Habemus Nanni. Lessico morettiano. Architettura di un autore 8881037963, 9788881037964

Il cinema di Nanni Moretti presenta la particolarità, rinvenibile in pochi altri autori, e non solo italiani, di un univ

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Habemus Nanni. Lessico morettiano. Architettura di un autore
 8881037963, 9788881037964

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Coordinamento editoriale Leandro del Giudice Redazione Anna Bartoli Giovanni Cascavilla

ISBN 978-88-8103-796-4

© 2015 Diaroads srl - Edizioni Diabasis 2016 Prima ristampa vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 – e-mail: [email protected] www.diabasis.it

MAURIZIO FANTONI MINNELLA

HABEMUS NANNI LESSICO MORETTIANO: ARCHITETTURA DI UN AUTORE

Indice Nota

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Introduzione

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Voci

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Filmografia

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Bibliografia

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Indice dei titoli

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Indice dei nomi

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Biografia dell’Autore

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Nota

Il cinema di Nanni Moretti presenta la particolarità, rinvenibile in pochi altri autori, e non solo italiani, di un universo di segni, riferimenti e citazioni continuamente riconducibili a se stesso, perciò sostanzialmente e perché no, narcisisticamente chiuso. La stessa presenza del regista come di attore (nella duplice accezione di alter ego e di se stesso), accentua la presenza di una dimensione personale il cui linguaggio s’identifica con quello del suo autore. Ma l’autorialità del suo cinema mostra il limite proprio laddove è l’autore stesso a ribadirla. Per queste ragioni si è ritenuto scegliere una forma di saggio che sapesse riflettere tutti questi elementi, presi uno ad uno e in costante riferimento tra loro, in una forma molto più simile ad un dizionario lessicale che a un saggio in senso stretto. Attraverso l’uso di 50 lemmi, corrispondenti agli elementi che compongono il cinema di Moretti, si è quindi inteso definire quella che si può definire «l’architettura di un autore». Scopo del presente volume è quello di fornire al lettore una nuova e originale lettura critica dell’opera morettiana.

Introduzione Il ruolo di Nanni Moretti nel cinema italiano contemporaneo Sebbene il cinema italiano dei primi trent’anni del secolo ventesimo non possa neppur lontanamente reggere il confronto con quanto avveniva in contemporanea in Unione Sovietica, Francia, Germania, Scandinavia o negli stessi Stati Uniti, innegabilmente una sorta di orgoglio nazionale sarebbe più che giustificato, secondo gli storici, innanzitutto grazie alla presenza di un’industria torinese del cinema bene organizzata, di valenti attori, di talenti letterari prestati alla settima arte, (ovvio, a questo punto, il riferimento a Gabriele D’Annunzio), di autentiche dive come Francesca Bertini, di un regista sperimentale di origine tedesca come Walter Ruttmann o di un Giovanni Pastrone, autore del kolossal ormai leggendario che tutto il mondo ci invidia, Cabiria, uscito nel 1914. Ovviamente vi è molto altro, sebbene questa non sia la sede per renderne conto. È sufficiente, tuttavia, sottolineare il fatto che il mancato allineamento allo sviluppo artistico-culturale europeo e la sostanziale estraneità a quella tensione politica e morale che caratterizzò il periodo storico compreso tra le due guerre mondiali, portò il cinema italiano ad una sorta di autarchico isolamento. Del resto neppure la presenza in Italia di un’importante avanguardia, discutibile fin che si vuole ma pur sempre avanguardia come appunto fu il Futurismo, seppe produrre un cortocircuito creativo. Pur lasciando alla spalle la stupefacente stagione delle avanguardie europee (testimoniata dai capolavori del muto, in Europa come negli Stati Uniti), che neppure sfiorò il nostro paese, anche il confronto tra il cinema del cosiddetto ventennio fascista e quello che andava contemporaneamente sviluppandosi nei paesi sopra citati, diventa quasi improponibile.

E non sono certamente bastati i talenti indiscussi di un Mario Camerini, gran maestro della commedia agrodolce con interessanti, sebbene sporadiche incursioni nel realismo sociale), di un Alessandro Blasetti (rappresentante indiscusso del cosiddetto cinema storico), o di un Francesco De Robertis, per non citare autori minori come Augusto Genina (abile artigiano di regime, noto per le due agiografie della guerra di Spagna con L’assedio dell’Alcazar e della fede cattolica con Cielo sulla palude) o Gianni Franciolini, a considerare l’Italia tra i paesi più avanzati nell’arte cinematografica. Anche in questo caso, non sono mancati né qualità tecniche, segno di grande professionalità, né creatività nei soggetti o l’ausilio di un’industria di riferimento, facente capo agli stabilimenti di Cinecittà, fondati nel 1937. In realtà fu il prezzo pagato al fascismo, a vent’anni di feroce dittatura, ma ancor più all’isolamento in cui fu certamente coinvolta l’intera cultura italiana. Quei registi mettevano a punto, a loro modo, quella politica dei generi cinematografici che sostanzialmente individuava nella Hollywood degli anni trenta un modello insuperato. Dunque si passò facilmente dal film storico a quello agiografico, dalla commedia agrodolce a sfondo sociale ai cosiddetti telefoni bianchi e tutto sembrò parlare di industria cinematografica in fiorente crescita ma mai e poi mai di Arte con la A maiuscola. Chi oggi si riconosce nel tentativo di una rivalutazione, quanto mai ambigua proprio perché ideologica, del cinema del ventennio fascista, si fa forte di due argomentazioni: la prima è che almeno nella sua fase terminale, ossia tra il 1942 e il 1945, esso abbia anticipato con alcune opere quel clima culturale e quell’ansia di rinnovamento stilistico che fu proprio del neorealismo. La seconda è che quegli stessi autori (Vittorio De Sica, Roberto Rossellini, Luchino Visconti), avrebbero di lì a poco, con i loro capolavori, inaugurato quella stagione del cinema italiano mai più eguagliata. In altre parole, si vorrebbe ridimensionare il carattere ever10

sivo del neorealismo, almeno sul piano politico, dimostrando che i suoi principali artefici erano in fondo già attivi o addirittura compromessi con le strutture culturali e produttive nel vecchio regime. In questa operazione di revisione critica vi è almeno lo scopo evidente, ossia dimostrare la continuità tra passato e futuro, tra vecchio regime e moderna repubblica, che almeno nella sua fase terminale (1940 - 1944), non solo si produssero i germi di un possibile pre-neorealismo (con opere come I bambini ci guardano, Ossessione, ecc.) ma che gli autori di quelle opere, i De Sica, i Visconti, i Rossellini, divennero del nuovo corso, in parallelo allo svilupparsi di una cultura squisitamente antifascista, i massimi artefici. Il neorealismo1, destinato storicamente a influenzare non solo la Nouvelle Vague francese che elevò Rossellini a padre ispiratore di quel clima di radicale rinnovamento che si propagò in mezza Europa e, in tempi assai più recenti, anche in alcuni paesi extraeuropei come l’Iran, tuttavia ebbe una stagione di breve ed effimera durata in quanto capace di generare non tanto il proprio contrario, bensì il proprio snaturamento. Complice la seduzione dell’anima italica piccolo borghese (quella sinceramente odiata da Pier Paolo Pasolini che ben seppe ferocemente esprimere tramite il proprio alter ego, ossia il regista Orson Welles in La ricotta), nel suo eterno dispiegarsi tra virtù e vizi, incarnazione della commedia italiana che a sua volta, diciamolo, è nel bene e nel male, un autentico prodotto del neorealismo. Si può forse affermare che il grado di incisività e il valore di una commedia dipenda dal minore o maggior grado di satira o di critica sociale. A nostro avviso ciò che realmente distingue la commedia italiana da quella di altri paesi è proprio il grado di critica sociale presente nelle descrizioni d’ambiente e nelle caratterizzazioni dei personaggi2. Non a caso, forse, si continua a celebrare Roma città aperta di Roberto Rossellini come l’opera simbolo del neorealismo, il capolavoro per eccellenza di quella stagione. Le ragioni sono due: la prima riguarda principalmente le figure simbolo di sacrificio e quindi di eroismo 11

antifascista (il prete Fabrizi e la popolana Magnani) presenti nel film, le condizioni di totale precarietà ma al tempo stesso di libertà (che appunto contribuiscono ad alimentarne il mito, come sottolineerà Carlo Lizzani nella rievocazione romanzesca di Celluloide, 1995), in cui il film venne realizzato. La seconda (che più ci interessa sottolineare), riguarda il carattere episodico della struttura narrativa del film (a quadri e a bozzetti di vita romana durante l’occupazione nazifascista), quindi immediatamente percepibile dalle masse popolari. Invece ha perfettamente ragione il professore cinefilo di Nocera Inferiore («inferiore di nome e di fatto») Satta Flores nel film Ettore Scola C’eravamo tanto amati, quando non esita a definire Ladri di biciclette di Vittorio De Sica un capolavoro, o se si preferisce, quell’opera grande per la quale è perfino lecito giocarsi la vita e il proprio lavoro, a cui peraltro è necessario e doveroso aggiungerne altri due: il sommesso Umberto D. di Vittorio De Sica e Germania anno zero di Roberto Rossellini, entrambe di una dolente, pessimistica grandezza, dove l’umano e il politico si annullano a vicenda, opere decisamente insostenibili in tempi di conformistico consenso come quelli che stiamo vivendo. La modernità di Ladri di biciclette invece consisteva nello svelamento di una condizione umana di estrema precarietà che rifiutando il semplice intreccio narrativo, si concentra piuttosto sulla verità delle azioni dei personaggi in una sorta di cinema-veritè antelitteram. Accanto alla tentazione piccolo borghese della commedia (anche quando questa si presenta, per così dire, al vetriolo), vi fu pure quella letteraria (che per i critici del tempo assunse il nome di calligrafismo), che pur partendo dall’esperienza straordinaria e irripetibile di Ossessione di Luchino Visconti, finì col prendere tutt’altra strada. Del resto la tentazione letteraria non ha risparmiato nessuno dei grandi registi italiani, forse per una radicata soggezione del mondo cinematografico nei confronti della cultura e dell’accademia letteraria, tratto distintivo, autorevole e al tempo stesso soverchiante della cultura di questo paese. 12

Da Mario Soldati, ad Alberto Lattuada, da Mauro Bolognini a Valerio Zurlini e allo stesso Luchino Visconti, per oltre un trentennio si è prodotto il tentativo (pur con esiti alterni, talora perfino ragguardevoli), di dare un corpo visivo alla sostanza immateriale della parola; in altre parole cinema come romanzo tout court, globale. Ed è proprio contro un cinema troppo spesso asservito al testo letterario o ad un altro che affida alla spettacolarità e all’artificio la propria ragion d’essere artistica e autoriale, che il giovane Moretti regista cinefilo si accanisce, ritenendosi, con una certa dose di presunzione, il solo vero rappresentante del nuovo, ossia di un cinema di sincerità autobiografica, di presa diretta sulla realtà quotidiana, in particolar modo quella giovanile. Ma facciamo pure un lungo passo indietro. Il cinema italiano nel suo cammino verso l’evoluzione del linguaggio e della fantasia creatrice produce autori, a loro modo isolati come Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, ossia artefici di una poetica personalissima, affermatasi nella seconda metà degli anni cinquanta e, successivamente, agli albori del nuovo decennio (che ci piace definire come della modernità del cinema italiano ed europeo), con due capolavori indiscussi, La dolce vita, e L’avventura. Su un diverso piano di lettura/trasfigurazione del reale, si muovono autori di minore rilevanza estetica ma ugualmente importante per la definizione di un cinema italiano a tutto campo, ossia interessato sia alla riflessione sui temi scottanti della libertà e della repressione, entro una prospettiva storica novecentesca (prima guerra mondiale, resistenza, terzomondismo), ma anche dialetticamente orientata verso un «passato che ritorna», che ad un cinema più attento alle problematiche della contemporaneità e perfino della cronaca. Penso quindi ad autori come Pietro Germi, Francesco Rosi, Giuliano Montaldo, Gillo Pontecorvo, Carlo Lizzani, Francesco Citto Maselli e molti altri. Insomma, quel cinema «di sinistra» che oggi viene apostrofato con sereno disprezzo dai nuovi profeti giovani del cinema-spazzatura3. 13

Ma la vera rottura con il passato si avrà intorno agli anni sessanta con i giovani autori Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Liliana Cavani, Marco Ferreri, Paolo e Vittorio Taviani e perfino il Tinto Brass che, ispirandosi alla Nouvelle Vague francese, allo stesso modo di quest’ultima quando elesse Rossellini a proprio modello di cinema, elaborano una poetica della modernità abbracciando in vario modo il linguaggio formalista europeo e al tempo stesso sovvertendo i codici tradizionali della narrazione filmica. Ma soprattutto Pier Paolo Pasolini che al cinema arrivò attraverso la poesia e la pittura, e che quindi si trovò in una posizione del tutto anomala, forte di una poetica coerente e particolarissima, perseguita fino alla sua morte. In tutti questi autori, secondo modalità conformi allo stile di ciascuno, si verificò un potente cortocircuito culturale e linguistico formale che negli anni a venire non potrà che essere imitato. In parallelo a questi autori che godevano dell’appoggio incondizionato della critica cinematografica militante e non, dilagava il cinema popolare, con al centro due autori: Dino Risi e Mario Monicelli, cui si potrebbe affiancare Ettore Scola, tutti e tre maestri insuperati della commedia all’italiana, onnipresente e indistruttibile macchina del nostro cinema. Ecco dunque nel 1976, l’apparire sulla scena cinematografica italiana di Giovanni Moretti, in arte Nanni, che per sembrare un autore davvero alternativo, dovrà comunque fare i conti con coloro che, di una generazione precedente la sua, hanno rappresentato insieme agli autori cosiddetti underground, la vera ondata innovativa di idee e di linguaggio cinematografici. E in questa prospettiva, il cinema emergente di Moretti, rappresentato da Io sono un autarchico prima e da Ecce bombo dopo, di fatto non significò veramente qualcosa di diverso e di nuovo rispetto alle opere d’esordio e quelle immediatamente successive dei Bertolucci, dei Bellocchio, dei Cavani, dei Taviani, dei Ferreri ecc. Il suo cinema, infatti, non presenta particolari innovazioni linguistico-formali rispetto 14

ai suddetti autori, configurandosi piuttosto come una sorta di autobiografia reale e immaginaria in forma di commedia dove l’autore-attore protagonista veste di volta in volta i panni di un improbabile alter-ego (il sacerdote, il prete, lo psicanalista, il padre di famiglia, l’onorevole comunista, il «caimano»), oppure di se stesso (come in Caro diario e in Aprile), in un continuo e incessante mimetismo. In altre parole nel suo presentarsi come commedia generazionale d’autore che faticosamente può e sa trasformarsi in dramma, il cinema di Moretti non ha mai consapevolmente preteso d’essere in alcun modo sperimentale, d’avanguardia e ancor meno underground. Direi piuttosto che l’apparizione di Moretti come un fulmine a cielo sereno, per usare un’immagine retorica, assicurava, in un particolare momento in cui anche il cinema di questi autori, scivolava in una china involutiva, al punto di indurre un critico come Paolo Bertetto a definire il cinema italiano come «il più brutto del mondo4», una nuova vitalità d’ispirazione resa ancora più evidente sia dal carattere indipendente (e povero) della produzione, sia dalla natura soggettiva e autobiografica della proposta, rappresentata dalla messinscena dell’autore-regista come attore. È in questo triplice ruolo che il giovane Moretti giocherà, con esiti diversi, le proprie carte, senza tuttavia mai venir meno, pur con alti e bassi e imbarazzanti cadute, alla propria visione del mondo contemporaneo e naturalmente di se stesso!

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Note 1. Sintomatico di un clima di revisionismo storico creatosi in Italia nell’ultimo decennio, è la creazione di una collana di home video dal nome curioso e al tempo stesso emblematico: Noshame, ossia, senza vergogna di rivalutare non solo il cinema del Ventennio fascista, (con presenza di opere di De Robertis, Franciolini etc.) ma anche di porre sul medesimo piano un’opera come Tre canti su Lenin di Dziga Vertov e film insignificanti di propaganda fascista. Si tratta, è evidente, della solita, oggi più che mai viva, equiparazione tra fascismo-comunismo, o meglio, dittatura fascistadittatura comunista, che fu il cavallo di battaglia del 1948 democristiano e dell’anticomunismo diffuso, strisciante e al tempo stesso invasivo che segnò lo sviluppo della Repubblica, rigeneratosi infine nel “ventennio” berlusconiano. 2. Decisiva è l’influenza del neorealismo su certo cinema americano degli anni cinquanta ma in particolare in autori indipendenti come John Cassavetes o Martin Scorsese che indicò nel neorealismo la fonte della propria ispirazione unita, naturalmente, alla realtà newyorkese della sua giovinezza. 3. S’intende tutto quel cinema italiano popolare o di serie B o anche Z, prevalentemente horror, western, poliziesco ed erotico, fatto oggetto negli anni novanta di una rivalutazione critica (e a cui non fu esente nemmeno Nanni Moretti come viene dimostrato in Il caimano, attraverso la figura non solo del protagonista, regista di b-movies ma anche nel cameo dedicato al critico Tatti Sanguineti, tuttavia tra gli esponenti più intelligenti di tale operazione), da parte della nuova generazione di sedicenti critici, armati principalmente di una cattiva lettura e assimilazione della scuola strutturalista francese e di livore reazionario nei confronti della cultura di sinistra italiana. 4. Si tratta del saggio di Paolo Bertetto, Il più brutto del mondo, Bompiani, Milano 1982.

