Hegel in Italia. Itinerari. Dalla storia alla logica. Tra logica e fenomenologia
 8885716407, 9788885716407

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Zeugma

Collana diretta da: Massi-mo Adi-nolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Car1nelo Meazza, Gaetano Ra1netta, Valeria Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma

l Lineamenti di Filosofia italiana 6- Classici

Vincenzo Vitiello

Hegel in Italia Itinerari I- Dalla storia alla logica II- Tra Logica e Fenomenologia

( Seconda edizione riveduta e ampliata)

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell'D Diversità Vita- Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

Pritna edizione : 2003, Guerini e Associati, Milano.

©

Seconda edizione riveduta e atnpliata 20 18, INSCHIB BOLETH E DIZIO NI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00 1 33 - Rotna

v.inschibbolethedizioni. cotn e-tnail: info@inschibbolethedizioni .cotn 'VW\

Zeugma IS SN : 242 1 - 1 729 n. 6 - ottobre 20 18 ISBN - Edizione cartacea: 9788885716407 IS BN - E-book: 9788885716414 Copertina e Gra:fìca: U ffìcio gra:fìco Inschibboleth Immagine di copertina:

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Prefazio,ne alla II edizione

N el ripubblicare questo libro da tempo esaurito, l'ho integra­ to, seguendo il consiglio di cari e autorevoli Amici, con una serie di saggi, scritti successivamente, incentrati per lo più su Bertrando Spaventa, al quale già nella I edizione avevo attri­ buito un ruolo di assoluto rilievo negli studi, non solo italia­ ni, su Hegel. Nel corso degli anni sono tornato più volte sul filosofo abruzzese, sia volgendomi 'indietro' ad Augusto Vera, assente nella precedente edizione, ma importante per meglio comprendere il senso e la profondità della lettura spaventia­ na, sia tornando sul dibattito aperto dalle obiezioni mosse da Adolf Trendelenburg e Giovanni Gentile alla esposizione hegeliana delle prime categorie della Logica. Momento non secondario di questo 'ritorno' è il saggio " Ut pidura in tabu­ la", che presenta qualche novità rispetto alle precedenti mie interpretazioni dell' attualismo1 e pur alla critica al Trende­ lenburg, ribadita, ma non senza qualche 'necessaria' precisa­ zione. Novità che è alla base dell'ultimo scritto su Spaventa,

Mi riferisco non soltanto ai saggi della I Parte, sì anche ai contributi pubblicati altrove, massime a quello raccolto in V. Vitiello, GP, P. II, cap. II, "Dall'io-penso all'io-sento", pp. 33-52. l.

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più critico dei precedenti miei saggi riguardo alla sua inte:tpre­ tazione delle prime categorie della Logica hegeliana e quindi al rapporto con Trendelenburg e Werder, ma non riguardo alla Feno1nenologia, e al legame tra lo spaventiano "essere prima dell'essere" e la hegeliana "potenza che ha in orrore la luce", su cui mi ero già soffermato nella I edizione. Ho collo­ cato per ultimo, quantunque scritto anni prima degli altri, il saggio �'Enzo Paci: tra due Fenomenologie", per la significati­ va prossimità della conclusione dell'originale percorso pacia­ no tra Hegel e Husserl all'esito dell'inte:tpretazione spaventia­ na di Hegel, nonostante la distanza dei loro punti di partenza e la divergenza delle loro esplicite intenzioni . Chiaro segno, questo, dell'inaggirabile problema che è al 'fondo' - non Grund, ma Ab-grund - del pensiero di H egel, e non solo di Hegel, a cui il filosofo tedesco, leggendo l' Edipo re di Sofocle, seppe dare la più pregnante definizione, quella poco sopra ricordata: die lichtscheue Macht. Un 'tema', questo, nel quale da anni sempre di nuovo mi accade di imbattermi, anche in studi di diverso argomento, e che in questo libro appare esse­ re la 'cifra' più originale del contributo italiano alla 'lettura' di H e gel, filosofo dell'Assoluto e della mediazione sempre in lotta col limite e con l'immediato - mai vinto, certo; ma anche mai vincitore . Di qui la costante 'ripresa' (Wiederholung) di questo tema in forme e contesti problematici anche molti diversi . Seguono due brevi ex-cursus: il primo su un argomento già 'toccato ' nella I parte : il saggio La Grazia e il libero arbitrio di Croce , oggetto di un "improbabile confronto" con Karl Barth; il secondo su Andrea Emo, interprete raffinato del pensiero di Giovanni Gentile . Chiudo, rinnovando le espressioni di grati­ tudine all'Avv. Gerardo Marotta, recentemente scomparso, e

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al Prof. Antonio Gargano, contenute nella prima Introduzio­ ne2.

2 . I saggi della I Parte sono stati rivisti solo nella forma, aggiungendo i necessari riferimenti alla II Parte e ad altri studi nel frattempo usciti; le note sono state ridotte nel numero, avendo riportato direttamente nel testo i riferimenti alle pagine o ai paragrafi delle Opere siglate. La Nota bibliogra­ fica della I edizione - collocata alla fine col titolo "Fonti" - è stata integrata con le indicazioni relative ai saggi della II Parte.

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Introduzio,ne

Entre une histoire de la philosophie "objective", qui mutilerait les grands philosophes de ce qu'ils ont donné à penser aux autres, et une tnéditation déguisée en dialogue, où nous ferions les questions et les réponses, il doit y avoir un 1nilieu, où le philo­ sophe dont o n parle et celui qui parle sont ensemble présents, bien qu'il soit, 111e1ne en droit, hnpossible de départager à chaque instant ce qui est à chacun. ( M . Merleau-Ponty, S, pp. 20 1 -202 )

Che in filosofia non ci sia un criterio di giudizio da tutti condi­ viso, è forse l'unico giudizio che la maggioranza dei filosofi sarebbe disposta a condividere . Questo fatto, peraltro, è connaturato all'essenza stessa della filosofia, che , diversamen­ te da altre forme di sapere (pensiamo in particolare alle scien­ ze) , non ha un suo linguaggio universale, un sistema di princi­ pi da tutti i filosofi riconosciuto, in quanto ogni filosofia si defi­ nisce, anzitutto, per il criterio di valutazione che essa propone e argomenta, owero per il linguaggio che essa si crea. Se ciò sia bene o male, non è tema di questa introduzione . Al più possiamo esprimere l'opinione che la pluralità dei linguaggi, e cioè dei criteri di valutazione e di giudizio, favorisce la criticità del pensiero, che si trova costretto a tornare di continuo sui propri principi . Naturalmente questa pluralità di valori può

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favorire, ed ha favorito, l'affermarsi dello scetticismo, come l'esperienza storica insegna. Ma la medesima esperienza stori­ ca attesta, insieme con la pluralità delle prospettive :fìloso:fìche, l'esistenza di tradizioni di pensiero che si sono formate intorno ad un insieme di principi e valori condivisi, se non in tutto, in parte almeno . Da una medesima fonte - che non s'identi:fìca sempre e soltanto con un :fìlosofo ed una :fìloso:fìa, potendo la fonte essere un medesimo topos culturale ed etico - possono scaturire, e sono scaturite molteplici esperienze di pensiero, che , pur nella loro diversità e talora anche nel contrasto più vivo, riconoscono, con la comunanza delle origini, le loro affì­ nità, relazioni, e reciproche influenze . Peraltro le "influenze" agiscono, anche quando , se non specialmente quando, restano nascoste o sono , addirittura, disconosciute . La pluralità dei linguaggi e delle prospettive :fìloso:fìche rende certo diffìcile individuare una misura, un criterio comune per valutare la forza di un pensiero. Anche grandi :fìloso:fì, i sommi, quelli che la contrnunis opinio giudica tali, che son poi quel­ li a cui la tribù dei :fìloso:fì costantemente si richiama - dico : Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso, Spinoza e Leibniz, e Kant . . . - sono stati diversamente giudicati dai loro succes­ sori. E tuttavia, per quanto diversamente giudicati, e talora addirittura da alcuni esaltati e da altri respinti e condannati, questi :fìloso:fì son grandi perché la loro influenza, quale che sia il giudizio, positivo o negativo, che su di essi si esprime, si è esercitata a lungo nella storia del pensiero, ed ancora conti­ nua ad esercitarsi . La grandezza di un pensatore va dunque misurata in base all'influenza che ha esercitato ed esercita sui :fìloso:fì a lui contemporanei e su quelli che sono venuti dopo di lui? Ma come dimenticare che pensatori anche grandi - è il caso di Baruch Spinoza - sono rimasti a lungo ai margini della storia? V'è un elemento di contingenza nella storia della :fìloso­ :fìa che non può essere sottovalutato. Spesso pensatori medio­ cri hanno dominato - e dominano - la ribalta non solo del

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presente , del loro presente , ma anche del futuro, oscurando pensieri ben più profondi e significativi . Invero la storia a cui pensiamo, nel cercare un empirico criterio di giudizio, non è quella - che si pretende oggettiva, perché riconosciuta dai più - del "successo", ossia: della maggiore o minore permanen­ za di un pensiero o di un pensatore sul proscenio del teatro della storia. È altra storia: è la storia radicalmente ��soggetti­ va" che ciascun filosofo ricostruisce all'interno della propria prospettiva filosofica. È questa storia che rivela la grandezza di una filosofia . Perché il modo in cui un pensatore ricostrui­ sce il "suo" passato è la migliore testimonianza dell'ampiezza e della profondità dei suoi pensieri . Ora se apriamo le pagi­ ne nelle quali Hegel, in forma diretta o indiretta, esplicita o anche solo per cenni, tratta dei filosofi che l'hanno preceduto - e mi riferisco non solo alle Lezioni sulla storia della filosofia, o alle grandi opere della maturità: la Scienza della Logica e l'Enciclopedia , la Fenotnenologia dello spirito e la Filosofia del diritto , sì anche ai primi scritti, alla Dif.{erenz e a Glau­ ben und \Vissen, ma, per quanto riguarda l'interpretazione della religione , possiamo risalire anche alle ]ugendschriften - non si può non ammirare la profondità e la novità delle sue interpretazioni . E questo anche quando tratta di filosofi cui si rivolge con spirito fortemente critico . Hegel non respinge nessuno, la sua critica è in senso originario distinzione, defini­ zione del limite: sin qui e non oltre (cf. WL, II, pp . 249-250; it. , II, pp . 655-656) . Forse un solo pensatore si muove , quanto alla capacità di scrutare nel fondo del passato filosofico, alla sua altezza: Heidegger. Forse - la dubitativa è d'obbligo se si considerano non tanto le violenze ermeneutiche , confessate, peraltro, e certo minori di quanto di solito si dica, di Heideg­ ger, quanto le sue idiosincrasie , e i suoi silenzi su figure anche fondamentali della storia del pensiero. Certo, questo criterio qui rapidamente indicato è puramente empirico, e pertanto va preso con molta cautela. Per fare un

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solo esempio che parla contro quanto s'è appena detto : Kant non ebbe pari interesse per la storia della filosofia, e quindi pari capacità d'interpretazione ; e tuttavia la sua grandezza non è certo inferiore a quella degli autori or nominati. Ma la gran­ dezza di Kant si misura con altro criterio , empirico pur esso, e che non meno del precedente si riferisce alla "storia". Ma non a quella passata, bensì alla storia avvenire . Anche questa storia va valutata non "oggettivamente", ma "soggettivamen­ te" (mi si passino queste barbare espressioni usate per ragioni di brevità) . N o n si tratta, anche qui, del fatto che un pensiero, una filosofia, resti a lungo alla ribalta della storia. Ma del modo in cui vi resta. La potenza di una filosofia si misura in base alle reazioni che suscita, alla forza di produrre altro pensiero. Lasciato a lungo ai margini della storia, una volta riscoperto da Jacobi, Spinoza ha continuato ad operare nelle filosofie di Schelling e di Hegel, entrambi non meno critici che estimatori del suo pensiero. Misurato con questa misura, Kant si mostra davvero il più grande dei moderni, la fonte di tutto il pensie­ ro successivo, anche quando si tentò, come fecero Hegel e Schelling, di superarlo . . . retrocedendo, e cioè ritornando, in buona sostanza, sulle posizioni di quell' Inte llek tu a lphi lo­ soph che Kant aveva criticato nell'"Anfibolia dei concetti di riflessione"1 . Ma dopo Kant è certamente Hegel il filosofo che ha suscitato, anzitutto per reazione , più pensiero, più filoso­ fia, e non solo in Germania. Da Feuerbach a Marx, a Kierke­ gaard, per ricordare i suoi critici più noti dell'800, a Dilthey e alle diverse "riforme" e "rinascite" del 900, sino nostri giorni, ancora. Molte volte, dalla sua morte improvvisa, è accaduto all'umanità storica di credere di esserselo finalmente lascia­ to alle spalle , per poi accorgersi, in una di quelle svolte con cui la storia non cessa di sorprenderei, che lo avevamo ancora davanti . l.

Cf. l. Kant, KrV, A 267, B 323; sul tema: infra, Parte I, Sez. I, cap. I, § 5.

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Hegel in Italia è la ricostruzione, da una ben precisa prospet­ tiva fìlosofìca - dichiarata già nel sottotitolo : "dalla storia alla logica" -, di un momento per molti versi signifìcativo non della storia dell'hegelismo europeo , ma della Wirkungsgeschichte hegeliana. Tra fìne 800 e prima metà del 900, il pensiero di Hegel, in Italia in misura anche maggiore che in altri paesi, ha suscitato non solo nuovi commenti e nuove interpretazioni, ma nuove fìlosofìe che, pur riconoscendo la loro derivazione, o quanto meno ispirazione , hegeliana, si sono formate in alter­ nativa al sistema di Hegel. La nostra ricostruzione - divisa in tre sezioni : Relazione , Identità, Al di là dell'essere - non segue il tempo estrinseco della cronologia ma quello intrinseco del concetto . Usiamo di proposito il linguaggio hegeliano, per indicare sin da subito, l'intento che ci ha guidato in questo lavoro: valutare sin dove la fìlosofìa italiana d'ispirazione hegeliana è riuscita a portar­ si all'altezza del suo Autore di riferimento . Pertanto in ogni sezione si è messo a confronto il pensiero di alcuni fìlosofì italiani - Croce e Paci nella prima, Gentile , Spirito , Calogero e S everino nella seconda, Bertrando Spaventa nella terza con quello di Hegel, secondo quel concetto, indicato nel titolo della sezione, che meglio serve a quest'opera di confronto . È bene dire subito che non il pensiero hegeliano, bensì il proble­ ma affrontato da Hegel funge da criterio di giudizio . Criterio, quindi, che vale per giudicare lo stesso pensiero hegeliano, e non solo riguardo alla sua rispondenza al problema, sì anche riguardo alla sua formulazione ed impostazione. Per essere più chiari, entriamo brevemente in qualche dettaglio . La prima sezione si apre con il dibattito tra C roce e Paci, svol­ tosi tra la fìne degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta del secolo appena trascorso . Croce è stato il meno hegeliano dei fìlosofì qui esaminati e discussi . Il suo incontro con Hegel

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awenne dopo che egli aveva definito i tratti fondamentali del proprio sistema dei distinti, nel quale inserì, ab extra, la dialettica degli opposti. Perché , allora, iniziare con Croce ? Perché il suo storicismo dimostra e contrario la necessità della fondazione della storia sulla logica ( che è il primo aspetto del passaggio annunciato nel sottotitolo di questo libro ) . La teoria crociana del giudizio storico, infatti, riposa sull'identità delle "categorie come predicati di giudizio" con le "categorie come potenze del fare" . Ma questa identità resta un puro "presup­ posto", finché non la si dimostri . Il che Croce non solo non fece - e come avrebbe potuto, una volta che s'era sbarazzato, nella Logica con poche e superficialissime battute, della teoria hegeliana del sillogismo? -, ma neppure awertì l'esigenza di farlo . Di qui il titolo del capitolo che gli è dedicato: "il sillogi­ smo nascosto". Ma non è solo per questo aspetto, in fondo "negativo", che ci siamo fermati su C roce . Dal suo dialogo con Paci - che seppe porgli obiezioni che egli apprezzò2 - si possono ricavare ancor oggi utili insegnamenti, sempreché si preferisca la domanda che inquieta alla risposta che consola. Nell'oscillazione tra Kant e Hegel, che peraltro contraddistinse molto più il pensie­ ro di Paci che non quello di Croce, s' awertono già i primi germi di quella critica del "sillogismo", che nella conclusione del capitolo successivo vengono in piena evidenza. In questo secondo capitolo, infatti, dedicato interamente a Hegel, dopo aver tracciato un quadro completo della teoria hegeliana del sillogismo ed averne definito il significato e l'importanza non solo per la Logica ma per l'intero sistema hegeliano, poniamo la questione di fondo di questo nostro studio : la definizione del "limite" del pensiero hegeliano . Ma tale questione è posta 2. Non così alcuni ferventi crociani. Si vedano le poche, infelicissime righe dedicate da Fausto Nicolini ad Ingens sylva di Ezio ( sic! ) Paci nella breve Bibliografia della sua Antologia vichiana, p . XLIII.

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seriamente solo se ci interroghiamo sull'immagine che di Hegel ci ha trasmesso la storia della fìlosofìa. Detto in breve : la "fìgura storica" di Hegel è tutto Hegel? o non ci sono, nel pensiero hegeliano, problemi, riflessioni, intenzioni e intui­ zioni che eccedono ciò che di lui ci ha tramandato la critica storica (seguaci e critici)? N o n vogliamo negare lo sforzo di Hegel di presentare la sua fìlosofìa in un ordine sistematico perfetto e coerente ; né ci fermiamo a dire che non v'è riuscito - è stato già detto tante volte , e non costa fatica riconoscerlo, basta aprire i suoi testi -; quello che intendiamo sostenere è che nella fìlosofìa hegeliana è presente e viva, quantunque da Hegel stesso conculcata e come nascosta, una forza di pensie­ ro contraria, una tensione e intenzione volte a mantenere la contraddizione come tale , senza toglierla (aujheben), o, peggio, cancellarla (tilgen) in una sintesi che tutto concilia. Invero solo quel pensiero che evita con cura gli abissi della ragione e della coscienza, riesce ad essere perfettamente coerente . Ma un pensiero, come quello di Hegel, che ha osato spingere lo sguardo nell'abisso dell'essere e della coscienza, dell'essere della coscienza (in tedesco i due termini son fusi in uno: Bewuj3tsein) non può non recare in sé i segni della lotta che ha dovuto incessantemente sostenere col suo nemico più interno, con quella lichtscheue Macht, quella potenza che ha in orrore la luce, che è il risvolto negativo dell'autocoscienza: ungeheure Macht, enorme potenza, pericolo costante e, pure , unico vero alimento, e d elemento, del fìlosofare . La seconda sezione , dedicata all'Identità, intende mostra­ re come questa lichtscheue Macht si imponga - a Hegel, e con lui, a Giovanni Gentile . In tema è il rapporto intellet­ to/ragione, e cioè il modo in cui Hegel cerca di sottrarre il concetto del �'divenire" alle maglie d'acciaio del principio di non contraddizione . Pensare il divenire signifìca immetter­ si in esso, non "aggettivarlo", non porlo innanzi al pensiero

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come "oggetto", come qualcosa di stabile e de-finito. Pensare il divenire è . . . divenire ! Questo comporta un nuovo concetto di infinito , per nulla affatto coincidente con quello di totalità, anzi di questo l'esatto contrario . In-finito dice : non-finito, e cioè non terminato, non compiuto, ma sempre in via di compi­ mento . L:infinito hegeliano è l'enérgheia atelés di Aristotele, l'atto incompiuto che è il nome più appropriato della k in e­ sis, del movimento, del divenire . E H e gel pensa questo atto incompiuto sino in fondo . Sino alla negazione della "realtà" delle cose, degli oggetti, e cioè: sino alla negazione dell'ente kath'aut6, dell'ente inteso come un "per sé ( stante)". L:ente è ciò che è solo all'interno delle infinite relazioni in cui è inse­ rito . Non ha, pertanto, una "figura", e neppure mille "figu­ re", o infinite . Perché non è mai in una "figura". In ciò la sua "infinità" . La celebre affermazione hegeliana che la verità del finito è l'infinito, dice questo e solo questo : che il divenire colto nella sua effettività è l'incessante de-formazione di ogni forma, l'interminabile s- figurazione di ogni figura3. Detto più brevemente : la ragione è la perenne negazione dell'intelletto . Jean-Luc N ancy ha trovato una formula felice per dire tutto questo : �'inquietudine del negativo"4. Solo che non ci si può fermare qui . Questa è solo la soglia del pensiero hegeliano, e dalla soglia il problema, il problema reale di Hegel - e nostro ­ neppure lo si intrawede . Già, perché , per quanto ci si immet­ ta nel divenire e nel movimento per sottrarsi alla costrizione dell'identità, questa alla fine si impone . Se han torto quanti sostengono che la molteplicità hegeliana non è vera e reale molteplicità, perché scaturendo da un unico e semplice prin-

3. Non è possibile identificare tout simplement "infinito" e "totalità" - come disinvoltamente ha fatto Lucio Colletti in MeH, p. 1 78 (ma si legga l'intero cap . "Hegel e la dialettica della materia") . 4. Cf. HIN.

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cipio a questo resta comunque legata ed alla fine ritorna5 hanno torto, perché la tematica dell'inizio o cominciamento in H egel è proprio la dimostrazione , contra S chelling, che non v'è inizio o cominciamento, e cioè che il "principio " non è se non nei "principiati", che l'uno è sempre e solo nei molti, come relazione del molteplice -; è pur vero, però, che l'infini­ to che Hegel pensa �'è" infinito . La copula �'è" inchioda anche l'infinito all'identità con sé . Tutto diviene - tutto, appunto, resta divenire . Ma esprimiamo questa "critica" del divenire con le parole stesse di Hegel, di un passaggio divenuto cele­ bre : «Lapparire (die Erscheinung) è un sorgere e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l'effettualità e il movimento della vita e della verità. Talché il vero è il trion­ fo bacchico dove non c'è membro che non sia ebbro; e poiché ogni membro nel mentre si isola altrettanto immediatamen­ te si risolve - il trionfo è altrettanto la quiete trasparente e semplice» (PhiiG, Vorrede, p . 39: it. , I , pp . 37-38) . Ora questo problema, che è stato molto dibattuto nell'ambito della scuola gentiliana (cf. il cap. II di questa sezione) , impe­ gnò seriamente Gentile che nel Sistetna di logica conte teoria del conoscere tentò una soluzione affatto diversa da quella hegeliana, ponendo l'intelletto, owero la logica dell'identità e della non-contraddizione , non come l'antecedente che la ragione realizzandosi nega, ma come l'astratto che il concreto stesso, o ragione, pone come sua determinazione necessaria. Vale a dire: il finito, il de-terminato, l'oggetto, il "per sé stan­ te ", l'identico, la "forma" o "figura" delle cose non è soltanto ciò che l'infinito eternamente nega, è insieme ciò che l'infinito stesso pone per realizzarsi . Insomma l'infinito ha bisogno della forma per realizzarsi, attuarsi per essere . Gentile ribaltava così il principio della critica al divenire : l'infinito non può esse-

5 . Cf. L. Althusser, M, spec. pp. 82-85, e G. Deleuze, DR, pp . 69 ss. e passim.

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re inchiodato all'identità di sé con sé , perché l'identità stessa deriva e dipende dall'infìnito. È un'esigenza dell'infìnito darsi forma e fìgura, ma non da queste si può interpretare l'infìni­ to, ma all'inverso dall'infìnito le sue fìgure e forme particolari . La forma è solo una pausa del movimento . Pausa necessaria, ma mai defìnitiva. Pertanto, quando si dice che l'infìnito �'è" infìnito, ha questa fìgura, la fìgura dell'infìnito e non altra, si dice certo il vero, ma non tutto il vero, perché l'infìnito è anche "altro" dalla "forma" che ha assunto - quell'altro che dicendolo traduciamo in forma, e cioè de- fìniamo, fìnitizzia­ mo, ma che proprio perciò rinvia ad "altro" ancora. Il rappor­ to concreto-astratto era per Gentile il modo per uscire dalla logica identitaria, perché riconosceva sì ad essa la sua validità, ma subordinata alla opposta logica del divenire, dell'in-fìnito .

I; operazione non riuscì . Perché nel momento in cui si trattava di mostrare l'identità non questa appariva, ma il suo contra­ rio. La logica dell'astratto non godeva dell'autonomia neces­ saria alla sua funzione . Di qui la "svolta" di Gentile che nel 1931, a distanza di dieci anni dal Sistenw di logica , pubblica la Filosofia dell'arte, nella quale all'originario Io penso quale unità di logo concreto e logo astratto è anteposto l'Io-senti­ mento, un'Identità che il pensiero non può cogliere, perché nell'atto stesso che la coglie , essa muore come sentire e nasce come pensiero, come non-Identità, come divenire . Grande intuizione , questa, che peraltro Gentile aveva avuto sin negli anni lontani della prima formulazione della �'fìlosofìa dell'at­ to", il 1909, quando aveva pubblicato il saggio sulle "Forme assolute dello spirito" . Grande intuizione , cui Gentile, però, non si mantenne fedele neanche dopo la Filosofia dell'arte, se nell'opera sua pubblicata postuma, Genesi e struttura della società, tornerà sulle posizioni del SistetJUl di logica . Un "ritor­ no" necessario, peraltro, dato che l'Identità posta �'prima" del divenire era ancora pensata positivanzente, vale a dire come un'Identità determinata, come origine che muore sì nell'origi-

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nare, ma che appunto è e resta origine . Al pensiero di Gentile non si affaccia neppure per un attimo l'idea che quella I denti­ tà immemoriale, quell'Identità che si sottrae ad ogni pensiero, possa essere insieme origine e abisso del pensiero, alimento di vita e principio di perdizione , di morte6• Il capitolo successivo, "Dall'attualismo alla filosofia dell'iden­ tità", muovendo dall'analisi del rapporto tra Logica e Gnoseo­ logia, si sofferma in particolare sulla critica di Guido Calogero alla filosofia del conoscere e sulla critica del divenire svolta da Emanuele S everino. Il carattere indetenninante dell'iden­ tità, cui mette capo l'analisi di questo capitolo, rappresenta la migliore introduzione alla problematica della "proposizio­ ne speculativa" ( cap . III) . Nelle pagine della Fenomenolo­ gia dello spirito dedicate a questo tema si rivela quell"'altro" Hegel cui si faceva cenno presentando la conclusione della I sezione di questo libro. Lo Hegel per il quale non l'Antigone può essere la rappresentazione più alta del tragico, ma l' Edi­ po re . Lo H e gel per il quale oltre l'identità dell'intelletto e la contraddizione della ragione si profila un'Identità ulteriore , l'Identità che è la più alta contraddizione, perché contradidio contradictionis . Quell'" altro" H egel che anzitutto H e gel volle contrastare e respingere . In ciò la "verità" - per quanto parzia­ le - della Wirkungsgeschichte hegeliana. Il primo capitolo della terza sezione, che tratta del rappor­ to tra l'inizio della dottrina dell'essere e l'inizio della dottrina dell'essenza, ha anche una funzione di raccordo tra le prece­ denti due sezioni e quest'ultima, che si conclude con l'esame di un filosofo, Bertrando Spaventa, che è stato il maggiore interprete non soltanto italiano ma europeo di Hegel, e dico 6. Esemplare, da questo punto di vista, il capitolo XIII di GSS : "La Società trascendentale, la morte e l'immortalità".

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questo con riferimento non solo all'Ottocento, sì anche al Novecento . Purtroppo egli è rimasto ai margini della storia "oggettiva", e quello stesso filosofo che l'ha rimesso in circola­ zione in Italia, Giovanni Gentile che a lui si richiamava come al suo vero Maestro, se gli ha dato un momento di notorietà, ha anche contribuito a oscurame il pensiero, dacché lo mutila­ va fortemente riducendolo a suo precursore . Ma la filosofia di Bertrando Spaventa non è un"' anticipazione" dell'attualismo. Il filosofo abruzzese, che leggeva Hegel alla luce della tradi­ zione neo-platonica ben viva nell'Italia dell'Ottocento attra­ verso Rosmini e Gioberti, nonché ridurre l'essere al pensiero, awertì chiaramente l'esigenza di riconoscere un'alterità irri­ ducibile al pensiero, al fine di evitare la chiusura della dialet­ tica hegeliana in se stessa. Con l'atteggiamento anche umile dell'interprete che si tiene stretto ai testi che legge senza vantare originalità di pensiero, Bertrando Spaventa, scrutando nel fondo del pensiero hegeliano, vide chiaramente il punto debole della fondazione aristotelica della logica identitaria, su cui peraltro si è retta e si regge l'episteme dell'Occiden­ te . Quello che Aristotele presenta come l'evidenza prima, il pr6teron enérgheia dyndtneos, l'antecedenza dell'atto sulla potenza, del reale del possibile , è l'indimostrabile, l'"enigma della vita". Certo nelle pagine di Bertrando Spaventa non sono pochi i passaggi in cui l'interprete ritiene che Hegel abbia trovato la soluzione del problema del conoscere - e per lui «risolvere il problema del conoscere» significava «provare la creazione» (Op , II, p. 644) -, ma nelle sue riflessioni più auto­ nome e profonde è possibile individuare le prime tracce di quella logica del possibile cui il miglior Hegel si avvicinò a tratti, e - bisogna ribadirlo - contro se stesso, se tutte le volte che l'Essere gli si presentava o come puro "in sé", o come Vita, o addirittura come "il pozzo notturno" in cui tutte le immagini del mondo si fondono, sempre tornava a ripetere che l'"in sé" è solo in vista del "per sé", che la Vita accenna a qualcos'altro

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oltre se stessa, all'autocoscienza, che il pozzo notturno come è il luogo in cui le immagini del mondo si fondono, così è il luogo della loro custodia, e della loro rinascita7• Bertrando Spaventa, l'"hegeliano" Spaventa seppe con Hegel andare oltre Hegel. Cosa che non riuscì a Gentile, e tanto meno a Croce . Chiudiamo questa introduzione con le parole che Spaventa scrisse riferendosi in particolare a Hegel, ma non solo a H e gel; riteniamo possano ben riferirsi anche a lui: «Nei filosofi, ne ' veri filosofi, ci è sempre qualcosa sotto, che è più di loro mede­ simi, e di cui essi non hanno coscienza; e questo è il germe di una nuova vita» (Op , II , p. 643) . Molti dei temi trattati in questo libro sono stati oggetto di rela­ zioni che ho tenuto in C onvegni internazionali su H e gel ( cf. Nota bibliografica) e in cicli di lezioni seminariali, organizzati dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici o in collaborazione con esso . Esprimo qui il mio vivo ringraziamento al Presiden­ te dell'Istituto, Awocato Gerardo Marotta, ed al Segretario Generale, Professore Antonio Gargano, per l'opportunità offe rtami di pubblicare nella prestigiosa Collana " Hegeliana" questo mio volume .

7. In merito cf. V. Vitiello "Da H egei a Vico. Logica - Storia - Natura. Ovve­ ro: la difficile memoria del Sacro", in: S . Otto - V. Vitiello, V-H, pp. 75-157, spec. 139- 149 .

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Fonti

N ella composizione di questo libro ho utilizzato miei prece­ denti lavori, pubblicati come saggi autonomi. Nel fornirne l'elenco , awerto che il lavoro di rielaborazione, revisione ed integrazione è stato, particolarmente per i testi più vecchi, radicale . Parte l:

l) "Il dibattito Croce-Paci, owero il sillogismo nascosto" in AA. VV. Vita e Verità. Interpretazione di Enzo Paci , a c. di Stefano Zecchi, Bompiani, Milano 1991 . ( S ez. I, cap . 1). 2) "La critica di H e gel a Fichte e la dottrina del sillogismo", in Atti del Convegno internazionale "L'esordio pubblico di Hegel. Per il bicentenario della Diff e renzschrift" - organizza­ to dal Dipartimento di Epistemologia ed Ermeneutica della formazione dell'Università Milano-Bicocca in collaborazio­ ne con l'Istituto Italiano per gli Studi filosofici ed il Goethe Institut di Milano : 26-28 novembre 2001 - a c. di M . Cingoli, Guerini e associati, Milano 2004 . ( Sez. I, cap. II) .

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3) " Spekulativer S atz und setzende ReHexion", relazione tenuta al XXIII Hegel-KongreB della Intemationale Hegel­ Gesellschaft: "Hegels Phanomenologie des Geistes", in colla­ borazione con l'Istituto Italiano per gli Studi filosofici, Zagreb 30/08 - 02/09/2000. ( Sez. II, cap . III) . 4) "Hegel e la possibilità dell'inizio","Il Pensiero", 1997/2 . ( S ez. III, cap. I ) . 5 ) "Bertrando Spaventa ed il problema del cominciamento", nella Collana �'Interventi" dell'Istituto Universitario "Suor Orsola Benincasa", Guida, Napoli 1990 . ( S ez. III, cap. II) . 6) "La prassi tra struttura e storia: Croce e Gentile interpreti e critici di Marx", " Hermeneutica", 1989 (Appendice I) . 7) "Barock und Dekadenz in Benedetto Croces Interpretation der Neuzeit", conferenza tenuta l'I l gennaio 1996 all'Inter­ disziplinares Institut fiir Kulturgeschichte der Friihen N euzeit dell' Università di Osnabriic k per il S eminario del semestre invernale 1995/96 : "Europilische Kultunvissenschaftler des 20. Jahrhunderts und die E rforschung der Friihen Neuzeit" (Appendice II ) . 8 ) Phos phos allo horfì . Platino e Gentile", "Il Pensiero", 1999/1 (Appendice III) .

Parte II : l "Sillabare Hegel. Rileggendo Bertrando Spaventa inter­ prete di Hegel", Postfazione a: Bertrando Spaventa, Opere, a c . di F. Valagussa, Bompiani, Milano 2008 (cap. I ) . -

2 . - "Due divergenti letture della Fenontenologia dello spiri­ to : Augusto Vera e Bertrando Spaventa" (cap. II ), relazione

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al Convegno su "Augusto Vera a duecento anni dalla nascita" (Amelia, 7/12/2013) . 3 - " Ut pictura in tabula. Concreto e astratto nella Logica di Giovanni Gentile", in: La logica non è tutto, a c . di F. C roci, InS chibboleth, Roma 2016 ( cap . III ) 4 - "I due 'cominciamenti' : Fenon1enologia dello spirito e Scienza della logica secondo Bertrando Spaventa", relazione al Convegno "Bertrando Spaventa. Tra coscienza nazionale e fìlosofìa europea" ( Università di Chieti, 23-24/2/201 7) . 5 - "Enzo Paci: tra due fenomenologie", in Atti del Convegno "In ricordo di un Maestro. Enzo Paci a tre n t'anni dalla morte" ( Napoli- Salerno 1 8-19/12/2006), a c . di G. Cacciatore e A. Di Miele , S criptaWeb , Napoli 2009 . 6 - "La Grazia e il libero arbitrio. Un "improbabile" confronto : Barth e Croce ", in: Benedetto Cro ce. Riflessioni a 150 dalla nascita , a c . di C . Tuozzolo, Aracne, Roma 2016 (Ex-cursus I) . 7 - "Emo, o della negazione", in A. E m o, Quaderni di Metafisica 1927-1982, a c . di M . Donà e R. Gasparotti, Bompiani, Milano 2006 (Ex-cursus II ) .

Parte I Dalla sto-ria alla logica

I Relazione

Slegare ogni cosa da ogni altra è il più co1npleto annul­ lmnento di ogni discorso; il nostro discorso nasce infat­ ti dal reciproco collegamento delle forme. ( Platone, Sofista 259e )

La vita (è) la connessione della connessione e della non -connessione . (G.

W F.

Hegel, Systemfragnunt,

\V, l,

p . 422 )

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I La storia tra eternità e te,mpo. Il sillogismo nascosto

A rileggere, oggi, il dibattito che, negli anni Quaranta e all'ini­ zio dei Cinquanta del secolo da poco terminato, si accese tra Croce e Paci su alcuni temi di fondo della "fìlosofìa dello spiri­ to" - tutti ruotanti intorno al problema dell'"economico", o "vitale" - la prima impressione che si ricava è che dal punto di vista propriamente fìlosofìco la distanza che ci separa da C roce è ben maggiore del mezzo secolo trascorso dalla sua morte . La riflessione propriamente fìlosofìca sulla storia - svolta da Croce non solo nella Filosofia della Pratica e nella Teoria e storia della storiografia, bensì anche nelle opere della maturi­ tà e della tarda vecchiaia, quali La storia conte pensiero e conte azione, Il carattere della filosofia tnoderna, i Discorsi di varia filosofia, o le sin troppo celebrate Indagini su Hegel -, ci appa­ re dettata più da ragioni "ideologiche"\ la difesa del vecchio ordine europeo dall'inquietante ospite evocato da Nietzsche2, che non dalla volontà di comprendere le motivazioni profonde

l.

Più complesso, ma non diverso nella sostanza, il giudizio sull'opera storia­ grafica di Croce : sul tema cf. infra , Appendice Il. 2. Cf. F. Nietzsche, 'VzM, Vorrede e Der Europiiische Nihilismus. Zum Plan, risp. pp . 3 e 7.

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del nichilismo avanzante . Diffìcile trovare nella sua rappre­ sentazione del corso storico, dominata dall'idea del progresso, qualcosa di paragonabile non dico all'idea vichiana del conflit­ to sempre aperto tra storia e natura, "provvedenza divina" ed ingens sylva, ma neppure al sentimento tragico che perva­ de le pagine anche le più schematiche e meno condivisibili della hegeliana fìlosofìa della storia3, se alla fìne del "dialogo", intrattenuto col fìlosofo tedesco nell'arco dell'intera vita, la conclusione è che la grande scoperta hegeliana, la dialettica, rientra propriamente nei domini dell'Etica e non della Logica, avendo Hegel scoperto . . . la funzione positiva del male quale strumento di bene4. Forse, non bisognava attendere Hegel; qualcosa al riguardo l'aveva già detta Agostino . . . Ma questa è solo la prima impressione . Perché se poi ci acca­ de di aprire Filosofia e storiografia, leggiamo saggi con questi titoli : "La fìne della civiltà", ��l:Anticristo che è in noi" (FS, pp . 303-312 e 313-319 ) . In essi la civiltà umana è paragonata al «fìore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire» . Certo sono ancora presenti, in queste meditazioni scritte negli anni terribili del secondo dopoguer­ ra, la fede nella «forza eterna ed immortale dello spirito» ed il convincimento della «coincidenza dello spettacolo della storia con la verità dell'etica» ( ib. , pp . 3 1 1-3 12), ma è innegabile

3. Su Vico cf. E . Paci, IS, spec. capp. VI e VIII; su Vico e Hegel: V. Vitiello, "Da Hegel a Vico. Logica Storia Natura, owero: la difficile memoria del S acro", in S . Otto - V. Vitiello, V- H. 4. «A chi mi domanda che cosa abbia fatto Hegel, io rispondo che ha reden­ to il mondo dal male perché ha giustificato questo nel suo ufficio di elemen­ to vitale» : B . Croce, IH, pp. 36-37. lnvero la "redenzione" hegeliana è ben più radicale di quel che Croce non sospetti, anche in queste pagine dedicate a spiegare !"'origine della dialettica" e persino il "peccato originale" (ib. , pp. 137-139) con il concetto di "vitale": Hegel intendeva redimere non il mondo dal male, ma il male stesso qua talis. Che questo tentativo gli sia riuscito o non, è altro discorso. Sul tema cf. V. Vitiello, DP, spec. pp . 99-102 .

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che in esse emerge un sentimento tragico della storia che non si può attribuire esclusivamente alla temperie storica in cui queste pagine furono vergate . E sarebbe far torto a Croce ed alla fìlosofìa tout court legare il pensiero in modo così cogente alla situazione storica. A non dire che Filosofia e storiografia raccoglie testi dello stesso periodo, nei quali il linguaggio crociano torna ad essere quello sereno e conciliatorio che gli era più consueto5. Sorge allora la domanda, se quella prima impressione non sia sin troppo immediata, troppo legata alla lettera del testo. Ci si chiede se la pagina crociana non esiga uno sforzo ermeneu­ tico maggiore , perché si possa penetrare , sotto la translucida superfìcie della sua scrittura, una più intensamente soffe rta esperienza di pensiero. Enzo Paci non si sottrasse a questo sforzo . È tempo per riprenderlo, con nuovi strumenti, forse ; con altri intenti, certamente . l . A un tale lavoro e rmeneutico si presta bene un saggio di Croce del l929 , La Grazia e il libero arbitrio : poche pagine, ma intense, tra le più alte e libere - anche dai propri presup­ posti, se non pregiudizi - scritte da Croce6• L'inizio è solenne : « Guardo me stesso come in ispettacolo, la mia vita passata, l'opera mia. Che cosa mi appartiene di quest'opera e di questa vita? che cosa posso, con piena coscienza, dir mio?» Nulla, afferma il fìlosofo, perché se considero, nella loro genesi stori­ ca, le verità che mi sono balenate alla mente , esse, nonché 5 . Si vedano in particolare i saggi raccolti nelle sezz. III: Problemi d'istorica, e IV: Storicismo. 6. Cf. B . Croce, US, pp. 290-295. Si tratta, purtroppo, di un testo poco conosciuto, ed anche tra gli studiosi di "ispirazione" crociana scarsamente compreso nella sua "novità": cf. C . Antoni, RDN, pp . 57-59; G. Sasso, B C, pp. 781 -785. Lo stesso Paci in ES vi dedica soltanto un fugace cenno a p .

308.

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esser mie, si rivelano risultato del lavoro di tutti coloro che nel corso dei secoli passati hanno contribuito a prepararle e formularle, compresi gli oppositori che con le loro obiezioni e pretese confutazioni le hanno rafforzate per le risposte che suscitavano. E lo stesso vale per gli errori che mi è accaduto di pronunciare e propugnare, e per le buone azioni compiute ed i torti commessi. Verità ed errori, azioni virtuose e malvage «appartengono non a me ma all'autore stesso del male e del bene , allo Spirito che così si svolge e cresce» : La Grazia è discesa in tne in certi motnenti, e in altri tnotnen­ ti la Provvidenza non ha voluto che quella scendesse, ma che io errassi e peccassi per preparare tnateria e condizioni al tnio (che è il suo ) nuovo operare. ( US, p . 29 1 ) .

Con tale concezione della vita - che ancor qui C roce defi­ nisce "dialettica" - non è compatibile il libero arbitrio, né la responsabilità individuale . «Il concetto stesso dell'individuo come entità e realtà» si dissolve, e ad esso va sostituito l'al­ tro «dell'individualità dell'opera operata», il concetto cioè dell'universale concreto, dell'universale «che individualizza e disindividualizza per passare a nuove individuazioni» . Eppu­ re , continua C roce, non appena «io cesso dal contemplarmi in ispettacolo e rientro e mi immergo nella mia vita attiva e prati­ ca, ecco che tutte quelle cose che si erano disciolte, colpite di nullità, si ricompongono e risorgono energiche ed imponenti come per l'innanzi; e io mi ritrovo individuo, e fornito di libero arbitrio , e responsabile , e capace di meriti, e condannabile per demeriti» (ib. , p. 292 )

È, quest'alterna vicenda del succedersi della prassi alla te ore­ si e della teoresi alla prassi, non una contraddizione, ma la vita stessa dello spirito, che, agendo, crea la storia che , pensan­ do, contempla. Ma queste due categorie dello spirito e della realtà vanno tenute distinte e non confuse : «Verità è solo nel pensiero; l'azione non è verità e non afferma verità» . Scambia-

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re le condizioni e gli strumenti dell'agire - il libero arbitrio e la responsabilità del singolo, i meriti e i demeriti, le lodi ed i biasimi - con la verità è come attribuire realtà alle «immagi­ nazioni che gli innamorati tessono sulle loro donne e le donne sui loro amanti» . Parimenti dannoso è portare nel pratico l'at­ teggiamento contemplativo del pensiero, ché questo condur­ rebbe all'inerzia e all'irresponsabilità morale . Nell'operare , l'individuo deve far co1ne se egli fosse grazia e provvidenza a se stesso, sforzare l'una e l'altra, o, per adope­ rare formule meno paradossali, rendersi degno dell'una e dell'altra coi propri atti e sforzi. (Ib. , p . 294 ) .

I n che la "novità" di questo saggio? C roce non sembra affatto aver cambiato l'impianto della sua fìlosofìa, ha soltanto reso più netta la distinzione già esposta ed argomentata nella Filo­ sofia della pratica tra "accadimento" e �'azione". Lì C roce aveva sostenuto che se si possono e debbono giudicare le azioni degli individui - e �'secondo verità", perché secondo le categorie predicati di giudizio (i "concetti puri") -, non ha però senso alcuno giudicare l' accadimento, owero l'opera del Tutto . Quindi, citato Hegel currenti calanto, aveva spiegato che l'unico giudizio adeguato alla storia del mondo è «quello della necessità e della realtà. Ciò che è stato doveva essere ; e ciò che è veramente reale , è veramente razionale» 7. I nvero Croce, ed è qui la differenza tra l'opera del 1 908 ed il saggio del '29, non ha "soltanto" reso "più netta" la distinzione tra l'operare del Tutto e le azioni dei singoli, l'ha approfondita tanto da trasformarla in reale divisione . N ella Filosofia della pratica teoria e prassi erano perfetta­ mente pari dal punto di vista antologico : all'origine , se , com'è

7. B. Croce, FP, p. 64. A segnare l'enorme distanza da Hegel basta il rilievo che Hegel non solo pone il "razionale" prima del "reale" (cf. Hegel, GPhR, p. 14; tr. it., p. 15), ma mai e poi mai avrebbe scritto "veramente razionale"!

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detto, «in principio non era né il Verbo né l'Atto; ma il Verbo dell'Atto e l'Atto del Verbo» (FP, p. 205) , e non meno nel corso della storia, se l'alternarsi dei due "momenti" fondamentali della vita, owero la loro distinzione , comporta che «quando lo spirito si considera in una delle sue forme ossia è esplicito in essa, le altre forme sono egualmente in lui, benché hnplicite o, come si suoi anche dire, concontitanti» (FP, p . 23) . Per contro ne La Grazia e il libero arbitrio tra teoria e prassi si è aperto un abisso antologico. Gli strumenti e le condizioni della prassi non sono verità, e cioè: non hanno contenuto reale, al pari delle immaginazioni degli amanti ! Non sono realtà, ma Rnzio­ ni, Rnzioni pratiche: responsabilità, individuo, libero arbitrio . Reale è solo l'opera in cui s'attua di volta in volta la Provvi­ denza della storia. Ma se diciamo ��reale" la storia della Grazia e della Provvidenza, la storia "contemplata", la storia oggetto della teoresi, quale statuto antologico dobbiamo riconosce­ re alla storia della praxis (seppure può dirsi storia l'operare degli uomini tra bene e male, lodi e biasimi, responsabilità e redenzione) ? Se la prima è essere, la seconda è . . . non-essere? Non certamente ouk 6n, bensì n1è 6n . Come dire : non il puro, vuoto nihil, ma un essere affetto da negatività, un essere che porta in sé la sua negazione : qualcosa che tramezza essere e nulla, partecipando dell'uno e dell'altro. "Esistenza", possiamo deRnirlo, prim'ancora che con Paci, con Vico, che nella prima "Risposta al Giornale dei Letterati", richiamandosi ai "latini scrittori", dottamente spiegava: «existere non altro suona che "esserci", "esser sorto" [ ] . Ciò che è sorto, da alcuna altra cosa è sorto; onde l'esser sorto non è proprietà de' principi . [ ] Per contrario, l'essere è proprietà de' principi, perché l'essere non può nascere dal nulla»8•

8. G. Vico, prima Risposta al "Giornale de' letterati d'Italia", OF, p . 143. Questo passo vichiano richiamò l'attenzione di Paci: c f. IS, p . 66.

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Essere e apparenza, o meglio : parvenza - a questa divisione il saggio del '29 riporta la distinzione tra la storia del mondo ( l'ac­ cadimento) e le azioni dei singoli individui, liberi e responsa­ bili. E se ora dai latini, cui Vico s'appellava, torniamo ai greci, da cui quelli derivarono il loro linguaggio nlosonco, possiamo determinare, insieme con la diversità di contenuto "antologi­ co" delle due sfere dello spirito, i diversi saperi che ad esse si confanno. A «ciò che è in maniera perfetta» ed è «perfetta­ mente conoscibile» appartiene il sapere che non muta e non può mutare : l'epistétne; a quello, invece, che è «tale da essere e non essere allo stesso tempo» , che è «intermedio tra ciò che assolutamente è e ciò che non è in nessun modo», è propria la d6xa, che sta tra l'dg noia e l'episténte, il non sapere ed il sape­ re ( Platone, Repubblica. , V, 477a-b) . La determinazione delle due diverse forme di sapere rende ancor più evidente lo squilibrio tra la teoresi e la prassi . Infatti, se l'episteme conosce se stessa ed il suo altro, il contenuto della doxa e la doxa stessa (se così non fosse , a chi apparterrebbe la conoscenza della distinzione tra storia vera e storia apparen­ te ?) ; la doxa, per contro, resta chiusa nell'ambito della parven­ za e nulla sa della storia vera dell'essere , dei principi, della "sostanza". Questa maggiore estensione dell'epistétne mette in crisi il principio stesso della nlosona crociana: la distinzio­ ne . La prassi da momento distinto, si è mutata in "parte" del contenuto dell' episteme9 •

9 . Che Croce non riesca a circoscrivere l'ambito del conoscere, a farne un distinto tra gli altri risulta evidente anche ad una prima lettura dei capitoli della LCP su "La logica e la dottrina delle categorie" (pp. 149-156) e "La filosofia" (pp. 168- 179). L'esempio del lago in cui si specchia il paesaggio e che fa parte del paesaggio (ib. , p. 1 70), sarà pure una bella immagine, ma non spiega proprio quello che andrebbe spiegato. Per una articolata tratta­ zione del tema rinvio a V. Vitiello, VR, cap . II, "Il sillogismo nascosto: sulla teoria crociana del giudizio", pp. 47-76.

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Ma come la teoresi, la prassi : anche questa comprende - a suo modo - l'altro da sé in sé . È prassi, infatti, non soltanto l'agire economico ed etico, bensì altrettanto il fare artistico e filosofico-storico . Nella «vita attiva e pratica» rientrano non solo le azioni ma anche i pensieri. S crive Croce : «quando m'immer­ go nella mia vita attiva e pratica» non soltanto di quanto «ho operato di bene», sì anche «di quel che ho pensato di vero . . . non mi spossesso più, non lo separo da me . . . e , se alcuno me ne vuole strappare il merito, lo difendo e respingo l'ingiustizia e, perfino, sunuJ superbiatn» ( US, p. 293) . Certo il modo in cui l'episteme comprende la d6xa (la prdxis) è ben diverso dal modo in cui questa comprende quella. L' epi­ stéme comprende la d6xa come una "parte" del suo contenuto - e cioè la comprende quando è esplicita. Quando è implici­ ta non la comprende affatto. La teoresi avviene sempre post factunt: questo è un dato costante della meditazione crocia­ na. Voluntas fertur in incognitunt - affermava nella Filosofia della pratica, e nel saggio del '29 ribadisce che è «moralmente pernicioso» portare nell'agire l'atteggiamento del contempla­ re . Verrebbe meno infatti l'impulso all'azione . Ma non è dato capire il ruolo che svolge la teoresi quando è implicita nella prassi. Croce afferma che l'agire dotato di senso, l'azione razio­ nale, si basa sempre sulla conoscenza storica, perché in tanto è possibile operare in modo efficace in quanto si conosce la situazione in cui ci si muove . Ma questa conoscenza "storica" che l'agire esige per essere razionalmente efficace, non può attribuirsi all'episténte che toglie senso e valore all'individuo, alla libertà, alla responsabilità, ossia a tutte quelle "parvenze" che sole rendono possibile l'azione. Né avrebbe senso opporre che la conoscenza epistemica della storia toglie quelle fictio­ nes solo riguardo al passato; non si capirebbe infatti in che modo l'agire possa basarsi su una conoscenza della propria situazione storica che è di principio in contrasto con le ��condi­ zioni" e gli ��strumenti" dell'agire stesso. La conoscenza storica

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richiesta dall'agire non può essere che quella confacente alla prassi - e cioè : la d6xa . La teoresi quindi o è esplicita o non è . O si deve intendere che quando è implicita non è in atto ma in potenza? Ma come poi da «potenza» passa all'atto?10 Diversamente la p rax is , che è sempre in atto . E quando è esplicita: nell'agire propriamente economico o etico; e quando è implicita: nell'operare poetico o del pensiero11 . Non v'è atto spirituale che non sia insieme pratico, che non sia "compreso" nella praxis. È nella prassi la "storia contemplata" . È nel ntè 6n dell' ek-sistenza l'essere . È nella doxa l'episteme. Ed ora è questo essere-nella-d6xa ciò che dobbiamo indagare . S ulle orme di Paci che proprio questo aspetto dellH'idealismo" ha posto a tema delle sue analisi . Dell'idealistno - si è detto; e cioè non soltanto del pensiero di C roce, sì anche dell'attuali­ smo di Gentile12 • Chiediamoci dunque che cosa significa che la teoresi - la storia contemplata "come in ispettacolo" - è nella prassi; che cosa significa che l'episteme è nella doxa . 10. Se si assume che la teoresi "in potenza" è la prassi (cos'altro, se non questa?) , quale forza mai spinge il «libero arbitrio» ad oltrepassarsi nella verità della «Grazia>>? Non altra che la Grazia stessa. Ma se è così, l'imma­ nenza della verità (della Grazia) nella prassi non mette in forse la distinzione tra le forme - che non è empirica e "quantitativa" ma di grado, "qualitati­ va"? Come poi il ritorno della prassi e delle sue fictiones, l' oblìo della verità della Grazia? Vero è che il vicendevole alternarsi di teoria e prassi è un "presupposto" non un "posto" della filosofia dei distinti; un enunciato rima­ sto sempre privo della necessaria Rech tfertigung. I l. Talora Croce distingue il p oie fn , il fare che caratteriz za ogni attività spirituale, dal prdttein , proprio del solo agire economico ed etico (cf. SPA, pp. 28-30, e FS, pp. 3- 13) . I n tal modo, però, i problemi posti nel saggio La Grazia e il libero arbitrio vengono non risolti ma accantonati: si ripropor­ ranno, infatti, più tardi nella definizione del rapporto tra il vitale e le ( altre) forme dello spirito ( su ciò cf. infra) . 12. Il termine "idealismo" viene qui usato nel significato che ad esso dettero Croce e Gentile.

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Questo anzitutto: che nel dire, nel linguaggio , nel pensare v'è una irriducibile alterità. Il dire non dice di sé , ma d'altro . Il pensiero pensa - pensando sé - "altro" . Questa alterità fa problema. 2. Considerata in tale prospettiva, la distinzione crociana teoria-prassi è riportata alla distinzione gentiliana atto-fatto . La teoresi è volta al fatto, al contenuto del dire : al passato eterno dell'eterno presente . La prassi invece è l'atto, il dire (o guardare : theorefn) . È il presente eterno dell'eterno passato . Rileggiamo adesso le prime parole del saggio La Gra zia e il libero arbitrio: «guardo me stesso come in ispettacolo, la mia vita passata». Guardo (e dico) ora il me stesso già -stato, passa­ to, ge-wesen: ge- Wesen , la mia raccolta "essenza" (Vico ! ) . Ma nell'interpretazione di Paci la stessa distinzione gentiliana è portata ad un livello che solo il miglior Gentile conosce. E infatti l'atto che viene contrapposto al fatto non è il soggetto che si contrappone all'oggetto come il divenire autocoscien­ te all'essere che è soltanto conosciuto - mero prodotto o divenuto13 • L: atto è nella lettura di Paci, il non-conosciuto e non-conoscibile che si contrappone al conosciuto ed al cono­ scibile - è il limite del sapere . Paci rende rigoroso il pensiero di Gentile : ha di mira non l'at­ to ma l'attualità dell'atto . Se l'atto si realizza nella luce del conoscere , allora l'attualità dell'atto è ciò che è "prima" ( anto­ logicamente non temporalmente "prima") del conoscere . È l'assoluto al di là del conoscere . Al di là; meglio: al di qua del conoscere . In Pensiero Esistenza Valore Paci paragona l'attua­ lità dell'atto all' UJngreifendes jaspersiano. Esso è l' orizzon­ te di ogni orizzonte: ciò che già da sempre ci include e non

13. Ma sul te m a cf.

infra, Sez. II, capp. I e Il.

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può essere incluso nel nostro pensiero, perché per includerlo bisogna presupporre altro e più ampio orizzonte, oltre quello "pensato": il pensiero pensante, appunto . Così, con ammire­ vole ampiezza di sguardo, collegando il pensiero di Gentile a momenti cruciali della storia della filosofia antica e moderna: Il proble1na dell'atto, il proble1na dell' Utngreifende, il proble­ ma del terzo uo1no, il problema della logica della logica e della filosofia della filosofia, così fondmnentale per E1nilio Lask, il proble1na dell'Io penso kantiano in tutta la sua profonda anti­ nomicità, si Inuove nell'intilno di tutta la filosofia di Gentile, co1ne detennina il 1novimento di ogni filosofia che sia dawe­ ro filosofia. (PEV, p. 1 3 ) .

Emerge da queste riflessioni di Paci un significativo capovol­ gimento di posizione . Lattualità dell'atto è ciò che il pensie­ ro trova come il già-dato. Il Vor-gegebenes, l'assoluto Vor­ gegebenes . È il vero, autentico c'fatto" . N o n nel significato gentiliano di caput nwrtuutn del pensiero, ma nell'altro più vicino al concetto heideggeriano di Faktizitiit. Questa attualità infatti è un puro «che c'è» . È il vero proton ti, l'ous{a c'prima" del poi6n . Il p re-categoriale . Appunto il Dass es ist, la quoddità prima del \Vie es ist, prima della quiddità . O, per dirla col Paci del saggio Mito ed esistenza, «esso è l'c'altro", il non posto e non ponibile dal pensiero, qualcosa che il pensiero deve dire che non è, se vuoi essere pensiero e rimanere fedele al proprio principio interno e cioè al principio d'identità» (NPU, p . 1 13) . S e questo è vero , dobbiamo allora dire che Paci non ripor­ ta la distinzione crociana teoria-prassi (episténw-d6xa ) alla distinzione gentiliana atto-fatto; ma all'inverso la distinzione gentiliana a quella crociana. Ma anche qui v'è un'inversione di posizione : la sostanza, ciò che sta sotto e regge il tutto non è la storia c'contemplata", bensì l'attività pratica. Ed è questo poi che emerge se non dal dettato del saggio La Graz ia e il libero arbitrio, certo dal suo orientamento di fondo.

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Ora la maggior vicinanza di Paci a Croce che non a Gentile , è determinata proprio da questo riconoscimento che il Prius è la prassi, la d6xa , la Faktizitiit. Il fatto non l'atto. La natura non lo spirito . Questo è esplicito nel libro più bello del primo Paci - e forse di tutto Paci: il libro su Vico, Ingens sylva. Il criticisiTIO vichiano - scrive - è ben più chiaro di quanto non creda lo stesso Gentile, il quale non può perdonare a Vico il suo 'scetticisino', e cioè il fatto che Vico neghi l'auto­ coscienza affenTiando che la ITiente UITiana, non avendo fatto se stessa, non può conoscersi, così coiTI€ lo stesso Gentile non può non riconoscere valido il principio vichiano della non conoscibilità della natura, principio che annuncia così chiara­ Inente il liinite critico kantiano della cosa in sé. Ora proprio il principio vichiano per cui la coscienza non si conosce coiTI e tale non è che il presenthnento, anche se oscuro, del paralo­ gismo di Kant: è la critica anticipata dunque della risoluzio­ ne della legge del pensiero o della legge trascendentale ( Dio che pensa in noi) nel principio dell'autocoscienza . . . È , infine, la critica ante littermn dell'atto gentiliano, se inteso nel suo carattere in fondo psicologico e doininatico, e non nel suo senso possibile di pura probleiTiaticità. (IS, pp. 88-89) .

Di qui il costante richiamo di Paci alla tesi hegeliana espressa nella Prefazione della Fenomenologia dello spirito, secondo cui l'Assoluto (Paci scrive: l'idea) è risultato (PhiiG, p . 21; i t., l, p. 15) . È risultato in quanto "prima" dell'assoluto - e cioè del conoscere, del cogito - è la natura, l'esistenza pura: l' ek­ sistere . L'essere - il saldo, fermo essere dei principi - poggia esso medesimo sul mè 6n . La vita - l'inquieto divenire cui solo l'imperfetto conoscere della d6xa si confà - è la sorgente , pur dell' episténw. L'eterno nasce dal tempo, nel tempo. A questo livello - al livello alto cui Paci porta la discussione su Croce e su Gentile - diviene evidente la necessità dell'itine­ rario di pensiero di Gentile dal Sistenw di logica conte teoria del conoscere alla Filosofia dell'arte, e cioè : dall'affermazione

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della priorità assoluta dell'autocoscienza all'altra della dialetti­ ca antecedenza del sentimento al pensiero puro. I l nostro soggetto o sentimento non è autocoscienza o unità trascendentale della coscienza, tna il principio donde essa trae origine nel suo dialettico processo. I..:io è pensiero: l'Io trascendentale è pensiero puro o trascendentale; tna il senti­ mento, il soggetto non è pensiero bensì condizione dello stes­ so pensiero trascendentale. 14

Il sentimento che è in senso eminente dialettico, perché l'es­ ser suo nel porsi si toglie come l'inattuale, il passato eterno dell'eterno presente del pensiero autocosciente; il sentimento che è non essendo, e pertanto è in senso eminente doxastico; il sentimento, il mè 6n, è l'Atlante «che regge il mondo in cui si vive»; di più: che regge l'eterno presente del pensare . Qui si mostra la vera afRnità tra le due RlosoRe dell'ideali­ smo italiano del '900. Che il sentimento della Filosofia dell'ar­ te nomini quel medesimo che, anni più tardi, Croce deRnirà "vitale" - la forza «cruda e verde, selvatica e intatta da ogni educazione ulteriore», che «offre la "materia" alle categorie successive» e con la materia la possibilità, la potenza per espri­ mersi ed «il piacere o il dolore, comune manifestazione in cui culmina ogni vita» (IH, pp . 35-6 ) -, questo appare evidente . Che la "vitalità" trovi nel saggio La Grazia e il libero arbitrio il suo autonomo antecedente - e cioè la praxis come ntè 6n e quindi come d6xa - anche questo dopo quanto si è detto, risulta chiaro . N o n resta che trarre la conclusione, a nostro avviso ben signiRcativa, per comprendere il luogo reale ove va posta la discussione tra Croce e Paci, perché essa sia ancor oggi produttiva, teoreticatnente produttiva. La conclusione è

14. G . Gentile, FA, p . 161 . Molto significativo il riferimento all"'Ich denke" kantiano: in merito cf. infra , Sez. II, cap. I, § § 9- 10 e Appendice III; e per un più ampio svolgimento del tema V. Vitiello, GP, pp . 33-52.

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che tanto C roce quanto Gentile awertirono la necessità di interrogarsi su ciò che è altro dal pensiero, sull' ek-sistenza, sulla natura, sulla Faktizitiit, sulla d6xa come luogo dell' ep i­ sténte. La necessità, quindi, di oltrepassare i presupposti idea­ listici che erano, ove con maggiore ove con minore coerenza, alla base dei loro sistemi filosofici . Vi riuscirono ? Riuscì lo stesso Paci a conseguire una posizione non-idealistica? Voglio dire : a porre il problema dell'altro del pensiero in modo tale da non negare , nel porla, l'alterità dell'altro? Il dibattito su "esistenzialismo e storicismo" è tutto qui . Tutto qui il proble­ ma teorico. 3. Quello che per Gentile e in parte per Croce era il punto d'arrivo del loro itinerario filosofico - e cioè : il sentimento o vitalità, l' ek-sistenza, il nlè 6n, la d6xa - per Paci rappresentava invece l'inizio del suo interrogare. N el diverso modo di porre il problema è già la diffe renza tra esistenzialismo e idealismo. Ma bisogna subito aggiungere questo: sotto la differenza si cela un 'identità di fondo che è nostro compito mettere in luce. Un'identità che segna il lintite del progetto filosofico di Paci . Cerchiamo di gettare uno primo sguardo su questo limite . Un saggio su Kierkegaard, Ironia dentoniaco ed Eros15, si presta molto bene al caso nostro. In esso Paci mette in rilievo il carattere antinomico del pensiero di Kierkegaard diviso tra finito ed infinito, apertura al possibile ed esperienza dell'im­ possibilità, domanda filosofica ed esperienza religiosa. Diviso, ma insieme ambiguamente partecipe di entrambi. La cifra di Kierkegaard fu appunto l'ambiguità:

15. Pubblicato nell'Archivio di Filosofia", 2 ( 1953 ), pp. 71-103, ripreso in RSIII.

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N ella relazione tra infinito e finito l' mnbiguità nasce dalla reciprocità dei termini. L'infinito si rivela finito, l'infinito scopre in sé l'impossibilità di determinarsi. Non sa nulla di sé, può essere tutto, la pagina bianca che resta aperta dopo la maieutica nichilistica che Kierkegaard attribuisce a Socra­ te . Sulla pagina bianca può essere scritto tutto, tna non si sa cosa scrivere . È la disponibilità assoluta, la possibilità pura, la vertigine della libertà, l'infinito della libertà. Nella relazione fra finito e infinito o ci sono infinite vie o c'è una sola via. Ma infinite vie e una sola si equivalgono. (RS/11, pp . 1 8-9 ) .

L'estremo dell'ambiguità è dato da Eros : l'infinito della passio­ ne, il desiderio puro nel suo selvatico ardore, come tale non rappresentabile . Eros, o l'immediatezza dei vivere sensibi­ le, è «la non filosofia, ciò che è al di fuori del pensiero» . S e una "rappresentazione" gli s i confà, è quella della musica, perché «la musica ha in sé l'immediatezza del tempo senza esprimere ciò che nel tempo è storico» (ib. , p. 29 ) . Paci, che qui commenta lo scritto kierkegaardiano sul Don Giovanni di Mozart, sa bene che ciò cui tende il filosofo danese nell'a­ scoltare l'ouverture mozartiana, l'irraggiungibile Eros, il puro immediato che è al di là della musica stessa, è un "mito" spes­ so risorgente nella cultura europea. Mito, perché «non sembra possibile fare della filosofia combattendo la filosofia» (ib. , p . 37) . Mito, perché «qualsiasi cosa ne dica Kierkegaard il saggio su Don Giovanni non è musica, ma è parola» . «E vita ma è anche un tentativo di inte:rpretare e valutare un'esperienza della vita» (ib. , p. 36 ) . Qui Paci mostra piena consapevolez­ za del complesso rapporto in cui sono immediato e mediato, vita e filosofia, d6xa ed epistétne . E cioè che non è dato saltar fuori dell' epistétne per introdursi immediatamente nella d6xa . La vita sfugge proprio quando la si vuole mirare direttamen­ te in viso . Ma, nonostante questa lucida consapevolezza, Paci intende uscir fuori dall'ambiguità. Il fatto che Kierkegaard sia attratto da ciò che lo respinge , e respinga ciò che lo attrae , è per lui segno di una mancanza, di un difetto, prima e più anco-

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ra che del pensiero, della vita, dell'esistenza di Kierkegaard. Il giudizio sul Diario di un seduttore è per questo aspetto di enorme interesse. Paci lo considera un'opera non riuscita: le «Varie parti - scrive - sono tutt'altro che armonicamente fuse» . Com'è chiaro, per noi ora è in questione non l'opera di Kierkegaard ma il giudizio di Paci e le sue motivazioni . Se Don Giovanni rappresenta l'immediatezza della vita eroti­ ca, il seduttore è al contrario una figura affatto "intellettuale": non ama, né cerca amore, vuole potere . Agisce non con l'im­ mediatezza della passione d'amore, ma per calcolo, adeguan­ do costantemente i mezzi allo scopo che persegue , soggiogare l'altro al suo volere . Pertanto, osserva Paci, l'affermazione che Kierkegaard gli mette in bocca: « Non voglio sapere troppe storie : l'immediato mi basta», non appare coerente col perso­ naggio . Eppure nel Diario non una volta soltanto Giovanni, il seduttore , si esprime ed agisce da �'innamorato" . Paci imputa a Kierkegaard le "contraddizioni" del seduttore, dacché non ha inteso che essere innamorato è per il sedutto­ re condizione necessaria alla sua opera di seduzione . S enza l'incantesimo dell'amore , che da Cordelia si riflette sul suo seduttore , non vi sarebbe seduzione . L'amore è per Giovanni il suo inganno . Inganno riflesso . Autoinganno . C ome non vi è immediatezza pura, così non vi è pura mediazione ; se non vi è eros puro, nemmeno vi è puro disegno intellettuale , puro calcolo strumentale . L'amore di Giovanni è la sua tnalafede . E malafede necessaria. La figura del seduttore ha attratto Kierkegaard proprio per le sue contraddizioni; proprio perché ogni tentativo di distingue­ re tenendo fermi i termini distinti fallisce quando si imbatte in tale personaggio . Ma il seduttore non è che la configura­ zione umana della paradoxia del rapporto infinito-finito, della contraddizione eterno-tempo, dell'ambiguità di Eros, che è immediatezza e mediazione, incanto e seduzione , sentimento

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e pensiero. Nell'in-stante di Eros essere e ntè 6n , epistétne e d6xa, tutto e nulla si scambiano continuamente posto e ruolo - e «l'ironia si trasforma in angoscia» . Da questa ambiguità e para dox{a Paci mira ad uscire . Mira ad uscire dall'equivalenza di finito ed infinito: Per evitare l'equivalenza la relazione dovrebbe essere tale da far sì che i tennini nei quali si costituisce non siano reciproci. Ora, a nostro parere, la sola relazione nella quale ciò awen­ ga è una relazione temporale che va da un Inotnento ad un altro Inomento. Qui i tennini non sono più reciproci perché la tetnporalità è irreversibile . (Ib. , p . 19) .

L'irreversibilità del tempo è la "legge non ambigua" che implicitamente o esplicitamente - governa l'intero itinerario filosofico di Paci, dal periodo esistenzialistico a quello relazio­ nistico, sino alla fase ultima del ripensamento della fenome­ nologia husserliana. Ora questa legge non ambigua definisce il tetnpo storico . Ciò che è passato è passato, non si ripete. Il futuro non può non dipendere dal passato e quindi non è infinito, ma liinitato entro un campo di possibilità. N o n ci sono né una sola via né infinite vie, Ina c'è un cmnpo. Bisogna scegliere in questo cmnpo, scegliere in rapporto al passato al quale non si può tornare e che deve essere trasformato in futuro. La relazione è un processo, una trasfonnazione in un cmnpo, un passag­ gio. Il prilno tennine è setnpre un probletna da risolvere, una contraddizione da superare, un errore da togliere, un pecca­ to, direbbe Kierkegaard, da rediinere . (Ib. ) .

lnvero qui s'avverte molto più la presenza del pragmatismo "storicizzante" di De,vey che l'abissalità del pensiero religioso di Kierkegaard: c'è molto più il problema da risolvere che non il peccato da redimere . Questo anche per dire - o ribadire che Esistenzialisnto e storicisnto segnava un punto di incontro e di conciliazione - non certo un'opposizione . Ma allora l' ana­ lisi del dibattito intervenuto tra C roce e Paci serve anche , o

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soprattutto, a chiarire e mettere in evidenza i presupposti su cui quell'incontro e quella conciliazione si basavano . 4. Come si è detto, il punto da cui muoveva l'interrogazione di Paci era l'ek-sistenza, il vitale . In Croce, scrive , [ . . . ] l'arte, proprio in quanto fanna aurorale dello spirito, ritnanda a qualcosa che è prima dell'aurora spirituale, rilnan­ da dunque a qualcosa che non è spirituale. Questo qualcosa è la fanna utilitaria che Croce considera cotne fanna spirituale, tna che in realtà, nella sua filosofia, esercita la funzione di contrario dialettico dello spirito. (ES, p . 34) .

In questa critica Croce si vedeva risospinto verso posizioni teoriche che aveva abbandonato già agli inizi del '900. Anch'e­ gli - nella cd . I Estetica16 - aveva posto a base dell'intuizione artistica un elemento pre-spirituale, naturale : l'impressione sensibile . In seguito, anche per influsso di Gentile, aveva recu­ perato all'ambito dello spirito pur la c'materia" dell'intuizione. Questa materia gli si era rivelata forma essa medesima - la prima forma della prassi: l'utile o economico. L'assunzione della natura come volontà era una determinazione metafìsica che legava il pensiero crociano alla tendenza dominante della fìlosofìa moderna. Croce , che ne era pienamente consapevole, paventava che quel legame fosse troppo stretto . Le sue criti­ che , diverse nel tono e nell'ampiezza dell'argomentazione, a Schopenhauer come a S chelling, a Nietzsche come a Bergson e a Marx17, la sua dura requisitoria contro l"'irrazionalismo" 16. Del 190 1 , poi riveduta alla luce dei risultati conseguiti nella Logica e nella Filosofia della pratica, cf. Avvertenza alla III ed. ( 1907) dell Estetica , p . V: M a cf. anche i nfra , Sez. II, cap . I, § 5. 17. Su Schopenhauer, Schelling e Nietzsche cf. i saggi raccolti in: B . Croce, SH, pp. 354-68, 334-43, 4 1 1- 15; su Bergson cf. Cc/l , pp . 75-78; su Marx cf. in particolare la cronistoria "Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia ( 1 895- 1900) " in appendice a MSEM: in merito infra, Appendice l. '

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della cultura, non solo filosofica, contemporanea (SI, cap . X) , sono tentativi di allentare quel legame , di porre confini netti tra la sua filosofia e la tradizione volontaristica-vitalistica del pensiero moderno . In sede strettamente filosofica questo significava definire in modo rigido i limiti dell'agire prati­ co-utilitario, i limiti della volontà-natura. E quindi assumere la stessa natura-volontà come forma. La "formalizzazione" dell'utile era un modo per esorcizzare la pr6te htjle - la mate­ ria prima, quella pura potenza che già ad Aristotele era appar­ sa come il non-essere (Met, IV, 1 007b 25-30) . Attribuire all'u­ tile un'autonoma forma significava attribuire l'essere - l' essere epistemico - al non essere (tnè 6n) della doxa. L'operazione, però , non gli era riuscita. La natura-volontà era incontenibile nello spazio circoscritto di una forma. De borda­ va d'ogni lato : si presentava nell'arte come brutto, nel pensie­ ro logico come errore, nell'etica come male . Esso solo aveva una sua propria opposizione interna: l'opposizione vitale, sentimentale, erotica tra piacere e dolore . Opposizione peral­ tro difficile a cogliersi, perché, se il brutto, l'errore e il male conservano comunque - e cioè anche là dove non sono brutto errore e male , perché non superati e vinti dal loro opposto "positivo" - la propria "realtà" di atti volitivi, il dolore, o più in generale il "negativo " della volizione utilitaria, non ha una sua propria "realtà". Il vero per realizzarsi lotta con l'utile, con un "distinto" reale . E la volizione utilitaria? Qual è l'opposto "reale" del volere ? Altro volere ? Fosse così, il criterio di distin­ zione tra positivo e negativo sarebbe solo il "successo" . Positi­ va la volontà che vince , negativa quella che perde . Vero, bello e bene sono criteri di valore "oggettivi" - si realizzino o non . Il criterio per valutare l'utile e distinguerlo dal disutile è invece il "fatto" . Così nell'esperienza masochistica il dolore è il "posi-

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tiv o", negativo il piacere18 • E che dire del cupi o dissolvi , del desiderio di morte , del legame profondo, sotterraneo che lega Eros a Thanatos? Invero la natura, anche assunta nella forma più bassa dello spirito, mantiene la sua irriducibile ambiguità. D'altronde lo stesso svolgimento del pensiero crociano attesta questa irriducibilità. N e La storia carne pensiero e conze azio­ ne, l'opus ntaius della tarda maturità, C roce è come costret­ to ad ammettere accanto ed oltre lo schema circolare delle forme distinte uno schema dualistico fondato sull' opposizio­ ne sempre aperta di forza e violenza. Da un lato la forza che sorregge la vita dello spirito, l'etica che mantiene ciascuna forma nei confini che le sono propri, dall'altro la violenza che sowerte ogni ordine ed è costante minaccia dell'armonica vita dello spirito (cf. SPA, pp . 44-47 e 241-247) . Forza e violenza, owero : spirito e natura. L'utile risulta diviso in due : in quanto forza che crea è spirito, è, in senso ampio, morale ( al pari del vero e del bello ); in quanto violenza, e disordine, e male, è respinto fuori dallo spirito, nella natura, nella materia. Così l'ambiguità sembra tolta. Ma sembra soltanto. Perché lo stes­ so potere di ethos non altrove trae alimento che dalla "natu­ ra", dalla vitalità cruda e verde , che è materia e potenza. La forza stessa, la forza etica, deriva da questa selvatica potenza - per cui il filosofo, in uno dei suoi ultimi scritti, traendo le conclusioni ultime di queste meditazioni "etiche", scriverà che su di essa «conviene usare impero ma non tirannide, perché, domata e umiliata che fosse, c'è rischio che, resa incapace di male, sarebbe inetta anche al bene» (IH, p. 138) . C'è allora da chiedersi donde l'etica tragga la sua forza per opporsi al vitale, per esercitare su di esso "impero" . La natura non cessa

18. Si veda l'esemplificazione fornita in FP, p . 136, ove peraltro Croce ritie­ ne di poter equiparare la dialettica positivo-negativo degli altri distinti a quella dell'utile, così perdendo di vista la specificità dell'economico che è l'unica "forma" dotata di autonoma polarità dialettica.

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di preparare sempre nuove insidie al ragionamento del fìloso­ fo . La natura è e resta ambigua, perciò l'unico sapere che le si confà sembra essere quello doxastico. Ma l'ambiguità che s'esprime nella d6xa s'estende all' epistén1e, all'essere , all'eter­ no, dacché - come sappiamo dal saggio La Grazia e il libero arbitrio - l'episténte, l'essere , l'eterno non sono se non nella d6xa, nel mè 6n , nel tempo. È, questo, il tema kierkegaardiano della dialettica "ironica" di Eros. Tuttavia qui fìnito ed infìnito non si equivalgono. L'ambiguità è in qualche modo frenata : i termini sono già distinti come natura e spirito . E quantunque la natura abbia in sé forza e violenza, la distinzione dello spiri­ to è, in certa misura, già penetrata in essa. La potenza non è pura potenza - la materia è già signata. 5. Le obiezioni che Paci muove a Croce possono ricondur­ si tutte a quest'unica, che l'utile o vitale - l'esistenza, come amava dire Paci - è materia non forma. Che l'esistenza è doppia in quanto può sia destinarsi al valore, morendo come esistenza bruta, come mera natura o ingens sylva, sia chiu­ dersi in sé, convertendosi da contrario che implica il valore in contraddittorio che esclude da sé ogni determinazione assio­ logica. Paci approfondiva il dislivello tra natura e spirito, d6xa ed episténw e poneva Croce davanti a questa alternativa: o seguire la via di «dedurre dal concetto stesso dello spirito le forme spirituali come momenti dialettici dello spirito stesso», così tornando alla concezione hegeliana della fìlosofìa come "sistema", ovvero prendere l'altra via «non verso la dialettica dello spirito , ma verso l'oscurità dell'esistenza» (ES, p. 46) . I rilievi di Paci - ove si prescinda da alcuni aspetti particola­ ri, legati più all'accidentalità della cultura del tempo che non alla necessità del discorso logico - erano giusti, anche filologi­ camente corretti . Che «la fìlosofìa crociana viva di un incon­ fessato dramma tra pensiero e azione , tra vita teoretica e vita

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pratica, tra Geist e Leben, nonostante e proprio per la sere­ nità con cui tale dramma sembra sempre risolto e sempre di nuovo riaffìora» (ib. , p. 4 7) - non può negarsi, se non si vuole ripercorrere a ritroso il cammino speculativo di Croce : da La Grazia e il libero arbitrio alla Filosofia dello spirito . E tutta­ via fu proprio questo l'atteggiamento di Croce in risposta alle obiezioni del suo giovane interlocutore. Riaffermando la tesi che non si dà materia senza forma, ribadendo la circolarità dei gradi dello spirito, secondo cui ciascuna forma funge da mate­ ria per la successiva, ma nessuna è materia di per sé - Croce rispondeva arretrando . Negava proprio la parte migliore di sé: il dramma tra Geist e Leben, l'opposizione sempre aperta tra natura e spirito, violenza e forza. E tuttavia, nel respingere le conclusioni che Paci traeva dal suo pensiero - ed invero con molta fìnezza, spesso mettendo da parte sé e facendo parla­ re Croce , ovvero parlando con le parole stesse di Croce -, nel rifìutare tali conclusioni, C roce aveva ragione . E più di quanto non riuscisse a dire . Aveva ragione non solo riguardo al proprio pensiero, al proprio sistema dei distinti, sì anche riguardo a Paci, al pensiero di Paci . Per comprendere le ragioni di Croce, dobbiamo fare un passo indietro, risalendo a quel capitolo della Logica, nel quale si tratta del "predicato di esistenza" (LCP, pp. 103- 1 13) . In questo capitolo Croce dimostra: l) che l'esistenza è predicato, 2) che existentia involvit essentiant. Quanto al primo punto l'argomentazione crociana si riduce all'osservazione che se «per l'uomo intuitivo, pel poeta, per l'artista» la distinzione tra esistente ed inesistente, tra realtà e fantasia è indifferen­ te , giacché il poeta «non esce in quanto tale dalla cerchia rappresentativa», per l'«uomo logico» invece tale distinzione è fondamentale . L: atto logico, infatti, sorge proprio distinguen­ do. Distinguendo il pensiero dall'azione, e quindi il «reale» dal puramente «fantasticato» o «immaginato» , e l'azione dai desideri, il concreto dall'astratto. L:esistente dall'inesistente .

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E queste distinzioni sono, nell'atto logico, categorie-predicati . L'esistenza è dunque predicato . C on ciò siamo già introdotti nell'argomentazione relativa al secondo punto . Il predicato di esistenza si identifica col predicato di essenza - perché l'esi­ stenza, in quanto predicato, è sempre in questo o quel modo qualificata. È sempre azione o pensiero, azione utilitaria o morale , pensiero intuitivo o logico. Croce , tra l'altro, mette sull' awiso il lettore a non confondere l'atto logico del giudi­ zio in cui soggetto e predicato sono sintetizzati o unificati, col fatto grammaticale del giudizio, nel quale i termini restano separati . Pure una qualche distinzione-separazione tra soggetto e predicato del giudizio logico Croce deve mantenere . Perché se è vero che il soggetto è «compenetrato di logicità» , è non meno vero che in quanto individuale esso pareggia l'univer­ sale predicato solo all'infinito - ossia: non lo pareggia mai. Facendo leva su questa disequazione, Paci mette in luce il carattere assiologico del giudizio, ribadendo la tesi del conflit­ to tra Geist e Leben, ethos e vitalità, ragione e esistenza. « Un giudizio teoretico puro» - scrive - e cioè «l'identità assoluta di soggetto e predicato renderebbe impossibile in fondo il giudi­ zio» . La categoria - il valore - è solo il punto limite irraggiun­ gibile del giudicare . Pretendere un giudizio puro, un'assoluta verità è pretesa vana, cotne sarebbe vano pretendere un pensiero assoluta­ tnente vero e identico a se stesso, e, tuttavia, se il giudizio è possibile, è proprio perché tende all'assoluta verità, al valore che, realizzato, lo renderebbe ilnpossibile . (ES, p. 159) .

S e il soggetto non si adegua mai al predicato, cui pur tende , è perché in esso v'è qualcosa che lo sottrae al predicato. Il soggetto - l'esistenza - non è mai tutta compenetrata di logici­ tà. Cosa nel soggetto resiste, rilutta al concetto? Quale materia

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oscura, impenetrabile, irriducibile alla trasparenza della cate­ goria domina l'esistenza? Non altro che la praxis : Se l'esistenza è iininediatezza o fare, e quindi pnixis, e la veri­ tà assoluta è teoresi, la possibilità del giudizio esige l'idea della risoluzione co1npleta della p nixis nella teoresi, ma, finché il giudizio è possibile, prdxis e teoresi, esistenza e valore, sono in rapporto dialettico; il che vuol dire che, nel giudicare, la p rdxi s non si risolve Inai nella teoresi e cioè che il giudizio, nella Inisura in cui è possibile, non è 1nai solo puro fare o puro conoscere, 1na insie1ne conoscere e fare. (Ib. , p . 160 ) .

La tesi di Paci richiama e ribadisce quella crociana del saggio La Grazia e il libero arbitrio: la d6xa è il luogo in cui si realiz­ za l' epistétne . Ma con qualche differenza: la realizzazione non è mai completa, compiuta. I;episténte è l'irraggiungibile fine della d6xa - l'essere è il télos infinito del tnè 6n . Linconse­ guibilità del fine apre lo spazio della libertà all' ek-sistenza, all'individuo. L'individuo è libero perché l'espistétne non è non è mai - realizzata. Lo spazio dell'ente è dato dall'assenza dell'essere . Il rapporto tra ente ed essere, d6xa ed epistétne è "dialettico" - ma si tratta di una dialettica i cui termini non sono reversibili . Finito ed infinito, ente (tnè 6n) ed essere, d6xa (praxis) ed epistéme hanno posizioni ben distinte e defi­ nite, come potenza ed atto. La kfnesis, il movimento dall'una all'altro è il tempo irreversibile : vero atto imperfetto, incom­ piuto, enérgheia atelés . Incompiutezza-imperfezione propria della potenza che ha in sé i contrari . Ma nella potenza, che sempre accompagna l'enérgheia atelés del tempo, è la libertà dell'esistenza. L'identità pura o la verità pura sarebbe l'eterno . Il giudi­ zio, per essere possibile, è direzione della temporalità verso l'eterno. La sua possibilità esige la direzione della teinpo­ ralità verso l'eterno. L'esistenza manca dell'eterno e perciò deve negarsi per l'eterno: il te1nporale è, in questo senso, non ripetizione, 1na direzione verso l'eternità. Essendo la libertà a

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fondamento delle possibilità del giudizio, l'esistenza può non dirigersi verso l'eterno. Nella misura in cui attua l'eterno è coerenza, nella tnisura in cui si pone contro l'eterno e presen­ ta il tetnporale cotne l'eterno è contraddittorietà. La coeren­ za è dirigersi il più possibile verso l'eterno. Essendo l'eterno irraggiungibile si presenta come possibilità di apertura verso il futuro . (Ib. , p. 167).

S corgendo nella struttura dell'atto logico tempo e valore , Paci se m brava discostarsi parecchio dall'impostazione crociana. In verità traeva dal discorso di Croce conclusioni nuove e diver­ se, ma non in contrasto sostanziale con le tesi crociane ( altri avrebbe più tardi, con minore originalità ed autonomia di pensiero, ripreso questi temi di Paci19) . Questo si dice, per ribadire la profonda affinità - meglio: la sostanziale identità ­ delle premesse di Paci con quelle di Croce . E ntrambi erano e restavano profondamente , essenzialmente "hegeliani" (e nel significato più tradizionale dell'espressione ) nell'impostazione e nella soluzione del loro problema - anche , o proprio quando a Hegel intendevano opporsi . 6. N ella Logica cotne scienza del concetto puro Croce respin­ ge la distinzione tra giudizio e sillogismo . Ogni atto logico è giudizio e sillogismo insieme, perché pensare un concetto significa pensarlo in connessione con gli altri : Un concetto, pensato fuori delle sue relazioni, è indistinto, cioè nient'affatto pensato, e per questa ragione non si può concepire la connessione dei concetti, ossia il sillogizzare, cotne un nuovo e più cotnplesso atto logico. (LCP, p. 78) .

19. Cf. C . Antoni, CC, pp . 1 1 1-30; RDN, pp. 45-51 .

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La critica crociana attesta soltanto la profonda incomprensio­ ne della dottrina hegeliana del sillogismo20• Perché il proble­ ma che Hegel affronta nel sillogismo non è semplicemente quello di connettere vari concetti tra di loro, bensì l'altro, ben più rilevante , di mediare - attraverso la connessione dei "concetti" - pensiero e realtà, universale e individuale, Geist e Leben, epistérne e d6xa, essere e rnè 6n . Questo è già esplicito nel l802, quando, in Glauben und Wissen, contro Kant Hegel rileva che l'identità degli eterogenei (predicato e soggetto, concetto e reale , universale e individuale) non è "posta" m a solo "presupposta" nel giudizio: [ . . . ] l'identità assoluta non si presenta co1ne tennine medio nel giudizio, bensì nel sillogismo; nel giudizio essa è soltanto la copula "è", un non-cosciente e il giudizio stesso è solo la Inanifestazione predo1ninante della differenza. ( GvV, p . 307; it. , p . 142 ) .

M a è nella Scienza della logica che H e gel, attraverso l a succes­ sione delle varie figure del sillogismo, dimostra la struttura relazionale dell'intero, e cioè la razionalità del reale . Nelle prime figure del sillogismo - ed in particolare nella seconda, il sillogismo della riflessione, e nella terza, il sillogismo della necessità (WL, II, pp. 380-401 ; it. , II, pp . 780-800) - Hegel, seguendo un metodo che ricorda da vicino quello katà tàs diairéseis di Aristotele (Met. , l, 7, 12) mette in luce la necessità dell'universale genere di particolarizzarsi nelle specie sino alla determinazione individuale ultima, all' atonton ezdos' all'indi­ vidu unt ontninwde deterntinatunL Con questa dimostrazione Hegel prova solo la prima parte della sua proposizione filo­ sofica fondamentale, secondo cui «\Vas verniinftig ist, das ist \Virklich»; la seconda parte - la realtà del razionale: «und \Vas

20. Tale incomprensione s'aggrava nella lettura della Logica hegeliana dell'Antoni: cf. "La dialettica di Hegel", CHM, pp . 1 -20 .

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'virklich ist, das ist verniinftig» ( GPhR, p. 1 4 ) - trova la sua dimostrazione nella sezione dedicata allH'Oggettività", la quale può ben essere definita la quarta figura del sillogismo21 • Quivi Hegel, movendo dall'individualità immediata, mostra come la struttura dell'intero è il fine , il télos di ogni ente; mostra cioè la teleologia della ragione , ossia: il farsi dell'individualità in quanto libertà. Il sillogismo in Hegel è la di-mostrazione della vera circolarità dello spirito, che da essenza, Wesen , necessità dell'individuo si traduce nell'operare dell'individuo in teleologia e libertà. Detto in termini crociani, il sillogismo è la mediazione tra la storia come pensiero e la storia come azione . Ma C roce né nella Logica né nella Storia awertì l'esi­ genza di questa mediazione, ragion per cui le categorie come predicati di giudizi stanno semplicemente accanto alle cate­ gorie come potenze del fare, e la loro identità resta un mero enunciato privo di qualsiasi legittimazione (cf. LCP, Parte I, S ez. III , cap. III, e SPA, pp . 38-9) . Nella filosofia crociana il sillogismo che ne legittima la validità resta nascosto . Resta nascosto ciò che spiega il passaggio dal pensiero all'azione, ciò che spiega la razionalità dell'azione , la sua pensabilità, la sua struttura epistemica di fondo . Resta nascosto ciò in base a cui Croce può parlare della natura «come storia senza storia da noi scritta» (SPA, pp . 298-304) . Ciò in forza del quale il vitale ­ anche preso come forza «selvatica ed intatta da ogni educazio­ ne ulteriore» - è da definire «forma». Resta nascosto a C roce la ragione per cui non poteva, egli, accettare la riduzione di Paci dell'esistenza a «materia» . Pur quando si rifiuta al suo fine immanente, pur quando da forza si converte in violenza, l'esi­ stenza individuale è per essenza, physei, razionale . Existen­ tiatn involvit essentiatn: il reale è katà physin, anche se non sempre katà télos, razionale .

2 1 . Sull'argomento cf.

infra, il cap. II di questa Sez.

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Ma ora questo è da mettere in rilievo: ciò che si è detto non vale per C roce più di quanto non valga per Paci, per il pensie­ ro di Paci . La cosa è del tutto chiara nel libro su Vico, Ingens sylva. 7. Si è già parlato della critica "hegeliana" che Paci muove a Gentile lettore di Vico : il Frius non è il cogito ma l'esistenza. l: assoluto, il pensiero è risultato, l'inizio è la natura. Ma come si caratterizza, in questa interpretazione, la natura? La natu­ ra - dico - dei Giganti, la selvatica natura dei nati da Gea, da Madre Terra, la natura bruta. Certo essa è anche male , peccato: «la natura è sempre circon­ data per Vico da un alone di pessimismo» . Ora Dio, in quan­ to «omnium motuum, sive corporum sive animorum, primus Auctor» , è anche la causa come dell'esistenza naturale, dell'uo­ mo-bestia, così del male? Paci accenna ad una "possibile" anticipazione vichiana dell'ultimo S chelling; accenna anche ad una inclinazione vi chiana al manicheismo : «non stenterei a credere - osserva - che proprio scrivendo il De antiquissinta il Vico sentisse a poco a poco tornare la disperazione di Vatolla» . Come uscire da questa disperazione - dalla disperazione cui induce la natura-male, la natura causa del peccato e nemica della storia e della libertà, nemica dello spirito? Bisognava necessarimnente pensare che la natura 1nossa da Dio co1ne motore immobile, e poi misteriosmnente corrotta, avesse la possibilità di ritornare a Dio, e cioè di redimersi attraverso l'idea. Si fa avanti dunque l'idea di un circolo nel quale la natura provenga da Dio e poi, attraverso la storia intesa co1ne redenzione dell'uo1no caduto, diventando timo­ re di Dio, sapienza poetica, civiltà umana, ritorni a Dio. (IS, p. 67) .

