310. E’ invero pacifico che laddove la norma fa riferimento agli atti istantanei, debba intendersi atti che ancora non sono stati portati ad esecuzione.

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Restano esclusi, pertanto, atti vincolati e atti istantanei, nonché atti già eseguiti o atti meramente esecutivi. Un tipo particolare di revoca è il recesso disciplinato dall’art.11 della L. n.241/90 nell’ambito degli accordi tra amministrazione e privato311. Si tratta di recesso esercitato a seguito di sopravvenuti motivi di interesse pubblico, dal quale deriva il diritto del privato all’indennizzo, a ristoro del legittimo affidamento medio tempore maturato, corrispondente al solo danno emergente312. Anche in questa figura particolare di revoca, l’amministrazione deve quindi valutare l’aspetto economico per decidere se sia conveniente o meno tornare sui propri passi. Per le controversie relative al recesso, così come per quelle relative alla determinazione e corresponsione dell’indennizzo dovuto, opera la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; mentre, opera la giurisdizione generale nel caso di impugnazione dell’atto di revoca ai fini risarcitori313. Figura distinta dalla revoca ex art.21 quinquies è la revoca decadenza (detta anche revoca sanzione), prevista in ipotesi tassative, con cui l’amministrazione ritira un provvedimento favorevole a causa dell’illegittima condotta del destinatario. Questa figura si differenzia dalla revoca ex art.21 quinquies in quanto è un provvedimento vincolato che interviene in ipotesi specifiche di violazione di legge; inoltre, non è previsto alcun indennizzo in questa ipotesi, proprio perché la revoca è determinata dalla violazione del privato. Altra fattispecie assimilabile alla revoca è l’abrogazione, che consiste nell’eliminazione di un provvedimento incompatibile con il pubblico interesse314. 311. Per l’analisi dell’istituto degli accordi, si veda Capitolo V. 312. Per ottenere il lucro cessante, il privato dovrà dimostrare l’illegittimità del recesso esercitato. 313. Diversa disciplina è prevista per la revoca nel settore dei contratti, per la quale si rimanda al Capitolo VIII. 314. In realtà, la natura dell’abrogazione è discussa. Parte della dottrina neppure riconosce l’autonomia di tale figura, ritenendola di fatto corrispondente alla revoca.

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L’art.21 nonies disciplina l’annullamento d’ufficio, ossia l’eliminazione del provvedimento originariamente illegittimo, da parte della stessa amministrazione che lo ha emanato315. Tale istituto è espressione del massimo grado di discrezionalità dell’amministrazione e con esso si persegue, al pari della revoca, la continua rispondenza dell’agire amministrativo all’interesse pubblico. Presupposto dell’annullamento non è solamente l’illegittimità dell’atto, in quanto esso non può essere esercitato unicamente per ripristinare la legalità dell’azione amministrativa, ma anche la sussistenza di ragioni di interesse pubblico, attuali e concrete316. La legge non specifica ulteriormente tale requisito, la cui portata pertanto è rimessa di volta in volta alla discrezionalità dell’amministrazione, che dovrà correttamente bilanciare gli interessi coinvolti, alla luce dei principi di imparzialità, buon andamento e proporzionalità e motivare adeguatamente la propria scelta317. In particolare, ancorché non espressamente previsto, nella ponderazione degli interessi, la giurisprudenza fa rientrare anche l’eventuale mala fede del destinatario del provvedimento. Fino alla recente riforma del 2015, la norma de qua stabiliva l’esercizio del potere di annullamento entro un ragionevole termine. Tale espressione restava tuttavia priva di un contenuto specifico. Si trattava pertanto di un termine elastico, che poteva variare a seconda delle circostanze del caso concreto318. In particolare, la giurisprudenza riteneva che, per poter considerare ragionevole o meno il tempo intercorso, dovesse considerarsi 315. Sul concetto di illegittimità ex art.21 nonies, sono due le tesi: la prima ritiene sia illegittimo il provvedimento che è affetto dai vizi di cui all’art.21 octies, comma 1; secondo altra tesi, sarebbe illegittimo, ai fini dell’annullamento, anche il provvedimento colpito dai vizi di cui all’art.21 octies, comma 2, per cui il provvedimento non annullabile in sede giurisdizionale, lo sarebbe comunque in via di autotutela. 316. E’ annullabile in via di autotutela il provvedimento che non è più annullabile in via giurisdizionale. 317. La giurisprudenza ritiene che il dovere motivazionale sia meno intenso in relazione a interessi di particolare rilievo, quale l’ambiente. 318. Il sindacato del giudice si esprimeva invero in termini di eccesso di potere.

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il grado di affidamento maturato dal privato, la gravità del vizio determinante l’illegittimità del provvedimento, nonché le conseguenze e gli effetti che il provvedimento stesso aveva già prodotto. Nell’ambito dell’annullamento, il fattore tempo è da sempre posto a tutela dell’affidamento del privato, al pari dell’indennizzo previsto in caso di revoca. E’ evidente che maggiore è il tempo trascorso dall’emanazione dell’atto, maggiore sarà l’affidamento riposto dal privato nella sua stabilità. In questi termini, l’affidamento del privato costituisce vero e proprio limite al potere di annullamento, mentre nella disciplina della revoca rappresenta un parametro per quantificare l’indennizzo. La recente riforma attuata mediante la Legge n.124/15 (cosiddetta riforma Madia) ha inserito una previsione specifica in relazione ai provvedimenti autorizzativi o che attribuiscono vantaggi economici, i quali possono essere annullati nel termine di diciotto mesi319. Mentre per i «provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato», il suddetto termine non opera320. Peraltro, la riforma de qua ha contestualmente eliminato l’ipotesi peculiare di annullamento per ragioni finanziarie, che era contenuta nell’art.1, comma 136 della L. n.311/04, in quanto incompatibile con la nuova disciplina321. Un’ulteriore precisazione introdotta dalla nuova legge riguarda la disposizione di cui all’ultima parte del primo comma dell’art.21 nonies, secondo cui restano ferme le responsabilità per l’emanazione e il mancato annullamento dell’atto illegittimo. Sembra pertanto che, al di là dell’intervento in forma specifica 319. Da considerarsi quale termine massimo. 320. Cfr. art.21 nonies, comma 2 bis, L. n.241/90, introdotto dall’art.6 della Legge n.124/15. 321. Questa ipotesi di annullamento era da taluni ritenuta obbligatoria; la sua abrogazione pare dunque avvalorare la natura discrezionale del potere di annullamento.

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consistente nell’annullamento dell’atto, sussista comunque la possibilità per il privato di ottenere una tutela per equivalente. Deve opportunamente considerarsi che, se possibile, l’amministrazione può procedere alla convalida dell’atto illegittimo, in ossequio al principio di conservazione, anche in pendenza di giudizio. Peraltro, con riferimento ai rapporti tra potere di riesame e procedimento giurisdizionale avente ad oggetto l’annullamento dell’atto, è evidente che, l’intervento dell’amministrazione in autotutela determina l’improcedibilità del giudizio per sopravvenuta carenza di interesse322. Tuttavia, non essendovi una disciplina specifica, la giurisprudenza ritiene che l’amministrazione non disponga in via unilaterale della materia del contendere e che quindi non potrebbe decidere unilateralmente della sorte del giudizio323.

322. Restano ferme le eventuali azioni risarcitorie. 323. Sull’istituto ex art.21 nonies è intervenuta l’Adunanza Plenaria, con la pronuncia n.8/2017, nella quale il giudice amministrativo ha stabilito che “il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e [...] , in ogni caso, il termine ‘ragionevole’ per la sua adozione decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro. L’onere motivazionale gravante sull’amministrazione risulta attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi. La non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte.”

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CAPITOLO VII IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO Sommario: 7.1 Evoluzione e nozione di procedimento. La Legge n.241/90. - 7.2 Tipi di procedimento. La conferenza di servizi. – 7.3 la partecipazione al procedimento. – 7.4 La segnalazione certificata di inizio attività. – 7.5 I procedimenti amministrativi composti. – 7.6 Il silenzio: rinvio. – 7.7 L’accesso ai documenti amministrativi: rinvio.

7.1 Evoluzione e nozione di procedimento. La Legge n.241/90 Il procedimento amministrativo è la sede privilegiata di comparazione degli interessi, ossia lo strumento principe attraverso il quale l’amministrazione svolge la funzione pubblica. In senso formale, il procedimento consiste nel susseguirsi di una serie di attività e atti, concatenati fra loro e preordinati all’emanazione del provvedimento finale324. Nel tempo, il procedimento amministrativo ha subito una rilevante trasformazione: nasce come sede privilegiata di esercizio del potere autoritativo e unilaterale dell’amministrazione, per diventare strumento di dialogo tra amministrazione e privato. Invero, al procedimento è affidata anche una funzione garantista, che si estrinseca mediante il riconoscimento al privato, di tutta una serie di istituti di partecipazione, finalizzati a dare voce ai suoi interessi e ad assicurarne una corretta ponderazione rispetto all’interesse pubblico. Il procedimento è disciplinato dalla Legge n.241/90, la quale è stata incisa da diverse modifiche che hanno positivizzato la nuova visione del procedimento stesso, nonché il nuovo modo di intendere l’esercizio della funzione pubblicistica325. 324. Provvedimento inteso quindi come atto a formazione progressiva. 325. Il riferimento è appunto al procedimento come luogo di ponderazione degli interessi a cui il privato ha un vero e proprio diritto di partecipare, nonché alle nuove forme di esercizio della funzione amministrativa, la quale può essere svolta anche da soggetti formalmente privati. Su quest’ultimo aspetto, si veda Capitolo V.

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Le regole contenute in tale legge si applicano a tutti i procedimenti e, per quanto non previsto o diversamente disciplinato dalle normative specifiche, anche ai procedimenti di settore326. In particolare, il Legislatore individua le norme applicabili a tutte le amministrazioni, stante l’esigenza di una normativa unitaria che uniformi l’esercizio della funzione pubblica in tutto il territorio nazionale. Inoltre, vengono individuate le norme che costituiscono livelli essenziali di tutela, ai sensi dell’art.117, comma 2, lett. m) Cost.. Regioni ed enti locali hanno invero autonomia nella regolazione dell’azione amministrativa; tuttavia, la legge sul procedimento indica quelli che sono i principi fondamentali che devono essere garantiti a tutti i livelli amministrativi. Ad esempio, costituiscono livelli essenziali le disposizioni relative alla partecipazione del privato al procedimento; all’individuazione del responsabile del procedimento; alla conclusione del procedimento entro il termine prefissato; all’accesso ai documenti amministrativi; alla dichiarazione di inizio attività e alla disciplina del silenzio assenso. La legge in esame ha un contenuto molto ampio. In primis, contiene quelli che sono i principi che governano l’azione amministrativa327. A questi, segue la disciplina specifica sul procedimento, all’interno della quale rientrano tutta una serie di istituti relativi alla partecipazione del privato, nonché istituti di semplificazione del procedimento, i quali si sono nel tempo aggiunti all’interno dello scheletro iniziale. Tradizionalmente, non era contemplato l’intervento del privato al procedimento di formazione del provvedimento, il quale era ritenuto di esclusivo dominio dell’amministrazione. Pertanto, figure come la comunicazione di avvio del procedimento ex artt. 7 e 8, il diritto di intervento ex art. 9, il diritto di prendere visione degli atti e presentare memorie di cui all’art. 10, il 326. Si vedano i procedimenti espropriativi. 327. Per la trattazione di detti principi si rinvia al Capitolo V.

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preavviso di rigetto ex 10 bis e il diritto di accesso ex 22 non erano previste. Inoltre, il procedimento nasce con un iter unico, sempre uguale a se stesso, caratterizzato peraltro da macchinosità e tempistiche lunghe. Solamente con la L. n.241/90 hanno trovato ingresso nell’ordinamento gli istituti di semplificazione, come la conferenza di servizi ex artt. 14 e ss; gli accordi di cui agli artt.11 e 15; il sistema di autocertificazione previsto dall’art. 18; il silenzio devolutivo ex art. 17, nonché gli istituti della SCIA ex art. 19 e del silenzio assenso previsto al successivo art. 20. Questi istituti differenziano l’iter procedimentale, sgravandolo di alcune formalità che, in determinati casi, costituiscono solo ostacoli all’esercizio della funzione amministrativa ovvero aggravio di adempimenti per il privato. Aspetto di notevole importanza riguarda inoltre la durata del procedimento. La legge prevede infatti che il procedimento debba svolgersi in un tempo ragionevole. Precisamente, l’art.2 stabilisce che, in generale, il termine è fissato da regolamenti normativi; in mancanza, sono previsti termini di trenta o novanta giorni, salva diversa previsione di legge ovvero salvo diversa indicazione da parte dell’amministrazione procedente. In particolare, piena autonomia, anche sotto il profilo della tempistica procedimentale, è riconosciuta alle Autorità amministrative indipendenti328. Tuttavia, è fatto espresso divieto di aggravio del procedimento, salvo che non sussistano «straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria»329. Peraltro, in ossequio ai principi di immediatezza e continuità dell’azione amministrativa, il procedimento può essere sospeso solo una volta, per l’acquisizione di ulteriori informazioni e documenti necessari alla determinazione del contenuto della decisione finale. 328. Per l’analisi di tale figura, si veda Capitolo III. 329. Cfr. art.1, comma 2 della Legge n.241/90.

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Ispirata agli stessi principi è la disposizione contenuta nell’art.2, comma 9 bis, per cui è prevista l’individuazione del sostituto in caso di inerzia dell’organo competente. In realtà, tale previsione è posta altresì a tutela del privato, in qualità di diretto interessato dal provvedimento, il quale non può attendere sine die la determinazione dell’amministrazione. La rilevanza del fattore tempo si evince chiaramente da ulteriori disposizioni. Innanzitutto, l’art.2, comma 9 stabilisce che la violazione del termine di conclusione del procedimento è elemento di valutazione della performance individuale del funzionario inadempiente, nonché della sua responsabilità disciplinare, amministrativa e, eventualmente, contabile. La disposizione centrale è contenuta nel successivo art.2 bis. Tale norma è stata introdotta con la Legge n.69/09 e, al primo comma, prevede la responsabilità dell’amministrazione che, colposamente o dolosamente, non osservi il termine di conclusione del procedimento, con conseguente diritto del privato al risarcimento. Il successivo comma 1 bis, introdotto dal cosiddetto Decreto del fare n.69/13, dispone inoltre il diritto all’indennizzo in caso di mero ritardo. Lasciando l’approfondimento sulla responsabilità per il danno da ritardo e sui rapporti tra risarcimento e indennizzo, al capitolo dedicato alla responsabilità della pubblica amministrazione, è opportuno in questa sede rilevare che le suddette norme dimostrano in modo chiaro l’importanza del fattore tempo330. Il rispetto della tempistica procedimentale, invero, è posto innanzitutto a garanzia del privato, il quale ha un vero e proprio diritto a conoscere la decisione amministrativa in tempi utili e non pregiudizievoli. D’altra parte, però, la previsione di una responsabilità in caso di inosservanza delle disposizioni relative alla tempistica procedimentale, è indubbiamente un incentivo per l’amministrazione ad agire senza ingiustificati ritardi, con conseguente maggiore efficienza dell’apparato amministrativo nel suo complesso. 330. Si veda precisamente il Capitolo X.

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7.2 Tipi di procedimento. La conferenza di servizi Dal punto di vista descrittivo, il procedimento si costituisce di quattro fasi. La dottrina distingue tra procedimenti semplici e complessi a seconda che l’iter procedimentale presenti solo quelle che sono le fasi necessarie ovvero comprenda anche le fasi eventuali. Precisamente, necessarie sono la fase dell’iniziativa, la fase dell’istruttoria e la fase decisoria; eventuali resterebbero la fase pre-decisoria e la fase integrativa dell’efficacia. La fase di iniziativa è, come dice la parola stessa, la fase con cui il procedimento viene attivato. L’iniziativa può essere del privato331 oppure della stessa amministrazione che, d’ufficio, avvia l’iter procedimentale. In alcune ipotesi è la legge a stabilire l’obbligo in capo all’amministrazione di attivare il procedimento; al di fuori di queste, l’amministrazione ha discrezionalità nell’attivarsi, ancorché la giurisprudenza individui ulteriori casi in cui sussisterebbe un dovere. In particolare, l’obbligo di avvio si avrebbe qualora tra amministrazione e privato sia in precedenza intercorso un rapporto, come nel caso delle concessioni. La distinzione tra procedimenti ad iniziativa di parte e procedimenti ad iniziativa dell’amministrazione ha ad esempio rilevanza con riferimento al preavviso di rigetto, che la legge stabilisce come obbligatorio solo nel primo caso. Si tratta di un provvedimento con cui l’amministrazione comunica al privato i motivi che ostano all’accoglimento della sua richiesta, concedendogli un termine per il deposito di ulteriore documentazione o atti scritti. Tale istituto è stato inserito con la Legge n.15/05, con lo scopo di garantire la posizione e la partecipazione del privato, nonché di frustrare il più possibile il contenzioso. Nella fase dell’iniziativa, la legge prevede tre obblighi in capo 331. In particolare, con l’istanza, il privato formula una domanda tendente all’emanazione di un provvedimento favorevole; con il ricorso, intende provocare il riesame di un provvedimento già emanato; con la denuncia, intende provocare l’esercizio di poteri amministrativi.

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all’amministrazione: la comunicazione di avvio del procedimento, l’individuazione del responsabile e la previsione di un termine di conclusione. All’iniziativa, segue la fase istruttoria. Essa costituisce il cuore del procedimento, in cui l’amministrazione compie l’attività di valutazione dei fatti e di comparazione degli interessi, pubblici e privati, coinvolti. E’ in questa fase che l’amministrazione può svolgere attività di discrezionalità tecnica, che può essere seguito l’iter della conferenza di servizi e che vengono in rilievo al massimo grado gli istituti di partecipazione del privato332. Infatti, è proprio nelle operazioni istruttorie che l’amministrazione può aver bisogno di ricorrere a competenze ed analisi tecniche; così come, nell’ipotesi in cui vi siano una pluralità di amministrazioni coinvolte, potrebbe rivelarsi maggiormente funzionale ricorrere alla conferenza. Infine, è durante l’attività di comparazione e valutazione dei fatti e degli interessi, che al privato deve essere maggiormente garantito il diritto di tutelare la propria posizione, partecipando alla progressiva formazione del provvedimento finale. In realtà, è più corretto parlare di diritto di partecipazione di qualsiasi soggetto che venga interessato dal provvedimento e, dunque, anche di altro soggetto pubblico o portatore di interessi pubblici diversi da quelli dell’amministrazione procedente. Il dominus di tale fase è il responsabile del procedimento. La ratio dell’istituzione di tale figura è quella di personalizzare e responsabilizzare l’attività amministrativa rendendola più trasparente e, inoltre, di parificare il rapporto tra amministrazione e cittadini, i quali, in tal modo, hanno un interlocutore preciso. Il responsabile viene nominato dal dirigente dell’ufficio cui appartiene; in caso di mancata nomina, responsabile del procedimento è il dirigente stesso333. Le funzioni vengono attribuite con atto discrezionale dell’am332. Per l’analisi della discrezionalità tecnica si veda Capitolo V. 333. La mancata nomina non comporta dunque alcun vizio del procedimento, ma produce unicamente un meccanismo sostitutivo.

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ministrazione e, dunque, possono variare da procedimento a procedimento. In particolare, l’art. 6 della legge in esame contiene un elenco non esaustivo dei compiti del responsabile, consistente in attività di impulso, coordinamento, direzione e, se previsto nella nomina, di adozione della decisione finale334. Nel caso in cui l’organo competente all’adozione del provvedimento finale sia il dirigente dell’ufficio, può essere disposta una delega di firma a favore del responsabile del procedimento, il quale potrà dunque sottoscrivere il provvedimento in luogo del dirigente, ferma restando l’imputazione dell’atto al delegante. Peraltro, l’art. 6, comma 1, lettera e) dispone che se l’organo che adotta il provvedimento finale è diverso dal responsabile del procedimento, il primo non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal secondo, se non indicandone le ragioni nelle motivazioni del provvedimento stesso, pena l’illegittimità dell’atto per violazione di legge. Sulla responsabilità di tale figura, la legge nulla dispone; si ritiene pertanto applicabile la disciplina prevista per i dipendenti pubblici335. Alla fase istruttoria, segue poi la fase decisoria, con la quale si addiviene all’emanazione del provvedimento finale. Più precisamente, appartengono a questa fase tutti gli atti che concorrono alla formazione della determinazione finale, in quanto contribuiscono a determinarne il contenuto. L’obbligo di conclusione del procedimento con un provvedimento espresso viaggia parallelamente all’obbligo di avvio del procedimento. In particolare, nelle ipotesi di procedimento ad iniziativa di parte, l’amministrazione deve decidere solo sulla domanda del privato, non potendo disporre dell’oggetto del procedimento. Fase eventuale è quella integrativa dell’efficacia. 334. Esempi: valutazione dei requisiti; accertamento dei fatti; proposta di indizione della conferenza di servizi; cura delle comunicazioni, pubblicazioni e notificazioni; adozione, in caso di competenza, del provvedimento finale o trasmissione degli atti all’organo competente per l’adozione, con mantenimento dei poteri di revoca e avocazione nonché dei generali poteri di vigilanza. 335. Responsabilità di tipo civile, penale, amministrativa, contabile e disciplinare.

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Nel momento in cui viene emanato, il provvedimento finale è perfetto, in quanto è completo di ogni elemento; tuttavia, potrebbe non essere efficace. Ad esempio, potrebbero essere necessarie ulteriori attività di controllo oppure, nel caso di atto recettizio, l’efficacia del provvedimento è subordinata alla sua comunicazione al destinatario. Trattandosi tuttavia di attività che non debbono essere svolte in relazione a tutti i tipi di provvedimento, quest’ultima fase è, come detto, solo eventuale. Parimenti eventuale è la fase pre-decisoria, la quale ad esempio si ha nelle ipotesi di conferenza di servizi preliminare, in cui vi è l’esigenza di sottoporre preventivamente all’amministrazione, dei progetti di particolare complessità, per conoscere in via anticipata gli adempimenti necessari al rilascio di un provvedimento favorevole. La conferenza di servizi nasce all’interno delle normative di settore, per essere poi generalizzata attraverso la Legge n.241/90, recentemente modificata dal d. lgs. n.127/16, attuativo della Legge n.124/15, nell’ottica della semplificazione amministrativa e, successivamente, dal d. lgs n.104/2017336. La disciplina è stata inserita, mediante il D.L. n.78/10, tra i livelli essenziali cedevoli ex art.117, comma 2, lett. m) Cost., per cui le Regioni sono tenute a garantire almeno il medesimo livello di tutela previsto dalla normativa nazionale e, in caso di inerzia della Regione, lo Stato è legittimato ad intervenire in via sostitutiva, ai sensi dell’art.120 Cost.. L’istituto in esame è ispirato ai principi di buon andamento, economicità, celerità ed efficacia; invero, tramite la conferenza, si ha la contestuale valutazione di tutte le amministrazioni pubbliche coinvolte nello stesso procedimento, potendo in tal modo effettuarsi più agevolmente la comparazione dei diversi interessi di cui le stesse sono portatrici. 336. In particolare, si distingue tra la conferenza rapida o semplificata, indetta nel caso di questioni più semplici, in cui le amministrazioni posso essere coinvolte anche in momenti diversi, e la conferenza simultanea, cui si ricorre nelle ipotesi di maggiore complessità, per cui si rende necessario il confronto diretto e sincronico tra i diversi interessi coinvolti.

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Si tratta pertanto di un istituto di semplificazione, in quanto l’acquisizione degli interessi avviene in parallelo e non in sequenza, senza alterazione del riparto delle competenze tra le diverse amministrazioni. Sulla natura giuridica della conferenza si contrappongono due principali teorie. Le prima, minoritaria, ritiene si tratti di un organo collegiale distinto dalle singole amministrazioni che lo compongono, al quale va imputato il provvedimento finale. Diversamente, secondo la tesi oggi maggioritaria, si tratta di un modulo procedimentale, in cui le singole amministrazioni restano i soli centri di imputazione dell’attività svolta. In particolare, il provvedimento finale sarà imputato all’amministrazione procedente nella conferenza istruttoria e a tutte le amministrazioni partecipanti, nella conferenza decisoria337. Esistono invero diverse tipologie di conferenza di servizi. La conferenza istruttoria è disciplinata dall’art.14, comma 1 della legge in esame e può essere indetta dall’amministrazione procedente o dal privato interessato, qualora sia necessaria la contestuale comparazione di vari interessi pubblici, ai fini dell’adozione di una decisione mono-strutturata. Si tratta dunque di uno strumento cui l’amministrazione può discrezionalmente ricorrere in corso di procedimento: l’attività in sede di conferenza attiene infatti ad una fase endo-procedimentale. Quanto viene deciso in sede di conferenza, dovrà essere tenuto in debita considerazione dall’amministrazione nell’adottare il provvedimento finale. Più precisamente, l’amministrazione non è vincolata da quanto emerso in sede di conferenza; tuttavia, è tenuta a motivare le ragioni di una propria differente decisione. Una species di conferenza istruttoria è la conferenza trasversale o interprocedimentale, la quale viene convocata per effettuare una ponderazione degli interessi coinvolti in una pluralità di procedimenti tra loro connessi. 337. In sostanza, il provvedimento sarà imputato alle amministrazioni che hanno contribuito all’adozione di decisioni con efficacia esterna.

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La conferenza cosiddetta decisoria o esterna è prevista dal comma 2 del medesimo art.14; essa viene indetta dall’amministrazione cui compete l’adozione del provvedimento finale, qualora sia a tal fine necessario acquisire concerti, nulla osta o assensi da parte di altre amministrazioni. Tale tipo di conferenza è infatti funzionale all’adozione di una decisione pluri-strutturata, che viene sì adottata dall’amministrazione procedente, ma che è prima concordata fra tutte le amministrazioni partecipanti. Con il d. lgs. n.127/16, la conferenza decisoria è diventata obbligatoria per i casi in cui il provvedimento finale richieda la previa acquisizione dei predetti atti. Peraltro, anche il privato è legittimato a richiedere l’indizione della conferenza decisoria, qualora la sua attività sia subordinata al rilascio di atti di competenza di diverse amministrazioni pubbliche. Il successivo comma 3 disciplina la conferenza di servizi preliminare (definita anche preventiva o pre-decisoria), la quale risponde all’esigenza di sottoporre all’amministrazione, in via preventiva, progetti di particolare complessità, al fine di conoscere le condizioni necessarie per ottenere le autorizzazioni ai progetti definitivi. Pertanto, tale conferenza viene convocata a richiesta e a spese dell’interessato e si svolge secondo l’iter di cui al successivo art.14 bis, con abbreviazione dei termini fino alla metà338. La decisione della conferenza non è definitiva: essa integra un’indicazione di massima, con cui le amministrazioni coinvolte si vincolano a non manifestare successivamente ragioni di dissenso non emerse in sede di conferenza. Qualora si sia svolta la conferenza preliminare, l’amministrazione che riceve il progetto definitivo, indice successivamente la conferenza simultanea, dove le amministrazioni che hanno partecipato alla precedente conferenza preliminare, possono modificare o integrare le proprie precedenti determinazioni solo in forza di elementi nuovi sopravvenuti. 338. L’art.14 bis disciplina il procedimento semplificato che si applica alla conferenza decisoria e alla conferenza preliminare, stabilendo una serie di termini perentori che evidenziano nuovamente l’importanza della tempistica procedimentale, nell’intento di rendere l’azione amministrativa più efficiente e tempestiva. INDICE

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Lo schema della conferenza simultanea e in modalità sincrona è utilizzabile dall’amministrazione, ai sensi dell’art.14 bis, comma 7, tutte le volte che la determinazione da assumere sia particolarmente complessa. Le modalità di svolgimento di tale conferenza sono disciplinate dal successivo art.14 ter; la decisione è qui adottata sulla base delle posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni pubbliche partecipanti. Tale norma prevede inoltre la nuova figura del rappresentante unico delle amministrazioni statali, nell’ipotesi in cui alla conferenza partecipino altresì amministrazioni non statali, con potere di esprimere in via definitiva e vincolante la posizione di tutte le amministrazioni rappresentate339. Ai sensi dell’art.14 quater, la decisione della conferenza deve essere obbligatoriamente motivata e ha effetto sostitutivo di tutti gli atti resi dalle diverse amministrazioni che vi hanno partecipato. Queste ultime possono sollecitare, previa nuova indizione della conferenza, l’esercizio del potere di autotutela, in termini di revoca e annullamento ex art.21 quinquies e art.21 nonies340. Peraltro, tale previsione ha messo a tacere il dibattito circa la possibilità, per l’amministrazione procedente o le amministrazioni decidenti, di adottare un atto di secondo grado. Se la decisione è stata assunta all’unanimità, essa è immediatamente efficace; se invece è stata assunta sulla base delle posizioni prevalenti e alcune amministrazioni hanno espresso il proprio dissenso qualificato, l’efficacia è sospesa ai fini dell’adozione dei rimedi previsti dall’art.14 quinquies. Tale norma disciplina l’esercizio del dissenso, prevedendo la possibilità per le amministrazioni di proporre opposizione alla determinazione di conclusione della conferenza, entro dieci giorni 339. Resta riconosciuta la facoltà per le amministrazioni rappresentate di partecipare ma solo in via di supporto ai lavori della conferenza. 340. In questo caso, l’amministrazione che intenda riesaminare la determinazione assunta in sede di conferenza, dovrà nuovamente indire la conferenza stessa, in quanto gli atti di autotutela sono atti di secondo grado, assunti all’esito di un vero e proprio procedimento di secondo grado, che si svolge secondo il principio del contrarius actus.

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dalla sua comunicazione341. All’opposizione fa seguito l’indizione, da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di una riunione fra tutte le amministrazioni partecipanti, che sono tenute ad operare in ossequio al principio di leale collaborazione. In caso di intesa, verrà assunta una nuova determinazione motivata della conferenza; in caso contrario, la questione è rimessa al Consiglio dei Ministri. Con dissenso qualificato si fa riferimento al dissenso espresso da un’amministrazione portatrice di interessi particolarmente sensibili, quali l’ambiente o la pubblica incolumità. L’intera disciplina relativa alla conferenza dei servizi contiene disposizioni ad hoc in relazione a tali amministrazioni, proprio i ragione dei beni alla cui tutela sono preposte. Più precisamente, la normativa prevede in linea generale l’operatività del silenzio assenso, qualora la determinazione della conferenza non sia comunicata nei termini ovvero manchi dei requisiti previsti ex lege342. Qualora occorra acquisire un atto da un’amministrazione preposta alla tutela di interessi di particolare rilievo, il silenzio assenso non costituisce la regola; inoltre, i termini concessi a questo tipo di amministrazioni, per manifestare la propria decisione, sono solitamente allungati. La decisione della conferenza può consistere altresì in un vero e proprio accordo ex art.15, quale strumento di coordinamento, oggi generalizzato, cui vanno ricondotti gli effetti costitutivi della decisione343. Oltre alla facoltà riconosciuta al privato di richiedere, in taluni casi, l’indizione della conferenza, al medesimo è attribuito altresì il diritto di partecipazione, come nell’ambito di qualsiasi procedi341. Occorre che le amministrazioni opponenti abbiano però espresso il proprio dissenso all’interno della conferenza, prima della conclusione dei lavori. 342. In particolare, ai sensi dell’art.14 bis, comma 3, la determinazione deve contenere la motivazione nonché le eventuali condizioni e indicazioni ai fini dell’assenso ovvero del superamento del dissenso. 343. Per l’analisi dell’istituto degli accordi si veda Capitolo V.

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mento amministrativo; l’ultimo comma dell’art.14 richiama invero i precedenti articoli 7 e 9. 7.3 La partecipazione al procedimento All’interno della disciplina del procedimento si trovano una serie di istituti di partecipazione del privato, ai quali è possibile riconoscere una doppia funzione. Innanzitutto, tali strumenti mettono il privato nelle condizioni di poter tutelare la propria posizione e difendere i propri interessi; inoltre, la partecipazione dell’interessato al provvedimento ne permette la collaborazione con l’amministrazione che dovrà adottarlo, con potenziale frustrazione di successive impugnazioni. Prima della Legge n.241/90, non esisteva una norma che positivizzasse il diritto alla partecipazione, sulla base del riconosciuto carattere esclusivamente autoritativo del procedimento. Il diritto di partecipazione si inserisce tra i principi del giusto procedimento, per cui l’amministrazione non agisce più in completa autonomia e piena discrezionalità. Più correttamente, l’amministrazione è certo libera nelle proprie determinazioni; tuttavia, è tenuta a dialogare con il privato, anche nell’ottica di una deflazione del contenzioso scaturente dai propri atti. Accanto al responsabile del procedimento, vi sono altri istituti a garanzia del diritto in esame, contenuti nel Capo III della L. n.241/90, a ciò appositamente dedicato. L’art.7 disciplina la cosiddetta comunicazione di avvio del procedimento. E’ il primo atto utile per assicurare la partecipazione, in quanto consente ai soggetti interessati di avere conoscenza dell’inizio del procedimento. Secondo la giurisprudenza, si tratta di un principio generale dell’ordinamento e, pertanto, detta comunicazione costituisce un

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vero e proprio obbligo in capo all’amministrazione procedente344. Tutte le ipotesi che escludono tale comunicazione, sono quindi da considerarsi eccezioni alla regola. In generale, si tratta di casi di urgenza ovvero di ipotesi in cui l’amministrazione debba adottare atti normativi, i quali non hanno per natura il potere di incidere sulle posizioni individuali, al pari degli atti endo-procedimentali345. La finalità di questo istituto, al pari di tutti gli istituti di partecipazione, è quella di garantire la trasparenza dell’azione amministrativa e di permettere ai privati di far valere meglio le proprie ragioni e le proprie richieste. La partecipazione deve però essere effettiva: la giurisprudenza ritiene invero che sarebbe illegittimo il provvedimento adottato a breve distanza dalla comunicazione di avvio del procedimento, in quanto il privato non sarebbe, in tale ipotesi, nelle reali condizioni di partecipare346. L’art.7 individua i soggetti cui la comunicazione deve essere effettuata; si tratta dei destinatari del provvedimento emanando, ossia i soggetti sui quali il provvedimento inciderà direttamente, con effetti immediati347. Ulteriori destinatari della comunicazione sono i soggetti legittimati ad intervenire nel procedimento. Occorre qui fare riferimento al successivo articolo 9 che disciplina l’intervento, stabilendone il 344. In particolare, si ritiene che la comunicazione di avvio debba essere inoltrata anche nelle ipotesi di attività vincolata, in quanto la partecipazione del privato potrebbe comunque essere utile alla formazione del provvedimento più opportuno, nonché in relazione ai procedimenti avviati ad istanza di parte, in quanto la comunicazione ha un contenuto diverso, che non può essere sopperito dalla semplice istanza del privato. 345. L’obbligo di motivazione è ad esempio meramente posticipato nel caso di provvedimenti cautelari, mentre è del tutto mancante nel caso di provvedimenti emessi in casi di particolare celerità, quale è il provvedimento ingiuntivo a carattere inibitorio emesso dalla Consob e in ipotesi di provvedimenti tributari, nei quali le esigenze dell’amministrazione di adottare le informazioni necessarie per l’esercizio della potestà tributaria prevale sulle esigenze personalistiche. 346. La legge infatti non prevede un termine per la comunicazione di avvio del procedimento, ma si ritiene pacificamente che la stessa debba essere inoltrata in tempo utile per consentire al privato di presentare le proprie osservazioni. 347. Per la dottrina, destinatari della comunicazione sono anche i controinteressati, quali soggetti che potrebbero comunque subire un pregiudizio dal provvedimento.

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diritto in capo a qualunque soggetto portatore di interessi pubblici, privati, anche di tipo collettivo, ai quali potrebbe derivare un pregiudizio dal provvedimento348. Categoria residuale è rappresentata dai soggetti interessati che potrebbero subire un pregiudizio e che potrebbero dunque, ex post, impugnare il provvedimento emesso in favore del destinatario349. Sono pertanto esclusi i cointeressati e, in generale, tutti quei soggetti sui quali il provvedimento potrebbe spiegare effetti unicamente mediati e indiretti, in quanto non sono titolari di una posizione qualificata. Il contenuto della comunicazione è determinato dalla legge; l’incompletezza tuttavia non determina automaticamente l’illegittimità del provvedimento, al quale si applica invero il principio del raggiungimento dello scopo. L’illegittimità si ha invece nel caso di omessa comunicazione, quale ipotesi di violazione di legge350. Altro istituto di partecipazione è previsto all’art.10 bis che disciplina il preavviso di rigetto (o preavviso di provvedimento negativo). È figura inserita dalla Legge n.15/05; con tale provvedimento, l’amministrazione comunica al privato l’esistenza dei motivi che ostano all’accoglimento della sua richiesta, con facoltà per il destinatario di presentare memorie e documenti entro i successivi dieci giorni. Anche il preavviso di rigetto ha la funzione di garantire la partecipazione del privato e favorire la collaborazione, creando una sorte di contraddittorio in corso di procedimento351. Tale provvedimento è previsto nell’ambito dei procedimenti ad istanza di parte e le deroghe previste all’obbligo di comunicazione 348. L’art.9 si riferisce letteralmente agli interessi diffusi, ma si ritiene pacificamente che la norma faccia riferimento agli interessi collettivi, che sono qualificati e differenziati e, dunque, tutelabili. 349. La previsione è dunque posta in un’ottica prevalentemente deflattiva del contenzioso. 350. Si tratta di un’invalidità relativa che può essere fatta valere solo dal soggetto nel cui interesse è posta la comunicazione. 351. Per alcuni, questa fase anticipa il contraddittorio che si avrebbe in sede giurisdizionale, dando così una valenza processuale al procedimento. INDICE

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sono da considerarsi eccezionali352. Trattandosi di un preavviso, la comunicazione ex art.10 bis deve essere effettuata prima dell’adozione di un provvedimento sfavorevole per il privato, il quale deve poter partecipare per tentare di scongiurare una conclusione negativa del procedimento. La natura del preavviso è considerata in parte istruttoria e in parte pre-decisoria, in quanto stimola l’acquisizione di ulteriori elementi e la ponderazione degli interessi coinvolti e si pone come atto endo-procedimentale, anteriore alla decisione finale353. La regola è che il provvedimento finale contenga una propria motivazione, la quale deve essere sempre rinnovata, tranne nel caso in cui il privato non presenti nel termine anzidetto alcuna ulteriore deduzione: in quest’ipotesi la motivazione può essere data anche per relationem, vale a dire richiamando il contenuto del precedente preavviso. Il contenuto del preavviso di rigetto non è peraltro chiarito dalla legge; si ritiene vi sia un vincolo di corrispondenza tra quanto preannunciato dall’amministrazione e il contenuto del successivo provvedimento finale, ancorché quest’ultimo debba essere adottato da un’amministrazione differente. In particolare, non possono essere dedotti dall’amministrazione motivi ostativi nuovi, rispetto a quelli indicati nel preavviso, pena la doppia impugnativa dei due atti354. Nel caso di mancata comunicazione del preavviso di rigetto, la giurisprudenza fa applicazione del principio del raggiungimento dello scopo, al pari dell’ipotesi di omessa comunicazione di avvio del procedimento.