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VOCI

Non vi è niente di più grande dell’amore di una madre… Nanni Moretti, La messa è finita

A Alter Ego Nelle società primitive l’atto cannibalico esprimeva un significato preciso, ossia quello di assorbire tutta la forza di colui che veniva divorato. Poiché anche il recitare è una particolare forma di cannibalismo attraverso cui ci si appropria della forza e dell’anima di un personaggio, ecco che Moretti, nell’interpretare prima la parte dell’onorevole Botero in Il portaborse di Daniele Luchetti e successivamente quella di Silvio Berlusconi nell’epilogo di Il caimano, ha inteso sperimentare in prima persona l’idea pasoliniana di anarchia del potere che il poeta di Casarsa aveva così bene espresso nel film testamento Salò o le centoventi giornate di Sodoma, 1975, ossia adattare la propria maschera attoriale (ben altrimenti conosciuta), alla vertigine del potere, a quell’idea di onnipotenza ma anche di radicato infantilismo (che Moretti sa infondere alla perfezione al «suo personaggio» dell’onorevole Botero,«il ministro più giovane d’Italia»), come se si divertisse, a trovare in entrambi i personaggi tratti comuni con il proprio personaggio o con l’uomo Moretti. Un tratto questo, degno di una o più sedute psicanalitiche. Non è poi un caso che in almeno due film, La stanza del figlio e, Habemus papam, Moretti si riservi, per la seconda volta, proprio la parte di uno psicanalista (ma, ovviamente, il più bravo di tutti), quasi a voler riannodare simbolicamente i fili con una presunta profondità dello sguardo filmico sugli essere umani e le loro vicende. Se il ministro Botero si rivela spregiudicato, impavido, indifferente a qualsiasi morale ed etica, altrettanto lo è ovviamente Silvio Berlusconi nell’immaginario morettiano. Entrambi rappresentano una sorta di continuità, sebbene il primo sia un personaggio inventato mentre il secondo reale,

ossia presente nella politica italiana degli ultimi quarant’anni. O meglio, di un’idea di politica progressivamente affermatasi dagli anni Ottanta del secolo scorso, identificabile nel craxismo prima e nel berlusconismo dopo. Una politica che mette al centro l’idea stessa di potere come misura stessa dell’azione politica nell’assoluta prospettiva di una democrazia oligarchica e autoritaria, basata su corruzione, clientelismo, controllo dei media, subordinazione della sfera pubblica a quella privata, culto del capo ecc. Se, infine, ne Il portaborse, il personaggio di Botero viene totalmente investito della maschera morettiana (con accenti di programmatico cinismo: «a voi vi ha cancellato la storia» dichiara il ministro rivolgendosi a un giornalista di estrema sinistra, mentre entrambi sorvolano la campagna mantovana), laddove per maschera s’intenda l’essere Moretti in tutta la propria fisicità, in Il caimano il regista compie, per così dire, un tranfert psicanalitico nell’interpretare il ruolo più antagonista della sua storia, quello del «nemico per eccellenza», il caimano, appunto. Dare quindi, corpo e volto al caimano, nella sequenza «capitale» del processo milanese, significa, cannibalizzandone l’immagine, esorcizzarne, quindi, la forza mediatica. (v. Berlusconi)

Amici Sono quelli reali, in carne e ossa, cui il regista romano concede uno o più camei oppure quelli in cui sparutamente ci si imbatte nei suoi film. Dai quattro amici sfaccendati romani di Ecce bombo, versione post-sessantottina di quelli felliniani de I vitelloni, alla stesura del personaggio del professore di matematica di Bianca, il passo è davvero lungo, sebbene pochi siano gli anni che dividono i due film. Infatti, il protagonista del quarto film di Moretti è talmente incapace di avere amici e perfino amanti (ma qual è realmente 20

la sua patologia?) chiuso nella propria intransigenza e idea di perfezione come tratto comune dell’uomo Moretti e dei suoi alter ego, da giungere perfino a uccidere una giovane coppia infelice, sua vicina di casa. A questo punto pare davvero evidente che a salvare Moretti e il suo cinema sia proprio l’autoironia, ossia quella pratica salutare che permette ad un autore, in questo caso, ma a chiunque sia in grado di praticarla, di prendere quella dovuta e necessaria distanza dalle proprie ossessioni. Le cose non migliorano in La messa è finita, dove il nostro giovane sacerdote Moretti fatica a fare amicizia con il prete che lo ha preceduto nella parrocchia, a comprendere le debolezze della sorella e del padre che ha un’amante giovane. Se in Palombella rossa egli è solo in una piscina circondato da tante «voci» o «presenze» più che da personaggi veri e propri, in una sorta di lungo, estenuante monologo, ovviamente del tutto anomalo, in Caro diario, se si eccettua la presenza dell’allora compagna di Moretti, Silvia Nono, il primo capitolo è come un inno alla beata solitudine in cui il regista è a tu per tu con se stesso e con la città, Roma, che lo avvolge, lo coccola e al tempo stesso, suscita la sua curiosità onnivora. Un percorso disseminato di segni che uno ad uno l’uomo Moretti si divertirà ad affrontare. È invece nel secondo capitolo Isole che emerge la figura dell’amico con l’a maiuscola: Moretti lo raggiunge nella sua casa di Lipari e insieme a lui compie una sorta di breve periplo mediterraneo tra le piccole isole siciliane (Stromboli, Panarea, Alicudi, Filicudi). Ma l’incontro con l’amico che «si è ritirato lì per studiare l’Ulisse di Joyce», in realtà è solo il pretesto, e il personaggio una semplice figura caricaturale, per un ulteriore ammonimento circa i pericoli dell’estremismo. In altre parole, chi estremizza un sentimento o un rifiuto, finisce poi per abbracciare il suo esatto opposto (in filigrana la lezione bellocchiana di Marcia trionfale). È il caso appunto dell’amico studioso, che dopo aver rifiutato senza compromessi la televisione, si accorge ben presto di 21

non poterne più fare a meno. Siamo tuttavia di fronte ad una fase ulteriore della poetica morettiana, ossia, da una visione squisitamente collettiva, (che il regista esprimeva nelle prime due opere), a una decisamente più individuale, naturale approdo di un autore che già autodefinendosi autarchico, in fondo, lasciava intendere che il proprio coinvolgimento nei collettivi giovanili rivoluzionari lo avrebbe condotto ad un’autocritica, che viene per così dire sublimata nella sequenza di Palombella rossa, in cui Michele Apicella-Moretti, di fronte al ricordo della messa al bando violenta di uno studente fascista (orgoglioso di esserlo), nel provare sincera riprovazione, esclama: «… ma abbiamo davvero fatto tutto questo?».

Autocoscienza Una pratica collettiva assai diffusa nella sinistra giovanile degli anni settanta che Moretti ripropone in Ecce bombo come metafora dell’impossibilità di comunicare se non attraverso una prassi condivisa. Essa si pone perfino al centro della seconda opera morettiana come contraltare «politico» ai vagabondaggi goliardici dei vitelloni felliniani. Ed è anche uno strumento descrittivo per inquadrare i desideri, le frustrazioni e le ingenuità di un’intera generazione, sebbene lo stesso Moretti, in un altro film si domandasse cosa fosse la sua generazione. L’interruzione improvvisa del processo di autocoscienza, come sorta di involucro protettivo, produce, non a caso, smarrimento e dispersione tra gli amici e il riemergere, nella fin troppo emblematica sequenza finale di Ecce bombo, della figura di Michele/Moretti come esemplificazione dell’individualismo autoreferenziale dell’autore. (v. Amici)

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B Ballo «Mi piace vedere ballare, ma ballare è tutta un’altra cosa». Infatti, in In Vespa primo capitolo di Caro diario, Nanni vaga per le strade di Roma nella calura estiva. Ad un certo punto si ferma in una piccola balera all’aperto dove si ballano i latinoamericani, osserva i ballerini, e canta perfino, unendosi per un po’ ai suonatori. Ma è evidente il rammarico di non saper ballare, che è appunto un’altra cosa. Oltre a scambiare una ragazza del posto per Jennifer Beals, la protagonista di Flashdance, incontra lungo le mura Aureliane la vera Jennifer Beals con cui instaura un goffo quanto stralunato dialogo. La passione morettiana per il ballo assume piuttosto i toni di una presa di posizione contro la sinistra che non ha mai ballato o contro quanti rifiutarono l’edonismo per l’impegno. Anche in questo caso si rileva un atteggiamento incline all’autoironia rivolta agli anni della cosiddetta militanza. In La messa è finita, il regista dedica due sequenze ad un ballo privato, familiare, l’uno nella casa dei genitori del giovane sacerdote, l’altro nella sua stessa chiesa dove si sta celebrando il matrimonio tardivo di un amico. Due frammenti che si annullano in un’unica visione di leggerezza frivola, contrapposta ad incrollabile paura della realtà. Perfino la sequenza di un vecchio film trasmesso dalla televisione, che mostra Silvana Mangano in un trascinante ballo esotico accanto a due ballerini di colore, dunque può diventare il pretesto per un’ulteriore apologia del ballo, come accade in Isole, secondo capitolo di Caro diario.

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Berlusconi C come cavaliere, C come caimano. Un regista profondamente italiano per una storia di miserabile e ordinaria italianità. Dall’esperienza politica e civile dei Girotondi a quella del Caimano, il passo è davvero breve: sebbene vi siano state altre prove dell’esistenza di Silvio Berlusconi sullo schermo (pensiamo al film di Sabina Guzzanti, Viva Zapatero, ma anche al meno noto Shooting Silvio, di Berardo Carbone o all’impresentabile Ho ammazzato Berlusconi di Gianluca Rossi, per non parlare di alcune opere di non-fiction come quella di Roberto Faenza Silvio forever), è con Il caimano che avviene il definitivo passaggio dalla realtà alla rappresentazione, ossia il tentativo di dare un possibile corpo ad un personaggio che di fatto, è già parte integrante dell’immaginario dell’intero popolo italiano. Ciò che maggiormente stupisce è il fatto che Moretti abbia scelto se stesso, ovvero il proprio corpo e la propria maschera attoriale, per rappresentare in fondo, il momento culminate, il più terribile, del delirio di onnipotenza di Silvio Berlusconi ossia il processo per corruzione. In quell’ultima sequenza il Berlusconi di Moretti appare come una sorta di eroe del male, il seduttore diabolico delle masse che, dietro di lui, bruciano tutto, ossia, come in una palingenesi negativa, mandando in frantumi i principi di legge e giustizia. Qui Moretti risulta perfino anticipatore, profetizzando, come molti italiani, la definitiva condanna del caimano avvenuta nel mese di luglio del 2013, sebbene nella cronaca della realtà, non vi sia stata alcuna violenza, almeno non nei fatti e in senso fisico. Ma altresì al pari di almeno metà degli italiani, ha acutamente rivelato un’ossessione collettiva verso l’uomo che per almeno un ventennio ha soggiogato l’Italia con la duplice seduzione del denaro e del sorriso. 24

B-movies Vedendo e rivedendo un film Il caimano, si ha come la sensazione di trovarsi di fronte a due film diversissimi, ma pare, per Moretti, egualmente significativi e dunque importanti: il primo è il racconto della vita sfortunata, sia sentimentalmente che professionalmente, di un regista di b-movie (cui Silvio Orlando non sa per niente infondere verosimiglianza); il secondo è il film su Silvio Berlusconi che il regista, già a suo tempo impegnato nella battaglia politica su legalità e giustizia, sognava da tempo di fare. Ma nel soffermarci piuttosto sul primo, dobbiamo supporre che l’improvviso avvicinarsi di Moretti ad un genere un tempo negletto e oggi decisamente oggetto di rivalutazione da parte di un gruppo esiguo di giovani critici e cinefili (facenti riferimento alla rivista «Nocturno»), possa in qualche modo spiegare la presenza di un critico come Tatti Sanguineti in una sequenza del film (quella che si svolge nell’ufficio del regista, in cui egli tesse le lodi del cinema italiano di serie B). Si tratta di uno dei postulati, forse il più diffuso, di questa sedicente critica giovanilista che ha origine dalla contrapposizione polemica (e non poco reazionaria), tra cinema d’impegno politico (nelle sue diverse componenti e modalità stilistiche) e cinema di genere appunto. Naturalmente stiamo parlando degli anni Settanta del ventesimo secolo, quindi di un’epoca storica che consente una maggiore obiettività critica, tuttavia a Moretti non sembra davvero interessare. Sebbene si noti, sia pur brevemente, la presenza in scena di un grande vecchio del cinema, Giuliano Montaldo, guarda caso tra i maggiori esponenti del cinema del cosiddetto impegno, lo sguardo di Moretti è semmai d’affetto verso il suo personaggio e fors’anche del suo cinema strampalato e artigianale, truculento e adolescenziale che in fondo lo diverte. Egli si sofferma in modo particolare su una sequenza (non a caso posta all’inizio del film), di puro kitsch demenziale, (un’invenzione morettiana!) che mescola in odore di feuilleton, fal25

ci e martello, ritratti di Stalin e tutto l’armamentario truculento cui ci aveva abituati il b-movie italiano. Ma se procediamo a ritroso nella cinematografia morettiana, scopriamo, ad esempio, nell’opera d’esordio Io sono un autarchico, uno sguardo piuttosto saccente sul cinema italiano suo contemporaneo che mescola con soave rancore il Visconti di L’Innocente, L’importante è amare di Andrej Zulavskj (forse scambiandolo per un film italiano) e Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmuller, rei di essere brutti ma soprattutto di essere considerati d’autore. Molti anni più tardi Moretti se ne ricorderà, nella rivalutazione del b-movie, ossia del film popolare autentico, (ma certamente non in senso gramsciano!), orgogliosamente coscio della propria programmatica bruttezza. (v. Amici,v. Berlusconi,v. Cameo, v. Kitsch)

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C Campagne elettorali Uno dei vertici espressivi del cinema di Nanni Moretti lo troviamo proprio in un lungo frammento filmico appositamente virato in seppia (che troviamo nel film Palombella rossa), nella quale il regista immagina due situazioni complementari, entrambi in chiave di ricordi personali: nella prima vediamo un Moretti che pare uscito dal set di Ecce bombo o di Io sono un autarchico, distribuire un giornale di movimento in una casa di periferia ma in quella casa c’è solo un bambino che laconicamente dice: «mio padre è al lavoro». Moretti trattiene la rabbia che subito si concretizza nel gesto di abbandonare per terra l’intero plico di giornali. Nella seconda assistiamo ad una conversazione piuttosto animata tra lo stesso Moretti e un amico militante operaista il quale improvvisamente contrariato da una battuta dell’amico, gli dà uno schiaffo. Si tratta di un autentico frammento di cinema che Moretti trae dal suo primo cortometraggio La sconfitta del 1977, e che a sua volta interrompe il racconto in tempo presente che si svolge al bordo della piscina. Michele Apicella, il protagonista, alias Moretti, racconta l’episodio dello schiaffo come «una campagna elettorale di qualche tempo fa». Si noti l’ironia sottile, sconfinante nell’autoironia con cui il regista contrappone il tempo del movimentismo e della libera circolazione delle idee attraverso i volantini e i giornali di movimento, appunto, a quello del Partito comunista, («il partito mi ha dato molto…») di cui restano come grandi momenti collettivi le campagne elettorali, nelle quali, come in una piscina olimpionica, Michele Apicella-Moretti ritrova, 27

in fondo, quell’aura agonistica che è presente nel Moretti uomo e regista. Su un piano assai differente, il topos della campagna elettorale lo ritroviamo in Aprile, allorchè il regista, che come in Caro diario, rinuncia al suo alter-ego per sé medesimo, in attesa di realizzare il sogno di un film su un pasticcere trotzkista, precisamente un musical, (ancora una volta un riferimento ad un genere leggero, d’evasione su un tema «serio» che peraltro ci riporta al tema del ballo come fuga dalla seriosità «di sinistra»), decide di filmare la nuova campagna elettorale. Siamo nel 2000, e l’ombra di Berlusconi e del berlusconismo comincia davvero a pesare come un macigno sulla società italiana. Moretti vuole capire documentando la realtà che più lo interessa, oppure documentare capendo quello che accade intorno a lui e in tutto il paese. Per questo dice alla troup di tenersi pronta. Intanto raccoglie varia documentazione. Prepara un’intervista a Botteghe Oscure ma alla fine non si presenta. Indeciso ma soprattutto con in testa il suo musical sul pasticcere trotzkista, egli riuscirà a filmare la regata del «popolo padano» nel giorno del battesimo della Padania nelle acque del Po. Ritrovando però miracolosamente intensità e ispirazione nella sequenza della nave strapiena d’immigrati al largo delle coste pugliesi. In tal modo Moretti ci racconta dell’impossibilità di girare un documentario, quando si ha nella testa un musical, attraverso il paradosso del proprio contrario, ovvero girando frammenti di vero documentario che tuttavia non diventerà mai un film. (v. Berlusconi, v. Partito comunista,v. Impegno politico)