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È ben evidente il carattere neoplatonico di questo schema circolare . (Ma neoplatonico, è bene dirlo subito, è anche il circolo delle fìgure del sillogismo in Hegel; ancorché si trat­ ti di un neoplatonismo tnondananwnte reinterpretato) . Paci, dal canto suo, mette in rilievo che questo schema circolare - «questo provenire da Dio come barbarie e ritornare a Dio come civiltà» - configura la storia ideale eterna con i suoi corsi e ricorsi, cui presiede «la Provvidenza che trasforma l'uo­ mo-bestia in uomo civile». La Provvidenza funge qui da tnedio tra il Dio causa e motore della natura e il Dio legge morale e storica. La Provvidenza è il valore , l '«ideale trascendentale», la ragione che opera segretamente sin nella barbarie : «il timor di Dio non è che la prima e vaga attività operante della ragio­ ne» . Ma questo "medio" non è dimostrato , ma solo enuncia­ to - per dirla con Hegel: è "presupposto" non "posto". Come solo enunciata, presupposta è l'identità tra la categoria-predi­ cato e la categoria-potenza del fare in Croce. Si legga questo passaggio in Ingens sylva : [ . . . ] il Dio di Vico non è soltanto legge di cotnprensione della storia, ideale di conoscenza [ . . . ] è anche principio attivo della natura che, elevandosi alla razionalità, fa la storia: è anche categoria operante (ib. , pp. 68-69) .

Qui l'adesione di Paci al suo Autore è completa, totale . Come è completa, totale, la sua adesione alla tesi crociana della eternità delle categorie . Delle categorie-funzioni come delle categorie-predicati . E infatti, discutendo del libro di Ernesto de Martino sul Mondo tnagico, fa valere contro il tentativo di questi di aprire il sistema crociano, e più in generale la fìloso­ fìa tradizionale a categorie storiche "altre", diverse da quelle sorte e sviluppatesi entro l'orizzonte dell'umanesimo occi­ dentale, la necessità logica di mantenere le categorie che ci servono per capire il mondo moderno anche per la compren­ sione del mondo magico (NPU, p . 123) . Se togliamo «il mondo magico dal nostro mondo storico . . . non si capisce perché ne

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parliamo» - scriveva, così rovesciando la prospettiva demar­ tiniana, opponendo ad un tentativo di apertura del quadro storico una rigida chiusura. N o n senza :Hloso:Hca "ingenuità", dacché restava non discusso, anzi non avvertito, il problema che solo era, dal punto di vista :Hloso:Hco, necessario discutere : i l problema dell'identità delle categorie potenze del fare con le categorie predicati di giudizi . Identità che in Croce stes­ so sembra spezzarsi, e comunque si fa problematica, là dove si oppone all'eternità non storica delle categorie l'afferma­ zione decisa, peraltro inevitabile , della storicità del concetto delle categorie ( cf. SPA, pp . 25-26) . Anche qui la riflessione sul sillogismo hegeliano, sulla distinzione tra la razionalità del reale secondo natura (katà phtjsin) e la razionalità del reale secondo :Hnalità (katà télos ) - distinzione peraltro presente nel libro su Vico , come s'è visto; distinzione che Paci più agevol­ mente che non C roce avrebbe potuto approfondire , proprio per la sua maggiore attenzione al carattere di valore , di télos della categoria-predicato -; anche qui la riflessione sul sillogi­ smo hegeliano sarebbe stata particolarmente utile e teoretica­ mente pro:Hcua. Ma il sillogismo, come in Croce così in Paci, rimase nascosto . Vediamone ora le conseguenze nel pensiero di Paci. 8. Leggiamo in Esistenzialistno e storicisnw: Posso io conoscere soltanto? Sarebbe non giudicare più. lo conosco solo in quanto mntnetto il non conosciuto, l'esistenza, la cosa in sé . Conosco in quanto riconosco anche di non cono­ scere e riconoscendo il lilnite pongo anche, insieme al cono­ scere, il sentire; e il sentire che vuoi armonizzarsi con il cono­ scere, e tuttavia intermnente non può, e tale armonia pone cotne coerenza e dovere . Così, proprio in quanto io conosco, faccio anche un atto che non risolve tnai la tnia singolarità nell'universale, e perciò sento, pur cercando di risolvere il sentire in conoscenza e l'esistenza in verità. (E S, p. 257).

65 La materia oscura, riluttante al concetto, non mai tutta compe­ netrata di logicità, che prima si era rivelata a noi come prassi; l' ek-sistenza, il ntè 6n , la natura «misteriosamente corrotta» si mostra ora in altro e più antico sembiante : essa è sentire, puro sentire . Se ci movessimo nella prospettiva di H e gel, secondo la quale il vero è il sillogismo, potrenuno dire che qui Paci non si rende conto che «l'in sé della coscienza empirica è la ragione stessa e che l'immaginazione produttiva (Einbildungs­ krajt), tanto quando intuisce che quando esperisce, non costi­ tuisce facoltà particolari separate dalla ragione» ( GW, p. 308; it. , 143) - o, per dirla più semplicemente : che la sensazione è già ragione ; che in tanto può tendere all'universalità del cono­ scere , in quanto per essenza, physei , è già ragione, razionali­ tà: già da sentpre. O, in termini vichiani: che Dio è già all'o­ pera nel bruto sentire . Potrenuno dire . E si direbbe il vero. Ma non tutto il vero . Perché Paci non è solo "hegeliano", ma oscilla tra Hegel e Kant. Di proposito si è testé richiamata la pagina di Glauben und Wissen che reinterpreta criticamente Kant riconducendo l'Einbildungskraft, la facoltà che produ­ ce immagini, alla ragione . Di proposito, per aprirci a questa domanda: è possibile per Paci questa riduzione dell'immagi­ nazione alla ragione? Quale ruolo abbia giuocato l'itnntagine nel pensiero di Paci è anche superfluo ricordarlo, basta scorrere i titoli dei suoi libri e dei capitoli dei suoi libri22 • Per non staccarci dall'interpre­ tazione di Vico, andiamo a leggerei la pagina da lui dedicata al tema in questione in Ingens sylva. l:immagine - sia essa parola o visione, mito o arte - funge da tnedio tra la naturalità del senso e l'astrattezza del pensiero. È per l'immagine che è possibile pensare la verità come assoluta e relativa insieme :

22. «Esistenza e immagine" è titolo sia del volume del l947, i cui saggi sono poi rifluiti in RSIII e RSIIII, che del cap . IV di IS.

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«nel mito la verità è eterna ed insieme diveniente, è fuori della storia ed insieme nella storia, fuori del tempo ed insieme nel tempo». S enza il mito, senza immagine, la verità sarebbe inco­ noscibile - perché perfetta ed eterna, estranea al senso, alla natura. Il mito media epistétne e d6xa, essere ed esistenza (ntè 6n ) . L'immagine svolge in Paci la medesima funzione che in Kant lo schema trascendentale ( ed il nome di Kant è quello che ricorre più spesso in Ingens sylva ) . Ma lo schema come terzo termine , come tnedius tenninus additus alla sensibilità e all'intelletto - non come (possibile) radice dei due tronchi dell'umana conoscenza. Il mito, cioè, interviene ad unire ciò che è originariamente diviso. La fine del 1nito sarebbe l a fine di ciò che è utnano perché l'uomo [ . . . ] non è né mera imtnanenza né m era trascen­ denza, 1na è il concreto attuarsi del trascendentale: è quindi tnedietà. Quando Vico hntnagina dunque una ragione tutta spiegata, se tale ragione fosse possibile raggiungerla, egli si troverebbe nel nulla: l'assoluta identificazione della trascen­ denza con l'hntnanenza coinciderebbe con la loro assoluta estraneità. (IS, p. 1 13 ) .

La distanza da Hegel è ben evidente . Si vuoi dire qui : la distanza dall'inte1pretazione inconsciamente, inintenzional­ mente "hegeliana" (tramite Croce, nel senso che si è chiarito) della Provvidenza come ntedio tra il Dio-motore e il Dio-legge trascendentale - medio che opera in latenza sin nella natura bruta e che esprime l'identità essenziale e profonda del Dio causa e del Dio valore . Kant/Hegel - dunque . I..: oscillazione di Paci non indica soltanto un'indecisione, un difetto di coerenza, una mancanza di rigore . Indica anche qualcosa di positivo: l'urgenza di un problema non dominato, eppure awertito . Di questa oscilla­ zione il polo o coté hegeliano appiattisce la posizione di Paci su quella crociana; l'altro, il polo o coté kantiano, rivela una tendenza diversa, aperta ad esiti altri - un diverso pensiero che

67 parla a noi ancor oggi, perché in esso è presente un problema eterno della fìlosofìa, il problema; pensiero purtroppo non sviluppato, non approfondito, anzi via via lasciato cadere. Sino al completo oblio . 9. Fermiamoci dapprima sul coté hegeliano. Paci rivendica all' ek-sistere, alla natura, alla vitalità, il carattere di mate­ ria pura non ancora formata. Ma questa esistenza sensibile, naturale, vitale è materia solo nel senso bruniano, è mate­ ria in quanto madre di tutte le forme. Madre e matrigna, se essa come le fa sorgere così le spegne, le annulla. Materia, o meglio: Jo-nna Jonnaru nt. O ancora: la Vita stessa - die einfa ­ che Substanz des Lebens, la semplice sostanza della vita, come suona la defìnizione hegeliana. Quella semplice sostanza che si divide in fìgure differenti e insieme le dissolve ; quella Vita che «accenna a qualcos' altro da ciò che essa è, vale a dire alla coscienza» (PhiiG, pp. 137 -38; it. , pp . 148-49 . Come Vita e Natura, questa esistenza non ha in sé nulla della demoniaca ambiguità dell'Eros kierkegaardiano . An sich, in sé, essa è già etica23 • Ha solo bisogno di svilupparsi a coscienza morale fii r si eh s elb s t l:irreversibilità della dialettica temporale non toglie certo alla potenza i suoi contrari, non toglie all' ek-sistenza la possibilità negativa di chiudersi in sé contraddicendo il valore; indica, tuttavia, la destinazione norntale (ex lege) della libertà . Più volte , parlando della natura in Vico, Paci usa l'espressione kantiana "cosa in sé" . lnvero in questo orizzonte ermeneuti­ co - defìnito dal "sillogismo nascosto", dalla Prowidenza che funge da medio tra il Dio-causa e il Dio-valore - non c'è posto per Kant. Chi domina è Hegel - e solo Hegel. Oltre, ben oltre l' intentio fìlosofìca di Paci . La presenza di H e gel si farà sempre più determinante nel corso degli anni, sino all'interpretazione .

23 . Sul tema rinvio a V. Vitiello, EE.

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della Krisis der europiiischen Wissenschaften, ove si esplici­ ta nell'accostamento di Husserl a Marx (cf. FS S U, P. III, pp . 303-466) . Scriverà in Fenotnenologia e dialettica: Proprio nell'era in cui l'uomo cerca di allontanarsi dalla Terra, cosa che non vuol dire pacificare la Terra, Husserl parla della centralità utnana del nostro pianeta. Proprio nell'epoca nella quale la scienza e la tecnica ci pennettono di poter conqui­ stare qualcosa di più della natura utnana, Husserl difende la natura utnana. Husserl non è in questa sua posizione un retrogrado o un esaltatore dell'epoca nella quale la Terra e l'uotno si sentivano al centro del Inondo. Ma egli difende l'uomo e il suo sviluppo storico diretto verso un fine infinito. La storia dell'utnanità ha un télos e deve raggiungere questo télos nel pianeta Terra e in tutta la storia di questo pianeta a partire dalla sua origine, ciò che è il cotnpito della fenotneno­ logia genetica. (FD, pp. 10- 1 1 ) .

Di qui l'illusione - e la presunzione - del filosofo funzionario dell'umanità. Questo Paci appartiene irrimediabilmente al passato . 10. Il coté kantiano rivela invece altri aspetti - ben presenti e vivi - del pensiero di Paci . Certo più nascosti . È il caso di portarli alla luce . Torniamo dunque al tnedius termi nus dell'immagine . Se questa, che è il luogo dell'umano, unisce ciò che è origina­ riamente diviso , allora gli estremi sono fuori della portata dell'uomo, delle possibilità conoscitive dell'uomo . Né la bruta immanenza né la pura trascendenza sono conoscibili: né la caotica ingens sylva del molteplice sensibile né la perfezione onninclusiva del S emplice, dell' Uno, del Valore . Conoscibi­ le è solo lo Hén panta , l' Uno-molti. Non l'E terno, ma l'eter­ no figurato nel tempo. Vediamo ora quali questioni apre tale concezione del tempo icona dell'eterno. S crive Paci:

69 Il probletna del tetnpo si pone cotne detenninazione dell'i­ nizio dei tetnpi. Si pensi, per cotnprendere l'argotnenta­ re vichiano, a un tetnpo caotico e oscuro nel quale passato presente e futuro si confondano. Ebbene non c'è storicità, e non c'è operare dell'uotno nella storia se non si fissa un inizio. Tale inizio è certo tnitologico, almeno per il tnotnento, perché ogni concetto e ogni principio cotninciano col tnito. (IS, p. 1 38) .

È palese l'andamento cauto, guardingo di Paci in questo passaggio . Egli sente d'esser vicino a qualcosa che è altro dall'esistenza-vita, dall'esistenza-natura madre delle forme . Ciò che qui è caratterizzato come tempo pre-storico, nel quale le dimensioni stesse del tempo - il prima e il poi, il passato il presente il futuro - si confondono, può esser detto "tempo" sol perché si vuol nominare il senza-nome , l'innominabile . Che l'inizio dei tempi sia mitologico vuol dire solo che dell'i­ nizio nulla sappiamo - che nulla sappiamo sul come sia sorto il tempo scandito dal prima e dal poi, l'aritntòs kinéseos katà tò pr6teron kaì hysteron. E meno ancor sappiamo di ciò che è "prima" ( ma è possibile, ha senso usare qui questo awerbio?) , di ciò che è prima dell'inizio e che solo con una metafora, o, meglio, con un ossimoro si è definito "tempo caotico" . Questo tentpo caotico non è la Vita pura di Hegel, in cui identità e differenze , processo e forme , si pongono e si presuppongono, e si tolgono (sich aujhe ben ) vicendevolmente . Questa caoticità originaria ricorda piuttosto l'ambiguità kierkegaardiana della relazione finito-infinito, prima che l'irreversibilità del tempo venga a dirimere i due termini, a togliere l'equivalenza tra essere e nulla, possibilità e impossibilità. Anche perché sfug­ ge a qualsiasi conoscenza, pure a quella tnitica dell'immagine . Questa caoticità è pre-storica e pre-mitica . È il Prius assoluto. N o n è nepp ure la fonte, l'origine di tutte le forme, la natura naturans. E "prima" di questa. Questa, la natura madre delle forme , Che Méter, è già ntito. N o n è un caso, quindi, che Paci, quando più si avvicina a questo Prius assoluto, a questo

70 assoluto �'al di qua", sposta l'origine delle forme dal senso al mito, alla fantasia. È dal mito che nascono i concetti, il valo­ re , il pensiero . Il mito ha assorbito in sé la natura: la natura

naturans . Nel contempo l'ideale della ragione tutta dispiegata si allon­ tana in un futuro irrealizzabile, in un futuro eterno, che resta sempre futuro : un éschaton che è soltanto un'idea limite . Commentando la "spiegazione" vichiana della "dipintura allegorica" anteposta alla Scienza nuov a, Paci rileva che «la Scienza nuov a è fondata sulla sintesi tra l'oscurità della mate­ ria storica [�'le tenebre nel fondo della dipintura"] e le cate­ gorie» (ib. , p. 136 ) : «tra i due termini della sintesi, la mate­ ria e la forma, si pone tutto il mondo della Scienza nuov a . Tra la materia e la forma c'è il mito» (ib. , p. 138) . "l:essenza della storicità", lu'eterna contemporaneità della storia" è allora il "mito"? E come si caratterizza questo eterno presente del 1nito, una volta confinati l'eterno passato dell'informe spazio e del caotico tempo della gran selva ( miticamente raffigurata nel leone nemeo ucciso da Ercole) e l'eterno futuro della pura ragione nell'indeterminato-indeterminabile ? Come lo spazio della libertà - proprio perché è il luogo della storia. Della storia umana. Della storia che è in senso eminen­ te ntitica, perché sintesi figurata (synthesis speciosa) di ragio­ ne e senso. Di fede e di dubbio . Ho bisogno della fede nella realtà della natura - scrive Paci proprio perché posso setnpre dubitare di tale realtà [ . . . ] proprio perché posso dubitare del Inito, del siinbolo, della rivelazione . (Ib. , p. 107) . -

Fede e dubbio . Contro l'astrazione del cogito, dell' ep istétne che pretende ergersi oltre il dubbio e la d6xa, Paci, leggen­ do Vico, insiste sul tema che è suo: il luogo dell' episténw è la d6xa, il dubbio non abbandona mai il cogito . Fede e verità si presentano come i due limiti estremi dell'esperienza umana:

71 eterno passato l'una - come la natura nei suoi molteplici signi­ ficati -, eterno futuro l'altra - come Dio, universale legge e fìne dell'uomo -. 1 1 . Talora Paci sembra essere attratto dalla dimensione-limite dell'esperienza umana. Sembra avvertire il fascino della rifles­ sione che abbandona il centro per muoversi sul margine , sui margini estremi di questa esperienza. Di qui la sua attenzione a Kierkegaard; di qui il suo interesse per l'esperienza religiosa. N o n è certo un caso che l'ultimo saggio di Esistenzialisnto e sto-ricismo tratti del problema religioso: «La religione non è qualcosa che l'uomo può avere o non avere, è il fondamento stesso della sua vita» (ES, p . 281 ) . La verità è al di là della nostra singolarità; per ritrovarci cotne uotnini dobbimno prilna identificarci col tutto, col divino, con il Tao, e cotninciare quindi con il perderei (ib. , p . 280).

Ove, tra l'altro, può anche avvertirsi come un presentimento ma solo un presentimento - dell'unità dell'eterno futuro della verità con l'eterno passato della fede, e cioè dell'unità di Dio e della natura ben oltre la Provvidenza, ben oltre il ntedio del

sillogisnw nascosto. In questo orizzonte si colloca anche la lettura di N ietzsche . E basti, ad indicare il senso problematico dell'inte1pretazione di Paci, quest'unica citazione : Nietzsche è il profeta dell'assurdo : colui che annuncia il moltiplicarsi dell'Uno. LUotno è un ponte sull'assurdo, l'enig­ tna che vive la nwlteplicità dell'Uno . (Na , Introduzione, p . 7) .

Qui lo spazio ntitico della libertà è il luogo dell'assurdo dell'inconcepibile enigma del moltiplicarsi dell'Uno . La doxa non rappresenta un difetto dell'umana conoscenza, una mancanza psicologica; corrisponde anzi alla struttura antolo­ gica dell'essere . Linconcepibile, l'inseparabile - ciò che non

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puoi tradurre in concetti, in pensieri definiti non è tale per l'inopia della mente , ma per la sua hyperoché d'essere che lo sottrae alla finitezza. L'essere in quanto ontnitudo realitatis non è toccato da negazione alcuna; non è affetto da nulla, da ni-ente . Pertanto non è de-finibile . È tutto in tutto. È l'Uno; ma non l'Uno-che-è; bensì l' Uno-che-è-Uno, L'Uno-Uno, l'Impredicabile della I ipotesi del Pannenide platonico . -

12. Da questi "abissi della ragione", Paci presto si allontana. Dal luogo dell'assurdo e dell'enigma, la libertà si trasforma in luogo di scelta e di azione, si identifica con l'operare teleologi­ co dell'uomo. Esistenzialistno e storicistno come anche Ingens sylva si iscrivono nell'orizzonte dell'umanesimo . Così alla dialettica "ironica" di Kierkegaard si pone riparo col tempo irreversibile che impedisce l'equivalenza di finito ed infini­ to , possibilità ed impossibilità, essere e nulla; e la religione si umanizza, diventando «lo sforzo di trasformare il negativo in positivo, il nulla nell'essere» (ES, p. 282) . È il trionfo del "sillogismo": della teleologia della ragione che funge in lat enza nella storia, e pur nella natura madre delle forme . Se sotto questa unità-coincidenza di natura e ragione, altra e più inquietante identità si celi, Paci - che pur altrove ne aveva avvertito il presentimento - non si chiede . Gli basta, per salvare la libertà d'azione dell'uomo proiettare nell'infi­ nito la rivelazione piena della "ragione"24• Ma pur proiettato nell'infinito, il fine rimane quello di Hegel: die Of{enbarung der Tiefe, la manifestazione del profondo (PhiiG, p. 564; it. , II, p. 305) . Chiedersi cosa si nasconda sotto la "metafisica" (neoplatonica, e prima ancora: aristotelica) unità-coincidenza di natura e ragione, Dio-causa e Dio-télos, potenza ed atto,

24. Cf. 1VH, FSS U, IEF; infra, P. II, cap. V.

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avrebbe significato approfondire Kant nella direzione segnata dalla dialettica trascendentale , e Schelling, l'ultimo S chelling, pur richiamato in un rapidissimo cenno nel libro vichiano : [ . . . ] da Dio provengono all'uo1no la natura, il corpo, il 1nale, il peccato. Qui la meditazione non chiara e non confessata di Vico preannuncia l'ulthno Schelling, confennando ancora una volta che nel pensiero vichiano si 1nuovono i genni che si apriranno alla luce nel romanticismo. (IS, p. 67) .

1 3 . Resta a noi una domanda: perché mai Paci non si è mosso in questa direzione ? Perché dalla libertà come luogo dell'e­ nigmatico incontro-contraddizione dell'V no col molteplice si è allontanato per volgersi alla libertà come scelta, come de-cisione , alla libertà per la ragione , alla libertà della teleolo­ gia nascosta della ragione? Il perché è da ricercarsi nel primo lavoro di Paci, nell'interpre­ tazione del Partnenide. Più precisamente nella sua lettura della III ipotesi . Là dove Platone parla dell'exafp hnes dell'istanta­ neo, dell'in-stante . Di ciò che «giace tra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo». L'in-stante è il ntedio che tiene in sé, con-tiene, trattiene quiete e moto - non essendo né quiete né moto, perché «non è né non-è , né viene all'essere né perisce» . Non è né Uno né molti, né simile, né dissimile . L:in-stante tiene in sé la quiete ��prima" che divenga quiete, il movimento "prima" che sia movimento (Parnwnide, 1 56d- 1 57) . È il luogo della riflessione pura: der absolute Gegenstoj3 in sich selbst (WL, II, p. 27), l'assoluto contraccolpo in se stesso. ,

Ora, come legge, Paci, la III ipotesi del Parntenide? E gli si volge all'instante non come luogo della contra dd izione assolu­ ta di uno e molteplice , quiete e movimento, eterno e tempo, infinito e finito, ma come punto di incontro e di conciliazio­ ne degli opposti, ove l'eterno si temporalizza e il tempo si fa immagine , icona dell'eterno. A questo istante mira Paci : all'i-

74 stante della creazione del mondo, dell'uscita del cosmo natu­ rale e storico dal caos, dall' i ngen s sylva . Platone svilupperà questo concetto della centralità co1ne 1nediazione tra gli opposti . La stessa teoria dell'amore assu­ Ine tutto il suo valore proprio da questo punto di vista, dove l'arno re crea nel bello conducendo il non essere all'esistenza [ . . . ] Si ricordi che il 1nondo e1npirico o il 1nondo reale verso cui ora ci portano le ipotesi del Pannenide trova logicmnente posto dopo questa terza ipotesi, dopo cioè che i due oppo­ sti idea e physis , spirito e 1nateria, pensiero ed estensione, si sono fusi nella legge che li Inedia e li unifica nella sua istan­ taneità, nella sua trascendenza all'eternità e al divenire del tempo, per cui verarnente si può dire che il pensiero è il crea­ tore del 1nondo. ( SPFP, p. 106).

l:instante come luogo di �'transizione" e non di "sospensio­ ne" di quiete e moto è ciò che desta l'interesse di Paci . La sua indagine resta sempre fermamente ancorata alla "real­ tà", pur quando egli si interroga sulla "possibilità" del reale . Così l'enigma del mondo, !'�'assurdo moltiplicarsi dell' Uno", si scioglie nelle "immagini" della natura e della storia. È qui la radice dell'hegelismo e dell'umanesimo di Paci . Qui l'ori­ gine della concezione della natura madre delle forme, della natura in cui opera in latenza la teleologia della ragione, che è compito del filosofo, "funzionario dell'umanità", portare alla luce della coscienza, al cogito . -

14. N egli ultimi anni Paci espresse il bisogno di tornare alle origini . S criveva in un breve saggio del 1974, �'S ulla fenome­ nologia del negativo" : Sta avvenendo in 1ne una lenta evoluzione filosofica. In un certo senso si tratta di un ritorno alle origini del 1nio pensiero: alla ripresa del proble1na del negativo e della struttura del negativo così co1ne 1ni si presentava nelle ipotesi del Panne­ nide platonico.

75 E quantunque questo ritorno continui a muoversi nell' oriz­ zonte dell'origine - l'orizzonte della storia umana del mondo - si awerte tuttavia qualcosa di nuovo, l'urgenza di riproporre in forma diversa il problema della III ipotesi legando la al tema del negativo: [ . . . ] la filosofia, in un modo nuovo, è costretta a riproporsi il tetna della dialettica e il problema del senso della negatività, di una negatività che non sia superficiahnente soltanto una funzione di un bene retorico . Il tnale nel quale l'uotno si radi­ ca suscita uno stupore incoercibile .25

Pollà tà deinà koudèn anthr6pou dein6tero n pélei26•

25. Ora in SP, pp. 29 1 -95. Sul tema cf. C. Sini, IP. 26. Sofocle, Antigone, vv. 332-333 : «molte le cose mirabili e tremende, nessuna più mirabile e tremenda dell'uomo» .

77

II Del Giudizio e del Sillogismo

l . Essere e giudizio Il nesso tra la critica della filosofia di Fichte e la dottrina del sillogismo è ben chiara a H e gel sin da quando entra nell'agone filosofico-letterario di Jena1 . La confutazione dell"'idealismo" fichtiano, svolta nel primo scritto da lui pubblicato sulla Diffe ­

renza tra il sistetna filosofico di Fichte e quello di Schelling, può ben essere sintetizzata con le parole che nel saggio succes­ sivo, Fede e sapere, riassumono la critica della teoria kantiana del giudizio: il termine medio che unisce soggetto e predica­ to, la copula "è ", resta nel giudizio ein Bewuj3tloses, un non­ cosciente , che solo nel sillogismo viene conosciuto (cf. GW, p . 307; it. , p . 142) . Vale a dire : soltanto il sillogismo di-tnostra !"'oggettività" della sintesi "soggetto-oggetto", in Fichte anco­ ra solo "soggettiva" . Già da queste prime anticipazioni s'intende che non è ecces­ sivo affermare che l'intera filosofia hegeliana ruota intorno al l.

Il riferimento è ai "clamori lettarari di J ena", di cui parla H e gel nella lette­ ra a Schelling del 2 novembre 1800 (cf. L, p. 43) . Sulla "situazione letteraria a J ena" al tempo dell'arrivo di Hegel cf. la descrizione di Karl Rosenkranz, HL, pp. 165-166.

78 problema della "copula" (id est: della mediazione) . Problema complesso, perché quella �'paroletta di relazione" (Verhiiltnis­ wiirtchen : Kant, KrV, B 141 ) copre due e diverse relazioni, che sono però - secondo Hegel - lati di una e medesima rela­ zione (id est: due e diverse mediazioni, che Hegel si sforza di pensare come una e medesima2) . Per immetterci subito nel problema, ricorriamo a un fram­ mento di Holderlin conosciuto col titolo Urteil und Sein (Giudizio e essere ) : in esso è segnata con estrema precisione la differenza tra due differenti identità - non però la loro rela­ Zione . Giudizio è nel senso più alto e rigoroso l'originaria separa­ zione dell'oggetto e del soggetto unificati nell'intuizione intellettuale, quella separazione tnediante la quale soltanto diventa possibile oggetto e soggetto, la originaria partizione ( Ur- Theilung) . Nel concetto di partizione è già contenuto il concetto di rapporto reciproco di oggetto e di soggetto l'uno all'altro, e il necessario presupposto di un intero di cui ogget­ to e soggetto sono parti . "Io sono Io" è l'esetnpio più perti­ nente di questo concetto di originaria partizione, in quanto partizione teoretica, poiché nella originaria partizione pratica esso [l'io] si oppone al Non-io , non a se stesso . [ . . . ] Essere ­ esprilne il legame di soggetto e oggetto. Laddove soggetto e oggetto sono unificati assolutamente, e non solo in parte, e con ciò unificati in tnodo tale che non può essere intrapresa una partizione senza violare l'essenza di ciò che dev'essere separato, qui e in nessun altro luogo si può parlare di un essere in assoluto , cotne accade nel caso dell'intuizione intellettuale. Ma questo essere non deve essere scambiato con l'identità. Quando dico: "Io sono Io", il soggetto (io) e l'oggetto (io ) non sono unificati in tnodo tale che non possa essere intra­ presa alcuna separazione senza violare l'essenza di ciò che

2. Sul tema cf. M . Donà, Sa V.

79 deve essere separato; al contrario, l'io è possibile solo attra­ verso questa separazione dell'io dall'io. Come posso dire "io" senza autocoscienza? Ma colTI e è possibile l'autocoscienza? Per il fatto che io lTii oppongo a lTie stesso, separo 1ne da lTie stesso, ma, lTialgrado questa separazione, lTii riconosco co1Tie lo stesso nell'opposto. Ma in che 1nisura colTI e lo stesso? Io posso, io debbo (tnuss ) porre tale domanda; infatti sotto un altro aspetto esso è opposto a sé . L:identità non è quindi una unificazione di oggetto e soggetto, che assolutmTiente abbia luogo; l'identità non è quindi all'assoluto essere. (SvVB, I, pp . 840-84 1 ; tr. it. in T, pp . .5 1 -.5 2) . =

Alla domanda "come è possibile l'autocoscienza?" Holderlin risponde indicando un "fatto" : che e come la separazione acca­ de . Ma la domanda è più profonda della risposta. La domanda verte sullo stesso accadere del fatto, sulla sua "possibilità" . E cioè: come può accadere che l'unità compatta dell'essere si scinda nella uni-dualità della coscienza di sé? Il problema è ben antico: è il problema della nascita da Hén di Nous . N asci­ ta che in Plotino resta awolta nella più fitta oscurità, talora sembrando Nofls essere una generazione di Hén, ma in tal caso sarebbe terzo e non secondo, ché prima di lui verrebbe appunto la generazione, talaltra invece un'autoposizione , e in tal caso non si capisce per quale motivo è secondo e non primo come Hén . A non dire che per spiegare la presenza di Nous, e del molteplice che da Nofls deriva, Plotino si trova costretto a portare la Diade nel cuore stesso dell' Uno3 . Come appare evidente il problema hegeliano dell'unità della doppia relazione riguarda, non soltanto il rapporto io-mondo; riguarda insieme, o, meglio, in prima istanza la relazione tra l'unità compatta dell'Essere e l'unità relazionale degli opposti ( Giudizio) . N o n si tratta di unificare i separati, ma di unificare unità e separazione. Per dirla con Hegel, lo Hegel prossimo a

3 . Cf. Platino, En,

sp c

e . V, l e 2. In merito v. V. Vitiello, 1M, pp . 136-141 .

80 partire da Francoforte per Jena, il problema è : die Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung (\V, l , p. 422) .

2.

La cri tica di Hegel a Fichte

Criticare una proposizione filosofica non significa, per Hegel, respingerla come non vera; al contrario: significa comprende­ re il livello di verità da essa raggiunto : fin qui e non oltre4• l:opposizione rigida "verità"/"errore", nega la stessa verità, mostrandola incapace di spiegare , e quindi di comprendere in sé, l'opposto. Ma se la rigida, insuperabile, contrapposizio­ ne , attesta solo l'impossibilità della mediazione, allora il primo compito che Hegel deve prefiggersi è di c'spiegare" il ruolo positivo della scissione . Sopra abbiamo evidenziato l'aspetto onto-logico del proble­ ma della mediazione , ora dobbiamo sottolineame quello propriamente c'politico" o c'storico-politico" . Ma non sono che due aspetti del medesimo problema. Pertanto non s'intende la spiegazione hegeliana del ruolo positivo della scissione se non si ha chiaro che per Hegel compito della filosofia è stato sempre - e cioè ben prima che egli stesso così lo definisse (cf. GPhR, p. 16; it. , 16) - quello di comprendere il proprio tempo in pensieri. E si consideri questo, ora, che il tempo di Hegel è anche , è ancora il nostro tempo. La scissione tra io e mondo, singolo e comunità, passato e presente , divino e umano, che non solo H e gel, ma l'intera cultura romantica, nell'opporsi all'intellettualismo illuministico, condannava, lungi dall'essere colmata, superata, si è, nell'età nostra, esasperata - come atte-

4. Cf. quanto Hegel dice riguardo a Spinoza in \VL, Il, pp. 249-251 ; it., Il, pp. 654-656.

81 sta il nichilismo contemporaneo . D i qui !'"attualità" di Hegel, che al problema diede una risposta importante ancora oggi, e non soltanto dal punto di vista storiografìco . In contrasto con i "romantici" Hegel non respinse l'intelletto per il sentimento, non volle immergere l'uomo nella natura, e il fìnito nell'in­ finito; intraprese, anzi, un cammino per molti versi opposto, prendendo le difese anche dell'intelletto, al fìne di giungere ad una più alta forma di pensiero5. "Dopo" Nietzsche , dopo la secca opposizione Kultur/Zivilisation6, che ha tanto influi­ to sulla cultura tedesca (e non solo tedesca) del Novecento7, tornare a Hegel, al pensiero della mediazione può risultare utile non certo per risolvere il problema, ma per riproporlo con maggiore consapevolezza della sua complessità e profon­ dità. Che il bisogno della fìlosofìa si radichi nella scissione , compor­ ta che già nella scissione opera la "mediazione ". In modo latente , certo; ma latenza non è assenza. La mediazione è all'opera già prima d'essere attuata; il problema della fìloso­ fìa non è produrre la mediazione , ma portarla ad evidenza. E portarla ad evidenza è realizzarla . In breve , la storia non è un

5 . Cf. la critica dell"'irrazionalismo romantico" svolta da Hegel in PhiiG, Vorrede, pp. 13-19; it., I, pp. 5- 13. 6. Variante della nietzschiana opposizione "mito"/"astrazione": cf. F. Nietzsche, GT, I, § 23 . 7 . Da Bachofen a Spengler, da Stefan George al Thomas Mann di Geda n ­ ken im Kriege e di Friedrich und die grosse Koalition (tr. it. in Id., SSP, pp . 33-52 e 53-1 12) a Ernst Jiinger - per citare i primi nomi che vengono in mente. Altro il discorso su Heidegger, che se criticò la "mediazione" hege­ liana (anche seguendo suggestioni holderliniane, cf. EHD, pp. 61-62; it., pp. 75-76), non lo fece certo per respingere il rigore dell ep istém e filosofi­ ca, al contrario, perché mirava ad una più originaria e più "rigorosa" forma di pensiero. La sua stessa lettura di Nietzsche è ispirata a tale criterio, se rivendicava al pensiero nietzschiano lo stesso rigore di quello di Aristotele (cf. Hw, p . 230; it., p . 229), definendo nel contempo grossolana (all:::;u grob ) l'interpretazione che Spengler aveva dato di Nietzsche (ib. , p . 301; it. 304) . '

82 passaggio dal non-essere all'essere, ma dal nascosto all'appa­ rente . Ma facciamo parlare Hegel direttamente : L'assoluto è già presente (vorhanden ) , altritnenti cotne potrebbe essere cercato? La ragione lo produce solo in quan­ to libera la coscienza dalle litnitazioni; questo togliere (Aufhe­ ben ) le lhnitazioni è condizionato dalla presupposta illhnita­ tezza. (DFS, p. 24; it. , p. 1 7) .

La filosofia di Fichte è la migliore illustrazione di tutto ciò . Nel suo sistema c'è la scissione e il bisogno del suo superamento in questo la sua "verità" -; ma non c'è la realizzazione del biso­ gno, il superamento della scissione . Di quale scissione? Non quella, o, meglio, non quelle del mondo storico-sociale , che riguardano i singoli individui e/o le singole comunità storiche, empiricamente considerate : i conflitti di interessi, le differen­ ze religiose e culturali, il sentimento di estraneità dell'io al mondo e così via. Nei confronti di queste scissioni Fichte ha elaborato una strategia che dimostra la piena consapevolezza della crisi del suo tempo. La scissione che Fichte non supera è quella che lui stesso produce nell'intento di superare le scis­ sioni del mondo storico-sociale . E , infatti, in che modo l'io può difendersi dalla scissione , non essere travolto dal mondo in cui vive ? S olo chiudendosi in sé , affermando la propria alterità rispetto al mondo sociale. Si sfalda il mondo, e l'io si ritira in sé (cf. PhiiG, pp . 1 75- 182; it. , I , pp. 193-20 1 ) . Qui anche l'origine dell'essere puro di cui parla Holderlin . l:origine dell'identità immune da ogni separazione . Dell'identità più identica della stessa identità dell'autocoscienza. A questa identità, che non è l'io, ma la radice dell'io, Fichte giunge attraverso una radi­ cale liberazione dell'io dal mondo, dall'empirico. H e gel parla di questa radicale purificazione come dell'"atto assoluto" che è condizione della filosofia. Ma proprio là, dove c'è salvezza, s'annida il pericolo. L'identità dell'essere, concepita come l'as­ soluto Prius, è, in verità, solo un "effetto" della scissione del mondo storico. La separazione dal mondo empirico esalta,

83

non toglie, la scissione . Hegel vede in questa separazione sì la condizione , ma non la realizzazione della fìlosofìa. Perché quell'atto assoluto , il gesto primario del pensare, divenga sapere fìlosofìco, è necessario che alla separazione dal mondo segua l'unifìcazione. Per dirla con il linguaggio di Holderlin, è necessario che l'E ssere si faccia Giudizio . Ovvero : che la radice germogli, e nasca il soggetto reale , mondano, corporeo. Dall'io puro deve nascere la natura, il corpo del mondo . Hegel mostra come Fichte realizzi tutto questo. A differenza di Kant, che lasciava essere "accanto" all'io il mondo - pur afferman­ do che l'identità sintetica dell'io era condizione di pensabilità dell'identità analitica dell'io (cf. KrV, B 133-134; e infra, § 6 ) -, Fichte concepisce l'io come posizione di sé e dell'altro da sé, e del suo opposto, del mondo. La deduzione del Non-Io dall'Io, ovvero del molteplice dall'uno, della natura dallo spirito, che è il compito che Fichte assegna alla sua fìlosofìa, di-mostra che il "vero" Io è la sintesi di Io e Non-io . Ma proprio là, dove Hegel esprime il massimo apprezzamen­ to della fìlosofìa fìchtiana, matura la sua critica: la sintesi afferma - non è mai compiuta. Il soggetto-oggetto di Fichte è solo soggettivo. Il mondo, l'empirico, il Non-io, non rien­ tra nell'identità assoluta dell'io, non è la sua manifestazione , ma il suo limite . L'attività teoretica, infatti, resta nell'opposi­ zione soggetto-oggetto . Né il fatto che l'oggetto sia prodotto dell'attività inconscia dell'io, dell'Einbildungskraft, toglie la separazione, anzi l'introduce nel cuore stesso dell'io: l'incon­ scio resta un "dato" opposto all'attività consapevole dell'io, un"'oggettività" irrisolta, non toglibile . «Lessenza dell'io e il suo porre non coincidono» (DFS, p . 56; it. 44 ) . Ma il Giudi­ zio resta diviso dall'Essere anche , se non ancor più, nell'at­ tività pratica. Perché, quando nella Dottrina tnora le, Fichte, al fìne di superare l'opposizione immediata dell'io teoretico, defìnisce l'oggetto come la realizzazione del soggetto, questa aggettivazione dell'io pensa sempre come caduta, alienazione .

84 l:Io non si riconosce mai nei suoi prodotti, e solo per questo non-riconoscimento il suo processo di autogenerazione non s'arresta. Ma in tal modo l'io mai non si possiede , il suo impul­ so a creare se stesso apre un processo all'infinito che è solo schlechte Unendlichkeit8• Chiaro che come nell'empirico e nel molteplice, nel sensibile e naturale , l'io puro non ritrova se stesso, così nella comunità l'io non riconosce la manifestazio­ ne della sua libertà, anzi vede in essa solo il limite dell'esser­ libero. Ich wird sich nicht objektiv: L'io non diviene a se stesso

oggettivo . I l compito di tnostrare l'oggettività del soggetto-oggetto, in Fichte ancora solo soggettivo, è affidato alla Fenotnenologia

dello spirito .

3.

Il comp ito della Fenomenologia

La Dottrina dell'essere della Scienza della logica si apre con questa domanda: «Con che deve cominciare la scienza?» (WL, I, pp . 65 ss; it. I, 51 ss . ) - che riguarda il fondamento stesso del sapere . Infatti, come già Platone ed Aristotele insegnano, il sapere è scienza e non mera opinione , se è in grado di dare ragione di quanto afferma. E lo è, se non dipende da altro, se è all'origine di sé. l: inizio della scienza deve essere "interno" alla scienza. Ma cosa è più interno al sapere dell'io che sa? Hegel non può non affrontare il Grund-satz, la proposizio­ ne fondamentale, della filosofia moderna: l'c'io penso" . Ma a quale c'io" - subito si chiede - può essere riconosciuta questa 8 . Cf. DFS, p . 69; it. 54-55; e vVL, II, pp. 541-548; it., II, pp. 929-934. La critica di Hegel è stata variamente contestata dagli studiosi di Fichte. Sul tema rinvio all'ampia, equilibrata Introduzione di G. Di Tommaso alla sua traduzione italiana delle Eigene Meditationen iiber Elementar Philosophie: MF .

85 "posizione"? N o n certo all"'io" empirico, mondano, cosa tra cose, che dipende non da sé ma dalla natura che è dentro di sé e fuori di sé, dall'ambiente in cui è nato e maturato, quindi dalla storia e dalla cultura in cui si è formato . N o n all'"io empi­ rico" ; bensì all'"Io trascendentale", all'Io "puro". E cioè : all'Io purificato , liberato da tutti i vincoli che lo legano al mondo, al passato , agli altri, da tutti i presupposti che lo condizionano. Ma, attribuendo all'"Io puro" l'"atto assoluto" (der absolute Akt: l'espressione è la stessa di quella usata nella Diffe renz, cf. WL, I, p. 76, e DFS, p. 54 ) che libera l'Io da tutti i condi­ zionamenti e presupposti che lo vincolano al mondo , non ci si awolge in circolo? Non si fa dipendere la condizione dal condizionato? No, se l'Io in quanto condizione è "altro" dall'Io condizionato. Il problema dell'inizio del sapere si muta allora nel problema della differenza tra l'Io che è condizione della purificazione dall'empirico e l'Io che è il risultato di tale libe­ razione . La Fenotnenologia dello spirito mostra questa "diffe­ renza". E nel modo più oggettivo: narrando l'itinerario attra­ verso cui la coscienza - l'io - si libera dall'empirico (da tutto ciò che condizionandolo lo rende dipendente da altro) e si eleva a puro sapere , a sapere capace di dimostrare se stesso, il proprio fondamento, il proprio inizio, a sapere compiutamen­ te autonomo, owero padrone di sé. S'è detto : nel tnodo più oggettivo perché la narrazione fenomenologica non intervie­ ne nel processo della coscienza: è ein reines Zusehen , un puro -

stare a vedere9. La narrazione fenomenologica permette di superare la posi­ zione ancora solo soggettiva del soggetto-oggetto fichtiano, perché non deduce l'oggettività dal soggetto, bensì tnostra nell'oggettività del mondo e naturale e storico l'operante, 9 . Cf. G . F. W. Hegel, PhiiG, Einleitung, p. 72; it. I, 75. Sul tema cf. L. Lugarini in: HSF, cap. V: Fondazione fenomenologica della filosofia specu­ lativa", spec. pp. 134- 139. . .

86

ancorché latente , presenza del "soggetto"10. Né la latenza del soggetto nell'oggettività mondana e naturale va confusa con l'inconscio dell'Einbildu ngs kraft nchtiana, perché dal puro stare a vedere della narrazione fenomenologica risulta che proprio dall'oggettività del mondo, nella quale la soggettività è dapprima immersa, emerge l'operare consapevole del sogget­ to, l'auto-coscienza, il sapere di sé . Das Ziel ist die Offenbaru ng der Tiefe : la mèta dell'itinerario fenomenologico è la rivelazio­ ne del profondo (PhiiG, p. 564; it. , II, p. 305) . Diversamente da Fichte in Hegel l'Essere, l'Identità assoluta di holderliniana memoria, si fa giudizio, compiutamente giudizio . Il trascen­ dentale e l'empirico, l'unità e la distinzione si unincano . In questa unincazione il profondo emerge alla superncie, di più: si fa superncie . Qui Hegel differenziandosi da Fichte si distac10. Sul tema restano fondamentali le analisi di Bertrando Spaventa: cf. Schizzo d una storia della logica, in Op, II, pp. 61 1-678, spec. pp. 628-644. Cf., altresì, Logica e metafisica, Op, III, pp. 9-429, che è un'analisi puntuale della \Vissenschaft der Logik . Purtroppo gli studi hegeliani di B . Spaventa sono poco e mal conosciuti, quando non del tutto ignorati, fuor d'Italia: O. Poggeler, passando in rassegna le principali interpretazioni della Fenome­ nologia dello spirito (in "Zur Deutung der Phanomenologie des Geistes", "Hegel-Studien", 1961, pp . 255-294, poi in HIPhiiG) neppure lo cita; così H . F. Fulda, che pur tratta di un argomento particolarmente caro a Spaven­ ta in PE\VL; e parimenti J. Heinrichs, in LPhiiG . Fa eccezione Dieter Henrich, che in HK, alle pp . 82-83, dedica una nota allo studio di Spaventa sulle "Prime categorie della logica di Hegel" (in "Atti della R. Accademia delle Scienze Morali e Politiche" di Napoli, 1864, ora in Op, I, pp. 367-437) . Purtroppo è l'unico testo del filosofo italiano che ha letto (su segnalazione di J . van der Meulen, che aveva citato questo studio, senza però discuterlo, nel suo HGM) e pertanto, non comprendendone le motivazioni, esprime un giudizio duro quanto ingeneroso: Spaventa, secondo Henrich, non ha dato alcun contributo all'interpretazione dell'inizio della Logica hegeliana. lnve­ ro, in quello studio Spaventa non s 'era posto il problema di "interpretare" Hegel, cosa che aveva fatto in altri lavori, ma di riproblematizzare, dopo e oltre Hegel, il classico rapporto essere/pensiero, affermazione/negazione, uno/molteplice. Ma su ciò infra, Sez. III, cap. Il, e Parte Il, Tra fenonwno­ logia e logica, capp . I, II, IV.

87 ca insieme da Schelling. N el farsi distinzione, molteplicità, mondo, l'Uno, il Profondo, l'Io puro non lascia dietro di sé nessun residuo, nessuna eccedenza. Nessuna Indifferenza11 . Come dirà nelle prime categorie della Seinslehre, l'essere non passa nel nulla, ma è passato (nicht ii bergeht, sondern ii ber­ gangen ist: \VL, I, p. 83; it. I , p. 71 ; cf. infra , Sez. III, capp . I I l . Anche nei primi anni di J ena, quando H e gel si sentiva maggiormente vicino alle posizioni di Schelling, non mancava di segnalare la sua 'diffe­ renza' dall'amico. E basti questa doppia citazione: l ) Schelling: «La gravi­ tazione svanisce nella notte eterna, e l'identità assoluta stessa non infrange completamente il sigillo sotto il quale giace chiusa, benché essa sia costretta a uscire fuori e a venire in certo qual modo alla luce sotto la potenza di A e B, ma tuttavia come l'uno identico» (DmS [ 1801 ] , S,V, p . 1 163; it. , p . 86) . Hegel: «L'assoluto è la notte, e la luce è più giovane della notte; la loro distinzione, così come l'emergere della luce dalla notte, è un'assoluta differenza - il nulla è il primo, dal quale è emerso ogni essere ed ogni molte­ plicità del fmito. Ma in ciò consiste il compito della fùosofia: nell'unificare questi presupposti, porre l'essere nel non-essere - come divenire, la scissio­ ne nell'assoluto - come manifestazione di esso, il finito nell'infinito - come vita>> (DFS, pp. 24-25; it. , p. 17) . La divaricazione tra le posizioni dei due filosofi s'approfondì nel corso degli anni, e venne resa pubblica da Hegel con l'aspra critica dell'"assoluto" schellinghiano svolta nella Vorrede della Fenomenologia dello spirito . Ma il punto di maggior distanza tra i due filo­ sofi è segnato dalla II edizione della Dottrina dell'essere (1832), nella quale la Logica oggettiva non è più Logica dell'"essere" bensì del "concetto come essere". Questo mutamento risale, chiaramente, al l816, alla elaborazione della III parte della Scienza della logica, la Dottrina del concetto, che è all'origine della ridefinizione della posizione della Fenomenologia rispet­ to al Sistema, e quindi del suo ruolo riguardo alla Logica, come attesta la I edizione ( 1817) dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche . Per un'analisi dettagliata di questo intricatissimo plesso problematico è fondamentale il testo di Leo Lugarini: OH, pp. 121-133. C'è da chiedersi a questo punto se, una volta «svincolata (la Logica) dal suo originario sottofondo fenomenolo­ gico» (ib . , p . 132), regge ancora la critica a Fichte. - Sui rapporti tra Schel­ ling e Hegel nell'intero arco della loro esistenza cf. Félix Duque, HFM, Parte III; ed ancora sul concetto di libertà in Schelling LS . Sulla differenza tra Hegel e Schelling riguardo al problema dell'Uni-trinità del Dio cristiano, cf. M . Cacciari, I, libro I, capp. II e III, e libro III; e V. Vitiello, DiS, "Due divergenti interpretazioni del Deus Trinitas: Hegel e Schelling", pp. 19-38.

88 e Il), e così il nulla nell'essere . C ome dire : l' Uno è da sempre molteplice . l:itinerario della Fenotnenologia è u n itinerario anamnestico, un itinerario nel passato profondo dell'oggettività, naturale e storica, della coscienza. Passato già da sempre portato nella luce del presente, della parousfa dell'assoluto, che è l'assoluto sapere12• La Fenontenologia è dunque lo snodo fondamentale del filo­ sofare hegeliano che ci permette di comprenderne compiu­ tamente l'intento, che possiamo esprimere con le parole del primo scritto di Jena: rendere l'io oggettivo a se stesso . E d è chiaro che l'io in tanto può rendersi a se medesimo oggetti­ vo, in quanto è nell'oggettivo che sin dall'inizio si ritrova (e questo segna la differenza da Fichte) ; e che nel farsi oggetti­ vo, e cioè : empiria, storia, mondo, si risolve completamente in essi ( e questo segna la differenza da S chelling) . Pertanto le due relazioni - l'orizzontale : dall'io al non-io, e la verticale : dal profondo alla superficie - sono in Hegel una ed una sola relazione . O meglio: un solo "movimento". l:io uscendo dalla propria radice si fa mondo, sapere e azione del mondo . Il che significa: la libertà degli altri non è limite alla mia libertà, bensì realizzazione, compimento. Il fare - di e Sache selbst: l'operare che coincide con l'operato, l'operare che en télei échei , che si possiede nel fine - è il fare di tutti e di ciascuno (PhiiG, pp . 300-301 e 314; it. I, 34 7-348 e II, 2-3) . Ma il circolo qui tracciato - dall'oggettività inconsciamente soggettiva dell'inizio alla aggettivantesi soggettività della mèta - non è senza rotture ; basti ricordare quella rilevantissima che si presenta nel passaggio dalla Fenomenologia alla Logica, e cioè dal sapere assoluto, che è mediazione pienamente conse12. Sul tema cf. M. Heidegger, "Hegels Begriff der E rfahrung", in Hw, pp. 105- 192, spec. 1 19-120; it. 103-190, spec. 1 18- 1 19 .

89 guita, all'essere puro, che è m era immediatezza. Il ponte tra l'uno e l'altro è costituito dalla "risoluzione" (Entschluj3), che - è Hegel a dirlo (WL, I , p. 68 ; it. l, p. 55) - può essere anche considerata arbitraria, di prendere l'assoluto sapere come puro essere , nella sua immediatezza, ove lo stesso carattere dell'immediato di essere una determinazione di riflessione viene messo da parte . Il "medio " tra il sapere della Fenon1R­ nologia e l'essere della Logica è allora un atto di volontà. All'i­ nizio della Logica e della S cienza non troviamo né il sapere assoluto , né l'essere, troviamo il volere. C'è da chiedersi quali siano le conseguenze per il sistema hegeliano; ma non è di questo che ora possiamo occuparci; dobbiamo prima mostrare che il movimento in circolo che regge, o dovrebbe reggere, l'intero sistema, opera anche all'interno della Fenontenologia . In breve : non è una struttura, ma un "metodo" - un cammino, una hod6s - che si attua, sviluppandosi ed approfondendosi, in ogni fase o momento del sistema assumendo le forme e i modi specifici di ciascuna fase o momento. C osì nella Fenontenolo­ gia il movimento in circolo si caratterizza come passaggio dalla certezza della verità alla verità della certezza, quindi dalle figure della coscienza alle figure del mondo (cf. PhiiG, p . 3 1 5; it. II, 4) . In questi passaggi, nei quali la co-appartenenza di io e mondo, soggettività ed oggettività sempre meglio si esprime e si approfondisce, si fa palese l'intento di Hegel di mostra­ re che l'aggettivazione dell'io è il medesimo che l'emergere del profondo alla superficie . N e è testimonianza l'esplicito riferimento di H e gel alle categorie dell'essere e dell'essenza nella spiegazione della differenza tra le figure della coscien­ za e le figure del mondo ( cf. ib. , pp . 3 1 8 ss . ; it. II, 7 ss . ; WL, II, 24-25; it. II, p. 444) . In quelle l'opposizione dell'oggetti­ vo e del soggettivo è l'opposizione "estrinseca" tipica della logica dell'essere tra termini esterni l'un l'altro ed estranei; in queste, nelle Gestalten der Welt, che sono non "astrazioni" della coscienza, ma eigentliche \Virklichkeiten, potenze dotate

90 di autentica efficacia, l'opposizione è quella propria della logi­ ca dell'essenza, è l'opposizione più difficile a dirimere, perché "intrinseca" ad ogni opposto che non ha in altro, ma in se medesimo il suo contrario, il suo enant{on : come attestano le fìgure tragiche di Edipo ed Antigone13 . Ora, il medesimo movimento in circolo - dall'oggettività che ha in sé latente la soggettività alla soggettività che si oggetti­ va - che opera come nell'intero sistema così all'interno della Fenomenologia, troveremo all'opera anche nella Logica.

4. Il ru olo della

Scienza della logica

Se la Fenonwnologia dello spirito dimostra mostrando, la Scienza della logica mostra dimostrando. È che la Feno tne­ nologia è prevalentemente un'Erinnerung, un viaggio della coscienza entro se medesima, alla ricerca del profondo Sé, che è io e mondo, mondo e io; mentre la Logica è essenzialmen­ te es-posizione , costruzione es-plicativa dell'io e del mondo, del mondo e dell'io, a partire dal profondo . Anche superfluo precisare che i due "movimenti" si coimplicano, e che quindi l'Erinnerung fenomenologica è anche costruzione esplicativa, e che l'es-posizione logica è insieme Erinnerung. Resta, tutta­ via, la diversa intenzionalità delle due opere . Che si riverbe­ ra nel metodo seguito . E viene in primo piano in particolare nella Dottrina del concetto. Qui Hegel subito contesta la concezione kantiana, secondo la quale gli antecedenti del concetto sono le intuizioni e le 13. Cf. PhiiG, pp. 335-337; it., II, pp. 27-30. Sull'interpretazione hegeliana dell'Antigone sofoclea la letteratura critica è sterminata, ci limitiamo quindi a segnalare solo alcuni studi, apparsi nell'arco degli ultimi trent'anni: G. Severino, AFS; G . Steiner, A, pp. 30-53; P. Vinci, AH.

91 rappresentazioni . Questo modo di concepire i l concetto è per Hegel ancora soggettivistico e psicologico. Veri antecedenti del concetto sono essere e essenza ( cf. WL, II , pp . 256 ss. ; it. II, 661 ss . ) . E questo significa che il contenuto del concetto non è "fuori" del concetto, ma in esso. Il conseguito supera­ mento dell'opposizione soggetto-oggetto nel sapere assolu­ to comporta la riconduzione del rapporto soggetto-oggetto al rapporto uno-molteplice. Uno è il concetto che ha in sé il molteplice . Io e mondo, nella loro polarità, sono, entrambi ed allo stesso titolo, contenuto del concetto. E se ancora voglia­ mo chiamare "lo" il concetto, allora questo "lo" è l'Io sintesi di Fichte , non l'Io, cioè , che ha opposto (gegen : di contro) a sé il Non-io, bensì l'Io che ha in sé l'opposizione di lo e Non-Io. Ma questo lo-sintesi non è terzo, senza essere insieme primo . È il Prius assoluto, l'Identità che Holderlin chiamava Essere - e questa identità come l'identità stessa dell'autocoscienza, come l'identità doppia dell'io =io . LEssere come Giudizio. Insieme , però, il Giudizio come Essere14 • a) Il concetto . Hegel riprende la tradizionale partizione del concetto in universale particolare e individuale, ma la dialettizza (cf. WL, II, pp . 273-274 ; it. II, 678-679) . Il concetto è universale in quanto non ha in sé differenza alcuna. Il concetto di colore non è né bianco, né rosso, né giallo ; non potrebbe altrimenti essere l'universale concetto che contiene ( tiene insieme e in sé) il bianco, il rosso ed il giallo . Ma nel suo negare le diffe­ renze, esso si rapporta di necessità ad esse. La sua negazione delle differenze è insieme la loro inclusione ; la negazione si =

14. O, in termini più appropriati, è !'"intuizione intellettuale" risolta in "dialettica speculativa": sul tema cf. il confronto Kant/Hegel svolto da K. Diising in IVSD.

92 piega su di sé : è insieme la negazione della negazione . Questo signifìca che nel suo essere universale il concetto è particola­ re . È colore in quanto è rosso , verde, giallo . E soltanto così è colore e non altro, è cioè individuale .

È importante comprendere il senso di questa operazione "logica" compiuta da Hegel: nel mostrare che l'universale in quanto tale è particolare ed individuale , Hegel rivela l'in­ congruenza della separazione di Platino tra Hén e Nofls . N o n si ricaverà mai da Hén Noil s, dall'uno il molteplice, se non mediante �'rappresentazioni e immagini"15; logicamente Hén è come tale Noil s, Uno è, in quanto uno, molti . Uno non è Uno-che-è-Uno senza essere insieme Uno-che-è . Il passag­ gio dalla prima ipotesi del Parntenide alla seconda, quindi alla koinonfa ton l6gon del Sofista , è un passaggio necessario; un passaggio non passaggio : un passaggio che immediatamente si toglie . L'es-posizione è sì costruzione, ma es-plicativa. Il "posto" è già da sempre : è presupposto. La posizione è solo dis-velativa. Si mostra quello che già da sempre era, anche se non appariva. Ma perché questa differenza tra essere ed apparire si giustifichi, è necessario che , dopo aver mostra­ to che l'universale del concetto è già da sempre particolare ed individuale, si mostri la differenza della particolarità del concetto rispetto all'universalità dello stesso. E la differenza sta in ciò, che la particolarità coglie il concetto non dal lato della negazione delle differenze, ma dal lato della negazione 15. Cf. G. W. F. Hegel, VGPh, it. III, pp. 44-46; esplicito l'accostamen­ to polemico dell'"intellettualismo plotiniano" ai romantici e a Schelling: «Quello che dunque vi [ nella filosofia di Platino] manca è in primo luogo il concetto. Sdoppiarsi, emanare, defluire, ovvero sorgere, farsi avanti, cader fuori san termini molto adoperati anche nei tempi moderni, e che vorreb­ bero dir molto, mentre non dicono nulla>> (ivi, p. 64 ) . In merito cf: V. Verra, DFP, spec. cap. IV, " Motivi della critica hegeliana". Per un più ampio inqua­ dramento storico del rapporto di Schelling con Platino e Hegel con Proclo cf. W. Beierwaltes, PI, spec. capp . II e III. =

93

che si piega su di sé, della negazione ad opera delle differenze dell'universalità astratta. Il particolare non è altra cosa dall'u­ niversale , è questo medesimo , ma osservato dalla prospettiva della negazione della negazione. Se si considera bene la cosa, Hegel sta rifacendo in ambito logico il cammino che Agostino ha compiuto in ambito teologico . Dopo aver affermato contro l'unità astratta del Dio-Uno la Tri-Unità di Dio, mostra come questa Tri-unità si espone, intera, nel nome dello Spirito16• La differenza tra universalità e particolarità del concetto consente dunque di affermare insieme l'analiticità e la sinte­ ticità del concetto, che è analitico perché gia da sempre uno­ molti, e sintetico perché si disvela molti nel suo essere uno ( cf. WL, II, pp . 557 ss . ; it. II, 942 ss. ) . l: andare innanzi è un retro­ cedere nel fondamento : disvelarlo . Erinnerung e costruzione insieme - come si diceva. Ma nella Logica prevale l'aspetto costruttivo-disvelativo . l:individuale, infatti, che è come tale già nell'universale e pur nel particolare , assume, in sé e per sé considerato, un aspetto diverso, pur restando identico a ciò che da sempre è. l: aspetto della differenza e della moltepli­ cità opposta all'identità e all'uno . Perché l'individuale si pone non solo come la negazione che negandosi torna in sé - come il colore in generale che si rivela colore nell'essere insieme e giallo e verde e bianco -, ma insieme come quella determi­ natezza che non è altra determinatezza. Il giallo che non è il verde . Qui il verde e il giallo sono certamente compresi nel colore , ma si pongono come colori diversi . Nell'individualità in sé e per sé prevale l'elemento di differenza e pur di contra­ sto, e non solo tra i molti colori, sì anche tra il molteplice e

16. Agostino, 1', I, 5.8: «Sed in ea nonnulli perturbantur cu m audiunt Deum Patrem et Deum Filium et Deum Spiritum Sanctum, et tamen hanc Trini­ tatem non tres deos, sed unum Deum»; e V, 1 1 . 12: «Ergo Spiritus Sanctus ineffabilis est quaedam Patris Filiique communio, et ideo fortasse sic appel­ latur, quia Patri et Filio potest eade m appellatio convenire» .

94 l'uno, tra i colori individuali, presi nelle loro reciproche diffe­ renze , e il colore in generale . Conclude H e gel: il concetto si è scisso nel giudizio, nell' oppo­ sizione individuale-universale. Ora il compito di Hegel si fa più arduo e insieme più interes­ sante . N el giudizio deve mostrare l'unità, la coappartenenza di io-mondo, e solo in questa si può manifestare l'essere del profondo come super:fìcie . E cioè che il concetto è insieme soggetto e oggetto, io e mondo; che la libertà di ciascuno è la libertà di tutti, che il plurale non limita, bensì amplia la libertà. b) Il giudizio. Se nel concetto si è cominciato dall'uno, nel giudizio si comin­ cia dal molteplice . Né è solo una questione di continuità discorsiva, in quanto una volta giunti, seguendo il movimen­ to logico del concetto, all'individuale , è necessario muovere poi da questo per ricostruire il movimento del giudizio. Come vedremo, Hegel prepara il terreno ad un nuovo capovolgi­ mento, cui ne seguirà un terzo. In tutto ciò v'è una precisa strategia: Hegel deve dimostrare che nell'individuale come tale opera, l'universale; che quest'ultimo è l'essenza, Wesen, ciò che fa essere l'individuale , che opera in lui. In questo discorso sarà coinvolto anche il sillogismo, che rappresenta un ulteriore grado del processo. La prima forma di giudizio è quella dell'immediato esserci . Il singolo come tale viene defìnito per questo o quel caratte­ re , come , ad esempio, nel giudizio : �'il tavolo è quadrato" . Un giudizio positivo, che ha la sua verità nel giudizio negativo, in quanto la copula che identifica "tavolo" e "quadrato" dice il falso , se non viene subito corretta dall'opposta che nega questa identità. Tavolo non è quadrato . Tavolo è tavolo e quadrato è quadrato. Così la scissione del giudizio si estremizza, e non è

95 più possibile fare altra affermazione che quella tautologica per cui una cosa è uguale solo a se medesima. Ma invero l'esito di questa forma di giudizio non è solo negativo, perché mostra esservi in ogni singolo qualcosa che sorpassa la singolarità, per essere appunto di tutti e di ciascuno: l'identità di sé con sé . Questa identità è ora il vero soggetto del giudizio, che giusta­ mente viene defìnito "giudizio di riflessione" . Ed è ��soggetto" in un duplice senso: antologico, perché è ciò che fa da suppor­ to all'esserci d'ogni singolo , ed insieme logico , perché tutto ciò che si può dire (predicare) di un individuo si riferisce in ultima analisi a questa identità che lo costituisce . Il giudizio di riflessione comporta dunque il capovolgimento del rapporto soggetto-predicato : in esso è l'universale - l'identità, l'uno che funge da soggetto, e l'individuale - il diverso, i molti - da predicato . Si è così di nuovo nello Standpunkt del concetto, nella posizione , cioè, della deduzione del molteplice dall'uno. Ma questa "posizione" non è, però, nel giudizio di riflessione, a pieno guadagnata, perché la copula dice sì che uno ��è" molti - esemplifìcando, che colore "è" rosso, giallo, verde - ma il legame è solo accidentale . Manca la derivazione dall'uno ( dal colore ) del molteplice ( rosso, verde, giallo . . . ) . Questa mancan­ za tuttavia è segno di un "progresso", perché nel giudizio la stessa scissione pone l'esigenza di riempire quella mancanza; esigenza che nel concetto neppure era avvertita. N el concet­ to prevale l'esposizione sull'argomentazione . Il "che", l'h6ti , è già "perché ", di6ti , nel concetto . Al compito della deduzio­ ne assolve il giudizio di necessità. Che ricava dall'uno come genere le sue specie molteplici . Il genere non è un puro uno, ma un uno determinato, che è tale , detertninato , per interio­ re necessità: il colore è tale perché verde, rosso, giallo . . . La necessità del genere è l'essenza del genere . Se adesso mettia­ mo a confronto concetto e giudizio, rileviamo facilmente che il giudizio di riflessione corrisponde al momento dell'univer­ salità del concetto, e il giudizio di necessità al momento della

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particolarità. Manca ancora il momento dell'individualità. Non quella, chiaramente , soltanto accidentale del Daseinsur­ teil, bensì l'individualità, pur essa determinata, del concetto . E cioè : quello che ancora manca nella terza forma di giudizio che procede dall'uno al molteplice , è la prova inversa. La cui esigenza già il giudizio di necessità fa awertire, perché, infatti, se il genere è necessario per le specie (perché colore è verde e giallo e rosso, verde giallo rosso sono colori) , queste non sono meno necessarie per il genere (perché e verde e giallo e rosso sono colore , colore è verde e giallo e rosso . . . ) . Ma, per non fare di questa necessitante circolarità una mera petizione di principio, è necessario che la prova ora parta dal basso, dall'in­ dividuale e molteplice . È il giudizio del concetto , che forni­ sce questa prova. Così al precedente ribaltamento di ruoli tra individuale e universale, operato dal giudizio di riflessione, ne segue un altro, inverso, ché il giudizio del concetto ha di nuovo il singolare come base, come soggetto. Ma il soggetto di questo nuovo giudizio, essendo un'individualità non acci­ dentale ma determinata, si rapporta al predicato universale non più accidentalmente , bensì secondo necessità. Non ester­ na, ma interna: una necessità, quindi, finalistica, nella quale si esprime la natura stessa dell'individualità omnintode determi­ nata. Com'è palese qui H e gel ripropone il circolo aristotelico phtjsis-télos . L: individuo, in tanto è destinato dalla sua natura al fi ne , in quanto il fi ne determina la natura: phanerò n h6ti pr6teron enérgheia dynante6s estin 17• Cosa resta in tutto ciò ancora non provato, non dedotto ? Proprio la copula. Ciò che unisce universale e individuale , uno e molti è riguardato ora dalla parte dell'universale ( come nel giudizio di riflessione e di necessità) ora da quella dell'indivi-

17. Met. , IX, 1049b 5; e XII, 1072a 9 . In merito cf. A. Ferrarin, HA, pp . 131- 132, e passim .

97 duale (come nel giudizio del concetto) , ma mai dalla parte di ciò che li tiene insieme . La successione delle quattro forme del giudizio mostra certamente l'approfondirsi della mediazione , il suo intemarsi nei termini stessi della relazione predicativa, soggetto e predicato, manca però la mediazione del medio, la mediazione della copula. Questa sembra essere assorbita ora nell'universale (giudizi di riflessione e di necessità), ora nell'individuale (giudizi del concetto) . Ciò che costituisce il giudizio, la copula, è una forma vuota. Un a presenza assente . Un legame senza determinazione alcuna, sostituibile da un puro segno di Se avesse un suo contenuto determinato divi­ derebbe anziché unire . E tuttavia questa forma vuota, questa presenza assente, è ciò che opera nel giudizio . È ciò che costi­ tuisce i due termini della relazione predicativa. Senza la copu­ la i termini non sarebbero due , ma uno . La copula come lega, divide - deve dividere. Come conciliare questa opposizione? Di più: cosa sta dietro questa opposizione ? = .

A queste domande risponde la dottrina hegeliana del sillo­ gismo . Il compito è tra i più ardui, perché la copula non è parte del giudizio, è il giudicare stesso. Col sillogismo, quin­ di, Hegel intende portare nel giudizio il giudicare, nel detto il dire , nell operato l'operare . Il programma resta quello delineato nella Differenz : «comprendere l'essere-divenuto (das Gewordensein ) del mondo intellettuale e reale come un divenire (ein Werden) , il suo ( del mondo) essere in quan­ to prodotto (Produkte) come un produrre (ein Produzieren)» (DFS , p. 22; it. , 15) . '

=

c) Il sillogismo. Il carattere della copula, s'è detto, è tale che essa non deve avere un sua propria consistenza o determinatezza, altrimenti divide e non unifìca. Il sillogismo, però, proprio l'esigenza di determinare la copula deve soddisfare - se vuole assolvere al

98 compito di portare il "medio" a conoscenza di sé, a giudizio . Il sillogismo questo fa: dà alla copula la determinatezza di un giudizio . Ma, questa copula (il "medio" del sillogismo), se ha la determinatezza (il �'contenuto" ) di un giudizio, in che modo mai potrà unificare gli estremi (gli altri due giudizi)? Non li dividerà, anziché unir li? N o, se la sua determinatezza, sarà tale da comprendere in in sé la determinatezza degli estre­ mi. In breve : nel sillogismo il medio deve fungere insieme da medio e da estremo; e cioè : esso deve , in quanto medio, con-tenere (tenere insieme, ed in sé ) gli estremi18 • A tal fine Hegel modifica radicalmente la logica del sillogismo, trasfor­ mando il tradizionale rapporto statico di implicazione tipico della mediazione sillogistica - secondo lo schema formale : l(ndividuale) > P(articolare) > U(niversale) -, in un movimen­ to dialettico, nel quale le tre forme di sillogismo19, analizzate nella sezione della Soggettività, si succedono secondo la loro specifica modalità. In tale successione i giudizi che forma­ no i sillogismi mutano continuamente di ruolo, e da estremi divengono medio, e da medio estremi20• Medio è quindi volta a volta l, P ed U . E tuttavia non può dirsi a pieno soddisfatta l'esigenza di determinare la "copula" (il medio) - senza peral­ tro che la determinazione le impedisca di unificare gli estre­ mi . N ella successione dei sillogismi, infatti, il medio quando è I non è però P né U, e viceversa. È dunque necessario un sillogismo nel quale il medio sia insieme (silnul, hatna) I, P

18. Sul tema cf. L. Lugarini, OH, pp . 451 -454. 19. Dell'esserci immediato, della riflessione e della necessità: \VL, II, pp. 351-401; it. II, 753-800. 20. Hegel si libera delle obiezioni che sono state giustamente mosse alla logica sillogistica, facendole proprie e ribaltandole . Prendendo l'esempio che J. S . Mill farà nel 1843, è certamente vero che l'affermazione che tutti gli uomini sono mortali si basa sul fatto che anche il Duca di Wellington è uomo e mortale (SL, p . 1 82, ma cf. i capp. II e III del Libro II sul "Ragio­ namento"); ma non è men vero che solo la conoscenza di uomo e mortale, permette di dire che il Duca di Wellington è uomo e mortale .

99 ed U . Questo sillogismo non è più formato da giudizi, ma da sillogismi: è un sillogismo di sillogismi21 - la forma logica di cui H e gel si avvale per presentare , al termine dell' Enciclope di a , il suo sistema fìlosofìco. Passiamo allora ai tre sillogismi fìnali dell' Enciclope dia 22• Il primo ripete lo schema generale dell'opera: Logica, N atura, Spirito. La logica si fa natura e questa spirito . Nel divenire l'estremo iniziale passa nel medio, e da questo all'altro estre­ mo. I termini non restano separati, fluiscono l'uno nell'altro. Questo sillogismo è il più povero, perché se porta ad evidenza che tutt'e tre i termini sono "idea", e quindi silnul medi ed estremi, tuttavia «la [loro] mediazione ha la forma estrinseca del passar oltre (hat die iiuj3erliche Fornt des Obergehens ) » ( § 575) . Che l'Obergehen sia il vero medio - che però resta fuori del sillogismo, che pur realizza -, signifìca che l'essere tutti e tre i termini - Logica, Natura, Spirito - "idea" è solo un presupposto di questo sillogismo , non ciò che il sillogismo pone . Ossia: è perché sono "idea" che essi possono passar oltre l'uno nell'altro. Il secondo sillogismo si presenta nella forma N atura Spirito Logica. Lo Spirito come medio di-mostra la comune essenza

2 1 . Nel quale, tra l'altro, viene in piena luce il carattere più proprio del Concetto, come dapprima si mostra nel suo momento "particolare": quello di essere le negazioni che nega, concreto, ed effettuale, wirklich, solo in esse: «L'universale in quanto (è) il concetto è se stesso e il suo opposto, che, di nuovo, è se stesso in quanto è la sua determinatezza posta; esso si estende oltre lo stesso particolare ed è in questo presso di sé . Così esso è la totalità ed il principio della sua diversità, la quale è determinata solo da lui stesso» (lVL, Il, p. 281 ; it. Il, 686) . 22. Cf. G. W F. Hegel, Enz, III, § § 575-577, pp. 393-394; it. , pp. 528-529. È stato giustamente detto che «Die Aufschliisselung dieser Lehre ist eine der schwierigsten Aufgaben der Hegel-Interpretation. Sie ist aber auch eine der wichtigsten Aufgaben, denn von einem Verstandnis dieser Paragrafen hangt die Interpretation des ganzen Hegelschen Denkens in entscheiden­ der Weise ah» ( B . Puntel, DMS, p . 45).

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ideale di Logica e Natura. In quanto sono Spirito, in quanto sono tenute insieme, contenute nel medio del sapere ( Spiri­ to è sapere, assoluto sapere) , Logica e Natura sono �'idea", e pertanto sono insieme estremi e medio . Questo sillogismo, se toglie (aujhebt) il "presupposto" del primo ponendolo , ditno­ strandolo, è tuttavia ancora soggettivo : è la conoscenza che, assimilando a sé gli estremi, consente loro d'essere termini "medi". Il limite di questo sillogismo è quello stesso del siste­ ma fichtiano: il soggetto-oggetto (il rapporto Logica-N atura) resta solo soggettivo ( meramente spirituale , conoscitivo)23• Gli estremi non sono ancora in sé e per sé medi . Lo sono per il conoscere (lo spirito) - l'unico vero medio . Il terzo sillogismo ha la forma Spirito Logica Natura. Che significa che la Logica è ora il medio? Significa che ora la ragione conosce se stessa - nella sua oggettività - sia nell' estre­ mo soggettivo del conoscere ( dello spirito) , che nell'estremo oggettivo della natura. La ragione - il medio - dualizzandosi in natura e spirito, nel suo auto-giudizio, fa dei due primi sillogi­ smi la sua manifestazione . Talché il terzo sillogismo racchiude in sé i primi due, è un sillogismo di sillogismi24• Questo illumi­ na il senso più profondo dell'affermazione finale della Scienza della logica secondo cui la scienza è un circolo di circoli . Ed anche spiega il senso della mediazione come mediazione della mediazione .

23. Questo secondo sillogismo, dunque, non definisce affatto la 'posizio­ ne' della Fenomenologia in rapporto all'oggettività, come afferma J. van der Meulen (cf. HGM, pp. 340-34 1 ) ; al contrario: è la forma sillogistica di quella posizione del pensiero rispetto all'oggettività che la Fenomenologia contri­ buisce a superare. 24. In merito cf. H . F. Fulda che molto opportunamente connette questo paragrafo dell'En ciclop edia alla trattazione del sillogismo della Scienza della logica: PE,.VL, pp . 293-294.

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Ma ciò che è più importante di questi paragrafi finali dell'En­ ciclopedia è la manifestazione piena della Logica - del Logos - come attività. La ragione si mostra, si dice, operando. Il suo manifestarsi è nella forma dei due sillogismi, uniti nel terzo che dicendosi si fa . L'Idea nel terzo sillogismo si rivela prassi . E questo H e gel dice non soltanto nel terzo sillogismo , sì anche con quell'appendice all'Enciclopedia che è la citazione di quel passo della Metafisica, ove Aristotele afferma, tra l'altro, che «il pensiero pensa se stesso con l'accogliere (katà ntetalepsin ) il pensato : toccando e pensando (thigganon kaì no6n), divie­ ne infatti pensato, cosicché pensiero e pensato sono identici» (XII, 7, 1 072b 19-2 1 )25• Qui dawero il pensiero porta se stes­ so a evidenza piena: la "copula", il "medio", è pensata come pensante. Il "legame", ciò che con-tiene ( che tiene insieme e in sé) , con-tiene perché opera. È il vero universale , la ragio­ ne (Vernunft), che nel dirsi non decade a mero "contenuto", non cessa di farsi, anzi il suo farsi è proprio il dirsi : pensando, e solo pensando, è pensato. N el sillogismo la ragione riesce a farsi contenuto di se stessa, conservando insieme il proprio statuto d'essere quale forma pura (il "con-tenente": ciò che tiene insieme e in sé) . =

La comprensione dell'essenza del sillogismo ci permette di tornare sulla Scienza della logica e sciogliere un nodo che è particolarmente importante per la comprensione non solo dell'opera e della sua interna coerenza, ma della filosofia di Hegel nel suo insieme . S olo se giungiamo a quell'altezza potremo riprendere la questione affrontata con la citazione del frammento di Holderlin.

25. Hegel cita e commenta il passo aristotelico nelle VGPh ; it., II, pp . 307-309.

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4. L�oggettività Il nodo è questo: le forme del giudizio sono quattro, tre invece quelle del sillogismo, che termina con la forma della necessità. A questa segue la sezione dedicata all'Oggettività. Si capisce bene l'importanza che questa sezione ha per il nostro discorso. Per alcuni inte:tpreti l'introduzione di questa sezione, non suffi­ cientemente motivata da H e gel, rompe la continuità dell' ordi­ ne secondo cui si succedono le categorie della Logica26 • Invero c'è piena corrispondenza tra l'andamento del giudizio e quello del sillogismo. E solo perché non si vede nell'Oggettività la quarta forma del sillogismo (il sillogismo del concetto - per usare la stessa terminologia che Hegel impiega nel distingue­ re le forme del giudizio) , si può ritenere immotivata la sua introduzione in questo luogo della Logica. Hegel dopo aver operato il rovesciamento del rapporto soggetto-predicato e nel giudizio e nel sillogismo della riflessione , opera una secon­ da inversione come nel giudizio del concetto così nel corri­ spondente sillogismo. La conclusione del sillogismo della necessità è la dimostra­ zione che l'uno come tale non solo è molteplice , ma è quel

26. Cf. John McTaggart Ellis McTaggart, CHL, pp. 242-243; Klaus Diising, PSHL, p . 290. Mi sembra significativo che entrambi gli interpreti conside­ rino non motivato l'inserimento del giudizio del concetto: J . M . E . McTag­ gart, CHL, pp. 220-221 ; K. Diising PSHL, p. 263. Sull'importanza del ruolo dell'Oggettività insiste giustamente - ma seguendo un percorso argomenta­ tivo diverso dal nostro - J . van der Meulen, HGM, pp . 94- 135. È qui oppor­ tuno ricordare una giusta osservazione di Dieter Henrich: «Eine Interpreta­ tion der Logik muss vor allem eine Interpretation ihrer Vermittlungsweisen sein. Die letzte und schwierigste Aufgabe ist es, den Zusammenhang dieser Vermittlungsweisen untereinander verstandlich zu machen» (HK, p. 94, nota 25) . Sul tema sono tornato recentemente in ETN, Sez. I, cap . I, "Logica e mondo in Hegel. La quarta forma del sillogismo", pp. 23-49.

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determinato molteplice27 • N el sillogismo disgiuntivo - nel sillogismo in cui domina la forma della negazione - si rende evidente che l'universale proprio perché è quella determinata determinatezza e non altra, e non le altre, comprende in sé tutte le altre. La negazione si piega su se stessa, ma nega insie­ me la sua negazione . Il fìore (universale ) è rosa (individuale ) e non viola né margherita, perché è sempre un determinato fìore e non altro; ma proprio perché esclude, essendo rosa, di essere viola e/o margherita, esso, in quanto fìore ( univer­ sale ), è rosa e viola e margherita. Ne consegue che senza la determinazione individuale, la determinata determinatezza dell'individuo , non si coglie l'universalità. Ma questo compor­ ta che al processo dall'alto, dall'uno ai molti, dall'universale agli individuali ( da fìore a rosa, margherita, violetta) , segua il processo dal basso: dai molti all'uno. Ma i molti da cui dev'es­ sere ricavato l'universale non possono essere , sin da principio, una determinata molteplicità (come rosa, margherita e viola) , ché altrimenti sarebbero già determinati nel loro essere, nella loro universalità, e la deduzione dell'universale dall'indivi­ duale sarebbe solo un giuoco illusionistico; debbono essere, i molti, indeterminati, e cioè mera molteplicità, irrelata. Hegel riapre il processo proprio dall'individuale colto nella sua più accidentale accidentalità, quella per cui ogni relazione gli è affatto estrinseca. La relazione meccanica è questa estrinse­ cità. Esemplifìcando, che una pietra stia su un prato, ai bordi di un strada o in cima ad un monte , non dipende dal suo esser pietra, ma da altro, da un terzo, che per essa è affatto a cci­ dentale . Ma questa estraneità, ove si considera la pietra non isolatamente , ma nel tutto, si riduce . H e gel fa l'esempio della forza di gravità. Il centro d'attrazione è certo fuor della pietra, 27. Volendoci esprimere con un paradosso, possiamo dire così: il sillogismo disgiuntivo prova che è possibile dedurre anche la penna del signor Krug; se non lo si fa, e perché c'è qualcosa di più importante ed interessante cui dedicarsi!

104 tuttavia qualcosa v'è della pietra che permette alla forza ester­ na di agire su di essa. Anche la pietra, dunque , entra in rela­ zione con altro a partire da sé. La relazione tra le cose s'in­ terna maggiormente, quando si considerano le sostanze nei loro elementi costitutivi, che si tengono insieme o si disgre­ gano, entrando in rapporto con altre sostanze, in base all'affi­ nità della loro natura e composizione . Hegel definisce questo rapporto "chimico", non perché si riferisca ad una scienza in particolare , ma perché definisce, come peraltro il meccani­ smo, un modo di rapportarsi degli enti tra loro ( cf. WL, II, pp . 409-410 e 429; it. II, 808 e 826) . Insomma la distinzione tra relazione meccanica e chimica è fatta quoad Jo-mlatn e non quoad 1naterian1. Lo stesso dicasi per la teleologica, che ades­ so andiamo ad esaminare . a) Il sillogismo del concetto: la teleologia Nel giudizio del concetto la successione delle forme del giudi­ zio - assertorio, problematico, apodittico - serve a di-mostrare in che modo il fine, dapprima esterno all'individuale soggetto del giudizio, da ultimo coincide con la natura stessa dell'indi­ viduo . Il processo di "interiorizzazione" del fine è però opera di un terzo, e cioè del pensiero che ha a suo oggetto il giudizio teleologico . E questo ben si spiega: l'interiorizzazione del fine al soggetto non può essere opera del giudizio stesso , perché in esso la copula - e cioè il termine medio che opera nel giudizio - resta non tematizzata, epperò non appare : resta, per usare il linguaggio di Glauben und Wissen, ein Bewuj3tloses . La scena cambia nella trattazione del sillogismo . Qui, come si è detto, pensante e pensato, noesi e noema, sono tutt'uno. E sono tutt'uno perché il noema è la noesi stessa nel suo farsi . Come fare e nel suo farsi il pensiero si dice : dice sé . S ono il medesi­ mo il dirsi e il farsi . La mediazione è, come tale , mediazione della mediazione .

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Ma seguiamo da vicino, anche se a rapidi tratti, questo m ovi­ mento. Per dimostrare in che modo nel sillogismo del concetto il fine si interiorizza ad opera del fine stesso, che è il medio operan­ te del sillogismo, Hegel muove nuovamente dal molteplice irrelato ed accidentale . l:individuale di questo sillogismo è un puro oggetto, preso insieme con altri al fine di realizza­ re qualcosa. Ma il loro "essere-insieme " è ad essi estraneo. S abbia, calce , ferro, e quant'altro è necessario alla costruzione di un edificio, sono tra loro in rapporto solo per lo scopo di chi costruisce . Certo, essi vengono presi in base alle loro caratte­ ristiche e meccaniche e chimiche , ma queste valgono non per se stesse, bensì per il disegno di colui che intende costruire l'edificio. In breve, calce e ferro non si uniscono da soli, sono mescolati dalla mano dell'uomo. Sicché le loro caratteristiche meccaniche e fisiche valgono non per sé , ma in relazione allo scopo che volta a volta si intende conseguire . E lo scopo, ripe­ tiamo, è estraneo agli oggetti, è puramente soggettivo .

È vera questa maniera di considerare le cose? Cioè, è reali­ stica? Invero proprio la partizione iniziale tra il soggettivo e l'oggettivo è solo un'astrazione . Di fatto non ci sono meri oggetti irrelati, di fatto c 'è sempre un "insieme" di cose , tra loro in relazione per la realizzazione di qualcosa. L'ambiente in cui l'uomo vive è questo "insieme" . Il fine solo soggettivo non esiste che per la considerazione astratta che divide ciò che è originariamente unito . Il fine è sempre già incorporato nelle cose, negli oggetti . Che non sono mai meri "oggetti", ma sempre tnezzi per qualcosa. Anche la pietra o il bastone che scorgo al margine della strada e che prendo per scacciare il cane che mi si awenta contro, è nel momento stesso che cade sotto i miei occhi uno strumento per . . . Sin dall'inizio il mio sguardo - lo sguardo di chi si sente minacciato, non lo sguardo di un presunto spettatore disinteressato ! - rende strumento

106 l'oggetto che vede . Ma anche questo esempio descrive solo parzialmente la "realtà". Descrive il caso particolare, eccezio­ nale di un'improvviso pericolo . N ella comune vita quotidiana gli oggetti sono tutti già predisposti al fine : sono �'strumenti". Vale a dire : non lo sguardo soggettivo li rende "mezzi" per un fine, ma il loro "esser-mezzo" condiziona lo sguardo. Se per fissare un chiodo al muro si impiega, in mancanza del martello, il tacco della scarpa, è perché si usa la scarpa come martello . Insomma nel nostro mondo non incontriamo mai puri oggetti, bensì sempre strumenti per qualcosa, "mezzi". E se usiamo questi "mezzi" per fini impropri (come nell'esempio del tacco della scarpa), ciò non toglie che il fine incorporato nel mezzo abbia maggiore stabilità dello "scopo soggettivo" (id est: "acci­ dentale") . «Lo strumento - scrive Hegel - si conserva mentre i godimenti immediati passano e vengono dimenticati» (WL, II, p. 453; i t. II , 848-849) . Il mondo oggettivo, dunque , non è costituito da oggetti isolati che vengono messi insieme da una volontà esteriore ; il mondo oggettivo è una totalità coordinata di mezzi, nella quale gli "oggetti" sono volta a volta mezzi e scopi . Ciò che è mezzo per qualcosa, è fine per qualcos'altro. Non solo : il mezzo, proprio in quanto serve a realizzare uno scopo, è esso stes­ so scopo per il fine, che senza il mezzo non potrebbe esse­ re realizzato. È questa teleologia oggettiva, incorporata cioè negli oggetti, che fa dire a Hegel che la verità del meccanismo e del chimismo è la teleologia ( \VL, II, p. 444; i t. II, 840) . E qui dawero trova la sua perfetta conclusione la confutazione hegeliana del "soggetto-oggetto" fichtiano : il fine, il "soggetti­ vo", non sopravviene all'oggetto, appartiene sin dall'inizio ad esso . Ritrovare nel mondo oggettivo la presenza del soggetto è ciò che dawero garantisce l'oggettività dell'operare sogget­ tivo. La riflessione filosofica non fa che mostrare, che portare ad evidenza la connessione strutturale del mondo che è insie­ me soggetto ed oggetto, fine e strumento, ideale e reale . Ma

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questo "mostrare" non è solo analitico , è analitico e sinteti­ co insietne . Il mostrare è di-mostrare perché quello che trae dal profondo lo es-plica, lo dis-piega, lo sviluppa. Per tornare alla terminologia del frammento di Holderlin citato all'inizio, il portare l'Essere a Giudizio, l'es-plicare l'Identità assoluta nell'identità plurale io-mondo, realizza l'Essere , lo attua. L es­ sere puro senza distinzione alcuna è mera potenza, che solo nell'atto si rivela. Ma diciamolo con le parole di Hegel: La forza dello spirito è grande solo quanto la sua estrinseca­ zione (ih re Ausserung), la sua profondità profonda solo quan­ to, nel suo dispiegarsi (in seiner Auslegung), esso osa espan­ dersi e perdersi. (PhiiG, p. 15; it. l, 8).

b ) La Vita. Il mostrare che è di-mostrare , l'analisi che è insieme sinte­ si, conferma il carattere specifico della Logica hegeliana che è insieme Erinnerung e costruzione, come anche si è detto . Pertanto il passaggio successivo, esposto nella Scienza della logica , dall'Oggettività alla Vita è del tutto legittimo, ed anzi persino ovvio . La Vita precede e insieme segue l'Oggettività secondo il "metodo" (hod6s: la "via") indicato da Hegel sin nella Introduzione , per cui l'andare innanzi è un retrocede­ re nel fondamento , all'originario e al vero. La Vita è la mani­ festazione piena della teleologia realizzata, perché ogni suo momento particolare e individuale è in funzione della totalità del vivente , e viceversa28• Eppure un dubbio qui si insinua . Il dubbio che questo "metodo", che conduce dalla superficie al fondo e poi di nuovo dal fondo alla superficie - metodo che caratterizza non solo la Logica , ma del pari la Fenonte­ nologia -, celi un inconsapevole inganno . È possibile - alme-

28. Cf. L. Illetterati, VCH.

108 no possibile - che nel retrocedere dalla superficie al fondo si attribuisca a questo quel che si trova in superficie . Togliendo, semmai, al fondo qualche carattere particolare che si ascrive in esclusiva alla superficie, e ciò perché non vada perduta per l'analisi la ��sintesi", per l'Erinnerung la costruzione . Il dubbio, anzi il sospetto che quanto denunziato accada, sorge più volte durante la lettura delle pagine di Hegel, e in particolare delle più note e discusse , come , ma è solo un esempio tra gli altri, quelle della Fenotnenologia dello spirito che "narrano" la nascita dell'autocoscienza spirituale dalla vita. Dopo la descrizione della Vita, o mondo organico, come di un Husso incessante di figure che nel loro stesso nascere si dissolvono, e dissolvendosi risorgono, senza che le differenze riescano mai a stabilizzarsi, il sorgere dell'autocoscienza - e cioè di una stabile universalità, o genere - si spiega solo sulla base di un postulato, e cioè che la vita accenna a qualcos'al­ tro rispetto a ciò ch'essa stessa è, all'autocoscienza ( cf. PhiiG, pp . 135-140; it. I, 145- 152) . Qui il denwnstrandu nt è assunto come base della dimostrazione . N o n è un passaggio, questo, ma un vero e proprio salto . E non è l'unico . Nella Scienza della logica, proprio nelle pagine in cui dà ragio­ ne del "metodo " circolare della sua dialettica, H e gel dice che non c'è poi da stupirsi se nell'universalità astratta e sempli­ ce dell'inizio è già contenuta la totalità, perché come già la Dottrina del concetto dimostra, l'astratto contiene in sé quel­ la negazione (dell'altro da sé , del concreto) che lo determi­ na, legandolo a quello stesso che nega . Il che non è vero, ma verissimo - ma soltanto perché l'universale ( l'astratto) , come s'è visto precedentemente, è considerato dalla prospettiva del particolare ( dell'altro negato, del concreto) . Il semplice, che non è lo stesso che l'astratto (l'astratto è il semplice conside­ rato nell'ottica del molteplice e concreto), contiene - tiene­ insieme , indistinto - in sé il tutto molteplice , ma non è il tutto

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molteplice . Perché dal S emplice (dallo hén della I ipotesi del Partnenide, 137 c ss. ) si passi alla totalità dispiegata dei molti ( allo hèn ho esti della seconda ipotesi, 142b ss. ) è necessa­ rio che vi sia nel Semplice «l'impulso (Trieb) a portarsi avan­ ti» (WL, II, p. 555; i t. , II, p. 941 ) . N o n si ripete ora quanto poc' anzi s'è detto, e cioè che l'c'impulso" del Semplice a passa­ re nel molteplice composto rispecchia una posizione tipica del molteplice stesso; non lo si ripete , perché se nel S emplice è tutto, è anche l'impulso a «sich 'veiterzufiihren» . Ma, se non si vuol ridurre il S emplice-Uno all'Uno-Molteplice , insieme con l'c'impulso" bisogna affermare la presenza del suo contra­ rio. In breve, non si nega l'impulso, si nega la necessità della sua es-plicazione . l:atto di volontà che abbiamo incontrato all'inizio della Logica, necessario a colmare il c'salto" tra il sapere assoluto e l'essere vuoto, l'essere privo di determina­ zione alcuna, risulta c'arbitrario" - e cioè : non spiegato e non spiegabile - come all'inizio della Logica, così alla fine. Ma, se la risoluzione dell'Essere in Giudizio, se die Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung, non è una neces­ sità, ma una possibilità, allora non si può negare che il fondo mantenga un c'in sé", un resto, un residuo irrisolubile nel c'per sé", una dimensione che non si può portare alla luce; mai defi­ nitivamente, almeno. La relazione io-mondo, dunque, non esaurisce l'Identità dell'io.