Pertanto, se il privato ha comunque avuto modo di conoscere i 352. L’istituto in esame non si applica, ad esempio, alle procedure concorsuali e ai procedimenti previdenziali e assistenziali ad istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali. 353. Non è pertanto atto autonomamente impugnabile. Si registrano pronunce isolate di segno contrario, nel caso in cui al preavviso non segua il provvedimento finale. 354. In quest’ipotesi, invero, sarebbe illegittimamente negato il diritto di partecipazione.

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motivi ostativi, il provvedimento decisorio non è colpito da annullabilità355. 7.4 La segnalazione certificata di inizio attività La semplificazione del procedimento si è realizzata anche nell’ambito dell’esercizio dell’attività privatistica. Accanto agli istituti del silenzio e della conferenza di servizi, quali fattispecie espressione della semplificazione procedimentale, si annovera altresì la cosiddetta SCIA356. E’ un istituto attraverso cui si facilita l’attività d’impresa, la quale non viene più subordinata ad un atto autorizzativo dell’amministrazione, bensì ad un’attività di segnalazione del privato. Tuttavia, la SCIA non può essere considerata uno strumento di sola semplificazione, ma di vera e propria liberalizzazione. Invero, l’attività può essere svolta a seguito della segnalazione del privato che, assumendosene la responsabilità, dichiara la sussistenza dei presupposti e dei requisiti richiesti dalla legge357. Non è dunque richiesto il previo consenso dell’amministrazione. Per questo, la SCIA non integra un atto provvedimentale, ma un atto oggettivamente e soggettivamente privato. Tradizionalmente, il nomen iuris era quello di dichiarazione di inizio attività (DIA); la terminologia si è modificata, ma la funzione è rimasta la medesima358. Il sistema di segnalazione, che ha sostituito il precedente regime autorizzatorio, mantiene invero il proprio carattere strumentale allo sviluppo economico, poiché agevola l’iniziativa economica di cui all’art.41 Cost.. 355. La dottrina è invece divisa sull’applicabilità dell’art.21 octies, comma 2 al preavviso di rigetto. Una prima tesi sostiene si tratti di disposizione eccezionale e quindi non estensibile; un altro orientamento sostiene l’analogia funzionale tra comunicazione di avvio del procedimento e preavviso di rigetto. 356. Segnalazione certificata di inizio attività. 357. Cfr. art.21 così come modificato dalla L. n.124/15 e dal d.lgs n.126/16. 358. Ancora prima l’istituto era definito denuncia; il termine dichiarazione è stato inserito dalla Legge n.80/05.

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Peraltro, oggi la SCIA è annoverata tra gli istituti posti a tutela della concorrenza e costituisce altresì livello essenziale delle prestazioni inerenti i diritti civili e sociali359. L’art.19 della legge sul procedimento ha subito nel tempo notevoli modifiche. In particolare, la Legge n.122/10 ha innovato la disciplina sia dal punto di vista formale, con la modifica terminologica anzidetta, sia dal punto di vista sostanziale. Infatti, mentre in passato il privato, dopo aver presentato la dichiarazione, doveva attendere trenta giorni per poter iniziare la propria attività, oggi l’attività può essere iniziata senza attese. Più correttamente, la disciplina previgente prevedeva, in alcuni casi, il termine di trenta giorni anzidetto; in altri casi, e precisamente per l’esercizio delle attività produttive di cui alla Direttiva n.2006/123, nonché per l’esercizio delle professioni che richiedono l’iscrizione in albi o registri, l’attività poteva essere iniziata dal giorno della presentazione della dichiarazione. Oggi tale distinzione non esiste più: la segnalazione ha invero un’efficacia sempre immediatamente legittimante all’esercizio dell’attività. Invero, il meccanismo della SCIA opera per qualsiasi attività che sia sottoposta unicamente all’accertamento della sussistenza dei presupposti e dei requisiti previsti dalla legge o da atti amministrativi generali. L’intervento dell’amministrazione è posticipato, nel senso che, entro sessanta giorni dalla presentazione della segnalazione, l’attività del privato potrebbe essere proibita, con rimozione degli eventuali effetti dannosi medio tempore prodottisi360. L’amministrazione, infatti, entro il succitato termine, ha il potere di adottare i provvedimenti necessari, qualora accerti la carenza

359. Tale previsione comporta l’applicazione dell’istituto direttamente anche a Regioni ed enti locali, i quali potranno prevedere livelli di semplificazione solo ulteriori. 360. Il termine è dimezzato nell’ipotesi di SCIA in materia edilizia.

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dei presupposti o dei requisiti per l’esercizio dell’attività361. In particolare, la riforma del 2015 ha attribuito all’amministrazione un triplice ordine di poteri, di tipo inibitorio, repressivo-sanzionatorio e conformativo. Deve tuttavia sempre privilegiarsi la prosecuzione dell’attività, qualora sia possibile conformarla alla normativa. L’attività del privato può anche essere sospesa in presenza di violazioni e irregolarità, con ripresa della stessa al momento dell’adozione delle misure necessarie per il suo adeguamento362. Sulla materia è recentemente intervenuto altresì il d.lgs. n.126/16 che, in particolare, ha introdotto l’art.19 bis, rubricato «concentrazione dei regimi amministrativi». Tale norma disciplina lo sportello unico presso il quale presentare la SCIA, anche per i casi in cui l’attività sia subordinata alla presentazione di più segnalazioni; l’ultimo comma raccorda infatti la disposizione con l’art.14 in materia di conferenza di servizi. 7.5 I procedimenti amministrativi composti Al procedimento amministrativo nazionale disciplinato dalla Legge n.241/90, si affiancano i cosiddetti procedimenti amministrativi composti. La categoria di tali procedimenti amministrativi è piuttosto eterogenea e abbraccia tutti quei procedimenti in cui l’azione amministrativa si svolge a livello nazionale e comunitario. Precisamente, si ha un procedimento cosiddetto bottom-up, qualora l’azione inizi in ambito nazionale e si concluda con un provvedimento adottato dalle istituzioni comunitarie. Viceversa, qualora l’azione venga avviata in ambito europeo e si

361. Si tratta dunque di un potere comunque vincolato. Dato l’espresso richiamo da parte dell’art.19, comma 4, si ricordi il termine di diciotto mesi ora previsto all’art.21 nonies, nonché il nuovo comma 2 bis della stessa norma che vi deroga anche per i casi di false dichiarazioni sostitutive di certificazione. 362. Si tratta di disposizioni modificate dal d. lgs. n.126/16.

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concluda con un atto nazionale, il procedimento è detto top-down363. Esistono infine procedimenti misti, in cui le due tipologie convergono. Tali procedimenti sono espressione del principio di collaborazione tra amministrazioni che appartengono ad autorità diverse e trovano la loro giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi che coinvolgono sia l’Unione europea che uno o più Stati membri. Non esistendo una disciplina normativa dei procedimenti de quibus, si è posto innanzitutto il problema di individuare la natura, comunitaria o nazionale, del provvedimento conclusivo e, di conseguenza, il giudice competente a conoscerne. Invero, la natura dell’atto non può essere automaticamente fatta discendere dalla natura del soggetto che lo emana. Occorre invero verificare gli effetti che l’atto produce, in quanto potrebbe trattarsi anche di un atto meramente confermativo di un altro atto precedentemente emesso, al quale devono quindi ricondursi gli effetti sostanziali. In altre parole, è necessario individuare quale atto abbia in concreto la capacità di incidere sulle posizioni soggettive e, per questo, sia suscettibile di un’eventuale impugnazione. Infatti, non può attribuirsi natura comunitaria o nazionale all’atto conclusivo, sulla sola base della formale adozione da parte, rispettivamente, dell’organo comunitario o nazionale. Al contrario, dovrà sempre indagarsi la portata dell’atto, in quanto potrebbe doversi attribuire il carattere della decisorietà anche ad un atto endo-procedimentale. Pertanto, nell’ipotesi di atto conclusivo comunitario, avente una propria autonomia di contenuto, che non si limita a riprodurre un atto precedente, tale atto avrà carattere decisorio e sarà idoneo ad incidere sulle posizioni individuali e, conseguentemente, sarà passibile di impugnazione dinanzi all’autorità giudiziaria europea. Viceversa, nell’ipotesi in cui l’atto conclusivo comunitario sia una mera riproduzione di quanto già stabilito con un preceden363. Esempio del primo tipo è il caso di violazione delle norme in materia di aiuti di Stato da parte di una Regione che, dunque, riceve illegittimamente tali aiuti ed è tenuta a restituirli. Un procedimento bottom-up può invece aversi nell’ipotesi in cui l’Unione Europea neghi la concessione di un finanziamento richiesto da una Regione.

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te provvedimento nazionale, i due atti potranno essere impugnati congiuntamente, dinanzi all’autorità giudiziaria nazionale. Individuato l’atto a carattere decisionale, è infatti possibile identificare il giudice competente a conoscere della legittimità dell’atto stesso364. 7.6 Il silenzio: rinvio L’istituto del silenzio si pone in linea di continuità rispetto alle fattispecie di semplificazione procedimentale, analizzate nell’ambito del presenta capitolo. Per la trattazione del silenzio amministrativo, si rinvia al capitolo V. In questa sede ci si limita all’analisi delle nuove disposizioni introdotte dalla riforma Madia, che costituiscono un raccordo tra l’istituto del silenzio e la SCIA. In particolare, l’art.17 bis, introdotto dalla Legge n.124/15, disciplina il silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi. La disposizione prevede il termine di trenta giorni per l’acquisizione dell’assenso o del nulla osta; decorso tale termine, l’assenso si considera acquisito. Il successivo art.18 bis, introdotto dal d. lgs n.126/16 prevede che l’amministrazione che riceve istanze o segnalazioni è tenuta a rilasciare immediatamente una ricevuta, nella quale è altresì indicato il termine entro il quale la stessa è tenuta a rispondere365. Nel caso di silenzio, l’istanza si considera accolta.

364. In un recente caso, ad esempio, si è ritenuto che avesse natura decisoria un parere vincolante rilasciato da un organo nazionale, al quale la Commissione europea aveva aderito con la propria decisione finale di rigetto di un’istanza di ammissione a contributi comunitari, presentata da un imprenditore nazionale. In questo caso, la Corte di Giustizia ha negato la propria giurisdizione, proprio sul presupposto che l’atto decisorio fosse il parere dell’Autorità nazionale e non l’atto europeo, con conseguente competenza del giudice nazionale. 365. Peraltro, il mancato rilascio della ricevuta non ha incidenza sugli effetti dell’istanza o della segnalazione.

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7.7 L’accesso ai documenti amministrativi: rinvio Altro istituto strettamente collegato al procedimento amministrativo è l’accesso ai documenti, al quale verrà dedicato il Capitolo XII, cui pertanto si rinvia.

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CAPITOLO VIII LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE CONTRAENTE. IL CODICE DEI CONTRATTI Sommario: 8.1 L’azione iure privatorum della pubblica amministrazione. - 8.2 I tipi di contratti e la disciplina applicabile. Il d. lgs n.50/2016. – 8.3 Il procedimento a evidenza pubblica. – 8.4 Il recesso e l’esercizio dell’autotutela. – 8.5 Il partenariato pubblico privato. – 8.6 La giurisdizione e il nuovo rito in materia di appalti. La dichiarazione di inefficacia del contratto.

8.1 L’azione iure privatorum della pubblica amministrazione Le modalità di esercizio della funzione pubblica hanno subito nel tempo un’importante trasformazione. In particolare, la pubblica amministrazione è passata da un esercizio del potere autoritativo, che faceva esclusivamente ricorso a provvedimenti unilaterali, ad un utilizzo sempre maggiore di modelli consensuali e di strumenti propri del diritto privato, considerati parimenti idonei a perseguire i fini pubblicistici. Attraverso l’attività di diritto privato, viene ad instaurarsi con il cittadino un rapporto paritario, in cui l’amministrazione perde la propria posizione di supremazia e si pone sullo stesso piano del proprio interlocutore. All’amministrazione è oggi pacificamente riconosciuta piena capacità di diritto privato. L’art.1, comma 1 bis della Legge n.241/90 attribuisce infatti all’amministrazione la facoltà di stipulare qualsiasi tipo di contratto, anche atipico; resta fermo il vincolo pubblicistico che permea l’intera attività amministrativa, compresa quella privatistica366. Nel tempo, il ricorso a moduli privatistici si è accresciuto, tanto 366. Il successivo comma 1 ter si occupa invece dell’attività pubblicistica svolta da soggetti privati, che deve quindi essere distinta dall’attività privatistica svolta dall’amministrazione.

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che in dottrina si è iniziato a parlare di vera e propria privatizzazione del diritto delle pubbliche amministrazioni, che non operano invero più solo mediante provvedimenti autoritativi367. Anzi, vi sono alcuni settori in cui la negoziazione con il privato ha un ruolo centrale e, dunque, lo strumento privatistico si rivela maggiormente efficace ed efficiente per il soddisfacimento dell’interesse pubblico perseguito368. Tuttavia, l’attività privatistica dell’amministrazione non è mai del tutto sovrapponibile a quella svolta da un soggetto privato. Come detto, resta fermo il vincolo pubblicistico il quale, da un lato, richiede che la scelta dell’amministrazione di utilizzare strumenti privatistici sia sempre adeguatamente motivata369; dall’altro lato, comporta che l’amministrazione possa comunque intervenire autoritativamente, mediante ad esempio provvedimenti di autotutela, anche successivamente alla conclusione di un contratto370. 8.2 I tipi di contratti e la disciplina applicabile. Il d. lgs n.50/16 La pubblica amministrazione, quale soggetto dotato di piena capacità di diritto privato, ha la facoltà di ricorrere a qualsiasi strumento contrattuale privatistico, che sia idoneo al perseguimento del fine pubblico. A livello generale, la dottrina opera una classificazione dei contratti stipulabili dall’amministrazione. In particolare, si distingue tra contratti ordinari di diritto comune, utilizzati prevalentemente per la gestione del patrimonio e disciplinati dal codice civile. 367. Il fenomeno della privatizzazione ha interessato tutti gli aspetti dell’amministrazione pubblica, dalla gestione del patrimonio, al rapporto di lavoro, fino alle modalità di svolgimento della funzione pubblica. 368. Si pensi ai procedimenti espropriativi e al settore delle concessioni. 369. Ad esempio, l’amministrazione deve motivare la propria scelta di concludere un contratto in luogo dell’emanazione del decreto di esproprio. 370. In realtà, si discute sulla facoltà di esercizio dell’autotutela successivamente alla stipula del contratto; tuttavia, l’amministrazione ha il potere di riesaminare i propri precedenti atti anche qualora le trattative siano ad uno stato piuttosto avanzato.

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A questi, si affiancano i contratti speciali di diritto privato, regolati dalle relative norme di settore - come nel caso dei contratti di trasporto ferroviario - nonché i contratti di diritto comune ad oggetto pubblico. Questi ultimi integrano una fattispecie complessa, in quanto si caratterizzano per la commistione tra un provvedimento amministrativo e un contratto che regola gli aspetti patrimoniali. All’interno della categoria dei contratti ad oggetto pubblico, si distingue ulteriormente tra contratti che accedono a provvedimenti, contratti ausiliari a provvedimenti e contratti sostitutivi di procedimenti. Nei contratti accessivi, le obbligazioni discendono dal provvedimento e vengono poi disciplinate nel dettaglio, anche sul piano economico, mediante il contratto, come nel caso delle concessioni. I contratti ausiliari, diversamente, sostituiscono una parte degli atti del procedimento di formazione dell’atto finale. L’intero procedimento amministrativo viene invece surrogato dai contratti sostitutivi, qual è la convenzione urbanistica. Peraltro, tale ultima categoria contrattuale ha subito un ridimensionamento, con l’introduzione degli accordi ex art.11 della Legge n.241/90. Altra fondamentale distinzione è quella tra contratti attivi, con i quali l’amministrazione si procura delle entrate, e contratti passivi, che comportano invece un esborso di denaro da parte dell’amministrazione, tipicamente per l’acquisto di un bene o di un servizio. Accanto ai contratti tipici, al pari di qualsiasi soggetto privato, l’amministrazione può concludere altresì contratti atipici371. Tuttavia, l’autonomia contrattuale dell’amministrazione è sempre più limitata rispetto a quella del privato; invero, sulla compatibilità di alcune figure contrattuali con l’esercizio della funzione pubblicistica, ancora si discute. Vi sono comunque una serie di fattispecie negoziali che sono ormai entrate nella prassi, tanto da essere poi espressamente codificate. 371. L’atipicità dei contratti si contrappone alla tipicità dei provvedimenti.

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Un primo esempio è rappresentato dal contratto di brokeraggio, tipico del settore assicurativo, il quale si compone di due fasi: la prima di consulenza e la seconda di mediazione professionale. E’ contratto tipicamente oneroso, che richiede il previo espletamento della gara pubblica per l’individuazione del contraente372. L’espletamento di una procedura concorsuale, seppur semplificata, è prevista altresì per la selezione dello sponsor, con cui stipulare il contratto di sponsorizzazione, il quale offre una forma di pubblicità indiretta. E’ contratto consensuale, a prestazioni corrispettive e tipicamente oneroso373. Il leasing pubblico nasce come contratto atipico, per essere in seguito positivizzato dal vecchio codice dei contratti. Tale negozio ha una portata più ristretta rispetto a quella conosciuta in ambito civilistico, in quanto è prevista la sola forma del leasing finanziario, tipicamente funzionale alla realizzazione di opere pubbliche. Tutta l’attività contrattuale dell’amministrazione è caratterizzata dall’incontro tra il diritto pubblico e il diritto privato. Ciò non tanto perché possono esservi momenti autoritativi che si innestano nell’attività privatistica, quanto piuttosto perché il contratto è sempre funzionale alla realizzazione del fine pubblicistico. Pertanto, l’amministrazione non è libera di negoziare con chi vuole, ma è sempre tenuta a compiere la scelta migliore nell’interesse della collettività. Occorre dunque distinguere la fase anteriore alla stipulazione del contratto dalla fase successiva a detta stipulazione. Precisamente, prima che il contratto venga concluso, operano il diritto amministrativo e la giurisdizione amministrativa374. Invero, tale fase è preordinata alla scelta del contraente e comprende tutte le attività prodromiche alla stipulazione, consistenti nello svolgimento di procedimenti amministrativi e nell’emanazione di provvedimenti. 372. E’ prevista la gara pubblica in quanto il contratto di brokeraggio comporta sempre un esborso da parte dell’amministrazione. 373. Il contratto di sponsor è stato peraltro disciplinato dal recente d. lgs n.50/16, per cui non costituisce più un contratto atipico. 374. Cfr. art.133, lett. e) n.1, c.p.a..

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La fase successiva alla conclusione del contratto è invece disciplinata dal diritto privato e governata dalla giurisdizione ordinaria. Si tratta infatti della fase di esecuzione, dove vengono in rilievo unicamente questioni inerenti al rapporto privatistico che intercorre tra le parti contraenti. La natura pubblicistica di una parte contrattuale, invero, non altera la natura dell’atto negoziale e, pertanto, non modifica la disciplina applicabile al medesimo. Tuttavia, si discute sull’applicabilità di alcune disposizioni. In particolare, in relazione agli artt.1341 e 1342 c.c. in tema di clausole vessatorie e agli artt.1414 e ss. c.c. in materia di simulazione, taluni sostenendo che la volontà dell’amministrazione non dovrebbe essere indagata, dovendo la stessa scaturire in modo inequivoco dal contratto. Si discute altresì in merito all’art.1359 c.c., che disciplina la finzione di avveramento della condizione, il quale non sarebbe applicabile all’attività amministrativa per contrasto con l’art.5 L.A.C.375. La disciplina relativa alla fase anteriore alla stipulazione del contratto è stata influenzata da una serie di direttive europee che si sono succedute nel tempo. A differenza di quanto accade per i soggetti privati che in questa fase godono di massima autonomia, l’amministrazione è al contrario tenuta a rispettare una normativa dettagliata. La fase de qua, invero, oltre a svolgersi in ossequio ai principi generali che governano l’azione amministrativa, deve garantire la scelta del soggetto tecnicamente e moralmente idoneo376. Tra i principi di derivazione europea che governano la materia, ruolo centrale è attribuito al principio di libera concorrenza, che ispira tutta la disciplina. 375. La legge abolitrice del contenzioso amministrativo stabilisce all’art.4 che «Quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso». Al successivo art.5 prevede che «In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi». 376. Per l’analisi dei principi, si veda il Capitolo V.

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Tradizionalmente, la procedura di scelta del contraente era vista come strumento di tutela degli interessi dell’amministrazione appaltante, in termini di conclusione del contratto economicamente più favorevole. La visione è completamente mutata con l’influsso comunitario, per cui al centro sono stati posti gli interessi dei partecipanti, con l’intento di garantire lo svolgimento delle attività economiche in un regime di par condicio tra gli operatori. La concorrenza viene quindi tutelata mediante la procedura di selezione del partner contrattuale, nell’ambito della quale l’amministrazione è chiamata a comparare tutte le offerte presentate. Ciò si spiega in quanto l’amministrazione non agisce per scopi di lucro, come farebbe un imprenditore privato, ma per ragioni di pubblico interesse. Le prime direttive europee risalgono al 2004; esse disciplinavano i contratti di appalto e le concessioni nell’ambito dei cosiddetti settori speciali e nei settori ordinari, nell’intento di uniformare le legislazioni statali e velocizzare le procedure. Per recepire tali direttive, il Legislatore italiano ha approvato il primo codice dei contratti (d. lgs n.163/06, oggi abrogato), il quale ha avuto il pregio di riordinare tutta la normativa precedente. Successivamente, con il d. lgs n.53/10 (oggi abrogato) è stata recepita la direttiva n.2007/66, il cui scopo era quello di migliorare l’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici. La disciplina processualistica è poi confluita ed è stata riorganizzata all’interno del codice del processo (d. lgs n.104/10), venendo così sottratta al codice dei contratti. Nel 2014 è intervenuta la direttiva n.23, la quale ha introdotto la prima definizione normativa di concessione. Le direttive del 2004 sono state poi sostituite dalle ulteriori direttive del 2014, nn.24 e 25, ispirate ad obiettivi di promozione della concorrenza, di flessibilità normativa, di lotta alla corruzione e di maggiore accessibilità alle gare da parte delle piccole e medie imprese.

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Le ultime direttive sono state recepite con il d. lgs n.50/16, contenente il codice dei contratti, successivamente razionalizzato dal d. lgs n.96/2017377. L’ambito di applicazione del codice è circoscritto ai contratti passivi, vale a dire a quei contratti con cui l’amministrazione si procura beni e servizi e che, dunque, comportano una spesa pubblica378. La nuova normativa è ispirata ai principi di trasparenza, informatizzazione e standardizzazione delle procedure, mediante ad esempio, la predisposizione di bandi tipo, la previsione di clausole escludenti tassative e sistemi informatici di gestione delle diverse fasi della procedura. Altro obiettivo della riforma è quello di ridurre il contenzioso in materia, attraverso una serie di rimedi alternativi alla risoluzione giudiziale delle controversie, quali l’accordo bonario, il ricorso all’arbitrato senza la necessità della previa autorizzazione amministrativa, la transazione, il collegio consultivo tecnico e altri379. Il codice introduce poi una serie di novità rispetto alla normativa precedente. Innanzitutto viene abbandonata la distinzione tra appalti sotto e sopra la soglia comunitaria e vengono individuate quattro nuove fasce che individuano le soglie di rilevanza comunitaria380. Inoltre, un ruolo di centrale importanza è attribuito all’A.N.A.C.; invero, nell’ambito del proprio potere di regolazione, l’Autorità adotta di fatto anche veri e propri regolamenti, in quanto le linee guida emanate hanno in alcuni casi efficacia vincolante. Inoltre, è affidato all’A.N.A.C. il compito di predisporre il modello standard del bando di gara. 377. Il regime transitorio del decreto n.50/2016 prevede l’applicazione della nuova disciplina alle gare indette a partire dal 20.04.16, data di entrata in vigore del decreto. Il successivo intervento del legislatore non ha intaccato la normativa, limitandosi alla sistematizzazione delle disposizioni vigenti. 378. I contratti attivi restano disciplinati dalle Leggi in materia di contabilità dello Stato del 1923 e 1924. 379. Cfr. artt.205 e ss. d. lgs n.150/16. 380. Cfr. art.35 del d. lgs n.50/16.

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Ulteriore novità interessante è la definizione di concessione che, prima del codice, non era stata mai positivizzata all’interno del nostro ordinamento. L’art.3, comma 1, lett. uu) e lett. vv) definiscono rispettivamente le concessioni di lavori e le concessioni di servizi. In generale, la concessione consiste nel contratto con cui la stazione appaltante affida un lavoro o un servizio ad uno o più operatori economici, riconoscendo a titolo di corrispettivo la sola gestione ovvero la gestione accompagnata da un prezzo (rispettivamente, concessione pura e concessione spuria). Nella concessione, il rischio operativo legato alla gestione viene assunto dal concessionario. Diversamente, nell’appalto, il rischio non grava sull’appaltatore e il corrispettivo consiste nel pagamento del prezzo dell’opera o del servizio da parte dell’amministrazione381. 8.3 Il procedimento a evidenza pubblica Con l’espressione contratti ad evidenza pubblica, si fa riferimento al modulo procedimentale seguito per addivenire alla stipulazione di un contratto. Il procedimento a evidenza pubblica è infatti l’iter mediante il quale l’amministrazione sceglie il proprio partner contrattuale e che si rende necessario ogni qualvolta l’operazione negoziale comporti una spesa pubblica. Tale procedimento è invero ispirato ai principi di trasparenza dell’azione amministrativa e di libertà di concorrenza, per cui l’amministrazione deve poter garantire la migliore scelta per il perseguimento del fine pubblicistico. Per questo, la relativa disciplina si compone di norme imperative contenute nella normativa di settore, cui si affiancano, trattandosi di procedimento amministrativo, le disposizioni e i principi

381. Si parla invero di corrispettivo giuridico nella concessione e di corrispettivo economico nell’appalto.

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generali contenuti nella Legge n.241/90382. Nella fase preliminare della procedura, l’amministrazione manifesta la propria volontà di stipulare il contratto. Si tratta della fase di deliberazione o determinazione a contrarre, per cui l’amministrazione deve esplicitare lo scopo perseguito e i criteri di selezione dei partecipanti383. Segue la fase di scelta del contraente, che può avvenire in una delle modalità di cui all’art.59 del nuovo codice dei contratti, vale a dire tramite procedura aperta o ristretta, con o senza previa pubblicazione di un bando o di un avviso di indizione della gara, ovvero mediante procedura competitiva con negoziazione o dialogo competitivo. Di regola è vietato l’affidamento congiunto della progettazione e dell’esecuzione dei lavori, salvo alcune eccezioni tassative384. Ferme le ipotesi di esclusione, generalmente le procedure di scelta del contraente vengono indette mediante la pubblicazione del bando di gara. Con l’approvazione del nuovo codice, al fine di agevolare l’attività delle stazioni appaltanti, è stata prevista l’adozione di bandi tipo da parte dell’A.N.A.C.385. Il bando di gara viene emanato sulla base della precedente determina a contrarre; esso integra il primo vero atto della procedura e contiene la disciplina applicabile alla stessa, integrandone dunque la lex specialis386. Con particolare riferimento ai requisiti di partecipazione, la nuova normativa ne ha previsto un incremento, nel senso che sono previsti più motivi di esclusione del potenziale concorrente. Precisamente, si è passati da un sistema statico di requisiti for382. Si ricorda che la legge sul procedimento richiama espressamente i principi comunitari. 383. Cfr. art.32 del d.lgs n.50/16. 384. L’art.59, comma 1, del d. lgs n.50/16 stabilisce l’affidamento congiunto della progettazione e dell’esecuzione nel caso di affidamento a contraente generale, finanza di progetto, affidamento in concessione, partenariato pubblico privato e contratto di disponibilità. 385. Autorità nazionale anticorruzione. 386. In particolare, i requisiti di partecipazione, i criteri di selezione ed anche le specifiche tecniche.

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malistici ad un sistema dinamico, incentrato maggiormente su requisiti sostanziali, reputazionali. I motivi di esclusione sono previsti all’art.80 del decreto in esame, il quale contiene un elenco da considerarsi tassativo; ciò significa che le stazioni appaltanti non possono prevedere ulteriori e diverse ipotesi di estromissione dalla procedura di gara387. Tuttavia, l’intenzione resta quella di garantire la massima partecipazione alle procedure di affidamento; pertanto, è ammesso il ricorso all’avvalimento nonché a forme di raggruppamento tra imprese. Entrambi gli istituti permettono infatti l’accesso alle procedure di selezione da parte di soggetti che, da soli, non avrebbero i requisiti necessari e ne resterebbero pertanto esclusi. In particolare, l’avvalimento è disciplinato dall’art.89 e consiste nella possibilità per un operatore di avvalersi dei requisiti di altro operatore, a prescindere dalla natura giuridica dei rapporti che con questo intrattiene. Tale possibilità è espressamente circoscritta ai requisiti di tipo economico e tecnico, restando esclusi i requisiti di moralità e integrità, la cui assenza in capo al concorrente, ai sensi dell’art.80, ne comporterebbe l’esclusione dalla gara. I raggruppamenti temporanei tra imprese consistono nella collaborazione tra operatori economici, che partecipano così congiuntamente alle gare, sommando i propri requisiti tecnici ed economici. Ogni impresa è tenuta ad una propria prestazione, la quale deve essere espressamente indicata388. A seguito della pubblicazione del bando, ogni concorrente può presentare una sola offerta. Nelle ipotesi in cui le offerte presentate siano almeno dieci, il nuovo codice ha ripristinato il meccanismo di esclusione automatica delle offerte anomale, vale a dire delle offerte che presentano 387. Novità sono costituite dalle disposizioni relative alle ipotesi di conflitto di interessi e alle violazioni della libera concorrenza. 388. Si vedano gli artt.45 e ss. del d. lgs n.50/16, i quali distinguono tra raggruppamenti orizzontali e raggruppamenti verticali e disciplinano altresì la partecipazione dei consorzi e delle aggregazioni tra imprese che partecipano al contratto di rete.

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un ribasso talmente eccessivo rispetto all’oggetto del contratto, da far dubitare dell’affidabilità delle stesse389. Il criterio di scelta prediletto dal nuovo codice consiste nell’offerta economicamente più vantaggiosa, restando residuale il criterio del prezzo più basso390. Scelto il contraente, si ha l’aggiudicazione, vale a dire l’atto finale con cui la procedura si conclude. L’aggiudicazione non comporta l’accettazione dell’offerta, ma ha il solo effetto di renderla irrevocabile fino allo spirare del termine previsto per la stipula del contratto391. Peraltro, la nuova disciplina ha eliminato l’aggiudicazione provvisoria, prevedendo un mera proposta di aggiudicazione di natura endo-procedimentale, non impugnabile in quanto non immediatamente lesiva di posizioni soggettive392. L’aggiudicazione diventa efficace con la verifica della sussistenza dei requisiti prescritti; entro i sessanta giorni successivi, deve aver luogo la stipula del contratto. Il mancato rispetto di tale termine, comporta la facoltà per il privato - al quale spetta il solo rimborso delle spese - di esercitare il recesso e liberarsi dal vincolo contrattuale. In ogni caso, il contratto non può essere stipulato prima di trentacinque giorni dall’invio dell’ultima comunicazione dell’aggiudicazione; si tratta del cosiddetto stand still period, posto per evitare che la stipulazione avvenga quando ancora vi è il rischio di impugnazione. Il nuovo codice ha tuttavia ampliato le ipotesi di eccezione alla 389. Nel sistema previgente, l’esclusione automatica operava in ipotesi eccezionali; la regola era lo svolgimento di un procedimento di verifica delle offerte, richiedente l’esercizio di attività discrezionale tecnica. 390. La gerarchia tra i criteri era stata evidenziata dalla direttiva n.2014/24. 391. L’art.32, comma 8 stabilisce il termine di sessanta giorni per la stipula del contratto, decorrente dal momento in cui l’aggiudicazione acquista efficacia. 392. Sulla natura dell’aggiudicazione provvisoria, invero, vi è stato un acceso dibattito tra chi ne sosteneva l’inidoneità ad incidere sulle posizioni soggettive dei partecipanti e degli esclusi e, dunque, la non impugnabilità e chi, al contrario, ne ammetteva l’impugnazione immediata, ancorché in termini di mera facoltà.

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regola, per cui la stipula può intervenire anche prima di detto termine; in particolare, ora è ammessa anche l’esecuzione di urgenza in pendenza del periodo di stand still. 8.4 Il soccorso istruttorio Tale istituto riveste un’importanza particolare nell’ambito delle procedure concorsuali393. Il soccorso istruttorio è stato introdotto nel nostro ordinamento con il nuovo codice dei contratti, quale possibilità per il partecipante alla procedura, di integrare la propria domanda, qualora fosse stata ritenuta incompleta o inesatta dalla commissione. In particolare, la possibilità di integrazione viene riconosciuta nelle ipotesi di carenza, incompletezza o irregolarità formali della domanda; al contrario, il soccorso istruttorio non opera qualora tali aspetti investano requisiti sostanziali della stessa. Precisamente, la stazione appaltante può concedere un termine massimo di dieci giorni per permettere la correzione ovvero l’integrazione della domanda che difetti di elementi che non ne inficiano la sostanza. Qualora il termine dovesse decorrere senza che l’interessato adempia a quanto richiesto, l’amministrazione procederà all’esclusione del partecipante. La ratio dell’istituto è evidente ed è quella di limitare le ipotesi di esclusione degli operatori economici dalle gare solo alle ipotesi di carenze sostanziali e gravi dei requisiti necessari alla partecipazione. Tale istituto nasceva a carattere oneroso; questo aspetto è venuto meno con il decreto correttivo n.56/2016, in linea con la legge delega che stabiliva la riduzione degli oneri economici a carico dei partecipanti alle procedure di gara394. 393. Si ricorda che l’istituto de quo è comunque applicabile a qualsiasi tipo di procedimento; si veda l’art.6 della Legge n. 241/90. 394. Il Consiglio di Stato ha comunque affermato che le spese sostenute dalla stazione appaltante per ricorrere al soccorso istruttorio, possano comunque essere poste a carico del partecipante che ne ha dato causa (Cons. Stato, sez. norm., parere n.432/2017).

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Il citato decreto ha un ulteriore merito, in quanto ha superato la precedente distinzione tra irregolarità essenziali e non essenziali. Più comprensibilmente, ora si parla di carenze formali sanabili, da un lato, e carenze sostanziali non sanabili, dall’altro. Pertanto, ad esempio, sarà sanabile la mancata allegazione di un documento che attesta la titolarità di un requisito essenziale alla partecipazione, ma non l’assenza di titolarità di quel requisito. Secondo l’attuale normativa, il soccorso istruttorio non può essere invocato solo nei casi in cui le irregolarità, le carenze ovvero le omissioni riguardino l’offerta tecnica e l’offerta economica, rappresentando entrambe la parte sostanziale della domanda di partecipazione. In questo modo, l’istituto in esame concorre a garantire il favor partecipationis, principio basilare delle procedure ad evidenza pubblica. 8.5 Il recesso e l’esercizio dell’autotutela Si discute sulla possibilità per l’amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela sia prima che dopo la stipula del contratto. Con riferimento alla fase antecedente la stipula del contratto, in realtà, non sussiste una problematica vera e propria, nel senso che, essendo tale fase caratterizzata dall’adozione di provvedimenti autoritativi, valgono le regole generali in materia di autotutela. Ciò significa che, in presenza dei requisiti previsti dalla legge per l’esercizio del potere di riesame, l’amministrazione ben può incidere sui propri precedenti provvedimenti, qualora non si rivelino più rispondenti all’interesse pubblico. Resta ferma la configurabilità di una responsabilità per mala fede dell’amministrazione, qualora abbia posto in essere comportamenti scorretti mediante la propria azione, con pregiudizio del legittimo affidamento del (potenziale) concorrente. Tuttavia, questa responsabilità riguarda un aspetto diverso dell’azione amministrativa395. 395. Si rimanda ai Capitoli VI e X.

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Con riferimento invece alle ipotesi in cui il contratto sia stato già stipulato, ci si interroga sulla possibilità per l’amministrazione di revocare l’atto negoziale, con effetto caducante. La dottrina si divide; alcuni ritengono che l’amministrazione mantenga il potere di intervenire unilateralmente sul contratto già concluso, al fine di mantenere l’azione amministrativa rispondente all’interesse pubblico. Al contrario, altri ritengono che, a seguito della stipula, l’amministrazione possa ricorrere solo a istituti di diritto privato. La giurisprudenza amministrativa si è espressa ritenendo che in questa fase, l’amministrazione debba ricorrere al potere pubblico solo se non ha a disposizione gli strumenti privatistici idonei allo scopo396. Il codice prevede però rimedi diversi; precisamente, nel caso di contratto di appalto, gli artt.108 e 109 riconoscono all’amministrazione gli strumenti privatistici della risoluzione e del recesso per far fronte alle sopravvenienze contrattuali397. Il diritto di recesso è previsto in via generale dall’art.21 sexies della Legge n.241/90, il quale ne stabilisce l’utilizzo solo nei casi previsti dalla legge o dal contratto. Nell’ambito dei contratti pubblici, il recesso si manifesta come species di quello contenuto nella legge sul procedimento, quale forma di pentimento dell’amministrazione che, per ragioni di convenienza, non ritiene più utile la realizzazione dell’opera o l’erogazione del servizio. Peraltro, l’art.109 ne prevede la possibilità di esercizio in qualsiasi momento, previo pagamento dei lavori già eseguiti o del valore delle prestazioni già erogate. Diversamente, in materia di concessioni, l’art.176 prevede, accanto al rimedio della risoluzione, l’esercizio dell’autotutela, con un regime peraltro speciale rispetto a quello contenuto nella legge sul procedimento. In particolare, l’efficacia della revoca è subordinata al pagamen396. Cfr. Ad. Plen. n.14/2014. 397. L’art.108 prevede peraltro casi in cui la risoluzione è obbligatoria.

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to, da parte dell’amministrazione, di quanto dovuto al concessionario a causa della revoca stessa. Inoltre, sono previsti casi specifici di annullamento per i quali non operano i termini previsti dall’art.21 nonies398. 8.6 Il partenariato pubblico privato Tale figura contrattuale viene per la prima volta disciplinata in modo dettagliato dal nuovo codice dei contratti, il quale vi dedica il titolo I della Parte IV399. La definizione è contenuta nell’art.3, comma 1, lett. eee), a tenore del quale si tratta di contratto a titolo oneroso con cui una o più stazioni appaltanti conferiscono a uno o più operatori economici, per un periodo determinato, un complesso di attività che comprendono la realizzazione, trasformazione, manutenzione e gestione di un’opera, in cambio della sua disponibilità o della possibilità di sfruttarla economicamente, altresì mediante la fornitura di un servizio connesso all’opera stessa. Si tratta dunque di un istituto che comprende diversi tipologie contrattuali, che si pongono quali strumenti alternativi all’appalto classico per la realizzazione di opere pubbliche e che comportano un maggiore coinvolgimento del privato, sin dalla fase di progettazione400. Invero, il contratto di partenariato ha pressoché il medesimo oggetto dell’appalto; tuttavia, l’allocazione del rischio è completamente diversa, riversandosi integralmente sul partner privato. Invero, l’operatore assume su di sé il rischio della costruzione, della disponibilità dell’opera o del servizio e il rischio della do398. Si tratta di ipotesi di gravi illegittimità, quali la violazione del diritto europeo da parte della stazione appaltante e il caso in cui il concessionario avrebbe dovuto essere escluso dalla gara ai sensi dell’art.80 del d. lgs n.50/16. 399. La figura era comunque già stata introdotta nel codice dei contratti previgente mediante il d. lgs n.152/08, oggi abrogato. Ulteriore spinta è stata data dalle direttive europee nn.24 e 25 del 2014. 400. Tale contratto è espressione del principio di sussidiarietà orizzontale ex art.118, comma 4, Cost..