Canzoni La predilezione morettiana per la canzone leggera, tacitamente rivela un’avversione per la musica più complessa e seriosa, comunemente definita classica. Ma al di là del 28

gusto personale, è la funzione della canzonetta nel contesto del racconto ad avere la meglio su qualsivoglia altra ipotesi musicale. Quasi che Moretti intendesse ogni volta riaffermare l’idea secondo cui la canzone è la sola colonna sonora naturale della vita delle persone: infatti la troviamo in ogni luogo, confusa ormai con i gesti quotidiani. Quasi a significare che come le canzoni rimandano alla vita, la vita medesima rimanda alle canzoni, diventate ormai parte del patrimonio uditivo dell’uomo contemporaneo. Al contrario la musica cosiddetta colta sarebbe una sovrastruttura intellettuale imposta dal regista che nel suo caso invece, sceglie, come colonna sonora e contraltare alla singola canzone di repertorio, una musica spesso malinconica che alla canzone comunque si ispira, con l’eccezione, forse, di Io sono un autarchico, dove la partitura musicale di Franco Piersanti (la più interessante dell’intero cinema di Moretti) presenta forti accenti prokofieviani che alternano toni drammatici e toni grotteschi o ironici. Sono tante le canzoni che affollano il cinema di Nanni Moretti. Da quelle canticchiate dallo stesso Moretti, come quella del «ragazzo fortunato» alla canzone di Bruce Springsteen, che interrompe per intensità emotiva, una delle sequenze della partita di pallanuoto di Palombella rossa. Essa s’inserisce improvvisamente nella scena provocando nel pubblico e nei giocatori una suggestione ipnotica che vorrebbe replicare la seduzione di massa durante i concerti. Perfino le parole della canzone di Bruno Lauzi «ti senti sola con la tua libertà…», udite nella sequenza del ballo nella terrazza di casa su cui è improvvisamente calata l’infelicità in La messa è finita, rimandano ad un disimpegno programmatico, ad una leggerezza da tutti ormai condivisa, da contrapporre alla malinconia e finanche all’idea della morte. (v. Ballo)

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Case «Che bello sarebbe un film fatto solo di case…». Con quella che sembra una vera e propria dichiarazione d’intenti, Moretti apre il suo Caro diario, in cui l’apertura In Vespa, risulterebbe quasi il work in progress oppure l’abbozzo di un film che non si farà mai. L’attrazione morettiana per l’edilizia ancor prima che l’architettura in senso stretto, non è concentrata principalmente sui quartieri della capitale, ma sull’edilizia popolare o borghese, non sull’architettura romana monumentale e nemmeno quella medievale o rinascimentale o barocca. Insomma, nella visione morettiana dell’ambiente urbano vi è una sorta di verità del vivere quotidiano. Moretti si confronta con il proprio secolo, volutamente ignorando la Roma storica dei vicoli e delle strade monumentali, con l’eccezione assai curiosa, di un antico ponte sul Tevere che egli deve attraversare almeno due volte al giorno. Ma che tipo di rapporto si instaura tra Moretti e le case di Roma? Il suo sguardo è quello di un «viaggiatore» curioso, (dentro e fuori le mura), come ve ne sono stati numerosi nel passato ma anche nel presente, di volumi, stili, forme, colori. Ma è pur sempre lo sguardo di «uno che passa», registrando un’emozione non chiarita né espressa attraverso la parola. Moretti compie lunghe panoramiche da quartiere a quartiere, quindi da edilizia a edilizia. Comincia dai quartieri «borghesi»come Monteverde dove si sofferma, in compagnia di Silvia, su un palazzo signorile degli anni Quaranta, ma il suo occhio è rivolto all’attico …! Passando in rassegna palazzi su palazzi che «i proprietari non hanno nessuna intenzione di vendere», fino ai quartieri popolari in successione temporale rispetto all’anno di costruzione. Anche in questo caso, vediamo facciate e ancora facciate di palazzoni in cemento armato, quasi a voler sottolineare una continuità edilizia basata sullo stesso principio di disumanizzazione dell’uomo. Fino al breve e un po’ caricaturale episodio di Spinaceto, uno di quei posti dove nessuno vorrebbe andare e da dove tutti vorrebbero scappare. 30

Il regista vorrebbe ogni tanto vedere anche gli interni delle case ma questo nel film non accade mai. Volutamente. Il movimento di macchina preferito è, infatti, la panoramica. Dall’osservatorio, per così dire adolescenziale, privilegiato della vespa. Ma nonostante le premesse, il suo sguardo non riesce mai a porsi oltre la superficie delle cose; in altre parole esso non va a scoprire cosa c’è oltre le apparenze, oltre le facciate murarie, oltre gli stili, e neppure sa indagare, fatto importante, sulla relazione tra gli edifici e le persone che vi abitano. Ma questo forse è un film che non vedremo mai, che, certamente, continueremo ad immaginare… (v. Roma)

Cinema A differenza dei registi della Nouvelle Vague come Jean Luc Godard, François Truffaut, Claude Chabrol e Louis Malle, che provenivano dalla critica militante, Nanni Moretti scopre il cinema facendolo dapprima a livello puramente amatoriale (con il mitico super 8), e successivamente a livello professionale. Neppure nelle requisitorie velleitarie di Io sono un autarchico contro il cinema dei «padri» che hanno ormai tradito, che non sanno più raccontare il proprio presente, ma ancor più specificamente contro Lina Wertmüller, autrice di Mimì metallurgico ferito nell’onore e altri film di successo, che proprio in quello stesso anno, il 1976, realizzava Pasqualino Settebellezze, egli, suo malgrado, agisce da critico o tutt’al più reagisce da regista esordiente, da autore, ma soprattutto da narcisista che non vede altro che se stesso nell’”asfittico” panorama del cinema italiano della fine degli anni settanta. A testimonianza di ciò, si osservi la sequenza in cui dalla bocca di Nanni fuoriesce uno strano liquido verde che dovrebbe essere bile, allorchè gli viene detto da un amico che l’università di Berkley negli Stati Uniti aveva concesso alla stessa Wertmuller 31

una cattedra di cinema. Un gesto di puro goliardismo, come si confà, del resto ad un’opera come Io sono un autarchico, tuttavia nel disquisire intorno al tanto vituperato «Le cinéma de papa», i cineasti francesi dimostravano di possedere ben altre qualità d’argomentazione. Meglio i b-movies, egli afferma, citando Ugo Liberatore, e quel suo, ormai del tutto dimenticato Incontro d’amore–Bali, con una bellissima e conturbante Laura Antonelli, ricordandosene molti anni dopo, in Il caimano, dove l’apologia del cinema nostrano di serie B è affidata, guarda caso, ad un critico, Tatti Sanguineti. Ma già nel primo episodio di Caro diario, Moretti se la prende con l’autobiografismo post-sessantottino, quello, per intenderci, degli ultra quarantenni decadenti e inclini all’autocommiserazione, in preda a forti emicranie, insonnie e sensi di colpa per non aver saputo cambiare il mondo ma certamente far carriera, inventando perfino un frammento di cinema che ne metta retoricamente in ridicolo i comportamenti. È qui dunque, al culmine della propria autocelebrazione, che egli si autodefinirà, un “splendido quarantenne!”. (v. Citazioni)

Cinema diretto Praticato da Moretti con soave disinvoltura con la cinecamera che lo segue per le strade di Roma e lungo il periplo delle isole siciliane senza mai lasciarlo un momento. Inventato negli anni sessanta dai cineasti francesi, Chris Marker e Jean Rouch fra i primi, svela appieno l’uomo Moretti alle prese con le proprie ossessioni, l’”invenzione” della malattia (tanto più reale quanto condotta sul filo della ricostruzione) e del vagabondaggio dentro e fuori i confini della città dove ogni singolo episodio sembra effettivamente rispondere ad una curiosità, a un desiderio o ad una ossessione declinati in prima persona singolare. (v. Cinema) 32

Citazioni Pur tenendosi sempre piuttosto equidistante dal cosiddetto citazionismo post-moderno, così diffuso all’epoca del suo esordio sulla scena cinematografica, Moretti non disdegna talvolta farne un uso funzionale al proprio discorso sul cinema. Lo si può vedere, ad esempio, in Io sono un autarchico, quando il protagonista, aspirante regista indipendente, vomita bile al solo udire l’elenco dei film presentati a Venezia in quell’anno, Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmüller e L’Innocente di Luchino Visconti, da lui evidentemente ritenuti indegni di rappresentare il nuovo. Ed è infatti l’ansia di rinnovamento del cinema italiano che circolava nell’aria intorno alla fine degli anni Settanta, di cui Moretti volle farsi interprete, sentendosi come un capofila di una sia pur esigua schiera di futuri autori, a generare quel clima di querelle (come vedemmo nel decennio precedente) e di provocazione nei confronti di un cinema che, a detta di Moretti e dei suoi fan (che più tardi sarebbero diventati numerosi), non potevano che rappresentare una regressione innanzitutto in termini di stile. Con altrettanta evidenza, a più di trent’anni di distanza, ritroviamo in Il caimano, il gusto della provocazione nel tentativo, certo non esente da forzature, di fare un’apologia del B o dello Z-movie nostrani, tuttavia attraverso la mediazione di un critico vero, Tatti Sanguineti, in una sequenza quasi da mockumentary. Al di là di questo semplice e un po’ sarcastico citazionismo, ritroviamo in Moretti un più profondo riferimento al cinema degli altri, in questo caso quello di Federico Fellini, nella sua opera più sincera e compiuta, Ecce bombo. Vi è un’evidente comparazione tra la carcassa dell’animale marino trovata da Marcello Mastroianni nella sequenza finale di La dolce vita e il sole che sorge sulla spiaggia di Ostia, alle spalle dei cinque amici e non di fronte come essi avrebbero voluto. Entrambi, infatti, rappresentano una sorta di improvviso 33

spiazzamento, due corpi estranei alla logica e all’attesa di ciascuno, rivelanti l’inadeguatezza dello sguardo di Marcello e dei cinque amici di fronte alla casualità degli accadimenti umani, del non previsto e prevedibile nel triste e ripetitivo copione della vita. (v. Cinema)

Commedia all’italiana L’autarchico Moretti ai suoi esordi nel lungometraggio se la prende con la commedia all’italiana facendo Lina Wertmüller oggetto di scherno. Chi non rammenta la famosa sequenza in cui alla notizia di un probabile incarico della regista siciliana all’università di Berkeley, il protagonista Moretti ha un improvviso conato di bile verdastra? Accade che all’indomani dell’uscita del film, durante un «duello» televisivo tra il giovane Moretti promettente regista e il decano del cinema italiano Mario Monicelli, condotto dallo scrittore Alberto Arbasino, lo stesso Monicelli dichiarasse che Io sono un autarchico fosse anch’esso una commedia. Insomma, anche l’esordiente indipendente Nanni Moretti, in fondo, pagava il proprio tributo, sebbene in modo del tutto personale, al genere italiano per eccellenza, capace a un tempo di essere sferzante satira di costume e banale prodotto d’intrattenimento. Nel caso del regista romano, né l’una né l’altra cosa; la sua è commedia malinconica e umorale, improntata a forte e narcisistico autobiografismo. Insomma, l’allora ventiquattrenne Moretti si mostrava deciso a rinnovare il cinema italiano nell’accezione più ampia che non semplicemente la commedia all’italiana. Tuttavia, suo malgrado, egli ha generato un tipo di commedia che possiamo definire «dell’attore-regista», che annovera «autori» come Carlo Verdone, Massimo Troisi, Francesco Nuti e Alessandro Benvenuti. 34

I fan scandalizzati del nostro autore replicherebbero che, al di là della presenza condivisa del regista/attore, a fare la dovuta differenza è la portata innovativa del suo cinema low budget ma solo apparentemente povero e mai veramente tutto ispirato ai codici linguistico estetici del realismo o del cinéma veritè. L’urgenza morettina, subito chiarita con il film successivo a Io sono un autarchico, è quella della comedie humaine o ancor più della commedia morale, laddove all’attore feticcio amato dal pubblico della commedia all’italiana, subentri l’io morettino in forma di Autore-Attore-Regista. (v. Critici)

Critici Paradigma della visione morettiana della critica cinematografica contemporanea è certamente la lunga sequenza del pianto infantile del critico pentito di avere scritto sul noto quotidiano di sinistra «il Manifesto» cose inenarrabili a proposito di un film americano (per Moretti altrettanto inenarrabile) dal titolo emblematico quanto sciocco nella versione italiana, Henry pioggia di sangue di John Mc Naughton. Più che di una singola sequenza, si tratta di un vero e proprio quadretto di costume che in realtà ha inizio in una sala cinematografica romana: mentre il regista guarda a fatica e con evidente fastidio le immagini crude del film (di un realismo brutale, sorta di horror quotidiano che meriterebbe un’analisi a parte, prescindendo, ovviamente, dall’implicito giudizio negativo espresso da Moretti), che si susseguono sul grande schermo, gli torna alla memoria la recensione di un critico che magnificava il film con argomentazioni e linguaggio immaginifici e ancorchè deliranti. Dunque, la memoria di una scrittura sostanzialmente negativa viene identificandosi con quella visiva, al presente, di cui riconosce la medesima negatività. L’una e l’altra, nell’imma35

ginario morettiano, si annullerebbero a vicenda in una sorta di palingenesi, se nella sequenza successiva Moretti non rivelasse il volto del presunto critico, costringendolo a sua volta, nella sua stanza, ad ascoltare in forma punitiva, la lettura per intero della recensione. Qui, infatti, siamo già nel territorio della farsa, ma nel caso di Moretti, consapevole, laddove vi è l’identificazione tra la natura del personaggio (il critico) e della sequenza stessa. Il prevalere del cattivo gusto, diegeticamente, non risparmia neppure lo sguardo filmico del regista che altrove (in Palombella rossa), negava con forza la parola kitsch come qualcosa di profondamente fastidioso (come una leziosa civetteria da critici), salvo poi farne abbondantemente uso in tutto il suo cinema. Si potrà forse obiettare, e con giusta ragione, che sia soprattutto la parola kitsch a irritare Moretti e non il suo reale contenuto. Questa potrebbe rappresentare una delle chiavi di lettura del suo cinema, tra i più soggettivi e quindi narcisistici, ma anche tra i più sopravvalutati che attualmente si conoscano. In un’epoca come questa, in cui impavidi assistiamo al declino del pensiero critico, e come sua legittima conseguenza, al discredito della funzione intellettuale del critico, (peraltro ridotta a semplice informazione e promozione di consenso), la satira morettiana, o meglio, la sfida di Moretti all’arroganza di certa critica militante (come quella da sempre praticata sul quotidiano «il Manifesto»), potrebbe forse apparire un attacco frontale alla stessa categoria dei critici nella loro totalità, ma non è così: egli fortunatamente non appartiene alla generazione che nel cedere alle lusinghe populiste e alla falsa democrazia della rete, ha decretato la morte della critica in nome di una presunta soggettività bastante, da sola, a definire il valore di un film. Infatti, il cinema di Moretti, al di là dei suoi limiti, si rivela improntato su di un pensiero critico che più spesso si fa politico, ma che tuttavia resta impigliato nella propria proverbiale ipersoggettività. (v. Commedia all’italiana ) 36

D Diario Di questa pratica tipicamente adolescenziale ma che in molti casi si protrae anche in età adulta, tanto da aver generato un vero e proprio genere letterario, Moretti ripropone tutto il candore e l’apparente innocenza. Tuttavia nei diari si raccontano i pensieri più intimi e si scrive anche ciò che non si oserebbe dire in un romanzo. Caro diario, riporta all’attenzione una forma intima di scrittura che lo schermo non può che amplificare dando ancor più rilevanza al proprio autore. Si può quindi affermare che la forma-diario si addica ad una personalità come quella di Moretti. Con una semplice struttura episodica tripartita, egli può facilmente giungere ad una articolazione separata dell’intera materia: nei tre episodi, prevale comunque l’idea del movimento, dello spostamento verso mete «altre» rispetto ai luoghi quotidiani. In realtà In vespa e Isole si presentano piuttosto come un duplice periplo urbano e marittimo, tra insulae metropolitane e isole reali. Nel primo, quasi un manifesto della poetica morettiana, il sogno di un «film fatto solo di case», cede alle facili seduzioni offerte dalle figurette incontrate lungo la strada: presenze più che personaggi in carne e ossa. Tutto viene accuratamente annotato su un quaderno, tutto scivola via nella calura estiva, perfino il ridicolo pianto di pentimento del critico de «il Manifesto», reo di avere scritto parole impronunciabili su un film a suo dire inguardabile come Henry pioggia di sangue. Ma la leggerezza morettiana, quel suo procedere rapido e 37

sbarazzino, attraverso i quartieri romani sembrano tesi a rincorrere un epilogo necessario, dopo tante facezie in un non luogo che la città ha come respinto, come se in alcun modo le appartenesse. Proprio come l’eredità del grande poeta Pasolini. Nel secondo, Moretti sembra voler seguire un diverso percorso: ponendo, innanzitutto, al centro del microracconto, l’impossibile ricerca di concentrazione da parte dello stesso protagonista, e al contempo situando i personaggi (dall’amico letterato ai diversi personaggi secondari), in una posizione decisamente subalterna. Neppure il paesaggio sembra particolarmente interessarlo: perfino la suggestiva bellezza del cratere del vulcano di Stromboli diventa il pretesto per una sequenza di puro horror vacui, parola contro cui si scaglia Michele Apicella, nella sua requisitoria sul cattivo linguaggio in Palombella rossa. Ad eccezione forse, di due singoli frammenti in cui il regista si trova faccia a faccia con il paesaggio isolano con i suoi silenzi sospesi, è una sorta di premeditata e gentile indifferenza a segnare il passaggio del protagonista Moretti, viaggiatore controvoglia, quasi che tutto ciò che avviene intorno a sé abbia un senso o esiste solo se è scritto nel proprio diario. Con il terzo, Medici, il distacco da qualsiasi soggetto che non sia lo stesso Moretti, è definitivamente compiuto. Vero centro d’attrazione, la malattia del regista, meticolosamente ricostruita come in un vero e proprio mockumentary (falso documentario, come piacerebbe a Orson Welles), con tanto di medici inetti (tra i quali l’amico poeta Valerio Magrelli) e di farmaci inutili. Al centro, un Moretti perplesso, tormentato da un prurito cutaneo, che annota tutti i nomi dei farmaci incriminati perché inutili e dannosi. (v. Case, v. Critici)