È a questo livello che va ripreso il confronto di Hegel non con Fichte, ma con Kant. Ne vedremo la ragione .

5 . Il giudizio dopo il sillogismo Come sopra si è ricordato, nell'introduzione alla Dottrina del concetto Hegel riprende la critica a Kant già svolta in Glauben und Wissen . Solo perché la filosofia trascendentale kantiana

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è ancora affètta da soggettivismo e psicologismo antepone al concetto l'intuizione e la rappresentazione, e cioè pone la "materia" del concetto come estranea ed estrinseca alla sua ,,_c torma' ' . La critica hegeliana può avere , forse, un qualche appiglio in questo o quel paragrafo dell'Analitica dei concetti, ove sentbra che l'oggetto del conoscere sia opposto al sogget­ to come un ente che stia di contro al altro ente (cf. ad es. KrV, § 14; ma contra § 1 7) . Non ne ha però nell'Analitica dei principi ( Grundsiitze) , ed in particolare nelle Anticipazioni della percezione e nelle Analogie dell'esperienza. Da queste "proposizioni fondamentali" di tutti i giudizi sintetici a priori, owero dal quadro generale dei "principi" su cui Kant inte­ se fondare la scienza ( fisica) , si ricava che l'oggetto non è di fronte, di contro (gegenii ber) ad un supposto soggetto, ma all'interno di un "Io X" (K:rV, A 346, B 404), che non è un ente tra enti, ma l'orizzonte di apparenza di ogni ente , owero : del fenomeno in quanto tale, di ogni fenomeno naturale . Le intuizioni e le rappresentazioni non sono meno "interne" al concetto, di quanto non siano l'essere e l'essenza in H egei. La vera, reale differenza tra Hegel e Kant sta in questo: che per H e gel l'essere si risolve nell'essenza e l'essenza (rectius : l'" essere essenziale") nel concetto, laddove in Kant la materia resta ��altra" dalla sua forma, altra ed irriducibile . E non si trat­ ta solo dell'alterità relativa tra concetti e intuizioni, ma sovrat­ tutto dell'alterità assoluta tra la sensazione e la sua materia (die tra nszendentale Materie, die Sachheit) . Il concetto di noumeno, in quanto Grenzbegrif.f, limita anzitutto le prete­ se della sensibilità (KrV, A 255, B 31 0-31 1 ) . La "cosa in sé", che con sprezzante giudizio Hegel definì il caput rnortuunt del pensiero kantiano (cf. Enz, § 44), è invero la più alta forma di consapevolezza che il pensiero ha della propria finitezza, in quanto capace di riconoscere il suo limite dall'interno di se medesimo, e cioè senza varcarlo . Kant con l'affermazione =

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della "cosa in sé" spezza, con Platone , il vincolo necessario tra il ti e il poi6n, il quod e il quid, il soggetto e il predicato, non si nasconde - non nasconde a se stesso e agli altri - il mistero del passaggio da Hén a Nofls, al contrario lo dichiara, e dichiaran­ dolo lo custodisce come tale, come mistero. Così il pensiero si mantiene nella propria :finitezza :finita, non eleva, cioè , come Hegel, il :finito a momento dell'infìnito. La copula resta ein Bewuj3tloses . Il medio media altro, ma non sé. Il grande tentativo hegeliano di mediare la mediazione naufraga nell'impossibilità dell'autocoscienza di dare ragione di sé , della sua nascita29, e conseguentemente della scienza di dar ragione del suo inizio . Il circolo e, a maggior ragione, il circolo dei circoli non sfugge al sospetto, sopra denunziato, di interpretare il fondo a partire dalla superfìcie , l' Uno a partire dai molti, l'origine dall'originato. Ma bisogna dire dell'altro ancora. E cioè che il sillogismo hegeliano, con la sua pretesa di togliere ogni materia assor­ bendola senza residuo alcuno nella forma, condanna la storia ad una pura retrospezione. La Vita si spegne nella forma: il pensiero pensante, tutto posseduto nel pensato , riduce il suo stesso farsi, il suo essere in atto, o atto in atto , ad infìnità solo presente30. Un presente che si scopre in divenire solo nell'E­ rinneru ng . In ciò il calvario (Schiidelstiitte) dello spirito: nel non aver più storia? O nel doversi comunque, pur nella felice quiete del suo presente attuale, rimirare nel passato, essere sempre Erinnerung del divenire?

29 . Kant avverte che l'Io non può essere conosciuto con le sue proprie cate­ gorie, «perché per pensarle, deve porre a fondamento la sua autocoscienza pura, che pur doveva essere spiegata» (KrV, B 422) . 30. Questa conseguenza verrà tratta con estrema coerenza da G . Gentile sin nella TGS, cap. III, § 13 e passim. Su Gentile : infra, Parte I, Sez. II, capp . I e Il, Parte Il, cap . III.

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Quale che sia la risposta a questa domanda, certo è che dal sapere assoluto in cui ogni materia è risolta, mai non si esce . Il che peraltro accade anche all'orizzonte me ram ente formale che è l'Io penso kantiano, dacché anche per Kant non è possi­ bile esperienza di cose (di enti, di fenomeni) se non nell'oriz­ zonte trascendentale definito appunto dell'esperienza possi­ bile. N eli'orizzonte kantiano, però, è almeno possibile vede­ re nuovi fenomeni, Jnaterialiter nuovi, quantunque sempre eguali quanto alla loro forma. Vero è che sia il sapere assoluto sia l'Io penso negano il tempo: l'uno "cancellandolo"31; l'altro inchiodandolo in un'immutabi­ le fissità: die Zeit bleibt und wechselt nicht (KrV, B 225; e A

183, B 226) . Forse ha ragione Schelling, quando afferma che «il tempo apparente» (die scheinbare Zeit) , «il tempo che sempre si ripete» (die ilnnwr sich wierholende Zeit), il tempo che è proprio di questo mondo è solo un tempo tra i tanti, e che «il vero tempo non è quello che si ripete» . Che poi die wahre Zeit sia pensabile come eine Folge der Zeiten, una successio­ ne di tempi (PhO, pp . 1062- 1063 ), non è certo questione che possiamo affrontare qui . Saremmo, però, unilaterali, se , concludendo, omettessimo di dire che anche questo pensiero dell'irriducibilità della mate­ ria alla forma, del tf al poi6n, in breve dell'immediatezza alla mediazione , non è del tutto estraneo a Hegel, quantunque Hegel abbia lottato l'intera vita per contrastarlo e "negarlo". Awertiva la minaccia del Profondo che non si esplica nella superficie del mondo, ma resta ei.�o en bathei, chiuso nella sua profondità ( Platino, En , VI , 8, 18); awertiva la minaccia dell'U­ no che nega il molteplice . L'awertì tanto che la vide nella Vita

3 1 . "Tilgen", non "aufheben": cf. PhiiG,

p.

558; it. II, p . 298.

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stessa, nell'esperienza vivente dell'autocoscienza spirituale . E scrisse la pagina più tesa ed intensa dell'intera Fenomenologia, la pagina in cui 'commentando' l'Edipo sofocleo, osservava che l'Altro della coscienza, la potenza che ha in orrore la luce (die lichtscheue Macht), la potenza che la coscienza viola e si rende nemica, non è che la coscienza stessa, il suo inconscio ( cf. PhiiG, pp . 335-336; it. , II, p. 28) . Possiamo ora comprendere in tutta la sua profondità il brano del giovane Holderlin citato all'inizio. Nella sua concisione esso afferma il limite insormontabile del pensiero, l'E ssere , che nella sua compatta, indivisa identità è "altro" dal Giudizio . Resta da chiedersi se il termine "essere" sia adeguato a notni­ nare la suprema, indivisa e indivisibile Identità, e , quindi, se il giudizio, per poter riconoscere ed esprimere !'''alterità" di questa Identità altra anche rispetto a se medesima, non debba rinunziare all'"ésti , all'"è", che - Aristotele docet - impone anche al "non-essere" la legge dell'essere : "per cui diciamo anche del non-essente che è non-essente" (diò kaì tò tnè òn etnai tò nzè 6n p hatnen : Met, IV, l 003 b l O) .

II Identità [ . . . ] l'identità è la riflessione in se stessa, che è questo solo colTI€ un respingere interno, e questo respingere è solo co1Tie riflessione in sé, un respin­ gere che im1nediatmnente si riprende in sé. Essa è pertanto identità co1ne differenza identica a sé. La differenza è però identica con sé, solo in quanto è non l'identità, ma un'assoluta non-identità. La non­ identità però è assoluta, in quanto non contiene nulla del suo altro, lTia solo se stessa, vale a dire in quanto è assoluta identità con sé. L'identità è dunque in lei stessa assoluta non-identità.

( Hegel, \VL , I I , pp. 40-4 1 ; it. , I I , p . 459)

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I In-finito. Intelletto/ragione - concreto/astratto

Dio, in quanto Dio vivente e ancor più in quanto spiri­ to assoluto, lo si conosce solo nel suo operare . Presto l'uo1no venne educato a conoscerlo nelle sue opere; soltanto da queste possono risultare quelle detennina­ zioni che si chimnano le sue proprietà, e co1ne in esse è contenuto il suo essere . (\tVL, II, p. 404; it. , II, p. 803).

Questo brano, che si legge nell'Introduzione alla sezione sull'Oggettività della Dottrina del concetto, riassume (wieder­ holt) l'intero percorso della Scienza della logica dai primi para­ grafi sull'essere , il non essere e il divenire sino al sillogismo disgiuntivo. Riassume in particolare il movimento dell'essen­ za: l'andare a fondo del fondamento nell'emergere della cosa, l'apparire dell'essenza, e cioè il suo passaggio all'esistenza, ed infine il processo dell'assoluto, ovvero l'es-porsi della sostanza. La stessa terminologia - il nome di Dio, in particolare - rinvia a Spinoza e Leibniz, i due filosofi che dominano la scena dise­ gnata nell'ultima sezione della Dottrina dell'essenza. Né deve meravigliare che questa ripetizione (Wiederholung) della Wesenslehre avvenga all'inizio della seconda sezione della Dottrina del concetto, se si considera che con il sillogismo disgiuntivo, che chiude la sezione della Soggettività, Hegel ci ha portato solo alla soglia dell'"idea assoluta" o "spirito", ovve-

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ro dell'unità mediata, epperò assoluta, del soggettivo e dell' og­ gettivo. Alla soglia: perché sino al sillogismo disgiuntivo non si ha che un unico movimento : dall'assoluto, o, se si vuole, dall'u­ niversale , alle sue determinazioni ( al singolare) ; l'altro movi­ mento, dal singolo all'universale, che piega in circolo l'intero processo, il movimento teleologico, cui alludono le espressio­ ni "Dio vivente" e "spirito assoluto" - forse non pienamente appropriate a questo livello analitico1 -, è stato solo ntostra­ to nella quarta forma del giudizio, il giudizio del concetto, e non ditnostrato , data l'inadeguatezza della "forma-giudizio" ad esprimere il vero :6.loso:6.co o speculativo2 . Ma quello che ora preme mettere in luce è che nell'affermazione , che Dio (l'essenza) viene conosciuto solo nelle sue opere ( esistenza, fenomeno, realtà) , è espresso il medesimo che vie n detto sin dall'inizio della Logica, e cioè che l'essere non passa nel nulla, né il nulla nell'essere, bensì che l'essere è passato ( iibergan­ gen ist) nel nulla e viceversa (WL, I, p . 83; it. , I, p . 71 )3. È passato - vale a dire : non c'è mai un momento, un istante , in cui il pensiero dell'essere non sia già pensiero del nulla, ed il pensiero del nulla già pensiero dell'essere . I due non sono isola bili . Sin nell'essere si pensa il nulla, perciò non v'è che una ed una sola categoria, il divenire . Che è terza solo perché muovendo dall'astrazione dell'essere in sé e del non-essere in sé si mostra in concreto il loro passare . E il medesimo ripete Hegel nel capitolo della Dottrina dell'essenza che inizia con la celeberrima proposizione : Das Wesen tnuj3 erscheinen, l'es­ senza deve apparire .

l.

La dubitativa è d'obbligo, perché se è vero che ..vita" e .. spirito assolu­ to" sono determinazioni che nell'ordine categoriale della Logica vengono dopo la ..teleologia", tuttavia in ogni momento del processo logico è tutto il processo, quantunque nella prospettiva ch'è ad esso propria. S u ciò cf.

infra, § 3. 2. In merito: retro, Sez. l, cap. l, e infra, Sez. Il, cap. III. 3. In merito: infra, P. I, Sez. III, capp. I e Il.

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l.:essenza è passata nell'esistenza, in quanto l'essenza co1Tie fondamento non si distingue più da sé co1Tie dal fondato, ossia in quanto quel fondmnento si è tolto. (vVL, II, p. 1 28; it. , II, p . 54 1 ) . .

"È passata": anche qui un tempo aoristico, come l'en dell'ari­ stotelico �'tò ti e n einai". L'universale non è se non nei singo­ li - come appunto dimostra il sillogismo disgiuntivo . O, per dire il medesimo con un esempio dello stesso Hegel, noi non mangiamo mai frutta, ma pere, mele , susine . . . Così dicendo, però, ci si potrebbe confermare nell'errato convincimento che ci siano mele, pere , susine . . . , e cioè �'oggetti" (Gegenstiinde) , fissi e stabili, di fronte a noi; laddove proprio questo convin­ cimento, tipico dell'intelletto astraente (Verstand) , Hegel intende confutare . Di fatto non ci sono "oggetti", Gegenstiin ­ de. Ma per intendere questa affermazione che a tutta prima suona paradossale , dobbiamo fare un passo innanzi, passando a trattare della teleologia. Ad essa Hegel dedica il capitolo più importante della sezione sull'Oggettività, nel quale dimostra essere la relazione finale la verità della causalità meccanica ( e chimica) . Hegel non dimostra qui che meccanismo e chimismo sono subordinati ad un fine - naturale o extranaturale che sia -; così ragionando, non si discosterebbe affatto da quella finalità esterna che egli aspramente critica in Kant. Hegel dimostra, per contro, che sin dall'inizio, e cioè nel loro fondo nascosto, meccanismo e chimismo sono nel loro essere in sé determina­ ti finalisticamente . Il fine perciò è detto intrinseco, perché è l'unico vero "fattore" dell'intero processo, e non si awale di mezzi meccanici a lui subordinati, dal momento che questi medesimi mezzi sono an sich "fini", sono, cioè, il suo stesso operare4•

4 . Cf. retro, Sez. l,

cap .

Il, § 4.

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"La verità del meccanismo è la teleologia" non fa che ripe­ tere la tesi generale esposta sin nell'Introduzione della Logi­ ca, secondo cui l'andare innanzi è invero un retrocedere nel fondamento, al vero , e poi ripresa ed ulteriormente specificata all'ingresso della Dottrina del concetto, ove si rileva che il «il suo [se. : della sostanza] divenire ha, come dappertutto il dive­ nire, il significato di essere la riflessione di quello che passa nel suo jonda1nento , e che quello che innanzitutto sembra un altro, nel quale il primo è passato, ne definisca la verità» (WL, II, p. 246; it. , II, p. 652) . Opera qui, palesemente , la distin­ zione aristotelica tra il pr6teron pròs hentas ed il pr6teron te phtjsei ; ma Hegel la riformula in termini dialettici, e questo significa: il "prima" ha la sua verità nel "poi" . È la caratteristi­ ca temporalità hegeliana che qui si impone, e che possiamo rappresentare in immagine mediante la figura di una scala retrattile . Con ciò si vuoi significare non soltanto che il passato non resta alle spalle del presente , sì anche, ed è l'essenziale, che esso non ha un'esistenza a sé, indipendente dal presente, e cioè dal suo futuro . La verità è sempre oltre , di là. La verità è sempre futuro. L'idea stessa del circolo, per cui l' Ultimo si congiunge col Primo, non dice affatto che il processo torna al Primo, esso torna bensì "sul" Primo, rivelando ciò che esso davvero è . Come dire che il Primo è solo nell'Ultimo . Prima della sua rivelazione nell' Ultimo, esso propriamente non è; al più era parvenza, ma parvenza che si toglie . N ella verità della teleologia il meccanismo scompare , viene meno. Ora è tutto nel fine, è esso medesimo, nel suo vero essere , nella sua essen­ za dapprima latente, il fine . Ed è qui la differenza che separa Hegel da S chelling. In Schelling l'inizio resta altro e differente da ciò che da esso "si" inizia (riflessivo); è "passato", ma non in quanto �'momen­ tum", movimento che trascorre in altro; è passato eterno, non storico . Fondamento possibile del presente, e non origine. Possibile, perché è il presente , l'eterno presente , che si re la-

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ziona al passato, che può trovare nel già-stato il suo appog­ gio ed il suo punto di partenza per aprirsi al futuro, anch'es­ so eterno, al futuro d'ogni futuro . In Schelling il tempo resta disteso , non si contrae . E solo per questa distensione si dà il tempo storico , il tempo che sorge e tramonta, il tempo che passa5. L'opposto esatto di Hegel, che nello svolgimento del suo pensiero si è sempre più allontanato da Schelling. Leo Lugarini ha sottolineato la differenza tra la prima edizione e la seconda della Dottrina dell'essere della Scienza della logica . N el testo del 1812 l'inizio era rappresentato dall'essere puro, in quello del 1832 è invece il "concetto come essere " ( OH, p . 1 25) . Vale a dire : nel 1832 la distinzione tra logica oggettiva e logica soggettiva si riduce alla distinzione tra c'il concetto che è", c'il concetto della realtà o dell'essere", ed il concetto in quanto tale, in quanto concetto, il concetto del concetto . L'in­ tero processo si svolge quindi nel libero territorio del concetto: l'oggettività, la sostanza, è solo il grado inconscio del soggetto, da cui il soggetto eternamente si libera. Si libera, o si è libe­ rato? È il passato l'ombra che il presente proietta dietro di sé, prodotto quindi dello stesso presente, o è un peso, un vincolo che trattiene il soggetto, che ne ostacola il libero movimento? 2. La c'revisione" della Dottrina dell'essere sentbra non lascia­ re spazio alcuno al dubbio: è la prima ipotesi quella che H e gel segue con sempre maggiore coerenza. Ed è alla luce di questa che vanno lette anche le pagine che paiono muoversi in senso opposto . Come quella che si legge verso la fìne del paragrafo sul c'sorgere della cosa nell'esistenza". Qui vie n detto: Quando tutte le condizioni di una cosa sono presenti, allora essa entra nell'esistenza. La cosa è, pri1na che esista; e cioè è in prilno luogo cotne essenza, o come incondizionato; secon-

5 . Cf. Schelling,

\tVA, pp .

2652-2653 (it., pp . 547-553), e passim .

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darimnente ha un esserci, ossia è detenninata ('-'VL, II, p. 122; it. , II, p. 534 ) .

A ben riflettere il passo conferma proprio quanto si è detto sin qui sulla contrazione del passato nel presente e di questo nel futuro . l: essere la cosa in primo luogo come essenza e secon­ dariamente come esistenza, dice che l'" è" della cosa - la sua "essenza" - non è che l'insieme delle sue condizioni, e cioè di altre esistenze determinate , che però hanno significato e valore solo in relazione a ciò per cui sono disposte o destinate . l:essenza è sempre già nell'esistenza. E questa, l'esistenza, è determinata - "è" - per (in vista di, e quindi in virtù di) ciò cui è destinata. È la destinazione che le rende le condizioni qual sono, non un loro presunto essere-in-sé . In termini aristoteli­ ci : pr6teron enérgeia dyndnteos. In termini temporali (peral­ tro impliciti nella definizione aristotelica) : il presente - e con esso il passato - è per il futuro, in vista di questo . Ma non è che ci sono dapprima le cose e poi queste come condizioni d'altro - di altre cose . Le cose esistenti sono sitnul risultato del passato e condizioni del futuro . Sintul, hanta, e cioè : non prima risultato e poi condizioni . Il presente non si coglie se non in questa sintultaneità . Ricorriamo ancora una volta ad un esempio - di Hegel - al fine di mostrare quanta concretezza v'è nelle sue analisi, pur in quelle che parlano di Dio, dell'es­ senza e dell'esistenza in generale . L'esempio è tratto dal capi­ tolo sulla teleologia, quello stesso da cui s'è cominciato . Scrive dunque Hegel, criticando lo scopo meramente soggettivo : [ . . . ] il 1nezzo è qualcosa di superi ore agli scopi finiti della finalità este,ma; - l'aratro è più nobile di quanto ilninediata­ Inente non siano i godilnenti ch'esso procura e che costitui­ scono gli scopi. Lo stru 1nento si conserva, Inentre i godiinenti iininediati passano e vengono dimenticati. ('-'VL, II, p. 453 ; it. , II, pp. 848-849) .

Ancor qui dobbiamo saper leggere . Hegel non afferma il valo­ re della stabilità della cosa-��oggetto" ( Gegen- Stand) contro la

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fugacità o evanescenza degli scopi meramente soggettivi. La "stabilità" che rivendica è la stabilità di un processo: del proces­ so nel quale soltanto è ed esiste la co sa . Che non è "oggetto ", bensì "mezzo" . Mezzo : qualcosa che serve a . . . , e il cui esse­ re è tutto in questo servire a . . . , in questo esser destinata a . . . Mezzo : qualcosa il cui essere "per sé " si risolve tutto nell'essere "per altro" . Ora, ciò che si dice dell'aratro, vale per ogni cosa, quindi anche per i materiali di cui esso è composto e dell'opera umana necessaria a produrlo. Il mezzo ci permette di conosce­ re l'unità uomo-mondo, o, per dirla col linguaggio della Logica hegeliana, esso rappresenta il "medio" del sillogismo compiu­ to, del "sillogismo del concetto" o "te leo logico", nel quale gli estremi - il soggettivo e l'oggettivo: l'uomo e il mondo - fungo­ no di volta in volta essi medesimi da "medio" : il Rne (lo scopo che s'intende realizzare col "mezzo" ), essendo ciò per cui la "cosa-strumento" (mezzo) è fatta, è il mezzo del mezzo (cf. in particolare WL, II, p. 458-461 ; it., II, pp . 852-856) . L'oggettività dello strumento, del mezzo è quindi la stabilità di un processo, nel quale la cosa, ogni cosa, si risolve . L'identità hegeliana è quindi l'identità del non-identico, o, più sempli­ cemente, la permanenza dell'in-Rnito, il costante svanire di ogni Rgura determinata, l'eterno passare in altro - passare come esser-passato, e cioè passare non da una determinatezza ad altra, e neppure dal determinato all'indeterminato, bensì sempre e solo dall'indeterminato all'indeterminato: questo dice la proposizione fondamentale , non solo della Logica, ma di tutto il pensiero hegeliano, che la verità del Rnito è l'inRni­ to . E questo ribadisce l'affermazione che l'essenza non "ha" esistenza, ma «è passata nell'esistenza; questa è la sua assoluta estrinsecazione , al di là della quale l'essenza non è rimasta» (WL, II, p. 128; it. , II, p. 541 ) . E qui Hegel incontra Kant, il Kant critico di Leibniz, per il quale non v'è nulla della cosa che non sia esterno, la cosa, il

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"fenomeno", l'Erscheinung, essendo solo quello che è nella e per la relazione che ha con tutte le altre cose , con tutti gli altri fenomeni ( cf. K:rV, A 284-286 , B 340-342) . La cosa è tutta (nel )le sue �'proprietà" . E ( nel )le sue funzioni - come dimostra l'esempio dell'aratro . Solo che in Kant resta un residuo oltre la cosa-fenomeno, quello che Hegel definì, con sprezzo, il caput mortuu1n del pensiero: il nournenon . Hegel invece risol­ ve interamente il profondo nella superficie, Dio nelle opere, nel mondo. Il peso dell'essenza, la gravità del passato, nella leggerezza dell'esistenza, del presente . Così sembra, almeno6• 3. Ma perché l'esistenza in divenire sia realmente liberata dal peso dell'essenza e del passato, è necessario che il movimento dialettico non venga vincolato ad un sistema di categorie la cui successione è stabilita a priori . E invece la Scienza della logi­ ca sembra essere proprio l'attuazione perfetta di un sistema rigido costruito - o forse meglio: "dedotto" - sin nei minimi dettagli secondo "necessità" . Invero, se ci siamo soffermati tanto sull'esempio dell'" aratro", è stato anche per contrasta­ re l'unilateralità di questa interpretazione, purtroppo molto diffusa, del �'sistema" hegeliano7• Che, beninteso, trova non pochi appigli nell'esposizione hegeliana del sistema; ma che va contrastata per la superficialità delle analisi cui mette capo, perché impedisce di cogliere il problema vero che inquieta il sistema di Hegel, e la sua aporia di fondo . Un problema che è di Hegel solo perché è del pensare, della logica. Torniamo dunque all'esempio dell'aratro. Esso dimostra che il processo dialettico - ossia: l'in-finito che è la verità del finito

6. Ma nella leggerezza stessa s'annida la pesantezza del "passato", del "presupposto": cf. i nfra, Sez. II, cap. III. 7. Cui soggiace, alla fin fine, anche un pensatore acuto come Luigi Scaravel­ li: cf. C dC, cap. III, pp. 109- 1 15 e passim.

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in quanto ne è la negazione, il non-finito che de-forma d'ogni forma, s-figura ogni figura -, non lo si contempla da fuori, come un "oggetto", perché così facendo lo si riduce, pur esso, a forma, a figura. Osservandolo dall'esterno si tra-duce l'in­ finito in totalità, lo si nega. Per cogliere il movimento in quan­ to movimento, bisogna collocarsi all'interno di esso, seguen­ dolo nel suo farsi . Pensare il movimento è muoversi ! E non si dice nulla di strano : conosce l'aratro chi l'adopera, e l'aratro "diviene" quello che è, uno strumento di lavoro, non in gene­ rale per il contadino, ma in particolare nell'operare effettivo di chi coltiva il campo. Allo stesso modo le condizioni che hanno portato ad esso, che hanno consentito di fabbricarlo, sono tali, condizioni, quando, e solo quando, sono state messe in atto. Quando l'aratro è stato costruito. Prima non erano "condizio­ ni", ma altre esistenze concrete e determinate che erano solo "potenze" rispetto alla effettiva realtà dell'aratro. Ora, se il processo dialettico va osservato e colto dall'interno, questo comporta che le categorie della Scienza della logica vanno studiate ed esaminate ciascuna nella sua specificità. Lo sguardo d'assieme resta estrinseco ed astratto fin quando non si riesce a trovare l'universale nel singolo - e nella forma della sua singolarità . Il sistema resta sistema e non si disarticola in un mero aggregato, perché in ogni categoria è il medesimo processo che si attua, ma secondo la specificità della categoria che volta a volta si esamina. Pertanto è ben possibile, trattando dell'uno e dei molti all'inizio della sezione dedicata alla quan­ tità, impiegare termini quali "attrazione" e "repulsione", che appartengono ad un momento molto più avanzato del ��siste­ ma", ma solo perché li si adoperano nel significato che ad essi è proprio in relazione all'uno e ai molti8. Insomma: non si nega

8 . Sul tema cf. V. Verra, "«Eins und Vieles» nel pensiero di Hegel", in Id., LH, pp . 147-161 .

126 affatto, al contrario si ribadisce l'esigenza di una lettura conte­ stualizzata delle molteplici categorie della Logica (e del siste­ ma tutto di Hegel) , ma la contestualizzazione va fatta all'inter­ no d'ogni momento categoriale , e non muovendo dall'esterno, con un colpo d'occhio sull'insieme . Ogni momento catego­ riale riflette in sé l'intero sistema, come la �'monade" l'intero universo - dalla sua prospettiva, naturalmente9. Tutto ciò è chiaramente esposto e ragionato da Hegel, e sin dall'inizio, mediante la distinzione tra Verstand e Vernunft, tra l'intelletto in senso proprio "finito" in quanto astrae e fissa, "finitizza", definisce , de-limita, e la ragione che unisce il sepa­ rato, in-determina il determinato, infinitizza il finito .

È necessario al punto in cui siamo dire che la ragione non segue l'intelletto se non pròs henuis, ma che katà phtjsin viene "prima" - prima dell'intelletto? 4. La riforma della dialettica hegeliana di Giovanni Genti­ le è incentrata proprio su questo punto, sulla distinzione tra intelletto e ragione, o nei termini di Gentile tra "pensante" e "pensato" . L'autore della Rifonna sostiene, però, che H egel ha avuto un'" intuizione vaga del divenire", senza possedeme "il concetto", che egli ha analizzato anziché realizzare. La "lettura" che Gentile fa delle prime categorie della Logica hegeliana è dettata più dalla volontà di distinguersi da Hegel che non di comprenderlo. Sostenere, infatti, che «la diffe­ renza [tra essere e niente] non entra nell'attualità del proces­ so logico del divenire» in quanto appartiene all"'opinione" (Meinung) che è altra dall'«attualità del processo», essendo quella medesima "riflessione esterna" che proprio Hegel criti-

9. Con questa differenza, che in Hegel nessuna "categoria" è chiusa in sé, "fmita", "compiuta", ma ognuna è aperta all'altro, in-finita, in-determinata.

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ca (RDH, p. 2 1 ), significa non aver inteso che la differenza tra essere e niente che Hegel rimette all"'opinione" è la diffe­ renza intellettualistica ( verstiin dige) di essere e niente presi come concepibili in sé e per sé , come due determinati che la ragione non può non negare . La vera differenza, la vernil nfti ­ ge Differenz, la differenza che la ragione pensa, fa tutt'uno con la medesimezza di essere e non-essere, quale si mostra sin nella prima categoria, nell'essere . Questo, infatti, pur quan­ do ci si propone di coglierlo nella sua immediatezza - e cioè come «solo eguale a sé e non ineguale rispetto ad altro (nur si eh selbst gleich und auch nicht ungleich gegen Anderes ) » si presenta come mediato, in quanto posto in relazione con altro. Perché non è dato pensare un eguaglianza a sé se non come ineguaglianza rispetto ad altro, o più semplicemente : non si dà un "sé" (Selbst) che non sia insieme relazione ad "altro". Ma per apprendere questo non bisogna attendere la Logica di Hegel, lo avevano già detto ed argomentato Plato­ ne e Aristotele . Né è pensabile che Hegel, quando scriveva dell'essere, del non-essere e del divenire , non si ricordasse della koinon{a ton genon del Sofista . Aggiungiamo subito, ad evitare che altri equivoci si addensino sulle prime categorie della Logica hegeliana, che altro è la relazione nella quale i relazionati sono l'uno fuori dell'altro, altro la relazione per la quale ogni termine (rectius : �'momento") ha in sé l'altro; ma una volta operata questa distinzione bisogna pur riconoscere che la prima relazione non è senza la seconda. Prendiamo, per esemplificare, due termini della platonica comunanza dei generi, l'identico e il diverso: è ben evidente che l'identico in tanto si coglie come tale , come identico, in quanto è diverso dal diverso , e pertanto ha la diversità non solo "fuor" di sé, ma anche "in" sé, e come sé. Le due relazioni vengono trattate nella loro distinzione nella Dottrina dell'essere , la prima, nella Dottrina dell'essenza, la seconda. L'unità delle due è tema, invece, nella Dottrina del concetto . Ora, nelle prime categorie,

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essere-nulla-divenire, proprio perché esse sono solo l'inizio della Logica, i diversi aspetti della relazione identico-diverso, taut6n-thdteron, sono come contratti in uno, sono cioè ancora "an sich", impliciti, indistinti - di qui la difficoltà di compren­ dere il dettato hegeliano, e quindi i vari fraintendimenti e le ingiuste critiche, tra cui quelli e quelle di Gentile . Ma, una volta rilevate le incomprensioni e le critiche ingiuste, non si può mancare di notare che Gentile poneva un proble­ ma estremamente serio riguardo alla dialettica hegeliana. E cioè : come e perché la duplice considerazione del divenire, interna ed esterna, razionale ed intellettualistica? Il filosofo non può certo limitarsi a esibire la duplice possibile considera­ zione, ed a rifiutare come manchevole quella dell'intelletto - è necessario che ne dia ragione , o, per dirla con Hegel, che tale duplicità venga dedotta . E dedotta in modo da spiegare anche perché l'intelletto "risorga" eternamente "dopo" la ragione, dopo che la ragione l'ha "negato" - anche se risorge ad altro ed ulteriore livello . È questo il problema che espressamente Gentile affronta nel Sistenuz di logica conte teoria del conosce­ re. E desta meraviglia che proprio chi aveva posto a Gentile la questione della deduzione dell'intelletto - ovvero, nei termini della filosofia dell'atto , della deduzione del pensato -, e cioè Benedetto Croce, non se ne avvide affatto .

5. Ma facciamo un passo indietro, al l913, alla discussione tra i due filosofi avvenuta sulle pagine della "Voce"10: una polemica

10. La Rivista fondata da Giuseppe Prezzolini, e da lui diretta sino al 28 marzo 1912. Cito dall'antologia a c. di A. Romanò, «La Voce» (1 908-1 914), in: La cultura italiana del '900 attraverso le riviste , vol. III, Einaudi, Torino 1960. Per il primo intervento di Croce cf. pp. 595-605; per la replica di di Gentile : pp. 608-625; la contro-replica di Croce : pp. 630-638; nelle citazioni indicherò la pagina direttamente nel testo.

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non priva di asprezze , anche se coperta da reciproche profes­ sioni di amicizia e stima, che, invero, dice molto sul carattere dei due fìlosofì, ma sulla loro fìlosofìa nulla di nuovo rispetto a quanto già avevano esposto nei loro scritti . Croce apriva il dibattito presentandosi, pur senza dirlo apertamente, come il vero iniziatore del nuovo idealismo italiano, il cui programma vedeva con delusione e preoccupazione in gran parte tradito proprio dall'indirizzo di pensiero del suo primo collaborato­ re, che, per troppo amore dell'unità, aveva negato il valore primario e fondamentale del distinguere in fìlosofìa. Gli esiti di questo idealismo "attuale" erano il misticismo ed il relativi­ smo, pericolosi non solo sul piano conoscitivo, perché rende­ vano incerto il lavoro della ricerca storica sottraendo ogni stabile fondamento alla diversità dei contenuti e dei metodi di indagine, altro essendo il giudizio su un'opera d'arte , altro quello su un pensiero fìlosofìco, sull'attività economica, sull'a­ gire morale, ma sovrattutto sul piano etico, dacché negare la distinzione signifìca eguagliare con l'errore alla verità il male al bene . Tuttavia, la distinzione, negata a parole , si affermava nei fatti: Gentile per spiegare il dialettismo dell'atto era ricor­ so all'opposizione dello spirito alla natura, dell'atto al fatto, del pensiero pensante al pensiero pensato. Aveva cioè dovuto distinguere . Ma - obiettava Croce - come sorge questa oppo­ sizione dalla proclamata unità dell'atto spirituale ? Se non è il tempo che la spiega (come la terminologia impiegata lasce­ rebbe pensare ), perché per l'attualismo «la forma del tempo non è il quadro in cui si muove lo spirito, ma lo spirito è il suo quadro» (p. 596 ) - che cosa, allora? Coerenza vorrebbe, che non ci si richiamasse, come invece fanno Gentile e i suoi allievi e seguaci, ad un non precisato "senso logico" dell' oppo­ sizione atto-fatto, pensante-pensato - perché in tal modo essi riconoscono proprio quello che all'inizio respingono, e cioè non soltanto la logica necessità di distinguere in fìlosofìa, ma sovrattutto il valore fondamentale e primario della distinzione ,

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«laddove l'unità mi è parsa quasi come un sottinteso, un qual­ cosa che va da sé» (p. 598) . A Gentile la fìgura del �'secondo", dell'intelligente "collabora­ tore" non andava a genio. Ficcato, replicò rivendicando la sua primogenitura: sulla via dell'idealismo Croce s'era incammi­ nato dopo di lui, e non senza il suo aiuto. Ricordava, in parti­ colare , i residui "naturalistici" - kantiani - della prima Estetica crociana, da cui l'"amico fìlosofo" s'era liberato solo quando aveva riconosciuto il carattere lirico dell'arte, che lui, Gentile, aveva proclamato e difeso anni prima11 • Riguardo poi all'errore e al male ebbe facile giuoco nel mostrare che proprio la ridu­ zione crociana di entrambi all'utile rappresentava la più chiara smentita della loro "negatività" (pp . 622 ss . ) . Quindi, mirando al cuore della fìlosofìa crociana, mostrava che proprio Croce non distingueva ciò che massimamente andava distinto, e cioè la conoscenza come termine correlato alla volontà, distinto tra distinti, dalla conoscenza che è tutt'uno con la relazione stessa dei distinti, con la conoscenza che è tutta la fìlosofìa: quella era la conoscenza "conosciuta", questa la conoscenza "conoscente", l'unica che a lui interessava, perché l'unica che si poteva a giusto titolo defìnire "conoscenza". Come si vede i due "fìlosofì amici" difendevano ciascuno la propria posizio­ ne , senza andar oltre . Nessuno dei due si apriva alle "ragio­ ni" dell'altro, alle �'questioni" poste dall'amico fìlosofo. Croce non si fermava neppure un attimo a considerare il problema della possibilità di defìnire i limiti del conoscere senza varcar­ li12; Gentile non prendeva affatto sul serio la domanda sulla "deduzione" del "pensato" dal "pensante", del "passato" dal "presente", dell'�'oggetto" dal �'soggetto", dell'"astratto" dal

1 1 . Gentile si riferisce (p . 620) alla conferenza di Croce tenuta al Convegno di Filosofia di Heidelberg nel 1908, su "L'intuizione pura e il carattere lirico dell'arte" (in PE pp. 1 -30) . In merito cf. retro, Sez. l, cap. l, § 4. 12. Cf. retro, Sez. I, cap. I nota 10.

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"concreto", che è il vero problema dell'attualismo. Replicare, infatti, che «il conoscere come attuale conoscere è conosciu­ to, non [ ] come conosciuto, ma come conoscere», significa negare la necessità stessa del "pensato", dell'astratto . Se il conoscere può ben conoscersi senza abbassarsi da soggetto ad oggetto ( a "conosciuto") , se addirittura «questa intimità del conoscere a se stesso è l'attualità dell'Io» (p . 6 15), perché allora l'oggetto, il "conosciuto"? Non si può dire che senza il "pensato" il pensante non avrebbe che cosa pensare: ha da pensare se medesimo ! E se medesimo non come "pensato", ma come "pensante" ! V'è un'ambiguità di fondo in Gentile . Talora !'�'oggetto" (il "pensato", l'" astratto") viene presentato come l'opposto del "soggetto" (del �'pensiero pensante", del "concreto"), come la "natura" che lo spirito eternamente dissolve e nega, talal­ tra come ciò in cui il soggetto si realizza, la sua attuazione o "aggettivazione" . Negativo il primo, positivo il secondo. Né manca il tentativo di tenere assieme i due concetti di "ogget­ t o" : l'oggettivarsi stesso del soggetto è definito come l'ostacolo che il soggetto ha da superare per il suo successivo attuarsi 13 . Così però si sottomette il pensiero, lo spirito, il soggetto al tempo, al �'prima" e "poi". E non vale dire - questo Croce l'aveva lucidamente rilevato e criticato - che il "prima" e il "poi", che il "passato" cui s'oppone l'atto presente dello spiri­ to è "passato" non in senso temporale ma logico . Perché qui manca proprio la possibilità di intendere il senso "logico" - e non tentporale - di questo "passato", di questo "oggetto" che da aggettivazione del soggetto si muta in ostacolo all'attività del soggetto. Questa ambiguità è presente in particolare nella Teoria generale dello spi-rito conte atto puro (cf. spec. pp. 239

13. Sembra che Gentile non abbia mai letto la critica di Hegel a Fichte! Sul tema cf. retro, Sez. l, cap. Il.

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e 242 ), e forse Gentile, nell'accennare alla sua insoddisfazione per questa sua opera, definita nella prefazione alla II edizione «semplice introduzione a quel pieno concetto dell'atto spiri­ tuale , in cui consiste , a mio modo di vedere , il nucleo vivo della filosofia» (p. VI), ha in mente proprio questo insoluto problema della "deduzione" dell'astratto . Ne è indizio il fatto che Gentile , nel dichiararsi «non del tutto soddisfatto» della sua opera, rinviava il lettore al Siste1na di logica co1ne teoria del conoscere, il cui primo volume , contenente nella II parte la logica dell'astratto, aveva pubblicato proprio nel medesimo anno della II edizione della Teoria . 6 . Il problema teorico, intorno a cui ruota il Siste1na di logi­ ca , è appunto l'unità-distinzione della logica del concreto con la logica dell'astratto. Gentile è pienamente consapevo­ le che il nodo nel quale si raccolgono tutte le questioni del pensiero è rappresentato dall'esigenza di conciliare la logica dei moderni con quella degli antichi, le ragioni della dialet­ tica e della contraddizione con le ragioni dell'identità. Nel recensire l'opera C roce non pare accorgersi della novità, dello sforzo di Gentile di rispondere al problema che lui stesso nel '13 gli aveva posto, quello della deduzione dell'astratto . Ora, molto più che negli anni addietro, la polemica fa premio sul ragionare . N o n importa - scrive - se la logica del concreto sia superiore a quella dell'astratto, che la crei e la subordini a sé; quel che importa è che Gentile non esce dal dualismo, se non svalutando alla fine una delle due logiche da lui poste , quella dell'astratto. I n questa polemica non manca l' asprez­ za, e neppure l'irrisione14. Manca, purtroppo, la comprensio-

14. La recensione è raccolta in B. Croce, Cc/IV, pp. 297-304. Senza dame ragione, Croce riconduce la distinzione tra la logica del concreto e la logica dell'astratto alla «divisione di pensiero divino e di pensiero umano», per poi

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ne del problema15. lnvero la difficoltà che Gentile affronta è notevole. Resa ancora maggiore dall'inadeguatezza della sua interpretazione hegeliana. Avesse inteso il senso profondo della dialettica di H e gel, ed il rapporto intelletto-ragione , e la critica a Fichte e la funzione della Fenonwnologia dello spiri­ to , non si sarebbe tanto affaticato a dimostrare l'oggetto come aggettivazione del soggetto; altro ed ulteriore era il problema: la deduzione dell'astratto comportava l'individuazione di una sua autonoma funzione altra rispetto a quella del concreto, ma non meno imprescindibile . L:astratto non poteva esse­ re "tolto", "superato", e in questo superamento conservato; non poteva, cioè , esser "tolto" come astratto e "conservato" come concreto - andava bensì mantenuto nella sua specifica funzione positiva all'interno dell'aggettivazione del soggetto. Ora Gentile riuscirà a di-mostrare l'esigenza dell'astratto per il concreto stesso, ma non a mantenere l'astratto distinto dal concreto . Non, dunque , la divisione dell'unica logica in due minacciava il Sistenta gentiliano - come pretendeva Croce ma esattamente il contrario. Ma torniamo al problema dal quale siamo partiti, perché è per risolvere questo problema che ci siamo vòlti allo studio del pensiero di Gentile .

citare «le parole del buon vecchio hegeliano professar M aturi: "Volete, caro amico, ragionare con la logica divina o con la logica umana? Se con questa, non c'intendiamo; se con l'altra, ragioniamo; o meglio, non è più il caso di ragionare : abbracciamoci!" lo ammetto solo la logica con la quale si concepi­ sce e si ragiona, e non l'altra alla quale basta l'abbraccio» (p. 298) . 15. Croce aveva semplicemente messo insieme - come noci su un tavolo, per ripetere una sua battuta polemica contro il programma politico di "Giustizia e libertà" ed il suo principale ispiratore, Guido Calogero (cf. B . Croce, DVF, I, p . 261 ) - dialettismo e identità, opposti e distinti. Dalla deduzione dei concetti, che esigeva dagli altri, lui si sentiva esentato.

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7. Riformuliamolo, dunque , il nostro problema: una volta dimostrato che non si dà il finito se non nella sua in-nnitiz­ zazione, che non si dà quiete se non nel movimento, perché ancora la quiete , il finito, il limite? Non si può rispondere che senza la quiete non c 'è il movimento, che è tale, movimento, in quanto nega la quiete; owero che l'in-finito , il non-Rnito, non è che la perenne negazione del unito e del limite . Non si può rispondere così, perché la quiete di cui qui si dice , non è la quiete negata, la quiete che è "nel" movimento , bensì quel­ la che comprende essa il movimento in sé. E lo stesso dicasi riguardo al finito. Esso sembra uscire vincitore nella lotta con l'in-finito, in quanto ha forza tale da de-finire ciò che lo nega. Lidentità del unito, la quiete del limite, subordinano a sé anche l'in-unito, il movimento. Che per realizzarsi ha bisogno comunque di un "ordine", foss' anche soltanto l'ordine mini­ male del "prima" e del "dopo". Senza futuro non c'è cambia­ mento . Per quanto si voglia vivere dall'interno la vicenda del mutamento, è necessario avere una prospettiva sul "dopo". E solo questa prospettiva sul "dopo" permette di vivere il cambiamento nel suo farsi, dall'interno e non dall'esterno. Il che dimostra che senza la stabilità di un ordine , dell'ordine del cambiamento, non c 'è cambiamento . S e tutto cambia, il cambiamento permane . E, posto pure che esso venga meno, può venir meno solo cambiando . Domani potrà non esser­ ci più domani; ma questo domani del "senza più domani" è necessario perché non ci sia più cambiamento . Lordine, la quiete, la totalità a sé identica del sistema si impongono al movimento. Per dirla con Hegel, lo Hegel della Scienza della logica, per quanto il circolo dei circoli dell'assoluto sapere è sempre in un circolo singolo e singolare, da esso mai non si esce . Lidentità è invincibile e inaggirabile; e se essa è l'astrat­ to concetto, puramente universale , che subordina a sé ogni concreto atto di conoscenza di singoli, singolari e mutevoli eventi, allora invincibile e inaggirabile è l'astratto.

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Gentile muove dal riconoscimento della "necessità" dell'a­ stratto, della sua ineludibilità. Ma non intende subordinare il dialettismo del pensiero alla legge dell'identità, al potere dell'a­ stratto16. Anzi intende fare l'opposto . Riconoscere sì i diritti dell'astratto, ma senza rinunziare al "primato" del concreto . Bisognava riportare l'identità e la sua legge sotto il potere del concreto . Di qui la sua insoddisfazione per l'esito della Teoria generale dello spirito, alla cui impostazione di fondo egli però si sentiva ancora legato. N ella Teoria il primato del soggetto gli aveva impedito di cogliere l'autonoma funzione positiva dell'oggetto, e tuttavia quel primato non andava abbandona­ to . Il Sistenw di logica rispondeva ad entrambe le esigenze : il logo concreto non nega il logo astratto, nega il concetto astrat­ to del logo astratto ( = l'astratto separato dal concreto, l'astrat­ to in sé nullo) come nega il concetto astratto del concreto ( = il concreto separato dall'astratto, il concreto in sé nullo ) . Il concetto concreto del logo concreto nega due nullità - non l'astratto. Che pure resta l'opposto del concreto . L'opposto permanente e necessario . Ma necessario non perché senza di esso il soggetto (il logo concreto) non avrebbe che cosa pensa­ re . Il pensiero pensa se stesso - e non come oggetto (come logo astratto) , bensì come soggetto. Cogito dice : cogito nte cogitare cogitata . Ma, allora, di nuovo: se il cogito pensa se stesso come soggetto e non come oggetto, perché l'oggetto? Perché l'oggetto opposto al soggetto, l'oggetto che è quiete e identità e non movimento, e non contraddizione? A questa domanda Gentile non può rispondere con il semplice rinvio al "fatto" già rilevato che senza il permanente non si dà muta­ mento. Egli deve dare ragione di questo fatto . E se questo fatto è già ragione, come è ragione : è il fatto della ragione che

16. Come aveva fatto Croce, che aveva piegato l'opposizione e la dialettica all'identità: qui la radice del dissenso di Gentile, della sua critica al sistema dei distinti.

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non sa spiegare il movimento senza ricondurlo ad un ordine fìsso e stabile - allora Gentile deve dare ragione del fatto della ragione . Lo esige la sua stessa impostazione fìlosofìca, il rifìuto di ogni e qualsiasi presupposto . La ragione non può presup­ porre neppure sé a se medesima: per essere davvero autocti­ si, principio di se stessa, deve dare ragione dello stesso dare ragione ! Solo così toglie ogni "fatto", ogni presupposto, solo così dimostra di essere all'origine di se medesima. 8. L: argomento di Gentile per dimostrare la necessità dell'" oggetto" - dell'oggetto che vive della vita stessa del soggetto ma che non s'identifica con esso -, non appare subi­ to, anzi resta a lungo nascosto nelle pieghe di riflessioni e considerazioni storico-critiche sulla differenza tra la logica degli antichi e quella dei moderni. Vero è che questa neces­ sità appare non all'esame del pensiero come tale , ma di un suo carattere immanente ed essenziale : la libertà - la quale appartiene certamente al pensiero, ma appunto non come suo termine , ma come carattere . Ora il concetto di libertà comprende in sé come suo opposto positivo quello di legame, di obbligo. S enza questo non vi sarebbe libertà, ma soltan­ to arbitrio. Libertà è riconoscimento e rispetto della legge . È questa, la legge, ciò che sostiene la libertà, il vincolo che la fa essere . Che la determina. S e il pensiero non ha bisogno di un oggetto ad esso opposto per pensare , potendo essere oggetto a se stesso - cogito 1ne cogitare -, la libertà invece non è conce­ pibile senza relazione all'opposto . Che poi la libertà faccia sua la legge, renda il suo fare identico al comando, ciò non toglie la differenza, anzi la convalida. È il rispetto della legge che rende l'agire da semplicemente non necessitato libero. Gentile , coerentemente con l'impostazione data al rapporto concreto-astratto, riporta la legge sotto il dominio della libertà, fa della libertà il soggetto attivo della legge . Il soggetto è libero

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non in quanto rispetta la legge facendola sua, ma in quanto pone egli la legge . Il richiamo a Kant e all'autonomia del vole­ re morale viene spontaneo . Ma in Kant la legge si identifica con il volere morale nel senso che essa, la legge , lo costituisce, ne è la base e il fondamento, l'essenza. La legge è per Kant lo stesso volere razionale puro . Gentile inverte i termini : non la legge è il volere, ma il volere la legge . L'inversione muta alla radice il valore dei termini del rapporto. La legge , base e fondamento del volere , definisce l'essere del volere come affatto indipendente dal volere ; il volere non può essere diver­ samente da quello che per essenza è17. Per converso , la legge posta dal volere rende il volere dipendente unicamente da sé . L'autoctisi libera il volere da qualsiasi base e condizione . La necessità della legge, incondizionata condizione in Kant, è condizione condizionata in Gentile , per il quale la libertà è il Frius . E se questa, la libertà, ha bisogno della legge per realiz­ zarsi, tuttavia è essa che decide quale legge seguire . Nessuna volontà definita una volta per tutte; nessuna presta­ biuta identità. La permanenza del cambiamento è quella che volta a volta l'atto riesce a costituirsi. Non l'atto, quindi, dipen­ de dal sistema, ma il sistema dall'atto . E come il sistema, così l'ordine del tempo. Domani è solo quello che l'atto si prefigura. Domani, il futuro, come il passato. Il presente della coscienza, come aveva detto già nella Teoria generale dello spirito, ha raggio infinito. Ora, nella Logica conte teoria del conoscere, quell'affermazione acquista tutta la sua verità. N ella Logica Gentile ha davvero appreso a distinguere : mantiene l'ogget­ to come aggettivazione del soggetto e come opposto distinto dal soggetto. Mantiene l'identità e la non-contraddizione , ma dentro il dialettismo dell'atto, come suo momento necessario,

1 7. Sul tema, qui appena sfiorato, mi sia consentito rinviare a quanto ho scritto in C M.

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ma solo come momento. A giusta ragione Gentile , nel licenzia­ re il II volume del Siste1na di logica, poteva dichiararsi soddi­ sfatto del suo "tentativo", «il quale - scriveva - potrà anche essere tutto sbagliato , ma segna (ho questa presunzione) un punto pel quale bisognerà passare» (p . VII) . 9. L'originalità del tentativo è fuori discussione ; muovendo dalla distinzione intelletto/ragione di Hegel, Gentile appro­ dava ad una soluzione ben lontana da Hegel. Soluzione che non può definirsi semplicemente kantiana. Trascendentale, sì, ma di quel trascendentalismo che ha in E uropa il suo maggior esponente in Husserl. Si potrebbe dire che Gentile aveva tentato nove anni prima l'operazione teorica che H usserl realizzerà con Logica fonnale e trascendentale18• Riconosciuto il merito, bisogna poi analizzare l'esito dell'operazione . Cominciamo dalla logica dell'astratto e dal giudizio. L'iden­ tità - osserva Gentile - non può essere quella di Parmenide, l'identità dell'uno che non conosce differenza. Questa identità non è pensiero e vita, ma morte . "A", il semplice, e solo "A", neppure è identico a sé, finché non si sdoppia in ��A = A", nel giudizio che l'afferma. E per quanto il secondo �'A" sia pari al primo, non è esso il primo . Se fosse il primo "A", non ci sareb­ be sdoppiamento . Pensare è quindi giudicare , e più ampia-

18. L'accostamento del SL di Gentile a FJ'L di Husserl rischia di celare la radicale differenza tra le due opere, che riguarda ben prima che la diversità dell'orizzonte problematico - inconfrontabilmente più ampio e complesso quello di Husserl - l'intenzione filosofica che motiva le due opere: Gentile tentava di chiudere in un "Sistema" le due logiche - del concreto e dell'a­ stratto -, laddove Husserl intendeva costruire una storia logica della Logica come propedeutica necessaria alla "genealogia della Logica" che aveva in mente da anni e "per lumi sparsi" realizzato in saggi, note e appunti, poi ordinati, non senza la sua supervisione, da Ludwig Landgrebe, e pubblicati in E U, dal significativo 'sottotitolo': Ricerche sulla genealogia della Logica.

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mente sillogizzare . I..: identità di "A = A" prende senso e valore in quanto s'oppone ad "A = non-A", in quanto cioè s'afferma come negazione della contraddizione: "A = A" dice: "A non = non-A"; e dice ancora che tra i due giudizi tertiunt non datur. L'ultimo momento della logica dell'astratto , quello dell'e­ sclusione del terzo , non è invero l'ultimo, ma il primo . Vale a dire : sin dal principio "A" è eguale ad "A" perché non eguale a "non-A", e perché non è pensabile un terzo tra l'identità di "A" con sé e la sua non identità col contrario che lo contraddi­ ce . N o n contraddizione e terzo escluso sono la dintostrazione dell'identità, la quale non è "prima" della sua dimostrazione . La logica dell'astratto non è meno circolare della logica del concreto . La logica dell'astratto non è meno dialettica della logica del concreto. Ma se anche l'immoto si muove , se anche l'identità differisce - come può più l'astratto svolgere la sua funzione di «colonna adamantina del vero» ( SL, II, p . 26 )? La dimostrazione di Gentile dimostra troppo. Si badi : non stiamo dicendo che l'astratto è coinvolto nel movimento del concreto , questo è quanto Gentile s'è proposto di dimostrare . Stiamo dicendo tutt'altro, e cioè che l'astratto stesso, in sé e per sé considerato , non è affatto quella stabilità, quell'iden­ tità richiesta per spiegare lo stesso movimento dialettico del concreto ; l'astratto ha lo stesso movimento del concreto, lo stesso dialettismo. Insomma Gentile non riesce a mantener­ si fedele alla distinzione da lui stesso posta come condizione della nuova logica . E tutti i tentativi da lui fatti, per mantenere la distinzione tra la logica del concreto e la logica dell'astratto, naufragano . Infatti, quando osserva che �'lo = lo" non è riducibile ad �'A = A", perché l'"lo", ponendo se stesso, è piuttosto " = non-Io", è facile replicare che lo stesso si può ripetere, pari pari, per "A = A" . Come s'è detto, l'eguaglianza dei due "A" non toglie la loro differenza; se la togliesse non ci sarebbe più giudizio . Pertanto "A = A" è propriamente �'A = non-A" . E solo questa

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eguaglianza di "A" con "non-A", consente di opporre "A = A" ad "A = non-A". Questo secondo giudizio è negato perché pone la contraddizione fuori di "A" e non la riconosce in "A" stesso. Come dire l'Identico è tale, identico a sé, in quanto differente dal diverso; ma se si scioglie il legame intrinseco all'Identico tra identità e differenza, abbiamo un diverso altro dall'identico, un "non-A" che non essendo A" non può essergli attribuito, predicato19 • Ma Gentile dice ancora: se "A = A" dice il medesimo di "A = non-A" ( nel senso che s'è precisato), "Io = Io" non va soltanto sviluppato in "lo = non-Io", sì anche in "non-Io = lo", volendo con ciò significare che laddove il pensato è posto dal pensante, il pensante pone se medesimo . Insomma altro il cogito , altro il cogitatunt. Questo argomento regge ancor meno del precedente. Infat­ ti, in che consiste l'atto del pensare , in che l'Io penso ? Nel pensiero, nel pensiero determinato, nel pensare questo o quello . Quando penso il teorema di Pitagora sono , in quan­ to pensiero, il teorema di Pitagora. S ono, in senso forte (o eminente , come si diceva un tempo) , e cioè : il mio pensare non si distingue dal processo argomentativo che è la dimo­ strazione del teorema di Pitagora, che è nulla al di fuori della sua dimostrazione . E se il cogito ex sese oritur, allora il teore­ ma di Pitagora, ogni qualvolta viene pensato, ex sese oritur. Insomma: o si riesce a dimostrare la differenza tra pensante e pensato, logo concreto e logo astratto, o è bene rinunziare a parlare della loro distinzione ed unità, della loro relazione, ecc . E non si dica che l'Io che pensa il teorema di Pitagora, il pensiero del teorema di Pitagora, è l'Io che, pensando, gioisce

19. In merito cf. quanto detto al § 4 sulla differenza tra la Dottrina dell'es­ sere, quella dell'essenza e l'altra del concetto nella hegeliana vVissenschaft

der Logik .

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e patisce, sente e brama, vive e muore, e può morire, mentre tutto questo non è pensabile del teorema di Pitagora, rectius : del pensiero del teorema di Pitagora. Non si dica - non perché sia errato dirlo, ma perché pone la questione dell'Io su un altro terreno, quello del sentire, del "sentimento" . Che Genti­ le affronterà tematicamente dieci anni dopo, nella Filosofia dell'arte; ma il problema emerge sin nella Logica . 1 0 . Nel secondo volume del Sistenw di logica cotne teoria del conoscere, nel capitolo sul "dialettismo", proprio trattando della differenza tra l"'Io Io" ed "A A" Gentile precisa in nota: =

=

Per 1naggior chiarezza si può awertire che l'Io può prendersi in due significati: o come l'unità degli opposti Io e non-lo; e allora il non-lo è contenuto nell'Io co1ne suo momento; o co1ne uno degli opposti in cui l'Io si dualizza, cioè come l'an­ titesi del non-Io, quel termine originario da cui il pensiero si aliena per pensare. (SL, II, pp. 6.5 -66).

Pur all'interno dell'Io-sintesi, della relazione logo concreto­ lago astratto, l'Io-antitesi-del-non-Io (il soggetto opposto all'oggetto ) mantiene, come s'è detto, un ruolo preminente, dominante. È lui che pone il non-Io . Ma basta questo per definirlo "termine originario"? Non dovrebbe essere l'Io-rela­ zione , l'Io-unità degli opposti, l"' originario"? S e è l'Io-antitesi­ del-non-Io l"' originario ", allora l'Io-unità è derivato e la sintesi è "a posteriori" . E questo è in duro contrasto con la tesi di fondo della Logica, con l'affermazione della co-originarietà di concreto e astratto20• N o n aveva Gentile già nel l909, nel saggio sulle "Forme assolute dello spirito"21, rivendicato l'apriorità

20. E, direi, persino con le pagine più meditate di TGS. 2 1 . Ora raccolto in G. Gentile, R, pp. 259-275.

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dell'Io-sintesi? Ma rileggiamo il passo di questo scritto in cui Gentile afferma con forza il "primato" della sintesi : [ . . . ] lo spirito non è sintesi di due opposti nati cotne tali; anzi di due opposti che rarnpollano dall'unità fondarnentale dello stesso soggetto o Io. Ma l'Io, che è radice di questa dualità di Io e Non-io, non è l'Io che è opposto al Non-io; questo è l'al­ tro lo che rarnpolla dal primo, non è il prilno. Il quale è real­ Inente l'unità ancora indistinta dei due termini, ossia il Tutto, di cui ognuno di noi sente nel ritmo della propria coscienza il palpito universale. (R, p . 260) .

Originaria la sintesi, l'unità-relazione di lo e Non-io ; ma più originaria ancora è l'unità "ancora indistinta" dei due opposti, unità che non è l'Io, ma la radice dell'Io come del Non-io, la radice della sintesi . Immediatamente dopo il passo citato, Gentile , ad evitare che si possa pensare che esista un momen­ to , anche un solo momento, in cui la sintesi (la relazione degli opposti) manchi, in cui la radice non abbia ancora germinato, scnve: Pritna che sorge la luce della coscienza con l'atto distinguente uniente di soggetto e oggetto, lo spirito non c'è. Ma è evi de n­ te che un istante, in cui tale luce non sia, non c'è ne1nmeno. Perché l'essere è appunto il mondo della coscienza. E di là dalla coscienza non vi può essere, e non v'è, se non la proie­ zione ilnmaginaria dello stesso contenuto della coscienza.

(Ib . ).

La radice è solo nella pianta che da essa germoglia. Ma in questa uno dei suoi rami ha un pregio particolare : la coscien­ za, il soggetto, l'Io antitesi del Non-io , conserva la memoria dell'immemoriale, la memoria della radice �'prima" del suo germinare . La coscienza ha certo in sé immanente l' autoco­ scienza, cioè la differenza di sé dall'altro da sé, e cioè non è mai solo coscienza; e tuttavia ancora è dato distinguerla dalla autocoscienza, se in essa, e solo in essa, si conserva memoria dell'"immaginaria" radice, della fonte immemoriale . Ma questa

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coscienza-memoria non può essere pensiero, perché pensiero è solo nella dualità unifìcata del concreto e dell'astratto, del soggetto e dell'oggetto, pensiero è solo nella relazione, nella sintesi soggetto-oggetto. Il "primato" dell'Io sta dunque in ciò, ch'esso sente la radice immemoriale dello spirito, la radice mai presente "in sé", ma sempre e solo "in altro" e come �'altro", in quello che da essa promana. Il pensiero, la sintesi di lo e Non­ io, rinvia dunque al sentire, al sentimento: eterno passato che nell'atto stesso di nascere muore, perché muore come senti­ re, sentimento , e nasce come pensiero; muore come passato e nasce come presente . Nel cogito , nell'autocoscienza pensante, nell'Io-antitesi del Non-io, si conserva la traccia, e solo la trac­ cia, del passato eterno dello spirito, dell'immediato che è solo nella mediazione, che è solo nella negazione . La negazione del sentire ad opera del pensiero è l'unico modo in cui il sentire può essere presente . La Filosofia dell'arte rappresenta il tentativo di Gentile di recuperare nel passato in temporale dello spirito !"'identità", che il logo astratto non meno del concreto nega nella diffe­ renza del giudizio. Dopo che il tentativo del Sistetna di Logi ­ ca di tener ferma l'identità come posizione dell'Io ( come logo astratto) s'è rivelato vano, perché anche il logo astratto è dialettico, è mediazione e differenza e non identità, Genti­ le tenta la via opposta, cerca l'identità nell'immediatezza che è �'prima" della mediazione , nel "sentimento" che è "prima" del pensiero, dell'autocoscienza, della sintesi. Troppo accorto dialettico per cadere nell'illusione di poter cogliere l'imme­ diato "in sé", Gentile non nega la mediazione per l'immediato, la posizione per la presupposizione, al contrario ribadisce che il presupposto è solo per il porre , la natura solo per lo spiri­ to . Ma a questo "per" conferisce ora un significato ulteriore : essere-per il porre dice certo esser-"posto", ma insieme esser­ "ri-conosciuto" . Il presupposto è negato come essere-in-sé, affermato in quanto riconosciuto . Certamente prima del rico=

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noscimento non è neppure ��presupposto"; esso è presupposto solo in quanto riconosciuto come tale . Ma questo non nega l'alterità sua rispetto al pensiero che lo riconosce . Ma è sufficiente il �'ri-conoscimento" per affermare l'alterità dell'Identico rispetto al movimento, alla differenza del pensie­ ro ? La risposta non può essere che negativa. l:Identità del senti­ mento immediato della Filosofia dell'arte non è affatto diver­ sa dall'Io-radice che ab biamo conosciuto nello scritto sulle "Forme assolute dello spirito". Come quell'Io era radice perché destinato a germinare, così l'Io-sentimento è destinato all'Io-penso. È per questo , in funzione di questo . È sin dall'i­ nizio coinvolto nel dialettismo del pensiero, nel suo movimen­ to . Fa parte dell'identità del Sistema che chiude in sé il movi­ mento . Che etemizza il movimento , epperò lo nega come tale . Perché si esca dall'identità immobile del movimento che sempre è e non cambia, è necessario che l'Identità sia non soltanto l'opposto del movimento, ma l"'altro". E di un'alterità che sempre si sottrae, e sottraendosi può sì favorire il cambia­ mento, ma insieme negarlo . S olo la possibilità della fine salva­ guarda il cambiamento dal suo stesso essere . Ma questa possi­ bilità non appartiene al futuro, più che al passato . Non appar­ tiene al tempo . Perciò la possibilità della morte concerne non il tempo, ma l'esistenza. Il mutamento - in totalità. Il pensiero è dawero pensiero in atto, pensiero capace di osservare se stesso dall'interno, pensiero in-finito, pensiero che non s'arresta in nessun istante in una figura determina­ ta, de-finita, solo se sa riconoscere il suo limite , non storico, essenziale . Come dire, e l' ossimoro è solo nell'espressione, che solo il pensiero mortale è davvero in-finito .

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II Dall �attualismo alla filosofia dell �identità

l . È possibile tener distinte logica e gnoseologia, verità e cono­ scenza? Le fìlosofìe moderne del soggetto tendono a ridurre la prima alla seconda in base all'argomento che la verità si dà nel conoscere, che non ha senso parlare della verità se non riguardo alla conoscenza. Certo, vero e falso sono attribu­ ti del conoscere . Tuttavia, la distinzione della conoscenza in vera e non vera è fatta in base a principi, regole , metodi che non dipendono dal loro esser conosciuti, dacché, anche se e quando non conosciuti, dividono il vero conoscere dal falso, o, forse, meglio: la conoscenza dalla non-conoscenza. Princi­ pi, regole, metodi che sono alla base anche della conoscenza di se medesimi. La distinzione , dunque , appare innegabile e ineludibile . Ma se non è possibile ridurre la logica a gnoseologia, o più semplicemente il vero alla sua conoscenza, appare però possi­ bile fare il cammino inverso, mostrando come i modi del cono­ scere - esemplifìcando : il giudizio, il sillogismo, o all'opposto l'intuizione, la visione immediata - sono le forme stesse del darsi della verità. Ed è quello che ha fatto Hegel nella Feno­ nwnologia dello spirito , mostrando come nell'elevarsi della certezza a verità, della conoscenza a sapere, è il vero sapere

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che opera, ancorché in latenza sin da principio . E quindi nelle diverse figure che la coscienza assume è sempre una forma del sapere che si espone , owero: ogni modalità di conoscen­ za è una figura del vero. Questa, però - e cioè la verità che nel processo fenomenologico della coscienza è il sapere che si manifesta grado a grado -, è la verità che si consegue alla fine dell'itinerario fenomenologico: è la verità della fine , che si piega sull'intero cammino percorso, e così lo legittima. Ma che la fine coincida coll'inizio è possibile dirlo solo alla fine, non all'inizio. Hegel stesso ammette che l'inizio può anche esser ritenuto arbitrario, sebbene sostenga poi che il movi­ mento in circolo è tale da togliere l'iniziale arbitrio. Invero nessun circolo ha tale potere, perché la retrocessione al vero e al fondamento (ossia: il circolo) è essa condizionata dall'inizio, e non lo condiziona. Un inizio erroneo - e fin quando non è provato, resta nella possibilità dell'errore - comporta l'erro­ neità dell'intero processo, rettilineo o circolare che lo si pensi, e quindi della fine . La riduzione della gnoseologia a logica non è riuscita. Verità e conoscenza non sono pari . La logica sovra­ sta e subordina a sé la gnoseologia. L'Identità nega la dialetti­ ca, la quiete il movimento. Abbiamo cominciato chiedendoci : è possibile distinguere logi­ ca da gnoseologia? Dovevamo chiederci piuttosto: è possibile unire logica e gnoseologia, verità e conoscenza? 2. Il panorama filosofico-culturale , nel quale sorge l'attualismo, è quello dell'E uropa tra la fine del secolo XIX e i primi anni del XX, formatosi sulle ceneri del positivismo . Più in particola­ re , gli orientamenti che in Italia ebbero più vasta eco furono : il pragmatismo di J ames (Peirce rimase pressoché ignoto, inve­ ro non soltanto in Italia) , l'intuizionismo di Bergson, la nuova epistemologia di Mach, Avenarius, Poincaré, il revisionismo marxista, che svolse un ruolo notevole anche nel dibattito sullo

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statuto epistemologico delle scienze storico-sociali, la rinascita dell'idealismo , che , pur innestandosi su un'autonoma tradizio­ ne di pensiero ( Rosmini, Gioberti) , s'ispirava essenzialmente a Hegel. Il tema ricorrente in quasi tutti gli indirizzi filosofi­ ci ora ricordati era quello della concretezza ed individualità della vita e del divenire storico che sfuggono alle astrazioni ed agli schemi generalizzanti delle scienze . Ma, dove le filoso­ ne dell'intuizione e dell'immediatezza vitale miravano ad una conoscenza pre- o post-categoriale capace di immettere diret­ tamente nel mondo vario della storia e della vita, respingendo così parimenti l'astrazione ed il pensiero concettuale, Gentile invece, pur animato dalla medesima ansia di concretezza e di vita, non si affidava all'esoteristno di un'intuizione immediata ed incomunicabile , arazionale se non irrazionale , ma cercava ancora nel pensiero - nel pensiero universale, perché di tutti e di ciascuno, nel pensiero nlosonco, argomentante e dimo­ strativo - la via per giungere alla vita, colta statu nascenti , e cioè nel suo movimento originario. Il che spiega il riferimento a Hegel ed insieme la critica. Il progetto hegeliano di coglie­ re col pensiero, col "concetto", il divenire andava condiviso e ripreso, ma rivedendolo, riformandolo. Perché Hegel, pur muovendo dall'identità di pensiero ed essere, dall'identità del concetto col processo della cosa stessa, non era stato conse­ guente con le sue stesse premesse . Aveva osservato, contem­ plato, il divenire dall'esterno, l'aveva oggettivato. Bisognava invece "realizzare" e non "analizzare"; bisognava immettersi nel processo stesso della vita: fare . Gentile citava Vico : verutn ipsutn factunt, per subito aggiungere : quatenus fit. Questo il senso del suo tentativo di ridurre la logica a gnoseologia, come dice chiaramente sin nel titolo del suo opus tnagnutn: Sistetna

di logica conte teoria del conoscere. Che l'operazione non gli sia riuscita, lo si è visto : ri(con) dotta alla gnoseologia, la logica è negata. Il processo conoscitivo non è in grado di spiegare la stabilità del vero: la pretesa identità

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del logo astratto non è meno differenza, divenire - così come nel logo concreto. Ma l'identità si vendica. Negata entro il processo, s'impone , da fuori, al processo stesso. Tutto divie­ ne , tutto - non il divenire . Che è, che resta, come l'assoluto permanente . Incapace di fare della logica (del logo astratto) un suo "prodotto", la gnoseologia (il logo concreto) si trova subordinata alla logica. Il tentativo di Gentile di "osservare" il movimento, la dialettica, dall'interno, nel suo farsi, è fallito . Alla fine la logica assoluta della verità che non conosce movi­ mento e dialettica si impone . Il movimento resta incatenato a se stesso, alla propria insuperabile , quieta identità. L'aristote­ lica bebaiotdte arché la vince su ogni processo.

Tautà ae{ - queste le prime ed ultime parole della filosofia? 3. Tra quanti in Italia affrontarono il problema del rapporto Verità-conoscenza, si distinse per irruenza, anche polemica, un allievo di Gentile , U go Spirito . S uo merito, se merito fu, la semplificazione estrema della questione . La filosofia, soste­ neva, doveva sciogliersi nelle singole scienze, l'universale vero nei saperi particolari . S oltanto così l'attualismo avrebbe evita­ to il pericolo di chiudersi nell'ennesima teoria universale e definitiva del conoscere , della vita, della storia. Alla retorica di un attualismo solo formale Spirito opponeva l'attualismo come vita, ricerca, prassi . Invero opponeva alla retorica del pensiero assoluto la retorica del pensiero che è vita, dell'at­ to in atto1 . Mancava in lui la consapevolezza del problema, e cioè che l'identità, il vero, la teoria (il "logo astratto" ! ) non si potevano semplicemente accantonare . Il tentativo di Gentile, nonché esser proseguito, non era neppure compreso. Né è necessario paragonare la proposta di Spirito - la risoluzione

l. Cf.

U . Spirito, SF

e

VR

149

dell'universale fìlosofìa nelle scienze particolari - al dibatti­ to che negli stessi anni si svolgeva in Germania intorno alla "crisi delle scienze europee"2, per evidenziare tutta la mode­ stia culturale della sua tesi; basta confrontarla con la critica lukacciana della scienza svolta in Storia e coscienza di clas­ se3. Vero è che il rapporto intelletto-ragione - fondamentale per la comprensione e l'es-plicazione della dialettica - non sembra costituire problema per Spirito . Anche quando, anzi maggiormente quando l'attualismo della vita come ricerca si muta in problematicismo4• Un problematicismo molto poco, o nient'affatto problematico, è il caso di sottolineare , se proprio la condizione della sua problematicità, e cioè della possibilità che in futuro il problema venga eliminato (cancellato: getilgt; non c'tolto ": aufgehoben ) nella sua definitiva soluzione, per aver la ricerca incontrato l'Assoluto e il Vero - se proprio tale condizione : il tempo, mai non viene posto in questione . E se l'Assoluto fosse già presente? Se lo stesso problema fosse l'Assoluto? Questa prospettiva si affacciò alla mente di Spirito, nell'ulti­ mo periodo della sua produzione letteraria, quello che chiamò c'onnicentrismo"5. Ovviamente anche questa c'nuova" prospet­ tiva egli presentò nell'unico modo possibile per lui, incapace della scholé del dubbio e della domanda . E cioè: come solu­ zione . Era, questo onnicentrismo, un attualismo c'plurale". Un nuovo attualismo? Un attualismo rinnovato? Niente di tutto questo . Già Gentile per spiegare il c'suo " cattolicesimo, diver­ so da quello della Chiesa di Roma, s'era appellato alla c'poli-

2. Cf. E. Husserl, Krisis e M. Heidegger, EM e FD. 3 . Cf. G . Lukacs, SCC . 4 . Cf. U Spirito, P . Sul tema v. anche. E . Severino "Attualismo e problema­ ticismo" in OL, pp . 99- 1 18. 5 . Cf. U Spirito, INE, pp . 229-255 e 257-287; MS, pp. 81-156.

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gonia del cristianesimo" di Gioberti6 • Ante litterant Gentile aveva fatto professione di "onnicentrismo" ! 4. Affatto diversa, sia per ampiezza di prospettiva storica che per radicalità filosofica, dalla critica di Spirito, l'emendatio dell'attualismo compiuta da Guido Calogero ne La conclusione della filosofia del conoscere. Va detto, anzitutto, che per Calo­ gero il circolo filosofia-storia della filosofia era un'esperienza effettiva, vissuta e non soltanto una retorica dichiarazione di principio - come per molti degli allievi e seguaci di Gentile -; egli era perciò ben consapevole di ciò che era in gioco nella dialettica logo concreto/lago astratto, che pure nettamente criticava e respingeva. Sin nel suo primo libro, I fondatnen­ ti della logica aristotelica, rielaborazione della tesi di laurea discussa con Gentile, aveva preso una netta posizione riguardo al problema, in quegli anni molto dibattuto in Germania, in particolare da Husserl e da Heidegger, del rapporto tra logica noetica e logica dianoetica. Nel libro nono della Metafisica, al capitolo decimo, vera crux philosophorunt7, Aristotele distingue due tipi di conoscenza: quella per la quale vale l'opposizione vero/falso, e l'altra, il cui opposto non è il falso, l'errore , ma l'assenza del conoscere, l'agnoia. La prima si esprime nella forma del dire qualcosa intorno a qualcosa: phasis tf katà tin6s, kataphasis; la secon­ da nella forma del semplice dire qualcosa: phasis tf. Criterio di questa distinzione è l"'oggetto" del conoscere, che, se è un ente composto, rientra nel primo tipo di conoscenza, in quanto è possibile scomporlo in una relazione predicativa (ad

6. Cf. G . Gentile, "La mia religione" ( 1943), in R, pp. 403-426. 7. Cf. in particolare M . Heidegger, \VMF pp . 73-1 12: importante anche per la confutazione della «interpretazione tradizionale dell"'esser-vero" (\Vahr­ sein ) come problema logico e gnoseologico ( Schwengler, J aeger e Ross ) » .

15 1

esempio : il gesso è bianco), che sarà vera se corrispondente all'oggetto, falsa se non corrispondente; se, invece , l'ente è semplice , può essere soltanto appreso o non appreso, detto o non detto . Aristotele paragona questa conoscenza immediata al "toccare " (thigezn : cf. Met. 1051b 1 7-33) . La distinzione tra le due forme di conoscenza, la noetica e la dianoetica, ricorre in più luoghi aristotelici, in particolare nel terzo libro del De aninta, là dove si dice che l'intelletto, quando conosce l'essen­ te nel suo essere , la sua "essenza", tò t{ en eznai , non afferma né nega t{ katà tin6s, qualcosa di qualcosa (430b ); e in ciò è simile all'a{sthesis, che è sempre vera riguardo a ciò che sente (427b ) . Questa distinzione è di gran conforto per la tesi husserliana del primato dell'"evidenza" sul giudizio apofantico . Perché si possa predicare qualcosa di qualcosa - il bianco del gesso - è necessario si conosca anzitutto e il bianco e il gesso. Anche superfluo precisare che l'evidenza fenomenologica non è nulla di meramente soggettivo. E ssa indica la presenza dell'ente com'esso è in sé, il suo darsi ( Selbstgegebenheit) al soggetto percipiente . Si tratta di un'evidenza che pertiene all'ente in quanto tale . L affermazione del primato dell'evidenza non toglie valore però al giudizio predicativo che su quella eviden­ za si fonda. Di più: Husserl nel corso dell'analisi dà sempre più spazio al giudizio . Quando deve spiegare come dal flus­ so di sensazioni e stimoli dell'esperienza sensibile si giunge alla determinazione dell'"oggetto", di un ente, cioè, che sta stabilmente di fronte a noi che lo percepiamo ( Gegenstand) , non trova altra soluzione che ricorrere al giudizio. N o n all'a­ pofansi - aggiunge - ma ad un giudizio più originario ( cf. E U, § § 1- 14) . Lo stesso percorso compie Heidegger, ancorché più a ridosso del testo aristotelico. In ogni caso, quando anch'egli si richia­ ma all'esperienza originaria dell'ente, alla sua verità come

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alétheia , dis-velamento, questa esperienza definisce in termi­ ni di giudizio . La conoscenza dell'ente "in quanto" (als) ente è comunque una predicazione8. E che il giudizio predicati­ vo si riduca alla mera attribuzione di una qualità, o proprietà ( "accidente", nel senso ampio e complesso del syntbebek6s aristotelico), questo è tutto da dimostrare; anzi non è punto dimostrabile , perché v'è anche il giudizio di identità che predi­ ca di A non un "accidente" ma il suo stesso esser-A . Questo per dire della difficoltà di uscire dalla logica del giudizio9. Ma è proprio quanto Calogero intende fare . =

Calogero separa nettamente il principio noetico o di determi­ nazione dal principio dianoetico o di contraddizione . Questo regola la relazione tra più noemi, la loro congruenza o non congruenza; quello invece mira al singolo noema e ne deter­ mina il significato unitario . Che questo secondo principio sia sovraordinato al primo è evidente . S e non si conosce dappri­ ma il significato dei singoli noemi, non è possibile congiunger­ li in relazione predicativa. Ma Aristotele non sempre si è atte­ nuto alla distinzione dei due principi dai lui stesso stabilita. E i Fondantenti della logica aristotelica sono in gran parte una caccia agli errori di Aristotele, e della successiva storia della logica, massime la medievale , dovuti alla confusione delle due logiche10. Ma la distinzione tra noesi e dianoia, già presente in Platone, può essere ridotta ad una separazione così netta? E se sì, è questa separazione interna alla "logica", o non eccede l'ambito logico? Con queste domande entriamo a discutere 8 . Cf. in particolare M . Heidegger, LF\V, § § 1 1-14; GPhii § § 16-18; GbM, § § 64-76. 9 . Sul tema cf. V. Vitiello, VG. 10. Cf. G . Calogero, FLA, P. I, "Logica noetica e logica dianoetica", pp. 3- 145, ed altresì CFC, in particolare i saggi raccolti nella Parte Il: "Introduzione alla storia della logica antica" (193 1 ) , "Logica antica e dialettica hegeliana ( 1932), "Lineamenti di storia della logica" ( 1932), "Storia ed eternità della logica classica" ( 1934) .

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della proposta fìlosofìca di Calogero, consegnata alle pagine della Conclusione della filosofia del conoscere . 5. La tesi di fondo è che l'attualismo, coerentemente pensa­ to, segna la fìne della storia della logica e della gnoseologia . Perché non ha senso una fìlosofìa che pretenda defìnire quali siano le condizioni di possibilità, e cioè i limiti, del pensare, in quanto proprio il pensiero che quei limiti vorrebbe defìnire , nel fìssarli li sorpassa. Così i l vero Io, di cui parlano Fichte e Gentile, non è quello che s'oppone al N o n-io, bensì l'altro e superiore che ha in sé entrambi gli opposti : l'Io infìnito . E qui infìnito dice totalità, per cui l'affermazione hegeliana che l'infìnito è la verità del fìnito sta ad indicare che soltanto nel tutto il fìnito ha la sua fìgura determinata: questa e non altra. Quanto , invece, al signifìcato "negativo" di infìnito11, all'infì­ nito come negatività interna al fìnito, come indeterminazio­ ne di ogni determinatezza, in queste pagine non si fa parola. Ma l'equiparazione dell'infìnito col tutto porta alla più rigida identità. Ad un'identità che è pritna ed oltre ogni mediazione . Pritna ed oltre la stessa identifìcazione . I..:io penso o pensiero pensante, il concetto come conceptus, non ha bisogno di dirsi eguale a sé, per esser tale. I..: Io è printa ed oltre l"'Io Io" . L'autonoesi non è dianoetica: la conoscenza di sé non è giudi­ zio. Di più: la conoscenza come tale non è giudizio. La conclu­ sione della filosofia del conoscere discende direttamente da I fondatnenti della logica aristotelica . Questo comporta che la dialettica gentiliana dell'astratto - la quale , per confutare l' Uno parmenideo , assume esser l'identico (A) tale solo nella duplicazione predicativa (in A A), perché fuor del giudizio sarebbe inconoscibile immediatezza ( cf. SL, I, P. II, cap . I ) ­ porta nel cuore stesso della logica la kantiana cosa in sé ( cf. =

=

I l.

Cf. cap . precedente .

154 CFC, p . 34 ) . Ma, osserva Calogero, A non ha bisogno di sdop­ piarsi in A A, per essere conosciuto, né (A A) in [ (A A) (A A)] , e così via - come attesta il semplice fatto che proprio la conoscenza della reduplicazione si sottrae alla regola dello sdoppiamento che la logica dell'astratto vorrebbe imporre . =

=

=

=

=

La critica di Calogero investe non soltanto la logica dell'astrat­ to, ma l'intero impianto del Sistetna di logica come teoria del conoscere, ed in particolar modo la concezione dell'autocti­ si dell'Io. L'intero frasario "creazionistico" dell'attualismo è respinto tra le anticaglie della vecchia filosofia teologizzan­ te : l'Io non pone, non "crea" l'oggetto, perché è tutt'uno con esso; né è cau sa sui ipsius, dacché non è pensabile relazione causale se non tra due termini ( cf. CFC , pp . 14-1 5 e passint) . Se la sfera dell'Io ha raggio infinito ( cf. Gentile, TGS, p . 32), nulla avendo "fuori" di sé , né tempo né spazio, né divenire né essere , nulla ha da creare . E sso è, e soltanto è . Il conosce­ re , coincidendo con se stesso, coincide con l'universo intero . Talché, sbarazzato il campo dalle teorie logiche e gnoseolo­ giche, liberato il pensiero dall'oh bligo di pensare se stesso, il filosofo può dedicarsi al suo vero compito, che non è quello di far filosofia sulla filosofia, ma di illuminare il mondo degli uomini : la storia, il diritto, l'etica, la religione , l'arte , e cioè le molteplici forme del fare umano . Portata a termine l' enwnda­ tio philosophiae, Calogero passa a trattare della filosofia della volontà, nella quale recupera tutto quanto aveva ritenuto di dover respingere dalla compatta, inscindibile identità della filosofia del conoscere : tempo, divenire , differenza, in breve quella concezione dell'infinito come mancanza, come nega­ zione del de-terminato, come perenne de-formazione della forma finita, della figura (cf. CFC , pp . 16-23) .

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6. Ma si tratta di un passaggio brusco, di un passaggio senza

mediazione12. Come nei Fondantenti della logica aristotelica Calogero non spiega perché l'ente determinato (in base al principio noetico) debba esprimersi nella forma del giudi­ zio d'identità, nel quale il medesimo si sdoppia in soggetto e predicato, ma si limita a rilevare questa "esigenza verbalistica" che subito respinge come conseguenza dell'oscillazione aristo­ telica tra le due logiche13, così nella Conclusione della filosofia del conoscere non spiega perché l'Io si presenti col volto di Giano: eterno e immutevole in quanto pensiero, o conoscen­ za, e mutevole e nel tempo in quanto volontà. E non basta dire che come conoscere non può non essere eterno e immutevole, innnito, e come volontà non può esser pensato altrimenti che nnito, mutevole, condizionato dal passato ed aperto al futuro ( CFC, pp . 41-42) . Questa non è una risposta alla domanda sul "perché" (di6ti) ; è, tutt'al più, una costatazione del "che" (h6ti) . La domanda riguarda la convenienza al medesimo di predicati opposti . La logica noetica sarà pure diversa dalla dianoetica, ma se ne è il fondamento, dovrà pure rispettare il principio ch'essa fonda: il principio di contraddizione . Altri­ menti che "fondazione" sarebbe? Ed infatti Calogero non si sottrae al principio. Anzi ci tiene a mostrare che lo rispetta in pieno. S crive : ci sarebbe contraddizione tra l'innnità dell'io conoscente e la temporalità dell'io volente, se l'innnità del conoscere fosse da prendere come «assurda innnità attuale»; ma così non è: l'innnità dell'Io penso è «un'innnità potenziale, nel suo atto sempre concretamente de:Hnita» (ib. , p . 137) . E qui - appare evidente - Calogero cade in quel quaternione 12. Come notava E. Garin, CFI, pp. 468-469 13. FLA, p. 29. Cf. altresì p. 60, ave si denuncia ma non si "dà ragione" «dell'esteriore rivestimento di logica del giudizio che ricopre, e spesso altera, questa sostanziale trattazione di logica dell'intuizione intellettuale» . Cf. la critica dell'interpretazione calogeriana della Logica aristotelica in E . Severino, FC, pp. 143-173 .

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di termini che così sagacemente, e spesso con spirito, critica (anche per mostrare che lo si vince col principio noetico di determinazione e non con la dianoetica archè tes antiphaseos) . Non stiamo parlando, infatti, del contenuto del conoscere, bensì della sua Forma. E questa è identica a se medesima sempre . Ora, la si intenda come lo spazio infinito dell'univer­ so in cui tutto è (è già, da sempre) , o come l'atmosfera che sempre awolge il processo del conoscere , resta la domanda: in che modo questa identità eterna, non-temporale sta insieme con il tempo del volere ? O Calogero intende dire che anche la Forma-conoscere è nel tempo, muta, diviene? E avrebbe anche più di una ragione per dirlo: infatti dopo la Conclusione della filosofia del conoscere il pensiero almeno questo sa più di prima: che non deve più occuparsi di se stesso, ma del mondo dell'umano operare . E Calogero lo ha ammesso, quando si è difeso dalla critica crociana di misologia, e non a mal vole­ re , quasi riconoscendo una sua aporia. La Conclusione della filosofia del conoscere è sì una gnoseologia, una filosofia della filosofia, ma l'ultima, quella che dà congedo ad ogni teoria del conoscere e ad ogni logica. Ma se questo è vero - com'è possi­ bile affermare che «l'assoluta attualità dell'io esclude la possi­ bilità della sua concezione come una serie di gradi . Onde ciò che gli rimane inizialmente estraneo possa venir giustificato in uno stadio ulteriore del suo sviluppo» (ib. , p . 9) ? Ancora: si può esser certi che la definizione dell'identità non predica­ tiva della Forma-conoscere sia l'ultima parola che possa dirsi riguardo al conoscere? Se il futuro è "ignoto" per il volere, perché non può esserlo altrettanto per il conoscere , posto che l'infinità del conoscere non è un'assurda infinità attuale, ma una reale infinità potenziale? Infine : che significa che il futuro è ��ignoto"? Ignoto nel suo "che", o solo nel suo "come" ? E se solo nel suo "come", c'è allora un'altra identità, l'identità del tempo che kantianamente permane e non cambia, accanto ed oltre l'identità della Forma-conoscere ? Ma è possibile pensa-

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re il fluire dei fenomeni nell'identità del tempo? È possibile pensare identità e divenire , quiete e movimento, l'una accanto all'altro? O non è a partire dall'identità che il divenire risulta pensabile? Ma, in che modo? Tentiamo di rispondere a queste ultime domande interrogan­ do il pensiero di Emanuele Severino . 7. Anche Severino ha un'ascendenza gentiliana, quantunque non diretta. Anche nella formazione di S everino lo studio di Aristotele è stato determinante . Ma, diversamente da C aloge­ ro, egli non ha abbandonato l'identità per seguire le opinio­ ni del mondo. Per comprendere il mondo, e pur le sue false opinioni, ha fatto dell'identità il principio unico ed assoluto della sua filosofia, l'unico principio in grado di spiegare l'ente nella sua determinata determinatezza, respingendo il diveni­ re come l'errore e la follia dell'Occidente . Non è un fatto , il divenire , che si imponga alla libera osservazione , ma soltanto un'inte:tpretazione derivante dall'isolamento che caratterizza il destino della terra del tramonto. U n'inte:tpretazione destinata a tramontare. Ma non hanno, tutte queste parole - tramonto, e nascita, destino e storia -, alla loro base quell'unico significa­ to che il termine "divenire" esprime? N o, perché non c'è paro­ la del tradizionale linguaggio filosofico che mantenga inalte­ rato il suo significato nell'uso che ne fa S everino . Destino è ciò che sta, ciò che mai non muta. L'assoluto Immutabile . E il tramonto, come la nascita, sono già nel destino14• Ma è bene fare esperienza del linguaggio di Severino, attraversandone il pensiero. Eviteremo, così, di dover fare troppe "premesse" ed anticipazioni .

14. Cf. in particolare DN.

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l: analisi che segue ha come suo principale testo di riferimento Taut6tes, il libro nel quale Severino, più che in altri suoi scritti, si è misurato con la fìlosofìa di Hegel, la fìlosofìa del divenire

kat'exochén . Il concetto di divenire - leggiamo ad apertura di libro - espri­ me la diversifìcazione dell'identico da sé e, quindi, la sua iden­ ti:fìcazione all'altro (cf. T, p. 14 ) . Esemplifìcando : la legna, bruciando, diviene cenere, altro da sé . Cosa si cela in questo concetto? Quello che, diceva Platone, né in sogno né nella follia si può pensare , e cioè che l'altro sia altro da sé . Il diveni­ re copre questa inconcepibile identifìcazione del qualcosa ad altro da sé, distanziando l'inizio dal risultato del processo . Che qualcosa sia altro da sé , che la legna sia cenere , nessuno che pensi, lo affermerebbe mai; ma che la legna divenga cenere, questo l'ammettono tutti come un fatto d'esperienza, un'ov­ vietà. Ma - osserva Severino - dire che la legna diviene cenere non è affatto diverso dal dire che la legna è cenere : diventa­ ta cenere, la legna è cenere. Ma, viene spontaneo opporre, "diventata" non è diventare : il processo ha un inizio e una fìne, non lo si può identifìcare con la fìne, col risultato . Ma, replica Severino, in che modo il processo ha inizio e fìne? N o n c erto come separati: non c'è all'inizio la legna e alla fìne la cenere - fosse così non ci sarebbe quell'identifìcazione del diverso e diversifìcazione dell'identico che caratterizza il divenire, ci sarebbero soltanto due identità opposte . In ogni momento del divenire, dunque, l'inizio coincide con la fìne, col risultato: in ogni momento della combustione (una parte del) la legna è diventata cenere. Ma anche nel risultato ultimo del processo non c'è solo la cenere , c'è bensì la cenere come trasforma­ zione della legna. Se nel risultato non c'è l'inizio - così come se nell'inizio non c'è il risultato - neppure c'è il divenire . In breve : la distanza che si pone tra inizio e risultato, la distanza che fa apparire ovvio il divenire, è proprio ciò che impedi­ sce il concetto di divenire . Concludendo : la proposizione "la

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legna diviene cenere" non dice altro che "la legna è cenere" . E questo è l'assurdo, l'impensabile . La critica di Severino non si arresta qui. La legna, diventa­ ta cenere , ha cessato d'esser legna. S e non cessasse d'esser legna non potrebbe essere cenere, e non vi sarebbe diveni­ re . Dunque , la legna è diventata niente, è niente. La legna è niente : l'ente è non-ente , ciò che è non è. Sicché il divenire contiene in sé due assurdità, che sono poi una e medesima: che l'ente è altro da sé e che non è ( cf. T, pp . 1 7-1 9) . Il contenuto se manti co di queste affermazioni si toglie nell'at­ to stesso in cui esse vengono pronunciate . Resta l'emissione di voce, o il testo scritto , ma non il significato - che non c'è , non c'è mai stato . N ella proposizione "l'ente è non-ente" non si pensa nulla, perché il predicato nega il soggetto. Ed è questo che caratterizza il discorso contraddittorio, il fatto che esso nega se stesso. Di qui la potenza del principio di contraddi­ zione , il vincolo di necessità con cui esso incatena l'ente al suo essere, a sé stesso, alla sua identità: qualcosa, un ente in generale, là si ( di- )mostra necessario, dove la sua negazione è auto-negazione15. Il divenire non attende la dimostrazione che lo neghi; si nega da sé ; la negazione del divenire è intrinseca al divenire . 8. La critica di Severino a H e gel è tutt'altro che avara di rico­ noscimenti . Hegel - dice - non è solo il filosofo della contrad­ dizione e del divenire , è anche il filosofo del superamento della contraddizione , il filosofo dell'identità. Se il finito è contraddittorio, lo è perché isolato dall'infinito; ma l'infinito - afferma Hegel - è la verità del finito, e questo comporta che la contraddizione dev'esser tolta e viene tolta. Certo, l'in-

15. Cf. E . Severino, SO,

spec . capp .