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manda; in altre parole, il privato risponde dei ritardi nella consegna dell’opera ovvero dei costi inadeguati, nonché dell’incapacità dell’opera o del servizio di soddisfare le esigenze dell’amministrazione, oltreché dell’eventuale insoddisfazione degli utenti. Il corrispettivo spettante al partner privato è dato dal canone versatogli dal concedente ovvero dal prezzo pagato dagli utenti del servizio. La legge prevede espressamente che la durata del contratto garantisca l’ammortamento degli investimenti fatti e il recupero delle spese sostenute dal concessionario, mediante la percezione del canone ovvero il pagamento del prezzo da parte dell’utenza. L’art.180, comma 1 stabilisce inoltre che il contratto di partenariato possa comprendere altresì la progettazione di fattibilità e la progettazione definitiva delle opere o dei servizi401. L’ultimo comma della stessa norma riconduce a tale schema contrattuale la finanza di progetto, la concessione di costruzione e di servizi, la locazione finanziaria e il contratto di disponibilità402. La finanza di progetto (o project financing) è una delle principali forma di partenariato pubblico privato, in cui l’opera viene realizzata con il ricorso, in via esclusiva o parziale, di capitali privati. Il guadagno deriva poi dalla gestione dell’opera. Con il contratto di disponibilità, invece, il privato mette a disposizione dell’amministrazione l’opera costruita, dietro corrispettivo, per destinarla all’esercizio di un pubblico servizio. Di regola, l’opera resta di proprietà del privato, il quale si accolla tutte le spese necessarie per la realizzazione e la gestione dell’opera stessa. La retribuzione corrisponde ad un canone per la disponibilità, al quale può affiancarsi un ulteriore contributo in corso d’opera ovvero un prezzo di trasferimento, nel caso in cui l’opera venga successivamente acquistata dall’amministrazione. Altro tipo particolare di partenariato pubblico privato è il con401. Il contratto di partenariato rientra invero tra i contratti che possono avere ad oggetto, unitamente, la progettazione el’esecuzione. 402. Cfr. artt.187 e 188 del decreto in esame.

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traente generale, che si differenzia dal concessionario in quanto non si occupa della gestione dell’opera realizzata403. Anche per la stipulazione di un contratto di partenariato, la legge prevede l’espletamento di una gara pubblica; in particolare, l’art.195 prevede che l’amministrazione debba motivare la scelta di ricorrere all’affidamento a contraente generale, in ragione della complessità dello strumento e allo scopo di garantire qualità e sicurezza elevate. 8.7 La giurisdizione e il nuovo rito in materia di appalti. La dichiarazione di inefficacia del contratto Dal punto di vista della tutela giurisdizionale, il nuovo codice non ha inciso sul riparto tra giudice amministrativo e giudice ordinario, che resta dunque quello già delineato dal precedente codice. Precisamente, la fase antecedente alla stipula è affidata alla giurisdizione amministrativa; mentre, competente a conoscere delle questioni inerenti la fase di esecuzione del contratto, resta il giudice ordinario. Invero, la fase che precede la conclusione del contratto è interamente disciplinata da norme pubblicistiche, che regolano tutta la procedura di selezione del contraente, in modo da rendere l’azione amministrativa trasparente e funzionale alla miglior scelta nell’interesse collettivo404. In questa fase, vengono dunque in rilievo provvedimenti autoritativi, di fronte ai quali il (potenziale) concorrente vanta esclusivamente posizioni di interesse legittimo. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo comprende altresì la sorte del contratto, vale a dire l’accertamento della carenza degli effetti contrattuali, a seguito della dichiarata illegittimità della procedura di gara. Questa estensione della giurisdizione amministrativa permette 403. Cfr. artt.194 e ss. del d. lgs n.50/16. 404. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo trova il proprio fondamento già nell’art.103 Cost..

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di concentrare la tutela dinanzi ad un unico giudice, in ossequio ai principi di effettività della tutela stessa e di ragionevole durata del processo. Diversamente, la fase di esecuzione del contratto attiene ai rapporti prettamente privatistici che intercorrono tra le parti, le quali sono appunto legate da un vincolo contrattuale, disciplinato dalle norme del codice civile. In questa fase, dunque, vengono diversamente in rilievo posizioni di diritto soggettivo, la cui tutela è affidata al giudice ordinario, in quanto non vi è esercizio del pubblico potere. La riforma ha però cambiato il rito, la cui disciplina è contenuta nel codice del processo. E’ previsto un rito speciale anticipato, con possibilità di impugnazione immediata di tutti i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalla gara, entro il termine di trenta giorni. Peraltro, la decorrenza di tale termine comporta la preclusione dell’impugnativa anche mediante ricorso incidentale o per motivi aggiunti. Ciò significa che la possibilità di far valere una illegittima ammissione ovvero un’illegittima esclusione è limitata rispetto al regime precedente; lo scopo è quello di ridurre il contenzioso in materia, senza ovviamente privare l’interessato degli idonei strumenti di tutela. La novità della riforma risiede tuttavia nella possibilità di impugnare i provvedimenti di ammissione che, in precedenza, erano sempre stati considerati non lesivi e, dunque, non passibili di impugnazione diretta e autonoma, ma solo unitamente al provvedimento finale dell’aggiudicazione. Tale previsione ha recepito l’orientamento giurisprudenziale per cui, l’aver ammesso un concorrente che non ne aveva diritto, può creare pregiudizi anche immediati, e non solo nell’ipotesi in cui quel concorrente divenga poi aggiudicatario. Invero, già l’ammissione potrebbe ad esempio comportare l’esclusione di un altro operatore economico che, al contrario, avrebbe potuto legittimamente partecipare.

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All’art.211 è inoltre prevista l’impugnativa dei pareri resi in sede precontenziosa dall’A.N.A.C., ai sensi dell’art.120 c.p.a.. Invero, su richiesta di una o di entrambe le parti, l’A.N.A.C. esprime pareri vincolanti, relativamente a questioni insorte durante le procedure di gara. Inoltre, con il nuovo codice è venuta meno l’informativa in ordine all’intento di proporre ricorso per cui, il soggetto che intenda proporre impugnazione, non è più tenuto a trasmettere all’amministrazione appaltante un preavviso con cui dichiari tale intento405. A fronte dell’annullamento della gara da parte del giudice, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla sorte del contratto già stipulato. Le principali tesi in campo sostenevano la nullità, l’annullabilità ovvero la caducazione automatica. Già con il d. lgs n.53/10, di recepimento della direttiva ricor406 si , il Legislatore pose fine al dibattito, stabilendo l’inefficacia del contratto, da dichiararsi di regola con effetti retroattivi e, in casi eccezionali, ex nunc. L’attuale codice disciplina agli artt.121 e 122 c.p.a. le ipotesi di inefficacia del contratto. Precisamente, l’art.121 prevede quattro ipotesi di violazioni ritenute gravi, in quanto incidenti sul regime della concorrenza. In queste ipotesi, il giudice ha l’obbligo di dichiarare l’inefficacia; tuttavia, è possibile che la dichiarazione abbia effetti ex tunc ovvero ex nunc, a seconda delle peculiarità del caso specifico, per cui il giudice è chiamato a compiere una valutazione in relazione al tipo e alla gravità del vizio che ha colpito l’aggiudicazione. Nel primo caso, sarebbe come se il contratto non ci fosse mai stato; mentre, nella seconda ipotesi, l’inefficacia colpirebbe le sole prestazioni ancora da eseguire. La legge stabilisce tuttavia deroghe alla dichiarazione di ineffi405. Lo scopo dell’istituto era quello di ridurre il contenzioso, sollecitando meccanismi preventivi di risoluzione delle controversie, quale l’esercizio dell’autotutela da parte dell’amministrazione. 406. Dir. n.2007/66/CE; il d. lgs. n.53/10 è stato abrogato dal d. lgs n.50/16.

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cacia del contratto per gravi violazioni, qualora ricorrano esigenze imperative connesse ad un interesse generale, per cui vi è la necessità che il contratto sia eseguito dal contraente attuale407. Invero, nei contratti d’appalto, l’elemento personale può giocare un ruolo fondamentale408. Esigenze imperative ineriscono ad esempio gli aspetti tecnici, i quali richiedono necessariamente l’opera dell’esecutore attuale, in quanto risulterebbe tecnicamente difficile il subentro di un altro operatore. Il successivo articolo 122 disciplina le violazione non gravi, per cui la dichiarazione di inefficacia è rimessa alla discrezionalità del giudice, il quale potrebbe quindi optare per il mantenimento del contratto. In particolare, il giudice dovrà considerare lo stato di esecuzione raggiunto, nonché gli interessi privati e pubblici coinvolti. A fronte di apposita domanda, qualora non vi sia l’obbligo di rinnovare la procedura, il giudice potrà decidere altresì in merito alla richiesta di subentro nel contratto. Sul punto, peraltro, la giurisprudenza afferma che la mancata domanda di subentro, come l’ipotesi di rifiuto di subentro, sono comportamenti valutabili dal giudice ai fini del riconoscimento di un concorso colposo del ricorrente409. Sono previsti inoltre rimedi alternativi alla dichiarazione di inefficacia, quali sanzioni pecuniarie, riduzione della durata del contratto e obblighi risarcitori410. Nell’ambito della tutela risarcitoria, è pacifica l’applicazione dell’art.1227 c.c. per la determinazione del quantum; il risarcimento può peraltro essere totalmente sostitutivo dell’esecuzione del contratto, ovvero affiancarsi all’esecuzione parziale residua. 407. Considerato altresì lo stato di avanzamento dei lavori. 408. Si ritiene comunque superato il principio di assoluta immutabilità dell’operatore economico, alla luce della libertà e della maggiore flessibilità organizzativa delle imprese. 409. L’orientamento maggioritario ritiene che l’obbligo di domanda di subentro non sussista nelle ipotesi di violazioni gravi. 410. Cfr. art.123 c.p.a.. Preferibile il risarcimento per equivalente rispetto a quello in forma specifico, specie se il contratto è in avanzato stato di esecuzione.

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La scelta è rimessa al ricorrente, il quale può dunque optare per la tutela demolitorio-conformativa o la tutela esclusivamente risarcitoria, tenuto conto della possibilità o meno di conseguire il bene della vita, ancorché in via parziale. La giurisprudenza, comunitaria prima e nazionale poi, ha sottolineato che, affinché la tutela in forma specifica e la tutela per equivalente siano effettivamente rimedi alternativi, è necessario che abbiano i medesimi presupposti di operatività. In particolare, entrambi gli strumenti di tutela devono prescindere dall’accertamento del carattere colpevole della violazione posta in essere dall’amministrazione aggiudicatrice411. Invero, come la colpa non rileva ai fini del conseguimento dell’aggiudicazione, parimenti essa non deve rilevare ai fini del riconoscimento del risarcimento. Ciò significa che sul privato incombono i medesimi oneri probatori per richiedere l’una o l’altra forma di tutela.

411. La presunzione di colpevolezza dell’amministrazione resta comunque confinata al settore degli appalti; in via generale, la responsabilità dell’amministrazione è subordinata alla sussistenza dell’elemento soggettivo. Si veda approfonditamente il Capitolo X.

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CAPITOLO IX PARTE I I BENI PUBBLICI E IL BENE AMBIENTE Sommario: 9.1 Classificazione e caratteristiche dei beni pubblici. – 9.1.1 I diritti della pubblica amministrazione. – 9.1.2 La tutela dei beni pubblici - 9.2 Il bene ambiente. I principi in materia ambientale. – 9.2.1 Il danno ambientale. – 9.2.2 L’accesso in materia ambientale: rinvio.

9.1 Classificazione e caratteristiche dei beni pubblici La nozione di bene pubblico non è contenuta in alcuna disposizione normativa. Tuttavia, la Carta Costituzionale ne presuppone una nozione di tipo funzionale-sostanziale, dovendosi ritenere pubblico il bene che, a prescindere dal titolo di proprietà, è funzionalmente collegato alla realizzazione dell’interesse collettivo. Pertanto, un bene pubblico ben può appartenere ad un soggetto privato; ciò che rileva è la sua strumentalità all’interesse della generalità dei consociati. Invero, si ritiene oggi più corretto parlare non di bene pubblico, quanto di bene a destinazione pubblica. Si è quindi superata la teoria soggettiva che riteneva pubblico il bene appartenente alla pubblica amministrazione, nonché la teoria che faceva leva sul regime giuridico del bene, ritenendo pubblico il bene amministrato mediante provvedimenti autoritativi. Invero, la normativa di base dei beni pubblici si rinviene nel codice civile, il quale distingue tra beni demaniali, beni del patrimonio indisponibile e beni del patrimonio disponibile. In realtà, tale suddivisione ha nel tempo perso valore, in quanto vi sono diverse disposizioni speciali che derogano alle previsioni codicistiche, comportando in particolare un avvicinamento tra il demanio e il patrimonio indisponibile. Precisamente, molti beni patrimoniali indisponibili vengono sot-

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toposti ad un’incommerciabilità assoluta, tipicamente propria dei beni demaniali; inoltre, il potere di autotutela esecutiva, previsto per il solo demanio, è stato esteso dalla giurisprudenza anche al patrimonio indisponibile. In ogni caso, è utile evidenziare le caratteristiche originarie delle tre categorie. I beni demaniali sono beni immobili o universalità di mobili che appartengono necessariamente ad un ente territoriale. L’elenco contenuto nell’art.822 c.c. è tassativo. Si distingue tra demanio necessario e demanio eventuale, così chiamato in quanto i beni che lo compongono possono anche appartenere a soggetti privati (e, dunque, non consistere in beni demaniali). Si tratta di beni di notevole importanza, in quanto sono utilizzati dalla collettività e sono strumentali all’esercizio di funzioni pubbliche essenziali. Il regime cui sono soggetti i beni demaniali è invero fortemente derogatorio rispetto alla disciplina generale. In particolare, tali beni sono inalienabili, incommerciabili, inusucapibili e non possono essere oggetto di atti di trasferimento tra privati. La demanialità, se non deriva dalla natura del bene, può essere acquisita mediante un atto amministrativo412. Si parla al contrario di sdemanializzazione quando il bene perde la caratteristica della demanialità, entrando a far parte del patrimonio dello Stato. Tale passaggio può essere determinato non solo da un provvedimento amministrativo, ma può altresì verificarsi mediante atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà di conservare la destinazione all’uso pubblico del bene413. Il patrimonio indisponibile è costituito da beni mobili e immobili, i quali possono appartenere anche ad enti pubblici non territo412. La dottrina peraltro si divide tra coloro che ritengono necessario un atto esplicito e coloro che, al contrario, ritengono sufficiente un atto implicito. 413. Cosiddetta sdemanializzazione tacita.

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riali. Anche qui si distingue tra patrimonio necessario ed eventuale, ossia tale per espressa previsione di legge ovvero tramite provvedimento amministrativo. I beni de quibus sono commerciabili, ma sono gravati dal vincolo pubblicistico, per cui devono sempre essere destinati al perseguimento dell’interesse collettivo. I beni del patrimonio disponibile costituiscono una categoria residuale; tali beni possono appartenere allo Stato o altro ente pubblico ovvero a soggetti privati. Il patrimonio disponibile, come suggerisce il termine stesso, non è soggetto ad un vincolo funzionale, ma l’utilizzo è strumentale al conseguimento di utilità da parte dell’amministrazione. Ai beni disponibili si applica la disciplina ordinaria di diritto privato e, pertanto, sono alienabili, soggetti ad usucapione e ad esecuzione forzata. A questa tripartizione, la dottrina ha proposto di sostituire alcune diverse classificazioni: la prima distingue i beni d’uso collettivo da quelli d’uso amministrativo. Un’altra ricostruzione differenzia i beni naturali dai beni artificiali; infine, un’ulteriore distinzione viene fatta tra beni riservati, che per natura appartengono ad enti pubblici e non sono espropriabili e beni destinati, che possono essere funzionali al soddisfacimento degli interessi pubblici. 9.1.1 I diritti della pubblica amministrazione In passato, si riteneva che il diritto dell’amministrazione sui beni pubblici fosse un diritto di proprietà diverso da quello privatistico. Tale concezione si basava essenzialmente sull’art.42 Cost., il quale distingue tra proprietà pubblica e proprietà privata. Tuttavia, l’interpretazione è stata superata a favore del riconoscimento di un unitario diritto di proprietà, che può differenziarsi solo per le facoltà spettanti al titolare, le quali possono essere diverse in ragione del bene oggetto del diritto stesso. La distinzione contenuta nella richiamata norma costituzionale, invero, fa riferimento non a due diritti di proprietà diversi, ma a due categorie giuridiche di beni.

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Quindi, l’amministrazione è titolare di un diritto di proprietà identico a quello che si configura in capo ad un qualsiasi soggetto privato, ma lo esercita su beni sottoposti a una diversa disciplina, in taluni casi fortemente derogatoria rispetto al regime civilistico. Uno strumento con cui l’amministrazione acquista la proprietà di un bene, è il procedimento espropriativo, di cui si tratterà nella seconda parte del presente capitolo. Sempre alla stregua di un qualsiasi soggetto privato, oltre che del diritto di proprietà, l’amministrazione può essere titolare anche di altri diritti reali minori. Questi ultimi vengono generalmente costituiti su beni di proprietà privata, strettamente connessi a beni pubblici e, dunque, funzionali all’utilità di questi. I diritti reali minori mostrano come la caratteristica della demanialità non esaurisca le tipologie di beni strumentali al soddisfacimento dell’interesse generale. Invero, anche i beni non demaniali possono essere oggetto di godimento collettivo e, dunque, preordinati al perseguimento di interessi pubblici. Le servitù pubbliche, in particolare, costituiscono diritti demaniali su beni appartenenti a soggetti privati, necessariamente collegati a beni pubblici e, pertanto, strumentali all’utilizzo di questi ultimi414. Si tratta di servitù coattive, che possono essere costituite anche tramite provvedimento amministrativo - espressione di discrezionalità tecnica - oltre che per legge o in forza di una sentenza. In queste ipotesi, è chiara la distinzione tra proprietà privata del bene e uso pubblico dello stesso. Tale aspetto non è invece sempre facilmente individuabile con riferimento ai diritti di uso pubblico. Si tratta di diritti che vengono costituiti a carico di fondi privati, per conseguire uno scopo di pubblico interesse, a vantaggio dell’intera collettività. Tra questi rientrano gli usi civici, che spettano ad una comunità determinata che ne gode collettivamente, e le aree protette, sulle 414. Esempi sono le servitù di elettrodotto, di scarico e di scolo.

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quali vengono posti dei vincoli a tutela del paesaggio e della salute degli abitanti415. I beni privati possono inoltre essere di per sé beni di interesse pubblico, allorquando soddisfino autonomamente un interesse collettivo, senza essere collegati ad un bene demaniale o patrimoniale dello Stato. Tipici beni di interesse pubblico sono i beni culturali di proprietà privata, sui quali vengono solitamente apposti dei vincoli conformativi, non eccessivamente gravosi, ma funzionali al soddisfacimento di un interesse generale. Specularmente, il bene pubblico può essere utilizzato da un soggetto privato in forza di un provvedimento di concessione che, appunto, ne concede l’uso416. La concessione amministrativa deve essere adeguatamente motivata; l’amministrazione deve indicare le ragioni della scelta di concedere l’uso del bene ad un soggetto privato e la compatibilità di tale decisione con l’interesse della collettività. In queste ipotesi, il privato concessionario esercita una pubblica funzione417. 9.1.2 La tutela dei beni pubblici A seconda del tipo di bene, l’amministrazione dispone di strumenti di tutela diversi. Innanzitutto, deve distinguersi tra i rimedi amministrativi e i rimedi civilistici. Con riferimento ai primi, la legge prevede l’esercizio dell’autotutela esecutiva e decisoria solamente in relazione ai beni demaniali418. 415. Esempi di usi civici sono il legnatico ed il fungatico di cui godono ad esempio alcune comunità montane. 416. Il bene oggetto di concessione può essere considerato come bene demaniale in sé ovvero come bene produttivo, dal quale è possibile trarre degli utili. Si pensi alla concessione balneare in cui l’area di spiaggia in sé non è fonte di ricchezza, ma l’attività che vi si svolge e la struttura che vi insiste integrano la fonte di reddito del concessionario. 417. Sulle concessioni, si veda Capitolo VIII. 418. Cfr. art.823, comma 2, c.c..

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Tuttavia, la giurisprudenza ha esteso l’esercizio dell’autotutela esecutiva anche in relazione ai beni del patrimonio indisponibile, in tal modo avvicinando le due categorie. Sul punto, la dottrina è rimasta invece divisa. L’autotutela è al contrario del tutto esclusa in relazione ai beni del patrimonio disponibile, i quali sono interamente soggetti alla disciplina civilistica419. Giurisprudenza e dottrina concordano nel ritenere che lo strumento dell’autotutela costituisca un rimedio concorrente con le azioni petitorie e possessorie previste dal codice civile. In particolare, l’orientamento maggioritario fa applicazione del principio di parallelismo per cui, considerato che l’azione di reintegrazione di cui all’art.1168 c.c. può essere esercitata entro l’anno, tale termine andrebbe applicato in via analogica anche all’atto di autotutela. La tesi minoritaria sostiene al contrario che il potere di autotutela non sarebbe soggetto ad alcun limite temporale e che, dunque, sarebbe esercitabile in qualsiasi momento dall’amministrazione. In ogni caso, le azioni civilistiche spettano alle amministrazioni che siano proprietarie o possessori dei beni interessati. 9.2 Il bene ambiente. I principi in materia ambientale Il concetto di ambiente ha conosciuto un’importante evoluzione. Per lungo tempo, si è negata autonoma rilevanza giuridica all’ambiente, che veniva diversamente considerato una componente di altri beni, quali il paesaggio e il territorio, nei quali veniva dunque inglobato. Oggi la visione è mutata; tuttavia l’ambiente non viene qualificato solo in termini di bene giuridico, ma allo stesso è riconosciuta una valenza multidimensionale. La dottrina parla invero dell’ambiente come di una materia trasversale, che si interseca con altri beni, in particolare gli stessi beni nei quali l’ambiente stesso veniva prima ricompreso. 419. Ad eccezione della concessione del bene che avviene sempre previa gara pubblica.

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In particolare, si pensi al paesaggio, che indica la morfologia, ossia la sola componente visiva dell’ambiente, con il quale dunque non può essere totalmente identificato. Inoltre, l’ambiente è ora distinto dal cosiddetto governo del territorio, ossia dalla disciplina relativa all’utilizzo delle diverse aree territoriali e alla localizzazione di impianti e attività420. Le due sfere tendono chiaramente ad intersecarsi, ma non si sovrappongono totalmente; ad esempio, il governo del territorio racchiude una componente anche prettamente economica, che resta invece estranea all’ambiente. Nella sua qualità di bene, l’ambiente non è suscettibile di appropriazione, essendo un bene libero, fruibile da parte dei singoli nonché dell’intera collettività indifferenziata. L’evoluzione del concetto di ambiente può desumersi anche dal testo costituzionale; un tempo, la nozione di ambiente veniva ricavata dal combinato disposto degli artt.9 e 32, a tutela dell’ambiente quale interesse pubblico di valore costituzionale primario e assoluto. Rispettivamente, le due norme disciplinano la tutela del paesaggio e il diritto alla salute e il richiamo alle stesse veniva effettuato per superare il problema dell’assenza del termine ambiente all’interno della Carta Costituzionale. Invero, sino alla riforma del titolo V, la Costituzione non conteneva disposizioni relative all’ambiente e la riforma stessa ha introdotto unicamente un riferimento in relazione al riparto di competenze fra Stato e Regioni, sancendo la competenza esclusiva statale in materia421. Tuttavia, già a partire dagli anni Settanta, la Corte Costituzionale riconosce valore primario al bene ambiente. Successivamente, in seguito alla richiamata riforma, la giurisprudenza costituzionale si è nuovamente interessata della tematica. 420. Un tempo il governo del territorio era inglobato nel concetto di ambiente; con la riforma del titolo V ha acquistato rilievo autonomo, come risulta dall’art.117, comma 3, Cost. che lo annovera tra le materie di competenza concorrente Stato-Regioni. L’ambiente è invece di competenza esclusiva statale. 421. Mentre il Trattato di Lisbona inserisce l’ambiente nelle materie di competenza concorrente dell’Unione Europea.

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In particolare, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che in materia ambientale possono venire in rilievo competenze diverse nei singoli casi, dovendosi più adeguatamente parlare di concorrenza di competenze, piuttosto che di riparto. In altre parole, quando si tratta di ambiente, il rapporto tra legislazione statale e legislazione regionale non deve essere inteso in modo rigido, ma deve essere valutato alla luce dei principi di proporzionalità e leale collaborazione. La Corte Costituzionale ha infatti coniato l’espressione della sussidiarietà legislativa, in forza della quale si riconosce allo Stato la facoltà di intervenire nelle materie di competenza esclusiva regionale o di competenza concorrente, per far fronte ad esigenze di unitarietà che richiedono un esercizio non frazionato della potestà legislativa. Il quadro normativo attuale, oltre a fare applicazione dell’art.118 Cost., è ispirato altresì ai principi di derivazione comunitaria che interessano la materia in quanto, secondo la giurisprudenza unionale, l’attuazione delle politiche europee deve avere sempre a riguardo la tutela ambientale. In particolare, il Codice dell’ambiente (d. lgs n.152/06) ha recepito quelli che sono i principi fondamentali posti a tutela dell’ambiente, la quale deve essere sempre contemperata con le libertà economiche fondamentali. Invero, le attività economiche devono essere limitate solo se vi sono esigenze imperative, da tutelare comunque in modo proporzionale rispetto all’obiettivo perseguito. Il primo principio è quello del chi inquina paga, per cui gli obblighi riparatori di un danno sono posti a carico del soggetto che ha provocato il danno stesso. Fra questi rientrano, ad esempio, le cosiddette tasse ambientali e gli obblighi di bonifica. Altro principio è quello di prevenzione, finalizzato a frustrare se non azzerare la necessità di intervenire successivamente alla verificazione del danno ambientale, attraverso meccanismi di correzione dei danni alla fonte.

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Per fare questo, viene applicato il principio di precauzione, secondo cui, ogni volta che si prospetti il rischio di un potenziale danno, è consentito alle amministrazioni competenti, adottare i provvedimenti idonei a scongiurare l’evento lesivo. Tale principio fa leva sulla difficoltà di individuare il nesso causale che lega l’attività umana al danno e, dunque, giustifica il riconoscimento di una responsabilità a fronte di un danno solo probabile, per scongiurare una lesione effettiva ed evitare di intervenire ex post. Alla medesima ratio è ispirato il principio di correzione, che promuove l’intervento correttivo alla fonte del danno. Tutti questi principi esprimono il favor per la tutela preventiva del bene ambiente, da privilegiare rispetto alla tutela per equivalente che interviene a danno realizzato. Sotto questo aspetto, si evidenzia altresì il principio dello stand still, per cui i proprietari di impianti inquinanti, nell’attesa di adeguare le proprie strutture ai nuovi standards, sono tenuti ad adottare le misure di prevenzione necessarie per evitare un aumento dell’inquinamento. Un ulteriore principio fondamentale è lo sviluppo sostenibile, per cui ogni forma di progresso deve considerare i bisogni delle generazioni future, e non solo di quelle presenti. L’amministrazione è dunque chiamata a compiere una ponderazione degli interessi coinvolti, nonché un’attenta valutazione circa l’impatto ambientale delle diverse e nuove attività che vengono localizzate sul territorio, per accertarne la compatibilità e le migliori condizioni di svolgimento422. A tal fine, sono previsti diversi strumenti di valutazione a seconda del tipo di attività interessata e del tipo di accertamento che deve essere compiuto. Si tratta in generale di provvedimenti autorizzatori che seguono a veri e propri procedimenti amministrativi. In particolare, in ragione della rilevanza del bene ambiente, a tali procedimenti non si applicano istituti di semplificazione quali 422. Si ritiene che l’amministrazione svolga attività discrezionale nel contemperamento degli interessi coinvolti e attività di discrezionalità tecnica della valutazione dell’impatto ambientale. INDICE

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il silenzio o la SCIA; tuttavia, è possibile ricorrere a moduli procedimentali semplificati, quale la conferenza di servizi, che permette una comparazione sincronica degli interessi. Il primo sistema di valutazione che è stato previsto è la VIA (valutazione di impatto ambientale), che integra una valutazione preventiva, obbligatoria e vincolante, per determinati progetti previsti dalla legge. Il provvedimento conclusivo positivo si sostituisce a tutti gli atti di assenso infra-procedimentali423. 9.2.1 Il danno ambientale Il danno ambientale consiste in «qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima»424. Tale danno deve tenersi distinto dai danni conseguenza del danno ambientale, vale a dire da quei danni che colpiscono determinati beni, privati o pubblici, diversi dall’ambiente in sé, ma a questo strettamente collegati. I danni de quibus possono avere non solo carattere patrimoniale, ma anche non patrimoniale, qualora, ad esempio, consistano nella lesione del diritto alla salute. Invero, dalla compromissione del bene ambiente, possono derivare ulteriori pregiudizi a danno di un singolo individuo o di una collettività, in termini di compromissione dell’integrità psico-fisica. Pertanto, accanto al danno evento integrato dal danno ambientale, possono configurarsi ulteriori danni, quali danni conseguenza. Entrambi i tipi di danno richiedono la prova in giudizio; la giurisprudenza sostiene invero che non operi alcuna presunzione di responsabilità e che il danno vada sempre valutato in concreto, sulla base delle circostanze del caso specifico. 423. Altri strumenti di valutazione sono: VAS (valutazione ambientale strategica); AIA (autorizzazione integrata ambientale); AUA (autorizzazione unica ambientale). In particolare, il D.Lgs. n.104 del 16 giugno 2017 ha introdotto la definizione di autorizzazione integrata ambientale, stabilendone l’applicabilità anche a più installazioni, purché siano localizzate sullo stesso sito. 424. Cfr. art.300 del codice dell’ambiente.

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Pertanto, non è sufficiente la mera allegazione, ma è richiesta la prova di tutti gli elementi che costituiscono l’illecito aquiliano. Nella difesa dell’ambiente, il ruolo primario è stato affidato allo Stato, il quale è l’unico soggetto legittimato ad agire in giudizio e a ottenere i provvedimenti di condanna al rispristino ovvero al risarcimento del danno425. Peraltro, si riconosce una sorta di progressione tra gli strumenti di tutela, nel senso che, a prescindere dalla costruzione della domanda giudiziale, si intende sempre richiesto prima il ripristino e, in subordine, il risarcimento. Residua attualmente un compito di mera segnalazione in capo alle associazioni ambientaliste. Tali soggetti erano in precedenza legittimati ad adire le vie giurisdizionali nonché a richiedere il risarcimento per il danno ambientale subito nel territorio di propria spettanza. Ad oggi, tali associazioni, al pari degli enti locali, possono presentare denunce e osservazioni al Ministero dell’ambiente, sollecitando in tal modo l’intervento statale a fronte di un (potenziale) danno all’ambiente426. Peraltro, in caso di inerzia o tardività dell’azione statale, le associazioni e gli enti locali hanno diritto ad un risarcimento per il mancato (tempestivo) intervento. Sulla natura del danno ambientale si sono succedute diverse teorie, sino a che non è intervenuto il Legislatore che lo ha espressamente qualificato quale illecito aquiliano. Tuttavia, lo schema differisce parzialmente da quello generale di cui all’art.2043 c.c., integrandone dunque una species, in quanto vengono ricomprese anche le ipotesi di violazione di legge, regolamenti o norme tecniche. In ogni caso, la natura extracontrattuale del danno è confermata 425. Cfr. art.311 codice dell’ambiente. Peraltro, deve privilegiarsi una tutela in forma specifica rispetto ad una tutela meramente risarcitoria. 426. Si è superato il criterio puramente formalistico, per cui tali facoltà venivano riconosciute solo alle associazioni e agli enti contenuti nell’elenco ministeriale; oggi l’approccio è sostanziale e si guarda all’effettivo perseguimento della tutela ambientale mediante un’organizzazione stabile e rappresentativa, a prescindere dalle previsioni ministeriali.

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da una serie di disposizioni, le quali fanno riferimento al dolo o alla colpa del danneggiante. Più nello specifico, si tratterebbe di un danno permanente, in quanto l’illiceità non si esaurisce nel primo atto violativo, ma si protrae tipicamente nel tempo. Pertanto, il termine quinquennale di prescrizione inizierebbe a decorrere solo al momento della cessazione della permanenza, ossia al momento del ripristino dello stato dei luoghi. 9.2.2 L’accesso in materia ambientale: rinvio La disciplina di accesso alle informazioni ambientali ha caratteristiche peculiari, in forza della particolare rilevanza del bene ambiente. Dell’argomento si tratterà al Capitolo XII, cui pertanto si rinvia.

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PARTE II IL GOVERNO DEL TERRITORIO E L’ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ Sommario: 9.3 Il governo del territorio: l’urbanistica e l’edilizia. - 9.4 Il potere ablatorio della pubblica amministrazione. I presupposti dell’espropriazione. – 9.5 Il procedimento espropriativo. – 9.6 Le ipotesi di occupazione. – 9.7 La giurisdizione in materia espropriativa.

9.3 Il governo del territorio: l’urbanistica e l’edilizia A partire dalla riforma costituzionale del 2001, il governo del territorio ha assunto una propria rilevanza giuridica, fuoriuscendo dal concetto di ambiente. L’art.117, comma 3, Cost. inserisce il governo del territorio nelle materie di competenza concorrente fra Stato e Regioni. Con tale espressione, si fa riferimento a tutto ciò che riguarda l’uso del territorio e, quindi, l’allocazione delle attività e delle strutture di rilevanza pubblicistica e privatistica. Fanno parte del governo del territorio l’urbanistica e l’edilizia, le quali tuttavia non esauriscono tale concetto. Invero, l’urbanistica concerne l’assetto e lo sviluppo dei centri abitati, comprendendo dunque il fenomeno espropriativo; mentre, l’edilizia rappresenta l’aspetto esecutivo dell’urbanistica, in quanto attiene ai rapporti che si instaurano tra amministrazione e privati in relazione all’esercizio di un’attività costruttiva. Né l’urbanistica né l’edilizia sono oggi espressamente menzionate nella Carta Costituzionale. L’urbanistica è disciplinata dalla Legge n.1150/42, la quale regola l’attività di trasformazione del territorio, contemperando i diritti privatistici all’abitazione e allo svolgimento di un’attività produttiva con l’interesse a fornire un pubblico servizio. Figura centrale della disciplina è il piano urbanistico, che viene emanato a livello regionale, comunale e sub-comunale.

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In particolare, il piano regolatore comunale contiene le linee fondamentali di struttura del territorio, nonché le trasformazioni territoriali realizzabili. E’ frutto di un’attività ampiamente discrezionale da parte dell’amministrazione comunale, la cui motivazione è spesso data per relationem, richiamando il piano di coordinamento approvato a livello regionale. Tuttavia, qualora il piano locale contenga prescrizioni dettagliate, immediatamente eseguibili, che incidono sulle posizioni soggettive individuali, la giurisprudenza ritiene che sussista l’obbligo di motivazione specifica. Tuttavia, di regola, il piano regolatore è atto amministrativo generale, che non incide sulle sfere giuridiche dei singoli. All’interno del piano regolatore è possibile distinguere la localizzazione dalla zonizzazione. Con la prima vengono crati veri e propri vincoli ablatori, nel senso che vengono individuate esattamente le aree interessate dal vincolo pubblicistico e che, pertanto, verranno espropriate. La zonizzazione, invece, comporta l’apposizione di vincoli meramente conformativi: non si realizza un’apprensione del bene del privato da parte dell’amministrazione, ma l’edificabilità viene condizionata in ragione della funzione di utilità sociale che è attribuita alla proprietà privata dall’art.42, comma 2, Cost.. L’effetto conformativo può ricadere dunque su una determinata collettività e in relazione ad una determinata categoria di beni, con conseguente sperequazione tra i diversi proprietari. Per tale ragione, oltreché per l’esborso di denaro pubblico che tale attività comporta, sono state elaborate ulteriori tecniche di pianificazione del territorio, caratterizzate dalla separazione tra la capacità edificatoria e la proprietà di una specifica area427. In altre parole, il diritto edificatorio viene considerato come un bene che può circolare autonomamente, a prescindere dal collega427. Si tratta dei cosiddetti contratti di volumetria, evoluzione dei precedenti contratti di cubatura. Si veda la Legge n.765/67 (cosiddetta Legge Ponte) che introdusse l’art.41 quinquies nella legge urbanistica del 1942, oggi abrogato.

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mento con il territorio da cui deriva. È quanto avviene mediante la perequazione, con cui viene attribuito un valore uniforme alle proprietà, a prescindere dalla localizzazione. In questo modo, ciascun proprietario potrà procurarsi la differenza volumetrica altrove per poter edificare in una determinata area, che non sia destinata a servizi o opere di pubblica utilità428. Detto altrimenti, la volumetria edificabile in una zona può essere utilizzata in un’altra area, parimenti edificabile, con l’accordo dei due proprietari e del Comune. A tale strumento si affiancano la cessione perequativa, per cui i proprietari privati e pubblici partecipano alla realizzazione delle infrastrutture di interesse collettivo e la cessione compensativa, per cui l’atto espropriativo viene compensato mediante l’attribuzione al privato di crediti edificatori o aree in permuta. Sono inoltre previsti dei meccanismi premiali con cui vengono riconosciuti diritti edificatori ulteriori a favore di soggetti meritevoli, che hanno contribuito al soddisfacimento di interessi pubblici, ad esempio partecipando ad interventi di riqualificazione ambientale. La normativa edilizia è contenuta nel d. lgs n.380/01, il quale affida allo Stato la definizione dei principi fondamentali e alle Regioni, la disciplina di dettaglio. L’attività edilizia è sì espressione del diritto di proprietà; tuttavia, il suo esercizio è subordinato a poteri di controllo e atti di assenso dell’amministrazione pubblica. In particolare, a differenza di quanto avviene in ambito urbanistico, l’amministrazione svolge un’attività di tipo vincolato, in quanto deve limitarsi a verificare la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento dell’attività edilizia. Sono previsti tre regimi. In primis, alcune attività edilizie sono libere, vale a dire non è richiesto alcun titolo abilitativo per il loro esercizio, ma solo una 428. Precisamente, la perequazione può realizzarsi in due modi: o mediante la concentrazione di tutta la cubatura di una zona in una parte di questa, oppure assegnando un‘edificabilità potenziale uniforme.