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Donne Parlare di universo femminile nel cinema morettiano potrebbe risultare arduo e difficile, tuttavia vi emergono qua là figure non trascurabili. A cominciare dalla giovane donna sola e infelice, che tutti vorrebbero andare a consolare, in un sabato sera come tanti, sebbene, alla fine, non vi andrà nessuno ad eccezione di “Michele”-Moretti, nell’ultima, mesta sequenza di Ecce bombo. In realtà il primo personaggio femminile affacciatosi al monocorde e maschile universo morettino è Bianca, nel film omonimo, un’insegnante romana, collega di lavoro di Michele, il quale, dopo un goffo tentativo di avvicinamento al sesso femminile, trasforma la propria frustrazione e inadeguatezza ai rapporti di coppia in istinto omicida. Emerge con chiarezza che per il protagonista, eterno alter ego del regista, altri non vi è che la figura della propria madre, la cui fondamentale presenza sarà evidente in La messa è finita, e a cui si riversa tutto l’amore del figlio, il sacerdote idealista e infelice che si rifiuta di accettare la morte della madre, sognando di trasformare la messa del suo funerale in un ballo gioioso. Ma c’è anche la bella figura della sorella del sacerdote, di carattere timido e forte allo stesso tempo, fragile ma determinata, nella quale si sommano il femminile e il familiare. Del secondo elemento Moretti darà un’interpretazione per così dire letterale quando scelse la stessa madre (scomparsa nel 2010), come interlocutrice in quello che possiamo ritenere una sorta di docu-fiction personale, ossia Aprile. Ma è propriamente nell’estate romana di Ecce bombo che Moretti tenta un bilancio dei suoi amori, provando a mettersi a confronto, perciò a nudo, con l’altro sesso. E lo fa con la consueta svogliatezza che tuttavia non esclude elementi di curiosità e di inevitabile noia. Ne emerge, ad esempio, il ritratto di una giovane donna che in un prato di periferia, nel confrontarsi con il protagonista, rivela un candore quasi sognante, che sembra 39

proiettato più in un passato hippie che in un presente incerto e di riflusso. Alla domanda: che cosa fai? Ella risponde così: «faccio cose, vedo gente… ». Nel medesimo film, vediamo innanzitutto il protagonista abbozzare una relazione amorosa con la ragazza di uno degli amici (versione post-sessantottina dei vitelloni felliniani); si tratta del tributo morettiano alla sociologia corrente che poneva al centro le dinamiche di coppia nel maldestro tentativo di sovvertirne i principi, capovolgendone le logiche quali, ad esempio, la fedeltà e il tradimento. In altre parole, il mettere tutto in comune, perfino gli affetti. (v. Edipo, Madre)

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E Eros Per la sua scarsa propensione alla rappresentazione dell’erotismo, il cinema morettiano è figlio del riflusso dei tardi anni Settanta e altresì del presente, dell’oggi. Tempo in cui non si censura più come in quelli di massima esposizione di corpi nudi e di atti sessuali, ma al contrario, si preferisce ignorare l’eros e la sessualità nell’immaginario filmico, o, quando è possibile, deriderne i film e gli autori, come è accaduto recentemente, ad esempio, con l’opera del regista danese Lars von Trier, Antichrist. Una vera e propria crociata silenziosa, tanto agguerrita quanto ipocrita, ha bandito il sesso non come qualcosa di scandaloso e quindi di inaccettabile (come avveniva negli anni settanta), ma come elemento inutile e disturbante, reperto del passato. Quasi che esso non abbia più alcun titolo per essere parte della fenomenologia umana e quindi di quella cinematografica. Solo in una breve sequenza di La stanza del figlio, sembra che il regista voglia finalmente concedersi qualche libertà, offrendo allo spettatore la visione del seno di Laura Morante, come gesto per così dire, autoliberatorio, quindi autoreferenziale e alieno da qualsivoglia espressione di erotismo. Quello di Moretti è forse tra gli esempi più significativi di cinema in cui la dimensione erotica è quasi del tutto assente Ossia ciò che è del tutto superfluo vedere.

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Estremismo Quasi si ponesse in completa sintonia con il famoso pamphlet di Lenin L’ estremismo, malattia infantile del comunismo, scritto nel 1920, Moretti non perde l’occasione per ribadire il proprio dissenso rispetto a quei comportamenti politici (così frequenti nella generazione degli anni settanta), fondati sulla demonizzazione e perfino sull’eliminazione fisica dell’avversario. Estremizzare una posizione critica verso una forza politica o una qualsiasi entità definita, significa per il regista romano, porvisi di fronte in qualità di giudici definitivi. In questo suo umanesimo sociale, egli intravede la necessità di salvare l’uomo rispetto all’ideologia professata. E infatti, egli in Il caimano, si veste perfino dei panni dell’odiato Silvio Berlusconi, ma soltanto per condividerne lo sguardo beffardo dell’onnipotenza. È questa una delle sequenze più ambigue dell’intero cinema di Nanni Moretti. Perché calarsi, solamente nell’epilogo del film, nella parte di un personaggio verso cui il regista ebbe solamente giudizi impietosi? Per semplice mimetismo? O perché per misurarsi con un vincente bisogna almeno una volta mettersi al suo posto, entrare nel suo ruolo, cercando di comprendere le sue ragioni? Quando Moretti, nel primo episodio di Caro diario, prende le distanze dalla sua generazione, interrogandosi perfino su cosa quella parola significhi per lui, lo fa consapevolmente non riconoscendone non solo debolezze e trasformismi ma anche, come è ovvio, tutto l’estremismo di cui è stata indubbiamente artefice. A dimostrazione di ciò, vale per tutte la sequenza di Palombella rossa, in cui Michele Apicella, quasi vergognandosi di un episodio politico avvenuto in gioventù (l’esposizione di uno studente fascista ad una sorta di pubblica gogna a basi di sputi e spintoni), a un certo punto si chiede: «… Ma abbiamo veramente fatto tutto questo? E io c’ero? C’ero anch’io?» 42

Un’altra inconfutabile prova della sua critica all’estremismo ci giunge dal terzo episodio di Caro diario, intitolato Isole. Nell’attribuire a ciascuna isola delle Eolie, luogo del vagabondaggio morettiano, una valenza simbolica, ad Alicudi egli affida il compito di rappresentare il luogo più impervio, il più estremo, dove ogni narcisismo (uno dei topoi morettiani, evocato nell’episodio in forma di autoassoluzione), è bandito, dove un uomo, uno scrittore (interpretato da Moni Ovadia), si è ritirato per espiare il troppo successo. Ma è con la figura patetica dell’amico che si è ritirato nell’isola più grande, Lipari, per studiare esclusivamente l’opera di James Joyce, che avviene il ribaltamento dialettico delle idee professate da questo personaggio. In altre parole, Moretti gioca col suo personaggio come il gatto con il topo; al principio della narrazione l’uomo esprime il proprio estremismo dichiarando che la televisione è il nulla. Ma le parole non sono sue, sono dello scrittore e intellettuale tedesco Hans Magnus Enzensberger. Sua tuttavia è l’intransigenza che ben presto muterà nel proprio contrario, ovvero nell’apologia delle telenovelas e quindi della televisione al punto di voler abbandonare l’isola «estrema» dove non esistono televisioni. Ed è in questo ultimo passaggio narrativo che la retorica morettiana giunge al punto culminante ma anche al suo esaurimento. Con essa, Moretti sembra voler ammonire sul fatto che ogni estremismo genera inevitabilmente il suo opposto, come a dire, simmetricamente, che ogni rivoluzione genera una reazione, ma questa è pure un’altra storia. E dunque suggerisce una sorta di medietà, di posizione intermedia in costante equilibro fra istanze di progresso e ipotesi riformiste.

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F Famiglia Dall’insofferenza post-sessantottina verso l’ambiente familiare, profusa a piene mani in Ecce bombo, all’apologia familista di La stanza del figlio, esiste un percorso intermedio nel quale il regista prova a misurarsi con quel delicato insieme di relazioni che chiamiamo famiglia e che il sociologo americano Cooper negli anni sessanta definiva istituzione repressiva. Cominciamo da La messa è finita: Nanni Moretti, nel ruolo di sacerdote don Giulio, predilige l’accezione più tradizionalista, ossia il prete con la tonaca nera, armato di una coerenza (principio perseguito in tutto il cinema di Moretti fino a trasformarsi in feticcio), che proprio perché implacabile, ci riporta indietro nel tempo, ad un cattolicesimo militante vissuto tuttavia con miopia e impeto moralistici. Al di là delle singole sequenze in cui questo appare più evidente, in tutto il film si respira un’ortodossia funambolica laddove cerca di ricondurci alla patria delle due grandi fedi, quella cattolica, appunto e quella comunista. Parimenti nel successivo Bianca, il protagonista, professore di matematica, interpretato dallo stesso Moretti, vive la propria solitudine come una malattia, una forma di schizofrenia ammantata di moralismo, anzi esso sembra essere perfino il movente degli omicidi compiuti dal professore fino al patetico monologo sulle scarpe delle donne, osservate attraverso la griglia del seminterrato della polizia. Egli infatti, come un angelo vendicatore, punirà con la morte la coppia sconosciuta che decide di separarsi e quella dei due amici sposati che hanno entrambi liberamente un amante, e infine la sua stessa fidanzata e collega. Ma che cosa ha voluto dirci Moretti nel 44

mettere in scena questo piccolo mostro quotidiano se non che l’estremizzazione della fede in qualsiasi cosa (sia essa morale o materiale), non può spingere un individuo o una collettività alle estreme conseguenze. Tuttavia dietro la metafora del professore assassino, non possiamo almeno non intravedere quell’ambiguità morettina rivelatrice di ossessioni e di problematiche non risolte. Ma è con il film veritè Aprile che viene chiarendosi il rapporto dell’autore con la dimensione che gli preme raccontare più di ogni altra: la famiglia, non più inventata ma la sua, con moglie Silvia e figlio, il piccolo Pietro che vediamo nascere e muovere i primi passi. Ma vediamo soprattutto il neo padre Moretti, scegliere, tra una lista di nomi, quello del bambino che nascerà, auscultare il ventre di Silvia, agitarsi durante il parto, in ospedale, con un incongruo, forse autoironico tazebao in difesa delle partorienti, oppure lo vediamo giocare e giocare con il figlioletto. E infine la madre (che nella vita reale porta il cognome di Apicella…), figura molto amata dall’autore, cui confida il proprio smarrimento dopo i risultati elettorali che danno la vittoria al partito di Silvio Berlusconi, consolandosi poi con una gigantesca canna oppure ascoltando il suo racconto sulla propria infanzia sullo sfondo di un bel boschetto laziale. Insomma, quale altro ritratto familista e autoconsolatorio si è rivelato più efficace di questo fornitoci da un Moretti che ha ormai da lungo tempo rinunciato a sognare ad un mondo migliore! Con Il Caimano, tuttavia, l’operazione si fa più complessa e ambigua; l’uso del doppio registro narrativo (descrizione familiare di un matrimonio fallito e invettiva contro Berlusconi e il suo potere), si rivela piuttosto un escamotage per l’impossibilità di affrontare in maniera più diretta e complessa la questione berlusconiana come «problema di un intero paese». Quindi imbastisce una storiella di frustrazione artistica e familiare con profusione a piene mani di tutti i luoghi comuni del genere (per niente distinguendosi da qualsiasi prodotto 45

medio italiano, ossia la nuova commedia italiana), che gli permette ugualmente di approdare a quel finale «incendiario» (che è tutt’ora vanto di tutti gli antiberlusconiani) ma che non convince proprio perché imposto senza la minima coerenza logica e al tempo stesso per la pretesa identificazione di Moretti stesso nel caimano che facendo di tale sequenza una vera e propria scena madre, ne sminuisce il significato reale e politico. E veniamo dunque all’apoteosi del ruolo della famiglia nel cinema morettiano. Il regista immagina la classica famiglia media italiana di taglio professionistico (lui psicanalista, lei invece titolare di una piccola casa editrice), tuttavia il suo sguardo è quello di un piccolo borghese che si preoccupa che tutto funzioni secondo un copione già scritto, o un modello che è più facile ritrovare in un’indagine doxa di un quotidiano o in una sit-com che in un’opera di invenzione. Poi il meraviglioso e conformistico equilibrio si spezza, va in frantumi (e qui Moretti non risparmia al pubblico neppure la banalità retorica della tazzina sbeccata del servizio buono…), con la morte del figlio di cui il padre sente se non la colpa, almeno la responsabilità morale. E dunque si affollano immagini su immagini dove il vuoto esistenziale e sostanziale è puro ricatto della pietà e dei sentimenti che ognuno porta con sé di fronte alla morte di una persona cara. Infine, la cosiddetta elaborazione del lutto, diventata, grazie al successo popolare del film, un vero e proprio tormentone per gli psicologi o presunti tali. Sembra proprio che ad accompagnare il percorso filmico oltre a determinarne il centro, sia stato un semplice imperativo: non fare, dire o mostrare niente che si discosti dall’idea che un italiano medio conserva di se stesso e della propria relazione con persone, affetti e cose. (v. Figli)

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Festival Abitualmente tenuto in gran conto e quindi premiato nei festival internazionali, Moretti vanta da sempre, come suo costume, di essere particolarmente amato in Francia, quindi dai francesi, e in particolar modo nel massimo tempio festivaliero oltralpe cioè a Cannes, dove ottenne la palma con Caro diario (dove era sin troppo chiara la sensibilità francese verso il cinema diretto e autobiografico). Ciò che maggiormente colpisce nell’ultima edizione del 2015 è innanzitutto la consapevolezza da parte dello stesso Moretti, di essere dunque favorito anche rispetto agli altri due film italiani in concorso, Youth di Garrone e Il racconto dei racconti di Sorrentino. Così il pubblico e buona parte della stampa italiana. Che già si preparava a celebrare, nella vittoria di Moretti, il prodotto italiano più prestigioso, di bandiera come è stato più volte scritto sul più importante quotidiano italiano, inseguendo un’ormai trita metafora sportiva. Ma possono davvero bastare 10 minuti di applausi del pubblico per assicurarsi la Palma d’oro? Evidentemente la risposta è no. Ma anziché gioire della scelta coraggiosa da parte di una giuria presieduta dai fratelli Coen, di premiare un’opera dai forti connotati politici e sociali come quella di Jacques Audiard, e per i premi minori, un’opera prima ungherese e un regista cinese, (Xiao Xian), la suddetta stampa si precipita in una difesa più che del cinema italiano, del prodotto italiano a suo dire destinato a vincere proprio perché italiano e perché osannato dal grande pubblico. Con quali argomentazioni se non il cinismo sottile di chi intende proporre e imporre una nuova visione di cinema inquadrabile in una più ampia dimensione di mercato globale dove, inevitabilmente, il giudizio del pubblico acquista un’inedita e inaudita autorità divenendo perfino totalizzante, se non totalitario, a colmare il vuoto di una critica del cinema ormai desautorata e delegittimata nella propria funzione giudicante, ad eccezione di quando si trasforma in macchina promozionale per il consenso di massa. 47

In altre parole, ciò che piace al grande pubblico è grande e ciò che è grande dovrà necessariamente essere premiato.

Figli Prima di giungere alla figura filiale compiuta di La stanza del figlio e allo psicodramma familiare creato intorno ad esso, Moretti prova ad essere il figlio moderatamente ribelle di Ecce bombo, colui che affronta con violenza il proprio padre accusandolo di essere debole e mediocre, oppure il sacerdote di La messa è finita, che moralisticamente rinfaccia al padre di avere abbandonato la famiglia per inseguire il sogno illusorio di un amore giovane. Mentre sul bordo della piscina reale e simbolica di Palombella rossa appare un’improbabile figlia di Michele Apicella, interpretata da Asia Argento, con la quale egli si confronta rivelando la propria immaturità di eterno adolescente. Ma è con La stanza del figlio, opera di molto sopravvalutata, che il regista approda alla riflessione sul significato dell’ essere padre e al tempo stesso sulla perdita del proprio figlio. Nel film a dominare è lo sguardo del padre sull’educazione, sulla crescita più o meno felice del figlio, cui egli insegna, tra le altre cose, il sano istinto della competizione. Ma è proprio l’assenza del figlio che muore per un banale incidente subacqueo, a scatenare la vertigine del vuoto, la resa dei conti di coppia che viene tuttavia taciuta da un sopraggiunto pudore e deviata dalla scoperta di una traccia sentimentale lasciata dal figlio. Il fatto poi che in Aprile Moretti abbia perfino inteso raccontare, non solo i momenti che precedono la nascita del proprio figlio Pietro, ma anche conferma la necessità del regista di continuare a parlare di se stesso proprio attraverso il rapporto con la figura del proprio figlio. Non è difficile, quindi, alla luce di quanto detto, leggere La stanza del figlio come psicodramma sulla paura della perdita e sull’elaborazione del lutto, quella che, secondo Moretti, è certamente la più terribile e inconsolabile, quella di un figlio. (v. Famiglia) 48

G Generazione Il cinema di Moretti spesso procede per scene madri, o se si preferisce, per sequenze divenute col tempo memorabili o di culto. Un esempio tra i più significativi ci è appunto offerto da Caro diario. È estate e in un cinema romano, il regista assiste in completa solitudine, alla proiezione di uno di quei film giovanilisti sulla deriva generazionale (appositamente inventato) in cui i personaggi, tutti più o meno quaranta-cinquantenni, patetiche figure in balia di psicofarmaci e finti sensi di colpa, sembrano, dunque, le controfigure in negativo del gruppo di amici di Ecce bombo. Moretti li osserva come da una distanza siderale, da spettatore orgogliosamente solitario, di un film che non è più il suo o che forse non lo è mai stato. «Voi gridavate cose orrende e violentissime e voi siete abbruttiti. Io gridavo cose giuste e sono uno splendido quarantenne». E con questa perentoria e lapidaria dichiarazione a fil di Vespa, ecco che Moretti si scrolla di dosso non tanto il suo passato, proprio perché suo è quindi da proteggere come autentico e giusto, quanto il passato politico degli «altri», ossia dei «compagni che hanno sbagliato», all’unisono con il luogo comune più diffuso nell’allora Partito comunista. Sua, inoltre, è la domanda su cosa sia stata veramente la sua generazione. E infatti, dopo un esordio e un film successivo all’insegna dello spirito generazionale, l’uomo e il regista Moretti prende progressivamente le distanze da quel ruolo diviso tra realtà e finzione cinematografica, per assumere via via un comportamento fortemente individualizzato che egli esem49

plificherà nei ritratti delle opere successive, dove emerge fin troppo chiaramente l’intento o la volontà di creare figure tra loro speculari e riconducibili a semplici variazioni su un unico tema, ossia dell’io morettiano fattosi cinema. (v. Sessantotto)

Giornalismo «Noi dobbiamo combattere il giornalismo, le parole sbagliate…. perché le parole sono importanti!…». Così si esprimeva Michele Apicella, durante la partita di pallavolo lunga tutto un film (o quasi) in Palombella rossa. Tuttavia in altre opere, il ritaglio di giornale o il vecchio numero di settimanale, ossia la testimonianza testuale di ciò che abbiamo lasciato alle spalle, diventa residuo ed archivio potente di memoria storica di un’Italia che spesso fatichiamo perfino a riconoscere. È quasi pleonastico il ricorrere alla sequenza dell’artificio della coperta fatta di giornali in Aprile, che in fondo, se osservato con attenzione, ci riporta simmetricamente indietro a Palombella rossa: la somma di tutti i ritagli di giornali è uguale a zero, dunque utile soltanto per coprirsi!