I e IV, e EN, passitn.

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fìnito stesso si mostra in Hegel come processo, nel quale la contraddizione , tolta ad un certo livello, si ripresenta nel supe­ riore . Ma Hegel non cade nella cattiva infìnità. Al termine del processo è il sapere assoluto, ove ogni opposizione termina. Nella rivelazione del profondo - la mèta della Fenotnenologia - tutte le contraddizioni sono conciliate , e l'identità riconqui­ stata. E tuttavia Hegel - sostiene S everino - appartiene alla storia del nichilismo . Perché pone l'identità solo alla fìne del processo? No, non per questo. A tale critica si potrebbe facil­ mente obiettare che in Hegel la fìne , il sapere assoluto, è già dall'inizio, che tutto il processo fenomenologico della coscien­ za si muove all'interno del sapere assoluto. Hegel appartiene al nichilismo per aver conservato nell'identità del sapere asso­ luto, nell'identità del circolo dei circoli, il divenire16• Il sape­ re assoluto in tanto è Erinnerung e Schiidelstiitte, memoria e calvario dello spirito, in quanto è insieme la mèta (das Ziel) dell'itinerario fenomenologico e il luogo in cui esso si attua (cf. PhiiG, p. 564 ) . Hegel non toglie il divenire , se non conservan­ dolo, se non eternizzandolo . Severino respinge ogni tentativo di conciliazione, o peggio di compromesso tra identità e divenire . Quiete e movimento non possono stare insieme , perché o l'una nega l'altro o l'altro l'uno. Ben al di là di Calogero, la critica di S everino colpisce in primo luogo la concezione kantiana del tempo. N o n si può affermare che il tempo permane e non scorre in quanto sono i fenomeni che scorrono nel tempo (cf. K:rV, A 144 , B 183, e B 225; e T, p . 88) . Non si può, perché lo scorrere dei fenome­ ni entro il tempo muta l'ordine interno del tempo. Il tempo permane e non muta, solo se anche i fenomeni non mutano, non scorrono, non divengono. I.:identità non ammette altro accanto a sé , né dentro di sé .

16. Cf. T, capp. VI-X. Sul tema cf. E . Severino - V. Vitiello, EP, pp. 81- 156.

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9. Hegel ha visto giusto, quando ha affermato che il finito si contraddice perché isolato dall'infinito . Ma non ne ha tratto la necessaria conseguenza. Anziché togliere l'isolamento del finito alla radice , l'ha tolto alla fine . E quando ha concepito la fine come inizio, ha dovuto conservare in questo l'intero processo, per spiegare come era giunto alla verità che la fine è l'inizio. Lerrore di H egel è stato quindi d'aver prima ante­ posto l'intelletto (l'astratto: l'astrazione dell'isolamento) alla ragione ( al concreto: alla relazione originaria tra gli essenti) e poi d'averlo conservato nella ragione . In questa critica è la spiegazione della genesi del(l' errore del) divenire . Separato il soggetto A dal predicato B - nell'esem­ pio più noto di Severino: il soggetto "lampada" dal predicato "accesa" - per dar ragione dell'identificazione dei due concet­ ti diversi si è fatto ricorso al divenire . La lampada da non­ accesa diviene accesa: cessa d'essere spenta per essere accesa. Questa, però, è un'"interpretazione" non un dato "fenome­ nologico". Ciò che noi in realtà osserviamo è l'apparire della lampada accesa e il non più apparire della lampada spenta. Ma dal fatto che la lampada spenta non appare non è lecito dedurre che essa non è più . Che l'ente "lampada" è diventato niente - owero : è niente . Il fatto (il non apparire della lampa­ da spenta) è reale, l'interpretazione (la lampada spenta non è più) contraddittoria, e pertanto auto-negantesi . Si elimina l'errore che è alla base del "divenire", e cioè l'iso­ lamento del soggetto dal predicato, quando s'intende che il giudizio ��la lampada è accesa" è mal formulato, o formulato in modo manchevole . N o n la lampada è accesa, ma la lampada accesa è accesa. Solo così si evita la contraddizione di attribui­ re al medesimo il diverso. All'esplicazione hegeliana del giudi­ zio, che Gentile ripete in entrambe le logiche (del concreto e dell'astratto) , secondo cui A B dice : A diviene B, S everino sostituisce l'inversa B A, intendendosi con questa inversione =

=

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che B è già da setnp re A17. La lampada non diviene acce­ sa - è già da sempre accesa, quantunque appaia soltanto ora accesa. =

Dietro l'isolamento nel giudizio del soggetto dal predicato si cela altro isolamento: quello dell'ente dagli altri enti (T, spec. capp. XI e XIII ) . La lampada accesa è tale , può esser tale , perché è in un contesto di enti, in una koinonia che la costitu­ isce come tale . La lampada è in una stanza, su un tavolo , colle­ gata alla corrente elettrica, in una determinata ora, quando il sole è alto a mezzogiorno, o basso al tramonto . . . , ed è solo per le relazioni che ha con gli altri enti che è quella lampada che è, e quella lampada che è accesa. Come già Kant esplicava, nelle Analogie dell'esperienza, i predicati delle cose sono per le relazioni che esse hanno tra loro. Ma queste relazioni sono possibili perché e solo perché ciascuna cosa è determinata, cioè è se stessa e non altra: la lampada non è il tavolo su cui poggia. La determinatezza di entrambi gli oggetti è nel loro essere identici a sé e diversi l'uno dall'altro . X è X in quanto non è Y, in quanto non è non-X. I..: identità nega la sua nega­ zione . Beninteso non nega Y ( la lampada non nega il tavolo su cui poggia) , nega la negazione della sua identità, nega l'iden­ tifìcazione di X con Y ( di lampada e tavolo) . Sono, dunque, due e diverse le negazioni che defìniscono l'identità; esse si coappartengono, ma nella differenza, perché sono differenti . In quanto X non è Y, è determinato come X e non come Y; ed in quanto così determinato quella sua negazione che lo identi­ fìca all'altro è auto-negazione.

17. Per un 'confronto' tra le opposte concezioni del divenire di Gentile e di Severino non limitato all'analisi delle premesse 'logiche' dei due 'sistemi', ma esteso alle conseguenze storico-politiche ed etiche : cf. B. de Giovanni, GS, in particolare capp. VI e VIII-XII.

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Questa doppia negazione riprende la distinzione hegeliana tra la negazione che caratterizza la dottrina dell'essere, la nega­ zione che ha fuor di sé, come altro positivo, il negato (X X in quanto non-Y: la lampada è la lampada in quanto non è il tavolo; e viceversa: Y Y in quanto non-X: il tavolo è tavolo in quanto non è la lampada) - e la negazione propria della dottrina dell'essenza, la negazione che ha in sé il negato, come altro negativo, come altro che non può stare accanto al negan­ te (A nega l'alterità di B, perché è B: la lampada è accesa) . Ma anche qui con una variante che ne muta radicitus il senso: la seconda negazione (la negazione dell'essenza) si caratteriz­ za in H egel come divenire : il negante si fa esso il negato (il soggetto diviene predicato) : la lampada si nega come lampada divenendo lampada accesa; in Severino, per contro, è il negato assorbito nel negante , e cioè l'altro è negato come altro, e rico­ nosciuto come l'identico stesso (l'essere accesa della lampada non è altro dalla lampada, già da sempre accesa) . In formula: all'hegeliano A > B, Severino oppone B > A. =

=

Ma se la lampada è da sempre accesa, e questo suo essere accesa è per il rapporto che la lampada ha con le altre cose tutte , allora la lampada è già da sempre in rapporto con tutti gli enti . L'infinito è qui lo spazio che tutto contiene : non uni­ verso , ma multi-verso . Infinito di infiniti . Perché X non è solo in relazione con Y, W, Z, ecc ., è anche in relazione con le rela­ zioni che Y, W, Z, ecc . , hanno tra loro e con X. X è la relazione con Y ed insieme con la relazione che Y ha con X. E quello che si è detto relativamente a Y va ripetuto per tutti gli altri "termini" relazionali . Si presti attenzione : non si è detto che il predicato di X (la B di A) è la relazione con Y; si è detto che X (e cioè il sogget­ to : il soggetto A del predicato B) è questa relazione con Y. Infatti non soltanto - per tornare all'esempio - l'esser-accesa della lampada è per la relazione della lampada con gli altri

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enti tutti dell'infinito multiverso, sì anche l'esser lampada della lampada. A = A non è diverso da A = B, se ben s'intende che A = B è invero AB = AB . Ed AB = AB è già in A, è-già A. La distinzione di A = A da A = B serve solo a sottolineare la diversità tra le due negazioni : la negazione dell' enantfon che è auto-negazione (il giudizio : A = non-A, il tavolo è non-tavolo, toglie se stesso ), dalla negazione dell' éteron , dalla negazione che nega l'isolamento del soggetto "lampada" (A) dal predi­ cato "essere-accesa" ( B ) . Ma questa distinzione è astratta e non reale , perché A non è mai "solo" A, ma sempre AB ( e/o AC, AD, AE . . . ) : la lampada è sempre in certo modo: accesa o spenta, sul tavolo o su una consolle , di porcellana o di bronzo . . . L'identità di A = A con A = B (o meglio : di A con AB, AC, AD . . . ) avvicina nuovamente Severino a Kant: al Kant critico di Leibniz, al Kant che afferma che le cose tutte sono costitui­ te interamente di relazioni, e non v'è nulla di interno, nessuna sostanza oltre il loro apparire (cf. KrV, A 285, B 34 1 ) . 10. La tesi che l'ente si risolve totalmente nelle relazioni con gli altri enti, tesi che è fatta per togliere l'ente dal suo isolamento, produce effetti opposti a quelli voluti. Togliere l'ente dal suo isolamento doveva significare determinarlo, e determinarlo a priori . Se X è tale perché in rapporto a Y, W, Z ecc . , la sua determinazione non gli sopravviene, ma è sin dall'inizio costi­ tutiva del suo "in sé" , della sua essenza. L'essenza di una cosa ­ dichiara S everino - è l'insieme delle sue relazioni . C ome già si è rilevato X per essere in sé l'insieme di tutte le relazioni è non soltanto la relazione con Y, W, Z, ecc., bensì anche l'insieme delle relazioni con tutte le relazioni di Y, W, Z , ché anch'essi sono le loro relazioni . Talché nel multi-verso spaziale , nell'in­ finito di infiniti concepito da S everino il singolo ente nella sua singolarità sarà insieme eguale e non eguale al Tutto . Perché infinito di infiniti non è solo lo spazio che tutto abbraccia, è ogni punto di questo spazio . Che tuttavia resta punto del tutto, .

.

.

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parte e non tutto. Il medesimo predicato identifica ed insieme non identifica il medesimo . Particolarmente se si tiene conto di ciò, che come il tutto contiene la lampada accesa e la lampa­ da spenta (gli opposti), così la lampada, che , se è apriori "acce­ sa", è parimenti apri ori "spenta"18. La sottrazione della cosa dal suo isolamento, anziché de t ermi­ nare la cosa, la in-determina. Astratta è l'identità, la differen­ za dalla differenza, concreta la identità di identico e diverso. Torna l'Infinito come indeterminazione . Ma ora l'indetermi­ nazione non è l'indeterminazione del divenire, il farsi la cosa incessantemente altra da quella che è, anzi l'indeterminazio­ ne è il proprio dell'identità. È l'Identità l'indeterminato, l'in­ determinato indeterminante . Già perché solo se separata da questa Identità che tutto abbraccia in sé , che tutto con-tiene e fonde in sé , è possibile conseguire la determinatezza della singola cosa. N o n la sottrazione dell'ente al suo isolamento, al contrario l'isolamento dell'ente dall'Identità onniabbracciante ed onnipervasiva, dall'in-determinante Identità, salva l'ente nella sua singolarità. Appare qui, nuovamente , la necessità della logica dell'astratto . 1 1 . Ma nella prospettiva di Severino astratto non è l'Identico, bensì il Diverso. Non la quiete , ma il movimento, non l'essere , i l divenire . Non s i indica qui col termine "divenire" i l passa­ re dell'ente dal nulla all'essere e dall'essere al nulla, bensì - secondo l'interpretazione di Severino - l'entrare e l'uscire dell'ente-che-sempre-è dal cerchio finito dell'apparire del Tutto, e cioè dell'infinito multiverso di infiniti . Il multiverso infinito di infiniti non appare in un cerchio infinito . Perché non c'è un cerchio infinito d'apparenza. Non ci può essere . 1 8 . Cf. E . Severino, G, spec. capp. X-XII. Per una più ampia discussione di quest'opera rinvio a V. Vitiello, DP, pp . 51-56.

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Come può apparire mai ciò che non ha figura determinata, ciò che non ha ezdos' in quanto è tutto ed il suo contrario ? Come può apparire A che è insieme (hanta, sintul) B e C, D , E . . . e non-B, non-C , non-D, non-E . . . ? S olo s e s i astrae dalla compatta identità di questa U nità assoluta che tutto contiene in sé , da questo Infinito di infiniti, in cui la parte è il tutto ed insieme non lo è, da questo multiverso che è ma non appare - solo se si isola una parte di questo tutto, si può determinare qualcosa conu qualcosa : questo e non altro . Il divenire - nel senso chiarito dell'entrare ed uscire dal cerchio dell'apparenza - è l'astrazione che produce , de-termina, ed esibisce insieme , la cosa singola, determinata. l:ente nella sua determinatezza, il qualcosa come qualcosa è solo astrazione . Come avviene questa astrazione - e perché avviene ? Perché il Tutto infinito di infiniti è "destinato" ad apparire nei cerchi finiti dell'apparire? Perché l'indeterminata Identità si deve determinare ? Perché il finito e non soltanto l'Infinito? Perché il soggetto A che è già-da-setnp re AB e AC e AD . . . e Ano n-B, Anon-C , Anon- D . . . , appare "solo" come AB, o AC , o AD . . . o, all'opposto, "solo" come Anon- B, o Anon-C , o Anon-D . . . ? Se non si risponde a queste domande, il determinarsi dell'I­ dentità resta solo "possibile" . Radicalmente possibile; vale a dire : di essa non si dà ragione . 12. Non è un limite della filosofia di S everino, è un limite del pensiero. Che Kant ebbe il grande merito di riconoscere : «non chiedete: perché la ragione non s i è determinata altri­ menti? ma soltanto : perché la ragione non ha diversamente determinato i fenomeni mediante la causalità?» (KrV, A 556 B 584) . Ma, se non è in potere della ragione dar ragione del suo determinarsi in un modo o in un altro, allora neppure è

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lecito, nell'analisi della ragione, affermare la determinazione come principio assoluto . N o n vogliamo negare, così dicendo, i diritti dell'Analitica, dell'intelletto, del logo astratto. N eppure vogliamo !imitarci a ribadire quanto s'è visto in queste pagine, e cioè la difficoltà di restar fedeli al principio di determinazio­ ne. Nostro intento è mostrare che per pensare il divenire , non è lecito partire dal determinato. Per ripetere lo Hegel dell'ini­ zio della Logica: l'essere non passa nel nulla, né il nulla nell'es­ sere , ma entrambi sono passati, sono già da sempre passati . Non c'è mai, per un solo istante , "essere", né mai "nulla" , c'è sempre e solo il passare . N o n c 'è mai, neppure per un solo istante , "legna", né mai "cenere", c'è sempre e solo la combu­ stione in cui la legna è cenere, la cenere legna, in cui pensan­ do la legna si pensa la cenere , e pensando la cenere si pensa la legna. Muovere da legna e cenere , separate , è presupporre non l'identità - che nel suo fondo è principio di indetermi­ nazione - ma quell'astrazione dell'identità, quell'isolamento dell'identità, che è la determinatezza dell'ente in quanto tale .

È chiaro che non è possibile fermarsi a porre l'esigenza di un tale pensiero, o a rivendicame semplicemente la possibilità. Bisogna esibire di questo pensiero non soggetto al principio di determinazione e di contraddizione, l'esperienza effettiva. A tal fìne torniamo nuovamente a Hegel.

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III La proposizione speculativa: il linguaggio dellafilosofia

l . Le pagine della Fenotnenologia dello spirito che trattano della "proposizione speculativa" (PhiiG, pp. 48-55; it. , I, pp . 48-55) sono tra le più dense di Hegel; è perciò necessario, per confrontarsi seriamente con esse, seguire il consiglio di Hans­ Georg Gadamer, che invita a buchstabieren Hegel prima di tentare più complesse e difficili, se non improbabili, interpre­ tazioni globali. Comincerò a "sillabare" Hegel, citando una sua celeberrima proposizione - quasi il manifesto della sua fìlosofìa - che si legge qualche pagina avanti a quelle indicate . Es ko1nmt nach 1neiner Einsicht [ . . . ] alles darauf an, das Wahre nicht als Substanz, sondern eben so sehr als Subjekt aufzufassen und auszudrticken. 1

La proposizione letta è dal punto di vista sintattico palesemen­ te anomala. Alla negazione assoluta - «nicht als Substanz» -

PhiiG, p. 19. «Tutto sta, a mio modo di vedere [ . . . ] nel concepire ed esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto come soggetto» (it., I, p . 13) . Significativa l'integra::ione di A. Kojève nella sua traduzione del passo: l.

«D'après mon avis [ . . . ] tout dépend de ce qu 'on exprime et comprenne le Vrai non pas [seulement] camme substance, mais tout autant camme sujet» (ILH, p . 529) . In merito cf. L. Illetterati, OELH, pp. 22-23 .

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segue un'affermazione che la relativizza: «sondern ebenso sehr als S ubjekt» . Questa citazione ci immette immediatamente nel cuore stesso del tema che dobbiamo affrontare: l'inadeguatezza della forma proposizionale al contenuto fìloso:fìco. Su questa inadeguatez­ za Hegel torna più volte . Perché sia chiaro che non si tratta di un'inadeguatezza che concerne soltanto la :fìloso:fìa hegeliana, faccio seguire alla citazione da Hegel una citazione da Plato­ ne , ove si nota la medesima "anomalia". Dalla VII Lettera : il soggetto della proposizione è tò prtignta , la "cosa" (Hegel: die Sache) della fìloso:fìa. Di esso Platone dice : [

.

.

.

] rhetòn gdr oudmnos estin hos alla 'lnathén1ata (34 lc ) .2

Platone non scrive : «r etòn ouk estin» ( non dicibile ), ma: «r etòn oudanws esti n» (per nulla affatto dicibile ); alla nega­ zione assoluta segue, poi, come nel testo di Hegel, la compa­ razione che la relativizza: «hos alla rnathérnata». h

h

Dopo questo riferimento a Platone, torniamo a Hegel, e propriamente alle pagine sopra indicate . 2 . Hegel esordisce affermando che quello che nella scienza è decisivo è die Anstrengu ng des Begriffs : la fatica, lo sforzo, del concetto. Chiara la polemica anti-romantica. La critica dell'in­ tuizione , del sentimento, in generale dell'immediato, elevati ad organo del sapere scientifìco3. Ma se è scienza, la :fìloso:fìa è, però, una scienza particolare . Il suo concetto non è il cantu­ ne concetto, o ciò che si intende comunemente con concet­ to , in quanto non va confuso con le rappresentazioni generali di contenuti immediati . N eppure, però, va identi:fìcato con 2. «[ . . . ] non è assolutamente dicibile, come le altre conoscenze» 3. Il riferimento immediato è a F. W. J. Schelling, STI, Sez. VI, § § 1-3, 1025- 1036; it. , pp . 285-302.

pp .

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la forma vuota dell'astratto raziocinare (riisonnieren) che, da tutto astraendosi, si compiace d'esser sempre oltre ogni conte­ nuto determinato. Il concetto della fìlosofìa assume la nega­ tività tipica del riisonnieren soltanto come momento iniziale del suo procedere . Una volta conquistata la fornta del sapere , attraverso l'astrazione, la fìlosofìa deve tornare al contenuto . Il riferimento critico a Fichte - e, attraverso Fichte, a Kant e , risalendo più indietro ancora, a Descartes - è palese . Ma nel confrontarsi con la fìlosofìa della riflessione Hegel non è mosso soltanto da un intento critico . Il confronto gli è utile per mostrare il vero modo di procedere della riflessione in fìlo­ sofìa. Per questa ragione prende in esame la ��proposizione" : perché nel rapporto soggetto-predicato forma e contenuto sono congiunti . E cioè : nella proposizione, o giudizio, la forma non si presenta nella pura astrazione dell'lo = lo, ma come il Sé del predicato reso concreto, determinato dal soggetto del giudizio . In breve: Hegel collega l'analisi del "cogito" all'ana­ lisi della "proposizione". Di qui la novità, e pur la diffìcoltà di queste densissime pagine, che già anticipano alcune anali­ si della \Vissenschaft der Logik . Ma ciò che in questa viene accuratamente distinto ( come, ad esempio, la "proposizione" e il "giudizio" ) e trattato in sezioni diverse, seguendo una complessa architettura sistematica, articolata in differenti livelli antologici, è nella Vorrede della Phiinontenologie ancora unito o indistinto. Nella logica tradizionale il soggetto del giudizio è qualcosa di stabile cui ineriscono accidentalntente vari predicati . La rosa per riprendere l'esempio hegeliano (cf. WL, II , pp . 313 s . ; it. II, 716 ) - è rossa, ma potrebbe essere anche bianca. I predica­ ti sono vari e mutevoli, stabile invece è il soggetto. Ma questo, non appena si approfondisca l'analisi, si rivela non essere altro che l'insieme dei predicati che volta a volta lo costituiscono. La rosa è rossa o bianca, fresca o appassita, in ogni caso è ciò che il predicato dice che è . La mutevolezza del predicato

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coinvolge il soggetto . Il soggetto scompare nel predicato, che ora esprime l'essenza, il \Vesen, del soggetto . Rileva Hegel: il giudizio dell'esserci immediato (Daseinsurteil) trova la sua verità nel giudizio della riflessione ( R ejlexionsu rteil ) ; owero : il giudizio di inerenza (dell'accidentale predicato al soggetto) si muta in giudizio di sussunzione (del soggetto sotto il predicato che ne rivela l'essenza) . Ora è il predicato la base, il sostegno o hypokeftnenon , la "sostanza" del giudizio ( cf. ib , II, pp . 328 ss . ; it. II, 730) . Nella Prefazione della Feno nwnolo gia , però, l'indagine è resa più complessa dall'intreccio di livelli analitici diversi . Perché qui "soggetto" non indica più solo uno dei termini della rela­ zione predicativa, sì anche l'Io, o meglio, come Hegel lo nomina, il Selbst, il Sé, il pensare . E cioè : nello svanire del soggetto del giudizio nel predicato, e nel conseguente tradursi del predicato in vero "soggetto" - sostegno, hypokeitnenon, substantia - della relazione apofantica, viene in primo piano il Sé, l'Io che sa, das wissende Ich ; viene in primo piano l'intimo legame tra la logica tradizionale, o formale , e la logica trascen­ dentale . Cos'altro è, infatti, l' Ich denke, se non l'insieme dei predicati che costituiscono il soggetto? Il chiaro riferimento al kantiano «Vehikel aller Begriffe iibe rhaupt » (KrV, A 341 , B 399) non deve però spingerei ad identificare il Selbst con esso. Perché il Sé del pensiero concettuale, se è movimento, è però sempre legato ad un contenuto determinato ; se «non è un quieto soggetto che, immoto, sostenga gli accidenti» , è però «il concetto che muovendosi riprende in sé le proprie determinazioni» (PhiiG, p . 49; it. , l, p . 50) . Siamo prossimi a comprendere quella proposizione, sintatticamente anomala, con cui abbiamo iniziato : «tutto sta nel concepire ed esprime­ re il vero non come sostanza, ma altrettanto come soggetto». Se non è "sostanza" - id est : se non è l'immoto soggetto del giudizio del pensare rappresentativo, della logica formale -, il vero neppure è solo ��soggetto" - il vuoto Io del pensare razio-

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cinante , che è sempre di là di ogni contenuto determinato -. Vero è il movimento dal soggetto al predicato: dalla "sostanza" al "soggetto" -; vero è il concetto che si fa da soggetto predi­ cato, riprendendo �'in sé le proprie determinazioni" . Vero non è sostanza - è anche sostanza. Ed è "soggetto", Selbst, Sé , solo essendo anche sostanza. Chiaro che qui il termine "sostan­ za" assume un signifìcato affatto diverso da quello che ha nel pensare rappresentativo e raziocinante (vorstellendes und riisonnierendes Denken) . Siamo qui al punto più profondo dell'analisi hegeliana della proposizione speculativa. 3. Che il vero sia anche sostanza e non solo soggetto, non dice però solo che vero è il movimento dalla sostanza al soggetto - nei termini della Logica apofantica: dal soggetto al predica­ to . Dice dell'altro ancora, e cioè che il pensare concettuale, diversamente da quello rappresentativo-raziocinante (i due sono più vicini di quanto non si pensi) , subisce un impedi­ mento, o più ancora un contraccolpo nel passare dal soggetto al predicato . Perché , se il predicato esprime ora l'essenza del soggetto, se è esso ora il vero soggetto, il pensiero concettuale si trova risospinto indietro dal predicato al soggetto, dacché ritrova nel predicato quella medesima fissità che dapprima sembrava caratterizzare il soggetto . Scrive Hegel: [ . . . ] poiché quello che se1nbra essere il predicato è divenu­ to una massa totale e autono1na, il pensiero non può libera­ mente errare qua e là, 1na è trattenuto da questa pesantezza (durch diese Schwere ) . (PhiiG, p . 50; it. , I, p. 5 1 ) .

D i quale pesantezza si parla qui? La massa totale e autonoma del predicato non è proprio il libero movimento dei predi­ cati in cui si risolve la fìssità del soggetto? Non è il colore e il profumo , e la freschezza, della rosa? non è l'insostanziale leggerezza dei molteplici predicati, degli indefìniti accidenti?

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Eppure proprio questa massa totale e autonoma del predicato è "schwer" . Perché questa massa che comprende la totalità dei predicati, che è lo stesso movimento degli accidenti, la loro �'leggerezza", è ora essa il "soggetto", la "sostanza": quella Schwere, quella pesantezza che impedisce al pensare concet­ tuale di muoversi liberamente . Siamo qui di fronte ad un radi­ cale capovolgimento del rapporto soggetto-predicato . Hegel stesso parla di �'contraccolpo", Gegenstoj3 . Ed invero lo stes­ so significato del termine "soggetto" appare profondamente mutato. Quel soggetto iniziale - il soggetto del Daseinsurteil ­ che era stato presentato «come un sé oggettivo e fisso (als das gegensUindliche und fixe Selbst )», a cui i predicati vengono riferiti accidentalmente, senza alcun vincolo di necessità, è ora definito come il soggetto «che entra nelle sue determinazioni e ne è l'anima»; laddove il soggetto, das wissende Ich , «vincolo dei predicati e soggetto che li sostiene (das Verknii pfen der Priidi kate und das sie haltende Subjekt )», «invece di poter essere ciò che opera (das Tuende) [ . . . ] il movimento dei predi­ cati ha piuttosto ancora a che fare con il sé del contenuto, non deve essere per sé (fii r si eh ) ma insieme con il contenuto» (ib. , pp . 50-51 ; i t., I, p . 5 1 ) . Come si spiega questo radicale mutamento o capovolgimen­ to ? Un inciso di Hegel risulta illuminante per l'intero discorso . Esso si riferisce a «ciò che opera il movimento dei predicati» e lo definisce «come pensiero raziocinante (als Riisonnieren )» in quanto «attribuisce questo o quel predicato» al soggetto del giudizio. Da qui si ricava chiaramente che per il pensiero concettuale - o speculativo - �'vero" ( quel "vero" che è non sostanza, ma altrettanto soggetto) non è neppure il movimen­ to dalla sostanza al soggetto - come poco sopra, in una fase ancora provvisoria dell'indagine, si è detto -, ma è solo quel movimento che subisce il contraccolpo . Hegel, per spiegare la cosa, adduce ad esempio il ritmo che è fatto di metro ed accen­ to . Non c'è ritmo senza l'interruzione dell'accento, senza che il

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movimento metrico sia frenato, fratto, dalla pausa dell' accen­ to . l: armonia nasce solo dal contrasto tra la continuità metrica e la frattura dell'accento . Il paragone è felice . Ma lo si può apprezzare solo se si è compresa la "cosa" del pensiero, ciò che qui è veramente in questione . E cioè: la Hetntnung, l'impedimento, del pensie­ ro, il contraccolpo che rigetta il concetto dal libero predicato sull'immoto soggetto del giudizio, ovvero dal sé automovente­ si sulla "sostanza" . Più semplicemente: cos'è la "pesantezza", la Schwere, del predicato, la pesantezza di ciò che è, per defi­ nizione, leggero, perché di per sé mobile? 4. l:intero movimento che caratterizza la proposizione specu­ lativa, il passaggio cioè dal soggetto del giudizio al predicato (o: dalla "sostanza" al "soggetto") ed il conseguente contrac­ colpo che ripiega il movimento su se stesso, riportando il pensiero dal predicato al soggetto (o dal "soggetto" alla "sostanza") - l'intero movimento della proposizione specula­ tiva è palesemente un movimento ri-flessivo. Precisiamo: la ri-flessione, cui qui si fa riferimento, è la "riflessione ponente­ presupponente". Quella riflessione , cioè , di cui parla Hegel nella Scienza della logica all'inizio della Dottrina dell'essenza, subito dopo il paragrafo sullo Schein, sulla ��parvenza" (WL, II , pp . 25-28 ; it. , II, pp. 445-44 7) . Questa riflessione è caratterizzata dal fatto che essa muove da un dato, da ciò che immediatamente appare , e ne rivela l'essere essenziale : quello che veramente è . Di questa rosa, ad esempio , che essa è un fiore sintetico, e cioè che non è pian­ ta, ma minerale . La riflessione , come si vede, ha la struttura di un giudizio, o proposizione . Ma di un giudizio tale che il predicato toglie il soggetto . Nega cioè la parvenza del sogget­ to . Nell'esempio fatto : l'esser pianta, laddove è un minerale . Ma non solo dove la parvenza è inganno, la riflessione toglie

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nel predicato il soggetto, sì anche là dove la parvenza viene confermata. Se il predicato dice che questa rosa è pianta e cioè un organismo vivente e non un minerale, anche in questo caso il soggetto è tolto, perché non è più rosa, ma pianta, rosa come pianta, e non più solo rosa. In breve : non è più un dato, ma qualcosa di posto dalla riflessione . Da quanto si è detto risulta che la riflessione toglie il dato, il presupposto, per far di esso un posto . Toglie l'immediato nel mediato . Ma in tanto può togliere l'immediato, il dato, in quanto lo presuppone. Senza l'immediato la riflessione neppure potrebbe iniziare . La riflessione riflette su qualcosa che le è dato. Talché il presup­ posto com'è negato, così è affe rmato . La sua negazione coinci­ de con la sua posizione . Posizione si è detto. Il presupposto, come tale , è solo nella riflessione e per la riflessione, vale a dire : è posto come presupposto, dacché prima della rifles­ sione non può essere il "presupposto" di questa. Ma porre il presupposto è toglierlo . Insieme, sitnul, hanta, il porre è per il presupposto, per ciò che esso pone come presupposto, ma che è prima del suo porre . Un "prima" che è per il "poi". Il circolo è evidente . Ma non è un circolo "virtuoso", un circolo cioè che faccia progredire la riflessione, al contrario l'arresta. È der absolute Gegenstoj3 in si eh selbst, l'assoluto contraccolpo in se stesso (WL, II, p. 27, it. , II, p . 447) . L'estrema irrequietez­ za della riflessione, il suo "trionfo bacchico" (der bacchanti­ sche Tautnel: PhiiG, p. 39; it. , I, p. 38), precipita in un'assoluta quiete . È questa la Schwere, la pesantezza, della proposizione speculativa. E va detto che in essa lo speculativo si presenta proprio come questa pesantezza. Scrive Hegel: -

Als Satz ist das Spekulative nur die innerliche Hetnmung un d die nichtdaseiende Riickkehr des Wesen in sich.4

4. PhiiG, p . 53. «Come proposizione lo speculativo è solo l'intern o impedi­ mento ed il non-immediatamente-esistente ritorno dell'essenza in sé» (it., I, p . 54) .

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Ma questa pesantezza - l'impedimento o ostacolo, il "contrac­ colpo" - accenna ad altro ancora. 5. Hegel definisce la «pura assoluta riflessione» (die reine absolute Rejlexion ) come «il movimento dal nulla al nulla» (die Bewegung von Nichts zu Nichts : WL, II, p . 24-25; it. , II , p . 444 ) . Nulla è l'apparenza, il soggetto o dato, poi che è tolto dal predicato. Nulla è il predicato che è tolto nel suo ritorno (Riickkehr) al soggetto. Positivo è solo il movimento del porre e del presupporre, del presupporre e del porre . Ma anche il movimento, questo movimento ri-flessivo, si piega su di sé e si nega. Anche il movimento della riflessione è il "non" di se stesso, la sua negazione , non-movimento . Positivo, quindi, è solo il negativo che nega se medesimo e la sua negazione . H e gel sta qui realizzando quanto nella prima delle sue Habili­ tazionsthesen ( 1 80 1 ) aveva sostenuto, e cioè che «contradictio est regula veri, non contradictio falsi» (W, 2, p. 533 ) . Ma la realizzazione si rivela estremamente complicata. Dacché biso­ gna dire quanto al dire stesso sfugge . Diciamo infatti il movi­ mento ed il non-movimento, ed anche il movimento come non-movimento, ma appunto li diciamo separatamente , prima l'uno poi l'altro. Il discorso è costruito secondo il principio di non contraddizione . La proposizione nomina prima il soggetto poi il predicato . E quando anche si perviene alla comprensio­ ne che il soggetto si scioglie nel predicato, questo diciamo nel tempo, seguendo la logica del tempo : printa il soggetto poi il predicato. Laddove il soggetto è già da sentpre sciolto in predicato, ed il predicato già da se1npre respinto sul soggetto . Ciò che nel dire non viene in luce è proprio la co-attualità del dire e del contra-dire . Questa co-attualità la diciamo sì, ma sempre post factum, in una proposizione che ha come conte­ nuto la contraddizione , non come forma. Diciamo sempre la contraddizione di una precedente proposizione o giudizio. Ed

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invece bisogna dire la contraddizione del giudizio che adesso esprimiamo, la contraddizione del presente atto giudicante . Per farlo dobbiamo dire disdicendo . Il che peraltro sempre facciamo, e non altrove ed altrimenti che nei nostri comuni giudizi, come quando ad esempio, diciamo "questo è pane", ove il questo non è questo, ma pane, e pane non è pane ma questo . S olo che tale ri-flessione resta inawertita, perché prendiamo "questo" e "pane" come dei già sussistenti in sé e per sé , perché non badiamo all'atto del dire (disdicente ), ma al suo contenuto. È insomma la prassi, o atto, del dire , che non appare ; non appare - preciso ancora - nell'atto del dire, non nella successiva proposizione: owero, per ripetere Hegel, resta interiore . Resta interiore pur dopo che l'abbiamo esplicitata, esposta, esteriorizzata. 6. Torniamo a Platone , alla "cosa", tò pragnw, della filosofia, cui ci siamo riferiti all'inizio . Questa "cosa", sappiamo, non è assolutamente dicibile . Essa è il "vero" che è oltre la verità dell' epistétne, dell'intelligenza e della d6xa . Platone lo defini­ sce il "quinto" - dopo il nome, la definizione , l'immagine e la conoscenza. Ad esso non si accede direttamente, m a passan­ do continuamente per i "quattro", dal nome alla conoscenza e viceversa, finché per improwisa illuminazione interiore non si riveli «la buona natura a chi ha buona natura» (eu pephyk6tos eu pephyk6ti : VII Lettera , 34l c-d, 343e) . Resta dunque il "quinto" - tò haplòs on , il semplicemente essente , il soggetto che non ha predicati, il puro semplicissimo "ti" - indicibile nell'interiorità dell'anima. Così Platone - che, peraltro, pur lo nomina, lo definisce : eu pephyk6tos, ciò che ha buona natura, il Bene . Diversamente Hegel, che , pur rico­ noscendo che lo speculativo è nella proposizione !'"interiore ",

1 79

respinge esplicitamente l'intuizione (la platonica illuminazio­ ne interiore ) . Spesso [ . . . ] noi ci vediatno rinviati dalle esposizioni filosofi­ che a questo interiore intuire (an dieses innre Anschauen), che così s i rispanniano l'esposizione, da noi richiesta, del movi1nento dialettico della proposizione . (PhiiG, p . 53; it. , l, p . 54) . .

H e gel riconosce i diritti della "proposizione", e quindi del parlare comune , quantunque sappia e dica che nel comune uso della proposizione e nel comune modo di concepirla, lo speculativo resta nascosto, inavvertito . La proposizione deve espri1nere ciò che il vero è, 1na esso è essenziahnente soggetto; in quanto tale è solo il 1novi1nen­ to dialettico, questo andare (Gang) che produce se stesso, e procedendo oltre in se stesso ritorna. (Ib . ) .

È qui chiarito il senso ultimo di queste pagine , non proprio in linea con l'immagine più corrente - e codificata - di H e gel. La proposizione - vien qui detto - deve esprimere ciò che il vero è : la contraddizione pura dell'andar oltre che ritorna in sé; il movimento del dire che lotta col silenzio per portarlo a parola, e nel portarlo a parola ad esso si rimette; il "soggetto", la prassi del dire che disdice , e disdicendo dice. Rileggiamo adesso la celebre , e da noi già più volte citata, tesi di Hegel, esposta sempre nella Vorrede della Fenontenologia, alcune pagine innanzi a quelle indicate in apertura: La forza dello spirito è grande tanto quanto la sua estrinseca­ zione, la sua profondità profonda per quanto esso osa nell'esporsi diffondersi e perdersi. (Ib. , p. 15; it. , 1 . , p. 8 ) .

Alla luce di quanto si è detto appare chiaro che non fuori ma nella forza stessa dello spirito che si espande è la pesantezza, l'impedimento che la trattiene , il contraccolpo che la ripiega su di sé, l'altro che la nega. Che non è l'op p osto , ciò che sta -

1 80

di contro, dal quale non sarebbe poi tanto difficile guardarsi . l: altro è l'interno , l'intimo - l' Ansichsein che resta tale pur nel Fil rsichsein : quel duro nocciolo sostanziale che mai non si scioglie , che nell'esplicarsi non si esplica, e disdice il detto e pur il disdetto del dire che disdice . l: identità che è ��prima" ed "altra" rispetto ad ogni sua determinazione5. Sempre nella Fenotnenologia, ma in altre pagine non meno celebri e discusse, Hegel dette un nome a questo altro che si cela nel medesimo e si confonde con esso; in pagine che trat­ tano di un mito antico e insieme moderno, contemporaneo: il mito di Edipo. Il nome che appare il più appropriato a questo altro : die lichtscheue Macht, la potenza che ha in orrore la luce (ib. , p . 335; l, i t . , II, p. 28) . Ogni pesantezza, ogni impedimento, ogni contraccolpo deriva da questa potenza oscura che - come la physis di Eraclito knjptesthai philez, ama nascondersi .

5. "La passion du concept'·, nel senso che ali· espressione dà J .-F. Kervégan in PC, spec. pp. 40-44.

III Al di là delf'essere

[ . . . ] Però non sarà neppure diverso da altro da sé, finché sarà uno; non è proprio infatti dell'uno essere diverso da qualche cosa, ciò è proprio soltanto del diverso che è tale rispetto ad altro diverso, non è proprio di nient'altro. [ . . . ] Quindi in quanto è uno non sarà affatto anche diverso [ . . . ] da nulla. [ . . . ] Né sarà identico a se stesso [ . . . ] la natura dell'uno non è certmnente anche quella dell'identico. [ . . . ] Perché non in quanto qualcosa viene ad essere identico a qualche cosa viene ad essere uno. [ . . . ] Se si iden­ tifica ai Inolti di necessità viene ad essere molti e non uno. [ . . . ] Ma se invece non c'è diversità alcuna tra l'uno e l'identico, allora quando qualcosa venisse ad essere identico, sempre verrebbe ad essere uno, e quando uno, identico. [ . . . ] Così l'uno non potrà essere diverso né identico rispetto a se stesso né ad altro. ( Platone, Pannenide, 1 39c-e ) [ . . . ] è in verità ineffabile : infatti qualsiasi cosa tu dica, tu dici setnpre qualcosa. Ma "al di là di tutte le cose e al di là del somtno intelletto" è tra tutte la sola espressione vera non essendo notne di esso [ . . . ] . ( Plotino, En

V, 3, 1 3 )

185

I Dall;,essere all ;,essenza

l . Il comp ito della filosofia S econdo Platone ( Critone, 46b 5-6) ed Aristotele (Met, l, l , 98 l a 25 - 98 lb 1 3) compito della filosofia è l6gon did6nai : dare ragione . Chiaramente la filosofia deve dare anzitutto ragione di sé: della ragione di dare ragione, e della possibili­ tà di farlo. E perché nulla che possa condizionare la ragione sfugga alla ragione, la filosofia è chiamata a dar ragione pur del suo inizio . Per rispondere a tale esigenza, essa ha posto se stessa, la ragione filosofica, l'io pensante, quale incondi­ zionata condizione d'ogni cosa, come inizio assoluto, da tutto ab-solutus . Così Fichte ( come più tardi Husserl) . Ma Hegel respinse tale inizio. Il cogito - obiettava - preso nell'immedia­ tezza della vita quotidiana, presuppone l'insieme dei concetti, delle rappresentazioni e dei sentimenti di cui tale vita è in tes­ suta; concepito invece come autocoscienza pura, presuppone l'opera di purificazione dell"' io trascendentale" dall"'io empi­ rico" ( cf. WL, I, pp . 76 ss . ; it. 62 ss . ; retro , Sez. I, cap. II) . Vero inizio è quindi solo quel concetto che , essendo il più povero ed astratto, nulla presuppone , ed è il presupposto di tutto: il concetto di "essere" ( cf. Enz. , l, § 86) . Ma si dà questo concetto? La domanda non è nostra , è di Hegel, il quale , sin nelle prime battute dell'Introduzione alla

1 86

Dottrina dell'essere , afferma che l'inizio della scienza non può essere né immediato né mediato: perché, se immedia­ to , è fuori del territorio della scienza, per non essere ancora concetto, e, se mediato, è sì nella scienza, ma nonché essere inizio e condizione, è solo un derivato, un condizionato. Orbe­ ne , se in nessun luogo, né in terra, né nello spirito, né altro­ ve si dà immediatezza senza mediazione, o mediazione senza immediatezza ( cf. WL, I, pp . 66-67; it. 52-53) , come l'inizio? L:essere , il concetto più povero ed astratto, non presuppone forse al modo stesso dell"'io puro" il cammino di liberazio­ ne dall'empirico e dall'immediato? Non c'è l'intero cammino della Fenonwnologia alle sue spalle? lnvero c'è dell'altro anco­ ra alle spalle del concetto più povero ed astratto: v'è quella «risoluzione» (Entschlufi), che può esser considerata anche arbitraria (eine Wullkiir), di prendere l'assoluta automediazio­ ne del sapere , cui mette capo l'iter fenomenologico, come una pura immediatezza, come qualcosa che ci sta semplicemente davanti (was vorhanden ist)1• Ripetiamo dunque la domanda: si dà questo "primo" concet­ to , questa assoluta semplicità, che è l'"essere" dell'inizio della Logica? Si dà in Hegel, per Hegel? Muovendo da questa domanda rileggiamo le prime categorie della Scienza della logica .

2.

Essere, Nulla, Divenire Essere, puro essere, - senza nessun'altra determinazione. N ella sua indetenninata imtnediatezza esso è silnile soltanto a se stesso, ed anche non disshnile di fronte ad altro; non ha

l. Cf.

1-VL, I, pp . 67 ss . ; it., 53

ss . ;

in merito:

V:

Vitiello, VR,

cap .

l.

187

alcuna diversità né dentro di sé, né all'esterno. Con qualche detenninazione o contenuto, che fosse diverso in lui, o per cui esso fosse posto colTI e diverso da un altro, l'essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura indetermina­ tezza e il puro vuoto. - N eli' essere non v'è nulla da intuire, se qui si può parlare di intuire, owero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è ne1TI1neno qualcosa da pensare, owero l'essere non è, anche qui, che questo vuoto pensare . l:essere, l'indetenninato ltnlTiediato, nel fatto è nulla, né più né lTieno che nulla.

Nulla, il puro nulla . È se1nplice somiglianza con sé, colTiple­ ta vuotezza, assenza di detenninazione e di contenuto; indi­ stinzione in se stesso. - Per quanto si può parlare qui di un intuire o di un pensare, si considera COlTI€ differente, che s'intuisca o si pensi qualcosa oppur nulla . Intuire o pensar nulla, ha dunque un significato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire o pensare, quel 1nedeshTio vuoto intuire e pensare che era il puro essere . - Il nulla è così la stessa detenninazione, o meglio assenza di detenninazione, epperò in generale lo stesso, che il puro essere .

Il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso . Il vero non è né l'essere né il nulla, lTia che l'essere non passa, 1na è passato nel nulla, e il nulla nell'essere . In pari telTipo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi che essi non san lo stesso , che essi sono assolutmnen­ te diversi, 1na insie1ne anche inseparati e inseparabili, e che imlTiediatmTiente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto . La verità dell'essere e del nulla è pertanto questo lnovinwnto consistente nell'ilnmediato sparire dell'uno di essi nell'altro: il divenire; 1novilnento in cui l'essere e il nulla son differenti, ma di una differenza, che si è in pari telTipo iiTimediatmnente risoluta. (WL, I, pp . 82-83; it. , 70-7 1 ) . N e l 1840 il kantiano e d aristotelico Adolf Trendelenburg

pubblica le Logische Untersuchungen, un'opera che avrà successo. N el III capitolo della I Parte vi è contenuta un'aspra

1 88

critica del metodo hegeliano . La pretesa di iniziare dal pensie­ ro puro gli rammenta il postulato della geometria euclidea: «traccia una linea retta» . Anche la logica dialettica muove infatti dal «semplice» . Il suo postulato è : «pensa» . Ma - obiet­ ta il critico - il pensiero puro non conosce opposizione: essere e nulla nella e per la loro astrattezza sono sì identici ma non differenti . Pertanto Hegel, per passare dalle morte astrazioni dell'essere e del nulla alla realtà viva del divenire , ha dovu­ to far ricorso all'intuizione sensibile - da cui pur assumeva essere il pensiero puro affatto indipendente -, introducendo, ma senza dirlo (stillschweigend) , il movimento ( spaziale) tra le categorie della pretesa Logica pura. Come prova ulterio­ re della validità della sua critica Trendelenburg cita i concetti di grandezza continua e discreta, intensiva e estensiva, di cui tratta la II sezione della Dottrina hegeliana dell'essere, dedi­ cata alla Quantità, ed osserva: Chi ritiene di pensare questi concetti in tnodo purmnente logico, non considera le intuizioni che li sorreggono. Le trac­ ce del 1novhnento, dello spazio e del tetnpo sono in questi concetti solo in piccolisshna parte cancellate . E senza di esse non hanno chiarezza alcuna. (L U, p. 40) .

Nella critica di Trendelenburg sono strettamente connes­ si due diversi motivi, l'uno, di derivazione kantiana, chiama in causa la distinzione tra intuizioni e concetti, sensibilità e pensiero; l'altro, invece, affatto immanente al discorso hege­ liano, concerne la differenza tra i concetti di essere e nulla. È evidente che il primo motivo critico è alla base del secondo: proprio perché isola i concetti dalle intuizioni sensibili, Hegel non riesce a spiegare il sorgere del divenire . Chiaramente noi non possiamo non invertire l'ordine del discorso: solo se è vero il fatto - l'assenza della differenza tra essere e nulla - potremo interrogarci sulla validità della sua spiegazione. Ma è vero il "fatto"? Karl Werder (Logik, p . 41 e passint) e Kuno Fischer ( SLM, pp . 1 37-1 64 e 1 94-204) l'hanno vivace-

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mente contestato, rilevando che il nulla non è solo identico all'essere , sì anche differente , perché ne esplicita il senso. E a questi due autori si richiama Bertrando Spaventa, il maggior interprete italiano di Hegel, nel proporre la sua originalissima lettura delle prime categorie della Scienza della logica2• Per contro Giovanni Gentile - proprio richiamandosi a Spaventa, del quale si voleva discepolo e continuatore - tornò a dare, di fatto, ragione al Trendelenburg, inasprendone addirittu­ ra la critica. S ostenne infatti che nella sua interpretazione Spaventa era andato oltre il pensiero di Hegel, il quale ebbe solo «l'intuizione vaga del divenire , non . . . il concetto», perché l'aveva «analizzato» anziché «realizzarlo» (RDH, p . 22 ) . Vale a dire : Hegel, col presupporre l'analisi alla sintesi, aveva potu­ to cogliere i termini astratti del divenire - l'essere e il nulla nella loro mera identità o nella loro pura differenza in quan­ to "oggetti pensati" -, ma non la realtà del divenire quale pensiero pensante, quale identità-differenza di essere e nulla ( TGS, pp . 54-57) . E qui bisogna fare una pausa di riflessio­ ne . Gli equivoci che si sono addensati sulla pagina hegeliana sono invero troppi, per cui è necessario tornare a leggere con mente sgombra i testi. Ci si accorgerà che il Gentile critico di Hegel non fa che ripetere HegeP. E lo Hegel che si legge "a libro aperto": lo Hegel dell'«essenza che deve apparire», della «manifestazione del profondo» . In breve : lo H e gel essoterico della Wirkungsgeschichte . Dell'aspetto nascosto ed inquietan­ te del pensiero hegeliano Gentile non ebbe alcun sospetto, come invece Bertrando Spaventa, il Maestro mai veramente incontrato.

2 . Di cui si dirà nel capitolo seguente e nella II Parte, in particolare nel cap . IV. 3 . Ma, per una valutazione complessiva del pensiero gentiliano rispetto a Hegel, cf. retro, Sez. Il, cap. l, e infra, P. II, cap. III.

1 90

3.

Il p ,ri mo è il terzo. Negazione delr'inizio

Né sospetto alcuno ebbe Croce, il quale anzi non mancò di esercitare la sua ironia su una pagina "teologica" di Spaventa particolarmente profonda, su cui ci fermeremo nella conclu­ sione . Va detto tuttavia che neppure alle obiezioni à la Tren­ delenburg Croce riservò miglior trattamento . Tutt'altro. Questo «cavallo di battaglia» - scrisse - «tante volte inforcato dagli awersari» della dottrina hegeliana degli opposti è «Un Brigliadoro o un Baiardo assai vecchio e sfìancato, sul quale non so come alcuno riesca a tenere ancora in sella» . E senza neppure spendervi troppe parole, metteva in chiaro che il prinw concetto della Logica è il divenire : «non già concetto aggiunto o derivato dai primi due separatamente presi, ma unico concetto, che ha, oltre di sé, due astrazioni, due spettri irreali, l'essere e il nulla separati, e, in quanto tali, accomu­ nati . . . dalla loro comune vacuità» ( SH, p . 19) . Fu indubbia­ mente un colpo d'ala, se paragonato alle discussioni del tempo (fatta, owiamente, eccezione per Spaventa), reso anche possi­ bile dal fatto che una mente tutta versata nei problenti concre­ ti della vita e della storia, come quella crociana, tanto poco incline alla meditazione metafìsica e teologica, era e si sentiva naturaltnente estranea al problema dell"' inizio". Ed infatti nel circolo dei distinti, secondo il cui schema volle caratterizzare e denominare la sua fìlosofìa, non v'è un primo ed un ultimo, ma ogni grado è volta a volta ultimo o primo, a seconda della prospettiva da cui ci si colloca o della attività che ci si trova a svolgere . Un colpo d'ala, certo, ma effìmero . N o n indugiando sul problema, Croce ricadde nell'errore che pur aveva subito visto e criticato : facendo dell'utile - un distinto in sé e per sé reale - l'opposto del bello e del vero e del bene (cf. LCP, P. III , cap . 1), presuppose anch'egli l'analisi alla sintesi, l'astrat­ to al concreto. Né si toglie l'astrazione nominalisticamente, col denominare , cioè , concreto l'astratto e , per giustifìcare quest'operazione, attribuendo al distinto che serve da opposto

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agli altri una sua propria interna opposizione ( cf. FP, P. I, S ez. II, e P. III , Sez. l ; retro, S ez. l, cap. l) . Così non si fa altro che mettere confusione in casa propria, dopo averne decantato l'ordine e l'armonia. Ma torniamo a Hegel ed al problema dell'inizio . Il divenire è dunque il pritno concetto . N o n a caso Hegel dice che l'essere non passa (nicht iibergeht) nel nulla, ma è passato (iibergangen ist), e parimenti il nulla nell'essere . È passato - già da sempre . Mai non v'è stato essere, e non mai nulla: in nessun tentpo , né storico, né ideale . N e discende che non nel nulla bisogna trovare il differente dall'essere , bensì già nell'essere stesso. Vale a dire : per rispondere all'obiezio­ ne di Trendelenburg bisogna andar oltre l'interpretazione di Werder e Fischer, radicalizzandola. Perché, ove si trovasse nel nulla una differenza dall'essere non ancora presente nell'esse­ re, e nell'essere un'identità non più presente nel nulla, questo comporterebbe che l'essere ed il nulla sono pensabili in sé e per sé prima e fuori del divenire . Proprio ciò che Hegel inten­ de negare . Il compito che egli si prefigge nel trattare dell'i­ nizio è di negare che un inizio si dia. Il "primo" concetto è il ��terzo" . Proposizione, questa, non rovesciabile : non si può dire che il "terzo" è il "primo", perché non c'è propriamente nessun "primo". E questo Hegel dice e dimostra ampiamente già nella Fenontenologia dello spirito, e non solo là dove, nella Vorrede, afferma che il vero è risultato , sì anche là dove, trat­ tando della "certezza sensibile" mostra che essa propriamente non è. Essa è percezione , intelletto, coscienza, autocoscien­ za, spirito infine, e mai sola "certezza sensibile ". D 'altronde la prima figura reale, la prima "figura di mondo" che appare sulla scena della storia narrata dalla Fenonwnologia è quel­ la raffigurata nell'epos greco . lnvero questa figura di mondo è pur essa astratta, irreale, perché non ancora "macchiata da scissione alcuna" (PhiiG, p. 330; it. , II, p . 2 1 ) . Il mondo vero , reale appare solo con la tragedia. Ma torniamo alla Logica.

1 92

Il vero, o assoluto, è risultato solo perché «l'inizio è fine» (ib. , p. 22 ; it. , 1 7) . A ragione Emanuele Severino afferma che «quando qualcosa giunge ad essere altro, qualcosa è altro da sé», che il divenire va inteso non solo come diversificazione ma altrettanto bene come identificazione. Ma che qualcosa sia altro da sé, che l'identico sia differente non è però «per il pensiero occidentale , l'impensabile, l'assurdo»4• Platone stes­ so , cui Severino si richiama, mostra nel Sojista che l'identico, in quanto tale, partecipa del diverso, è cioè diverso dal diverso (cf. spec. 259a-b) . Senza questa diversità dal diverso neppu­ re sarebbe identico. Nonché essere impensabile , perché impossibile ed assurda, la medesimezza di identico e diverso è la condizione stessa della pensabilità dell'identico . Con ciò, beninteso, non si vuol dire , e non si sta dicendo , che il dive­ nire comporti quella medesima identificazione del diverso, o diversificazione dell'identico che è teorizzata da Platone nel Sojista . Chiaramente si tratta di tutt'altro, come Hegel sapeva bene , e ben esprimeva, già quando presentava le sue tesi di abilitazione all'insegnamento universitario, la cui prima recita: contradictio est regula veri, non contra dictio falsi (W, l, p . 533) . Fermiamoci dunque su questa contradictio e vediamo qual è il luogo suo proprio, che è poi il luogo vero del divenire, owero : della eliminazione dell'inizio, della possibilità stessa dell'inizio.

4. E . Severino, T, p. 14; in merito cf. retro, Sez. II, cap, II, § § 7-12.

1 93

4. Il luogo del divenire: r'essenza Nella logica dell'essere non si ha propriamente divenire . O, a dir bene : il divenire appare nel movimento delle prime tre categorie , per poi subito scomparire : !__; e ssere e il nulla stanno nel divenire solo co1ne dileguan­ tesi; ma il divenire, come tale, non è che in forza della loro diversità. Il loro dileguarsi è quindi il dileguarsi del divenire, o il dileguarsi del dileguarsi stesso. Il divenire è una sfrenata inquietudine, che precipita in un risultato cahno. ("\VL, I, p. 1 13; it. , I, p. 99) .

La ragione sta in ciò che nella logica dell'essere la negazio­ ne non è ancora pensata secondo verità . Il negativo è posto come esterno al positivo . Gli opposti sono due identità che si fronteggiano (cf. WL, II, p. 24; it. , 444) . L'identità di identico e diverso è pensata ancora al modo della partecipazione del Sojista platonico . S e per un lato, o riguardo, l'identico è il ( partecipa del) diverso, per un altro non-è il ( non partecipa del) diverso. L'identità dei due è monca, incompiuta. Perciò l'esse­ re non è la verità di sé . =

La verità dell'essere è l'essenza. L'essere è l'hn1nediato. In quanto il sapere vuol conoscere il vero, quello che l'essere è in sé e per sé, esso non ri1nane all'ilnmediato e alle sue deter­ minazioni, 1na penetra attraverso quello, nella supposizione che dietro a quell'essere vi sia ancora qualcos 'altro che non l'essere stesso, e che questo fondo costituisca la verità dell'es­ sere. Questa conoscenza è un sapere Inediato, poiché non si trova iln1nediatmnente presso l'essenza e nell'essenza, 1na co1nincia da un altro, dall'essere, e ha da percorrere antece­ denteinente una via, la via dell'uscir fuori dell'essere o piut­ tosto dell'entrarvi. Solo in quanto il sapere, 1novendo dall'iin­ mediato essere, s'inte-rn a , trova per via di questa Inediazione l'essenza. (WL, II, p. 1 3; it. , 433 ) .

Questo passo è la migliore dimostrazione dell'impossibilità dell'inizio , dell'impossibilità dell'immediato . Insieme dell'im-

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possibilità della mediazione, del risultato . È la migliore dimo­ strazione che non v'è in alcun luogo, né in terra né nello spiri­ to mediazione senza immediatezza, e viceversa. l:essere , in quanto immediato, non è il vero - perché non è (non dà) ragione di sé . Viene qui ripresa la distinzione aristo­ telica tra h6ti e di6ti, "che" e "perché". Il "perché" di un fatto, di un "che", non è il fatto; pure non si può non partire dal fatto per dame-trovarne la ragione . La ragione non muove da sé - altrimenti sarebbe essa l'immediato . E come immediato si presenta dapprima, quando viene pensata come "qualcosa" che stia dietro l'essere , quasi l'essenza, che è ragione dell'esse­ re , verità dell'essere , fosse altro essere di contro al primo . Ma l'essenza non è l'essere . Ne è la verità. La verità, che si mostra qui, anzitutto, come negativa. La verità è il "non" dell'essere . La verità non-è essere . l: essenza in quanto verità nega l'essere di cui è verità. Nella sua verità l'essere è la negazione di sé. Qui l"' altro" dall'essere , il "non" dell'essere non sta di contro all'essere, è bensì in esso, è esso medesimo . Siamo qui dinanzi ad un'identità di medesimo ed altro che è tutt'altra da quel­ la del So.fista platonico, da quell'identità di identico e diverso che abbiamo visto caratterizzare l'essere in quanto tale. C 'è da dire allora che per giungere al "divenire " bisogna attraversare l'intera Dottrina dell'essere, e oltrepassarla. Solo l'essenza, in quanto negatività immanente all'essere , è il luogo del diveni­ re . Perché il luogo della negazione dell'inizio . Torniamo al brano citato: «Questa conoscenza è un sapere mediato, poiché non si trova immediatamente presso l'es­ senza e nell'essenza» . Fermiamoci qui : se l'essenza è la verità dell'essere , il sapere di questa verità non appartiene però alla verità stessa, ma è altro - è un terzo . S apere e verità sono due . E giacché la verità non è l'essere , i termini sono tre : essere, verità, sapere . Ma non stiamo ragionando secondo la logica dell'essere? non stiamo enumerando? Forse, però, questo

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"tre" è diverso dal tre della Quantità. Diverso come? Conti­ nuiamo a leggere. Questa conoscenza, la conoscenza dell'essenza, «comincia da altro, dall'essere, e ha da percorrere antecedentemente una via, la via dell'uscir fuori dall'essere o piuttosto dell'entrar­ vi» . Al sapere se non è estranea l'essenza, neppure è estraneo l'essere . Dal quale deve sì uscir fuori, ma solo per penetrare in esso . È un uscir dalla superfìcie per entrare nel profondo . Palesemente le immagini spaziali del linguaggio sono affatto inadeguate . S e l'uscir fuori è un entrar dentro, ciò sta a signi­ fìcare che l'essenza non è altro dall'essere, ne è bensì - come si è detto - la verità: ciò che l'essere da sempre era. H e gel, sempre attento al carattere filosofico del linguaggio, e del tedesco in particolare5, rileva qui, in questo brano d'apertura della \Vesenslehre, che la lingua tedesca «ha conservato l'es­ senza (Wesen ) nel tempo passato (gewesen) del verbo esse­ re ( Sein ); in quanto l'essenza è l'essere passato (das vergan­ gene Sein ), ma passato senza tempo» (WL. , p . 1 3; it. , 433) . Das vergangene Sei n ripete chiaramente l'aristotelico tò tf en eznai , q uod q uid erat esse, ciò che l'essere era, da sempre . M a dice dell'altro ancora. Dice che l'essenza è l'oltrepassa­ mento dell'essere : è sì essere ma in quanto passato , e cioè superato, aufgehoben, conservato solo nel suo oltrepassa­ mento. In questo senso "passato" non è l'essenza, passato è l'essere . N eli' essenza, che ora è presente - il presente attua­ le, wirklich, dell'essere - l'essere è solo "passato". E passato non soltanto in quanto oltrepassato, ma in quanto essendo in potenza la sua essenza, l'essere è sempre, è già da sentpre, il passato dell'essenza. I;essenza è il presente , l'atto dell'essere , che h a gi à d a sempre oltrepassato l'essere . I tempi dell'essere

5 . Cf. la Prefazione alla II edizione della \VL: I, pp. 20-21 , it., I, pp. 10- 1 1 ; e l'importante Anmerkung al § 459 di Enz.

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e dell'essenza si intrecciano, si invertono, e si con-fondono . I tempi e i ruoli . Se l'essenza è il presente, l'atto dell'essere, allora è essa il fatto, il fatto vero, l'esistenza che sempre ci sta dinanzi . L'esistenza essenziale. Che però è tale - essenziale solo poi che ha attraversato il lungo cammino (della Dottrina) dell'essere . Ora è l'essere, l'attraversamento dell'essere, che media l'essenza. Ma cos'è mai questo attraversamento dell'es­ sere, nelle sue fondamentali scansioni della Qualità, della Quantità, della Misura, se non appunto il porsi dell'essenza? L'essenza è l'essere stesso, il movimento dell'essere, fu or del quale semplicemente non è . Ora si mostra chiarissimamente che il non-essere dell'essere , l'essenza, è l'essere stesso dell'es­ sere. L assurdo, l'impossibile , l'impensabile di S everino - è qui pensato ! Essere è N o n-essere . Il divenire è questo . Questa contraddizione , in cui il positivo è il negativo, ed il negativo è il positivo. E lo è, non nel senso che prima non lo era e poi lo è. Lo è già da sempre . Un sempre , però che lo si scopre solo ora. Che appare - e qui il termine ha una valenza semantica molto ampia, comprendendo insieme il significato hegeliano e quello proprio di S everino - solo ora. Ma questo apparire che appare solo ora è pur esso già da sempre , non essendo essenza quella che non appare: Das Wesen muj3 erscheinen (WL, II, p . 124) . Lapparire dell'essenza essendo determi­ nazione essenziale dell'essenza non può mancare . L essenza che ora appare, è già da sempre apparsa. L'"ora" non è ora, è sempre . Di nuovo la determinazione essenziale si flette su di sé , e si nega. Negativa non è solo l'essenza rispetto all'essere, sì anche l'essere rispetto all'essenza . «Il divenire nell'essenza, il suo movimento riflessivo, è quindi il nwvilnento dal nulla al nulla , e perciò il tnov i1nento di ritorno a se stesso» (ib. , p . 24; it. , II, p . 444) . Fuor di questo movimento negativo di ritorno in se stesso, il divenire non lo si intende . Perché non c'è , semplicemente non c'è . Il movimento negativo di ritorno in se stesso è la contra/

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dizione pura, ove il termine pensato è pensato solo come nega­ zione di sé , e questa solo come negazione della negazione . Pertanto l'esempio che Severino fa del divenire : "la legna diventa cenere", non è affatto un esempio di divenire, è solo una rappresentazione di stati successivi: come l'immobile freccia di Zenone. Ma allora cos'è propriamente divenire?

5. Della p ossibilità p ossibile Torniamo al brano citato all'inizio del § 4 . Il sapere , il "terzo", s'interna nell'essere e "trova" (jìndet) l'essenza. Ma questa, l'essenza, in quanto verità, non è altro che il sapere di sé. Non è verità quella che non conosce sé. Una verità inconscia non è verità. Al più è una verità in potenza . Ma la verità in potenza è riconosciuta come tale, come verità, solo quando la verità sa se stessa, sol quando è passata in atto . Quando è negata come potenza. Talché il sapere , il "terzo", è, è-presente, quale "terzo", solo quando la verità non ancora è - non ancora è in atto . Il sapere si distingue dalla verità solo in assenza della veri­ tà. Ma che sapere è quel sapere che in assenza di verità non sa e non può sapere ? È propriamente un non-sapere. Un sapere pur esso in potenza, un voler sapere , un ricercare . Ma questo sapere che ricerca, questo sapere solo in potenza, perché non possiede il vero, non è che il movimento dell'essere . Ovunque si guardi, il "terzo", il sapere , non c'è . Non c'è come terzo, perché è o l'essenza o l'essere . È "terzo" solo quando esse­ re ed essenza si prendono come termini separati . Ma quando sono davvero pensati, pensati come la negazione che nega se stessa, come divenire , il terzo scompare come terzo . È l'esse­ re o l'essenza. lnvero è entrambe , ma non come due, bensì come uno . Ma uno che è insieme due e tre , perché l'essere

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è solo nella sua riflessione negativa nell'essenza, e l'essenza nella sua negazione riflessiva nell'essere . Il sapere , il �'terzo", è solo questo giuoco riflessivo dell'essere che si nega nell'essen­ za e dell'essenza che si nega nell'essere, ove ciascun termine si pensa solo come negazione in altro, e questa, la negazione in altro, come il termine stesso da cui si è iniziato, ovvero come la negazione della negazione . Questo giuoco riflessivo, questa contraddizione, è ciò che Hegel definisce der absolute Gegen­ stofl in sich selbst, l'assoluto contraccolpo in se stesso (ib , II, p. 27; it. , p. 447) . Questo �'contraccolpo" è il giudizio . Il giudizio dell'essenza, ovvero della verità; non il giudizio dell'essere pri nuz e fuori della sua verità, dell'essere astrattamente, cioè intellettualisti­ camente , pensato e posto. N o n il giudizio: "la legna è (diviene) cenere", ove si pretende che due realtà distinte si identifichi­ no, che due stati siano (in) movimento - per il quale giudizio vale l'antica sentenza: rent de re predicare tnonstrunt dicunt ; ma il giudizio: "il possibile è reale", ove sono due tnodalità opposte che si identificano. -

Ora qual è il senso di questo giudizio contraddittorio: "il possi­ bile è reale"? Come fa il possibile ad essere reale ? Vero è che noi pensiamo il possibile a partire dal reale , e cioè - Aristotele docet - come potenza. Che in quanto tale contiene i contra­ ri, essere e non essere . La potenza, infatti, può realizzarsi o non realizzarsi. Ma, pensato come "potenza", il possibile non è possibile in rapporto a sé, ma in rapporto ad altro: in rapporto al reale che da esso può derivare . In rapporto a sé il possibile è necessario, ovvero è necessariamente possibile . Esso ha una struttura, quella appunto del possibile, cui non può sottrarsi . Se invece si pensa il possibile nel suo esser possibile anche in rapporto a sé, allora esso non è solo possibilità di realizzarsi o di non realizzarsi, sì anche impossibilità di realizzarsi o di non realizzarsi . Ma questo significa che il possibile non è, ma

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è-possibile. Vale a dire : esso non ha struttura. Si comprende qui il senso del "tre" essenziale di cui sopra si parlava. Esso è un numero non numerico, perché non definisce stati , ma descrive una particolare forma di rinvio, quella sopra carat­ terizzata come "assoluto contraccolpo in se medesimo" . Per cui non ha senso dire che la possibilità possibile, la possibilità che è tale anche in rapporto a sé non è la possibilità-potenza, la possibilità possibile solo in relazione ad altro . Non avendo struttura, essendo possibilità anche della propria impossibi­ lità, il possibile non è negazione d'altro più di quanto non lo sia di sé , perciò è solo possibile possibilità. Ora il giudizio "il possibile è reale" non solo dice la negazione del possibile nel reale, sì anche la negazione del reale nel possibile . Il divenire è questo: una irrequietezza che non cade mai in un risultato quieto . Nulla è mai divenuto . Tutto diviene . E diviene il dive­ nire stesso, in quanto sempre nella possibilità della sua nega­ zione . La negazione del divenire è ciò che salva il divenire , ciò che lo sottrae ad esser esso medesimo u n "divenuto" - ciò che lo salva dall'essere . Ciò che lo mantiene nella possibilità

possibile. "Il possibile è reale" . Il mistero del possibile è tutto in quel­ la paroletta ( Wortchen: Kant) , nella copula, che è solo non­ essendo, che è solo nella negazione di sé. Ma, appunto : nella negazione di sé - è; non essendo - è . La copula dice certamen­ te che il "possibile è reale", ma non al modo dei giudizi : "il reale è reale", �'il possibile è possibile". L'"è" del giudizio: "il possibile è reale" identifica ed insiente (hanta , sitnul) separa; e cioè: de-possibilita il possibile e de-realizza il reale . Il "terzo", il "sapere", la copula del giudizio, mette in luce il carattere di rinvio della possibilità del possibile, che non è mai, ma solo è-possibile. E d in quanto tale, in quanto è-possibile, è anche . Ma si intenda bene: l'�' è-possibile" non è un cerchio più ampio in cui v'è, ad esso concentrico, il cerchio dell'" è" . Così pensan­ do-dicendo, contrapporremmo ancora una struttura ad un'al-

200 tra. Vero è che il cerchio della possibile possibilità non è né più ampio né più stretto del cerchio dell'" è" . S emplicemente non vi è cerchio del possibile . Il possibile è-possibile . Se scin­ diamo l"'è" di "è-possibile" da "possibile", non abbiamo più la possibilità possibile. Ma se la possibilità è possibilità di sé e del suo contrario, dell'impossibile , come dal possibile al reale? Se nel giudizio "il possibile è reale" il reale resta sempre possibile, quale compi­ to avrà mai ancora la filosofia? C'è ancora spazio per il l6gon did6nai, o non resta altro che il silenzio mistico nella fiduciosa attesa di interiori illuminazioni? La contemplazione da logica si muta in estatica? Niente di tutto questo . La consapevolezza che la domanda è senza risposta non toglie l'esigenza di l6gon did6nai . Anzi, il compito di dare ragione si rivela più arduo proprio là, dove si mostra la necessità di dare ragione del limite del dare ragione . Questo l6gon did6nai , infatti, non giunge mai a compimento, la domanda rimbalzando su se stessa: perché il perché? Ed è già sottrarsi alla domanda credere che i due "perché" siano uno e medesimo .

201 II Prima dell �Essere

(Quod esse praecedit)

Bertrando Spaventa non è certo l'unico filosofo, nella storia, la cui fortuna postuma ha superato di gran lunga quella che gli toccò in vita. E forse non è neppure l'unico caso in cui la maggior fortuna non ha coinciso con una migliore e più profonda comprensione del problema che fu suo. Suo perché ad esso dedicò le sue maggiori e migliori energie - ma che aveva ereditato, attraverso Hegel, dall'intera tradizione filosofica occidentale , che da questo problema è segnata sin dalle sue lontane origini : . . . tò gàr autò noefn estin te kaì efnai. 1

Problema che nella formulazione spaventiana assunse il carat­ tere di un compito, di un progetto : «provare l'identità»2 . Ora, non è difficile mostrare che anche presso quegli stessi cui si deve , anche se per ragioni diverse , la presenza di Spaventa nella cultura italiana del Novecento - e cioè Gentile e C roce3 - la consapevolezza del problema non solo non fu maggiore, Pa rmenide, Fr. 3, TF, pp . 130-131 . 2 . B . Spaventa, Schizzo di una storia della logica, Op, II, p . 644. 3 . Cf. E . Garin, CFI, pp. 19-20. Per un'analisi dettagliata e all'altezza dei problemi affrontati cf. R. Morani, DR. l.

202 ma neppure eguagliò quella di Spaventa . Croce in particola­ re confessava scarsa simpatia per gli scritti spaventiani ed era incline a respingere il problema della relazione del pensie­ ro con l'essere tra le anticaglie della filosofia teologizzante o «metafisica» 4, ritenendo risolto il problema con l'afferma­ zione della spiritualità delle categorie5 . E invece il proble­ ma gli si presentava innanzi più spinoso che mai nella forma della distinzione (che celava una reale, dura opposizione) tra theorezn e poiezn (poiezn, dico, non prattein ), che egli cercò in qualche modo di dominare proprio col postulato dell"'identità" tra le categorie predicati di giudizi e le categorie potenze del fare6• Ma anche Gentile , rifiutando la distinzione hegeliana tra Fenomenologia e Logica, riduceva immediatamente l'essere al pensiero, sottraendosi così all'onere della prova7. Per comprendere l'importanza, che il problema del comin­ ciamento riveste nella meditazione di Spaventa bisogna allora partire da qui: dal problema dell'identità.

4. Cf. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, in EP, pp . 409-410. L'atteggiamento critico-polemico nei confronti di B. Spaventa è rimasto costante in Croce : cf., ad esempio, lo scritto del 1913, "Intorno all'idealismo attuale", raccolto in Cc/II, pp. 71 -72, e gli altri due del 1949, "Le cosiddet­ te Riforme della filosofia e in particolare di quella hegeliana", e del 1951, "Hegel e l'origine della Dialettica", raccolti in IH, pp . 56-58 e 31-32. 5. Cf. B . Croce, LCP, cit., Parte I, Sez. III, cap. III, "La logica e la dottrina delle categorie", pp . 146- 156. 6. Cf. B . Croce, SPA, cit., pp. 38 ss . ; sull'opposizione tra il theorefn ed il poiefn cf. il saggio "La grazia e il libero arbitrio", cit.; sulla distinzione del poiefn dal prattein cf. "Il primato del fare", in FS, cit. , p . 5 nota. Su questi temi cf. retro, P. l, Sez. l, cap. l, e infra, P. Il, Ex-cursus l . 7. Cf. G . Gentile "Il metodo dell'immanenza", RDH, cit., pp . 227-229.

203

I - {;Identità co1ne relazione

l . Sguardo retrospettivo Spaventa eredita il problema dell'identità nella forma in cui la filosofia moderna l'ha elaborato. E cioè nella forma del sogget­ to8• Come dire : dei due termini della relazione - pensiero ed essere - egli privilegia il primo. E la ragione sta in ciò che, muovendo dal secondo termine, dall'essere , non v'è necessità alcuna di trascorrere all'altro. E quando la conoscenza viene assunta come un "ente" accanto ad altri enti nella totalità dell'essere - per cui come c'è la natura, così c'è l'uomo che pensa e conosce la natura - allora non v'è nessuna dimostra­ zione della relazione tra i due . La relazione è solo un "presup­ posto". Così Spaventa, trattando della logica aristotelica: Quel che manca in Aristotele, è la soluzione del probletna della relazione tra le categorie, senza di cui niente s'intende, e l'atto o la fonna del pensare: tra la 1nateria e la fonna logica: in altri tennini, tra la metafisica e la logica . ( Op, II, p. 620)

E, pur riconoscendo che il concetto aristotelico di sostanza ha insieme valore logico e antologico, tuttavia rileva che in Aristotele non è determinata la relazione tra i due : «Dice che son uno; ma non traendoli dall'uno, non li distingue , né li fa uno davvero» (ib. , II, p . 621 ) . Ciò che è importante in questa critica è che Spaventa, pur privilegiando il soggetto, non dimentica però mai che l'elemento fondamentale è, e resta, la relazione . Questo è il suo hegelismo di fondo - la prospettiva a partire da cui giudica le soluzioni che al problema hanno dato i filosofi moderni .

8 . Cf. G. W. F. Hegel, VGPh, 11112, s s . ; it., p . 651 ss .

pp .

66

ss.;

M . Heidegger, N, II, pp . 14 1

204 Anzitutto Kant, al quale riconosce il merito d'aver per primo compreso che il conoscere non è un fatto che si possa assu­ mere come dato naturale ed analizzarlo, essendo al contrario quell'attività riguardo alla quale si pone anzitutto il problema: se e come e possibile . In H urne la filosofia Ilioderna nega se stessa collie filosofia naturale; e in Kant afferma se stessa co1ne filosofia del cono­ scere, come filosofia critica, cioè COllie filosofia della possibi­ lità di conoscere . (Ib. , II, p. 626).

Conoscenza è dunque anzitutto conoscenza di sé - conoscen­ za ri-flessa. Questa ri-flessione esprime il primato del pensie­ ro , che non ha nulla dietro di sé se non se medesimo, che nulla presuppone che sia altro da sé . Che dunque non è un fatto , un dato che si trovi, ma un'attività: l'attività che pone se medesima. Ri-flessione è autoposizione . Qui l'unità di logica e metafisica, che però è solo in potenza nel criticismo kantia­ no. Infatti, più che l'unità delle due , nella filosofia kantiana si trova la riduzione della metafisica a logica . Llo penso da unità sintetica originaria degli opposti - io-mondo, soggetto-ogget­ to , pensiero-essere - si riduce a pura forma soggettiva del pensare che ha fuori di sé il reale , das Ding an sich9• Talché da incondizionato e privo di presupposti che doveva essere, il conoscere decade a condizionato; da assoluto fare a fatto - ad ente tra enti. Kant retrocede alla posizione del naturalismo antico . Nel che è implicito che o il primo termine della relazione - il pensare - riesce a porsi come la totalità della relazione , owero si ricade nel dualismo, e cioè nell'impossibilità di spiegare la relazione e con la relazione il conoscere , e con il conoscere l'essere medesimo. O la trasparenza totale della logica che è

9 . Cf. la critica di Hegel a Kant in GlV,

pp .

310-3 1 1 ; it., pp . 144-145.

205 metafìsica, o la totale oscurezza del naturalismo, ossia di una metafìsica che non sa "giustifìcare", rechtfertigen, se stessa. Di questa ineludibile alternativa fu pienamente cosciente Fichte, che concepì il conoscere come conoscenza di sé che è insieme, uno actu, conoscenza dell'altro. Nulla più resta, così, fuori dell'Io. Nulla è più dato o fatto, tutto si dà, si fa: il sogget­ to ponendo se stesso e il suo altro non è più solo soggetto, ma soggetto-oggetto. Il porre , in quanto assoluto porre, è la totalità della relazione . Ma che tipo di totalità? Una totalità ancor tutta soggettiva dice Spaventa, seguendo da vicino Hegel critico di Fichte10 • Ma che signifìca qui totalità soggettiva? Il soggetto, ponendosi come relazione di sé con sé e con l'altro da sé , non ha superato la propria "iniziale" soggettività? L'avrebbe, se l'un termine non fosse dominante rispetto all'altro - se cioè anche nell'altro termine della relazione si riconoscesse la totalità della rela­ zione . Il che non accade in Fichte, ma in Schelling. Osserva Spaventa: per Fichte «l'Io come S e stesso dev'essere se stes­ so e l'altro» ; per Schelling «perché il conoscere sia reale, l'Io dev'essere nel non-io, cioè il non-io dev'essere non-io ed lo» ( Op, II, p. 636) . Con Schelling viene in primo piano l'identità degli opposti, la vera, reale e non formale, unità sintetica origi­ naria. Ma, se la natura è spirito e lo spirito è natura, è allora necessario un organo che abbia dell'una e dell'altro e che sia insieme oltre l'una e l'altro, perché possa conoscere la loro identità. Quest'organo è l'intuizione intellettuale - che coglie l'identità oltre la differenza. Questa intuizione intellettuale è il medio, la relazione pensiero-essere : la realtà di pensiero ed essere . Spostando l'attenzione da uno dei termini del rappor­ to al rapporto medesimo, Schelling rende reale quella totalità che in Fichte è soltanto possibile . Che l'io per conoscersi abbia

10. Cf. retro, P. l, Sez. l,

cap .

l.

206 da porre insieme con la relazione a sé la relazione all'altro, non testimonia punto della realtà dell'altro e quindi della realtà del sé. S e la filosofia antica ha dimostrato l'indeducibilità del pensare dall'essere, la filosofia moderna prova l'indeducibilità del reale dal possibile . L'identità fìchtiana - rileva Spaventa è un se: una relazione necessaria, ma solo possibile. Schelling ha oggettivato questa relazione coll'intuito; ed ecco la natura: il reale. (Ib. , II, 638 ) . -

Ma in tanto l'identità ha forza, potenza (Kraft) "realizzatrice", in quanto si mostra come da essa derivano gli opposti . La rela­ zione - l'identità, l'auto - deve fare quanto né il pensiero né l'essere possono fare : deve porre i suoi termini . Ma questo è proprio quanto l'intuizione intellettuale non è capace di fare, non può fare, perché - dice Spaventa - è un atto immediato : «una logica, che non è logica» (ib. , II , 640) . L'intuizione intel­ lettuale non spiega l'identità - semplicemente la presuppone11 . Solo la logica discorsiva può spiegare (es-plicare ) l'identità, mostrando come da essa derivino pensiero ed essere, coscien­ za ed inconscio, io e non-io, spirito e natura; e questo significa dinwstrare, provare l'identità. L'identità si prova dimostrando la sua potenza realizzatrice, la sua capacità (Kraft) produtti­ va. Fin quando resta un presupposto non va oltre la natura di Spinoza, oltre il parallelismo tra ardo rerutn e ardo idearunt.

2.

La distinzione tra Fenomenologia e Logica

Spaventa sa bene di muoversi tra opposte esigenze : per un verso si è dovuto allontanare dal puro pensiero (noezn) verso il 1 1 . È, questo, il perno della critica di Hegel a Schelling: dal noto paragone dell"'immediato inizio dall'assoluto" con un "colpo di pistola" (PhiiG, p. 26; it., p. 22) alla presentazione della sua filosofia in VGPh, 11112, pp. 375-409.

207 centro della relazione - l'identità, tò autò - per dare "realtà" al conoscere meramente "possibile" di Fichte ; per un altro deve tenere il centro ben legato al polo soggettivo, se non vuole rinunciare a spiegare l'identità . Il primato del conoscere non è facilmente accantonabile . Come , allora, dar ragione a Fichte senza smentire Schelling? In questa domanda è racchiuso il senso della RlosoRa moderna - la sua capacità di dare ragione di sé e della RlosoRa antica, la sua capacità di porsi oltre le opposte unilateralità dell' ontologismo e dello psicologismo . E la grandezza di Spaventa, dell'opzione hegeliana di Spaventa sta appunto nell'aver capito questo - anche meglio di quelli che lo seguiranno12 . Dunque : come portare l'identità alla logica - al pensiero senza negarne la ��realtà"? Come provare logicamente l'identi­ tà, senza perciò stesso renderla meramente "possibile" ? S crive Spaventa: Provare l'identità come 1nentalità è provare la creazione, giacché l'identità co1ne 1nentalità è appunto l'attività creativa; dunque risolvere il proble1na del conoscere è provare la crea­ zione . (Ib. , II, 644 ) .

L'identità come mentalità è la relazione riportata al pensiero - è il riconoscimento del primato del pensiero. Provare l'iden-

12. A. Plebe, in Sat e SaN, ha sollevato forti riserve sull,..hegelismo" del filosofo abruzzese, valutando la sua posizione più vicina a Kant e a Fichte che non a H e gel. La critica di Plebe, che ha suscitato l'aspra reazione di F. Alderisio (cf. RS, pp. 75- 146), non tiene in debito conto il ruolo che la Fenomenologia dello spirito giuoca nell'inte1pretazione spaventiana di H egei, pertanto neppure è in grado di misurare l'effettiva distanza che separa Spaventa dall'attualismo (senza voler qui nulla anticipare di quanto si dirà nella seconda parte di questo capitolo riguardo al limite antologi­ co del pensiero, la cui definizione segna il reale superamento di Hegel da parte di Spaventa; ma su ciò, cf. P. II, cap. IV). Sulla 'controversa' eredità spaventiana si veda l'equilibrata conclusione di l. Cubeddu in B S, cap. IV "la metafisica pe1plessa", spec. pp. 298-301 .

208 tità come mentalità significa allora di-tnostrare la realtà del pensiero. Ma questo può esser fatto seguendo due diverse , ed anzi opposte, vie argomentative: la prima che muovendo dal pensiero mostra la "genesi" dell'essere; l'altra che muovendo dall'essere , dal reale, mostra la "genesi" del pensiero. Spaven­ ta, con Hegel, percorre entrambe queste vie . Di più: mette in luce la necessità di seguire la via che muove dall'essere, dal reale , prima di quella che muove dal pensiero. E infatti, se l'identità in sé è tnuta - il discorso è solo del molteplice - non c'è altro modo di provarla che muovendo dall'uno o dall'altro dei suoi estremi . S olo scorrendo la relazio­ ne , la si prova, la si di-mostra . E splicare la relazione - ovve­ ro : provare la creazione - significa allora non: procedere dal silenzio dell' O no all' effabilità dei molti, ma: dire l'unità dei molti, l'unità nei molti . Che è poi il programma antischellin­ ghiano da Hegel esposto nella Vorrede della Fenotnenologia

dello spirito : La forza dello spirito è grande quando la s ua estrinsecazione, la sua profondità profonda nella Inisura in cui, esplicandosi, ardisca di espandersi e di perdersi. (PhiiG, p. 1.5 ; it. , I, p. 8) .

Nella rivendicazione del discorso logico contro das prophe­ tische Reden, contro das begriffs lose Wissen, contro il sape­ re aconcettuale del parlare profetico, Hegel affermava il suo immanentismo, la sua esclusiva attenzione al mondo, alla determinatezza determinata delle opere . Dio - dirà - si cono­ sce solo nelle opere (WL, II, p. 404; it., II, p. 803) . Spaventa lo segue con rigorosa coerenza. A respingere la tesi crociana che la riflessione di Spaventa era mossa più da intenti teolo­ gici che non filosofici, basterebbe ricordare l'insistenza di questi sulla priorità della Fenomenologia rispetto alla Logica. Muovere dalla Fenomenologia significa per Spaventa muove­ re dal reale, dal fatto, per ritrovare in questo il pensiero, l'atti­ vità. Solo così !'�'oggettività" della scienza non sarebbe rimasta

209 chiusa nell'ambito del pensare . Ritrovare il pensiero nell'esse­ re era il primo compito che il programma «provare l'identità» dettava. Gentile proprio questo non intese . La critica che mosse a Hegel riguardo alla distinzione tra Fenomenologia e Logica, rappresenta un effettivo arretramento rispetto alla posizione di Spaventa. Gentile vide in quella distinzione la separazione del pensiero dalla verità: Il processo dialettico della FenolTienologia [ . . . ] non è un processo dentro la verità, lTia un processo alla verità: la quale non è concepita perciò co1Tie identica al pensiero: lTia sopran­ nuotante ad esso, co1Tie le idee platoniche all'anilTia infiatTI­ lTiata da E ros, e coiTI e l'intelletto attivo all'intelletto passivo di Aristotele . (RDH, p. 227).

E invece quella distinzione aveva il compito di assicurare la realtà al pensiero, la realtà del pensiero - e cioè l'immanen­ za reale e non soltanto possibile (alla maniera fichtiana) della verità al pensiero . La cosa - die Sache, la questione - è del tutto esplicita in Spaventa. Egli sa bene che due sono i processi che hanno corso nel medesimo iter fenomenologico: quello della coscien­ za naturale o del sapere apparente (erscheinendes Wissen ) e quello della «libera scienza muoventesi nella sua figura peculiare»13 . Ora solo dal punto di vista del sapere apparente l'itinerario fenomenologico è il cammino dal pensiero «non vero» (in termini hegeliani : del «concetto del sapere , ossia del sapere non reale»14) alla verità, e cioè il processo negativo della coscienza naturale che la realizzazione del sapere toglie .

13. PhiiG, p . 67; it. , I, p . 69. Sul tema cf. M . Heidegger, Hegels Begriff der Erfahrung, Hw, spec. pp. 130-132; it., pp. 128- 130. 14. «Das natiirliche BewuBtsein wird sich erweisen, nur Begriff des Wissens oder nicht reales Wissen zu sein» (PhiiG, p . 67; it., p. 69) .

2 10 Dal punto di vista del sapere assoluto (e cioè del vero sapere) la verità non è estranea al processo, anzi ne è la base, il fonda­ mento; meglio: è l'orizzonte entro il quale l'itinerario fenome­ nologico si compie. Con tutta chiarezza Spaventa osserva: Non è la certezza sensibile, che prova l'assoluto conoscere, 1na questo, che provando se stesso, prova quella. ( Op, II, 665 ) .

Ma Gentile non è neppure entrato nel problema di Hegel - che è poi il problema della filosofia occidentale , il proble­ ma dell'auto, del medesimo che tiene insieme , che con-tiene pensiero (noezn) ed essere (eznai ) - dal momento che, veden­ do solo il processo negativo della coscienza naturale e non l'al­ tro sotteso a questo del sapere assoluto (della libera scienza), neppure può rendersi conto della necessità del primo . Che è la necessità di provare la presenza del sapere nel non sapere, della scienza nella coscienza, del pensiero nell'essere , o, nei termini di Gentile, della verità nel pensiero. Proprio quando al termine del viaggio fenomenologico l'assoluto sapere ( la veri­ tà) si mostra presente nella coscienza sensibile (cf. PhiiG, p . 563; it. , II , pp . 303-304) , appare chiaro che l'oggettività del pensiero non è un'oggettività solo possibile , ma reale: che il soggetto-oggetto hegeliano non è meramente soggettivo. Che l'identità non è solo dei termini della relazione, ma scorre in tutta la relazione , da un estremo all'altro : dall'oggettivo al soggettivo. Gentile resta chiuso nella posizione fichtiana, perché nell'i­ tinerario fenomenologico vede soltanto un' «eco del naturali­ smo schellinghiano» - owero : la persistente presupposizione del fatto all'atto, del certo al vero, della natura allo spirito . A Gentile sfugge l'essenziale del rapporto Fenomenologia­ Logica: il circolo tra Primo e Ultimo, che Spaventa lucida­ mente spiega: Forse che la certezza sensibile, da cui io ho cominciato, sia dawero il primo, e l'assoluto conoscere a cui sono arrivato, sia

21 1

davvero l'ultilno, che quella abbia prodotto questo, e non al contrario? Così pare; tna in verità non è così. lo devo conclu­ dere che l'assoluto conoscere ha prodotto la certezza sensibi­ le, l'ultilno il prilno, e che perciò quel che appariva prilno è un falso prilno. Tutto quel processo, che pare produzione di un altro, di un secondo o ultilno da un primo, è il vero prilno cotne produzione di se stesso. ( Op, II, 665) .

Completamente estraneo a questi problemi rimase Croce, per il quale la distinzione tra Fenomenologia e Logica «ha origine in concetti didascalici, come sarebbero quelli di corso introduttivo e corso sistematico e altrettali» ( SH, p . 1 74) . E qui veramente il significato stesso delle parole è travisato, che non vengono prese nell'accezione hegeliana ma secondo quella comune e corrente che Hegel respingeva. Il caratte­ re propedeutico della Fenomenologia ha ben altro senso che quello didascalico : esso indica l'iter negativo della coscienza naturale che introduce nel movimento che s'attua contetnpo­ raneatnente nel profondo, e che è il movimento, come si è detto, del sapere ab-solutus, sciolto, libero dalle opposizioni della coscienza (anzitutto da quella tra pensiero ed essere ) . È ben evidente che , se si muove dalla posizione della coscienza naturale, il «primo fenomeno» - come giustamente osserva Spaventa - «si ammette, non si prova», perché non è sapere . S e si provasse, non sarebbe più fatto ma sapere. E invece non è sapere , e non deve essere sapere, quando viene preso come printo fenorneno. Altrimenti non sarebbe possibile mostrare nel fatto l'atto , nel non-sapere il sapere, nell' eznai il noezn. N o n sarebbe possibile «provare l'identità» . Attaccandosi alle paro­ le , senza penetrarne il significato, Croce all'affermazione di Spaventa che il «primo» della Fenomenologia «non ha bisogno di prova» , o bietta: «quasi che ci sia qualcosa nel mondo del pensiero che non abbia bisogno di prova, cioè di essere pensa­ to» (ib. , p. 1 76) . E qui non c'è altro da replicare se non dicen­ do che Croce ha ragione : certo nel mondo del pensiero tutto

2 12 dev'essere provato; particolarmente dev'essere provato come pensiero ciò che al suo printo apparire sembra non-pensiero. Ed è ciò che intende Spaventa con Hegel, seguendo Hegel. Del resto Croce era più vicino alla posizione che criticava di quanto egli stesso non immaginasse. Contro Spaventa, ed appoggiandosi a Hegel, negava che in filosofia potesse darsi . un «pnmo» : In filosofia il prhno è anche l'ulthno. E questo è il genuino pensiero dell'Hegel, che la scuola ha falsato . [ . . . ] Il coinincia­ Inento, dunque, non può essere se non apparente o conven­ zionale, e, in questo senso, variabile secondo i tempi e gli individui. (Ib. , p. 179).