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previa comunicazione all’amministrazione competente da parte dell’interessato. Altre attività sono soggette al cosiddetto permesso di costruire; in particolare, si tratta di attività che hanno un forte impatto sul territorio e che dunque abbisognano di un provvedimento autorizzatorio esplicito. Tale provvedimento, tuttavia, non attribuisce alcun nuovo diritto al richiedente, ma viene emesso a seguito dell’accertamento dei presupposti richiesti dalla legge per lo svolgimento dell’attività. Una terza categoria è soggetta alla segnalazione certificata di inizio attività (cosiddetta SCIA), per l’analisi della quale si rimanda al capitolo VII. L’istituto principale in materia è rappresentato dal regolamento edilizio. Come detto, l’edilizia integra l’aspetto esecutivo dell’urbanistica; invero, il regolamento edilizio è lo strumento integrativo essenziale dei piani urbanistici. Esso è un vero e proprio regolamento indipendente, che contiene la disciplina relativa alle modalità di costruzione delle opere, la cui realizzazione viene disciplinata nel dettaglio dai regolamenti comunali. La violazione di tali normative ha conseguenze di varia natura. In particolare, si configurano conseguenze civili in termini di nullità, allorquando gli atti di trasferimento abbiano ad oggetto beni incommerciabili, poiché privi del permesso di costruire. Si hanno inoltre conseguenze penali, nel caso di fattispecie di abusivismo edilizio, dalle quali può discendere altresì la confisca dei beni. Infine, sanzioni di tipo amministrativo nelle ipotesi di abusi minori, per cui può ad esempio rendersi necessaria la demolizione coattiva dell’opera.

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9.4 Il potere ablatorio della pubblica amministrazione. I presupposti dell’espropriazione Il potere ablatorio consiste nella facoltà dell’amministrazione di incidere unilateralmente sulla proprietà privata, anche contro la volontà del titolare. Il fondamento di tale potere si rinviene già a livello costituzionale e, precisamente, all’art.42, comma 3 Cost., il quale fa espresso riferimento alla sola espropriazione ma che, secondo la Corte Costituzionale, è da riferirsi a tutti i provvedimenti ablatori reali429. La realità del potere ablatorio indica esattamente la sua incidenza sul diritto di proprietà, che viene fortemente limitato ovvero sottratto al titolare privato, in ragione di un interesse pubblico. Tale interesse costituisce il primo presupposto nonché il primo limite all’esercizio del potere ablatorio. Oltre a questo, nell’ipotesi particolare dell’espropriazione, ulteriore limite è rappresentato dall’indennizzo, che deve essere riconosciuto al privato destinatario del provvedimento ablatorio. Anche tali limiti trovano il proprio fondamento nella Costituzione. Il potere ablatorio fa emergere chiaramente la soggezione del privato all’amministrazione, integrando forse il potere pubblicistico più incisivo. Invero, nel conflitto fra gli interessi del privato e gli interessi pubblici, i primi soccombono a favore dei secondi. Il diritto di proprietà, infatti, può dirsi illimitato, in quanto attribuisce poteri e facoltà ampi al proprio titolare; tuttavia, ciò non significa che tale diritto non possa incontrare limiti, laddove si scontri con interessi superiori. A fronte di un provvedimento ablatorio, il privato è titolare di un interesse legittimo oppositivo, che dunque soccombe nell’esigenza di garantire e mantenere la funzione sociale della proprietà. In particolare, il provvedimento espropriativo produce un effetto 429. Si veda anche l’art.834 c.c..

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privativo, a danno del suo destinatario e, contestualmente, un effetto acquisitivo a favore dell’amministrazione430. I presupposti dell’espropriazione sono individuati dall’art.42 Cost., il quale innanzitutto prevede una riserva di legge relativa, disponendo che l’espropriazione può avere luogo nei casi previsti dalla legge. Ciò significa che la fonte primaria deve individuare i soggetti interessati, gli interessi coinvolti e i beni da espropriare. Ai fini espropriativi, occorre che sussistano motivi di interesse generale, i quali possono rinvenirsi nella dichiarazione di pubblica utilità ovvero direttamente nel progetto definitivo del piano urbanistico, approvato dall’amministrazione. Ulteriore presupposto fondamentale è l’indennizzo. Non si ritiene integri un presupposto di legittimità della procedura espropriativa; tuttavia, costituisce un atto dovuto da parte dell’amministrazione, per cui il privato ha un vero e proprio diritto di domandare il pagamento. Il fondamento dell’indennizzo risiede nella necessità di ripartire fra i consociati il sacrificio imposto al privato che subisce l’espropriazione. L’indennizzo deve essere unico e giusto, ossia riconosciuto in unica soluzione e mai simbolico, dovendo integrare un serio ristoro. Su tale aspetto e sui criteri di determinazione del giusto indennizzo, vi è stata un’evoluzione significativa in giurisprudenza. Il testo unico in materia (d. lgs n.327/01) distingue quattro aree: edificabili e non, legittimamente edificate e aree destinate ad opere di pubblica utilità. Inizialmente era previsto un criterio di quantificazione diverso a seconda della tipologia di area; più precisamente, mentre per le aree edificabili e edificate, si faceva riferimento al valore di mercato, per le aree non edificabili (coltivate e non) si faceva applicazione del cosiddetto valore agricolo medio. 430. Non tutti i provvedimenti ablatori producono entrambi gli effetti; ad esempio, la requisizione può non produrre l’effetto acquisitivo in capo all’amministrazione.

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In applicazione altresì della giurisprudenza europea, la quale sostiene che solo obiettivi di riforma economica o di giustizia sociale possono giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato, la Corte Costituzionale è intervenuta. In particolare, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del criterio del valore agricolo, ancorché solo con rifermento alle aree non coltivate, restando tale criterio formalmente valido per le aree coltivate. Tale pronuncia è stata dunque criticata per non aver uniformato i criteri di determinazione dell’indennizzo per tutte le tipologie di aree. Tuttavia, si ritiene pacificamente debba già farsi sempre esclusivo riferimento al valore di mercato, pena un’ingiustificata disparità di trattamento tra i proprietari e il riconoscimento di un ristoro non serio. 9.5 Il procedimento espropriativo Il procedimento espropriativo è un procedimento amministrativo speciale, particolarmente complesso e lungo. Il fattore tempo ha ricadute sul piano della normativa applicabile, che ben potrebbe modificarsi in itinere. Il punto di riferimento è costituito dalla dichiarazione di pubblica utilità, per cui deve farsi applicazione al singolo procedimento, della disciplina vigente a quel momento431. Alla normativa speciale, trattandosi di procedimento amministrativo, si affianca la disciplina di cui alla Legge n.241/90. I soggetti protagonisti del procedimento sono l’espropriato, vale a dire il privato, soggetto passivo della procedura; l’autorità espropriante, ossia l’amministrazione o il privato cui è stato attribuito il potere di espropriare; il beneficiario, ossia il soggetto pubblico o privato in favore del quale viene emesso il decreto di esproprio e sul quale grava l’obbligo di corrispondere l’indennizzo; il promotore dell’espropriazione, vale a dire il soggetto, pubblico o privato, che richiede l’avvio della procedura. Peraltro, oggi il testo unico prevede la coincidenza tra ammini431. Cfr. art.57 d. lgs n.327/01. INDICE

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strazione espropriante e amministrazione che è tenuta alla realizzazione l’opera. L’iter procedimentale si compone di quattro fasi, di cui tre necessarie ed una eventuale. Le tre fasi necessarie si identificano con i tre provvedimenti della procedura a rilevanza esterna, la cui eventuale illegittimità determina l’invalidità degli atti successivamente compiuti. Il primo atto è il vincolo preordinato all’esproprio che discende dal piano urbanistico generale e individua con esattezza l’area interessata dalla procedura espropriativa. Diventa inefficace se, entro i successivi cinque anni dalla sua emanazione, non viene adottata la dichiarazione di pubblica utilità. Deve peraltro considerarsi che, in caso di sopravvenuta inefficacia del vincolo espropriativo, la zona interessata resta di fatto priva di regolamentazione432. Sul punto, si è sostenuto che l’amministrazione abbia un vero e proprio obbligo di disciplinare tutto il territorio: l’assenza di una disciplina deve integrare una situazione eccezionale e temporanea. Oggi il testo unico prevede infatti che, in caso di inadempimento da parte dell’amministrazione, si configura un’ipotesi di silenzio impugnabile ai sensi dell’art.117 c.p.a.. La dichiarazione di pubblica utilità si identifica con la seconda fase del procedimento; può trattarsi di un provvedimento esplicito ovvero implicito, qualora possa direttamente farsi riferimento all’approvazione del progetto definitivo del piano urbanistico. In ogni caso, l’atto deve indicare il termine finale per l’emanazione del decreto di esproprio, che non può superare i cinque anni, pena la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione. La dichiarazione di pubblica utilità integra infatti il presupposto del successivo decreto di esproprio; la sua illegittimità inficia tutti i successivi atti della procedura. Dopo la dichiarazione e prima dell’emanazione del decreto di 432. Si parla in queste ipotesi di zona bianca.

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esproprio, può aprirsi la fase eventuale della determinazione provvisoria dell’indennità. Tale fase viene attivata su proposta del promotore della procedura e si svolge nel contraddittorio con il privato, con cui può addivenirsi alla conclusione di un accordo di cessione volontaria. Tale accordo integra una modalità alternativa di chiusura del procedimento espropriativo, che comporta l’acquisto della proprietà del bene da parte dell’amministrazione con effetti ex nunc e dietro pagamento di un prezzo, maggiorato rispetto all’indennizzo che sarebbe stato riconosciuto con a fronte del decreto di esproprio. In questo senso, si intende sollecitare e premiare la collaborazione del privato. Si tratta di un contratto ad oggetto pubblico, che ha l’effetto di estinguere tutti i diritti reali o personali gravanti sul bene, al pari di un provvedimento ablatorio. Tuttavia, la conclusione - per così dire - naturale della procedura espropriativa si ha con l’emanazione del decreto di esproprio, che compete all’amministrazione espropriante. Con il decreto si ha il trasferimento del diritto di proprietà dal privato al soggetto beneficiario; precisamente, gli effetti si producono a seguito della notifica del decreto al soggetto destinatario e dell’immissione nel possesso del bene da parte dell’amministrazione, documentata mediante la redazione di un verbale433. Secondo la tesi prevalente, l’acquisto del diritto da parte del soggetto pubblico avviene a titolo derivativo. Tale orientamento fa leva sul dato letterale del passaggio di proprietà, nonché sulla previsione della trascrizione dell’acquisto e della possibile retrocessione del bene. Quest’ultima comporta infatti la restituzione del bene al privato, mediante un nuovo atto di trasferimento con efficacia ex nunc, nell’ipotesi in cui l’amministrazione non abbia realizzato l’opera, in tutto o in parte (cosiddette retrocessione totale e parziale). Rispettivamente, il privato ha diritto alla restituzione totale del bene, ovvero ha un interesse alla restituzione parziale, qualo433. Precisamente, la notifica è necessaria ai fini della decorrenza dei termini per proporre opposizione alla stima del bene.

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ra l’amministrazione dichiari l’inservibilità della porzione di area inutilizzata. La possibilità di restituire il bene al privato mediante un nuovo atto traslativo dimostrerebbe l’acquisto a titolo derivativo del bene da parte dell’amministrazione. 9.6

Le ipotesi di occupazione

Vi sono casi in cui l’amministrazione ha la facoltà di occupare temporaneamente beni di proprietà privata, anche a fini non espropriativi e, dunque, aree non sottoposte a vincolo preordinato all’esproprio. La prima figura è quella dell’occupazione strumentale, che si ha quando l’amministrazione occupa aree non soggette ad espropriazione per eseguire, ad esempio, dei lavori. In queste ipotesi, al privato è riconosciuta un’indennità di occupazione. Istituto maggiormente complesso è l’attuale acquisizione sanante di cui all’art.42 bis del testo unico434. Tale fattispecie è frutto di una profonda evoluzione. Nasce come occupazione d’urgenza preordinata all’espropriazione per cui, per motivate esigenze di celerità, risulta inopportuno attendere l’espletamento delle varie fasi della procedura e, dunque, l’amministrazione procede allo spossessamento dell’immobile nelle more dell’adozione del provvedimento di esproprio. L’occupazione d’urgenza è stata in seguito sostituita dalla cosiddetta occupazione appropriativa, per cui l’amministrazione che occupa illegittimamente un suolo privato, ne acquista la proprietà per effetto della trasformazione irreversibile del fondo. In questa fattispecie è richiesta unicamente l’adozione della dichiarazione di pubblica utilità e, dunque, manca del tutto un provvedimento ablatorio di esproprio. La perdita del diritto di proprietà da parte del privato avviene 434. Più correttamente, la rubrica della norma recita «Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico».

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in forza della modifica irreversibile del bene e l’amministrazione acquista tale diritto a titolo originario, con obbligo di corrispondere un’indennità. Tuttavia, si tratta comunque di un illecito, in quanto l’occupazione è illegittima ed invero, l’indennità sarebbe in questo caso concepita quale risarcimento e non come ristoro ai sensi dell’art.42 Cost.. A tale istituto è succeduta l’occupazione usurpativa, che si configura quando manca un qualsiasi collegamento tra l’opera e la pubblica utilità, in quanto la relativa dichiarazione non è stata emanata ovvero ne sono sopravvenuti l’inefficacia o l’annullamento. Si distingue precisamente tra occupazione usurpativa pura, quando è del tutto assente la dichiarazione di pubblica utilità; spuria è invece l’occupazione realizzata in forza di una dichiarazione, colpita successivamente da inefficacia o invalidità. Tutti questi istituti sono stati oggetto di diverse pronunce di condanna da parte della Corte di Giustizia, in quanto consentono l’acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione in forza di fatti illeciti, dai quali deriverebbe il diritto del privato alla restituzione del bene. Con il testo unico si è giunti dunque al nuovo istituto dell’occupazione sanante. Tale istituto concerne i casi in cui l’amministrazione occupi aree private senza titolo e, successivamente, sani l’illegittimità dell’occupazione riconoscendo un risarcimento al privato. Il quantum risarcitorio è determinato in base al valore di mercato del bene, al momento dell’occupazione stessa. Tuttavia, anche in questa ipotesi, manca del tutto un provvedimento ablatorio e, dunque, l’illiceità sussiste, e di certo non può essere sanata mediante il risarcimento. Tale istituto è stato infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo. Attualmente, l’art.42 bis del testo unico accorpa tutte le ipotesi di occupazione illegittima, disciplinando di fatto in modo diverso l’acquisizione sanante.

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Innanzitutto, la norma stabilisce che l’acquisto della proprietà avviene con effetti ex nunc e a titolo derivativo; inoltre, è previsto che l’amministrazione corrisponda al privato un indennizzo comprendente i danni patrimoniali e i danni non patrimoniali. Tali previsioni sembrano astrattamente meglio bilanciare gli interessi coinvolti. Inoltre, l’utilizzo del termine indennizzo in luogo del risarcimento, non è casuale. Tale espressione evoca infatti un comportamento lecito dell’amministrazione, ancorché vi siano dubbi in dottrina sulla legittimità dell’istituto. Tale norma, invero, pare aver di fatto reintrodotto la fattispecie precedente, dichiarata costituzionalmente illegittima, che realizza una forma di espropriazione indiretta. In realtà, la Corte Costituzionale ha affermato che si tratta di un istituto eccezionale per l’acquisizione di un bene, utilizzabile quando non sia possibile ricorrere ad altro rimedio per far fronte alla situazione di occupazione illecita. Inoltre, si tratterebbe di un istituto comunque preordinato al perseguimento del pubblico interesse e, dunque, non integrerebbe un’ipotesi di espropriazione indiretta; anzi, l’obiettivo della norma sarebbe proprio quello di evitare che ciò avvenga435. Perdippiù, il Consiglio di Stato ha recentemente affermato che l’istituto de quo non sanerebbe un illecito, ma introdurrebbe un’autonoma e distinta valutazione procedimentale, da seguire in casi eccezionali436. 9.7 La giurisdizione in materia espropriativa In materia espropriativa, le questioni relative alla giurisdizione sono state da sempre oggetto di accesi dibattiti. Anche nel settore in esame vale il riparto di giurisdizione che fa riferimento all’esercizio del potere pubblicistico. Più precisamente, laddove c’è esercizio del potere, opera la giu435. Cfr. C. Cost. n.71/15. 436. Cfr. Ad. Plen. n.2/16.

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risdizione amministrativa; mentre, in assenza di potere, competente è il giudice ordinario. Oltreché da veri e propri provvedimenti amministrativi, la materia è interessata da una serie di comportamenti dell’amministrazione, rispetto ai quali è necessario dunque indagare se siano riconducibili all’esercizio del potere pubblico, ovvero se integrino meri comportamenti materiali. Facendo dunque applicazione del criterio anzidetto, il riparto di giurisdizione è ad oggi configurato come segue. Tutte le controversie relative ai provvedimenti amministrativi spettano al giudice amministrativo, con la sola eccezione delle controversie riguardanti la determinazione dell’indennità di esproprio, in quanto attiene ad un diritto soggettivo del privato e la sua quantificazione non è espressione di potere autoritativo. In relazione ad alcuni istituti, tuttavia, l’applicazione del criterio generale non è stata immediata, generandosi dibattiti in dottrina e giurisprudenza. Con riferimento alla retrocessione totale, ad esempio, il riparto di giurisdizione è stato nel tempo diversamente declinato. Inizialmente, sulla base della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, si affermava che in caso di retrocessione totale, essendoci lesione del diritto di proprietà, la giurisdizione spettasse al giudice ordinario. Al contrario, nell’ipotesi di retrocessione parziale, la sussistenza del provvedimento autoritativo comportava la configurazione di una posizione di interesse legittimo in capo al privato, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo. Successivamente, con il d. lgs n.80/98 è stata prevista la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per le controversie relative all’uso del territorio, comprendendo dunque tutte le controversie in materia espropriativa 437. In seguito è intervenuta la Legge n.205/00, cui è seguita la nota sentenza della Corte Costituzionale n.204/04, secondo cui la giu437. Restavano devolute al giudice ordinario le sole controversie relative alle indennità. Tuttavia, tale previsione normativa fu poi dichiarata incostituzionale in quanto disponeva la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia, senza distinguere le ipotesi di esercizio del potere autoritativo dai casi di assenza di potere.

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risdizione amministrativa può operare solo se c’è esercizio del potere autoritativo438. Tale pronuncia viene però diversamente interpretata dalla giurisprudenza ordinaria e amministrativa in relazione alla retrocessione. In particolare, secondo la Suprema Corte, in caso di retrocessione totale, l’attività amministrativa viene annullata con effetto retroattivo e, dunque, opera la giurisdizione ordinaria, in quanto non residua alcun potere. Al contrario, i giudici amministrativi sostengono che la lesione della posizione del privato deriva comunque dall’esercizio del potere autoritativo; pertanto, le controversie relative alla retrocessione totale sarebbero devolute al giudice amministrativo. Nulla quaestio invece per quanto riguarda la retrocessione parziale, rispetto alla quale si ritiene pacificamente operi la giurisdizione amministrativa. Con riferimento alla cessione volontaria, la questione relativa alla giurisdizione è strettamente connessa alla natura attribuita all’atto. Invero, alcuni hanno ritenuto si trattasse di un negozio privatistico di compravendita; altri hanno sostenuto che la cessione integrasse un accordo sostitutivo ex art.11 L. n.241/90. Aderendo all’una ovvero all’altra interpretazione, dovrebbe sostenersi la competenza, rispettivamente, del giudice ordinario ovvero del giudice amministrativo. Tuttavia, la tesi maggioritaria qualifica la cessione quale contratto ad oggetto pubblico, cui si applicano le norme del codice civile. Pertanto, facendo applicazione di quest’ultima tesi, si ritiene che le controversie relative alla cessione debbano devolversi al giudice ordinario. Parimenti, opera il giudice ordinario in tutte le ipotesi in cui l’amministrazione ponga in essere meri comportamenti materiali, 438. La legge n.205/00 è stata poi abrogata dal codice del processo amministrativo che ha riorganizzato tutta la disciplina processuale.

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non riconducibili nemmeno mediatamente all’esercizio del pubblico potere. Il comportamento per eccellenza che si configura in ambito espropriativo è l’occupazione, in cui l’amministrazione realizza una situazione di fatto, senza avvalersi della propria autoritatività. Invero, spogliata del potere autoritativo, l’amministrazione può compiere atti al pari di qualsiasi soggetto privato e, dunque, essere soggetta alle norme privatistiche e alla giurisdizione ordinaria439. Pertanto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione occupi un’area in totale assenza di un provvedimento, si ricorrerà al giudice ordinario; diversamente, se un provvedimento è stato emanato, ancorché poi il procedimento non si sia correttamente sviluppato, competente a conoscere delle controversie sarà il giudice amministrativo440. Recentemente, la giurisprudenza amministrativa si è occupata altresì della giurisdizione relativamente alle ipotesi di usucapione, maturata dall’amministrazione che occupa un fondo in via d’urgenza, senza poi adottare il provvedimento di esproprio nei termini previsti. Innanzitutto, dottrina e giurisprudenza si erano interrogate circa l’ammissibilità di tale istituto in materia. Si è rilevato che, nel primo periodo, l’amministrazione occupa legittimamente l’area quale detentore, in forza della dichiarazione di pubblica utilità. Pertanto, tale periodo non sarebbe utile all’usucapione. Scaduti i termini per l’adozione del decreto di esproprio, senza che questo sia adottato, il comportamento dell’amministrazione che protrae l’occupazione e continua ad utilizzare il fondo, integrerebbe una vera e propria interversio possessionis. A quale giudice competerebbe dunque l’accertamento dell’intervenuta usucapione? 439. Qui si fa applicazione del criterio generale di riparto della giurisdizione che distingue tra carenza del potere e cattivo uso del potere, cui rispettivamente accedono la giurisprudenza ordinaria e amministrativa. 440. Si tratta, rispettivamente, dell’occupazione usurpativa pura in cui l’amministrazione occupa l’area senza aver emanato la dichiarazione di pubblica utilità; dell’occupazione appropriativa, in cui l’amministrazione emana la dichiarazione di pubblica utilità, cui però non segue il decreto di esproprio.

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Di recente, il Consiglio di Stato441 ha ritenuto che l’accertamento della maturata usucapione spetta sempre al giudice ordinario; il giudice amministrativo può conoscere della questione solo in via incidentale, ai sensi dell’art.8 c.p.a.442.

441. Cfr. Ad. Plen. n.2/16. 442. I giudici hanno peraltro affermato che la condotta dell’amministrazione deve essere effettivamente non violenta; inoltre, occorre che sia individuabile in modo certo il momento dell’interversione del possesso.

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CAPITOLO X LA RESPONSABILITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Sommario: 10.1 I tipi di responsabilità. - 10.2 La natura della responsabilità per lesione degli interessi legittimi. Gli elementi costitutivi della responsabilità e le tecniche di tutela del privato. – 10.3 L’applicazione delle regole civilistiche: la responsabilità precontrattuale. – 10.4 Il danno da ritardo e il danno da mero ritardo. – 10.5 Gli altri tipi di responsabilità dell’amministrazione. – 10.6 La responsabilità del dipendente pubblico.

10.1 I tipi di responsabilità La tematica della responsabilità amministrativa emerge dallo scontro tra opposte esigenze. Da una parte, la necessità di garantire un’azione amministrativa efficace ed efficiente; dall’altra parte, l’esigenza di salvaguardare gli interessi del privato e di accordare adeguata tutela a fronte delle eventuali lesioni alla sfera giuridica personale di questo. Invero, l’attività amministrativa, che si svolga mediante moduli autoritativi ovvero mediante strumenti consensualistici, è sempre in grado di incidere sulle posizioni dei singoli. Pertanto, qualora tale incidenza avvenga nel rispetto della legge e nel legittimo perseguimento dell’interesse pubblicistico, nulla questio; se, al contrario, l’amministrazione arreca con la propria attività un pregiudizio al privato, di questo deve rispondere. Per lungo tempo, si è sostenuta la responsabilità per fatto altrui ai sensi dell’art.2049 c.c., considerando la circostanza per cui l’attività amministrativa lesiva viene posta in essere dal singolo funzionario. Tuttavia, tale ricostruzione è stata successivamente superata, facendo leva sul rapporto di immedesimazione organica che caratterizza il lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, il

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cui fondamento normativo è da rinvenirsi nell’art.28 Cost.443. Pertanto, ad oggi si afferma pacificamente che la responsabilità dell’amministrazione è diretta, di tipo solidale e alternativo rispetto alla responsabilità del singolo funzionario. Originariamente, si riteneva che la pubblica amministrazione rispondesse solo in forza del principio generale del neminem laedere, sulla base della corrispondenza tra illiceità e illegittimità del provvedimento amministrativo. Più precisamente, si riteneva che l’azione fosse illecita solo nelle ipotesi di provvedimento illegittimo, con applicazione dell’art.2043 c.c.. Vigeva dunque una presunzione di legittimità dell’azione amministrativa e forte era il principio di insindacabilità delle scelte effettuate dalla pubblica amministrazione. Inoltre, la lettura tradizionale dell’art.2043 c.c. considerava ingiusto unicamente il danno derivante da lesione di un diritto soggettivo perfetto. E’ stato anche attraverso l’evoluzione dell’interpretazione della suddetta norma che si è giunti ad ammettere la responsabilità dell’amministrazione. Precisamente, è proprio il concetto di danno ingiusto che si è modificato, rectius, ampliato, riconoscendosi così ingiusti non solo i danni arrecati ad un diritto soggettivo perfetto, ma a tutta una serie di fattispecie diverse, ritenute meritevoli di tutela e, dunque, risarcibili se lese. Inizialmente, per giustificare il risarcimento di posizioni come i diritti soggettivi relativi, le situazioni di fatto e gli interessi legittimi, tali figure venivano elevate al rango di diritti soggettivi perfetti, mediante la tecnica del cosiddetto diritto affievolito, cioè degradato perché inciso da un provvedimento amministrativo. La svolta sostanziale, sulla scorta della giurisprudenza europea 443. Altri riferimenti normativi sono gli artt.24, 103 e 113 Cost., nonché l’art.2043 c.c. e tutte le altre norme del codice civili in materia di responsabilità precontrattuale, contrattuale e aquiliana, applicabili in quanto compatibili. La disciplina più dettagliata si rinviene poi nella Legge n.241/90 (cfr. art.2 bis) e nel codice del processo amministrativo (cfr. artt.30 e ss.).

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dapprima e nazionale poi, si è avuta con la storica sentenza delle Sezioni Unite n.500/99, che ha sancito come ingiusto il danno arrecato a qualsiasi interesse giuridicamente rilevante per l’ordinamento giuridico. Il cambiamento, dunque, non è avvenuto attraverso interventi normativi, bensì mediante un’evoluzione giurisprudenziale che ha modificato l’interpretazione delle norme già esistenti444. Lo spirito del cambiamento è stato quello di garantire una tutela effettiva, con il superamento di un’ingiustificata disparità di trattamento tra le posizioni legittimamente azionabili445. Si distinguono diverse figure di responsabilità, a seconda del tipo di attività posta in essere dall’amministrazione. Nell’ambito dell’attività paritetica, in cui l’amministrazione agisce al pari di un soggetto privato, si fa pacifica applicazione dell’art.2043 c.c.. Nell’ambito di tale tipo di attività, rientra l’attività negoziale, espressione dell’autonomia privata dell’amministrazione, la quale conclude negozi unilaterali e contratti, potendo incorrere in responsabilità di tipo precontrattuale e contrattuale da inadempimento. Anche l’attività cosiddetta materiale è espressione dell’attività paritetica e consiste nell’adozione di comportamenti, che integrano meri atti giuridici o fatti, non riconducibili nemmeno in via mediata al pubblico potere. Nell’ambito dell’azione autoritativa, invece, l’applicazione dell’art.2043 c.c. non è automatica. Precisamente, secondo la dottrina maggioritaria, occorrerebbe distinguere tra attività basata su norme di relazione e attività regolata da norme di azione. Solamente nel secondo caso, il privato vanterebbe una posizione di interesse legittimo, risarcibile ai sensi dell’art.2043 c.c.. Infine, con riferimento alla cosiddetta attività intermedia in cui l’amministrazione adotta strumenti consensualistici, tipicamente 444. Gli interventi normativi sono stati successivi. A titolo di esempio, si veda la evoluzione al giudice amministrativo delle questioni risarcitorie; il sistema di azioni atipiche; la codificazione del cosiddetto danno da ritardo. 445. Sul sistema dia zioni e, in generale, l’evoluzione del processo amministrativo, si veda Capitolo XIII.

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riconducibili allo schema degli accordi ex art.11 L. n.241/90, occorre distinguere le fasi dell’attività. Ad esempio, dopo la conclusione dell’accordo, l’amministrazione potrebbe rendersi responsabile in via contrattuale, se non ne rispetta i contenuti. Diversamente, prima dell’accordo, la responsabilità potrebbe essere di tipo extracontrattuale per lesione della libertà negoziale della propria controparte. Pertanto, al fine di individuare se sussiste una responsabilità dell’amministrazione e a quel titolo, occorre verificare innanzitutto il tipo di attività posta in essere e, in taluni casi, è necessario altresì individuare il momento in cui si realizza la lesione del privato. 10.2 La natura della responsabilità per lesione degli interessi legittimi. Gli elementi costitutivi della responsabilità e le tecniche di tutela del privato La responsabilità per lesione di interessi legittimi nell’esercizio dell’attività amministrativa è sicuramente la forma di responsabilità più frequente. Invero, nonostante l’utilizzo sempre maggiore di strumenti privatistici o, più in generale, consensualistici, l’amministrazione predilige ancora l’adozione di provvedimenti autoritativi. La responsabilità dell’amministrazione non trova una compiuta disciplina nell’ambito del diritto amministrativo; per questo, da sempre discussa in dottrina e giurisprudenza, è la sua natura. L’inquadramento si rende necessario, in quanto dalla diversa qualificazione, discendono conseguenze pratiche rilevanti, in termini di disciplina applicabile446. Una prima tesi ritiene si tratti di responsabilità contrattuale e, precisamente, da contatto sociale qualificato. Si tratta di una tesi ancora minoritaria, ma che la giurisprudenza più recente sta facendo propria, richiamando gli istituti di 446. Si pensi, ad esempio, alle differenze relative al termine di prescrizione dell’azione, ai danni risarcibili e all’onere probatorio fra la responsabilità contrattuale e quella aquiliana.

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partecipazione previsti dalla legge sul procedimento. Secondo quest’impostazione, invero, con l’avvio del procedimento amministrativo, tra privato e amministrazione verrebbe a crearsi un rapporto di fatto, che non permetterebbe più di considerare le due parti totalmente estranee. Da tale rapporto non deriverebbe alcun obbligo primario di prestazione, ma un obbligo risarcitorio nelle ipotesi di lesione dell’affidamento nel corretto esercizio dell’azione amministrativa, a prescindere dal giudizio sulla spettanza del bene della vita. Secondo un’altra tesi, si tratterebbe di responsabilità precontrattuale, per cui l’amministrazione avrebbe un dovere di comportarsi secondo buona fede nella valutazione delle richieste avanzate dal privato. Un ulteriore orientamento individua una responsabilità di terzo tipo, speciale, sulla base della particolarità dell’illecito posto in essere dall’amministrazione. Tuttavia, data l’assenza di un riferimento normativo, questa tesi è da sempre rimasta isolata. La teoria ancora oggi maggioritaria qualifica la responsabilità dell’amministrazione per lesione di interessi legittimi come responsabilità extracontrattuale, da lesione del generale dovere di neminem laedere ex art.2043 c.c.. Invero, dal contatto che si instaura fra amministrazione e privato, non si costituisce un vero e proprio rapporto obbligatorio da cui poter far discendere una responsabilità da inadempimento contrattuale. Pertanto, gli elementi costitutivi della responsabilità sono quelli di cui all’art.2043 c.c., i quali devono essere provati in giudizio dal privato che lamenta la lesione. La condotta illegittima può consistere in un’azione commissiva o omissiva, violativa di norme giuridiche di azione, vale a dire norme che reggono l’esercizio del potere autoritativo. In relazione al rapporto tra illegittimità dell’azione e valutazione sulla spettanza del bene della vita, la dottrina ritiene opportuno distinguere tra interessi legittimi oppositivi e interessi legittimi pretensivi.

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Con riferimento ai primi, vi è sovrapposizione tra illegittimità del provvedimento e illiceità, nel senso che la perdita del bene deriva direttamente dal provvedimento. Invece, riguardo agli interessi pretensivi, il giudice è tenuto a compiere una valutazione circa la spettanza del bene della vita, in termini di possibilità o probabilità di conseguirlo, al fine di decidere l’an e il quantum del risarcimento. Occorre considerare che la condotta viene materialmente posta in essere dal singolo funzionario; essa sarà imputabile all’amministrazione solo se sussiste il cosiddetto nesso di causalità necessaria, per cui la condotta del dipendente deve essere strumentalmente connessa all’attività propria dell’amministrazione. In altre parole, per aversi responsabilità dell’amministrazione, occorre che la condotta del funzionario non sia strettamente personale ed estranea ai fini istituzionali. Altro requisito della responsabilità è l’elemento soggettivo, da intendersi quale colpa dell’amministrazione e non dell’autore materiale. In passato, veniva negato il riconoscimento di un aspetto psicologico di colpevolezza in capo all’amministrazione, in base alla ritenuta corrispondenza tra illegittimità dell’atto e responsabilità. Pertanto, si riteneva sussistente una colpa in re ipsa, nel senso che l’illegittimità del provvedimento integrava ex sé l’elemento psicologico dell’illecito. Oggi la visione è completamente mutata e si ritiene che la colpa debba sempre essere accertata in concreto. Si tratta di colpa per violazione dei cosiddetti limiti esterni dell’azione amministrativa, di cui all’art.97 Cost.447. La prova che incombe sul danneggiato non è tuttavia stringente, nel senso che è possibile ricorrere anche a presunzioni semplici. Ciò non toglie che non vi è mai automatismo e che l’illegittimità dell’atto può tutt’al più rappresentare un mero indice presuntivo della colpa e non identificarsi con essa. 447. La colpa dell’amministrazione si affianca ad una responsabilità del funzionario che può essere a sua volta colposa, ma anche dolosa.

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L’amministrazione dovrà a sua volta dimostrare l’assenza di colpa e quindi provare che l’errore non è alla stessa imputabile, ad esempio a causa della particolare complessità del fatto, oppure per la sussistenza di forti contrasti in giurisprudenza sull’interpretazione di una determinata norma, rilevante nel caso concreto. Sarà il giudice, dunque, a valutare altresì questo elemento, potendo fare peraltro applicazione dell’art.1227 c.c., nel caso in cui vi sia un concorso tra le parti nella causazione della lesione e, conseguentemente, dei danni. L’unico settore in cui la colpa non è richiesta è quello degli appalti, dove la responsabilità dell’amministrazione prescinde dalla sussistenza e dall’indagine dell’elemento soggettivo. Si tratta di una deroga alla regola generale e, pertanto, di un’ipotesi di responsabilità oggettiva che resta confinata al settore di riferimento448. Ulteriore elemento è il nesso causale. Si fa applicazione del doppio nesso di causalità, tipico della responsabilità civile, per cui la condotta deve porsi quale causa dell’evento lesivo (cosiddetta causalità materiale) e i danni devono essere diretta conseguenza dell’evento (cosiddetta causalità giuridica). In particolare, la causalità materiale andrà indagata secondo le regole di cui agli artt.40 e 41 c.p.; tuttavia, deve farsi applicazione del criterio tipicamente civilistico e meno stringente del più probabile che non. Inoltre, i danni risarcibili saranno solo i danni che conseguono in via immediata e diretta all’evento, ai sensi dell’art.1223 c.c.. Infine, l’evento dannoso consiste nel pregiudizio patrimoniale arrecato al privato e derivante dalla condotta illegittima. Il quantum risarcibile viene determinato facendo applicazione delle norme in materia di responsabilità contrattuale, espressamente richiamate dall’art.2056 c.c.. Come anticipato, il danno risarcibile andrà proporzionalmente 448. La previsione della responsabilità oggettiva si giustifica in quanto, nel settore appalti, il risarcimento ha una funzione compensativa e non retributiva di un pregiudizio sofferto. Inoltre, il risarcimento si pone in tal modo come effettivo strumento alternativo alla tutela per equivalente. Sul tema si veda Capitolo VIII.

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diminuito, laddove venga accertata una concorrente responsabilità del danneggiato449. Pare potersi riconoscere l’applicabilità altresì dell’art.1226 c.c. e procedere pertanto alla liquidazione equitativa del danno, anche in via parziale (cosiddetta liquidazione mista), qualora sia difficile determinarne l’esatto ammontare. Risarcibili sono anche i danni non patrimoniali, qualora l’azione amministrativa illegittima abbia leso interessi attinenti alla sfera più personale del privato. Esempi ne sono il danno curriculare e il danno da mobbing, rispetto ai quali vengono in rilievo pregiudizi inerenti l’immagine e la reputazione, ovvero l’integrità psicofisica di un soggetto. In particolare, il mobbing consiste nella reiterazione di comportamenti persecutori e denigratori che incidono sull’integrità psico-fisica del lavoratore. Si parla di mobbing verticale, qualora le condotte vessatorie siano poste in essere dal datore di lavoro; si ha invece mobbing orizzontale, se tali condotte vengano perpetrate dai colleghi. Nel primo caso, la responsabilità dell’amministrazione deriva dall’applicazione diretta dell’art.2087 c.c., per cui il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare la salute dei propri dipendenti; nel caso invece di mobbing orizzontale, la responsabilità discende dall’art.2049 c.c.. Peraltro, la giurisprudenza ritiene che, laddove il danno derivi da comportamenti vessatori, si avrà responsabilità extracontrattuale; mentre, nelle ipotesi di danno provocato da specifiche inadempienze negoziali dell’amministrazione, la stessa dovrà risponderne a titolo contrattuale. Tuttavia, le ipotesi più frequenti di responsabilità dell’amministrazione per lesione di un interesse legittimo sono quelle in cui si configura un danno da provvedimento. Precisamente, se il provvedimento rigetta un’istanza del privato, 449. Ad esempio, è valutabile ai fini dell’art.1227 c.c. il comportamento del soggetto che, dopo aver ottenuto l’annullamento di un diniego di autorizzazione, non riproponga poi l’istanza autorizzatoria.