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I Impegno politico Se guardiamo con attenzione un film come Palombella rossa, scopriamo la presenza di due opzioni politiche diverse e contrapposte ma che in realtà potrebbero rappresentare le due fasi epocali di un unico tracciato politico individuale e collettivo. Partiamo dunque dalla prima che Moretti enuclea attraverso l’uso di materiale filmico in super 8 che precede il suo esordio nel lungometraggio. In esso scopriamo un Moretti giovane, con lunghi baffi da militante extraparlamentare, durante “una campagna elettorale di qualche anno fa”, alle prese con la diffusione del giornale del movimento. Ma la visita ad un compagno si rivela vana dal momento che quest’ultimo non è in casa ma al lavoro. Moretti getta a terra con disperata rinuncia il plico di giornali e scappa via. Qui è ben visibile lo iato incolmabile tra lo studente militante e il lavoratore. Una delle contraddizioni irrisolte del ’68. Nel frammento seguente, vediamo ancora il giovane Moretti dialogare di massimi sistemi politici con un altro compagno finchè, all’improvvisa battuta di Moretti: «ma in fondo che ci importa a noi delle masse?!», egli viene colpito da un tremendo ceffone che lo fa ruzzolare a terra. È dunque questo, il vero momento di rottura tra l’individualismo del giovane Moretti e il dogmatismo militante rivoluzionario. Esso verrebbe per così dire, riesumato dall’oblio della memoria come contraltare (ma ciò è puramente illusorio), con l’immagine di Michele Apicella-Moretti onorevole comunista e uomo politico-spettacolo, anch’essa, tuttavia, fatta oggetto di una sorta di rimozione temporanea, (dovuta ad un incidente di cui è vittima il protagonista, posto come incipit del film). 51

Significativa appare anche questa «dimenticanza ulteriore» della politica che sembra contraddistinguere la visione morettiana del presente (fatto salvo poi, per il suo impegno reale con il movimento dei girotondi, ossia del radicalismo della bontà, esauritosi peraltro in poche stagioni). Visione, si diceva, che trova un’ulteriore conferma in Aprile, nell’episodio riguardante l’eventualità di filmare da parte del regista e dei suoi collaboratori, la campagna elettorale del 1994. Per Moretti si tratta di un “impegno controvoglia” per citare un famoso pamphlet di Alberto Moravia, a cui, dunque, egli verrà meno per la sfiducia sopraggiunta per i destini della politica ufficiale, in un paese che non promette più di quanto non mantenga. Lo vedremo tuttavia filmare la regata storica della Lega Nord a Venezia che inaugura la nascita virtuale della «Padania» (come si vede ci troviamo in un altro ma assai più brutto film), oppure la nave colma di immigrati in arrivo sulle coste pugliesi, (la stessa che il regista Andrea Segre filmerà in Mare chiuso, 2013). Impegno civile, ansia di documentare il reale e l’esistente a cui aderire o resistere, non importa. È l’uomo e il regista Moretti questa volta a tentare di mettersi in gioco, più che in Caro diario ma tuttavia senza il ricorso all’invenzione poetica dell’arcipelago delle isole simboliche dove ciascuno pensa in cuor suo di essere meglio degli altri. (v. Campagne elettorali)

Infanzia A margine di una piscina dove si sta giocando una partita di pallanuoto che pare infinita ma che in realtà si risolve con una doppia, simbolica sconfitta, quella di Michele ApicellaMoretti e del Partito Comunista Italiano, il regista romano costruisce il monumento alla propria infanzia felice e al tempo che fugge. «Non torneranno più le merendine al pomeriggio!…», Michele grida disperato in un momento di pausa lungo quella piscina dove si gioca il match della sua vita. È il 52

momento più intenso di quella nostalgia che rivela l’inadattabilità delle idee ad un presente sempre più ostile, diviso tra incertezza e vacuità. E dunque non resta che rifugiarsi nella irresponsabilità beata dell’infanzia. Questo Moretti lo sa e lo ha messo in scena come se stesse realmente vivendolo. Ma se la sua ispirazione si rivela piuttosto felice nella sequenza in cui Michele bambino, sofferente per il peso di una borsa sportiva che sembra più grande di lui, cammina lungo la passeggiata di Nervi, mentre dalla sua stessa voce, apprendiamo del suo pentimento per non aver saputo scegliere un altro sport, la tentazione squisitamente morettiana dell’aneddoto, del quadretto di agiografia familiare, ci regala la programmatica, simpatica banalità della breve sequenza della piscina dove ogni bambino è incitato dal genitore ad essere più bravo degli altri, oppure l’improbabile episodio o favola per bambini inquieti, del furto della torta ai danni del fratellino più piccolo che spinge i genitori di Michele a mandarlo in carcere (!). L’identificazione di Moretti regista con Michele bambino è pressoché totale. Il bambino prepara la valigia con una meticolosità e una malinconia che il regista riconosce proprie. E in particolare nella sequenza successiva, quando egli è già in strada e si sta avviando verso la «giusta» punizione, si accorge di essere rimasto con le ciabatte. «Le ciabatte in strada, noooo!…». È il grido disperato del regista-bambino che farà i conti con la propria inguaribile immaturità adolescenziale. (v. Madre)

Isole Quello che in Caro diario si può definire periplo mediterraneo, altro non è che una costruzione squisitamente simbolica, dove a ciascuna isola raggiunta dai due «amici» in cerca di pace e di concentrazione, corrisponde una precisa valenza politica 53

o filosofica o esistenziale (dalla vacua mondanità di Panarea al rigore quasi ascetico di Alicudi). Moretti «gioca» con le molteplici suggestioni offerte dal fascino turistico paesistico, ma a differenza di Salvatores che ne sfrutta platealmente le suggestioni turistico paesistiche, esso diviene uno spazio neutro, funzionale al discorso morettiano sulla inadeguatezza e parzialità delle ideologie.

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L Laicità È più laico il Moretti di Habemus papam o quello di La messa è finita? Ma il primo, come è ovvio! Ma cosa significa davvero essere laici? Spregiudicati come il ministro Botero di Il portaborse (dietro il quale vi è l’ombra inquietante dei socialisti di craxiana memoria)? Oppure soggetti capaci di dialogare con chicchessia, al di là di tutte le fedi, le chiese e le ideologie come si interroga, un po’ confuso e perplesso Michele Apicella in Palombella rossa? Eppure senza eticità ogni laicità può davvero risultare insufficiente a creare una società nuova con soggetti umanamente e socialmente più civili. È questo uno dei temi cruciali su cui si fonde tutto il cinema di Nanni Moretti. Peccato che il modello da lui stesso proposto non vada molto più al di là di un moralismo di maniera (i cui vertici sono certamente rappresentati da La messa è finita, con quella patetica figura del giovane sacerdote e da Il caimano, il momento più basso, lo ribadiamo, dell’intero cinema di Moretti, dove un antiberlusconismo tanto più ostentato quanto politicamente superficiale (tanto quanto lo è la protagonista femminile), vorrebbe costituire l’ossatura di una storiella che vede protagonista un povero regista di film di serie B che all’improvviso si ritrova antiberlusconiano per amore di una giovane aspirante regista. Ma il film che non faranno mai sul «venditore di sogni fasulli di Arcore», è in realtà la summa di tutti i luoghi comuni sull’infausto personaggio e sulle sue malefatte. 55

Libri Afferma con toni sprezzanti il ministro Botero (interpretato dallo stesso Moretti) al suo portaborse, che è un uomo di lettere «io non ho mai letto un libro, al massimo le prefazioni o i risvolti di copertina». Più avanti, egli esprime il proprio disprezzo di uomo di potere nei confronti dei poeti, allorchè gli viene chiesto di proporre un vitalizio per un grande poeta povero. Sua però è anche ipocritamente l’apologia della poesia di fronte al pubblico che commemora in chiesa il poeta morto suicida poco dopo per troppa solitudine. In La messa è finita, il giovane sacerdote-Moretti redarguisce con altrettanta arroganza la giovane amante del padre, nell’osservare che il libro che la donna ha sul comodino, ha un segnalibro nelle prime pagine, segno questo, che egli traduce in totale incapacità di portare a termine la lettura del libro o in un meccanismo subdolamente elementare per svilire il personaggio che ha davanti a sé. Mentre l’uomo e regista Moretti, in Aprile, nello «sponsorizzare» il notissimo scrittore israeliano Abraham Yehoshua, durante una conversazione sul terrazzo di casa con la moglie Silvia, ne lamenta l’eccessiva lunghezza del volume, non rinunciando, quindi, alla consueta autoironia. Sempre di più i personaggi del cinema di Moretti si somigliano per somigliare infine al proprio creatore Nanni Moretti.

Lutto Dopo La stanza del figlio, ingiustamente premiato con la Palma d’oro al festival di Cannes nel 2001, si è cominciato a usare e nel contempo, ad abusare della seguente espressione: elaborare il lutto. Ma che cosa significa subire un lutto ed elaborarlo? Farsene una ragione, forse?! Non per il protagonista del film, un’altra e meno felice incarnazione della maschera morettiana, che invece, non trova una sola ragione che possa 56

placare la sua rabbia silenziosa, più che la disperazione. Ripercorre con cieca ostinazione la dinamica accidentale della tragedia, sognando un diverso ordine delle cose, dei fatti, in un ossessivo flash back mentale fatto di se e di ma, tuttavia vano nel proporsi come tentativo di scacciare i propri fantasmi. Ecco un primo tentativo di elaborazione del lutto. Definizione decisamente infelice, uscita dal vasto armamentario della psicologia. Ciò che tuttavia, maggiormente disturba nel film, è la volontà di contrapporre alla morte la famiglia, non una famiglia reale, qualsiasi, ma la famiglia con la F maiuscola. Ossia una famiglia media italiana, regolare, perfetta, molto televisiva, tanto da sembrare uscita da un reality. Se la morte di una persona cara fa paura, altrettanto terribile è ingabbiare la realtà dentro un contenitore vuoto. Ogni cosa si muove secondo un cliché di decoro piccoloborghese, di equilibro e di professionismo impeccabili, fino al momento della morte del figlio. Quasi a voler rendere la morte ancora più odiosa e inaccettabile. Forse l’urgenza di Moretti era quella di far giungere a tutti, proprio a tutti, fino a suscitare le lacrime, il messaggio di una vita spezzata, di una famiglia spezzata, proprio come la brocca di ceramica scoperta per caso frugando tra gli oggetti quotidiani. L’arrivo della fidanzatina del figlio si rivela il vero strumento per elaborare il lutto e allontanare da se stessi l’idea della morte. Ma in questo caso è la famiglia stessa ad essere già morta. È forse nel rapporto medico paziente (Moretti è un affermato psicanalista), con il rifiuto dell’analista, sconvolto dalla morte del figlio, di proseguire la terapia, che il regista romano sembra ritrovare un differente, più auspicabile rapporto con il reale.

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M Madri Prima di realizzare il film sulla madre, scomparsa da qualche anno, che fin dal titolo reca impressa la sua presenza, Mia madre, Moretti si trovò sempre sospeso tra l’idea filmica della Madre appunto, la propria, Agata Apicella, insegnante di lettere antiche, ripresa dal vero in Aprile, o raccontata nelle finzione in La messa è finita, e quella delle madri, nell’accezione più ampia della parola. Con essa, commenta la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, e per consolarsi si fuma un «cannone». E da essa si fa raccontare di quando era bambino, sullo sfondo del parco della sua infanzia. È un’immagine rassicurante, perchè in tutto il cinema di Moretti scorrono personaggi e immagini rassicuranti. Anche le altre madri, in fondo, sono sempre una, la stessa, che via via si ripropone nelle vite morettiane immaginarie in interni medio borghesi di Ecce bombo e di La messa è finita. In entrambe le opere scopriamo madri affettuose ma sottomesse a mariti un po’ vili e inetti. Nel secondo, il giovane sacerdote Michele, col fare moralistico di un figlio che ha inteso sostituirsi al padre, emette la sua condanna verso colui che, tradendo la propria moglie per una donna molto più giovane, tradisce soprattutto la madre. Come non rimanere emotivamente coinvolti nella sequenza del monologo al cospetto della madre suicida: «Perché l’hai fatto, non potrò mai perdonarti», sono le battute iniziali cui segue la tenera rievocazione dell’infanzia dove la madre (come in Palombella rossa) è una presenza affettuosa e costante che gli farà dire: «chi si occuperà di me?». 58

Coinvolto emotivamente nella morte della madre Agata, durante le riprese di Habemus papam, Moretti avverte la necessità di elaborarne il lutto realizzando un nuovo film dal titolo perentorio Mia madre. È curioso notare come lo stesso La stanza del figlio nascesse da un tentativo di elaborare un lutto immaginario, quello della morte di un figlio maschio. Questi è la trasposizione psicodrammatica della figura del figlio Pietro che oggi ha la medesima età del protagonista. Moretti riavvia con Mia madre il percorso dell’analisi delle proprie paure affidandolo a una messinscena comico drammatica di disarmante semplicità che non sembra proprio essere il vertice di un processo di prosciugamento stilistico o della semplice volontà di giungere al «cuore delle cose», quanto piuttosto una sorte di agiografia del dolore, e dei suoi meccanismi psicologici e intrecci relazionali. In questa sorta di nuova mitobiografia che vorrebbe ricalcare fedelmente la verità degli accadimenti, il regista affida a una donna (Margherita Buy) il proprio ruolo di regista e a se stesso il ruolo del fratello. Significativo, inoltre, il tentativo di prendere distanza dall’io-morettiano presente in Caro diario e in Aprile proponendone una variante al femminile quasi intendesse avvicinarsi ma in punta di piedi a una sensibilità il più possibile vicino a quella materna, mentre in realtà sappiamo che la scelta della Buy viene spiegata dal regista con le seguenti parole: «è molto più brava di me…». Dei tre personaggi in cerca di un autore che non c’è, la madre è il più credibile, sebbene risenta inevitabilmente di quella prevedibilità (tutti i luoghi comuni della malattia sono presenti, compresa la nostalgia per le belle lettere latine), fin troppo manifesta in opere come Il caimano e La stanza del figlio dove c’è poco o nulla dietro la superficie della narrazione e dei personaggi. Al contrario, è l’attore interpretato da John Turturro a dare, con la sua spesso involontaria buffoneria, la misura esatta non solo della goffa inverosimiglianza del ruolo di regista engagé 59

interpretato da Margherita Buy, ma anche della natura profondamente e morettianamente trash del film che si sta girando in contrapposizione alla malattia della madre, sebbene si tratti di un film sullo sciopero di una fabbrica in odore di licenziamenti e di globalizzazione... Si ha come l’impressione, facile a trasformarsi in certezza, che Moretti e lo sceneggiatore Francesco Piccolo abbiano scritto un copione dal quale sembra scaturire una visione standardizzata della malattia e della reazione familiare, più da sociologia di massa che da reale trattamento drammatico. Si dirà, dunque, che nelle poche scarne battute del sacerdote Giulio di La messa è finita, di fronte al corpo senza vita della madre suicida, pur viziate dal consueto egocentrismo che rivelava la natura di travestimento del personaggio-Moretti, vi era più verità sul rapporto figlio-madre e sulla madre stessa che in quest’ultimo, goffamente autobiografico Mia madre.