Un fatto, quindi, e cioè: un non ancora pensato. Solo che il circolo hegeliano, a cui Croce esplicitamente si richiamava, è tutt'altra cosa da quello che qui è detto . Il "cominciamen­ to" non varia secondo i tempi e gli individui e non è nulla di convenzionale . Come pritno fenomenologico non può che essere un fatto, il primo "dato" reale della coscienza; come prhno logico o scientifico non può che essere l'Essere : l'Esse­

re, il puro essere - senza nessun altra detertninazione. Perché ?

213

II - {; Identità oltre la relazione

3.

Il Pri mo logico

Perché, se per provare l'identità, si è dovuto cercare nell'esse­ re il pensiero, nel fatto l'attività, è chiaro che, passando all'al­ tro estremo della relazione, e necessario trovare in esso il suo opposto: nel pensiero l'essere . N e consegue che il vero, reale problema di Spaventa non fu tanto quello di mostrare sin nelle prime categorie della Logica hegeliana - essere, non-essere , divenire - l'attività del pensiero, come avevano già fatto Karl Werder e Kuno Fischer, quanto l'altro ed ulteriore di rivelare la presenza dell'essere al pensiero, e ciò proprio continuan­ do ed approfondendo in modo originale l'interpretazione di Werder e Fischer. Si è già detto dei due processi che avvengono lungo il mede­ simo itinerario della Fenonzenologia: quello negativo della coscienza naturale e l'altro del sapere assoluto che attua se stesso nelle varie figure del sapere apparente; e come il primo funga da introduzione al secondo . Il carattere propedeutico della Fenonzenologia eccede però l'ambito fenomenologico. Una volta che il sapere assoluto si è mostrato come la veri­ tà della certezza sensibile, una volta cioè che il pensiero si è mostrato nel fatto, nell'essere, dall'uno estremo della rela­ zione - o identità, tò aut6 - si è passati all'altro: dall'eznai al noezn . La Fenomenologia introduce nella Logica. Il circolo Primo- Ultimo, comprendendo in sé entrambe le scienze, fa sì che il risultato della prima sia l'inizio della seconda. Il che toglie la contraddizione che sembra insita nella stessa dizione : «primo scientifico» - che per essere «scientifico» dev'essere provato, e per essere «primo» non deve avere nessuna prova. E infatti la prova di questo primo scientifico - o primo logico - cade fuori della Logica, nella Fenomenologia appunto . E qui si mostra anche la differenza essenziale che corre tra la

2 14 Fenomenologia e la Logica: il primo jeno1nenologico non può essere provato, non deve (se non alla fìne - ossia quando è tolto , aufgehoben, come primo) ; il printo logico, al contrario, deve essere provato . Che qui Spaventa segua fedelmente Hegel, è del tutto eviden­ te . Il problema affrontato, però, se è hegeliano, non è solo hegeliano. È il problema dell'intera nostra tradizione fìlosofìca. Si impone anche a chi tenta di respingerlo . Come nel caso di Croce . In uno dei suoi ultimi scritti, dedicati alla Dialettica ed alla sua origine, Croce, riprendendo negli stessi termini dei primi anni del secolo la polemica antispaventiana, osserva: [ . . . ] non ho mai cotnpreso la giustificazione della ricerca, che è piaciuta a filosofi anche grandi, del primo concetto che la tnente pensa e sul quale si fonderebbero tutti i concetti susseguenti . È tnio convincitnento, e sarà forse tnia litnita­ tezza, credere fermmnente che l'uomo ad ogni istante pensa il tutto, non essendo possibile pensare un concetto senza tnetterlo in relazione con gli altri via via occorrenti, e che di volta in volta appaiono cotne un tutto. Perciò, fin dall'inizio, scansai la tnetafisica e delineai una setnplice Filosofia dello spirito, fondata su una tetrade di concetti supren1i , nella quale ciascuno di essi si ditnostrava d'infinita fecondità nell'ordine dei probletni a cui presiedeva. (IH, p . 29 ) .

I «concetti supremi» non sono altro che i «primi» concetti su cui si fondano le scienze ( estetica, logica, economica, etica nella non-metafisica fìlosofìa dello spirito) . S ono il contincia­ n1ento. Il fatto che essi debbano esser pensati insieme, confer­ ma il carattere unitario del cominciamento. Il problema, allo­ ra, è di provare perché si debba iniziare da essi e non da altri - e ancora: se la prova ( dimostrazione, mediazione ) che si debba iniziare da essi o da altri o da altro, sia in loro stessi owero in altro . E questo non è un problema di scolastica hege­ liana, se è già problema per Aristotele . E problema più che non soluzione : perché del supremo principio di non contrad=

215 dizione Aristotele per un verso nega la possibilità di dimo­ strarlo, reggendo esso ogni dimostrazione, per un altro pur ammette una dimostrazione indiretta, l'elenktikos apodezxai , che, facendo cadere la petizione di principio (l' aitezsthai tò en arche) sull'awersario della suprema legge del pensare, ne prova l'innegabilità ( cf. Met, IV, 1 006 a 5-1 8 ) . Senza la dimo­ strazione per via di confutazione il principio di non contrad­ dizione non si mostra necessario - non si mostra principio . E tuttavia questo mostrarsi vale solo per noi, non per sé, non per il principio . Il principio è necessario katà physin anche prima di mostrarsi tale . Ma questa necessità di natura può essere affermata solo dopo: dopo che il principio si è mostrato. Il circolo è evidente15. Ma prim' ancora che per Aristotele fu problema per Platone - il quale se riconosceva alla dialettica il 15. Secondo E . Berti ("Il principio di non contraddizione come crite­ rio supremo di significanza nella 1netajisica aristotelica", SA, pp. 61-88) il rapporto circolare tra il p.n.c. e la sua dimostrazione rivela il carattere «processuale, discorsivo, noetico e dianoetico insieme, cioè dialettico» (p. 79) del principio stesso. La suggestione hegeliana (cf. 1-VL, l, pp. 70-71 , II, p. 570; it., I , pp. 56-57, II, 954) è palese. Ora, però, s e è giusto dire che «il principio di non contraddizione è inclusivo della stessa argomentazione con cui viene giustificato» (p. 78) in quanto la dimostrazione confutatoria è retta dallo stesso p.n.c., non sembra possibile affermare - come esigereb­ be la dialettica del circolo - che l'argomentazione sia inclusiva del princi­ pio, in quanto il p.n.c. non dipende dalla dimostrazione ( «tÌ alethès einai chorìs apodefxeos» : Met. , IV, 4, 1006a 27-28) . Se vi dipendesse, allora dopo l'argomentazione che lo giustifica dovrebbe essere diverso da prima : più saldo, almeno. Si riprodurrebbe, cioè, il rapporto tra l'an sich ed il fii r sich di Hegel, con tutte le sue aporie. Anzitutto: come parlare del p.n.c. an sich ( = prima dell'argomentazione che lo giustifica) , se dirlo, mostrarlo è dimo­ strarlo, in linguaggio hegeliano: «parlo», renderlo «fiir sich»? Si potrebbe dire, distanziandosi dalla posizione hegeliana, che la dimostrazione per via di confutazione esplica il principio com'esso è katà physin , indipendente­ mente dalla dimostrazione stessa. E, cioè, che l'esplicazione del p.n.c. non ha alcuna influenza su di esso: concerne noi - i parlanti - e non la cosa stessa - il Principio -. Solo che qui i parlanti sono la cosa stessa: il p.n.c. è il prin­ cipio del discorso. Se non si può negare l'influenza dell'argomentazione che

2 16 potere di volgere «in alto l'occhio dell'anima», sì da dimostrare insieme le conclusioni e i principi - eliminando le ipotesi pur anteponeva al pensiero noetico il dianoetico, il pensiero discorsivo che muove da ciò che non è provato, che non è ancora provato (Repubblica, VI , 533 b-e) . Dunque, come si accennava, il problema hegeliano del rappor­ to Fenomenologia-Logica si ricollega, per questo aspetto , ad una tradizione che ha origini antiche . Spaventa lo riprende nella piena consapevolezza della sua sto-ri cità . Vale a dire : è consapevole che il problema del cominciamento logico è il problema della fìlosofìa - del primo gesto della fìlosofìa che, se abbandona la d6xa per l' epistétne, l'opinione vagante per la conoscenza stabile , deve anzitutto rendere stabile il proprio inizio . Stabile - e cioè : logicamente necessario .

Logicatnente - e non soltanto fenomenologicamente . Il problema si riapre là dove sembrava chiuso. E infatti, una volta che dal polo della Fenomenologia si passa al polo della Logi­ ca, la dimostrazione (la prova) del "primo" dev'essere corri­ spondente alla natura di questa. In altri termini : il pensiero che si è mostrato nel fatto, nell'essere , deve ora provare se stesso nel proprio elemento iuxta pro pri a pri ncipia . Il circo­ lo Primo-Ultimo torna in movimento - ora nel più ristretto ambito della Logica, ché solo come Ultimo il Primo può esse­ re prov ato . Questo implica, anzitutto, il ritorno all'immediato . Come dire: il primo logico dev'essere il concetto più povero - quello che si è spogliato di ogni mediazione precedente­ mente ottenuta a livello fenomenologico . Ora, il risultato della Fenontenologia è il sapere assoluto, il sapere liberato dall' op­ posizione soggetto-oggetto, e cioè : l'essere in tutta la ricchezza delle sue determinazioni in quanto pensiero . La logica, quindi,

giustifica il principio sui parlanti, non la si può negare neppure sul principio. - Come si vede il circolo non scioglie il problema - lo evidenzia.

217 al suo inizio ha da prendere questo pensiero nella sola forma della semplice relazione a sé, separandolo dal suo contenu­ to determinato e , quindi, dal cammino percorso. Sottrarre al pensiero la ricchezza delle sue determinazioni e separarlo dall'iter fenomenologico sono un solo atto. Quale la natura di questo atto? S crive Hegel all'inizio della Wissenschaft der Logik: Non si ha altro [ . . . ] salvo la risoluzione (Entschluss ), che si può ritenere arbitraria, di voler considerare il pensare cotne tale . Cosi il cotninciatnento dev'essere un cotninciatnento assoluto o, ciò che in questo caso significa lo stesso, un cotnin­ cimnento astratto. Non può così presupporre nulla, non deve essere tnediato da nulla, né avere alcun fondamento ( Grund); anzi dev'essere esso il fondmnento di tutta la scienza. Dev'es­ sere quindi setnplicetnente un hntnediato, o, tneglio, soltanto l'imtnediato stesso . Come non può avere una detenninazio­ ne di fronte ad altro, così non può nemtneno avere alcuna detenninazione in sé, non può racchiudere alcun contenu­ to, perché una tal determinazione o contenuto sarebbe una distinzione e un riferirsi di diversi l'uno all'altro, epperò una tnediazione. Il cotnincimnento è dunque il puro essere . (WL, I, pp. 68-69; it. , I, p. 55) .

È, questo, un passo fondamentale : solo muovendo di qui è possibile intendere il senso delle prime categorie della Logica. Viene anzitutto in primo piano che l'atto della separazione del sapere dal suo contenuto è un atto di volontà - Hegel lo defi­ nisce qui arbitrario . E sso non separa solo l'inizio della Logica dal risultato della Fenomenologia, ma nel "presente" stesso della Logica la pura forma - la semplice relazione a sé - dal contenuto . Il cominciamento logico è in ogni senso immedia­ to, anzi l'immediato stesso, perché non solo è tolta la media­ zione del "passato" fenomenologico, la mediazione da altro, ma anche la mediazione che caratterizza il "presente logico", la mediazione di sé con sé, l'auto-mediazione .

2 18 All'inizio della Logica, dunque, c'è un atto di volontà - che è atto di separazione, di astrazione . Si astrae dal contenuto concreto del pensiero la pura forma, la semplice relazione a sé : l'essere, il puro essere - senza nessun'altra determinazio­ ne . Spaventa coglie benissimo questo passaggio : Pensare, setnplicetnente pensare, pensare l'Ente, il pensa­ re logico è essenziahnente risoluzione, deliberazione (vole­ re ) [ . . . ] lo mi risolvo a cominciare, cominciare a pensare, ad astrarre da ogni detenninazione del pensare : ad astrarre assolutmnente . - Questo ri solvenni assoluto è la vera radice, il tnotore del pensare ( Op , I, 384).

La volontà, dunque, all'origine del pensare. Se si considera che qui siamo al pensiero dell'origine, al pensiero originario, la volontà va allora definita come l'origine dell'origine .

Wollen ist Urseyn - potrebbe Spaventa ripetere con Schel­ ling16. Ma quello che qui interessa non è una caratterizzazio­ ne storica: l'appartenenza della meditazione di Spaventa alla metafisica della volontà che rappresenta il compimento della filosofia moderna della soggettività; è piuttosto il significato che assume la volontà che è all'origine del pensiero logico all'interno del problema-programma «provare l'identità» .

4. Essere, pu ro essere - senza nessun �altra determinazione Dunque l'essere , il puro essere - oh ne alle weitere Bestint­ nzung - è il Primo, il cominciamento . Che esso non abbia presupposti, non abbia nulla alle spalle, lo sappiamo : la volon­ tà ha tagliato i ponti con la Fenomenologia; ma ora la doman­ da è altra: questo essere, questo puro essere è adeguato allo

16. Cf. F. W. J . Schelling, Ph U\VmF,

p.

2382; it. ,

p.

40.

219 scopo di fungere da Grund, da fondamento dell'intera scien­ za? Vale a dire : è possibile ��dedurre" dalla pura relazione a sé del pensare, dal semplicissimo astratto essere , il contenuto del pensare , l'essere nelle sue determinate determinatezze, l'infinita ricchezza e varietà degli enti? È una domanda fonda­ mentale - solo una risposta positiva a tale domanda consente il superamento del �'formalismo" kantiano , della separazione del pensiero dall'essere . C onsente, cioè , di provare l'identità: l'identità tra l'andamento del pensiero e quello della cosa stes­ sa (cf. WL, I, pp . 35-56; it., pp. 23-42) . Ben si comprende allora l'impegno degli interpreti di Hegel per rispondere all'obiezione di Trendelenburg, secondo il quale tra Essere e Nulla v'è identità ma non differenza, essen­ do entrambi indeterminati, anzi l'Indeterminato stesso; e se non v'è differenza, neppure v'è passaggio dall'uno all'altro, neppure v'è divenire . Il puro essere [ . . . ] è l'essere vuoto, il nulla, e l'essere vuoto è il puro essere. L'uno è ciò che è l'altro. Entrmnbi sono iden­ tici [e in] questa identità della riflessione [non c'è] traccia di un'unità viva, in cui il nulla nell'essere e l'essere nel nulla assutnano una reale figurazione.

Hegel pertanto non spiega il divenire, ma ve lo aggiunge dal di fuori, portando surrettiziamente nella logica l'intuizione esterna, «l'immagine del movimento reale» . Così operando, non si mantiene fedele al «metodo dialettico del puro pensa­ re» che non presuppone nulla, tutto dovendo dedurre da sé17.

1 7. F. A. Trendelenburg, LF, pp. 16 e 12. Aveva già scritto nelle L U: «Dal puro essere, confessata astrazione, e dal nulla, parimenti confessata astrazio­ ne, non può nascere improvvisamente il divenire, quest'intuizione concreta che domina vita e morte» (p. 39) . Per Trendelenburg nel sistema hegelia­ no «la forza dell'unità sulle estreme opposizioni poggia, sull'identità di una composizione priva di forza. La sintesi reale è introdotta dall'esterno» (LF, p . 16) .

220 Karl Werder, pur senza fare esplicito riferimento alle Logi­ sche Untersuchungen di Trendelenburg, replicava che l'inde­ terminatezza dell'essere non designa un «oggetto vuoto», ma l'assenza di determinazione che è propria della forma pura del pensare che, nella sua infinita determinabilità, lascia cadere anche la determinazione della soggettività, in quanto anco­ ra limitata . L'indeterminatezza e quindi l'infinita potenza di autodeterminazione del pensiero, la cui negatività è espressa dal nulla, che pertanto non dice tneno ma più di "essere": Quando dico Nulla s o di più che quando dico Essere - perché quello è di più, è ciò che si rivela, squarciando il proprio velo; perché è il nudo Essere, lo spirito dell'Essere, l'Essere nell'Essere. N el Nulla l'Essere rompe il silenzio in sé di se stesso. Il Nulla è la riflessione (Besinnung - Spaventa tradurrà con «accor­ ghnento» ) dell'Essere, l'aprirsi in lui del suo senso; il suo sguardo in sé, il punto in cui sorge la sua originarietà. Nel Nulla si svela la sacrosanta duplicità di senso della vuotezza dell'Essere. Che esso nient'altro è che l'Essere-stesso, l'Es­ sere Inediante se stesso, pieno unicmnente di se Inedeshno - questo dice la sua vuotezza, questo dice il Nulla. Il Nulla è cosi il sapere dell'Essere riguardo alla sua pienezza, al suo cotnphnento a partire da sé, riguardo al suo libero agire, alla sua auto-creazione; - e nell'attualità (in der Energie nell'en érgheia ) di questo sapere che si muove in se Inedesimo Essere non dice più Essere, ma Divenire . (Logik, cit . , p. 41). =

Kuno Fischer muove anch'egli dalla constatazione che l'E s­ sere con cui inizia la Logica è l'essere del pensiero: «come in generale sarebbe possibile , se non fosse concetto, se non fosse oggetto di pensiero?» L'Essere - la prima e più sempli­ ce categoria - esprime l' «unità indifferenziata» della copula che nei giudizi unisce immediatamente soggetto e predicato . Non rappresenta quindi nulla di determinato, neppure quel­ la minima determinazione che è propria dell'«oggetto indi­ pendente dal pensiero». E , infatti, in quanto indifferenziato,

221 l'Essere non ha caratteri che lo distinguano dal pensiero. E tuttavia «si distingue pensiero e essere»: l'uno come soggetto pensante, l'altro come oggetto pensato . Ma, ancora, lo stesso pensare in quanto si conosce , in quanto oggetto di conoscen­ za o pensato, cade nell'ambito dell'essere . Lessere , che come concetto dell'Indifferenziato «esclude da sé ogni distinzione», «include l'attività pensante che è attività distinguente e senza di questa chiaramente sarebbe impossibile come concetto» . Talché l'Essere affe rma e nega il pensiero. In quanto concetto è atto del pensiero; in quanto Indistinto nega anche la distin­ zione pensante/pensato che e propria del pensare . Similmen­ te il pensiero, che in quanto pura indeterminata possibilità di concetti si identifica col mero essere , e in quanto attività concepente si distingue da esso. Pensare ed essere sono identici. Pensare e d essere sono non identici. L'Identità è spiegata nel concetto dell'E ssere; la non-Identità nel concetto di non-Essere . 18

Questa la contraddizione intrinseca all'Essere - al concetto di E ssere ; contraddizione con cui Fischer spiega il divenire , senza uscire dal pensiero puro. La riflessione di Spaventa si riallaccia direttamente ed esplici­ tamente a quelle di Werder e di Fischer. «Perché l'Essere è il Primo?» - si chiede; e risponde : Tutte le altre detenninazioni del pensare [ . . . ] presuppongo­ no l'E ssere; io non posso pensare e dire nulla, se non penso e dico l'Essere; e l'E ssere dal canto suo non presuppone veru­ na detenninazione del pensare: nessun'altra categoria ( Op , I, p . 370) .

1 8 . K. Fischer, SLM, pp . 194-198. Sulle tesi di Trendelenburg cf. pp . 137-164 e 199-204. Su Werder e Fischer cf. V. Verra, SF1'0 .

222 l: essere è la possibilità stessa del pensare . In esso sono entram­ bi i lati del pensiero: il noetico ed il noematico. Il noetico, in quanto l'essere è il pensiero stesso, il pensiero pensante ( astraente ), ma questo, in quanto fa astrazione da sé, in quanto non considera sé, è solo pensato: il noema, l'astratto in cui l'astrarre si oblia, o si estingue . Si estingue senza estinguer­ si - perché l'essere , la suprema astrazione, è per l'astrarre , è l'astrarre medesimo . Qui la distinzione che non è opposizione tra essere e pensiero, ma è l'identità-differenza che spiega il divenire : =

L'essere si contraddice, perché in quanto Essere si 1nostra N o n Essere (in quanto astratto si 1nostra astrazione ; in quan­ to Essere si 1nostra Pensare) ; in quanto è l'Essere che è il Non

essere. N o n sono due esseri: l'Essere che è l'Essere, e l'Essere che è il N o n essere; 1na è l'Essere che è il N o n Essere; è N o n Esse­ re, in quanto Essere . Se fossero due Esseri, non ci sarebbe contraddizione . La contraddizione è che sono uno Essere, lo stesso Essere . - Sono Uno; e nondilneno distinti, differenti. Identità e differenza: questa è la contraddizione. La contrad­ dizione, ripeto, è l'Essere che è il Non Essere . - È una contraddizione hrunanente nell'Essere. (Ib. , l, pp. 380 - 8 1 ) .

Sin qui nulla di nuovo rispetto a Werder e Fischer - almeno nell'essenziale . Pure del nuovo c'è, ma giace più in fondo. A scoprirlo ci aiuta, per contrasto, Gentile . N ella Rifonna della dialettica hegeliana, criticando insieme Spaventa e Fischer, Gentile osserva che l'essere, in quanto risultato dell' astra­ zione, è posto come la «negazione assoluta del pensare» , come l'assoluto altro dal pensiero, in cui il pensiero una volta estintosi non può più risorgere, come invece Spaventa (sulle orme di Werder) assumeva. Perché il pensare possa risorge­ re , è necessario che esso si estingua non in altro ma in sé. «Bisognerebbe cioè, che non solo il non essere , ma lo stesso essere fosse pensare» (RDH, p. 28) . Ad una prima lettura il

223 testo di Gentile riesce incomprensibile . Non ha sempre detto Spaventa che l'essere è pensare - l'essere, già l'essere, e non solo il non-essere? Del resto questa è la tesi di Hegel stes­ so, innanzitutto di Hegel, per il quale l'lndifferenziato (das Unterschiedslose) del cominciamento logico, se non è più «sapere», resta pur sempre «pensare» : il pensare conte tale ( cf. WL, l , p. 68 ; it. , l, p . 55) . - Nell'astrarre , dunque , il pensiero non cessa di essere pensiero - nell'obliarsi resta quello che è . La Besinnung, !'«accorgimento» successivo, che è il proprio del non-essere ( = del pensiero), in tanto non è una riflessione esterna, in quanto è già in sé (an sich - sebbene noch nicht gesetzt o fii r sich) immanente nell'essere . La differenza è nell 'identità. Pure Gentile afferma che l'essere come pensare e sì la mèta tanto di Fischer quanto di Spaventa - «ma non è ancora raggiunta» . E a confe rma cita il § 77 del Systetn der Logik und Metaphysik di Fischer, rilevando che pur essen­ do definito «concetto», tuttavia l'essere «Una volta è oggetto e una volta atto del pensiero. E dovrebbe essere atto in quanto oggetto» (RDH, p. 29) . Qui si chiarisce il senso dell'obiezione di Gentile . L'essere - l'astratto, l'oggetto - resta per lui ancora "altro", ed "irrimediabilmente altro" dal pensiero, finché non è posto da quel pensiero che nel porlo è cosciente di sé, e non si oblia, non si estingue nell'oggetto, nell'astratto . E cioè : per Gentile il pensiero che pone la negatività nell'essere , che dice No al Sì, va anticipato all'essere - è prhna, non dopo . Questa critica è affatto coerente col rifiuto della distinzione della Fenomenologia dalla Logica: una volta negato (perché, invero, non compreso) il cammino attraverso cui il pensiero si riconosce nel fatto, nell'essere , è ben evidente che si debba poi criticare come ancora affètta da naturalismo la posizione di chi afferma l'antecedenza del fatto all'atto . Il limite di quel rifiuto lo si è già rilevato. Ora, però, ci interessa mostrare ciò che Gentile , se non vide, intravvide . E cioè che l'E ssere dell'i­ nizio della Logica, per quanto sia l'essere del pensiero non è

224 tutto riconducibile al pensiero . Vale a dire : l'essere stesso del pensiero non è pensiero. Questo già si avverte in Hegel: ché il «pensare come tale» , la semplice relazione a sé del pensa­ re , ossia il pensare non nella sua distinta determinatezza ma nella sua nuda presenza, nel suo puro essere senza nessun'al­ tra determinazione , è "oltre" il "sapere", di là da ogni possibi­ le contenuto di pensiero, anche di quel "particolare"' conte­ nuto che è il pensiero in quanto noesi, in quanto pensante . Ora questo «al di là» dell'essere rispetto al pensare tanto più si affermava, tanto più si imponeva, quanto più gli interpreti di H e gel si industriavano a provare l'attività del pensiero sin nelle prime categorie: essere nulla e divenire . Di ciò Genti­ le in qualche modo s'avvide . Certo contrastò tale tendenza. Vedeva, tra l'altro, Spaventa più innanzi degli altri interpre­ ti di Hegel nel cammino che conduceva alla totale riduzio­ ne dell'eznai al noezn . Ed è vero esattamente il contrario . Lo attesta un passo di Spaventa quello stesso che Gentile citava a sostegno della sua tesi . Leggiamolo : Adunque, perché il No? Il Non essere, la negazione? e dopo , e nonostante il Sì, l'essere, l'affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere ? Questo è lo stesso proble­ Ina del Inondo, lo stesso enigtna della vita, nella sua 1nasshna semplicità logica. Quel che sappimno è che senza il Pensare non sarebbe il N o, il N o n essere; e chi nega, quegli che vince l'invincibile e fende l'indivisibile, cioè l'Essere; che distin­ gue e contrappone nell'Essere medesimo in quanto mede­ shno ciò che è e ciò che non è: la generazione o ge1ninazione dell'Essere; quegli che turba la tranquilla imtnobilità, l'oscu­ ro hnpenetrabile sonno dell'assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare. Se non fosse altro che l'Essere, non sarebbe il No. E , quando si va a vedere, l'Essere stesso, solo l'Essere, non dice Essere, non dice È, non dice punto . r..: È - la stessa affennazione - è pensare; è distinguere, è concentrar l'Essere; è setnplificarlo, ridurlo a un punto, e perciò getninarlo. ( Op , I, p. 399).

225 Gentile vide in questo passo l'affermazione del pensare «come l'atto immanente dell'essere che non è» . E ad ulteriore confer­ ma citava il seguito : Si noti, il pensare fa ciò, distingue, divide, nega, non perché lo trovi, dirò cosi, già fatto e ripeta, copi, contempli, veda, nell'essere; 1na lo fa egli per prhno: questo fatto è il fatto suo e solo suo; la negazione è la sua originalità stessa ( scintilla che scoppia da se stessa) . 19

Questo brano - che peraltro non è il solo - va in direzione opposta a quella indicata da Gentile . Il pensiero nega, divide, concentra l'essere - lo genera; ma questo essere che il pensie­ ro genera, questo essere cui è immanente l'atto del pensare, questo essere del pensiero ( genitivo soggettivo) non è però l'Essere . Di contro all'essere pensato, al noema, di contro all'essere pensante, alla noesi, s'erge l'Essere che è prima e fuori del pensiero: l'ingenito, l'indivisibile, l'invincibile - che è e resta tale pur dopo la generazione, la divisione , la vittoria del pensiero, essendo sempre oltre, di là, o meglio: di qua, prima. Gentile, nell'intento di portare a sé Spaventa, pubbli­ ca un frammento inedito di questi, ove tra l'altro è detto che «il pensare è l'essere stesso dell'essere» e non «una funzione

19. G. Gentile, RDH, pp. 31-32. Chiara la risonanza nel brano di Spaventa citato nel testo del celebre passaggio della Vorrede della PhiiG: «L'attività del separare è la forza e il lavoro dell'intelletto, della potenza più mirabile e più grande, o meglio della potenza assoluta» (p. 29; it., I, p. 25) . È bene precisare subito che il giudizio ( Urteil), la scissione del gran prevaricatore è davvero Ur-teil, scissione originaria: è la separazione del pensare dall'Esse­ re, dall'Identità che è oltre la relazione. Questo 'giudizio', questa separazio­ ne, avviene 'prima' di ogni sillogismo) di ogni unificazione; e da nessun sillo­ gismo può esser tolto (aufgehoben ) . Qui il distacco di Spaventa da H egei. Ritorno a Kant? Certo. M a è un Kant 'dopo' Hegel. Come dire che il 'giudi­ zio originario', che Spaventa, interpretando Hegel, scopre, rappresenta una posizione (Stan dpunkt) ulteriore rispetto a quella del sillogismo (cf. retro, Sez. l, cap . II) .

226 meramente soggettiva»20• Affermazione , questa, nient'affatto nuova in Spaventa; la si ritrova già in scritti precedenti - e con non minore , anzi maggiore chiarezza, se, nel momento stesso in cui prova che è il pensare che dice dell'essere , non manca di avvertire che l'essere è al di q ua del dire, anche del più semplice dire . N o n appartiene all'essere nemmeno la tauto­ logia «è perché è». «Questo È perché è, non lo dice l'Essere; lo dice il Pensare» ( Op, I, p. 400) . L'Essere sfugge , si sottrae nell'atto stesso in cui sembra che lo si sia colto: L'Essere stesso - questo prilno pensabile e presupposto asso­ luto d'ogni pensabile - io non lo penso, se non in quanto lo distinguo (lo astraggo) da tutto quel che non è lui setnplice­ tnente; se non in quanto annullo in lui ogni detenninazione e distinzione, e perciò ogni pensiero, e tuttavia, anzi appunto perciò, se non annullo in lui quella stessa distinzione, quella stessa attività, tnediante la quale io arrivo e 1ni profondo sino a lui. Questa contraddizione - l'bnpensabile in quanto pensa­ to e perciò pensabile, l'Indetenninato e Indistinto in quanto determinato e distinto e perciò detenninabile e distinguibile - questa è la contraddizione dell'Essere : è il non-Essere . (Ib. , I, p. 397).

Passo fondamentale , di rara profondità e lucidità. L:essere è anche oltre la determinazione della sua indeterminatezza: questa è già distinzione, è già pensiero, perché appunto distin­ ta da altro, dal determinato . N ella contraddizione dell'essere è già più che l'Essere - e già il pensiero. L'indeterminatez­ za dell'Essere che è prima, che è fuori del pensiero, e anche prima e fuori della determinazione dell'indeterminatezza. Se si vuole è una contraddizione più alta di quella che il pensiero,

20. G . Gentile, RDH, pp. 40-65 (il passo cit. si trova a p . 63); cf. anche B . Spaventa, Op, III, pp. 431-462 (per la citazione vedi p . 46 1 ) . L'espressione «essere dell'essere» riferito al pensare ricorda quelle di Werder: «der Geist des Seins» e «das Sein im Sein» riferite a Nichts (Logik, p. 4 1 ) .

227 che la contraddizione del pensiero può raggiungere . - Molti anni più tardi, nello sviluppo della sua personale riflessione, indipendentemente da ogni riferimento a Hegel e a Spaven­ ta, Gentile si incontrerà e scontrerà con questo E ssere che si sottrae e si nega nell'atto stesso di darsi al pensiero21 . Ma questa nostra interpretazione, che oppone tanto recisa­ mente l'E ssere al pensiero, non è in contrasto proprio con la tesi fondamentale di Spaventa? S embra difficile, infatti, se non impossibile conciliare la nostra lettura con affermazioni come queste : «l'Essere non è così fatto che il pensare sia qui e l'essere sia lì, in modo che muovendosi il pensare, l'essere resti lì e non si muova», al contrario «il pensare porta seco [ . . . ] l'essere ; se si muove , si muove l'essere» . E ancora: «Il movi­ mento del pensare è lo stesso movimento dell'essere» , per cui «se il pensare dice non essere, ciò dice anche l'E ssere ; è uno e medesimo detto» (ib. , l, p . 409 ) . L a cosa sta proprio in questi termini : il rapporto di i denti­ tà-differenza che lega essere e non-essere, essere e pensare , è tale che i l non-essere (il pensare) non è estraneo all'essere , non è una riflessione esterna, ma interna, immanente all'es­ sere . Questo dice Spaventa; questo avevano già detto Werder e Fischer, interpretando H e gel. Tutto ciò è innegabile . Solo che Spaventa non si ferma qui . Afferma infatti che oltre l'es­ sere che è pensiero, oltre l'essere del pensiero, v'è dell'altro ancora, al quale non è lecito attribuire quel che si predica dell"' essere pensato": «di certo l'Essere in quanto non pensato - cioè in quanto non più l'Essere [forse meglio sarebbe dire : non ancora Essere] - rimane lì, non si muove» (ib. , l, p . 410) . L'E ssere in quanto non pensato , l'Essere "altro " dal pensiero - è l'Indeterminato originario, quello che è prinw anche della

2 1 . Cf. retro, Sez. Il, cap. l, e Appendice III.

228 sua determinazione come indeterminato; quello che è prima di essere detto . «C os'è l'E ssere ?» - si chiede Spaventa all'ini­ zio dello scritto sulle Printe categorie della logica di Hegel, e risponde: Ciò è facile, e non facile a dire; appunto perché niente si può dire senza l'Essere, e ogni detto e pensiero lo presuppone. [ . . . ] E d'altra parte, quando si dice cos'è dawero l'Essere, esso non è già più setnplicetnente l'Essere : non è più ciò che era prilna che fosse detto. (Ib. , I, p. 371 ) .

Qui la condizione di possibilità del pensiero non è più solo l'Intelligibile-Intelligente ; è di più, o di meno; infinitamente di più, o infinitamente di meno . Dice bene Spaventa: l'Es­ sere in quanto non pensato - cioè: in quanto non più essere . Anche nominarlo "essere" è troppo - anche nominarlo Inde­ terminato è troppo : in tal modo lo si de-termina. Lo si rende "termine" del pensiero, insieme con altri "termini": Indeter­ minato/determinato; Ingenito/genito; Indiviso/diviso . . . Tutto ciò è estraneo all'Essere. Spaventa avrebbe potuto ripete­ re per l'Essere quello che Schelling aveva detto riguardo a Dio, e cioè che «non è, come molti credono, il trascendente, è il trascendente fatto immanente (ciò che è contenuto dalla ragione) » (PhO, p. 4 1 72; it., p. 283) . L'essere del pensiero, l'essere che è pensato, non è il Prius: come il Dio di S chelling «è solo aposteriori» (ib. , p . 414 7; it., p . 21 1 ) . Siamo qui sul crinale che segna la linea di confine tra il pensie­ ro e il non-pensiero . Linea difficilissima a seguire, se ogni parola che pronunciamo, anche la più sentplice: "Essere", è già troppo. L'unico metodo possibile è quello che procede per affermazioni e immediate negazioni - dicendo e contra­ dicendo . Rendendo il detto sempre più �'sottile". Come la linea che s'intende seguire. Spaventa ce ne dà l'esempio - con una scrittura di estrema concentrazione :

229 [ . . . ] non distinto in sé, né opposto ad altro; senza relazione né verso sé né verso altro, che sia o si possa pensare prilna di esso: l'assolutan1ente irrelativo. Questo è l'Essere, il puro, semplice essere. Ho detto il primo pensabile, il pritno intelligibile . Ora, in veri­ tà dovrei dire l'inintelligibile. Intelligibilità hnporta essenzial­ mente relazione (ragione ) . (Op , l, p . 375) .

5 . Identità l Contraddizione S correndo la relazione - l'identità, tò auto - dall'estremo dell'essere, in cui si è mostrato il pensiero, all'estremo del pensiero, il pensiero medesimo trova nel suo elemento, e seguendo la propria legge, l'essere . N o n l'essere che conferi­ sce oggettività alla scienza, non l'essere che è pensiero ogget­ tivo, universale - bensì oltre questo, prima di questo, l'Essere che è di là dal pensiero e che al pensiero sempre si sottrae . Ciò che qui diciamo Essere - e che è già troppo nominare Essere - è ciò che il pensiero ha sempre dietro sé . L altro da sé che è altro solo per il pensiero che pensando, cioè essendo, distin­ gue . L alterità non affètta l'altro - ma solo il pensiero che dice "altro". Anche questo s'intende parlando dell'immediatezza dell'Essere . Della sua vuotezza o nullità. Che non va diminu­ ita, ridotta, o, peggio, cancellata, se non si vuol togliere senso al limite del pensiero22• Dacché questo E ssere , o Immediato,

22. La difficoltà di questa posizione è testimoniata anche da Werder, quan­ do, in palese opposizione a Hegel, scrive : «Se si potesse tener fermo l'es­ sere nella sua indeterminatezza, se tale indeterminatezza fosse più di una semplice opinione, allora l'essere non sarebbe affa tto» (Logik, p. 44). Ora è proprio questa identità di E ssere e Nulla - che è ben oltre la contraddizio­ ne del divenire - il limite antologico del pensiero. Ontologico, non ontico: riguarda l'essere non l'ente; meglio: riguarda l'essere indipendentemen-

230 è il fondo senza fondo, l' Ab-Grund del pensiero - il quale è in quanto media, distingue, separa; in quanto dice N o al Sì; in quanto divide l'Indivisibile e genera l'Ingenito . Il pensiero ha bisogno dell'Altro per pensare . Perciò l'Essere appare sin all'i­ nizio della logica: presenza ineludibile ed irriducibile al pensa­ re , per quanto il pensiero si sforzi di ricondurre tutto a sé . La trascendenza dell'Essere al pensare è la trascendenza del principio alla dimostrazione . « È ignoranza - dice Aristotele non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali invece non si debba ricercare» (Met ., IV, 1006a 6-8 ) . E tuttavia - come s'è visto - cerca la dimostrazione attraver­ so la confutazione . Il pensiero non pensa se non cercando di impadronirsi del suo «altro» - e solo così fa esperienza del limite . Per spiegare la conoscenza dei principi, Platone si richiama all'antica sapienza poetica, a Pindaro, e al ciclo delle successi­ ve reincamazioni dell'anima. Conoscere è ricordare : tò zetefn kai tò nuz nthanein andntnesis 6lon est{n (Menone, 8ld) . L:es­ sere, l'intelligibile è il passato dell'anima: gli eide già visti, i pensieri per primi pensati, e poi obliati . Ma il circolo di nascite e morti poggia su qualcosa che non è nel circolo: sull'anima, che attraversa nascite e morti, senza nascere né morire . V'è un principio, dunque, che è oltre il passato ricordato: il prin­ cipio di ogni passato , passato esso medesimo , il passato imme­ moriale dell'anima. Questo principio interrompe la circolarità

te dall'ente, l'essere nella sua assoluta indeterminatezza. Questo limite è violato (e cioè : dimenticato) ogni qualvolta si concepisce l'essere - das reine Sein, ohne alle weitere Bestinunung - in rapporto all'ente : come accade a Spaventa stesso in EM (Torino 1888) quando parla della cosa in sé come della possibilità trascendentale del fenomeno (pp. 135 ss. ). Questo per dire che l'individuazione del limite antologico del pensare è tutt'altra cosa che !'«esigenza realistica» dell'idealismo di B. Spaventa, su cui si è soffermato l'Alderisio (cf. RA pp . 176-206) .

231 del pensiero con l'essere , dell'essere col pensiero. Pertan­ to, se dalla Fenomenologia alla Logica non v'è continuità, questo accade perché all'inizio della Logica si apre l'abisso del Principio di tutti i principi, l'Identità che è oltre la rela­ zione che con-tiene pensiero ed essere . Identità che non si prova, dunque , scorrendo la relazione da un capo all'altro dal fatto al fare, dall'oggetto al soggetto, e viceversa -; che non si di-mostra nel molteplice : perché non è l'uno che è, lo Hén kaì panta, ma l'Uno(-che-è- )Uno . Per provare questa iden­ tità, per di-mostrarla si dovrebbe allora dedurre dall'Uno il molteplice , dalla Forma il contenuto . Provare questa identità signifìcherebbe davvero «provare la creazione». Spaventa sa bene questa prova non si dà - non è possibile . S a bene che l'ultima mèta raggiungibile è la volontà, «la vera radice, il motore del pensare» . La volontà, che all'ingresso della Logica appare all'origine del pensiero, fìssa il limite del pensare - il limite del No opposto al Sì, all'Essere , al puro essere , ohne alle weitere Bestinunung. Giunti alla radice del pensiero logico, alla volontà, non resta che riconoscere l'in­ soluto-insolubile problema del mondo l'«enigma della vita» : l'inspiegabile genesi del N o dopo e nonostante il Si. N o n resta che riconoscere il puro, nudo fatto del pensare : «quel che sappiamo è che senza il pensare non sarebbe il No, il Non­ essere» . Che è come dire: sappiamo che senza il pensare non v'è il pensare, senza il N o non c'è il N o. La tautologia sta a signifìcare che l'enigma resta enigma. La stabilità del pensiero è ohne warunt, come la rosa del mistico : sie bliihet, weil sie

bliihet23•

23 . Angelus Silesius, PC, Libro l,

p.

289.

232 Croce vide in ciò solo l'astrattezza di un pensare che si è sciol­ to dai problemi concreti della vita e della storia24. Gentile volle invece criticare la logica interna del discorso spaventiano.

È un errore - scrisse - porre prhna l'essere, e cercare poi la contraddizione che lo faccia muovere . La contraddizio­ ne suppone l'identità; e questa categoria non c'è più nella dialettica trascendentale . r.:essere per contraddirsi dovrebbe sussistere. Ed esso sussiste cotne divenire; cioè non sussiste. Cercare la contraddizione è fissare l'essere, cioè falsificarlo ( uscire dalla logica attualità mentale ) . (RDH, p. 39).

Gentile , non distinguendo l'essere in quanto pensato (l'iden­ tità interna alla contraddizione , posta dalla contraddizione) dall'Essere che è oltre il pensare (l' identità che è «prima» della contraddizione, e per la quale è la contraddizione) , si precluse la strada alla comprensione della vera, reale dialetti­ ca del pensare . Egli infatti non spiega il divenire , solo lo assu­ me . Per non «analizzarlo» , mai ne espone «le determinazioni (categorie )»25• Mai non va oltre l'affe rmazione che il pensiero è non-essendo e non-è essendo26• C ertamente il divenire è il primo concetto concreto. Questo Spaventa lo sa bene, come lo sapeva bene Hegel. Ma il fatto che essere e nulla siano i momenti astratti del divenire , non toglie che essi debba­ no essere spiegati, es-plicati nella loro identità-differenza. Diversamente si abbandona il discorso per l'intuizione . Ora, proprio nell'es-plicare le determinazioni del divenire Spaven­ ta dà il meglio di sé - mostrando che ciò che è in gioco sin

24. Cf. il saggio già cit. "Delle categorie dello Spirito e della Dialettica", in IH, partic. pp. 32-33; per contro G. Vacca in PFBS sottolinea il carattere storicistico ed antropologico della meditazione spaventiana. lnvero il pensie­ ro di Spaventa è ben al di là di tale alternativa: storicismo/antistoricismo. 25. Secondo la giusta esigenza che Spaventa faceva valere nella critica a Trendelenburg (cf. Op , I, 436-437) . 26. Cf. G. Gentile, TGS, p. 56; SL, l, p . 100. Allo stesso modo Croce più che affrontare il problema, se ne libera: cf. SH, pp. 16-19.

233 nell'inizio della Logica è ben oltre le categorie esposte da Hegel nella Lehre v o1n Sein: l:Essere co1Tie lTIOlTiento è Essere che diviene : il colTiinciare, il nascere (il distinguersi) ; il Non Essere co1Tie lTIOlTiento è il Non Essere che diviene: il cessare, il perire ( l'estinguersi) . Così il divenire stesso è il cominciare che cessa, è il cessare che colTiincia; il nascere che perisce, e il perire che nasce (il distinguersi che si estingue, e l'estinguersi che si distingue) . Eterno perire, eterno nascere . Questo eterno perire che è eterno nascere , questo eterno nascere che è eterno perire, è il Pensare . - Penso, cioè nasco co1Tie pensare; lTia non posso afferrar lTie stesso co1Tie pensa­ re, lTia solo co1Tie pensato, e perciò perisco co1Tie pensare . Perendo co1Tie pensare, penso; e perciò nasco colTie pensare . E così selTipre. ( Op , I, p. 382 ).

Questo passaggio illumina l'intero discorso di Spaventa. Il pensare viene qui colto nella sua contra/dizione originaria, ove affe rmazione e negazione sono coeve e coestensive . E «dive­ nire» non indica ora il movimento da una determinatezza ad altra, esterna alla prima; designa piuttosto un "passare" da sé a sé, da sé alla propria negazione : negazione che è l'essere stesso del sé . È da rilevare che nel primo capoverso essere e non-essere si presentano con ruoli invertiti: non è il non-esse­ re, il No, il pensiero che divide e distingue , che negando fa nascere il determinato - ma l'essere, che è eterna generazione o «geminazione»; il non-essere è ora non l'astrarre , ma l'astrat­ to, non il distinguere ma l'estinguere : non il cominciare , ma il perire . La cosa non può essere spiegata, dicendo che ora essere e non-essere sono momenti del divenire - ché sempre lo sono, o non sono affatto; né che Spaventa ha sotto gli occhi il testo hegeliano che fedelmente segue - perché non sareb­ be una spiegazione , ma tutt'al più una giustificazione . Tanto meno dicendo che si tratta di un'incoerenza. Qui Spaventa è sommamente coerente: coerente al pensare ri-flessivo che ,

234 ove vede sorgere una determinazione, ne mostra nello stesso luogo e nello stesso tempo l'opposta. Questa ri-flessione coin­ volge il divenire medesimo, che è un cominciare che cessa ed un cessare che comincia: un movimento, cioè , che non è movi­ mento, un passare che non passa; insieme un non-movimento che è movimento, uno stare che è passare . Interpretando le prime categorie della Logica dell'essere, Spaventa si innalza inavvertitamente alla Logica della «Verità dell'essere»: alla Logica dell'essenza27. Dell'essenza in quanto ri-flessione . Ne è conferma questo brano di Hegel: L'essenza è riflessione, il tnovilnento del divenire e del passa­ re, che rimane in se stesso, dove il diverso è detenninato assolutmnente solo cotne l'in sé negativo, cotne parvenza. N el divenire dell'essere la determinatezza ha per base l'esse­ re, ed è relazione ad altro. Il tnovilnento riflessivo all'incontro è l'altro cotne la negazione in sé che ha un essere solo cotne negazione che si riferisce a sé . [ . . . ] Il divenire dell'essenza, il suo tnovilnento riflessivo, è quindi il tnovilnento dal nulla al nulla, e cosi il movilnento di ritorno a se stesso. Il passare o divenire si toglie via nel passare; l'altro che sorge in questo passare, non è il non essere di un essere, tna è il nulla di un nulla, e questo, di essere la negazione di un nulla, e ciò che costituisce l'essere. (WL, II, pp . 24 -25; it. , II, p. 444) .

-

Il «movimento» dal nulla al nulla è il movimento del pensa­ re che coglie se stesso solo come pensato, come non-pensa­ re nell'atto stesso che pensa. Non v'è, qui, solo la dialettica soggetto-oggetto, atto-fatto ( criticata pur da Gentile , che peraltro la riprenderà28) ; v'è di più : è adombrata una dialettica che eccede l'ambito del pensiero, ma che è possibile descrivere

27. Com'è noto la Dottrina dell'essenza si apre con questa lapidaria defini­ zione : «Die \Vahrheit des Seins ist das \Vesen» (\VL, II, p . 13). 28 . Per la critica cf. G . Gentile, RDH, p. 31; per la 'ripresa' cf. in particolare TGS, passim, e SL, I, passiln.

235 soltanto dall'interno del pensiero. Il pensato, in cui il pensare si estingue senza estinguersi , è come un riverbero (e un richia­ mo?) di quell'Essere , di quell'Identità che è fuori e pri1na, che è di q ua, sentpre di q ua dal pensiero. La morte? l'estinguersi che non conosce distinzione? È questo la morte : «la tranquilla immobilità, l'oscuro impenetrabile sonno dell'assoluto e inge­ nito essere»? La morte è, quindi, anche prinw della vita? La domanda non è di Spaventa. È nostra. Ma dobbiamo a Spaventa il cammino che ci ha portato in quel luogo, ove è possibile che la domanda sorga: il luogo della ri-flessione . Là dove l'analisi del divenire toglie la retorica del divenire . La retorica dell'affermazione che supera la negazione, della certezza che supera il dubbio . La retorica della filosofia che si vuole concreta e vera solo se si occupa di problemi "stori­ ci", della vita, della "realtà". La retorica, infine , di un pensiero che, incapace di interrogarsi su se medesimo , si volge all'e­ sterno , scambiando così ciò che è derivato con l'originario . Contro questa retorica della cieca immanenza, che ammette il problema solo ove è la soluzione, parla la filosofia di Bertrando Spaventa, che non nega, per una falsa concretezza, l' «enigma della vita», ma fa del lintite del pensiero il suo problema . Il problema del cominciamento . Qui dawero il Primo è l'Ultimo, l'Ultimo il Primo .

Appendici

239 I La prassi tra stru ttura

e

stori a

l . Cosa ci spinge, oggi, a tornare sulle pagine di Croce e Gentile interpreti e critici del marxismo? Un interesse storico antiquario , o una motivazione storico-critica - o, di più ancora, una ragione teorica? Rispondere a questa domanda implica anzitutto interrogar­ si sul significato e sulla portata di quella duplice "lettura" di Marx. Che essa abbia rappresentato un momento di gran rilie­ vo per la cultura italiana della fine del secolo scorso, è anche superfluo ricordarlo. È noto: gli studi marxiani sono all'origi­ ne del pensiero di C roce e Gentile, di quel pensiero che ha fatto storia - nel senso più ampio dell'espressione - in Italia nella prima metà del 900. C'è da chiedersi, però, se il rilievo di quell'episodio sia limitato allo spazio della cultura italiana e al tempo di un passato che per essere recente non è meno "passato" - o non abbia invece una più ampia estensione e sovrattutto una ancora vivente, attuale, presenza. Ad una lettura «a libro aperto» - per riprendere l'espressione di Althusser - non pare si possa rispondere in senso favorevo­ le alla seconda ipotesi . Si prenda l'interpretazione crociana. Appare estremamente riduttiva. Ne riassumo schematica-

240 mente i punti salienti : l ) l'eguaglianza valore-lavoro non è una legge economica, o almeno non dà il concetto generale del valore ( cf. MSEM, pp . 60 e 73) ; 2) l'economia marxista, conse­ guentemente, non è la scienza economica generale, ed infat­ ti accanto o, meglio, al di sopra di essa va posta l'economia pura fondata sul concetto dell'utile (o ofelimo ) (ib. , p . 78) ; 3) la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, esposta nel Libro III, Sez. III del Capitale, è radicalmente erronea (ib. , pp . 149- 161 ); 4) non tutta la storia è storia di lotta di classe (ib. , p . 87); 5 ) il materialismo storico non è una filosofia della storia ( e questo in Croce suona ad elogio ), né un nuovo meto­ do storico è semplicemente un canone empirico di interpre­ tazione storica, un ammonimento rivolto agli storici a prestare attenzione alle motivazioni economiche dell'agire umano (ib. , p. 80 e passint) . Né filosofo, né economista puro, Marx, secon­ do C roce, fu più uomo d'azione che di pensiero: «provava una sorta di fastidio per le ricerche d'interesse puramente teorico» (ib. , pp. 81-82) . Di qui la definizione di Marx «Machiavelli del proletariato» (ib. , p . 1 12) . Ora tale riduzione di Marx a uomo pratico e rivoluzionario «impaziente delle ricerche che non avessero stretto legame con gli interessi della vita storica e attuale» (ib. , p. 60), sembra non provar altro che la completa incomprensione del concetto marxiano di prassi. D'altronde non poggia forse su di una molto convenzionale ed acritica distinzione del conoscere dall'agire, tipica del senso cotnune? -

Alla luce di questa interpretazione riesce difficile compren­ dere come Croce abbia potuto in seguito (nella Prefazione del ' 1 7 alla III edizione di Materialisnto storico ed econotnia nwrxi stica) affermare che attraverso Marx aveva sentito «il fascino della grande filosofia storica del periodo romantico» e scoperto «Un hegelismo assai più concreto e vivo di quello che era solito incontrare presso scolari ed espositori, che ridu­ cevano Hegel ad una sorta di teologo o di metafisico platoniz­ zante» (ib. , p. XII) . Questo giudizio non corrisponde al fatto . A

24 1 parte la considerazione che nei saggi in questione Croce aveva attribuito scarso peso all'attività fìlosofìca di Marx e quindi al suo rapporto con il pensiero hegeliano - riteneva quell' espe­ rienza limitata agli anni giovanili -, c'è da dire che la scoperta crociana di Hegel avvenne sotto lo stimolo del suo più giovane compagno di studi, Giovanni Gentile , e non certo in seguito agli studi marxiani . Passiamo ora a Gentile . La prima osservazione da fare riguarda l'estrema limitatezza delle sue conoscenze marxiane . Laddove Croce si muove agevolmente non solo tra gli scritti di Marx ed Engels, ma anche nella Sekundiirliteratur, Gentile, parti­ colarmente nel primo lavoro, peraltro composto quand'era giovanissimo, nel 1897, ha di Marx una conoscenza per lo più di seconda mano: lo cita attraverso Labriola (cf. FM, p . 163, nota 1 ) . Né migliora di molto nel saggio pubblicato due anni dopo, "La fìlosofìa della prassi" . Pure una "novità" c'è, e meri­ ta d'essere rilevata. Gentile presenta un testo allora inedito in italiano : le Tesi su Feuerbach di Marx, pubblicate postu­ me da Engels. La scelta è signifìcativa. Gentile mira dritto al nodo della questione : il concetto di prassi. Concetto nuovo per il materialismo - dice - ma «nell'idealismo vecchio quanto l'idealismo medesimo» (ib. , p. 2 10) . In questa proposizione già si rivela il progetto ermeneutico gentiliano : ricondurre la prassi al sapere, a «soggettiva costruzione» della verità. Verunt et factunt convertuntur - ripete con Vico. E poi precisa: «Cotesto principio vuole Marx dall'astratto idealismo traspor­ tare al concreto materialismo . Del quale giudica esser stato fìno a lui difetto gravissimo, anzi principale, averlo trascurato» (ib. , p . 2 14) . Di qui la sua difesa della fìlosofìa di Marx - contro Croce: «Marx non fu un rivoluzionario , che fece ricorso alla fìlosofìa, solo per giustifìcare fìlosofìcamente le proprie teorie rivoluzionarie; ma fu anche un vero e proprio fìlosofo, che per particolari studi e per le condizioni dei tempi diventò rivolu­ zionario» (ib. , p. 257) . In particolare Gentile difende la fìlo-

242 sona della storia di Marx - non solo contro Croce , sì anche al di là della tesi di Labriola. I materialisti storici, afferma, non possono fare a meno della teleologia - come gli idealisti . E al pari di costoro sono ottimisti : «Ciò che è dev'essere; la realtà è razionale . . . N ella storia c'è quindi una finalità; dacché ogni passo è volto ad una mèta; e questa finalità è essenzialmente ottima» (ib. , p . 293) . Né la «previsione» filosofico-storica del marxismo conduce al fatalismo, perché «la necessità in Marx si concilia, come in Hegel, con la libertà; in quanto provie­ ne dallo sviluppo spontaneo dell'attività originaria, secondo la propria natura » (FM, p. 256) . Gentile critica Croce e Labriola dalla prospettiva di Hegel. Croce e Labriola soltanto ? No , critica Marx dalla prospetti­ va di Hegel. Tutto quanto c'è di vero in Marx, lo si trova già in Hegel. Tutto ciò che invece è proprio di Marx è errore. Il primo saggio si chiude con questa affermazione : «il materia­ lismo storico . . . considerato dall'aspetto filosofico (è) uno dei più sciagurati deviamenti del pensiero hegeliano» (ib. , p. 196) . E tale sciagura consiste nell'aver Marx voluto attribuire alla materia, al relativo, all'empirico, le categorie dell'assoluto nell'aver voluto far oggetto di previsione filosofico-storica un fatto. Ma - e qui Gentile s'incontra con Croce - «il fatto non si prevede, perché non è oggetto di speculazione, ma di espe­ rienza; e non appartiene perciò alla fìlosofìa della storia, ma alla storia pura (diciamo storia o storiografìa) la quale non si occupa, lo sanno tutti, se non del già accaduto» (ib. , p . 195) . Non diversa, nella sostanza, la critica svolta nell'ultimo capi­ tolo del II saggio, incentrata sull'intima contraddizione tra il concetto di prassi e quello di materia. Il materialismo si fonda, awerte Gentile, sulla sostituzione del corpo allo spirito, del senso alla ragione . Ma il senso conosce solo le affezioni che la materia produce in lui, non la materia stessa che trascende, come la causa l'effetto, i dati sensibili . La materia è conosci­ bile soltanto mediante la ragione - la quale produce la realtà,

243 tutta la realtà, anche quella materiale . Gentile ricorda Gali­ lei : «tutta la natura è scritta in caratteri matematici». E questo è idealismo. Com'è idealismo la concezione secondo cui la società e non l'individuo, l'organismo e non le parti - è l'origi­ nario . Perché l'organismo, la società è «vincolo etico, è mente, razionalità». La materia, inoltre, è ciò che nei mutamenti non muta, restando sempre identica a sé ed a cui quindi non può attribuirsi movimento, dialettica, divenire . E se si afferma che nella materia «è immanente una forza» che la muove e trasfor­ ma dandole un fine - questa forza allora è «Una forza raziona­ le : è ragione , è spirito». La verità di Marx è dunque Hegel. Marx è filosofo sin dove ripete H egel, quando se ne allontana, cade in insanabili contraddizioni . Ma quale è lo Hegel di Gentile? Lo Hegel filtrato attraverso Donato J aia e Bertrando Spaven­ ta, letto per lo più nelle traduzioni di Vera. Uno Hegel forte­ mente "soggettivista" - affatto diverso da quello dell'inter­ pretazione spaventiana, nella quale s'avverte un'ascendenza neoplatonica, che Gentile invece respinge1. In che consiste questo �'soggettivismo"? N el fatto che Gentile , per quanto affermi che nell'assoluto ( spirito o ragione) è compreso il rela­ tivo (la materia, l'empirico) , tiene comunque divisi forma e contenuto, apriori e aposteriori, essenza e fenomeno . Oppo­ nendo Marx a Hegel, Labriola aveva definito il materialismo storico la «filosofia immanente alle cose», l' «autocritica che è nelle cose stesse». Gentile obietta che non nella storia esterna v'è significato e legge , ma in noi che facciamo e pensiamo la storia (FM, p . 1 76) . Certo il Noi che fa - ovvero : la prassi in quanto soggetto - è prassi proprio in quanto si oggettiva . Ma, appunto, è sempre il soggetto che si oggettiva. Dei due poli della relazione, il soggetto e l'oggetto , il primo è il dominante

l.

Cf. infra, Appendice III.

244 ed il secondo resta subordinato - per riprendere la critica di Hegel a Fichte (cf. DFS, pp . 72-75; it., pp . 57-60) che qui pienamente s'attaglia. Tale rapporto di subordinazione non muta, neppure quando la prassi si rovescia e l'oggetto diventa principio ed il soggetto termine (FM, p. 223) , dal momento che l'oggetto è principio solo dopo che è stato terntine, dopo cioè che è stato "posto" dal soggetto. Gentile, cioè, non giun­ ge - per dirla ancora con H e gel - all'esperienza dell'auto­ nomia dell'oggetto (PhiiG, p. 135; it. , 146) . Significativo, in questo contesto, il suo chiarimento dell'espressione marxiana gegenstiindliche Thiitigkeit: attività che fa, pone, crea l'oggetto sensibile (FM, p . 207, nota) . Il soggettivismo di questa lettura di Hegel si rivela con ancora maggiore evidenza là dove Gentile oppone al falso, contrad­ dittorio realismo di Engels e Labriola, il vero realismo di Hegel che certo Marx, «buon conoscitore dell'hegelismo», non poteva ignorare : il realismo dell'essenza e non del feno­ meno. Scrive: Anche Marx [ . . . ] si riferiva ad una realtà essenziale, a una realtà che è al di là dei fenotneni; e le cose, di cui diceva d'aver trovato la dialettica, non eran già tutte le cose, neces­ sarie o accidentali, di cui la storia ci schiera innanzi l'infinita schiera fenotnenica, ma eran le cose nella loro intilna e, dica­ si pure , tnetafisica sostanza, detenninata tnaterialisticmnente nella vita econotnica. Certo sfugge dalla rete a grandi tnaglie di questa realtà tnetafisica, tanta e tanta parte della fenotne­ nica; tna questa che sfugge non è razionale, e non è quindi vera realtà, avrebbe detto Hegel; essa non è econotnica, e quindi non è reale realtà, osserverebbe Marx. (Ib. , p . 268) .

Ma, questa rete a grandi maglie da cui sfugge tanta e tanta parte della realtà fenomenica non è una forma tJuota ? A questo punto non è tanto importante rilevare l'oscillazione di Gentile tra questa posizione che separa essenza da fenome­ no, e l'altra, presente nel medesimo testo, secondo la quale

245 ogni proposizione empirica è elevata al rango di proposizione apriori quando venga intesa nella sua correlazione universale, e cioè nel sistema del Tutto (ib. , pp. 241 e 28 1-83); più impor­ tante è immaginare l'ironico sorriso di Croce innanzi a questa difesa della filosofia della storia, che lascia fuor di sé tanta e tanta parte della storia perché non ra z ionale, o - il che dice lo stesso - non econotnica. l:ironico sorriso di chi proprio a questa storia "non razionale", �'non economica" è interessato . 2. S e ci dovessimo affidare a questa lettura a libro aperto , solo un interesse storico antiquario potrebbe spiegare il motivo per cui torniamo sulle pagine di C roce e Gentile interpreti e criti­ ci di Marx. Avvertiamo, tuttavia, che tale lettura non coglie nei testi studiati il loro vero significato . Le stesse oscillazioni di giudizio e contraddizioni dei due Autori ci spingono a una diversa lettura. Ma è possibile tentarla solo se prima ne defi­ niamo l'orizzonte problematico . Cominciamo allora, come si dice , ab ovo . E cioè, in questo caso, da Marx. Prendiamo un testo che né Croce né Gentile potevano conoscere negli anni in cui si occupavano del mate­ rialismo storico: l'Introduzione del '57 a Per la critica dell'eco­ notnia politica - edita solo nel 19032• Ci fermeremo soltanto sul § III di questo marxiano Discours de la tnéthode, là dove si fa esplicita l'opposizione a Hegel. Cosa imputa Marx a Hegel? N o n un errore di metodo scien­ tifico, bensì lo scambio dell'oggetto (o risultato) del proce­ dimento del pensiero con l'oggetto reale . È, questo, il nodo centrale della controversia idealismo/materialismo. La nostra preferenza cade su queste pagine dell Introduzione del '57 piuttosto che su altre , perché in esse il problema è trattato '

2 . Cf. Kp O , Einleitung, pp . 3-31; it., pp . 1 -40.

246 non in astratto, ma sul concreto terreno dell'analisi del meto­ do scientifìco dell'economia politica. Marx inizia presentando due possibili metodi d'indagine : il primo che muove dal reale e concreto, per es. : dalla popola­ zione, o dallo Stato, o dalle relazioni internazionali, per giun­ gere alle determinazioni più semplici, quali la divisione del lavoro, il danaro, il valore ; il secondo segue invece il cammi­ no inverso: dagli elementi semplici - bisogno, valore d'uso e di scambio, moneta . . . - alla realtà complessa dell'organizza­ zione sociale , del mercato mondiale, ecc . Questi due metodi non sono pure ipotesi; sono i metodi realmente seguiti in due momenti successivi della scienza economica moderna. Al suo sorgere , nel sec. XVII, l'economia politica seguì il primo ; in seguito, una volta che i concetti "semplici" di lavoro, denaro, valore , ecc ., furono fìssati, gli economisti invertirono il loro procedimento . Da questo rapidissimo sguardo retrospettivo si apprende che il secondo metodo non poteva sorgere che dopo il primo. Questo è la base storica e concettuale di quello . Ma Marx dice a chiare lettere che il primo metodo «ad un atten­ to esame [ . . . ] si rivela falso» (Kp O , p. 2 1 ; it. , p . 26) . Perché ? Perché se si comincia con la popolazione , senza considerare le classi che la compongono e gli elementi semplici su cui queste si fondano - lavoro, capitale, ecc. -, si ha soltanto «una rappresentazione caotica dell'insieme». La vera conoscenza scientifìca muove dagli elementi semplici e con questi spiega il tutto complesso, il reale concreto. Talché la verità raggiunta - il metodo scientifìco vero - condanna e nega come non vera la via percorsa per raggiungerla - il primo metodo -. Scrive Marx: seguendo il primo procedimento «la rappresentazio­ ne piena ( della realtà concreta) viene volatilizzata ad astrat­ ta determinazione»; seguendo il secondo «le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammi­ no del pensiero» (ib. , p. 22; i t . , p. 27) . Ma ciò che è verità nella scienza, è non vero nella realtà. Perché nella realtà il Frius è

247 proprio il complesso, non il semplice : la famiglia non il posses­ so. Pertanto ha ragione H e gel a cominciare, nella Filosofia del diritto, con il possesso; ma ha torto nel ritenere la categoria più semplice come il prinw reale. Hegel cadde nell'illusione di concepire il reale co1ne il risul­ tato del pensiero, che si riassu1ne e si approfondisce in se stesso, Inuovendosi a partire da sé, 1nentre il tnetodo di risa­ lire dall'astratto al concreto è solo il 1nodo in cui il pensiero si appropria del concreto, lo riproduce come un che di spiri­ tuahnente concreto. (Ib. ).

Tuttavia sotto l'opposizione tra metodo scientifico e realtà non è difficile scorgere una "speculare" corrispondenza - fondata su un'identità di fondo: la struttura relazionale dell'oggetto, dell'oggetto della conoscenza come dell'oggetto reale. Per cui, se ragione e logo significano originariamente relazio­ ne, è necessario dire che come la conoscenza così la realtà è razionale, logica . È, questa, la verità di Hegel che permane in Marx, esprimibile con un ossimoro: idealisJno tnateriale, o, se si preferisce , tnaterialistno ideale. Finora, però, ab biamo considerato non la realtà, ma, per dir così, la fotografia della realtà: la realtà in un determina­ to momento. Ma se consideriamo il reale non staticamente, bensì com'esso è, in fieri - allora altre domande si pongono . Le «categorie semplici - si chiede Marx - non hanno anche una esistenza storica o naturale indipendente , prima delle categorie più concrete?» Certo, può accadere : il denaro, ad es. , esisteva anche prima delle banche , del lavoro salariato, del capitale . . . In questo caso vi sarebbe una perfetta, non solo "speculare", corrispondenza tra metodo scientifico e proces­ so storico reale. Tuttavia le categorie semplici si realizzano compiutamente solo nelle società più evolute. Marx fa l' esem­ pio del lavoro, «categoria del tutto semplice» , presente come tale sia in tnente che in re sin dall'antichità. Ciononostante

248 il lavoro sans phrase, il lavoro in generale , la pura astrazione del lavoro indifferenziato, «diviene praticamente vero» solo nell'economia moderna: L'indifferenza verso un lavoro detenninato corrisponde ad una fanna di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro ed in cui il genere detenninato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente . ( Ib. , p. 25; it. , p . 3 1 ) .

In tal modo Marx ribadisce che il metodo scientifico vera­ mente valido è quello che procede in senso inverso all'ordine storico reale . La società più evoluta - quella in cui sono meglio determinati, specificati, più «semplificati» i suoi organi, le sue funzioni e «categorie» - ci consente di capire meglio le socie­ tà più antiche, meno progredite. C ome «l'anatomia dell'uomo è una chiave per l'anatomia della scimmia», così «I' economia borghese fornisce la chiave per l'economia antica» (ib. , p . 26; i t. , p . 333) . E qui necessaria una pausa di riflessione . Nel breve giro di pochissime pagine Marx ha mutato completamente lo scena­ rio. I due procedi1nenti - dal complesso al semplice, l'uno, dal semplice al complesso, l'altro - che all'inizio sembravano occupare esclusivamente il campo del sapere, rimanendo la realtà «salda nella sua indipendenza fuori della mente» (ib. , p. 22; it., p. 28), sconfinano ora nell'ambito del reale . Il primo, in particolare , non è più !imitabile entro la sfera del pensiero; esso è il movimento stesso della storia che va dal comples­ so al semplice . Pertanto neppure può dirsi «falso» , se non si vuole condannare la storia, le res gestae, come «falsa». E se non è falso il processo storico, tanto meno falso è il metodo che ce lo fa conoscere così com'esso si è realmente svolto . Vero è che Marx affe rma che, per conoscerlo davvero, bisogna prima seguire il metodo inverso - dal semplice al complesso -, dacché si può conoscere l'anatomia della scimmia solo dopo

249 aver conosciuto quella dell'uomo. Ma, così ragionando, Marx opera un'altra inversione : non il primo metodo è il presuppo­ sto (la base concettuale) del secondo, ma il secondo del primo . Il presente ci fa capire il passato: il tempo della scienza capo­ volge il tempo reale. E solo per questa U1nkehrung è possibile comprendere il tempo reale ( e qui, sia detto tra parentesi, la prossimità di Marx a Hegel, contrariamente a quanto Marx stesso non intendesse, è tale che non è dato scorgere la linea di confine che li separa3) . Ma, chiediamoci, che è il "presente" della scienza? Il monten­ tu 1n che tramezza passato e futuro - o non piuttosto il luogo temporale che con-tiene, tiene insieme e comprende in sé, passato e futuro, ed il presente che li tramezza? C'è un passo di Marx che dobbiamo leggere , non per rispon­ dere alla nostra domanda, ma per capirne la radicale proble­ maticità: l:esetnpio del lavoro tnostra in tnodo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide - proprio a causa della loro natura astratta - per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che v'è di detenninato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni. (Ib. , p. 25; it. , p . 32).

Marx fa riferimento al lavoro, cioè alla categoria "semplice" che anche come rappresentazione "semplice" si trova sin nell'età antica, per mostrare la storicità delle determinazio­ ni su cui lavora la scienza. Ma questa stessa storicità rinvia a quella struttura relazionale permanente che è il presupposto di ogni storia. Ora questa struttura costituisce il vero oggetto del sapere scientifico, se soltanto a partire da essa possiamo

3. Sul tema cf. B. de Giovanni, HTS : "Inversione della successione e tempo" pp. 129- 153; ed altresì, sempre dello stesso autore, TPC , spec. P. III, "Il tempo del Capitale", pp. 141-256.

250 dire che il presente storico (l' anatomia dell'uomo, l'economia moderna) è la chiave di comprensione del passato (l'anatomia della scimmia, l'economia antica) . Tale oggetto vero, eterno, acronico può rivelarsi in un presente storico, o la storicità del luogo in cui si dovrebbe rivelare è d'impedimento alla rivela­ zione della sua astoricità? Come distinguere entro la "veduta storica" ciò che è storico da ciò che non lo è? N o n è storica anche la definizione del non-storico? Esige allora l'oggetto eterno un presente epistentico eterno, un luogo di rivelazione ad esso adeguato? 3. Il contrasto tra la acronica struttura relazionale che defi­ nisce lo "spazio di comprensione" dei fenomeni storici, e la storia stessa immersa nel tempo sembra possa dirimersi seguendo due vie alternative : quella dell'unificazione di strut­ tura e storia o l'altra, opposta, della loro rigida separazione. La prima via tentò, con estrema lucidità Antonio Labriola, il primo vero filosofo marxista italiano ( se non l'unico) . Il suo programma filosofico può sintetizzarsi in questa formula: storicizzare la struttura. S emplice a dirsi, difficile, difficilissi­ mo a volerlo realizzare . Anzitutto è necessario ridurre al minimo il valore dell' astrazio­ ne , del concetto, delle leggi generali . Materialismo è questo : muovere dai bisogni determinati dell'uomo e dalle condizioni specifiche, particolari in cui egli si trova, per spiegare la storia, e per farla. Se è possibile una previsione, questa è storica se ed in quanto fa riferimento non a leggi generali, a un disegno universale e a mète presta bili te - come in Agostino e in Hegel ( CMS, p. 166 ) - ma alle condizioni presenti del vivere sociale, alla situazione attuale del conflitto di classe , alle circostanze economiche del presente. Il presente è centro della storia, luogo d'osservazione del passato e del futuro, solo perché «per lo sviluppo finora avveratosi, noi siamo in grado di valutare il

25 1 passato, e di prevedere, ossia d'intrawedere, in un certo senso e in una certa misura, l'awenire» (ib. , p. 156; e p. 182) . La stessa nozione di progresso è empirica, determinata, circo­ stanziata. Il concetto, l'astrazione generalizzante , ha valore fin tanto che può essere riportata al concreto, al particolare determinato - alle cose stesse, donde è sorto. Il movimento reale va «dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita» (DSF, p. 58) . Pertanto materialismo significa: naturalizzazione della storia, in quanto non si ferma «alla prima evidenza delle volontà operanti a disegno» , ma di queste cerca i moventi e le cause, «per trovar poi la coordinazione di tali cause e moventi nei processi elementari della produzione dei mezzi immediati della vita» ( CMS, p . 147) . La struttura è questa coordinazione , cercata e individuata volta a volta nelle condizioni specifiche delle singole , determinate società storiche . Di qui la polemica labrioliana contro l'accostamento di materialismo ed evolu­ zionismo. Il materialismo storico è diviso da un abisso dal danvinismo : l'abisso che separa lo storicismo dalla metafisica. Labriola insiste sul fatto che la storia dell'uomo è un terreno artificiale, il prodotto della cultura dell'uomo e non un dato immediatamente "naturale", animale . Questa insistenza sulla separazione dell'attività dell'uomo, della storia umana dalla vita animale non è in contrasto con la naturalizzazione della storia, che - come poc' anzi si è detto - è la caratteristica della concezione materialistica della storia; ne è, anzi, la confe rma, in quanto l'interpretazione della storia come prodotto della cultura tnateriale dell'uomo, sorta appunto dai bisogni natura­ li dell'uomo, storicizza la storia stessa, la libera da ogni metafi­ sica entificazione , da ogni universale legge astratta, che ancora si ritrova nel danvinismo . Conseguentemente Labriola critica anche la teoria dei fattori storici: diritto, morale, stato, reli­ gione sono non fattori ma fatti. Fatti storici, sorti nel tempo e destinati a tramontare nel tempo (ib. , pp . 204 ss. ) .

252 Labriola spinge il suo storicismo materialistico sin sulla spon­ da dell'empirismo storico, negando, ad es., che possa farsi storia dell'«ente Cristianesimo» . Non c'è altra storia che quella delle singole associazioni cristiane , comunità e chiese, diversi nei singoli paesi e nelle diverse epoche. Lo stesso corpo dottri­ nale si frantuma ai suoi occhi in molteplici storie , secondo i luoghi e le età. Ma le «credenze», i «dogmi», i «simboli» e le «liturgie» debbono passare in seconda linea, «come è proprio di ogni altra soprastruzione ideologica» (ib. , pp. 120 ss . ) . Tuttavia, sotto questa estrema varietà di storie particolari si cela un rigido monismo. «Luomo non percorre più storie in uno e medesimo tempo; ma tutte le pretese varie storie ( arte, religione, etc. ) ne fanno una sola» (ib. , p. 237) . S emplificata all'estremo, ridotta nelle sue articolazioni essenziali ad un unico elemento portante , la base economica, ricondotta pur questa entro il processo storico - la struttura acronica della storia si impone lo stesso: come la pura forma del tempo. La forma del tempo-successione, che nessun empirismo riuscirà mai a storicizzare, essendo essa il presupposto di ogni storici. . smo emp1nco. C'è da chiedersi però se questa forma pura del tempo-succes­ sione non sia già un'interpretazione del tempo. 4. Per dirimere il contrasto tra struttura e storia Louis Althus­ ser ha seguito la via opposta a quella dello storicismo. Anzi­ ché unificare i due termini, riportando la struttura a storia, ha tentato di tenerli distinti e divisi . «La conoscenza storica - ha scritto - non è più storica di quanto non sia zuccherata la conoscenza dello zucchero» (LC, p . 1 1 3). Ma vediamo come è giunto a tale affermazione . Althusser muove da una serrata critica dell'empirismo e dell'he­ gelismo . Entrambi concepiscono il conoscere come appar­ tenente «alla struttura reale dell'oggetto reale» ( ib. , p. 40) .

253 Hegel facendo del conoscere la rivelazione dell'Essenza idea­ le , intesa come la realtà assoluta; l'empirismo concependo il sapere come astrazione dall'oggetto reale della sua essenza reale ( cf. ib. , p. 36) . Ma il pensiero - obietta Althusser - non procede dalla realtà, né dal singolo esistente, né dall'univer­ sale Idea. Il pensiero inizia da sé : da un concetto generale, già dato, quindi «ideologico», non scientiRco, che mediante il lavoro critico porta a scienza, ad oggetto epistemico concreto ( cf., M, pp . 64 ss . ) . A quale esigenza risponde questa tanto netta separazione del pensiero dalla realtà? All'esigenza di mantenere l'ogget­ to reale nella sua piena indipendenza «fuori del pensiero», come dice Marx in un passo dell Intro du zione del '57 che Althusser cita come suo vessillo . Ma in Marx la distinzione tra ardo reru1n e ardo idearutn, come si è visto, non esclude una loro più profonda unità - anzi la presuppone . Althusser invece, anche oltre Marx, intende mantenere salda la separa­ zione delle due sfere, ritenendo idealistica ogni confusione tra il «concreto-di-pensiero» ed il «concreto-realtà» . Ora non si nega certo che tra i compiti di un'epistemologia materialistica vi sia quello di determinare i limiti del pensiero, ma che la via percorsa da Althusser sia quella giusta, è difficile concedere ( cf., ad es . , M, p. 221 ) . Ma seguiamo, intanto, il nostro Autore nel suo cammino. '

La critica dell'empirismo - e cioè : la chiara denuncia dell'i­ dealismo implicito nell'empirismo - non può non coinvolge­ re anche la concezione empiristica del tempo lineare , inteso come dato reale immediatamente presente alla rappresenta­ zione . Il tempo storico - obietta Althusser - non è un dato intuitivo, una rappresentazione «reale» . Al contrario, esso è accessibile solo attraverso il concetto - ed ogni concetto «deve essere prodotto, costruito» (LC, p . 108) . La scienza - la pratica teorica - è appunto la produzione di concetti mediante i quali

254 noi ci appropriamo dell'oggetto reale . In che modo avviene questa appropriazione ? La riflessione sul tempo ce lo mostra. Rileva Althusser: il tempo della produzione capitalistica non è un tempo unico ed omogeneo, è anzi un «tempo complesso», un «tempo di tempi» : «il tempo della produzione e il tempo del lavoro, la differenza dei diversi cicli di produzione (rotazione del capitale fisso, del capitale circolante, del capitale variabi­ le, rotazione monetaria, rotazione del capitale commerciale e del capitale finanziario, ecc . )» (ib. , p . 108) . A non dire di altri tempi: della vita biologica, come della vita politica, della prati­ ca teorica, dell'arte . . . Beninteso, tutti questi tempi differenti, pur nella loro relativa autonomia, sono tra loro collegati in una totalità gerarchicamente strutturata. Questa totalità comples­ sa, strutturalmente articolata a vari livelli, costituisce il luogo di comprensione della società capitalistica e della sua storia. Della sua storia, si è detto - e non della storia taut court. Perché la storia di altri tipi di organizzazione sociale richiede altro concetto di tempo, un differente spazio di "lettura", una diversa totalità complessa. Ora ciascuna struttura complessa, per avere in sé il tempo, o, meglio, i vari livelli di tempo, non è essa stessa nel tetnpo . Ecco perché «la conoscenza della storia non è storica più di quanto non sia zuccherata la conoscenza dello zucchero» .

È evidente: lo spazio di giuoco del tempo non è nel tempo. Solo che non c 'è un unico spazio - ve ne sono molteplici . Diverse sono infatti le forme di produzione , diverse le struttu­ re sociali che si sono succedute nel tetnpo. V'è allora un tempo che contiene in sé tutti i tempi, uno spazio di tutti gli spazi, un orizzonte di tutti gli orizzonti? Althusser rilutta ad una tale conclusione : «come non esiste la produzione in generale - scri­ ve - così anche non esiste la storia in generale, ma solo delle strutture specifiche di storicità fondate , in ultima istanza, sulle strutture specifiche dei differenti modi di produzione» (ib. ,

255 p . 1 16 ) . Ma il rifiuto della storia generale , del tempo universa­ le , può a questo punto significare soltanto che non ne abbiamo il concetto, il concetto detenni nato ( e come potremmo averlo, se esso è appunto generale?) - non certo che realiter non vi sia questa storia, questo tempo "universale". La stessa plura­ lità dei diversi spazi temporali presuppone un unico spazio di . comprensione . Anche la conoscenza storica, quindi, cade nella storia, è stori­ ca - anche se di una storia senza concetto ! Sicché neppure la netta e rigida separazione di pensiero e real­ tà riesce ad eliminare il contrasto tra struttura e storia, episte­ me e realtà. La realtà, la storia è più ampia del concetto che dovrebbe comprenderla. Ma è poi veramente extra 1nente1n la storia che comprende il concetto di storia? O non è, questa stori a reale, la pura successione lineare del tempo "ideologi­ co"? Questo va detto non tanto per mostrare che alla fine il sapere ideologico non cede a quello epistemico, ma anzi lo sorpassa, quanto per rendere evidente che la stessa distinzio­ ne tra pensiero e realtà, posta inizialmente in modo così netto, non regge . Pensiero e realtà si scambiano di continuo i ruoli - e dove credi di trovar l'uno, ti imbatti nell'altra, e viceversa. 5. Dopo questo lungo giro possiamo tornare a Croce e Genti­ le, e ai loro studi marxiani . L'orizzonte ermeneutico per una più problematica lettura è stato tracciato . Cominciamo con Gentile. L oscillazione , a suo tempo rilevata, tra la tesi che ogni proposizione empirica è elevata a proposizione necessaria, a priori, quando dalla sfera dell'esperienza, donde viene appre­ sa, la si riporta a quella della conoscenza sistenwtica del reale, e l'altra che dalla rete a grandi maglie dell'essenza metafisica - razionale per Hegel, economica per Marx - sfugge tanta e tanta parte della realtà fenomenica; questa oscillazione espri­ me a suo ntodo quella medesima contraddizione tra episteme

256 e storia, pensiero e realtà, che ab biamo ritrovato in Althusser, in Labriola e , prima ancora, in Marx. Che non è una contrad­ dizione di pensatori poco coerenti . È la contraddizione insita nella cosa stessa. La contraddizione che caratterizza il tempo. Il pensiero del tempo . Che per un verso esige un orizzonte di comprensione che contenga la totalità del divenire , del tempo, per un altro riconduce questo medesimo orizzonte entro il tempo che esso dovrebbe contenere in sé, cotnprendere. Tutta la fìlosofìa di Gentile è dominata da questa contraddizione, che emerge sin negli scritti marxiani del periodo giovanile . E pertanto quando si parla di Gentile come del filosofo del dive­ nire - del divenire , non del concetto del divenire4 -, si dice solo una mezza verità. Gentile cerca in tutti i modi di pensare il divenire , di pensare la prassi, quel concetto che nuovo per il materialismo, accompagna l'idealismo sin dalla nascita; m a per la radicalità stessa del suo pensare , che tende a concilia­ re comunque la contraddizione , conclude nell'esatto opposto dell'assunto originario. Se la prassi va pensata senza nuz teria o, per dirla con Hegel, se la sostanza dev'essere portata a sogget­ to compiutamente , perfettamente , allora il divenire non deve aver più nulla alle sue spalle , ogni presupposto dev'essere consumato, bruciato nel fuoco eracliteo del suo porre . Nulla alle sue spalle - ma anche nulla avanti a sé, foss' anche la nuda distesa, la vuota possibilità di un tempo futuro da "riempire". Tutto il divenire , l'intero tempo storico si raduna e raccoglie nell'atto presente del pensiero . Il pensiero in atto occupa tutt'intero lo spazio della verità, tò pedion tés aletheia s, da cui mai non esce - come il Noils plotiniano (En , VI, 7, 13) . L'af­ fermazione assoluta della prassi - della prassi senza presup­ posto o materia, della prassi idealistica - si traduce così nella negazione assoluta della prassi . Gentile cercherà di sottrarsi a questa conclusione facendo spazio nel logo concreto , nell'e4. Del Noce, SR, pp . 121-98.

257 temo presente , al logo astratto: al fìnito e particolare, al prima e al poi, al tempo della successione , al presente storico che tramezza passato e futuro. Ma questo tempo è vero solo nella totalità del presente eterno : è lo spazio già da setnpre disteso di questo presente . È divenire ut pictura in tabula, per dirla con le parole di Gentile critico di Hegel. Certo più feconda, più problematicamente feconda, la distin­ zione giovanile tra essenza e fenomeno: tra le larghe maglie delle forme essenziali passava la realtà "inessenziale", non razionale, non economica della vita, del divenire, del tempo. Il divenire , il tempo, la vita è allora l'altro, il radicaltnente altro

dal pensiero ? 6. Questo contrasto tra la Vita e le Forme, tra la storia e il pensiero, il divenire e l'essere - è il luogo, il topos fìlosofìco di Croce . La ragione della sua negazione della fìlosofìa della storia è appunto nel convincimento che sia impossibile «una riduzione concettuale del corso della storia» . È certo possibile cogliere col pensiero singoli elementi o aspetti della realtà, «fare una fìlosofìa della morale o del diritto, della scienza o dell'arte , e insieme una fìlosofìa delle loro relazioni», non è dato però «elaborare concettualmente il complesso indivi­ duato di questi elementi, ossia il fatto concreto, che è il corso storico» (MSEM, p . 3) . Si osservi : il fatto concreto, il corso storico è di là pur delle relazioni tra i vari elementi che lo compongono. Labriola aveva detto: dalla vita al pensiero presupponendo che il pensiero vero con e nelle sue astrazio­ ni riuscisse a rendere la vita, la ragione e la realtà della vita, la fìlosofìa immanente nelle cose; C roce, il letterato, erudito Croce, nei suoi studi marxiani non mostra la stessa fede del Maestro . Per lui le leggi scientifiche sono solo degli schemi con cui noi possiamo orientarci nella realtà - ma non sono la realtà stessa, la realtà vivente della storia. «Tutte le leggi

258 scientifìche - afferma - sono leggi astratte; e fra l'astratto e il concreto non c 'è ponte di passaggio» (ib. , p. 101 ) . In questa prospettiva s'intende bene l'importanza della questione posta da Croce riguardo allo statuto epistemologico del Capitale - se dovesse, cioè , esser considerato una ricerca storica o scientifìca -, connessa alla q uerelle sulla teoria dell'e­ guaglianza valore-lavoro. Labriola aveva defìnito questa egua­ glianza la «premessa tipica» dell'intera analisi marxiana, distin­ guendola dalle «premesse di fatto» , le condizioni storiche particolari della società capitalistica (DSF, pp . 21 ss . ) . Croce fa sua questa defìnizione: «il valore-lavoro di Marx - scrive - non è solo una logica generalità, ma è anche un concetto pensato e assunto come tipo, ossia qualcosa di più e di diverso da un mero concetto logico» ( ib. , p . 63) . N el ridurre la portata logica della teoria marxiana, Croce ne mette in luce nel contempo un altro aspetto, per lui anche più importante : la sua maggiore vicinanza alla storia, al concreto . Il Marx nell' assutnere a tipo l'eguaglianza del valore col lavo­ ro e nell'applicarlo alla società capitalistica, istituiva paragone della società capitalistica con una parte di se stessa, astratta ed innalzata ad esistenza indipendente: ossia, paragone tra la società capitalistica e la società econotnica in se stessa ( tna solo in quanto società lavoratrice) . In altri tennini, egli studia­ va il probletna sociale del lavoro, e mostrava, col paragone implicito da lui stabilito, il tnodo particolare in cui questo probletna viene risoluto nella società capitalistica.5

La defìnizione del marxismo come canone empirico di inter­ pretazione della storia non è allora un giudizio riduttivo soltanto. Se non è lecito respingere le astrazioni e le ipotesi delle scienze, neppure è lecito sopravvalutarle - afferma ora

5. Ib. , p . 70. In merito v. l'importante saggio di C . Tuozzolo, \VC, sul rappor­ to del giovane Croce con Weber.

259 Croce - «quasi che ( nella scienza) consista non si sa quale aristocrazia dello spirito umano». lnvero «dalle reti a grandi maglie delle astrazioni e delle ipotesi scivola, inafferrabile, la realtà concreta, ossia il mondo stesso in cui noi viviamo e ci muoviamo , e che c'importa conoscere» (ib. , p . 1 12) . La real­ tà concreta - inafferrabile non solo con gli schemi e con le astrazioni della scienza, ma anche con le astrazioni degli ideali morali o politici, quali che essi siano, !iberisti o comunisti . Oltre l'intelletto , oltre le leggi e i programmi, oltre il giudizio sul passato e le previsioni dell' awenire - vi è la forza che agisce , la prassi. È a questo livello che l'eguaglianza valore-lavoro rivela tutt'intero il suo significato . Ma facciamo parlare direttamen­ te Croce : quella eguaglianza non è né un ideale morale né una legge scientifica, ma un fatto - «Un fatto che vive tra altri fatti, ossia un fatto che empiricamente ci appare contrastato, sminuito, svisato da altri fatti, quasi una forza tra le forze» (ib. , p . 68; corsivo mio) . Marx Machiavelli del proletariato , Marx uomo pratico e rivo­ luzionario più che teorico - ora queste definizioni non hanno più niente di riduttivo e di paradossale. Esprimono anzi un giudizio largamente positivo, pienamente coerente con l'asse­ rita divaricazione di pensiero ed essere, episteme e storia. Il canone empirico è il ntediunt per awicinarsi alla storia viva, al mondo che la scienza è incapace di afferrare . A quel mondo di fatti che sono forze tra forze - come l'idea-forza, fatto anch'es­ sa, dell'eguaglianza del valore col lavoro . Prassismo radicale ? affermazione della volontà contro il pensiero? vitalismo, irrazionalismo? Croce awertì fortemente la seduzione di questi 1notivi - che peraltro andavano affer­ mandosi in Europa e presto sarebbero dilagati anche oltre l'ambito pur sempre ristretto della cultura. Ma, scorgendovi subito l'implicito nihilismo, volle come imbrigliarli, incatenarli ad una legge, ad una forma.

260 Logicamente prassismo, vitalismo, irrazionalismo non sono sostenibili . Essi pretendono di far filosofia fuor della filoso­ fia - perché non si fermano al gesto irrazionale, vitale , prati­ co. Lo esibiscono in un discorso, lo portano al linguaggio . Vogliono cioè legittimarlo . Ma la parola che dice la prassi, che nomina il "gesto" vitale - il lago dell'irrazionale non è prassi, vitalità, irrazionalità. E appunto logo, discorso, ragione . C'è da chiedersi allora cosa si celi in questa esigenza di legittimazione che nasce dalla prassi stessa - ed è questa la domanda-guida di Croce . Evidentemente nella prassi v'è una "logica", una "ragione" che vuol essere riconosciuta facendosi parola, discorso. Una logica, una ragione che non è la logica e la ragione del pensiero e che pertanto esige d'essere rico­ nosciuta iuxta propria principia: nel pensiero come l'altro, lo héteron e non l'enantion del pensiero . E ciò vale anche, anzi vale soprattutto per quella prassi che sembra esser sciolta da qualsiasi principio che non sia la fo rza Anche la forza vitale è razionale . Ha la razionalità dell'ofelimo, dell'utile immediato - di quell'utilità che non guarda al fine ma solo alla congruen­ za dei mezzi rispetto allo scopo, quale che esso sia. N ella sua sentplicità estrema è questa la legge econontica universale che sta non accanto ma sopra la legge - o meglio: il tipo - dell'e­ guaglianza del valore col lavoro , che tutt'al più descrive un elemento caratteristico di una società storica. L'Economia definisce lo "spazio di comprensione", il luogo epistemico ideale eterno, dei fenomeni più semplici, se si vuole, dei dati immediati dell'esistenza storica. '

-

.

Labriola capì subito dove portava la via intrapresa da C roce . I n una breve lettera del N atale 1896 (da Croce definita «assai spiritosa» - ma che è molto più che spiritosa) , così scriveva al suo più giovane amico: «Colgo questa occasione per dirti che tu ti sei awenturato troppo ad affe rmare l'esistenza, sia pure ipotetica, dell'economia pura. E perché non il diritto puro, l'estetica pura, la bugia pura? E la storia dove se ne va?»