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si ha lesione di un interesse legittimo pretensivo; mentre, se incide su una posizione già consolidata, viene leso un interesse legittimo oppositivo. Con riferimento alla lesione dell’interesse legittimo pretensivo, dove viene effettuata una valutazione circa la spettanza del bene della vita, può aversi altresì una responsabilità dell’amministrazione per il danno da perdita di chance. La chance può avere una duplice portata. Innanzitutto eziologica, per cui l’accertamento del nesso causale tra fatto e lesione avviene in modo meno stringente, nel senso che si ritiene sussistente qualora si provi che il privato aveva almeno più della metà delle possibilità di conseguire il bene della vita anelato. In un’altra accezione, la chance è considerata vero e proprio bene autonomo, già presente nel patrimonio del soggetto e, dunque, suscettibile di essere autonomamente risarcita, a prescindere dall’utilità finale. Il danno da perdita di chance si configura ad esempio in materia di appalti, in capo all’impresa illegittimamente esclusa dalla gara, la cui chance di conseguire l’aggiudicazione viene risarcita mediante l’annullamento degli atti della procedura e la riedizione del potere amministrativo a rinnovazione della gara stessa. Il riparto di giurisdizione in materia di responsabilità da lesione dell’interesse legittimo è quello generalmente condiviso, che si basa sulla riconducibilità o meno dell’attività all’esercizio del potere pubblicistico. Con il superamento della pregiudiziale amministrativa, peraltro, il giudice amministrativo può conoscere delle questioni risarcitorie a prescindere dal previo esperimento della domanda di annullamento del provvedimento illegittimo450. A fronte del danno subito, il privato ha la facoltà di richiedere il risarcimento, sia in forma specifica che per equivalente451. Precisamente, secondo la giurisprudenza, tra i due rimedi non 450. Sulla pregiudiziale amministrativa, oggi superata, consistente nella necessità di esperire la tutela caducatoria per accedere alla tutela risarcitoria, si veda Capitolo XIII. 451. Cfr. artt.32 e ss. c.p.a..

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vi sarebbe un rapporto di sussidiarietà, bensì di alternatività, per cui il privato è libero di scegliere. Il giudice resta comunque libero di riconoscere un risarcimento per equivalente a fronte della richiesta di un risarcimento in forma specifica, in quanto quest’ultima costituisce un minus rispetto alla tutela prevista all’art.2058 c.c.452. In ogni caso, deve considerarsi che la tutela in forma specifica è un rimedio atipico, il cui contenuto varierà a seconda del caso concreto. Più in particolare, in relazione ad un interesse legittimo pretensivo, la tutela in forma specifica sarà costituita dall’annullamento del provvedimento lesivo e dalla condanna dell’amministrazione a provvedere diversamente453. Nel caso di interesse legittimo oppositivo, invece, tale tutela è integrata già dal solo annullamento. 10.3 L’applicazione delle regole civilistiche: la responsabilità precontrattuale La responsabilità precontrattuale è un altro tipo di responsabilità configurabile in capo all’amministrazione. Tale forma di responsabilità è stata di fatto introdotta con la Legge n.205/00, che ha fatto emergere la rilevanza del comportamento dell’amministrazione in termini di correttezza e buona fede durante la fase delle trattative, nell’ambito delle procedure di affidamento di lavori e servizi. E’ infatti tale ambito il terreno prediletto della responsabilità precontrattuale, in quanto è in questo settore che l’amministrazione svolge più spesso attività negoziale e, dunque, instaura un confronto paritario con il privato contraente. Il rispetto delle regole di lealtà e correttezza nello svolgimento 452. Non è invece possibile un’ipotesi a contrario, pena la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. 453. Si discute peraltro sulla possibilità di condannare l’amministrazione a provvedere. Taluni sostengono che il giudice avrebbe questo potere nei casi in cui l’amministrazione debba adottare un provvedimento vincolato.

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delle trattative si affianca a quello delle regole di evidenza pubblica, che disciplinano la fase antecedente di scelta del contraente. La responsabilità precontrattuale è un istituto tipico del diritto civile e, per questo, è stato per lungo tempo ritenuto inapplicabile all’amministrazione. Le ragioni di tale rigidità erano varie; innanzitutto, si sosteneva l’insindacabilità delle scelte discrezionali dell’amministrazione e, inoltre, si riteneva che il sistema di controlli già previsto nel settore, nonché le norme che regolano la gara, fossero di per sé sufficienti a garantire la legittimità e correttezza dell’azione amministrativa. Tuttavia, l’orientamento è stato superato, anche perché l’amministrazione ha fatto sempre maggiore utilizzo dello strumento consensualistico e, dunque, si è reso necessario accordare una tutela maggiore al privato contraente. La pubblica amministrazione non è più considerata unicamente come amministratore, ma anche nella sua veste di contraente, la cui attività a tale titolo può essere valutata in via autonoma. E’ opportuno peraltro precisare che la buona fede opera sin dall’inizio del rapporto tra amministrazione e privato e, pertanto, la stessa deve sussistere sia prima che dopo la scelta del contraente. La responsabilità precontrattuale deriva infatti dalla lesione della libertà negoziale, la quale deve essere esercitata nel rispetto della correttezza e della buona fede della controparte, cercando di preservare anche gli interessi di questa durante tutta la procedura e oltre la sua conclusione. In altre parole, il privato ha il diritto a non essere coinvolto in trattative inutili e, dunque, ha diritto ad essere risarcito se l’affidamento che vi ha riposto venga poi pregiudicato. Precisamente, ciò che viene risarcito è il cosiddetto interesse negativo, che consiste nella rifusione delle spese inutilmente sostenute, nonché nel risarcimento per le eventuali occasioni perse a causa della trattativa poi non andata a buon fine. La responsabilità precontrattuale sussiste ancorché successivamente intervenga la revoca o l’annullamento del provvedimento illegittimo, in quanto è una responsabilità del tutto autonoma, che

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prescinde dalla legittimità dell’azione amministrativa. Sul punto, è opportuno ricordare quelli che, secondo la giurisprudenza amministrativa, sono i rapporti tra l’indennizzo che spetta al privato che subisce la revoca del provvedimento e il risarcimento da responsabilità precontrattuale dell’amministrazione. I due istituti sono del tutto autonomi e viaggiano separatamente. Invero, se viene accertata la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione, questa è tenuta al risarcimento, a prescindere dall’eventuale successiva revoca del provvedimento illegittimo e a prescindere, altresì, dalla illegittimità o meno della revoca stessa. Considerato che all’interno del diritto amministrativo non sussiste una disciplina ad hoc, sulla natura della responsabilità precontrattuale dell’amministrazione vengono seguite le tesi sviluppatesi in seno alla giurisprudenza civile. La teoria minoritaria qualifica tale responsabilità in termini contrattuali, quale responsabilità da contatto sociale; la tesi maggioritaria ritiene si tratti invece di responsabilità aquiliana, con conseguente applicazione dello schema di cui all’art.2043 c.c.. Varie sono le ipotesi di responsabilità precontrattuale. L’amministrazione potrebbe rifiutare di stipulare il contratto con il legittimo affidatario, il quale ha invece maturato un legittimo affidamento nella conclusione del contratto. Si tratta di un caso riconducibile all’art.1337 c.c., che può aversi ad esempio allorquando l’amministrazione abbia mal gestito la propria disponibilità finanziaria e, opportunamente, debba astenersi dalla stipula. Come detto, ancorché la scelta di non concludere il contratto sia e resti legittima, sussiste il comportamento scorretto dell’amministrazione, che non ha tempestivamente comunicato al proprio interlocutore contrattuale, la situazione di difficoltà economica ostativa alla stipula. Diversa ipotesi consiste nella stipulazione di un contratto invalido ovvero inefficace. Si tratta del caso contemplato dall’art.1338 c.c., quale fattispecie specifica del precedente art.1337 c.c.. Ad esempio, l’amministrazione si accorge della mancanza di copertura finanziaria solo successivamente alla conclusione del

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contratto, di cui provoca quindi la caducazione mediante l’annullamento della gara. Nei casi di responsabilità precontrattuale, dunque, gli atti compiuti dall’amministrazione non sono causa diretta del danno; si tratta invero di fatti giuridici più ampi rispetto alle ipotesi di provvedimento illegittimo. Anzi, nelle ipotesi in esame, si prescinde del tutto dalla (valutazione della) illegittimità del provvedimento; invero, la giurisdizione in materia spetta al giudice ordinario, chiamato a valutare il comportamento dell’amministrazione, nella sua veste di contraente, al pari di un soggetto privato454. La fattispecie da cui infatti scaturisce la responsabilità precontrattuale dell’amministrazione è quella del cosiddetto danno da comportamento scorretto. 10.4 Il danno da ritardo e il danno da mero ritardo Con l’espressione danno da ritardo si fa riferimento alle ipotesi in cui l’amministrazione emani un provvedimento oltre il termine di conclusione del procedimento. Innanzitutto, può trattarsi di un provvedimento legittimo e favorevole per il destinatario, il quale subisce appunto il ritardo dell’emanazione. Pertanto, può accadere che l’utilità riconosciuta al privato mediante il provvedimento favorevole, non sia più tale nel momento in cui lo stesso viene rilasciato dall’amministrazione455. O ancora, può accadere che, medio tempore, il privato abbia dovuto sostenere ulteriori spese le quali, qualora il provvedimento fosse stato tempestivamente emesso, non vi sarebbero state. E’ il caso dell’aumento dei costi dei materiali, che l’istante ha dovuto sopportare a causa del permesso di costruire tardivamente riconosciutogli. 454. In queste ipotesi non opera il limite di cui all’art.4 L.A.C., in quanto l’amministrazione agisce iure privatorum. 455. Si pensi ad una concessione balneare rilasciata a stagione estiva già inoltrata o addirittura passata.

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La fattispecie è prevista all’art.2 bis della Legge n.241/90, introdotto con la Legge n.69/09, secondo cui l’amministrazione è responsabile dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Dal tenore letterale della disposizione, pare si tratti di responsabilità extracontrattuale. La norma richiama invero l’elemento soggettivo, nonché il concetto di danno ingiusto, tipici dello schema ex art.2043 c.c.. Precisamente, si tratterebbe di una species del genus di cui alla suddetta norma, in quanto è previsto un termine decadenziale per l’azione, pari a centoventi giorni, che dunque deroga all’ordinaria prescrizione quinquiennale. Una tesi minoritaria ritiene tuttavia si tratti di una responsabilità contrattuale, da contatto sociale qualificato, considerando il tempo un diritto soggettivo autonomo. E’ proprio su tale aspetto che la dottrina e la giurisprudenza discutono, ossia sulla portata del fattore tempo. La tesi ancora oggi maggioritaria ritiene che il tempo non costituisca un bene autonomo. Nonostante ciò, si è comunque superata la precedente impostazione secondo cui il risarcimento per il ritardo spetterebbe solo nel caso di provvedimento tardivo favorevole, dovendosi invece negare nei casi di provvedimento sfavorevole. Invero, si sosteneva che il diniego tardivo non costituisse un danno ingiusto e che il danno per il ritardo procedimentale fosse sempre strutturalmente connesso alla spettanza del bene della vita. Tale impostazione è stata superata, riconoscendosi oggi il risarcimento per l’inosservanza del termine di conclusione del procedimento, altresì nelle ipotesi di provvedimento tardivo sfavorevole. Si tratterebbe dunque del danno da mero ritardo, in cui quello che viene risarcito è il pregiudizio subito dal privato unicamente per la tardività dell’azione amministrativa. Lo stesso art.2 bis pare prescindere dalla spettanza del bene della vita; inoltre, il comma 1 bis della stessa norma, riconosce l’indennizzo per il mero ritardo, qualora sussista l’obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi. Quest’ultima disposizione, introdotta con il cosiddetto Decreto

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del fare del 2013456, sarebbe la prova che il tempo è un bene della vita autonomo. Pertanto, in caso di violazione dell’interesse procedimentale al rispetto dei tempi, vi sarebbe un danno autonomamente risarcibile. Anche il codice del processo, all’art.30, comma 4, pare prescindere dalla valutazione circa la spettanza del bene della vita. Tuttavia, come anticipato, l’impostazione maggioritaria è opposta e considera il tempo come mero nesso causale tra fatto e lesione. Invero, l’applicazione dello schema di cui all’art.2043 c.c., richiede la lesione della sfera giuridica del privato la quale, nelle ipotesi di ritardo, è strettamente connessa alla violazione delle tempistiche procedimentali. Da non confondere con le fattispecie di ritardo, sono le ipotesi di mancata adozione del provvedimento. A fronte dell’inerzia dell’amministrazione, la legge offre la tutela di cui all’art.117 c.p.a.457. Il silenzio amministrativo, tuttavia, non esclude una responsabilità da ritardo dell’amministrazione; il provvedimento che successivamente dovesse essere adottato, resta invero un provvedimento tardivo. Peraltro, la richiesta risarcitoria non deve necessariamente essere preceduta da un’azione ex art.117 c.p.a.; tutt’al più, il mancato esperimento della tutela avverso il silenzio potrà essere valutato ai sensi dell’art.1227 c.c. nell’ambito del giudizio sul ritardo. La giurisprudenza ritiene che la mancata tempestiva adozione del provvedimento costituisce omesso esercizio del potere pubblicistico e non integra un mero comportamento. Dunque, la cognizione sulle controversie relative al danno da ritardo spetta al giudice amministrativo458. Peraltro, l’eventuale indennizzo che dovesse essere riconosciuto ai sensi dell’art.2 bis, comma 1 bis, L. n.241/90 non si sostituisce al risarcimento, ma andrà da questo detratto. 456. D.L. n.69/13. 457. Sulle fattispecie di silenzio, si veda Capitolo V. 458. E’ stato inoltre ampliato il novero dei legittimati passivi: non più solo le pubbliche amministrazioni ma anche i privati preposti all’esercizio di attività amministrative.

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10.5 Gli altri tipi di responsabilità dell’amministrazione Come già dedotto, l’amministrazione può essere responsabile anche ad altro titolo, oltre a quello extracontrattuale per lesione di interessi legittimi. Il soggetto pubblico, nell’ambito della propria attività negoziale, può incorrere in responsabilità precontrattuale, qualora realizzi la violazione dei doveri di buona fede e correttezza che permeano la cosiddetta fase delle trattative. Inoltre, nelle ipotesi in cui l’amministrazione ponga in essere violazioni di un rapporto negoziale già vincolante, si parla di vera e propria responsabilità contrattuale, al pari della responsabilità che si configura in capo al soggetto privato contraente. Anche in queste ipotesi, infatti, l’amministrazione agisce iure privatorum; la conseguenza principale, dunque, è l’applicazione del codice civile, le cui norme sono compatibili con l’attività qui esercitata dall’amministrazione. Pertanto, saranno applicate le disposizioni di cui agli artt.1218 e ss. c.c. e l’amministrazione sarà tenuta a dimostrare che l’inadempimento è dovuto a causa che non le è imputabile. Nell’ambito della responsabilità contrattuale, rientra altresì la cosiddetta responsabilità da contatto sociale qualificato, il quale si instaura tra amministrazione e privato attraverso il procedimento amministrativo. A tale rapporto, che non è evidentemente di natura contrattuale, si ricollega l’obbligo per le parti di comportarsi secondo correttezza e buona fede. La violazione di tale dovere integra inadempimento di una vera e propria obbligazione ex lege. Invero, le parti non possono dirsi estranee e il loro rapporto è governato dai principi di cui all’art.97 Cost. nonché agli artt.1337 e 1338 c.c.. Vi sono inoltre delle ipotesi di responsabilità oggettiva, previste dal codice civile, che nel tempo sono state ritenute applicabili anche all’amministrazione. Tradizionalmente, infatti, la presunzione di colpevolezza propria della responsabilità oggettiva era ritenuta ontologicamente

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incompatibile con la presunzione di legittimità dell’azione amministrativa. Superata la seconda, è venuta meno l’incompatibilità. In realtà, oggi, si ritiene pacificamente applicabile solo la responsabilità custodiale di cui all’art.2051 c.c., qualora si provi la concreta possibilità per l’amministrazione di espletare il controllo sulla cosa, la quale deve inoltre essere pericolosa in sé459. Si discute invece sull’applicabilità delle disposizioni di cui agli artt.2049 e 2050 c.c.. Rispetto alla responsabilità dei padroni o committenti, mentre la dottrina ne afferma l’estensione alle ipotesi di culpa in eligendo dell’amministrazione, che ad esempio non sceglie correttamente i concessionari privati per l’erogazione di un pubblico servizio, la giurisprudenza ritiene che tali scelte rientrino nella discrezionalità amministrativa, non sindacabile. Sulla responsabilità da attività pericolosa, solo parte della giurisprudenza ne ammette l’applicabilità, ma unicamente in capo alle amministrazioni pubbliche o ai soggetti privati che svolgono funzioni pubbliche, nell’ambito dell’attività imprenditoriale che esercitano. Concetto diverso è quello di responsabilità dell’amministrazione da atto lecito. Come si deduce dall’espressione, non si è in presenza di un’attività illegittima dell’amministrazione, la quale invero non è tenuta ad un obbligo risarcitorio, quanto indennitario, quale parziale ristoro riconosciuto al privato per il sacrificio impostogli. Esempi si rinvengono nel settore espropriativo, nonché nelle ipotesi di recesso ex art.11 della L. n.241/90 e nei casi di esercizio del potere di autotutela, dove tipicamente l’amministrazione adotta provvedimenti del tutto leciti - nonché opportuni - ledendo comunque l’affidamento incolpevole del privato460. 459. La giurisprudenza più corposa si ha nell’ambito della cosiddetta insidia stradale, per cui se il pericolo non è correttamente segnalato e l’utente subisce un danno facendo l’uso normale della cosa, l’amministrazione tenuta alla custodia sarà chiamata a risarcire quel danno. 460. Si vedano rispettivamente Capitoli IX e VI.

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Un’ipotesi tipica è quella del danno da esecuzione di un provvedimento giurisdizionale poi riformato. In sostanza, l’amministrazione è stata costretta a mutare le proprie determinazioni per ottemperare ad una sentenza, la quale è stata tuttavia successivamente modificata. Non è attribuibile alla colpa dell’amministrazione tale mutamento; anzi, l’amministrazione aveva ab origine agito correttamente. Questa fattispecie può verificarsi ad esempio nel settore degli appalti, qualora l’amministrazione abbia scelto correttamente il proprio contraente, ma abbia poi dovuto annullare l’aggiudicazione e provocare la caducazione del contratto per ottemperare ad una sentenza che aveva diversamente statuito, per essere però poi riformata. Peraltro, il nostro ordinamento non disciplina gli obblighi restitutori che graverebbero sull’amministrazione in queste ipotesi, e quindi la giurisprudenza ha avanzato varie teorie461. Una prima tesi, richiamando l’art.96 c.p.c., ha ritenuto di identificare l’errore del giudice nell’errore della parte; altra tesi ha parlato di indebito da restituire. Le Sezioni Unite hanno affermato che in casi di tal fatta, si configurerebbe un arricchimento senza causa, a danno del contraente, il quale avrebbe diritto alla restituzione di quanto prestato in forza del contratto poi invalidato. 10.6 La responsabilità del dipendente pubblico Nel capitolo dedicato al lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, è stata trattata nel dettaglio la responsabilità del dirigente, quale responsabilità peculiare e tipica del dipendente che svolge funzioni dirigenziali. Il dipendente pubblico, dirigente o funzionario che sia, può essere poi responsabile a vario titolo, a fronte di un’attività lesiva di

461. A fondamento degli obblighi restitutori, si richiama l’art.41, comma 2, c.p.a. che prevede la partecipazione necessaria del privato al giudizio.

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diritti e interessi legittimi462. Il riferimento normativo è l’art.28 Cost., che sancisce la responsabilità dei dipendenti sul piano civile, penale e amministrativo. Si tratta di una responsabilità diretta e solidale, in quanto gli atti compiuti dal dipendente sono imputati all’amministrazione di appartenenza, in forza del rapporto organico che intercorre tra l’ente e la persona fisica463. Ai fini della responsabilità, il termine funzionario deve peraltro intendersi in senso ampio, sostanziale, comprendendo i soggetti privati che svolgono funzioni pubbliche. La responsabilità civile del dipendente può configurarsi sia nei confronti dell’amministrazione che nei confronti di soggetti terzi, ai quali il funzionario risponderà direttamente. Deve tuttavia rilevarsi che, considerata la maggiore sicurezza di ottenere il risarcimento economico, nonché la non necessità di individuare il singolo funzionario esecutore, il privato sarà maggiormente orientato ad agire nei confronti dell’amministrazione. Quest’ultima potrà poi rivalersi sul proprio dipendente. Peraltro, mentre l’amministrazione risponde anche per colpa lieve, la responsabilità del funzionario è limitata alle ipotesi di colpa grave e, dunque, l’onere della prova nell’ambito del giudizio contro il funzionario, sarebbe più gravoso464. La responsabilità amministrativa è di tipo erariale, in quanto deriva dal danno patrimoniale che il funzionario provoca all’amministrazione di appartenenza per l’inosservanza dei propri obblighi di servizio. Anche in questa ipotesi, deve trattarsi di condotta dolosa o per colpa grave. Può aversi una responsabilità diretta, quando il dipendente pregiudica direttamente il patrimonio dell’ente, ovvero indiretta, qua462. Il termine diritti contenuto nell’art.28 Cost. deve considerarsi comprensivo degli interessi legittimi. 463. Per i casi di responsabilità penale del funzionario che pone in essere un reato, si veda il d.lgs n.231/01 relativo alla responsabilità degli enti. 464. Cfr. art.2236 c.c..

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lora sia causato un danno patrimoniale ad un terzo che, successivamente, chieda il risarcimento all’amministrazione. La giurisdizione spetta alla Corte dei Conti; invero, si ritiene che qualora vi sia un danno all’erario, sussista la giurisdizione contabile, facendosi applicazione del criterio oggettivo della natura del danno. Negli obblighi risarcitori derivanti da responsabilità erariale, può rientrare anche la liquidazione dei cosiddetti danni obliqui, vale a dire dei danni arrecati anche ad enti diversi da quello di appartenenza del funzionario. Un’applicazione di tale tipo di responsabilità è quella derivante dal danno all’immagine, che consiste in un danno non patrimoniale arrecato all’amministrazione a causa della lesione del rapporto di fiducia tra consociati e amministrazione. Non si ha una diminuzione patrimoniale diretta, ma il rispristino del bene leso richiede comunque un esborso da parte dell’amministrazione, che intende recuperare l’affidamento dei propri amministrati465. Altra fattispecie è il danno da disservizio, che comporta uno spreco qualitativo delle risorse pubbliche, frustrando il buon andamento dell’amministrazione. Nell’ambito della responsabilità amministrativa, opera la regola della compensatio lucri cum damno, secondo la quale il risarcimento del danno deve essere epurato da quelli che sono i vantaggi che il soggetto può aver tratto dall’evento lesivo. Ciò ai fini dell’integrale e giusto ristoro, il quale non deve superare l’effettivo danno. I presupposti per l’operatività di tale istituto, peraltro discussa da alcuna dottrina, sono il vincolo funzionale tra il soggetto agente e la pubblica amministrazione; la mancata osservanza degli obblighi propri del servizio; la sussistenza dell’elemento soggettivo, in termini di dolo o colpa grave; il verificarsi di un danno erariale e, 465. Si precisa che l’azione per danno all’immagine può essere esperita alla luce di qualunque reato commesso ai danni della pubblica amministrazione, accertato con sentenza passata in giudicato. Sono compresi dunque anche i reati comuni che il precedente Lodo Bernardo aveva escluso (D.L. n.78/2009).

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infine, il rapporto di causalità tra il comportamento inosservante e il danno466. Recentemente, si sono pronunciate le Sezioni Unite in materia di compensatio lucri cum damno, stabilendo che, ai fini della corretta liquidazione del danno, occorre verificare che il vantaggio conseguito “sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto dannoso dell’illecito”467. Infine, il dipendente pubblico può rendersi responsabile altresì a livello disciplinare, qualora violi i regolamenti interni dell’ente di appartenenza nonché il codice deontologico del dipendente pubblico, incorrendo in tal modo nell’applicazione di sanzioni disciplinari. Sul procedimento disciplinare è intervenuto il d.lgs. n.75 del 25 maggio 2017, stabilendone innanzitutto la prosecuzione anche nell’ipotesi di pendenza di un procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti. Inoltre, con riferimento al licenziamento per motivi disciplinari, il citato decreto stabilisce i casi in cui lo stesso può essere comminato, tra i quali l’ipotesi di falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, nonché di assenza non giustificata o di grave e reiterata violazione delle regole di comportamento468. Con decreto correttivo n.118 del 20 luglio 2017, sono state apportate ulteriori modifiche al quadro normativo, con interventi sui termini dei diversi procedimenti, al fine di garantire una netta separazione tra gli stessi e, in particolare, tra procedimento disciplinare e procedimenti penale e erariale.

466. La ratio di tale istituto è quella di evitare che il soggetto si arricchisca ingiustificatamente, ottenendo un risarcimento che va oltre il pregiudizio realmente subito. 467. Cfr. Cass. civ. sez. un., 22 maggio 2018, nn. 12564, 12565, 12566, 12567. 468. Cfr. art.15 del d.lgs. n.75/2017; si precisa che il provvedimento opera per i fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore.

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CAPITOLO XI I SERVIZI PUBBLICI Sommario: 11.1 La nozione di servizio pubblico. - 11.2 Il fondamento normativo dei servizi pubblici. Il servizio di interesse economico generale. – 11.3 Il contratto di servizio. – 11.4 Le modalità di gestione dei servizi pubblici locali. – 11.5 La posizione del fruitore del servizio pubblico. La carta dei servizi. – 11.6 La giurisdizione in materia di servizi pubblici.

11.1 La nozione di servizio pubblico Mediante l’erogazione dei servizi pubblici, l’amministrazione adempie ai propri compiti di ordine primario e secondario. Precisamente, i compiti primari sono volti alla conservazione e al mantenimento della comunità degli amministrati, quale presupposto per l’esistenza stessa dell’apparato amministrativo. I compiti secondari, invece, riguardano il rapporto tra amministrati e amministrazione; essi sono invero strettamente connessi al concetto di Stato sociale, dove l’amministrazione si occupa del benessere della propria comunità. I servizi pubblici rispondono dunque alle esigenze della collettività. In tale settore, il soggetto privato è sempre più presente; la gestione del servizio da parte del privato ha inizialmente affiancato e ora, gradualmente, sta pressoché sostituendo l’attività diretta dell’amministrazione pubblica. Quest’ultima, inoltre, opera mediante strumenti autoritativi, tipicamente pubblicistici, ma altresì mediante atti di diritto privato. Invero, anche nel settore dei servizi pubblici, come in tutti gli altri settori di operatività dell’amministrazione, la funzione pubblicistica non si estrinseca più unicamente attraverso l’azione del soggetto pubblico che adotta provvedimenti autoritativi. A ciò, si affiancano strumenti di diritto privato, di cui la stessa amministrazione si avvale, nonché l’azione di soggetti privati, pre-

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posti all’esercizio della funzione pubblicistica469. Indipendentemente dalla natura del soggetto gestore, nonché dalla natura degli atti posti in essere, è necessario che, nell’erogazione del servizio, venga garantito il rispetto di alcuni principi. Innanzitutto, il principio di legalità, che permea l’intera funzione pubblicistica, per cui l’azione deve trovare il proprio fondamento nella legge e operare nei limiti da questa indicati. Inoltre, il principio di economicità, per cui occorre che sia realizzato il pareggio tra costi e ricavi, quale indice di un’azione amministrativa autosufficiente. Altro principio fondamentale in materia è il principio di continuità, per cui il servizio deve essere erogato in modo da soddisfare le esigenze della collettività, con regolarità e costanza. Infine, l’erogazione del servizio deve avvenire nel rispetto del principio di imparzialità, per cui il servizio stesso deve essere garantito a tutti, senza discriminazioni o favoritismi, al fine di soddisfare in modo eguale tutti i fruitori. La nozione di servizio pubblico ha subito una profonda evoluzione nel tempo. Di servizio pubblico si comincia a parlare da dopo l’unificazione del Paese, quando lo Stato deteneva il monopolio di alcuni servizi, quali il trasporto ferroviario e il telefono, mentre i servizi locali venivano municipalizzati. La tendenza era comunque quella di affidare alla gestione pubblica i servizi da erogare alla collettività, in quanto si riteneva che ciò agevolasse gli investimenti e, soprattutto, lo Stato intendeva ostacolare i monopoli privati. L’ottica cambiò radicalmente nel corso degli anni Novanta, con il fenomeno della privatizzazione, che interessò anche i gestori dei servizi pubblici. I regimi di riserva sino ad allora adottati, lasciarono spazio alla concorrenza tra operatori, in particolare per i servizi pubblici economici, come l’energia elettrica ed il trasporto. In questo quadro, tuttavia, ancora non era stata coniata una de469. Cfr. art.1 bis e 1ter L. n.241/90, nonché cfr. Capitolo V.

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finizione universalmente riconosciuta di servizio pubblico. Il concetto di pubblico servizio è infatti da sempre considerato uno dei più problematici del diritto amministrativo; ancora oggi, peraltro, non può dirsi delineato con chiarezza. Varie le teorie che si sono succedute. Una prima tesi individuava il servizio pubblico in via residuale, come tutto ciò che non costituiva funzione pubblica. In realtà, è difficile distinguere servizio e funzione pubblica; i due concetti sembrano di fatto coincidere. Per alcuni, sarebbe l’elemento dell’autoritatività a distinguerli, in quanto presente solo all’interno della funzione amministrativa, e non del servizio. Altra tesi parlava di servizio come momento organizzativo dell’amministrazione pubblica, mentre un altro orientamento, richiamando gli artt.357 e 358 c.p., identificava il servizio pubblico con l’attività svolta dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio. Superata è altresì la tesi soggettiva, per cui è pubblico il servizio svolto dallo Stato o altro ente pubblico, in via diretta ovvero indiretta, consistente in una prestazione di carattere tecnico-materiale, rivolta ai cittadini. Tuttavia, non è necessario che il servizio pubblico sia erogato dall’amministrazione pubblica; basta peraltro richiamare gli artt.2 e 118 Cost., in materia di pluralismo delle istituzioni sociali e sussidiarietà orizzontale, per cui i privati ben possono partecipare e assolvere funzioni pubblicistiche. Può dirsi ancora oggi prevalente, ancorché in fase di superamento, la teoria oggettiva, che guarda alla funzione svolta, prescindendo dalla natura del soggetto erogatore. Tale teoria fa leva sull’art.43 Cost., che prevede la facoltà dello Stato di trasferire funzioni pubbliche a soggetti privati. All’interno della teoria oggettiva, si sono sviluppate tre sotto-teorie. Secondo la prima tesi, la nozione di servizio pubblico ricomprenderebbe tutte le attività soggette a regolamentazione pubblici-

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stica, indipendentemente dal soggetto che le esercita. Tale interpretazione tuttavia si rivela troppo ampia, tanto che non permette di distinguere il servizio pubblico dall’attività economica in senso lato. A tale proposito, altra tesi afferma che ciò che distingue il servizio pubblico dall’attività economica sarebbe il principio di imparzialità, al rispetto del quale, solo il gestore del pubblico servizio sarebbe tenuto. La terza e ultima tesi pone invece l’attenzione sull’aspetto finalistico del servizio; precisamente, è pubblico il servizio destinato alla collettività. Oggi la tendenza è quella di richiamare la teoria mista, sviluppatasi in seno alla giurisprudenza comunitaria. Secondo tale tesi, occorre guardare sia alla funzione del servizio, che deve essere preordinato al soddisfacimento dei bisogni della collettività, nonché alla titolarità pubblica del servizio stesso, prescindendo dalla natura del soggetto gestore. L’aspetto funzionalistico dunque prende il sopravvento e, parallelamente, cambia anche la concezione stessa di concessione del pubblico servizio, che diventa uno strumento di direzione dell’attività economica privata. 11.2 Il fondamento normativo dei servizi pubblici. Il servizio di interesse economico generale I primi riferimenti normativi in materia di servizi pubblici si rinvengono a livello costituzionale. Precisamente, l’art.41 Cost., considerato il fondamento dell’economia mista, è la norma che riconosce la convivenza tra iniziativa economica pubblica e iniziativa economica privata. Il successivo art.42 Cost. pone poi i limiti all’iniziativa privata, stabilendo i casi in cui questa può essere totalmente compressa, in presenza di un interesse pubblico da considerarsi prevalente. E’ il caso dei servizi pubblici, per cui l’interesse della collettività e il soddisfacimento dei bisogni primari dei cittadini devono restare

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sottratti alle logiche proprie del mercato. Almeno questa era la visione tradizionalista che, come verrà evidenziato, è stata ampiamente superata. A tali norme, si affianca l’art.97 Cost., per cui la gestione del servizio pubblico rientra nell’organizzazione dell’amministrazione pubblica, la quale deve controllarne il corretto svolgimento. A livello di legislazione ordinaria, il quadro normativo è profondamente mutato. In generale, è presente una normativa statale, cui si affiancano la disciplina contenuta nel d. lgs n.267/00 e le diverse discipline di settore. La normativa dei servizi pubblici locali costituisce oggi il corpus più interessante; per questo sarà meglio analizzata nei paragrafi che seguono. In questa sede è opportuno invece soffermarsi sul diritto europeo. A livello sovranazionale, il TFUE si occupa dei servizi pubblici470. Più correttamente, il diritto unionale non conosce tale espressione, ma parla di servizio di interesse economico generale, facendo riferimento alle prestazioni che non sono regolate dalle disposizioni in materia di circolazione delle merci, dei capitali e delle persone. Pertanto, il criterio adottato per l’individuazione dei servizi è di tipo residuale. La normativa europea pare prediligere un modello di gestione di tipo concorrenziale, per cui l’amministrazione pubblica interviene nella gestione solo se il mercato non è in grado di soddisfare i bisogni della cittadinanza. In questo senso, l’impostazione europea è del tutto capovolta rispetto a quella che tradizionalmente ha caratterizzato il nostro ordinamento, il quale prevedeva una riserva della gestione del servizio pubblico a favore del soggetto pubblico471. 470. Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. 471. Come si vedrà, oggi il modello nazionale si è avvicinato notevolmente a quello comunitario.

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In ambito europeo, si è inoltre valorizzato il concetto di servizio universale, il quale indica il servizio che ciascuno Stato deve fornire ai propri cittadini su tutto il territorio, con un prezzo accessibile a tutti. I servizi universali costituirebbero quei servizi che devono essere garantiti a parità di condizioni a tutti gli utenti, indipendentemente da dove questi si trovino. E’ quanto è accaduto nel nostro Paese, ad esempio, per i servizi a rete, i quali sono stati sottratti al monopolio statale, mediante i processi di privatizzazione e liberalizzazione. La dottrina ha evidenziato, infatti, che la nozione europea di servizio universale, non è poi così distante dalla concezione di servizio pubblico propria del nostro ordinamento nazionale. 11.3 Il contratto di servizio Tradizionalmente, lo Stato gestiva i servizi pubblici in via esclusiva e, per lo più, mediante aziende autonome, con capitale pubblico maggioritario. Il regime era quello del monopolio pubblico per la pressoché totalità dei servizi, con garanzia per i cittadini di parità di trattamento e condizioni di fruizione, nonché con garanzia di continuità di erogazione. Pertanto, non vi era spazio per la concorrenza nei servizi pubblici, che erano totalmente sottratti al mercato. Con i processi di liberalizzazione e di privatizzazione, il sistema monopolistico è entrato in crisi. Il primo problema che si è posto ha riguardato la tutela dei fruitori dei servizi. Ci si è chiesti come garantire alla collettività quella stessa continuità di erogazione e quella stessa imparzialità che il monopolio statale aveva sempre assicurato. Non può invero nascondersi che la gestione privata del servizio potrebbe penalizzarne l’aspetto sociale, con minore soddisfazione dei suoi fruitori. Sono stati dunque istituiti organismi indipendenti per la rego-

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lazione delle tariffe e il controllo della qualità dei servizi, nonché l’Autorità per i servizi pubblici472. Tali soggetti svolgono un’attività di regolazione, ponendo in essere una presenza statale molto meno incisiva rispetto al passato473. Di fatto, da uno Stato interventore si è passati ad uno Stato regolatore, che si preoccupa del buon funzionamento del servizio, senza gestirlo direttamente. Deve tuttavia considerarsi che il problema della tutela dei fruitori dei servizi pubblici è tutt’ora avvertito, specialmente a livello locale. L’affidamento dei servizi pubblici a soggetti diversi dall’amministrazione statale ha dato vita al contratto di servizio. E’ il contratto con cui vengono regolati i rapporti tra ente pubblico e soggetto gestore del servizio. E’ disciplinato dall’art.113 TUEL (Testo Unico Enti Locali, d. lgs n.267/00), che prevede l’affidamento del servizio da parte dell’ente pubblico ad un gestore, al quale vengono altresì trasferite le funzioni e i beni pubblici necessari per l’erogazione dello stesso. Dal contratto di servizio derivano i cosiddetti obblighi di servizio, finalizzati ad assicurare il rispetto di standards di qualità, nonché a garantire l’accessibilità del servizio a tutti. Si tratta di obblighi che comportano costi aggiuntivi per il gestore, i quali dimostrano come quest’ultimo non eroghi il servizio pubblico con un esclusivo interesse commerciale personale. Al contrario, l’erogatore gestisce il servizio perseguendo l’interesse collettivo, non avendo nessun rilievo la circostanza per cui i suddetti costi siano poi rimborsati dall’ente affidante. A tale proposito, di grande rilievo è stata la discussione giurisprudenziale relativa alla natura delle compensazioni che il gestore del servizio riceve dall’ente. Si è infatti in un primo momento fatta strada l’ipotesi dell’aiuto di Stato, che è vietato laddove abbia effetti distorsivi della concorrenza. 472. Cfr. Legge n.474/94 e Legge n.481/95. 473. Sul punto, si veda la trattazione delle Autorità amministrative indipendenti all’interno del Capitolo III.

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La Corte di Giustizia si è pronunciata dettando i principi vincolanti da seguire, essendo la materia degli aiuti di Stato, di competenza esclusiva dell’Unione europea474. In particolare, la Corte ha adottato il criterio della contropartita, per cui la compensazione non integra aiuto di Stato se viene riconosciuta quale corrispettivo della prestazione effettuata dal gestore, per adempiere ai propri obblighi di servizio. E’ necessario comunque che la compensazione sia determinata secondo parametri predefiniti e che non ecceda il valore dei costi sostenuti475. Ad integrazione del contratto di servizio, vi sono altresì i provvedimenti emanati dalle Autorità di regolazione o dal Presidente del Consiglio dei Ministri, con cui vengono fissati i parametri qualitativi che devono essere garantiti dall’erogatore, il quale è comunque sempre legato ai doveri di correttezza e buona fede nello svolgimento della propria attività. L’art.113 richiamato stabilisce l’obbligo del contratto di servizio per tutti i servizi pubblici affidati a soggetti esterni all’ente pubblico; altre previsioni analoghe sono contenute in normative di settore, per cui il negozio de quo è di fatto diventato elemento imprescindibile nella gestione dei servizi pubblici. Sulla natura del contratto di servizio, giurisprudenza e dottrina si dividono. Secondo la tesi minoritaria, si tratta di accordo sostitutivo ex art.11 L. n.241/90; tuttavia, la tesi maggioritaria ritiene che il contratto di servizio sia un contratto di diritto privato. Precisamente, si tratterebbe di un contratto a favore di terzi dove terzi sono i cittadini fruitori - che accede al precedente atto amministrativo di affidamento del servizio, tipicamente di natura concessoria. Dalla diversa qualificazione del contratto discende una differente giurisdizione; se si accede alla tesi dell’accordo, opererà il giudice amministrativo; mentre, considerando il contratto di servizio, 474. Cfr. sent. Altmark, C. Giust. 2003. 475. Peraltro, nell’ipotesi specifica in cui il gestore non sia stato scelto mediante gara, la compensazione va determinata considerando i costi sostenuti da un’impresa media.