Malattia Nel terzo episodio di Caro diario, sintomaticamente intitolato Medici, Moretti cerca di liberarsi, sebbene solo in parte, del diaframma che separa il reale dalla sua rappresentazione. Una messa a nudo della propria condizione sofferente che tuttavia nelle sue mani si trasforma in narcisistica requisitoria contro i medici, coloro che dovrebbero guarire le malattie ma che invece contribuiscono al persistere di esse, lasciando gli eventuali pazienti come lo stesso Moretti, nella più imbarazzante confusione. Mettersi in gioco oltre il proprio personaggio, significa andare in fondo alla natura delle immagini, ma Moretti vi giunge ugualmente per mezzo della propria maschera attoriale. Niente cambia quindi sullo schermo. Il prurito persistente generato dal linfoma di Hodgkin (scoperto solo alla fine di un lungo calvario quotidiano), l’ospedale, (dove vediamo effettivamente il regista provato dalla malattia alle prese con la terapia o conversare con infermiere e familiari), la falsa dia60

gnosi di tumore ai polmoni, sono in fondo, gli elementi che compongono una drammaturgia individuale con lieto fine, ossia il trionfo sulla malattia.

Masse «… Ma che ci frega a noi dei desideri delle masse?...», pronuncia un giovanissimo Moretti in una sequenza giustamente famosa di un cortometraggio del 1977, inserita in seguito dallo stesso regista in Palombella rossa. Eresia o semplice trasgressione, la rilettura critica di tale frammento consacra il cammino di un Moretti incline alla messa a nudo di ipocrisie e luoghi comuni e falsi miti della sinistra. Dialettica per formazione, la sua visione delle masse rispecchia, proprio in un film come Palombella rossa, quella del Partito comunista, ossia il grande partito di massa, la grande madre. In quello stesso film il termine masse viene sostituito, sempre secondo l’immaginario del protagonista, con quello di pubblico che, implacabile, a sua volta giudica il giocatore di pallanuoto Michele Apicella e al tempo stesso il regista Nanni Moretti. Più che al dualismo masse-individui, il confronto-scontro è piuttosto tra minoranza e maggioranza. Pur sentendosi parte della prima, il regista ha bisogno di un pubblico, di una platea il più grande possibile che lo ami oppure di un grande partito di maggioranza di sinistra riformista, o se si preferisce, la grande squadra pronta alle nuove sfide globali. (v. Partito comunista, v. Minoranze)

Michele Apicella Già il cognome risulta imbarazzante per quel suo apparentamento con un altro Apicella, assai più inquietante, ovvero l’amico napoletano, povero strimpellatore di chitarra del «Caimano», ma quello vero!… 61

L’invenzione di un proprio alter ego, fatto diremmo unico nel cinema italiano, ha origine dalla perfetta coincidenza del Moretti attore con il Moretti autore. Ciò prova esattamente la sostanziale incapacità del regista di uscire dal proprio personaggio, di interessarsi alla creazione di altri personaggi non secondari al di fuori di se stesso, con l’eccezione, forse, di Habemus papam (in cui si ritaglia tuttavia una particina tanto goffa quanto insignificante, quella dello psicanalista) e di Il caimano, in fondo proprio per la reale difficoltà a strutturare storie e personaggi che non siano prolungamento del proprio immaginario.

Minoranze «In qualsiasi situazione politica io mi troverò bene solo con una minoranza…», sentenzia Moretti rivolgendosi a un automobilista romano nel primo episodio di Caro diario. Ma è come voler dire : «Ma che ci frega a noi dei desideri delle masse?», che troviamo invece in Palombella rossa. In realtà il pensiero politico morettiano è sempre stato in bilico tra tentazioni minoritarie e suggestioni da grande partito di massa, appunto. Il bisogno irrinunciabile di appartenenza ad una grande famiglia (quella del Pci) con ciò che questo comporta contrasta innanzitutto storicamente con l’avventura solitaria delle minoranze dei gruppi, gruppetti e movimenti (dallo stesso Partito comunista, da sempre bollate di avventurismo), generando non poche oscillazioni e contraddizioni. Cominciamo subito col dire che in Palombella rossa convivono entrambe le anime come in una sorta di ossimoro: per un verso, il vecchio super 8 in cui vengono, per così dire, sbeffeggiate le masse ma ancor più i loro intransigenti difensori (i vecchi compagni operaisti), per l’altro, i flashback tutti morettiani serviti da un kitsch davvero poco sostenibile, in cui Michele Apicella, dirigente comunista, fa letteralmente l’apologia («…il partito mi ha dato molto…»). Trattandosi di due tempi differenti, corrispondenti al giova62

ne Moretti extraparlamentare (il vecchio super 8) e il MorettiMichele dirigente del Pci, si potrebbe tranquillamente parlare di evoluzione di un pensiero e conseguentemente di una prassi politica e non di contraddizione quando invece è lo stesso Moretti a smentire questo nel successivo Caro diario, dove appunto dichiara di stare a suo agio solamente con una qualsiasi possibile minoranza!. (v. Partito comunista)

Moralismo Il moralismo morettiano appartiene di fatto alla grande tradizione dei moralisti del passato, a partire da Michel de Montaigne. Esso traspare in tutto il suo cinema, fornendone perfino una possibile chiave di lettura. Quasi un leit motiv che contribuisce a formare il ritratto di questo autore per molti versi anomalo nel panorama del cinema italiano dell’ultimo trentennio. Per taluni versi lo si potrebbe anche paragonare con Clint Eastwood, anch’egli, guarda caso, regista e attore, sebbene l’origine del moralismo eastwoodiano sia profondamente conservatrice, ossia colmo di profondo risentimento verso tutte le minoranze (dagli hippies, ai negri, fino agli immigrati), con radici ben piantate nell’individualismo della frontiera americana. Eppure quello di Moretti spesso appare come un moralismo piccolo borghese come piccolo borghese è la sua estrazione sociale e come altrettanto piccolo borghese è il retroterra culturale di molti militanti della sinistra extraparlamentare. Paradigmatici i due film che inaugurano una nuova fase della produzione morettiana: Bianca, e La messa è fnita, ma potremmo aggiungervi anche il tardo La stanza del figlio, come esemplificazione massima di quel moralismo, appunto, che accompagna il nostro autore soprattutto dalla fase della propria maturità artistica in avanti. E con quest’ultimo film che il moralismo del regista romano si stempera in una sorta di restaurazione delle virtù della famiglia piccolo borghese 63

con quella sua idea di perfezione che non è più il sogno parossistico del professore di Bianca, che giunge perfino a uccidere pur di conservare intatta la propria coerenza, ma l’agiografico ritratto di una vita condotta secondo regole precise, non dette ma sempre puntuali che il padre Moretti non deve neppure affermare. Si tratta, a nostro avviso, dell’ennesima rappresentazione della famiglia italiana modello, con genitori professionisti amici dei propri figli, liceo classico, sport e spinelli occasionali. Tutto ricalca un solido copione già visto seppur spezzato dal caso, da quella tragica fatalità che di solito s’insinua nelle pieghe di una quotidianità programmaticamente felice. È un meccanismo drammaturgico quasi sempre infallibile e che anche in questo caso colpisce nel segno, pur tuttavia lasciando francamente dubbioso chi non si accontenta di un paradigma morale così semplicistico. Ma è con la storia del giovane prete romano che veste ancora la vecchia tonaca di La messa è finita che per la prima volta veniamo a conoscenza dell’uomo Moretti e della parte di sacerdote che è in lui. L’uomo che vigila sulla sorella che non vuole sposarsi ma vuole invece abortire, sui genitori un po’ disorientati con un padre che ha una giovane amante e una madre che si uccide per il dolore. L’uomo che si infastidisce se il prete che lo ha preceduto, si è spretato e vive accanto alla parrocchia con la compagna e il figlio. Insomma, l’uomo che emette giudizi, che sentenzia su ogni cosa, perfino sull’amante del padre, l’uomo che alla fine, sogna di vincere la morte con un semplice ballo. Ma l’accanimento morettiano è maggiormente rivolto all’idea del tradimento che prevale nella coppia contemporanea. In tal senso in La stanza del figlio, la famigliola dello psicanalista si pone moralisticamente in antitesi con la coppia o le coppie presenti nel film Bianca, dove, lo ribadiamo, il rifiuto morettiano dell’idea stessa di tradimento e di infelicità, conduce il protagonista Moretti, professore di matematica, alla follia omicida. Nell’assoluta incapacità di trasformare le persone, dopo aver constatato l’impossibiltà di cambiare il mondo, la sola possibile soluzione è l’eliminazione dell’oggetto della propria infelicità. 64

Morettismo

Dei tanti ismi regalatici in più di un secolo di cinema italiano ve ne sono due di particolare rilevanza, veri e propri esempi di moderno culto collettivo, quello relativo a Pier Paolo Pasolini e alla sua opera e quello riferibile appunto a Nanni Moretti che, forse non a caso, rende più volte omaggio al grande poeta di Casarsa, come, in maniera eccessiva, in La messa è finita, quando di fronte al minacciato aborto della sorella, il sacerdote Moretti sentenzia: «se lo fai, prima ti uccido e poi mi uccido». Tuttavia a differenza di quest’ultimo, il cui cinema ha fornito più di un motivo di ispirazione ad autori come il regista siciliano Aurelio Grimaldi che a Pasolini dedica ben tre opere (le prime due sono una sorta di mitobiografia pasoliniana mentre la terza è un vero e proprio remake di Mamma Roma), tema questo che richiederebbe un trattamento del tutto particolare, il morettismo, dunque, è pur sempre rimasto semplicemente allo stadio embrionale di culto, talora isterico, di un’ampia manciata di pubblico italiano e francese, senza per questo generare un qualche cortocircuito creativo capace di esprimersi sul piano più propriamente filmico. Ciò è dipeso sostanzialmente da due fattori: il primo riguarda non solo la centralità del ruolo intellettuale svolto da Pier Paolo Pasolini nella vita culturale del paese e non solo, ma anche della sua tragica fine. Il secondo, invece, analizza più da vicino la natura del cinema di Nanni Moretti: chiusa in una dimensione autoreferenziale, ossia dentro le «molte vite» del suo autore. Il morettismo, infine, può essere inteso anche come una maniera di subire la singolare anomalia di un processo stilistico non privo di seduzione che, effettivamente tenderebbe ad analizzarne le singole componenti e i risultati.

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N Narcisismo È la cifra che più d’ogni altra caratterizza il cinema di Moretti, percorrendolo interamente come una potente vibrazione dell’io. Questo, tuttavia, ne limita in parte il tentativo di osservare la realtà con sguardo profondo, liberato, non tanto dai propri demoni, la cui presenza è sempre e comunque parte del processo artistico, quanto dall’ingombrante egotismo che informa di sé ogni tentativo di costruzione narrativa. Ed è forse per questa ragione che il suo cinema continua a dividere anziché unire, costituendo materia di discussione non solo accademica ma anche basata sulla semplice citazione poiché si tratta di un cinema vicino alla quotidianità più riconoscibile e riconducibile ad un facile schema verbo-visivo. (v. Morettismo)

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P Padri Nel cinema di Moretti è subito avvertibile l’urgenza di sostituire alla figura del padre, descritta come debole e inetta, quella del figlio, di un figlio ribelle ma prepotentemente strutturato, sia esso lo studente fuori corso di Ecce bombo o il giovane prete di La messa è finita. «Ucciso» finalmente il padre, il regista può ormai sostituirlo, sia interpretando se stesso in Aprile che non a caso, è il mese in cui nasce il figlio Pietro, che identificandosi con la figura del padre psicanalista di La stanza del figlio.

Pallanuoto Allo sport praticato in gioventù con autentico spirito agonistico, quindi competitivo, il regista romano dedica un intero film, Palombella rossa, tra i suoi esiti migliori, sebbene disseminato delle consuete banalità, trasformando lo spazio fisico della piscina in un luogo claustrofobico e l’azione stessa del gioco di squadra, in una metafora dell’evolversi del tempo storico e di quello della memoria personale che include in un unico “corpo” sia il proprio ruolo nel grande Partito comunista, grande perché partito di massa, che gli estremismi giovanili in nome dell’antifascismo come la gogna di spintoni e sputi ad uno studente fascista, la cui rievocazione pare essere per Michele Apicella il ritrovarsi di fronte all’abisso di intolleranza che sono stati per lui, almeno in parte, gli anni Settanta. La pallanuoto come luogo del desiderio ma anche come spazio del confronto che per il regista vuol dire sempre e co67

munque competizione, si trasforma nel lettino liquido di uno psicanalista immaginario, che qui è rappresentato ora dallo zelante allenatore, ora dalla figlia giovane, ora invece dai vecchi amici che vi appaiono come fantasmi e infine dal pubblico «che ti sputa in faccia», ma che tuttavia è per lui il giudice più imparziale dentro cui specchiarsi per riconoscersi.

Parole «Le parole sono importanti – grida sentenziando Michele Apicella dal fondo di una piscina dove si sta giocando la partita della vita – chi parla male, pensa male e vive male». E ancora: «Bisogna essere insensibili al linguaggio giornalistico… C’è in giro una corruzione del linguaggio…». Linguaggi della comunicazione come linguaggi autoreferenziali, semplificati fino al punto di risultare incomprensibili, ossia sempre meno aderenti al significato originario, quindi meno significanti. Qui la consapevolezza dell’uomo e del cineasta trascende i limiti già noti del personaggio Apicella. L’ambiguità nell’uso stesso delle parole, come conferma la prassi della giovane giornalista sportiva alle prese con un tema politico, spalanca le porte di un presente non meno ambiguo in cui Moretti sembra «nuotare» nell’assoluta incertezza, ma al tempo stesso nella consapevolezza che ogni gesto, ogni affermazione possa rivelare il proprio contrario. E infatti, seguendo il tracciato simbolico voluto dall’autore, due sono le sequenze chiave in cui i segni si confondono; quella in cui si decide il destino della partita di pallanuoto e quella, fortemente simbolica che chiude il film: Michele, ritornato bambino, nel risalire un forte pendio, sorride a un sole di cartapesta! Esiste infine, un antidoto contro le parole, e la «corruzione del linguaggio». Moretti sembra esserne convinto e dunque introduce l’alternativa del silenzio, attraverso le parole di Raúl Ruiz, il grande regista cileno, naturalizzato francese, di recente scomparso, chiamato a recitare una breve parte: “ci 68

sono diversi tipi di silenzio, allegorico, letterale ecc...” che tuttavia il protagonista non sa davvero interpretare. «Ogni silenzio, un gol…». È infine, lo iato tra il pensiero e l’azione, ulteriore metafora dell’incapacità del Partito comunista di interpretare la realtà contemporanea conservando al tempo stesso la propria vocazione alla difesa dei diritti dei cittadini. Non è quindi Michele ad avere perso la partita, «Michele è finita – dice il coro, sentenzia lo pubblico – hai perso la partita!», ma il più grande Partito comunista del mondo occidentale e insieme a esso l’Italia che ha creduto possibile una società più civile e giusta.

Partito comunista «Il partito mi ha dato molto…», sostiene in Palombella rossa Michele Apicella nella veste di parlamentare del Partito comunista, e non in quella di stralunato giocatore di pallanuoto che ha smarrito la memoria proprio del suo essere ed essere stato membro del Partito comunista. Egli sembra voler suggerire che solo una temporanea condizione di perdita, di assenza, permetta di acquisire la giusta distanza dalle cose, prima che si attivi il meccanismo della memoria e quindi della ricostruzione. «Il Partito comunista che ha cambiato il mondo…», egli dichiara alla televisione, trasformando l’intervento, suo malgrado, in uno spettacolo di varietà. (v. Pasolini, v. Moralismo, v. Pallanuoto)

Pasolini Non vi è tributo più significativo rivolto a un grande autore di quello di filmare la propria morte come accadde al regista tedesco Wim Wenders con l’americano Nicholas Ray, il grande vecchio del cinema. Moretti ci prova, diversi anni dopo, con Pasolini recandosi in Vespa sulla sua tomba simbolica, un 69

cippo conficcato nella squallida radura di Ostia. L’uno profondamente cristiano, l’altro invece ateo, ancorchè lontani nelle proprie opere, ad unirli è innanzitutto il fatto d’essere stati entrambi comunisti e di avere avuto uno sguardo critico sulla società contemporanea. L’urgenza di ricordare Pier Paolo Pasolini al culmine di un lungo percorso in motocicletta attraverso Roma, appare dunque, metaforicamente, come il momento finale di una tensione morale, culturale e politica che ha definito l’idea di modernità nella seconda metà del secolo Ventesimo. Pur non entrando in alcun modo in una relazione dialettica con le immagini del film, l’homage di Moretti esprime forse la necessità di conservare la memoria storica dei fatti e delle persone che hanno segnato la coscienza collettiva di un intero paese. Pier Paolo Pasolini è morto e la tragedia della sua morte investe prepotentemente almeno una parte importante del ventesimo secolo, ovvero la coscienza critica del mondo. Ed ecco che il grande poeta di Casarsa appare tra le carte morettiane, con il ritratto di copertina del settimanale «Panorama» (allora era un giornale di sinistra…), e gli articoli dei quotidiani dell’epoca. Poi l’incontro con la morte: sulla tomba simbolica del poeta che Moretti confessa di non avere mai visto prima. Lo accompagnano le note del Köln Concert di Keith Jarrett, una musica importante per un incontro importante (gli si perdoni per una volta almeno, l’intenzionale retorica). Ma lo spirito del poeta, regista, scrittore e polemista è ancora lì tra quel deserto di sterpi, luogo che più d’ogni altro ricorda i tanti scenari terzomondisti che gli erano cari. (v. Partito comunista, v. Moralismo)

Preti Che il laico Moretti si sia divertito un sacco ad interpretare con moralistica veemenza il difficile ruolo di un giovane 70

sacerdote romano, non stupisce affatto giacchè il suo cinema è percorso da fervori moralistici e retorici. In La messa è finita, opera che potremmo definire del riflusso, con i limiti che tale definizione comporta, si vorrebbe affermare l’equazione di coerenza=conservazione, laddove il bisogno di chiarezza e di assoluto del nemico per eccellenza del «caimano» si confonde irrimediabilmente con il più comodo riparo nel tradizionalismo cattolico impersonato appunto, da un giovane prete che, trascinando con sé il narcisismo del suo autore, si rivela ancor più perentorio nella pretesa di affermare il valore simbolico della vecchia tonaca nera, di provare sincero imbarazzo di fronte ad un prete spretatosi per amore di una donna con cui ha fatto un bambino, di interferire, infine, nella vita privata della sorella emettendo sentenze inderogabili su un preteso aborto e sulla fine cosciente di una relazione sentimentale. E ancora, di umiliare con accigliato moralismo il padre sessantenne, insegnante e la donna di cui è innamorato, sprezzante perfino dello stato di solitudine in cui è precipitato. Insomma, il sacerdote Moretti, ritrova la sua originaria intransigenza di compagno rovesciandola in tempi di decadenza politica e morale (anche il peso ingombrante del terrorismo è ormai lontano, come viene dimostrato nell’incontro-scontro con l’amico finito nella lotta armata), nel proprio contrario, ossia, in una lunga, narcisistica apologia delle virtù della dottrina cattolica, intesa come forma di assoluta coerenza, che di certo piacerebbe molto a un intransigente e ultra conservatore come l’ex Papa Ratzinger. Al contrario, quando Moretti si libera della triade ossessiva di autore-attore-personaggio protagonista, come in Habemus papam, è capace di infondere alla figura del papa che oppone all’incertezza e alla paura il «gran rifiuto», uno spessore di umana fragilità finalmente priva di retorica. (v. Laicità)

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Psicanalisi Tra le molte vite fittizie morettiane vi è anche quello dello psicanalista; prova a esserlo in La stanza del figlio, misurando il proprio dolore per la perdita del figlio sull’angoscia esistenziale di un paziente fortemente disturbato. Insiste ma con minore incisività e superflua pretenziosità in Habemus papam, laddove si diverte a prescrivere agli alti prelati vaticani una cura a base di sport. Ancora una volta l’uomo Moretti si sovrappone al personaggio da lui interpretato in una sorta di mimesi un po’ fanciullesca che rivela i limiti di un autore la cui narrazione difetta sempre per l’impossibilità di guardare filmicamente il mondo reale, divenuto sempre più complesso, se non attraverso lo sguardo dell’io morettiano e del proprio alter ego.

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Q Quartieri Quartiere dopo quartiere, lo sguardo vibratile di Moretti è rivolto non tanto alla dimensione umana e sociale quanto a quella della forma, di ciò che si vede rispetto a ciò che si muove dietro quelle cortine edilizie. La scelta di immergere intere cortine edilizie residenziali e popolari nella luce estiva romana che, come si sa, può essere perfino dolorosa, sembra consentire al regista una sorta di assorta contemplazione dell’esistente, come immerso in un tempo immobile, assoluto. Al tempo stesso, con immancabile contraddizione, il fatto di sottolinearne l’anno di costruzione in un catalogo che vorrebbe essere infinito (il sogno mancato di un film fatto solo di case!), egli sembra voler suggerire allo spettatore la cronaca della città in evoluzione. (v.. Roma, v. Case)

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R Registi Il cinema di Moretti, per deliberata tendenza del proprio autore, è disseminato non tanto di «omaggi» cinefili a questo o a quel film quanto di camei, dedicati a facce di giovani registi o di critici amici o ruotanti nell’orbita della Sacher Film, fucina di giovani talenti quali Carlo Mazzacurati che sarà il critico pentito (che a sua volta rimanda a uno vero Roberto Silvestri), per aver scritto parole visibilmente incomprensibili a difesa di un horror americano inguardabile in Caro diario, Daniele Luchetti che farà due semplici apparizioni in La messa è finita e in Palombella rossa, di critici, a torto ritenuti trasgressivi come Tatti Sanguineti che sproloquia a suo piacimento sulle virtù del B-movie, interpretando se stesso in Il caimano o di grandi vecchi come Giuliano Montaldo, nella parte di un regista che non riesce più a fare film, o infine, Raúl Ruiz, cileno, regista émigrée, autore di Le tre corone del marinaio e La ville des pirates e di molte altre opere, che interpreta il ruolo di una specie di guida spirituale, di demiurgo in prestito all’allenatore della squadra di pallavolo di Michele Apicella, in Palombella rossa. Il cinema di Moretti è popolato di amici.

Riflusso Già al suo apparire, il cinema di Nanni Moretti conteneva i tratti essenziali del riflusso politico, del passaggio dal dogma del «tutto il privato è politico», al progressivo trionfo del privato, dall’agire collettivo per un fine condiviso ad uno personale per una rilettura critica dei comportamenti collettivi. 74

Già in Ecce bombo vi sono in nuce gli elementi di una virata decisiva ed epocale nel privato ma tuttavia ancora entro dinamiche collettive condivise. E infatti nella ben nota sequenza finale, il regista e l’uomo Moretti prendono commiato dall’avventura collettiva, qui intesa nella duplice accezione di amicizia e condivisione politica, concentrandosi, sia pur narcisisticamente, sui possibili ruoli dell’uomo Moretti. Le successive opere, dall’ininfluente e mediocre Sogni d’oro fino a quella sorta di dittico del disagio rappresentato da Bianca e da La messa è finita, segneranno in definitiva il passaggio dal racconto generazionale al ritratto individuale.

Ritagli Sono una delle ossessioni morettiane, memoria e insieme testimonianza delle cose che accadono nella società e nella politica italiana. Come lo stesso cinema di Moretti che a sua volta è contenitore di tutte le sue ossessioni, talvolta in forma di oggetti, dettagli filmici non trascurabili. E veniamo quindi alla collezione di ritagli di giornali accumulati dal regista: seduto sul bordo del letto, in una sequenza del primo capitolo di Caro diario, Moretti sfoglia le «carte» di una vita da cui emerge un numero del settimanale «Panorama» dell’8 agosto 1974, con la copertina dedicata a Pier Paolo Pasolini, (il titolo era: Lo scandaloso Pasolini), il cui intenso ritratto su uno sfondo azzurro diventerà una vera e propria icona. Si tratta di una citazione che semanticamente prelude all’epilogo in Vespa sulle tracce di Pasolini. Perché non vi è intellettuale di sinistra che non si sia confrontato con la figura immensa, scomoda e appunto scandalosa di Pier Paolo Pasolini, per accrescerne il mito o per prenderne le distanze. Ma è in Aprile, che è un esempio ormai raro nel cinema di oggi di cinéma vérité, che il culto maniacale dei ritagli di giornale, questa volta però in funzione demistificante, trova il suo punto culminante nella sequenza in cui Moretti, formata una 75

sorta di immensa coperta di pagine di giornali multicolori che insieme formano un unicum infinito, vi si rannicchia all’interno come per scomparire dopo avere pacatamente affermato che i giornali si somigliano un po’ tutti, che si scambiano i collaboratori e argomenti e che perciò diventa davvero difficile distinguerli l’uno all’altro. In questa breve sequenza è davvero implicito tutto il disincanto del regista ma anche dell’intellettuale Moretti rispetto al pluralismo democratico del mondo della stampa che invece sembra voler inseguire quel lento ma inesorabile declino che trova un riflesso tragico e puntuale nell’altrettanta deriva dei partiti politici.

Roma La città eterna è l’involucro, lo sfondo, il paesaggio umano naturale di tutto il cinema di Moretti a eccezione di Palombella rossa e di La stanza del figlio, che il regista sceglie di girare ad Ancona, una città portuale cinematograficamente anonima. Ma che cos’è veramente Roma per un regista abituato ai suoi fondali, alle sue prospettive, alle sue atmosfere? Un luogo dell’anima? Forse. Ma la città vista in fretta, in sella alla Vespa, quartiere dopo quartiere, del primo episodio di Caro diario ci appare piuttosto una babele di edifici, di case borghesi e proletarie, (ma un «film fatto solo di case» richiederebbe forse ben altro coraggio!), oppure un’elencazione di quartieri popolari, con tanto di date di fondazione (con il povero Spinaceto ridotto a pura farsa). Ma dov’è il milieu della città? Paolo Sorrentino in La grande bellezza, si è sforzato almeno di cercarlo e lo ha trovato solo in una parte di essa, la più celebrata, tuttavia coniugandola pretenziosamente alla sua parte umana più brutta. (v. Case, Pasolini, v. Quartieri, v. Vespa)

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S Scarpe In una sequenza di Palombella rossa, l’alter ego bambino di Michele Apicella si accorge con sgomento di essere uscito in strada con le pantofole. L’ossessione della sciatteria fisica ha accompagnato l’uomo e l’attore Moretti come riflesso di una maniacalità ben più ampia che si manifesta con malinconica teatralità nel cosiddetto «monologo sulle scarpe», nel malinconico epilogo di Bianca. Qui all’insegnante Moretti, ormai riconosciuto colpevole di omicidio dei propri vicini di casa, durante un improbabile interrogatorio nel seminterrato della questura, non resta che la legittima consolazione di commentare le fogge delle scarpe delle donne che passano sulla strada di sopra. È una visione mesta, consolatoria che possiede quasi la funzione di spostare il baricentro del racconto dal dramma alla commedia: nella disquisizione sul mutare di modelli, colori e fogge diverse, riemerge tuttavia, prepotentemente la malinconia di un tempo irrimediabilmente perduto.

Sessantotto Per quanto ne sia il figlio diretto ma illegittimo, il cinema di Moretti pare situarsi proprio come spartiacque fra l’ultima stagione di lotta (quella del ’77) e il tempo del cosiddetto riflusso. Individualismo e privato, quindi, sono già dietro l’angolo e il giovane Nanni sembra trovarvisi a proprio agio. Saranno le opere successive a Ecce bombo, il suo film migliore e più ispirato, e ancor più Palombella rossa, a chiarire 77

la traiettoria politica di un autore che sempre più si allontana dalla rabbia e dall’utopia giovanili rappresentata dai cosiddetti movimenti (tra il ’68 e il ’77), anelando ad essere parte di una grande famiglia, di un grande progetto riformista che partendo dal Partito comunista berlingueriano (culminante nella strategia del compromesso storico), giunge sino all’attuale Partito democratico (che di fatto nulla ha mantenuto della tradizione comunista). Come si evince dal frammento in super 8 (tratto da un precedente cortometraggio) in cui la stanchezza e la delusione della militanza attiva e il pronunciamento morettiano «ma che cosa ci frega a noi delle masse?», che gli costa un sonoro ceffone da parte di un compagno «duro e puro», non lasciano dubbi sul sopraggiunto moderatismo di Moretti rivelando, inoltre, una contraddizione tra il voler essere parte di una minoranza etica e culturale, (ossia della parte civile di un paese in rapida e inevitabile decadenza), ma al tempo stesso essere maggioranza politica (ossia di un’ipotetica maggioranza di sinistra che governa, finalmente, il paese). Tuttavia resta pur sempre in Moretti, un’interna lotta tra riformismo giusto (di sinistra) e riformismo sbagliato (di cui il renzismo si fa orgogliosamente artefice). Il risultato forse lo vedremo in un futuro film se il regista romano, vorrà ancora come era accaduto con Palombella rossa o in Aprile, porre la passione politica al centro della propria ispirazione. (v. Partito comunista)

Statura Sebbene l’immaginario filmico morettiano non abbia alcunché in comune con quello dei comici americani, è innegabile il fatto che la statura fisica di Michele Apicella - Nanni Moretti appaia come un elemento di qualche rilievo nella declinazione del proprio ego. In Palombella rossa, ad esempio, sul bordo della piscina c’è 78

un giovane cattolico di bassa statura e incalza Michele con un’ostinazione quasi maniacale, affermando di essere come lui. Questi invece risponde respingendolo una due tre volte con violenti spintoni sortendo il tipico effetto comico che in genere veniva risolto con un capitombolo ai danni del più basso. Non è certamente casuale che il regista abbia scelto un personaggio molesto assai più basso di lui per accentuare il disprezzo già manifestato rispetto al suo dichiararsi cattolico, e a cui Michele contrappone il suo essere invece un comunista.

Stile C’è più stile ne L’armata Brancaleone di Mario Monicelli o in Bianca di Nanni Moretti? Per chi, da sempre, è convinto che lo stile di Moretti è la sua proverbiale assenza di stile, compensata dalla propria presenza d’attore-autore sullo schermo che traduce l’essere ostinatamente personale come segno filmico riconoscibile, l’interrogativo non può che avere una sola risposta: in nessuno dei due. Come, dopotutto, esige ogni rispettabile commedia che voglia essere sinceramente popolare. E l’opera di Moretti, pur nel costante tentativo di apparire marcatamente d’autore e perciò riservata ad un pubblico «complice» del morettiano sentire, per la gioia dei fautori dello spirito nazional-popolare, non lo è come vorrebbe invece apparire. Al contrario, essa si è sempre più attestata (basti osservare con attenzione gli ultimi tre film), su un linguaggio lineare, piuttosto convenzionale e quindi non esente da taluni stereotipi narrativi e bozzettismi psicologici cui l’autore di Ecce bombo aveva inteso opporsi, proclamandosi al suo apparire sulla scena cinematografica italiana come la sola vera alternativa al cinema dei vari Monicelli, Risi e via discendendo.

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Sublime banalità È presente in tutto il cinema di Moretti, dalle opere peggiori (Sogni d’oro, Il caimano, La stanza del figlio), a quelle migliori (Ecce bombo, Palombella rossa, Caro diario). Un ossimoro necessario a stabilire i termini dell’unicità dell’autore e al tempo stesso il sommo piacere di «essere come tutti gli altri», come recita il titolo di un fortunato romanzo (baciato dallo «Strega»), il cui autore, guarda caso, è lo sceneggiatore di Il caimano e del recente Mia madre. Sublime, appunto perché essa si fonda essenzialmente sull’io ipertrofico dell’Autore, al tal punto da indurci a considerarla, senza esagerazione, come antesignana dell’individualismo narcisista digitale dei selfie e dei twitter. Ma cos’è realmente la banalità di cui si sta parlando? Lungi da volerne fornire un completo elenco (peraltro già presente nella memoria dei molti fan del regista), si dirà innanzitutto che essa è una costante della narrazione morettiana, un’iperbole consolatoria, spesso in funzione snobisticamente antintellettuale (come piacerebbe ai cultori del «trash» e, non a caso, uno di essi è perfino presente ne Il caimano!), capace non solo di suscitare ovunque consensi, ma anche di fissare una nuova estetica che appunto nella «banalità del bene» o nella «normalità di tutti» trova il proprio fondamento. (v. Stile)

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T Teatro Lo sforzo ingenuamente intellettuale di un gruppo di amici, transfughi dalla militanza politica, di mettere in scena un teatro sperimentale ormai alle soglie degli anni ottanta, in Io sono un autarchico, che si sviluppa su due piani distinti: l’uno del quotidiano (il rapporto di coppia) e l’altro dell’immaginario (lo spettacolo teatrale). Entrambi, quasi per gioco falliscono. E infatti Moretti sembra voler scherzare con i velleitarismi culturali degli anni settanta, prendendosi gioco dell’improvvisazione (forse ignorando che, ad esempio, nel jazz essa è un principio fondante) e dei critici complici del caos dei simboli e dei segni (qui è di scena Beniamino Placido che critico lo era davvero),prendendone alla fine distanza. È il principio e l’inizio del riflusso che condurrà sempre più verso la demolizione, o se si preferisce, lo svuotamento di senso di una certa idea di cultura, a favore della sua progressiva massificazione. (v. Critici)

Televisione Più che la televisione in se stessa, ossia l’ oggetto domestico e consumistico diventato col tempo sempre più insostituibile, ovvero in grado di sostituirsi alla realtà, a Moretti sembra interessare piuttosto la relazione che con essa vengono a instaurare i più diversi soggetti. Fedele al proprio stile, quindi a se stesso, il regista romano, nel secondo episodio di Caro diario, Isole, procede per polarizzazioni, mostrando per così dire, sentimenti e comporta81

menti contrapposti, in altre parole l’intolleranza e la tolleranza verso l’oggetto in questione. Da una parte possiamo osservare un Nanni Moretti nella parte del protagonista, in viaggio attraverso le isole Eolie, infastidito dal traffico automobilistico in zone della città vecchia di Lipari che dovrebbero essere pedonali ma alquanto divertito nel vedere giungere dal piccolo schermo di un bar, una sequenza di ballo con Silvana Mangano attorniata da alcuni ballerini neri. O quando, in Palombella rossa, la televisione situata poco lontano dalla piscina, trasmette il finale straziante di Il dottor Zivago, capace, quindi, di ipnotizzare l’intero pubblico della partita e lo stesso Michele Apicella, il protagonista. Con ciò si vuole affermare che nell’immaginario morettiano (termine che incorre spesso in queste pagine), la televisione occupa veramente un posto minimo e assai modesto, proprio per assenza di una vera e propria demonizzazione che per naturale consenso. Semmai è l’uso politico che ne ha fatto e ne fa il più grande possessore privato di televisioni Silvio Berlusconi, a preoccupare il regista, da sempre acceso antagonista del cavaliere brianzolo. Dall’altra parte,come in un eterno match (ma in questo caso non ci sono né vinti né vincitori), troviamo l’amico isolano di Moretti, Renato Carpentieri, acerrimo nemico della televisione, così acerrimo da averne rinunciato al possesso. Egli inoltre, si compiace di citare lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger il quale afferma che «la televisione è il nulla». Ed è proprio da questo nulla, ossia dall’enorme vuoto lasciato dall’assenza di essa, che sembra invece emergere dalla coscienza dell’amico un irrefrenabile bisogno di televisione. Dunque Enzensberger si sbagliava, che cosa c’è di più bello di una partita di calcio mondiale vista in televisione? O di una telenovela o ancora di una trasmissione come Chi l’ha visto?, che egli paragona alla ricerca di Ulisse disperso nel suo periplo errabondo. Queste le elucubrazioni di denigratore del piccolo schermo. Egli giunge perfino ad affermare che la televisione so82

stituirebbe nel presente le antiche storie narrate ai bambini davanti al focolare o prima di dormire! Si giunge al momento culminante, nel quale si realizza appieno l’idea morettiana di horror vacui: a Stromboli, nel sublime scenario del vulcano, (ma in filigrana è possibile scorgere un ironico riferimento al film di Roberto Rossellini), si interrogano alcuni turisti americani sul bordo stesso del vulcano, intorno all’epilogo di una puntata di Beautiful! Un horror vacui intimamente connesso alla stessa idea di delirio degli estremi a cui tuttavia il regista benevolmente si presta come in un gioco, accettando di farne parte, assecondando quindi l’amico intellettuale che nell’ottica volutamente deformante della satira diventa la caricatura stessa dell’intellettuale. A questo punto appare fin troppo scoperto il meccanismo morettiano di svelamento di una verità mediante il proprio contrario. Ed anche, senza dubbio, la teoria cara al regista dell’equiparazione dei contrari e quindi, in chiave politica, del netto rifiuto dell’estremismo come malattia della ragione, che troverà una realizzazione più compiuta, sebbene alquanto parziale, nella figura del professore universitario, interpretato ovviamente dallo stesso Moretti, in La seconda volta, 1995, film d’esordio di Mimmo Calopresti, prodotto dalla Sacher Film. (v. Berlusconi, v. Isole)

Terrorismo Una esplicita condanna del terrorismo e gli anni Settanta viene espressa da Nanni Moretti attraverso il personaggio del professore universitario torinese, protagonista del film di Mimmo Calopresti, La seconda volta. Nell’opera prima del regista di origine calabrese, Moretti forniva un ritratto esauriente per intensità e coerenza, in linea con i propri personaggi intransigenti (e, diciamolo, pure, moralisti), attraverso 83

la figura accigliata e pensosa del professore di storia contemporanea, che da vittima delle Brigate Rosse, (conserva ancora un proiettile nel cranio), si trasforma in giudice accusatore, avviando una sorta di pedinamento persecutorio ai danni di una giovane donna in cui egli riconosce senza esitazione colei che premette il grilletto colpendolo alla testa. Un Moretti giustizialista, estremo nella cieca volontà di porre la donna di fronte al tentato omicidio, e in altre parole, alla propria responsabilità morale. Lo fa in modo sprezzante come colui che, sapendosi vittima, sa con assoluta certezza di avere ragione. Lo fa letteralmente rovesciandole addosso la propria idea di terrorismo, spiegandone il sostanziale fallimento rispetto agli ideali politici dai quali esso stesso è originato. Quasi una lezione con l’allievo che ascolta il professore che svela il mistero o peggio, una seduta dove il colpevole si sottomette alle parole del proprio giudice. Ma non è così: la dignità della donna, un tempo effettivamente colpevole, si manifesta in un silenzio dietro cui si cela la consapevolezza del proprio confronto avvenuto con la giustizia. Ed è proprio a questo punto che lo psicodramma morettiano si mostra in tutta la propria efficacia e al tempo stesso debolezza: porre cioè su un piano squisitamente individuale ciò che è invece stata una tragedia collettiva.

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V Vespa

Dopo l’Aurelia B24s spider bianca guidata da Vittorio Gassman in Il sorpasso di Dino Risi niente ha avuto lo stesso valore di feticcio, nell’immaginario collettivo, della Vespa di Nanni Moretti, assurta anche a simbolo, a logo della Sacher Film. Se la prima, figlia del boom economico e dell’ebbrezza, ma anche della follia che ne era implicita, simboleggiava perfino una qualche forma di superiorità di classe e di privilegio, la seconda, diversa da qualsiasi altra motocicletta, e al tempo stesso squisitamente popolare, si trasforma nelle mani di Moretti in uno strumento flessibile, quasi un prolungamento del corpo, adatto per il vagabondaggio, per l’esplorazione della città eterna e dei suoi quartieri. Moretti guida la Vespa e canta, balla perfino, seguendo un moderno ritmo maghrebino, ma soprattutto egli è solo con la propria leggerezza, con il desiderio in corpo d’ingannare il caldo e la noia estive, sbirciando qua e là tra quartieri che gli sono familiari, case dove non andrà mai ad abitare, altri, come il rione periferico di Spinaceto, da dove tutti vogliono scappare via. Anche il protagonista de Il sorpasso insegue in piena estate una sorta di leggerezza che tuttavia presto si trasforma in incoscienza, ma ciò che inevitabilmente lo separa da Moretti è il fatto che mentre Gassman esprimeva un insopprimibile bisogno di non essere solo (quindi cercava uno qualsiasi come compagno di viaggio), Nanni invece si compiace della propria solitudine. Il suo vagabondaggio metropolitano su due ruote è un atto di piena e voluta solitudine. In Aprile, la Vespa ritorna come una compagna insostituibile, nella sequenza in cui il regista Moretti, avvolto in una 85

cappa nera, fila veloce in un capannone industriale, pronto finalmente per girare il tanto desiderato film sul pasticcere trotzkista. E ancora la Vespa che in Caro diario, conduce in tempo reale il regista sul luogo della morte del grande poeta. Luogo arido e desolante che sembra contenere tutta la bruttezza delle periferie urbane. La Vespa si ferma come altre volte, ma il clima è diverso. Se prima erano le note dolcemente pretenziose del Köln Concert di Keith Jarrett ad accompagnare l’attesa morettiana, ora è il silenzio del poeta a prevalere.

Violenza Nel cinema di Moretti la questione della violenza sembra essere esclusivamente connessa alla dimensione della militanza politica degli anni settanta del secolo passato. Si tratta quindi di un’intima connessione che appunto avrebbe riguardato da vicini l’attore-regista romano. Il manifesto forse più eloquente di un tale sentimento o se si preferisce, di presa di coscienza, è rappresentato dalla celebre sequenza di Palombella rossa, il suo film più politico, che il protagonista ironicamente ribattezza come una «curiosità di quegli anni», nella quale un militante di destra, studente, viene messo al bando dai compagni a colpi di sputi e di spintoni. La domanda un po’ ipocrita, in odore di pentimento, che si pone Michele Apicella è: «ma abbiamo fatto veramente tutto questo?». Nonostante il tentativo di rilettura della storia e dei comportamenti sociali, Moretti rinuncia programmaticamente a qualsiasi analisi della violenza, delle sue ragioni e conseguenze, preferendo ridurre il tema a un semplice, goliardico episodio della memoria smarrita. Ma c’è un’altra violenza che sembra preoccupare, più che spaventare Moretti, quella dello schermo, del cinema con la c minuscola. E qui emerge una contraddizione evidente: mentre Moretti, nel primo episodio di Caro diario, mostra di provare sofferenza e insofferenza di fronte alla visione del violentissimo e realistico film di John Mc Naughton, 86

al tempo stesso sembra approvare in toto quella, per così dire sbracata, da b-movie italiano, di Il caimano. Alla violenza del film Moretti ne fa corrispondere un’altra, più insidiosa perché legittimata dalla parola scritta e quindi dalla ragione, quella del critico, dell’intellettuale, (nel cui personaggio è adombrata la figura del critico de «il Manifesto» Roberto Silvestri), che con abile opera mistificatoria (del resto comune a tale critico), non si limita ad assolvere il film, ma lo nobilita (e con esso i suoi personaggi) con giochi di parole e di concetti tanto barocchi quanto vuoti. E qui, il giudizio implacabile o se si vuole, l’imperativo morale non è più tanto verso un film reputato «negativo», quanto invece nei confronti dell’uso mistificatorio della ragione da parte dell’intellettuale, del critico cinematografico. Ma la violenza più grande, la più temuta, è quella implicita nelle parole del «Caimano», pronunciate durante il processo per corruzione, così forti da lasciare dietro sé una scia di fuoco. Le parole sono pietre. Esse generano azioni più dure delle pietre stesse. Si osservi lo sguardo del caimano, nella camera fissa che chiude il film: è sempre lo stesso, non importa se del caimano, del ministro Botero o dello stesso Moretti, quello di colui che si sente vincente, dopo avereottenuto l’applauso degli altri. (v. b-movies)

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Filmografia di Nanni Moretti Cortometraggi: 1977, La sconfitta 1973, Pâté de bourgeois 1974, Come parli frate? 1977, Un autarchico a palazzo - Film TV 1990, La cosa 1994, L’unico paese al mondo - film collettivo 1996, Il giorno della prima di Close Up 2003, The Last Customer 2003, Il grido d’angoscia dell’uccello predatore (20 tagli d’Aprile) 2006, Il diario del caimano, backstage 2007, L’ultimo campionato, girato nel 1986 2007, Chacun son cinéma, episodio Diario di uno spettatore - collettivo 2008, Film Quiz

Lungometraggi: 1976, Io sono un autarchico 1978, Ecce bombo 1981, Sogni d’oro 1984, Bianca 1985, La messa è finita 1989, Palombella rossa 1993, Caro diario 1998, Aprile 2001, La stanza del figlio 2006, Il caimano 2011, Habemus papam 2015, Mia madre

Partecipazioni in film di altri autori 1977, Padre padrone, regia di Paolo e Vittorio Taviani 1984, Riso in bianco: Nanni Moretti atleta di se stesso, regia di Marco Colli - Film TV 1988, Domani accadrà, regia di Daniele Luchetti, anche produttore 1991, Il portaborse, regia di Daniele Luchetti, anche produttore 1995, La seconda volta, regia di Mimmo Calopresti, anche produttore 2004,Te lo leggo negli occhi, regia di Valia Santella, anche produttore(cameo) - non accreditato 2008, Caos calmo, regia di Antonello Grimaldi 89

Altre apparizioni 1985, Bellissimo: immagini del cinema italiano, regia di Gianfranco Mingozzi 1993, Caro Nanni, regia di Francesco Conversano e Nenè Grignaffini 1996, Tre vite e una sola morte, regia di Raoul Ruiz - non accreditato 2002, Fellini: sono un gran bugiardo, regia di Damian Pettigrew - non accreditato 2003, Gente di Roma, regia di Ettore Scola - non accreditato 2004, I nostri trent’anni, regia di Giovanna Taviani 2007, Qualcosa di sinistra, regia di Wolfang Achtner 2011, Voi siete qui, regia di Francesco Matera 2012, Une journée particulière, regia di Samuel Fauer e Gilles Jacob 2012, Girlfriend in a Coma, regia di Annalisa Piras 2016, Venanzio Revolt: i miei primi 80 anni di cinema - voce narrante, regia di Fabrizio Dividi, Marta Evangelisti, Vincenzo Greco

Produttore 1987, Notte italiana, regia di Carlo Mazzacurati 2001, I diari della Sacher, regia di Registi vari 2002, I diari della Sacher regia di Registi vari

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Bibliografia

AA.VV., Nanni Moretti, Torino, Paravia Scriptorium, 1999. Antonello Philippe, Habemus Papam. Un film di Nanni Moretti, Fandango, Roma, 2011. Chatrian Carlo, Eugenio Renzi, Nanni Moretti. Entretiens, Paris, Editions des Cahiers du cinéma – Festival international du film de Locarno, 2008. Chianura Claudio, Le canzoni nei film di Nanni Moretti, Auditorium, Milano, 2012. Coco Giuseppe, Nanni Moretti: cinema come diario, Milano, Paravia Bruno Mondadori, 2006. Cordelli Valentina e Riccardo Costantini (a cura di), Ecce Nanni! Il cinema di Nanni Moretti, Udine, Centro Espressioni Cinematografiche, 2006. Cruciani Mariella, Il cinema di Moretti da Michele a Nanni, Edizioni Sette Città, 2013. De Bernardinis Flavio, Nanni Moretti, Firenze, La Nuova Italia, 1987 (5. ed. aggiornata: Milano, Editrice Il Castoro, 2006) De Gaetano Roberto, La sincope dell’identità. Il cinema di Nanni Moretti, Torino, Edizioni Lindau, 2002. De Gaetano Roberto, Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente, Pellegrini, Cosenza, 1990. Gili Jean, Nanni Moretti, Roma, Gremese Editore, 2006. Giovannini Memmo, Enrico Magrelli, Mario Sesti, Nanni Moretti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1986. Mascia Gianfranco, Qualcosa di sinistra. Intervista a Nanni Moretti, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2002. Mazierska Ewa e Laura Rascaroli, Il cinema di Nanni Moretti. Sogni diari, Roma, Gremese Editore, 2006. Menarini Roy, Studiare il film. Alcuni esempi di analisi del cinema di Moretti, «I quaderni del Battello Ebbro», a cura di Vincenzo Mollica, Moretti. Segni, Edizioni Di, 2001. Menarini Roy, Nanni Moretti: Bianca, Torino, Edizioni Lindau, 2007. Ugo Paola e Antioco Floris (a cura di), Facciamoci del male. Il cinema di Nanni Moretti, Cagliari, Cuec/Tredicilune, 1990. Ranucci Georgette e Stefanella Ughi (a cura di), Nanni Moretti, Roma, Dino Audino, 1993 (4. ed. aggiornata: 2001). Rizza Gabriele, Giovanni Maria Rossi e Aldo Tassone (a cura di), L’intransigenza della ragione. Il cinema di Nanni Moretti, Firenze, Aida, 2008. Rosso F. , R. Costantini, Ecce Nanni. Il cinema autarchico di Nanni Moretti, edizioni Cec, Udine,1990. 91

Valdecantos José Miguel, El cine de Nanni Moretti, Jaguar Books, 2008. Villa Federica, Nanni Moretti: Caro diario, Torino, Edizioni Lindau, 2007. Zagarrio Vito, Nanni Moretti. Lo sguardo morale, Marsilio, Venezia, 2012. Zucconi Francesco, La sopravvivenza delle immagini nel cinema, Milano, Mimesis, 2013. Paolo Di Paolo, Giorgio Biferali, A Roma con Nanni Moretti, Milano, Bompiani, 2016

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Indice dei film

Accattone Antichrist Aprile Armata Brancaleone, La Assedio dell’Alcazar, L’ Avventura, L’ Bambini ci guardano, I Bianca Bora Bora C’eravamo tanto amati Cabiria Caimano, Il Caro diario Celluloide Cielo sulla palude Cosa, La Dolce vita, La Dottor Zivago, Il Ecce bombo Flashdance Germania anno zero Grande bellezza, La Habemus papam Henry pioggia di sangu Ho ammazzato Berlusconi Importante è amare, L’ In Vespa Incontro d’amore-Bali Innocente, L’ Io sono un autarchico Ladri di biciclette Marcia trionfale Mare chiuso Messa è finita, La Mimì metallurgico ferito nell’onore Ossessione Palombella rossa Pasqualino Settebellezze 93

Portaborse, Il Pugni in tasca, I Racconto dei racconti, Il Ricotta, La Roma città aperta Salò o le 120 giornate di Sodoma Sconfitta, La Seconda volta, La Shooting Silvio Silvio forever Sogni d’oro Sorpasso, Il Stanza del figlio, La Tre canti su Lenin Tre corone del marinaio, Le Umberto D. Ville des pirates, La Viva Zapatero Youth

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Biografia dell’Autore

Maurizio Fantoni Minnella, scrittore, saggista, critico cinematografico, pubblicista e filmaker, ha al suo attivo numerose pubblicazioni tra opere di narrativa come L’era volgare (Genova 1989), Il tempo di Rachid, storie d’immigrati (Palermo 2000), Danza della mente (Nardò 2004) e saggi di cinema come Bigas Luna (Roma 2000), Bad boys Dizionario critico della ribellione giovanile nel cinema (Milano 2000), Non riconciliati. Cinema e politica in Italia dal neorealismo a oggi (Torino 2004) Paradise Now, sulle barricate con la macchina da presa (Venezia 2010), Spezzare l’assedio il cinema del conflitto israelo-palestinese (Francoforte 2013), Habemus Nanni, lessico morettiano, architettura di un autore (Parma 2015). Suoi articoli e reportage sono apparsi su quotidiani internazionali e nazionali come «El Universal» di Caracas, «Liberazione», «Rinascita della Sinistra», «La Stampa», «Avvenire», e su riviste di cinema come «Cinecritica», «CinecriticaWeb» e «Cineforum». Studioso di letteratura latinoamericana, ha curato la pubblicazione di diverse opere come Canti di vita e di speranza (Firenze 1997), di Ruben Dario, Ombra e penombra di Fernando Lleras de la Fuente (Nardò 2001), Al di là del regno, di Pedro Gomez Valderrama (Varese 2007). È autore del saggio di storia e cultura urbana Genova dei viaggiatori e dei poeti (Roma 2003, Genova ritratto di una città, (Bologna 2013) e del saggio politico Varese in movimento (Varese 2006). Ha pubblicato Non mi arrendo (Milano 2013), autobiografia a quattro mani con Don Andrea Gallo. È autore, inoltre del libro fotografico digitale Libertà sui muri (2014). Come regista indipendente ha al suo attivo 25 film documentari e 4 cortometraggi, alcuni dei quali girati in Egitto, Algeria, Palestina, Israele, Striscia di Gaza, Kurdistan e Georgia. Tra i titoli principali: Gaza a cielo aperto, 2011, Nella Kasbah Suite d’Algeri la città bianca ,2011, Benvenuti nel ghetto, 2012, I libri salvati, 2012, Libertà di Hevi, una vita per il Kurdistan, 2013, Parole spalancate. La città dei poeti, 2013), Il cuore di mia madre, taccuino siciliano, 2015.

Sito: www.fantoniminnelladoc.org

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