26 1 ( CMS, p. 296) . Labriola però non s'avvide che C roce face­ va esplodere una contraddizione nella quale era lui stesso: la contraddizione tra il presente epistemico e il presente storico. E non bisogna commettere l'ingiustizia di ritenere che C roce non fosse consapevole del contrasto in cui era. È ben vero il contrario : la sua :fìloso:fìa, ripeto, vive di questo contrasto . Già, vive. Perché Croce tenta diverse vie per risolverlo, ma non si ferma a nessuna d'esse . Apre il problema là dove sembra averlo chiuso. Ma proviamo a defìnire meglio il problema, così come si prospetta in Croce e a Croce. Dunque : se non si determina lo spazio di comprensione della storia, questa non potrà esser conosciuta - ma se lo si defìnisce, la storia viene incatenata ad una presenza eterna, immobile. Croce rompe questo spazio in varie forme : dal loro sempre vario articolarsi sorge la storia reale, vivente . Letemo stesso è storia, perché internamente molteplice e vario . La storia cioè non s'attua entro lo spazio :fìsso del presente epistemico, non è mero fenomeno di un'e­ tema essenza. La storia è il movimento di questa medesima essenza: il passare eterno e temporale dell'arte nella :fìloso:fìa, della teoresi nella prassi, dell'utile nella morale, e da questa ancora nell'arte e così ad infinitunt. N el farsi espressione il sentimento, e giudizio l'espressione , ed azione il giudi­ zio, verunt et factunt convertuntur: la storia ideale eterna si converte nella storia reale, nella storia che accade nel tempo. Il circolo dell'eterno ritorno segna l'avvento dell'ineguale , del sempre diverso . Almeno così pare . Ma, che ne è della :fìloso:fìa che defìnisce questo circolo? N o n resta essa immutabile nell'eterno variare del tutto? S e il circo­ lo delle forme è la storia vivente: l'unità di eterno e tempo, struttura e storia, permanente e mutevole, identico e diverso, quiete e movimento - ove nella defìnizione del circolo, dell'i­ dentico-diverso, il diverso? In che muta tale defìnizione ? Con

262 che fa circolo ? N o n si tratta qui della «questione formale» che la definizione non può passare in altro - arte o prassi - ché già le contiene in sé . La questione formale è specchio di una questione , come dire ?, di sostanza. La definizione , la defini­ zione filosofica del circolo non è qui da prendere come altra cosa dal circolo - la sua immagine pensata, o rappresentazio­ ne , o concetto -; la definizione è qui la riflessione del circolo su se stesso: il concetto del concetto - come dice bene Croce - ma non nel senso ch'esso è parte di un tutto - come pensa male Croce -, bensì nell'altro secondo cui esso, il concetto del concetto, è il tutto medesimo: il circolo delle forme nella sua trasparenza di sé a sé . Il circolo nella sua immanente rive­ lazione . Il circolo in quanto sapere di sé nelle sue articolate forme distinte . Per cui torna la domanda: con che fa circolo il circolo? Una forma passa nell'altra - ma il passare non passa. Il circolo non ha altro circolo in cui divenire . E allora? Croce tentò di rispondere chiamando in causa la «vieta", "banale" distinzione del senso comune : la distinzione tra teoria e prassi . E fu il suo colpo d'ala. Quella distinzione investita di tanto peso problematico gli si trasformava tra le mani . Non era più la distinzione tra due diverse e alternantesi facoltà o dispo­ sizioni spirituali : del contemplare e dell'agire , del conoscere il mondo e del mutarlo. Era la distinzione dei diversi piani antologici della storia. Ad esprimere questa distinzione non bastavano più le comuni, usuali denominazioni . Più antiche parole accorrevano. C roce le mutuò dalla teologia: Grazia e

libero arbitrio6. Ogni vita storica è insieme opera della Grazia e prodotto del fare umano. Insieme , si è detto - eppure quando è opera della Grazia non è prodotto dell'uomo . Vediamo come.

6. Cf. US,

pp .

Ex-cursus l.

290-95,

su

cui

v.

retro, P. l , Sez. l ,

cap .

l , e infra, P. Il,

263 Ogni vita storica - sia essa azione politica ed economica o atto di pensiero, realizzazione etica o contemplazione estetica ove la si consideri quand'è compiuta, appare non il risultato del volere umano, la sintesi progettata degli sforzi di tutti e di ciascuno, piuttosto come l' accadinwnto cui tutti hanno coope­ rato non come agenti, ma come strumenti . I singoli scopi e le azioni per conseguirli, le awersità, i contrasti, il bene compiu­ to ed il male , le verità scoperte e difese, ma non meno gli errori - tutto ha contribuito all'opera del Tutto, che ne sa più di noi . La Grazia talora ci ha illuminato, talaltra no, secondo la sua propria logica. In questa prospettiva come non c'è bene né male , perché tutto quanto è accaduto era necessario al compi­ mento dell'opera, così non c'è colpa né merito, perché non v'è responsabilità, né individualità. L'accadimento della Grazia è sotto il segno della necessità: quanto è accaduto dov eva acca­ dere, quanto accade deve accadere , quanto accadrà dovrà accadere . Invero qui il tempo è fuori luogo. La necessità della Grazia non conosce il futuro, né il presente teso all'awenire . S e essa si rivela all'uomo soltanto nella comprensione storica, ciò è perché la logica della Grazia è la logica del passato . Ma di un passato che copre l'intero spazio della storia. È la logica del passato in quanto essenza: tò tì en efnai, q uod q uid erat esse. Ma se si muta prospettiva e si considera l'opera nel suo farsi, allora quel medesimo atto di vita storica che sembrava conse­ gnato alla più rigida necessità - quella del già da sempre acca­ duto - si mostra frutto d'azione e di decisione , di volontà o pensiero responsabile, meritevole o colpevole, degno di lode o di biasimo e condanna. Si mostra libero. E non importa se accaduto mill' anni fa o ancora da compiersi . La storia conte pensiero è la storia della Grazia, della neces­ sità. È la storia sub specie aeternitatis. La storia nell'Eterno Presente di Dio . La storia conte azione è la storia degli uomi­ ni, della libertà, dell'agire responsabile . La storia nel tempo.

264 Croce tenta di conciliare le due storie richiamandosi all'alter­ no succedersi di teoria e prassi . Ma l'argomento non regge: l'alternarsi di teoria e prassi può spiegare tutt'al più come si conciliano in ntente le due prospettive , ma non in re, nella cosa stessa. La Grazia non viene prima o dopo l'azione libera e responsabile - è coattuale a questa. Come si diceva: ogni atto di vita è insietne opera della Grazia e prodotto del fare umano . Eppure non v'è maggior contrasto che quello tra la Grazia e il libero arbitrio . Croce è tentato a spegnere il contrasto ridu­ cendo il valore antologico della prassi . Afferma infatti che i concetti di colpa e merito, responsabilità e individualità sono come le «illusioni degli amanti». Ma poi precisa: anche le illu­ sioni degli amanti sono reali. Una diversa conclusione avreb­ be portato alla negazione pura e semplice della prassi . Vero è che la prassi cede alla teoresi, il libero arbitrio alla Grazia soltanto nella prospettiva della Grazia, della teoresi . Ma nella realtà del fare - del fare pratico come del fare teoretico - l'in­ tera scena della storia è occupata proprio dalle illusioni della responsabilità, dell'individualità, della colpa e del merito. Qui è la teoresi che cede alla prassi . Questa contraddizione tra teoria e prassi, episteme e storia, non è un limite del pensiero di Croce . Al contrario testimo­ nia del legame profondo di questo rapsodico pensatore con le inquietudini del suo tempo. Inquietudini, che egli patì in vario modo : da storico, cercando di allontanarle da sé e dal suo mondo con un verdetto di condanna, da "alessandrino", costruendo un �'sistema" filosofico in grado di imbrigliarle, e tuttavia, nei momenti di più raccolta meditazione , costret­ to dalla cogenza del pensare a riconosceme la profondità, più profonda di tutte le difese apprestate contro di esse, più profonda di tutte le formule concilianti della sua filosofia.

265 II La carne e lo spi-rito

l . Nel l932 , nel saggio Die Literarisierung des Lebens in Lope 's Dorotea, Leo Spitzer osservava che la sovrabbondanza delle immagini di culto, e dei concetti, e dei preziosismi espressivi, che caratterizza l'arte barocca, non dipende, come riteneva Croce, dal desiderio dell'artista di essere ad ogni costo origi­ nale, e quindi di sotprendere e stupire, e tanto meno dal non sapere esprimersi che in forma manierata ed ampollosa; deri­ vava, bensì, dalla «consapevolezza di esprimersi in un modo che non poteva corrispondere a ciò che pure si doveva dire (dent Auszusagenden)» . Croce replicava contestando «le trop­ pe e gravi cose che i recenti critici e storici letterari tedeschi ritrovano nel barocco , che essi considerano come una forma di spiritualità etica o, per lo meno, un caso di spirituale dram­ maticità»; ribadiva alla fìne il suo giudizio con un lapidario: «il barocco è "non-stile"»1.

Continuava, precisando «O s i può chiamare stile solo a quel modo in cui si parla di "stile brutto", "stile falso", "stile retorico", ecc., nelle quali deno­ minazioni l'aggettivo nega o ironizza il sostantivo» : B . Croce, CcN, pp. 131 (per la cit. di Leo Spitzer cf. p . 129, nota 2) . l.

266 Se iniziamo a parlare dell'interpretazione che Croce dette del Barocco con la critica mossagli da Leo Spitzer, è perché egli privilegiava sulle altre la storiograRa tedesca. Nel l929 , dedi­ cando a Karl Vossler la Storia dell'età barocca in Italia, ricor­ dava quanto aveva detto nel pubblicare Teoria e storia della storiografia (apparsa in tedesco nel l915, e solo l'anno dopo in italiano ), e cioè che i problemi di storia e di metodologia storica che aveva dovuto affrontare erano sorti in Germania, anche se poi rivendicava all'Italia (ovvero: a se stesso) il merito di aver dato ad essi soluzione2 • S'aggiunga che il forte legame di Croce con la storiograRa di lingua tedesca, che risale sin ai suoi primi studi3, ha, riguardo al nostro tema, ragioni affatto particolari . Gli storici italiani dell'800, spiega Croce , avendo partecipato agli eventi del Risorgimento nazionale , presi da passione di parte , videro nell'età rinascimentale con la Rne dell'indipendenza nazionale l'inizio della decadenza italiana; preferirono pertanto dedicarsi allo studio dell'età medievale e delle lotte dei comuni contro l'Impero. Quindi, per appro­ fondire la conoscenza del Rinascimento e della Riforma, dei movimenti storici, cioè , che sono all'origine dell'età moderna, è necessario volgersi alla storiograRa degli altri popoli dell'Eu­ ropa colta, e segnatamente a quella tedesca, educata da una «migliore RlosoRa» a riconoscere «gli effettivi valori della storia della civiltà e ad accoglierli obiettivamente , da qualunque parte venissero» ( SBI, p. 4 ) . Croce menziona in particolare la Civiltà del Rinascinwnto di Burckhardt e I papi dei secoli XVI e XVII di Ranke, ma cita ancora Troeltsch e Burdach, Gothein e Vossler. In questi autori, afferma, s'avverte l'esigenza mora-

2. Cf. B . Croce, SBI, p . VIII. La replica a Spitzer è contenuta nella recen­ sione molto favorevole della monografia su Lope de Vega del Vossler: cf. retro, n. l. 3 . Cf. il saggio giovanile "La storia ridotta sotto il concetto generale dell'ar­ te" ( 1893), in B. Croce, PS .

267 le di volgersi alla comprensione del passato per far luce sui problemi del presente e sulle possibili scelte da compiere per l'awenire . Sin dalle prime pagine della Storia dell'età barocca in Italia emerge chiaramente il circolo pensiero-azione , che è il tratto caratterizzante la metodologia della storia di Croce ; ed emerge nel suo duplice risvolto : negativo riguardo alla storia­ grana di parte , incapace di dominare la passione politica che la motiva; positivo riguardo alla storiogra:6a etico-politica, che subordina alla verità la passione da cui sorge . 2. La Storia dell'età barocca in Italia si apre con un'introdu­ zione storico-:6loso:6ca divisa in tre capitoli : "Controriforma", "Barocco" , �'Decadenza". Il titolo del primo capitolo è in veri­ tà riduttivo , perché in esso Croce si sofferma anzitutto sulle interpretazioni che del Rinascimento e della Riforma hanno dato gli storici tedeschi, e soltanto in relazione a queste la sua interpretazione della Controriforma si spiega. Croce ricorda i tre principali indirizzi della storiogra:6a tede­ sca: quello tradizionale, che scorge nella Rifo rma l'origine dell'età moderna; l'altro , più recente che si ispira al pensie­ ro di Nietzsche, per il quale è nel Rinascimento che sono stati formulati per la prima volta i principi ed i valori della modernità, essendo invece la Riforma un contromovimento reazionario che intralciò lo sviluppo dei principi rinascimen­ tali e contribuì potentemente a far sorgere l'opposta reazione della Chiesa di Roma: la Controriforma; il terzo, che scorge in entrambi i movimenti l'operare del medesimo principio­ guida dell'età moderna, quello dell"'individualità" che si affer­ ma tanto nella sfera mondana dell'arte e della politica, quanto nella sfera religiosa dei rapporti dell'uomo con il trascendente . Croce prende partito a favore di questa terza tesi, ma con la riserva che la questione non può essere risolta con meri dati di fatto, essendo non storica , ma teorica,filosofica. Rinascimento

268 e Riforma sono le manifestazioni storiche dei due momenti dialettici sempre presenti nello spirito umano : l'individuale e l'universale , la Terra e il Cielo , l' U orno e Dio . Ciò che caratte­ rizza l'età moderna, il suo vero principio direttivo, che pur tra mille difficoltà si va imponendo, è l'«armonia delle due forze che per tal via si vengono convertendo entrambe in imma­ nenti». Conclude Croce - ed è, questo , un punto capitale -: «l'attuazione sempre più piena di tale armonia nelle idee e nel costume generale è, si può dire , il tema della nuova storia dell'umanità» (ib. , p . 7) . La chiara impronta hegeliana di questo passo non ha biso­ gno d'essere sottolineata. Va rimarcato invece il fatto che nel periodo in cui compone la Storia dell'età barocca - che è quel­ lo dell'affermarsi in I tali a della dittatura fascista e del matu­ rare dell'opposizione liberale del filosofo - Croce, ripensando ed approfondendo la sua concezione politica, va scoprendo oltre il principio da lui attribuito a Machiavelli dell' autono­ mia del politico (autonomia difesa nella sua purezza negli anni della prima formulazione del sistema) , il vincolo che unisce la politica all'etica4. Vedremo tra breve quale sarà l'incidenza di questa riflessione sull'interpretazione dell'età barocca. Ma ora torniamo al nostro tema specifico. Se Riforma e Rinascimento rappresentano per Croce le mani­ festazioni storiche di due momenti ideali dell'animo umano, ed in quanto tali le forze nuove e rinnovatrici che portaro­ no all'età moderna, la Controriforma fu invece solo una forza di conservazione sorta a difesa del potere religioso, culturale e politico della Chiesa di Roma. La distinzione è concettua­ le prima che storica: mentre Rinascimento e Riforma sono anche più della loro contingente storicità, la Controriforma è tutta immersa nel tempo storico. Croce non nega che la

4. Cf. in partic. i saggi raccolti in EP.

269 Controriforma svolse anche un'azione positiva - "benefìca", dice - difendendo un'istituzione di antica tradizione e civiltà, né nega la migliore e più raffìnata cultura della Chiesa catto­ lica rispetto a quella luterana, e non solo sul piano letterario e fìlosofìco, sì anche su quello ben più impegnativo della sfera religiosa, dell'interpretazione delle Scritture e dei Padri della Chiesa; tuttavia, per lodi che si vogli an fare a quest' opera di difesa e conservazione di un'antica e nobile istituzione, biso­ gna pur dire che la Controriforma non risalì «come avevan fatto Rinascimento e Riforma, alle eterne fonti dell'umani­ tà per creare nuovi pensieri e nuovi atteggiamenti spiritua­ li e morali» (ib. , p . 16) . La Controriforma attinse ovunque poté: dalla cultura classica degli umanisti, come dai politici del Rinascimento, e dalla stessa Riforma quanto alla discipli­ na ecclesiastica ed alla correzione dei costumi, ma non creò nulla di veramente nuovo . E se "morale" è la forza che apre al futuro, e meramente ��politica" la difesa e la conservazione dello status q uo ante, allora la sua opera fu in senso eminente "politica" . In ciò la decadenza dell'Italia, e pur della Spagna - i paesi in cui maggiormente la difesa dell'istituzione cattolica si impose. Concentrando il suo sguardo storico sull'Italia, C roce osserva che nel Seicento venne meno non solo la grande fìlo­ sofìa, e la grande letteratura, e l'impegno civile; venne meno la cosa più importante : !'«entusiasmo morale». Certo non del tutto, altrimenti : «L'Italia sarebbe morta, ed ella non morl» (ib. , p. 45) . Questa "caduta" in senso proprio "morale" segnò la decadenza italiana nell'età barocca. 3. Per la fìlosofìa crociana la "decadenza" costituì un problema di non facile soluzione . Perché si scontravano in Croce due opposte tendenze : da un lato certo ottimismo di stampo otto­ centesco, per il quale nel cammino dell'umanità, nonostante le guerre, le rivoluzioni cruente , le sofferenze imposte dalla

270 dura realtà della storia, è pur sempre possibile scorgere un progresso, un avanzamento; dall'altro il suo realismo storico, che gli impediva di coprire l'effettualità dell'accadere sotto la coltre dell'ideologia ( e di qualsiasi ideologia, anche la propria) . La prima tendenza - favorita da certo schematismo dialettico tipico del suo sistema filosofico5 e dalla volontà di reagire al nichilismo che egli ben per tempo aveva visto profilarsi minac­ cioso nel cielo d'Europa6, nonché da una certa �'lettura", non proprio fedele , di HegeF - lo spinse ad affermare che la storia si svolge non dal male al bene , bensì dal bene al meglio (TS S, p. 75) . Ed in questa prospettiva parlare di "decadenza" era semplicemente un non-senso. Ma allora come intendere la crisi italiana - e non solo italiana - del Seicento? Croce ritenne di poter sciogliere il nodo richiamandosi alla distinzione dell'utile (o economico) dall'etico, che era uno dei capisaldi del suo "sistema" . Se è vero - spiegava - che ogni forma dell'agire umano è "bene", e cioè non solo l'operare morale nelle sue diverse sfere d'esplicazione , sì anche l'agire volto alla soddisfazione del proprio interesse personale , del proprio �'particulare" ( Guicciardini ) , "male" essendo, in senso stretto, soltanto il non-fare, tuttavia altro è la dedizione alle opere di verità e di bellezza, il sacrificio di sé per l'universale, altro la realizzazione del proprio esclusivo interesse. Pertan­ to il termine "decadenza" appare adeguato a designare quel modo di vita storica che si mantiene al livello più basso dell'o­ perare umano . Chiaro che , in tanto può legittimamente definirsi "decaden­ za" la vita storica orientata prevalentemente alla ricerca del 5. Sul tema cf. V. Vitiello, VR, Parte I, cap. Il. 6. Cf. oltre ai saggi raccolti in MSEM, e SI, cap . X, "Rigoglio di cultura e irrequietezza spirituale ( 1901 - 1914)". In merito cf. retro, Appendice l. 7. Cf. Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, SH; cf. retro, P. I, Sez. I, cap. l.

271 proprio utile, in quanto si assume come principio direttivo della vita dell'uomo la "ragione" morale8 . Il prevalere dell'eti­ ca, però, scompagina la presunta armonia del sistema crocia­ no: le quattro categorie in cui si articola: arte, :fìloso:fìa, econo­ mica ed etica, non sono di pari grado . Lutile , o economico, rappresenta, come si è detto, il livello inferior dell'operare umano . Il concetto di �'decadenza" connota, quindi, la stagna­ zione della vita in questa condizione di inferiorità, che si spie­ ga appunto con la caduta dell"' entusiasmo morale". Talché, a questo concetto che a tutta prima sembrava contrastare con il principio stesso del suo pensiero, C roce attribuiva invece una valenza :fìloso:fìca prim' ancora che storica. Ma c'è da dire di più: se il permanere al livello più basso del vivere spirituale dipende da una carenza di moralità, tuttavia anche tale permanere è possibile , solo perché, l'impulso mora­ le non è venuto del tutto meno. Anche la vita �'inferiore" della prassi meramente utilitaria è possibile solo per l'operare della morale . La :fìloso:fìa crociana tende al panmoralismo : l'etica regge tutto l'agire umano (cf. SPA, pp . 44-4 7) . Al tempo in cui lavorava alla Storia dell'età barocca in Italia, Croce de :finiva la storiogra:fìa etico-politica come la più alta forma di storia9, cui spetta il compito di valutare la maggiore o minore intensità della forma etica, il maggiore o minor grado di entusiasmo morale presente nella vita storica. In ciò consiste la valenza storico-:fìloso:fìca del concetto di "decadenza" . 4. Cerchiamo ora di intendere cosa signifìca in concreto che l'entusiasmo morale non venne meno del tutto, ma si smorzò;

8 . Dico "ragione" e non "prassi", perché morale è anche la ricerca del vero e l'operare artistico. 9 . Cf. il saggio: "Storia economico-politica e storia etico-politica", in EP, pp . 279-290.

272 che venne meno la grande fìlosofìa, e non la fìlosofìa, la grande arte , e non l'arte . Cominciamo dalla fìlosofìa. Nell'Italia del Seicento la specu­ lazione abbandonò i grandi temi metafìsici, per dedicarsi alla metodologia delle scienze fìsiche e matematiche, ove fece indubbi progressi, segnatamente con Galilei; quanto alla fìlo­ sofìa pratica, anche qui nessun progresso vi fu nello studio dei temi propriamente morali, registrandosi invece un notevo­ le fervore di ricerca riguardo ai problemi �'politici", quali la "ragion di stato", la "prudenza", la "dissimulazione honesta", ecc ., per usare la terminologia allora in voga. Croce passa in rassegna vari autori, sottraendo molti ad un ingiusto oblio; non è nostro intento qui ricordarli, né tutti, né qualcuno in parti­ colare . Ciò che qui ci interessa è mettere in rilievo il senso generale dell'analisi storica di Croce, che sta nel mostrare che anche dal punto di vista tematico il pensiero italiano del Seicento si assesta al livello più basso. Cos'è infatti la natura, di cui si ricercano le leggi, e cosa «la pura politica o ragion di stato considerata come l'indifferente radice e del bene e del male morale» ( SBI, p. 99), se non il pritno e più basso grado della vita dello spirito? lnvero non tutto torna in questa analisi storica. Proprio il fìlo­ sofo che Croce chiama in causa per indicare il progresso teori­ co rispetto alla teoria politica di Machiavelli, al cui livello si erano fermati, a suo dire, i politologi e gli storiografì italiani del Seicento, e cioè Tommaso Campanella, che contro l'uni­ laterale affermazione della politica oppose la superiorità della coscienza morale , rientra a pieno titolo nell'età che Croce studia. Se citiamo questo caso è per denunziare un certo ondeggiamento di Croce tra concetti e dati empirici - o, se si vuole : tra fìlosofìa e cronologia. Quello che si è detto per la fìlosofìa vale non meno per l'ar­ te . O meglio : per la sola poesia, perché C roce non considera

273 affatto le altre arti, come ad esempio la pittura (per la quale sarebbe certo difficile parlare di "decadenza" ) . I l giudizio crociano sulla poesia italiana del Seicento è molto duro . Dopo Tasso la voce della grande poesia tace in Italia. Con la sola eccezione del Campanella la cui opera poetica, però, «rimase nascosta agli occhi dei contemporanei, stampata in Germania in un libricciuolo che pochi videro e forse nessu­ no lesse in Italia, e certamente non svegliò alcun eco» ( SBI, p . 252) . Le altre composizioni più che poesia sono "pseudopoe­ sia", "simulazione di poesia", per lo stile gonfio e artificioso, per l'assenza di reale sentire, per la ricerca esclusiva del sorpren­ dente e stupefacente . I maggiori strali colpiscono Giambat­ tista Marino; ma anche là dove pare intenerirsi, concedendo qualche parco riconoscimento, questo appare più duro della stessa critica: «E nemmeno si vorrà considerare grande poesia quella del Metastasio, che pur fu poesia, la poesia di quell'ani­ ntula che era Pietro Metastasio» (ib. , p. 253) . Un autentico sentimento poetico C roce ritrova in quelle composizioni, ove comiche, ove sensuali o affettuose , in cui l'animo si libera scherzosamente del barocco. E allargando l'orizzonte dall'Italia alla Spagna, alla poesia popolare - che così definisce, parlando di Lope de Vega: «arte sorgente sopra una particolare condizione dello spirito, dommatica e non critica, di certezza e non di dubbio o di perplessità, di fede ricevuta e tradizionale , e non di travagliosa ricerca verso una fede non ancora raggiunta o solo con molto sforzo conquistata e con pari sforzo approfondita e difesa» (PAM, p . 277) . Cosa concludere ? Che anche nell'analisi della poesia, là dove è disposto a riconoscerla, Croce ribadisce il suo giudizio complessivo riguardo a questa età di "decadenza": l'assestarsi al livello di vita spirituale più basso, dacché anche la poesia popolare per la sua mancanza d'inquietudine e di travaglio, per il suo riposare su una fede ricevuta e non discussa, accet-

274 tata e non interrogata, rappresenta un livello di vita inferior, quantunque Croce precisi che «in poesia, la qualifìcazione [di poesia popolare ] non designa una defìcienza, e neppure un'in­ feriorità» (ib. ) . �'In poesia", ma non certo dal punto di vista di quell'entusiasmo morale cui più volte ci siamo richiamati di sopra. Fermiamoci ora sulla defìnizione crociana del barocco. 5. Cominciamo con l'etimologia. Croce riprende quella che connette Barocco al quarto modo della seconda fìgura sillogi­ stica, denominata appunto Baroco . Non che questa fìgura fosse più artifìciosa di altre - avverte -, ma certo colpì, probabilmen­ te per la vicinanza all'altra, detta Barbara , maggiormente l'im­ maginazione dei letterati del tempo. E Croce cita, per corro­ borare la sua tesi, un brano dell'Apologia del Caro, ed alcuni versi dalle Rilne burlesche di Giovanfrancesco Ferrari e dal Viaggio in Colonia di Antonio Abbondanti, nonché altre più tardive testimonianze . Cita ancora un passo dell'Encyclopédie, tratto da Renaissance u nd Barock del Wolffiin, ove si parla del Barocco come "nuance de bizarre", "abus", "ridicule poussé à l'excès". Respinge invece come improbabile la derivazione del termine dalla parola spagnola �'barrueco" o "berrueco", che indica una perla di forma irregolare . E conclude affermando che quale che sia l'etimologia, il fatto certo è che nella coscien­ za dei contemporanei il termine "barocco" designava «la forma di cattivo gusto artistico che fu propria di gran parte dell'archi­ tettura, e altresì della scultura e della pittura», oltreché della poesia e della prosa predominante nel S eicento. E nelle pole­ miche con i suoi critici - ad esempio con Leo Spitzer, ricor­ dato all'inizio - Croce non ha mai mancato di appellarsi alla coscienza critica degli stessi Secentisti. Ma vediamo più da vicino in che consiste per Croce il "brutto estetico" che va sotto il titolo di barocco . Citando Giovanbat-

275 tista Marino, per il quale il "fine" del poeta è di meravigliare, stupire , sorprendere, C roce valuta tale atteggiamento contra­ rio alla verità e all'incanto della poesia. Il barocco non segue la legge dell'arte, ma quella «del libito, del comodo, del capric­ cio», la legge del piacere , ovvero: dell'utile . È, questa, la defi­ nizione universale che del "negativo" dà Croce - del negativo in generale , in tutte le sue manifestazioni : del brutto estetico come dell'errore logico e del male morale (cf. LCP, P. III ) . E non è un caso che da questa definizione discenda la costata­ zione che il barocco in quanto peccato estetico «si ritrova in ogni luogo e tempo» , essendo «universale e perpetuo come ogni peccato umano» ( SBI, p . 33) . Non è questa la sede per interrogarci sulla coerenza del discorso crociano quanto alla determinazione filosofica del "negativo"10• Ciò che qui inte­ ressa rilevare è che questa definizione appare perfettamente in linea con quanto sopra si è detto sulla "decadenza" dell'età barocca. Anche il peccato estetico - anzi, sovrattutto questo testimonia che l'uomo del S eicento vive al livello più basso di vita spirituale . La definizione generale contribuisce , dunque, in questo caso ad illuminare la situazione storica particolare . Accostiamoci, allora, maggiormente a questa per compren­ dere la specificità storica del peccato estetico che va sotto il nome di "barocco". S crive Croce : Poiché gli torna impossibile attingere l'ilntnagine poetica che è, insietne, spirito e corpo, sentilnento e figura, idealità e sensibilità, al barocco, che non vuoi fare poesia tna destare stupore, non rilnane che o spaziare nelle antitesi e negli altri rapporti dei vuoti concetti, quasi a dar prova di spiritualità e idealità, o notare e riprodurre i segni delle cose nella loro materialità ed esteriorità, quasi a rnostrare la sua straordina­ ria forza plastica e il suo coraggio realistico. (Ib. , p . 30).

1 0 . S u cui cf. retro, Sez. l.

cap .

l.

276 Passaggio illuminante, perché rivela che l'opposizione di Croce al barocco è prim' ancora che estetica etica . Ma non nel senso che Croce opponga la più alta coscienza morale che si realiz­ za nella verità dell'arte, all' i feriore grado dell'utile o piacere . I;opposizione è tra due concezioni morali ! E si ricordi quanto si è detto di sopra riguardo al panmoralismo crociano, al fatto cioè che anche l'inferiore vita "economica" o "utilitaria" esige, per attuarsi, una qualche forza morale, ancorché meno inten­ sa o robusta. L'inferiore grado morale è chiaramente quello che è incapace di realizzare la classica armonia di anima e corpo, Cielo e Terra, universale e individuale, quello che vive nell'antitesi dei due eterni momenti della vita dello spirito . Il conflitto che qui viene in luce è tra l'etica dell'immanenza - di derivazione hegeliana, anche se non proprio, e non solo hegeliana - e la morale della trascendenza. E questo conflitto morale trova poi la sua traduzione nel campo dell'arte tra due opposte concezioni, l'una fondata sulla immedesimazione di forma e contenuto, espressione e sentimento, secondo l'ideale classico, al quale Croce riconduceva anche l'arte romantica, respingendo , non a caso, ogni rapporto tra barocco e romanti­ co, l'altra sulla separazione di ideale e reale, di forma e mate. n a. n

Questa opposizione etica viene in piena luce nel capitolo fina­ le della Storia dell'età barocca in Italia, dedicato appunto alla ''Vita morale". Scrive dunque Croce , ed è un passaggio di grandissimo rilievo : Il crudo awicinmnento e awicendmnento, che ci 1nostrano le figurazioni artistiche di quel tetnpo, di carnalità sensuale e lasciva e di thnor di Dio e paura dell'inferno, sono soltanto un aspetto di quella 1norale eteronoma, incapace di accettare, spiritualizzandola ed elevandola, la realtà naturale. Ma quel che più ilnporta è ribadire il già detto circa la sua incapacità a farsi principio di vita attiva, quale la società 1noderna richie­ deva: vita attiva che non poteva restringersi nella cerchia del

277 saper vivere e degli acco1nodarnenti e degli agi, e neppure delle pratiche del culto e delle cure della beneficenza, 1na doveva arnpliarsi a vita etica, politica e culturale, e dilno­ strare in tutte queste parti la sua forza produttrice . (Ib. , pp .

493 -494). Il giudizio di condanna estetica del barocco non è che un aspetto del giudizio complessivamente negativo pronunciato sulla Controriforma. E più generalmente sulla morale trascen­ dente. La questione qui toccata esige ulteriori chiarimenti . Iniziamo con l'interpretazione che Croce ha dato di Gongora in Poesia antica e rnoderna . 6. Il filosofo considera alcune traduzioni francesi da Gongora. S ebbene valuti positivamente il lavoro del traduttore - il criti­ co L. P. Thomas -, ne contesta però l'interpretazione di fondo . In particolare non gli appare convincente quella della canzone Que de envidiosos rnontes levantados : ove il Thomas vi scor­ ge «Un mélange singulier de platonisme et d' antiplatonisme» (PAM, p . 288) , Croce vi legge un canto nuziale che celebra insieme con la bellezza della donna e la felicità dello sposo, la triste e desolata vita di chi è escluso da tali gioie . Né debbono destare stupore le forti espressioni sensuali dell'epitalamio, perché nella tradizione e italiana e spagnola del tempo non erano affatto insolite in questo tipo di composizioni poeti­ che . Insomma, Croce spiega, contro un'interpretazione a suo avviso troppo intellettualistica, il valore dell'opera poetica di Gongora con «la simpatica risonanza che hanno in lui le forze e gli aspetti più vari della natura e dello spirito fatto natura, e la sapienza con cui ne rende le impressioni dando loro risalto ed energia nelle immagini che per loro scopre , tenendo in ciò sempre un modo virile e robusto» (ib. , p . 292; corsivo mio) . È evidente che ciò che Croce condanna in generale non è la vita volta alla sana soddisfazione del piacere sensibile, che è pur

278 sempre testimonianza di una forza spirituale , quantunque non elevata. Egli condanna la vita che oscilla tra piacere e dovere : "il singolare miscuglio di platonismo e di antiplatonismo", e cioè la debolezza dello spirito, che abbassa il piacere a malat­ tia dei sensi ed il dovere a passiva contemplazione della morte colta nelle sue più tremende immagini . N e troviamo conferma in una recensione che Croce dedicò al libro di É mile Male su L,art religieux après le Conci le de Trente ( Clin, Paris 1932) , ove si legge che «la continua fìgurazione della morte in forma di teschi e di scheletri» va interpretata non al modo del Male «come spiritualità che si volge all'eterno» , bensì come «una materialistica idea dell'uomo e della vita umana fatta consiste­ re nella carne e perciò dimostrata nulla nell' ossame dispoglia­ to di carne» (CcN, pp . 21 -22) . Ma vi è un'altra osservazione di C roce riguardo alla traduzione del Thomas delle poesie di Gongora, che è interessante rileva­ re . Nelle «fìni versioni» del «critico ed ammiratore francese», scrive, si avverte una «fìsionomia» diversa da quella dell' origi­ nale , dovuta all'influsso di Mallarmé . Se ora leggiamo le pagi­ ne di Croce su Paul Claudel, che risalgono a molti anni prima della recensione del libro di Male ( cf. IPG, pp . 195-208) , troviamo quasi le stesse espressioni impiegate per condannare la spiritualità barocca. Un medesimo principio è quindi alla base del giudizio negativo sul Barocco e della condanna della poesia contemporanea: l'ideale classico della vita, l'unione di Cielo e terra, spirito e natura. Questo per dire che i giudizi dettati da Croce su questo o quell'autore - Marino o Gongora, Mallarmé o Valéry, Rimbaud o Claudel - segnano non solo, e non tanto, i limiti di un gusto e di un'estetica, quanto e sovrat­ tutto i limiti di una concezione etica della vita e della storia umana.

279 7. Può essere utile , ora, far seguire alla lettura crociana del Barocco quella di Walter Benjamin. Utile, per confrontare sul terreno dello stesso fenomeno storico due opposte etiche, e due diverse ermeneutiche : da un lato il cristianesimo seco­ larizzato11, l'etica dell'immanenza di chiara impronta hege­ liana del fìlosofo italiano, dall'altro la morale ebraica della trascendenza assoluta del tedesco . Si tratta, beninteso, di un confronto indiretto perché al tempo della stesura della Storia dell'età barocca in Italia - tra il l 924 ed il l925, ma apparsa in volume nel '29 - Croce non poteva conoscere l' Ursprung des deutschen Trauerspiels, pubblicato solo nel '28, né Benja­ min conosceva i saggi di Croce apparsi sulla Critica, prima che in volume. Ma neppure in seguito i due autori mostrarono un qualche interesse reciproco12. Erano troppo distanti. Del primo s'è detto, fermiamoci ora sul secondo. Alla serietà etica della storia - tipica dello storicismo hege­ liano13 - Benjamin oppone la storia del Trauerspiel, del giuo­ co luttuoso, dello spettacolo in cui si rappresenta, si recita la morte . Storia-giuoco, storia-spettacolo, perché, per quanto si rappresenti la morte e il lutto, «la storia si trasferisce realmen­ te sulla scena» ( UdT, p. 353) . Perciò prevale l'ostentazione , la "pompa": nel Trauerspiel la vita di corte rappresenta «l'eterno e naturale scenario del corso della storia» (ib. , p . 2 71 ) . Nel saeculunt senza religio la separazione tra il dramma ed il comi­ co scompare . Ne consegue che dietro la maschera del buffone intravvedi sempre la smorfìa del diavolo . La "pompa", l' ostenI l . Cf. il saggio "Perché non possiamo non dirci cristiani", in: B. Croce, DVF, I, pp. I I-23 . I2. N ella "Premessa gnoseologica" dell Ursp ru n g Benjamin cita di Croce il Breviario di Estetica (del i9I2, raccolto nel i9I9 nella I ed. dei NSE, pp . 3-87); nella recensione al Lope de Vega di Vossler (cf. retro, nota I ) Croce ricorda Benjamin citato da Spitzer. I3. Cf. V. Vitiello, "Dalla Tragodie al Trauerspiel: Walter Benjamin e il linguaggio della modernità", in VR, Parte I, cap. III. '

280 tazione teatrale non toglie né serietà né gravità alla storia. Ma si tratta di una gravità tutta psicologica, chiusa in un sapere meramente soggettivo: «il barocco esplora le biblioteche», laddove il Rinascimento indagava l'universo (ib. , p. 319 ) . Scissa dall'eterno, la storia teatrale , la storia-spettacolo, è il luogo del caduco, dell'effimero, del platonico tnè 6n, di ciò che è e insieme non è. Storia di intrighi e di azioni malva­ ge, storia di tiranni : storia votata al fallimento. E non per una colpa compiuta, come nella tragedia, ma per «la condizione stessa dell'uomo creatura» (ib. , p. 268) . « Mentre il Medioevo esibisce la precarietà della storia del mondo e la transitorie­ tà della creatura come stazioni lungo la via della salvezza, il Trauerspiel tedesco si sprofonda completamente nella dispe­ rata desolazione della costituzione terrena» (ib. , p. 260) . Separato dall'eterno, da ciò che sempre è, il tempo si spazia­ lizza, la storia decade a natura. Il linguaggio si frantuma nella scrittura. Pure in questa estrema deiezione e ab bandono, storia e linguaggio appaiono redenti: «Il linguaggio frantuma­ to cessava in quei drammi di servire alla mera comunicazione e poneva, oggetto rinato, la sua dignità accanto a quella degli dèi, dei fiumi, delle virtù, e di analoghe forme naturali trasfi­ gurate in allegorie» (ib. , p. 382) . Tocchiamo qui l'aspetto più profondo ed originale dell'erme­ neutica benjaminiana del barocco: le allegorie che nel linguag­ gio corrispondono alle rovine della storia, proprio in quanto misurano l'estrema distanza tra Cielo e terra, Universale e individuale, Infinità della Parola creatrice e miseria della crea­ tura; proprio in quanto sono il contrario del vincolo simbo­ lico che unisce Dio al mondo, fanno risplendere nel tempo­ natura, nella storia spazializzata, nel linguaggio frantumato, l'eterno, il senso, l'idea - nella loro oltranza. «Il culto barocco della rovina» (ib. , p. 354) non è inteso, al modo del Croce, come «una materialistica idea dell'uomo e della vita umana,

28 1 fatta consistere nella carne e perciò dimostrata nulla nell' os­ same dispogliato di carne», al contrario come segno, quan­ tunque negativo, del divino, e , proprio perché tale, negativo , dell'oltranza del divino . Qui, nella sua negatività, caducità e bruttezza, nella sua kenosi assoluta, la creatura trova «seine platonische Rettung» (ib. , p. 227) . La Gerusalemme terrena, proprio nella sua radicale oppo­ sizione alla Gerusalemme celeste, è di questa segno e testi­ monianza. L'anti-hegelismo di Benjamin mostra d'essere, alla fine , un hegelismo rovesciato . E d è questo l'elemento comune - nella radicale opposizione delle loro interpretazioni e dei loro Standpunkte - a Croce e a Benjamin: il rapporto tra eter­ no e tempo , religio e saeculum, dall'uno esaltato nella posi­ tività della storia, dall'altro mestamente ricercato nel giuoco luttuoso, nel Trauerspiel dell'uomo storico14. 8. E se nel barocco, nelle profondità dell'anima barocca, si desse dell'altro ancora, qualcosa di più antico ed insieme di più moderno, che ha dovuto però attendere un secolo ancora prima di trovare adeguata espressione ? Che cosa? Quella strana forma d'esser-nel-mondo che consiste nell'im­ partecipe partecipazione all'accadere storico, cui s'accom­ pagna, secondo Kant, un sentimento di autosoddisfazione ( Selbstzufriedenheit) che è però solo ein negatives Wohlgefallen an seiner Existenz, solo un compiacimento negativo riguardo alla propria esistenza (K.pV, pp . l l 7 ss) . Forse ciò che

14. Questa critica non va estesa a tutto Benjamin, in particolare non a P'V e . BG. In merito cf. V: Vitiello, ETN, Sez. III, II, "«Prendere a servizio la teologia>> . Messianesimo e nichilismo in W. Benjamin", pp . 147-161 .

282 ci riscatta dalla schiavitù del male del mondo e della storia non è un esser-di-più, ma un esser-di-meno . Meno del male stesso.

È questo "meno" ciò che l'"anima barocca" voleva far senti­ re attraverso il "più", l"' eccesso", la sovrabbondanza delle sue immagini, e concetti, e preziosismi linguistici?

283 III Delf' Uno e del Pensiero

l . Hén Da

e Noils

Enneadi, V, 2, l : L uno

[è] tutti gli enti e nessuno: in quanto principio di tutti gli enti non [è] tutti, pur [essendoli] tutti: perché ognuno colà ritorna: o piuttosto ognuno non è, 1na sarà cotne l'uno. - In che Inodo allora dal setnplice uno [derivano] gli enti tutti, non manifestandosi in esso diversità alcuna, né doppiezza d'alcun genere? Ora poiché nessun ente era in esso, tutti da lui [discendono] , e poiché esso non [è] essere, [è] allora il genitore (ghennetés ) dell'essere, [che è] cotne la sua prhna genitura (pr6te ghénnesis ) ; essendo infatti perfetto [téleion : pe-ifectwrn, cotnpiuto, avendo il fine in sé] , ad esso [non pertiene] né il cercare, né il possedere, né l'abbisognare, 1na in quanto tale sovrabbonda e la sua sovrabbondanza produce altro: 1na il generato ( tò ghen61nenon ) si volge ad esso ed è rietnpito e diviene, guardando ad esso [pròs aut6; oppure: a sé : pròs haut6], pensiero (nous ) . Così il suo esser volto a quel­ lo produce l'essere, e la visione di esso (pròs aut6 ) [oppure : di sé : pròs haut6] il pensiero. Poiché dunque è volto verso di quello [e verso di sé: qui le due versioni stanno bene insietne] diviene nel contetnpo pensiero ed essere .

284 La lectio di questo passo è controversa: potendosi leggere l"'aut6" delle ultime righe (9- 12) con lo spirito dolce (auto) o con lo spirito aspro (haut6 ) . Beienvaltes, dopo aver ricordato che per Henry e S ch,vyzer - editori di Platino - la questio­ ne è indecidibile sul piano paleografico, osserva che entram­ be le "letture" (Auslegungen) vanno accolte, dacché Noils nel volgersi a Hén , alla sua origine , sitnul si volge a sé, si ri-flette (EZ Beierwaltes, p . 15, nota 15) . L:osservazione di Beienvaltes è più che giusta, resta però da chiedersi se nella struttura della ri-flessione il riferimento all'altro da sé sia necessario . Perché è certo evidente che nel volgersi ad altro il pensiero non può non volgersi a sé ( l'�' altro" è tale in relazione al sé ); ma non è del pari evidente che il pensiero per piegarsi, ri-flettere su di sé, debba pensare l'al­ tro. Ed è bene precisare subito: l'altro da sé, e non sé come altro, ché in questione non è lo sdoppiamento del sé - senza cui non v'è ri-flessione -, ma è la necessità dell"'altro" che è prinuz e fuo ri della riflessione . Il problema or posto, se non è, come ben s'intende, un proble­ ma meramente storiografico, neppure è un problema pura­ mente "teorico" . È un problema storico : in esso ne va dell'in­ terpretazione che è al fondo della tradizione del pensiero occi­ dentale , epperò delle scelte fondamentali del nostro esserci storico . Di questa tradizione Platino più che una filosofia è un topos . Perciò il confronto con il suo pensiero si rivela essenzia­ le per comprendere la "collocazione" di Gentile - e, vedremo, non solo di Gentile - in questa tradizione.

2.

Della generazione

Torniamo sul rapporto tra hén e nofls . Come si è letto, tò hén è il ghennetés, il genitore, di noils come di 6n . Una genitura

285 non voluta, ma che accade (presente aoristi co ! ) per sovrab­ bondanza. Essere è detto da Platino pr6te ghénnesis, ed anche tò ghen6tnenon. Ghénnesis, tradotto con "genitura", significa però, o può significare, anche "generazione", il movimento cioè del generare . Il participio ghen6ntenon non dà invece luogo a dubbi, nomina inequivocabilmente il risultato del movimento generativo, il "generato". Ma, se nofls fosse tò ghen6ntenon , allora non sarebbe secondo, ma terzo . Rileva Platino: Ciò che nasce di là, nasce senza che l'uno si tnuova. Poiché, se qualcosa nascesse in seguito al tnovilnento di quello, il gene­ rato nascerebbe da quello cotne terzo, dopo il tnovilnento, e non già secondo. (En , V, l, 6).

Senza che l'Uno si ntuova - il movimento è proprio del genera­ to, dell'an , che ri-flettendosi, volgendosi insieme pròs heaut6, verso di sé, e pròs auto, verso l'Uno, l'origine, diviene nous . In certo modo nous genera se stesso. Ma se genera se stesso in che modo può dirsi potenza seconda ? Chiaro che qui non c'entra il tempo . Qui bisogna capire in che senso hén è condi­ zione di nous, e quindi nous segua, succeda (come il condizio­ nato alla condizione) a hén . S e consideriamo nous non come ghen6tnenon ma come ghénnesis - come il movimento stesso della generazione -, allora tutto appare chiaro e semplice . Nous è il traboccare stesso di hén, che appunto per la sua hyperpleres, per il suo sovrabbondare , hyperernje, scorre oltre di sé, tracima. Così leggendo , però, si corre il rischio di ridurre nous a hén . Il che accade appunto a Bréhier, che , proprio per spiegare la generazione di nous da hén scrive : «C 'est parce que l' Un est tourné vers lui-meme qu'il voit; et cette vision est Intelli­ gence» (En V Bréhier, Notice, p. 1 1 ) . Ma l'Uno non si volge a sé , non si riflette su di sé. La ri-flessione è altro dall'Uno.

286 È l'altro dell' Uno: il nous, appunto . E questo significa che il traboccare dell'Uno non è Uno . Platino stesso, d'altronde, distingue due "atti" - due enér­ gheiai - dell'Uno : quello che è proprio dell'Uno (in generale dell'essere ) e quello che dall' Uno (dall'essere ) promana e che è altro dall'O no: Ma come nasce un atto, se quello resta in sé? V'è l'atto dell'es­ sere ( ousia ) e l'atto di ciò che è dall'essere: l'atto dell'essere che è lo stesso essere in atto, e l'atto dall'essere che di neces­ sità segue quello ed è altro essere da quello. (En, V, 4,2).

Talché l' Uno stesso è in sé diviso , com'è diviso, secondo il paragone di Platino, il calore del fuoco: dacché altro è il calore che resta nel fuoco, altro il calore che dal fuoco si espande e penetra nell'aria, il calore dell'aria. Dunque nm1s è Uno e non è Uno - perché l'Uno stesso è se stesso e non lo è. È così evitato il pericolo di assorbire nous in hén. Ma v'è il pericolo opposto. E cioè che nm1s neghi hén . Appare infatti superfluo il "primo" atto - la prima enérgheia -, quella per cui l'Uno resta chiuso eisa en bathei , nella sua profondità. Donde la necessità logica dell'alterità di hén rispetto a noos? Non può hén esser solo nel suo, o meglio: il suo traboccare? Non si tratta di sottrarre a nous la sua potenza sorgiva. Tutt'altro. Si tratta di attribuire questa potenza imme­ diatamente a nous . Perché non si vede per quale ragione si debba postulare l'esistenza di una potenza chiusa in sé, di una potenza che non s'espande, di una potenza impotente . Perché - si faccia attenzione a questo - non in virtù del "primo atto" è il "secondo" : il traboccare è atto a sé. Il pensiero della superfluità della pr6te enérgheia si è ben presto fatto valere .

287 3.

Autoctisi divina

Agostino legge nella Lettera ai Galati dell'Apostolo Paolo: « Ubi venit plenitudo temporis, misi t Deus fìlium suum» ( 4 .4 ) , ed osserva: per mandarlo il Padre dovette far uso della Parola, ma giacché «Verbum Patris est ipse Filius» , «ergo a Patre et Filio missus est idem Filius» (De Trinitate, II, 59) . La co-eternità del Figlio al Padre dice che il "secondo atto" è già nel "primo"; che il primo atto è già il secondo . LU ni-Trinità è incompatibile col pensiero di un Dio chiuso in se stesso: l'abis­ so di Dio è la sua manifestazione1 .

È all'interno di questa tradizione di pensiero cristiano - che ha in Paolo il suo fondatore e in Agostino il primo grande inter­ prete - che si spiega l'affermazione di H e gel che si legge nella Prefazione della Fenontenologia dello spirito , e che è come il manifesto della fìlosofìa hegeliana: La forza dello spirito è grande quanto la sua estrinsecazio­ ne (Ausserung), la sua profondità profonda per quanto nella sua esplicazione (Auslegung) riesce a diffondersi e a perdersi (sich zu verlieren ) . (PhiiG, p. 15) .

Sich zu verlieren : nel perdersi nel mondo il Figlio concilia Dio con la storia umana, redime l'uomo dal peccato e il divino dalla beatitudine oziosa degli dèi pagani . La kenosi è in quanto tale, in quanto annichilamento della forma separata del divi­ no, "positiva". È questa, esposta con estrema concisione, la "secolarizzazione" hegeliana del cristianesimo2.

l.

Questa interpretazione della Uni-Trinità h a segnato l'intera tradizione del Cristianesimo storico . Scriverà Karl Barth: «Non dobbiamo metterei alla ricerca di un altro Dio. In nessuna profondità del divino incontreremo altri che Lui. Non c'è alcuna divinità in sé . La divinità è quella del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (.KD/11-2, p . 123; tr. it. di A. Moda, p. 340 ) . 2 . Sul tema cf. il Colloquio di J . Derrida, M . Ferraris, G . Vattimo, V. Vitiello: es.

288

4. La lettura gentiliana del Pater noster. A questa interpretazione della dottrina cristiana va collegato il pensiero di Gentile . Il C ristianesimo - sostiene - ha fatto valere contro la separazione intellettualistica di efnai e noefn, tipica della filosofia greca, il primato del pensiero-volontà, del pensiero che non presuppone il vero , ma lo pone, ponendo sé come principio di tutto. La ntissio divina - spiega - non è mai un " aver mand at o " , b ens1' un " man d are " , un perenne man d are . Mandare S é nel mondo . Farsi mondo . Gentile legge Matteo, 6 . 1 0 : Fiat voluntas tua - ghenethéto tò théletnà sou -, e commenta: [con] la n uova preghiera [ . . . ] cotnincia a vedersi che questa volontà non è già fatta [ . . . tna] deve farsi, e farsi in terra cotne in cielo: farsi nella volontà utnana. Il tnondo pertanto non è più quello che c'è, ma quello che ci deve essere; non quello che troviamo, ma quello che lasceretno: quello che nasce in quanto con l'energia del nostro spirito lo faccimno nascere. [ . . . ] Alla conoscenza intellettualistica contetnplativa, che era ad Aristotele la citna più alta dell'ascensione spirituale, sottentra una conoscenza nuova, attiva, operosa, creatrice del suo oggetto, cioè di se tnedesitna nel suo spirituale valore. ( SL, I, pp. 33-34).

La negazione di ogni presupposto in quanto limite dell'asso­ lutezza del volere volente, del pensiero pensante, sopprime come il passato così il futuro. Nulla è fuori dell'atto del pensa­ re-volere che si compie ora. Ora - non nell'istante che fugge, che mentre sorge tramonta, nel nunc, nel nyn , ma nella hora che mai non tramonta, nell'eterno presente della verità che si pensa, che pensa sé. Del pensiero in atto, del pensiero pensante di Gentile possia­ mo-dobbiamo dire il medesimo che Platino dice di noil s : tnfa phtjsis e tà onta ptinta: una natura che è tutti gli enti . Hén kaì polla: Uno e tutto . Theòs tnégas: dio grande , perché rende

289 buone tutte le cose (En. , V, 5, 3 ) . Ed ancora: in esso - nel noils come nel pensiero in atto - non v'è sillogizzare, passaggio da premesse a conclusioni . N o n perché non vi sia molteplicità, ma perché la molteplicità è tutta raccolta in uno . Esso è atto perfetto : atto in atto, compiuto in se medesimo: entelécheia , ciò che en télei échei , che si possiede nel :fine . Il suo movimen­ to coincide con la quiete . Perché è ovunque . Occupa l'intero suo spazio: tò pedio n tes aletheias, ou ouk ekbain ei , la pianu­ ra della verità, donde non mai esce (ib. , VI, 7, 13) . Il noils alethin6s si muove quindi entro se stesso: erra nel cuore degli enti, e questi partecipano del suo quieto peregrinare, del suo immoto movimento in se stesso.

5 . Memori a del futuro Quieto peregrinare, itnnwto nwvi nten to - è ben evidente che movimento e quiete qui non sono pari . Il movimento non è dell'atto, ma nell'atto. La negazione di ogni presupposto del passato, ma non meno del futuro, come s'è detto, perché anche il futuro in quanto destino dell'atto sarebbe un presup­ posto che ne limiterebbe l'assolutezza -; la negazione di ogni presupposto apre sì all'innnito l'orizzonte della coscienza, ma questa apertura senza limiti somiglia al deserto di un celebre conte philosophi q ue di Borges : un labirinto senza muri e senza vicoli ciechi, ma dal quale è più difncile uscire che non da un labirinto costruito da Dedalo, non essendoci in esso un "fuori" che non sia già ��dentro"3• Il paragone è suggerito dallo stesso Gentile: La coscienza - scrive, infatti - non si pone se non cotne una sfera il cui raggio è infinito; e qualunque sforzo si faccia per

3 . J. L. Borges, I due re e i due labirinti, in : L'Aleph, TO, I, pp . 873-874.

290 pensare o hntnaginare altre cose o coscienze al di là della nostra coscienza, quelle cose e coscienze rilnangono dentro di essa, per ciò appunto che sono poste da noi, sia pure come esterne a noi. Questo fuori è setnpre dentro. Designa cioè un rapporto tra due tennini, che, esterni l'uno all'altro, sono tuttavia interni entrambi alla coscienza. (TGS, p. 32) .

Gentile s' awede che una tale conclusione è esiziale per la sua dottrina che afferma l'identità di filosofia e storia, e cerca di porvi riparo . I suoi tentativi, però, riescono tutt'al più a coprire il problema, non a risolverlo . Un esempio cospicuo di ciò viene dato nel secondo volume del Siste1na di logica . N el capitolo dedicato alla storia, a dimostrazione del fatto che non ci sono res gestae presupposte alla historia reru tn gestarunt, adduce la differenza tra le storie di Roma di Livio e del Mommsen; poi spiega questa differenza tra l'una e l'altra historia col trascor­ rere dei secoli (cf. SL, II , p . 286) ! Resta awolta nel mistero la ragione per cui sono un "presupposto" da negare le guerre tra Mario e Silla, la ribellione di Spartaco o le riforme dei Grac­ chi, e non invece il racconto di Livio che pur precede quello di Mommsen. Il prevalere della quiete sul movimento - che comporta la negazione della stessa attualità dell'atto, che si scopre inchio­ dato ad un passato che occupa l'intero spazio della storia - è esplicitamente dichiarato da Gentile, che nel saggio del l 936, intitolato significativamente : "Il superamento del tempo nella storia", riporta questi versi del Manzoni : e degli anni ancor non nati Daniel si ricordò. 4

4. A. Manzoni, Resurrezione, vv. 55-56. Il saggio di Gentile, già raccolto in MI, pp . 303-321 (la cit. manzoniana è a p . 313), è stato ristampato in FETS II, pp. 3-20.

291 Diversamente dal nous plotiniano - theòs deuteros, dio secon­ do (E n. , V, 5, 3) - che oltre al movimento interno, coincidente con la quiete, conosceva anche il movimento a sé esterno, il movimento della sua ambigua generazione da hén - il pensie­ ro in atto di Gentile , per aver assorbito in sé la propria origi­ ne, resta imprigionato nella sferica assolutezza della propria autoidentità. Ma così dicendo, non trascuriamo il concetto cristiano kat'exo­ chén, il concetto dell'Uni-Trinità, della Monotriade, che svol­ ge un ruolo fondamentale nel pensiero di Gentile ?

6. La monotriade Altro la storia nel tempo, tutta interna all'atto, all'eterno presente dell'atto, altro la storia ideale eterna dell'atto . Se non è possibile distinguere le res gestae dalla historia rerutn gesta­ nun, è però ben distinguibile la fo -nna dal contenuto . A questo appartengono Mario e Silla, Spartaco e i Gracchi, i documenti e i monumenti della storia, i fatti; a quella - alla forma - il pensiero, l'interpretazione dei fatti e dei documenti, dei segni e delle tracce del passato . Ma vi sono "fatti" fuori del pensiero che li interpreta? I Gracchi di Mommsen non sono certo gli stessi Gracchi di Rostovtzeff. È lafornuz che pone il contenu­ to, che lo crea. E, creando, genera se stessa. Passa dal nulla all'essere . Si muove . Ma si muove con un movimento che non lascia nulla dietro di sé, e nulla davanti a sé . Ciò da cui provie­ ne è tale , origine, solo per l'originato; parimenti ciò verso cui tende, l'ad-venire. Finché si dice che lo spirito è svolghnento, unità di realtà e idea, di essere e non-essere, di soggetto e oggetto, si ha quell'unità attuale, quell'autoctisi in cui l'autocoscienza è, dentro la sua stessa energica unità, distinta tra sé e sé; e quello

292

che l'analisi distingue cotne tre, è setnpre uno, e, cotne tale, distinzione; e quella stessa logica che dispiega l'unità attra­ verso i tre momenti, stringe questi tre motnenti e li fonde in una realtà unica. ( SL, I, p. 129 ) .

Palesemente qui Gentile opera con le categorie della riflessio­ ne . L'origine - il passato dell'atto ( non nell'atto) - è tale perché posto dal presente, ma posto appunto come suo presupposto o condizione, come ciò senza di cui il porre non sarebbe possibi­ le . Porre e presupporre si richiamano a vicenda, dove peraltro è sempre il porre il Prius . La condizione vera è e resta il co ndi ­ zionato . Anche nella dialettica dell'atto , anche nella �'forma", è il presente che prevale . Nel cristianesimo di Gentile il Figlio assorbe in sé tutto lo spazio della Trinità: il Padre e lo Spirito sono solo figure del Figlio, interne al Figlio. C 'è da chiedersi se con questo concet­ to della monotriade si pensi dawero l' Uni-Trinità. O, in termi­ ni esclusivamente logici, se questa teoria della riflessione, che mai non esce da sé, sia capace di dar ragione di sé.

7.

Luce vede luce

Torniamo nuovamente a Plotino . Nous, dice, intende se stes­ so , come luce che vede luce : phos phos allo horiì; lo stesso vede dunque lo stesso: autò ara autò horiì (En. , V, 3,8 ) . Ma nello �'stesso", nell' autò, di Platino v'è più che noos . Phos (luce) designa non solo nous, sì anche hén , anzi primariamente questo . Hén è la luce pura, non riflessa, la luce semplice : phos aploon. Rispetto a questa luce nous non è luce ma sole : un ente illuminato sin nella radice del suo essere da quella luce pura, phos aploun , che è hén . Il sole illumina, può illuminare, perché la potenza che luce gli è stata donata. Pertanto il suo stesso volgersi ad hén , procede non da sé, ma da hén . Dando

293 luce a noils, hén richiama a sé la luce che da sé p romana. Ma perché dalla luce pura di hén alla luce imperfetta di nous? Si risponde a questa domanda considerando ciò che accade quando nous, si volge alla sua origine , a hén: moltiplica l' Uno, fa dell' Uno molti, pollà epoiese tèn tnian (En. , VI, 7, 1 5) . La luce purissima viene resa impura dai mille colori che il sole fa brillare, e così diviene visibile . L'ombra è necessaria alla luce . Un profondo pensiero di Hegel, che si legge nella seconda nota alle prime categorie della Scienza della logica, dice :

[ . . . ] nella assoluta chiarità si vede tanto poco quanto nella assoluta oscurità [ . . . ] La pura luce co1ne la pura oscurità sono due vuoti , che sono lo stesso. Solo nella luce determina­ ta - e la luce è determinata dall'oscurità -, quindi solo nella luce intorbidata, così cotne solo nell'oscurità detenninata - e l'oscurità è detenninata dalla luce -, quindi solo nell'oscurità rischiarata si può distinguere qualcosa. (WL, I, p . 96) .

N ella differenza estrema di nous da hén non viene meno la loro identità. In quanto potenza di tutto, l' Uno contiene in certo modo - al modo che è suo, nell'unità - tutte le cose. In certo senso l'Uno trabocca, hyperernje scorre fuori di sé, in se stesso. Questo esser-fuori-di-sé-restando-in-sé caratterizza il Deus­ Trinitas, che come Padre è ��prima" del Figlio ed è insieme nel Figlio, che è "dopo" il Padre e nel Padre - come già sopra si è detto -, ed entrambi sono "prima" dello Spirito e nello Spirito, che è anche nel Padre e nel Figlio: Agostino nota che Spirito è il nome della Divinità tutta, in quanto ne esprime l'Unità5. La secolarizzazione hegeliana del divino trasponendo nel mondo umano questo rapporto di esclusione-inclusione , ribalta l'ordine del rapporto: ora è l'inferiore che contiene in

5 . Agostino, T, V, 1 1 . 12. Sul tema rinvio a V. Vitiello, CsR, Parte I,

cap .

III.

294 sé il superiore . In Platino è nofls che accoglie in sé psyché, l'Anima, che è anche Vita; in Hegel è la Vita che contiene in sé l'autocoscienza - dynatnei , in potenza, ovviamente , e non energhéia, in atto: «la vita - si legge nella Fenotnenologia dello spirito - rinvia ad altro da ciò che è, vale a dire alla coscien­ za» (PhiiG, p . 138; it. , I, 149) . Questa insistenza dell'autoco­ scienza nella Vita spiega l'infinita generazione del pensiero, che eternamente si alimenta tornando alla Vita (cf. WL, II, pp . 548-549, it. , II, 935 ) . Fedele alla tradizione plotiniana e agostiniana, Hegel riconosce che la radice del pensiero non è il pensiero, la fonte del concetto non è il concetto, anche se solo nel pensiero concettuale essa può rivelarsi . La ri-flessione, quindi, è tale solo perché spinge il suo sguardo fu or di sé . Il presupposto è certo posto dalla ri-flessione, ma appunto come presupposto . Il Padre è tale per il Figlio e solo per il Figlio : ma non il Figlio genera il Padre, bensì il Padre il Figlio . Il "porre" è tale solo se non nega il presupporre , ma lo riconosce come sua condizionante condizione . Dalla Rifortna della dialettica hegeliana alla Teoria gene­ rale dello spirito co111e atto puro e al Sistema di logica conte teoria del conoscere, Gentile è invece dominato dal pensie­ ro opposto. l:"atto" è tale , atto in atto , se ed in quanto nega qualsiasi presupposto che lo condizioni . La dialettica della riflessione risulta così monca del termine che l'alimenta e la spiega. Perché l'atto del pensare deve porre il suo "negativo", il presupposto che nega nel porlo, col porlo? Perché questo mirarsi allo specchio , al fine di negare l'immagine riflessa6? questa vana ri-flessione che nulla riflette ? l: aporia in cui Gentile si imbatte sin dall'inizio consiste nell'im­ possibilità di dar ragione del "presupposto" una volta chiarito ch'esso è solo un ��posto". Questa aporia appare in tutta e vide n-

6. Sul tema cf. V. Vitiello, NDSN, pp . 49-56.

295 za nell'opera sua maggiore : il Siste1na di logica conw teoria del conoscere . Intento del filosofo è dimostrare la "necessità" della logica dell'astratto come momento non dileguante della logica del concreto. Ma il risultato non è quello voluto . La dialettica dell'astratto, che serve a spiegare il giudizio apofan­ tico e i principi che lo sorreggono, infatti, non si distingue in nulla dalla dialettica del concreto . La loro distinzione è solo nominale , essendo la logica dell'astratto logica del concetto, del giudizio e del sillogismo e la logica del concreto logica dell'auto-concetto, dell'auto-giudizio e dell' auto -sillogismo Pertanto non v'è che una sola logica che non è del concreto­ astratto, come Gentile vorrebbe , ma solo del concreto - e se il concreto, isolatamente preso, è astratto, come Gentile affer­ ma, allora non resta che l'astratto7 ! Ma, a parte ciò, il circolo dell'argomentazione è evidente : si dà ragione della distinzio­ ne tra le due logiche - quella del concetto e l'altra dell'auto­ concetto - proprio con ciò di cui si dovrebbe dar ragione : con la ri-flessione . .

8.

Dalla monotriade alf'Io pri ma delZ:'lo

Ma Gentile non si ferma alla Sistenuz di logica . Pubblica nel 193l la Filosofia dell'arte, che rappresenta la vera "svolta" del suo pensiero. In quest'opera Gentile, approfondendo la dialettica interna all'atto, individua nell'arte o sentimento il puro inattuale, ciò che, negandosi nel suo stesso porsi, costantemente si sottrae al pensiero. V'è qui il riconoscimento di un presupposto che il pensiero non può "negare", di un limite invali cabile, del quale

7 . Sul tema cf. retro, P. l, Sez. Il, capp. I e Il.

296 il pensiero in atto fa esperienza proprio riflettendo su se stes­ so , sull'inattuale che lo condiziona. Si apre qui tra il "cogito" ed il suo stesso "esse " una profonda frattura. Non essendo all'origine di sé, il "cogito" neppure può dare ragione di ciò che esso è, è già - ovvero : del suo stesso dare ragione . Se l'autoctisi risulta impossibile - Gentile non lo dice , ma il riconoscimento dell"'inattuale" rende questa conclusione ineludibile -, allora il "sum" è solo un'immagine che il "cogito" riesce a farsi di sé, del proprio "esse". Nulla di p1u. . '

Talché è proprio la ri-flessione su di sé che porta il pensiero al riconoscimento dell'altro da sé . E da questo riconoscimento consegue che il pensiero in tanto si piega su di sé in quanto, venendo da "altro", questo "altro" vuole riportare a sé . Facen­ dolo suo, certo lo nega. Ma questa negazione nega l'alterità dell'altro nel pensiero, non l'altro che è printa del pensiero. Anzi, la negazione dell'alterità nel pensiero ha senso solo per il riconoscimento dell"' altro" che è fuori e printa dell'atto del pensare . La ri-flessione coglie il limite del pensare dall'interno del pensare stesso. Gentile è qui estremamente vicino a Platino . Tuttavia pur nella vicinanza un abisso li separa. La vicinanza è data dal ri-conoscimento che la ri-flessione è per - e cioè : in virtù e in vista di - altro : ci si volge a sé perché ci si volge ad altro . Come afferma Platino : «Se qualcosa nasce dopo di lui (rnet'aut6) è nato volgendosi necessariamente verso di lui (pròs auto)»

(En. , V, l , 6 ) . I.:abisso che li separa è dovuto a ciò, che mentre tò hén non conosce movimento, l'Io-sentimento, l'inattuale del pensiero, è il movimento stesso del suo negarsi . C osì come in Hegel l'autocoscienza nasce dalla Vita, dal movimento della Vita.

297 9.

Ritrattazione

Gentile, come Hegel, supera il limite del pensiero nell'atto stesso di porlo . N eli' ultima opera, Genesi e stru ttura della società, pubblicata postuma, Gentile tornando sui suoi passi, si domanda: «Che c'era dunque prima dell'atto del pensiero, nella cui dialettica è la radice del viver sociale ?» E risponde : Se ci si vuoi provare con l'hnmaginazione a preporre alla sintesi un universo naturale, questo universo non è ilntnagi­ nabile altrilnenti che come un virtuale essere amorfo, il quale deve entrare in crisi e riscuotersi e svegliarsi come senso di sé . Il gran donniente finché non si svegli, non solo s'ignora, tna non esiste . Per esistere deve svegliarsi; e svegliato che sia, si cotnincia a dotnandare : - Ma dunque prima c'ero, e dormi­ vo? - Così è portato a chiedersi e a credere . Ma in realtà il tutto viene ad essere appunto in quell'istante in cui si sveglia ed è quello che soltanto può essere : senso di sé, autocoscienza creatrice. (GSS, p. 74; corsivo tnio) .

S u questa ritrattazione non c i s i può esprimere solo i n t ermi­ ni negativi; essa rivela che la "svolta" compiuta nella Filosofia dell'arte era insufficiente . L'altro non è riconosciuto nella sua alterità fin quando non ci si libera della pretesa di determi­ narlo, di definirlo. Non si può dire del sentimento dell'arte, dell'Io prima dell'Io, che esso è l'Atlante che regge il mondo, l'io puro "la cui segreta presenza rende possibile ogni espe­ rienza e sviluppo della vita dello spirito"8 - perché in tal modo si definisce ciò che in precedenza si è detto indefinibile . Si rende manifesto il Deus absconditus . L'osservazione colpisce Gentile , e con lui Hegel. La Vita non è meno definita dell'io-sentimento. Vero è che entrambi temo­ no l'"amorfo". Possono al più ammetterlo come l'origine di

8 . G. Gentile, Arte, p. 633, cit. in E . Paci, ES, p . 5 1 ; cf. retro, P. I, Sez. I, cap . l, Sez. Il, cap. l.

298 tutte le forme . Ma così ragionando non lo si subordina comun­ que alla Forma?

10 .

Pr6te hyle

La domanda concerne l'intera tradizione del pensiero occi­ dentale , a partire da Aristotele , per il quale : 1norphè nuillon tes hyles (Phys. , II, 193b 7) . S e si accetta questo principio risulta poi impossibile fissare un limite al pensiero. Ché l"'altro" dalla Forma - da quello cioè che è proprio del pensiero -, risulta già predeterminato da essa, perché ad essa predestinato. La pr6te hyle è già seconda se la si pensa come base di tutte le Forme. E questo niente lo mostra meglio dell'itinerario di pensiero di Giovanni Gentile , con la sua significativa svolta e la non meno significativa ritrattazione. Ma come è possibile pensare la "materia" indipendentemente dalla ''forma", e cioè : il "presupposto" indipendentemente dal "porre", owero dal pensiero che lo riconosce ? S olo pensando la materia come la possibilità pura, possibile anche in rapporto a sé, e cioè possibilmente e non necessariamente possibile, tale quindi da essere non meno impossibilità che possibilità. Questa materia, che è sitnul origine e negazione delle forme, e che pertanto nessuna forma mai riuscirà ad assoggettare a sé , è il vero altro dal pensiero, ciò innanzi a cui il pensiero è costretto a riflettersi, a ripiegarsi su di sé, a porre la domanda fondamentale : perché e come l'ente? Ma non l'ente in gene­ rale, bensì quell'ente che io stesso sono: perché e come l'ego

cogitans, l'ego sunt, l'ego sunt cogitans ? La risposta a questa domanda può venire solo dall'io. Epperò solo dopo che si è costituito . Troppo tardi .

Parte II Tra Logica e Feno-menologia

303

I Sillabare Hegel. Rileggendo Bertrando Spaventa i-nte,rprete di Hegel

l . Tornando sulla vexata quaestio delle prime categorie delle Logica hegeliana - migliaia di pagine di divergenti interpre­ tazioni, che hanno dato luogo a polemiche celebri -, Dieter Henrich ha giustamente osservato che non si può affronta­ re l'argomento senza aver presente l'intera struttura della Scienza della logica1• N o n era solo un invito alla probità erme­ neutica - sulla linea dello Hegel buchstabieren zu lernen di Hans-Georg Gadamer2 -, era già un'interpretazione, come attesta la sua restrizione del campo di analisi alla relazione tra le determinazioni dell'essere e quelle dell'essenza. In con­ testabile la rilevanza della Dottrina dell'Essenza nell'ambito della Logica hegeliana, e non solo per la comprensione delle prime categorie; ma non basta. Per comprendere l'inizio della Logica è necessario spingere lo sguardo oltre la Logica (il libro, s'intenda, non la disciplina), ed anche oltre Hegel. Comincio col rilevare che non si può respingere la critica di Trendelenburg che in Hegel manca la differenza tra essere e nulla, da cui dovrebbe scaturire il divenire3, obiettando che l. D.

Henrich, Anfang und Methode der Logik, Hi.K, pp. 73-94. 2 . Cf. H.-G. Gadamer, HDHS, Vorwort, p. 6. 3 . Sul tema v. retro, P. I, Sez. III, capp. I e Il.

304

nella "indeterminata immediatezza", comune ad entrambi, va comunque distinto il significato positivo - espresso da: essere - dal significato negativo - espresso da: nulla - (HiK, p . 79) : questo equivale a dire che l'essere è essere e il nulla nulla! Ma Henrich non può andar oltre questa obiezione, dal momento che ritiene che ogni definizione dell'essere e del nulla oltre quella d'essere entrambi �'indeterminate immediatezze eguali solo a sé", eleverebbe le prime determinazioni della dottrina dell'essere a determinazioni della riflessione (ib. , pp . 85-86) . Senza interrogarsi sul 'senso' che in quel luogo preciso della Logica ha l'enunciato hegeliano della "pura eguaglianza a sé, senza relazione ad altro" che caratterizza !'�'indeterminata immediatezza" di essere e non-essere , Henrich conclude che l'intento di Hegel all'inizio della Logica è «di rendere evidente una connessione di pensieri, che si sottrae ad ogni costruzione, anche se di natura speculativa» (ib. , p. 89)4• E sul fondamento di questa evidenza5 - invero molto poco evidente, dacché non chiarisce la differenza di essere e nulla, limitandosi a procla­ marla - critica non solo i critici di Hegel, sì anche i seguaci che , corrispondendo a un' «esigenza sempre di nuovo espressa da Hegel» hanno tentato di «penetrare nel fondamento della logica, senza peraltro metter la da parte» . Dopo aver dichiara­ to il fallimento dei loro tentativi, Henrich concede che «dalle ragioni di questo fallimento abbiamo anche noi ancora da apprendere» (ib. , p. 94) .

4 . Che questa conclusione non sia 'soddisfacente', è lo stesso Henrich ad ammetterlo, quantunque l'attribuisca alla Logica di H egei: «Se la natura dell"' essere puro" può essere portata ad evidenza solo via negationis, allora l'inizio della Logica non può essere sufficientemente (zureichend) compre­ so a partire da sé» (HiK, p. 86) . 5. «Non c'è alcuna possibilità di sostituire l'accenno all'evidenza che essere e nulla sono pensabili e tuttavia indistinguibili con un altro argomento nella Logica, che si richiami ad una fondazione che non sia via negationis» (HiK, p. 93) .

305

C'è da chiedersi se il fallimento di questi tentativi sia da attri­ buire all'impostazione hegeliana dell'inizio della Logica, o non piuttosto ad una imperfetta comprensione - da parte dei critici come dei seguaci e degli interpreti di Hegel, tra i quali, ovviamente, Dieter Henrich - degli argomenti del fìlosofo, la cui intelligenza è possibile solo ampliando l'analisi ad altri testi hegeliani, ed in particolare ad un 'luogo' della Fenon1e­ nologia dello spirito , stranamente trascurato anche da inter­ preti entunctae naris, oltreché ad opere di altri pensatori, che il fìlosofo aveva certissimamente presente , quantunque non ne facesse il nome - come già quel riferimento di Henrich all'"indeterminata immediatezza" di essere e nulla "eguale solo a se stessa e non ineguale rispetto ad altro", chiaramente richiama. Ma è bene procedere a piccoli passi . 2. La scure di Henrich è caduta anche sul saggio di Bertrando Spaventa Le prin1e categorie della logica di Hegel. Pressoché ignoto fuor dei confìni d'Italia, Spaventa è rarissimamente citato negli studi tedeschi su Hegel, e, forse , Henrich è l'uni­ co a discuterlo6• Purtroppo la sua conoscenza di Spaventa, già condizionata dalla presenza di Gentile editore e prefato­ re degli Scritti spaventiani, è fondamentalmente limitata al saggio che s'è citato, il che spiega la critica, per un certo verso anche generosa, secondo la quale le tesi di Spaventa «rappre­ sentano il primo di una lunga serie di tentativi di concepire la Fenotnenologia dello spirito come il nucleo del sistema» hege­ liano (ib., p. 83) . Henrich richiama in particolare quel brano del testo or citato di Spaventa, in cui l'autore per spiegare il 'passaggio' dall'essere al nulla, chiama in causa il pensare , defì­ nendolo, chiara eco di un passaggio famoso della Fenotnenolo-

6 . Cf. retro, Parte l, Sez.

l,

cap.

Il,

nota 10.

306

gia, "gran prevaricatore"7. Si tratta di un brano fondamentale, su cui dovremo tornare, anche per sottrarlo ai tanti frainten­ dimenti che ha dato luogo , a partire dalla 'lettura' di Gentile . Prima, però, è d'obbligo precisare il senso dell'interpretazione spaventiana della Fenotnenologia dello spirito , mostrando da un lato che la penetrazione dell'opera complessiva di Hegel da lui conseguita, notevole non soltanto nel suo tempo ma ancor oggi, gli impediva di considerare l'opera del 1 807 come der Kern des Syste1ns, e dall'altro che la dura critica mossa gli da Henrich - Spaventa «non ha dato alcun contributo all'inter­ pretazione dell'inizio della Logica» -, se va respinta, ha tutta­ via una sua ragione.

3. Diversamente da Croce e Gentile , che rimasero, entrambi, estranei al problema affrontato da H e gel nella Fenmnenologia dello spirito8, Bertrando Spaventa intese il senso profondo, ed imprescindibile , di quest' opera per il sistema hegeliano - il sistema e non solo la logica. Resterebbe astratto il sistema, e cioè senza alcun fondamento reale, senza la Fenomenolo­ gia (cf. Op , II, p. 656) . Ciò che divide la Dottrina della scien­ za di Fiche dal Sistema e , quindi, dalla Logica di Hegel, è proprio la Fenomenologia. Perché se la Dottrina della scienza giunge a 'dedurre ' il reale dal pensiero, non assicura però alla realtà posta dal pensiero altro statuto antologico che quello di "contenuto" del pensare . Per dirla con Hegel: il soggetto­ oggetto di Fichte è ancora solo soggettivo9; e con Spaventa: 7. Cf. B. Spaventa, Op, I, p. 399. Per il riferimento hegeliano, cf. PhiiG, p. 29: «Die Tatigkeit des Scheidens ist die Kraft und Arbeit des Verstandes, der verwundersamsten und groBten, oder vielmehr der absoluten Macht [ . . . ] die ungeheure Macht des Negativen; es ist die Energie des Denkens, des reinen Ichs» (per la tr. it., cf. I, pp. 25-26) . 8 . Cf. retro, P. I, Sez. III, cap, II, § 1 .2. 9. «Weil Ich subjektives Subjekt-Objekt ist, so bleibt ihm eine Seite, von welcher ihm ein Objekt absolut entgegengesetzt ist, von welcher er durch

307

«Fichte prova la possibilità del conoscere, non la realtà» (ib. , II, p. 637) . D'altra parte Schelling, muovendo dall'assoluto come identità di realtà e pensiero, pensiero e realtà, 'oggetto' di pura intuizione, non spiega in qual modo da questa identità sorga la differenza di pensiero e realtà: i molti vengon fuori dall'uno senza ragione alcuna, come un colpo di pistola10• Il problema di Hegel è allora quello di ''provare l'identità" dice Spaventa, con bella asciuttezza11 : l'identità di pensiero e realtà, che non si conquista se non provando insieme la realtà del pensiero e il pensiero della realtà, senza voler ridurre l'un termine all'altro . All'esigenza di provare la realtà del pensiero risponde la Fenomenologia. Il tentativo di Hegel - tanto origi­ nale quanto problematico - consiste nel provare la realtà della coscienza dall'interno stesso della coscienza. A tal Rne egli mostra come, nello sviluppo della coscienza, questa in ogni momento o grado del suo processo penetra nell'antecedente disvelandone la natura, il suo "essere in sé" - esempliRcando : nella percezione si rivela l"'in sé" della sensazione, nell'au­ tocoscienza l'"in sé" della coscienza, nello spirito l'"in sé" dell'autocoscienza. Spaventa coglie l'immanenza del vero nel processo fenomenologico : questo, scrive, «è detto così, perché le diverse forme della coscienza sono come tanti fenomeni, nei quali la verità si produce e si manifesta» (Logica e nletaji­ sica, Op, III, p. 40 ) ; non scorge, però, l'intima problematicità di questo processo. Il sapere fenomenologico è un sapere retro-flesso: è coscien­ te del suo esser-reale sempre dopo, quando la sua realtà è altra da quella 'pensata' . Chiaramente è possibile 'provare' questo processo solo all'interno di un sapere nel quale realtà dasselbe bedingt ist . . . » : G. W F. Hegel, DFS, p. 72; it., p. 57. 10. L'espressione, com'è noto, è di Hegel (cf. PhiiG, p. 26; it. l, p . 22) ; Spaventa la riprende nello Schizzo di una storia della logica, Op, II, p. 640. Il. Per subito aggiungere : «Ora, provare l'identità è provare la creazione», Op, Il, p . 644.

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e coscienza della realtà sono unutn et idem, e cioè: all'interno di un sapere non piegato sul passato, ma tutto presente a se stesso. Sapere che , diversamente da ogni grado o momento del conoscere fenomenologico, non muta, conoscendo, né il suo oggetto, né il proprio essere reale ; sapere che non cade nel tempo, perché ha il tempo dentro di sé ; sapere eterno, assoluto, da tutto sciolto, anche dal processo fenomenologico, ché l'intero itinerario della coscienza, dell'autocoscienza, della ragione e dello spirito, scorre dentro di esso, come nella storia ideale eterna di Vico corron in tempo le storie delle singole nazioni. Questo sapere assoluto, che 'sovrasta' la Fenomeno­ logia, Hegel nomina das reine Zusehen , il puro stare a vede­ re (PhiiG, p. 72; i t. , l, p. 75) . Talché nella Fenotnenologia questo il suo esito problematico, problematicissimo - il sapere è duplice : altro il sapere che si svolge e sviluppa, consapevole del suo essere reale solo dopo che è tramontato, ossia nella fìgura ulteriore, altro il sapere che coincide con la realtà tutta, il sapere la cui fìgura ( la cui 'rappresentazione' : il suo esser pensato) coincide col suo essere reale . Ed il primo è possibile solo per il secondo12. Come dire : la Fenomenologia è possibile solo per la Logica. Ma se la Logica presuppone la Fenomenologia, non è me n vero che la Fenomenologia presuppone la Logica. Il loro rapporto è circolare . Il che spiega perché Hegel, dopo la Fenomenologia, inizia - e può iniziare - il Sistema con la Logica, includendo la Fenomenologia entro il Sistema come sua parte13 . Solo che per non rendere la Logica, e con la Logi-

12. Sul tema rinvio a. V. Viti ello, RC, Parte I, cap . III: "Il cristianesimo fil o­ sofico di Hegel", pp . 95- 1 17. 13. Il sistema dell Enzyk lopiidie inizia con la Logica, e precisamente con la presentazione delle "tre posizioni del pensiero rispetto all'oggettività": cf. En::, l, § § 19-83; la Fenomenologia occupa la sezione B (§ § 413-439) , la più smilza, tra l'Antropologia (Sez. A, § § 388-412) e la Psicologia (Sez. C , '

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ca l'intero Sistema, mera conseguenza della Fenomenologia ­ per dirla con Henrich: perché la Fenomenologia non assurga a Kern del Sistema del reale - la Logica deve provare, a partire da sé, il modo e le forme del suo realizzarsi, del suo svilup­ parsi dalle prime sue categorie , o 'concetti' , sino al pensiero puro, al pensiero del pensiero, al concetto che sa se medesimo come concetto, puro vedere, das reine Sehen , semplicissima auto-trasparenza, Idea Assoluta ( cf. WL, II, pp. 548 ss .; i t . , II, pp . 935 ss . ) . Qui Hegel 'ripete' (wiederh olt) Aristotele14 : una volta giunti dal proton kath 'henUìs al proton katà phtjsin, biso­ gna fare il cammino inverso: dal proton katà phtjsin al proton kath 'hemas. Solo così das reine Zusehen , che regge l'intero iter fenomenologico, riceve la sua 'prova' . Ma Spaventa, non avendo colto l'intrinseca doppiezza del sapere fenomenologico, non ha potuto intendere la 'necessità' hegeliana di provare logicamente lo Standpunkt a partire dal quale è 'costruita' la Fenomenologia. Né certo l'aiutava l'insi­ stita contrapposizione di scuola tra pensiero antico e pensiero moderno, l'uno che muove dall'essere per giungere a dimostra­ re il pensare, l'altro dal pensiero per provare l'essere15. Inizia pertanto l'esplicazione delle prime categorie della Scienza della logica - svolta con l'intento di confutare le obiezioni di Trendelenburg a Hegel - con la dialettica Pensiero-essere . E per quanto verso la fine del saggio non manchi di precisare che il pensiero che regge l'iniziale dialettica della logica non è l'Io penso, ma il pensare, l' Es denkt16, ciò non toglie che la

§ § 440-487) della I parte della Filosofia dello spirito, dedicata allo "spirito soggettivo". 14. Esplicitamente richiamato al termine della presentazione del "Concetto in generale": "VL, II, p. 269; it. , Il, p. 673 . 15. Cf. Schizzo di una storia della logica, Op, II, pp. 6 1 8 ss. 16. «L'lo, la prima persona, è la terza nel pensiero logico» (Op, I, p. 421 )­ affermazione alquanto sbrigativa, va pur detto.

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sua analisi delle prime categorie della Logica sia fondamental­ mente in contrasto con la stessa impostazione della hegeliana Scienza della logica . Perché non si può iniziare l'analisi della Logica di Hegel col pensiero pensante, col concetto inteso come conceptus, concipere, questo inizio non è un inizio. Il pensante - preciso : non l' Ich denke, ma l'Es denkt - appa­ re nella Logica molto più tardi, nella Logica soggettiva, nella Dottrina del concetto, questo sì conceptus e non conceptu1n . Nei primi gradi della Logica, nella Logica oggettiva dell'E s­ sere e dell'Essenza, la dialettica non è del concipere, ma tra concepta . All'inizio della Logica i termini non sono pensiero e essere, pensante e pensato, bensì essere e non-essere. Qui si colgono insieme la 'ragione' della critica di Henrich a Spaven­ ta ed il limite della proposta interpretativa del critico . E ssere e non-essere non sono dei puri immediati, la cui differenza è coglibile solo negativamente , ovvero solo immediatamente, dacché ogni mediazione innalzerebbe l'essere al grado dell'es­ senza. La 'lettura' di Henrich è ancor più lontana da Hegel che non quella di Spaventa. È sufficiente ricordare qui l' af­ fermazione che si legge all'inizio della Scienza della logica, secondo cui non v'è né in cielo né in terra né in altro luogo mai un puro immediato o un puro mediato, ché reale è solo l'immediato-mediato, ovvero la mediazione dell'immediatez­ za ( cf. WL, I , p. 66; it. , I , p. 52) . Rinviando di poco l'espli­ cazione di questo concetto, va ora detto che non si dà pura immediatezza di essere e non essere, essendo pensabili solo via negationis ( a parte il fatto che anche la via negationis è una mediazione, quantunque soggettiva, ovvero del 'pensante' ) , talché essere ed essenza non s i distinguono come immediato e mediazione, ma come mediazioni diverse. l:essere essendo la mediazione che lascia i mediati l'uno fuori dell'altro, l'es­ senza la mediazione che porta i mediati l'uno dentro l'altro, che immedesima i mediati, il concetto, infìne, la mediazione delle due mediazioni dianzi dette . E questo non è una nostra

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'interpretazione', è semplicemente quello che H e gel dice in più punti della sua opera ( cf. in part. sulla "Riflessione": WL, II, pp . 24 ss: it., II, pp . 443 ss. ) . Nostra è solo l'aggiunta, che tale struttura è costruita avendo presente la successione delle mediazioni come si presentano nella koinonfa ton ghenon del Sojìsta platonico. Tutto ciò è solo la premessa del discorso, ché dobbiamo inter­ rogarci su cosa significhi che non c'è in nessun luogo dell'uni­ verso qualcosa di puramente immediato o puramente media­ to . Anticipando diciamo: signifìca che la trattazione hegeliana dell'inizio - del 'cominciamento' , per dirla con Spaventa - ha questo fìne: l'eliminazione dell'inizio. Per essere chiari sino in fondo: non toglimento dell'inizio , Aujhebung; bensì cancella­ zione , tilgen , dell'inizio, del problema dell'inizio . La dialettica hegeliana è questo - o non è niente . 4. Stralciamo alcuni passi, tra i più citati, dall'esposizione hegeliana delle prime categorie : Essere, puro essere, - senza nessun'altra detenninazione . N ella sua indetenninata im1nediatezza esso è uguale soltanto a se stesso, ed anche non diseguale rispetto ad altro [ . . . ]

Nulla, il puro nulla; è se1nplice uguaglianza con sé stesso, co1npleta vuotezza, assenza di determinazione e di contenu­ to; in distinzione in se stesso. [ . ] .

.

Il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso . Ciò che è vero non è né l'essere né il nulla, 1na che l'essere non passa, 1na è passato nel nulla, e il nulla nell'essere. Parilnenti però vero non è la loro indistinzione, 1na che essi non sono lo stesso, che essi sono assolutmnente diversi, ma insie1ne inseparati e inseparabili, e che iln1nediatmnente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto . La verità dell'essere e del nulla è pertanto questo tnovi1nento consistente nell'iln1nediato sparire dell'u­ no di essi nell'altro: il divenire; 1novilnento in cui l'essere e il nulla sono differenti, 1na di una differenza, che si è in pari

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tetnpo ilntnediatatnente risolta (aufgelost) . (WL, I, pp. 82-83; it. , l, pp. 70-71) .

Basta leggere con attenzione questi brani, per rendersi conto che tanto la critica di Trendelenburg, quanto le repliche dei seguaci e difensori di Hegel, a partire da Werder e Fischer, sono estranee al testo hegeliano. l:"indeterminata immedia­ tezza eguale solo a sé", inizialmente attribuita al puro essere e al puro nulla, è solo l'inizio di una definizione, dacché non v'è un "sé" che non sia "relazione ad altro": diffìcile credere che Hegel, nel riflettere sul 'cominciamento' , non avesse presente quel luogo del So.fista, poco sopra citato, ove si mostra la neces­ saria relazione di identico e diverso. E non è proprio a questa relazione necessaria che fa riferimento quando dice che «Il vero non è né l'essere né il nulla, ma che l'essere non passa, ma è passato nel nulla, e il nulla nell'essere»? Ma, se divenire è questo "esser-passato", allora "nulla" non dice 'più' di quanto non dica "essere" - come sostennero Werder17 e Fischer18, e Spaventa con loro, aggiungendovi che la negazione del nulla è il carattere proprio di quel gran prevaricatore ch'è il pensi e-

17. «Quando dico Nulla so di più che quando dico Essere - perché quello è di più, è ciò che si rivela, squarciando il proprio velo; perché è il nudo Esse­ re, lo spirito dell'Essere, l'Essere nell'Essere. Il Nel Nulla l'Essere rompe il silenzio in sé di se stesso. Il Nulla è la riflessione (Besinnung - Spaventa tradurrà con «accorgimento») dell'Essere, l'aprirsi in lui del suo senso; il suo sguardo in sé, il punto in cui sorge la sua originarietà. Nel Nulla si svela la sacrosanta duplicità di senso della vuotezza dell'Essere. Che esso nient'altro è che l'Essere-stesso, l'Essere mediante se stesso, pieno unicamente di se medesimo - questo dice la sua vuotezza, questo dice il Nulla. Il Nulla è cosi il sapere dell'Essere riguardo alla sua pienezza, al suo compimento a partire da sé, riguardo al suo libero agire, alla sua auto-creazione; - e nell'attualità (in der Energie= nell' e n erghe f ) di questo sapere che si muove in se mede­ simo Essere non dice più Essere, ma Divenire» (K . Werder, Logik, p. 4 1 ) . 1 8 . «Pensare e d essere sono identici. Pensare e d essere sono non identici. L'Identità è spiegata nel concetto dell'Essere; la non-Identità nel concetto di non-Essere» (K. Fischer, SLM, p. 194) . Su Werder e Fischer cf. V. Verra, a

SF1'0.

313

ro19• E pertanto, se tutto quanto v'è nel nulla, è già nell'essere , s e cioè la relazione all'altro è gi à nel s é , ché i l s é è tale per la sua relazione all'altro, allora il primo, il vero primo non è !'"essere ", né il "nulla": il vero , unico primo è il divenire - la relazione . L esposizione delle prime categorie della Logica ha questo signiRcato, che per quanto si spogli l'essente d'ogni determinazione sino a tradurlo in puro vuoto, anche in questo indeterminato, nella misura in cui si pensa qualcosa, è prese n­ te la relazione tra "sé" ed "altro" . Detto diversamente: "essere e nulla, come puro essere e puro nulla, in quanto indetermina­ te immediatezze eguali solo a sé", sono intpensabili, come tali neppure due; pensabile, e pensato, è solo il divenire , ovvero la relazione che non è tra un puro, isolato "sé" e un puro, isola­ to �'altro", ma tra il "sé" ( un qualsiasi sé ) correlato all'"altro" ( un qualsiasi altro) , e !'"altro" correlato al "sé". La trattazio­ ne hegeliana dell'inizio è quindi l'eliminazione del problema dell'inizio . In termini �logici' : il divenire è già tutto nell'essere , ché mai si coglie essere fuori del divenire ; in termini "teo­ logici": Dio è Dio perché crea, ed è tutto nella sua creazione . Dio muore sorgendo come mondo. Muore , presente aoristico: Dio è già da sempre morto per vivere nella sua creatura. Questo procedimento, messo in opera nell'esposizione delle prime categorie della Logica, è enunciato da Hegel con estre­ ma stringatezza già nel preambolo dell'opera, dove si chiede "con che deve cominciare la scienza": «l'andare innanzi - seri­ ve - è un tornare addietro nel fondamento, all'originario e al vero, dal quale quello con cui si era cominciato, dipende, ed è, infatti, prodotto» (WL, l, p. 70; it. , p. 56) . Perché questa affer­ mazione non resti principio indimostrato, facciamo seguire la dimostrazione che Hegel ne ha fornito in un luogo fonda­ mentale della sua opera, compreso nella Fenonz.enologia dello

19. In merito cf. infra, § 7.

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spirito, ma scritto dopo averla terminata, e cioè nella Vorrede, ove tratta della "proposizione speculativa" . 5. Volendo dare ragione delle diffìcoltà che la comprensione dei concetti fìlosofìci presenta anche per lettori esperti, Hegel chiama in causa i limiti del linguaggio comune, 'rappresenta­ tivo', intellettualistico (verstiindig) , di cui s'avvale la fìlosofìa, inadatto ad esprimere pensieri e concetti speculativi. D'al­ tronde , se è proprio della verità fìlosofìca parteciparsi, render­ si pub blica20, allora al fìlosofo non resta che accettare la sfìda del linguaggio . Il linguaggio comune, rappresentativo, si esprime in propo­ sizioni (o giudizi) , secondo cui qualcosa si dice di qualcos'al­ tro, tì katà tin6s : il predicato di un soggetto . Invero i predicati sono molti, e solo perché v'è un unico e stabile soggetto, che funge da riferimento comune , i molti predicati possono nella loro varietà essere tra loro in relazione e così defìnire l'unico soggetto: ciò che è, l'ente , nella molteplicità dei suoi aspetti . Logica apofantica e antologia della sostanza nascono ad un parto . Ma, osserva Hegel, altro è ciò che la proposizione 'realmen­ te' dice, altro quanto l'interpretazione antologico-sostanziale le fa dire . Questa attribuisce al soggetto 'logico' (al soggetto della proposizione ) la 'pesantezza' della sostanza che sta e non muta, laddove la proposizione dicendo i predicati del soggetto mostra il suo continuo divenire, il farsi del soggetto logico "A" quel che i predicati, "h", "c", "d", . . . "n", volta a volta dicono . Il medesimo fìore è rosso, vellutato, ricco di spine , profumato . . . La proposizione dice che il soggetto è i suoi predicati, e senza

20. «[ . . . ] uscendo dalla variopinta parvenza dell'al di qua sensibile e dalla vuota notte dell'al di là ultrasensibile nel giorno spirituale del presente» : PhiiG p. 140; it., I, p. 152 .