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un negozio privato, si avrà giurisdizione ordinaria. Si condivide dunque l’idea per cui, tra gestore e utente, viene ad instaurarsi un rapporto paritario; tuttavia, resta aperto il dibattito sulla qualificazione giuridica della posizione dell’utente, come verrà meglio precisato nel prosieguo. 11.4 Le modalità di gestione dei servizi pubblici locali I servizi pubblici locali consistono in quelle attività economiche preordinate al soddisfacimento dei bisogni primari della collettività. Essi si caratterizzano per il perseguimento di scopi sociali e dello sviluppo della società civile del territorio locale (elemento oggettivo), nonché dalla riconduzione del servizio ad un soggetto di rilievo pubblico (elemento soggettivo)476. Pertanto, il servizio pubblico locale ha la stessa portata del servizio pubblico nazionale, con la peculiarità del territorio di riferimento. La dottrina tradizionalmente distingue tra servizi indispensabili, servizi finali e servizi strumentali. I servizi indispensabili attengono alle funzioni inderogabili di ogni pubblica amministrazione; mentre, i servizi finali sono destinati ai cittadini che ne usufruiscono come singoli individui o a livello di comunità. I servizi strumentali non integrano invece veri e propri servizi pubblici locali, ma sono quei servizi posti a beneficio dell’ente locale, e che sono funzionali all’erogazione dei servizi pubblici. Le modalità di gestione del servizio locale si sono evolute nel tempo. In passato, la legge in materia lasciava discrezionalità all’ente, il quale aveva la facoltà di scegliere tra l’affidamento diretto, il modello dell’azienda speciale e la concessione477. 476. La norma principale di riferimento è l’art.118 Cost., per cui l’ente locale è nella condizione di rispondere meglio alle esigenze della comunità locale. 477. R.D. n.2578/25. Sull’affidamento diretto, cosiddetto in house providing, si veda Capitolo III.

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A queste figure, la prassi affiancò inoltre l’azionariato pubblico e il consorzio. Successivamente, è intervenuta la Legge n.241/90, che ha sancito i principi di efficacia ed efficienza e ha sancito altresì la separazione tra politica e amministrazione. Tali principi sono stati recepiti dal TUEL, che all’art.112 stabilisce infatti che l’ente locale si occupa della gestione del servizio pubblico. Oggi, accanto alla possibilità di gestione diretta, altresì mediante l’affidamento in house, ancorché limitato ai servizi privi di rilevanza economica, l’ente locale può affidare la gestione di un servizio pubblico attraverso strumenti diversi478. Innanzitutto, mediante l’esternalizzazione e, dunque, dando in concessione il servizio con lo svolgimento di una gara pubblica. Altra facoltà è quella di ricorrere a forme di partenariato pubblico-privato, in cui il socio privato viene scelto mediante procedura ad evidenza pubblica479. Con la stessa gara, peraltro, si ha anche l’affidamento del servizio (cosiddetta gara a doppio oggetto)480. Pertanto, mentre per i servizi privi di rilevanza economica, è possibile derogare al sistema della gara e ricorrere all’affidamento diretto, per i servizi con rilevanza economica, è necessario rispettare i principi di derivazione europea in materia di evidenza pubblica, i quali sono garantiti da una legislazione nazionale che non è derogabile. Precisamente, l’art.113 TUEL disciplina i servizi pubblici di rilevanza economica e le diverse modalità di gestione, precisando i limiti entro i quali l’ente locale può svolgere attività economica. Il successivo art.113 bis disciplinava invece i servizi pubblici 478. Con servizi privi di rilevanza economica, secondo la tesi maggioritaria, devono intendersi i servizi sociali. Altra tesi, minoritaria, al fine di distinguere i servizi con e senza rilevanza economica, richiama gli artt.2082 e ss. c.c., per cui avrebbero rilevanza economica le attività gestite in modo imprenditoriale. 479. Sul fenomeno del partenariato, si veda Capitolo VIII. 480. La scelta dell’ente circa il modello di affidamento della gestione del servizio pubblico è discrezionale e, per questo, laddove correttamente motivata e non manifestamente illogica o arbitraria, essa è sottratta al sindacato del giudice amministrativo.

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privi di rilevanza economica, nonché l’affidamento diretto e la gestione in economia del servizio. Tale norma è stata tuttavia dichiarata incostituzionale, per violazione degli artt.117 e 118 Cost., in quanto limitava l’autonomia regionale. In relazione ai servizi privi di rilevanza economica, peraltro, tutt’ora vige un vuoto normativo. Anche il comma 7 dell’art.113 è stato tacciato d’incostituzionalità; la norma è stata modificata, dapprima dalla Legge n.133/08 e, successivamente, dalla Legge n.166/09. La disposizione interessata dalle modifiche riguardava il valore economico del servizio che può essere oggetto di affidamento in house. Precisamente, dopo le riforme dell’art.113 TUEL, la gestione del servizio pubblico, oltre ad essere esternalizzata, poteva eccezionalmente essere affidata in via diretta, nel limite di valore del servizio di 900.000,00 euro. La normativa veniva in seguito travolta dal referendum svoltosi nel 2011, relativo alla proposta di privatizzazione dell’acqua. Pertanto, venne a crearsi un vuoto normativo e agli enti locali venne riconosciuta autonomia nella scelta del sistema gestionale migliore, purché rispettoso dei principi in materia. In particolare, la lacuna legislativa colpiva le nuove gestioni, vale a dire quelle avviate sotto la vigenza della norma, dichiarata poi incostituzionale. E’ intervenuta dunque la Corte Costituzionale, chiarendo che, alle suddette gestioni, dovesse applicarsi la normativa europea. Quest’ultima prevede tre modelli di gestione: gara ad evidenza pubblica; gara a doppio oggetto, con scelta del socio privato e contestuale affidamento del servizio; affidamento in house, senza limiti di valore. La legge di stabilità del 2011 (L. n.148/11) ha recepito tali schemi, ispirandosi ai principi di liberalizzazione e di libera concorrenza; tuttavia, per l’in house veniva inserito nuovamente un limite valoriale, peraltro più basso, pari a 200.000,00 euro.

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La Corte Costituzionale è dunque intervenuta nuovamente, dichiarando costituzionalmente illegittima la disposizione de qua, per violazione dell’art.75 Cost.. Invero, la norma riproponeva di fatto alcuni contenuti della normativa abrogata con il referendum del 2011. Inoltre, il limite valoriale attribuito all’in house, rendeva troppo difficoltoso il ricorso a tale modello di gestione e si poneva in contrasto con la normativa europea che, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità, tornava ad operare. Con la Legge n.122/12, l’ordinamento si è allineato con la giurisprudenza costituzionale e il diritto europeo; essa costituisce oggi la normativa di riferimento in materia di gestione dei servizi pubblici locali. Come anticipato, l’affidamento della gestione può aversi oggi nelle tre forme già richiamate e previste a livello europeo, vale a dire la classica procedura ad evidenza pubblica, la gara a doppio oggetto e l’affidamento in house. Accanto a queste, la giurisprudenza riconosce anche la facoltà dell’ente locale di ricorrere all’azienda speciale nello specifico settore idrico. In materia di servizi pubblici ha successivamente inciso la Legge n.54/2014 (cosiddetta legge Delrio), la quale ha modificato la struttura degli enti territoriali, mutandone dunque l’assetto delle competenze. La ratio della suddetta legge, con riferimento ai servizi pubblici, è quella di individuare l’ente che possa più efficacemente gestire il servizio. Pertanto, alcuni servizi sono divenuti di competenza di nuovi soggetti territoriali, quali l’unione di comuni, al fine di garantire un servizio più omogeneo nell’area di competenza e con minori spese per le singole amministrazioni comunali.

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11.5 La posizione del fruitore del servizio pubblico. La carta dei servizi La gestione dei servizi pubblici è profondamente mutata con i processi di liberalizzazione e privatizzazione. Come evidenziato, si è assistiti al passaggio da un sistema di gestione diretta ad uno di regolazione, in cui il soggetto pubblico interviene più spesso ex post. Questo mutamento non comporta un disinteresse da parte dello Stato nei confronti dei servizi pubblici, bensì un diverso modo di intervenire. Invero, mentre prima l’attività statale era di programmazione e, dunque, di individuazione dei fini da raggiungere, ora si parla più correttamente di regolazione. Con tale espressione, si fa riferimento a quell’attività che lo Stato compie per creare le condizioni necessarie allo sviluppo di un mercato concorrenziale. L’apertura dei servizi pubblici al mercato non rappresenta dunque l’abbandono della materia da parte dello Stato. A fronte di questo cambiamento a monte, a valle si è assistiti ad un consequenziale mutamento della posizione del fruitore. I nuovi soggetti gestori non si rivolgono più all’utente considerato quale soggetto amministrato, bensì quale vero e proprio cliente. Invero, il cittadino usufruisce di un servizio e ne paga il corrispettivo: la logica è dunque strettamente economica, di mercato. Oggi, le condizioni di erogazione di un servizio sono dettate dalle leggi di mercato e le tutele apprestate a chi ne usufruisce, sono simili a quelle previste nell’ambito del diritto privato. In particolare, il Codice del Consumo svolge un ruolo primario in materia, prevedendo quelli che sono i diritti degli utenti dei servizi e sancendo il rispetto degli standards di qualità, che devono essere garantiti dall’erogatore. Peraltro, è proprio attraverso la verifica dell’osservanza di tali parametri qualitativi, che si può stabilire se il gestore abbia corret-

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tamente adempiuto ai propri obblighi contrattuali481. Invero, con la privatizzazione, l’utente del servizio è considerato un vero e proprio consumatore. Tuttavia, come accennato, la natura della posizione dell’utente è ancora discussa. Pacificamente, si riconosce comunque che il fruitore del servizio possa agire sia in via stragiudiziale, mediante reclami, sia in via giurisdizionale, con azioni anche collettive. Parimenti frutto della privatizzazione sono infatti le carte dei servizi, le quali riconoscono al cittadino la facoltà di far valere una serie di pretese nei confronti dei gestori dei servizi pubblici. La qualità del servizio è infatti valutata in base al grado di soddisfazione dell’utente-consumatore. Sulla natura giuridica di tali carte, la dottrina si divide. Una prima tesi ne afferma la natura pubblicistica, in quanto la carta dei servizi accederebbe al provvedimento di concessione del servizio stesso, imponendo al gestore di garantire certe puntuali prestazioni. Secondo un’altra tesi, si tratterebbe di un atto amministrativo generale rivolto al soggetto erogatore; altri orientamenti richiamano la figura del contratto a favore di terzo e della promessa al pubblico. Secondo un’ultima tesi, la carta dei servizi integra uno strumento di soft law, avente un contenuto non vincolante. A fronte di inadempimenti del gestore, le sanzioni sarebbero quelle comminate dalle Autorità di regolazione. 11.6 La giurisdizione in materia di servizi pubblici In passato, la norma di riferimento era l’art.33 del d. lgs n.80/98, la quale è stata dichiarata incostituzionale con la sentenza n.204/04, in quanto devolveva al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, tutte le controversie in materia di 481. Si tratta degli obblighi stabiliti con provvedimento dalle Autorità di regolazione, che sono posti a integrazione del contratto di servizio. Si vedano i paragrafi precedenti.

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pubblici servizi, senza differenziare le situazioni in cui vi fosse stata o meno la spendita del potere autoritativo. Secondo la giurisprudenza costituzionale, invero, è possibile devolvere alla giurisdizione esclusiva solo le controversie in cui viene in rilievo l’esercizio del potere pubblicistico. Oggi, la disposizione di riferimento è contenuta nell’art.133, comma 1, lett. c) c.p.a., il quale ridisegna la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia. In particolare, sono devolute al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, tutte le controversie in materia di concessioni, escluse quelle relative a indennità, canoni o altri corrispettivi. Invero, tali ultime controversie attengono agli interessi dell’amministrazione e del concessionario e non della collettività, e non contemplano momenti di autoritatività. Queste controversie restano di competenza del giudice ordinario, qualora non vengano in rilievo questioni inerenti il rapporto concessorio o l’esercizio di poteri discrezionali dell’amministrazione, che comporterebbero l’attrazione della questione nella sfera della giurisdizione amministrativa. Tale previsione sembra in linea con la sentenza della Corte Costituzionale; tuttavia, poco chiari ne restano alcuni contenuti, fra i quali l’espressione concessione, nonché la portata dell’elenco dei servizi pubblici espressamente nominati. Secondo autorevole dottrina, la giurisdizione verrebbe delineata dall’art.133, in base a due criteri. Il primo, di tipo orizzontale, considera il tipo di controversia in relazione a qualsiasi servizio pubblico; il secondo criterio, verticale, prescinde dal tipo di controversia e devolve al giudice amministrativo tutte le controversie relative ai pubblici servizi espressamente elencati dalla richiamata norma. Tale interpretazione sarebbe ispirata dal principio di effettività della tutela, attuabile mediante la concentrazione degli strumenti esperibili, davanti ad uno stesso giudice.

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CAPITOLO XII L’ACCESSO AI DOCUMENTI AMMINISTRATIVI Sommario: 12.1 I principi e la natura dell’accesso. - 12.2 L’interesse all’accesso e la nozione di documento amministrativo. – 12.3 I limiti all’accesso: i controinteressati e il diritto alla riservatezza. – 12.4 Figure particolari di accesso. – 12.4.1 L’accesso civico. – 12.4.2 L’accesso esercitato dai consiglieri comunali e provinciali. – 12.4.3 L’accesso in materia ambientale. – 12.5 La tutela del diritto di accesso.

12.1 I principi e la natura dell’accesso L’istituto dell’accesso ai documenti amministrativi ha subito una profonda mutazione nel tempo. Più precisamente, all’inizio, l’attività amministrativa era di fatto impenetrabile da parte degli amministrati, i quali non avevano strumenti e vie per poterne conoscere il contenuto e la portata. E’ stato con il progressivo affermarsi dei principi di derivazione comunitaria di trasparenza e pubblicità, cui l’attività amministrativa si è gradualmente ispirata, che l’accesso ai documenti amministrativi è diventato possibile. I principi di pubblicità e trasparenza possono invero definirsi diretti precipitati della natura pubblicistica dell’amministrazione. Il riferimento normativo è l’art.97 Cost.; la copertura costituzionale di tali principi, ne evidenzia senza dubbio l’essenzialità e la centralità. Il dovere di pubblicità impone all’amministrazione di rendere visibile, accessibile, nel senso di controllabile, il proprio operato. L’amministrazione è infatti tenuta a pubblicare e rendere noti atti e procedure, affinché chiunque sia interessato, possa conoscere il contenuto dell’attività amministrativa. Pertanto, l’accesso agli atti amministrativi, riguarda il rapporto tra amministrazione e amministrati, i quali esercitano in tal modo un controllo democratico sull’azione pubblicistica. La dottrina ha invero coniato l’espressione di pubblica ammini-

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strazione quale casa di vetro, aperta e posta al servizio del cittadino. La trasparenza si pone quale corollario del principio di pubblicità, costituendo una vera e propria regola di condotta per l’amministrazione. Vari sono gli istituti espressione della trasparenza. Assieme all’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, agli istituti di partecipazione contenuti nella legge sul procedimento, l’accesso agli atti ha posto fine alla segretezza dell’azione, rectius, dei documenti amministrativi, che prima costituiva la regola. Tale funzione è svolta in modo ancor più penetrante dall’accesso civico, di cui si tratterà nel prosieguo. Il principio di trasparenza non è espressamente sancito da alcuna disposizione normativa; la stessa Legge n.241/90 non lo prevede esplicitamente. Tuttavia, il concetto è stato valorizzato mediante la riforma operata con la Legge n.190/12 (legge anti-corruzione), la quale considera la trasparenza come la garanzia della totale accessibilità alle informazioni che riguardano l’organizzazione e l’attività amministrative. I principi esaminati sono stati recepiti dal nostro ordinamento sulla spinta dell’Unione europea, la quale da tempo propugna la necessità di garantire un controllo democratico sull’operato dell’amministrazione482. Prima della Legge n.241/90 mancava totalmente una disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi; è con tale normativa che l’istituto ha acquisito portata generale, delineando in modo nuovo i rapporti tra privato e pubblica amministrazione. La portata stessa dell’istituto in esame si è modificata nel tempo e, di conseguenza, anche la natura dell’accesso è stata diversamente qualificata da parte della dottrina e della giurisprudenza. 482 Un settore in cui rileva particolarmente l’istituto dell’accesso è quello degli appalti pubblici, specialmente in quanto si riconnette al principio di non discriminazione, ponendosi dunque a garanzia della parità di trattamento degli operatori economici. Anche per questo, l’Unione europea manifesta da sempre spiccato interesse per il principio de quo.

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Tradizionalmente, l’accesso era ritenuto collegato ad un interesse strumentale all’esercizio di poteri e facoltà procedimentali e processuali. In altri termini, la conoscenza del contenuto degli atti amministrativi era unicamente funzionale all’esercizio del diritto di partecipazione e difesa nell’ambito del procedimento amministrativo e del processo giurisdizionale. Tale visione, sostenuta inizialmente dalla giurisprudenza amministrativa, è stata nel tempo superata a favore di una visione – secondo alcuni - maggiormente garantista. Oggi l’accesso è considerato infatti un bene della vita autonomo, rilevante di per sé, con una dignità propria. Precisamente, l’accesso viene riconosciuto al soggetto titolare di una posizione giuridica differenziata che mantiene una propria autonomia, ancorché connotata da una funzionalità rispetto ad altre situazioni giuridiche connesse. Le conseguenze di tale interpretazione sono che l’accesso non è né funzionale alla proposizione di un’azione giurisdizionale, né viene ostacolato dalla pendenza di un procedimento amministrativo in cui vengono in rilievo i medesimi documenti cui il privato vorrebbe accedere. Si potrebbe dunque affermare che l’accesso è una facoltà riconosciuta al privato, anche rispetto ad un provvedimento inoppugnabile, a dimostrazione che l’accesso non è meramente strumentale all’esperimento di forme di reazione processuale. Riconosciuta l’autonomia dell’accesso, successivamente si è discusso sulla natura giuridica dell’istituto. Deve infatti evidenziarsi che le norme sull’accesso, artt.22 e ss. della Legge n.241/90, utilizzano il termine diritto; tuttavia, per diverso tempo, tale espressione è stata considerata impropria, atecnica. Invero, inizialmente, la tesi predominante riteneva l’accesso un interesse legittimo. A fondamento di tale qualificazione vi era innanzitutto il dato normativo, che veniva appunto interpretato in modo neutro.

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Inoltre, si considerava che il potere esercitato dall’amministrazione, a fronte di una richiesta di accesso, fosse sì di natura vincolata, ma comunque funzionale al perseguimento del pubblico interesse. Infine, la giurisprudenza amministrativa faceva leva sul termine perentorio previsto dalla legge per esercitare la tutela dell’interesse all’accesso, con ciò ritenendo che tale tutela sarebbe stata strutturata in modo analogo a quella prevista per l’impugnazione di un provvedimento amministrativo che incide su una posizione di interesse legittimo. Dalla qualificazione dell’accesso come interesse legittimo, discendono tuttavia una serie di conseguenze, tra le quali la necessità della notifica del ricorso ad almeno un controinteressato, pena l’inammissibilità dell’azione, e l’inammissibilità di un ricorso avverso il diniego all’accesso meramente confermativo. Questa ineffettività e lacunosità in termini di tutela, ha portato la giurisprudenza a rivedere il proprio orientamento. L’accesso è stato infatti qualificato in seguito come vero e proprio diritto soggettivo del privato. Gli elementi a sostegno di tale interpretazione sono vari, primo fra tutti il dato letterale, che parla di diritto di accesso e che viene dunque valorizzato, rifiutandosi l’idea dell’utilizzo del termine in senso atecnico. A ciò si sono affiancati ulteriori elementi: la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, introdotta con la riforma del 2005483; la mancanza di discrezionalità in capo all’amministrazione a fronte della richiesta di accesso; la circostanza per cui il documento oggetto della richiesta non deve essere necessariamente connesso ad un procedimento specifico; l’inserimento dell’accesso tra i livelli essenziali da garantire su tutto il territorio nazionale ex art.117 Cost.484; infine, il potere del giudice di condannare l’amministrazione ad adempiere all’obbligo di ostensione. Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha più di recente rimarcato che la questione relativa alla natura giuridica dell’accesso 483. L. n.15/2005. 484. Riforma introdotta con la Legge n.69/09.

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non avrebbe in realtà effettiva rilevanza pratica. Precisamente, è stato sottolineato come la posizione soggettiva del privato che ha interesse all’accesso sia una posizione strumentale, poiché esercitabile al fine di tutelare ulteriori e diverse posizioni giuridiche. Ciò non significa che l’accesso sia necessariamente e specificamente strumentale all’azione processuale; tuttavia, esso si pone quale presupposto per il conseguimento di altre utilità finali. Per comodità espositiva, e senza voler prendere posizione, nell’analisi dell’istituto si utilizzerà il termine diritto, al pari del dato normativo. 12.2 L’interesse all’accesso e la nozione di documento amministrativo L’accesso è definito dall’art.22 quale diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi485. Tale norma deve leggersi in combinato disposto con i precedenti articoli 9 e 10, per cui titolari del diritto di accesso sono i soggetti che abbiano un interesse concreto, personale, attuale e serio. Innanzitutto, devono ritenersi compresi anche i portatori di interessi diffusi, purché la posizione sia sempre differenziata, non riconoscendosi a tali soggetti, un diritto generalizzato di conoscenza di tutti i documenti amministrativi. Un tipico esempio è infatti l’accesso esercitato nei confronti dei gestori di un pubblico servizio, da parte dalle associazioni dei consumatori, le quali non sono legittimate ad accedere all’integrale documentazione detenuta dal gestore, in assenza di una posizione differenziata della categoria486. Con interesse concreto si intende un interesse tangibile; personale è l’interesse del soggetto richiedente, collegato al documento richiesto; inoltre, non deve trattarsi di interesse emulativo, vale a 485. Ormai si ritiene pacificamente che l’accesso si compone della facoltà di visione e di rilascio delle copie dei documenti richiesti. 486. Analogo diritto è stato riconosciuto alle associazioni sindacali, nella misura in cui non si traduca in un controllo generalizzato sull’attività delle amministrazioni datrici di lavoro.

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dire non deve essere un interesse finalizzato a creare molestie o fastidi, ma deve trattarsi di un interesse meritevole di tutela487. In altre parole, l’interesse deve corrispondere ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale il soggetto chiede di accedere. Si ribadisce che la posizione del soggetto è del tutto autonoma e non corrisponde all’interesse all’azione processuale. Peraltro, si distingue tra accesso esoprocedimentale e accesso endoprocedimentale. Il primo richiede l’interesse del soggetto nei termini sopra descritti. Nell’ipotesi in cui il soggetto sia già parte di un processo, basterà questo elemento per effettuare l’istanza di accesso, evidentemente finalizzata alla difesa in giudizio. Ispirato al diverso principio di leale collaborazione, l’art.22, comma 5 stabilisce l’accesso tra pubbliche amministrazioni per cui, altresì per semplificare gli oneri burocratici dei privati, le amministrazioni possono trasmettersi internamente la documentazione che loro necessita. Così configurato dalla legge sul procedimento, il diritto di accesso non è in alcun modo influenzato dalla natura dell’atto amministrativo che ne è oggetto. E’ sufficiente che l’atto amministrativo sia emanato da un’amministrazione pubblica nell’esercizio di un’attività di pubblico interesse. La giurisprudenza amministrativa ha invero affermato che l’istituto dell’accesso ha carattere unitario; possono esservi differenti limiti al suo esercizio, in base al tipo di documento richiesto. Tuttavia, tali differenze non integrano differenti tipi di accesso. La funzione dell’accesso resta quella di favorire la partecipazione del privato all’azione amministrativa e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’azione stessa. L’art.25, comma 4 stabilisce che l’istante è tenuto ad indicare 487. Vi sono ipotesi in cui l’interesse è considerato in re ipsa. Si pensi alla richiesta di accesso formulata dalle parti del procedimento per ricorso straordinario al Capo dello Stato, che domandino di visionare i documenti del procedimento stesso.

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espressamente le motivazioni della propria richiesta. L’interesse all’accesso deve dunque risultare chiaramente dall’istanza, in quanto la legge non ammette un accesso finalizzato ad esercitare un generico controllo sull’attività amministrativa. L’analisi della motivazione permette dunque all’amministrazione di valutare la sussistenza e la portata dell’interesse del privato. A cosa il privato può chiedere di accedere? A questo interrogativo può essere data risposta diversa a seconda dell’ambito in cui l’azione amministrativa si esplica e, quindi, in quale settore viene esercitato il diritto di accesso. Tuttavia, la disciplina generale, contenuta nella L. n.241/90, fa riferimento ai documenti amministrativi. Con tale termine si intendono documenti che sono in possesso dell’amministrazione e che sono già formati488. In altri termini, con l’accesso non è possibile richiedere documenti che l’amministrazione sarebbe tenuta a formare ad hoc489. La documentazione richiesta deve inoltre essere indicata con precisione e chiarezza. Tale onere si intende assolto qualora il privato individui il contenuto del documento, mediante l’indicazione di quelli che sono gli elementi essenziali dello stesso490. La legge non fornisce dunque un elenco dei documenti accessibili da parte del privato. La definizione generale contenuta nel citato articolo 22 permette di annoverare, accanto ai provvedimenti, anche tutti quegli atti che hanno contribuito alla formazione di un provvedimento. Pertanto, la legge rende accessibili tutti gli atti interni, gli atti preparatori, le rappresentazioni e i pareri (obbligatori) che hanno concorso a determinare il contenuto dell’atto finale di un determinato procedimento. 488. Più precisamente, il documento può essere anche non essere stato formato dall’amministrazione a cui si rivolge l’istanza; l’importante è che essa lo detenga. 489. Gli enti locali possono prevedere anche misure diverse, per garantire un ulteriore livello di tutela. Si veda l’art.10 TUEL che stabilisce la pubblicità degli atti di Comune e Provincia, per taluni in deroga alla normativa generale. 490. Non si ritiene che il privato debba indicare gli estremi degli atti che, peraltro, presumibilmente, non conosce.

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Devono quindi considerarsi esclusi, ad esempio, i provvedimenti giurisdizionali, le schede delle competizioni elettorali e gli atti di gestione del rapporto di pubblico impiego. E’ importante sottolineare come non rilevi la natura giuridica dell’atto, per cui devono ritenersi accessibili altresì gli atti privati posti in essere dall’amministrazione, nell’esercizio della funzione pubblicistica. Soggetti passivi del diritto all’accesso sono le pubbliche amministrazioni, da intendersi nell’accezione più ampia conosciuta491. Pertanto, l’istanza di accesso può essere rivolta anche al soggetto privato che svolge attività di interesse pubblico, essendo proprio l’interesse pubblico, l’elemento che rileva ai fini della richiesta, giustificandola492. Infatti, così come non rileva la natura dell’atto a cui si chiede di accedere, parimenti non rileva l’eventuale forma giuridica del soggetto che svolge l’attività amministrativa. In tal modo, l’esercizio del diritto di accesso viene inevitabilmente ampliato. Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha avvertito l’esigenza di porre dei confini, individuando tre ipotesi di attività accessibile del privato. Innanzitutto, l’attività del privato investito per legge di un potere pubblicistico in senso stretto, vale a dire un’attività strumentale al perseguimento dell’interesse pubblico. A questa si affiancano l’attività del gestore di un servizio pubblico e l’attività residua del gestore, qualora si caratterizzi per un interesse pubblico prevalente. In particolare, rispetto al privato gestore di un servizio, dovrà indagarsi la natura del servizio e se questo sia o meno soggetto al vincolo di scopo, al fine di distinguere l’attività amministrativa del privato da quella prettamente imprenditoriale, che potrebbe co-

491. Sulla portata del termine, si veda Capitolo III. 492. Dunque, compreso è, ad esempio, il privato gestore di un servizio pubblico.

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munque contestualmente esercitare493. In realtà, l’attuale articolo 22 sembra limitare l’attività dei soggetti privati soggetta all’accesso, nel senso che sembra essere esclusa l’attività organizzativa, prettamente privatistica e, dunque, non sottoposta a vincoli o regole pubblicistici. Merita attenzione l’esercizio del diritto di accesso nei confronti dei documenti delle Autorità amministrative indipendenti. Innanzitutto, l’art.23 della legge sul procedimento prevede la possibilità che il diritto di accesso sia regolato da norme di settore, anche in deroga alle previsioni generali in essa contenute. Le normative delle Autorithies si occupano invero anche dell’accesso ai propri atti, con regole talvolta più stringenti, in considerazione dei settori particolarmente sensibili cui le stesse sono deputate. Ad esempio, il D.P.R. n.217/98 in materia di antitrust, distingue l’accesso ai documenti personali, accessibili solo se necessari alla garanzia del contraddittorio, dall’accesso a documenti contenenti segreti commerciali, generalmente non accessibili, salvo che siano indispensabili alla difesa in giudizio dell’impresa494. Per quanto riguarda gli atti della Consob, è intervenuta la Corte Costituzionale, affermando la possibilità di accedere ai provvedimenti finali adottati dall’Autorità, ma non agli atti presupposti, in ragione e a tutela dell’attività di vigilanza che la stessa svolge. Alla stessa stregua, l’attività di controllo svolta dalla Banca d’Italia,giustifica il segreto d’ufficio che opera su tutti i dati in possesso della stessa, anche nei confronti delle richieste avanzate da altre pubbliche amministrazioni. 12.3 I limiti all’accesso: i controinteressati e il diritto alla riservatezza L’istituto dell’accesso costituisce uno dei livelli essenziali che devono essere garantiti su tutto il territorio. 493. Non sempre è facile individuare l’attività passibile di accesso. La giurisprudenza ha proposto di esaminare vari aspetti: la natura del servizio; il regime di attività del gestore, se in esclusiva o di tipo concorrenziale; le eventuali regole procedimentali cui l’attività è sottoposta. 494. Dovrà essere cura dell’amministrazione omettere le parti del documento relative ai dati sensibili, che restano riservati. INDICE

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Tale connotazione fa dell’accesso un diritto che l’amministrazione è tenuta a salvaguardare; il suo esercizio deve pertanto essere garantito. Invero, l’amministrazione che riceve un’istanza di accesso è, in linea generale, tenuta ad accoglierla, se non vi sono ostacoli in tal senso. Tanto è vero che, qualora non sia possibile consentire l’accesso nel momento in cui viene richiesto, questo non deve essere negato, ma l’amministrazione può disporne il differimento. Ciò comporta che l’istante deve attendere che il documento divenga accessibile ma, senza che ve ne siano ragioni valide, la sua richiesta di accesso non può essere rigettata. Il differimento può ad esempio dipendere da esigenze di corretto svolgimento dell’azione amministrativa, che non può essere interrotta, oppure di salvaguardia di interessi temporanei che l’amministrazione deve espressamente indicare495. Tuttavia, il diritto di accesso non è esente da limiti. E’ già stato evidenziato come l’accesso ai documenti amministrativi non possa tradursi in un controllo generalizzato sull’azione amministrativa. Questo costituisce indubbiamente il primo e generale limite all’accesso, che viene garantito con l’indicazione puntuale di quello che è l’interesse del privato che presenta l’istanza. L’art.24 della Legge n.241/90 enuncia i limiti di tipo tassativo, definiti anche limiti generali, a fronte dei quali l’amministrazione non ha alcun margine di discrezionalità per cui, in caso di violazione degli stessi, l’accesso deve essere negato. Accanto a questi, vi sono i limiti eventuali, detti anche particolari, che possono essere individuati con regolamento governativo, in relazione a cinque settori specifici: sicurezza e difesa nazionale, politica monetaria, ordine pubblico, vita privata e contratti collettivi di lavoro496. 495. L’inefficienza organizzativa dell’amministrazione, tuttavia, non costituisce mai una motivazione valida per negare l’accesso. 496. Peraltro, nel caso in cui i limiti così stabiliti si rivelino illegittimi, il giudice amministrativo potrà disapplicare il relativo regolamento.

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Uno dei principali diritti che viene a scontrarsi con il diritto all’accesso, è quello alla riservatezza. E’ possibile affermare che la riservatezza integri uno dei limiti più importanti all’esercizio del diritto di accesso, potendone infatti comportare anche la completa frustrazione. In particolare, la riservatezza comporta che sia mantenuto il riserbo in ordine ad una certa vicenda, attribuendo così rilievo ad interessi privatistici. In questo senso, essa si differenzia dalla segretezza, che risponde invece all’esigenza di tutelare interessi pubblici generali. Viene dunque in rilievo la figura del controinteressato. Con tale espressione deve intendersi qualcosa di diverso rispetto a quello che si ritiene nell’ambito di un procedimento giurisdizionale497. In materia di accesso, il controinteressato è il titolare del diritto alla riservatezza, vale a dire il soggetto che ha un interesse uguale e contrario a quello di colui che effettua l’istanza di accesso. Il controinteressato vuole e può impedire l’ostensione e il rilascio del documento. Invero, l’istanza di accesso deve essere notificata al controinteressato, per permettere l’opposizione entro i dieci giorni successivi, con la richiesta di rigetto dell’istanza498. La riservatezza viene ricondotta all’art.2 Cost., quale diritto inviolabile del singolo individuo, a che informazioni che lo riguardano restino sconosciute ai terzi. D’altra parte, però, l’esigenza di apprendere certe informazioni potrebbe essere parimenti giustificata. Per tale ragione, il bilanciamento tra accesso e riservatezza si rivela piuttosto problematico in certi casi; i due diritti sono stati definiti come separati in casa, proprio per evidenziare la loro stretta connessione. Invero, accesso e riservatezza hanno il medesimo ambito applicativo e costituiscono l’uno il limite dell’altra. 497. Per il concetto di controinteressato in giudizio, si veda Capitolo XIII. 498. Peraltro, anche se la legge non lo stabilisce espressamente, si ritiene che il controinteressato abbia interesse e sia legittimato ad impugnare il provvedimento che accoglie la richiesta di accesso.

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Inizialmente, solo la dottrina e la giurisprudenza si sono occupate dei rapporti tra accesso e riservatezza. Qualora il contemperamento tra accesso e riservatezza si riveli di fatto impossibile, tradizionalmente la dottrina suggeriva di prendere come riferimento la legge sul procedimento. Secondo tale interpretazione, la richiamata normativa, promuovendo come regola la pubblicità dell’azione amministrativa, imporrebbe il sacrificio del diritto alla riservatezza. In altre parole, l’accesso ai documenti amministrativi prevarrebbe ogni qual volta ciò sia necessario per la tutela di interessi giuridici rilevanti. In assenza di una disciplina specifica a riguardo, dunque, veniva riconosciuta prevalenza al diritto di accesso, sulla base del principio di trasparenza dell’azione amministrativa. Successivamente, con la Legge n.675/96, in materia di dati personali, è stata introdotta una nozione nuova per l’ordinamento giuridico, quella di privacy. Questo nuovo concetto ha aperto la strada al Legislatore e alla giurisprudenza per ridisegnare i rapporti tra accesso e riservatezza, con un’ottica meno rigida. Invero, sono stati normativamente previsti diversi livelli di tutela alla riservatezza, in base al tipo di dato oggetto della richiesta di accesso. La distinzione muoveva dalla classificazione dei dati in dati sensibili, non sensibili e sensibilissimi. Tuttavia, è stato con il d. lgs n.196/03 – all’interno del quale è confluita la succitata legge - che si è realizzata una vera e propria coordinazione tra accesso e riservatezza. In particolare, il decreto distingue tra dati comuni, dati sensibili e dati supersensibili (o sensibilissimi). L’art.59 tratta dei dati comuni, per i quali opera la disciplina ordinaria in materia di accesso, di cui alla Legge n.241/90; pertanto, occorre che l’istanza di accesso sia correlata ad una situazione giuridica tutelata dall’ordinamento, che attesti l’interesse alla conoscenza del documento richiesto. Per i dati sensibili, il decreto rinvia all’art.24, comma 7, della

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legge sul procedimento, facendo applicazione di una disciplina più rigorosa, che ammette l’accesso solo se strettamente indispensabile499. In ultimo, per quanto riguarda i dati sensibilissimi, l’accesso è consentito solo se la situazione che si intende tutelare mediante l’accesso, è di rango almeno pari al diritto dell’interessato. La parità di rango si ritiene sussistente qualora si tratti di un diritto della personalità o altro diritto o libertà fondamentali e inviolabili. Se non si tratta di situazioni di tal tipo, l’amministrazione dovrà valutare il singolo caso per decidere se consentire o meno l’accesso. L’art.60 del d. lgs n.196/03 contiene una clausola elastica, per cui l’interesse sotteso alla richiesta di accesso deve essere valutato in termini di pertinenza con il documento, senza eccedere nella trattazione del dato ivi contenuto e valutando attentamente anche quali parti del documento rendere ostensibili500. Varie sono le fattispecie che la giurisprudenza ha dovuto affrontare nell’attività di contemperamento tra accesso e riservatezza. Ad esempio, con riferimento agli elaborati delle procedure concorsuali, la giurisprudenza prevalente ne ammette l’accesso da parte del candidato, con il limite delle sole informazioni utilizzate dalla commissione per l’aggiudicazione. Altro caso ha riguardato l’accesso alle cartelle cliniche, contenenti dati supersensibili; alcuni giudici hanno ad esempio riconosciuto il diritto di accesso in capo anche ai successori universali del paziente deceduto, qualora ciò sia funzionale a coltivare un’azione in ambito giurisdizionale. Questione dibattuta ha riguardato l’accesso agli atti di gara. La giurisprudenza si è assestata nel ritenere che restino esclusi tutti quei documenti dai quali possano ricavarsi i segreti commerciali 499. L’indispensabilità dell’accesso andrà poi valutata dall’amministrazione caso per caso. 500. Art. 60 (Dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale) 1. Quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rilevante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti amministrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile.

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o scientifici di un concorrente, con limitazione dell’accesso agli atti utilizzati dalla commissione per l’ammissione alla procedura ovvero per la valutazione dell’offerta presentata. Con riferimento inoltre ai pareri legali, rilasciati ad un’amministrazione da professionisti esterni, occorre distinguere i pareri endoprocedimentali da quelli a carattere difensivo. Mentre per i primi non si pongono problemi, i secondi non sarebbero accessibili, in quanto coperti da segreto professionale, salvo che non siano stati espressamente richiamati dall’amministrazione nella motivazione del proprio provvedimento finale. Proprio al fine di tutelare efficacemente la posizione dei controinteressati, in materia di accesso opera una delle forme più importanti di silenzio. Precisamente, qualora entro il termine di trenta giorni dalla richiesta, l’amministrazione non si pronunci, l’istanza di accesso si intende rigettata501. La tematica del diritto alla riservatezza è stata investita dalla recente riforma in materia, attuata con il d. lgs n.101/2018, che è sostanzialmente intervenuto in relazione ai diversi tipi e ambiti di trattamento dei dati personali (sanitario, di lavoro, giornalistico ecc.), con un irrigidimento del sistema nel suo complesso, rispetto agli adempimenti da assolvere, e con un rafforzamento della tutela in capo all’interessato. Tra le diverse disposizioni, è stato previsto l’obbligo di nomina di un D.P.O. (Data Protection Officer) in tutte le aziende private e le amministrazioni pubbliche, quale soggetto responsabile del trattamento dei dati all’interno della struttura organizzativa. Per avere contezza della portata della riforma, dovranno attendersene le prime applicazioni e verificare in concreto l’effettiva portata di quanto oggi normativamente previsto502.

501. Meccanismo inverso all’ipotesi di accesso civico, per cui si veda il paragrafo successivo. 502. Il decreto si è reso necessario al fine di adeguare la normativa interna al GDPR, in quanto la prima si poneva in contrasto con le disposizioni contenute nella normativa sovranazionale, con evidente violazione dei principi in materia di gerarchia delle fonti.

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12.4 Figure particolari di accesso Esistono una serie di figure particolari di accesso ai documenti amministrativi, le quali presentano delle peculiarità e delle diversità rispetto alla figura generale. Più precisamente, la portata del concetto stesso di accesso e la relativa disciplina differiscono parzialmente da quanto stabilito e contenuto nella Legge n.241/90. 12.4.1 L’accesso civico L’accesso civico è un istituto di recente conio. E’ stato introdotto dal d. lgs n.33/13, in materia di trasparenza dell’attività delle pubbliche amministrazioni, in attuazione della Legge delega n.190/12. Esso si pone invero quale ulteriore espressione dei principi di pubblicità e trasparenza, concorrendo alla promozione dell’idea di amministrazione quale casa di vetro. L’accesso civico è strettamente connesso all’obbligo delle amministrazioni di pubblicare alcuni documenti e informazioni, espressamente indicati dalla legge, sui propri siti internet. Pertanto, chiunque può accedere a tali atti, senza necessità di registrazione o autenticazione telematica e senza necessità di presentare alcuna richiesta motivata. L’accesso civico è riconosciuto quale vero e proprio diritto soggettivo del cittadino e la ratio che vi è alla base è quella di alimentare il rapporto di fiducia tra amministrazione e amministrati, promuovendo la cultura della legalità e prevenendo fenomeni corruttivi. La differenza principale con l’accesso di cui alla Legge n.241/90 è dunque quello per cui la legittimazione soggettiva del richiedente non incontra alcun limite. La finalità è invero quella di estendere il controllo democratico sull’operato delle amministrazioni, in ossequio altresì ai principi di imparzialità e buon andamento, nonché di efficacia ed efficienza nell’utilizzo delle risorse pubbliche.

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La richiesta del privato, infatti, non deve essere accompagnata da una motivazione ed è gratuita. D’altra parte, vi è un limite all’accesso civico. Invero, oggetto della richiesta possono essere i soli documenti per i quali è previsto l’obbligo di pubblicazione on line. Tuttavia, tale documentazione è, per espressa previsione normativa, piuttosto corposa503. Inoltre, il decreto fa uso del termine informazione e non documento. Oltre all’evidente risonanza con l’accesso in materia ambientale e nell’ambito degli enti locali, di cui si tratterà nel prosieguo, si evidenzia già in questa sede che la portata dell’accesso risulta in tal modo più ampia rispetto a quella fatta propria dalla disciplina generale. L’accesso civico è stato recentemente toccato dal d. lgs. n. 97/2016, il quale ha introdotto un accesso definibile come libero universale, avente ad oggetto non solo i documenti e le informazioni soggetti a pubblicazione, bensì tutti i dati e le informazioni ulteriori della pubblica amministrazione504. La richiesta di accesso è del tuto gratuita e non occorre l’indicazione di una motivazione: il limite all’esercizio di tale diritto resta l’esigenza di tutelare un interesse, pubblico o privato, ritenuto prevalente505. La ratio dell’istituto è comunque il carattere pubblico di questi dati, la cui conoscenza deve essere garantita a tutta la cittadinanza, che dunque può accedervi e conoscerne i contenuti506. 503. Inizialmente si era invero evidenziata un’eccessiva mole di lavoro in capo alle amministrazioni; la Legge n.124/15 ha inteso dunque parzialmente diminuire gli oneri di pubblicità, razionalizzando gli obblighi di trasparenza. 504. Sussiste in tal modo una forte analogia con il cosiddetto F.O.I.A. (Freedom information act), tipico degli ordinamenti anglosassoni. 505. Ad esempio, la richiesta di accesso può essere negata per ragioni legate alla pubblica sicurezza, all’ordine pubblico o alla conduzione di indagini; parimenti, il diniego può essere motivato dalla necessità di tutelare il diritto alla privacy di un individuo, oppure gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o una persona giuridica. 506. Si veda, per completezza, la riforma in materia di privacy, intervenuta con il d. lsg. n.101/2018, che ha sostanzialmente mantenuto quanto disposto già dal d. lgs. n.133/1, introducendo l’adozione di regole deontologiche per il trattamento dei dati personali.

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12.4.2 L’accesso esercitato dai consiglieri comunali e provinciali L’art.43 TUEL è la norma di riferimento per l’accesso all’interno degli enti locali, esercitato da parte dei consiglieri. Questo tipo di accesso prevede un oggetto più ampio rispetto a quello tipico dell’accesso disciplinato dalla Legge n.241/90. In particolare, la normativa parla di notizie e informazioni, utilizzando dunque termini più ampi rispetto a quello di documento amministrativo. Inoltre, tali informazioni possono anche non essere contenute in un documento già formato, purché si tratti di informazioni utili e necessarie per l’adempimento delle funzioni proprie del consigliere istante. La legge non prevede alcun obbligo di motivazione, essendo sufficiente che l’istanza sia correlata all’espletamento del mandato, sul quale l’amministrazione non deve e non può avere nessuna forma di controllo. D’altra parte, però, le richieste di accesso non devono tradursi in una forma di controllo generalizzato dell’attività dell’amministrazione. In altre parole, l’utilità della richiesta di accesso allo svolgimento dei compiti del consigliere è elemento imprescindibile per l’accoglimento della richiesta stessa. Tuttavia, l’organizzazione dell’amministrazione non deve subire ritardi o essere aggravata dalle richieste dei consiglieri, che non possono avere carattere emulativo o generico. In queste ipotesi, infatti, l’amministrazione avrebbe diritto a negare l’accesso. Inoltre, il diritto di accesso proprio dei consiglieri non incontra il limite dei controinteressati, che in queste ipotesi non sussistono. L’unico limite dunque è il vincolo teleologico che lega la richiesta al corretto espletamento del mandato. Deve invero considerarsi che l’accesso esercitato da un consigliere differisce da quello esercitato dal privato; solo il secondo presenta richiesta per tutelare un interesse personale.

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12.4.3 L’accesso in materia ambientale Anche in materia ambientale, il diritto di accesso subisce un trattamento diverso rispetto alla disciplina generale. Ciò si spiega in ragione della sensibilità propria del bene ambiente e dei diritti ad esso strettamente connessi, che generalmente hanno portata costituzionale e ai quali l’ordinamento accorda dunque un’attenzione particolare. L’accesso viene annoverato tra i principi che ispirano il settore ambientale507. La legittimazione attiva è più ampia rispetto a quella riconosciuta dalla Legge n.241/90, che richiama i concetti di concretezza, attualità e serietà dell’interesse indicato nell’istanza di accesso. La normativa di riferimento è contenuta nel d. lgs. n.195/05, attuativo di una direttiva comunitaria. La disciplina prevede che l’autorità pubblica renda disponibile, a chiunque ne faccia richiesta, l’informazione ambientale, senza che debba essere esplicitato un preciso interesse. Pertanto, la richiesta non abbisogna di una motivazione specifica, al pari di quanto è previsto per l’esercizio dell’accesso da parte dei consiglieri comunali e provinciali. Inoltre, oggetto della richiesta di accesso non è tanto un documento amministrativo, quanto un’informazione che attiene all’ambiente. Pertanto, l’oggetto è più ampio e permette che la richiesta riguardi altresì dati non contenuti in uno specifico atto amministrativo. Tuttavia, al fine di evitare istanze di accesso cosiddetto incondizionato, la giurisprudenza ha posto dei limiti alle richieste in materia ambientale. In particolare, è stata stabilita l’inammissibilità di istanze meramente ispettive; inoltre, il soggetto richiedente è comunque tenuto ad indicare il proprio interesse allo stato dell’ambiente e alla sua integrità, ancorché non sia tenuto a descriverlo in modo puntuale. In linea con tale orientamento, non è stata ritenuta legittima 507. Sul punto, si veda Capitolo IX, parte I.

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la richiesta di accesso agli atti relativi a un procedimento di gara per l’esecuzione di un’opera pubblica che si riteneva avrebbe avuto ripercussioni sull’ambiente. Controversie analoghe sono piuttosto frequenti. Invero, il diritto in esame è strettamente connesso all’attività urbanistica ed edilizia delle amministrazioni, in quanto la pianificazione del territorio e la distribuzione delle opere, hanno evidenti impatti sull’ambiente circostante. La giurisprudenza riconosce il diritto di partecipazione dei privati sin dall’inizio del procedimento, vale a dire sin dal momento genetico di formazione del piano urbanistico e non solo quando questo è già stato formato. Pertanto, l’accesso agli atti procedimentali deve essere garantito dall’origine, in modo tale da poter controllare l’azione amministrativa dall’inizio del suo esercizio. Tuttavia, il potere di controllo riconosciuto non è esercitabile in modo generalizzato e arbitrario. 12.5 La tutela del diritto di accesso Il sistema di tutele accordate al diritto di accesso si rinviene nel combinato disposto tra l’art.25 della Legge n.241/90 e l’art.116 c.p.a., oltreché dall’art.133, comma 1, lett. a), n.6, c.p.a., che sancisce la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia. Innanzitutto, è opportuno ricordare che il diritto di accesso non è necessariamente strumentale alla proposizione di un’azione giurisdizionale, ma ha carattere autonomo. Pertanto, gli strumenti di tutela del diritto de quo devono essere riconosciuti anche a chi non abbia interesse ovvero non possa più agire in giudizio, ma abbia visto negarsi il proprio diritto di accesso. Nell’ambito del processo in materia di accesso, il giudice deve solo valutare la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del diritto di accesso e non dei presupposti per l’azione giurisdizionale. Come si è evidenziato, infatti, la posizione che legittima l’acces-

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so è diversa da quella che legittima all’azione processuale. Il Legislatore ha invero inteso assicurare al privato la trasparenza dell’azione amministrativa, indipendentemente dalla lesione in concreto di una determinata posizione giuridica. In particolare, la pronuncia del giudice sarà di accoglimento ovvero di rigetto del ricorso presentato dal privato, a fronte del provvedimento di diniego all’accesso. Nel primo caso, l’amministrazione sarà condannata all’ostensione dei documenti richiesti, da rendere accessibili con le cautele necessarie per tutelare anche la riservatezza di eventuali controinteressati. Il processo è dunque strutturato in termini impugnatori; tuttavia, il giudice svolge una funzione di accertamento, in quanto è chiamato a verificare la sussistenza o meno dei requisiti per riconoscere o negare il diritto all’accesso. A norma dell’art.116 c.p.a., il ricorso deve essere notificato ad almeno uno dei controinteressati. Il rito è accelerato: il ricorso deve essere presentato entro trenta giorni dal diniego dell’amministrazione ovvero dalla formazione del silenzio rigetto. Lo stesso termine vale per la proposizione di motivi aggiunti o del ricorso incidentale. Quest’ultimo può essere proposto qualora il diniego all’accesso sopravvenga in pendenza di un giudizio, in un’ottica di economia processuale, per cui la questione relativa all’accesso viene risolta nell’ambito del processo in cui i documenti richiesti sarebbero stati introdotti508. Peraltro, sulla natura dell’ordinanza che definisce il giudizio incidentale in materia di accesso, la giurisprudenza ha discusso. Secondo i giudici amministrativi, si tratterebbe di un’ordinanza istruttoria, strumentale rispetto al giudizio di merito nel quale si è innestata. Tale tesi ha una serie di ricadute; fra queste, la possibilità di impugnare l’ordinanza solo con la sentenza finale; la verifica della 508. In queste ipotesi, si ha dunque un procedimento incidentale in materia di accesso, che si innesta nell’ambito di un procedimento principale in cui i documenti oggetto della richiesta di accesso, sarebbero rilevanti e utili.

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necessarietà del documento ai fini dell’istruttoria e non solo dei presupposti per l’accesso; l’ineseguibilità dell’ordinanza. Rimedio alternativo al ricorso giurisdizionale è il ricorso gerarchico improprio alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, con funzione tipicamente deflattiva del contenzioso. Peraltro, il Consiglio di Stato ha recentemente affermato che il provvedimento della Commissione è impugnabile secondo le ordinarie regole sulla competenza, di cui all’art.13 c.p.a.. Pertanto, deve tenersi in considerazione il provvedimento avverso il quale si è proposto ricorso alla Commissione e non il provvedimento adottato dalla Commissione stessa. Altro rimedio, esperibile però solo con riferimento agli atti degli enti locali, è il ricorso al difensore civico. Si tratta di uno strumento alternativo a quello processuale; la disciplina prevede che, se il difensore non si pronuncia entro trenta giorni, l’istanza di accesso si intende accolta. I rimedi giustiziali sono, come detto, alternativi e non precludono il ricorso allo strumento giurisdizionale. Precisamente, i termini per la proposizione del ricorso innanzi al giudice amministrativo sono sospesi fino alla decisione della Commissione o del difensore civico.

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CAPITOLO XIII LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PARTE I Sommario: 13.1 La tutela giustiziale. - 13.2 I ricorsi amministrativi. Gli aspetti generali. - 13.2.1 Il ricorso gerarchico. – 13.2.2 Il ricorso in opposizione. - 13.2.3 Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

13.1 La tutela giustiziale La tutela giustiziale è definita altresì tutela amministrativa o autodichia. Invero, essa viene attuata dall’amministrazione, senza che vi sia l’intervento dell’autorità giudiziaria. La tutela giustiziale si realizza attraverso un procedimento amministrativo di secondo grado, in quanto ha ad oggetto un precedente provvedimento dell’amministrazione509. Si tratta di una tutela generalmente alternativa a quella giurisdizionale, azionata dal ricorso dell’interessato; tuttavia, può anche esperirsi in via ulteriore. In particolare, la legge disciplina i rapporti tra i ricorsi amministrativi e la giurisdizione amministrativa, stabilendo la preferenza per la seconda. Infatti, se il privato ricorre prima in via giustiziale e, successivamente, in via giurisdizionale, la prima azione diventa improcedibile. L’eventuale decisione adottata in sede di ricorso amministrativo sarebbe illegittima ai sensi dell’art.21 octies della Legge n.241/90. Cumulativi possono essere invece il ricorso giustiziale e l’azione dinanzi al giudice ordinario, qualora si verta in materia di diritti soggettivi. L’unico aspetto di interazione riguarda gli effetti della sentenza già emanata, la quale fa stato nell’ambito del procedimento giustiziale, il quale deve attenersi a quanto in essa statuito. 509. La tutela amministrativa non è esperibile invece con riferimento agli atti di diritto privato dell’amministrazione. INDICE

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Dottrina e giurisprudenza si sono interrogate circa l’applicabilità di alcune disposizioni in materia di procedimento amministrativo, ai ricorsi giustiziali. In particolare, la discussione ha riguardato l’istituto del preavviso di rigetto, di cui all’art.10 bis della Legge n.241/90, ritenuto tuttavia non applicabile, in quanto violerebbe il principio di segretezza che permea la tutela giustiziale. Inoltre, l’art.10 bis si riferisce ai procedimenti ad istanza di parte, con cui il privato intende conseguire un bene della vita mediante un provvedimento amministrativo; l’autodichia, invece, inerisce la contestazione di un provvedimento. Altra disposizione analizzata è quella contenuta nell’art.21 octies, comma 2, della sucitata legge, riconosciuta applicabile in considerazione della sua portata generale e della natura amministrativa delle decisioni adottate in sede di ricorso giustiziale510. Infine, ai provvedimenti che definiscono il ricorso amministrativo, si ritiene non possano essere applicati gli strumenti di tutela esecutiva, previsti per le decisioni giurisdizionali. Tuttavia, si tratta di decisioni che si caratterizzano per la loro esecutività e, dunque, sussiste l’obbligo dell’amministrazione soccombente di darvi esecuzione. Data la funzione di riesame del provvedimento attribuita all’amministrazione, taluni hanno assimilato la tutela giustiziale all’autotutela. Invero, la tutela de qua consente all’amministrazione di rivedere i propri atti, nel contraddittorio con il privato e di correggere eventuali propri errori. Altra parte della dottrina evidenzia però che l’autodichia è qualcosa di diverso dall’autotutela, in quanto non è espressione di un potere dell’amministrazione di tutelare i propri interesse (rectius, l’interesse pubblico), ma consiste nel potere di decidere una controversia, rivestendo un ruolo imparziale. Quest’ultima interpretazione è quella prevalente. Invero, le differenze tra autotutela e autodichia sono evidenti. 510. In particolare, in sede di ricorso gerarchico.

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Mentre l’autotutela si attua mediante l’iniziativa della stessa amministrazione, la tutela giustiziale richiede il ricorso del privato511. Inoltre, mentre l’atto di autotutela è discrezionale e l’amministrazione conserva comunque un potere decisionale relativamente al contenuto, la decisione del ricorso giustiziale è vincolata ai motivi dedotti dal ricorrente e viene adottata da un’amministrazione in posizione terza che, emanato il provvedimento, esaurisce il proprio potere. 13.2 I ricorsi amministrativi. Gli aspetti generali Con il ricorso amministrativo, il privato intende conseguire la tutela di una situazione giuridica soggettiva, che suppone lesa da un provvedimento o da un comportamento dell’amministrazione512. I vantaggi di questo tipo di tutela consistono nella possibilità di ottenere direttamente una nuova pronuncia da parte dell’amministrazione, la maggiore rapidità della procedura, una spesa maggiormente contenuta e la possibilità, in taluni casi, di far valere vizi non sollevabili in via giurisdizionale. Tradizionalmente si distingue tra ricorsi ordinari, proponibili avverso provvedimenti non definitivi e ricorsi straordinari, oggetto dei quali sono invece provvedimenti già divenuto definitivi. Ordinari sono il ricorso gerarchico proprio e il ricorso in opposizione, mentre straordinario è il ricorso al Presidente della Repubblica e, in taluni casi, il ricorso gerarchico improprio. Si distingue inoltre tra ricorsi impugnatori, con cui si contesta un atto amministrativo e non impugnatori – meno frequenti – con cui si contesta un comportamento dell’amministrazione. Ulteriore distinzione viene compiuta tra ricorsi rinnovatori, dove l’amministrazione, nel caso in cui annulli l’atto impugnato, ne adotti un altro in sostituzione; ricorsi eliminatori o cassatori, 511. Si ricordi che l’esercizio dell’autotutela può tutt’al più essere sollecitato dal privato. A riguardo, si veda Capitolo VI. 512. Comportamento che deve essere riconducibile almeno mediatamente all’esercizio del potere amministrativo. Sul punto, si veda Capitolo V.

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in cui l’amministrazione si limita all’annullamento dell’atto, se illegittimo. Il ricorso giustiziale deve essere redatto per iscritto e deve contenere, oltre all’amministrazione destinataria e agli estremi del provvedimento impugnato, l’indicazione precisa dei motivi per cui lo si propone e per i quali si ritiene l’atto illegittimo o, quanto meno, pregiudizievole. L’interesse all’annullamento del provvedimento, come accade in sede giurisdizionale, deve essere personale, diretto e attuale, vale a dire deve fare capo al ricorrente stesso, avere stretta attinenza con l’atto impugnato e sussistere al momento del ricorso. L’interesse è presupposto di ammissibilità del ricorso e si affianca alla legittimazione processuale, quale possibilità di conseguire un effetto utile dalla decisione finale. La normativa di riferimento è contenuta nel D.P.R. n.1199/71. Il procedimento si svolge nel contraddittorio delle parti; invero, il ricorso deve essere portato a conoscenza dei controinteressati, con onere di notifica a carico del privato ovvero dell’amministrazione513. Si svolge una vera e propria istruttoria, condotta dall’amministrazione adita, la quale ha l’obbligo di concludere l’attività entro un termine prefissato dalla legge, che varia a seconda del tipo di ricorso. Normalmente il ricorso viene deciso con un decreto, avente natura amministrativa, che può essere di rito ovvero di merito. Nel primo caso, la questione viene risolta tramite definizione di una questione pregiudiziale; l’amministrazione può dunque dichiarare l’irricevibilità, l’inammissibilità ovvero l’improcedibilità o la nullità del ricorso514. Nel caso di pronuncia di merito, il decreto contiene il giudizio sulla fondatezza o infondatezza della pretesa, traducendosi nell’ac513. Per dottrina maggioritaria, il concetto di controinteressato deve intendersi in senso formale e sostanziale. A riguardo, si veda Capitolo V. 514. Ad esempio, rispettivamente, se non è stato rispettato il contraddittorio, ovvero se manca la legittimazione al ricorso o se il privato non rispetta i termini della procedura.

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coglimento ovvero nel rigetto dell’istanza. La decisione permette alle parti che ne abbiano interesse di ricorrere eventualmente agli altri mezzi di impugnazione ammessi; inoltre, l’accoglimento del ricorso impedisce all’amministrazione di adottare un provvedimento analogo a quello annullato o riformato, ma non esaurisce il potere di provvedere diversamente. La decisione ha effetti solo nei confronti delle parti, salvo che sia stato annullato un regolamento e salvo che l’atto annullato fosse destinato ad ulteriori e diversi soggetti. 13.2.1 Il ricorso gerarchico Si distingue tra ricorso gerarchico proprio e ricorso gerarchico improprio. Il ricorso gerarchico proprio è un rimedio rinnovatorio, ordinario, esperibile indipendentemente da una previsione espressa di legge. Esso si esercita dunque avverso un atto non definitivo, per la tutela sia di interessi legittimi che di diritti soggettivi. Mediante tale ricorso è possibile far valere sia vizi di merito che vizi di legittimità. L’esperibilità del ricorso proprio presuppone la sussistenza di un rapporto di gerarchia esterna in senso tecnico, vale a dire di vera e propria subordinazione, tra l’organo che ha emanato l’atto e l’organo che viene adito515. La giurisprudenza ha negato la sussistenza del rapporto di gerarchia tra delegante e delegato, affermando che il soggetto che delega conserva il potere di esaminare gli atti del delegato, affidando solo l’esercizio del potere ma non la sua titolarità. In quest’ipotesi, dunque, il ricorso proprio sarebbe inammissibile. In generale, comunque, si assiste ad un sempre minore utilizzo di questo strumento, dovuto specialmente al mutamento del rapporto tra ministri e dirigenti. 515. Sul concetto di organo, si veda Capitolo III.

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Invero, se prima si trattava di un rapporto gerarchico, oggi è più corretto parlare di rapporto di direzione, per cui, in relazione a molti atti, è venuto meno il presupposto per l’utilizzo del ricorso de quo. Il ricorso gerarchico improprio è anch’esso un rimedio ordinario, ma è tipico, ossia utilizzabile solo nei casi espressamente previsti ex lege, in cui non vi è alcun rapporto di gerarchia (da qui, l’utilizzo dell’aggettivo improprio). Ad esempio, tale strumento può essere utilizzato avverso i provvedimenti adottati da organi individuali, oppure avverso delibere adottate da organi collegiali, rivolgendosi ad altri organi collegiali. Il ricorso può essere presentato anche senza l’assistenza di un legale e non comporta l’automatica sospensione degli effetti del provvedimento impugnato. L’amministrazione adita ha l’obbligo di decidere il ricorso entro novanta giorni; in caso di mancata pronuncia, non si configura un’ipotesi di silenzio significativo. Il privato, dunque, potrà successivamente portare il medesimo atto dinanzi all’autorità giudiziaria516. La decisione sul ricorso gerarchico, sia proprio che improprio, può essere impugnata dal ricorrente o da altri interessati, ma non dall’amministrazione che ha adottato il provvedimento impugnato. Precisamente, è proprio il provvedimento finale della procedura amministrativa che deve essere impugnato e non l’atto contestato ab origine. La giurisprudenza tradizionale ritiene inoltre che in sede giurisdizionale non possano farsi valere vizi diversi da quelli contestati in sede giustiziale, altrimenti si avrebbe un aggiramento dei termini decadenziali di impugnazione del provvedimento originario.

516. Pertanto, il termine di novanta giorni ha carattere esclusivamente processuale. Maturato tale termine, inizia a decorrere quello per provvedere, che può portare alla configurazione di un silenzio significativo e, dunque, impugnabile. Sull’istituto del silenzio, si veda Capitolo V.

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13.2.2 Il ricorso in opposizione Il ricorso in opposizione è un ricorso amministrativo rinnovatore, poiché è rivolto alla stessa Autorità che ha emanato l’atto che si impugna. È esperibile solo nei casi espressamente stabiliti dalla legge; ciò in quanto, in generale, l’amministrazione che emana l’atto contestato non sarebbe la più idonea a giudicare la propria precedente attività. Come il ricorso gerarchico proprio, con il ricorso in opposizione è possibile far valere anche sia vizi di merito che vizi di legittimità, sia con riferimento a situazioni di interesse legittimo che a posizioni di diritto soggettivo. Tale ricorso è proponibile nel termine di trenta giorni o nel diverso termine stabilito di volta in volta dalla legge. Dal ricorso in opposizione deve tenersi distinto il reclamo, che consiste in un semplice esposto all’amministrazione, la quale non è tenuta a provvedere. 13.2.3 Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica Si tratta di un ricorso amministrativo generale, ossia esperibile se non espressamente escluso dalla legge. Oggetto di tale ricorso sono i provvedimenti già divenuti definitivi; è definito infatti, ricorso straordinario. Ha carattere eliminatorio ed è ammesso solo per motivi di legittimità, in relazione a posizioni sia di diritto soggettivo che di interesse legittimo. Precisamente, sull’ambito di operatività dello strumento in esame, particolare incidenza ha avuto l’approvazione del d. lgs n.104/10. L’art.7, comma 8, c.p.a. stabilisce invero che il ricorso straordinario è limitato alle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa. Pertanto, esso non è utilizzabile per le questioni inerenti diritti soggettivi, che siano sottratte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

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Per espressa previsione normativa, il ricorso de quo è escluso in materia elettorale, in relazione alle procedure di affidamento di appalti pubblici e, in generale, in tutti i casi in cui sia stabilita la competenza di giudici speciali, come in materia pensionistica e nei casi di danno erariale, spettanti alla Corte dei Conti517. I vantaggi di questo strumento consistono nella rapidità del giudizio, nella pressoché mancanza di spese e nella mancanza di obbligatorietà della difesa tecnica, per cui il privato può direttamente rivolgersi al Capo dello Stato. Una questione che ha occupato dottrina e giurisprudenza è stata quella relativa alla natura giuridica della decisione del Presidente della Repubblica sul ricorso straordinario e la conseguente esecuzione dello stesso. Il Capo dello Stato si pronuncia mediante decreto. Per una prima tesi, tale provvedimento avrebbe natura amministrativa, considerata la natura dell’organo decidente e la forma di provvedimento amministrativo data al decreto stesso. La tesi più recente e oggi prevalente sostiene invece la natura giurisdizionale di tale decreto, facendo leva principalmente sulla garanzia del contraddittorio assicurata al privato e sul carattere alternativo di tale strumento rispetto al ricorso giurisdizionale518. Lo stesso Legislatore pare aver aderito a questa impostazione. Invero, con la Legge n.69/09, è stato reso vincolante il parere del Consiglio di Stato nell’ambito del procedimento e, inoltre, è stata attribuita al Consiglio di Stato, la legittimazione a sollevare le questioni di legittimità costituzionale. Il quadro è stato completato dalla giurisprudenza amministrativa che, a definizione di un acceso dibattito, ha riconosciuto l’operatività del giudizio di ottemperanza in riferimento al decreto in esame. Precisamente, sostenendosi in passato la natura amministrativa della decisione del capo dello Stato, non si riteneva ammissibile il giudizio di ottemperanza. 517. Sulla responsabilità erariale si veda Capitolo X. 518. Sull’alternatività, si veda nel prosieguo del presente paragrafo.

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Tutt’al più, il privato poteva impugnare i provvedimenti dell’amministrazione violativi della decisione in sede di ricorso straordinario, ovvero il suo silenzio-rifiuto. Con la riconosciuta giurisdizionalizzazione del decreto del Presidente, la situazione è profondamente cambiata, permettendosi così l’accesso alla tutela in sede di ottemperanza. In particolare, in assenza di una previsione esplicita, il Consiglio di stato ha riconosciuto che il decreto de quo è riconducibile ai provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lettera b) dell’art.112, comma 2, c.p.a.519. Altro aspetto di notevole importanza attiene al rapporto tra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale. I due rimedi si pongono in termini di alternatività, per evitare che sullo stesso atto intervengano pronunce diverse ed evitare che il Consiglio di Stato si pronunci due volte, l’una mediante sentenza e l’altra mediante parere. Dall’alternatività discende dunque che se l’atto è già stato impugnato dinanzi al giudice, il ricorso amministrativo è inammissibile; se, al contrario, è già stato fatto oggetto di ricorso straordinario, non può più essere impugnato in sede giurisdizionale. Ciò comporta che in sede amministrativa deve potersi ottenere la medesima tutela che si otterrebbe intraprendendo la via giurisdizionale. In particolare, la giurisprudenza amministrativa, sulla scorta della giurisprudenza comunitaria, riconosce la facoltà di domandare il risarcimento del danno anche in sede giustiziale. La giurisprudenza ha ritenuto opportuno specificare la portata di tale alternatività, precisando che l’inammissibilità del ricorso straordinario, proposto successivamente a quello giurisdizionale, sussiste solo se viene formulata la medesima domanda in entrambe le sedi, con impugnazione dunque dello stesso atto. Pertanto, sarebbe ammissibile l’impugnazione di un atto presup519. Pende ad oggi un’ordinanza di rimessione al Consiglio di Stato per chiarire se l’ottemperanza sia esperibile anche con riferimento ai decreti emessi prima della novella attuata con la Legge n.69/09.

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posto in una sede e del rispettivo atto consequenziale, nell’altra sede. La legge prevede tuttavia la facoltà di trasporre il ricorso straordinario in sede giurisdizionale, a tutela del ricorrente e dei controinteressati intimati, date le maggiori garanzie apprestate dal procedimento innanzi all’autorità giudiziaria520. La giurisdizione amministrativa garantisce infatti il doppio grado di giudizio; tuttavia, qualora una delle parti interessate proponga opposizione alla trasposizione, la controversia prosegue in sede straordinaria.

520. Cfr. art.48 c.p.a.; i controinteressati possono chiedere la trasposizione mediante opposizione. Tale facoltà non è invece riconosciuta al cointeressato, il quale deve attenersi alle scelte effettuate dal ricorrente.

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PARTE II Sommario: 13.3 La tutela giurisdizionale. - 13.4 I nuovi poteri del giudice amministrativo. La tutela dei diritti soggettivi e il superamento della pregiudiziale amministrativa. – 13.5 Il sistema di azioni. Il passaggio da un processo sull’atto a un processo sul rapporto. – 13.6 Il processo amministrativo. – 13.7 La tutela cautelare. – 13.8 Le impugnazioni e il giudizio di ottemperanza. – 13.9 La giurisdizione ordinaria.

13.3 La tutela giurisdizionale Prima di addentrarsi nel procedimento amministrativo vero e proprio, è opportuno delineare i confini e gli ambiti di operatività della giurisdizione amministrativa, altresì rispetto alla giurisdizione ordinaria. Innanzitutto, è opportuno sinteticamente richiamare quanto è stato esposto al capitolo II, analizzando la differenza tra posizioni di diritto soggettivo e posizioni di interesse legittimo. In passato, era proprio la dicotomia tra queste posizioni che delineava il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario. Oggi, il criterio seguito è diversamente quello che distingue tra carenza di potere in astratto e cattivo uso del potere. Solo laddove vi sia un difetto assoluto di attribuzione, si giustifica l’intervento della giurisdizione ordinaria521. Ciò posto, all’interno della giurisdizione amministrativa, emerge la tripartizione tra giurisdizione generale di legittimità, giurisdizione esclusiva e giurisdizione di merito. Queste categorie differenziano i poteri del giudice amministrativo a seconda del tipo di controversia che deve essere decisa. Più precisamente, la giurisdizione generale di legittimità opera in relazione alle controversie che riguardano atti, provvedimenti e omissioni delle amministrazioni. In tale giurisdizione, il giudice è competente a conoscere anche 521. Cfr. Capitolo II.

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delle domande risarcitorie per lesione di interessi legittimi e delle richieste di diritti patrimoniali consequenziali, in ossequio al principio di effettività della tutela che, come verrà approfondito, ha ispirato tutta la riforma del processo amministrativo. Tale giurisdizione è definita generale, in quanto il giudice amministrativo è tradizionalmente considerato il giudice naturale della legittimità dell’esercizio del pubblico potere. In tale ambito, il giudice esercita un sindacato pieno sul fatto, altresì grazie ai maggiori poteri officiosi che gli sono stati attribuiti dal codice522. Il giudice compie dunque un sindacato sull’atto relativamente ai tre vizi tipici di illegittimità, accordando una tutela tipicamente demolitoria, cui si affianca quella risarcitoria. Resta escluso un intervento riformatore che porti all’adozione di un atto diverso da quello impugnato. La giurisdizione esclusiva nasce nel 1923, con la legge istitutiva dell’ordinamento del Consiglio di Stato, per far fronte a quelle situazioni in cui il potere pubblico e i diritti del privato sono fortemente connessi. Infatti, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo conosce in via principale, anche ai fini risarcitori, non solo di questioni inerenti posizioni di interesse legittimo, ma anche di diritto soggettivo. Tali poteri sono limitati alle materie espressamente elencate dalla legge all’art.133 c.p.a., il quale contiene un elenco tassativo, ancorché non esaustivo523. Tale norma deve essere letta in combinato disposto con l’art.8

522. Si veda nel prosieguo il rinvio esterno contenuto all’art.39 c.p.a.. 523. È possibile invero individuare ulteriori e nuove ipotesi di giurisdizione esclusiva, purché si tratti di particolari materie, in cui l’attività sia riconducibile almeno in via mediata all’esercizio del potere amministrativo. Pertanto, deve trattarsi di materie che comunque ricadrebbero nella giurisdizione generale di legittimità, ma che, tuttavia, data la loro particolarità, possono giustificare e richiedere l’operatività della giurisdizione esclusiva. Sul tema, cfr. C. Cost. n.204/04 e c. Cost. n.191/06.

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c.p.a., che individua le materie devolute al giudice ordinario524. All’interno della giurisdizione esclusiva, la distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi rileva solo ai fini dell’individuazione delle tecniche di tutela e del regime processuale da osservare. Ad esempio, mentre per la tutela di accertamento dei diritti soggettivi, deve considerarsi il termine prescrizionale decennale, in relazione agli interessi legittimi, opera il termine decadenziale di sessanta giorni per instaurare il giudizio di legittimità. Nell’ambito della giurisdizione di merito, infine, il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione. Anche in questo caso opera il principio di tassatività, per cui la legge individua le materie in cui opera tale giurisdizione525, la quale si caratterizza non per un diverso criterio di qualificazione delle posizioni giuridiche azionate, ma per l’attribuzione al giudice di maggiori poteri. Invero, nell’ambito della giurisdizione di merito, il giudice non può solamente annullare il provvedimento, ma anche riformarlo o modificarlo ovvero adottarne uno nuovo, in sostituzione. L’art.134 c.p.a. deve invero leggersi in combinato disposto con il precedente articolo 34, che disciplina le sentenze di merito526. In realtà con la riforma del processo amministrativo e i nuovi poteri riconosciuti al giudice amministrativo, già nell’ambito della giurisdizione di legittimità, taluni sostengono che, di fatto, quest’ultima arrivi a coincidere con la giurisdizione di merito, assorbendola. Si pensi, ad esempio, al potere del giudice, nell’ambito degli appalti, di non dichiarare l’inefficacia del contratto, a seguito di valutazioni di opportunità, che lambiscono il merito amministrativo. 524. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16957 del 27 giu-

gno 2018, hanno escluso la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla trascrivibilità in Italia di un matrimonio contratto all’estero da persone dello stesso sesso, in quanto la controversia investe lo status delle persone e, pertanto, essa è devoluta alla giurisdizione ordinaria.

525. Cfr. art.134 c.p.a.. 526. Per l’analisi della norma, si vedano i paragrafi successivi.

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13.4 I nuovi poteri del giudice amministrativo. La tutela dei diritti soggettivi e il superamento della pregiudiziale amministrativa Come accennato in più momenti, la riforma del processo amministrativo, attuata mediante l’approvazione del d. lgs n.104/10 e i successivi correttivi, ha comportato l’attribuzione al giudice amministrativo di maggiori poteri e facoltà. In ossequio al principio di effettività della tutela, il giudice amministrativo è stato progressivamente avvicinato al giudice ordinario, in termini di poteri officiosi e di mezzi di prova utilizzabili nell’istruttoria processuale. In particolare, è attribuito al giudice amministrativo il potere di condannare al risarcimento del danno, anche in forma specifica; inoltre, hanno trovato ingresso nel processo amministrativo, tutti gli strumenti probatori tipici del processo civile, con la sola esclusione dell’interrogatorio formale e del giuramento. Oltre a ciò, è stato generalizzato l’istituto della consulenza tecnica e, come verrà evidenziato nel prosieguo, è stata potenziata la tutela cautelare. Il codice del processo amministrativo contiene infine un rinvio esterno al codice di procedura civile, per quanto non espressamente disciplinato e derogato, in relazione alle disposizioni compatibili con il rito amministrativo. Si è pertanto realizzata un’equiparazione tra la tutela offerta dal giudice ordinario e la tutela apprestata dal giudice amministrativo. In particolare, ciò può evincersi dall’analisi di alcuni istituti. In primis, la previsione contenuta nell’art.8 c.p.a., il quale stabilisce che il giudice amministrativo può conoscere incidentalmente delle questioni pregiudiziali e incidentali relative a posizioni di diritto soggettivo, la cui risoluzione sia necessaria per decidere la questione principale. Invero, è stata del tutto superata la tesi dei cosiddetti diritti inaffievolibili, vale a dire dell’esistenza di diritti posti a tutela della sfera più intima di un soggetto, che il potere pubblicistico non sarebbe in grado di incidere.

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In relazione a questi diritti, sarebbe pertanto del tutto preclusa la giurisdizione amministrativa. In realtà, tale visione si è completamente ribaltata, riconoscendo la capacità del potere autoritativo di esplicare i propri effetti anche a fronte di detti diritti. Pertanto, per delimitare la giurisdizione amministrativa non deve farsi riferimento alla natura della posizione azionata, bensì occorre valutare se sussiste o meno una norma attributiva del potere che affidi all’amministrazione il contemperamento di determinate posizioni soggettive. Anche la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione sono intervenute, affermando che nessuna norma affida in via esclusiva la tutela di diritti soggettivi costituzionalmente protetti, come ad esempio la salute, al giudice ordinario. In altre parole, l’orientamento tradizionale secondo cui solo il giudice ordinario può conoscere dei diritti soggettivi, oggi è valido unicamente qualora vengano in rilievo comportamenti meramente materiali dell’amministrazione. Inoltre, altro istituto che testimonia il perseguimento di una tutela piena ed effettiva è la pregiudiziale amministrativa o, meglio, il superamento della stessa. Tradizionalmente, la condanna dell’amministrazione al risarcimento veniva subordinata al previo annullamento dell’atto illegittimo. Pertanto, prima dell’approvazione del codice del processo, la giurisprudenza maggioritaria riteneva che la tutela risarcitoria avesse una funzione esclusivamente sussidiaria rispetto alla tutela caducatoria e che il giudice amministrativo potesse conoscere della legittimità del provvedimento solo ai fini della sua eliminazione e, dunque, in via principale. Un orientamento più recente, invece, ha evidenziato il rilevo sostanziale della pregiudiziale e non meramente processuale. Precisamente, è stata riconosciuta la possibilità di esperire l’azione risarcitoria anche in via autonoma, vale a dire, a prescindere dal previo esperimento della domanda di annullamento.

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Tuttavia, la mancata azione avverso l’illegittimità del provvedimento può essere valutata dal giudice ai fini dell’art.1227 c.c., ossia quale comportamento processuale della parte che non si è avvalsa dello strumento caducatorio, concorrendo in tal modo nella produzione del danno, ovvero non evitando quella parte dei danni che invece l’azione di annullamento avrebbe scongiurato. Si afferma dunque il principio della cosiddetta autonomia temperata dell’azione risarcitoria, per cui la mancata proposizione dell’azione caducatoria contribuisce a delineare la complessiva condotta del ricorrente e la sua eventuale corresponsabilità. L’orientamento è stato recepito dal codice del processo, il quale dunque ha posto fine all’obbligo per il ricorrente di formulare entrambe le azioni, con l’aggravio, in certi casi, di adire due giudici diversi527. La Suprema Corte ha avuto occasione di affermare, infatti, che il giudice che rigetti un’istanza risarcitoria, deducendo l’omessa preventiva azione di annullamento, integra un vero e proprio illegittimo diniego di giurisdizione. 13.5 Il sistema di azioni. Il passaggio da un processo sull’atto ad un processo sul rapporto Il processo amministrativo si è trasformato da processo sull’atto a processo sul rapporto. Invero, il superamento della presunzione di legittimità dell’azione amministrativa, oltre ad altre conseguenze, ha avuto l’effetto di modificare anche l’oggetto della tutela in sede giurisdizionale. In particolare, ciò che viene valutato non è più la sola legittimità o illegittimità del provvedimento impugnato, ma anche il rapporto sottostante tra amministrazione e privato. Questo mutamento di prospettiva ha evidenziato da subito l’inadeguatezza di un sistema giudiziale esclusivamente caducatorio, dove l’annullamento del provvedimento illegittimo è la sola tutela ottenibile. L’annullamento può infatti essere astrattamente sufficiente 527. Cfr. art.7 c.p.a..

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tutt’al più con riferimento ai soli interessi oppositivi. Tuttavia, in concreto, nemmeno questo è sempre vero. Volendosi indagare e, quindi, tutelare la posizione sostanziale azionata dal privato, la caducazione del provvedimento non integra una tutela piena, né tantomeno effettiva. Corollari di un sistema esclusivamente impugnatorio erano, fra gli altri, l’assenza di azioni di mero accertamento o di condanna; la mancata possibilità per l’amministrazione di integrare in via successiva la motivazione; la previsione di una tutela cautelare in termini di sola sospensione. Per questo, il sistema di azioni esperibili innanzi al giudice amministrativo è profondamente mutato e si è diversificato. Si tratta oggi di un sistema, appunto, per cui le azioni esperibili sono plurime e mirano ad ottenere tutele diverse e ulteriori rispetto al solo e semplice annullamento. Invero, la soddisfazione del privato non passa necessariamente attraverso la caducazione dell’atto. Senza dubbio, al cambiamento hanno contribuito anche il superamento della pregiudiziale amministrativa, la volontà di concentrare le tutele dinanzi ad un unico giudice e la tendenza ad equiparare le posizioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo in termini di tutela. In primo luogo, comunque, l’effettività della tutela passa attraverso l’atipicità delle azioni esperibili. Gli artt.29-32 c.p.a. disciplinano le azioni di cognizione, ossia le azioni di accertamento, le azioni costitutive e le azioni di condanna. L’azione di annullamento è disciplinata dall’art.29 c.p.a.; è azione costitutiva, esperibile nelle ipotesi di illegittimità del provvedimento per violazione di legge, incompetenza e eccesso di potere. Si propone nel termine decadenziale di sessanta giorni, il cui dies a quo è individuabile dalla lettura della norma in combinato disposto con l’art.41 c.p.a., che fa riferimento alla notificazione, pubblicazione ovvero piena conoscenza dell’atto amministrativo. L’impugnazione richiede l’interesse ad agire, da intendersi nel

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senso di cui all’art.100 c.p.c.528, nonché la legittimazione ad agire, quale titolarità della posizione azionata. L’azione di annullamento offre più adeguata tutela gli interessi oppositivi. Per quanto riguarda gli interessi pretensivi, a tale azione deve essere affiancata la richiesta di condanna ex art.34, comma 1, lett. c), c.p.a., per cui il giudice può condannare l’amministrazione ad un adempimento specifico529. La pronuncia di annullamento opera ex tunc e, considerando che il provvedimento annullabile produce i propri effetti sino all’annullamento, il privato può chiederne medio tempore la sospensione in via cautelare. L’annullamento di un provvedimento non ha effetti solo caducatori dell’atto, ma spiega anche effetti conformativi, in quanto l’amministrazione è tenuta a non reiterare il medesimo provvedimento530. Già in sede di cognizione è peraltro possibile anticipare l’esecuzione del provvedimento, adottando misure idonee a tal fine, compresa la nomina di un commissario ad acta. Recentemente, la giurisprudenza ha peraltro riconosciuto la facoltà del giudice amministrativo di modulare gli effetti della propria sentenza, al fine di realizzare la migliore tutela del privato. Si è dunque aperta la possibilità di pronunciare, ad esempio, sentenze di annullamento parziale; resta fermo il divieto per il giudice di modulare la forma di tutela, sostituendo quella richiesta con altra ritenuta più opportuna531. Il successivo articolo 30 disciplina l’azione di risarcimento, la quale costituisce senza dubbio a testimoniare in modo più incisivo 528. Interesse quale attualità e concretezza della lesione lamentata e utilità derivante dalla pronuncia finale, consistente in un vantaggio anche non patrimoniale. 529. L’art.34 c.p.a. è applicazione specifica dell’azione di condanna generica prevista al precedente articolo 30, comma 1, c.p.a.. 530. In particolare, la motivazione dell’annullamento stabilisce le regole a cui l’amministrazione deve attenersi per non incorrere in violazione o elusione di giudicato. 531. Violerebbe il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato il giudice che, a fronte di un’istanza di annullamento, accordi il risarcimento sulla base di valutazioni di opportunità. Cfr. Ad. Plen. n.4/15.

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la trasformazione qualitativa del processo amministrativo. Precisamente, il suddetto articolo è dedicato all’azione di condanna in generale, ancorché pare essere incentrato sulla richiesta risarcitoria. Non può invero negarsi che quella al risarcimento, è la forma di condanna più frequente. La norma deve essere coordinata con le previsioni contenute nell’art.34 c.p.a., relativo alle pronunce di merito e nell’art.7 c.p.a., che permette la proposizione della domanda risarcitoria in via autonoma. Pertanto, l’istanza risarcitoria può essere presentata in vari modi e momenti: cumulativamente alla domanda di risarcimento; in via autonoma, entro centoventi giorni, decorrenti dalla effettiva conoscenza della lesività del provvedimento; entro centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento; infine, in pendenza del giudizio caducatorio, mediante motivi aggiunti532. Nella determinazione del quantum risarcitorio, deve considerarsi l’eventuale responsabilità del privato, come si evince dal richiamo implicito all’art.1227 c.c. nei termini sopra esposti. La legge prevede altresì la possibilità del risarcimento in forma specifica, alle condizioni e nei termini di cui al richiamato art.2058 c.c.. Un aspetto rilevante ha riguardato i rapporti dell’azione risarcitoria con il giudizio di ottemperanza. La questione è stata definita con il secondo correttivo al codice del processo, che ha modificato l’art.112 c.p.a., stabilendo che la domanda risarcitoria è esperibile per la prima volta anche in sede di ottemperanza, ma solo per i danni connessi alla mancata esecuzione, o alla elusione o violazione del giudicato. Sui rapporti tra domanda di annullamento e domanda risarcitoria, si rimanda a quanto esposto in precedenza relativamente alla pregiudiziale amministrativa. L’art.31, comma 4, c.p.a. disciplina l’azione di nullità; la nor532. Dubbi desta ancora oggi la previsione del termine decadenziale di centoventi giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento; tale termine sarebbe in questo caso irragionevole rispetto al resto del sistema, perché di fatto elude i termini ordinari.

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ma deve essere coordinata con l’art.21 septies della Legge n.241/90, che sancisce i casi di nullità del provvedimento533. A fronte di un provvedimento nullo si riconosce l’interesse ad agire in quanto, il deficit di imperatività dell’atto non ne impedisce l’esecuzione. Pertanto, all’atto nullo possono seguire atti attuativi che ingenerano un legittimo affidamento in capo ai privati in ordine alla sua validità. La legge stabilisce un termine di decadenza di centottanta giorni, pena il consolidamento dell’atto stesso. È possibile medio tempore ottenere una tutela cautelare e la nullità del provvedimento può anche essere fatta valere mediante motivi aggiunti. Si tratta di un’azione di accertamento, esperibile dinanzi al giudice amministrativo, nell’ambio della giurisdizione esclusiva, per i casi di elusione o violazione del giudicato. Nelle altre ipotesi, la giurisdizione verrà individuata in base all’ordinario criterio di riparto. Di fronte al nuovo sistema di azioni, si discute se il codice del processo abbia introdotto un azione atipica di condanna. La tesi ormai prevalente da risposta affermativa al quesito, richiamando a sostegno una serie di disposizioni. Innanzitutto, l’art.34, comma i, lett. c), c.p.a., per cui il giudice può condannare l’amministrazione ad adottare tutte le misure idonee a tutelare la posizione giuridica del privato, che si affianca all’art.31, comma 3, c.p.a. relativa all’azione avverso il silenzio, dove il giudice ordina all’amministrazione di provvedere. Inoltre, lo stesso articolo 30, ancorché come detto pare concentrarsi sull’azione di risarcimento, disciplina in realtà l’azione di condanna in generale. Si pensi infine alle disposizioni relative alla materia degli appalti: l’art.124 c.p.a. prevede un’azione tipica di adempimento, in forza della quale l’amministrazione viene condannata a procedere all’aggiudicazione della gara e alla stipulazione del contratto534. 533. Sulla patologia del provvedimento amministrativo, si veda Capitolo V. 534. Precisamente, tale condanna viene fatta rientrare nell’art.34, comma 1, lett. c), c.p.a..

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13.6 Il processo amministrativo Il processo amministrativo è l’iter logico mediante il quale si giunge alla risoluzione delle controversie. Come detto, nel tempo il processo amministrativo si è evoluto. Il mutamento può sintetizzarsi nell’espressione del passaggio da un processo sull’atto ad un processo sul rapporto, con un progressivo avvicinamento dello strumento amministrativo al rito civilistico. I principi che governano il processo amministrativo sono vari. In primo luogo, il principio di effettività della tutela, già richiamato all’art.1 c.p.a., attuato mediante la concentrazione degli strumenti di tutela dinanzi al giudice amministrativo. Altri principi sono quelli legati al giusto processo ex art.111 Cost., vale a dire la parità tra le parti, il contraddittorio e la ragionevole durata. E’ possibile ritenere connessi al principio di ragionevole durata, tutti gli interventi normativi che, a partire dal 2014, hanno avviato la cosiddetta informatizzazione del processo amministrativo535. A far data dal 1° gennaio 2017, è stato ufficialmente introdotto il processo amministrativo telematico (PAT), per cui tutti i procedimenti iscritti a ruolo devono essere obbligatoriamente depositati in modalità telematica; gli atti devono essere redatti e depositati in forma di documenti informatici digitali e firmati digitalmente dal professionista, al quale è attribuito altresì il potere di attestazione della conformità degli atti e dei documenti contenuti nel fascicolo informatico536. Ai principi suesposti si aggiunge il dovere di motivazione e di sinteticità degli atti, che nel tempo ha svolto un ruolo sempre più pregnante. La sintesi è diventata una vera e propria regola formale, la cui violazione può avere ripercussioni in termini di spese. 535. Il riferimento è alla Legge 11 agosto 2014, n.114, nonché alla Legge 12 agosto 2016, n.161 e alla Legge 25 ottobre 2016, n.197. 536. Tali disposizioni mutuano quasi integralmente la normativa in materia di processo civile telematico. Una differenza sostanziale riguarda l’obbligo del deposito telematico che, nell’ambito del rito civile, è escluso per gli atti introduttivi, oltre ad essere previsto solo in capo ai difensori e non alle altre parti del processo.

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Il processo amministrativo ha poi mutuato dal processo civile il principio della domanda, il principio dispositivo, il principio di oralità, di non contestazione e il principio del libero convincimento del giudice. Ciò significa che le prove devono essere portate in giudizio dalle parti e che il giudice può valutarle secondo il suo libero apprezzamento, ma sempre motivando puntualmente le proprie decisioni e tenendo conto del comportamento processuale delle parti. I soggetti del processo amministrativo si individuano in ricorrente, resistente, controinteressati, cointeressati, intervenienti e giudice. Il ricorrente è colui che ha l’interesse all’azione e che, dunque, avvia il processo. È titolare di una posizione giuridica qualificata, che gli attribuisce la legittimazione ad agire, nonché è colui che può ottenere dalla decisione finale un’utilità, spettandogli dunque la legittimazione processuale. Il cosiddetto interesse al ricorso nasce dalla lesione attuale e concreta che il soggetto subisce; non sempre è facile riconoscere tale interesse, poiché non sempre è facile individuare il provvedimento amministrativo effettivamente lesivo da poter impugnare. Il resistente è l’amministrazione autrice dell’atto lesivo; se si tratta di, n. atto collegiale, resistenti sono tutte le amministrazioni che hanno partecipato alla sua adozione (e non solo alle fasi prodromiche). Il controinteressato è colui che ha un interesse uguale e contrario a quello del ricorrente e, tipicamente, lo si individua dal provvedimento impugnato. Il cointeressato è colui che ha un interesse analogo al ricorrente e che presenta ricorso autonomo, potendo chiedere la riunione del procedimenti. Soggetti eventuali sono gli intervenienti che possono costituirsi in un processo già instaurato, o per volontà propria, o per chiamata di una delle parti o per richiesta del giudice537. Il giudice avente giurisdizione e competenza si individua al mo537. Analogia con quanto disposto dagli artt.105 e ss. c.p.c..

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mento della proposizione della domanda. In particolare, il difetto di giurisdizione può essere sollevato solo in prima grado, eccetto nel caso di domanda cautelare, per cui il provvedimento può essere validamente adottato solo dal giudice avente giurisdizione. Il processo viene avviato tramite la notifica del ricorso, il quale deve contenere l’indicazione dei motivi specifici per cui l’azione viene proposta538. Il petitum iniziale può essere ampliato con i cosiddetti motivi aggiunti; si tratta di un istituto previsto dall’art.43 c.p.a. che permette di sollevare nuovi motivi che comunque sono connessi con quelli già proposti, concentrando la tutela nello stesso processo. Più precisamente, i motivi aggiunti permettono al ricorrente di evitare un ricorso al buio, per cui, dovendo instaurare il processo nei termini, può far valere in un secondo momento i motivi di cui è venuto a conoscenza solo successivamente. Si è peraltro discusso sull’ordine di valutazione dei motivi. La giurisprudenza ormai è assestata nel ritenere che il giudice non sia vincolato alla gerarchia data dal ricorrente, ma debba seguire la logica di trattazione; l’importante è che tutti i motivi siano valutati, restando l’assorbimento degli stessi un’eccezione per non frustrare la tutela del privato. L’art.42 c.p.a. disciplina il ricorso incidentale, ossia il ricorso proposta dal controinteressato, il cui interesse sorge a seguito del ricorso principale539. Con tale strumento, il controinteressato mira sostanzialmente a mantenere l’assetto degli interessi, così come delineato dal provvedimento impugnato dal ricorrente. Sulla natura del ricorso incidentale, si sono sviluppate diverse tesi. Una prima teoria ne ha riconosciuto la natura riconvenzionale, per cui solo l’accoglimento del ricorso principale, legittimerebbe l’esame del ricorso incidentale. 538. La giurisprudenza ritiene tuttavia che il giudice possa valutare anche aspetti connessi, ancorché non espressamente indicati, pena una lettura restrittiva della norma, che rischia di tradursi in tutela ineffettiva. 539. Pertanto, il controinteressato è rimesso in termini, in quanto il suo interesse al ricorso matura successivamente.

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Secondo un’altra tesi si tratterebbe di un’eccezione volta a paralizzare l’azione principale. La teoria tuttavia maggioritaria è quella dell’accessorietà, per cui il ricorso incidentale è ontologicamente legato al ricorso principale e alla sorte di questo. Sull’ordine di esame dei due ricorsi, la giurisprudenza ha lungamente dibattuto. Sulla questione, è intervenuta anche la giurisprudenza europea, affermando la necessità che siano decisi entrambi i ricorsi, nel caso in cui vi siano due sole parti, in forza del principio di parità delle posizioni540. Diverso sarebbe nel caso di più parti, dove la logica richiede la previa valutazione del ricorso incidentale escludente, il cui accoglimento comprometterebbe la valutazione del ricorso principale541. Eventuale è la fase istruttoria, che viene svolta qualora le prove documentali portate dalle parti non siano sufficienti o, comunque, risultino incomplete. In tale fase opera il principio dispositivo ed il metodo acquisitivo, tipici del processo civile; il giudice ha ampi poteri istruttori e ha la facoltà di nominare consulenti tecnici – qualora sia indispensabile – e verificatori, al fine di formare il quadro probatorio necessario per adottare la decisione finale. Quest’ultima viene pronunciata tramite sentenza, che può essere di rito ovvero di merito. in ogni caso, il giudice non può mai pronunciarsi su poteri amministrativi non ancora esercitati, pena un’illegittima ingerenza nella discrezionalità amministrativa. La legge prevede inoltre la possibilità di adottare una sentenza in forma semplificata, ad esempio per dichiarare l’irricevibilità o l’infondatezza del ricorso. Manca una definizione di giudicato amministrativo; vengono dunque trasposti in ambito amministrativistico, i concetti contenuti nell’art.324 c.p.c. per quanto riguarda il giudicato formale e nell’art.2909 c.c. sul giudicato sostanziale. 540. Il ricorso incidentale perde la propria connotazione esclusivamente paralizzante del ricorso principale. 541. La problematica si è posta in particolare con riferimento alle controversie relative a procedimenti di gara pubblica, instaurate da soggetti esclusi.

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Pertanto, la sentenza del giudice amministrativo passa in giudicato quando sono decorsi i termini per proporre impugnazione ovvero sono già stati esperiti tutti i relativi mezzi. Inoltre, la sentenza ha effetti tra le parti che hanno partecipato al processo ovvero che sono state poste nelle condizioni di partecipare. I limiti del giudicato si distinguono in limiti oggettivi e soggettivi. I primi comportano che la caducazione del provvedimento impugnato non travolge gli effetti di provvedimenti differenti, salvo che si tratti di atti consequenziali. Restano non coperti dal giudicato i cosiddetti motivi assorbiti che non sono stati espressamente investiti dalla decisione, in quanto non sottoposti all’attenzione del giudice tramite il ricorso542. Il limite soggettivo dell’efficacia inter partes del giudicato trova un’eccezione nelle ipotesi di inscindibilità dell’efficacia dell’atto impugnato. Ad esempio, nelle ipotesi di caducazione di un regolamento, gli effetti della pronuncia ricadono erga omnes. Il giudicato può avere tre ordini di effetti. Gli effetti costitutivi, che si producono tipicamente a fronte di un pronuncia di annullamento che ricostituisce la situazione precedente, con efficacia ex tunc. Effetti preclusivi che comportano l’inammissibilità di un nuovo giudizio sulla medesima questione; effetti conformativi, che obbligano l’amministrazione a conformare la propria azione alla decisione giurisdizionale. In relazione agli effetti conformativi, specifico rilievo deve essere dato al giudizio di ottemperanza, che verrà analizzato successivamente. Merita infine attenzione l’istituto della translatio iudicii, il quale è stato espressamente previsto proprio con l’approvazione del nuovo codice del processo. Tale istituto opera quando interviene una sentenza che dichiara 542. Diverso è il concetto di giudicato implicito, che si forma su quelle questioni che, ancorché non esplicitate, costituiscono il presupposto logico della decisione espressa. Tipicamente, si tratta di questioni di rito, quale la giurisdizione. Tale giudicato è ammesso anche nel processo amministrativo e preclude la proposizione di una domanda sulla questione così decisa.

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il difetto di giurisdizione del giudice adito e permette la prosecuzione del processo dinanzi al giudice munito di giurisdizione, facendo salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda formulata ab origine. Fino a pochi anni fa, nel processo amministrativo non era prevista questa possibilità di prosecuzione, facendo leva sul principio della incomunicabilità tra giudici appartenenti a ordini giurisdizionali diversi. In altre parole si riteneva possibile la trasposizione solo nell’ambito della giurisdizione ordinaria e non tra questa a altra giurisdizione speciale. Il Legislatore ha recepito quanto stabilito dalle Sezioni Unite – e quanto di fatto doveva già considerarsi un principio immanente dell’ordinamento giuridico - che hanno affermato come la pluralità di giudici non possa tradursi in una tutela minore; anzi, deve comunque essere garantita una tutela effettiva. La Legge n.69/09 ha dunque sancito il principio della trasmigrabilità, anche fra giurisdizioni diverse, della domanda che, ai sensi dell’art.11 c.p.a., può oggi essere riproposta dinanzi al giudice munito di giurisdizione, conservando i propri effetti543. Per evitare l’abuso di tale strumento, è comunque previsto che restino ferme le decadenze maturate per errore inescusabile544. Per beneficiare dell’istituto, occorre riproporre la domanda nel termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che dichiara il difetto di giurisdizione e le parti sono vincolate al giudice individuato quale avente giurisdizione545.

543. La norma parla di riproposizione e non di riassunzione, evidenziando in tal modo la diversità di plesso giudiziario. 544. Il giudice può concedere la rimessioni in termini solo in caso di errore scusabile. Le prove eventualmente raccolte in precedenza rilevano quale argomenti di prova, tranne le prove precostituite e le prove legali che mantengono sempre la stessa efficacia. 545. Ciò significa che le parti non possono poi sollevare il difetto di giurisdizione nell’ambito del nuovo procedimento. Il giudice individuato può tuttavia dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, sempreché sul punto non sia intervenuto il giudicato implicito.

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13.7 La tutela cautelare Un approfondimento ad hoc merita lo strumento cautelare. La ratio della tutela cautelare è quella di prevenire il danno che potrebbe derivare all’interesse del ricorrente, a causa dell’eccessiva durata del processo, con il rischio che la sentenza sia inutiliter data. Pertanto, si evince immediatamente il carattere strumentale della tutela cautelare, in quanto si rende comunque indispensabile per il privato instaurare anche il giudizio di merito, al fine di ottenere una tutela definitiva546. La tutela cautelare ha subito una profonda innovazione, anche sulla scia del diritto unionale. Invero, al fine di offrire un’adeguata tutela sostanziale, occorre predisporre i necessari strumenti processuali. In particolare, si è passati dall’unico strumento cautelare della sospensiva ad un sistema governato dall’atipicità. La misura della sospensione tutelava invero i soli interessi oppositivi, lasciando di fatto privi di tutela gli interessi pretensivi. L’esigenza di colmare questo vuoto ha spinto dottrina e giurisprudenza a promuovere l’utilizzo dei cosiddetti remands, vale a dire ordinanze propulsive che mirano a sollecitare l’amministrazione ad esercitare il potere. Si tratta di una tecnica processuale, con cui i giudici promuovono il riesame di una situazione, orientando l’attività pubblicistica e favorendo il dialogo tra amministrazione e privato. In realtà, non sussistendo un vero e proprio obbligo per l’amministrazione di attivarsi, tale strumento non può dirsi sufficientemente efficace. È con la Legge n.205/05 che si supera il modello monistico della sospensiva e si introduce un sistema cautelare atipico. Ciò è in linea con il superamento del modello esclusivamente caducatorio del processo in favore di un vero e proprio sistema di azioni. Il codice del processo amministrativo esplicita quelli che sono i presupposti per ottenere un provvedimento cautelare; precisamen546. Sono previste comunque ipotesi di strumentalità attenuata, dove non è necessario instaurare il giudizio di merito; si tratta dei casi di bocciature scolastiche e delle fattispecie relative agli esami di abilitazione alla professione. INDICE

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te, il periculum in mora, ossia l’urgenza di provvedere in via cautelare appunto, pena il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile alla posizione soggettiva del privato. Inoltre, il fumus boni iuris, consistente nella verosimiglianza del diritto o dell’interesse fatto valere, quale probabilità di conseguire il bene della vita anelato. Data la necessità di intervenire in tempi rapidi, il procedimento cautelare si svolge in camera di consiglio ed è prevista il dimezzamento dei termini rispetto al rito ordinario. La trattazione avviene in forma orale e l’emanazione del provvedimento inaudita altera parte integra un’eccezione. La regola è infatti il contraddittorio anticipato547. Tra le diverse misure, si distingue tra quelle collegiali, le misure monocratiche e le misure concesse ante causam. Le misure cautelari collegiali sono disciplinate dall’art.55 c.p.a.; vengono concesse a fronte dell’allegazione, da parte del ricorrente, del pericolo di un pregiudizio grave ed irreparabile in pendenza di causa. Il procedimento si svolge in camera di consiglio; preliminarmente, il collegio verifica la propria competenza e, successivamente, sente le parti. Qualora ritenga sussistenti i necessari presupposti, il collegio concede la misura più idonea al caso di specie tramite ordinanza, con la quale può altresì disporre la condanna al pagamento di una somma provvisoria. Le misure cautelari monocratiche sono disciplinate dal successivo articolo 56 c.p.a. e vengono concesse in situazioni di così estrema gravità e urgenza, da non potersi attendere la camera di consiglio. La misura viene concessa tramite decreto e, solo in casi eccezionali, inaudita altera parte. In relazione a tali misure, si parla di doppia strumentalità. Infatti, la misura monocratica è efficace sino alla camera di consiglio, 547. Con tale espressione si intende che prima di adottare la decisione, il giudice sente le parti nell’udienza di comparizione.

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momento in cui il collegio è tenuto ad esprimersi anche sul cautelare. In mancanza di una pronuncia, la misura monocratica perde efficacia548. La misure cautelari concesse ante causam sono uno strumento introdotto nel nostro ordinamento, sulla spinta del diritto europeo549. È strumento previsto dall’art.61 c.p.a., avente portata generale e utilizzabile nelle ipotesi di particolare urgenza, ove non è possibile attendere l’instaurazione del contraddittorio. Tali misure sono indipendenti dal merito e perdono efficacia se il provvedimento che le adotta non è notificato al destinatario e, successivamente, depositato nei termini di legge; ovvero, decorsi sessanta giorni dalla sua emanazione550. Per quanto riguarda l’esecuzione delle misure cautelari, l’art.112 c.p.a. non se ne occupa espressamente. Pertanto, non è previsto il procedimento di ottemperanza vero e proprio; deve quindi prendersi a riferimento l’art.59 c.p.a., il quale dispone che, in caso di (parziale) inottemperanza della misura cautelare, il privato può chiedere al giudice di adottare provvedimenti attuativi e di nominare, se occorre, un commissario ad acta. Tuttavia, la norma nulla dispone con riferimento al rapporto tra l’azione volta ad ottenere l’esecuzione della misura cautelare e gli eventuali sopravvenuti provvedimenti violativi della misura. Il dubbio viene risolto dall’art.114, comma 4, lett. c), c.p.a., in forza dell’espressione ivi contenuta di “altri provvedimenti”, nella quale vengono fatte rientrare le misure cautelari, disponendo l’inefficacia degli atti violativi551.

548. Invero, solo la misura collegiale mantiene i propri effetti sino all’udienza di merito. 549. Per offrire tutela sostanziale occorre fornire gli adeguati strumenti processuali. 550. Restano efficaci solo le misure cautelari che vengono confermate nel giudizio di merito. 551. La giurisprudenza tende tuttavia a parlare di nullità, analogamente alle ipotesi di provvedimenti adottati in violazione o elusione del giudicato.

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13.8 Le impugnazioni e il giudizio di ottemperanza Le impugnazioni sono i mezzi con cui si fanno valere i vizi delle pronunce giurisdizionali. I termini previsti sono gli stessi per tutti i mezzi di doglianza e si distingue tra il termine breve, pari a sessanta giorni, decorrenti dalla notifica del provvedimento e il termine lungo, pari a sei mesi, decorrenti dalla sua pubblicazione. Parti del giudizio di impugnazione sono tipicamente le stesse parti che hanno partecipato al processo di primo grado e sussiste il litisconsorzio necessario in relazione alle cause inscindibili. L’appello è disciplinato dagli artt.100 e ss. c.p.a.; è affidato al Consiglio di Stato e si propone con ricorso nel quale devono essere indicati espressamente i motivi di impugnazione. La disciplina ricalca quella dell’appello in materia civile: vige il divieto dello ius novorum, ma vi è la possibilità di proporre motivi aggiunti se la parte viene a conoscenza di documenti non prodotti dalla controparte in primo grado, da cui emergono vizi del provvedimento impugnato. È ammesso altresì l’appello incidentale. Segue la revocazione, disciplinata gli artt.106 e 107 c.p.a., i quali richiamano anch’essi la disciplina processuale civilistica. Si tratta di un mezzo a critica vincolata, esperibile per i motivi espressamente previsti dalla legge. L’art.108 c.p.a. disciplina l’opposizione di terzo, esperibile nei casi previsti ex lege da chi non è stato parte del processo di primo grado. Tuttavia, non è possibile trasporre in ambito amministrativo la stessa concezione di terzo che è condivisa in ambito civilistico. Infatti, la posizione di interesse legittimo è una posizione mutevole, che cambia a seconda di come l’amministrazione esercita il proprio diritto. Quindi, terzi legittimati non sono semplicemente i litisconsorti necessari pretermessi o i creditori, ma anche i soggetti potenzialmente interessati, quali controinteressati sopravvenuti, il cui

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interesse sorge a seguito della sentenza, ovvero i controinteressati occulti che non sono facilmente identificabili dal provvedimento impugnato ab origine. L’art.110 c.p.a. disciplina infine il ricorso per Cassazione, esperibile nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato, per soli motivi attinenti alla giurisdizione. Il successivo articolo 111 contiene la disciplina della tutela cautelare nell’ambito del giudizio di legittimità per cui, in caso di particolare gravità ed urgenza, l’efficacia del provvedimento impugnato può essere sospesa. Diverso dalle impugnazioni è il giudizio di ottemperanza. Si tratta di un procedimento che ha sì ad oggetto un precedente provvedimento giurisdizionale; tuttavia, tale provvedimento non viene contestato, ma viene portato ad esecuzione. L’ottemperanza è un vero e proprio procedimento a sé, disciplinato dagli artt.112 e ss. c.p.a., e rappresenta l’ipotesi più importante di giurisdizione di merito. Infatti, nell’ambito di questo giudizio, non si ha una mera esecuzione della sentenza emanata in sede di cognizione, ma il giudice dell’ottemperanza si spinge oltre quanto in essa è statuito. Per tale ragione, la dottrina ha discusso circa la natura giuridica di questo procedimento; un primo orientamento, minoritario, ne sosteneva il carattere esclusivamente esecutivo, mentre, un’altra tesi lo considera un giudizio di cognizione. L’interpretazione ormai pacifica lo ritiene un giudizio misto tra cognizione ed esecuzione; più precisamente, si tratterebbe di un giudizio necessariamente esecutivo ed eventualmente di cognizione. Invero, il giudice dell’ottemperanza ha la funzione di far conformare l’attività amministrativa al giudicato, rendendo effettiva la tutela del privato552. Tuttavia, nell’ambito di tale giudizio, il giudice potrebbe conoscere altresì di un ricorso per motivi aggiunti, ovvero di una domanda risarcitoria o di nullità formulata per la prima volta in sede 552. Sugli effetti conformativi del giudicato si veda il paragrafo 13.5.

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di ottemperanza e, dunque, estendere la propria funzione ad un’attività di tipo cognitorio553. Sui poteri del giudice dell’ottemperanza, sono recentemente intervenute le Sezioni Unite, affermando che tali poteri possono avere anche carattere sostitutivo; in particolare, poi, il giudice può nominare un commissario ad acta affinché gli effetti conformativi propri del giudicato, si realizzino concretamente. Anche la natura di tale figura è stata oggetto di dibattito. In particolare, è stata superata la tesi dell’organo straordinario dell’amministrazione, a favore della qualifica di ausiliario del giudice. Da ciò discende la natura giurisdizionale degli atti compiuti dal commissario, reclamabili dinanzi allo stesso giudice dell’ottemperanza. Diversa interpretazione si ha nelle ipotesi di silenzio amministrativo554. La disciplina in materia prevede che, dopo una prima fase di cognizione in cui il giudice, riconosciuto il dovere di provvedere, ordina all’amministrazione di adottare il provvedimento, vi sia una fase esecutiva. A fronte della perdurante inerzia dell’amministrazione, infatti, il giudice nomina un commissario ad acta, che si sostituisce ad essa. In questi casi, la dottrina parla però di ottemperanza anomala, in quanto la fase esecutiva si porrebbe in termini di continuità rispetto alla precedente fase cognitoria. Il commissario viene dunque qui qualificato come organo ausiliario dell’amministrazione555. L’art.114, comma 4, lett. e), c.p.a. stabilisce una forma di coercizione indiretta nei confronti dell’amministrazione rimasta inerte, anche successivamente al giudizio di ottemperanza. È un istituto che vuole stimolare l’adempimento e che consiste nella condanna al pagamento di una somma di denaro, che aumenta 553. Si veda il paragrafo relativo al nuovo sistema di azioni esperibili. 554. Sul silenzio si veda Capitolo V. 555. L’interpretazione sarebbe avvallata dalla circostanza per cui non si attende il passaggio in giudicato della sentenza per la nomina del commissario.

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con il protrarsi del ritardo556. La penalità viene meno al momento della nomina del commissario, in quanto il potere è trasferito in capo a quest’ultimo e l’amministrazione non conserva margini di intervento557. 13.9 La giurisdizione ordinaria La giurisdizione del giudice ordinario, con riferimento agli atti amministrativi, è disciplinata dall’art.2 L.A.C., che vi devolve le questioni inerenti le posizioni di diritto soggettivo558. Tale norma segna dunque il limite esterno della giurisdizione ordinaria, rappresentato appunto dal diritto soggettivo. I limiti interni sono invece individuati dai successivi artt.4 e 5, che individuano i poteri del giudice ordinario, presupponendo già risolta la questione del riparto rispetto alla giurisdizione amministrativa. Precisamente, il giudice ordinario può conoscere degli effetti del provvedimento amministrativo con un sindacato incidentale limitato alla valutazione della legittimità dello stesso. Invero, il giudice ordinario non può incidere sul provvedimento annullandolo, modificandolo o riformandolo, ma deve limitarsi alla disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo, al fine di decidere la questione specifica. Il provvedimento amministrativo si pone dunque quale questione pregiudiziale rispetto al merito della controversia e viene risolta con efficacia circoscritta al singolo processo. Al di fuori di questo, infatti, il provvedimento disapplicato resta efficace. Dinanzi al giudice ordinario, il privato ha a disposizione una serie di azioni. 556. La penalità di mora ha carattere sanzionatorio e non risarcitorio; infatti, è compatibile con la condanna al risarcimento del danno. 557. In realtà, vi è tesi minoritaria che ritiene che l’amministrazione conservi il proprio potere provvedimentale anche successivamente alla nomina del commissario. 558. Restano escluse alcune materie devolute ad altri giudici speciali, quali la Corte dei Conti e le commissioni tributarie, ovvero deferite agli arbitri o di competenza del giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva.

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Innanzitutto, azioni di cognizione e, dunque, azioni costitutive, di accertamento e di condanna. Le azioni costitutive sono esperibili solo avverso l’attività iure privatorum ovvero sine titulo dell’amministrazione. Il riferimento è tipicamente all’azione ex art.2932 c.c., un tempo ritenuta inapplicabile all’amministrazione. Con le azioni dichiarative, si richiede generalmente l’accertamento della illegittimità o della illiceità di un comportamento dell’amministrazione; mentre, con le azioni di condanna si domanda al giudice di ordinare all’amministrazione un determinato facere, accertata la responsabilità della stessa in forza di un’attività non autoritativa precedentemente posta in essere. Precisamente, si distingue tra azioni risarcitorie, che condannano al pagamento di una somma di denaro per lesione di diritti soggettivi, sia nell’esercizio del potere pubblicistico che nell’ambito di attività privatistica e azioni reintegratorie. Queste ultime sono esperibili solo con riferimento all’attività non provvedimentale dell’amministrazione, in quanto comportano la condanna ad un fare specifico, come ad esempio la restituzione di un bene detenuto dall’amministrazione senza titolo. Le azioni di condanna, al pari delle azioni costitutive ,erano in passato ritenute non esperibili dinanzi al giudice ordinario, per la stessa ragione secondo cui la loro decisione avrebbe comportato un’ingiustificata ingerenza della giurisdizione ordinaria nell’attività amministrativa. In realtà, trattandosi di ipotesi in cui si realizza una lesione di diritti soggettivi, se questa strada fosse preclusa, molte situazioni resterebbero prive di tutela. Ulteriori specifiche azioni riconosciute ammissibili sono le azioni possessorie di cui agli artt.1168-1172 c.c.; le azioni cautelari, in particolare la domanda di provvedimenti d’urgenza ex art.700 c.p.c.; l’azione per convalida di sfratto e l’azione di cui all’art.844 c.c. in materia di immissioni. La dottrina discute ormai da tempo circa la configurabilità di una giurisdizione esclusiva anche del giudice ordinario, speculare a quella riconosciuta al giudice amministrativo.

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Una prima tesi è favorevole al riconoscimento, richiamando l’art.113 Cost. che non sancisce un divieto in tal senso, nonché le diverse previsioni speciali che già sono contenute in normative di settore, come le disposizioni di cui alla Legge n.689/81 in materia di sanzioni amministrative. Tuttavia, la tesi maggioritaria nega la sussistenza di una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, facendo leva sugli artt.4 e 5 L.A.C., nonché sulla valenza a senso unico dell’art.103 Cost.. Un breve approfondimento merita nello specifico il sindacato sull’atto amministrativo, riconosciuto al giudice penale. In passato, l’art.5 L.A.C. veniva applicato anche al giudice penale, il quale aveva dunque la facoltà di procedere alla disapplicazione del procedimento. Successivamente, viene data rilevanza al principio di tipicità delle fattispecie penali, per cui deve verificarsi se il provvedimento amministrativo integra o meno un elemento costitutivo dell’illecito penale. Solo nel primo caso, il giudice dovrà valutarne la legittimità.

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