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questi cade nel nulla. La proposizione risolve la 'pesantezza' del soggetto nella 'leggerezza' dei suoi predicati, nella loro mobili­ tà. H e gel annota che il "Sé" dell'ente - il soggetto-sostanza, il "Sé oggettivo e fìsso" (das gegenstanliche fixe Ieh ) - si risolve nell'Io che pensa l'ente, nell'"lo-che-sa" (das wissende Ich) , che è l'unità di tutti i predicati e d il loro sostegno21 • Genial­ mente , unendo logica formale e logica trascendentale, Hegel mostra il 'passaggio' dalla logica apofantica dell'inerenza alla logica apofantica della sussunzione22 • Ora in questo 'passaggio' è il pericolo sommo del pensare, quello di ridursi a puro riiso n­ nieren, a mero salterellare da un predicato all'altro, che toglie al sapere ogni consistenza e serietà. Questo mero raziocinare intellettualistico trova però in sé medesimo un "contraccolpo" ( Gegenstoj3) - qui Hegel critica, palesemente , la prospettiva del soggettivismo trascendentale : l"'io che sa" «invece di poter essere l'elemento operante nel muovere il predicato ( elemen­ to operante in quanto raziocinante intorno all'attribuzione di questo o di quel predicato al primo soggetto) ha piuttosto ancora a che fare con il Sé del contenuto, né deve essere per sé, ma insieme il contenuto medesimo» (PhiiG, pp . 50-51 ; it. , l , p . 51) . E d è qui che si vede l'operare effettivo della ragione, Vernu nft, del pensare propriamente fìlosofìco che, mettendo la forma rigida della proposizione - la separazione soggetto­ predicato - in contrasto col suo contenuto, che come soggetto si toglie nel predicato - nell"'io che sa" -, e come predicato torna al soggetto, al Sé di prima, che ora trova come un estra­ neo, tiene insieme distinzione ed unità. Un tale conflitto della fonna di una proposizione in genere e dell'unità del concetto che distrugge quella forma, è siinile a ciò che nel ritmo ha luogo tra il metro e l'accento; il ritlno

2 1 . PhiiG, p. 50; it. l, p. 5 1 . In merito cf. retro, Parte l, Sez. III, cap. l. 22. Sulla distinzione cf. l. Kant, KrV, Die Analytik der Begr'!ffe, spec. § § 20 ss., B 143 ss.; G. W. F. Hegel, 'VL, II, Das Urteil der Reflexion, pp. 326-335; it. , II, p. 729-737.

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risulta dalla librantesi Inedietà e unificazione del Inetro e dell'accento. Siinihnente anche nella proposizione filosofi­ ca l'identità di soggetto e predicato non deve annientare la loro differenza espressa nella fonna della proposizione; anzi la loro unità deve risultare co1ne annonia. (Ib. , p. 51; it. , I, pp. 51-52).

Se ora torniamo a leggere l'esposizione del divenire, l'unità di essere e nulla nella loro differenza risulta affatto chiara: «Il vero non è né l'indifferenza di essere e nulla, perché essi sono assolutanwnte diversi, ma immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto». E cioè, nell'atto stesso che si affer­ ma la loro differenza, la si nega, come attesta la definizione dell'essere che, nel dirla "pura immediatezza eguale solo a sé ", aggiunge "e non diseguale rispetto ad altro", così togliendo la semplice eguaglianza a sé , l'identità, nella relazione ad altro, nella differenza. La critica di Trendelenburg a H e gel cade fuori dell'ambito del pensiero hegeliano, per il dichiarato intento di cogliere la diffe­ renza di essere e nulla, prima del loro fluire l'uno nell'altro, l'altro nell'uno, prima del divenire, prima del primo . Peraltro il largo successo che ha arriso a tale critica è dovuto proprio al modo in cui si attua il pensiero dialettico, che è unità (armo­ nia) di accento e metro, fìssità e divenire , intelletto e ragione. Il pensiero dialettico non si limita a negare semplicemente la "è", l'identità, ma la accoglie, risolvendola, nel predicato, nella relazione predicativa. In che la "è", !'"identità", dell'esse­ re ? N ella sua m era eguaglianza a sé non diseguale rispetto ad altro . In che la sua negazione nel diverso ? Nella sua relazione ad altro , implicita nella contemporanea dichiarazione della non-disuguaglianza ad altro23 • 23 . S 'intende ora il senso di quella Meinung, di quell>«opinare" che tiene separati essere e nulla, di cui parla Hegel nella seconda nota alle prime categorie della Logica : «Quelli che vogliono star fermi (beharren wollen)

317 6. È innegabile che Spaventa abbia compreso il senso profon­

do del metodo hegeliano; ne è chiara testimonianza questa citazione: Per 1nuovermi [ . . . ] io ho bisogno di un punto da cui Inuover­ mi. Ora qual è questo punto qui? Non altro che il mio pensiero dell'Essere; io non ho altro, non sono altro che questo pensie­ ro; solo da questo posso 1nuovenni. Ebbene da questi punto io non posso staccanni: giacché lasciar lì l'Essere è lasciare il punto che solo 111i sostiene, è lasciar quello che mi fa ciò che sono, cioè pensiero: è lasciar di pensare . ( Op , I, p. 405) .

Quello, però, che ha ingenerato equivoci, e gravi, è l'aver egli anticipato la dialettica del pensiero pensante ai pensieri pensati, il concipere ai concepta, stravolgendo in tal modo­ come s'è rilevato poco sopra - il senso della struttura hegelia­ na della Logica, costruita in modo tale da di-mostrare come e perché dalla relazione tra concepta sia emersa la dialettica del concipere, dal concetto-sostanza di Aristotele il concetto­ funzione di Kant. N el passo or citato è palese che Spaventa è pienamente consapevole che l'E ssere da cui muove il pensiero non è 'posto' dal pensiero più di quanto non sia 'presupposto' . Egli, cioè, è pienamente consapevole che l'Essere è il presup­ posto 'interno' del pensiero: presupposto del pensiero solo nell'atto in cui è riconosciuto dal pensiero, e cioè solo nell'atto in cui il pensiero si pone, pone sé e , ponendo sé, fa dell'Es­ sere , del "punto da cui muove", il suo presupposto, che non sarebbe tale , presupposto, senza il suo por-si, che non sarebbe

alla differenza dell'essere e del nulla - scrive -, si provino a dire in che consiste» ('VL, I, p . 95; it. , I, p. 8 1 ) . Quell'opinare appartiene all'intelletto astratto dalla ragione, puro accento senza metro, epperò assoluta, ineffabile disarmonia, ché presume di poter 'fermare' il dire l'essere alla pura "egua­ glianza con sé" senza dover passare, nell'atto stesso di pronunciare quella eguaglianza, alla sua disuguaglianza con altro, alla relazione con altro. Ma è proprio del dire il movimento, del logo il divenire. La logica è di necessità portata a superare la semplice, isolata "è".

318

tale: il punto da cui muove, senza il suo movimento. Ma la tradu zione, ad opera del movimento, del "punto" in "punto di partenza", dell'antecedente in presupposto del pensiero, non fa del presupposto un semplice 'posto' . Il pensiero pone il presupposto in quanto presupposto: lo riconosce . Il padre è certamente padre solo con la nascita del figlio, ma questo non significa che il figlio generi il padre . Generante è e resta il padre, che è prima d'esser-padre , e può esser padre solo perché è prima d'esser-padre . Gentile , presumendo di rendere più rigoroso il pensiero di Spaventa, fa dell'essere, presupposto interno al pensiero, una 'pura' posizione del pensiero, ribaltando, in tal modo, la connessione hegeliana "essere-divenire" . Per Gentile è il divenire che 'pone' l'essere , il concreto che pone l'astratto, il concipere il conceptunt. Così impostato il problema, egli non solo accetta la critica di Trendlenburg a Hegel, ma la rincara: Hegel - scrive - non 'realizza' il divenire , ma lo 'analizza'24• E proprio perché lo analizza dà ragione alla critica di Trende­ lenburg, che esige sia detta, mostrata la differenza tra essere e nulla. L'operazione di Gentile è sottile , in quanto con un unico gesto fa sua la critica di Trendelenburg a Hegel e insieme respinge la richiesta del critico di dire in che consista la diffe­ renza. La differenza di essere e nulla - afferma Gentile - è il divenire, che è l'essere che si nega nel nulla. Quindi, là dove Hegel si è fatto carico di dire-mostrare la differenza tra esse­ re e nulla, mostrando nel dire - come rileva la proposizione speculativa - l'essere e il suo scomparire , e cioè 'producendo', owero: 'esibendo' e 'realizzando' , il divenire quale armonia di accento e metro, Gentile si limita a dichiarare la differenza, senza mostrarla - senza mostrarla nel suo negarsi, beninte­ so , come si è ripetutamente detto . Hegel mostra nel divenire

24. Cf. RDH, Parte I, cap .

V.

Riguardo a Spaventa e a K. Fischer, cf. p . 28.

319

la differenza e la sua negazione, e così 'produce' il divenire , Gentile l'enuncia soltanto. Potremmo dire che la differenza tra Hegel e Gentile, quanto alla 'definizione' del divenire , sta in ciò che quella di Gentile è una definizione 'nominale', enuncia cioè un carattere del divenire, quella di Hegel una definizione 'reale ', perché costruisce la cosa stessa nell'atto di definirla. La retrocessione di Gentile da H e gel a Fichte consiste appunto in ciò . È che al fondo della tesi, secondo cui all'interno stesso del pensiero è il presupposto del pensiero - tesi che caratterizza la Logica hegeliana -, sta la dimostrazione della realtà del sapere conseguita nella Fenomenologia, il cui senso Gentile ignora affatto. Ma la critica di Hegel a Fichte non perché ignorata cade . Se Fichte non riesce a mostrare la 'realtà' dell'oggetto del pensare, Gentile non riesce a dimostrare la distinzione tra concreto e astratto. Posto pure che al pensiero sia necessaria una "colonna adamantina" a cui reggersi, perché il movimento non divaghi qua e là ma abbia una direzione, bisogna pure che la colonna cui s'appoggia sia salda: ma se l'astratto che dovreb­ be legare il concreto, l'obbligo che dovrebbe tenere a freno la libertà perché non scada ad arbitrio, non è meno mobile del concreto, allora la 'deduzione' dell'astratto resta una pura, insoddisfatta, esigenza25• 7. Ma la distanza che separa Gentile da Spaventa è ben maggiore di quanto sinora non si è detto . Ché l'Essere a cui fa riferimento Spaventa nello scritto sulle Pri1ne categorie della logica, e in particolare nel passo citato da Henrich nella sua critica, dice tutt'altro da quanto Gentile non gli abbia fatto dire . È opportuno citare per esteso il brano in questione per la sua notevole rilevanza non solo per la comprensione del pensiero di Spaventa, sì anche per l'interpretazione della filo-

25. Cf. retro, Parte l, Sez.

Il,

cap.

l.

320

sofìa hegeliana, meno 'compatta' di quanto non appaia in altre 'letture' , che paiono più fedeli solo perché più tradizionali. Adunque, perché il No? Il Non essere, la negazione? e dopo , e nonostante il Sì, l'essere, l' affennazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere? Questo è lo stesso proble­ Ina del tnondo, lo stesso enigtna della vita, nella sua tnasshna semplicità logica. Quel che sappimno è che senza il Pensare non sarebbe il N o, il Non essere; e chi nega, quegli che vince l'invincibile e fende l'indivisibile, cioè l'Essere; che distin­ gue e contrappone nell'Essere tnedeshno in quanto tnede­ shno ciò che è e ciò che non è: la generazione o ge1ninazione dell'Essere; quegli che turba la tranquilla imtnobilità, l'oscu­ ro hnpenetrabile sonno dell'assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare. Se non fosse altro che l'Essere, non sarebbe il No. E , quando si va a vedere, l'Essere stesso, solo l'Essere, non dice Essere, non dice È, non dice punto . LÈ - la stessa affennazione - è pensare; è distinguere, è concentrar l'Essere; è setnplificarlo, ridurlo a un punto, e perciò getninarlo. 26

Chiaramente qui Spaventa distingue dall'Essere che sopra s'è detto "presupposto interno al pensiero", dall'Essere 'posto', nel senso di 'riconosciuto', dal pensiero, l'Essere che è 'prima' del riconoscimento, !'"Essere solo Essere che, se si va a vedere, non dice Essere, non dice È, non dice punto", dacché l'"è" che determina l'essere, che lo distingue, lo concentra, lo pensa, lo genera, questo "è" è pensiero e solo pensiero . Qui il momento più originale dell'interpretazione spaventiana di Hegel, che Gentile nella Rifonna della dialettica hegeliana criticò come residuo realistico del pensiero del suo Maestro . E si trattava invece della radice neoplatonica di questo pensiero, una radi­ ce ineludibile del pensiero, di ogni pensiero critico, come lo

26. Op, I, p . 399. Questo brano - per l'importanza che ha per l'intetpreta­ zione del pensiero di Spaventa - è variamente ripreso nella I come nella II Parte di questo libro.

321

stesso Gentile dovrà scoprire molti anni più tardi, attraverso un autonomo percorso, nella Filosofia dell'arte. Ma di ciò mi sono già occupato altrove, e non è il caso di ripetermi27. Va qui, piuttosto, rilevato che Spaventa, seguendo l'inclinazione più profonda del suo pensiero, riesce a dire qualcosa di gran rilie­ vo anzitutto riguardo a Hegel, ma non solo riguardo a Hegel. Torniamo sulla proposizione speculativa, a quella pagina della Vorrede della Fenotnenologia in cui Hegel parla del "contrac­ colpo" che il pensiero subisce poi che s'è liberato dalla fìssi­ tà del 'soggetto-subjectum' del giudizio nella leggerezza dei molti, e vari e mutevoli, predicati . Questo contraccolpo è un vero impedimento (Hetntnung) all'errare di qua e di là del pensiero raziocinante, è un peso, Schwere, che trattiene il 'soggetto che sa', das wissende Ich , legandolo ad un contenuto estraneo . C 'è da chiedersi se in questa pagina v'è solo la critica del formalismo della fìlosofìa trascendentale , della vuotezza dell'Ieh denke kantiano uguale a X, che ha il suo contenuto non dentro di sé, ma fuori - o non dice questa critica qualcosa di più, anzi molto di più, e proprio riguardo alla concezione hegeliana del pensiero, il gran prevaricatore, die ungeheure

Macht des Negativen . Questo gran prevaricatore che oppone la negazione all' affer­ mazione, il no al sì, il nulla all'essere , è, certo, il pensiero, non però il concetto che si sa come concetto, non l' autocoscien­ za autrotrasparente, ma il lato notturno della coscienza e del pensiero: die lichtscheue Macht, la potenza che ha in orrore la luce, quale emerge nella interpretazione hegeliana dell' Edipo di Sofocle ( cf. PhiiG, pp. 335-336; it., II, pp. 27-28) . Un a confe rma, questa, del privilegio accordato alla Fenotneno­ logia nell'interpretazione della Logica e del Sistema hegelia27. Cf. retro, P. I Appendice III, ed altresì V. Vitiello, «Dall'Io penso all'io sento. Giovanni Gentile", GP, P. l, cap. Il.

322

no? Per nulla affatto : "lichtscheue", in forma sostantivata: das Lichtscheue, ricorre anche nelle pagine della Logica dell'es­ senza, là dove Hegel scorge nella pura accidentalità (Zufiillig­ keit) di ciò che «è soltanto perché è» - nella rosa di Silesius, nel suo fiorire ohne warunt? - l'assoluta, "cieca" (blind) neces­ sità di ciò che non ha nessuna condizione né ragion d'esse­ re (keine Bedingung noch Grund) : il degradarsi dell'essenza all'" immediata semplicità" (unntittelbare Einfachheit) dell'es­ sere (cf. WL, II , p. 215-2 16; it., II, p. 623-624) . Senza pretesa di dividere "ciò che è morto da ciò che è vivo" in Hegel e di H e gel, senza proclamare riforme della dialettica, Bertrando Spaventa, 'sillabando' Hegel nel suo personalissimo modo, giunse dove altri non seppero: a intravvedere l'E ssere che è prima dell'E ssere e prima del Nulla, prima del passare e dell'essere-passato, prima del prima e del poi, prima della "creazione". Ad intravvedere das Lichtscheue . Come H e gel si allontanò da questo abisso della ragione . Come H e gel volle redimere il mondo, la creazione , da questo Dio negativo . Come Hegel si affidò al theòs deuteros, a Noils, il pensiero. Scrisse : «provare la identità come mentalità è provare la crea­ zione, giacché la identità come mentalità è l'attività creativa; risolvere il problema del conoscere è provare la creazione» (Op , II , p. 644) . Ma come, se proprio in Noils, nel suo fondo notturno, in seine1n niichtlichen Schacht (Enz, III, § 453, Anmerkung), si cela la maggiore pesantezza, Schwere, il più duro impedimen­ to, He1n1nung, a redimere il mondo dalla cecità del caso . . ? .

323

II Due divergenti letture della

Fenomenologia dello spirito: Augusto Vera e Berlrando Spaventa

tò gàr autò noein estin te kaì einai1 ti aletès einai chorìs apodefxeos2 apodefxeos gàr archè ouk ap6deixis estin3

In li,mine

Mettere a confronto le interpretazioni della Fenomenologia dello spirito dei due maggiori hegelisti italiani dell'Ottocen­ to è utile come ad approfondire la conoscenza storico-critica delle radici dell'idealismo italiano otto-novecentesco, così alla migliore comprensione dei problemi che il testo di Hegel solleva. Cosa che non si può certo fare con i più noti hegelia­ ni del Novecento, C roce e Gentile, avendo il primo mostra­ to sempre totale indifferenza per la Fenontenologia hegelia­ na - le poche osservazioni che ha riservato a quest'opera, tra le più alte espressioni della filosofia e pur della letteratura

l . Parmenide, TF, Fr. 3 . 2 . Aristotele, Met., N, 4, 1006a 27-28. 3. Ib., l Ol la 13.

324

occidentale, non vanno al di là di ntots d' ésprit sans ésprit4 , ed il secondo avendole dedicato poche pagine di un saggio, "Il metodo dell'immanenza", nel quale rivela soltanto la sua radicale incomprensione del problema e quindi del procedi­ mento della Fenontenologia5 tema, peraltro, esposto sin nel sottotitolo dell'opera: Scienza dell'esperienza della coscienza . Strano per un filosofo che nell'intero suo Denkweg si trava­ gliò sul problema del rapporto tra pensiero pensante e pensie­ ro pensato. Ma, invero, la lettura delle pagine di Croce e di Gentile su Hegel, le occasionali e pur quelle specificamente dedicate al filosofo tedesco, desta stupore , e più ancora che per la lacunosa conoscenza dei testi, per l'assenza di un auten­ tico rapporto 'speculativo' con l'Autore, al quale pure si richia­ mavano come al loro Altvater. Basti qui richiamare le pagine sul sillogismo della Logica crociana, persino irritanti per la -

-

4. Di Croce, oltre alle cit. "Noterelle di critica hegeliana" (retro, P. l, Sez. III, cap. II, § 1 .2, nota 15) , si veda quanto dice in Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel: «è nota la disputa sul posto che la Fenomenologia ha nel sistema: disputa priva di senso» (cap. V, su "La metamorfosi degli errori in concetti particolari e gradi della verità", SH, p. 74) . Né miglior giudizio riserva alla \VL: «Chi prenda tra mano la Logica di Hegel col proposito d'in­ tendeme il nesso, e, anzitutto, la ragione del cominciamento, dovrà, dopo un po', deporre quel libro, disperato d'intendere, o persuaso che si trova innanzi a un ammasso di astrattezze senza significato. Ma chi, come il cane di Rabelais, 'bestia filosofa', invece di lasciare stare l'osso, lo addenti or di qua or di là, lo stritoli, lo sminuzzi e lo succhi, si ciberà alfine del sostanziale midollo» (SH, p. 78). 5. In merito cf. RDH, p. 227, retro, P. I, Sez. III, cap. II, § 1 .2. Senza voler qui richiamare la ben più profonda ed articolata lettura della Fenomeno­ logia dello spirito data da Heidegger nel cit. saggio "Hegels Begriff der Erfahrung", va pur detto che già Karl Rosenkranz, nel suo Hegels Leben, edito nel 1 844, aveva ben chiaro che il percorso fenomenologico è «Una libera esposizione dell'Assoluto (id est: della Verità) nella sua unità con l'au­ tocoscienza>> (pp. 488-489 ).

325

superfìcialità con cui il problema viene liquidato6, e l'assenza in Gentile di qualsiasi riferimento alla Wesenslehre, e in parti­ colare alla "riflessione" - e si tratta di temi fondamentali della fìlosofìa, e non solo di quella hegeliana7. Talora vien fatto di chiedersi se Gentile sia mai andato al di là della lettura delle prime categorie della Scienza della logica! Più modesti, ed insieme più interessati ad entrare in un rapporto autentico con questo grande pensiero che in qualche modo riassume in sé l'intera tradizione fìlosofìca occidentale, Vera e Spaventa non esitarono a Hegel buchstabieren - per usare la felice espressione di GadamerB. Dalle loro interpreta­ zioni, certo tra loro distanti per sensibilità storico-critica e per orientamento teoretico, possiamo ancora apprendere qualco­ sa su Hegel e non solo su Hegel.

I l . Cominciamo con Augusto Vera. Al centro della sua analisi, e non solo del pensiero hegeliano, è il concetto di Sistema,

6 . Cf. B . Croce, LCP, Sez. II, cap. II, spec. pp. 77-94. Riuscì a far peggio Carlo Antoni ("La dialettica di Hegel", in Id., CHM, pp. 1 -20) , portando ad esempio dell'astrattezza intellettualistica della logica hegeliana proprio la teoria del sillogismo, nella quale Hegel rovescia come un guanto il formali­ smo logico: non a caso alla quarta forma del sillogismo (il sillogismo teleo­ logico) è riservata un'intera Sezione della Begriffslehre : "La Oggettività". Sul tema cf . retro, Parte I, Sez. I, cap . 2, § 5, ed altresì V. Vitiello, ETN, Sez. I, cap. I, "Logica e mondo in Hegel. La quarta forma del sillogismo", pp. 23-49. 7. Cf. sul tema C . Sini, Teoria e pratica del foglio-mondo, in Id O, vol. III/ II, Il foglio-mondo, pp. 67-142. 8 . Cf. H.-G. Gadamer, HDHS, p. 6.; retro, P. Il/I. .,

326

secondo il quale non si dà verità se non nell'ordine unitario del Tutto. Chiaro che questa verità è antologica e non mera­ mente gnoseologica, dacché in essa si manifesta l'essere stes­ so del Tutto nei suoi molteplici livelli o stadi. Di qui la criti­ ca a Kant, reo d'aver diviso quant'è originariamente unito : il pensiero dall'essere , e cioè la categoria dal fatto , l'intelletto dai sensi, infine la ragione dall'intelletto . La critica di Vera ripe­ te , nell'essenziale , la critica che H e gel muove a Kant all'ini­ zio dell'Introduzione della Fenotnenologia dello spirito; ma la mira dell'interprete è mossa da altro e più ampio intento che non quello della sola interpretazione di Hegel: in Kant egli critica il teorico del pensiero scientifico moderno, owero del positivismo . L'esito scettico della filosofia kantiana della cono­ scenza e pur della morale, si presenta come la prova provata che non si dà verità nelle scienze particolari, che muovono dal presupposto della scissione del pensare dall'essere (PA , capp. XIX-XXI) . Si dà conoscenza vera soltanto nell'ordine sistema­ tico del Tutto ove essere e pensiero, pensiero ed essere sono ununt et ident. Non a caso l'opera che per Vera rappresen­ ta l'apogeo della filosofia hegeliana è l'Enciclopedia (ib. , cap . XXII , nota 15, p. 62) . Ma che significa che pensiero ed essere sono uno e medesi­ mo? Che cosa dice il parmenideo tò gàr autò noefn est{n te kaì efnai, che s'è citato in esergo ? Che l'auto uni-fica, e cioè rende uno, pensiero ed essere , o non piuttosto che è il terzo nel quale e per il quale i due si relazionano? Detto più semplice­ mente : nell'unità dell'auto la differenza tra pensiero ed essere è negata o conservata? Vera respinge l'alternativa: nel sistema di H e gel - osserva - la differenza è negata e insieme conservata. Non è la sempli­ ce ripetizione dell'Aj u hebung hegeliana. V'è dell'altro che va messo in giusto rilievo . Scrive Vera: «l'assoluto è nel mondo fenomenale, ma vi è ponendo lo e negando lo ad un tempo. [ . . . ]

327

Ed in siffatta guisa è immanente al mondo» . Quindi esem­ plifìca: « Dio non è immanente nelle cose, in esse, a dir così, disperdendosi e se co loro immedesimandosi, ma in esse mani­ festandosi e ad un tempo negandole» (ib. , p. 74, corsivo mio) . Il lettore della Vorrede della Phiinonwnologie non può non ricordare l'opposta affermazione hegeliana sulla forza (Kraft) e la profondità (Tiefe) dello spirito che è tanto più grande e profonda quanto maggiormente osa dispiegarsi (aus-legen) e pur perdersi (sich verlieren ) nel mondo (PhiiG, p. 1 5; i t., I, p. 8) . Vera ha qui toccato il punto forse più problematico del concetto di Sistema - di Hegel, ma non solo di H e gel. Nega­ zione e conservazione si dispongono a diversi livelli . Pensiero è essere : l'essere si manifesta nel pensiero - e vale anche la reciproca: il pensiero si manifesta nell'essere , essendo -; ma il principio dell'unità non si manifesta nella manifestazione , è altro e superiore . Facile dire che non c'è né in natura né in cielo né nello spirito o in qualsiasi altro luogo si voglia imma­ ginare, mediazione senza immediatezza e immediatezza senza mediazione ( Hegel, WL, l, p. 66; it. , l, p . 52) , resta il fatto che nella correlazione universale del sistema, e cioè nell'eteronte­ diazione di ciascun termine con gli altri, l'atto del mediare è immediato, non avendo altro, a sé esterno, con cui mediarsi . E ove si affermi - come H e gel afferma - che l'atto del media­ re non abbisogna d'altro, dacché, nel mediare l'altro da sé , si media con sé medesimo, essendo l' automediazione co-attuale ad ogni eteromediazione , non può non sorgere la domanda: come dar ragione di questa differenza di mediazioni - l'etero­ mediazione, o mediazione per altro , e l'auto-mediazione , o mediazione per sé? Che Hegel si sia scontrato con questo problema, non esige dimostrazione; è suffìciente richiama­ re alla memoria i tre sillogismi fìnali dell'Enciclop edia (Enz, III, § § 574-577) , ove Hegel compie il massimo sforzo per ricondurre la pratica del pensiero al pensiero, giungendo a rivoluzionare lo stesso ordine del Sistema. Ma il terzo sillo-

328

gismo - il sillogismo dei sillogismi, nel quale ciascun termine funge volta a volta da estremo maggiore , medio ed estremo minore - nonché fornire la soluzione del problema reduplica l'aporia. Infatti, se il Sistema - ora rappresentato dal circolo dei sillogismi - contiene in sé la sua dimostrazione come la ruotante totalità dei sillogismi, allora la dimostrazione , iden­ tificandosi col Sistema, è pura immediatezza, quiete peifecta, già da sempre compiuta, quale che sia la sua forma volta a volta cangiante : intuizione, quindi, e non dimostrazione; se, per contro, la dimostrazione è sempre solo uno dei sillogismi in cui prende figura il circolo dei sillogismi, allora essa è parte del Sistema e non la totalità di esso - e pertanto non la dimo­ strazione fonda il Sistema, ma questo quella, com'è proprio del tutto rispetto alla parte . In breve : apodel.'teos gàr archè ouk ap6deixis estin - il principio della dimostrazione non è dimo­ strazione . Si deve allora concludere che , come per Aristotele così per Hegel, tì alethès eznai chorìs apodeixeos - che c'è veri­ tà anche separatamente dalla dimostrazione? Una tale posi­ zione non avvicina sin troppo Hegel a Schelling, annullando il duro, continuo lavoro del concetto (Anstrengung des Begriffs: PhiiG, p . 48; it. , I, p. 48) nell'immediatezza di una intuizione rivelatrice che sopraggiunge come "un colpo di pistola" ? (ib . , p. 26 ; it. , I, p. 22) . 2. Vera cerca di limitare i danni con l'attribuire alla sola Fenon1enologia il limite di non avere in sé il principio di se medesima, della sua hod6s. « La Fenomenologia - scrive - è [ . . . ] essenzialmente un sistema, però subordinato, un siste­ ma, cioè, che non rinchiude in sé la ragione del suo essere , e che quindi non può dimostrare se stesso» (PA , p. 75) . Ragio­ ne che è invece compresa nel Sistema compiuto dell'Enciclo­ pe di a. Già si è detto ch'egli considerava quest'opera la vetta della filosofia hegeliana; aggiungiamo adesso che questa vetta

329

è raggiunta prima della pianura. Il Sistema compiuto era già presente prima dell'elaborazione della Fenotnenlogia, perciò questa non si spiega senza quello . Va detto che Vera aveva anche più ragione di quanto non potesse sapere . Conosceva, certo, i primi scritti di Hegel pubblicati a J ena nel "Giornale critico della filosofia", la Differenz e Glauben und \Vissen; ed altresì i corsi jenensi di Logica e Metafisica - almeno attraver­ so la mediazione di Rosenkranz. N o n poteva però conoscere quel 'frammento' scoperto tra le carte hegeliane nel 1913 e solo nel 191 7 edito da Friedrich RosenZ\veig col titolo "Das alteste Systemprogramm d es deutschen Idealismus", risalente al 1 796 o 1 797, di cui ancora si disputa sull'attribuzione - se a Hegel o a Schelling, o non piuttosto al lavoro collettivo di Hegel, Schelling e Holderlin9 -; ma mi è difficile pensare a Hegel, ancorché giovanissimo, nel ruolo di amanuense , ché sulla scrittura del 'frammento' non v'ha dubbio alcuno : è di pugno hegeliano . Qui mi fermo, per non addentrarmi in un tema che mi porterebbe troppo lontano; ma basta il titolo di quel giovanile scritto, per dar ragione alla tesi di Vera che l'"idea" di Sistema è alla base di tutta l'opera di Hegel, sin dall'inizio. A non voler poi citare gli studi novecenteschi sulla "struttura logica" della Fenonwnologia", che mostrano l'ope­ rare già nel libro del 1807 delle categorie che verranno solo in seguito elaborate nella Scienza della logica10• Vera ha ragioni da vendere nel non abbassare il tempo della filosofia a quel­ lo cronologico; c'è però da spiegare - mettendo ora da parte il chalep6n sopra rilevato nell'idea stessa di Sistema - come e perché la Fenonwnologia 'entro' il Sistema, che significa anche : perché e come la Fenotnenologia 'dopo' il Sistema: e qui ovviamente si fa riferimento non a quel 'troncone' dello

9 . Cf. i diversi contributi di F. Rosenzweig, O. Poggeler, D . Henrich, a. Gethmann-Sifert raccolti in MV. 10. Cf. l'analitico studio di J. Heinrichs, LPhiiG.

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Spirito soggettivo che nell'Enciclopedia segue all'Antropo­ logia e precede la Psicologia, bensì all'opera pubblicata nel 1807. Dunque : perché e conte? La prima risposta di Vera è data dal concetto stesso di Sistema. Se in Hegel il Sistema è l'ordine relazionale del Tutto, è ben evidente che nulla può esser fuori di esso . N e discende che nel Sistema - che , in quanto Tutto, è e non può non essere eterno - il dato empirico, il contingente, soggetto al sorgere e tramontare propri del tempo, e cioè : il fenomeno, non può non essere nell'eterno. Se così non fosse, il Sistema riprodur­ rebbe le aporie del fenomenismo kantiano . Ma come è nell'e­ terno il 'fenomeno'? Come sua manifestazione - s'è già detto . Eterno e tempo non sono divisi, son uno. Leterno hegelia­ no non è quiete ma attività, movimento incessante sempre in possesso di sé; nel linguaggio di Aristotele : enérgheia , essere in opera (en érgo ), entelécheia, ciò che si possiede nel fine (en télei échei ) ; nel linguaggio di Hegel, che a quello di Aristote­ le si rifà: l'eterno è movimento che si raccoglie nel risultato, owero : Ultimo che è Primo, il vero Primo. Ma così dicendo non si rischia di ridurre l'eterno al tempo? Il Kreis von Krei­ sen, il circolo dei circoli raffigurante l'Idea assoluta (WL, II, pp . 571 ss . ; it. , II, p. 955) , la cui trattazione chiude la Scienza della logica, garantisce la saldezza del Sistema, o non finisce, piuttosto, col metterla in crisi? Hegel oscilla palesemente tra posizioni opposte . Nella Feno­ ntenologia doppio è lo Standpunkt, quello interno al proces­ so della coscienza che s'innalza al sapere assoluto, e l'altro esterno , prospettato sin nella Einleitung dell'opera: das reine Zusehen, il "puro stare a vedere", che osserva la hod6s della coscienza, dell'autocoscienza, della ragione nelle sue diverse modalità ed attività, dello spirito etico e religioso, ed infine

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"assoluto" - senza ad essa parteciparvi, per non falsarla11 • Puro sguardo senza occhio, senza prospettiva, perché dice, meglio: è, quello che accade così come accade , senza apportarvi varia­ zione alcuna. Sguardo puro che peraltro si conquista solo alla fìne dell'itinerario, della hod6s . N ella Fenontenologia il fìume che conduce nell'oceano dello spirito assoluto, si rivela alla fìne essere solo una corrente dell'oceano. Vera coglie questo aspetto della Fenontenologia, là dove si chiede : «perché Hegel ha intitolato il tutto Fenomenologia dello spirito [ . . . ] se lo spirito forma solo una parte» dell'opera? E risponde: Perché un notne bisognava darglielo, e cotne lo spirito costi­ tuisce la più alta sfera della Fenotnenologia egli ha designato il tutto col notne di quella sfera rispetto a cui le altre non sono che tnotnenti subordinati. Il che si fonda appunto sul concet­ to di siste1na . Perocché nell'ente sistetnatico ciò che fanna la natura speciale non solo del tutto, tna eziandio delle parti è il suo principio, il principio che ne costituisce la finalità e l'unità. E questo principio dà, e, a dir così, ha il diritto di dare, meglio di ogni altro, il nome alla cosa. (PA , p . 98 nota 48) .

Ovviamente non è questione di nome, come peraltro egli sa bene. È che per dare ragione della presenza della Fenomeno­ logia all'interno del Sistema, Vera ha da spiegare perché, se il Sistema è il Tutto, vi debba essere una via di accesso al Siste­ ma. S e nel Sistema - id est: nella Verità - si è già da sempre, quale il senso della via alla verità? E ancora: in che modo la via che conduce al Sistema può essere inclusa nel Sistema?

È ben nota la soluzione che tradizionalmente viene data al problema, distinguendo tra il proton kath 'henUì s e il prato n katà physin , il primo per noi ed il primo per natura. Ma questa soluzione, che poteva andar bene per Aristotele , per il quale

Il.

PhiiG, Einleitung, p. 72; it., I, p. 75; cf. altresì Vorrede, p. 45; it., I, p. 44:

«Il conoscere scientifico esige [ . . . ] che ci si abbandoni alla vita dell'oggetto» .

332

essere e pensiero erano divisi, Vera non può farla propria, perché il concetto di Sistema, da cui egli parte , implica, come sappiamo, l'unità-identità di pensiero ed essere. Come è possibile un fenomeno - ossia una manifestazione del Siste­ ma - in cui non sia manifesta la correlazione universale che è propria del Sistema? Vera tenta una risposta distinguendo tra varie manifestazioni del Sistema: la più alta, che è propria dello spirito che nell'estraniarsi da sé torna a sé, e l'inferio­ re , della natura e pur della coscienza fenomenale, che ha la ragione di sé in altro . Risposta esiziale per il suo concetto di Sistema, perché introduce surrettiziamente la distinzione tra essere e pensiero, essere e sue manifestazioni: vi sono infat­ ti fenomeni in cui l'essere eccede il pensiero ch'essi hanno dell'essere ch'essi stessi sono. L'osservazione di Vera: non si può pretendere che il soldato abbia la stessa visione strategica del generale (p . 40 nota 9) - è più che valida; ma, per attenerci all'esempio, proprio la differenza tra la veduta del generale e la veduta del soldato il Sistema non spiega. Se tutto ciò che vediamo, compreso il nostro stesso vedere, lo vediamo nella visione di Dio - come Vera si compiace di dire citando Male­ branche (p . 95 nota 46) -, allora il soldato e il generale hanno esattamente la stessa visione: la visione di Dio12• Cosa concludere ? l ) Che il Sistema non dà ragione di sé; e 2) che neppure riesce a dar ragione della Fenotnenologia dello spirito . La critica a Vera coinvolge Hegel. Totalmente?

12. È che la Feno1nenologia - come vedremo - muove proprio dalla scis­ sione del pensiero dall'essere. Nella Einleitung è detto a chiare lettere che la coscienza non sa come accade la successione delle varie figure della coscienza e del mondo: "per noi", cioè per chi ha conquistato la posizione del "puro stare a vedere", quell'accadere necessario accade dietro le spalle della coscienza (hinter seinem Riicken ) : PhiiG, p . 74; it. I, 77-78 .

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II l . N o n è mia intenzione inscenare un dramma 'familiare', contrapponendo due dratnatis personae, progenie entrambe del pensiero di HegeP3• Intendo mostrare il diverso approccio dello Spaventa alla Fenotnenologia di H e gel, motivato anzi tut­ to da un diverso rapporto con la storia del pensiero fìlosofìco, e le conseguenze che ne derivano riguardo sia alla fìlosofìa hegeliana nel suo complesso che alla nostra 'posizione' nei confronti di questa fìlosofìa. N el trattare di H e gel Spaventa non ha come riferimento principale Kant, bensì Fichte e Schelling. È una differenza importante, questa, perché ci permette di evidenziare che 'nel fare storia' Spaventa, più vicino in questo al dettato hegeliano, procede non per contrapposizioni, ma per continuità. Se la verità è l'habitat naturale del pensiero, allora i fìlosofì si distin­ guono per il grado di verità che ciascuno d'essi ha raggiunto . L'ordine di successione delle fìlosofìe è dunque 'necessario' . Il Sistema si è esteso alla storia. In Spaventa non meno che in Vera il concetto di Sistema è 'centrale' . Ma con qualche diffì­ coltà in più, ché Spaventa ha da dimostrare perché il Siste­ ma ha bisogno della storia, perché, cioè, non può manifestarsi totalmente uno actu . Ma è una diffìcoltà che agevola - alme­ no così sembra all'inizio - la soluzione, in quanto immette il Sistema nella storia. Cito, per esemplifìcare, lo schema che Spaventa ha delineato nel suo Schizzo di una storia della logi­ ca (e . . . ab si t injuria rebus) : Socrate, che forma i concetti; Platone che li ordina in un mondo ideale; Aristotele che ne scopre la fanna (il sillogi­ smo, la prova: la sostanza, l'individuo) ; Kant che identifica la

13. Sull'aspro giudizio di Spaventa su Vera, cf. G. Vacca, PFS, p. 235.

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categoria con la funzione del pensare; Fichte che concepisce la tnentalità, e scopre il ritlno logico; Schelling che concepi­ sce l'identità come mentalità o ragione . La nostra logica ­ in quanto identità che prova se stessa, in quanto la ragione conscia di sé - abbraccia tutti questi tnotnenti anteriori. ( Op , II, p . 6.5 0).

Mi limito per ora a porre due domande che riguardano Fichte e Schelling, ed una terza, che riguarda "la nostra logica" - senza però tralasciare di sottolineare l'importante cenno a Kant: la categoria come funzione logica, ben altra valutazione che quella di Vera. Mi chiedo dunque : l ) cosa intende Spaventa con "mentalità" riferita a Fichte ? E 2) cosa con "identità come mentalità o ragione" riferita a S chelling? Ed infìne : 3) nella "nostra logica" (quella di Hegel, fatta propria da Spaventa) la comprensione ( l'abbraccio) di tutti i momenti anteriori avvie­ ne nel tempo, o è già da sempre avvenuta?

Mentalità - è termine polivalente, col quale talora si desi­ gna la fìlosofìa qua talis ( la "nostra logica", ovvero: la fìlosofìa hegeliana che tutti i momenti anteriori abbraccia: cf. ib. , II, p. 652) , talaltra, e cioè quando viene espressamente attribuita a Fichte , ha il significato di "pensiero autocosciente" ; l'identità (attribuita a Schelling) defìnisce invece l'esser-uno di "natu­ ra e spirito" (ib. , II, p. 653) . In qual senso la "nostra logica" compie la fìlosofìa dell'identità? Nel senso che ciò che Schel­ ling semplicemente presuppone14 - l'anzidetta identità di natura e spirito - Hegel invece pone , e cioè prova, dimostra. Qui Spaventa, pur richiamandosi ad uno schema interpre­ tativo già molto diffuso in ambiente hegeliano, affronta con grande acume un punto cruciale dell'evoluzione del pensiero

14. «Con ispirata fiducia Schelling aveva aggiunto all'idealismo soggettivo l'idealismo oggettivo, ma l'unità del soggetto e dell'oggetto rimaneva per lui solo un presupposto»: K. Rosenkranz, HL, pp. 486-487.

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di Hegel: il momento di crisi del 'sistema'15. Quella crisi da cui H e gel uscì con la Fenontenologia . Mi soffermo sulle linee essenziali del problema e della sua storia. Già nella Dif.ferenz Hegel aveva criticato Fichte in quanto nella sua fìlosofìa il rapporto necessario Soggetto-Oggetto è ancora tutto squilibrato sulla posizione del Soggetto . È l'Io che pone il Non-Io. Pur necessario all'Io, il Non-Io dipende totalmente dall'Io. E se l'Io è il pensiero e il Non-Io è l'essere , i n che modo la libertà dell'Io può garantire l'essere dell'esse­ re? Certo del suo essere , ossia: dell'essere del pensiero , l'Io non abbisogna d'altra prova che quella di pensare : pensando il pensiero prova se stesso, la sua realtà effettiva, la sua Wirk­ lichkeit. Prova se stesso ma non il mondo, non l'essere che è oltre l'essere dell'Io, l'essere del Non-Io. Lauto di noezn ed eznai marca una differenza che non può essere superata dal solo noezn . È possibile costruire il Sistema di pensiero più coerente, logicamente inattaccabile, ma questo non prova che il suo 'oggetto' sia reale, wirklich .

È necessario che il pensiero provi la sua realtà, provi cioè la sua identità col reale (il mondo, la natura), non muovendo da sé, ma dal reale stesso: questo il problema di Hegel che Spaventa vede con estrema chiarezza in tutta la sua comples­ sità. È necessario, cioè, mostrare che il reale è già in sé (an sich ) pensiero e che nel pensiero manifesto, esplicito, trova il suo compimento, la sua realizzazione perfetta, il suo essere­ in sé-e-per sé (sein an-und-fiir-sich-seiendes) . Ma come può essere chiamato il pensiero a tal compito? Può forse il pensie­ ro uscire da sé, per provare realnwnte la realtà del mondo, la realtà dell'altro da sé ?

15. Cf. K. Rosenkranz HL, pp. 482-5 13. In merito cf. L. Lugarini, HSF, P. II, cap . IY, § 2 sulla .. Gestazione della Fenomenologia dello spirito", pp. 1 17-1 18 ss.

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Criticando il soggettivismo del "Soggetto-Oggetto" fichtiano, Hegel s'imbatteva in quello che Kant aveva definito lo scanda­ lo della filosofia: il fatto che non ancora si è dimostrata la realtà delle cose fuori di noi. Che questo sia il problema da cui ha origine la Fenotnenologia è molto significativo, perché Hegel scrive quest'opera anni dopo Glauben und Wissen, dove aveva criticato il giudizio kantiano , perché in esso la copula "è" resta un Bewuj3tloses, un inconscio , perché non provato (W, 2, pp. 307 ss. ; it. , pp. 141-142) . È il residuo non logico del giudizio. Ma cos'è la copula, la "è", del giudizio? Das Verhiiltniswort­ chen , la paroletta di relazione, come la definì Kant (KrV, B 141 ) , e cioè la paroletta che esprime la relazione originaria - e in questo senso 'oggettiva', ossia: essente in sé e per sé (WL, II, pp . 407-408; it. , II, pp. 806-807) - dell'io con le cose del mondo, relazione che , secondo Hegel, solo nel sillogismo giunge a coscienza di sé . Il sillogismo, dunque, ha nella filo­ sofia di Hegel - e sin da Glauben un Wissen , ancorché la più compiuta dimostrazione si trovi nella II Sezione , dedicata all'"Oggettività", della Begrifff)lehre della Scienza della logi­ ca - il medesimo ruolo che in Sein und Zei t ha la Cura, die Sorge : quello di tnostrare l'apriorità dell' In-der-Welt-sein, della relazione io-mondo, rispetto ad ogni soggettivismo e ad ogni oggettivismo. Ora l'esigenza della Fenotnenologia, e cioè di una "Scienza dell'esperienza della coscienza" è la testimo­ nianza più significativa dell'insoddisfazione di Hegel per una deduzione puramente logica della realtà - persino della realtà del pensiero. Messa in questione la realtà dell'essere fuori del pensiero, diviene problematico anche il sutn del cogito , l'esse­ re del pensiero, la Wirklichkeit del pensiero. Il Deus cogitat in tne di Malebranche , ma non solo di Malebranche, può essere letto alla rovescia: può togliere al pensiero ogni certezza di sé, dipendendo esso da altro . Riassumo quanto detto con le parole di Spaventa:

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Senza la fenotnenologia la spiegazione - che è tutta la filo­ sofia, il cui fondmnento, la spiegazione fondamentale, è la logica - non ha un valore reale; è setnpre un'ipotesi, non una realtà. Chi vi assicura, infatti, che questa spiegazione, che è pensare, dialettica del pensare, funzione del pensare, sia anche la realtà della cosa? ( Op , II, p. 656; spaziato nel testo)

2. Ma non nello Schizzo di una storia della logica , bensì in quel testo più ampio ed organico, cui è stato dato ( dal Gentile, che insieme col Maturi ne allestì l'edizione de fini­ tiva, prendendo ampiamente dalle Lezioni napoletane dello Spaventa: cf. Op, III, pp. 3-7) il titolo di Logica e tnetafisi­ ca, troviamo l'esplicazione del modo in cui la Fenomenologia dimostra la 'realtà' del pensiero , o per dirla con le parole di H e gel, del modo in cui la coscienza dell'esperienza accoglie in sé compiutamente l'esperienza della coscienza, o all'in­ verso : del modo in cui l'esperienza della coscienza si realizza pienamente nella coscienza dell'esperienza. Lopera, compo­ sta di due parti, tratta nella prima della Fenonzenologi a, della Logica nella seconda. N o n è necessario sottolineare la piena corrispondenza con la 'successione', non solo temporale, delle due maggiori opere in Hegel - ma di questo diremo in seguito. Ora dobbiamo esporre i tratti essenziali dell"espli­ cazione' spaventiana del metodo fenomenologico . Prendia­ mo come riferimento privilegiato il rapporto tra coscienza sensibile e percezione : privilegiato, perché la coscienza sensi­ bile è la prima e più semplice e più povera manifestazione della coscienza, in essa le categorie della mente setnbra che non svolgano ruolo alcuno. Hegel, trattando della coscien­ za sensibile , mette in atto la stessa operazione d'astrazione attuata da Kant nella prima sezione della Critica della ragion pura , l'Estetica trascendentale. Alla pura coscienza sensibile, infatti - e pensiamo qui alla sensibilità puramente corporea, animale - non altro si dà che l'immediata immediatezza del

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"questo", del "qui" e dell"' adesso" . "Questo" non è il cibo , né "qui" il luogo determinato della soddisfazione dell'impulso, né l'"adesso" il momento del tempo in cui insorge o è soddisfat­ to l'impulso. "Questo", "qui", e "adesso" sono i nomi - nomi nostri, nomi dell'intelletto, ché i sensi non hanno linguaggio nominale - del puro accadere come della fame , così del sesso, della fuga per un rumore improvviso, o di quant'altro si voglia immaginare . Nella loro determinata determinatezza sono indeterminati. "Questo", "qui", e "adesso" si determinano solo nella percezione - ed è significativo che il termine tedesco sia Wahrnehtnung, apprensione del vero. N ella percezione che dice ciò che la coscienza sensibile verantente esperisce nel ''questo", "qui", e "adesso", il cibo , il sesso, il pericolo, in determinato luogo e in un preciso momento . . . Nella perce­ zione che dà nome alle cose - quei nomi che dicono l'essere delle cose stesse , così come state esperite sin nella coscien­ za animale, corporea, inintenzionale . N ella "figura", o forma d'esperienza che segue - e questo vale per tutta la hod6s feno­ menologica - la precedente "figura" trova la sua verità : la sua essenza, il suo vero essere . Il presente è la verità del passato . La Fenonte nologia nel suo andare innanzi (Vorwiirtsgehen) è di fatto una retrocessione (Rii ckgang) al fondamento e al vero - secondo che dirà Hegel nella Scienza della logica, definendo la dialettica del sapere (WL, I, p. 70; it. , I, p. 56; cf. altresì, WL, II, p. 246; it. , II, p. 652) . Spaventa coglie acutamente questo aspetto, là dove mostra che la 'critica' che la percezione fa della coscienza sensibile ­ critica come riflessione che procede dalla superficie al fondo, dall'essere che primo appare alla sua essenza, o verità - non è 'soggettiva' , e cioè non cade da fuori sulla coscienza criticata, ma appartiene a questa medesima. Il passo che ora citiamo, pur descrivendo - e con un linguaggio che risente dei limiti della spiegazione scolastica - la sola esperienza della coscien-

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za sensibile, definisce il carattere proprio dell'intero itinerario fenomenologico: Tutta questa critica non è un'attività purmnente mia, sogget­ tiva; una tnia riflessione estrinseca alla coscienza stessa, che io osservo e critico . Invece è l'esperienza che la coscienza fa di se stessa, la sua propria storia, la storia di questa sua espe­ rienza: la critica è possibile, in quanto essa stessa la coscienza ( sensibile, qui) non è altro che questa sua critica di sé tnede­ silna. infatti non sono io setnplicetnente, cotne osservazione e riflessione, ma è essa stessa, che dice in ciascuna delle sue posizioni già discusse : Questo, e non questo, e quindi questo universale. questo tnovilnento è il suo proprio tnovilnen­ to . Se non lo dicesse lei, non potrei dirlo io, tnai; se non lo dicesse lei, la coscienza non arriverebbe tnai a dire qualco­ sa di universale (non arriverebbe a dire, a parlare) . ( Op , III, pp . 61-62) .

Passo fondamentale che dà ragione del passaggio dalla Feno­ tnenologia al Sistenta: dal proton kath 'hetniìs al proton té physei . Se è per una carenza dell'intelletto, che divide se stes­ so dalla sensibilità e dalla ragione, e in generale il 'soggetto' dall"oggetto', che va percorso l'itinerario di 'purificazione' della Fenontenologia, questa carenza affètta lo stesso Sistetna . E ciò che la Fenontenologia mostra è che la ragione, inter­ na all'intelletto, interior inthno suo , purifica l'intelletto non dall'esterno, ma dall'interno. La ragione non vive accanto all'intelletto, ma in questo e come questo: pertanto l'intelletto si purifica per quella forza che ha dentro se stesso, per quel se stesso profondo che si chiama ragione . Perciò non è possi­ bile partire dal Sistema , dal Tutto e dall'ordine del Tutto . Il Sistema va conquistato. Solo poi che s'è resa palese la realtà del conoscere - vale a dire: l'identità di noezn ed eznai - è dato muovere dal Sistema. Ma i conti non tornano - non tornano con Hegel.

340 3. Che il Sistema inizi con la Logica, e la Logica con il concet­ to di "essere" appare affatto necessario: la Logica deve inizia­ re dove la Fenontenologia ha terminato, dall'essere, una volta che s'è dimostrato che pensare è essere . La medesimezza dei due l'auto di noezn ed efnai va ora provata a parte objecti, dall'essere ; vale a dire va provato in che modo l"' essere, il puro essere senza determinazione alcuna" si elevi all'idea assoluta, ossia si riveli pensiero . -

-

Ma cos'è questo 'puro essere'? Tutto di esso possiamo dire, tranne che sia il termine ultimo della Fenomenologia. Hegel lo dice esplicitamente . Il superamento della divisione Sogget­ to-Oggetto conseguita nello spirito assoluto che segna la rivelazione del profondo della chiusa della Fenomenologia, e cioè : l'identità raggiunta al termine della Fenomenologia, all'inizio della Logica è accolta (aufgenonunen ) come un mero vorhanden, un mero esser-qui-innanzi (WL, I, pp. 68-69; it. , I, pp. 54-55 ) . È accolta: all'inizio della Logica v'è un atto prati­ co. Hegel concede : questa risoluzione (Entschluj3) potrebbe anche essere considerata un arbitrio, eine Willkiir (ib . ) , ma la cosa non sta così, come alla fìne apparirà chiaramente . Tanto chiaramente, da fargli dire che non c'è poi da far tanto rumore (nicht vi el Aujhebens zu ntachen) nello scoprire che l'inizio non è puro vuoto, immediatezza semplice, ma immediata potenza che ha "in sé", an sich, tutto lo svolgimento ulteriore (WL, II, p. 554-556; i t., II, pp . 940-941 ) . Lo svolgimento consisterà solo nell'esplicare - nel portar fuori - ciò che è implicito nell'inizio. Nessun atto di pensiero è solo tautologico o solo eterologico. Il pensiero è sempre tautoeterologico , analitico e sintetico insie­ me (ib. , II, p . 653, pp. 556-558; i t., II, pp . 942-943) . Invero come in Aristotele non meno in Hegel il taut6n preva­ le sullo héteron, al quale è assegnata la funzione ancillare di es-plicarlo, manifestarlo . V'è infatti piena corrisponden­ za tra la archon arché della fìlosofìa aristotelica - tautà ae{,

34 1 efper pr6teron enérgheia dyntitneos (Met. , XII, 1072a 8-9) - e questo celeberrimo passaggio della Fenotnenologia : Lapparenza è un sorgere e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l'effettualità e il movilnento della vita della verità. Per tal tnodo il vero è il trionfo bacchico dove non c'è 1ne1nbro che non sia ebbro; e poiché ogni 1ne1nbro nel tnentre si isola altrettanto ilnmediatmnente si risolve - il trionfo bacchico è altrettanto la trasparente e setnplice quie­ te . (PhiiG, p. 39; it. 37 -38) .

È la palese ammissione che il giuoco è sin dall'inizio condot­ to dal proton te phtjsei . La conclusione cui pervengono Vera come Spaventa è la stessa, perché è la conclusione di Hegel: il primato del Sistema. Basti ricordare che nel 1 8 1 7 l' En ci­ clopedia , nella sua prima redazione, iniziava con la Logica, e la Fenomenologia, molto ridotta, era solo un piccola sezio­ ne dello Spirito soggettivo. N ella seconda edizione del 1827 la Fenontenologia che era rimasta fuori della Enciclopedia è sostituita da un'Introduzione generale dal titolo : Le tre posi­ zioni del pensiero ri spetto all'Oggettività . Ove più la differen­ za dalla nchtiana Dottrina della scienza? Dopo aver a lungo oscillato tra Fichte e Schelling, il pendolo della nlosona hege­ liana si fermò sulla postazione del primo. 4. Vera si attestò sulla posizione dello Hegel sistematico, logi­ co - del quale pur vide le aporie che intese sciogliere; Spaven­ ta tentò altra via, non fuori di H e gel, ma dentro H e gel m ed esi­ mo, privilegiando la Fenonre nologia sulle altre opere , anche se alla Logica dedicò il suo maggior impegno, come testimoniano i diversi corsi ad essa dedicati, ed in particolare quell' espres­ sione che ho avuto modo di sottolineare : "la nostra logica" così tanto si era compenetrato in Hegel. Ma pur nella 'fedeltà' a Hegel, la sua interpretazione in un punto se ne distacca, ed è un punto fondamentale: quello della medesimezza di pensiero

342 ed essere , noezn ed eznai . Così, riflettendo sulle Prime catego­ rie della logica di Hegel, scrive : Cos'è l'Essere? Ciò è facile, e non facile a dire; appunto perché ninte si può dire senza l'Essere, e ogni detto e pensie­ ro lo presuppone. [ . . . ] E d'altra parte, quando si dice cos'è davvero l'Essere, esso non è già più setnplicetnente Essere: non è più ciò che era prilna che fosse detto. ( Op , l, 371 ) .

Muovendo dal pensiero, Spaventa ne scorge il limite - dall'in­ terno . E limite insuperabile . Nel discutere le obiezioni di Trendelenburg a Hegel - obiezioni a cui dà anche troppo spazio, ma è recriminazione, questa, che va estesa a molti commentatori e critici di Hegel -, Spaventa giunge ad affer­ mare: «Ci è un vizio nella posizione hegeliana, e questo è il concetto dell'Indeterminato» . Aveva toccato il punto critico . Quello stesso, in fondo che anche Vera aveva sfiorato nell' af­ frontare il tema dell' apodefxeos arché. Ma vado subito alla conclusione di Spaventa: «Quanto all'Essere [ . . ] non posso dire né cos'è, né perché è . È perché è : ecco tutto» . Poi, come dopo una pausa di riflessione, aggiunge : .

Adunque, perché il No ? il Non essere , la negazione? e dopo , e non astante il Sì, l'essere, l'affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere ? Questo è lo stesso proble­ tna del Inondo, lo stesso enigtna della vita, nella sua 1nasshna semplicità logica. Quel che sappimno è che senza il Pensare non sarebbe il N o, il N o n essere; e chi nega, quegli che vince l'invincibile e fende l'indivisibile, cioè l'Essere; che distingue e contrappone nell'Essere Inedeshno in quanto 1nedesimo ciò che è e ciò che non è : la generazione o gelninazione dell'Es­ sere; quegli che turba la tranquilla ilntnobilità, l'oscuro ilnpe­ netrabile sonno dell'assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevari catore è il Pensare. 16

16. Il passo continua così: «Se non fosse altro che l'Essere, non sarebbe il No. E, quando si va a vedere, l'Essere stesso, solo l'Essere, non dice Essere,

343 Anche superfluo segnalare la derivazione diretta del ��gran prevaricatore" dalla hegeliana "ungeheure Macht des Nega­ tiven" (PhiiG, p. 29; it. , l, p . 26) . Necessario invece sottoline­ are che il gran prevari catore non è primo, ma secondo: theòs deuteros, come il Noils di Platino, pur esso "scintilla che scop­ pia da se stessa" , dacché trova non certo l'essere da lui stesso posto, e posto in quanto distinto, determinato, opposto al non essere , al No, ma l'essere indeterminato, indistinto, l'Esse­ re che già nominare essere è troppo. E tale Indeterminato e Indistinto, oscuro sonno dell'assoluto e ingenito, è il necessario presupposto senza del quale il gran prevaricatore non avreb­ be cosa su cui prevaricare. Al termine della riflessione spaventiana su Hegel si riaffaccia il nountenon, quel Grenzbegrif.f che tutto è, tutto può esse­ re, tranne che il caput nwrtuunt della fìlosofìa, se è esso che stimola alla prevaricazione del pensiero . Ma questa conclusione, se è contro la lettera, non è certo contro lo spirito della fìlosofìa di Hegel, che tutta la vita lottò per tenere a freno quella lichtscheue Macht, da lui evocata in una pagina della Feno1nenologia dello spirito - insuperata interpretazione dell' Edipo re di Sofocle -, nella quale il fìlo­ sofo mostra che è nella coscienza che noezn e eznai sono divisi (ib. , pp . 335-336 ; it. , II, pp. 27-28) . Senza mai tralasciare l'esercizio di 'sillabare Hegel' , Bertrando Spaventa seppe riconoscere - anche contra HegeP7 - la diffenon dice È, non dice punto. I..;È - la stessa affermazione - è pensare, è distin­ guere, è concentrar l'Essere; è semplifìcarlo, ridurlo a un punto, e perciò geminarlo» (I, 399) . Mi sembra chiaro - e persino strano doverlo sottoline­ are - che l'essere "pensato", "distinto", "concentrato", non è l'Essere che «non dice È, non dice punto» . Spaventa prova qui tutta la difficoltà del dire filosofico, quando il pensiero tocca il suo limite. 17. Che all'Edipo re anteponeva l'Antigone, perché «la coscienza etica è più completa, la sua colpa è più pura, quando conosca in precedenza la legge e

344 renza intrinseca al medesimo, all'auto, frenando la pretesa del pensiero di ridurre nel suo cerchio di luce pur quel tenebroso lato della coscienza che segna l'interno limite del pensare .

il potere cui si contrappone» (PhiiG, p. 336; it., II, p. 29) , quando, cioè, il conflitto si svolge nella luce della autocoscienza. Sull'autonomia di pensiero, rivendicata da Spaventa anche nei confronti di Hegel, insiste G. Vacca, in PFS, pp. 235 ss .

345 III U t pictura in tabula. Concreto e astratto nella Logica di Giovanni Gentile

l . Il panorama filosofico-culturale , nel quale Giovanni Gentile si formò, era quello tipico dell'Europa della fine del secolo XIX e dei primi anni del XX, sorto sulle ceneri del "vecchio" posi ti­ vismo. Tema ricorrente in quasi tutti gli indirizzi filosofici del tempo - danvinismo, pragmatismo, intuizionismo, irrazionali­ smo, nichilismo . . . - era quello della concretezza ed individua­ lità della vita e del divenire storico che sfuggono alle astrazioni ed agli schemi generalizzanti delle scienze . Ma, dove le filoso­ fie dell'intuizione e dell'immediatezza vitale miravano ad una conoscenza pre- o post-categoriale capace di immettere diret­ tamente nel mondo vario della storia e della vita, respingendo così parimenti l'astrazione ed il pensiero concettuale, Gentile per contro, pur animato dalla medesima ansia di concretezza e di vita, non si affidava all' esoterisnw dell'intuizione immedia­ ta ed incomunicabile, arazionale quando non irrazionale , ma cercava ancora nel pensiero - nel pensiero universale, perché di tutti e di ciascuno, e capace di l6gon did6nai - la via per giungere a cogliere la vita statu nascenti , nel suo movimen­ to originario . In questa prospettiva il riferimento a Hegel, ed in particolare alla Scienza della logica, rappresentava un passaggio obbligato. Hegel infatti aveva elaborato una nuova

346 logica, fondata sulla contraddizione e non sulla astratta iden­ tità, proprio al fìne di cogliere il divenire storico nel suo farsi . Tuttavia, secondo Gentile , Hegel non era stato all'altezza del compito, in quanto aveva fatto del divenire un ��oggetto" di analisi, anziché pensarlo come concetto vivente, come lo stes­ so pensiero pensante . Contemplato dall'esterno, posto dinanzi al pensiero come qualcosa "che è", puro �'oggetto" fìssato nella sua autoidentità, il divenire non è più divenire : è un divenuto, il precipitato di un processo non più in atto (RDH, Parte I, spec . pp. 1 5-22 ) . Alla categoria-"oggetto" di Hegel, al concetto pensato, Gentile oppone la categoria-"soggetto " o categoria­ funzione di Kant: il concetto pensante che ha il mondo, l'uni­ verso intero, ad oggetto . Ma non come "oggetto presuppo­ sto", "materia" pre-esistente, bensì in quanto "oggetto" posto, "materia" creata dalla forma stessa. L'idealismo gentiliano è un formalismo assoluto: il pensiero conceptus, non concep­ tund pone se stesso e l'altro da sé, e questo uno actu . D a Hegel a Kant, quindi, e da Kant a Fichte , per schematizza­ re un itinerario di pensiero che ha nella Teoria generale dello spirito conte atto puro , la sua prima sistemazione teorica. -

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2. Il libro si apre con una citazione da Berkeley: esse est percipi : di nessun oggetto è possibile affermare l'essere , se non in rela­ zione al pensiero che lo pensa . Ma Berkeley ha concepito il pensiero come cosa accanto ad altre cose, e cioè dall'esterno, laddove il pensiero, per il quale vale l'esse est percipi, non è "cosa", è bensì l'interiore principio universale che dà vita e senso a tutti gli enti . Il pensiero pensante , che Gentile descri­ ve nella Teoria generale dello spirito, non osserva il mondo dall'alto, da �'fuori", perché è il mondo stesso, colto nella sua originante origine . E pensiero in quanto vita. Vita pensante che crea se stessa, autoctisi , ponendo insieme l'altro da sé. Quale altro se il pensiero è tutto? Il mondo stesso, il pensi e"

-

347 ro, la vita, il volere - ma in quanto divenuti "oggetto" , in quan­ to posti innanzi al pensiero come puri pensati . La multiforme dialettica hegeliana, che non attraversa mai una sfera dell'es­ sere e della coscienza - sia essa la natura o la storia, il mondo dell'arte o della religione, o quello del pensiero puro - senza assimilarsi all'oggetto che volta a volta indaga e realizza, è in Gentile ripresa nel suo vertice sommo: nell'actu s puru s, nella enérgheia telefa , del pensiero che pensa sé stesso, noéseos n6esis . È un'enorme semplificazione concettuale, che certo impoverisce la dialettica dell'universo hegeliano, ma anche la essenzializza. Fermiamoci ora sulle categorie fondamentali di questo pensiero. Anzitutto quella di "individuo" . Che questa catego­ ria giuochi un ruolo centrale è abbastanza ovvio, basti ricorda­ re qual è il problema intorno a cui ruota il dibattito filosofico tra la fine dell'800 e l'inizio del 900: quello della vita e della storia. Gentile vi dedica vari capitoli della Teoria, affrontando il tema dalle sue radici storiche : a partire da Platone e Aristo­ tele, per poi passare alla disputa medievale sugli universali. L'esito di questa analisi è che fin quando universale ed indivi­ duale vengono presi come "oggetti" del pensiero, ogni tenta­ tivo di determinarli risulta vano. Un universale "oggetto" è una contradictio in adjecto , dal momento che fuor d'esso resta proprio il pensiero che lo pensa. D'altra parte il singolo non potrà mai esser colto in quanto "oggetto", dissolvendosi esso in una rete infinita di relazioni che non consentono al pensiero di uscire mai dall'astratto e generale . Vero è che il pensiero filosofico solo con Descartes toccherà la terra stabile e sicura su cui potersi fondare . Nel cogito , infatti, la totalità delle rela­ zioni costitutive dell'individualità dell'individuo si raccoglie in un punto che è insieme il centro dal quale quelle si irradiano. Il cogito , trascendentalmente pensato, realizza così la sintesi concreta della individualità reale e della vera universalità, ché in esso è presente e viva l'intera ricchezza del mondo, ma colta,

348 per così dire, alla fonte, là donde tutto nasce e tutto si dispie­ ga. E qui Gentile si rifà a Vico: l'individualità del cogito, del pensiero pensante non è l'individualità sta tic a di una sostanza, è l'individualità universale di un processo, di un fieri . Verunt ipsunt factutn - aveva detto Vico; Gentile precisa: quatenus fit. Non sostanza, ma processo: Vico contra Descartes, contro, cioè, l'interpretazione sostanzialistica del cogito, e più in gene­ rale dell'attività spirituale . Epperò Vico contra Leibniz. Già, perché non si tratta di criticare solo la riduzione dell'attivi­ tà pensante a res, ma anche la sua moltiplicazione in infiniti centri, in infinite monadi, l'una esterna all'altra. Per quanto ciascuna monade rifletta in sé l'universo intero delle altre monadi tutte, queste restano pur sempre l'una esterna all'al­ tra, ciascuna "oggetto" e "limite " delle altre, e pertanto nessu­ na veramente libera . S e il pensiero è qualcosa - dice Gentile - deve essere libero, e se è libero non può essere condizio­ nato da nulla. Pertanto il pensiero o è tutto, o semplicemen­ te non è . La critica a Leibniz, è chiaro, colpisce parimenti la "filosofia dei distinti" di Croce, che si difese attaccando. L'at­ tualismo - sostenne - negando ogni distinzione nell'unità del pensiero conclude di necessità nel misticismo e nell'irrazio­ nalismo. La controreplica gentiliana - la filosofia dell'atto non respinge alcuna distinzione, al contrario le accetta tutte, ma come empiriche e non trascendentali - è ineccepibile , ma solo all'apparenza. Perché il problema non si risolve affermando semplicemente l'unità dell'uno e dei molti . N o n l'unità è in questione , ma il modo di concepirla . E in Gentile due ed opposte concezioni si alternano. Per un verso l'unità è data dal pensiero pensante inteso come la verità che si fa, che si svolge nel tempo, come la filosofia che coincide di tutto punto con la storia della filosofia; per l'altro l'unità dell'uno e del molteplice è concepita come l'eterna attualità del pensiero pensante in cui tutti i pensieri di tutte le età si raccolgono, come la philo-

349 sophia perennis che è "storia ideai eterna" in quanto ha in sé l'intera storia che si svolge nel tempo . Pensiero pensante e pensiero pensato entrano in conflit­ to . Ché il pensiero pensante, se si pensa come storia, come la storia che "corre in tempo", da infinito decade a finito, si temporalizza, e partecipando delle vicende della storia e del mondo è, come tutte le cose, come tutti gli enti , distinto e distinguibile, definito e definibile - ma così cancella ogni e qualsiasi diffe renza tra sé ed il pensiero pensato; se invece si pone come l'eterno presente che ha in sé come il tempo e lo spazio così la storia, ma non è né storia, né tempo, né spazio, allora da nessuna distinzione potrà essere affetto, né definito, appartenendo tutte le distinzioni al pensiero pensato, all"'oggetto", al "fatto" - epperò in quanto pensiero pensante, in quanto "atto in atto", risulterà impensabile ed ineffabile . La Teoria generale dello spirito era in aporia. N ella presenta­ zione della seconda edizione del libro, Gentile, annunciando l'apparizione del primo volume della sua Sistenta di logica, scrive : «Chi legge [ . . . ] questa Teoria e non ne rimane del tutto soddisfatto , sa già che non se ne appaga né anche l'autore, e che bisognerà leggere il seguito» (p. VI ) . Prima di leggere il 'seguito' è necessario tornare sulla critica di Gentile a Hegel, e proprio al fine di capire il ''seguito". 3. Da quanto s'è detto poco sopra sulla Rifonna della dialetti­ ca hegeliana appare in tutta evidenza la fondamentale estra­ neità di Gentile al pensiero di Hegel, ma va subito aggiun­ to che proprio questa 'estraneità' - qui la rilevanza filosofica dell'interpretazione di Gentile - fa emergere il problema che inquieta la filosofia fin dalla sua origine . Quale problema? Quello della relazione tra gli enti, della syntploké, senza la quale, come awertiva Platone ( cf. Sofista. , 259e 4-6) , non si dà l6gos, ma che, tuttavia, è quanto il l6gos sembra incapace

350 di 'cogliere', come Platone stesso ha per primo "mostrato". Ma procediamo con ordine, perché diversi sono i nodi da scioglie­ re e non tutti di eguale valore . Anzitutto appare affatto incongrua l'obiezione gentiliana, secondo cui Hegel avrebbe "analizzato" e non "realizzato" il divenire (RDH, p. 22 ) . Obiezione valida solo all'interno della posizione del critico, che distingue e oppone pensante e pensato, owero soggetto a oggetto, ma che alla luce della Fenonzenologia dello spirito , il cui compito era di portare l"' esperienza della coscienza" - in termini gentiliani : il pensie­ ro pensante - a "coscienza dell'esperienza", owero a concetto, ad oggetto pensato, senza che in questo si perdesse il movi­ mento del pensare (il pensiero pensante) . Lo spirito assoluto, con cui termina l'opera hegeliana è appunto questa identità, conquistata attraverso un lungo cammino, ove il ''pensante", il soggetto, è operante sin dall'inizio, ma in latenza, per rive­ larsi alla fine come !"'assoluto" che, in quanto concetto che conosce se stesso come concetto , ha "tolto" l'opposizione soggetto/oggetto nella Verità di entrambi1 . Con ciò non si vuol dire affatto che Hegel sia riuscito nell'intento: il problema di 'pareggiare' esperienza della coscienza e coscienza dell'e­ sperienza (nella terminologia di Gentile : pensante e pensato, concreto e astratto) ha tormentato H e gel dalla Fenonwnologia (cf. Vorrede, pp. 48-55; it., pp. 48-56) alla Scienza della logi­ ca (cf. II, spec. pp . 562-566; it. , pp. 947-950) , sino all'ultima edizione dell'Enciclope dia (cf. III, § § 574-577) . Ma la 'diffi-

l . Cf. G. W. F. Hegel, PhiiG, VIII, "Das absolute Wissen", pp. 548-564. Peraltro l'esigenza di 'togliere' (aujheben ) l'opposizione soggetto/oggetto è già presente in DFS, il primo scritto pubblicato Hegel nel l80 1 , ove già allo­ ra il "Soggetto-Oggetto" fichtiano veniva criticato come ancora "soggettivo": cf. retro, P. l, cap. Il, ed altresì V. Vitiello, "Logica e mondo in Hegel. La quarta forma del sillogismo", ETN, P. I, cap. l.

35 1 coltà' dell'impresa, e le aporie in cui lo stesso Hegel cadde, non consentono di mettere da parte il problema. Torniamo dunque alla Rifonna e a quell'affermazione già cita­ ta e criticata: H e gel ha analizzato, non realizzato il divenire . Critica prossima all'obiezione di Trendelenburg alla dialettica hegeliana, secondo la quale l'identità di essere e non-essere , affermata nell"'analisi" delle prime categorie della Logica, negava all'origine la possibilità stessa della dialettica. Mancan­ do la "contraddizione" tra i due primi termini, Hegel, per dare origine al movimento dialettico che doveva portare al diveni­ re, aveva fatto ricorso ad un concetto, che appartiene non al pensiero puro, come Hegel pretendeva, ma alla sfera dell'e­ stetica, alla sensibilità: il movimento, appunto . Trendeleburg aveva scoperto il 'trucco' della dialettica hegeliana. Non riten­ go necessario in questa sede ripetere quanto ho detto altrove ampiamente , discutendo anche delle repliche di Karl Werder e Kuno Fischer alle critiche di Trendelenburg e la controre­ plica di quest'ultimo. Mi limito a ricordare l'obiezione princi­ pale che muovevo a Trendelenburg, e che colpivano insieme i suoi due oppositori2 • Se si legge con maggiore attenzione il testo hegeliano - dicevo - ci si accorge che non c'è in Hegel 'passaggio' da essere e nulla al divenire . E ssere e nulla non sono 'opposti' pritna del divenire, ma nel divenire e solo nel divenire . E infatti H e gel dice che l'essere non passa nel nulla, né il nulla nell'essere, ma entrambi sono "passati" (ii bergan­ gen ) l'uno nell'altro e l'altro nell'uno. "Prima" del divenire , essere e nulla sono separati solo nella Meinung, nell'intenzio­ ne. Sono, cioè, separati solo per l'intelletto astratto, Verstand. Nella ragione e per la ragione essere e non-essere sono sempre distinti-uniti nel divenire . Esemplificavo, poi, citando

2 . Cf. retro, P. I, Sez. III, capp. I

DR.

e

Il. Sul tema v. in particolare R. Morani,

352 la koinonia ton ghenon del Sofista: come l'identico è identico in quanto diverso dal diverso, e questo, il diverso, è diverso perché identico a sé, così l'essere e il nulla della prima triade della Logica sono essere e nulla solo nella relazione del dive­ nire . Che è quanto Hegel esprime dicendo che il Terzo - il divenire - è il vero Primo: il concetto a partire dal quale essere e non-essere sono pensabili nella loro verità e realtà, ossia: nella relazione che li costituisce . Concludevo richiamandomi ai paragrafi 80-82 dell'Enciclop edia nei quali Hegel spiegava la relazione intelletto-ragione, Verstand-Vernunft, ove non a caso il Verstand è posto 'prima' della Vernunft, volendo indica­ re non una successione temporale, ma logica, o meglio ancora: "topologica": il ''prima" dice cioè che l'intelletto è ntonzento della ragione . ,

Estendevo queste critiche a Gentile , confortato dal fatto che il rapporto Intelletto/Ragione era da Gentile letteralmente capovolto nel rapporto pensiero pensante/pensiero pensa­ to, ovvero: concreto/astratto . La vita anziché contenere in sé l'astrazione , era essa a porre l'astratto . Anzi: se stessa come 'astratto' . L'astrazione che Gentile voleva espungere dalla vita, come il 'negativo' da negare, aveva proprio nella vita - nella vita della ragione - la sua radice . Come spiegare questa apori a ? l'aporia della vita che nega se stessa nel porsi, e per porsi? E ciò in una filosofia che vuole celebrare la 'positiva' identità di pensiero e vita. Non stiamo qui davanti alla contraddizione sopra rilevata tra due opposte posizioni : l'atto come coscienza dal raggio infinito che ha in sé l'intero cammino della storia, il futuro non meno del passato, e l'atto che è nella storia tra passato e futuro. N o, qui stia­ mo davanti ad un'aporia ben più grave : il pensiero in quanto positivo porre se stesso, pone sé come negazione di sé. E non vale dire che si pone come negazione di sé , per porsi in ulte­ riore posizione , perché anche questa, come tutte le successi-

3.5 3 ve posizioni sono negative . E non si dica neppure che tutte queste posizioni sono nella loro successione negativa il vero ed unico positivo . Perché proprio il positivo manca. È un inces­ sante cadere, e neppure sempre più in basso, che sarebbe comunque un diverso porsi nella negativa autoposizione; no, è sempre e solo la stessa negatività che si ripete . Il concreto mai si coglie come vita pensante, ma sempre solo nel e come "oggetto pensato". Resta da ultimo una sola domanda: come la distinzione pensante/pensato, concreto/astratto, soggetto/ oggetto? L'enormità dell'aporia impone all'inte:tprete di ritornare sui propri passi. Forse la critica di Gentile a Hegel non è assimi­ labile a quella del Tendelenburg. Gentile - l' abbiamo ricorda­ to - nella Rifonna paragona il divenire di Hegel ad un fuoco dipinto, che né riscalda né si muove . Ma cosa è più immobile del "pensato"? Cosa del pensiero pensante resta come vita e divenire nella pictura del pensiero pensato ? Non è ammissibi­ le che Gentile non sia reso conto di questa interna aporia del suo pensiero. La sua insoddisfazione per i risultati conseguiti nella Teoria prova il contrario. Ma perché tornare sull'inter­ pretazione di Hegel e non passare direttamente al Sistenw di logica , a cui Gentile fa esplicito riferimento, quando dichiara la sua insoddisfazione per la Teoria? Alla luce di quanto detto sulla Rifornw della dialettica hegeliana c'è poco da sperare che si possano trovare proprio in essa lumi per intendere meglio il Sistenw . Ma forse quella luce era troppo :fìoca. Perché se si è giudicata 'estranea' allo spirito dell'hegelismo la posizione gentiliana, non è poi meno estranea allo Standpunkt della :fìlo­ so:fìa dell'atto la critica mossa all'interpretazione gentiliana di Hegel. La Rifornw non va valutata solo per la sua congruen­ za alla :fìloso:fìa che intendeva riformare; va considerata anche come opera a sé . Che la critica di Gentile sia 'esterna' all'auto­ re criticato non è dubbio, ma qual era il ':fìne' di quella critica? Di che era in cerca Gentile ?

354 4. Di un pensiero capace di dare ragione di sé come vita, ove la ragione di sé è la vita stessa. E la logica di Hegel non risponde a tal fìne, in quanto muove dalla separazione della logica dalla vita. E non vale obiettare che in Hegel v'è una logica "natura­ le o inconscia" che intesse «tutte le rappresentazioni, tutti gli scopi, tutti gli interessi e tutte le azioni» (WL, I, p. 26 ; it. , I, p. 15), della quale la teoria logica, ovvero: la logica cosciente di sé, è ragionata es-plicazione. Non vale, perché proprio questa scissione tra logica inconscia e teoria logica è, dal punto di vista di Gentile , la negazione dell'unità-identità di pensiero e vita, vita e pensiero. La logica inconscia è un "presupposto", come la natura, il mondo, Dio stesso, che il pensiero pensante deve respingere , perché limita la sua libertà. La vita o è il pensiero stesso, o non è vita, vita vivente , così come il pensiero o è la vita stessa, o non è pensiero, pensiero pensante , pensiero "in atto", en érgo3• Solo questa assoluta identità di vita e pensiero permette di superare l'irrazionalismo che si cela in ogni intui­ zionismo, vitalismo, prammatismo, esistenzialismo, in ogni fìlosofìa che presupponga qualcosa al pensiero. Fosse pure il pensiero stesso, come in Hegel la logica naturale e inconscia. Il pensiero-vita di Gentile - questo è un punto al quale bisogna dedicare massima attenzione - non è dunque m era "coscienza di sé": è ragione di sé. Qui l'estrema distanza da Hegel, che spiega l'affermazione che si è sopra citata e criticata, secondo cui Hegel "analizza" e "non realizza il divenire" . Alla quale ora non si può obiettare , come sopra s'è fatto , che Gentile non comprende che proprio analizzando il divenire Hegel lo realizza. Perché in H e gel tra l'analisi e la realizzazione del divenire v'è un salto . l:analisi ci dice che essere e non-essere sono identici, la realizzazione che né l'essere "passa" nel nulla, né il nulla nell'essere , ma che entrambi "sono passati" l'uno

3. Sul tema cf. B . de Giovanni, "GG".

355 nell'altro . Sono passati - solo questo dice Hegel. Un'afferma­ zione , una narrazione . L'esposizione di un fatto, di un sempli­ ce fatto: manca la "ragione", il l6gon did6nai . E qui dobbiamo uscire da Gentile e pur da Hegel, perché il problema è ben più antico di entrambi - come pur si è accennato - e solo se l'affrontiamo come s'è originariamente presentato possiamo intenderlo in tutta la sua abissale problematicità. Torniamo alla koinonfa ton ghenon ed all'esempio sopra fatto dei due generi sommi, identico e diverso. S 'è detto che l'iden­ tico "è" tale, perché diverso dal diverso, così come il diverso "è" tale , perché identico a sé. Abbiamo messo la è tra virgolet­ te, per sottolineare che l'identico non diviene identico per la relazione al diverso, né il diverso diviene diverso per la rela­ zione all'identico, ma, perché è identico, l'identico è diver­ so dal diverso, e perché è diverso, il diverso è identico a sé . L'identità dell'identico è il "per sé" (kath 'haut6) dell'identico, ciò per cui l'identico è in relazione al diverso , e lo stesso va detto per il diverso. E cioè : la relazione tra essenti non implica affatto il "divenire" . Il divenire è un tipo di relazione 'diffe­ rente' da quella che lega identico e diverso. La koinonfa ton ghenon è una comunanza di eterni, in cui ciascuno rapportan­ dosi agli altri resta quello che "è". La relazione non lo muta; anzi lo fissa - non ora, ma da sempre - nel suo essere . Pertan­ to non basta affermare la relazionalità di essere e non-essere (prescindo qui totalmente dalla vexata quaestio del nulla) per dire che l'uno non passa ma è passato nell'altro e l'altro nell'uno. Il divenire è certo relazione, ma non ogni relazione è divenire . Pertanto la spiegazione hegeliana del Werden non dà ragione di ciò che 'racconta'. Ma non possiamo fermarci a questo rilievo. Dobbiamo anche dire perché non dà ragione di quanto semplicemente narra. Perché il divenire è quella 'relazione' di cui non si può dare ragione . È di questo che ora si deve ragionare .

356 5. La 'ragione' di questa impossibilità di 'dare ragione' è espo­ sta in forma di dialogo nel Pa rnwnide platonico. Il vecchio soph6s, non senza sottile e profonda ironia mutato da Platone in phil6-sophos, ha già esaminato, le prime due ipotesi, quel­ la dell'''U no ( che è) Uno", dell'D no senza rapporto alcuno al molteplice, e l'altra dell'"Uno che è", dell'Uno in rapporto al molteplice, giungendo alla conclusione che del primo Uno nulla si può dire , né pensare, né sentire, mentre del secondo si può dire-pensare tutto ed il contrario di tutto (ib. , 137 c 4 155e 3) . È il momento di affrontare la terza ipotesi (tò trfton : ib. , 1 55e 4 ) , strettamente legata alla seconda, m a non riduci bi­ le a sua appendice, perché se il tema - la relazione Uno-molti - è lo stesso, diversa è però la prospettiva da cui è condotta l'analisi . N o n ai termini della relazione Parmenide volge ora la sua "ricerca" , ma alla relazione stessa, ed ai suoi termini solo in quanto in essa compresi . Prendendo ad esempio due "idee" opposte , Quiete e Movimento, tra loro legate da un rapporto più complesso che non quello tra identico e diverso, Parme­ nide chiede se il passaggio della quiete in movimento e del movimento in quiete sia un mutamento di stato . Il suo giova­ nissimo interlocutore non può che rispondere assentendo . Ma qui il chalep6n: se il passaggio della quiete a movimento è un mutamento di stato, allora la quiete muta di stato prima di mutare di stato ! Come dire : la quiete si muove "prima" di muoversi! Quanto al passaggio inverso dal movimento alla quiete, essendo il movimento di per sé un continuo muta­ mento di stato, nel passare alla quiete il movimento "resta" movimento. In breve , il termine ntedio tra i due estremi della relazione, e cioè la relazione tra i due estremi non si riesce a cogliere, perché in entrambi i "passaggi" non c'è : la quiete non passa in movimento tJUl è già passata ; il movimento passa in quiete restando movimento . -

Il chalep6n, però, non riguarda solo la relazione del diveni­ re , il passaggio dalla quiete al movimento e dal movimento

357 alla quiete ; riguarda anche la relazione tra identità e diversità. Almeno così pare . Infatti l'identico è tale , perché diverso dal diverso, e il diverso è diverso perché identico a sé , pertanto nel primo caso il termine medio che costituisce la relazione è il "diverso", nel secondo !"'identico". Giusto: sempre nella relazione identico/diverso è uno dei termini che funge da medio : il diverso, quando si tratta dell'identità dell'identico, l'identico quando si tratta della diversità del diverso . N o n per questo, però, la relazione viene meno. Come invece accade col divenire . Nella relazione identico/diverso non ha nessun ruolo il tempo, il "prima" e il "dopo" del tempo, e pertanto la diversità dal diverso dell'identico , e l'identità con sé del diverso, non sottraggono all'identico l'identità e al diverso la diversità; per contro nella relazione che è propria del divenire l'esser la quiete già movimento nel passare a movimento , e il persistere del movimento in sé nel passare in quiete , tolgono proprio il 'medio' - la differenza tra il "prima" e il "dopo" che costituisce il divenire, e cioè: il passaggio, il mutamento di stato. Pareggiare la relazione Quiete/Movimento alla rela­ zione Identità/Diversità significa affermare che da sentpre la Quiete è Movimento e il Movimento Quiete . Terribile appare ora l'affe rmazione di Hegel che l'esser non passa nel nulla,

il nulla non passa nell'essere, nta entratnbi sono passati l'uno nell'altro , l'altro nell'uno . Passati già da sempre : "tautà aef", per ripetere Aristotele (Met, XII, 6, 1072a 8) . Le stesse cose - sentpre. Ma Platone non dice affatto questo. Non nega affatto il dive­ nire , il "mutamento di stato". Afferma, invece, l'incapacità del pensiero di darne ragione. In qual tetnpo la quiete passa in movimento e il movimento in quiete? In qual tentpo accade il "mutamento di stato"? En chr6no oudenf. In nessun tempo accade. Accade nell' exafphnes, nel non-tempo dell'istante, del repentino, dell'improvviso, nell' atopico frammezzo (dtopon

358 tnetaxy) , di un inafferrabile 'medio'4, che nomini solo togli en­ dogli il nome, che dici solo disdicendo il detto . Pura contrad­ dizione . Assurdo pretendere di "leggere" nell'affermazione di Genti­ le '' Hegel analizza e non realizza il divenire" quanto ora si è detto . N o n assurdo, ma poco "comprensiva" è però quell' er­ meneutica che , fermandosi al testo, non s'interroga sull' oriz­ zonte problematico al quale il "testo" appartiene . E d è quanto s'è cercato di fare risalendo da Gentile a Hegel, e quindi all'o­ rigine del pensiero filosofico, a Platone. Chiaro che in questa 'estensione' dell'orizzonte storico-problematico in questione è insieme con Gentile la "crisi della ragione" che si è espressa in forme e modi diversi già alla fine del XIX secolo e poi nel XX, a cui s'è fatto cenno nel presentare il clima culturale e filosofi­ co in cui si è formato Gentile . Crisi della ragione, nella quale Gentile s'immerse totalmente, con rigore estremo , per poter contrastarla dall'interno. Era convinto che non è sufficiente al filosofo mettersi a camminare per dimostrare il movimento ( SL, p . 102 ) . Era necessaria la Logica. 6. Il Sistenuz di logica conte teoria del conoscere non mancò di disorientare gli "allievi" di Gentile . Ma come , dopo tanto parlare dei limiti della ragione sistematica - del pensiero pensato, del concetto logico che si astrae dalla vita - si torna alla logica come teoria? e come teoria del conoscere, di ciò che non è "oggetto", ma "soggetto" della teoria, della conoscenza? Non si chiude in tal modo nella gabbia del pensato la libertà del pensante?

4. Pannenide, 156c 7 - 157b 5e 6. «Kaì tò hèn [ . . . ] h6te metaballei, en oudenì chr6no àn eie, oudè kinoit' hàn t6te, oud'àn staie» ( 156e 3-7).

359 Questi 'allievi' di Gentile - ch'erano poi le intelligenze più viva­ ci dell' attualismo5 - non temettero di porsi contro il Maestro . Gentile si sentì solo . E lo era. Il suo problenuz non era stato compreso da quegli stessi che gli erano stati più vicino. Il suo problenuz : la necessità dell'astratto, del concetto, della teoria ­ del pensiero pensato -, privato del quale il pensiero pensante viene meno, neppure è pensiero, ma solo cieca immediatezza. Gentile qui lotta contro la conclusione scettica e nichilistica del Parnwnide, conseguenza "necessaria" dell'atopon ntetaxy della terza ipotesi (cf. 166c 2-5) . Il suo primo compito è allora quello di mostrare la non estraneità del pensato al pensante, dell'astratto al concreto, ma ciò non a partire dal concreto, dal pensante, ma dall'astratto, dal pensato . La necessità del loro rapporto si mostra se si riesce a provare che nella logica del pensato opera il pensante, che nell'astratto è già il concreto. L'argomentazione di Gentile si muove coerentemente entro la logica dell'astratto, del contenuto, dellH'oggetto" del cono­ scere . Le scienze particolari sono tali perché ciascuna ha il suo campo d'indagine determinato . È quella che è, non essendo le altre . Il "non", l'esclusione dal proprio campo, è insieme la relazione che ciascuna ha con le altre . Il sapere filosofico, che non ha un campo predeterminato, non soltanto deve porsi in rapporto con le altre , per definire il proprio , essendo così una 'scienza' tra molte; deve al contempo sapere di sé che, distinguendo le varie scienze, e da esse distinguendosi, si pone come il Tutto delle singole parti. Se non sapesse di sé come Tutto, non potrebbe esser Tutto, non potrebbe distinguersi dalle altre . Il pensante è nel pensato, opera nel pensato. Chia­ ro che il "sé" della filosofia - la conoscenza del Tutto che con­ tiene (tiene insieme e dentro di sé ) le parti - non è soltanto della filosofia: è di ogni forma di conoscenza - di ogni scienza

5 . Mi riferisco in particolare a G. Calogero e retro, P. l, Sez. Il, cap . Il.

U.

Spirito. Per entrambi cf.

360 - che in tanto può definire il suo campo d'azione , in quanto, come s'è detto, esclude da sé gli altri campi, e così, nel rappor­ tarsi ad essi, è il Tutto. N o n diversamente dalla filosofia. Muovendo dal pensato, Gentile ha mostrato la presenza del pensiero pensante in esso . Ma non come il 'negativo' che nega la sua stessa opera nel realizzarla. Anzi come il positivo che riconosce se stesso nella sua realizzazione . All' opposizio­ ne setnplice pensiero pensante/pensiero pensato della Teoria generale dello spirito si sostituisce così la ben più comples­ sa correlazione tra concreto e astratto del Siste1na di logica . Astratto non è il pensato, ma il pensato preso separatamente dal pensante; concreto non è il pensante, ma il pensante preso unitamente al pensato . Ma è possibile !'"astratto"? l:imma­ nenza del pensante nel pensato non toglie la loro distinzione? Perché e come l'astratto? Questa la risposta di Gentile : Il pensiero vive abbracciandosi alla colonna admnantina del vero : e ha bisogno di essa co1ne di sostegno affatto indi­ spensabile. Eterno inquieto, non turbina nel suo astratto 1novi1nento (che non sarebbe tale, anzi l'opposto) , 1na flui­ sce e s'incorpora in una quiete eterna. Eterno insoddisfatto, vagheggia se1npre la sua creatura che è perfezione intera e intermnente appagante . ( SL, II, p. 26) .

l: astratto mèta mai raggiunta del concreto . La grande illusio­ ne è dunque questa? Il pensiero pensato? 7. La logica dell'astratto è la "ripetizione" (Wiederholung), dal punto di vista della filosofia dell'atto, della logica antica, classica, "aristotelica"6• In questa ripetizione i "tre" principi: di identità, di non contraddizione , del terzo escluso, si configu6. SL, I, P. II, pp. 167-273. Sull'importanza che Gentile attribuiva al suo "concetto della logica classica" cf. la Prefazione alla I ed. del II volume, p . VII.

36 1 rano come 'momenti' di un unico principio. "A è A" comporta infatti con la negazione dell'opposto, "A non è non-A", la loro reciproca esclusione, "A o è A, o è non-A". Ma la successione logica non è quella che immediatamente appare : dall'identità alla non contraddizione all'esclusione del terzo; è l'inversa: il terzo principio esplica il secondo e il primo . "L'andare innanzi è un retrocedere nel fondamento" (WL, l, p. 70; it. , l, p . 56) . La citazione hegeliana serve ad indicare che pur nella logi­ ca dell'astratto v'è movimento, sviluppo, divenire . La colonna adamantina del vero, l'eterno, trema. E non per l'intervento del pensante che da dentro s'agita e l'agita. N o, trema di suo tremore , si muove di suo movimento . E questo appare ancor più nell'analisi della forme logiche . Limitiamoci qui a consi­ derare il Giudizio. Prendiamo la formula più semplice, quella del giudizio d'iden­ tità: A è A. La copula afferma l'identità di due, ossia di diffe­ renti . Questo significa che prima della relazione predicativa non v'è identità, ovvero : il singolo "A" non è identico a sé, non è "A" . Il singolo "A" è un non-pensato, non un ente , bensì un ni-ente, un non-ente. "A", l'essere di "A" nasce col giudi­ zio, la prima cellula del pensiero, prima della quale non c'è pensiero, né essente . Ex nihilo cogitatio ( SL, P. II, l, cap. IV, § 6, p. 2 19) . Sin nel giudizio dunque s'esprime il movitnento dal nulla all'essere . Ma cos'altro è la dialettica del pensiero pensante se non il movimento dal nulla all'essere? C erto il giudizio in quanto forma del pensiero pensato non può essere senza tnovitnento , posto che in esso è immanente il pensiero pensante; ma il ntovin1ento che ora ab biamo visto nel giudi­ zio è proprio del giudizio e non del sapere di sé (di sé come coscienza del Tutto in cui sono le parti) che è immanente nel giudizio. È il nwvitnento della parte , non del tutto . E cioè : nel giudizio "A è A" viene considerato solo l'ente "A" nella sua identità con sé ( nel suo essere "A A" ), e non il contesto ( la totalità) in cui "A" è posto; ed appartiene a questo giudizio =

362 particolare il ntovimento, la dialettica, di cui ora si discute . D'altronde , se si nega la dialettica propria del pensato, come si può poi distinguere la logica gentiliana dell'astratto da quel­ la "aristotelica"? Ma se esistono due dialettiche , quella del concreto e l'altra dell'astratto, in che la loro distinzione 7? In che l"'lo = lo" si differenzia dall"'A = A"? Ove si rispondes­ se che l'identità dell'Io ( l"'lo = lo") meglio si esprime con la formula oppositiva: "lo = non-Io", non si potrebbe non repli­ care che anche "A = A" può esprimersi con la forma dell' op­ posizione, "non-A = A", dal momento che "A" prima di "A = A" non è "A". lnvero, a voler fermarsi alle formule, si deve osservare che il "non-Io" del giudizio: "Io = non-Io", è sol esso il vero "Io", che certo non è prima di porsi - ragion per cui la formula "non-A = A", che esprime l'identità di "A", s'atta­ glia non meno bene all"'! o" che all"'A", e certo è da preferirsi all'altra che dicendo "lo = non-Io" sembra anteporre la realtà dell'Io al movimento dialettico dell'autoposizione (autoctisi ) . Talora Gentile , per differenziare le due dialettiche, sostiene che la logica dell'astratto giunge sì ad affermare l'identità dei differenti ( dei due "A" di "A = A") , ma non a spiegare dove e come sorga la loro differenza; a ciò giunge invece il pensie­ ro pensante , la cui dialettica mostra in atto il sorgere della dualità dall'unità del pensiero8• L:argomento non convince: da quanto abbiamo appreso dalla logica dell'astratto, il giudi­ zio sorge ex nihilo, epperò è esso, il Giudizio, e non altro a porre con l'identità la differenza dei termini . Come dire : nel giudizio, nella dialettica del giudizio, è già tutto il pensiero pensante . Di ciò sembra esser convinto Gentile stesso se alla

7. L'aporia del Sistema non è, come polemicamente affermava Croce, la presenza di due "logiche ma giusto l'opposto: l'impossibilità di distinguerle: cf. retro, P. I, Sez. II, cap. I, § 6. 8 . Cf. SL, Il, P. III, cap. V, pp. 56-73, ma v. anche capp. VI, "L'autosintesi", VII, "Le categorie e la categoria", VIII, "L' autoconcetto".

363 fìne l'unica distinzione tra pensante e pensato è data da un prefisso: "auto", con cui accompagna ogni determinazione del pensiero pensante . Per cui se si nomina "giudizio" la forma logica dell'astratto, "auto- giudizio" sarà il nome di quella del concreto ; e se è sintesi il pensiero pensato, auto- sintesi è il pensiero pensante, se noema l'uno, auto-noema l'altro. Cosa concludere ? Che tutt'al più la logica del concreto o del pensie­ ro pensante è un grado ulteriore di esplicitazione del contenu­ to di pensiero già presente nel pensato, al modo stesso in cui il principio di non-contraddizione è un'ulteriore esplicitazione del principio di identità, e quello del terzo escluso del prin­ cipio di non-contraddizione . Ma la dialettica è la stessa. È la dialettica del divenire che si guarda allo specchio, e dapprima non si riconosce. Poi dice: son Io! Io Io, come A A. E non c'è altro Io. =

=

8. L'astratto ha prevalso sul concreto. Nonché mèta sempre vagheggiata, l'eterna quiete, "perfezione intera e interamente appagante" , è il luogo stesso del divenire, che , muovendosi, permane se stesso, e, per continuare a divenire , è . Più rispet­ toso della logica dell'essere, Aristotele aveva usato l'imperfet­ to : tò ti en eznai . Ma presente o imperfetto che si usi, l'essen­ ziale da comprendere è che si tratta in entrambi i casi di un "aoristo" . Un tempo senza tempo, dtopon nwtaxtj . Giovanni Gentile, negli anni successivi alla pubblicazione del II volume tornò sui suoi passi. Spinse lo sguardo verso quel nihil dal quale emerge il cogito . E non vide che l'ombra, che il cogito proietta dietro di sé . Non vide che il "non-A", e il "non-Io" che il pensiero nel Giudizio porta ad A, e ad Io. Non vide altro : sentì "altro". l:"altro" che nel Giudizio muore . L'ombra che la luce cancella - non produce . Sentì altro: sentì il proprio limite nell'esperienza del pensiero, nell'atto stesso del giudizio.

364 Ma questa è altra "storia"9• Era d'obbligo accennarvi, ad evita­ re che il Sistenta di Logica conte teoria del conoscere già il titolo è estremamente problematico - venga ancora conside­ rato il "luogo" in cui si conclude, non nel tempo, ovviamente, ma nella storia, il cammino di pensiero di Gentile . La vera "svolta" di questo cammino accade "dopo" il Siste1na . Ma questa, ripeto, è altra storia, al più 'presentita' nel Siste1na10• -

9. L'ho "narrata" qualche anno fa in GP, P. I, cap. II, "Dall'Io penso all'Io sento. Giovanni Gentil e", pp. 33-52. Cf. anche retro, P. I, Appendice III. 10. «io non soltanto sono A come identico a non-A - scrive Gentile in SL, II, p. 62 - ma so di essere» - cosa significhi questo "sapere di essere", che come puro pensiero sarebbe difficile negare al pensiero "A = non-A", Genti­ le lo spiega nella pagina successiva: «egli [l'Io] pensando sente di essere» . Meriterebbe più di una riflessione questo disinvolto 'passaggio' dalla prima alla terza persona, che forse sarebbe più adeguata ad "A = non-A" che non a "Io = non-Io"; aggiungo, infme, che in questo contesto più che "pensando" meriterebbe d'essere evidenziata dal corsivo la parola "sente". Sul tema cf. GFA di M . Donà, tra i maggiori contributi teoretici sul pensiero di Gentile di questi ultimi anni; va letto insieme al suo più recente saggio, Sa V, sul rapporto "mediazione/immediatezza" in Hegel.

365 IV I due t:co,minciamenti � ,n elrinterpretazione spaventiana di Hegel

vVornit 'lnuj3 der Anfang der vVissenschaft gen1acht werden ?1 In li,mine

La fama di Bertrando Spaventa - dovuta principalmente all'interesse di Giovanni Gentile per il suo pensiero e in parti­ colare per i suoi scritti su Hegel, a cui volle legare la propria riforma della dialettica hegeliana2 - non ha varcato i confini nazionali : in Germania - per citare l'esempio più significativo - i suoi studi su Hegel sono, salvo rarissime eccezioni, igno­ rati3 . Eppure il contributo ch'egli ha dato alla comprensione del problematico rapporto tra la Fenornenologia dello spirito e la Scienza della logica è ancora oggi fondamentale, apren­ do, tra l'altro, la strada ad una più profonda 'intelligenza' di Hegel, pensatore più inquieto - ed inquietante - di quanto il suo stesso Sistema non lasci intendere. Purtroppo il maggio-

l.

G. F. W. Hegel, 1-VL, I, p. 65; it. I, p. 51 . 2 . Cf. G. Gentile, RDH, pp. 27-65. Gentile curò, oltre a singoli saggi, l'edi­ zione completa delle Opere di Bertrando Spaventa, premettendovi un ampio studio introduttivo: cf. Op. , I, pp . 3-170. 3 . In merito, cf. retro, Parte I, cap. II, § 3, nota 10, e Parte I, cap . I, "Silla­ bare Hegel".

366 re ostacolo alla diffusione oltralpe del pensiero di Spaventa è stato proprio il curatore delle sue Opere, Giovanni Gentile, che trascurando affatto la Fenontenologia, concentrò l'atten­ zione sulla parte più debole degli studi spaventiani su Hegel - quelli dedicati alla prime categorie della Logica -, peraltro strettamente dipendenti da polemiche hegeliane sorte in terra germanica.

I Tò gàr autò noein estin te kaì ein a i4

l . Per dare un adeguato orizzonte d'interpretazione del primo argomento della lettura spaventiana del cominciamen­ to - quello dedicato a "essere , nulla, divenire" - è opportuno ricordare anzitutto la critica che il kantiano e aristotelico Adolf Trendelenburg mosse all'esposizione hegeliana del "comincia­ mento" logico, alla quale Bertrando Spaventa volle replicare . Nelle Ricerche logiche, che pubblicò a Berlino nel l840, Tren­ delenburg accusò Hegel di aver introdotto il concetto del dive­ nire nel puro pensiero prendendolo stillschweigend dal mondo sensibile . Nel puro pensare non v'è infatti, come Hegel stesso sostiene , differenza alcuna tra essere e nulla5. Gentile riprese la critica di Trendelenburg che in Hegel manca la 'deduzio­ ne' del divenire, ma di questo 'defìcit' dialettico diede altra spiegazione . Essendomi fermato più volte su questo tema, mi limito qui a citare la conclusione della critica di Gentile :

4. Parmenide, TF, fr. 3 . 5. Cf. retro, Parte l, Sez. III,

cap.

l, § 2;

cap.

2, § 2.2 .

367 H e gel [ . . . ] ha l'intuizione vaga del divenire, non ne ha il concetto . E non si Inette in condizione di possederlo, perché analizza questo concetto, invece di realizzarlo cotne avrebbe dovuto, per pensarlo dialetticatnente e conforme al principio dell'identità di essere e pensiero. (RDH, p. 22).

Che dire davanti a queste critiche ? Che, forse , entrambi i critici hanno peccato di . . . pigrizia. Ché, se non si fossero fermati alle prime due categorie - Sei n und Nichts - e si fosse­ ro spinti sino all'enunciato della terza, al Werden, avrebbero appreso che essere e nulla non passano l'uno nell'altro e l'altro nell'uno, ma sono passati (ii bergangen: \VL, I, p. 83; it. I , p . 71 ) . C ome dire : essere e nulla, divisi, non sono; sono soltanto, in uno, nel divenire , che è infatti non la terza, ma la prima categoria. Il che significa: per Hegel non c'è cominciamento affatto6• Se poi Trendelenburg e Gentile - ma purtroppo non solo loro - si fossero spinti un po' più innanzi nella 'lettura' del I volume della Scienza della logica , avrebbero appreso che la distinzione tra essere e nulla è solo una Meinung (WL, I, p . 95; it. , I , pp. 8 1 -82 ) : non un'"opinione", come pur s'è tradotto, ma un'intenzione : quella propria del Verstand che 'tende' a mantenere divisi i termini che pur mette in relazione. E , per essere cattivi sino in fondo, possiamo anche dire che la fati­ ca di leggere il testo hegeliano oltre le prime due categorie, avrebbero potuto anche risparmi arse la, se avessero prestato attenzione al primo periodo dell'enunciato della prima cate­ goria, che qui cito nella lingua del suo Autore : « Sein, reines Sein, - ohne alle \Veitere Bestimmung. In seiner unbestimm­ ten U nmittelbarkeit ist es nur sich selbst gleich und auch nicht ungleich gegen anderes, hat keine Verschiedenheit innerhalb seiner noch nach auBen» (WL, I, p . 82; it. , I, p . 71 ) . 6 . Qui la radice del dissenso da Schelling reso pubblico da Hegel con note­ vole asprezza nella Vorrede della PhiiG in part. pp. 2-26; it. I, pp. 22-24 ) . L a posizione di Hegel s u questo punto può essere riassunta in pochissime parole: «Das Sein ist absolut vermittelt» (PhiiG, p. 32; it., I, p. 29) .

368 Non credo di presumere troppo, affermando che Hegel cono­ sceva il Sofista platonico ed era quindi consapevole che non è possibile pensare l'identico se non in rapporto al diverso e viceversa. Quindi, già solo il primo enunciato, nel modo in cui è formulato, mette l'interprete nella condizione di capire che tanto l'essere quanto il nulla, isolati, sono, alla lettera, impen­ sabili . Eppure l'obiezione del Trendelenburg ebbe inspiega­ bile seguito. A cominciare da Karl Werder e Kuno Fischer che presero le difese di Hegel, accogliendo la premessa del ragionamento trendelenburghiano, e cioè l'iniziale separazio­ ne di Sei n e Nichts nella Scienza della logica . Mettendosi da soli nella gabbia argomentativa costruita dall'avversario, non potevano che uscirne malconci . Ma di ciò tra breve , e solo limitatamente a Werder, quando, parlando della 'prima' lettu­ ra hegeliana di Spaventa, saremo necessitati a dire qualcosa anche di lui. Ma, per non commettere ingiustizia nei confronti di Genti­ le e pur di Trendeleburg, due precisazioni van fatte . Quanto a Gentile: se la sua critica 'trendelenburghiana' a Hegel non regge, la sua distinzione-opposizione tra ''pensante" e "pensa­ to" ha valide motivazioni, ma in tutt'altro contesto problema­ tico, quello della "differenza" tra il pensiero come prassi e il pensiero come "contenuto" ; o meglio, per restare nel linguag­ gio di H e gel, tra la coscienza dell'esperienza e l'esperienza della coscienza - differenza che già nell'affermarla la si nega col fame 'contenuto ' di riflessione , e nel negarla la si pone come atto di riflessione altro dal contenuto riflesso . Motivazio­ ni che peraltro Gentile non seppe far valere nel suo Sistetna di logica come teoria del conoscere, dove proprio quello che voleva e doveva distinguere , la logica dell'astratto da quella del concreto, non risulta affatto distinta e distinguibile. Qui il discorso si apre (per immediatamente chiudersi, altrimenti cambierebbe l'argomento di questa mia riflessione) al tema del rapporto tra il sentimento e il pensiero riflesso - tema della

369 sua opera fìlosofìca più alta: la Filosofia dell'arte, che segna la vera svolta del suo pensiero; più alta e , aggiungo, "ultima", ché dopo fu solo stanca ripetizione di cose già dette 'prima'7. Quanto a Trendelenburg rilevo che egli da esperto studioso di Aristotele sapeva bene che il "movimento" è indeducibile da altro; quel che gli si imputa è che quanto riconosceva allo Stagirita non volle riconoscere a Hegel8. N o n sottolineo questo per ribadire una critica, già più volte fatta, ma per entrare nel vivo della discussione con Spaventa, anch'egli inquietato dalle critiche del Trendelenburg, a cui, appoggiandosi al Werder, come s'è detto, rispose , dandogli in qualche punto anche ragione , ingolfandosi in ragionamenti che neppure sono ragio­ namenti; al più sono 'narrazioni', che possono anche appari­ re, per la loro astratta conseguenzialità, convincenti - come apparvero a Gentile -, ma che in fìlosofìa, se vale in questa il principio aristotelico del l6gon did6nai , non hanno valore . Espongo, restringendomi al minimo indispensabile, queste narrazioni, per subito passare a quel che dell'interpretazione hegeliana di Spaventa è dawero importante, e originale. 2. «C'è un vizio nella posizione hegeliana, e questo è il conce t­ to dell' Indete nninato : equ ivalente comune di Essere e Nulla» ( Op, I, p . 396 ) così Spaventa nel replicare all'obiezione di Trendelenburg. E per 'togliere' questo vizio così argomenta: l'indeterminato e indistinto in tanto è pensato come tale in quanto è distinto dal determinato e determinato come indi­ stinto, per quindi concludere trionfalmente : «questa è la contraddizione dell'Essere: è il Non Essere» . Pura, stringata ripetizione di quanto detto da Werder con maggior fervo­ re : «Nichts ist die Besinnung des S eyns, das Aufgehn seines -

7. In merito cf. retro, P. I, Sez. II, cap. I, e P. II, cap. III. 8. Cf. L U, l, p. 25 s s . , cit. da B. Spaventa, Op, I, pp. 392-393. Cf. infra, nota 22.

370 Sinnes in ihm; sein Blick in sich; der springende Punkt seiner Urspriinglichkeit»9 . Fervore che assume un tono come 'reli­ gioso' , quando c'è da spiegare l'ulteriore passaggio da Nichts a Werden: «Das Nichts ist die Erklarung, das Werden die Verklarung des S eyns» (Logik, p . 49) . Dall"'esplicazione" alla "trasfigurazione" - un po' troppo, direi, visto che siamo appe­ na all'inizio della Dottrina dell'essere ! Ma a Spaventa, che cita onestamente la sua 'fonte', fa giuoco questa lettura delle prime categorie della Logica. La sua attenzione è richiamata in particolare da un termine usato da Werder: "Besinnung", che subito adotta, perché gli permette di introdurre in un luogo affatto improprio - l'inizio della Dottrina dell'essere - il pensiero10. Prima di fermarci su questo "fuori luogo", alcune considera­ zioni si rendono necessarie . La prima, che riguarda Weder anzitutto, e poi Spaventa che lo ripete : cercare prima del Divenire , nel Non-essere, la differenza dall'Essere, comporta tener distinti i due termini, E ssere e N o n-essere, prima del divenire, e cioè negare il divenire, dando ad esso un comin­ ciamento che non ha, che non può avere . Significa cioè dare ragione a Trendelenburg, che, come s'è già detto poco sopra, da buon lettore di Aristotele sapeva bene che non c 'è origine del movimento, dacché porre un inizio al movimento significa

9. Logik, p. 4 1 . Non so spiegare questa 'interpretazione', se non con una distorta lettura di un qualche passo hegeliano, staccato dal contesto. Avan­ zo un'ipotesi, solo un'ipotesi. : «Nulla è ancora, e qualcosa deve divenire . Il cominciamento non è il puro nulla, ma un nulla da cui deve uscire qualcosa. Dunque anche nel cominciamento è già contenuto l'essere. Il comincia­ mento contiene dunque l'uno e l'altro, l'essere e il nulla; è l'unità dell'essere col nulla; - ossia è un non essere, che è in pari tempo essere, e un non essere che è in pari tempo non essere» (\VL, I, p . 73; tr. it., I, p . 59) . 10. Ma la traduzione spaventiana di "Besinnung" con "accorgimento" non fu felice; "riflessione" non solo è più corretta, ma anche più conforme alla sua interpretazione.

371 presupporre al movimento il movimento (ma questo lo si legge già nel Pannenide di Platone ! ) 11 • Quanto poi all'affe rmazione che "Anfang heiBt Fortgang" (ib. , p . 47) , questa non è una esplicazione di Hegel, è solo la sua ripetizione , guadagnata 'in ritardo' , dopo aver distinto l'in distinguibile fuori del suo terri­ torio: il divenire . Riguardo poi al rilievo spaventiano del "vizio dell'Indeterminato" presente nella posizione hegeliana, non altro c'è da osservare che questo rilievo appare ben strano, se non strambo, avendo proprio Hegel più volte ribadito ciò che Spaventa ritiene di dover affermare contro di lui, e cioè che l'indeterminato è determinato proprio dalla sua indetermina­ tezza e , parimenti, in quanto Indistinto è distinto dal distinto . Invero c'era da attendersi da Spaventa giusto l'osservazione contraria - e al termine di questa relazione se ne capirà il motivo -: e cioè che l'obiezione hegeliana, che l'indetermina­ to, pensato come opposto al determinato, è perciò stesso un determinato, aveva già avuto secoli addietro la risposta. Vero, concedeva Plotino, che l'Indeterminto è 'determinato' come indeterminato, ma ciò proprio in quanto è pensato, essendo compito di nous proprio tèn tnian pollà poiezn 12 . Per il pensie­ ro che moltiplica e distingue, l'Indeterminato è pensato come determinato, e cioè distinto dal determinato; ma non "per sé", non kath 'haut6 . Fatte queste precisazioni, torniamo ora su quel "fuori luogo", meglio: su quell'"intruso", di cui si diceva poco sopra: il pensiero. Cominciamo col dire che in esso Spaventa scor­ ge la 'salvezza' della Logica hegeliana, e dell'intero sistema. Leggiamo:

I l.

Cf. Aristotele, in part, Phys. , Z, l, sul rapporto "continuo-tempo-movi­ mento"; in merito v. W. Wieland, APh, spec. cap. III, § 1 7, pp . 278-316; it. , pp. 351-399. Quanto al Pannenide, cf. spec. 156a-157b. 12. Cf. Plotino, En , V, III, 14 e VI, 7, 15.

372 Tale è dunque per tne il vero significato del Non essere : tale è la rifonna che bisogna fare del concetto del N ulla, cotne si trova nella Logica di Hegel. Se non la si fa, Trendelenburg ha ragione; e, quel che è di più, all'hegelistno cotne sistetna della Spiritualità assoluta giacché ei non è altro che questo - contradicono le prilne categorie della sua Logica stessa: la base a tutto l'edificio. (Op, I, p. 400). -

Vediamo ora in che consiste quest'opera soteriologica del pensare . Linizio - seguo i passaggi essenziali, molto citan­ do per fedeltà al testo è la 'deduzione' della necessaria co-appartenenza di essere e pensiero: -

L'Essere non è così fatto che il pensare sia qui e l'essere sia lì [ . . . ] il pensare porta seco [ . . . ] l'essere; se si tnuove, si tnuove l'essere; giacché l'E ssere è l'Essere del pensare, e quindi il tnovilnento del pensare è lo stesso movilnento dell'essere; se il pensare dice non essere , ciò dice anche l'Essere; è uno e tnedesilno detto . (Ib. , p. 409) .

Nonché 'deduzione' , questa è tautologia. E non sembra avere l'aspetto della dea Verità che non ha bisogno d'altro che di se stessa, se consente questo domandare e questo rispondere, che chiama in causa un ''io penso", molto, molto e1npirico : Ma il pensare si tnuove? Sì che si tnuove; il pensare è lo stes­ so movilnento; la prima radice e il fine ultimo di ogni tnovi­ Inento, appunto perché è l'attività che sola unisce e distingue, e l'una cosa fa, in quanto fa l'altra. Infatti io penso l'Esse­ re, l'Uno, l'IIntnobile; pensando così l'Essere, fissando così l'Uno, l'IIntnobile, io sono l'Essere, l'Uno; io tni estinguo in esso, non vado innanzi. Ma questo estinguenni è solo appa­ renza. Mi estinguo, tna penso l'Essere; estinguenni è pensar l'essere; e dunque estinguenni (nell'Essere), che è distinguer­ lUi (dall'Essere), giacché pensando l'Essere, io mi distinguo dall'Essere . La distinzione nasce qui, dunque, dalla estinzio­ ne, il mobile dall'imtnobile, il tnuoversi dal non muoversi, il negar l'Essere dal fissar l'Essere . È dunque l'Essere stesso

373 che si 1nuove, l'Essere in quanto l'Essere del pensare. (Ib. , pp . 409-410) .

N o n credo ab bi a a che fare con la dialettica del pensiero questo 'narrare' che dice e disdice, per poi tornare a dire quello che aveva disdetto. E , tuttavia, questa continua pistilli versatio termina con un vero coup-de-théatre : Di certo l'essere, in quanto non pensato - cioè in quanto non più l'E ssere - rilnane lì, non si muove . Ma in quanto pensato, in quanto l'Essere , si 1nuove, non può non 1nuoversi, non può non dire : Non essere . (Ib, p. 410) .

Incredibile : la lunga sequela di enunciati al6goi (se con l6gos in filosofia si intende il discorso che argomenta) , nei quali Spaventa 'ripete' Werder, termina con un'affermazio­ ne che riapre tutti i giuochi, non ponendo, ma intponendo la domanda, la vera unica domanda che è all'origine del proble­ ma dell'An-fang : c'è qualcosa che "rimane lì, né mosso, né mobile" ? Il 'pensiero' di Bertrando Spaventa interprete di Hegel, inizia qui. A noi, interpreti dell'interprete di Hegel, spetta il compito di 'capire' come è giunto a quella domanda. Il pensiero rara­ mente procede seguendo un'unica via. Il tempo del pensiero non è mai rettilineo13 .

13. Anticipo in nota, quanto sarà tema delle pagine che seguiranno ( § 6): Spaventa, sempre in questo saggio sulle "prime categorie della Logica di Hegel" aveva in precedenza affermato «quando si va a vedere, l'Essere stes­ so, solo l'Essere, non dice: Essere, non dice È, non dice punto» (Op, I, p . 399) .

374 II Die lichtscheue Macht14

3. Con che va fatta incontinciare la scienza ? Spaventa riprese questa domanda di Hegel nello "Schizzo di una storia della Logica" posta in appendice al corso di lezioni sulla "Filosofia italiana dal secolo XVI al nostro tempo", tenuto all'Università di Napoli nell'anno accademico 1861-6215• Mi fermerò soltan­ to sulle pagine dedicate al tema or richiamato, e non solo per brevità di esposizione. Davvero la perla gnostica si cela sotto uno spesso manto di sabbia e cenere. Ma a noi quel che inte­ ressa è la 'perla' . E solo la perla. Dunque : donde l'inizio della scienza e con che ? Spaventa è ben consapevole che l'inizio non è l'Essere , che cioè l'ini­ zio della Logica non è l'inizio. Chiaramente - e questo ogni lettore di Hegel lo sa, o almeno dovrebbe - neppure è l'"Io penso". Spaventa va oltre : l'inizio della scienza non può essere neppure nella scienza. Fare iniziare la scienza con la scienza è dommatismo puro, è rinuncia alla criticità del pensiero. La critica stessa non può iniziare da sé . E non vale a questo livello la tesi della riHessività del pensiero critico. La critica che si piega, riflette, su di sé, sul suo 'metodo', la critica che critica se medesima, non esce dalla gabbia d'acciaio che s'è costruita. La domanda hegeliana sull'inizio, mette in crisi la domanda stessa. E questo Spaventa l'ha compreso benissimo . Ha cioè

14. PhiiG, p. 335; it. , II, p. 28 . 15. Op, II, pp. 6 13-678. Il pregio di questo schizzo, molto schematico, è tutto nella 'ripresa' (vViederholung) del problema del rapporto Fenomenologia­

Logica.

375 compreso benissimo che la risposta di Aristotele a Isocrate16, secondo la quale mettere in questione la filosofia è già filo­ sofare, è già essere nella filosofia, è solo una petitio principi . Perciò l'inizio della scienza non può essere scientifico . Lo dico al modo in cui Hegel lo disse, non a caso criticando Fichte : Ich wird sich nicht objektiv, o, più distesamente : il Soggetto­ Oggetto fichtiano è ancora soggettivo17• Spiega Spaventa: in Fichte l'identità di pensiero ed essere è solo pensata. l.:Io, dunque, come autocoscienza, co1ne produttiva auto­ coscienza, come attività logica, non è vermnente assoluto, perché è assoluto solo co1ne fonna. (Op , II, p. 634).

Di qui la necessità di un inizio della scienza - e della filosofia qua scientia - che non sia 'scientifico' , che non sia 'filosofico' . E qui anche il compito della Fenornenologia : introdurre nella scienza. Con le parole di Hegel: portare !'"esperienza della coscienza" a "coscienza dell'esperienza"; con parole antiche : mostrare l'auto di noefn ed efnai , senza peraltro pretendere di fare un balzo oltre noezn , oltre il pensare , il pensare logi­ co . Senza cioè richiamarsi - come farà Schelling - ad alcuna "intuizione intellettuale", o, come dirà più tardi, "estasi della ragione" . Scrive Spaventa, con felice concisione: «Spiegare il conoscere ( e quindi la realtà, tutta la realtà) è dunque, posto Schelling, spiegare la identità come mentalità»; ma Schelling non spiega la sua identità, «la presuppone; la pone intntediate, nell'intuizione intellettuale» (ib. , II, p . 639) . Ma è possibile non presupporre nulla? È la sfida di Hegel, che all'inizio della Fenornenologia 'ripete' il cammino di Platone nel Teeteto , cominciando la ricerca del sapere con l'interro­ gare ciò che per primo si dà a noi: la sensazione ( 15le ss . ) . E

16. Aristotele, Protreptico, § 2 . 1 7. «Das Subjektive ist wohl Subjekt Objekt, aber das Objekte nicht, und als nicht Subjekt gleich Objekt»: DFS, pp. 7-138, p. 63; it., p. 50. =

376 come l'antico fìlosofo, così il moderno mostra che nei sensi v'è più di quanto il sensibile non sappia. La hod6s della Feno­ nlenologia non si svolge in superficie , ma tende al fondo: sua mèta è die Of{enbarung der Tiefe, la manifestazione del profondo. In questo cammino verso il fondo ogni passo innan­ zi rivela ciò che il precedente effettivamente è, la sua essenza. La verità della Fenontenologia è quindi retroflessa, ogni n uova 'scoperta' è rivelazione del passato, per cui il punto d'arri­ vo è già tutto nel punto di partenza, in quel rei nes Zusehen (PhiiG, Einleitung, p. 72 ; it. , I, p . 75), in quel puro sguardo, nel quale accade l'intero processo . Larbitrarietà dell'inizio è tolto nel sapere della fìne che rechtfertigt, rende giusto, l'ini­ zio. Lo giustifica perché rivela ciò che è: non l'inafferrabile istante che passa, l'adesso (]etzt) che è già trascorso, scom­ parso nell'inarrestabile sorgere e tramontare (Entstehen und Vergehen) di tutti i fenomeni, ma l'adesso che passando resta nel quadrante dell'orologio cosmico; non il mezzogiorno che non è più mezzogiorno dopo un istante, ma il mezzogiorno che tale permane nei secoli dei secoli, perché tale progressio­ ne possa darsi . N ella fìne, in quell'Assoluto del tempo che è in ogni istante, in ogni ripé tm1 ophtalnwil, in ogni Augenblick, l'esperienza della coscienza si possiede nella coscienza dell'e­ sperienza. Scrive Spaventa: Forse che la certezza sensibile, da cui io ho cominciato, sia davvero il prilno, e l'assoluto conoscere a cui sono arrivato, sia davvero l'ulthno, che quella abbia prodotto questo e non il contrario? Così pare; 1na in verità non è così. Io devo conchiu­ dere, che l'assoluto conoscere ha prodotto la certezza sensibi­ le, l'ultimo il prilno, e che perciò quello che appariva pritno è un falso pritno. Tutto quel processo, che pare produzione di un altro, di un secondo o ultilno da un pritno, è il vero primo cotne produzione di se stesso . Non è la certezza sensibile, che prova l'assoluto conoscere, 1na questo che, provando se stesso, prova quella. ( Op , II, p. 665).

377 Der bacchantische Tau1nel del sorgere e tramontare delle cose, il dionisiaco accadere della storia non si placa nella durchsichtige und einfache Ruhe (PhiiG, p . 39; it. , l, p. 37) del "concetto che si sa come concetto" (PhiiG, p. 558; it. , II, p. 298) - in quella "quiete semplice e trasparente" è già da sempre placato . Stupefacente risultato : il sapere possiede se stesso, non il suo contenuto, ciò che sa, ma il suo stesso opera­ re, se stesso come operare, quando . . . quando non opera più, ma solo osserva con sguardo puro. Delicata, la perla gnostica si polverizza tra le nostre mani . Ma è la fragilità della perla, o non piuttosto il tremore delle nostre mani che non trattengono il delicato gioiello? Forse l'Assoluto non trova nel nostro pensiero, nel pensiero umano, il vaso adeguato a 'contenerlo' . 4. La Fenonwnologia ha fatto quanto le era richiesto di fare e poteva fare : ha introdotto il sapere umano nel sapere assoluto . N el sapere del mondo, dell'essere del mondo - ché questo e non altro signifìca "assoluto" . D etto da altra prospettiva, quel­ la che dobbiamo ancora guadagnare, possiamo dire : la Feno­ ntenologia ha mostrato l'operare dell'Assoluto nella coscienza, ha cioè mostrato nell'esperienza della coscienza l'operare del mondo . Ma non tutto l'Assoluto, non tutto il Mondo è nell'e­ sperienza della coscienza. L'operare del mondo eccede questa esperienza, eccede l'operare della coscienza. Ma poi che lo sguardo della coscienza si è elevato alla visione del mondo, è necessario seguire il cammino del mondo, nel quale è anche l'esperienza della coscienza che s'eleva a coscienza dell' espe­ rienza. Il passaggio dalla Fenontenologia al Sistema dell'Enci­ clopedia, che contiene in sé la Fenontenologia come sezione dello Spirito oggettivo , non è affatto la negazione della Feno­ ntenologia come introduzione al sapere assoluto, ab-solutus, sciolto da ogni legame col mondo, perché è il mondo stesso .

378 Ne è, al contrario, la continuazione e il completamento . Su questo punto Spaventa non ha incertezza alcuna, la sua argo­ mentazione ha la secchezza di una sequela di deRnizioni :

[ . . . ] la fenoinenologia prova la identità: pensare è essere,

essere e pensare . La logica prova il pensare come Inondo, come Inentalità, sisteina del pensare, pura creazione . Dunque, essere, creare, è questo Inondo, Inentalità, sisteina, sisteina del pensare. Dunque, il sisterna del 1nondo io l·ho pensando , pensando il pensare, il sistetna del pensare. ( Op, II, p. 6.5 9). '

l:insistenza sul "semplice e puro pensare" sta ad indicare che ora siamo totalmente nell'ambito dell"' oggettività del conosce­ re " (ib. , p . 660) , della scienza, ove è legittimo, e quindi dove­ roso, chiedere e dare ragione, l6gon did6nai, di tutto e dall'i­ nizio . L'inizio stesso - il primo - va ora provato, perché ora è un inizio non fuori la scienza, ma nella scienza. Ma cosa, ora nella Logica, nella Scienza della logica, va provato , va messo alla prova? Non l'identità di pensiero ed essere , già "mostrata" nella hod6s fenomenologica, ma l'operare di questa identità. Chiarisce Spaventa: Ciò vuoi dire, che la prova, la Inediazione, non è più andare da sé a un altro (effetto o causa) , Ina da sé a sé : è andare che è riandare . (Ib. , p. 664).

Viene spontaneo a questo punto citare la deRnizione hegelia­ na del modo di procedere della scienza, il suo andare innanzi, Vorwiirtsgehen , che è un retrocedere, Riickgang, nel fonda­ mento, in den Grund, all'originario e al vero, zu dent Ursprii ng­ lichen und Wahrhaften (WL, I, p. 70; it. , I, p . 56) . Spontaneo e necessario, dacché testimonia che Logica segue lo stesso 'metodo' della Fenomenologia, l'Eri nnerung: non l'andar fuori

379 di sé, ma l'entrare in sé, nel proprio fondo18 • Ove il "sé" ed il "proprio" non indicano punto l'anima, ma il mondo. Il mondo, nel quale l'uomo è, non è fuori dell'uomo, ancorché non sia soltanto mondo degli uomini. È natura, il mondo, prima che umanità. E la natura ha in sé il mondo umano prim' ancora che come "spazio" (chora, non t6pos ) che tutto comprende, come la "vita" (psyché) che lo 'anima' , lo fa essere19• La Logica di Hegel è certo "pensiero", ma è «quell'attività di pensiero che c'intesse tutte le rappresentazioni, tutti gli scopi, tutti gli interessi e tutte le azioni [e che ] opera [ . . ] inconsciamente (è la logica naturale)»20• È ben evidente che l'Erinnerung hege­ liana è molto più legata alla distinzione aristotelica tra pr6ton pròs henu1s e pr6ton té physei , che non alla "memoria" delle Confessiones (cf. Libro X, § § 8.12 ss. ) . .

5. Sempre in "Womit muB der Anfang der Wissenschaft gemacht \Verden?" Hegel, fermandosi sulla presupposizione della Fenotnenologia alla Logica, necessaria perché la Logica, che è la "scienza pura", possa muoversi liberamente nell'am­ bito suo proprio, quello del "puro concetto" libero affatto da ogni presupposto, scrive : Acché ora, tnovendo da questa detenninazione del puro sape­ re, il cominciatnento (Anfang) resti ilntnanente alla scienza di esso, non v'è da far altro che considerare, o tneglio Inette re

1 8 . Sul tema cf. l'utile rassegna storico-critica di V. Verra, "Storia e memo­ ria in Hegel", in AA . VV. , Incidenza di Hegel a c. di F. Tessitore, Morano, Napoli 1970, pp. 339-365. 19. Sull'unità-identità di psyché e physis nel pensiero filosofico greco cf. in particolare Platino, En, III, 8 . 2 0 . ,,VL, Vorrede z u r zweiten Ausgabe, p . 26; it. l, p. 15 (corsivo mio) . Sulla logica naturale-inconscia di Hegel, in cui la "materia" ( sensazione, senti­ mento, intuizione) è 'interna" alla 'forma', cf., altresì, Enz, III, § § 44 7-449 in particolare i Zusiitze; tr. it. di A. Basi, UTET, Torino 2000. ,

380 da parte ( ist nichts zu

tu n,

als das zu betrachten oder viel­

-tnehr 1nit Beiseitsetzung) tutte le riflessioni, tutte le opinioni (Meinungen ) , che altritnenti si hanno, e soltanto accogliere ciò che ci sta dinanzi (was vorhanden ist) . ('VL, I, p . 68; it. , I, p. 54) .

Il testo mette a dura prova il traduttore. Come rendere quel "was vorhanden ist"? "Ciò che ci sta dinanzi " è lo spirito asso­ luto, il "concetto che si sa come concetto", l'identità pensie­ ro-essere della conclusione della Feno1nenologia. Che ci stia dinanzi, o, adottando altra traduzione, che sia una "semplice presenza", un neutro "che c'è" - è difficile da accettare. Dire che Hegel è in imbarazzo non mi sembra irriguardoso. Del resto poche righe dopo egli stesso ammette che "prendere immediatamente il cominciamento" - vale a dire prendere lo spirito assoluto, il concetto liberato dall'opposizione all' ogget­ to , ovvero l'Anundfursichseiendes (WL, II, p. 408; it. , II, pp. 806-807) come "immediato" ( altro termine per dire vorhan­ den) - può anche essere considerato una decisione arbitraria21 • Può? No, deve essere considerata arbitraria, posto che non v'è né in cielo né in terra, né in altro luogo immediatezza separata da mediazione (WL, I, p . 66; it., I , p. 52) . Ma poi come entra la "decisione", la volontà nella Scienza della logica ? No, non è rilcksichtlos dire che Hegel è in imbarazzo. Ciò che lo imbarazza è l'ammissione che la Logica presuppone la Fenonrenologia . Ma è un presupposto che non dovrebbe affat­ to imbarazzarlo: perché è un presupposto 'posto' dalla Logica stessa. Posto, gesetzt, significa qui aufgehoben , "tolto": tolto come presupposto, ed elevato a posizione dello stesso Logico (das Logische) , come dimostra tutto l'andamento della Scien­ za, della Scienza della logica : il Vorwiirtsgehen, che è Ril ckgang

2 1 . «der EntschluB, den man auch fiir eine Willkii r ansehen kann . . . » : lVL, I, p. 68; it. , I, p. 55.

38 1 in den Grund, zu dent Ursprilnglichen und Wahrh aften . Ma diciamolo con Spaventa, col suo linguaggio assertorio: Adunque [ . . . ] il pri'lno scientifico non è una contraddizione . La propedeutica [se. : 1a Fenmnenologia] che prova il prilno, è scienza prilna rispetto a noi solmnente (kath'hen�as pr6ton ) e quindi il prilno è l'ultiino; ma in sé (katà physin ) l'ultimo è prilno . ( Op , II, p. 668). ,

Paradossale ! Vogliamo sorreggere Hegel con Spaventa, Hegel con l'interprete di H egel - un po' troppo, se quel che Spaven­ ta dice è il medesimo che dice Hegel! E qui possiamo aggiun­ gere dell'altro ancora: il fastidio espresso da Hegel, nelle pagine finali della Scienza della logica , sul gran chiasso che si fa riguardo alla vuotezza della prima categoria della Logica, l'essere , e non s'intende che quella 'vuotezza' ha in sé tutta la ricchezza del concetto, ancorché in potenza22• Ma è solo per questa potenza che il concetto si svolge , si sviluppa, passa in atto, come la pianta dal seme . Era allora quell'imbarazzo sopra denunciato solo frutto della nostra presuntuosa ermeneutica? 6. N o, l'imbarazzo di cui si diceva, l'imbarazzo per la 'presup­ posizione' della Fenonte nologia alla Logica - presupposizio­ ne che l'Erinnerung toglie (e perciò sopra si è evidenziata la medesimezza del metodo della Logica con quello della Fenomenologia) - tradisce altro e ben più profondo imbaraz­ zo. L'imbarazzo che al pensiero critico non può non sorgere davanti al circolo pr6ton kath'hentiìs - pr6ton katà phtjsin . Da dove è posta questa circolare distinzione? Dalla prospettiva del kath'hetniìs, del "per noi". E cosa mai può garantire che

22. N ella sua mancanza (la stéresis aristotelica) è l'impulso (Trieb ) di proce­ dere oltre (sich weiterzufii h ren ) : lVL, II, p. 554-555; it. , II, pp . 940-941 .

382 questa iniziale prospettiva non condizioni l'intero processo, e quindi anche il "toglimento" del 'falso' primo fenomenologico e, in seconda battuta, del 'falso' primo logico? Non è solo un dubbio, né solo un'ipotesi . È una domanda che ha inquietato Hegel e che al suo interprete si è rivelata nel luogo ove meno si poteva immaginare che comparisse . In quella 'deduzione narrativa' - pura tautologia - dell'identità di noefn ed efnai, pensiero ed essere , ove alla fine compare l'es­

sere non pensato, l'Essere non più Essere, che ritJUi ne lì, non si tnuov e . Cos'è mai questo Essere non più Essere che resta 1ì e non si muove? Cos'è mai questa Quiete più semplice di quella in cui 'precipita' il Dioniso della vita, e certo per nulla affatto durchsichtig, trasparente? Lasciamo parlare prima l'interprete : Quanto all'Essere [ . . . ] io non posso dire né che cos'è, né perché è. È perché è : ecco tutto. -Adunque, perché il No ? il Non essere , la negazione? e dopo , e non astante il Sì, l'esse­ re, l'affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere ? Questo è lo stesso proble1na del 1nondo, lo stesso enigma della vita, nella sua masshna se1nplicità logica. (Ib. , I, p. 399).

Il lettore si chiede : di chi parla ora Spaventa? Di Hegel, o non piuttosto di Platino? Di entrambi direi, ché la domanda coinvolge i due parimenti . Nessuno dei due , infatti, dà ragione dell'enigma della vita, della separazione che rende molti l'uno, e che è presupposta a se stessa23• Continuiamo a leggere: Quel che sappimno è, che senza il Pensare non sarebbe il N o, il N o n essere; e chi nega, quegli che vince l'invincibile e

23. Sul tema rinvio a V. Vitiello, DiS, IV, "Oltre l'apofatismo. Per una diversa coniugazione del pensare", pp. 83-1 19.

383 fende l'indivisibile, cioè l'Essere; che distingue e contrappo­ ne nell'Essere tnedesilno in quanto tnedesimo ciò che è e ciò che non è : la generazione o gen1inazione dell'Essere; quegli che turba la tranquilla itnmobilità, l'oscuro itnpenetrabile sonno dell'assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare. (Ibiden"t).

Quale cammino ! Da Werder a . . . Hegel. Chiara la figura che il "gran prevaricatore" richiama: die ungeheure Macht des Negativen . Ma questa figura non compare sola, le sta di fronte l'"ingenito essere", l'essere prima di essere pensato, l'Essere prima dell'E ssere , l'oscuro itnpenetrabile sonno dell'assoluto ­ con le parole di Hegel: die lichtscheue Macht, la "potenza che ha in orrore la luce", secondo la bella traduzione di de Negri24•

24. Ricompare qui - in Spaventa, perché già in Hegel - lo "spettro" (altro che "caput mortuum"! ) del noumenon kantiano: in merito cf. S . Achella, SlH, pp. 104- 105. Riflettendo su questo nodo problematico, che lega Spaventa a Kant, F. Valagussa osserva che questo legame non mina il rapporto con Hegel: «nel riconoscere l'inseparabilità di pensabile e pensare, non si elimi­ na l'Essere come quell'indistinto che nega ogni distinguere e quindi ogni pensare e ogni pensato, questa è l'eterna alterità del Pensare, che il Pensare non è mai in grado di eliminare, perché eliminarla è pensarla. La somma potenza del Pensare, la sua intranscendibilità, coincide qui con la massima debolezza>> : IBS, pp. 25 . Ma dietro questa debolezza del pensare che non esce da sé - già evidenziata da Platino: «ek ton hysteron perì autoiì légo­ men» (En , V, 3, 14, 7-8 ) - v'è ben altra 'debolezza': l'incapacità del pensiero di pensare sé, il proprio fare, quaten us fit, e quindi di pensare la 'possi­ bilità' del suo 'non-essere', della sua 'impossibilità', nel suo stesso essere , nel mentre s i fa. A questa impossibilità allude, d a ultimo, Spaventa, certo ancora legato a Hegel (e al miglior Hegel, allo Hegel contra Hegel) , con la domanda sull'oscu ro impenetrabile sonno dell'assoluto e ingenito essere, ché il "prevaricare" del gran prevaricatore, questo, certo lo conosciamo: lo 'narriamo'. Quel che manca, e continua a mancare, è il "perché". Ed è questa 'mancanza' che mette in forse tutto: lo stesso prevaricare. Questo, non altro l'enigma della vita, nella sua massima semplicità logica . Quanto a Kant cf. KrV, A 288-289, B 344-345 ( su cui rinvio a V. Vitiello, CsR, pp. 28-33) . Sul rapporto di Hegel con Kant cf. l'equilibrato giudizio critico di A. Ferrarin, PHK, spec. cap. 5, "Ragione kantiana e ragione hegeliana, pp. 171-233.

384 Nella Feno1nenologia incontriamo presto l'immane potenza del negativo, sin nelle pagine iniziali della Vorrede, e ad essa Hegel assegna la funzione positiva dell'intelletto che separa e separando crea vita, e solo perciò anche morte . S enza scis­ sione vi sarebbe solo la quiete dell'immobile , che neppure è morte , essendo prima della vita e della stessa morte (PhiiG, p. 29; it. , I, p. 26) . Il primo incontro con la lichtscheue Macht avviene molto più tardi, nel capitolo VI dedicato allo Spirito, der Geist, nel pieno del mondo degli uomini, del mondo, dico, e non della coscien­ za. Capitolo che segna la 'svolta' fondamentale dell'itinerario fenomenologico, il passaggio dalla certezza alla verità. L attac­ co è solenne : La ragione è spirito, dacché la certezza d'essere tutta la realtà si è elevata a verità, ed essa, la ragione, è consapevole di se stessa cotne del suo mondo, e del tnondo cotne di se stessa. 25

In questo mondo, che l'epica narra come "non macchiato da scissione alcuna", il cui movimento è un quieto diveni­ re (PhiiG, p . 330; it., II , p . 21), la tragedia rivela la scissio­ ne che divide nel profondo il Sé, l' aut6, dell'autocoscienza, il Selbst del Selbstbewuj3tsein : l'opposizione tra Bewuj3t e Seyn, pensiero ed essere, come tra luce ed ombra, Giorno e Notte, ma che, divisi ed opposti, son lo stesso . Così scrive Hegel in questa insuperata descrizione della tragedia che Aristotele stimava la più alta, la tragedia di Edipo26 - il brano è lungo, ma in nessuna parte può essere tagliato :

25. «Die Vemunft ist Geist, indem die GewiBheit, alle Realitat zu sein, zur Wahrheit erhoben, und sie sich ihrer selbst als ihrer Welt, und der Welt als ihrer selbst bewuBt ist» : PhiiG, p . 313; it. II, p. l. 26. «kallistè dè anagn6risis, h6tan hama perpatefa ghénetai, ofon échei he en to Oidfpodi»: Aristotele, Poetica, 52a 32-33.

385 All'agire è palese solo un lato della decisione in generale; 111a la decisione è in sé il negativo; e il negativo contrappone a lei, che è il sapere, un Altro, un estraneo. L'effettualità tien dunque nascosto entro sé l'altro lato, quello estraneo al sape­ re, e non si mostra alla coscienza qual è in sé e per sé - non mostra al figlio il padre nell'offensore che egli percuote, non la 1nadre nella regina ch'egli prende in moglie . In agguato contro la coscienza etica si pone così una potenza che ha in orrore la luce, potenza che poi, quando il fatto è accadu­ to, ero1npe e coglie l'autocoscienza in flagrante; ché il fatto co1npiuto è l'opposizione tolta del Sé che sa e dell'effettua­ lità a lui contrapposta. L'elemento agente non può negare il delitto e la sua colpa: il fatto consiste nel 1nuovere l'hn1noto e nel produrre ciò che da prilna è soltanto racchiuso nella possibilità, collegando quindi l'inconscio col conscio, il non essente con l'essere. In questa verità vie n dunque alla luce del sole il fatto; viene alla luce del sole come qualcosa in cui il conscio è congiunto all'inconscio, il proprio all'estraneo; co1ne l'essenza scissa di cui la coscienza esperi1nenta l'altro lato, sperimentandolo anche co1ne il lato proprio; e tutta­ via co1ne una potenza che essa ha violato e si è resa ne1nica. (PhaG, p. 335-336; it. , II, p. 28) .

Dietro le pagine tortuose e ripetitive dello Spaventa che, in lotta con Trendelenburg, e più ancora con se stesso, s'affanna a spiegare le prime categorie della Scienza della logica, appog­ giandosi a Werder, di cui s'appropria, ed appropriandosene scorge un E ssere che non è Essere e che resta lì, immoto, di contro al movimento del pensiero che genera l'Essere, palese è la memoria, anche nel linguaggio, di questa pagina hegeliana che l'interprete traspone dalla Fenotnenologia alla Logica arditamente, certo , ma non senza fondamento, ché il richiamo mnestico, ancor più significativo se inconscio, è a quel livello dell'iter fenomenologico, nel quale non agiscono più le figu­ re della coscienza ( Gestalten des Bewuj3tseins) , ma operano spiriti reali (reale Geister), effettuali figure di un mondo (wirk­ liche Gestalten einer Welt: PhiiG, pp . 314-315; it., II, pp . 3-4) .

-

386 Superfluo a questo punto citare i vari luoghi, in cui nella Scien­ za della logica e anche altrove compare questa "potenza che ha in orrore la luce" . Utile, al contrario, chiudere ribadendo l'importanza dell'interpretazione che Bertrando Spaventa ha dato del rapporto Fenomenologia-Logica, aiutandoci a capi­ re che il pensiero di Hegel è molto più ricco e 'mosso' non solo di quanto non appaia nelle sistemazioni che di esso hanno dato i suoi critici e pur i suoi allievi ed 'inte:rpreti', e quanti ancora a vario titolo si sono richiamati alla sua fìlosofìa; è più inquieto, e con se stesso in contrasto21, come sempre i pensieri profondi, di quanto non appaia nel suo stesso Sistema. Basti qui, in conclusione, ricordare il contrasto tra il sommovimen­ to dell'ordine sistematico prodotto dalla 'successione' dei tre sillogismi fìnali dell' Enzyklopiidie28 non a caso presenti nella prima edizione , tolti nella seconda, e riproposti nella terza ed ultima - e la irenica citazione di Aristotele: Met L, 7, 1072b 18-30 che H e gel volle apporre a conclusione dell'opera. -

7. Ha scritto una volta Bertrando Spaventa, riferendosi a Hegel: « N e i fìlosofì, ne' veri fìlosofì, ci è sempre qualcosa sotto,

27. In contrasto con quel se stesso che scriveva a Pfaff: «al di fuori del mio pensiero non c'è nulla nella cosa; e i miei pensieri al di fuori della cosa non sono nulla» (cit. da R. Bodei in CT, p. 149 e nota 88) . Die lichtscheue Macht è proprio ciò che non è 'nella luce' del pensiero quando 'opera', e tutto ciò che di essa, poi che ha operato, il pensiero dice e pensa - tutto ciò che di essa viene alla luce del pensiero -, non è, non può essere: lichtscheu . Lo stesso va detto riguardo al rapporto tra la logica 'pensata' e la "logica natu­ rale e inconscia". Rapporto affermato, ma non dimostrato, né dimostrabile, giacché lo si può dimostrare solo dal pensiero riflesso, di sé consapevole, dal "concetto che si sa come concetto", cioè da uno, ed uno solo, dei termini del rapporto. Purtroppo il pensiero ha questo limite: non può portare altro 'testimone' a suo favore che se stesso. 28. Cf. R. Bodei, CT, p. 351 -361

387 che è più di loro medesimi, e di cui essi non hanno coscienza; e questo è il germe di una nuova vita» ( Op , II, p . 643) . Forse questo vale anche per gli interpreti - i veri, die denken­ den Ausleger, quelli che sanno riscattare la condanna, cui i grandi uomini li destinano29: la condanna ad interpretarli, con l'esplicarne il pensiero oltre la consapevolezza dell'interpreta­ to ed oltre la loro stessa consapevolezza d'interpreti .

29 . «Der groBer Mann verdammt die Menschen dazu, ihn expliciren»: K . Rosenkranz, AB, p. 555; it. , p. 34 [ 18] .

389 v Enzo Paci tra due fenomenologie

Le due fenomenologie , cui si fa qui riferimento non sono l' ei­ detica e la trascendentale, o, come anche le si nominano, la statica e la dinamica, o genetica1; sono bensì la fenomenologia di Hegel e la fenomenologia di Husserl. Perché allora questo "tra" e non invece un più determinato "da . . . a . . . "? Non è forse, la "fenomenologia" maggiormente coltivata da Paci, quella husserliana? Se, per cogliere il tratto essenziale del suo itinerario fìlosofìco, è indispensabile il riferimento agli studi che ha dedicato alla Feno1nenologia dello spirito, va pur detto che quell'esperienza ha segnato più un transito, per quanto importante, che non un punto d'arrivo - come invece la feno­ menologia husserliana, e bastano i titoli dei suoi libri a dame testimonianza. Invero il "tra" indica una precisa scelta ermeneutica. Ritengo che Paci si sia sempre mosso tra Hegel e Husserl: il primo ha contato nella formazione e nello sviluppo del suo pensiero non meno del secondo, nonostante ciò che dicono i "titoli" dei suoi libri e dei suoi saggi - i titoli, non il contenuto. Ché, se la

l.

Cf. E . Paci, 1VH, cap . IV, § 12.

390 lettura di Husserl ha influenzato l'interpretazione hegeliana di Paci, la lettura di Hegel ha giuocato un ruolo non meno fondamentale nella lunga riflessione di Paci sulla fenomeno­ logia husserliana. Il "tra" del titolo accenna a questo giuoco di rimbalzo tra le due 'letture' - l'hegeliana e l'husserliana -, che ha caratterizzato la fenomenologia di Enzo Paci2.

I l . Inizio con le pagine dedicate a H e gel in Idee per una enci­ clopedia fenontenologica . I saggi hegeliani qui raccolti sono tutti degli anni Settanta. Il che spiega la determinante presen­ za di H usserl, per Paci un modello anche per comprendere la Fenonwnologia dello spirito, le sue motivazioni e i suoi esiti più profondi . [;esordio, più che una critica, è una contestazione , aspra: al rapporto tra verità ed assoluto, presentato da Hegel sin nella Einleitung della Fenomenologia come ineludibile esito della ragione consapevole di sé, e cioè : all'identità di verità ed esse­ re , che Paci non esita a defìnire «idolatria nel senso in cui è idolatria il vitello d'oro», viene opposto il concetto di verità come idea-limite, come ideale . Paci, sebbene riconosca che cade su di lui l'onere di provare che «la verità è tale pur non coincidendo con la realtà e l'assoluto» (IEF, p . 1 1 7) , parte affermando che la verità «non si riduce all"'è", si pone, piut­ tosto, nella sfera del significato» (ib. , p. 1 18) . E vien subito

2. Per un'interpretazione complessiva del pensiero di Paci e della sua influenza sulla cultura italiana nel secondo dopoguerra sino alla metà dei Settanta, cf. EP di C . Sini.

391 da chiedersi se la sfera del significato non coincida - almeno a partire da Aristotele - con il parlare in ��terza persona", con l'orizzonte dell'essere . C erto la distinzione tra l"'è" ed il "signi­ ficato" non può essere gettata 11, e lasciata come qualcosa di dato . C'è il rischio, così facendo, di sottrarre all'esercizio feno­ menologico la sua specificità: la critica dell'ovvietà naturale . Alla contestazione segue subito un alto riconoscimento . L'itinerario della coscienza che Hegel traccia è der \Veg des Zweifels und der Verz weiflung, la via del dubbio e della dispe­ razione (PhiiG, p . 67; it. , I , p. 70) . «Il dubbio - commenta Paci - è quasi il riconoscimento della non verità del sapere , conquistato e dogmatico, della verità. Soprattutto appare qui la non verità del sapere apparente . [ . . . ] il sapere apparente è non realtà» (IEF, p . 1 19) . Lo scetticismo iniziale di Hegel gli rammenta l'epoché di Husserl, per quell'aspetto in parti­ colare che tale scetticismo non riguarda la coscienza singo­ la, l'arbitrario opporre la propria opinione all'autorità della tradizione, o comunque d'altri (PhiiG, pp . 67-68; it. , I, pp . 70-71 ) ; concerne, bensì, l'itinerario della coscienza naturale che nel suo "errare" deve superare se stessa, divenire sapere reale . Tutto sta ad intendere il senso di questo "deve", se è un "soli", un dover-essere, o un �'muss", una necessità. Paci rileva che Hegel, sebbene ritenga che solo l'assoluto consente un sapere rigoroso, scientifico, ammette tuttavia che «l'assoluto dev'essere prima raggiunto» (IEF, p. 120) . La Fenomenologia hegeliana descrive dunque un cammino, epperò una tensione . Ma in questa tensione , che non è possesso, in questo itinerario che presuppone una distanza dalla mèta, è il vero sapere - e non l'apparente soltanto -; è la coscienza 'filosofica' - e non la coscienza naturale soltanto . È la coscienza filosofica che opera in latenza nella coscienza naturale . L'itinerario della Fenotne­ nologia dello spirito , per come lo mostra la Darstellung des erscheinenden Wissens, la descrizione del sapere apparente, non può essere definito né dal "soli", né dal "muss", essendo

392 insieme l'uno e l'altro : tensione, dover-essere , in quanto sape­ re apparente , o coscienza naturale; ed essere, ed essere neces­ sario, in quanto movimento inconscio del sapere reale, o della coscienza filosofica, che nella Darstellung dell'itinerario feno­ menologico 'giunge' a conoscenza piena, perfetta, compiuta, in quanto «concetto che si sa come concetto» (PhiiG, p. 558; it. , II, p . 298) . Paci insiste sulla duplicità dei motivi e dei piani di discor­ so della fenomenologia hegeliana, richiamando l' attenzio­ ne sulla funzione fondamentale che !"'accidentale" svolge in essa, dacché rinvia sempre oltre il possesso della verità; ma non può certo ignorare che la necessità della Darstellung è il presupposto del dover-essere dell'itinerario della coscienza naturale . La 'doppiezza' hegeliana sta in ciò, che per quanto il sapere assoluto è mèta della coscienza, dell'autocoscienza e della ragione, tuttavia esso, l'assoluto in quanto sapere, non è soltanto l'inconscio operare - necessario - del Vero nella coscienza naturale , è anche il luogo (lo Standpunkt) a partire dal quale è ricostruito e conosciuto l'itinerario della coscienza. La necessità domina non solo nel sottofondo della coscien­ za naturale, domina anche alla luce del sole , nel giorno della presenza della Darstellung des erscheinenden Wissens, che, in quanto vera rappresentazione , è sapere esplicitamente reale del sapere implicitamente reale operante nel sapere apparen­ te . Quale allora lo spazio del "soll"? Quello di un dubbio solo apparente - di una parvenza di dubbio. Der Weg des Zweifels und der Verzweiflung scompare agli occhi stessi di chi la descrive . Il "soll" non fa a tempo di manifestarsi che già è ricompreso nel "muss". Questa necessità - vedremo - estende il suo potere dalla Darstellung hegeliana dell'itinerario della coscienza alla coscienza husserliana. È il rimbalzo da Hegel a Husserl, di cui si diceva ad apertura di discorso.

393 2. Paci si sofferma sulla descrizione hegeliana della certezza sensibile. Inutile ricordare come la singolarità del sensibile, l"' ora" ed il ''questo", svaniscano nella indeterminatezza del generico, per ricevere vera, reale concretezza solo nell'insie­ me delle relazioni percettive, prima, e intellettive , dopo - sono analisi a tutte note . Utile, invece , menzionare l'osservazione di Paci : proprio in questo svanire è l'esperienza della coscienza sensibile, che diviene consapevole della propria astrattezza e irrealtà, superandosi . Il sup eramento del sensibile è la "realtà" della coscienza sensibile . E un'anticipazione - questa che Paci rileva in H e gel - dell'esperienza della cosa, delle cose , tipica della fenomenologia husserliana (cf. infra , § 5) . Qui nuova­ mente Husserl funge da modello per la 'lettura' di Hegel. Ma v'è di più: la concretezza del sensibile si esperisce per dawero solo quando si passa dalla descrizione della coscien­ za teoretica all'analisi della coscienza pratica. La coscienza sensibile è concreta e reale , perché è innanzitutto Begierde, desiderio, bisogno, appetito . Fame . La sensibilità non lascia il suo oggetto 'teoreticamente ' dinanzi a sé, di fronte, ma se ne nutre , lo divora3. La sensibilità è concreta perché è vita. Anzitutto vita animale, vita del corpo. N o n insisto sull'influs­ so di Husserl, sulla distinzione tra Leib e Korper - sono cose troppo note perché ci si soffermi ancora su di esse . Diamo­ le per conosciute . Importante, invece, il capovolgimento di Hegel che qui Paci opera. Trattando della vita, della vita nella sua einfache Gattung, nella sua semplicità di Genere , e cioè della vita universale, Hegel aveva osservato : «in der Be,vegung

3 . Non faceva difetto l'ironia a Hegel: nel criticare «la verità e certezza della realtà degli oggetti sensibili», rinviava i loro sostenitori «alla saggezza degli animali [che] non restano fermi dinanzi alle cose sensibili come in sé essen­ ti, ma disperando di quella realtà e ben certi della loro nullità, le raggiun­ gano senz' altro e se ne cibano; e la natura intera celebra com'essi questi aperti misteri che insegnano qual sia la verità delle cose sensibili» (PhiiG, pp. 87-88; it., l, pp. 90-91 ) .

394 des Lebens [ . . . ] venveist das Le ben auf ein Anderes, als es ist, namlich auf das Be,vuBtsein» (PhiiG, p. 138; it. , l, p . 149) . Nel suo movimento la vita rinvia ad altro da quello che è, alla coscienza. Come dire: l'essenza della vita è l'autocoscienza. Paci interpreta alla rovescia: «l'autocoscienza trova alla sua base la vita nel suo dispiegamento . L'essenza dell'autocoscien­ za è la vita» ( IEF, p. 124) . L'essenza è il profondo , la verità che tutto sostiene, la sostanza come soggetto - soggetto che 'pone' quello che ad esso accade, soggetto attivo degli 'accidenti', perché dell'accadere , del divenire . Per Hegel questo soggetto è il pensiero . Per Paci, invece, la vita. Il capovolgimento ora segnalato , il primato della vita sul pensiero, sarà alla base - vedremo - dell'interpretazione di Husserl, ancor più che di Hegel. Ed è l'apporto proprio di Paci all'interpretazione di entrambi Autori, di entrambe le fenomenologie tra cui si muove . Da dove derivava Paci questo pensiero? Non ho dubbi sull'indicazione, che tuttavia in questa sede posso solo enunciare (provarla esigerebbe un discorso a parte) : da Vico, a cui Paci dedicò un testo fondamentale, dal significativo titolo: Ingens sylva4• Ma torniamo a Hegel. L'inversione del rapporto pensiero-vita nell'opposto vita­ pensiero, se poneva Paci davanti a grosse difficoltà d'inter­ pretazione, e non solo riguardo al testo di Hegel, gli forni­ va al contempo la possibilità di 'leggere' in modo nuovo un argomento tra i più studiati della Fenotnenologia dello spiri­ to : la dottrina dell'intersoggettività. Cominciamo col dire di quest'ultima, lasciando che le difficoltà si manifestino da sé, per forza propria, o, meglio, in forza della cogenza del discorso.

4. Cf. P. I, Sez. I ,

cap.

l.

395 3. Paci sa bene che non la "certezza sensibile" è l'inizio del cammino fenomenologico, bensì il �'sapere assoluto", il luogo dal quale è possibile vedere con lo sguardo puro dello spettato­ re che non influisce sull'accadere che osserva - lo Standpunkt del reines Zusehen (PhiiG, p . 72; it. , I, p . 75) che caratterizza la Darstellung des erscheinenden Wissens . È assoluto, questo sapere, perché non incide sull'oggetto, non lo muta. l:assolu­ tezza di questo sguardo non è sinonimo di incondizionatezza, ma di purità: Reinheit. Per Paci - chiaramente - che , infat­ ti, nell'atto stesso che afferma la primalità di questo sguardo, non manca di mostrare ch'è il risultato di un processo: del processo fenomenologico, dell'itinerario della coscienza. In breve , la primalità dello sguardo fenomenologico è solo della 'seconda' lettura della fenomenologia; nella 'prima' lettura l'inizio è della "certezza sensibile". E se la "seconda" lettu­ ra vanta un primato sulla "prima" è solo perché . . . - dico la cosa prima con le parole di Hegel: perché : das Vorwiirtsgehen

ist ein Ril ckgang in den Grund, zu dem Ursprilnglichen und \Vahrhaften ( «l'andare innanzi è una retrocessione nel fonda­ mento, all'originario e al vero» : \VL I, p . 70; it., I , p. 56) ; poi con quelle di Paci : perché «Si è sempre nel punto di arrivo dal quale si parte, o, come dice H e gel stesso, nell'aurora della presenza» (IEF, p . 138 ) . Che significa "si è sempre nel punto d'arrivo dal quale si parte"? In Hegel significa che la Darstel­ lung des erscheinenden Wissens è un processo di Erinnerung, di rimemorante interiorizzazione dello spirito umano nel proprio passato . E in Paci? Qualcosa di molto vicino quanto al 'contenuto' - alla riacquisizione del passato - ed insieme lontano - quanto alla 'forma' del rapporto col passato . L'auro­ ra della presenza è per Paci il risultato dell'opera dello scet­ ticismo, l'esito della via del dubbio. Il rilievo che egli attribu­ isce allo scetticismo nell'opera di Hegel - la liberazione del presente dalle incrostazioni del passato, dai pregiudizi della

396 storia, dal chiudersi delle "fìgure di mondo"5 in sé stesse è una conseguenza dell'influsso husserliano sulla sua lettura di Hegel. Lo scetticismo è la forma che la Weltvernichtung feno­ menologico-trascendentale - l'epoché - assume nella hegelia­ na Feno1nenologia dello spirito . Eppure Paci nega che H e gel abbia compiuto «Una vera e propria epoché, anche se questa preme su di lui come l'esperienza dello scetticismo negato re del mondo» (ib. , p . 140 ) . -

Perché Paci restituisce con la sinistra - come di mala voglia ciò che precedentemente ha tolto con la destra? Perché teme che !"eccessiva vicinanza' di Hegel a Husserl renda "assolu­ ta" anche la coscienza husserliana? Una tale 'ingenuità' non la si può certo attribuire a Paci. Che la "forma"-coscienza sia assoluta in Husserl come in Hegel è affermazione di Husserl medesimo: solo per la coscienza può dirsi che "nulla re indiget ad existendum" (Ideen, I, § 49) . Né si può sensatamente attri­ buire a Hegel il convincimento che anche il contenuto della coscienza è ''assoluto" - e non solo la forma. Certo questo Paci non l'avrebbe mai detto . Di più: nell'accostare la 'presenza' di Hegel al 'presente' di Husserl Paci sottolinea altre due conver­ genze: l ) che l'entrata della coscienza hegeliana nel «gior­ no spirituale della presenza» - lasciandosi alle spalle come la «poli croma parvenza dell' aldiquà sensibile» così la «vuota notte dell'al di là sovrasensibile» - segna la nascita dell'inter­ soggettività, ovvero l'autorivelazione coscienziale dell"'Io che è Noi e del Noi che è Io" (PhiiG, p. 140; it. , I, p. 152) , come accade in Husserl, nel 'passaggio' dall'Io ridotto - l'astratto Io dell'iniziale epoché - alla concreta vita dell'Io-monade inter­ soggettivamente strutturato (CM, V) ; 2 ) che per Hegel come

5. Diversamente dalle "figure della coscienza", Gestalten des Bewuj3tseins, le "figure di un mondo", Gestalten einer lVelt, sono spiriti reali, die realen Geister, realtà veramente operanti, eigentliche "\Virklichkeiten : PhiiG, pp. 313-3 16; it. , II, pp. 1-5.

397 per Husserl - e qui Paci chiama in causa anche Marx - «l' epo­ ché non avviene solo nel pensiero, ma avviene nella realtà» ( IEF, p . 140 ) . E allora perché Paci non appena rileva un'affi­ nità tra i due suoi "auttori", subito sottolinea la loro differenza, e nell'atto stesso di accostarli, li allontana? La ragione va trovata proprio nel punto indicato per ultimo: l'intersoggettività. Hegel la teorizza, ne fa un momento fonda­ mentale della sua analisi, un \Vendungspunkt (PhiiG, p . 140; it. , p . 152) , un punto di svolta. Tuttavia in Hegel l'intersogget­ tività è sempre solo "oggetto" di coscienza, mai "soggetto". Ci si intenda: per Hegel la coscienza stessa, l'Io, è intersoggetti­ va, è Noi; ma questa coscienza intersoggettiva è, e resta, solo tema di discorso, del discorso solipsistico della ragione che si pretende comunitaria. È il soggetto-Hegel che dice dell'in­ tersoggettività della coscienza, e si dica pure della coscienza­ Hegel. E non vale opporre che quella coscienza che parla è intrisa di intersoggettività, che proprio quell'Io che teorizza è Noi, perché questa è ancora tutta un'affermazione della coscienza-Hegel che dice d'esser intersoggettiva, non lo ma Noi, o, rectius: lo che è Noi, Noi che è lo. In altri termini, la critica di Paci s'appunta proprio contro la �'forma" -coscienza: :fìnché si resta in essa, l'intersoggettività è affermata ma non realizzata, non praticata, non vissuta. La "forma" -coscienza è incapace di intersoggettività. N o n s'intende la novità dell'in­ terpretazione paciana della fenomenologia di H usserl, se non si parte di qui : dalla critica della "forma" -coscienza. A questo punto è necessario fare un passo indietro : a Tempo e verità nella jeno1nenologia di Husserl, del 1961 - l'unico testo di Paci, che può reggere il confronto con Ingens sylva, pubbli­ cato undici anni innanzi. 4. Già il titolo indica una scelta teorica precisa: l'anteceden­ za accordata alla parola "tempo" dice che la verità non è mai

398 'pura' , ab-saluta, sciolta dai condizionamenti del tempo, dai pregiudizi della tradizione e della storia. La verità assoluta è un 'idea-limite': non una semplice astrazione dell'intellet­ to, una vuota idea, beninteso; bensì uno stimolo a liberare la mente prim'ancora che dagli errori, dalle ovvietà del quoti­ diano che sono la causa prima degli errori, perché abituano la mente alla passività dell'atteggiamento naturale . La verità come idea-limite è all'origine dell' epoché, della sospensione del giudizio; è sprone alla critica. Ma perché resti tale, stimo­ lo e sprone, bisogna evitare il feticcio della sua realizzazione. Questo perché la liberazione dal pregiudizio, dall'ovvio, dalle pretese verità acquisite, non è opera che possa terminare , che possa compiersi una volta per tutte . La liberazione dall'ovvio è un esercizio continuo e costante . Chiaro che questo concet­ to di verità porta con sé un diverso concetto di coscienza. La coscienza, pur essa, non è mai pura. Criticando l'assolutezza del vero, Paci critica insieme l'assolutezza della coscienza. Ma, si badi, la critica dell'assolutezza della coscienza non può signi­ :fìcare rifìuto dell'assolutezza della forma-coscienza. La stessa affermazione che la coscienza non è mai pura, che la verità absoluta è solo un"'idea-limite" - è assoluta. Se l' affe rmazio­ ne della non-assolutezza della coscienza non fosse assoluta, allora - la conclusione è ineludibile - la coscienza potrebbe essere assoluta. Il medesimo vale per la verità: anche la tesi della condizionatezza storico-temporale , ovvero: mondana, della verità, è una tesi incondizionatamente valida. Cosa signi­ :fìca allora affermare che la coscienza, come la verità, non è assoluta? Signifìca che la "forma" -coscienza - questa e questa sola assoluta (come la "forma" -verità, questa e questa soltanto incondizionata) - è inadeguata a dire della coscienza; signifìca che la coscienza non è solo forma, e che la sua separazione dal "contenuto" trasforma l'"idea-limite" - positiva - in un'astra­ zione negativa, in un feticcio della mente .

399 Niente che non sia stato già detto e ripetuto, sentito e risenti­ to - si dirà. Ed è vero, se ci limita all'enunciazione della tesi. Ma Paci non si ferma ad enunciare la tesi . Linteressante è quel che ne trae . Interessante perché sposta radicalmente l'asse della fenomenologia trascendentale . Non più l'ego e la coscienza - questi restano il punto di partenza necessario: il fenomenologo, e più in generale il Rlosofo, ripete Paci, non può che partire da sé, dal se stesso che pensa, e pensando vive nel mondo. Ma è dall'essere immerso nel mondo che il feno­ menologo si libera. N o n certo per trascendere il mondo, estra­ niarsi da esso, anzi per immettersi in esso, ma non nell'imma­ gine falsa del mondo e delle cose, bensì nel mondo "vero". E qui mondo vero non altro dice che "mondo reale", il mondo in cui siamo e operiamo, il mondo che viviamo e che vive in noi. L'esercizio dell'epoché è una liberazione dalle false immagini del mondo e delle cose . È un'immissione nel mondo-della­ vita, non 'oggetto' della coscienza, ma 'soggetto' . E 'soggetto' - perché è 'prima' della coscienza. Il Noi non attende l'au­ tocoscienza per essere e manifestarsi, non attende il giorno della presenza. Il Noi è già da prima, già da sempre , e nel presente della coscienza si manifesta solo in parte . Il presente della coscienza è solo la punta dell'iceberg, la determinazione Rnita dell'inRnito tempo . Il presente della coscienza - non il punto, l'istante o attimo, ma il presente esteso con tutte le sue ritenzioni e protenzioni, il presente dell'intersoggettività saputa, conosciuta, 'oggetto' di conoscenza -, questo presen­ te reale è solo una piccolissima parte dell'inRnito che mai giungerà tutto alla luce del giorno, perché mai il giorno della presenza si lascerà alle spalle la poli cromia dell'aldiqua sensi­ bile, elevandola a puro pensiero . Mai sarà coscienza pura. La fenomenologia di Paci toglie il privilegio della coscienza. Quel che opera, che opera all'interno della coscienza e della stessa "forma" -coscienza, è la vita, il mondo vivo nel suo complesso,

400 l'infinito che è in noi. L attività della coscienza è mutuataria del suo stesso operare alla Lebenswelt. Scrive Paci : Il principio non è il dato e1npirico ato1nico né la fanna; il principio è la vita dell'Erlebnisstrmn, l'infinito che vive nel 1nio Ego che attende di espri1nersi, di trascendersi nei cogi­ tata, nei noe1ni finiti che costituiscono la storia concreta. Alla fine i cogitata costitiscono il succedersi infinito della storia come conseguenza dell' esprilnersi, in noi, in ogni Ego, dell'infinito, che, nell'espressione, intenziona la serie del succedersi te1nporale. Nell'Ego vive la verticalità dell'infinito che si espri1ne intenzionando il succedersi storico orizzonta­ le . (1VH, p . 87) .

Il cambiamento non riguarda solo "noi", e la coscienza. Riguar­ da insieme , sintul, le cose . Perché l'infinità della Lebenswelt è la correlazione dinamica di ogni cosa con ogni cosa. Come l'ego (il noi tematico oggetto di coscienza) è solo un'isola dell'infini­ to mare della vita (del Noi inconscio, del Noi non ancora arti­ colato in una distinta pluralità di Io) che palpita tutto in esso, ancorché solo in parte vi si esprima, così le cose, le singole cose che non sono mai solo quel che immediatamente , e cioè nell'ovvietà dell'�'atteggiamento naturale ", appaiono essere . Le cose sono sempre oltre se stesse. Perché non sono mai "fatte", ma sempre da fare , da compiersi. Verunt et factunt convertun­ tur, certamente, ma solo se ed in quanto cogliamo il factunt quatenus fit. «La cosa, proprio la cosa che credo già fatta che nell'atteggiamento naturale è chiusa, compiuta, finita, diventa un indice, una proposta» (ib. , p. 91 ) . Paci 'legge' - cogliendo la più intima intentio husserliana - la stessa fenomenologia eide­ tica nell'orizzonte della fenomenologia della vita. Le essenze, gli eide , sono essi medesimi infiniti, indici delle cose , intuizioni che vanno sempre di nuovo riempite . Le cose del te1npo cosmico, anteriore all' epochizzazione, sono considerate già fatte; le cose "ridotte" al te1npo feno­ Inenologico debbono essere costituite secondo un'essenza,

401 secondo l'idea-liinite della verità. Ma ciò significa, infine, che l'oggettività stessa non è tnai compiuta: il problema dell' og­ gettività diventa il probletna del senso della storia e la crisi del mondo tnoderno è l'oblio, la feticizzazione delle cose, l'alienazione dell'uotno nelle cose considerate già cotnpiute, e possiamo aggiungere, la negazione del lavoro umano e del valore del lavoro utnano cotne realizzazione della verità nella storia. Tutto questo è esplicito nello storicistno teleologico­ trascendentale della Krisis . Ma è anche ilnplicito nella consi­ derazione h usserliana delle cose cotne un costituirsi infinito secondo un'idea regolativa che ci appare in una visione essen­ ziale, e cioè nella teoria della regione-cosa come filo condut­ tore (Leitfaden ) trascendentale. ( TVH, pp. 91-92).

Prima di dennire criticamente i limiti dell'intetpretazione che Paci ha dato della fenomenologia di Husserl, è bene segnalar­ ne e sottolineame la novità - anche rispetto a tesi a tutt'oggi in vigore .

5. Non bisogna attendere Heidegger, e sulla sua scia Marcuse e Lo\vith e Kojève, talora in contrasto col loro Maestro nel ri-leggere Hegel, perché contro il logicismo si affermino il diritto ed il valore dell'esistenza concreta, del Dasein fattua­ le e storico6• No, proprio no ; questa è una visione distorta della cultura Rlosonca del Novecento. Imputabile anzitutto alla ingiusta critica di logicismo e di indifferenza alla storia mossa da Heidegger a H usserl. Vero è che nella fenomeno­ logia husserliana - e sin nelle sottili distinzioni logico-formali delle Logische Untersuchungen è già presente la problema­ tica della temporalità storica . Che poi prenderà il soprawento nelle analisi sul processo di formazione della scienza moderna esposte nella Krisis, la cui teleologia della storia si distingue da quella hegeliana solo per la minore consapevolezza della -

6. Sul tema cf. in particolare: M. Vegetti, HOF.

402 "necessità" che la VISione teleologica immette nella consi­ derazione della storia. Ora il rife rimento paciano alla Krisis nell'ultimo brano sopra citato di Tetnpo e verità, testimonia della preferenza dell'interprete per questa opera, che rafforza la sua lettura di Husserl piegata su Hegel - come si diceva all'inizio. Torniamo al punto centrale della questione : l' intersoggettivi­ tà . Paci - anche questo s'è rilevato - esce dal solipsismo della ragione che si pretende comunitaria spostando l'asse della riflessione fenomenologica dalla coscienza alla vita (o, più esattamente : dal 'contenuto' della coscienza, dai "significati", alla vita della coscienza) : « l:Ego profondo, antepredicativo, prefenomenologico - scrive -, è vita che, restando vita, si rive­ la nella coscienza come Zeitfornt des Erlebnisstrontes» (ib. , p. 1 14) . E come il flusso vitale si articola nella coscienza in passato-presente-futuro - «l'infinito diventa forma del tempo» -, così l"'U r-Ego" si distingue «tra sé e il mondo [ . . . ] tra sé e altro, tra l'Io e il Tu» (ib. , p . 1 15 ) . Ma l'intersoggettività atti­ va, l'intersoggettività soggetto di discorso è quella che si vive, quella che , pur esprimendosi nella coscienza solipsistica del discorso filosofico, non si esaurisce affatto in questa, anzi in questa trova solo una limitata, finita, incompleta manifesta­ zione- realizzazione. Il riconoscimento nella Lebenswelt della radice 'attiva' dell'intersoggettività consente a Paci di sottrarre questa al prepotere della ''forma" -coscienza. La vera, 'reale' intersoggettività - si è detto - non è quella 'oggetto' di discor­ so , ma l'altra che è 'soggetto' di discorso, e che è 'dietro' il discorso sull'intersoggettività, e ne è base e sostegno . Il problema che ora ci si para innanzi è: quale rapporto sussiste tra le due intersoggettività, quella che è soggetto del discorso e quella che ne è oggetto? O, nei termini di Paci: si dà una scienza del mondo della vita?

403 Paci neppure pone l'interrogativo, che già vi ha risposto. Il cogito - afferma - attraverso l'epoché neutralizza il mondo dell'atteggiamento naturale, l'universo statico, irrigidito, del già-fatto, delle cose compiute , finite, perfedae, il mondo dei saperi consolidati, per giungere alla Lebenswelt, alla correla­ zione dinamica universale che costituisce l'essere come degli uomini così delle cose a cui gli uomini si rapportano . E giun­ gendo al mondo della vita, ne studia le strutture , le forme, i modi di manifestarsi e di celarsi, ecc . ecc . Questa è la scienza del mondo della vita. Che è scienza in quanto rispecchia la vita e non pretende dedurla logicamente ; in quanto non 'ogget­ tivizza' la Lebenswelt, non le si sovrappone, ma la descrive, mostrandola per quel che è . La scienza della Lebenswelt realizza l'ideale vichiano della 'S cienza nuova' , fondandola sulla visione diretta, sull'intuizione che ci mette in presenza della cosa stessa leibhaft, 'in carne ed ossa' . Di fronte ad essa il n1ondo delle scienze oggettive [ . . . ] ha perso la sua autono1nia. L'intuizione non è più qualcosa di trascurabile di fronte alla logica che si suppone possedere la verità. L'intuizione è la corporeità vivente pre-data della Lebenswelt, rispetto alla quale ogni scienza non è autono1na ma eterono1na. Ciò vale anche per la logica, anzi vale soprat­ tutto per la logica. // Per capire la scienza e per fondarla, per rinnovare i suoi stessi 1netodi, è necessario ritornare alla Lebenswelt e questo ritorno esige, per prilna cosa, l' epoché della scienza obiettiva. Questa epoché deve aprirci alla scien­ za della Lebenswelt, non fondata sull'a priori logico della scienza obiettiva, 1na sull'a priori 1nateriale del Inondo della vita. Questo è doxa e relatività. Co1ne relatività ha però una sua struttura generale. Tale struttura, nella quale vive tutto ciò che è relativo, non è a sua volta relativa. (Ib. , p. 195) .

V'è entusiasmo, indubbiamente , in queste pagine - entusia­ smo teorico , beninteso. S 'awerte la gioiosa soddisfazione di chi ha scoperto un mondo nuovo, meglio ancora: di chi ha scoperto la strada per incamminarsi verso mondi sempre

404 nuovi. Gli tornano alla memoria parole antiche , per esprime­ re questa 'scoperta' : «il fenomenologo deve vivere nel mondo senza perdersi nel mondo, senza appartenere al mondo» (ib. , p. 234) . Ma l'entusiasmo tradisce l'intentio : perché dovere del fenomenologo non è quello di non perdersi nel mondo, ma di non perdersi in un mondo . Al mondo - non a questo o quel mondo, ma al mondo qua talis, al mondo che è in tutti i mondi e nessuno in particolare - il fenomenologo appartiene total­ mente , senza residui. Al punto che anche l'infinito sottostante l'apparenza - il mare infinito che circonda e pervade l'isola del cogito, che, per quanto esteso nel tempo articolato in passato­ presente-futuro e nello spazio del comune, del cunt, del syn, resta sempre un'isola, finita, limitata - al punto, dicevo, che anche l'infinito è totalmente piegato all'apparenza, destina­ to com'è alla superficie, alla finitezza: alla storia e al mondo. Nulla meglio s'addice a questa visione delle cose e del mondo, che le parole dettate da Hegel nella Vorrede della Fenome­ nologia: «la forza dello spirito è grande quanto la sua estrinse­ cazione , la sua profondità profonda tanto quanto ardisce , nel suo esporsi, diffondersi e perdersi» (PhiiG, p. 1 5; it., l, p. 8) . In questa visione - ove talora l'entusiasmo teoretico trascolora in retorica: «è questo inizio, questa ripresa, questo iniziare di un nuovo periodo, di un nuovo stile, di una nuova epoca, l'im­ pressione originaria, il risuonare della prima nota . . . » (TVH, p. 235) -; in questa visione domina Hegel. Domina su Husserl. Il rimbalzo da questo a quegli inverte la precedente inver­ sione del rapporto vita-autocoscienza. Ora è l'autocoscienza l'essenza della vita; è la struttura della coscienza - quella che precedentemente si è nominata "forma" -coscienza - che è padrona della scena: la «struttura, nella quale vive tutto ciò che è relativo» , ma che «non è a sua volta relativa» . Strano, il Paci che critica Brentano per aver «proiettato il cate­ goriale sul precatecagoriale che deve fondare il categoriale» e che «perciò ha oscurato il problema dell'origine del tempo»

405 (ib. , p . 215), non ha il minimo sospetto d'aver potuto anch'egli, nel fondare la scienza sulla vita, subordinare questa a quella. Strano - s'è detto; ma, a ben pensarci, affatto naturale . Vero è che Paci non si è mai posto con la radicalità di Husserl il problema dell'epoché . Glielo ha impedito l'eredità hegeliana. Glielo ha impedito il suo amore per il mondo.

6. Das reduzierte Ieh ist kein Stii ck der Welt . L: io ridotto non è un pezzo del mondo. Che significa? La domanda non verte sul 'significato' logico-teoretico che la proposizione ha nel testo di Husserl da cui l'abbiamo tratta: le Cartesianische Medit­ ationen ( § 1 1 ) . Questo significato ci è sufficientemente chia­ ro ( anche per merito dell'analisi che Heidegger ha dedicato all'intenzionalità - e la cosa può apparire, ed è, strana, ove si consideri la critica heideggeriana del cartesianismo presente in HusserF) . La domanda verte sul significato storico-teoreti­ co della proposizione. Per comprenderlo, ci facciamo aiutare da un grande analista del mondo storico, del mondo moderno in particolare: Hans Blumenberg. Comparando la crisi che segnò la fine del mondo antico, con quella che pose termine al mondo medievale - mi si perdoni l'estrema sinteticità dell'epitome, ma qui ci interessa dare solo il nocciolo essenziale della questione -, Blumenberg osserva che se alla prima, che fu crisi della ragione umana dubitante di sé e degli dèi che essa aveva immaginato, poté porre rimedio la religione, venuta da Oriente , annunciante il Dio d'amore che crea e sostiene il mondo, alla seconda crisi, causata dalla riflessione teologica, nata all'interno di questa medesima religione, che per affermare l'incondizionata potenza divina aveva subordinato ad essa pur l'Amore che muove il mondo e

7. Cf. M . Heidegger, PGZ. In merito rinvio a V. Vitiello, HH.

406 le altre stelle, sostenendo che Dio, il Dio di Cristo, come può creare così può distruggere - tesi che nei testi della tradizione giudaico-cristiana trovava saldo appoggio nelle pagine ove si parla dell'orghé tou theou -, a questa seconda crisi non pote­ va porre riparo che il ritorno alla ragione, ma ad una ragio­ ne, umana e mondana, capace di legittimare se stessa e il suo mondo8 • Questa ragione - esemplifico all'estremo - fu trovata da Descartes; era la ragione dell' Ego cogito, capace di scon­ figgere lo scetticismo sul suo stesso terreno: se dubito, penso, e se penso, sono. Nessun genio maligno mi può ingannare su questo .

È Cartesio, questo ? Certo è Cartesio . Il Cartesio che ha fatto storia. Il Cartesio della Wirkungsgeschichte . Ma è un C artesio letto in superficie - come, peraltro, lui stesso si lesse per primo. È il Cartesio che pareggia ��su m" al "cogito" . Ma non è tutto Cartesio, se proprio lui, dopo aver affermato je pense, dane j'existe, distingue l'esistenza - se si vuole : il sunl - dal pensare, dal cogito , facendo di questo un attributo di quello (o quella: l'esistenza)9• Attributo, certo, necessariamente legato al suo "soggetto" , ma pur sempre attributo, quindi distinto dal suo soggetto . Il cogito sunl, il sunl cogitans si spezza. I due non son

8 . Cf. H . Blumenberg, LN, Teil l/2, Siikularisientng und Selbstbehauptung, 2. 1èil III: . Die Epochenkrisen von Antike und Mittelalter im Systemver­ gleich ", pp. 167-21 1 ; tr. it. , pp . 151-190 . 9 . «[ . . . ] je trouve ici que l a pensée est u n attribut qui m'appartient: elle seule ne peut etre détachée de moi. ]e suis, j'existe: cela est certain; mais combien de temps? A savoir, autant de temps que je pense; car peut-etre se pourrait-il faire, si je cessais de penser, que je cesserais en me me temps d'etre ou d'exister» : R. Descartes, CEuvres, p. 277. Il testo originale lati­ no diverge alquanto: non c'è il corrispondente della parola .. attribut''; resta però la differenza tra il ..cogito" e il .. sum" o l' .. existo"; «Ego sum, ego existo, certum est. Quandiu autem? Nempe quandiu cogito; nam forte etiam fieri .

posset, si cessarem ab amni cogitatione, ut illico totus esse desinerem» : Medi­ tationes, p. 716 (corsivo mio) .

407 lo stesso. Il �'sum" - �'j' existe" - precipita nell'abisso dell'altro dal "cogito", dell'oltre : tnagis, o tninus, quatn cogitari possit. Ed allora anche dire "sum", dire �'je" è troppo . lo penso? �'lo", o non, invece, "Er, Es ( das Ding) ? Das Ding 'velches denkt"10 • Non bisogna attendere Nietzsche per la critica del soggetto11; né Valéry, per sapere che «Je pense, donc je ne suis pas»12 . Questo ce l'ha detto - spesso smentendosi, volendo smentirsi - C artesio; ce l'ha insegnato, senza incertezze e confusioni, Kant - che l'ha anche argomentato: ove si volesse conosce­ re l'io, dovremmo piegare su di esso le categorie di cui esso s'avvale per conoscere il mondo, dovremmo fondare il fonda­ mento del mondo sul mondo ! Questo signifìca «das reduzierte Ich ist kein Stiick der Welt» : la spoliazione del mondo e col mondo dell'io d'ogni determinatezza, la spoliazione del l6gos d'ogni signifìcato . l:eguaglianza cui giunge Kant nella criti­ ca della psicologia razionale, l'equazione Io X è ineludibile, se vogliamo non solo comprendere ma vivere sino in fondo la tragedia della crisi del mondo medievale . Se non vogliamo abbandonarci alle 'retoriche celebrazioni' della centralità dignitas - dell'uomo . =

-

L' epoché non consente nessun amore per il mondo, nessuna hegeliana nostalgia del mondo. Epoché è \Veltvernichtung, e in questa cade anche l'"io" - il presuntuosissimo io che vuol porsi come fondamento del mondo -, l'io che è pezzo di mondo : pezzo, pur quando lo si ingrandisce, e più lo si ingrandisce più lo si radica nel mondo che con esso si vorrebbe salvare .

IO.

Cf. I. Kant, KrV, A 346, B 404. I l. « [ . . . ] il "soggetto" non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l'immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo» F. Nietzsche, NF8.5-87, p . 3 15, 7 [60] . 12. Il brano continua: