148 51 7MB
Italian Pages 240 [244] Year 2000
a va g I i a n oCL^Sed i to re
Gianfranco Angelucci
Federico F. Romanzo
n Fellini così vero da sembrare invJ ventato, e così felicemente inventa¬ to da sembrare vero, campeggia nelle pa¬ gine di questo libro, nel quale sono rie¬ vocati i suoi ultimi mesi di vita. Gian¬ franco Angelucci, che li ha trascorsi gior¬ no per giorno accanto a lui, li ricostrui¬ sce con pietà e spregiudicatezza, facen¬ do ruotare fellinianamente intorno al let¬ to del Maestro infermo una giostra di misteriose e sensuali creature femminili, che paiono uscire dai suoi stessi film. So¬ no donne che lo scrittore mette in scena avvolgendole in una trama di voluttuo¬ se proiezioni oniriche, in cui è lo stesso artista-mago che agisce attraverso il suo apprendista stregone. Sospeso tra crona¬ ca e fantasia, il romanzo è intriso di un erotismo palpitante e a tratti incande¬ scente, capace di catturare prepotentemente la curiosità del lettore.
Gianfranco Angelucci
Federico F.
avaglianoG/ìSTeditore
© Copyright 2000 by Avagliano Editore Srl Piazza Roma 10 • 84013 Cava de’ Tirreni Tel. 089 444711 Fax 089 445339 [email protected] ISBN 88-8309-061-6 Copertina Cyanograf Studio
Il catalogo completo delle edizioni Avagliano può essere consultato nel sito internet
www.avaglianoeditore.it
a mio padre
“Come mi piace ricordare, più che vivere'. Del resto, che differenza fai” Ivo Salvini in ha voce della luna di Federico Fellini
Le vicende e i personaggi di questo romanzo, benché inseriti nel¬ l’ambito di una cronaca fedelmente ricostruita, sono esclusivo frutto della fantasia, e qualsiasi coincidenza con persone o acca¬ dimenti reali è da considerarsi puramente casuale e involontaria.
Federico F.
-
■
Capitolo I La premonizione
Camminavo in Corso d’Italia e dovevo portare un mes¬ saggio all’ufficio di Federico Fellini. Giunto allo studio pe¬ rò notavo le persiane accostate, come quando non c’ero. Così mi rivolgevo al citofono, per suonare, ma al posto della solita fila di campanelli a fianco del portone...
Rivedo ora il sogno, disegnato in una delle ultime pagine del grosso libro rilegato in cui Fellini appun¬ tava, ormai da anni, le frequenti e attese visite not¬ turne. Raccontini fantasiosi, colorati, dettagliatissi¬ mi, che in una vignetta restituivano tutta l’intensità e l’enigmaticità di quelle rappresentazioni misteriose e affascinanti. In genere li corredava anche di com¬ menti, scritti con grafia minuta, rapida, quasi imper¬ cettibile, lungo i margini bianchi dell’ideale inqua¬ dratura; oppure li racchiudeva dentro una nuvoletta, in un balloon, come nei fumetti, specialmente quan¬ do venivano riportati i dialoghi dei partecipanti. Di qualche sogno, rompendo il segreto, aveva per¬ fino permesso la pubblicazione, ma in sordina, per amicizia; spingendosi ad annotare di suo pugno le possibili interpretazioni, altrettanto ispirate e sor¬ prendenti dei disegni. Per il sogno di Corso d’Italia aveva rappresentato se stesso davanti al portone chiuso, di spalle, ricono¬ scibile dalla pelata, e una busta nella mano: ...dovevo portare un messaggio all’ufficio di Federico Fel¬ lini. Giunto allo studio però notavo le persiane accostate, come quando non c’ero. Così mi rivolgevo al citofono, per
11
suonare, ma al posto della solita fila di campanelli a fian¬ co del portone, trovavo una lapide di marmo grigio, ret¬ tangolare, come quelle delle pietre tombali, e una fessura per la corrispondenza... Oscar Rinaldi, che per anni era stato suo collabo¬ ratore, la sua ombra, era ossessionato da quel sogno. L’ultima volta che ci eravamo incontrati, risaliva a quasi un anno prima, da Canova a Piazza del Popo¬ lo; scorgendolo seduto ai tavolini mi ero fermato ad aspettare insieme a lui che arrivasse Federico. Era la mattina in cui Fellini aveva ricevuto la no¬ tizia del quinto Oscar, alla carriera; il 20 gennaio, giorno del suo compleanno. Da Via del Babuino era comparso col passo incerto, la sciarpa bordeaux av¬ volta al bavero del cappotto, lo sguardo mobile in¬ torno, le braccia lungo i fianchi e quel suo gesto ca¬ ratteristico delle mani, di accavallare alternativamen¬ te il dito indice col medio, simile a un gatto guardin¬ go che muova la coda a scatti studiando l’ambiente. C’eravamo accorti della sua presenza per l’improv¬ visa acclamazione scrosciata dal parcheggio dei taxi a fianco della Chiesa degli Artisti. Lui aveva alzato una mano per salutare, e un autista aveva gridato: “Ah Federi, semo grandi!” Accomunando se stesso e l’intera categoria al de¬ stino del Maestro: come Italiani? Romani? Felliniani? Poi Federico era venuto a sedersi con noi e quasi contemporaneamente era sopraggiunto il cronista del TG per raccogliere un commento a caldo sull’Oscar. “E un invito - aveva dichiarato Fellini - a smet¬ terla di fare il vagabondo e a riprendere a lavorare.” Era inattivo dalla Voce della luna, dunque ormai da un paio d anni. E nel frattempo, solo pochi mesi prima, era stato visitato da quel sogno: Camminavo in Corso d Italia e dovevo portare un mes¬ saggio all’ufficio di Federico Fellini. Giunto allo studio pe¬ li
rò notavo le persiane accostate, come quando non c’ero. Così mi rivolgevo al citofono, per suonare, ma al posto della solita fila di campanelli a fianco del portone, trovavo una lapide di marmo grigio, rettangolare, simile alle pietre tombali, e una fessura per la corrispondenza con sopra scritto: DISPERSO DEI DISPERSI. Capivo che quel nome indi¬ cava il destinatario della lettera, si riferiva a me, era a me stesso che dovevo inoltrare la busta. Allora mi vinceva la curiosità di conoscerne il contenuto, quale comunicazione contenesse così urgente, e prima di imbucarla non mi trat¬ tenevo dal darci un’occhiata; mentre trafficavo con le mani per aprirla, il foglio era scivolato fuori, si era aperto: e così scoprivo che non cera scritto nulla, era compietamente bianco. Dalla sorpresa mi ero svegliato.
Fellini non c’era più. Il suo cuore aveva cessato di battere, a mezzogiorno di domenica 31 ottobre. Il collega più amato, più celebre, più fortunato, più carico di riconoscimenti, l’artista autore che ave¬ va imposto una prospettiva diversa di considerare il ruolo del realizzatore cinematografico; il campione dell’individualismo sfrenato, dell’assoluta libertà del creatore, che con la sua intransigenza aveva riscattato tutta la categoria alla dignità dell’arte e dell’espres¬ sione, l’artefice suo malgrado di vocazioni e proseliti, l’inventore di Otto e mezzo, il mago, lo stregone, il guru, aveva preso commiato. Nell’inarrestabile precipitare di poche settimane se n’era andato: ADDIO FELONI, ADDIO MAESTRO, ti¬ tolavano i giornali in lutto. Un padre gesuita suo amico ed esegeta, a quella stessa ora, nella città lontana in cui si trovava ignaro dell’accadimento, si era sentito mancare nel bel mez¬ zo di un convegno di cinema; era stato trasportato a braccia nella camera d’albergo, disteso sul letto in stato di deliquio. I più vibratili reagivano così, come in presenza di un risucchio, un buco nero, quasi si fosse prodotto un improvviso vuoto di energia. 13
Il 2 novembre, giorno dei morti, al Teatro 5 di Ci¬ necittà era stata allestita e aperta al pubblico la ca¬ mera ardente. Mi ci stavo recando anch’io. Anch’io, se ero divenuto regista, lo dovevo a lui, alle emozioni profonde, incancellabili, che i suoi film avevano impresso dentro di me; prima in contatto attraverso lo schermo, poi direttamente sul suo set, riverberato dall’alone del mago. La prima volta che avevo messo piede a Cinecittà per incontrarlo, stava girando Roma. Qualcuno mi aveva scortato dagli uffici del primo piano, direttamente dentro la grande pancia del Teatro 5 e, al di là della porticina imbottita, sorvegliata a vista da diffi¬ denti guardiani, si era dispiegata davanti ai miei oc¬ chi la visione più incredibile in cui avrei potuto im¬ battermi: era la sequenza di Via Albalonga, con i tram che sferragliano sulle rotaie sfiorando i tavolini della trattoria all’aperto, un brulichio di comparse, camion, automobili, biciclette, facciate di palazzi animate da inquilini affacciati alle finestre o a pren¬ dere il fresco sui balconi, popolane dalle poppe bian¬ che straripanti, bambini scatenati e vocianti, un ine¬ sauribile campionario di maschiette di ogni genere e sorriso, giganteschi piatti di pastasciutta con la pajata, marciapiedi accesi di vetrine, negozi rilucenti, scritte al neon, e nuvoloni di incenso che si spande¬ vano per tutta la scena avvolgendomi con l’impres¬ sione, anche olfattiva, sensuale, al limite dello stordi¬ mento, di essere entrato a far parte di una nuova chiesa di cui avevo solo vagheggiato l’esistenza, sen¬ za tuttavia poterne misurare fino ad allora la gran¬ diosità, la conturbante, geometrica confusione; una chiesa profana ed eccitante dove si consumano i riti del ricreare, sotto l’imperio di un Grande Celebrante di cui nessuno meglio di Fellini avrebbe potuto in¬ carnare la figura. 14
Sapevo che Oscar Rinaldi era stato accanto a Fellini durante tutto il periodo della malattia, fino alle ultime ore. Veramente gli era stato accanto per svariati lustri, come amico principalmente, ma anche come collabo¬ ratore e scrittore. Aveva partecipato alla stesura di al¬ cune sceneggiature, era il primo con cui Federico fer¬ mava le idee quando gli si presentavano, i soggetti, i trattamenti. Nel tempo Oscar era diventato il fanta¬ sma di Fellini, il ghost writer, una specie di alter ego della penna, un logografo, come si definiva com¬ piaciuto: “Scrivo quello che mi chiedono, nella for¬ ma che preferiscono.” Fellini affermava di lui, con divertita ammirazio¬ ne, che avrebbe dovuto coprire la direzione di un giornale, per come sapeva destreggiarsi in brevissimo tempo su qualsiasi argomento con la facilità del sag¬ gista e la presa del narratore. “Ha proprio una dote rara, - mi confidava - non capisco perché non faccia il giornalista.” Loro due giocavano a rimpiattino con i testi, al punto che era diventato impegnativo distinguere l’uno dall’altro. Federico veniva oberato da richieste di presentazioni, prefazioni, interviste, dichiarazioni, e se non ci fosse stato qualcuno ad aiutarlo avrebbe occupato l’intera giornata soltanto per rispondere al¬ le migliaia di sollecitazioni che lo raggiungevano da tutto il mondo. Con Oscar si trovava bene, lo trat¬ tava come un figlio, o forse come un fratello mino¬ re, un allievo: anche se non aveva mai voluto consi¬ derarsi maestro, di nessuno. Oscar poteva adombra¬ re allusivamente, velatamente, una sorta di apprendi¬ sta stregone. Il regista aveva per lui un affetto sincero, un rap¬ porto di simpatia e di stima, ma soprattutto di inti¬ mità. Sapeva di potersi fidare, e lo teneva a parte di certe sue segretezze, come era successo in precedenza 15
con altri giovani che s’erano avvicendati nel tempo; ma nei suoi riguardi si aggiungeva una singolare af¬ finità che non era difficile captare, un’impalpabile complicità. Nonostante i molti anni che li separava¬ no, la differenza fra loro era minima; anzi, dei due l’adolescente, in ogni caso, era restato Federico. E poi Oscar non era più un ragazzo e anche le loro vi¬ cende umane, personali, avevano finito per assomi¬ gliarsi. A stare tanto tempo insieme, è risaputo che si diventa simili; o almeno è tale l’impressione che spes¬ so gli altri ne ricevono. Quando giungo agli stabilimenti sulla Tuscolana, i cancelli sono aperti, e l’affluenza di pubblico inces¬ sante. Un fiume. Alfredo, l’ultimo ancora in servizio fra i custodi della vecchia guardia, è di sorveglianza all’ingresso e mi sussurra la sua meraviglia: “Neanche per Totò s’era vista tanta gente...” Oscar Rinaldi mi aveva telefonato, premuroso co¬ me sempre, per avvertirmi che alla guardiola di Ci¬ necittà avrei trovato un passi per entrare direttamen¬ te con la macchina. Evitando i viali centrali, raggiungo il Teatro 5 alle spalle. Parcheggio l’auto e mi infilo nella porticina laterale: penetro in un limbo azzurrato, in penom¬ bra, con il fondale di cielo solcato di nuvole lievi, er¬ ratiche, e dall’alto i coni luminosi dei cercapersone che si incrociano sulla bara, un doppio cerchio sfa¬ villante verso cui si dirige lentissimamente la marea di folla. Mi spingo lungo la parete di destra dell’immenso teatro, risalendola fino alla zona in cui il gruppetto dei fedelissimi ha formato un mobile capannello. Marvisio, l’aiuto regista, cerca di riconoscere nel ma¬ re di teste i visi più noti, sottrarli alla fiumana per consentire una sosta di saluto accanto agli intimi, a scambiare frasi di cordoglio. Il responsabile della vi16
gilanza è in agitazione per il problema della folla che procede troppo a rilento, si formano ingorghi, e il serpente umano, con la coda già fuori dei cancelli dello stabilimento, si sta allungando sulla Via Tuscolana, intralcia il traffico e ostruisce l’uscita della metropolitana. L’ingorgo è causato dal libro delle firme che ral¬ lenta l’esodo. Si rende inevitabile spostare il tavolo all’esterno del teatro, in modo che chi vuole testimo¬ niare la propria presenza può farlo senza ostacolare nessuno. Per fortuna ha smesso di piovere e la situa¬ zione subito migliora; la corrente dei devoti riprende il suo flusso lento ma costante; una placida fiumana, una piena ordinata, cadenzata nel suo muto scivo¬ lare dalla musica di Nino Rota che Nicola Piovani, compositore in carica di Fellini, ha selezionato in un nastro ad anello. Il sentimento che si respira è quello del prodigio, si assiste a un evento rarefatto. Il tempo trascorre co¬ sì, attonito, a somiglianza di quella folla imponente che in silenzio è venuta a dire grazie al Maestro. Via via arrivano tutti gli amici più stretti. Qualcu¬ no scoppia in un pianto dirotto, intrattenibile. Soprat¬ tutto quando negli incontri faccia a faccia, infranto il fragile schermo del decoro, ci si consegna, indifesi, al¬ la compassione. Una giovane poetessa, stringendo al petto il suo barboncino bianco, esala fra le lacrime la voce scabra di una Pizia; il suo è un volto arcano, un’immagine tellurica di dolore antico che sembra vaporare dal grembo stesso della madre Terra; un’e¬ co sperduta degli inferi. Emerge dalla calca una sensuale scrittrice olandese dalla esuberante chioma tizianesca, il volto largo, pallido e piatto; mi viene incontro per trattenermi qualche istante fra le braccia, contro un morbido corpo da ballerina di varietà. L’ultima volta che ci siamo visti, insieme a Federico, aveva scarpine rosse 17
con i tacchi a spillo e un divorante complesso di Elet¬ tra; ora indossa un mantello impermeabile nero, i tacchi sono ancora a spillo e il complesso di Elettra è andato a riempire le pagine di un libro. Mi sussurra all’orecchio: “Ho firmato il contratto proprio prima di partire da Amsterdam”; e nella sua voce vibra l’imperscrutabilità del portento. Lei non è lì per caso. L’Aedo dei giornalisti televisivi, con impeccabile tempismo da cronista, ha già organizzato l’invio di una troupe leggera, per raccogliere materiali di irreplicabile suggestione, nell’idea ancora vaga di un commosso servizio a ricordo dell’Amico e Maestro. Sono presenti senza defezioni le reporter, infatica¬ bili, che hanno coscienziosamente annotato, fra le brume ottobrine e notturne del Policlinico, l’intera agonia di Fellini; ora scrutano la folla dal loro setto¬ re, un palco a gradinata delimitato con un cordone di passamaneria. A intervalli, eludendo la consegna, lo scavalcano per correre ad abbracciare il nuovo ar¬ rivato, sussurrare parole di solidarietà, di rimpianto. Oscar ne bacia qualcuna, con grazia, alitando nel¬ le loro orecchie attente le blandizie apprese dal Mae¬ stro. Gira voce che un giornalista burbanzoso abbia sgarbatamente dissacrato, su un quotidiano d’assal¬ to, la pura spontaneità di questo abbraccio affettuo¬ so della folla romana. Nessuno riesce a procurarsi il giornale, è un’impresa affrontare in controcorrente, in direzione dell’edicola situata ai cancelli, il mare di visitatori che avanzano a schiera fra i viali di Cine¬ città, sull’asfalto bagnato di pioggia, in mezzo a quei pini neri, con le chiome altissime, che Federico aveva raccontato, in Intervista, di aver sorvolato nel corso di un sogno rivelatorio. Circondato da quell’armata dolente, Oscar è co¬ stretto ad arrestarsi a ogni passo, trattenuto dai cono¬ scenti, un saluto, un abbraccio, facce, fisionomie, fat18
tezze, spesso non facilmente ravvisabili fuori del loro contesto abituale; come quella coppia dal sorriso buono, sincero, che conduce uno dei ristoranti più amati da Federico, amici semplici dal volto afflitto. Assumendo l’iniziativa, un intraprendente ispetto¬ re di produzione riesce a procurarsi una copia del quotidiano, e rientra in teatro già disgustato dal poco che è venuto scorrendo: ...la morte - e la vita - di Fellini sono una notizia molto meno appassionante di quanto i giornali dimostrino di credere. Fellini è un regista intellettuale, che piace agli intel¬ lettuali, e il fallimento economico di molti suoi film ne è una buona prova. I giornali sono fatti da intellettuali, che amano esibire di essere tali. Per esempio, l’articolo di fon¬ do della Stampa, firmato da una giornalista bravissima, inizia nientemeno che così: “Sarà difficile, e brutto, vivere senza Fellini”. Ma davvero Signora? Lo direbbe anche ai suoi nipoti o ai cancelli di Mirafiori? Fellini aveva già dato quasi tutto quel che poteva dare, ormai ripeteva stanca¬ mente se stesso.
Leggo il pezzo sotto la luce diffusa che i proiettori fanno piovere tenuemente dalle capriate del teatro, mentre la fiumana di persone si ingrossa smisurata¬ mente, continua a sfilare in silenzio; intere famiglie, padri che hanno lasciato l’ufficio, con i bambini in collo, la carrozzina alla mano, si segnano davanti al¬ la bara, ringraziano mentalmente e proseguono. E raro che qualcuno lasci trapelare una qualsiasi curio¬ sità mondana verso i pochi sedili predisposti dallo scenografo alla destra del feretro, dove sostano in raccoglimento i personaggi più noti. Ci sono attori, registi, dive televisive, Sonia D’Ambrosi, sontuosa e inquieta come una tigre, ‘la faccia da mascalzona che incuriosiva tanto Federico; Marcello Mastroianni, occhiali neri, irrigidito in un attenti militare di 19
fronte alla bara, reagisce frastornato, assente, quan¬ do qualcuno cerca di riscuoterlo. Anita Ekberg, fede¬ le alla sua più recente apparizione felliniana, plana accanto al feretro col volto dell’Idra, una presenza mitologica che incanta e paralizza sgranando occhi di ghiaccio. Qualcuno, per adularla, le sussurra fra i biondi capelli scivolati lungo le spalle: “Hai detto delle cose bellissime in televisione.” “Ah, sì?”, replica lei meravigliata arcuando le so¬ pracciglia con un’occhiata che si perde oltre il fonda¬ le di cielo, come se si accennasse a una persona che non ricorda, non conosce. Attira tuttavia l’interlocu¬ tore al grosso petto, in segno di apprezzamento. Sopraggiunge il senatore “taglie forti” in dovero¬ sa compagnia dei^ presidenti degli Enti televisivo e cinematografico. È il momento più adatto per inte¬ ressarlo al sorgere di una fondazione che si preoccu¬ pi dell’eredità culturale di Fellini. Monique Larouche, dantista e felliniana, si fa avanti con francese baldanza, arriva all’ombra del Presidente del Sena¬ to che, grande e grosso com’è, sembra Giolitti dise¬ gnato da Galantara, e gli espone combattivamente le sue ottime ragioni arrotando sonoramente le erre. Lui si compiace di una attenzione benevola, quindi si china sull’attraente e pugnace studiosa, sorridente, prelatizio: “A parte che non credo sia tanto facile togliere l’i¬ niziativa a Rimini, — esordisce deciso — conosco bene la caparbietà dei romagnoli, ma poi cara signora, mi creda, in Italia non ci sono fondi per i fondi” Una battuta da comico di rivista che disorienta i presenti, nessuno sa se ridere o crucciarsi. La frase arieggia una didascalia in corsivo da Corriere dei piccoli, un uscita alla Sergio Tofano, o alla Macario. Il presidente dell’Ente televisivo annuisce osse¬ quioso, lasciando tralucere appena un baluginio ne¬ gli occhi cilestrini, acquosi dietro le lenti. 20
Quando arriva Antonioni insieme alla sua giova¬ ne moglie, l’emozione si fa radicalmente diversa. Ora che è invecchiato, offeso dal male, assomiglia ai car¬ dinali immortalati da Fellini, con la faccia scavata nella pietra; resta seduto in silenzio, su una delle po¬ che sedie in fila lungo la pedana della bara, e i suoi occhi lacrimano immobili. Una presenza affascinan¬ te, molto più attraente ora, nell’aureola dei capelli candidi, che da giovane; gli artisti diventano belli da vecchi per l’affetto che si condensa su di loro, resi belli dal bene che hanno dispensato agli altri. Si asciuga le ciglia senza badarci, come un compito ac¬ cessorio, meccanico. L’Aedo dei cronisti che già da gran tempo presen¬ zia il coro degli intimi, paludato nel suo impermeabi¬ le di seta bianca di Hermès, appena si incrocia con Oscar lo attrae a sé mormorandogli frasi d’amore: “Mi commuovo, lo sai? - gli spira impudico acco¬ gliendolo paternamente sulla sua spalla. - In queste occasioni non riesco più a parlare, mi trema la voce. Avrei bisogno di un discorso scritto per commemora¬ re Federico, non vuoi darmi una mano?” Cova con lo sguardo Antonioni, le sue lacrime ter¬ se che scivolano lungo le gote incavate. “Ormai faccio come lui: sarà l’età!” Oscar cerca di rassicurarlo maldestramente: “È una conseguenza dell’ictus, - gli bisbiglia - me l’ha spiegato la dottoressa Jacobsen.” L’Aedo diventa bianco come il suo impermeabile; inguaribile ipocondriaco, già si reputa a rischio: “Davvero? Che stia arrivando anche a me?” “Ma cosa dici?! - sorride Oscar a disagio. - Non si tratta di un sintomo di avvertimento, è la conse¬ guenza di un danno avvenuto, un postumo! Ho solo detto qualcosa di stupido, che non dovevo.” E si stringono di nuovo, andando poi su e giù a braccetto. Parlano di Federico, delle responsabilità 21
oggettive, in questa sua morte prematura, da attri¬ buire a chi lo aveva in cura. “Scrivimi un pezzo, - lo esorta l’Aedo - ci faccio una chiosa io, verrà ripreso da tutti i giornali del mondo.” Passo passo si sta avviando alla porta di uscita, fuori del teatro, nell’aria umida della sera, dove lo attendono l’auto blindata e la scorta armata già in allerta. “Ceniamo insieme al Fico Nuovo?” propone. Ma Oscar non può, in teatro c’è ancora bisogno di lui. Si sottrae educatamente, rammaricato. Nel frattempo si è intromessa provvidenziale una giova¬ ne attrice con gli occhi luccicanti di lusinghe. L’Aedo televisivo fa finta di non riconoscerla subito, per as¬ sestare immediatamente dopo una vero affondo da seduttore: “Barbarina, ma come no!, quando ti vedevamo poi chiedevamo tutti a Federico: ce la fai conoscere?” La accomiata con una carezza da monsignore, ap¬ pena indugiante, aspetta una sua telefonata. Prima di rifugiarsi in macchina però non rinuncia ad aggiungere per la piccola cerchia, voltato di tre quarti, con un sorriso a mezza bocca: “Veramente gli chiedevamo ben altro.” Lo sportello si chiude, la sua mano oscilla in un gesto ondivago, benedicente, dietro il vetro. Oscar Rinaldi rientra in compagnia di una ragaz¬ za bionda e svettante, più alta di lui. Riconosco Else Jacobsen, la neuroioga norvegese ormai celebre per un servizio fotografico pubblicato da un diffusissimo magazine in cui appariva durante una seduta di lavo¬ ro in compagnia di Fellini. È abbigliata in uno stile decisamente nordico, la¬ ne pesanti, cappotto, e un austero completo giacca pantaloni color antracite; sorride a chi le si fa incon¬ tro, intenerita non so di quale dolcezza o struggi22
mento. Ha appena letto anche lei l’assurdo articolo del quotidiano d’assalto; il foglio inopportuno sta passando di mano in mano, nello sdegno generale. “Non bisogna rispondere alla provocazione, - so¬ stiene Rinaldi - meglio lasciarla cadere nel vuoto, senza la soddisfazione di un commento.” Ma l’Aedo dei cronisti, poco prima, non era stato dello stesso parere, anzi aveva concluso che una ri¬ sposta ci voleva e come, di quelle coi fiocchi; gli piacciono gli atteggiamenti alla Dumas: “Lo metto a posto io quel farabutto.” Claudio Ciocca, proprietario di un ristorante dei Castelli, amico di Fellini e attore in qualche suo film, si è aggirato l’intero pomeriggio con appeso al brac¬ cio un sacchetto di plastica pieno di panini imbotti¬ ti, immaginava fraternamente che qualcuno potesse averne bisogno; di tanto in tanto si ricongiunge alla moglie Mirella, aggraziata, gli occhi trepidanti. La coppia insiste molto per averci a cena; Claudio invi¬ ta anche la dottoressa Jacobsen, di cui Fellini gli ave¬ va parlato con la tipica esaltazione dei suoi entusia¬ smi. La analizza da intenditore e quando rimaniamo qualche momento da soli, commenta: “Bella, sì, la classica scandinava, ma chissà che mi credevo!” Una generica che porta il nome d’arte di Leila Shed, implora il permesso di poter pregare da sola, in piedi, di fronte alla bara, come ha visto fare a Mastroianni e altri personaggi illustri; per una volta vor¬ rebbe trovarsi, sia pure per un disguido, anche lei sotto i flash dei fotografi e l’occhio delle telecamere. Il responsabile stampa di Cinecittà in veste di ceri¬ moniere ufficiale esaudisce la preghiera. Un giovane reporter della televisione belga solleci¬ ta un’ intervista da Rinaldi, che è riapparso a fianco dell’avvenente neuroioga; poiché lei parla un corret¬ to francese, viene reclutata a fungere da interprete. 23
La piccola troupe si sposta dalla parte opposta del teatro, a ridosso della gradinata dei fotografi favori¬ ta dalla luce dei riflettori. Else sfodera la disinvoltura di una veterana nel dipanare in francese l’inarrestabile fiume di parole che Oscar lascia fluire dal gorgo della commozione: “Cosa rimane di Fellini? La sua grande energia creativa si è soltanto distribuita nel pubblico stermi¬ nato che l’ha assorbita attraverso i suoi film. L’evento a cui assistiamo ne è la riprova, le migliaia di persone che stanno sfilando alle nostre spalle, questa inces¬ sante catena di cordoglio, di rimpianto, di amore, di riconoscenza, è la dimostrazione tangibile, la manife¬ stazione più impressionante di un tale miracolo.” Claudio Ciocca, paziente, ci sta aspettando all’in¬ gresso del teatro, sono le nove e mezzo passate. Ci dirigiamo in auto fuori di Cinecittà, verso i Castelli. Mentre sul sedile posteriore gli altri passeg¬ geri parlottano fra loro, Rinaldi che mi siede accanto si avvicina al mio orecchio per mormorarmi a pro¬ posito della dottoressa: “Hai visto che creatura attraente? L’ha materializ¬ zata Fellini quando si è ricoverato a Ferrara, in quell’ospedaletto fuori mano. All’improvviso è apparsa lei, inviata con perfetta sincronia in soccorso all’eroe ferito, come in un racconto di Omero, una specie di Minerva raggiante... Federico se ne era invaghito: e per porre in atto le sue alchimie ha intuito che pote¬ va utilizzare me, da fidato apprendista.” Alle undici, al ritorno dal ristorante, notiamo che la folla non accenna a scemare, il fiume è gonfio e compatto; considerato l’afflusso eccezionale, le dispo¬ sizioni di servizio sono di lasciare aperti i cancelli fi¬ no a esaurimento, anche tutta la notte se è necessario. Bisogna aspettare la chiusura della metropolitana, affermano alla vigilanza, solo allora diminuirà. 24
I cronisti sono sciamati via, per dettare in tempo il pezzo ai giornali. È arrivato invece il giornalista del TG1, in compagnia di un popolare disegnatore di fumetti che continua a ingoiare lacrime addossato a una delle torri di illuminazione, immobile, sprofon¬ dato nel pesante montgomery. Nel palco ormai vuoto della stampa si è seduta Petulia, la giovane avvocatessa che Federico aveva in¬ contrato, all’edicola di Via Po, fasciata di pelle nera a cavalcioni di una potente motocicletta. Lei si era dichiarata una sua ammiratrice irriducibile e ave¬ vano iniziato a frequentarsi; si cercavano, si telefo¬ navano. Federico ne ammirava l’attivismo esuberan¬ te, quel suo correre da un consiglio di amministra¬ zione a una comparsa in tribunale, il viaggiare ner¬ voso da un paese all’altro dell’Europa, la maschile attitudine al comando dietro una seducente leggia¬ dria femminile. Era divertito e lusingato dalle atten¬ zioni della giovane donna; gentile e impaziente le tante volte che lei lo chiamava da ogni angolo del mondo. “Telefonami quando torni, - si destreggiava delicato, invitante - che stiamo un po’ insieme.” Petulia intendeva mettere in piedi una cordata di finanziatori con cui produrre il suo prossimo film, anche lei immediatamente figlia, amante, discepola del mago psicanalista, dell’artista profeta che ti inva¬ de e ti rivela a te stesso. All’una di notte i visitatori hanno smesso di afflui¬ re. Senza fretta vengono richiusi i cancelli, e presto nell’immenso teatro possiamo contarci, ridotti a una schiera esigua, fedeli a una muta, astratta consegna. Appoggiata alla bara, in ginocchio sul feltro gri¬ gio-azzurro della pedana, è rimasta tutto il tempo la conturbante Elena, una signora bionda, di matura e raffinata bellezza. Se qualcuno cerca di distoglierla premurosamente, col pretesto di un sorso d’acqua, di una pausa, lei garbata, accondiscendente, accetta di 25
allontanarsi, ma in un aleggiare assorto riconquista invisibile il suo posto, ardente di passione e di do¬ lore. Si tiene avvolta nell’impermeabile come dentro un manto, il corpo contratto da una morsa, esile e morbido, la banana di capelli biondi imboccolata sulla nuca sottile, la schiena scossa dai singhiozzi. “E cominciato tutto da lei” mi sussurra Rinaldi. “Tutto cosa?” “Non l’hai mai incontrata?” “Non mi sembra.” “Neanche io la conoscevo, prima di questa estate a Rimini. Sai com’era Federico, segreti su segreti, e a ognuno il suo.”
26
Capitolo II Il recinto incantato
“Federico, fino all’ultimo sprazzo di vita, ha conti¬ nuato a soggiornare dentro la sfera nutriente della femminilità, con ogni mezzo. Conoscevi la sua natu¬ ra; le donne erano il magma, la placenta, l’alimento; costituivano l’universo inesplorato e nello stesso tempo il perimetro sacro in cui si sentiva protetto. E quando gli assalti della malattia non gli hanno con¬ cesso altre risorse, inconsciamente si è rivolto a me come suo strumento: mi ha usato per attuare i suoi incantesimi, le sue irrinunciabili alchimie.” Oscar sa che la sorprendente confidenza troverà in me un uditore senza preconcetti. “Anche con la dottoressa Jacobsen?” lo provoco di proposito, incuriosito dalla appariscente neuro¬ ioga. “Soprattutto, lei!” “E loro, le interessate, lo sanno?” “Credo di sì.” Mi aspetto che vada avanti nel racconto, ma non riusciamo a rimanere soli abbastanza a lungo, in quella improbabile camera ardente che, forse per le dimensioni così dilatate, riconduce a suggestioni epiche, evoca piuttosto la morte di un imperatore al campo, il bivacco funebre nell’attendamento, lo sventolio degli stendardi al riverbero dei fuochi, quell’inquietudine che precede il definitivo distacco, l’insonnia impaziente dell’alba, l’orecchio teso agli squilli di tromba, al trepestio dei cavalli. Gli irriduci¬ bili si alternano sui pochi sedili a disposizione, o in27
dugiano in piedi in gruppi di due o tre, capannelli che si disfano e ricreano in continue, nuove aggre¬ gazioni. Aleggiano chiacchiere sommesse sui mille perché di quella scomparsa. Un mago non può scom¬ parire! Se ne sono andati anche i carabinieri con la lucer¬ na, e i vigili urbani, che formavano il picchetto d’o¬ nore alla bara. In cambio, del tutto inattesi, sono ar¬ rivati i due fratelli dell’Osteria del Curato, ossequio¬ si, portando sulle mani ampi vassoi di vivande per un pio servizio di ‘consólo’. Vestono in maniera identica come un duo di varietà, con giacca verde trapuntata; si inchinano a tutti in una ideale passerella. Hanno allestito i loro cibi fragranti nei camerini del piano superiore, poi sono scesi a pregare, raccolti a lungo in devozione, seduti a busto eretto, le labbra bisbiglianti; e con la stessa leggiadria da fraticelli si sono ritirati ringraziando per il grande onore di po¬ ter partecipare con le vettovaglie a quell’ultimo os¬ sequio. Le guardie del servizio notturno, con lo stomaco ormai vuoto e le uniformi imbevute d’acqua per la pioggia che ha ripreso a cadere scrosciante, non si sono fatte pregare due volte, grati di quelle delizie, ristorati dal caffè caldo, dal latte, dai thermos di tè. Scoppia un temporale furioso, lampi e tuoni da far tremare gli spessi muri insonorizzati; alle entrate si affacciano, spauriti, due cani. Uno è Pietro, un ba¬ stardo pezzato che già conosce gran parte dei presen¬ ti e scodinzola intorno malioso; si aggira con confi¬ denza attorno alla bara, annusa i fiori del cuscino, il drappo di velluto, ci strofina affettuosamente il mu¬ so; l’altra è una lupacchiotta timida, zampetta sulla soglia senza il coraggio di entrare, pronta a fuggir via, tentata al riparo dai fulmini che divampano in¬ torno come lingue di fuoco turchino, e tuttavia inca¬ pace di superare un divieto assimilato in anni di di28
sciplinato pattugliamento, al seguito delle guardie giurate. Fra quei boati fragorosi, Oscar riprende il filo del suo discorso: “Ti ricordi di quella volta che ci siamo incontrati da Canova, a Piazza del Popolo, prima che 'Federico partisse per la consegna dell’Oscar alla carriera? Lui stava già male, e ragionava con pudorato sarcasmo della mancanza di energia che accompagna la fine di un artista.” Lo ricordavo benissimo; le sue parole erano rima¬ ste impresse anche a me per il suono di disarmata, profetica confessione. S’era soffermato sul suo lavo¬ ro che non lo attirava più: “È come se fossi stato abitato da qualcuno che se n’è andato. Non voglio tentare una esemplificazione retorica, o letteraria, ma ho l’impressione che quel¬ l’individuo che stava con me, che prendeva decisioni, faceva progetti, incontrava gente, firmava contratti, se la sia svignata, senza avvisarmi. Sparito. E non ho più nessuna voglia di fare niente, mi sembra di non ricordare più neanche come si comincia.” L’amico giornalista televisivo gli aveva sollecitato un commento sul suo compleanno. “Che posso dire, - giocava Federico con un tipico spiazzamento dei suoi — è la prima volta che compio settantatré anni; non so ancora come ci si sente.” I suoi scarti, le sue finte. L’uomo, al pari del re¬ gista, era proprio il prototipo dell’artista clown, il funambolo da circo, di cui ammiri i virtuosismi, la scioltezza entusiasmante, l’assoluta indipendenza dalla forza di gravità, senza mai avvertirne, neppure per un momento, lo stravolgimento fisico, lo sforzo animale che li rende possibili. Federico aveva quella stessa leggiadria, resa fatata dall’invisibile tensione muscolare. Dal suo cinema emana soltanto la grazia che lo pervade; come per 29
un alato salto mortale, una capriola aerea, un muli¬ nello di vento. Il clownismo, l’atletismo cerebrale di Fellini, era ciò che lo rendeva così diverso dai suoi colleghi, così unico! La medesima trasparenza inafferrabile che Ni¬ no Rota aveva saputo tradurre nella musica, rapino¬ sa e mercuriale. In tutti gli artisti riusciti la carica energetica di¬ venta materia d’espressione sotto i nostri occhi; ma forse in nessuno, come in Fellini, il fenomeno è per¬ cettibile in misura tanto emozionante. Dopo l’ultimo svolazzo sulla luna e la discesa nei pozzi bisbiglianti di richiami, l’anziano, magico sal¬ timbanco aveva cominciato a temere che i muscoli potessero tradirlo, troppo irrigiditi, diventati legnosi per l’età. Fuori di metafora aveva anche somatizzato questa sua insicurezza: ormai durava fatica a camminare, in una delle gambe la circolazione del sangue lanciava segnali d’allarme; e sugli occhi, il destro in particola¬ re, stava calando la cateratta. “Per un regista gli occhi sono tutto.” Scuoteva il capo sentendosi simbolicamente colpito nella funzio¬ ne che più lo definiva. Le volte che ci incontravamo non potevo fare a meno di scrutarlo, senza parere; soprattutto di matti¬ na, quando il sole era ancora basso e la luce incideva di traverso, mi pareva di distinguere il velo che ap¬ pannava il cristallino. Mi chiedo se costituisse un fa¬ stidio o soltanto un progressivo, naturale e inevitabi¬ le annebbiamento di cose che non amava più vedere. Non voleva presenziare all’Oscar, lo avrai saputo - riprende intanto Rinaldi. - Aveva fatto di tutto per evitarlo. Quei giorni di marzo, il 17 e il 18, li ho pas¬ sati quasi interamente con lui. Il divertimento, più che l’imbarazzo, riguardava la scusa da propinare 30
agli organizzatori dell’Academy Award, quale osta¬ colo inventarsi che non suonasse offensivo, per sot¬ trarsi all’invito di Los Angeles. Cercavamo di prepa¬ rare credibili testi di diniego sia per i fax da inviare al presidente dell’Accademia sia, contemporanea¬ mente, per l’intervento in video da registrare in RAI, che l’inviato del TG avrebbe portato con sé a Hol¬ lywood in tempo utile per la cerimonia. Federico aveva deciso di non partire. “Non ho proprio le energie” continuava a ripe¬ tere. Di fronte a tanta resistenza anche Giulietta e il suo fedelissimo addetto stampa avevano smesso di insistere, ed erano prevalse le ragioni del non parte¬ cipare, di non sottoporsi alla fatica, allo stress, al di¬ sagio della trasferta. Fellini passava da un medico all’altro, a causa della cervicale che gli procurava le vertigini, ma so¬ prattutto per le complicazioni circolatorie alla gam¬ ba. Gli specialisti ritenevano ormai non più rinviabi¬ le l’inserimento di un by-pass e il 2 aprile era stato fissato un consulto a Zurigo. Quindi si trattava di affrontare lo strapazzo di un doppio trasferimento quasi con le ore contate; un dispendio di forze che lui avvertiva superiore alle sue risorse. D’altro canto nei messaggi via fax al presidente dell’Accademia di Hollywood non volevamo, accen¬ nando a malattie, provocare quell’allarmismo che avrebbe finito per autorizzare spregiudicati scoop giornalistici o peggio illazioni iettatorie. Così al se¬ condo o al terzo scambio di comunicazioni intercon¬ tinentali in tempo reale, avevamo optato per una for¬ mula che esprimesse tutto e niente. Ne soppesavamo attentamente i termini, valutando ogni risvolto, al li¬ mite di un periodare rarefatto, quasi criptico: Mi sento costretto a confidarle che non posso fare a me¬ no di seguire il consiglio di chi escluderebbe in que¬ ll
sto momento, per prudenza, di farmi affrontare un viag¬ gio...
Tanto che obbedendo a una coazione, Federico non si tratteneva poi dall’imboccare una di quelle sue soluzioni surrealiste, degne delle antiche collaborazioni al Marc’Aurelio: Mi sento costretto a confidarle che non posso fare a me¬ no di seguire il consiglio di chi escluderebbe in que¬ sto momento, per prudenza, di farmi affrontare un viag¬ gio...
E qui inseriva a tradimento: ...in slitta.
Aggiungendo con finto autoconvincimento: “Con le trasmissioni internazionali, le traduzioni, qualcuno potrebbe aver sbagliato, interpretato male; ma intanto la slitta introduce un elemento reale, og¬ gettivo, un ostacolo incomprensibile e perciò tanto più concreto. Prova a rileggere...” Rileggevo e, arrivati alla trappola della slitta, il fou rire scattava come una molla, contagioso, in un crescendo scriteriato. La risposta così concepita lo divertiva talmente da indurlo a coinvolgere al telefo¬ no il fedele addetto stampa, pregustando lo sconcer¬ to dello scrupoloso professionista. Questa volta era Federico stesso a leggere con comica seriosità il mes¬ saggio, e già dopo le prime frasi la voce gli si incrina¬ va nel riso. L’altro, per contagio, rideva anche lui di gusto, ma sempre più spaventato: “Il presidente dell’Accademia prende tutto sul se¬ rio, - si affannava a puntualizzare - non capirebbe.” Così abbiamo sacrificato la slitta.
32
Mentre Oscar racconta, a più riprese lascio corre¬ re lo sguardo in direzione della bara, da cui non si è più scostata l’affascinante signora bionda dal viso affilato come una maschera di cera. Rinaldi se ne accorge: “Adesso ci arrivo. Credimi, non è per il vezzo di prenderla alla lontana, ma perché tu possa accettare i percorsi mentali di questa vicenda, è necessario che ne conosca ogni passaggio, da principio.” Svuotato della folla dei visitatori il teatro sembra ancora più immenso, un oltretomba pagano di po¬ che, meste anime vaganti. Al ristorante di Via Brunetti, che dalla casa di Via Margutta raggiungevamo comodamente a piedi, dice ancora Rinaldi - con Federico avevamo discusso di salute, di diagnosi, di sofisticati test clinici; come se lui volesse convincersi, e convincermi, della ogget¬ tiva inaffrontabilità della trasferta americana. Torna¬ ti poi in ufficio, aveva continuato a scendere in det¬ tagli: “Avverto l’energia che viene meno, che mi abban¬ dona - si giustificava. - Se ripenso a film come Satyricon, Casanova, la complessità delle connessioni, dei nodi, delle migliaia di fili da tenere allacciati al¬ l’ombelico... Oggi mi sarebbe impossibile soltanto immaginare di reggere imprese di tali vastità e di¬ mensioni. Mantenere in equilibrio simili costruzioni obbliga a contare su una forza vitale quasi inesauri¬ bile, lasciarsi attraversare senza danni da una corren¬ te ad alta tensione. E forse il divertimento consiste proprio in questo, una specie di irresponsabile eufo¬ ria che ti rende incosciente, leggero, pronto a inven¬ tare una soluzione per ogni contrattempo, trovarla quasi già pronta, come è accaduto per il carnevale di Casanova, o il finale di Otto e mezzo. Senza energia non può avvenire nulla. Se ora en33
trasse da quella porta l’incarnazione della donna per me più desiderabile, la più ammirata, la più ghiotta, non sarei io a poter decidere il da farsi; l’incontro è ormai subordinato a una persona che non nutra atte¬ se, non soltanto non si ponga nella condizione di esprimere giudizi, ma neanche di avanzare le minime richieste; che si accontenti di dedicarsi a un evento la cui riuscita può avvenire come, al contrario, non ve¬ rificarsi affatto. Anche Simenon, quando a settan¬ tanni aveva smesso di scrivere e si limitava a dettare le sue memorie al registratore che chiamava jouet, il suo giochino, mi confidava: ‘Non ho più energie per scrivere romanzi’. Capisco solo ora cosa voleva dire; era venuta meno quella carica che permette di af¬ frontare il processo creativo. Per me è lo stesso: è co¬ me se stessimo parlando di qualcuno che mi abitava e che se ne è andato; non ho più quella fiduciosa at¬ tesa che mi conduceva dietro la macchina da presa, ad appoggiare l’occhio al mirino. Mi manca la curio¬ sità di conoscere cosa dovrebbe succedere. Non pos¬ so neanche affermare di essere depresso, sono solo indifferente. E non mi va neanche di raccontare que¬ sta indifferenza, tentare uno scarto laterale, una ca¬ priola, come ho sempre fatto.” Smentendo i suoi stessi pronostici, Federico era invece partito, incerto fino all’ultimo momento. Al punto che era già stato registrato il suo flautato ram¬ marico nell’intervento che l’inviato del TG si incari¬ cava di portare con sé a Hollywood: “Mi sento mortificato, amareggiato, di non poter partecipare di persona. Per uno che viene da Rimini e appartiene alla mia generazione, il cinema e l’Ame¬ rica sono la stessa cosa, due mondi che si riflettono 1 uno nell’altro, creando un terzo universo parallelo e irrinunciabile.” Si avvertiva, nel tono e nella scelta degli argomen34
ti, la malinconia autentica della defezione; nonostan¬ te l’avversione per ogni sorta di cerimonie e premia¬ zioni, gli rincresceva di non intervenire alla festa e di comportarsi “come un clown, un saltimbanco, che ha sognato tutta la vita il circo, e quando gli dicono di accomodarsi non ci va.” Il messaggio si concludeva con l’espressione della gratitudine nei riguardi del pubblico americano che gli aveva sempre dimostrato simpatia, e con l’affet¬ tuoso pensiero rivolto ai due attori che si prestavano a sostituirlo sul palcoscenico degli Oscar: “In tanta amarezza mi conforta che a rappresen¬ tarmi ci sia Marcello; tante volte indicato come il mio alter ego, questa volta ha voluto esserlo davve¬ ro. Lo ringrazio, insieme alla bellissima Sophia Loren, di ritirare per me il segno della fiducia, della fe¬ deltà e dell’affetto del pubblico americano, dei colle¬ ghi, dei membri dell’Accademia; che spero di ricam¬ biare facendo ancora qualche altro film.” Della partenza Fellini mi aveva avvertito con una breve frase in segreteria telefonica, il venerdì di quel¬ la stessa settimana, a fine mattinata: “Ciao Oscar, sono miseramente crollato, non per le vertigini della cervicale... crollato di fronte a que¬ sta ondata di esecrazioni, di insistenze, di suppliche, di rotture di palle. E quindi è possibile che parta, o domani o domenica, non so, ti chiamerò in giornata. Ti abbraccio.” Io ero restato in Italia a controllare la ristampa dei suoi film, per una personale particolarmente completa e curata che era attesa in autunno dalla cit¬ tà di New York, un grandioso omaggio all’artista. Disponevamo di tempi stretti e intervenivano con¬ tinui problemi da risolvere. Alcuni negativi dei primi film, cristallizzati, necessitavano di una ricostruzione minuziosa, eseguita a mano fotogramma per foto35
gramma; altri, più recenti, come quello di Amarcord, si presentavano talmente sfruttati da non sopportare più né stampe né rigenerazioni, e potevano essere salvati soltanto con delicate procedure di restauro che richiedevano tempi lunghi e costi altissimi. Ostacoli complessi, non previsti, che andavano risolti volta per volta chiamando a raccolta la buona volontà di tutti gli interessati. Nell’operazione erano stati coinvolti i tecnici più preparati e gli stabilimenti della Capitale al com¬ pleto. Al ritorno di Fellini dall’America, il 5 di marzo, c eravamo incontrati in un fine pomeriggio a Piazza del Popolo, per proseguire la serata a cena. Puntuale come al suo solito, Federico mi aspettava già siste¬ mato a un tavolino esterno del Caffè Canova, ri¬ spondendo garbato, gentile, ai tanti saluti che gli venivano rivolti nel passeggio affollato e garrulo di quell’ora incompiuta, gonfia di attese. Giulietta era a cena fuori casa e.Federico si gode¬ va la serata vagabonda. Sorseggiava una birra, spiz¬ zicava qualche salatino; teneva il colletto dell’imper¬ meabile rialzato, e non smetteva di guardarsi intorno con la solita, inesausta meraviglia. Più tardi, mentre in auto attraversavamo Ponte Margherita per raggiungere senza fretta il ristorante di Via Germanico, avevo approfittato per aggiornarlo sulla ristampa dei suoi film, su come procedevano le rigenerazioni. Al Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale, Ci¬ necittà International aveva organizzato un ciclo di proiezioni e quella sera era in programma La dolce vita, in una stampa nitida e brillante di cui mi senti¬ vo molto fiero: “Se poi ti va facciamo un salto” azzardavo. “Non ci penso nemmeno!” Possiamo entrare quando il film è cominciato, non ti vede nessuno...” 36
“Ma sono io che non voglio vedermi!” aveva pi¬ roettato con un sorriso di disagio. Era il suo atteg¬ giamento più tipico, quello di sfuggire, estraniarsi, non farsi intrappolare dal passato. Però mi ascoltava indulgente mentre gli illustravo l’impresa conservativa, il minuzioso lavoro di ripri¬ stino che si stava attuando presso gli stabilimenti a dispetto dell’approssimazione, dell’indolenza, della scarsità dei soldi; gli immancabili mali endemici na¬ zionali. A Roma c’era stato un gran temporale e la tempe¬ ratura era leggermente rinfrescata, ma Federico non aveva rinunciato al suo tavolino all’aperto sotto il tendone di tela a righe, e in attesa del cameriere si era intrufolato in cucina, come d’abitudine, riemer¬ gendone con un piatto ricolmo di prosciutto affetta¬ to a mano. Lo mangiavamo accompagnandolo al pa¬ ne fragrante, sorseggiando Chianti versato dal fia¬ sco. Era il modo semplice e sofisticato che caratteriz¬ zava i pasti con Federico, l’improvvisazione, la va¬ rietà, l’estrema ricercatezza di un menù mai uguale, mai convenzionale, svincolato da liste e restrizioni. Il restauro dei film mi aveva condotto, non so come, a soffermarmi su La strada, quella favola astratta e senza tempo, misteriosamente pregna di un malesse¬ re immutato negli anni. E per la prima volta nella nostra lunga frequentazione, Federico mi aveva di¬ schiuso uno spiraglio sconosciuto. La realizzazione del film era stata un’esperienza sofferta, pericolosa, uno sprofondamento quasi me¬ dianico, che l’aveva condotto sull’orlo della malattia psichica: “A una settimana dalla fine delle riprese, stavo pranzando con la troupe da Bastianelli, sul molo di Fiumicino. A un tratto ho sentito che qualcosa mi si rompeva dentro, proprio lo scatto di una molla che si svirgola. In quei giorni stavo riprendendo le prime 37
scene, quelle della spiaggia, che nel piano di lavora¬ zione venivano per ultime. Terminata la pausa, sono ritornato alla macchina da presa con lo stesso stato d’animo di un naufrago che si aggrappa a un relitto, per salvarsi; era come se una parte di me dovesse tenere l’altra a bada, per mano, una metà che si era distaccata. E quel giorno ho girato con un senso di malessere così forte che anche Giulietta se n’era ac¬ corta. La sera non ero riuscito a prendere sonno e per una settimana non ho più chiuso occhio. La not¬ te la passavo in bianco e il giorno ero occupato nelle riprese. Giulietta che era amica della compagna del professor Servadio, seguace della psicanalisi junghia¬ na, fece in modo di fissarmi un incontro con lui; e un pomeriggio, terminate le riprese, m’ero recato a tro¬ varlo nel suo studio. Era la prima volta che mettevo piede da uno psicanalista: riceveva in una stanzuccia angusta, stretta, occupata per metà da un lettino, una impressione asfittica, di mancanza di spazio, in cui provavo solo disagio, non c’era niente che potes¬ se aiutarmi. Mi ricordo che quella prima volta non ho praticamente parlato, non trovavo la disposizio¬ ne, non volevo. Nel frattempo era scoppiato un gran temporale e una volta riemerso dallo studio, per la pioggia che cadeva a torrenti, ero stato costretto a ri¬ fugiarmi sotto un albero. Al riparo c’era già una gio¬ vane signora, in attesa anche lei di un taxi, che mi si era rivolta in romagnolo: ‘Mo’ lei che dice, la trove¬ remo un’anima buona?’ La cadenza, l’accento erano proprio quelli di Rimini; le chiesi di dov’era e mi ri¬ spose che veniva da San Marino. Era la Lea. Siamo restati ad aspettare insieme, e nonostante lei indos¬ sasse uno di quei vestiti che allora si chiamavano a sacco, in un momento in cui si era girata con una mezza piroetta, ero riuscito a intravedere la poten¬ za di due chiappe gloriose. Arrivato il taxi, siamo sa¬ liti entrambi sul sedile di dietro, con l’accordo che 38
avremmo prima sostato al suo albergo e poi avrei proseguito da solo. Però, una volta giunti a destina¬ zione, avevo avvertito il tassista di attendere ed ero disceso anch’io, per accompagnarla. Nell’androne semibuio lei si era fermata, indugiando, forse per ringraziarmi. L’avevo abbracciata d’impulso, e mi aveva lasciato fare...” La mitica Lea! Quante volte era affiorata dai suoi racconti; sempre per lampeggiamenti un po’ corru¬ schi, abbaglianti come bengala. E ora, inaspettato, Federico mi dipingeva il loro primo incontro, la na¬ scita di quella passione arroventata. Percorrevamo in macchina, senza una meta, la città notturna e silenziosa, Piazza Venezia, il Colos¬ seo, la Cristoforo Colombo; poi indietro, per la Pas¬ seggiata Archeologica, Via dei Fori Imperiali, Via del Corso, Trinità dei Monti, Via del Babuino, e infine Via Margutta fin sotto casa. Alle undici l’avevo la¬ sciato davanti al suo portone. Per tutto quel girova¬ gare svagato e sognante era restata seduta fra noi la superba Lea di San Marino, immagine leonina di spropositata sensualità, di incontenibile lascivia. La donna che lo aveva travolto più di ogni altra sul pia¬ no dei sensi. La femmina insaziabile che nella Voce della luna si trasformava a vista in una locomotiva sbuffante e inarrestabile, una spaventosa vaporiera che faceva deragliare dalla ragione l’esile, improvvi¬ do sposino. L’amante bellicosa che durante una sosta sovrecci¬ tata lungo una statale umbra, aveva semidistrutto a lanci di sampietrini la fiammante Flaminia Sport ap¬ pena ritirata dall’autosalone. La mitica Lea di San Marino che era morta in manicomio.
39
Capitolo III La catena magica
A fine maggio Federico era partito per la Svizzera, prosegue Rinaldi - mentre io a Roma continuavo a curare il programma di ristampa dei suoi film. Un’occasione irripetibile per godermi la rarefatta estate cittadina e consumare intanto una esperienza senza confronti: quando mi sarebbe più capitato di rivedere tutti i film di Fellini, uno di seguito all’altro, su grande schermo e nelle migliori condizioni tecni¬ che desiderabili! Avevo ottenuto di fissare le proiezioni a cavallo dell’ora di pausa, all’una, alle due, e al culmine della calura mi spingevo fino ai laboratori sotto una cola¬ ta di fuoco. A Roma l’estate esplode con una violenza arcaica, africana, e nel traffico le lamiere si arroventano, le strade vaporano di caldo. Laggiù sulla Via Tiburtina, all’altezza del raccordo anulare, in quella periferia arida, polverosa, sgorbiata dalla speculazione edili¬ zia, le squadrate, geometriche costruzioni degli stabi¬ limenti mi accoglievano in un’oasi di freschissima aria condizionata, silenziosi e ovattati come cronica¬ ri di lusso. Accomodanti, cortesi, i tecnici non contestavano il mio orario inconsueto; prendevo posto fra velluti e moquette in una poltrona fuori fila, accosta alla con¬ solle e appena angolata, mentre lo stampatore si si¬ stemava taciturno alle mie spalle per controllare in¬ sieme a me il risultato. Il laboratori cambiavano, ma il ronzio lontano del 40
proiettore, la climatizzazione ineccepibile, rimaneva¬ no gli stessi, e sullo schermo smagliante, terso, im¬ mune da imperfezioni, scorrevano le immagini ini¬ mitabili di Satyricon, Amarcord, Roma, Casanova, ha città delle donne, E la nave va, Ginger e Fred, In¬ tervista. Per La voce della luna, nei titoli di testa bianchi sgargianti su sfondo blu, mi aveva colpito la dizione: Storia cinematografica e sceneggiatura di Federico Fellini. Non ricordavo quella singolare didascalia, mai adottata precedentemente per altre sue opere, quasi un marchio di fabbrica a conclusione della sua car¬ riera, l’orgoglio semplice di un artigiano. Poi era iniziato il film, con i sussurri che esalava¬ no dai pozzi - si riconosceva benissimo la voce di Fe¬ derico appena camuffata - e chiamavano per nome l’incauto, eccitato Salvini. Un bisbiglio velenoso, ir¬ resistibile. La copia non presentava il minimo difetto, lu¬ minosissima, colori intensi e fedeli, una gioia degli occhi. Il film scorreva aereo, leggero, trasparente e inaf¬ ferrabile, come un sogno da cui non vorresti mai rie¬ mergere. Perfino certe impercettibili increspature che a suo tempo mi erano parse capricciose intromissio¬ ni dell’autore, anch’esse erano sparite, dissolte nello specchio terso del racconto; ogni viso, ogni caratteri¬ stica, ogni atteggiamento degli attori, si presentava¬ no insostituibili, meravigliosamente unici e immodi¬ ficabili; la storia si materiava della sua stessa ‘inna¬ turalezza’, al pari della poesia. Restavo ammaliato ad assorbire quel fluire di immagini e di parole imbe¬ vute di una necessità fisiologicamente lirica, come il prodursi di una nebbia lieve, un vapore che sale dal basso, da dentro, e ti avvolge con spire incantate. Il 41
film mi stregava con la medesima sostanza della voce dei pozzi, possedeva la stessa malia, l’identico sorti¬ legio di quei richiami incomprensibili: davanti allo schermo siamo tutti Salvini. Al pari del protagonista mi lasciavo rapire, col cuore puro. Nessuna insoffe¬ renza, nessun ingombro, nessuna invasione sgradita. Che sottile delizia poter affondare nel magma vi¬ sionario di Federico, protetto da ogni possibile inter¬ ferenza, in assenza di altri spettatori, nessuno che agitasse le gambe o facesse scricchiolare il sedile, neppure un respiro a distogliermi dalla concentrazio¬ ne! Ti assicuro, sfioravo lo sconfinamento. Esistono momenti in cui c’è bisogno di un contat¬ to più intimo, più intransigente, più notturno, col mistero della comunicazione artistica, e quando avviene, il messaggio si manifesta con la purezza di una verità rivelata. “Se facessimo un po’ più di silenzio...” recita il film alle sue ultime battute. È un invito all’attenzio¬ ne, alla riflessione, a piegare la testa, raccogliersi, tendere l’orecchio a ciò che viene sussurrato, che un refolo di fiato può disvelarci dietro la sordità delle parole, oltre il vuoto frastuono, attraverso risonanze dimenticate o la metafora delle immagini. Non è un caso che il suo ultimo film Fellini abbia voluto dedicarlo alla luna, il satellite che specchia la terra con una doppia faccia: Diana di giorno, la ver¬ gine cacciatrice e schiva, rapida e sfuggente; ed Ecate di notte, Proserpina, la dea degli abissi e degli inferi, amante di Plutone e di tutto ciò che riluce occultato e sepolto dentro di noi. Della luna il film incarna la fragilità, l’avvenenza femminile, la natura riposta, il doppio profilo, e risulta affascinante quanto il miste¬ rioso astro d’argento. Per chi riesce ad ascoltarne la voce, a distinguerla fra le tante che vi si riverberano, riconoscerne i tratti ectoplasmatici sui volti dei due clown protagonisti, 42
ogni minimo dettaglio, il più insignificante, assumerà valori insospettabili. Come in ogni opera d’arte conseguita, ciò che ar¬ riva a commuoverci, a emozionarci, non è la materia della favola ma l’esattezza della rappresentazione, la perfetta aderenza fra l’anima dell’artista e il risultato raggiunto, la folgorante rivelazione che affiora dal fondo dello specchio. Nei film di Fellini di frequen¬ te accade che tanta sottigliezza sfugga a un primo sguardo travolto dall’esecuzione d’insieme, saturo, acceso di puro stupore. Eppure l’impronta si stampa nel cuore. Come è triste e inconsolabile La voce del¬ la luna sotto l’apparente allegria! Non diversamente dalle altre favole di Federico in cui la vicenda si sno¬ da allegra, chiassosa, perfino comica, a contrasto con il sentimento generale invariabilmente ferito e straziato. La medesima apparente inconciliabilità di cui è intessuta la musica di Nino Rota, quei ricami impalpabili, quei temi sospesi, intrisi di rimorso e di speranza. Nella Voce della luna questo contrasto, altrove dolcissimo, questa cacofonia corrosiva si fa aspra, arriva a striderci dentro già al primo impatto, attra¬ verso la costruzione scenografica di quel paese inesi¬ stente e così vero, con l’affastellamento di stili architettonici sovrapposti e dissonanti, le strade soffocate da lamiere di automobili, la piazza deturpata dalla neoplasia di una chiesa in vetroresina, il suolo squar¬ ciato dalle continue trincee scavate dai fratelli Micheluzzi, gli empi artefici della cattura della luna, espiantata per pura demenza dal cielo. Quando, dopo la festa in discoteca, Benigni-Salvini si imbatte nella sorella e nel cognato, il viso tur¬ bato e trepido della giovane donna, l’espressione mi¬ te e pietosa dell’uomo, sono quelli di tutte le sorelle e di tutti i cognati della terra, persino per chi, come me, non ne possiede; e il loro appartamentino lindo 43
e modesto, quel gesto materno della sorella di ap¬ poggiare la guancia e le labbra alla fronte del fratello smarrito di senno, evocano il sentimento più antico della casa, primo riparo da ogni offesa, da ogni in¬ giuria della vita. E la commozione ci rende inermi, attratti per incantamento dentro la zona oscura, in¬ decifrabile, in cui l’artista affonda e distende le sue radici, assorbe gli umori, liberando consapevolezze rimosse, anticipando svelamenti che spesso, senza il silenzio invocato, rischiamo di non riconoscere e di non poter udire. In un turbamento non dissimile avevo assistito in precedenza a La città delle donne, a Ginger e Fred, film anticipatori, percorsi da inquietudini indecifra¬ bili, parabole oscure al loro apparire. E la nave va, misteriosamente riverberato da lampi di odio di un popolo serbo belligerante e disperato di cui solo die¬ ci anni dopo avremmo individuato e compreso l’e¬ nigma incombente. Federico affabulava spiando e assorbendo le sue vibrazioni interi-ori non diversamente dal rabdomante che intercetta la vena d’ac¬ qua. Da cosa era stato raggiunto con tanto anticipo? Come si erano saldate dentro di lui la messa in scena di uno sfondo balcanico percorso da tuoni di guerra, con la rappresentazione del luttuoso crollo dell’ar¬ monia? Quali messaggi aveva saputo percepire in quel si¬ lenzio invocato, cosa era riuscito a scandagliare, a trattenere fra le impercettibili trame del sensibile in cui soltanto la poesia sa orientarsi al pari di uno spettroscopio, un sonar, una calamita di polveri co¬ smiche? In Intervista Fellini ci invitava scopertamente al gioco, con nostalgica ironia, armando gli indiani di antenne televisive al posto delle lance, in una carica stracciona e gloriosa in cui agonizzava il cinema as¬ sediato; inutile scrutare l’orizzonte per scorgere l’ar44
rivo dei nostri; la prateria non c’è più, l’orizzonte è quello dei palazzi innalzati a muraglia che accerchia¬ no senza speranza stabilimento e teatri di posa. La voce della luna è la conclusione di questo tra¬ gitto, è il canto conclusivo di un veggente che ha ol¬ trepassato i limiti della sua metrica: onorato dovun¬ que principalmente quale uomo di spettacolo, Fellini incarnava per talento e vocazione il rapsodo dalla consapevolezza caliginosa, il profeta indispensabile di una società che ha perduto orientamento e contat¬ ti profondi. Credimi, Fellini era un santo in giacca e cravatta, e i miracoli erano i suoi film. Quasi alla fine di giugno, il 25, era un venerdì, dalla Svizzera era finalmente arrivata la sua telefona¬ ta. Un messaggio registrato nella segreteria alle cin¬ que del pomeriggio: “Caro Oscar, sono Federico. Un salutino. Non ho potuto farlo prima perché il telefono me lo danno soltanto per pochi minuti, e poi rimangono sulla porta ad accertarsi che non vada oltre il termine con¬ cesso. ...È stata una cosa un pochino più complessa del previsto. Dovrò trattenermi ancora due o tre set¬ timane, credo. Ma lentissimamente comincia a an¬ dare meglio. Un’avventura proprio... anche molto... nutriente... L’ospedale è straordinario, il fatto che ci sia un luogo così dove lavorano quindicimila perso¬ ne ed entrano e escono tre o quattrocento malati al giorno, è un miracolo! È un miracolo che dà proprio speranza, fiducia... E non tutte le chiacchiere, la re¬ torica, le fandonie del nostro Paese, la vergogna... Va bene, Oscar, ti cercherò in un altro momento, do¬ mani o dopo. Comunque ti volevo salutare. Ti penso con molto affetto. Ciao Oscar...” E la mattina seguente, finalmente, avevo potuto udirlo di persona. La sua voce non era più spezzata, 45
affannosa, stanca, come quella incisa nella segreteria; era tersa e venata di umorismo, carica di giocosità. Parlava della negretta, sulla porta, messa a controlla¬ re che non si stancasse troppo, incaricata di ripren¬ dere l’apparecchio telefonico dopo qualche rapida comunicazione. Nel breve tempo a disposizione s’era esaltato a raccontare di quell’ospedale modello: “Se fossi restato a farmi operare in Italia, - soste¬ neva - non saremmo qui a parlarci.” Si sentiva molto protetto, rassicurato dal partico¬ lare statistico che a ogni paziente corrispondessero quattro persone e mezzo di personale; era ammirato dalla sollecitudine delle infermiere di ogni razza e co¬ lore, la loro presenza costante, professionale, assidua: “Una organizzazione persino più rassicurante di quella americana, efficientista ma meno robotica e spersonalizzante.” Probabilmente vista da quella distanza l’Italia gli appariva davvero una specie di casermone arruffato, infantilmente compiaciuto nell’equivoco della bona¬ rietà irresponsabile, nella mistica dell’individualismo o di una pretesa dolcezza del vivere in cui il rispetto per gli altri si svigorisce in una asociale affermazione di indipendenza. “Questa è vera democrazia, - argomentava Fede¬ rico dalla Svizzera - qui senti di essere un cittadino. Un ospedale come questo ti restituisce la fiducia nel¬ la collettività.” Poi però non rinunciava al gusto dei ribaltamenti e aggiungeva: “Il chirurgo veramente sembra un ufficiale della Wermacht, proprio di quelli col ‘von’ davanti al no¬ me, uno che ti opera già con lo sguardo.” Mi riferiva che erano stati necessari non uno, ma tre interventi consecutivi; tre volte sotto anestesia, sequestrato in camera operatoria dalle sette di matti¬ na alle nove di sera. Non riusciva più a riemergere 46
dal sonno artificiale, continuando a delirare anche oltre l’effetto chimico del narcotico. Ogni tanto si interrompeva con degli “Only a moment, just a moment...” evidentemente rivolti al¬ la giovane infermiera nera che, di sentinella, gli se¬ gnalava di smettere; e lui la blandiva con la sua voce sottile, seducente, per informarmi subito dopo: “Ha un culo che puoi appoggiarci la macchina da scrivere, il telefono, i libri, i gomiti e anche sdraiarti¬ ci sopra, come su un divano. Vedessi cosa sono qui le nurse, che bellezza, che modi, che amabilità, nulla di mignottesco, nessuno stereotipo del casino, ma una femminilità, una grazia che rigenera e consola.” E con queste immagini di una muliebrità trionfan¬ te e risanatrice, mi aveva lasciato. Gli avevo annunciato l’invio di una lettera in cui lo tenevo al corrente della ristampa delle pellicole. Gli avevo scritto d’impeto, subito dopo la visione di controllo di Toby Dammit; un film che sembrava appena girato, per il suo linguaggio convulso e lim¬ pido insieme, uno stile di racconto nevrotico, incal¬ zante, visionario, a cui avrebbero attinto avidamente nei decenni successivi le mode delle pubblicità e dei giovani colleghi. Un ulteriore debito senza pedaggio contratto con il Mago Merlino. Più ci inoltriamo nella notte, più le parole di Ri¬ naldi sembrano isolare l’aula vuota del Teatro 5 sot¬ to un’invisibile campana di vetro, tutti insieme im¬ prigionati dentro una bolla trasparente appoggiata sul palmo del Genio della Lampada, sotto il suo sguardo tenero e sornione. Un’anziana attrice sensitiva che giunge dalla Pu¬ glia, accende il magnetofono occultato in fondo alla borsa, e nella vasta navata silenziosa si diffondono canzoni del tempo di Federico II di Svevia. Le ha rac¬ colte lei stessa, in stato di trance, viaggiando nel me47
ridione di castello in castello, ripercorrendo l’itinera¬ rio seguito secoli addietro dal musico del Grande Im¬ peratore. La mestizia dilaga, ma la maga si ribella: niente musi lunghi, l’afflizione trattiene l’anima di chi si sta distaccando impedendole di volare libera verso il ricongiungimento con lo spirito comune, di disperdersi, come anela, nell’universo. L’esortazione ottiene il suo effetto, si propaga una serpeggiante euforia da set cinematografico: il movi¬ mento delle masse che ci ha circondato per tutta la giornata, le torrette mobili con in cima i riflettori, il cielo dipinto, restituiscono il teatro e noi stessi a una suggestione inconfondibile. Siamo al riparo del re¬ cinto privilegiato, un mandala, un penetrale invali¬ cabile in cui l’evento trapassa in magia e la magia stringe un legame di unione resistente, indissolubile, fra gli adepti. Nell’improbabile camera ardente lo stare è lieve e sereno. In più, aleggia nel teatro una sensualità palpabile; la predominanza di presenze femminili costituisce un harem ideale attorno alla bara. Alcune sono assai attraenti, persino provocanti al di là delle intenzioni e dell’età. Alba Moreno, per trent’anni segretaria di edizione dei film del Maestro, emana il felino erotismo effigiato nei mille disegni a lei dedicati; gatta dal sorriso goloso e dalla coda rial¬ zata sui glutei sfidanti. Anche il giovane Rinaldi la osserva e forse, in¬ tuendo i miei pensieri, commenta: “E stata lei a introdurmi nel mondo di Federico. L’ho incontrata come la guardiana della soglia, aral¬ do degli adepti; una trama del fato che avrebbe do¬ vuto apparirmi chiara fin da allora.” “Sarebbe?” Stavo preparando la mia tesi di laurea sui film di Fellini, e scoprivo che col cinema era consentito esprimere compiutamente se stessi non soltanto sen48
za mai rinunciare, per nessun motivo, a fantasticare su quelle semidee inarrivabili che sorridevano dallo schermo, ma anzi evocandole, trafugandole, carpen¬ dole ai sogni, rendendole corporee. Le labbra di Ani¬ ta Ekberg! I suoi occhi da tigre, i seni, le gambe! Esi¬ steva dunque un paradiso! L’arte, la psicanalisi, la magia: cosa non era riu¬ scito a trasportare dentro la vela bianca quel grande alchimista?! E poi l’amore, l’ammirazione, la sconfi¬ nata curiosità per l’universo femminile, raccontati senza ipocrisie, senza moralismi, senza pudori. La coincidenza di esser nato soltanto a pochi chi¬ lometri da Rimini, la città di Federico, lo spazio di un corsa in bicicletta oltre quella linea di demarca¬ zione verso un mondo pagano, allegro, gaudente, di¬ namico; quella provvidenziale prossimità, mi avreb¬ be forse consentito un salto, chissà, uno scavalca¬ mento, per penetrare nell’altra dimensione. Così, con in tasca la lettera di presentazione di un comune amico, ero venuto a Roma a conoscere Fellini di per¬ sona, dopo aver perlustrato tutto il pensiero consa¬ crato al suo cinema. A mezzogiorno in punto, con l’ansia di far tardi, entravo all’Hotel Plaza, un mitico albergo di lusso, austero, sontuoso, animatissimo, proprio al centro di Via del Corso, di fronte alla chiesa dei SS. Ambrogio e Carlo. La bussola girevole di cristalli liberty smeri¬ gliati mi aveva depositato col suo sfavillìo al centro della hall. Ciò che stavo vivendo era già a suo modo un film, con i personaggi che si spostavano sulla scena per in¬ contrarsi nel punto focale predestinato. E uno di lo¬ ro era il più famoso regista della Terra. “Ho un appuntamento con Fellini”, scandii a uno dei sussiegosi rondoni, impettito dietro il banco della reception. Era lui la persona giusta? Avevo scelto be¬ ne? Non si diede pena di replicare, alzò un telefono 49
nero e lustro come la sua marsina, e sussurrò pru¬ dentemente qualcosa di vago: “Adesso arrivano” mi istruì poi, sollevando im¬ percettibilmente lo sguardo verso la porta vetrata che separava l’atrio dalla immensa lobby sovraccari¬ ca di tappeti e arredi rilucenti, e suggerendomi indi¬ rettamente, con quel minimo accenno, da che parte dovessi aspettarmi l’apparizione. Ampia, curvata, impreziosita dalla guida rossa fiammante, scendeva dall’alto una scalea marmorea e in capo alla voluta del mancorrente un leone gigan¬ tesco si protendeva verso il vestibolo con passo mae¬ stoso. Aveva la criniera irsuta, le fauci dischiuse a scoraggiare l’incauto visitatore; la sua sola presenza, la sua mole, costituivano la minaccia, a guardia di un passaggio evidentemente interdetto, o concesso solo a pochi. Scala e animale, del resto, mi erano fa¬ miliari, per averli incontrati, perfettamente riprodot¬ ti, in Otto.e mezzo. Poi, improvviso, un sorriso lusingatore, una boc¬ ca vermiglia che formava le parole con invitante e avvolgente sinuosità: “Ma come è giovane, proprio un ragazzo! È qui per il Maestro, vero? Io sono Alba Moreno, la segre¬ taria di edizione.” Mi aveva teso la mano, la camicetta di seta scarlat¬ ta, sbottonata a misura, palpitava sui seni che non vo¬ levano saperne di quel docile schermo; il sorriso non svaniva, accendendo anzi tutto il viso, stellando gli occhi scuri, sfidanti ma languidi, da sulamite. Mentre parlava, una punta di lingua umettava saettando le labbra, faceva capolino sfrontata e promettente. “Venga, il Maestro la vedrà subito. Lei è di Bo¬ logna, no?” Lo diceva come se fosse un lasciapassare. “Studio a Bologna” l’avevo corretta con pedante¬ ria, non conoscendo ancora le regole di un mondo in 50
cui le domande sono poste, così, con garbo distratto, senza pretendere risposta. “Ma che bravo! Non è mica facile trovare ragazzi con la voglia di studiare; alla sua età magari uno, ovvia!, ha più la testa a divertirsi.” Parlava con una leggera inflessione toscana e mi precedeva di un mezzo passo per dare la possibilità al suo corpo di sagomare mollemente l’aria intorno. Il sorriso si era trasformato a vista in una risatella assolutoria: se lo avessi fatto, di divertirmi invece che studiare, non avrebbe saputo darmi torto. Alba è modellata come un’anfora, la vedi anche tu, nello stile delle donne di Barbara, di Boccasile, di Walter Molino: caviglie strette, e sedere bombato. Non alta ma proporzionatissima, la vera donna ita¬ liana. Federico l’ha sempre ritratta allo stesso modo nelle sue innumerevoli caricature, muso da gatta, cur¬ ve feline, e un incedere dondolante, da incantatrice. Il mondo di Fellini mi si è presentato annunciato da lei. Per la prima volta mi sono trovato davanti a una sua creatura in carne e ossa e non più ai fanta¬ smi argentati dello schermo da rimpolpare instanca¬ bilmente con l’immaginazione. “E con Alba cosa è successo?” “Niente! Alba era stata una anticipazione, una specie di araldo, di messaggera dell’Olimpo. L’ho ca¬ pito più tardi. Anzi se devo essere sincero lo sto rea¬ lizzando solo ora che ne parlo con te. Il senso di quell’incontro si disvela se coordinato agli avve¬ nimenti dell’estate, quando Federico, non volendo ascoltare ragioni, dimesso dall’ospedale svizzero, era voluto tornare a Rimini. Una decisione fatale, forse, considerata la drammatica successione degli eventi; ma che pure aveva favorito un precipitare di sali allu¬ cinatoti di cui lui soltanto aveva facoltà di dominare gli influssi sommersi e lo sprigionarsi delle visioni”.
51
Capitolo IV
L’angelo di Benozzo Gozzoli
L’ictus aveva colpito Federico il 3 agosto al Grand Hotel di Rimini, con conseguente immediato ricove¬ ro all’Ospedale Infermi. Seguendo le indicazioni raccolte in portineria, m’ero inoltrato nell’ingente e tortuoso complesso: scala C, in fondo, quarto piano. All’apertura dell’ascensore, l’elettrizzato fermento di un drappello di persone in attesa sul pianerottolo mi aveva avvertito di trovarmi nel reparto giusto. I cronisti, senza sapere chi fossi ma in eccitata bulimia di notizie, mi erano balzati incontro, mi interrogava¬ no, rovistavano in cerca di possibili indiscrezioni. Un fotografo che mi aveva spedito a Cinecittà il hook dei suoi scatti da sottoporre al giudizio di Fellini, ri¬ conoscendomi, aveva occhieggiato solidale al para¬ vento posto a sbarramento di un corridoio: “Da quella parte” mi aveva avvertito. In quel momento era spuntata Giulietta, fragile ectoplasma dallo sguardo sperduto, il volto teso e cancellato. Stretti nell’abbraccio, ci siamo baciati sulle gote come di consuetudine: “Non so se può vederti, - aveva bisbigliato con voce sommessa - non è stato bene.” Era tornata indietro, precedendomi oltre il para¬ vento, nel reparto; da una delle due porte in fondo al corridoio era apparsa Loretta, l’assistente personale: “Vieni Oscar, seguimi.” E mentre la Masina riguadagnava gli ascensori, io 52
avevo seguito lei dentro una camera a due letti tra¬ sformata in segreteria e sala di attesa. Dietro la porta chiusa della stanza di fronte, c’era Federico. “Ha avuto molte visite, - mi spiegava Loretta cer¬ cando di sintetizzare la situazione - si è emozionato, si è affaticato; gli è anche risalita la pressione. Ades¬ so per ognuno che arriva dobbiamo consultare Sa¬ raceni.” Mario Saraceni, il medico curante di Federico, in quei giorni era stato sbalzato a una improvvisa cele¬ brità perché da lui venivano diramati i bollettini sa¬ nitari nei notiziari televisivi. 6 agosto 1993, ore 10 Le condizioni cliniche di Federico Fellini sono caratte¬ rizzate da un modesto, iniziale miglioramento. La vigilan¬ za, sempre stata presente dietro sollecitazione, è adesso spontanea e collaborativa. Permane invariato il deficit motorio. Non si sono registrate complicanze infettive, metaboliche, né cardiorespiratorie. La terza TAC cerebrale ha confermato l’assenza di complicanze emorragiche. La riserva sulla prognosi è tuttavia ancora doverosa. Loretta mi aveva messo rapidamente al corrente degli avvenimenti di quei primi giorni, le supposizio¬ ni, le ansie, le visite, le inutili e vanitose parate delle persone più impensabili, le incontenibili iperboli dei giornali. Ci interrogavamo a vicenda sul possibile evolversi di quella penosa vicenda, finché Saraceni ci aveva raggiunto, nel suo stile teatrale, arioso, un po boulevardier. Rispetto a Roma aveva addirittura en¬ fatizzato il suo innato atteggiamento da attore, ma¬ gniloquente, trepido ma anche sdrammatizzante, im¬ postato a una certa sontuosità ufficiale che gli deri¬ vava dal doppio ruolo di portavoce dell’intero staff clinico e medico di fiducia dell’augusto paziente. La popolarità lo aveva inebriato e la responsabilità lo esaltava. In quel momento aveva un problema preci53
so e non da poco, se cioè sciogliere o meno la pro¬ gnosi, consapevole che il nuovo episodio ischemico, sebbene in sé superato, non giustificava disinvolti ot¬ timismi, essendosi verificato in presenza di una tera¬ pia anticoagulante che teneva già il sangue fluidifi¬ cato a valori sotto i quali era impossibile spingersi. Non esisteva del resto nessun’altra terapia alternati¬ va; veniva applicàta la medesima già prescritta dal¬ l’Ospedale cantonale di Zurigo, che pure non era riuscita a preservare Fellini dall’ischemia cerebrale e dalla paralisi di tutta la parte sinistra del corpo. Le TAC stabilivano che la situazione non degene¬ rava, quindi tutto contribuiva a ben sperare, ma Sa¬ raceni si sentiva addosso gli occhi del mondo, lo af¬ fermava perdendosi con lo sguardo in quella stermi¬ nata platea immaginaria, una condizione che lo tor¬ mentava e galvanizzava allo stesso tempo. “Lo vuoi vedere?” mi aveva infine domandato. Era rientrato nella stanza e subito mi aveva chia¬ mato. La voce stessa di Federico mi aveva accolto mentre superavo la soglia: “Vieni Oscar, siediti.” Farfugliava l’invito con la bocca storta, disteso nel letto. Gli occhi non rispettavano la sconnessione del viso: era il destro a restare semichiuso, la palpebra quasi abbassata del tutto, mentre il sinistro orbitava sbarrato e, per contrasto, appariva di proporzioni in¬ naturali. Ricordava il bulbo vitreo imposto ad Alain Cuny per il ruolo di Lica, il pirata neroniano del Satyr icori. La mano sinistra giaceva inerte sul lenzuolo. Da¬ va l’impressione di essersi ritirata, incartapecorita, al pari delle reliquie dei santi nelle cappelle votive. Non riuscendo a superare il raccapriccio, mi ero rivolto alla destra, indolenzita dagli aghi della flebo, chi¬ nandomi a baciarlo intanto sulla guancia mentre mi mormorava: 54
“Hai visto cosa m’è successo?” Sul volto una espressione seria, d’occasione; a cui replicavo con i soli occhi, annuendo muto, con gra¬ vità, intimamente compreso, turbato. Non potevo prevedere la giravolta: “M’è venuta una cappella di queste dimensioni.” E con la mano buona aveva tracciato nell’aria la curva di un voluminoso glande immaginario. Impossibile trattenerci dal ridere insieme, a di¬ spetto della situazione assai poco allegra; avrebbe voluto che il professor Saraceni circostanziasse l’i¬ naudito fenomeno nel bollettino medico: Una strana malattia, un morbo sconosciuto, sbalorditivo, una cappella gigantesca da cui germogliano fiordalisi...
Nonostante la batosta, esprimeva un intenso biso¬ gno di comunicare; era frastornato dall’attacco del male, distorceva i suoni ma non rinunciava ad espri¬ mersi; lodava l’ospedale di Rimini per la perfetta or¬ ganizzazione, e si opponeva con decisione alla tera¬ pia di recupero che il medico curante gli prospettava presso un qualche istituto specializzato. “Li ho visti quegli istituti, quando è successo al povero Riccardo, sono atroci, dei lager terrificanti: non voglio metterci piede.” Intanto erano entrate le infermiere addette al massaggio elettrico; le conosceva per nome, si infor¬ mava di alcune che non vedeva presenti, controlla¬ va mentalmente il suo cast. Il film continuava, con lui al centro della ‘baldoria’, protagonista inconte¬ stabile. Nella stanza ufficio di Loretta, affollata come un crocevia, si succedevano le visite; Roberto Benigni era sopraggiunto insieme a Nicoletta Braschi, e si sforzava di apparire invitato a una festa, con gli oc¬ chi lustri e ridenti. Saraceni li aveva prontamente an¬ nunciati e introdotti, e quando in capo a pochi mi55
nuti erano riemersi, Roberto si era caricato di una crepitante allegria voltaica: “Sta bene! - continuava ad articolare come mosso da un congegno a molla. - Sta bene. Sta meglio di prima!” E rimesso piede nell’atrio, preso d’assalto dai gior¬ nalisti, s’era scatenato in un show strampalato a loro beneficio, mitragliando spavalde fanfaluche, da vero commediante. Ma aveva le pupille sperdute, stava bruciando, visibilmente sopraffatto da una febbre che lo divorava. Pamina Trif, la giovanissima infermiera rumena, era stata spedita da Federico a comprare alcuni gior¬ nali: “Ha chiesto II Messaggero e L’Espresso” ripeteva trafelata, con aria stupefatta e l’italiano incerto, scen¬ dendo a precipizio le scale. “Vuole essere tenuto al corrente di tutto, leggere tutto - rimarcava Loretta. - Si ricorda di ogni parti¬ colare. Secondo me sta anche accarezzando qualche pensierino di lavoro.” Verso le otto la camera si era svuotata di tutte le visite, compreso il corteo dei medici e delle infermiere. Chiamato da Federico, mi ero seduto alla sua si¬ nistra, dal lato offeso, soffermandomi questa volta sulla mano inerte: non aveva nessuna sensibilità. La pelle, molto maculata, risultava più scura e più sotti¬ le, priva di elasticità, e soprattutto gelida, nonostan¬ te il caldo torrido di agosto che non risparmiava le stanze dell’ospedale. La sua mente rifletteva senza riposo attorno a quel buio improvviso, al black-out che l’aveva assalito al Grand Hotel. Ragionava sui danni provocati dall’ischemia e mi aveva accennato a uno scienziato americano, un neurologo di nome Wilder Tanfield, autore di un testo intitolato Ho¬ munculus. In esso veniva formulata la teoria dell’esi¬ stenza di un terzo cervello (che l’uomo avrebbe a di-' 56
sposizione oltre quello primordiale del rettile e l’en¬ cefalo unito alla corteccia cerebrale), il quale lavora prescindendo dalle esperienze e quindi dalle infor¬ mazioni sensoriali; si tratta del cervello dell’imma¬ ginario. Elaborando rappresentazioni corticali del¬ le cognizioni motorie, dovrebbe riuscire a ripristina¬ re le attività interrotte, o compromesse, a livello so¬ matico. “Se si immagina una mano, - mi spiegava Federi¬ co alludendo alla sua, priva di sensibilità - una ma¬ no che non c’è, questa area cerebrale o cervello ag¬ giunto che sia, può giungere a crearla, a farla esistere come risposta neurologica, come terminale nervoso, fino addirittura a riformarla come arto.” Ipotesi affascinante che Federico rendeva verosi¬ mile con i suoi virtuosismi verbali. Stava evidente¬ mente cercando di impadronirsi della materia e dal punto di vista meno consueto, secondo il suo inimi¬ tabile talento, penetrare cioè nei coni d’ombra in cui la scienza ufficiale non è ancora in grado di far chia¬ rezza. Forse, a quanto gli era accaduto, vedeva una via di uscita in quel territorio ignoto in cui la natura e la conoscenza umana possono incontrarsi sul pia¬ no del prodigio. Da un mago come lui ci si poteva aspettare anche l’inaspettabile. Avevo preso accura¬ tamente nota del libro: doveva trattarsi di una lettu¬ ra non recente. Mi colpiva non poco scoprire che Fellini, al con¬ trario di quanto mi avevano detto, fosse perfetta¬ mente consapevole di aver subito una emiparesi. “Dov’è la mia mano finta?” si rivolgeva all’infer¬ miera di turno che si aggirava discreta nella stanza. “Eccola, dottore, ce l’ha qui.” La donna esperta si accostava e gliela sollevava. Fellini prendeva a pizzicarsela, la spostava come ma¬ neggiando un oggetto estraneo, guardandola con se¬ verità, sgomento e disapprovazione. 57
Avevo cercato di aiutarlo in questa sua esplora¬ zione, inserendomi in quell’esperimento tattile. “Cosa senti?” mi informavo. “Che mi stai accarezzando.” “Allora non hai perso la sensibilità!” Lui non mi seguiva affatto nell’incauto, ostentato ottimismo. “Ma non ho la mobilità” sottolineava incupito. L’infermiera, non vista, mi guardava scuotendo la testa e appena rimasti soli mi aveva avvertito: “Non creda, sa, dice così ma non può sentire niente. Ai test la mano e il braccio non rispondono agli stimoli. Solo la gamba reagisce un po’ meglio, ma dicono che non c’è speranza.” Saraceni, riapparso nella stanza, insisteva con premurosa autorità che era ora di riposare. “Debbo concludere un argomento con Oscar” lo avversava Fellini. “Però soltanto altri cinque minuti, non di più.” E con lo sguardo si appellava al mio buon senso. Stavo cercando di ricostruire nei dettagli il mo¬ mento preciso dell’ischemia cerebrale e Federico mi aveva riservato un resoconto affascinante e inatteso, senza trascurare un solo passaggio. Era stato a colazione insieme alla sorella Madda¬ lena e al cognato Giorgio, e al ritorno dal ristorante, esausto, aveva voluto rientrare al Grand Fiotei da solo, nonostante la comprensibile perplessità dei pa¬ renti. Una volta in camera, per spogliarsi si era sedu¬ to sul bordo del letto; incontrava sempre molta diffi¬ coltà a sfilare la stretta calza elastica che indossava nella gamba destra, quella operata di aneurisma: un’impresa superiore alle sue energie. Lo sforzo l’a¬ veva fatto scivolare, aveva perso l’equilibrio e, ca¬ dendo, aveva battuto la tempia contro lo spigolo del tavolino da notte. Crollato sul pavimento, si era tra58
scinato dietro il telefono in un istintivo, estremo ten¬ tativo di invocare aiuto. “Mentre ero a terra, ho sentito un corpo flaccido, molliccio, un po’ sudato: non mi rendevo conto di cosa fosse. Era la mia mano. In una specie di premo¬ nizione stavo realizzando quello che si sarebbe verifi¬ cato, la completa perdita di sensibilità. Lì per lì però non capivo, pensavo di maneggiare un mazzo di asparagi, freddi, un po’ scivolosi, e pensavo: chissà perché Giulietta li ha lasciati sul comodino. E intan¬ to mi lamentavo, chiedevo soccorso, che qualcuno venisse a rialzarmi. Mi ha sentito un bambino ingle¬ se, o tedesco, che passava in corridoio (si dice sem¬ pre dell’adulto che salva il bambino, e invece nel mio caso era un bambino che salvava l’adulto), ha spa¬ lancato la porta con un calcio, tanto da farmi sob¬ balzare per il rumore, ed è entrato. ‘Help, help me!’ gli ho gridato. ‘Go downstairs, cali thè concierge!’ Lui ha impiegato un po’ di tempo a capire, poi si è girato ed è corso in cerca di aiuto. Sono arrivati con la barella, mi hanno tirato su, e immediatamente so¬ no stato sottoposto a una serie di esami incessanti. S’era ripetuto lo stesso episodio di dieci anni fa, otto forse; ti ricordi? A casa di Pamela Harditz.” Pamela era una magnifica dottoressa, di mente e di fatto, e quella volta l’aveva salvato con tempismo prodigioso, capovolgendolo a testa in giù fuori 'del bordo del letto matrimoniale (e clandestino); aveva realizzato d’intuito, ai primi sintomi, la natura del¬ l’aggressione. E l’episodio non aveva infatti lasciato conseguenze. Alle dieci passate, rientrato al Grand Hotel, avevo cercato di indagare fra il personale di servizio chi fosse quel bambino inglese o tedesco che si era intro¬ dotto nella stanza di Fellini; ma nessuno sapeva dar¬ mi ragguagli’ non capivano a cosa stessi riferendomi. 59
10 descrivevo il vestito alla marinara che mi aveva minuziosamente tratteggiato Federico, il berrettino rosso, e tutti gli altri particolari, le scarpe di vernice nera, un calzettone su e uno giù sulle gambette ma¬ gre; ma quel bambino non era mai stato un cliente dell’albergo, verosimilmente non era mai esistito. Eppure Fellini era sicuro di dovergli la vita, il bambino si stagliava vividissimo nella sua memoria, come lo avesse davanti agli occhi, ricordava persino 11 grosso cono gelato che impugnava nella mano de¬ stra e non smetteva di leccare macchinalmente men¬ tre lo fissava per afferrare le sue parole. Giunto al limite estremo della soglia, Federico con chi si era incontrato? Se stesso a quell’età, l’eter¬ no fanciullino che aveva nutrito tutta la sua arte, un angelo? Sulla scia di quella suggestione metapsichica, ave¬ vo deviato il discorso all’iniziativa di una comune amica, una sensitiva da lui particolarmente stimata, che aveva invocato a suo beneficio le preghiere di un potente Lama di Parigi: un’intera notte di giaculato¬ rie dedicate alla sua ripresa. E nel fervore di tran¬ quillizzarlo, mi appellavo anche alla grande ener¬ gia positiva rappresentata dall’affetto trepidante del pubblico, anzi dell’intera popolazione, che gli si era stretta idealmente attorno in un formidabile abbrac¬ cio protettivo, testimoniato dalle televisioni e da tut¬ ta la stampa. Federico assentiva convinto: “Anche Marcello - aveva sussurrato - ha promes¬ so che mi viene a trovare.” Fra tante universali attestazioni di calore uma¬ no era corso col pensiero a Mastroianni, il suo alter ego. L’aspettava. Ma si stava stancando, gli si chiudevano gli occhi, certo anche a causa degli ipnoinducenti sommini¬ strati sul far della sera per rendergli meno penosa la notte. 60
L’avevo salutato sottovoce. “Torna domattina” mi aveva bisbigliato nel dor¬ miveglia. Il buio era sceso da un pezzo quando avevo la¬ sciato l’ospedale e la gran calura si era attenuata. Sul lungomare si procedeva esasperantemente a passo d’uomo, in un traffico ebbro, sovreccitato: l’estate riminese stava bruciando la sua febbre. Al Grand Hotel, Saraceni e Loretta avevano con¬ cluso la cena. Mi ero seduto al loro tavolo e il medi¬ co mi aveva mostrato il foglio su cui era stato tra¬ scritto a macchina il cauto proscioglimento della pro¬ gnosi. L’indomani l’avrebbe promulgato alla stampa, durante il consueto appuntamento di ogni mattina. BOLLETTINO MEDICO DEL
10 AGOSTO 1993, ORE 10
Le condizioni cliniche di Federico Fellini permangono sta¬ zionarie. A distanza di 7 giorni dall’inizio dell’ictus ischemico parietale dx: a) vi è una sostanziale stabilità del deficit neurologico all’emisoma sinistro, lo stato di vigilanza si mantiene inte¬ gro e vi è piena collaborazione alla fisioterapia intrapresa. La 4° TAC cerebrale ha confermato l’assenza di compli¬ canze emorragiche e di espansione della lesione ischemica; b) non si sono a tutt’oggi verificate complicanze meta¬ boliche, infettive, né cardiorespiratorie. Viene pertanto sciolta la riserva prognostica quo ad vitam per le complicanze cerebrali precoci e dirette dell’ic¬ tus del 3 agosto ultimo scorso. Tuttavia alla luce dei suoi importanti precedenti vasco¬ lari il paziente continuerà ad essere mantenuto sotto un rigido e stretto controllo clinico, così come permarrà una assidua vigilanza sulle complicazioni sistemiche la cui eve¬ nienza è ancora possibile.
Il giorno dopo si respirava un’aria più distesa. Giulietta e Loretta sedevano in cerca di un alito di vento sul terrazzino che si apriva nel corridoio del 61
reparto. Giulietta, vedendomi arrivare, mi aveva chiamato a sé, in cerca di un po’ di conforto, una pa¬ rola di sostegno; si sentiva terribilmente provata, il fisico e il morale a pezzi, e il timore di non farcela più. Per l’estrema tensione appariva ancora più mi¬ nuta del solito, un grumo di nervi e di sofferenza. Era evidentissimo che non avrebbe retto ancora per molto. Fumava, aveva gli occhi innaturalmente sgra¬ nati dietro gli occhiali da sole e stava curva, sopraf¬ fatta da una stanchezza mortale, una irresistibile vo¬ glia di cedere. Corteggiava pericolosamente l’oblio: “Dormirei soltanto” mormorava. Per paura di un crollo improvviso, i medici le ave¬ vano prescritto dosi massicce di carnitene e di polase. Palliativi, appena sufficienti a tenerla in piedi, a rifonderle qualche energia. Ma il problema, impossi¬ bile nasconderlo, era molto più grave. “Che brutto periodo!” ripeteva sottovoce. E rian¬ dava col pensiero a Zurigo, a quella trasferta sner¬ vante che pure era servita a salvare il marito: “Qui non ce l’avrebbe fatta.” Per l’aneurisma che vi si era formato l’arteria fe¬ morale era ormai prossima a cedere, ridotta com’era a un velo, una buccia di cipolla, e una emorragia sa¬ rebbe risultata fatale. Nell’ospedale svizzero Fede¬ rico era stato assistito con una organizzazione e una tecnologia da centro spaziale, sosteneva ammirata. E adesso che il peggio sembrava superato, quella terri¬ bile legnata! Giulietta si tratteneva a stento dal dare sfogo alle lacrime, gualcita alla pari del suo tailleur; non si cu¬ rava più dell’aspetto, solo la testa era immancabil¬ mente in ordine, la sua composta chioma ossigenata, senza un capello fuori posto. Era la sua innocua de¬ bolezza, a cui riservava un’attenzione costante, ma¬ niacale. In quello stesso momento Federico, trasportato in 62
un’altra ala dell’ospedale, veniva sottoposto a una ennesima doppler. “Ma quanto ci mettono!” invocava lei in un bi¬ sbiglio di preghiera. Ogni esame clinico le gravava sull’anima con un carico insostenibile di ansia e di tensione. Si avvicinava il mezzogiorno e con esso l’anima¬ zione del pasto; simile a un personaggio dei cartoon, era apparso dal fondo del corridoio il ristoratore principe di Rimini, Elio Tosi, tenendo alto sulla ma¬ no rovesciata un vassoio ricoperto di carta stagnola, ricolmo di telline ancora fumanti. Impeccabili panta¬ loni blu, una polo candida da tennista, impersonava, avanzando, una innegabile entrata felliniana: “Sono andato a procurarmele fino a Cesenatico, clandestinamente, - si pavoneggiava - perché sul¬ la costa c’è fermo pesca e non se ne trovano più! Ma al Maestro piacciono tanto! Me le ha chieste lui, espressamente!” “Potrà mangiarle? - si interrogava allarmata Giu¬ lietta. - Bisognerà domandare ai medici...” Una gigantesca corbeille di rose scarlatte, lilium, gerbere, gladioli, anturium, aveva fatto il suo ingres¬ so sfarzoso fra i tanti omaggi floreali che giungevano da ogni parte del mondo; spillato sul cellophan un biglietto: Pensandoti, guarisci presto Federico. I love you! Madonna
Il magnifico ma ingombrante trionfo di petali aveva invaso buona parte della piccola stanza, e qua¬ si subito, per ragioni di spazio e di aria, era stato di¬ rottato alla statua della vera Madonna che vigilava pietosa all’ingresso del reparto. Fellini, ritornato da¬ gli esami, pranzava seduto sul letto, nonostante quel¬ la posizione semieretta gli provocasse un calo di pressione. 63
“Corriamo inutili rischi, - fremeva il primario ri¬ volto a un suo aiuto - non è prudente accontentarlo in tutte le richieste.” Concluso il pasto, accomiatatasi la maggior parte delle persone in visita e dopo che Adina, una delle infermiere personali, aveva rimesso in ordine la stan¬ za, ero entrato da lui. “Ho visto Vincenzone, era euforico per averti tro¬ vato in così buona forma.” Il giornalista televisivo era accorso da Roma fra un turno e l’altro dei telegiornali. La sera prima ave¬ va mandato in onda sul TG1 un secco, esemplare servizietto, in cui invitava garbatamente pubblico e col¬ leghi a rispettare i sentimenti più riposti dell’uomo Fellini, non usare anche quelli come argomenti di scoop e di spettacolo. In seguito alla visita assai ri¬ servata che un cardinale emiliano aveva dedicato per più di un’ora a Federico, la notizia di una clamoro¬ sa conversione del cineasta era rimbalzata con gran rumore sulla stampa, sebbene nulla fosse trapelato della conversazione col porporato, che del resto Giu¬ lietta e Federico frequentavano da tempo. L’indiscrezione era stata ripresa come una ghiot¬ toneria da giornali e telegiornali, adattata alle più disinvolte utilizzazioni. Federico si limitava a scuotere la testa; tutto quel chiasso attorno a lui gli appariva eccessivo, spropor¬ zionato, lo annoiava. Disteso sui cuscini, gli occhi gli si chiudevano. Ma non rinunciava, di tanto in tan¬ to, alle cure di Adina, al semplice sollievo di umetta¬ re le labbra con qualche goccia d’acqua. Adina era sempre in allerta, sollecita e pacata; una riminese pettoruta, piccola di statura, gambe esili rispetto al busto, un nido di capelli biondi cotonati e sorriso pe¬ renne. A Fellini era molto simpatica e quando gli si avvicinava, immancabilmente allungava la mano buona a palparle una chiappa. 64
“Ecco...!” reagiva lei senza scomporsi, allegra¬ mente rassegnata, per un contributo non rifiutabile alla salute del malato, un conforto da recare insieme al bicchiere dell’acqua minerale fresca. E appena usci¬ va dalla stanza Federico cercava la mia complicità: “E proprio la servetta dell’infanzia, quella delle prime emozioni.” In pochi giorni aveva riacquistato gran parte della consueta autorità; era sorprendente il tono della voce se reclamava qualcosa, perentorio e capriccioso come quando dal suo ufficio lanciava richiami alle stanze degli aiuti; un singolare contrasto col suo aspetto fisico così menomato, la mano inerte sul risvolto bianco del lenzuolo, e le palpebre che gli si abbassavano divenendo di piombo. Prima di cedere al sonno resisteva fino all’impos¬ sibile, curioso di quanto veniva scritto dai giornali; si faceva ripetere i titoli, qualche passo degli articoli che lo riguardavano e che ascoltava con un mezzo sorriso; poi voleva vedere la fotografia che era stata pubblicata, e sbirciava gli altri servizi. Un reportage dall’America riportava i commenti velenosi di Mia Farrow contro Woody Alien invaghito di una loro fi¬ glia adottiva. L’attrice aveva scelto l’attacco frontale, distruttivo. Federico aveva posato su di me il suo occhio spa¬ lancato da rondone disperso, e corrugando la fronte aveva mormorato: “Dev’essere una rompipalle...” Si era compenetrato facilmente nel dramma del collega costretto a misurarsi con una compagna tanto impegnativa, trovando in me un prevedibile e pronto consenso. Il giorno dopo era attesa la visita del primario neu¬ rologo di Roma: rientrato dalle vacanze, aveva solle¬ citamente aderito alla richiesta di Mario Saraceni. Si poneva ormai improcrastinabile un consulto fra i me65
dici curanti per decidere se lasciare Fellini all’Ospe¬ dale Infermi, dove era assistito con ogni attenzione ma senza un programma specifico di riabilitazione, oppure trasferire il paziente in una struttura speciali¬ stica e, in tal caso, a quale assegnare la preferenza. L’opinione concorde era che Federico non potesse più fare a meno di un metodo scientifico rivolto alla riattivazione degli arti. Giulietta era preoccupata, anzi terrorizzata all’idea di essere lasciata sola ad af¬ frontare il compito, trovarsi nella condizione di con¬ trastare con le proprie forze le impennate impazienti e dispotiche del marito: “Se torna a casa non si muove più. Conosco la sua insofferenza, non ubbidisce, c’è bisogno di un centro, un sistema terapeutico in cui non gli sia con¬ sentito mettere bocca.” Durante il pomeriggio la notizia dello scioglimento della prognosi era stata diffusa dagli altoparlanti della riviera, e la musica di Amarcord era risuonata lungo le spiagge di Rimini, Riccione, Cattolica, Milano Ma¬ rittima. All’annuncio che Federico era fuori pericolo, il popolo delle vacanze aveva reagito con spontanea euforia, quasi sollevato da un peso. Il re era salvo. Ilo Pulici, presidente di un improvvisato ‘Comitato per Fellini’, aveva avanzato la proposta di “dichiarare giorno di festa quello in cui il Maestro potrà lascia¬ re l’ospedale”. E il barbiere Pietro Ruffolo di Rimi¬ ni, già investito del privilegio di radere l’illustre pa¬ ziente e di sfoltirgli i capelli, aveva raccontato: “L’ho salutato chiamandolo Maestro, e lui mi ha risposto: Guardi che non sono maestro e neppure professore. In questo posto sono solo un bidello.” Era PII di agosto. La sera precedente, San Loren¬ zo, le stelle non erano cadute, e gli astronomi spiega¬ vano che il fenomeno avrebbe ritardato di una notte. Il passaggio vicino alla terra (ogni centoquaranta an¬ ni) della gigantesca cometa Swift Turtle, la tartaruga 66
veloce, avrebbe però regalato una vera pioggia di me¬ teoriti, poeticamente e mitologicamente denominate Perseidi. Nella volta celeste dell’estate al suo culmine le stelle cadenti sarebbero sfrecciate a profusione: “Basterà stendersi da qualche parte a pancia all’aria — scriveva Margherita Hack - e scrutare il cielo verso lo Zenit, in direzione della costellazione di Perseo, quasi a perpendicolo sopra la nostra testa.” Giovedì 12 agosto era stata la giornata delle par¬ tenze. Le visite, numerosissime, si erano succedute a pieno ritmo. Da Roma era giunto Paolo Serventi, l’organizzatore di tutte le ultime pellicole di Fellini, suo amico e complice di ogni eccentricità, al punto da accettare, lui comunista d’annata e cugino di un dirigente storico del partito, di interpretare nel film Intervista, in stivali ed orbace, il vacuo e tronfio fe¬ derale fascista avverso a tutti i ‘pellerossi’. Nel primo pomeriggio si teneva salotto sul terraz¬ zino del corridoio, dove ognuno usciva a respirare un po’ d’aria (nel reparto non c’era climatizzazione), ogni volta che la stanza di Fellini veniva requisita dall’équipe medica per l’inesausta e meticolosa assi¬ stenza al malato tenuto costantemente sotto control¬ lo, giorno e notte. Serventi si mostrava molto sollevato, da lontano le cose apparivano, come càpita, assai peggiori. An¬ che il responso del cattedratico romano aveva sottolineato una lenta ripresa nel quadro di una visione globalmente ottimistica. Allampanato e magro, di colorito scuro, e per questo insieme di caratteristiche soprannominato ‘il Cipresso’, l’esimio clinico guar¬ dava il mondo dall’alto di un nido d’aquila, sorri¬ dente e remoto verso estranei e conoscenti. Con Ser¬ venti però si erano abbracciati, in nome della comu¬ ne militanza di partito; si davano familiarmente del tu e a lui non avrebbe mentito: Federico stava vera67
mente riprendendosi e si poteva ragionevolmente escludere ogni pericolo di vita. Nel frattempo lo spunto preferito dei giornalisti era diventata Pamina, la giovane e graziosa infermie¬ ra rumena che Federico aveva paragonato a un ange¬ lo di Benozzo Gozzoli. La pressavano per intervistar¬ la, strapparle chissà che segreti e confidenze. Federico mi aveva chiesto di scattarle qualche fo¬ tografia per il suo archivio. Mentalmente aveva già ripreso a lavorare. In un servizio sul Corriere della sera, l’inviato ave¬ va domandato non a caso al regista: “In questa storia sono entrati tanti personaggi. Coni’è il copione?” E Federico si era lasciato andare alle sue risposte fantasiose: “Protagonista è senza dubbio un regista cinema¬ tografico che ha passato la settantina e che non si aspettava- una frenata così brusca. Poi c’è la moglie del regista, un sacco di vecchi amici e alcuni nuovi. Un bel girotondo di medici e infermiere. ” “Quali scene terrà nella memoria?” “Tutte quelle che riguardano una deliziosa infer¬ miera rumena, che si chiama Pamina, la cui bellezza e grazia celestiali mi hanno fatto spesso pensare di essere stato brevemente da qualche altra parte, du¬ rante i giorni della malattia. ” In quell’intervista c’erano anche altre risposte. “Ha avuto mai paura di morire?” “Sì, quando il mio amico Titta Benzi, convinto materialista, e inesauribile bestemmiatore, mi ha det¬ to, dopo aver tirato un paio di moccoli: “Federico, lo sai che ho pregato per te?” In quel momento ho avuto paura. ” “Maestro, anche lei ha pregato? Che cos’è per lei la preghiera?” “Un modo molto razionale e intelligente di de68
porre a terra un bagaglio pesantissimo e affidare a qualcun altro il peso delle angosce e dei dubbi. ” Qualcuno ha parlato di ‘conversioneha mai pensato a Dio?” “E possibile non pensarci?” Verso le cinque e mezza se n’erano andati tutti: Loretta iniziava un breve periodo di ferie in compa¬ gnia del fidanzato e tornava a Roma con l’auto di Serventi. Anche Mario Saraceni aveva deciso di to¬ gliere le tende una volta che il paziente era stato di¬ chiarato fuori pericolo; prometteva di telefonare ogni giorno, di restare in stretto contatto con lo staff dell’ospedale, e, come se indossasse ancora il camice, svolazzava via lungo il corridoio. Aveva fatto la sua parte: in qualità di medico, ma anche di ottimo ad¬ detto stampa, ufficio eseguito fino alle ultime ore di quella stessa mattina quando, secondo una fuga di notizie riportata dal notiziario radiofonico delle do¬ dici e trenta, era corsa voce che Fellini stesse per ab¬ bandonare l’ospedale a bordo di un elicottero, alla volta di una località top secret. Saraceni aveva indet¬ to un supplementare incontro con i giornalisti e vo¬ lentieri ero restato al suo fianco davanti alla ressa dei corrispondenti e dei fotografi che premevano contro le vetrate per non essere tagliati fuori. “Non ci sono né elicotteri né sottomarini - aveva scherzato urbanamente e scopertamente compiaciuto il medico curante. - Dopo il consulto col professor Braschi si è deciso che Federico Fellini rimarrà in questo ospedale ancora per dieci, quindici giorni. Poi si vedrà.” Fellini era stato l’unico a non poter fuggire in quei giorni di Ferragosto; condannato a restare dov’era, sia pur coccolato dalle sue infermiere, prima di tutte Adina che sapeva servirgli con tanta cura i pa¬ sti, e Pamina la cui voce malferma per l’attraente ac69
cento straniero gli teneva compagnia nella lettura dei giornali, storpiando titoli e contenuti. Ogni tanto venivo chiamato, se qualcuno insiste¬ va per essere ammesso e non si accontentava dei dinieghi del personale di servizio, o delle guardie giu¬ rate che facevano rispettare le consegne senza ec¬ cezioni. Un ispettore di polizia di pronta iniziativa s’era presentato a perorare la causa di una giovanot¬ ta che l’aveva visibilmente ammaliato. Si chiamava Lucilla e dichiarava di essere un’attrice, alloggiata alla Pensione Luna di Riccione: “Rimarrò qualche giorno, proprio con la spe¬ ranza...” “Le disposizioni dei sanitari sono tassative, - mi scusavo; - in ogni caso riferirò che lei è passata e se nei prossimi giorni la situazione dovesse migliora¬ re... Può intanto dire a me...” Era una circe assai bruna con i capelli lisci e lun¬ ghi, le labbra marcate da un rossetto che tirava al viola, l’occhio allungato e nero pronto a irretire con lo sguardo chiunque vi indugiasse imprudente: “Sa, è una faccenda fra me e il Maestro, capisca...” “Capisco, si immagini, non è per scortesia...” Rassegnata, aveva rapidamente annotato su un foglietto il suo numero di telefono. Avrebbe aspetta¬ to, contava sui miei buoni uffici, anche soltanto un colpo di telefono... Il giorno successivo mi ero attrezzato di macchina fotografica e nel primo pomeriggio, mentre Fellini riposava, avevo scattato qualche istantanea a Pamina, sul terrazzino del corridoio, contro la parete di mattoni color minio. Al risveglio Federico mi scrutava incuriosito per l’insolito armamentario da fotografo, e aveva comin¬ ciato a scherzare alla sua maniera, divertendosi al¬ l’entusiasmo di Pamina: 70
“Potremmo organizzarci per vendere le fotogra¬ fie” aveva proposto. “Tu informati quanto sono di¬ sposti a pagare per una posa dove ci sono insieme Fellini e Pamina: un milione, due? E per una con Pa¬ nama in braccio a Fellini? Le mettiamo all’asta, a se¬ conda delle posizioni.” Pamina gioiva inebriata, aveva imparato docil¬ mente a giocare, e quando il Maestro allungava la mano per intrecciare le dita fra le sue, non tardava più a consegnargliela, e anche ad accettare qualche altro apprezzamento estemporaneo. “Come sono gli angeli qui?” chiedeva Federico palpandola sul fianco. “Un po’ magri” replicava lei spiritosa. “Equi?” “Qui un po’ meglio.” Federico rideva, mi guardava col suo occhio dila¬ tato che non appariva più tragico, ma solo infinita¬ mente stupefatto. Pamina aveva avuto la vita sconvolta: la popola¬ rità improvvisa per essere la prediletta del Maestro, l’aveva posta sotto il fuoco dei riflettori. Quando usciva dall’ospedale o rientrava a casa, c’era l’assalto dei cronisti per strapparle una dichiarazione, qualche pettegolezzo. “Tu la difendi?” mi aveva coinvolto Federico al¬ l’improvviso, serio, qua’si accorato, biascicando ma¬ lamente le parole come da giorni non gli succedeva. Un ingorgo emotivo. Ero diventato il suo corpo, i suoi muscoli. Una guardia giurata, Roberto, aveva bussato alla porta cercando di me; era un ragazzo delicato, di¬ screto, con una barbina che si prolungava dai baffi girando intorno al mento, e una magrezza da soldato di trincea. A mettergli un’uniforme grigioverde non avrebbe sfigurato come fantaccino della prima guer¬ ra mondiale. Fin dall’inizio avevamo stabilito una 71
perfetta intesa nel disbrigo dei questuanti, verso i quali la divisa non lo rendeva arrogante. Due signore - mi avvertiva - avrebbero desidera¬ to parlarmi. Oltre la separazione a soffietto che divideva il corridoio dall’atrio, m’ero trovato faccia a faccia con una coppia di dame bionde, di età differente, una più giovane l’altra più anziana. Era l’anziana che par¬ lava: “Sono Maria Belloni, avevamo lasciato un bigliet¬ to per il Maestro, col numero del telefono, chissà se l’ha visto.” Sorrideva nel viso florido, il busto ben eretto a ri¬ cordare trascorse baldanze da soprano.
72
Capitolo V
La signora Elena
Le due signore mi avevano ispirato una istintiva sim¬ patia, così educate, discrete, armoniose, molto diver¬ se nell’atteggiamento dalla pretesa amicizia o adom¬ brata intimità proclamata dalla maggior parte dei visitatori occasionali. Nessuna morbosa curiosità o ingenuo protagonismo. Volentieri m’ero trattenuto con loro più del con¬ sueto, cercando di rassicurarle: a Fellini veniva sotto¬ posto il nome di ogni persona venuta in visita, ma ancora non era parso prudente dotarlo di un telefo¬ no in camera; e questa era l’unica ragione del suo si¬ lenzio. In ogni caso avevo preso diligentemente nota del numero telefonico - quello della più giovane del¬ le due, Elena Diodati, che alloggiava momentanea¬ mente a Cesenatico - promettendo che ne avrei ac¬ cennato a Federico. Erano restate entrambe molto rincuorate della mia disponibilità e quando per salutarle le avevo baciate sulle guance, mi avevano stretto le mani in un’accesa effusione di riconoscenza. La più giovane, la signora Elena, aveva trovato la forza di sussurrar¬ mi con gli occhi lustri di pianto: “Da quando è stato ricoverato, siamo tornate tut¬ ti i giorni.” E per pudore s’era sforzata di sorridere, rialzando appena gli zigomi e accentuando così la triangolarità del viso affilato, da felino domestico, assuefatto alle moine. “Mi dispiace” m’ero sentito in obbligo di aggiun¬ gere. 73
“Per carità, non parlo per me. Purché lui sappia che mi trovo qui e che può rintracciarmi.” “Sono certo che lo farebbe con gioia, se potesse; ma gli è stato tassativamente proibito di stancarsi.” Per quale motivo mi lasciavo andare a un’affer¬ mazione così incauta, così gratuita? Perché mi arro¬ gavo il diritto di parlare per bocca di Federico? Eppure a Elena ciò appariva naturalissimo: “Vedo che lei ha capito: sono stata fortunata ad incontrarla”. In tanti anni di frequenza con Fellini - rileva Ri¬ naldi nel suo racconto - non mi ero mai imbattuto in quella signora e il suo dolore, come definirlo, da in¬ namorata, ti confesso che mi aveva turbato. Dopo qualche ora, a fine pomeriggio, la giovane guardia giurata si era accostata con fare complice: “Quella signora di prima è ancora nell’atrio che aspetta.” Ero restato interdetto, punto da un ingiustificato senso di colpa. Avevo cercato di saperne di più. “Si aggira in silenzio, in attesa, senza disturbare. Non è mancata un solo giorno da quando il signor Fellini è qui. Non vuole ascoltarla?” “Dov’è?” “Dietro l’angolo, superati gli ascensori.” M’ero affacciato sul pianerottolo e quasi subito, come materializzata dall’aria, Elena mi era volata in¬ contro: “Mi cercava? Ha potuto parlargli?...” “Non ancora, non è per cattiva volontà...” “La prego, io devo sapere come sta, non vivo più...” E si era interrotta, sopraffatta dal pianto. Per pu¬ dore aveva voltato il viso verso la scala semibuia e, piangendo, non si era più trattenuta: “Non riesco a lasciare l’ospedale, proprio non ci riesco, almeno qui mi illudo di stargli vicino...” 74
“Cosa le accade? Di me si può fidare.” “Sì, ma certe cose... Mi scusi, posso sapere il suo nome?” “Mi chiamo Rinaldi, Oscar Rinaldi.” “Ah, lei è Rinaldi? Adesso capisco!... Io la cono¬ sco bene sa, anche se lei non sa chi sono...” “Mi rincresce, non ricordo di esserci incontrati.” “Infatti non ci siamo mai visti, ma io ho udito il suo nome non può immaginare quante volte, quando Fellini le telefonava... da casa mia, o dal proprio stu¬ dio a Corso d’Italia.” Mi stava mettendo a parte in quel modo velato di una intimità che mi sfuggiva. Non riuscivo a dissi¬ mulare la sorpresa: “Non ne dubito, certo... Ma c’è qualcosa che pos¬ so fare?” Si sedette su un gradino, frapponendo tra noi, co¬ me la grata di un confessionale, l’inferriata delle scale: “Sento che a lei posso rivelarlo, me lo dice il cuo¬ re: vede, Fellini era al telefono con me quando è suc¬ cesso...” “Con lei!?” “Sì, mi sono accorta dalla voce che qualcosa non andava, e poi all’improvviso ha smesso di parlare; ho udito il rumore del ricevitore che stava cadendo, che urtava per terra...” Aveva ripreso a piangere. “Sono stata io a dare l’allarme, a ritelefonare al Grand Hotel, non sapevo che altro fare!” Mi domandai rapidamente se quanto stava rac¬ contandomi potesse corrispondere al vero, se fosse attendibile, e d’istinto compresi che lo era. “Sono partita quel pomeriggio stesso; per fortuna ho una cugina da queste parti, adesso alloggio presso di lei. Ho lasciato i figli, la casa, e sono corsa. Ep¬ pure non sono ancora riuscita a vederlo, neanche di sfuggita, che almeno lui sappia che ci sono, che gli 75
sto vicino... Per questo ho cercato di fargli avere il mio numero telefonico...” “Non può servirsene, la prescrizione è di evitargli ogni emozione improvvisa.” “Me ne rendo conto; solo che non riesco a darmi pace! Però non voglio che si turbi, se ora sta bene...” “Troverò il modo di accennargli che lei è qui.” Ci rialzammo in piedi, con una sincronia che mi colpì per il coordinamento così femminile dei suoi movimenti. Toglieva e rinfilava senza pace gli oc¬ chiali da sole con cui nascondeva gli occhi gonfi di pianto. I capelli biondi erano perfettamente tesi sulla testa, raccolti in una elegante voluta; indossava una casacca di seta a mezza coscia, su pantaloni a siga¬ retta e sandali infradito ai piedi, dalle cinghiette do¬ rate. Una immagine Anni Sessanta, alla Brigitte Bardot, più Saint Tropez che Rimini: la moda della sua gioventù. Avrà avuto cinquant’anni, un viso magro, scavato, ma le spalle erano larghe e il petto ampio, dovizioso; la blusona svolazzante e'ra slacciata sul petto uniformemente abbronzato, e attraverso l’am¬ pia V della scollatura si intravedevano i seni turgidi e pesanti, ben distanziati fra loro, prodigalmente acco¬ glienti. Provai una improvvisa, acutissima voglia di met¬ terli a nudo, di saziarmene con lo sguardo, di palpar¬ li, avvolgerli, raccoglierne il volume nel palmo delle mani; mentre lei, verosimilmente ignara, non smette¬ va di riferirmi con una voce brunita, afona e appas¬ sionata: “Ci siamo conosciuti durante II bidone, lo sa? Io mi ero innamorata a prima vista, sono sempre stata innamorata di lui, ma cosa dovevo fare, volevo un marito, dei figli... Ho messo su famiglia, senza smet¬ tere di amarlo. Ci siamo rivisti dopo otto anni, e per una svista o intenzionalmente, gli avevo scritto il mio numero di telefono sbagliato. Così è passato an76
cora tanto tempo senza che neanche potessimo par¬ larci e quando la sorte ci ha fatto incontrare di nuo¬ vo, sono stata attenta a non commettere altri errori. Era il periodo in cui Federico dirigeva La voce della luna; aveva assunto nella troupe uno dei miei figlioli, Gabriele, e con quel pretesto potevamo vederci quasi ogni giorno. Io accompagnavo mio figlio sul set du¬ rante le nottate agli studi della Pontina, e disponeva¬ mo di tante ore da trascorrere vicini, protetti dal no¬ stro segreto.” La voce le si era come ingorgata, aveva dovuto deglutire e riprendere fiato: “Sono talmente emozionata, non so perché le sto raccontando le mie vicende così private, ma da quando l’ho vista ho avvertito questo impulso; non sto sbagliando, vero?” “Può contare su di me, sono molto amico di Fe¬ derico, da tanti anni.” “Questo lo so. Quando lei è apparso oltre il tra¬ mezzo, ho mandato avanti la mia amica, per pruden¬ za; lei conosce la Belloni, no? Fellini l’ha chiamata qualche volta a lavorare nei suoi film. Avevo pensato che vedendoci insieme... Soprattutto volevo evitare di incontrare Giulietta. Una volta lui stesso me la presentò sul set, mi parve così imbarazzata; cosa può pensare una moglie di una presenza femminile incon¬ sueta, introdotta come compagna di infanzia!? Sa¬ peva benissimo che non era vero!” Elena non usava false modestie, fin troppo consa¬ pevole del suo fascino; tuttora molto avvenente, nel¬ la direzione che incuriosiva Fellini, da signora alto borghese un po’ viziata, col sorriso dolce e avvolgen¬ te, e quella febbre impalpabile che consuma il viso, dilaga nello sguardo. “Fei è molto bella” le avevo sussurrato. “Magari! Guardi come sono ridotta. Vorrei essere carina, per lui, per piacergli ancora.” 77
Mi suscitava tenerezza, provavo l’impressione di una lunga consuetudine, le avevo persino passato una mano intorno alle spalle, un gesto ragionato, di familiare conforto: “Ascolti Elena, non se ne vada: provo a parlare a tu per tu con Federico, studio la maniera di lasciarla sgusciare un attimo dentro la stanza. Può trattenersi ancora un po’?” “Certo! Non ho fatto che aspettare questo mo¬ mento!” E mi aveva gettato le braccia al collo, passional¬ mente, aderendomi col suo corpo: “Sente come tremo, non riesco a frenare l’emozio¬ ne; non so se ce la farò a entrare da lui senza metter¬ mi a piangere.” “La prego, si vinca per Federico, non è bene che la veda così alterata.” La casacca si era allentata mollemente sul petto, illanguidita, in un irrinunciabile invito a posarvi gli occhi; mi sembrava di non scorgere'traccia di reggi¬ seno, dunque quelle tette così attraenti, un po’ pe¬ santi, appena adagiate ai lati, erano nude, indifese! Che tentazione! Dalla pelle ambrata e leggermente sciupata dal sole si espandeva un tenuissimo profu¬ mo di muschio. Di nuovo mi aveva assalito l’ebbrezza di prima, la brama intrattenibile di infilare la mani sotto il tessu¬ to setoso, avvolgere quei pomi gonfi di promesse! La furtiva fantasia di intimità mi aveva condotto senza accorgermene a mutare perfino atteggiamento; mi rivolgevo a lei dandole ambiguamente del tu, già complici senza una ragione: “Aspettami qui Elena, torno a chiamarti io. Sei sola? Ho notato che parlavi con qualcuno.” Ero addirittura geloso? Un attacco di possessività? E perché mai? Stavo assumendo nei suoi con¬ fronti un tono non giustificato, a meno che - mi ave78
va attraversato la mente come una folgore - non fos¬ si divenuto il portavoce di uno stato d’animo non mio, abitato dal sentimento di chi la vagheggiava: di Federico! “Un signore sconosciuto mi ha rivolto la parola mi tranquillizzava Elena. - Sua moglie è ricoverata e aveva bisogno di consolarsi con qualcuno.” Perché avevo il sospetto che non fosse del tutto sincera? Di cosa mi preoccupavo? Che atteggiamen¬ to stavo assumendo, da amante insicuro di una don¬ na troppo seducente? “Non ti muovere, ritorno appena posso.” La camera di Federico si era affollata di personale per l’ora del massaggio; e mentre Maria Pia, la fisio¬ terapista, si applicava al suo compito, altri cento esa¬ mi venivano eseguiti, test, controlli, verifiche, quoti¬ dianamente richiesti dalla direzione sanitaria. Un via vai fervoroso, che si dipanava sotto l’occhio vigile del primario. Avevo anzi approfittato della sua pre¬ senza, per conoscerne il punto di vista sull’opportu¬ nità delle visite personali. “In linea generale, meno sono meglio è - aveva asserito senza incertezze. - Ma se il paziente desidera incontrare una persona in particolare, non gli va ne¬ gato.” Era quanto mi premeva sapere. E rimasto di nuo¬ vo solo con Federico, gli avevo rapidamente accen¬ nato di Elena, l’attraente signora che piangeva da giorni nei corridoi dell’ospedale. “Non vuoi darmi un messaggio per lei?” Un lampo nei suoi occhi: la mia intenzione gli risultava fin troppo chiara: “Dov’è? Falla entrare per un saluto.” Ero tornato nell’atrio. Elena, all’idea di poterlo fi¬ nalmente rivedere, era precipitata in una incontrolla¬ bile agitazione; non le avevo lasciato il tempo di ri¬ flettere, trascinandola con me, docile e smarrita, ol79
tre il paravento. Con flebile resistenza cercava un’ul¬ tima scappatoia: “Non c’è un’altra entrata?” si macerava, terroriz¬ zata di farsi notare. Ma superato il soffietto diviso¬ rio, ogni passo successivo s’era svolto con facilità. Le guardie giurate, i vigili e i poliziotti, vedendola al mio braccio non avevano mostrato speciale interesse per la nuova venuta, e lei s’era lasciata sospingere come un automa nel corridoio, fino alla soglia della stanza da cui Pamina, avvertita, era dileguata via più lieve di un’ombra. Federico giaceva appoggiato sul fianco sinistro, di spalle, col viso alla finestra; si erano salutati così, lei dall’entrata, senza il coraggio di inoltrarsi, e lui semi¬ voltato in una posa scomoda, contorta e innaturale. Poi, ad un suo cenno, Elena gli era volata accan¬ to, attraversando la stanza in un unico slancio: china sul letto gli aveva stretto una mano fra le sue, tre¬ mando. Avevo riaccostato la porta per discrezione, senza chiuderla del tutto; da uno spiraglio tenevo d’occhio la scena, e intanto vigilavo in corridoio che non avesse a sopraggiungere qualche visita indesiderata, la stessa Masina. Elena si era ripiegata su di lui, avvolgente, cercan¬ dogli le labbra, mentre Federico le offriva la guancia, in un pudore ferito. Tenevano le dita intrecciate, ser¬ rate, e si scambiavano parole che non potevo udire, e neanche volevo, in allerta per loro sullo stipite, per¬ vaso dalla loro emozione. Il colloquio era durato pochi minuti, si erano pre¬ sto disgiunti, ed Elena, trasfigurata, s’era riaffacciata all’uscio. Che strana coincidenza che io non l’avessi mai in¬ contrata né sapessi nulla di lei, non ti pare? - riflette Oscar. - Pensa che solo di recente ho visionato nel¬ l’atelier di Rinaldo Geleng i disegni con cui Federico 80
aveva rivissuto, compulsivamente, i loro incontri in¬ candescenti. E m’è parso di percepirne l’intima natu¬ ra, l’alimento profondo. Dovresti farteli mostrare, Rinaldo ne possiede le fotocopie a colori; ti assicuro che non mi sono mai imbattuto, nella sterminata messe di disegni di Federico, in tanta esaltazione ero¬ tica venata d’amore e di abbandono. Una rappresen¬ tazione senza confronti: quando li vedrai rimarrai sbalordito anche tu, mi darai ragione! Dopo che Elena era riemersa dalla stanza, le ero restato protettivamente al fianco, ripercorrendo con lei il corridoio. Oltrepassato il tramezzo, mi si era gettata fra le braccia, scossa da un tremito, insisten¬ do a ringraziarmi in una specie di cantilena amorosa inarrestabile, un fluire di miele. Avvertivo, non so se riesco a spiegarmi, la sua carnalità, come si fosse ri¬ fugiata nuda a contatto del mio corpo. Mi schermivo ai suoi ringraziamenti, ma lei non riusciva ad arre¬ starsi: era talmente sconvolta! L’avevo ricondotta agli ascensori quasi sostenendola di peso, mi rivolge¬ va il viso soffuso di un alone febbrile. Mi attirava a sé, in preda a un impulso nervoso, e d’impeto mi aveva baciato sulle labbra; forse per la sorpresa, ave¬ vo tradito un impercettibile irrigidimento, e lei ricet¬ tiva, vibratile, si era limitata a sfiorarmi, a indugia¬ re sugli angoli della bocca, frenando controvoglia l’ardore. Più volte l’ascensore era giunto al piano ed era ri¬ partito senza di lei. Elena non trovava la forza di se¬ pararsi da quella sua emozione, dall’onda d’amore che l’aveva sommersa. Quando le porte di metallo s’erano aperte di nuovo, l’avevo costretta a staccarsi, a scivolare all’interno della cabina, e le due ante cro¬ mate si erano richiuse a sipario sul suo viso ardente e solcato di lacrime, sulla casacca slacciata che lascia¬ va indovinare il petto prorompente. Per la frazione di un secondo avevo intravisto il bordo bianco di un 81
reggiseno: esisteva dunque un argine a quella genero¬ sa espansione! Ma che idee! Cosa andavo a almanaccare! Mi sembrava di non aver mai provato una curiosità tan¬ to impellente, una bramosia così morbosa! Ero tornato sui miei passi, scambiando uno sfug¬ gente e complice sorriso con la guardia giurata. In camera Pamina stava imboccando Federico per la cena: minestrone, petto di pollo con le verdure bollite, prugne cotte. Fellini ogni tanto si arrischiava a servirsi da solo ma, subito stanco, accettava di buon grado l’intervento dell’angelo di Benozzo Gozzoli, affidandosi alle sue mani sollecite e garbate. In¬ tanto, per la semplice gioia di ascoltarla, sollecitava la ragazza a parlare del suo Paese, la Romania. Ed era emersa una storia fantasiosa, che aveva tutta l’a¬ ria di una leggenda: “Ceausescu - asseriva Pamina - era uno zingaro spiantato, senza arte né mestiere, che vagava per Bucarest sopravvivendo di espedienti, furti, ruberie. Un bel giorno era capitato in stazione, al centro di una folla straripante, un via vai concitato di militari, e una rissa gigantesca era scoppiata all’improvviso. Nella gran confusione, lo zingaro aveva adocchiato una valigia incustodita, e al momento opportuno l’a¬ veva ghermita allontanandosi di corsa dal tafferu¬ glio. Ma in strada era stato fermato da una pattuglia di controllo, gli avevano chiesto cosa trasportasse nel bagaglio e di fronte alla sua esitazione l’avevano costretto ad aprirlo: era pieno di volantini di propa¬ ganda del partito comunista. Così l’ignaro vagabon¬ do era finito in carcere, scambiato per un attivista sovversivo. Il suo nome era circolato in città, rimbal¬ zato di bocca in bocca. E quando di lì a poco il par¬ tito comunista aveva conquistato il potere, la sua fi¬ gura era cresciuta nel frattempo alla statura di un 82
eroe. Inevitabile che Ceausescu fosse designato a ri¬ coprire una delle cariche della nuova gerarchia; e dalla posizione così raggiunta, per una serie di coin¬ cidenze favorevoli, il passo successivo era stato rapi¬ do e indolore; una carriera fulminante che lo aveva portato a diventare Presidente della Romania”. Sembrava una favola, ma era tutto vero, - soste¬ neva Pamina - chiunque lo avrebbe confermato nel suo Paese, la vicenda s’era svolta esattamente come ce la stava raccontando. Federico la ascoltava incantato. E solo quando la giovane rumena, terminata la cena, si era dedicata a rigovernare la stanza, avevo potuto riprendere con lui il discorso sulla bella Elena. “Piangeva dalla felicità” lo infervoravo. “Non riusciva più a smettere.” “Che natura amorevole, autenticamente femmini¬ le!” assentiva. Immediatamente rilanciando: “Non ha fatto che parlarmi di te: hai avvertito la sensuali¬ tà? Un magnete!” Nella stanza aleggiava un’atmosfera lieta e fiabe¬ sca, con Pamina che entrava e usciva aureolata dal sorriso innocente, metteva in ordine, porgeva a Fe¬ derico il bicchiere d’acqua appena tinto con la cocacola. Scesa la sera, era apparsa Giulietta in compagnia dei suoi parenti, la sorella, il cognato. Sembrava si fosse ripresa, aveva un’aria più agguerrita, meno provata, forse per via delle flebo che le venivano somministrate da quella stessa mattina, un ricosti¬ tuente più efficace e potente delle blande terapie a carnitene e polase. Lei non ammetteva però di star meglio: “Se sapessi come mi sento!” si autocompativa con la sua voce roca, cavernosa. In ospedale, appena giungeva la Masina, iniziava la giaculatoria dei ricoverati, la girandola dei mes83
saggi, dei biglietti, delle richieste per incontrarla. Al¬ cuni degenti si raccomandavano che l’attrice passas¬ se nei loro reparti, per poter conferire con lei, affi¬ darle ambasce e problemi. Ma Giulietta non aveva le forze sufficienti per fronteggiare quel ruolo di santa o di regina in visita, per assolvere l’incombenza da mater dolorosa. Con lo scopo di risparmiarle la fati¬ ca, ero andato a incontrare le persone in attesa, a spiegare quanto lei stessa fosse ormai al limite della resistenza, sottoposta a cure intensive. Al mio ritorno nella stanza avevo trovato Giu¬ lietta seduta sulla sedia accanto al letto, e Federico voltato di schiena. Non scherzava più, ripiombato nel ruolo del malato grave e astioso. M’era parso inevitabile ritirarmi; avevo sfiorato in un cenno d’in¬ tesa il ginocchio di Federico che faceva capanna sot¬ to il lenzuolo, avevo baciato Giulietta ed ero uscito. Perché ero invaso da una improvvisa, ingiustifica¬ ta allegria?. Mi sentivo contento di cosa? Avevo raggiunto la mia auto nello sterminato par¬ cheggio ormai vuoto e m’ero messo in strada. Tutta la costa appariva occhieggiante di luci: da Cattolica a Cesenatico, il celebrato luna park delle vacanze si snodava tentatore lungo l’Adriatico, si specchiava con elettrica euforia nel mare di velluto nero. Avevo addosso l’inconfondibile stanchezza da ospedale, quella specie di svenamento a cui ci si espone nel contatto prolungato con un ambiente di sofferenza. Tre ragazze festanti mi avevano affianca¬ to da una sgargiante cabriolet, sventolando le brac¬ cia inebriate di niente; guardare i loro denti bianchi fra le labbra vermiglie dischiuse nei sorrisi, gli occhi infiammati di voglie inconsulte e le belle gambe ab¬ bronzate pulsanti al ritmo dello stereo a tutto volu¬ me, era bastato a risarcirmi dell’energia profusa. Mi ero tuffato intensamente in quel salutare contagio, in quel vento di vita, e dal finestrino spalancato avevo 84
ricambiato con gioia gli esultanti sbracciamenti, an¬ nusando da vicino, colmo di gratitudine, il profumo denso della loro ebbrezza. Il giorno di Ferragosto ero arrivato in ospedale un po’ prima delle cinque di pomeriggio. All’imbocco del corridoio avevo incrociato l’immancabile Rober¬ to, il vigilante con l’aspetto del fantaccino; abbando¬ nato alla deriva di quella giornata di festa, mi era ve¬ nuto incontro con sollievo. Fellini non aveva voluto incontrare un celebre collega passato a fargli visita, in un momento in cui, sulla sedia a rotelle, veniva trasportato verso un esame radiologico. Sentendosi esposto, vulnerabile a uno sguardo di commiserazio¬ ne, si era sottratto al saluto. Pertanto girava voce che quel giorno fosse intrattabile. Non lo era affatto, an¬ zi mi aveva accolto con l’aria più soddisfatta del soli¬ to, apertamente rallegrato dalla mia presenza. Sul piccolo visore portatile gli avevo mostrato le diapositive appena stampate di Pamina, e la ragazza, curiosa e lusingata, intrufolava la testa per rimirarsi anche lei dentro il microscopico schermo. I primi piani risultavano espressivi, luminosi, si piaceva. Fe¬ derico osservandoli commentava: “Guarda che faccia da porca!” E Pamina si accendeva di infantile eccitazione ad essere considerata un angelo con la faccia da porca, il colmo della tenerezza e del sacrilegio. La tranquilla e vuota domenica di Ferragosto scorreva via in un sospiro lieve, solo noi nella stanza, tre compagni di scuola messi in castigo, che scopro¬ no la novità di scherzare dietro la lavagna. Qualsiasi discorso vagava fatato. Le comete, per esempio, af¬ facciatesi nel cielo con due notti di ritardo: quelle ca¬ pocchie di fiammifero che si accendono all’improvvi¬ so fra le stelle fisse e incantano sempre come se fosse la prima volta. 85
“Dove l’hai viste?” mi domandava goloso Fede¬ rico. “Dalla spiaggia, in una zona buia.” Coinvolgevo Pamina: “Da voi si esprime un desiderio quando cade una stella?” “Sì, certo!” assentiva lei trasognata, prendendo fra le mani una mano di Fellini. “Cosa avrà pensato un uomo primitivo davanti a un cielo limpido solcato di stelle cadenti?!” riflettevo ad alta voce. E Federico, disteso nel letto, rivolgeva l’occhio dilatato al soffitto, perduto e invaso di stu¬ pore: “Anche di fronte a un semplice tramonto, - ag¬ giungeva - chissà che sgomento per l’uomo di Neanderthal... Il sole che scompariva e nessuno sapeva se sarebbe più tornato.” Quel giorno di Ferragosto in una camera di ospe¬ dale, di nuovo uniti dall’innocente disponibilità a fan¬ tasticare senza uno scopo, germogliava la fiducia che presto avremmo ripreso a dipanare i sogni per lavoro. Federico utilizzando il mio telefono cellulare si scapricciava a raggiungere, libero da controlli o re¬ strizioni, gli amici, le amiche, sparpagliati nelle lo¬ calità di villeggiatura; collezionava voci lungo tutta la penisola, al mare e fra le montagne. In un alber¬ go vicino a Trento soggiornava la sua più vecchia e segreta liaison, intendeva parlarle a ogni costo, ma non ricordava a memoria quel numero occasionale, come invece con grande facilità teneva ben a mente tutti gli altri; e la sua rubrichetta non si trovava più, svanita insieme a un album di appunti e di disegni. Per quanto la cercassimo non saltava fuori. Fru¬ gando nel cumulo della corrispondenza mi ero im¬ battuto in elegantissimi opuscoli, inviati da Andrea Zanzotto, contenenti poesie di Metastasio, D’An¬ nunzio e Petrarca; ed era persino apparsa una lettera 86
di Geno Pampaioni, affettuosa, scritta a mano con calligrafia stretta e regolare, tutta impennata verso l’alto. Tenui frasi di pudorata solidarietà, intrise di un profondo senso di amicizia e impreziosite da una annotazione critica che mi aveva folgorato per la sua illuminante finezza: ...Perché lei possiede insieme il sentimento delle radici, del dolore e dell’allegria. “Telefoniamogli - aveva subito proposto Federi¬ co. - Non hai il numero?” Le uniche interruzioni di quel pomeriggio sospeso erano state la misurazione della pressione - regolaris¬ sima: 140, 70 - e quindi la cena. A sera, era passata Giulietta, con un piglio decisamente più energico, il viso ancora di cera, ma gli occhi meno annaspanti nel dolore e nello spaesamento, quella espressione indi¬ menticabile che assume Gelsomina quando muore il Matto, ucciso da Zampano. Recava con sé una rosa, il pensiero elegante di un anziano gentiluomo, il com¬ mendatore Arpesella, proprietario del Grand Flotel. Federico non si dava pace per la scomparsa del taccuino di indirizzi, e lei si era messa volonterosa¬ mente alla ricerca, riuscendo a scovarlo in fondo all’armadietto di ferro, finito chissà come fra le ma¬ gliette della salute in filo di scozia, ben ripiegate e stirate di fresco. Compiuta la missione era stata ri¬ presa in consegna dai parenti e nella stanza, uscita la maestra dall’aria severa, era prontamente ricompar¬ sa l’atmosfera da scolaresca indisciplinata che Fe¬ derico sapeva instaurare appena sollevato da ogni ruolo e responsabilità. Pamina era sempre al centro dell’attenzione, eufo¬ rica, incredula di partecipare a quella specie di scam¬ pagnata, lei abituata a chissà quali degenti, a quali veglie noiose e deprimenti. Quando poi era arrivato in visita Titta Benzi, l’avvocato, appoggiandosi al 87
suo bastone, sornione e gaudente, allora l’atmosfera goliardica si era proprio surriscaldata. Federico se la spassava di gusto, a pancia scoperta, come se fosse sdraiato su una brandina da spiaggia a prendere il sole. Titta era di nuovo il compagno dell’adolescenza disposto a buffoneggiare per lui, che per un mezzo soldo mangiava la cacca di gallina, oppure il gessetto della lavagna che legava i denti, e anche il pesce cru¬ do, al porto, quando tornavano le barche. Negli anni il ruolo non si era modificato, vittima compiaciuta, “il Grosso”, degli scherzi che venivano soltanto ag¬ giornati. Penalista di grido, su una sua fotografia Fe¬ derico aveva tracciato a pennarello un fumetto di fe¬ roci anatemi: bestemmiatore e puttaniere. “Così adesso tutto il mondo mi conosce! - si com¬ piangeva e compiaceva, l’amico. - Un’affermazione del genere scritta di pugno di Fellini, chi ne dubita più! Associata al suo nome, la mia faccia farà il giro del pianeta, sarò rinomato in ogni angolo della terra come ladrone e mangiacristi.” Avevano continuato a ruota libera come due co¬ mici guitti, l’immancabile accoppiata in cui Fellini aveva suddiviso l’universo, l’Augusto e il Clown Bianco, eterni eroi del circo e della vita. Finché s’era fatto buio. Disciolta la cricca, si spalancava per Federico un’altra notte di interminabile angoscia. Giorno dopo giorno l’aspetto di Fellini migliora¬ va, il viso appariva più disteso, l’eloquio più chiaro. Pamina non lo trascurava un solo istante, ansiosa di mostrarsi all’altezza del compito angelico che le era stato assegnato dal Maestro e ormai dalle cronache giornalistiche. Si esaltava ogni volta che giungeva un nuovo gigantesco mazzo di rose, una corbeille di fio¬ ri degna di dive e soubrette; lei correva a scovare il bigliettino, lo porgeva a Federico. 88
“Leggilo tu, che dice?” la coinvolgeva lui per gio¬ care. “Arriva dalla Grecia, è di un produttore di nome Manos.” “E quando l’hai conosciuto?!” fingeva di stupirsi, per vederla ridere. Era una processione di fiori; una doppia dozzina di rose giganti, scarlatte e vellutate, erano inviate dall’étoile del Teatro alla Scala. Ormai per Federi¬ co scattava una gag obbligata: gli omaggi floreali che arrivavano, venivano girati d’autorità all’angelica Pamina: “Sono tutti per te, ti piacciono? Questa sera te li porti a casa.” “Ma sono in bicicletta, non ce la faccio!” “Ti accompagna Oscar in macchina.” Il compito era assegnato a me, fantasma d’amore. L’ardente Elena mi aveva raggiunto sul radiote¬ lefono di Roberto, la guardia giurata: avevo ricono¬ sciuto senza esitazione la sua voce che, dall’emozio¬ ne, non riusciva quasi a pronunciare le parole: “Appena ti è possibile, - mi pregava - che siete soli, dai un bacio a Federico da parte mia, digli che lo penso sempre.” Titta Benzi, col sorriso beffardo nel volto rugoso, aveva mostrato la copertina dell’Espresso, dedicata a una giovane starlet, riuscitissimo incrocio fra cromo¬ somi romagnoli e finlandesi. Due chiappe alte, ro¬ tonde, perfette, da crisi religiosa. Erano divampati spontanei i commenti da vitelloni su quell’argomen¬ to inesauribilmente ispiratore che era il culo femmi¬ nile. Fellini aveva sfogliato superficialmente le foto¬ grafie dell’attricetta da lui lanciata in uno short pub¬ blicitario, e ribadiva, volpone, di preferire le grazie della giovane rumena, ne tratteggiava inarrivabili cammei. Persino nel cognome di quell’angelo venuto da lontano scopriva affascinanti suggestioni onoma89
topeiche: “Trif, Trif, Trif - sillabava. - Una farfallina che batte le ali, un nome volante.” Si era fatto procurare un biglietto per accompa¬ gnare tutti i fiori destinati a Pamina con una diplo¬ matica dedica alla suocera. Una mossa strategica con cui sviare ogni sospetto e tranquillizzare il perplesso e gelosissimo marito, assurto inaspettatamente, e or¬ mai quotidianamente, agli onori delle cronache mu¬ nicipali e dei commenti salaci dei concittadini. Per placare la sua ostilità Federico aveva convinto Giulietta e Mario Saraceni a trascorrere una serata al Grand Hotel in compagnia della coppia, nella pro¬ spettiva di assicurarsi anche per il futuro l’assistenza della brava ragazza. Non voleva separarsene più, an¬ che nell’eventualità di cambiare ospedale e città. Quei giochi mi rivelavano il Fellini dei giorni mi¬ gliori: stava mettendo in atto le sue trame più tipi¬ che, inseguiva il gusto di ricomporre personaggi e si¬ tuazioni secondo un disegno ben congegnato, da re¬ gista, da metteur en scene della vita. Era fuor di dub¬ bio in via di guarigione. Giulietta compariva soltanto per brevissime visite. Mi aveva sussurrato che il giovedì successivo sarebbe rientrata a Roma; era allo stremo e i medici la avver¬ tivano che si stava spingendo sull’orlo di un crollo inevitabile. Implorava fra sé: “Speriamo che Federico non se ne renda conto.” E non trascurava la visita al par¬ rucchiere, desiderosa di presentarsi con i capelli per¬ fettamente in ordine, condizione indispensabile per sentirsi a proprio agio. Ma il viso era sempre più affilato e un’espressione indurita vi si annidava, appena camuffata sotto una smorfia di dolore. La preoccupazione serpeggiante tra i parenti era che mentre Federico si stava riavendo dal brutto ac¬ cidente, toccava ora a Giulietta dargli il cambio, pa90
game in qualche modo le spese; l’insostituibile com¬ pagna aveva esaurito le sue riserve, logorata nel pro¬ fondo. Tilde, l’infermiera per il turno di notte, nella foto tessera di riconoscimento appuntata sul risvolto del camice assomigliava sorprendentemente a un perso¬ naggio mitico del pantheon felliniano: la moglie del farmacista. L’avevamo notato subito con Federico, ripensando alla leggendaria bagnante della Città del¬ le donne, la prosperosa apparizione che si staglia in costume da bagno sulla porta della cabina per in¬ cedere poi voluttuosa verso la battigia. L’estroversa assistente sanitaria riproponeva le sembianze e le forme di quell’irraggiungibile maliarda, sbirciata col batticuore insieme agli amici d’infanzia attraverso i buchi del capanno. Anche lei di Rimini, autorizzava una propizia, fantastica coincidenza. Una stimolante rivisitazione? “Ha visto qua, Fellini ? ! - si scaldava la Tilde esi¬ bendo delle vecchie copie di Gente e di Oggi. - Le è andata bene, va là!” Nelle pagine interne erano riportate le immagini di Federico, in barella, scattate durante il drammati¬ co trasporto dal Grand Hotel all’Ospedale Infermi. In una fotografia a tutta pagina veniva ritratto con l’occhio sbarrato, una coperta addosso, l’ago della flebo già infilata nel braccio, e i barellieri che lo so¬ spingevano trafelati lungo i corridoi del Pronto Soc¬ corso. Federico rammentava confusamente il fastidio dei flash baluginanti nell’aria, e poi tutti i controlli, e i test e le TAC, e l’affaccendarsi di mani ignote sul suo corpo, già espropriato a se stesso. “Non riuscivo a chiedere aiuto - argomentava perplesso. - Hai mai provato a chiedere aiuto? È im¬ possibile, non ti esce la voce, le parole si rifiutano di 91
prendere forma, di lasciarsi gridare. È come dire ‘ti amo’, tu riesci a dirlo?” “E prima?” insistevo a indagare. “C’era stato quel bambino, te l’ho raccontato, è lui che mi ha salvato.” “Elena sostiene di aver dato lei l’allarme; che sta¬ vate parlando al telefono quando è successo.” “Ha detto così?” meditava interdetto, incredulo. E io insistevo: “Ma tu riconosceresti il viso del bambino?” “Potrei disegnartelo.” “E non l’avevi mai visto, non assomiglia a nessu¬ no?” “No, era un bambino straniero, di passaggio.” Mi arrovellavo a rintracciare possibili antecedenti: “Assomigliava al bambino vestito di bianco che guida la fanfara di Otto e mezzo?” “Non mi pare...” “E tu, da bambino, hai mai avuto un cappelluccio rosso col nastro?” “No.” Se non era il fanciullino della sua ispirazione in¬ tervenuto a salvarlo, quale altra presenza gli si era mossa incontro sulla soglia? L’esperienza estrema era stata dunque assimilata a un sogno, o all’immagine ipnagogica di un bambino straniero spuntato all’ultimo momento, in suo aiuto. Lo schermo innocente fra l’essere e il nulla. Tilde a quei discorsi non metteva bocca; entrava e usciva dalla stanza per le sue faccende, ascoltando con un orecchio solo. Ma quando l’argomento si era spostato sul problema più concreto della riabilitazio¬ ne, allora non s’era tirata indietro, intervenendo con pratica cognizione di causa: “Vedrà signor Fellini, quando la metteranno nella piscina! Lo sa chi reagirà per primo? Il pippo!” Federico l’aveva guatata con cipiglio: 92
“Mettimelo per iscritto” aveva preteso. “Stia pur sicuro che non mi sbaglio; sarà lei che dirà: c’aveva ragione la Tilde!” Quel termine, il pippo, era immediatamente di¬ ventato il perno della nuova conversazione, presen¬ tato nelle numerose varianti in cui viene chiamato in Romagna: prima fra tutte il bigolo, cioè l’arnese usa¬ to per tappare la botte. E dal bigolo ai culi il percorso s’era avviato da so¬ lo, con tanto di caratteristiche etniche e campanilisti¬ che: le donne ferraresi più carcadore delle riminesi; c’era persino il detto, ci istruiva la Tilde: “Culo basso a mandolino, culo carcadore.” Come chi? La ricerca degli esempi si estendeva a quel punto alle giovani infermiere dell’ospedale asse¬ gnate a Federico; e lui fantasticava di poterle acco¬ gliere in frotta nel suo letto: la bionda Natascia, Ma¬ ria Pia, Manuela, spiritose, aggraziate, una più fresca dell’altra, doni di femminilità che gli vorticavano intorno durante il giorno, e che se avessero potuto nutrirlo anche di notte, coricate al suo fianco, “come ogni civiltà evoluta dovrebbe incoraggiare, sulla scorta dei grandi vecchi della Bibbia, o dei saggissimi guru... Gandhi, Mao Tse Tung”, l’avrebbero risusci¬ tato a pronta e completa guarigione. “Pensa, ammirare sul guanciale le gote rosate di Pamina, assorbirne il respiro, lasciar agire l’osmosi dei fluidi, lo scambio di energie, con autentica natu¬ ralezza, con generosità, in un prezioso rifluire degli esseri. Senza malizia o perversione, piuttosto in un esercizio di gentilezza fra creature umane... E invece quando lo propongo, - fingeva di crucciarsi - le ra¬ gazze si mettono a ridere, dicono che non c’è spazio nel letto, che è troppo stretto.” Esibiva scoramento, con un brillio incontenibile negli occhi. “Ci vorrebbe proprio un gran lettone! - condivi93
deva la Tilde. -Ah, le farebbe bene sì, signor Fellini!” Federico la guardava stralunato, mi si rivolgeva corrugando la fronte: “Quando sento ‘signor Fellini’ penso sempre che si rivolgano a mio padre: tu non reagisci così se ti chiamano per cognome?” Voleva essere coccolato: succhiare il ghiacciolo al limone, e poi bere un po’ d’acqua con la coca-cola, e poi di nuovo il ghiacciolo, e poi si lamentava del ca¬ tetere che gli provocava dolore; la Tildona metteva le mani sotto le lenzuola ad aggiustarglielo, e cercava intanto di rabbonirlo: “Tanto domani glielo tolgono questo, sa, signor Fellini, cerchi di portare pazienza.” Mi si rivolgeva con fare competente: “Per non impigrirlo gli chiudono il catetere un’oretta e mezza al giorno in modo che si riabitui allo stimolo. E un esercizio per la vescica, risponde benis¬ simo.” Erano arrivate le altre infermiere a prepararlo per la notte: Manuela, la più giovane, aveva capelli bion¬ di ma crespi, tirati a coda; l’altra, della provincia di Pesaro, sembrava una specie di torello senza collo, sbrigativa, cameratesca, del tipo che non si formaliz¬ za a consolare le retrovie. Insieme gli si erano fatte sotto scherzando, stuzzicandolo giovialmente, tiran¬ do in ballo le colleghe più o meno carine, e quello che combinavano, la fama che s’erano guadagnata. L’avevo lasciato in buone mani, con la Tilde alla te¬ sta delle più giovani che protestava: “Venga qua signor Fellini, adesso ci dedichiamo a lei, è contento che siamo in tre?!” “Ma cosa debbo fare?” “Lei niente, pensiamo a tutto noi, stia tranquillo.” E con quest’ultima allusione da allegro bordello, fra quelle risate bonarie e genuine, materne e inde¬ centi, avevo riaccostato la porta dietro di me. 94
Con quella compagnia intorno e l’atmosfera che s’era creata, credo che la mia presenza risultasse di¬ chiaratamente superflua.
95
Capitolo VI Le mura stregate
Era scoppiato il caso Pamina. La cena con Giulietta al Grand Hotel non aveva sortito un buon risultato, anzi aveva finito per incrinare il precario equilibrio. Mario Saraceni presente nel ruolo di medico, amico di famiglia, e in qualche misura garante dell’accordo, era riuscito in realtà ad ammorbidire il legittimo consorte dell’angelo di Benozzo Gozzoli, cuore sem¬ plice d’autista di mezzi pesanti. Ma l’incontro aveva scatenato fra i riminesi un profluvio di malignità, e il più seguito quotidiano locale, la mattina successiva, aveva posato la ciliegina sulla torta con un bel titolo¬ ne da cronaca rosa: Fellini parte con Pamina... La graziosa rumena non era stata più in grado di arginare le escandescenze del marito geloso e la tra¬ sferta al seguito del celebre malato le era stata defini¬ tivamente preclusa. Federico era stato accuratamente tenuto all’oscu¬ ro dei problemi insorti, per non turbarlo in anticipo: il trasferimento all’Ospedale San Giorgio di Ferrara era fissato per il giorno a seguire. La bassa pressione atmosferica aveva portato la pioggia. Per strada mi aveva sorpreso un fortunale d’agosto, acqua a scroscio da Cattolica in poi; il cie¬ lo s’era svuotato sulla costa come un secchio troppo ricolmo. Utilmente, perché in quel modo anche l’e¬ lettricità accumulata nell’aria si era dispersa; la cam¬ pagna, spolverata, aveva indossato una livrea di ver¬ de squillante e l’afa era scomparsa. Al mio arrivo Federico aveva insistito che, con 96
quell’alluvione, accompagnassi Pamina a casa in macchina; ma la pioggia era ormai cessata, perché tanta premura? Aveva ascoltato la mia descrizione del temporale come assorbito in una favola, la cate¬ ratta d’acqua sul parabrezza che impediva ogni visi¬ bilità, l’asfalto sommerso dalla pioggia; tutto quello che avveniva al di fuori della sua stanzuccia e lo riconduceva nel cuore della vita, possedeva virtù tau¬ maturgiche, atmosfere di salutare seduzione. Era allegro, l’imminente partenza per Ferrara se¬ gnava in ogni caso un cambiamento, un passo avan¬ ti. Se il programma di rieducazione, l’ambiente nuo¬ vo, il peso di familiarizzare con persone sconosciute, conquistarle ancora una volta al proprio benessere, lo caricava di ansietà; di contro gli sorrideva l’idea consolante che il radicale rinnovamento sarebbe sta¬ to lenito dalla vicinanza di Pamina, “quella buona fi¬ gliolina” così sollecita, duttile, intelligente nel capir¬ lo ed anticiparne ogni desiderio. E Pamina soffriva un terribile disagio, si sentiva morire a deluderlo, colpevole di ingannarlo. Mi guardava con occhi umidi e imploranti, tentata ogni momento di scoppiare in lacrime, confessargli la sua non voluta defezione, prima che Federico la venisse a scoprire da altri: il loro viaggetto romantico non esi¬ steva più, cancellato dagli eventi. Fellini si poneva più che mai protettivo nei suoi confronti, continuava a preoccuparsi che rincasando non prendesse freddo, o fosse colta dalla pioggia. E a fine turno aveva di nuovo insistito con me: “Accompagnala tu, Oscar, non è prudente che va¬ da in bicicletta con questo tempo, la bicicletta ver¬ ranno a riprenderla domani.” Pamina ne aveva controllato la chiusura con qual¬ che apprensione, timorosa di non ritrovarla più il giorno dopo; ed era salita in macchina con me, siste¬ mando sul divano posteriore un immenso cesto di 97
fiori. Mi aveva guidato lei per le strade della perife¬ ria, nel dedalo dei palazzoni di cemento grigio in cui bisognava orientarsi seguendo vistose lettere segnale¬ tiche. E alla fine avevo fermato l’auto davanti a una delle entrate sghembe, tutte identiche, ricavate da quinte di calcestruzzo. Ero sceso con lei, caricandomi i fiori in braccio e scortandola dentro l’atrio degli ascensori. Benché non fosse tardi, la sera era scesa in fretta per via del cielo gravido di pioggia. Pamina voleva dirmi qual¬ cosa, e così avevo appoggiato a terra la corbeille. In quell’impervia architettura di volumi giustapposti bastava un mezzo passo a rendersi invisibili; lo aveva compiuto lei, con una lieve torsione del corpo, atti¬ randomi dentro una vela d’ombra. Si era appoggiata con la schiena alla parete, in una posa da film neo¬ realista, pervasa di un’oscura passione di peccato: “Lo so io quanto ti vuole bene” aveva esordito, aspettandosi da me una reazione. Mi ero accostato alla sua persona, al viso di cui scorgevo solo lo scin¬ tillio degli occhi, e poi neanche più quello, per le pal¬ pebre che si erano abbassate mentre le labbra si schiudevano esitanti e l’odore molle dei fiori ci alita¬ va intorno. Aveva mormorato d’un fiato: “Io domani non partirò. Non lo rivedrò più.” “Potrai raggiungerlo in seguito.” “No, non potrò.” “A Federico l’hai detto?” Aveva rivolto lo sguardo a terra, con un sì imper¬ cettibile: “Adesso debbo andare.” “Ti porto i fiori all’ascensore.” “Non importa, ce la faccio da sola.” Mentre sollevava fra le braccia il grosso cesto¬ ne, avevo colto dal bouquet una spiga di porporina d’oro. Un talismano. 98
Sebbene il peso le curvasse la schiena, mi aveva offerto le labbra perché le baciassi un’ultima volta, per lui; e di nuovo aveva chiuso gli occhi sul suo so¬ gno spezzato. Poi si era girata, quasi senza guardarmi, allonta¬ nandosi con passo rapido, teneramente goffo per l’ingombro. E solo prima che si chiudessero le porte dell’ascensore s’era voltata di nuovo: lo sguardo, l’atteggiamento, il sorriso - poteva mai ingannarsi Federico? - erano quelli di un dipinto, un fragile an¬ gelo del Quattrocento. Molto presto la mattina successiva, ancora immer¬ so nel sonno, la sua voce era risuonata al telefono: “Signore, vieni? Faccia presto! Ha detto lui più presto possibile.” M’ero vestito ed ero partito seriamente preoccu¬ pato: cosa poteva essere successo? All’Ospedale Infermi m’ero imbattuto nell’assem¬ bramento della stampa, spiegata in forze per il tra¬ sferimento di Fellini a Ferrara. Avevo interrogato Roberto, di postazione all’imbocco del corridoio, ma neanche lui era a conoscenza di novità allarmanti, a parte la notizia, ormai ufficiale, che Pamina non avrebbe seguito il Maestro. Quando m’ero affacciato alla stanza, Federico ave¬ va rivolto su di me l’occhio tragico e sperduto; il suo grosso corpo prigioniero nel letto come un cetaceo arenato sulla battigia, esprimeva quel panico da incu¬ bo. La defezione di Pamina l’aveva evidentemente spaventato a morte, gettato in balia degli eventi. Per soggiornare con lui almeno durante il primo periodo, era stata scelta fra le infermiere la pettoruta Adina, efficiente e cordiale, ma priva di tratti angelici. Dunque lo attendeva una deriva sprovvista di protezioni, senza palpiti di autentico affetto: DISPER¬ SO DEI DISPERSI.
99
Col passare delle ore la camera s’era animata co¬ me un foyer. Dalle librerie di Rimini avevo requisito tutte le copie disponibili della biografia scritta da Tullio Kezich: le aveva richieste Federico per acco¬ miatarsi dagli amici, dal personale, dagli ammiratori, affidando a ciascuno un libro in ricordo di sé. I medici dell’ospedale, in corteo, si presentavano a salutarlo, a omaggiarlo, a significargli l’onore di averlo curato. Per ognuno Fellini firmava una dedica personale, un pensiero di simpatia, di riconoscenza, voleva che indistintamente ricevessero il suo dono, anche gli infermieri, i portantini, le guardie giurate. Esprimeva in quell’affanno, col cuore gonfio, l’ama¬ rezza di accomiatarsi dalla città dell’infanzia. Gli di¬ spiaceva separarsi da Rimini, e in questo travaglio aveva voluto che preparassimo una lettera per il sin¬ daco, un messaggio di ringraziamento ufficiale, da inviare contemporaneamente ai giornali per essere diffuso all’intera popolazione. Mentre me lo dettava, troppo turbato, si inceppava in singulti che lo scuo¬ tevano in tutto il corpo, tanto che, forse per pudore, aveva preferito allontanare persino Pamina, rimane¬ re nella stanza solo con me, dispensato dalla preoc¬ cupazione di doversi controllare, o nascondere. Già nominare la sua terra gli colmava gli occhi di pianto: non avevo mai sospettato in lui un attaccamento così viscerale, così sentimentale - e così accuratamente dissimulato - alle sue radici familiari. Caro Sindaco, nel momento di lasciare la ‘mia Rimini’ e continuare le cure in un centro specializzato per la riabilitazione, desi¬ dero attraverso la sua persona di amico e di primo cittadi¬ no, esprimere i sentimenti della mia commossa gratitudine a tutti coloro che mi hanno manifestato preoccupazione, solidarietà, amicizia, affetto, contribuendo a una soluzio¬ ne positiva del percorso doloroso e inquietante della ma¬ lattia. 100
E allora andiamo per ordine. Grazie prima di tutti all’Ospedale Infermi, un istituto sanitario che veramente in questo periodo di rassegnata e sconfortata accettazione di un problema italiano della malasanità, riesce con la sua efficienza, la sua organizza¬ zione, le sue équipes di medici, a restituirci fiducia nella possibilità di ripresa del paese che per fortuna è fatto di persone e non di astratti teoremi o di sciagurate abitudini. Un grato saluto al prof. Angelo Corvetta che oltre alla scienza possiede anche l’aspetto rassicurante del compa¬ gno di scuola, e a tutti i suoi collaboratori, attenti, vigili, sdrammatizzanti, e giovanissimi. Non dimenticherò più il personale paramedico, dalla caposala alle assistenti notturne, fino al cuoco, bravissimo, degno di dirigere la cucina del più sofisticato ristorante. Voglio anche ricordare i vigili della “Fedelissima” che con discrezione e tatto hanno saputo contenere l’affettuo¬ sa curiosità degli amici giornalisti. Insomma, quando ho deciso di venire a passare la con¬ valescenza a Rimini ho avuto proprio una ispirazione feli¬ ce. E le prove di affetto, di solidarietà, sono state tantis¬ sime. Ho saputo anche che quando gli altoparlanti della Publiphono hanno annunciato sul litorale che i medici avevano sciolto la prognosi, molta gente in procinto di tuffarsi dai trampolini si è fermata a mezz’aria. Questa ondata di affetto in tutto il mondo e soprattut¬ to nella mia città, mi obbliga a pensare che devo aver fat¬ to qualche cosa per meritarlo, ma non ricordo bene cosa. In ogni caso lo farò. Per istinto e per educazione riesco a difendermi dalle insidie della retorica, ma questa volta mi lascio andare. Sono contento di essere nato da queste parti e voglio augurare ai miei compaesani di saper mantenere, nono¬ stante i tempi bui, questo slancio generoso verso i valori dell’amicizia e della vita. Parto, in conclusione, con un bellissimo ricordo e un arrivederci a presto in occasioni più liete. Con affetto e gratitudine vi saluto. Il vostro scoagulato * Federico. * Chiedere al medico di fiducia. 101
Durante la stesura del testo le interruzioni erano state molteplici, per il via vai continuo. Si sussegui¬ vano frenetiche le visite, i congedi. Solo Giulietta non era presente, inseguita da Fe¬ derico col telefonino, da un posto all’altro; aveva deciso di precederlo a Ferrara, per controllare di per¬ sona la confortevolezza della sistemazione, accertarsi che ogni particolare risultasse in ordine; e riempire la sua camera di rose rosse, accompagnate dall’immutabile, struggente biglietto: La Tua Giulietta. Federico aveva dedicato una gran cura alla pro¬ pria persona, erano stati convocati manicure e pedi¬ cure, barbiere e massaggiatore; si preparava a quel¬ l’addio a Rimini come uno stoico della latinità che si appresta al commiato definitivo. Possibile che dav¬ vero avvertisse l’inappellabilità della sentenza, l’irre¬ versibilità del distacco? Quando gli avevo sottoposto, ribattuta a macchi¬ na, la lettera indirizzata al sindaco, s’era già fatta l’una e le guardie giurate, insieme alla polizia di sta¬ to, avevano congegnato una sortita strategica per elu¬ dere l’assalto della stampa. Federico, riletto il testo, l’aveva firmato, e aveva disposto che una copia la ri¬ cevesse il quotidiano emiliano, una seconda il prima¬ rio del reparto, e una terza, tramite l’Ospedale stesso, fosse inoltrata al primo cittadino della sua città. Il contenuto della lettera s’era propagato con la rapidità di un lampo; ogni corpo di servizio, ogni singola persona, temeva di essere escluso dai ringra¬ ziamenti, e di subirne pertanto un contraccolpo ne¬ gativo. Si incrociavano interrogativi allarmati, caute richieste, ciascuno ansioso di accertare la benevolen¬ za del sovrano. Sembrava veramente di vivere lo scioglimento di una corte, l’esilio di un Re. All’ora convenuta Fellini era stato trasferito in ba¬ rella, lungo corridoi sotterranei, verso un’uscita se¬ condaria dell’ospedale; e l’ambulanza era salpata, si102
lenziosa e invisibile, nel meriggio assorto sotto la vampa del sole. DISPERSO DEI DISPERSI.
Era un S.O.S quello che Federico mi aveva lancia¬ to all’alba tramite Pamina, una confusa invocazione di aiuto. E io proprio non avrei mai saputo se ero riuscito, sia pure per un infinitesimo frammento, ad arginare la nera vertigine del suo disperdimento. Saraceni mi aveva chiamato quella sera stessa: il trasferimento a Ferrara si era svolto senza intralci, ma riteneva necessario che io mi facessi vivo al più presto, perché Fellini era molto provato, molto de¬ presso, aveva bisogno di riacquistare fiducia, corag¬ gio, e non sentirsi abbandonato. Ero partito alle tre del pomeriggio, in un caldo canicolare e con un traffico scoraggiante. In auto¬ strada ero restato intrappolato nella ribollente fiu¬ mana del rientro dalle vacanze: milioni di automobili di Milano, Torino, Brescia, Bergamo, Varese, che rifluivano dalla riviera del divertimentificio verso la grande industria del nord. La festa era finita, riapri¬ vano le fabbriche, tutti a casa. Avevo creduto di non farcela, si procedeva a sin¬ ghiozzo con lunghe estenuanti fermate, guidavo in un bagno di sudore, e centocinquanta chilometri di quel tormento mi apparivano inaffrontabili. Supera¬ ta Rimini Nord, un principio di incendio ai lati della carreggiata, oltre i margini del guard-rail, aveva ag¬ gravato ulteriormente la situazione, con le autobotti dei pompieri che stentavano a farsi largo sulla corsia di emergenza, il fumo infuocato che si spandeva sul mare di lamiere. A Cesena la situazione era leggermente migliora¬ ta, la strada a tre corsie permetteva un lentissimo scorrimento senza arresti; ma la coda, come avverti¬ vano i cartelli luminosi, si protraeva fino a Bologna. 103
Dieci chilometri prima della tangenziale, eravamo ancora tutti in fila, a passo d’uomo. A quel punto mi aveva raggiunto sul telefonino la voce nebbiosa di Federico: “Vieni, ho bisogno di vederti...” “Federico, sto arrivando, ormai è questione di poco.” E di colpo il suo tono aveva ripreso slancio, muta¬ to registro, come mi parlasse da un albergo di lusso: “Ah, bene, allora lascio il tuo nome in portineria.” Per mia fortuna il traffico era massicciamente in¬ canalato in direzione di Milano e giunto allo svinco¬ lo per Padova avevo potuto lasciarmi alle spalle l’in¬ ferno del controesodo. M’ero gettato in velocità e, col vento che finalmente turbinava dai finestrini, af¬ frontavo con insperato sollievo il solleone della pa¬ dana. Altedo, Ferrara: una volata. Al mio arrivo avevo trovato una città spopolata e immobile, ‘come narcotizzata dall’afa. Non c’era un solo segnale a indirizzarmi verso l’ospedale e le per¬ sone in strada con quella calura erano presenze eva¬ nescenti. Dal padiglione centrale dell’ospedale citta¬ dino mi avevano istruito sulla dislocazione del San Giorgio, una costruzione a se stante fuori le mura. S’erano fatte ormai le cinque. Due infermierette in bicicletta, con un filo di divertito stupore sul viso, mi avevano scortato nell’ultimo tratto, spedalando in direzione di un edificio defilato dalla strada maestra e, una volta giunti, mi avevano indicato il piano rial¬ zato dove si trovava la stanza del regista. L’atrio era vuoto e silenzioso, una fuga di pavi¬ menti lucidi e corridoi deserti, con tante carrozzelle in fila lungo le pareti. Superato il gabbiotto di vetro degli infermieri, disabitato, e raggiunta la seconda porta sulla destra, l’avevo scorto, disteso a letto, mentre Adina gli si affaccendava intorno eternamen¬ te sorridente. 104
All’incrociarsi degli sguardi avevamo provato vicendevolmente, ne sono certissimo - un trasali¬ mento da sopravvissuti, non saprei spiegare perché. Rincontrarci a distanza di un solo giorno, ma in un altro ospedale, aveva provocato in entrambi quella irragionevole emozione, un brivido da reduci, di scampati dentro una trincea. Così era stato esaltante, tutto a un tratto, ridividere la semplice, ovattata, in¬ timità della stanza. Adina si era delicatamente appartata, e Federico non aveva perso un minuto a ragguagliarmi, con elettrizzata partecipazione, su ogni particolare della nuova sistemazione. L’ospedale San Giorgio, situato quasi alla perife¬ ria di Ferrara, consisteva in una modesta costruzione circondata da un giardino. Era condotto da un pri¬ mario carismatico, ideatore di un metodo particolare per la riabilitazione dei cerebrolesi. Completamente votato alla sua missione, il professore non visitava e non curava se non nella propria struttura, e aveva acquistato a quel modo una fama di guaritore e di guru. Il complesso si presentava assolutamente spartano e organizzato secondo una non frequente efficienza. Ma il paesaggio umano che lo popolava era terri¬ ficante, e Fellini si sbizzarriva a raffigurarlo come un girone infernale, la spelonca degli orrori. La prima volta che aveva richiesto di venir condotto in giardi¬ no all’aria aperta, s’era imbattuto negli altri malati, creature perlopiù ridotte a un’esistenza vegetativa, e ne era rimasto sconvolto. Soprattutto per il gran nu¬ mero di giovani sprofondati nella demenza, ragazzi accolti da quell’ultimo asilo in seguito a incidenti d’auto, a tuffi inconsulti, a episodi traumatici dovuti spesso a comportamenti sconsiderati, a superficiali¬ tà, a incoscienza. Un concentrato di sofferenza inso¬ stenibile. 105
Federico ne era respinto e affascinato, con l’in¬ saziabile curiosità che lo aveva accompagnato du¬ rante tutta l’esistenza, quell’attitudine all’osservazio¬ ne, alla dilatazione dei fenomeni, la meraviglia ‘reli¬ giosa’ che sapeva trarre da ogni manifestazione uma¬ na, financo dalla più misera e spropositata. Aveva già elaborato un repertorio di racconti e di affabulazioni. Gli era accaduto che incrociando un’anziana si¬ gnora anche lei spinta sulla carrozzella, le avesse ri¬ volto per gentilezza un cenno di saluto con la mano, e l’altra se ne fosse adontata oltre misura. “Chi è?! sbraitava in un accesso parossistico. - Non lo cono¬ sco! Perché mi ha salutato! Cosa vuole da me!” Non trovava pace, esigendo una spiegazione per quel ge¬ sto tanto ingiustificato e invadente, affliggendo me¬ dici e infermieri per la presunta offesa subita. “E la palestra?! - procedeva Federico. - Come un quadro di Bosch.” E sbrigliava la fantasia nella descri¬ zione minuziosa, tragica e grottesca, dello smottamen¬ to del corpo umano privato del nucleo ordinatore, non più sorretto da una centrale ormai in dissesto e impotente ad arginare l’incontenibile frana biologica e fisiologica: una condizione umana stravolta da una mano demoniaca, sottratta all’armonia del creato. Ma fra tutti, chi attirava morbosamente la sua at¬ tenzione, era il ricoverato della stanza accanto, un celebre industriale dell’automobile colpito gravemen¬ te da ictus all’emisfero sinistro del cervello, cioè al centro della parola. Si favoleggiava che avesse speri¬ mentato, senza alcun giovamento, tutti gli istituti più rinomati d’Europa e alla fine, approdato in quell’ospedaletto, aveva cominciato a migliorare. Dalla sua camera giungevano a tonalità inverosi¬ mili suoni disordinati e indecifrabili. “Raglia, barrisce tutto il tempo - amplificava e arricchiva Fellini. - Mi sembra di essere atterrato in 106
mezzo alla savana.” E, con l’orecchio teso, mi invita¬ va a fare attenzione: “Ascolta, senti che concerto!” Era tutto proteso a spiare quei versi mostruosi, scardinati, primordiali, che straziavano l’aria immo¬ bile del cronicario come il maleficio di una strega. ‘Che cosa crederà di dire?!” si domandava. E rin¬ carava la dose tracciando arabeschi verbali non dis¬ simili dai suoi schizzi irriguardosi, dalle sue caricatu¬ re ferocemente comiche: “Mi hanno detto che pretende di parlare al telefo¬ no con la sua fabbrica, impone che gli vengano sot¬ toposti i disegni dei prototipi, dei nuovi modelli di automobili, che solo lui può approvare; la moglie e le infermiere si affannano a interpretare i suoi ragli fragorosi, tradurli agli impietriti funzionari. Prova a immaginare, durante un consiglio di amministrazio¬ ne, i tentativi di impartire le direttive, che sparatoria di spernacchiamenti, rutti, mortaretti! Ma neanche Totò, neanche i fantasisti dell’Ambra Jovinelli! Gli piace guardare la televisione, la commenta con rug¬ giti strazianti; certe volte, se mi assopisco, ho l’im¬ pressione che accanto a me si sia accampato il circo Togni, col serraglio delle belve feroci; di notte mi verrebbe istintivo chiamare Nandino Orfei, che arri¬ vasse lui con la frusta e lo stocco da domatore, a far tacere quell’orchestra di bramiti, ringhi, ululati.” Federico si agitava nel letto, spingendosi a imita¬ re i versacci scomposti, i rumori inceppati, del suo compagno di disgrazie. “Quando ci siamo incontrati in corridoio, - si ac¬ calorava esilarato - tutti e due in carrozzella, al mo¬ mento della presentazione, per essere spiritoso, gli ho svelato che di questo ricovero mi pesava soprat¬ tutto la proibizione vessatoria di non poter fare l’a¬ more quelle quattro o cinque volte al giorno a cui ero abituato. Mi aveva ascoltato seriamente, e alla 107
conclusione per poco non gli veniva un’altra sincope: era scoppiato a ridere così fragorosamente, in manie¬ ra talmente convulsa, accompagnata da tutta una serie di singulti, di ragli, di nitriti, che avevano dovu¬ to allontanarlo di corsa, temendo il peggio.” Barbara e Raffaele, gli infermieri di turno che si prodigavano per l’intero reparto, accorrevano senza sosta ai latrati del celebre industriale; ma Fellini, per una tacita rivalità, non era da meno nel reclamarli incessantemente al suo capezzale, per ogni disturbo o presunto tale, dal fastidio alla cervicale, al formicolio della gamba, alla testa che gli girava. Gli veniva misu¬ rata coscienziosamente la pressione, anche perché ogni volta che si alzava - come richiedeva quasi sem¬ pre di fare per i pasti, seduto nella sedia a rotelle at¬ trezzata con un apposito pianale mobile - si verifica¬ va puntualmente un rapido deflusso arterioso, accom¬ pagnato dalla conseguente sensazione di vertigine. Guardandolo di spalle, seduto in carrozzella, la gran testa ondeggiante in cima al collo esile, le spalle incurvate, il cespo di capelli sulla nuca più bianchi che grigi, mi ricordava proprio la caricatura che lui abbozzava di se stesso, disegnandola ormai da tanto tempo con pochi, precisi, impietosi tratti di penna, di crudele esattezza e vivacità. Ma come poteva cono¬ scersi così bene anche da dietro? Ritornava spesso al suo sogno di sei mesi prima, la lettera da recapitare a Fellini nello studio di Corso d’Italia, e quella lastra di marmo grigio, con sopra inciso il proprio destino. “Pensa la precisione del messaggio - commentava ammirato. - DISPERSO DEI DISPERSI, nessuno scritto¬ re, per quanto geniale, saprebbe trovare un’espressio¬ ne più perfetta per indicare la cancellazione, lo straniamento, la dispersione dalla propria condizione umana e individuale, come quella in cui sono finito.” Cercavo di minimizzare; il sogno non si riferiva 108
necessariamente alla malattia, forse permetteva anche altre interpretazioni meno fosche, meno raggelanti. Ma per Federico era tutto ormai chiaro: “È proprio a questa mia condizione che allude, lo capisco solo adesso. Allora m’era parso di poter rife¬ rire il messaggio al mio lavoro, un invito a riprende¬ re i contatti con quella parte di me che non era più attiva, il Fellini dell’ufficio, che infatti non stava al suo posto. E invece si trattava di una premonizione, il sogno aveva anticipato con una sintesi prodigiosa lo stato in cui mi sarei venuto a trovare. Quello che emoziona è la precisione delle parole: DISPERSO DEI DISPERSI; è difficile immaginare una perifrasi altret¬ tanto esatta, fedele, sgomenta, esauriente, compen¬ diosa, per descrivere, e nello stesso tempo riassumere nelle sue devastanti conseguenze, un ictus cerebrale.” Erano queste le confidenze della sera, quando l’o¬ scurità scendeva fuori dai vetri e nella stanza ci av¬ volgeva un’intima penombra. Adina si preparava a tornare in albergo; dopo un giorno intero trascorso in ospedale, attendeva con ansia quell’ultimo scor¬ cio della giornata da dedicare a se stessa, una doccia, una cenetta al ristorante, due chiacchiere spensierate, senza l’assillo del male. Fellini aveva sbocconcellato un po’ di pasta, un po’ di petto di pollo, una fettina di patata lessa, una mezza cucchiaiata di budino al surrogato di cacao, ma già si lamentava per la testa che gli girava e per la nausea. Voleva essere ridisteso a letto, mentre il giovane medico di guardia, passando ad augurargli la buona notte, cercava di rasserenarlo, dipanando pacato il groviglio delle angosce e azzardando pronostici consolanti. Ma la situazione non era per niente ottimistica, e solo uno smisurato, assiduo, fiducioso impegno, avrebbe aiutato Federico ad evadere da quella con109
dizione da incubo. Impaziente, viziato, coccolato, avrebbe mai trovato dentro di sé l’energia sufficien¬ te, quella voglia, quella determinazione? Era l’ora delle telefonate: gli era stato accordato finalmente l’uso di un apparecchio portatile e con quello poteva raggiungere tutti, come sua abitudine. Ricordava i numeri senza bisogno della rubrichetta, la sua memoria infallibile per nulla scalfita dal terre¬ moto cerebrale. Chiamava per prima Giulietta, le telefonava senza posa anche durante la giornata, la raggiungeva dovunque si trovasse per Roma, un con¬ tatto che non interrompeva mai. A casa gli risponde¬ va Mariona, la vecchia domestica, anziana quanto loro due, un po’ dura d’orecchie; ogni volta si com¬ muoveva daccapo: “Oh, dottore, ma quando torna!” E trascurava, forse non li udiva nemmeno, gli impro¬ peri affettuosi di Federico, i suoi macabri scherzi. Poi si intratteneva con Serventi', con Mario Sara¬ ceni, cercava Pamela, Loretta, e tutte le conoscenze che gli passavano in mente, una specie di rito propi¬ ziatorio, un circuito rassicurante che tracciava attor¬ no a sé da mago esperto. Con ognuna scherzava, si lamentava, inventava una fandonia esilarante, si in¬ formava degli eventi quotidiani, la salute, i sogni, il lavoro. Intanto io sfogliavo i giornali, e fra una tele¬ fonata e l’altra, vedendomi indugiare più a lungo del solito su una immagine, si incuriosiva: “Che stai guardando così insistentemente?” Rivolgevo la pagina a suo favore: “Le tette della Cavagna.” “Fai vedere?” Nella luce incerta della sera, cercava di aguzzare lo sguardo, con una espressione di incredula meravi¬ glia, di cui avevo afferrato la ragione immediatamen¬ te dopo, quando aveva aggiunto: “Avevo capito della Cavani!” E cancellando lo stupore dal viso, affondava sfi110
nito fra i cuscini. Alle nove arrivava l’infermiera di notte, Adalgisa, una donnina esile, dal viso scarno, il sorriso vacuo, la gonna a campana lunga fin sotto i polpacci, sembrava una suora laica, una creatura conventuale. Il fratello di Giulietta e sua moglie, resi¬ denti a Ferrara, avevano già fatto la loro quotidiana, fugace comparsa, sempre preoccupati di disturbare; persone mansuete, sollecite, di rara modestia e bon¬ tà, allenate alla sofferenza per la disgrazia di un fi¬ glio morto di malattia ancora adolescente. Si affac¬ ciavano discreti alla porta, recando con sé il bucato ben piegato, i modesti oggetti d’uso, e anche un ciambellone, con lo speciale profumo di casa. Poiché non avevo ancora fissato un albergo in cit¬ tà, come avrebbe desiderato Giulietta, mi aspettava¬ no un paio d’ore di autostrada, verso la costa. Avevo baciato Federico sulla testa, mentre Adal¬ gisa si adoperava a prepararlo per la notte; e per la seconda volta avevo sentito pronunciare il nome di Else: “Adalgisa, chiami quella bella dottoressa Jacobsen, le dica di venire. - E aveva aggiunto con una punta di compiacimento, quasi a voler smentire la propria impazienza: - Anche per darle soddisfa¬ zione.” Di Else Jacobsen ero già stato messo al corrente da Adina, arroccata dietro il suo sguardo allusivo e malizioso. Ma anche gli infermieri ne avevano evo¬ cato il nome con inequivocabile entusiasmo maschi¬ le. Poteva non accendermi la curiosità? Tuttavia non avevo voluto attendere il suo arrivo, mostrare così scopertamente la mia attenzione, ed ero scivolato via dalla stanza, lungo i corridoi silen¬ ziosi; sperando, beninteso, di incrociarla. Giulietta, a Roma, era stata ricoverata in una no¬ ta clinica privata dove i medici, costringendola a let111
to, cercavano di rimetterla in sesto somministrandole due poderose flebo ogni giorno, mattina e sera. Mi aveva telefonato in apprensione all’idea che Federi¬ co, all’oscuro del suo nuovo stato, non la trovasse chiamandola a casa; lei non era riuscita a raggiun¬ gerlo sul portatile, tenuto spento per la maggior par¬ te del tempo. Mentre tornavo a Ferrara, questa volta in una in¬ interrotta, lunga galoppata, Fellini mi contava i chilo¬ metri: “Dove sei?” voleva sapere al telefono. E io gli for¬ nivo le coordinate. L’autostrada era perfettamente sgombra e l’aria così infuocata che sembrava di navigare nei canali di Marte. Il tabellone all’uscita del casello segnava tren¬ tanove gradi e il cielo appariva un’accecante colata di oro fuso. Prima di raggiungere il San Giorgio mi ero ferma¬ to al primo bar aperto, a comprare'lattine di cocacola gelata e ghiaccioli al limone, per i quali Federi¬ co andava ghiotto. Avevo trovato Adina seduta all’aperto, su una panca del cortile delle ambulanze; stava fumando una sigaretta e mi aveva accolto col suo sorriso vela¬ to: aspettava il mio arrivo essendo stata testimone di tutte le telefonate intercorse fra me e Federico. Mi avevano colpito le ‘ballerine’ d’oro che porta¬ va ai piedi; indossava una gonna stretta e una ma¬ glietta leggerissima che faceva capanna sui suoi seni imponenti, fuori misura, considerata la statura ridot¬ ta della persona. La chioma bionda ossigenata, ordi¬ natissima, troneggiava sulla testa senza un capello fuori posto. Un vezzo che ricordava la Masina. “Il dottore è a colloquio con la dottoressa” mi aveva informato alludendo al suo quarto d’ora di libertà. Avvertendomi anche, senza drammatizzare troppo, che l’ospedale era assediato dai fotografi, 112
spesso camuffati, o nascosti fra i cespugli, a caccia di immagini scandalistiche di un Fellini semimmobilizzato dall’infermità. “Non siamo liberi di uscire a respirare un po’ d’a¬ ria - si rammaricava. - Bisognerebbe prendere qual¬ che provvedimento.” S’era alzata, aveva spento la sigaretta e mi aveva preceduto attraverso i meandri della palazzina che per lei non aveva più segreti. Mi conduceva alla stanza della neuroioga dove Fellini era occupato a svolgere il programma dei test diagnostici. Eravamo passati sul retro dell’edificio, bordeg¬ giando il giardino in modo che potessi rendermi conto, senza parere, degli anfratti e delle siepi in cui erano più frequenti gli appostamenti. Poi, rientran¬ do, mi aveva guidato lungo una serie di corridoi, di raccordi, di praticabili, fino a un capiente ascensore. Procedeva un passo davanti a me, spesso voltata di tre quarti, e quasi sollevandosi sulle punte dei piedi, in un volteggio; portava stampato in viso, come fos¬ se Monna Lisa, il suo sorriso appena accennato, inafferrabile e ambiguo. Un avvertimento che non capivo. In conseguenza della sua maniera di incede¬ re, le tette sporgevano ancora più prorompenti, una espansione, una indocilità, una sfida invincibile ad essere arginate, raccolte, afferrate in tempo, due frut¬ ti succosi e invitanti. Udivo nelle orecchie la voce di Fellini, la volta che ne avevamo accennato: “Piai visto che tette? Sono più grandi di lei! Sem¬ bra si siano sviluppate a quel modo in una sola not¬ te, durante una spaventosa sfebbrata.” E la Tilde, donna esperta e senza peli sulla lingua, aveva sottolineato sbrigativa: “Come dite a Roma? Donna nana, tutta tana!” Ma che idee mi venivano in mente?! E come mai quella creatura per cui non avevo mai avvertito alcu113
na inclinazione sessuale, mi stava assorbendo a sé con un malia sconosciuta, una serpeggiante lubri¬ cità? Eravamo entrati in un ascensore montacarichi, di quelli assai spaziosi, per barellieri. La porta a cancel¬ lo si richiudeva scorrendo, e la gabbia si metteva in moto fra scossoni, salendo quasi al buio in una len¬ tezza surreale, da sogno. Adina, spinto il pulsante, si era appoggiata di schiena alla parete laterale, con un ginocchio ripiega¬ to; teneva le braccia inerti lungo i fianchi, senza de¬ porre un solo momento quel suo sorriso allusivo e persistente.
114
Capitolo VII La lanterna dell’illusionista
Senza intenzione, o forse di proposito, mi ero siste¬ mato di fronte a lei. Con tanto spazio a disposizione le stavo proprio a ridosso, annullando ogni distanza fra noi. Non inseguivo un proponimento preciso, quanto piuttosto un’impellenza sorda. E man mano che l’ascensore saliva col suo asmatico barcollare, nella semioscurità dell’abitacolo rischiarato a inter¬ valli dalle lame di luce filtrate fra le doghe, cresceva in me la sensazione di essere costretto a ubbidire a un imperativo prepotente e incontrastabile. Incapace di trattenermi, le avevo afferrato le poppe, stringen¬ dole e palpandole al di sotto della maglietta, per poi obbligarle a esplodere alla mia voglia. Le forme debordanti e voluttuose, modellate per essere avvolte e maneggiate, sembravano sottrarsi alla loro natura passiva e sottomessa per traboccare incontenibili e quasi animate, incontrollabili alla mia presa; dominavano autonomamente la scena, la in¬ vadevano in una specie di onda sgusciante e lasciva, si arrendevano alla frenesia delle dita e della bocca per sfuggire subito di nuovo, due torbide, indomabili ancelle. Adina aveva abbassato le palpebre e rovesciato di poco il suo capo ben curato: assaporava in silenzio, a labbra dischiuse, quel furioso surrogato di amples¬ so, quella stregata lussuria. E solo il brusco arresto della cabina aveva posto termine alla mia foia. Lei si era ricomposta con calma e, senza una sola parola di commento, era rientrata nell’immutabile maschera 115
sorridente. Aveva fatto scorrere il cancelletto e, rias¬ sunta la posizione di guida, educatamente voltata di tre quarti, mi aveva scortato con la sua andatura mol¬ leggiata attraverso altri passaggi, archi e pedane, fino a un corridoio sfalsato di livello. Superato un angolo a gomito, s’era fermata all’altezza di una porta a vetri: “Ecco, sono qui” aveva scandito semplicemente. Sulla targhetta fissata allo stipite bianco c’era scritto: Dott. Else Jacobsen - NEUROLOGO. Mi sentivo impacciato a cagione del mio compor¬ tamento compulsivo e infantile. Mi domandavo se il troppo caldo dell’autostrada non mi avesse reso de¬ lirante, manomesso qualche valvola mentale. Ma il mio disorientamento si scontrava con la placida, enigmatica beatitudine dipinta sul viso di Adina. Avevo bussato con le nocche al vetro dell’uscio e sen¬ za attendere un invito l’avevo dischiuso: Federico era seduto nella sedia a rotelle, di schiena, leggermente curvato sul tavolo al quale appoggiava i gomiti, nella posizione che assumeva disegnando. Dietro la scriva¬ nia, di fronte a lui, e quindi a me, s"i era sollevato lo sguardo interrogativo di una bella ragazza, giovane, un sembiante pulito, mobile, luminoso, vivacemente espressivo; i capelli di un biondo molto dorato erano trattenuti con lievità sulla testa, e un tenero ciuffo ri¬ cadeva mollemente sull’occhio destro. La dottoressa aveva sorriso, stupita dell’intrusio¬ ne ma senza disappunto. Ero restato interdetto: quell’ospedaletto di trincea reclutava un personale medico di tale avvenenza? Fa¬ ceva parte della strategia di recupero? Mi ero voltato verso Adina, in cerca di riscontro alla mia sorpresa; ma lei, già seduta in una delle pol¬ troncine di legno disposte in fila lungo il corridoio, non pensava più a me; con le gambette accavalla¬ te ondeggianti nel vuoto, le ‘ballerine’ d’oro ai piedi, rovistava intenta nel pacchetto delle sigarette. 116
Seguendo lo sguardo della dottoressa, Federico non aveva avuto bisogno di voltarsi verso la porta per spiegare: “E il mio amico Oscar. - E aveva aggiunto per me: - Ancora un quarticello d’ora e abbiamo finito.” “Ti aspetto qui fuori...” M’ero ritirato disciplina¬ tamente, dimentico del sacchetto di plastica con le coca-cola e i ghiaccioli che tenevo ancora in mano per lui. Adina, schiudendo uno spiraglio nell’immobile sorriso, mi invitava a bussare di nuovo, e l’avevo fat¬ to con maggior cautela di prima, riaprendo l’uscio ti¬ tubante: “Fio con me un ghiacciolo per Federico, - mi ero scusato - con questo caldo rischia di fondersi.” Sebbene impercettibilmente disturbata, la dotto¬ ressa aveva fatto buon viso: “Allora sarà opportuno concedersi una pausa, che ne dici Federico: ti va se interrompiamo e ti mangi il ghiacciolo?” Si davano del tu? Doveva trattarsi di un uso del¬ l’istituto, un espediente per donare al paziente un’il¬ lusione di affettuosità, di intimità familiare. Il ghiacciolo aveva cominciato a liquefarsi. L’ave¬ vo liberato dal suo involucro di carta prima di por¬ gerlo a Federico, il quale, senza quasi alzare gli oc¬ chi, vi aveva appoggiato le labbra con una impellen¬ za da poppante, succhiandolo come una tettarella. Guardavo l’incavarsi delle guance, su cui era perce¬ pibile una crescita di barba bianca; aveva l’aria di un patriarca, di un profeta. Era così che intendeva ap¬ parire? Dopo tre o quattro morsi era già appagato, di nuovo preda della fretta interiore: “Non mi va più.” Else stessa si era alzata, sollecita, porgendogli un fazzolettino di carta e raccogliendo il resto del gelato dalle sue mani per depositarlo nel lavabo, a finire di 117
sciogliersi. Seguendo la rotazione del corpo, il cami¬ ce slacciato le si era aperto su una minigonna ridot¬ tissima che scopriva le lunghe gambe abbronzate. Aveva la statura di una indossatrice, a ogni nuovo svelamento sempre più sorprendente e improbabile, inventata da un fantasia cinematografica. “Allora, vogliamo riprendere?” aveva domandato benevola, tornando al suo posto. Federico non si era affatto sottratto, contraria¬ mente alle sue abitudini, sempre pronto a sgusciare via da impegni e compiti che non fossero stabiliti e pilotati da lui. “Sì, riprendiamo” aveva acconsentito ubbidiente. E a me, con un mezzo sorriso d’intesa: “Se mi aspetti in camera è meglio, la faccenda ha l’aria di andare un po’ per le lunghe.” Scusandomi per l’intromissione, avevo infilato senz’altro la porta, mentre la dottoressa precisava: “Non c’è bisogno che torni Adina a prenderlo, quando finiamo lo riaccompagno io.” Adina restava dunque disoccupata, e io con lei. Disponevamo di un buon lasso di tempo in cui visi¬ tare i settori dell’ospedale che non conoscevo, la mensa, le palestre, le sale riunioni, i laboratori. Così avevamo ripreso l’ascensore. Questa volta ero stato io a premere il pulsante della discesa. E di nuovo, nella penombra zebrata, inequivocabile la percezione di subire l’invasione di un desiderio non mio, di essere sospinto ad agire, non contro, ma indipendentemente da ogni mio pro¬ posito cosciente. Le tette prominenti di Adina, rigon¬ fie e tese sotto il cotone leggero, erano smaniose di espandersi, di venire liberate. E chiedevano a me di eseguire quel compito: con quale altro scopo avrem¬ mo ripreso l’ascensore? Senza aggiungere una parola lei aveva arrestato il borbottante arrancare del gabbiotto tenendo schiacciato l’alt, protendendosi per118
ché le rialzassi la maglietta: le sue soffici lune erano dilagate, talmente grosse e avvolgenti, che credevo per un momento di finirne soffocato. Non indossava niente a pelle, neanche una sottocoppa di sostegno, eppure quei prodigi di carne sporgevano fermi e tur¬ gidi come due cupole. Credo di non aver mai prova¬ to, neanche in sogno, una percezione fisica così sen¬ suale e precisa della condizione neonatale, l’impres¬ sione di annaspare vorticosamente dentro un cando¬ re indistinto, il primo confuso contatto con qualcosa di tiepido, tenero, levigato, vitale; la certezza assolu¬ ta dell’esistenza e del piacere saldati indissolubilmen¬ te nella prima esperienza sensoriale - indimenticabile - fuori della buia caverna intrauterina. Mi ero tuffa¬ to fra quelle glasse ricolme, trasecolato, frastornato: schiacciavo, mordevo, leccavo scoordinatamente, la¬ sciando tracimare una irrefrenabile pulsione che esaudivo con la furia, la famelicità dell’istinto cieco. Forse mi ero persino inginocchiato - Adina era così piccina che certo la posizione risultava più idonea; e non ho più dimenticato, avverto ancora oggi, net¬ tissimo, il calore vellutato della sua pelle sottile sul mio viso, la sensazione di fondermi epidermicamente a quella cedevolezza, un confuso scambio epiteliale, il completo e appagante assorbimento dentro una di¬ mensione lattea, burrosa, una nuvola di panna mon¬ tata, dalla quale non avrei più voluto evadere, con la brama anzi di venirne inglobato, risucchiato, e infine annullarmi in tale inesprimibile sconfinamento. Sinceramente - confessava con innocenza Oscar non ho nessuna cognizione di quanto siamo rimasti chiusi in quell’ascensore, per quanto tempo Adina avesse tenuto premuto il pulsante dell’arresto. Ma riemergere - questo lo ricordo bene - mi era costa¬ ta una fatica snervata, come riaffiorare da un gorgo ipnotico, un vortice di smemoratezza. 119
Tuttavia nello stordimento, e sia pure in preda a quell’esaltante sconcerto, conservavo la certezza di aver udito una frase farsi strada fra le labbra di Adi¬ na, un nome balbettato, sfuggito fra i gemiti: “Succhia bambino mio, saziati Federico! Lo sento quanto ti piacciono!” La medesima intonazione riminese che ora risuo¬ nava nella stanza, rispondendo allo squillo del tele¬ fono interno. La dottoressa Jacobsen, molto agitata, chiedeva il nostro aiuto: il passaggio dall’atrio principale era impraticabile per la presenza dei fotografi. Fellini non voleva saperne, e naturalmente neanche lei: l’o¬ spedale non avrebbe tratto buona pubblicità da quel¬ la arbitraria invasione. Eravamo accorsi in tutta fretta. Alcuni estranei si aggiravano con aria melensa, equipaggiati di ingombranti borse a tracolla. Nes¬ suno sapeva dirmi chi fossero, e loro stessi si rifiuta¬ vano di lasciarsi identificare, pretendendo di trovarsi in visita a fantomatici parenti di cui farfugliavano nomi inventati. La dottoressa Jacobsen aveva cercato di scorag¬ giarli usando la sua autorità; aveva persino minac¬ ciato di ricorrere alla polizia. “Per quale reato!” ri¬ battevano gli altri, agguerriti. “Questo è un istituto pubblico.” Mi ero fatto avanti a parlamentare, a coinvolgerli sul piano personale, richiamandoli alla comprensio¬ ne e al rispetto umano che anche in un mestiere di assalto non dovrebbe mai venir meno. La manovra era riuscita: durante la discussione, al riparo di alcu¬ ni tramezzi, Else e Adina avevano rapidamente so¬ spinto Fellini, indisturbato, oltre l’atrio. Mentre nel reparto gli infermieri lo riprendevano in consegna per le terapie, con la dottoressa ci eravamo appartati nella sala riunioni e lei, con insperabile disponibilità, 120
si era trattenuta a delineare dettagliatamente la natu¬ ra delle lesioni cerebrali di Federico e le previsioni di recupero. Ci eravamo seduti su due sediole metalliche, uno di fronte all’altra, lei con le gambe ben in vista per via del camice ricaduto ai lati. Difficile evitare di posarvi lo sguardo, mentre seguivo con diligenza l’e¬ sposizione netta e circostanziata del caso clinico. Con un linguaggio limpido e diretto la dottores¬ sa Jacobsen aveva tracciato un quadro neurologico comprensibilissimo anche a un profano, informan¬ domi dei test con i quali misurava quasi quotidiana¬ mente l’evoluzione della ripresa. Mi aveva spiegato come la sindrome di misoplegia si impadronisca di chi ha subito una parziale pa¬ ralisi del corpo; l’ammalato sviluppa una forma di vero e proprio odio nei confronti dell’arto insensibi¬ le, fino ad attribuirlo a qualcun altro, o credere che possa trattarsi di una protesi, un oggetto posticcio, e persino che appartenga a un cadavere e gli sia stato messo macabramente accanto, a tradimento. Ne ha orrore, ribrezzo, e tale rifiuto si estende a compren¬ dere tutta la parte colpita, fino a interessare lo stesso campo visivo. Federico tendeva ad escludere dal suo sguardo tut¬ ta la zona a sinistra, pur non presentando patologie funzionali della vista; il nervo ottico non era offeso, si trattava soltanto di un rifiuto, di un oscuramento neglect nel gergo scientifico -, una cancellazione ‘in¬ tenzionale’. Il riassorbimento della lesione avrebbe via via dissolto questo atteggiamento indotto. La trattazione da manuale didattico, tuttavia, mi pareva non focalizzasse a dovere l’attenzione sulla particolarità del paziente. “Sono solo una neuroioga, - puntualizzava la Ja¬ cobsen - e lavoro sui dati anatomofisiologici. Mi rendo conto benissimo che Fellini si aspetta da me 121
un aiuto diverso, di natura più psicologica, ma que¬ sto non rientra nella mia specializzazione. Lui tende a parlare dei suoi sogni, del suo stato di angoscia, ne discute in maniera così avvincente che potrei ascol¬ tarlo per ore; ma sono materiali su cui non saprei minimamente intervenire. Il mio campo di studio è quello delle lesioni, lavoro a livello dei riflessi, del recupero cellulare, dell’efficacia farmacologica. Per il resto il mio ruolo si riduce purtroppo a quello di un ascoltatore occasionale.” Federico aveva raccontato anche a lei il suo sogno anticipatore, DISPERSO DEI DISPERSI, e questa dimo¬ strazione di confidenza mi incoraggiava a fornirle altri particolari indispensabili, a mio giudizio, per un approccio psicologico che avrebbe in ogni caso gio¬ vato all’approfondimento del loro rapporto. Le ave¬ vo riferito l’episodio del Grand Hotel, in cui Fellini aveva immaginato di comunicare, o forse aveva co¬ municato davvero - insinuavo di proposito - con un bambino inglese di otto anni a cui era convinto di dovere la vita. Il mio intento mirava a procurare a Federico, di¬ sperso dei dispersi in quell’ospedaletto fuori dal mondo, un’alleata su cui contare, una preziosissima complice all’interno dell’istituzione. E ci stavo riuscendo. “Come ti chiami?” mi aveva domandato la Jacobsen alla fine del colloquio, dandomi spontaneamente del tu. Fino a quel momento non ci eravamo nean¬ che presentati; e avevo approfittato della sua proffer¬ ta di amicizia per rivolgerle l’interrogativo che mi stava più a cuore: “Come sta, veramente, Federico?” “E grave” mi aveva risposto con quella sola espressione. Avevamo ripercorso fianco a fianco il corridoio, e all’altezza della camera lei si era rapidamente allon122
tanata, elargendo fra le volute del camice bianco il miraggio delle lunghe gambe nude. Avevo riferito a Fellini la conversazione intercorsa con la dottoressa, ponendo unicamente l’accento sull’aspetto positivo della diagnosi: “Ha assicurato che in due mesi al massimo ti ri¬ mettono in piedi.” E per rendermi più credibile, ave¬ vo avuto il pudore di mitigare il trionfalismo sotto un velo di ironia. Conoscevo l’atteggiamento di in¬ sofferenza di Federico per la disinvolta sicumera di tutti i medici di quell’ospedale, a cominciare dal pri¬ mario carismatico. “Sono convinti che dipende tutto da te” avevo ag¬ giunto. “In che modo?” “Se collabori puoi farcela, e anche molto presto.” “Chi lo dice, la Jacobsen?” s’era stizzito. “Ma che ne sa lei! E cosa vuol dire molto presto!” La vaghezza del pronostico lo atterriva. “È entusiasta dei tuoi disegni, con quelli riesce ad analizzare lo spettro delle percezioni: sembra che tu stia compensando in fretta.” E d’un tratto aveva corretto il tono: “Però Else è intelligente, una giovane scienziata fervorosa, preparatissima. E che ficona! Ti piace?” “Non è certo il genere di dottoressa che ci si aspetta di incontrare in un ospedale; mi sembra di buon auspicio, una coincidenza fortunata.” Aveva riacquistato il buon umore, era tornato vi¬ vace, impaziente di riannodare i suoi pensieri: “Ho poi chiamato Pampaioni, ieri sera. Forse non ho scelto un inizio troppo felice per la telefonata; ap¬ pena mi ha risposto ho cominciato a declamare: ‘E questa l’ora che volge al disio e ai paraplegici intene¬ risce il core.’ Si è spaventato: ‘Pronto! chi è!’ stre¬ pitava. Poi però è stato contento, l’ho sentito since¬ ramente turbato: ‘Sono stato anch’io molto malato,’ 123
mi consolava; ma non gli ho rivolto domande di chiarimento, come forse si aspettava, per non sotto¬ pormi alla fatica di dover ascoltare chissà quale reso¬ conto dettagliato e penoso.” Gli ululati scomposti della stanza accanto annun¬ ciavano il rientro dell’industriale dell’auto. Alcune volte, nei giorni festivi gli veniva accordato il permes¬ so di tornare a casa, trascorrere qualche ora in fami¬ glia; e nell’ospedale cadeva il silenzio. Mi accorgevo che Federico lo aspettava, era morbosamente affasci¬ nato da quel crepitare scomposto di suoni primordia¬ li, tendeva apertamente le orecchie a raccogliere chis¬ sà quali messaggi, sempre attento a tutto ciò che avveniva oltre le pareti, spiando ogni variazione di tono. Il fenomeno lo disponeva a una specie di comi¬ ca euforia; riaffiorava il suo animo da discolo, irri¬ guardoso, portato all’imitazione, alla beffa, alla cari¬ catura. Ritrovava il gusto iconoclasta del romagnolo. Nella parete di fronte al letto, ad altezza d’uomo, era appeso il foglio di carta col menù della settima¬ na, e per divertimento lo recitavo ad alta voce. Fra i primi piatti figuravano ditalini in brodo. “Cosa sono?” avevo chiesto all’Adina. E lei: “Mo’, qui si dice così, ditalini, ma da noi in Ro¬ magna li chiamano ditaioni. Sono la stessa cosa.” E Federico: “Aggiungici sotto: pippe alla parmigiana.” Scherni da ginnasio. E appena Adina usciva dalla stanza, mi chiamava a testimone: “Che tette sorprendenti, eh? Una sofficità, un can¬ dore da smarrirsi.” E mi guardava sornione, interro¬ gativo. Rimini era ormai un ricordo; ci permetteva di ri¬ percorrere in libertà le tappe di quel brutto capitom¬ bolo riavvolgendo il film sulla bobina. Fra i primi ad accorrere, con gran codazzo di concittadini, l’Aedo dei cronisti aveva utilizzato accenti risorgimentali: 124
“Il mio amico Federico sta combattendo come un leone.” “Se mi avvertiva, - sogghignava lui - avrei potuto emettere qualche ruggito, così, tanto per non smen¬ tirlo!” E da Rimini si procedeva indietro, infallibilmente, a Zurigo, ai tre interventi che si erano susseguiti a brevissimi intervalli per l’insorgenza ogni volta di un embolo, avvistato tempestivamente dalle macchine. Quelle tre anestesie, anche a parere di Saraceni, gli erano state fatali, spianando il terreno all’ultimo as¬ salto. Federico, da parte sua, non si spostava dalla con¬ vinzione che l’ischemia fosse stata determinata da una precipitosa caduta di pressione. “E stato lo sfor¬ zo” ripeteva. E la ricollegava al momento in cui si era seduto sul letto per sfilarsi la calza a maglie elastiche dalla gamba operata. Gli rivelavo allora come i medici dell’ospedale di Rimini, all’inizio del ricovero, fossero tutt’altro che ottimisti: non esisteva altra terapia oltre quella già seguita, di tenere il sangue scoagulato al limite del consentito per evitare il formarsi di un nuovo em¬ bolo. Non avrebbero saputo più come intervenire: “Nelle vene gli scorre la coca-cola”, affermavano. Sotto quel grado di fluidità era impossibile scendere. Ma ormai il danno era combinato e Federico non si dava pace: “È come navigare senza strumenti di bordo; pro¬ vo lo stesso sgomento di un pilota che vede gli appa¬ recchi di riferimento avariati, tutti gli indici impazzi¬ ti, colpito al ganglio nevralgico, alla centrale di con¬ trollo.” E si passava una mano sulla testa come se potesse con quel semplice gesto rimediare allo sconquasso. Era terrorizzato nell’intimo, e non c’era nulla che 125
potesse allentarne lo spavento. Provava sarcastica¬ mente a voltarla in burla; se vedeva Adina sistemare sui braccioli della sedia a rotelle la tavola sagomata che serviva ad appoggiare i vassoi della cena, cercava di familiarizzare grottescamente col quel suo stato di avvilente dipendenza: “Pensa, Oscar, andare dal Toscano con questa at¬ trezzatura, urtando negli altri tavoli, buttando giù piatti, bicchieri, bottiglie;, oppure da Giuseppe, in quel localino ancora più ristretto.” Vagheggiava i suoi ristoranti preferiti come un so¬ gno ormai precluso. E intanto veniva rialzato fatico¬ samente a sedere sul letto, la schiena sostenuta dai cuscini ammonticchiati, mentre Adina, solerte, appa¬ recchiava assecondando i suoi desideri. Il fatto che la centrale fosse saltata gli ingenerava
un tale raccapriccio da togliergli ogni fiducia; e tor¬ nava ogni volta alla premonizione del DISPERSO DEI DISPERSI, alla folgorante precisione di quel presagio, alle infauste parole scolpite nel marmo grigio e tom¬ bale del suo portone. Cercavo di individuare uno spiraglio a quella an¬ goscia con argomenti imparati da lui: “Se ti sforzi di collocare il tuo lavoro fra te e la malattia, in modo che funzioni da scudo, affretterai il ritorno alla normalità, ti rimetterai molto prima.” Non facevo che riproporgli banalmente le parole mille volte udite da lui e che sicuramente si ripeteva da solo in silenzio. “Lo sostiene anche la Jacobsen” aggiungevo sua¬ dente. Sapevo che la candida fiducia dell’avvenente nor¬ vegese lo riconfortava; era sempre elettrizzato dalle sue visite, proprio come a scuola si aspetta l’ora di le¬ zione della professoressa più attraente, quella che fa battere il cuore, in segreto, appena entra dalla porta. “Guarda se è in corridoio, mi pare di sentirla” 126
esortava Adina se fuori della porta risuonava una voce femminile. Una ragazza come Else, tutta bellezza e salute, lo riconduceva alla sua teoria preferita per la quale i centri di recupero dovrebbero disporre di enormi let¬ toni a sei piazze e di infermiere disposte a coricarsi insieme ai pazienti. L’unica terapia veramente effica¬ ce, una potente iniezione di vita. E scuoteva la testa, ironicamente sconsolato, al pensiero che il suo suggerimento non potesse esser accolto se non come scandaloso paradosso, il pietoso vaneggiamento di un vecchio, prigioniero del suo corpo dissestato e refrattario ad arrendersi all’evi¬ denza. Passate le otto, quando Adina già si preparava a dare il cambio all’infermiera di notte, si era final¬ mente affacciata la Jacobsen, col suo viso sorridente, affettuoso, e seducentemente ramato dal sole esti¬ vo. Veniva a salutare il Maestro prima di concludere il turno. Allora Fellini la invitava a restare, a fermar¬ si qualche momento, per scambiare quattro chiac¬ chiere. Lei si sedeva accanto al letto accavallando le gambe dorate e gli prendeva una mano fra le sue: “Oggi come andiamo, Federico?” si informava col tono di una fidanzatina fresca di laurea. Era il loro momento, in cui ogni presenza risul¬ tava superflua. Il colloquio a tu per tu con la bella neuroioga, ne ero certo, costituiva il più benefico dei lenimenti. Adina scivolava via, impaziente di scappare in al¬ bergo, e io uscivo dalla stanza con lei, la spronavo a non attendere oltre. Sarei restato volentieri fino al¬ l’arrivo di Adalgisa. Il giorno dopo era ritornata Loretta, affettuosa, entusiasta. Serpeggiava un gran fermento per l’ap¬ prodo di Saraceni e del luminare della Capitale chia127
mati a un consulto generale, e tutti i medici dell’o¬ spedale tenevano lo strascico. Il cattedratico locale era accorso e faceva la ruota. Loretta tentava di completare un primo spoglio della montagna di posta che intanto si era accumula¬ ta. Mi ero appartato con lei nella saletta delle riunio¬ ni, lontani dalla confusione, quando il cattedratico ci aveva raggiunti e di punto in bianco aveva comincia¬ to ad agitare oscure minacce. Rimproverava soprat¬ tutto Loretta, responsabile a suo vedere di un’atmo¬ sfera mondana che non gli garbava: “Questo è il secondo avvertimento, - tuonava - al terzo scattano disposizioni di allontanamento.” Con quel fraseggio da fureria non si capiva bene a che cosa si riferisse; si scagliava con uno zelo irascibi¬ le contro le innumerevoli buste della corrispondenza: “Tutte cazzate!” si esaltava. “Il malato ha biso¬ gno di pensare solo a se stesso, il Fellini della posta e dei capricci non esiste più, sparito, annientato! Ora è solo un malato in mano nostra! Altro che lettere!” DISPERSO DEI DISPERSI: perdurava la sinistra fata¬ lità del sogno? Nel pronunciare quelle invettive, anche visibil¬ mente caotiche, il cattedratico adottava toni di gelo¬ so rancore, e gli occhi si appannavano in una palude liquorosa. Non sapevamo che peso dare alla sua iracondia. Né Loretta mostrava di impressionarsi; impassibile, non alzava neppure lo sguardo su di lui, concentrata ad aprire la corrispondenza col tagliacarte. Nel frattempo erano sopraggiunti Saraceni e un giovane aiuto primario: insieme si erano impegnati a rianalizzare in dettaglio la cartella clinica, soprattut¬ to in riferimento alla somministrazione dei farmaci. E il cattedratico si era ritirato impettito al pari di un tenore, come se la faccenda non lo riguardasse più. Le sue iraconde teorie mi apparivano perniciose 128
riferite a Fellini che aveva bisogno più che mai dei suoi contatti con l’esterno; e la sorprendente ripresa registrata a Rimini, dov’era circondato da inesausto calore umano, in un’atmosfera di ‘normalità’, mi raf¬ forzava nella convinzione. Saraceni conosceva bene le angosce del suo assistito, il sogno dei dispersi, e non ignorava, concorde con me, che ogni tentativo di spersonalizzazione del paziente era da rifuggire, avrebbe nuociuto gravemente più che recare bene¬ ficio. Fellini era ritornato al reparto sospinto sulla sedia a rotelle dalla slanciata, flessuosa figura della Jacobsen. La giovane scandinava era stata il vero fulcro d’attrazione di tutto quel consesso di medici: i cele¬ bri baroni avevano conferito nella sua stanza, da pa¬ ri a pari, impressionati dalla dottrina non meno che dalla singolare prestanza della giovane collega. Ora, mentre rigirava la carrozzella per introdurla fra gli stipiti della porta, Else si era voltata quasi di scatto verso di me con un lampo interrogativo negli occhi, come reagendo a una voce. Non avevo affatto parlato, ma di fronte al suo soprassalto mi era venu¬ to spontaneo strizzarle l’occhio e replicare alla sua muta domanda con un muto cenno del dito, quasi a conferma di un accordo già preso: ci saremmo visti poi, passata la buriana. Ti assicuro che dalla mia bocca non era uscito al¬ cun suono: l’aria l’aveva interpellata per me, ispiran¬ domi in assonanza gli istintivi gesti di intesa. Federico era stato sistemato a letto, e io ero rima¬ sto con lui. Fra la posta che Loretta aveva selezionato, c’era¬ no alcune lettere che richiedevano una risposta più sollecita. La prima dell’ex Presidente della Repub¬ blica Francesco Cossiga, l’altra del produttore cine¬ matografico in carica. Avevamo deciso di sbrigarle subito, con l’usuale buona dose di spasso. 129
Su un foglio bianco del suo blocco da disegno (fit¬ to di appunti e di schizzi), annotavo diligentemente le risposte: Caro Presidente, quando sono venuti a cercarmi i due carabinieri che volevano conferire soltanto con me e si rifiutavano di par¬ lare con chiunque altro, i medici, gli assistenti, le persone che avevo incaricato di farsi consegnare il dispaccio, sono stato preso da una vaga apprensione. La nostra educazio¬ ne cattolica ci obbliga sempre a sentirci in colpa di fronte all’autorità e veramente ho tirato un respiro di sollievo quando ho scoperto che si trattava soltanto di un suo af¬ fettuoso gesto di amicizia... “Non sapevo - sottolineava divertito - che ci vo¬ lessero i corazzieri, la polizia, i carabinieri, i corpi speciali, il controspionaggio per recapitare il messag¬ gio privato di un uomo di stato. Anche Giulietta a Roma si era spaventata, credevamo si trattasse di chissà quale ingiunzione, una ordinanza. Meglio co¬ sì; però mi ha fatto molto piacere, si è sempre com¬ portato da amico Cossiga, è una persona perbene.” Quindi siamo passati al produttore: Caro Leo, medici autorevolissimi dicono che dopo quasi 74 anni di ininterrotto lavoro ora devo prendermi un periodo di riposo almeno del doppio. Fatti una botta di conti, ripar¬ leremo del progetto nel 2041. Arrivederci fra un secolo. Con affetto, Federico E accorgendosi che sogghignavo, aveva aggiunto: “Lo so, non sarà molto contento Leo, ma va di¬ chiarando in giro che a Natale partiremo col film, se ancora non mi reggo neanche in piedi!” Per ribattere le lettere disponevo di una vecchia macchina da scrivere elettrica che l’ospedale mi con¬ sentiva di usare in sala riunioni. 130
“Perché non te la fai portare qui?” si era incapar¬ bito Federico. Con la macchina da scrivere, la mon¬ tagna di corrispondenza che arrivava da tutto il mondo, il tavolino e perfino il davanzale della fine¬ stra ingombri di libri, la stanza aveva assunto imme¬ diatamente l’aspetto di una piccola redazione, ripro¬ duceva quell’apparenza di laboriosità salutare e pro¬ pizia che Federico amava più di ogni altra cosa. Il suo lavoro! Con la Jacobsen ci eravamo fuggevolmente incro¬ ciati in corridoio, ed erano bastate poche parole a mezza bocca, da cospiratori; s’era già stabilito un se¬ greto fra noi e le avevo dato appuntamento al mio albergo per proseguire la serata insieme. La nostra vicenda, se posso chiamarla così, s’era inanellata in una sequenza rapida e inspiegata, come interpretando un preesistente copione. Con Federico mi ero trattenuto fino all’arrivo di Adalgisa, l’infermiera di notte. Poco prima delle no¬ ve, prendendo commiato, l’avevo baciato, e lui s’era mostrato curioso: “Ceni con Loretta?” “Penso di sì, mi aspetta in albergo insieme all’Adina.” Sembrava soddisfatto, poteva immaginarci tutti e tre insieme, e indugiare anche lui in nostra compagnia. Invece pregustava quello che nemmeno io avevo ancora intuito con chiarezza. M’era rimasto appena il tempo di prendere una doccia e di cambiarmi. Già gracchiava il telefono interno: la dottoressa Jacobsen mi attendeva nella hall. Ero disceso con i capelli ancora bagnati, anno¬ dandomi la cravatta allo specchio dell ascensore. Else si era abbigliata come per una gita in spiag131
già, evasa da una copertina ammiccante del Travaso, o piuttosto da una tavola di Tamara di Lempitzka: pantaloncini corti e blusa bianca e azzurra con am¬ pio colletto immacolato; sandali di cuoio ai piedi e una borsona a sacco. Una maschietta disinvolta, un’anima leggera. D’altri tempi...
132
Capitolo Vili Minerva medica
Else disponeva di due proposte per la cena, un risto¬ rante in centro e uno fuori città, sugli argini del Po. La seconda soluzione c’era parsa la migliore. E per¬ sonalmente mi solleticava l’idea che lei avesse conce¬ pito anche l’ipotesi di un localino ben appartato, lontano da occhi indiscreti. La notte ferrarese stagnava immobile e afosa. In pochi minuti eravamo fuori dell’abitato, su una stra¬ da alzaia che costeggiava il fiume invisibile nel buio. Else aveva preso con sé un testo americano, Cogniti¬ ve Neuropsychology, in cui veniva affrontata diffu¬ samente la natura dell’incidente occorso a Fellini. Anche a tavola aveva continuato a sottopormi grafi¬ ci e diagrammi esemplificativi, scritture sbandate ver¬ so il margine destro del foglio, disegni drasticamente mancanti della metà a sinistra: mezza casetta, mezzo albero, mezza nuvola, nella più completa inconsape¬ volezza del paziente. Fellini, in seguito all’ictus cerebrale, presentava quell’identica disfunzione, ma era sbalorditivo come fosse riuscito a identificarla da solo nei test. Else mi aveva mostrato un foglio sul quale erano raffigurate differenti file di oggetti. Alcuni di essi, come compi¬ to, andavano depennati: in quel caso, per esempio, le campanelle. Usualmente i pazienti, una volta conclu¬ so il test, non manifestano alcun sospetto di aver¬ ne omesse una parte, in quanto situate appunto nel¬ la zona per loro ‘invisibile’. Invece alla domanda di rito: “Le hai indicate tutte? Sei sicuro?”, Federico, ri133
presa in mano la matita, aveva disegnato alcune cam¬ panelle in aggiunta, anticipando: “Sono quelle che non ho visto.” Aveva realizzato che la sua percezione escludeva una porzione del campo visivo; dimostrava di aver preso perfettamente coscienza della sua menoma¬ zione. Nei malati colpiti da ictus cerebrale, l’atteggia¬ mento diffuso è di nosoagnosia, cioè di rifiuto del¬ la loro patologia: non sanno e non vogliono sapere; messi alle strette inventano scuse. Una signora che non era in grado di muovere il braccio, sosteneva apertamente il contrario, e quando la neuroioga l’a¬ veva invitata a dimostrarglielo, s’era rifugiata nei pretesti più insostenibili, asseriva che quel giorno le avevano infilato una giacchina talmente stretta da impedirle ogni movimento. Più la giovane dottoressa disquisiva più mi ren¬ devo conto che il suo atteggiamento appassionato andava oltre l’interesse scientifico. I medici del San Giorgio, è vero, erano generalmente lusingati dalla presenza di Fellini, ma non al limite di Else che non rispettava più i turni pur di stargli vicino, e per non deluderlo correva al suo capezzale, se lui la chia¬ mava, in ogni momento del giorno e della notte. Vi¬ veva in preda a una febbre, a una costante eccitazio¬ ne mentale. Del resto era impossibile non soggiacere alla con¬ naturata attitudine di Federico alla seduzione, e pre¬ sto o tardi l’intero ospedale, come era già avvenuto a Rimini, avrebbe finito per ruotare intorno a lui. “È un coccodrillo” sentenziava geloso il cattedra¬ tico, mettendo in guardia i giovani colleghi, esortan¬ doli a non lasciarsi incantare; “state attenti, vi si mangia tutti a spezzatino!” Da parte mia avevo passato il tempo della cena a cercare di attrarre la bella dottoressa Jacobsen, nel 134
senso di guadagnarla incondizionatamente alla causa di Federico. Le spiegavo che la comunicazione era la vita stessa di Fellini; la corrispondenza, il telefono, le visite, gli permettevano di sfuggire allo sgomento del suo sogno profetico: DISPERSO DEI DISPERSI. E Else assicurava la sua complicità; quell’anziano docente - mi confortava amabilmente indiscreta - al¬ la soglia della pensione coltivava un’affettuosa de¬ bolezza per l’alcol, e in ogni caso al San Giorgio non era lui a decidere, ma il primario. Potevo deporre ogni apprensione, Federico godeva già di un tratta¬ mento largamente di favore, e il programma di re¬ cupero era stato studiato con attenzione sulle carat¬ teristiche eccezionali del personaggio. L’argomento aveva fornito a entrambi un pretesto di maggiore intimità, di esplicita intesa. Il discretissimo cameriere continuava a servire piatti prelibati - il sapore rotondo e sensuale dei cap¬ pellotti di zucca gialla! - e il vino bianco altoatesino scendeva nella gola modiglianesca di Else, che solle¬ vava la testa senza allontanare lo sguardo da me, né mai spegnere il suo sorriso inerme, accogliente, un po’ antico. Anche la scenografia tramava un ingan¬ no. Dietro le sue spalle si apriva una finestra con tendine bianche lavorate all’uncinetto, la leggiadria di un’epoca illusoriamente remota. Di nuovo quella misteriosa suggestione di un tempo trascorso. Superata la mezzanotte, eravamo rimasti gli unici clienti del locale. Regnava il silenzio, e all’esterno so¬ lo pochi nottambuli si attardavano sulle sedie di fer¬ ro del giardino, lanciando al nostro passaggio sguar¬ di di ammirazione e impercettibili commenti indiriz¬ zati all’appariscente norvegese. Avevamo ripercorso la strada alzaia sospesa nel buio, si avvertiva il vuoto ai due lati con l’impres¬ sione di sorvolare un cratere lunare. Avrei desiderato 135
avvolgere nella mia la mano dell’incantevole dotto¬ ressa, magra, agile, nervosa, dalle lunghe dita affuso¬ late. Ma per timidezza, per pudore, per rispetto, me ne ero trattenuto. Rientrati a Ferrara, guidavo alla cieca nella città sconosciuta, senza nessuna volontà di fermarmi, di concludere quell’incontro. Avevamo stabilito di bere ancora qualcosa in un locale, e poi lei aveva propo¬ sto, in alternativa, casa sua. Il suo appartamento si trovava al primo piano di un palazzo moderno, in un quartiere in cui le strade portavano i nomi dei maestri della pittura, Giotto, Cimabue, Duccio di Boninsegna. Fellini le aveva domandato durante una delle sue telefonate mattutine: “Com’è, Else, la tua casa?” Nel saloncino, il piccolo acquario, pari a una cri¬ stallo iridescente, guizzava di gemme colorate; ma la vera sorpresa consisteva in un’esuberante, bizzarra e ossessiva presenza di pesci tropicali di ogni materia¬ le, forma e colore, pesci ovunque. Acanturidi vario¬ pinti nelle bacheche appese alle pareti, pesci pagliac¬ cio, pesci angelo, pesci papillon, pesci picasso, pe¬ sci pappagallo, dalle livree vivaci, finemente striate, sparsi negli scaffali, fra i libri, sulla cassapanca, ap¬ poggiati alla scrivania, planati sul computer; una esplosione di gialli brillanti, verdi, azzurri, blu, aran¬ cioni, viola, rossi, turchesi, neri, bianchi, celesti, smaltati o perlacei, corpi affusolati o panciuti con pinne come arcobaleni e code a ventaglio o a mezza¬ luna, che invadevano anche la camera da letto sotto forma di radiosveglia o di telefono, o svolazzanti dal soffitto, mante e delfini in guisa di aquiloni. Una spe¬ cie di nordica devozione alla religione solare, ai mari del sud e all’infinita scomposizione della luce in tinte abbaglianti e orgiastiche, alle smemoranti sfumatu136
re ipnotiche dei cromatismi sommersi, e in definiti¬ va una seducente ammissione di sudditanza al trono cangiante di Poseidon, dio dell’elemento umido. Mi ero seduto in soggiorno fra gli ampi cuscini del divano in ferro battuto; lei su una poltrona poco discosta, offrendo rifugio fra le proprie braccia allo scimmione di peluche bianco che la occupava, ricor¬ do di un corteggiatore non esaudito: “Almeno abbraccerai lui” si era rassegnato. Quando aveva deciso di venire a vivere in Italia, Else per prima cosa aveva portato con sé lo scim¬ panzé, che la madre non sopportava e teneva relega¬ to in soffitta. “Ha le braccia lunghe come le mie” si schermi¬ va, mettendole a confronto per rivelarmi il suo com¬ plesso. Ero teso a captare ogni sensazione al pari di una antenna, ne ero conscio, stavo prestando i miei or¬ gani di senso, le mie orecchie a qualcuno in ascolto. Ma andava bene così; la mia curiosità si dilatava momento dopo momento. Else stava vivendo la fine di un rapporto con un prestante mulatto, un ingegnere chimico francese che risiedeva a Bruxelles. Una pungente passione brucia¬ ta nei week-end, tutti i mesi, a turno. Ma la distanza era proibitiva, e il tempo da trascorrere insieme non abbastanza; così lui aveva finito, a sua insaputa, per rimettersi insieme alla fidanzata fiamminga sacrifica¬ ta precedentemente a lei. Era stato un sogno a rivelarglielo. Si trovava in Belgio, nell’appartamento dell’a¬ mante, ma a un tratto avvertiva la presenza dell’‘al¬ tra’ fra loro due, una figura senza identità, un viso non riconoscibile: sapeva che si trattava della sua ri¬ vale e la detestava. Avevo provato ad azzardare una possibile inter¬ pretazione: l’intrusa forse era la personificazione di 137
un proprio fantasma che la agitava, un ruolo sgrade¬ vole che dentro di sé non voleva accettare, verso il quale esprimeva anzi la sua avversione. Utilizzava quello specchio per censurare un proprio comporta¬ mento sconveniente, aprire una polemica interna. Non aveva nulla da rimproverarsi? Era certa di non essere lei stessa la protagonista di un doppio gioco? E Else aveva ammesso che per solitudine, per biso¬ gno di tenerezza, s’era rivista qualche volta in segreto con il suo ex fidanzato italiano, una annosa vicenda esaurita ormai da tempo. E ci aveva fatto l’amore. Era dunque verosimile che lei deplorasse nel com¬ portamento del francese la propria colpa: il tradi¬ mento, tenuto nascosto, con l’uomo del suo passato. Non era attraverso i sogni che Federico penetra¬ va, dallo schermo e nella vita, fra i risvolti dell’ani¬ mo umano? L’unica possibilità di essere fedeli - ripetevo asso¬ lutorio la lezione appresa - è di esserlo a se stessi. Alle due di notte indugiavamo ancora a parlottare sul balcone. I lampioni della piazza spandevano va¬ pori di luce, aionati contro l’inchiostro del cielo. E quando l’avevo attratta a me, il corpo di Else si era assottigliato flessuoso fra le mie braccia. L’avevo baciata sul collo e sul viso, rovistata at¬ traverso i pantaloncini leggeri e sulla pelle nuda. Lei mi si era premuta contro, suscitando la mia eccita¬ zione. Rientrati nel saloncino, ci eravamo stesi fra i cuscini del divano. “Hvorforì Perché?” aveva cercato di decifrare la propria parte in quel disegno assegnato. Possedeva le proporzioni delle antiche dee immor¬ talate nel marmo, i seni piccoli e compatti, la schiena da atleta, le natiche alte, elastiche, e le gambe di Ar¬ temide cacciatrice. L’avevo denudata, percorsa da brividi, e con le dita avevo sfiorato le cosce fino al nido, e al tenero stelo guizzante. La fonte aperta la 138
rendeva cedevole, si lasciava manipolare e rivoltare docilmente, con delicatezza aveva raccolto il mio de¬ siderio nel palmo. “Raccontami una favola” aveva gorgogliato soc¬ chiudendo gli occhi. “Sulla porta che non bisogna mai aprire?” la pro¬ vocavo. “Quale porta? ” “È una storia delle Mille e una Notte... Un mise¬ ro pescatore sedeva sconsolato sul suo scoglio, e un’aquila piombata dal cielo l’aveva ghermito e tra¬ sportato in volo all’interno di una reggia lontana.” Else mi ascoltava armonizzando l’amore alle mie parole. “Quando il re del castello e la sua corte di guer¬ rieri si erano tolte le armature, il pescatore aveva vi¬ sto davanti a sé tutte donne bellissime. Quella terra era retta unicamente da donne, e gli uomini veniva¬ no adibiti alle incombenze più umili. Ma la sovrana, che s’era innamorata di lui, gli aveva offerto di rima¬ nere come suo sposo, sarebbe diventato il signore della reggia, dei tesori, dei servi. Tutto al suo servi¬ zio. Poteva disporre a piacimento dei forzieri, usarne a suo capriccio l’oro e le pietre preziose. In cambio doveva rispettare un unico divieto: non aprire per nessuna ragione la porta segreta che c’era in fondo al corridoio del palazzo, a nessun costo farsi vincere da quella tentazione. Per lungo tempo, osservando il patto,Ua regina e il suo amante avevano condotto una vita di appagante armonia e felicità. Ma poi il pescatore aveva cominciato a riflettere che se era già tanto stupefacente quello che la regina gli aveva messo a disposizione, chissà quali inaudite meravi¬ glie dovevano trovarsi oltre la porta proibita. Così un brutto giorno la tentazione aveva avuto il soprav¬ vento e aveva aperto l’uscio. Fuori non c’era nulla di nulla, soltanto l’aquila in attesa che, artigliato di 139
nuovo il pescatore, l’aveva ricondotto inesorabil¬ mente al suo misero scoglio, triste e infelice come l’a¬ veva trovato.” Al termine del racconto i petali di Else erano di¬ sciolti dal piacere. “Hai la sua voce, - mormorava - hai la stessa vo¬ ce di Federico.” Allora le sussurravo frasi indecenti, perché al pari di una bambina morbosa, ascoltando le parole vieta¬ te, si abbandonasse all’istinto più forte di lei, sedu¬ cente come un’esca sconosciuta. Nella notte afosa eravamo entrambi intrisi di su¬ dore, scivolosi e languidi per il godimento protratto all’estenuazione. Alle cinque di mattina avevo fatto ritorno in al¬ bergo. Avevo guidato smarrito per la città ignota e de¬ serta. Le strade, gli incroci, i palazzi, tutto mi era nuo¬ vo, veleggiavo fra le pieghe di un sogno, perduto nel¬ le stanze di quel castello fatato. Uh ragazzo in bici¬ cletta si era fermato a darmi ascolto: un madore di agonia gli imperlava il volto angelico, stravolto dalla droga. C’era in città un raduno di baskers, suonatori di strada affluiti da tutta Europa. Il giovane doveva essersi perduto come me e con gli occhi vacui ripete¬ va macchinalmente le mie parole; poi, incredulo egli stesso, si era riscosso e mi aveva indicato una dire¬ zione, era quella giusta. Federico aveva regalato ad Else Jacobsen la sua biografia firmata da Tullio Kezich. Grata e commos¬ sa, prendendo in mano il grosso tomo, lei si era in¬ formata: “L’hai letto tutto?” E Fellini in risposta: “Sì, però non ti racconto la fine.” 140
Aveva ancora il libro in mano quando ci eravamo incontrati nei giardinetti dell’ospedale, prima di sali¬ re al reparto. “Parti?” mi aveva domandato. “Sì, dopo aver salutato Federico.” Era una giornata radiosa, solare fin dentro le mo¬ lecole dell’aria, nel verde squillante dei pini e dei ce¬ spugli di oleandri fioriti. “Oggi l’ho trovato molto meglio.” “Forse sta guarendo. Accanto a te.” “Appena sei uscito di casa mi ha chiamata al te¬ lefono.” “E cosa ti ha detto?” “Mi si rivolgeva come se avessimo appena finito di fare l’amore.” “E tu?” “Sono restata ad ascoltarlo con lo stesso stato d’animo.” Durante quella notte Giulietta si era sentita ma¬ le, un coma ipoglicemico interrotto sull’orlo del tra¬ passo. L’avevano ripresa per i capelli ma certamente non sarebbe stata più in grado di occuparsi del marito come in precedenza. “Pensa tu che destino, - li compiangeva al telefo¬ no Maria Maddalena, la sorella di Federico - tanti premi, tanta gloria, e poi eccoli tutti e due ridotti in questo stato penoso.” Stavo tornando verso Roma e anche Else, al cor¬ rente della brutta notizia, mi aveva raggiunto sul portatile, consigliandomi di non accennarne parola a Fellini: “Nei pazienti colpiti da ictus le alterazioni degli stati emotivi possono avere effetti disastrosi, rischia¬ mo di vanificare anche quei pochi risultati ottenuti fino a oggi.” 141
Federico, oltretutto, mi era apparso particolar¬ mente euforico, risollevato, vivacissimo nella voce, come non lo udivo da tempo. Appena messo piede in casa mi aveva telefonato Elena: piangeva, balbettava, non sapeva rassegnarsi a rimanergli lontana. La notte seguente avevo sognato sia Federico che Else, naturalmente insieme, nella stanza d’ospedale. Fellini stava normalmente in piedi, vestito di un ac¬ curato completo scuro, e non aveva nessuna inten¬ zione di rimettersi a letto. La sua riottosità era deter¬ minata dal non volersi riconoscere ammalato, vinto, sopraffatto. E benché stanchissimo, pur di non sten¬ dersi nella branda, si era accovacciato a terra, fra la testiera del letto e la parete. Io mi davo da fare per recargli conforto, apprestare un giaciglio di fortuna, stendevo sul pavimento una coperta di lana, un telo, su cui lui subito si sistemava acciambellandosi, alla maniera dei cani; e insieme alla Jacobsen rimediava¬ mo anche una trapunta leggera da stendergli addos¬ so perché stesse più riparato, più af caldo. Che cosa voleva rivelarmi quella visita notturna, l’ostinata, irriducibile, ma dolce e muta, scontrosità di Federico? Sapevo che non si trattava di capricci, non c’era niente di ostentato nel suo comportamento; solo il tentativo infantile di sfuggire a quel ruolo di amma¬ lato che non intendeva accettare, che lo feriva e lo umiliava a morte. Forse il suo orgoglioso risentimento era determi¬ nato dalla presenza della Jacobsen, così giovane e ca¬ rina: da bambini non ci si comporta allo stesso mo¬ do - riflettevo durante il sogno - se fra i grandi ci piace qualcuno e non sappiamo come trattenerlo presso di noi, attirarne l’attenzione, esaudire con lui o con lei l’estremo bisogno di appagarcene? Else ed io, nel sogno, ci scambiavamo occhiate, 142
impercettibili cenni di intesa: che lui avesse capito in qualche modo di noi due? Che reagisse con quella ombrosità a un sospetto di tradimento? “Chiappa riminese, la fava non bada a spese! Chiappa di Loretta, la fava spera e aspetta.” Quante ne aveva coniate Federico con i due eterni protagonisti, la chiappa e la fava? Avrei dovuto rac¬ coglierle! In Ginger e Fred era Pippo Botticella-Mastroianni che le declamava, sollevando la disappro¬ vazione rassegnata di una Amelia Bonetti-Giulietta, perbenista. Sull’argomento Else mi aveva inviato, tramite fax, la scenetta che Federico aveva schizzato per un test. “Disegna una tavola imbandita, - gli aveva ri¬ chiesto la dottoressa - il più possibile complessa, col maggior numero di particolari.” Federico diligentemente, con pochi tratti dram¬ matici e caricaturali, caratteristici del suo stile, aveva tratteggiato se stesso in carrozzella, con quattro peli in testa, il forchettone in mano, il volto golosamente rapace, seduto a un capo della tavola, e sulla tova¬ glia panneggiata aveva collocato, distesa di pancia, una bella culona col viso da gatta. “Non manca niente?” lo aveva pressato Else. E lui aveva completato la fantasia con un tocco da maestro: aveva aggiunto due candele accese, una per chiappa, su quella ghiotta imbandigione. Una pappata con tutti i crismi. Ero grato alla Jacobsen per tenermi così amore¬ volmente al corrente. Con Federico, per qualche giorno, ci eravamo sentiti soltanto al telefono. Non aveva stabilito nes¬ sun armistizio con la nuova sistemazione: “Sono avvilito, depresso, sgomento - borbottava contrariato. - Quando arrivi?” Nel frattempo era passato a trovarlo Mastroian143
ni, di ritorno dal Festival di Venezia, e l’aveva reso felice. Il diletto Snàporaz lo divertiva e affascinava con la sua grazia garbata, la profonda gentilezza del¬ l’indole. Appena ero tornato a Ferrara mi aveva racconta¬ to entusiasta la sua visita, in tutti i dettagli. Nell’intento di fargli piacere, per offrirsi solidale all’amico malconcio, Marcello durante l’incontro si era slacciato la camicia e gli aveva mostrato l’arma¬ tura di fibbie e di cinghie che era costretto a indossa¬ re attorno al torace. I dolori alla schiena non gli davano pace, per via di un’ernia del disco, e non riu¬ sciva più neanche a piegarsi. “Allora niente trombat...” lo provocava Federico. E aveva aggiunto complice: “Ma tanto non te ne è mai importato niente!” “Eppure Federi, - aveva confessato candidamente Marcello - vuoi sapere una cosa? Questa specie di gabbia mi mette l’uzzolo, mi fa venire la voglia.” “Chi lo sa, - rifletteva con me Fellini - può darsi che abbia ragione; forse, come succede sempre, l’im¬ pedimento, l’ostacolo, la consapevolezza delle diffi¬ coltà con cui scontrarsi, producono una condizione propizia, utile, creativa, la tensione più adatta verso quella cosa che non puoi ottenere con tanta faci¬ lità...” Federico era proprio galvanizzato dalla visita di Marcello; da quando era stato colpito dall’ictus, dal primo ricovero a Rimini, non faceva che rivolgergli il pensiero e lo udivo ripetere: “Ha promesso che mi viene a trovare! Al ritorno dalla Mostra.” Inseguiva la gioia di avere accanto Yamichetto suo, secondo la definizione tenera e di¬ sarmata che il compagno di sempre, l’attore preferi¬ to, l’alter ego, aveva coniato affettuosamente per lui. Erano tante le persone che si recavano a trovarlo quasi in pellegrinaggio, che chiedevano di poterlo 144
incontrare, ma questo non mitigava minimamente il senso di solitudine e disperdimento in cui avvertiva di essere precipitato. “Dovresti venire più spesso, - mi esortava dolce¬ mente Else - trasferirti a Ferrara: ti vuole qui.” Provavo l’indefinibile sensazione che di comune accordo avessero scelto me per esaudire la loro vo¬ glia d’amore. Sono pazzo? La dottoressa, al di là di tutti i pessimismi, era professionalmente molto esaltata: “Federico ha chiesto di prendere i pasti a mensa insieme agli altri ricoverati, - mi raccontava enfatiz¬ zando i progressi compiuti - vuole condurre la vita normale, di tutti.” Era intenzionata a smentire le mie apprensioni, senza dubbio motivate da un eccessivo impulso a proteggerlo. Meglio così, le ragioni della vita sem¬ bravano prevalere. “Ha perfino stabilito chi gradisce a tavola con sé - insisteva felice Else. - È una signora che non può parlare, ma le bastano gli occhi per esprimersi: ve¬ dessi che sguardo d’amore! Si sforza in ogni modo di fargli arrivare l’ammirazione, l’infatuazione che pro¬ va per lui; e spesso scoppia anche in lacrime. Tanto che alla fine Federico piange insieme a lei!” Else era venuta a prendermi alla stazione, abbi¬ gliata da giovane donna in carriera, un tailleur ele¬ gante a gonna corta, provocante e raffinato. Decisa a far colpo. Con la sua auto, senza passare dall’alber¬ go, ci eravamo diretti all’ospedale. Mi ero trattenuto da Federico fino a tardi, cercan¬ do di sincerarmi che l’esultanza della dottoressa fos¬ se fondata; e avevo riscontrato anche negli altri me¬ dici un franco ottimismo. Le ore erano trascorse in fretta, a valutare insieme le varie richieste dei giornali che sollecitavano inter¬ viste. Accanto alle testate nazionali anche molti fogli 145
locali, radio e TV private, attendevano una risposta a pagine fitte di domande. Di conseguenza cercava¬ mo di concordare a chi rispondere cosa. Ma Federi¬ co divagava, si soffermava piuttosto sulla sua vita di recluso dentro la struttura ospedaliera: “E come il carcere, - spiegava - o il servizio mili¬ tare. Sei costretto a fare amicizia per sopravvivere; non mi riferisco soltanto alle persone che più o meno ti girano intorno, ai sanitari, agli altri pazienti, ma proprio all’istituzione in sé, con le sue logiche, le sue regole, i suoi meccanismi: finisci inevitabilmente col farne parte. Diventi tu stesso l’ospedale, ne resti as¬ sorbito, ingabbiato.” Gli domandavo quale fosse la conseguenza più in¬ tollerabile di un tale imprigionamento. “Mi accorgo che non penso più come prima, confessava allarmato - le forme del pensiero sono diverse. Quindi anch’io sono diverso.” Riguardo ai progressi delle cure non nutriva nes¬ suna illusione. Si era sempre mostrato ostico a tutti gli esercizi fisici a cui il personale addetto avrebbe voluto sottoporlo. Cercavo come potevo di ammor¬ bidirne la resistenza, l’ostilità ringhiosa: “Prima riesci a rimetterti in piedi e prima evadi da qui, torni padrone di te stesso.” Ma la sua visione della emiparesi era lucida e fosca: “Il corpo ha perduto il suo presupposto di stati¬ cità, la sua meccanica ingegneristica: quel delicato si¬ stema di spinte e controspinte, quell’edificio com¬ plesso e fragile che fa capo allo scheletro, si è disse¬ stato; stare seduto è già un’impresa, l’architettura è andata fuori squadra, si è interrotto il bilanciamento fra i milioni di muscoli, nervi, tendini che sorreggo¬ no la macchina, ne sorvegliano quella miracolosa funzionalità di cui non ci rendiamo minimamente conto finché le cose vanno bene. Nessuno pensa, da 146
sano: ma guarda come so stare bene in piedi, o inchi¬ nato, o spostato di lato. Questa perdita di una rassi¬ curante stabilità, di un centro ripareggiatore, com¬ promette anche il tuo equilibrio più vasto, la tua stessa collocazione nel mondo.” Ragionando aveva continuato a massaggiarsi la mano sinistra, inservibile e smorta sul lenzuolo, e per la prima volta avevo assistito a uno scatto di ribellio¬ ne rabbiosa: “Questo figlio di puttana del corpo mi ha tradito.” Dentro l’espressione ingiuriosa, in quella collera improvvisa, avvertivo l’agonia che si prova di fronte al tradimento, a qualsiasi tradimento, che è tale per¬ ché ci coglie sempre impreparati, indifesi e impotenti. In un momento in cui l’infermiera di notte si era allontanata, mi aveva sollecitato a guardare nel cas¬ setto del comodino: c’era un cristallo a forma di pa¬ rallelepipedo, grande quanto un flacone di profu¬ mo, acuminato all’apice. Gliel’aveva inviato Osho Raynesh, il santone indiano che in America ha fatto scandalo per l’abitudine di andare a spasso con lus¬ suose Rolls Royce, novanta, acquistate con i soldi degli adepti. “È venuta a trovarmi un esserino microscopico, raccontava Fellini - entrata nella stanza senza che neanche me ne rendessi conto; l’ho vista all’improv¬ viso lì, accanto alla finestra, non più alta di quel tavolino: un viso scuro, vizzo, una creatura giunta chissà da dove. ‘Questo glielo manda Osho’ mi spie¬ gava porgendomi il cristallo. ‘E chi è Osho?’ Poi, ri¬ petendo il cognome, mi sono ricordato.” Mentre mi narrava l’accaduto, appoggiava il cri¬ stallo sulla fronte, e sulle altre parti del corpo che non rispondevano più agli stimoli del cervello: “Mi aiuterà a sciogliere gli arti incantati. Osho mi manda anche a dire che devo lasciare l’ospedale e mettermi in mano a un pranoterapista. Ma come 147
faccio a lasciare l’ospedale? Qui mi curano, sono ef¬ ficienti, scientifici; e poi dove vado?” La notte era fastosa a Ferrara. Il tragitto dall’o¬ spedale all’albergo costeggiava Palazzo Diamanti con una strada acciottolata che risuonava sotto le ruote del taxi, e poi si inoltrava nella piazza della Cattedrale di San Giorgio, lievitata di luci. Else mi aspettava, sebbene fosse molto tardi. A quell’ora avevamo trovato aperta una trattoriola senza pretese, ma il cibo aveva sapore genuino: cap¬ pellotti, formaggio fuso al forno, vino e ciambellone. Una pausa rilassante e tenera. Non sapevo neanche in che parte della città mi trovassi, mi piaceva affidarmi al cavallo di Bradamante senza domandarmi dove. Solo con me stesso e con quella creatura fatata, metà medico e metà amante, metà mia e metà di un mago. Non eravamo dopotutto nella città di Ariosto? Sulla strada di casa l’auto di Else aveva sostato davanti a un palazzetto a due piani, conservato con palese accuratezza: “I vetri sono ancora quelli piombati di allora” fa¬ voleggiava ammirata, come schiudendo un sipario. Era la casa del Poeta: le finestre, le inferriate, i mattoni, il portoncino, riproponevano l’armonia es¬ senziale e austera dell’edificio medievale. In quelle stanze erano risuonate le ottave dell’Orlando, sotto quelle volte s’erano affrontati i Paladini? Una targa lucida di ottone avvertiva che la costru¬ zione ospitava ora una biblioteca. Ma i muri erano gli stessi di allora, e capaci di creare, in quella angu¬ sta via lastricata di pietroni arrotondati, una potente suggestione di sconfinamento. Quella notte, con Else, eravamo restati a ragionare e a inseguire l’amore senza voler mai cedere al sonno. I suoi racconti erano come lei, innocenti e perversi.
148
Capitolo IX
Il labirinto degli specchi
Else era prodiga di blandizie. Sorrideva fra sé notando come il mio corpo le ri¬ cordasse le illustrazioni dei libri di storia antica, que¬ gli opliti guerrieri nudi con i calzari e l’elmo, i primi turbamenti dell’infanzia. Cosa stava assaporando di me? Quali emozioni ir¬ risolte, quali schegge fantastiche si impigliavano nella rete ben tesa? Si era rasata quasi completamente, e l’inguine si¬ mulava quello di una bambina, ma sapeva inghiottir¬ mi in una vertigine densa e abissale. Rincorreva ade¬ scamenti e debolezze riposte, i suoi vizi, e se ne face¬ va rapire; provava una ebbrezza animale a imprigio¬ nare e schiacciare il pene irrigidito fra la sua pancia e la mia, premendo forte il clitoride contro i testicoli, fino a quando raggiungeva l’orgasmo in un uggiola¬ to di agonia. Emetteva il guaito acuto di un cucciolo prematuramente partorito, un lamento disperato di vita. Sedato l’affanno non voleva che mi ritraessi da lei e, nei brevi e rari momenti di assopimento, mi abbrac¬ ciava e tratteneva a sé, o mi baciava a caso sul corpo, semimmersa nel sonno. Avvinghiati a quel modo nel suo letto troppo stretto, alla francese, avevamo cor¬ teggiato inesauribilmente l’apparire del giorno. Alle sette era squillato il telefono. Else aveva ri¬ sposto con voce assonnata, ed era Fellini. Udivo la sua inconfondibile melodia: la blandiva, la vezzeggiava, come si cullasse con lei nell alcova, e 149
fra mille gorgheggi di sirena la stringeva nelle sue spire, ne centellinava il protratto abbandono. E an¬ che da lei traspariva un languore non diverso, si comportava come una gatta che si stira allo sfiorare delle carezze, lo arguivo dai toni di gola, dai gorgo¬ gli, e infine dall’espressione con cui, riagganciato il ricevitore, scivolava torpida nel sonno. Nel sogno? Alle sette e mezzo mi ero alzato e rivestito in fret¬ ta. Else dormiva profondamente, il corpo scultoreo reclinato sul letto, una naiade, una procace guerriera nuda e disarmata: Bradamante che ha posato l’arma¬ tura, o Diana priva di faretra. Il capelli biondi taglia¬ ti alle spalle, lasciavano scoperto il collo; l’avevo ba¬ ciata lì, sfiorata da un fremito ignaro. Oro zecchino colava su tutti i muri della città, tal¬ mente liquido era il sole quella mattina. Da Via Ga¬ ribaldi avevo raggiunto la loggia del Palazzo del Mu¬ nicipio, dove l’elegante e ripida scalea s’inerpica ade¬ rente alla parete, in aggetto, sormontata da una vol¬ ta a botte. Il raffinato fondale racchiudeva la limpida geometria di un dipinto quattrocentesco; la piazzetta si dispiegava armoniosissima, invasa da bancarelle per un mercatino di antiquariato, e la folla vi si aggi¬ rava curiosa, animando un ingannevole scenario ri¬ nascimentale. Gli oggetti in mostra, di foggia antica, completavano l’illusione di essere precipitati indietro nel tempo, fra colorati paggi in calzamaglia e dame in broccatello. Attraverso l’alto e solenne arco di accesso, m’ero inoltrato nella piazza, e la cattedrale di San Giorgio, immersa in quella luce da orafo, vibrava di inimma¬ ginabile leggerezza. Le striature della pietra alterna¬ vano il bianco a un rosa così cipriato, polveroso, da suggerire la sofficità delle creazioni pasticcere, una fantasia di marzapane. Anche la torre campanaria, a 150
spigolo, si innalzava con quel pastoso avvicenda¬ mento di tinte, lieve e invitante come burro e frago¬ la. E animali di confetto guarnivano la facciata della chiesa, tripartita orizzontalmente. Sopra l’ingresso, San Giorgio sconfiggeva il drago, e ai due lati si rin¬ correvano le scene della Bibbia. Sul fronte del duo¬ mo facevano guardia i leoni, ma ancor prima, al margine del sagrato, vigilavano due grifoni accigliati e massicci. Scostando rigide e pesanti cortine di cuoio maroc¬ chino, ero entrato dal portale di centro, ripetendo quel gesto dimenticato nel tempo, di nuovo raggiun¬ to da uno scrupolo sacro, un vago allarme nel cuore. All’uscita una ragazza intrecciava sullo spiazzo assolato pigre evoluzioni in bicicletta, le cosce nude e aderenti alla sella esibite senza ritegno per l’abitino stretch risalito nel movimento. A ogni giravolta il sorcio scuro del sellino sgusciava intrappolato fra le chiappe; un’immagine inventata da Fellini. Roma, Amarcord, La città delle donne: quante volte l’aveva riproposta? Riconoscevo un marchio di fabbrica, la sua proprietà artistica. Avevo fatto ritorno in ospedale con quel fremito nel cuore, riattraversando a malincuore lo specchio dei magici inganni per rientrare nel dominio dell’ora e del dove. Else era già arrivata; reclamata più volte dall’in¬ contentabile ammalato che non si rassegnava a star lontano da lei. Né lei da lui. Fellini la voleva presen¬ te, continuamente, le strappava appuntamenti im¬ possibili, la tratteneva accanto a sé, e lei volentieri si lasciava avviluppare dentro l’irresistibile abbraccio. Il sabato non era prevista l’esercitazione in pale¬ stra, gran parte delle attività sospese; e molti pazienti raggiungevano le proprie abitazioni. Federico a quel vuoto festivo non sapeva proprio adattarsi. Capita¬ va, mi aveva riferito Else, che durante il pomeriggio 151
cominciasse a invocare a gran voce il suo nome, in¬ consolabile, divertendosi a fare il pagliaccio: “Else!!! Else Jacobsen!!!” Sosteneva apertamente che la bionda, prestante, gloriosa dottoressa norvegese, avrebbe dovuto essere effigiata sul soffitto di ogni stanza e corridoio, dove si posa lo sguardo dei malati costretti a giacere supi¬ ni. Sarebbero guariti tutti in gran fretta. “Ma hai visto che cosce? - mi chiamava a testi¬ mone. - Lunghe, forti, interminabili, due rettilinei trionfali, due strade consolari!” Ero rimasto in ospedale tutto il giorno a lavorare. Avevo cercato di rispondere al maggior numero pos¬ sibile di interviste ancora inevase: le gazzette locali, i fogli cittadini, le pagine di cronaca provinciale, trat¬ tati invariabilmente con l’identico riguardo riservato alle testate nazionali. Una specie di solidarietà da collega che legava Fellini ai giornalisti, impegnato a non deludere nessuno: “Magari selezioniamo gli argomenti, scegliamo una rispostina o due per ognuno, mettiamo insieme le domande che trattano un unico tema.” I questionari, a volte interminabili, erano accom¬ pagnati da lettere circostanziate e ossequiose. Pochi si rendevano conto delle condizioni di estrema debo¬ lezza in cui versava Federico, al quale ormai ogni mi¬ nima riserva di energia era indispensabile per conti¬ nuare semplicemente a vivere. Generoso a oltranza, aveva insistito per fornire ogni volta uno spunto di¬ verso, un titolo, un episodio gustoso. Era rintraccia¬ bile, in tale disponibilità, un sotterraneo aggancio al¬ le sue origini di cronista e alla figura, enfatizzata, di un direttore autoritario: “Poi, se tornano senza il pezzo, - argomentava si prendono una ramanzina.” Fra i quesiti che l’avevano più coinvolto c’era quello sulla differenza fra Rimini e Ferrara. Condivi152
deva le mie digressioni in libertà: arrivando si avver¬ te di oltrepassare un cerchio invisibile, di addentrarsi in un territorio diverso, sospeso, come inserito nella sfuggente geografia di un perimetro arcano. Non è solo una civetteria letteraria, ma una percezione pal¬ pabile; il respiro della vita sembra rallentare il suo corso, il tempo cessa di battere, i palazzi, le mura, le strade, le vecchie case, le linee aristocratiche delle ar¬ chitetture di corte, creano l’illusione di una città con le fondamenta a mezz’aria, costruita da una astrazio¬ ne metafisica, da quella parte della psiche demanda¬ ta all’immaginario. Sapere che ci abitò Ariosto por¬ ta a considerare Ferrara un borgo inventato da lui, sorto per potente inganno di alchimia, alla maniera del castello incantato in cui il Mago Merlino attrae¬ va dame e cavalieri per trattenere a sé il beneamato Ruggiero. L’illusionismo di Ferrara non appartiene solo alla notte, all’artificio delle luci, alla fantasmagoria delle ombre merlate, al riverbero dei lampioni sui lastrica¬ ti specchianti e vuoti; anche di giorno si compie il sortilegio, nella vampa del sole estivo, quando il pae¬ saggio davanti agli occhi, velato da un vapore impal¬ pabile, appare indefinito e tremulo al pari di una fa¬ tamorgana. E Federico evocava a sua volta: “La campagna, piatta, sterminata, priva di oriz¬ zonte, con quei missili puntati contro il cielo!” Rivedeva con la mente i silos ciclopici, le torri ci¬ lindriche del grano, disseminati a perdita d’occhio ovunque nella pianura. Un giornalista avanzava l’ipotesi che Ferrara fosse la città della nebbia, contrapposta a Rimini, terra di sole e di edonismo: da un lato la roccaforte della ri¬ flessione e del pensiero, dall’altra la fiera del godi¬ mento. A me pareva più suggestivo immaginare Ferrara 153
come una promanazione di Rimini: la bruma di ma¬ re vi si addensa in nebbia compatta, e dunque a Fer¬ rara, in cima alla torre, esiste la cella appartata in cui il mago dà corpo ai fantasmi appena respirati sulla spiaggia. Non è così il teatro di posa, immerso in volute di fumo, in cui si materiano le visioni anco¬ ra caliginose della fantasia? Pagina dopo pagina, gli intervistatori avevano ot¬ tenuto le loro risposte, imbustate e disposte in bel¬ l’ordine per la direzione sanitaria che avrebbe prov¬ veduto a recapitarle. S’era fatta l’ora di cena. Ogni volta Fellini mi in¬ vitava a un’allegra convivialità, come se fossimo al ristorante: “Fatti portare un vassoio, cucinano bene.” Era la sua passione quella di cenare insieme, riu¬ nire con sé gli amici, condividere con loro la gioia semplice del cibo, degli assaggi, dei commenti, dei racconti. Era il suo sistema di rilassarsi, di chiudere la giornata in una vivace, scanzonata ospitalità. Puntuale come ogni sera era passata una matura ammiratrice, rosea, bionda e prosperosa, che tra¬ sportava leccornie nella borsona ricolma. Gongolava a vezzeggiarlo con la lusinga dei sapori inconsueti, un barattolo di fragole al liquore, un grappolo di uva spina, la confettura di frutta speciale. Squisitezze rare che gli faceva assaporare sulla punta di un cuc¬ chiaino già arrivando, e poi deponeva sul tavolino da notte, una specie di allettante viatico, di balsami¬ co lenitivo all’agguato delle interminabili ore di an¬ goscia. Né farmaci né medici sarebbero risultati più efficaci; e meno di tutti la Adalgisa, l’infermiera pri¬ vata che prendeva servizio alle otto di sera, ma che Federico non sopportava, troppo incolore e astretta alle regole. L’aveva soprannominata il pollo, a causa del suo incedere stolido ed esitante. Con lei non riu154
sciva a parlare, non avevano argomenti in comune; e la notte si spalancava vertiginosa sul vuoto. Inoltre Adalgisa, ligia ai suoi compiti, voleva impedirgli di gustare i dolcetti proibiti, lo teneva lontano dal te¬ lefono, e alle sue richieste eccentriche opponeva in¬ variabilmente la logica ferrea delle prescrizioni ospe¬ daliere, sempre inclinata dalla parte dell’istituzione con una ottusità che lo stizziva, lo irritava fino alla collera. “Deve avere una vita così vuota, - la radiografa¬ va - che è costretta a compensarla identificandosi con l’ospedale, è lei l’ospedale. Conosce tutti gli ora¬ ri, le tabelle, i turni, per qualsiasi attività, e ci si at¬ tiene con una pervicacia, un fanatismo incrollabile.” Aveva finito per detestarla. Ma Adalgisa con me cercava di far valere il suo buon senso, discolpandosi: “Pretende di scendere in palestra alle quattro di mattina, oppure reclama la colazione, e prima delle sette non è possibile; afferra il telefono per chiamare in giro gli amici quando la gente dorme; così sono obbligata a spiegargli che certe cose non si possono fare, ci sono degli orari...” Non sapeva addurre se non la sensatezza, il rigore delle convenzioni; cioè tutti gli argomenti più incon¬ ciliabili con la natura di Federico, il quale si aspetta¬ va da lei esattamente il contrario: affrontare insieme le ore di quella crocefissione, di quel destino da reiet¬ ti - malato e infermiera - fra tentativi di fuga e com¬ plici raggiri. Come gli riusciva, facilmente, con l’in¬ fermiera di giorno, Paola, che prendendo gusto alle sue trovate, aveva imparato a fargli da spalla per ogni stravaganza; lui il Clown Bianco e lei l’Augusto. Non era sempre quello il gioco preferito? Tutta la sua vita era consistita nel ribellarsi a un preside che rappresentava l’autorità, rivolgergli sberleffi e per¬ nacchie, ma alternativamente prenderne anche il po¬ sto, interpretarne egli stesso la parte, e divenire, a 155
sua volta, il bersaglio. Non a caso gli amici andava a cercarseli fra gli ultimi della classe, i somari intelli¬ genti: amava i naufraghi più degli ammiragli con i galloni sulla giacca. Cosa poteva saperne l’Adalgisa? Alla fine aveva dovuto cedere il posto a un’altra collega, Maria Ve¬ neria, con cui Federico poteva intrecciare reconditi e sulfurei incantamenti. Fellini mi attribuiva per transitività emozioni, in¬ contri, avventure, che avrebbe voluto sperimentare egli stesso, riconquistando in tale assaporamento una parvenza di buon umore: “C’è in albergo qualche bella mighnottV’ si infor¬ mava motteggiando in quell’inglese maccheronico che rappresentava per lui anche una gergalità propi¬ ziatoria, una deformazione infantile, stregonesca, non dissimile dall’asanisimasa di Otto e mezzo, la formula magica che introduce nell’altra dimensione, del fantastico e dell’imponderabile. • Una bella mignotta: la nordica Jacobsen avrebbe potuto corrispondere a tale incarnazione consolatoria, con la sua statura bradamantesca, con le gambe lunghe come rettifili, invitanti come strade consolari? Era piovuto tutto il pomeriggio, a dirotto, tanto che alcune zone avvallate dell’ospedale si erano alla¬ gate, e la temperatura era precipitata di colpo. Dopo cena ci eravamo rifugiati a casa di Else, lei aveva disseminato la stanza di candele palpitanti e spento tutte le luci; e in quel chiarore aionato mi aveva raggiunto nel letto, già nudi entrambi. Non si era sdraiata, ma disposta a cavalcioni sopra di me, per ruzzare come Ippolita col suo cervo. Voleva guardarmi, percorrermi il corpo con le mani, in una ispezione clinica, una palpazione che ricordava quel¬ la del medico, o della vestale di Esculapio, la prosti¬ tuta sacra guardiana dei sensi e della salute. Le sue 156
dita, lunghe e affusolate, ripassavano una lezione di anatomia. “Ti sento tutti i muscoli” chioccolava roca. Con i polpastrelli li rimodellava, li risaliva fibra a fibra, traendone un piacere indefinibile. Così eravamo sci¬ volati nel gioco dell’amore, lo alimentavamo parlan¬ do, sprigionando bagliori che incendiavano la voglia. “Narrami una favola. - Indulgeva alla sua debo¬ lezza. - Voglio udire la tua voce.” Di nuovo quel termine norvegese, eventyr, profe¬ rito come un segnale cifrato. E io mi prestavo al suo capriccio, non era la ‘mia’ voce a cui intendeva abbandonarsi: “Jasmine era di Bagdad, - mormoravo - portava un mezzo chador trasparente che le attraversava il viso, lasciando scoperti gli occhi che rilucevano di un verde scuro e ammaliante, come due smeraldi in fon¬ do a un pozzo. La sua pelle era candida, i seni svilup¬ pati e soffici, e non conosceva limiti all’arrendevolez¬ za, esperta di innumerevoli delizie. Jane se ne era in¬ vaghita incontrandola a Verona, sotto il balcone di Giulietta e Romeo; giovanissima anche lei, un’inglesina ben educata, con i capelli biondi ripresi sulla nuca, un viso di innocenza corrotta, le labbra carno¬ se e gli occhi leggermente allungati sulle tempie.” “E come va avanti?” domandava col respiro già affannato. “Nel modo che ti piace.” Else aveva incontrato davvero la sua Jasmine, in Danimarca: “Le donne magre e con le tette grosse - mi aveva confessato con vizioso candore - mi attirano a volte più degli uomini.” Assediata sempre più spesso da quel suo desiderio proibito, un giorno per esaudirlo si era fatta accom¬ pagnare da un suo amico in un club privi di Co¬ penhagen specializzato negli incontri promiscui. 157
Tra i frequentatori del locale la donna di una coppia la attraeva terribilmente: era giovane, aveva gambe voluttuose, tornite, appena un po’ nervose, da ballerina, e due seni decisamente esuberanti, col¬ mi e sostenuti, due frutti polposi in cui affondare i denti. Non si era trattenuta: l’altra era lì per lei, disinibita, pronta, il suo atteggiamento era inequi¬ vocabile. Senza bisogno di parlare avevano iniziato ad accarezzarsi, s’erano spogliate a vicenda incuran¬ ti dei reciproci compagni, degli estranei intorno che si eccitavano a osservarle, indugiavano a mastur¬ barsi. Ormai era fuori di sé, le tette della sconosciu¬ ta sembravano modellate dalle sue fantasie solita¬ rie, le aveva baciate e palpate a volontà, poi era scesa a lisciarla fra le gambe, a frugarle il nido al¬ lagato, mollando ogni ormeggio. I loro corpi aveva¬ no aderito e la ragazza, dal sesso quasi interamente depilato, l’aveva condotta a un’estasi mai prima pro¬ vata, accompagnando senza pudore le scosse del go¬ dimento con rantoli e mugolii, struggendosi negli or¬ gasmi. Mentre Else rimemorava, non avevo smesso un momento di accarezzarla, né di affondare nella sua fessura glabra, così infantile in quel corpo imponente da atleta. Amoreggiando continuavamo a infiammarci di parole, e lei si sporgeva sempre più sull’abisso, voleva sentire il mio fiotto per sciogliersi, liquefarsi con me: “Finiscimi, - implorava - schizzami dentro, ti prego!” “Lo sai che urlo, - le resistevo di proposito, esa¬ sperandola — vuoi che ci odano oltre le pareti, che tutti conoscano quanto può essere puttana la dotto¬ ressa Jacobsen, è questo che vuoi?!” Per accelerare la mia resa l’aveva inghiottito al li¬ mite del possibile nella grotta incandescente, pre¬ mendo con forza contro il mio inguine, schiacciando 158
il clitoride allo spasimo, finché non aveva comincia¬ to ad ansimare, squassata dalla convulsione, precipi¬ tata in un gorgo. “Diana si è arresa alla voglia, ha ceduto al cervo in agonia e si discioglie agli urti ciechi del suo cor¬ no” la provocavo estasiato, impennandomi oltre ogni resistenza. Non trattenendosi più aveva cominciato a uggio¬ lare col fiato spezzato, a emettere i suoi guaiti tene¬ ri e smarriti. Mi aveva catturato in una morsa sen¬ za scampo, immerso nella lava disciolta, avviluppa¬ to nel ternerito delle creole appreso chissà dove e quando. “Il tuo antro è incandescente come la fucina di Vulcano, pronto a forgiare la vita! - blateravo. - Pre¬ sto questa voglia ti annoderà le viscere.” E quando la furia si era placata, lei, distesa al mio fianco, non aveva cessato di accarezzarmi; mi aveva catturato nella bocca per non rinunciare a un solo fremito del mio deliquio. A lungo ero rimasto così, consegnato all’affanno, accanto al suo corpo levigato da regina delle Amaz¬ zoni. E in un battito d’ali mi ero separato da lei, trasfe¬ rito di peso in un’altra realtà. Mi trovavo dentro Villa Adriana a Tivoli, non fra ruderi e scheletri di edifici, ma nella sontuosa, intatta dimora dell’Imperatore. Il mio cervello l’aveva riedi¬ ficata, mi aggiravo silenzioso fra i padiglioni del Pa¬ lazzo e le piscine, il Portico e le Terme, il ninfeo e il Canopo con la lunga vasca incorniciata da un emici¬ clo di colonne trabeate, le Cariatidi e i Sileni e le sta¬ tue di Ares e di Mercurio dai glutei impudenti. Va¬ gavo fra la Biblioteca, il Triclinio, l’Hospitalia, e la Terrazza di Tempe. Tutto ciò che il mio occhio non era riuscito a ricomporre durante le numerose visite, lo stava attuando la mia semicoscienza, in un viaggio 159
ipnagogico in cui rivivevo persino il profumo della menta e del finocchio selvatico che cresce fra i viot¬ toli inondati di sole. La fica spiumata di Else sgorgava miele da una vena ancora aperta e io la accarezzavo leggero, span¬ dendo intorno la bava di seta lucente. Così, come una bambina ormai sazia, lei si era assopita, invo¬ cando ancora nel sonno eventyr, una favola nuova. Prima dell alba, m’ero ritirato nella mia camera d’albergo. Ma appena addormentato ero stato raggiunto al telefono da un’amica giornalista di Roma: Il Messag¬ gero aveva pubblicato la notizia del ricovero di Giu¬ lietta. Come riuscire a tenerlo nascosto a Federico? La voce avrebbe impiegato un fiato a propagarsi. In po¬ chi minuti ero fuori dell’albergo. Tutta l’acqua del giorno prima s’era scaricata dal cielo, e la domenica era divampata in una luminosità abbagliante. Il Po di Volano rifulgeva di scaglie d’oro, l’aria ostentava la purezza del cristallo. Federico, contro ogni attesa, giaceva ancora nel letto, scosso da brividi di freddo sotto una pesante coltre di lana; si sforzava di sorbire dalle mani di Paola qualche sorso di cappuccino bollente che lo ritemprasse, lo aiutasse a vincere la morsa del gelo, il tremore. Il suo aspetto era terreo, e versava in uno stato di leggera confusione, con le onde radio fuori sintonia, raschiate da interferenze. “Oscar, quando sei arrivato?” Mi si era rivolto come se non mi vedesse da gior¬ ni, senza rammentare che la sera prima avevamo ti¬ rato tardi a lavorare insieme. Era contento, naturalmente, ma sembrava oppres¬ so da una stanchezza sovrumana. 160
Paola, l’infermiera personale, si sforzava di rassi¬ curarmi: “Ha dormito per un’oretta buona e quando si sveglia è sempre indebolito, impiega del tempo per realizzare dove si trova.” La mano paralizzata giaceva impietrita in una ri¬ gidità di morte. La dottoressa Jacobsen era accorsa a controllare la pressione, bassissima. Finché gradual¬ mente la situazione si era ripresa; al punto che la neuroioga e Federico avevano potuto appartarsi per il loro colloquio. Io avevo atteso in camera, termi¬ nando il lavoro lasciato in sospeso dal giorno prima, la distribuzione dei testi già pronti e la preparazione delle buste. Al ritorno Federico aveva voluto assolu¬ tamente essere ridisteso a letto, contro il parere dei sanitari che lo spronavano con ogni argomento a ri¬ manere alzato, a sforzarsi, per il recupero del tono muscolare. Else si era rifugiata nel suo studio, con l’intesa che una volta ultimato il lavoro ci saremmo rivisti per colazione. Fellini nel frattempo aveva riacquistato parzial¬ mente le forze e ritrovata persino la sua vena. Alcune domande dei questionari lo inducevano irrimediabil¬ mente allo scherzo, al dileggio, allo sberleffo goliar¬ dico; soprattutto quando si riferivano ai progressi della convalescenza, ai presunti risultati delle cure fisiomotorie, nei cui confronti sbandierava una radi¬ cale, ostica e delusa impazienza: “Rispondiamo che le cose vanno molto meglio, mi piscio sotto solo due volte al giorno, e mi cago addosso ogni volta che ho voglia” ghignava, un po lugubremente. - Chissà come riprenderebbero i gior¬ nali una dichiarazione su questo tono!” Un prete giornalista asseriva che la religione cat¬ tolica poteva vantare a buon diritto una tradizione di ironia. 161
“Non l’ho mai saputo - si stupiva Fellini. - Come può sostenerlo? Basta guardare quell’abbacchietto lassù! - e indicava il piccolo Crocifisso appeso sulla parete di fronte al letto. - L’ironia può far parte delle religioni orientali, forse è presente nella grande mi¬ tologia greca, ma è impossibile rintracciarla in una trascendenza che si identifica con un sacrificio così cruento e disumano.” E quando infine mi ero seduto alla macchina da scrivere per dare un ordine alla nostra chiacchierata, Federico, stanco, si era assopito di nuovo. L’avevo lasciato al suo sonno, affidandomi a Pao¬ la per le lettere di accompagnamento che andavano ancora firmate e per la spedizione degli articoli. Il tempo che mancava alla partenza del treno, mi ri¬ promettevo di spenderlo in compagnia di Else, avevo bisogno di sole, di un buon pranzo, e di ricaricarmi alla vista delle sue lunghe gambe armoniose, che tan¬ to piacevano a Federico e che spartivo fantastica¬ mente con lui. Else mi stava aspettando in macchina, nel cortile; e appena al sicuro nell’abitacolo m’ero chinato a sfiorarle le cosce nude con le labbra, assaporandone sulla guancia la levigatezza dorata. C’eravamo fermati in un ristorantino sull’argine del Po di Volano, rinomato per il pesce, e oltre le ve¬ trate scorreva l’acqua scintillante in frammenti di sole. Federico era con noi, fra noi, quasi seduto a tavo¬ la a condividere i sapori del pranzo; non sapevo stac¬ carmene, né lo voleva Else, che si stava fatalmente innamorando di lui. “Mi assorbe tutte le energie, - ammetteva - tutto il tempo; non riesco a spiegarmelo.” Nel colloquio della mattina Federico aveva ragio¬ nato a ruota libera di Marguerite Yourcenar e del¬ l’Imperatore Adriano. 162
“Non mi era chiaro se si riferiva a un sogno, aveva aggiunto Else - in cui la villa di Tivoli era di¬ ventata la sua dimora, come fosse lui l’Imperatore.” Non avevo sollevato nessun commento, risucchia¬ to in un vuoto improvviso e inerme di fronte a quell’incontrollabile espansione delle emissioni cerebrali, a quel sovvertimento di sensazioni fluttuanti nel poz¬ zo dell’inconscio. Dopo colazione non eravamo tornati a trovarlo; di nuovo rifugiati nell’appartamento di Else a fare l’amore col ridicolo batticuore di due amanti clande¬ stini. A metà pomeriggio era squillato il telefono ed era lui che la cercava; sconcertata, Else aveva ripetuto sottovoce: “Mi chiama sempre quando ci sei tu.” La bella Jacobsen aveva indugiato a lungo a bisbi¬ gliare all’apparecchio e per tutto il tempo, perversa¬ mente, non avevo cessato di godermela di soppiatto. I suoi sensi reagivano a oltranza, al di là della vo¬ lontà, stregati. E, riagganciato il ricevitore, aveva raggiunto istantaneamente il deliquio, con la pelle d’oca in tutto il corpo, esalando l’anima in un tu¬ multo più invasivo di tutti i precedenti. Tenendola distesa prona sul mio corpo, le acca¬ rezzavo le curve gemelle, vellutate e rotonde, snerva¬ te dal piacere, e avevo cominciato a sculacciarla con garbo, una natica per volta, aumentando vigore a ogni colpo, e se si lamentava rincarando la dose. “Mi vuoi punire? - gorgogliava arrochita. “Di che cosa?...” “Che mi lascio chiavare come una mignotta, da tutti e due.” Aveva usato esattamente quella parola, che non sapeva quasi pronunciare. Le sue chiappe vibravano elastiche ai miei colpi, bruciavano, e lei si contorceva, annaspava senza sot163
trarsi, implorava lasciva di essere castigata, ma dal cazzo, voleva sentirsene riempita. Fuori di senno l’a¬ vevo fatto, proprio come smaniava, appagando la sua duplice voglia, avanti e dietro, in una convulsiva, in¬ contenibile furia orgiastica. Mi sdoppiavo, mi rad¬ doppiavo, era lei a pretenderlo, ubriaca, drogata di sé. Da quanto tempo spremevamo l’amore dai nostri corpi? Quando ci eravamo riscossi mancavano pochissi¬ mi minuti alla partenza del treno; eppure Bradamante, principessa di Ariosto, mi aveva depositato in tempo utile in stazione dalla groppa del suo Ippogrifo. Un bacio sfiorato sulle labbra e il treno si era av¬ viato, scivolando silenzioso sui binari. Il disco infuocato del sole, cupreo e raggiante sul margine della pianura, ricamava in controluce gli or¬ dinati filari degli alberi, l’elegante trina nera dei rami e delle foglie smateriati dalla liquida incandescenza. Dalla campagna pianeggiante a perdita d’occhio le torri dei granai, in tutto fedeli allo sguardo evo¬ cato da Federico, si protendevano simili a rampe di lancio verso il cielo di smalto. Infine l’orizzonte si era imbevuto di viola e di giallo e prima di Bologna il tramonto aveva consumato il suo evanescente lan¬ guore. Al passaggio degli Appennini era scesa rapida la sera, e le ombre si allungavano ad ogni istante più dense e avvolgenti.
164
Capitolo X Fughe d’amore
Giorno dopo giorno crescevano le speranze che Fe¬ derico riuscisse a riprendersi, sia pure parzialmente, dalla emiparesi. Ormai i medici - non lui! - usavano accenti tranquillizzanti, accennavano a miglioramen¬ ti significativi. Ma al telefono la sua voce giungeva invariabil¬ mente sgranata, opaca, rassegnata: “Non posso restare qui, non resisto più! Voglio tornare al Grand Hotel.” Nei toni di Else Jacobsen, al contrario, vibrava in¬ variato un entusiasmo pragmatistico, nordico, unito a un candore innamorato. Ci chiamavamo quotidia¬ namente per telefono: “Oggi Federico ha fatto qualche passo, assieme alle fisioterapiste: è un progresso incredibile! Tutti gli altri lo hanno applaudito!” Povero Federico! Mi sentivo mancare il cuore. Cercavo di figurarmi la vicenda dal suo punto di vi¬ sta, esposto a quei teatrini grotteschi, ed ero incapa¬ ce di non condividerne l’abbattimento, l’insofferen¬ za, il pessimismo, la cupa depressione. Ma nella voce non lo lasciavo trasparire, cercavo di ricorrere ai ta¬ sti che ingenuamente mi sembravano più vitali, pri¬ mo fra tutti l’incontro con la bella Jacobsen: “Neanche Else ti reca sollievo?” Avevo avvertito una imprecisabile, stizzita sospen¬ sione: “Ce ne vorrebbero cento come lei per sciogliermi da questo maleficio!” 165
Lo scongiuravo di impegnarsi con ogni risorsa, di non cedere, di non rassegnarsi. Ma le mie esortazioni suonavano vuote, me ne accorgevo, a me per primo. Sul magazine di un diffuso quotidiano gli era stato dedicato un ampio servizio fotografico. Alessia Matiz Saffi, recatasi appositamente a Fer¬ rara, l’aveva immortalato nelle situazioni più sva¬ riate. Federico s’era prestato volentieri, ma aveva ri¬ fiutato di posare nel suo abituale abbigliamento, tu¬ ta e scarpe da jogging, per sfoderare pantaloni jeans e una luminosa camicia azzurra di tela ruvida, ma¬ schia e raffinata. Else mi aveva riferito che era persino riuscito a te¬ nersi eretto sul busto e che quasi subito aveva co¬ minciato a dirigere le inquadrature come si trovasse su un suo set, indicando dove e come puntare la macchina. Aveva persino spinto la fotografa a piaz¬ zarsi acrobaticamente sul davanzale della finestra, e poi ad arrampicarsi su una scala a pioli. Non rinun¬ ciava insomma a esercitare il proprio mestiere di re¬ gista. Si era anche autoimposto, per qualche istante, di reggersi in piedi senza assistenza, privo di sostegni. Eppure quando la sera mi aveva chiamato, era sgomento come sempre, più di sempre. Le lunghe settimane e mesi che lo attendevano dentro quel reclusorio si dilatavano in un’eternità annichilente. Aveva capito che non poteva illudersi di lasciare l’o¬ spedale e di continuare la degenza al Grand Hotel a proprio capriccio. La sua non era una convalescenza, come le persone intorno si adoperavano volonterosa¬ mente a prospettargli; un limbo raccolto da occupare con pigre ore di letto, il telefono accanto e gli amici che si affollano a farti visita. L’impegno durissimo, al contrario, consisteva nel ricostituire un equilibrio stravolto per mezzo di una tecnica da apprendere 166
giorno dopo giorno, istante dopo istante, un milli¬ metro alla volta, per un periodo ancora invalutabile. Un’impresa titanica. Si trattava di rimettere in moto un burattino con i fili aggrovigliati, contorti, anno¬ dati all’inverosimile, e forse compromessi senza ri¬ medio. Povero Mago Merlino, prigioniero di un incubo! Quel suo corpo massiccio e imponente, avvolgen¬ te, morbido, femminile, quel suo corpone amico e simpatico era come franato, ridotto in macerie. E an¬ che Federico stava dissolvendosi con lui. Di Fellini sopravvivevano l’espressione, il pensiero, scampati al disastro; l’inesausto illusionismo verbale che trapun¬ tava damaschi luccicanti, quella lingua inimitabile, di aggettivi, avverbi, sostantivi accostati in guizzi ful¬ minei come lampi di magnesio, metafore acrobatiche e imprevedibili, e quegli scarti di senso così affilati e repentini da incidere squarci di coscienza, irrimarginabili ferite dell’intelletto. Volentieri si cullava l’illusione che nulla fosse av¬ venuto di così terribile, che il peggio fosse ancora ri¬ parabile. Il timbro del suo discorso giungeva fuliggi¬ noso, ma robusto e dolce: la favella del grande ne¬ gromante di cui narra Friedrich Schlegel nella crona¬ ca misteriosamente dissepolta. Sir Gawin inviato da Re Artù a ricercare per tutto il regno lo scomparso Merlino, si imbatte infatti in una voce... Mentre cavalcava tristemente assorto udì improv¬ visamente alla sua destra una voce, si voltò verso quella direzione ma non vide nulla, tranne un vapore leggero che si perdeva nell’aria, attraverso il quale però non riuscì a passare. Ed ecco di nuovo la voce che esclamava: “Gawin, Gawin, non crucciarti, poiché tutto ciò che deve accadere, accade. ” 167
“Chi parla con me? - egli gridò. - E chi mi chia¬ ma per nome?” “Come? Non mi conoscete più, sir Gawin? Ma un tempo mi conoscevate molto bene; allora è vero il proverbio che dice: ‘Se ti allontani dalla corte, anche la corte si allontana’ ”. Allora Gawin riconobbe Merlino e gridò: “O maestro Merlino, adesso riconosco la tua vo¬ ce, ma vieni fuori, ti prego, cosicché ti veda. ” “Non mi vedrai mai, - rispose Merlino - e dopo di te non parlerò con nessun altro: sei l’ultimo che sente la mia voce. Inoltre in futuro nessuno dovrà avvicinarsi a codesto luogo, neppure tu tornerai mai da queste parti. Io non posso più uscire di qui, per quanto mi dolga, ma devo restarvi per sempre; sol¬ tanto colei che qua mi trattiene ha la facoltà e il po¬ tere di entrare ed uscire a suo piacimento ed è la sola che mi veda e parli con me. ” “Come mai, - esclamò Gawin - mio caro e dolce amico, sei così vincolato, da non riuscire mai più a liberarti? Come può succedere una cosa simile a te, il più sapiente degli uomini?” “Sono anche il più folle, - rispose Merlino - per¬ ché amo un’altra più di me stesso; ho insegnato alla mia amata come poteva incatenarmi, ed ora nessuno può liberarmi. ” “Oh, questo mi rattrista molto, - esclamò Gawin - e addolorerà molto anche Re Artù, che ti fa cercare in ogni paese, e per questo motivo anch’io sono qui.” “Deve imparare a ritrovarsi, - disse Merlino poiché non mi rivedrà mai più, come io non rivedrò lui. Ora ritorna...” Else era innamorata. Lo sentivo dalle sue parole, dalle sospensioni che affioravano nei nostri colloqui, dalla costante necessità che aveva di ripercorrere con me il suo disorientante segreto: 168
“Quando mi accarezza di nascosto, ne provo pia¬ cere” confessava turbata; “gli sono grata delle li¬ bertà che si prende, anche se la mia infatuazione non si esprime sul piano fisico.” A volte indugiavamo a discutere al telefono nel cuore della notte. Mi chiamava durante i turni in ospedale, dalla stanzetta del medico di guardia, già infilata nella branda, e mi aggiornava su ogni novità: “È venuto a trovarlo un giovane regista molto devoto, ma Federico non l’ha ricevuto subito, gli ha imposto una specie di veglia d’armi, accettata con riguardosa perseveranza. Dopo un primo, un secon¬ do, un terzo tentativo infruttuoso, finalmente sono entrati a colloquio, da soli, per oltre un’ora. Federico non aveva voluto abbandonare il letto, sforzarsi di dissimulare la sua grave condizione di infermità mostrandosi - con quale vantaggio del resto? - inchiodato su una carrozzella. ‘Non ti alzi?’, gli avevo chiesto mentre lo prepara¬ vo alla visita; ‘lo ricevi disteso?’ ‘Lo faccio per non imbarazzarlo, - aveva replica¬ to - anche lui quand’era in ospedale mi ha ricevuto a letto.’ È proprio inesauribile nel sorprendermi, mi sento disarmata, esposta, completamente in sua balia. Po¬ trei anche non lavorare più, non ricevere gli altri pa¬ zienti; ho solo voglia di passare il mio tempo con lui. E lui con me.” Avendo acconsentito di supplire col mio corpo alla passione di Else ero divenuto parte sostanziale del triangolo. Ma fino a quando lei avrebbe accetta¬ to quel tenero sogno, quell’appagante confusione? Fellini mi aveva telefonato, la mattina di domenica: “Fio deciso di venir via, non resisto più.” La depressione ormai non allentava la sua presa 169
che per brevissimi periodi della giornata; neanche gli euforizzanti erano sufficienti a risollevarlo, se non per insignificanti parentesi. Il pensiero di Giulietta lo assillava: “Devo andare a trovarla, - si struggeva - lei è in ospedale e non ci siamo ancora visti.” Era molto allarmato: le reticenze di Saraceni, in¬ vece di rassicurarlo, lo inducevano ad aspettarsi il peggio. “Lo so che mi nascondono la verità” si era ram¬ maricato con Else. E, nell’esasperazione, aveva cominciato a dare in escandescenze, inveendo più di una volta contro gli infermieri, sbraitando senza controllo. Le crisi si verificavano con maggior asprezza quando Else era assente, e lei si caricava di responsa¬ bilità: “Mi sento in colpa anche se mi prendo una sola giornata di libertà, non rispetto più i turni di riposo, cerco di stare ininterrottamente in ospedale. Ho pra¬ ticamente rinunciato a una mia vita fuori di qui.” Ai suoi sfoghi non mi stancavo mai di controbat¬ tere che non avrebbe mai più incontrato nella sua esistenza e nella sua carriera altre persone speciali come Federico; si trattava di una occasione unica, un dono del destino da non dissipare: gli ultimi giorni di un uomo fuori dell’ordinario, forse il più geniale di tutto il secolo, erano stati affidati a lei. Per quale al¬ tra ragione - o sapiente casualità - una neuroioga norvegese, bionda e avvenente, avrebbe dovuto sol¬ care l’Europa per approdare nell’ospedaletto di una città italiana di provincia proprio in coincidenza con l’arrivo di Federico? La nostra vita si basa spesso su una mappa invisibile, l’esistenza di ognuno di noi ne nasconde una, ma è necessario saperla scorgere per giungere al tesoro. La indottrinavo. La adulavo. Era indispensabile 170
che Else non si sottraesse al suo compito; che non si avverasse l’infausta premonizione del DISPERSO DEI DISPERSI.
L’intelligenza della ragazza era rimasta segnata, lo avvertivo, non meno del suo cuore; ma non sarebbe stata alla fine l’arida logica del quotidiano a prevale¬ re sull’irrazionalità, a favorire l’inevitabile distacco? Spezzato quel filo di salvezza che solo un’eroina come Else, al pari di Arianna, era in grado di tenere ben saldo all’ingresso del labirinto, cosa avrebbe più trattenuto Federico dal lasciarsi ingoiare in quel buio senza ritorno? “L’interruzione della terapia in questo momento si crucciava lei per prima - annullerebbe tutti i risul¬ tati finora conseguiti.” Fellini già non prestava più orecchio alle lusinghe, da chiunque provenissero; ripeteva ossessivamente di voler tornare a Roma. Non si illudeva più, condan¬ nato per il resto della vita alla condizione di paraple¬ gico: “Sono regredito allo stadio di un bambino picco¬ lissimo che deve imparare tutto, dallo stare in piedi alla misura dei gesti. Un castello di carte franato su se stesso. Il mio malanno va a colpire l’entità che regola gli equilibri, se questo controllore non rispon¬ de, ogni piccola porzione del mio corpo smotta sul¬ l’altra, provoca una slavina di proporzioni inarresta¬ bili.” Il 18 settembre, lo ricorderai, - continua accorato Rinaldi - era un sabato, e tutti i giornali ne avevano parlato: insensibile a qualsiasi controindicazione dei medici, Federico aveva rotto gli indugi e stabilito di effettuare un’incursione a Roma. La dottoressa Jacobsen aveva ottenuto dal primario di poterlo ac¬ compagnare nella veste impropria di medico perso¬ nale, portando con sé un’intera farmacia e una map171
pa accurata di tutti i centri di rianimazione dislocati tra Ferrara e la Capitale. Federico aveva organizzato di sua iniziativa il tra¬ sferimento, determinato a tutti i costi a rivedere Giulietta e rendersi conto di persona del suo stato di salute. FUGA D’AMORE A SETTANTANNI avevano ti¬ tolato i quotidiani con affettuoso patetismo. E i foto¬ grafi erano già appostati fuori della clinica romana al momento del suo arrivo. Era restato talmente con¬ trariato dall’agguato, da lasciarsi sfuggire un’ingiuria spazientita e rabbiosa, puntualmente riportata nei compiaciuti servizi giornalistici del giorno dopo: “Fotografate ’sto c...!” Il week-end successivo ero tornato io a Ferrara. Il maltempo aveva imperversato in tutta Italia, l’estate porgeva il suo commiato. Federico sembrava essersi in parte rasserenato, anche se ormai la sua insofferenza del luogo e persi¬ no del personale sanitario, aveva raggiunto vertici insostenibili. Nonostante il grave stato di disagio fisico e psico¬ logico, durante la settimana era riuscito a riempire di appunti fittissimi alcune pagine del quaderno da disegno. Al mio arrivo l’avevo trovato seduto sul letto, la schiena tenuta eretta da un cumulo di guanciali, gli occhiali infilati e il notes fra le mani; progettava un film da dedicare alla sua disavventura: l’ictus, il Grand Hotel, il ricovero a Rimini e infine quell’ultima condizione di segregato che lo tormentava più di ogni altra. Dalla brutta esperienza stava dunque prendendo rapidamente forma una storia. Era evi¬ dente che la prospettiva stessa di tornare presto a Roma, gli aveva già riattivato l’abitudine al lavoro. Porgendomi quei fogli s’era anche affrettato a smi¬ nuirne l’importanza, con argomenti che non gli sen¬ tivo certo adoperare per la prima volta: 172
“Non sono appunti nel senso tradizionale, nel significato letterario che siamo soliti attribuire a que¬ sto termine. Per quanto mi riguarda non l’ho mai fatto, le mie annotazioni seguono altri percorsi - non c’è bisogno che lo spieghi proprio a te, la conosci la mia maniera di procedere. - Non so affidarmi a una scrittura intesa come successione di avvenimenti; per me gli spunti si riferiscono al colore di una cravatta, la forma di un sopracciglio, un vezzo, uno sguardo, un modo di camminare. Perché queste annotazioni vadano a disporsi in un disegno, mi è indispensabile avvertire intorno uno stato di emergenza. Io lavoro nell’emergenza: devo essere obbligato dalla troupe, dai contratti, dalle scadenze, a mettere in moto quel congegno che è la macchina cinematografica. La ma¬ teria prende forma dentro quella inevitabilità, a con¬ tatto con quella temperatura. Altrimenti non so pen¬ sare in astratto, non so immaginare un film da co¬ struire genericamente, con personaggi di maniera, luoghi, fatti, avvenimenti mescolati insieme con l’u¬ nico scopo di avviare una macchinetta narrativa. Il racconto lo realizzo nel momento stesso in cui è lui che mi obbliga a seguirlo e le cose ormai sono anda¬ te troppo avanti per tirarmi indietro.” Riprendere a parlare di lavoro, sia pure con reti¬ cenza e pudore, sia pure come ipotesi remota e in parte irreale, migliorava visibilmente il suo stato ge¬ nerale; aveva riacquistato il piglio di sempre, l’auto¬ rità, l’abitudine a tradurre le idee in proposte, in in¬ granaggi creativi. E dopo il pasto di mezzogiorno, adagiandosi stre¬ mato sui cuscini, non aveva rinunciato al gusto della conversazione senza impegno, quel suo impalpabile, fatato esercizio di amicizia che affidava al puro estro del momento. Durante la colazione avevo approfit¬ tato per sfogliare il giornale “a voce alta”, toccando un po’ tutti gli argomenti che potevano incuriosirlo, 173
dai libri, alla politica, alla cronaca spicciola. Così gli era venuto spontaneo domandarmi: “Ma tu cosa metteresti al primo posto: la fica, il cinema, la letteratura, il culo, le tette...” Non avevo avuto esitazioni: “La fica Federico, senza la fica non ci sarebbe neanche il resto.” Aveva annuito socchiudendo gli occhi, con un sorriso soddisfatto in volto: era la risposta che si at¬ tendeva da me. In quel periodo Federico nutriva una vera passio¬ ne, ammirata, per Marina Valeri, soubrette di lumi¬ nosa carnalità. E parlando di un personaggio di don¬ na fatale che lei avrebbe potuto interpretare in un mio copione se non ci fosse stato l’ostacolo della lin¬ gua inglese, era esploso in una pirotecnica disappro¬ vazione: “Ma che importanza può avere se parla o non parla l’inglese, se sa recitare e tutte le altre cazzate dei produttori! Una fica così sa recitare per forza, basta che si faccia vedere, che appaia, di che altro può aver bisogno! Solo di un pubblico che batta le mani! Mi meraviglio di te!” Sul conto della burrosa stellina, che aveva cono¬ sciuto di persona, non ammetteva perplessità, non ci poteva essere altro atteggiamento che di entusiasmo, gratitudine, totale incondizionata fiducia. “L’hai incontrata?” mi chiedeva ogni volta. “Ha accettato?” Al primo posto nei suoi pensieri, tuttavia, regnava l’ineffabile materializzazione della ninfa Egeria sca¬ turita dai fiordi: le lunghe gambe nude, il sorriso sempre pronto, le mani dotate di tocco delicatissimo, assidua al pari di una figliola solerte, di un’amante giovane e attenta, Else era una delle incarnazioni femminili più riuscite fra le tante vagheggiate con 174
amore e riconoscenza nei suoi sogni di celluloide, una meravigliosa abitatrice del suo harem. Che entusiasmo gli infondeva! E che slancio verso la vita ogni volta che la scorgeva soltanto passare! Esigeva da me la sua stessa, incondizionata accensio¬ ne, me la spiava negli occhi, negli atteggiamenti: “E un vero concentrato di grazia e di potenza, Ip¬ polita, Diana, Minerva, e insieme il femminino eroi¬ co delle saghe nibelungiche! E poi così intelligente, spiritosa, capisce tutto! Qui dentro è la migliore, possiede le qualità autentiche della scienziata, tutti i colleghi le fanno la corte! Ti piace, è scoppiato il grande amore?” Naturalmente negavo; ma non l’ammirazione, che anzi manifestavo di condividere appassionatamente. Nel rapporto fra i due, i ruoli di medico e pazien¬ te si erano regolarmente capovolti e Federico era di¬ ventato il confidente insostituibile. Lei gli raccontava tutto di se stessa, coinvolgendolo anche nelle vicende più frivole, in amene complicità. Else gli aveva sottoposto il fax, illustrato senza inibizioni, col quale era stata invitata allo Zoccola Party, una festa a tema, un rave, che si sarebbe te¬ nuto in una villa della campagna ferrarese. E la mat¬ tina dopo, arrivando, avevo trovato Federico seduto in carrozzella nella saletta comune, concentrato a disegnare nel suo blocco gli abbigliamenti immagi¬ nati addosso all’aitante neuroioga. Per convincerla a prendere parte alla festa, l’aveva ritratta con i costu¬ mi da indossare, secondo il metodo adottato sul set di distribuire indicazioni ai vari reparti: sembravano bozzetti di Georges Grosz, dal gusto equivoco, un po’ losco, aggressivi, marcati, assolutamente espres¬ sionistici, come espressionista era sempre stata l’ispi¬ razione di tutti i suoi film. Alcuni dei figurini faceva¬ no pensare proprio a Oscar Kokoschka, colori vivis¬ simi, rossi, turchini, gialli, e linee saettanti, più nien175
te di morbido, ma forme aguzze, spigolose, slanciate. Il mento, gli occhi, il viso della dottoressa Jacobsen erano quelli di un insetto puntuto e affascinante. Ad esserne sedotta era stata lei per prima. All’im¬ patto con quelle tavole dipinte a pennarello era restata senza parole, turbata e felice: una esplosione di umorismo, di estro, di vitalità, di sensualità, inim¬ maginabili. E quello sarebbe stato il malato? Else, nel suo studio al primo piano, aveva raccol¬ to in una cartellina un certo numero di disegni, quel¬ li tracciati per i test; erano entusiasmanti per arguzia ed espressività, un fuoco d’artificio di invenzioni, di allusioni, di pulsioni, di autoironia, da lasciare inter¬ detti. Quegli abbozzi frettolosi e geniali ricordavano da vicino le illustrazioni dei sogni che da anni Fellini raccoglieva in grossi libroni in carta di Fabriano, de¬ bitamente rilegati in pelle e gelosamente custoditi in un cassetto della scrivania chiuso a chiave. Inesauri¬ bile deposito di uranio radioattivo, magma ad alta concentrazione da cui attingere per le sue storie cine¬ matografiche. Di fronte alle nuove, copiose, seducenti impenna¬ te della fantasia, si provava l’illusione che la sua vi¬ talità non fosse minimamente compromessa: tutto poteva dunque ricominciare. Il suo spirito appariva indomabile. Il suo inimita¬ bile capriolare su ogni argomento, la prontezza nello scarto intellettuale, la tensione al gioco, debordava¬ no con la contagiosa, nutriente espansione dei giorni migliori, lasciando stupefatto chi ancora non ne aveva una esperienza diretta e ravvicinata. Paola, l’infermiera di giorno, non si era ancora abituata a quel crepitante scintillio, e per lei diverti¬ mento e sorpresa non si esaurivano mai. La sera, prima di lasciare il campo alla collega della notte, fra le ultime mansioni aveva quella di inalargli un far176
maco per tenere pulite le narici e liberare le prime vie respiratorie. Sul flaconcino che Federico aveva voluto scrutare, curioso per natura di qualsiasi medicinale, c’era scritto a chiare lettere il nome: LIBERBAR. “Che fantasia! Possiamo inventarne una serie. Una medicina che fa tirare l’uccello come la chiamia¬ mo?: NERCHIOLIN!” Di fronte agli assalti della commozione, invece, rivelava una imprecisabile crepa provocata dall’ictus, un’avaria sconosciuta, l’irregolare funzionamento di un qualche sistema di controllo. L’ascoltatissimo editorialista di un settimanale gli aveva dedicato un vibrante e affettuoso intervento. Federico lo conosceva già, ma aveva voluto riascol¬ tarlo da capo e quando ero arrivato al termine, dove l’amico giornalista lo proponeva senatore a vita: “Non perché stia male, ma perché è un genio”, ave¬ va esclamato: “Che trombonata!”, scrollato da sin¬ gulti annodati che gli rimbombavano nel petto, inar¬ restabili. Si era anche turbato per uno splendido articoloricordo su Roberto Rossellini e Anna Magnani pub¬ blicato quella domenica su un quotidiano torinese. Quando la grande attrice morì, Rossellini non volle che fosse Giannetto De Rossi a truccare il cadave¬ re, ma se ne era occupato egli stesso, personalmente, con cura e dedizione. Fellini ascoltava il racconto in preda a forti scuo¬ timenti di commozione, una specie di singhiozzo asciutto che non riusciva a dominare. Poi s’era fatta strada fra i ricordi la divertita sim¬ patia per l’amica attrice: “Anna aveva paura di Totò, lo temeva, perché sa¬ peva che con lui non le era possibile tenere la scena. In parte aveva ragione: se sul palcoscenico entrano un attore e una foca, tutti guardano la foca. Totò 177
aveva quel magnetismo irresistibile, dementale, che hanno gli animali, le creature fantastiche, i sogni! Era stato lui a raccontarmi che la Magnani, quando lavoravano insieme, prima dello spettacolo andava a trovarlo in camerino e lo scongiurava: ‘Principe, questa sera fate ridere un po’ di meno...’.” Il discorso si era esteso agli altri attori della sua vita: “Con quanti ho lavorato, - rifletteva - eppure con nessuno di loro ho parlato di me, quasi mai. Un po’ con Peppino De Filippo; con Benigni; con Mar¬ cello naturalmente. Anche con Anita Ekberg, ma per spiegarle come mai seguitavo a sottrarmi a un in¬ contro che pure sapevo inevitabile. E con Terence Stamp, anche con lui ci sono stati rari momenti di confidenza.” Ai primi di ottobre, raccogliendo le poche energie di cui ancora disponeva, Giulietta aveva affrontato il viaggio a Ferrara, accompagnata in macchina dal professor Saraceni. Si era munita di un copricapo a turbante, come una diva degli Anni Trenta, e con quello nascondeva la quasi totale caduta dei capelli dovuta alla cobaltoterapia. La sua chioma - l’ama¬ tissima chioma sempre composta a perfezione — a cui teneva tanto! Federico, contraddittoriamente, aveva accolto la visita quasi con distrazione; continuava a occuparsi di un progetto da lui caldeggiato, un vertice da tene¬ re al Grand Hotel di Rimini con medici e sponsor, per dotare la sua città di un centro di recupero simile a quello in cui era ospitato. Insomma aveva finto di non accorgersi della gravità del male di Giulietta; ma da quel momento nessuno avrebbe più potuto tratte¬ nerlo a Ferrara se non con le catene. Durante la notte non dormiva quasi più, neanche con i farmaci, e lo stato di depressione, unito al suo 178
rifiuto sistematico di collaborare alle cure, intralcia¬ vano irrimediabilmente il programma medico di ria¬ bilitazione. Se lo conducevano in palestra, la sua re¬ sistenza psicologica lo sprofondava in un sonno le¬ targico. Non prestava più ascolto neppure al prima¬ rio carismatico, verso il quale pur conservava una vaga, cameratesca simpatia. Mi aveva chiamato al telefono: “Non ti muovere questo fine settimana, domani verrò io.” Di nuovo aveva organizzato da solo, per telefono, il complicato spostamento e non ammetteva obiezio¬ ni. Una Mercedes a noleggio lo avrebbe prelevato al San Giorgio di Ferrara per trasportarlo al Policlinico di Roma, nel reparto diretto dal neurologo insigne che l’aveva seguito fin dal primo insorgere dei suoi problemi circolatori. “Non resisto più - si crucciava con voce spezzata, affranta, dilatando i tempi del calvario, ma non di molto; - è da aprile che passo da un ospedale all’al¬ tro, voglio tornare a casa mia. Giulietta farà predi¬ sporre l’appartamento per le mie necessità e finché non sarà pronto mi ricovererò al Policlinico. Tanto qui non guarisco, e se non prendo io la decisione mi tirano avanti chissà ancora per quanto tempo! Mi costringono a stare in piedi come un robot, se man¬ tengo l’equilibrio per più di dieci secondi mi battono le mani, non puoi immaginare la stupidità: è tutto grottesco, umiliante, avvilente. E poi non ottengo nessun progresso: il braccio è completamente perdu¬ to e di quello non si parla più; ma anche la gamba, nonostante i massaggi, i fisioterapisti, le applicazioni elettriche... Per riuscire a eseguire un movimento de¬ vo compiere almeno venti esercizi assieme: stringi le chiappe, butta fuori lo stomaco, curva la colonna, porta avanti il braccio, alza la testa, spernacchia! E tutto per uno spostamento di mezzo millimetro. Non 179
ci credo a questi metodi, saranno buoni per altri ma non per me. A Roma prenderò un infermiere che mi segua, un bravo rieducatore, ma almeno agirò di te¬ sta mia, non come qui costretto a dormire quando ho fame, andare in palestra quando ho sonno, aspet¬ tare ogni volta un turno perché l’ospedale ha i suoi ritmi, le sue esigenze, di orari, di personale, di pro¬ grammi, di abitudini... Anche io ho i miei ritmi e mi sembra molto più importante che siano questi a esse¬ re rispettati, le esigenze del paziente che deve guarire! Il San Giorgio è un ospedaletto meno peggio di altri, anzi sono gentili, bravi, solleciti, entusiasti, ma non riesco più a starci, è durata anche troppo. Avevano detto un mese, quaranta giorni, e invece non si intra¬ vede proprio l’uscita. Comunque non voglio tediarti, ti chiamo appena arrivo e ci incontriamo subito. An¬ zi ti telefono dalla macchina, o prima di partire. Lhai incontrata la Valeri? Guarda che se vuoi veder¬ mi devi portarla con te, come un lasciapassare!” Neanche Else Jacobsen era riuscita a convincerlo a resistere, a provarci almeno, per qualche tempo ancora, una settimana, dieci giorni, finché i primi risultati non si fossero consolidati. Non esisteva argomento in grado di far breccia nella sua determinazione. Mi telefonava sconfortata: “Non reagisce più a nessun incoraggiamento.” Nel frattempo l’amicizia fra il regista e la dotto¬ ressa scandinava, quell’insolito connubio, quel fan¬ tasioso accostamento, evidentemente recava distur¬ bo. Sul conto della Jacobsen giungevano in ospedale anonime telefonate, ingiuriose, che gli infermieri non sapevano sviare. Nella segreteria telefonica Else aveva trovato un messaggio d’amore inciso con voce artefatta, un roz¬ zo tentativo di imitare la cadenza di Fellini. Montava un inquietante minaccia nei suoi confronti; un indi180
viduo era riuscito a farsela passare all’apparecchio spacciandosi per il cognato di Federico e l’aveva av¬ vertita con toni intimidatori: sarebbe stato più pru¬ dente per lei lasciare in pace il Maestro e soddisfare le fregole sui viali. Else aveva persino trovato biglietti minatori sul parabrezza dell’auto. Di chi poteva trattarsi? Che co¬ sa pretendevano di smascherare, e cosa si temeva da lei? Fellini intanto aveva predisposto l’addio a Ferrara in un ristorante di grido, con pranzo d’onore per tut¬ to il personale sanitario che l’aveva assistito in quella brutta avventura. Aveva voluto che fossero presenti al completo medici, infermieri, fisioterapiste; l’unica esclusa era stata Maria Veneria, l’infermiera di notte. Per quale ragione? La Jacobsen asseriva che Federico ne era spazientito, la trovava capricciosa. Maria Veneria era una donna pia e ardente, che non arrivava ai quarantanni. Aveva sostituito Adal¬ gisa, il pollo, e per quel che potevo giudicare, con sensibilità, efficienza, e savoir faire. Anche se da tempo avevo imparato che i contat¬ ti con un mago non sono mai innocenti, cosa fosse maturato fra loro mi risultava inafferrabile, un mez¬ zo segreto che non era mai diventato intero. Lusin¬ gata, accesa di ardore per l’opportunità di restare vicina a un personaggio tanto celebre e influente, as¬ setata lei stessa, forse oltre il lecito, dei circuiti men¬ tali surriscaldati di un genio. Maria Veneria una vol¬ ta che eravamo restati soli, a tarda sera, mi aveva confidato: “La notte non dormiamo mai. Ma tanto anch’io sono abituata a non riposare, recupero un paio d’ore durante il giorno, al ritorno dalla scuola, e mi ba¬ stano.” Svolgendo come principale professione l’insegna¬ mento, la pia donna si dedicava a quel compito di 181
assistenza più per spirito di carità che per denaro. E le era stato impossibile evitare di appressarsi a suo rischio alla bocca del vulcano, di affacciarsi sull’orlo del cratere ribollente. “Io lo ascolto di buon grado - continuava - per¬ ché lui per non soccombere all’angoscia parla, parla, mi confida vicende anche molto private, personali, che lo riguardano intimamente; non mi nasconde nulla. E certe volte mi sprona a stargli vicino, ha un tale bisogno del contatto fisico, del calore di un cor¬ po sano, da attrarmi in certe situazioni che io...” S’era interrotta. Comprendevo il suo riserbo, da donna di fede, ad avventurarsi in simili confidenze, ma intuivo anche il suo acuto desiderio di poterle condividere con me. Stavamo uno di fronte all’altro, in corridoio, a luci ormai spente, a parte le fioche lampade azzurrine di servizio, e riuscivo appena a scorgerle gli occhi trepidanti, umidi di tentazioni. “Fai quello che senti, - l’avevo quietata con un po’ di malafede, ricorrendo alla familiarità, all’auto¬ rità che si attendeva da me - la tua vocazione è quel¬ la di portare sollievo, è la tua missione, non è così?” In quella penombra da clausura lei aveva accen¬ nato di sì con la testa e io l’avevo abbracciata con riconoscenza. Però ero anche turbato, lo confesso, mi rimescolava; forse quel suo vago alone monacale, un certo qual gusto blasfemo... Se ne era accorta, senza ritrarsi, al contrario, vincendo il connaturato ritegno aveva schiacciato i seni generosi e pesanti contro di me, aderendo con tutto il suo corpo. Siamo rimasti avvinti a lungo, scambiandoci fre¬ miti impercettibili e improvvisi soprassalti - quanto acuti e sapienti, quanto allettanti! - e da quella brace era trapelato un profumo proibito: “Ho sempre paura che entri qualcuno, che possa¬ no sorprenderci” aveva sussurrato d’un fiato, sibilli¬ na, senza dunque negare. Era* avvampata di calore, 182
mi si trasmetteva come fuoco attraverso l’abito leg¬ gero, ancora estivo. “La dottoressa lo sa?” avevo provato a indagare. “Non certo da me, sei il primo a cui ne parlo.” “Dobbiamo rivederci” le avevo proposto. “Fuori di qui.” Non si trattava di uno stratagemma, posso assicu¬ rarti; nonostante tutto non ero certo di aver capito proprio bene, temevo di equivocare, di slittare con la fantasia troppo accesa in quel territorio incerto, ul¬ trasensibile, in cui Federico mi attraeva a tradimen¬ to, con episodi come quello, persuaso ormai di abi¬ tarne la pulsione, di costituire la sua componente fi¬ sica, il terminale indenne del suo desiderio. In risposta Maria Veneria mi aveva sfilato la pen¬ na dal taschino della camicia e tracciato in fretta sul¬ la mano il proprio numero di telefono. “Chiamami!” mi aveva sussurrato sfiorandomi la bocca con labbra di lava, ed era svanita come un’om¬ bra lieve dentro la stanza. Gli avvenimenti si erano poi susseguiti così in fretta da non consentirmi più di rivederla. A Roma, la ristampa dell’opera di Fellini mi tene¬ va ormai impegnato a tempo pieno: la scadenza della manifestazione newyorkese era imminente, e dal¬ l’America non ci avrebbero mai perdonato un ritar¬ do sul calendario delle proiezioni. Con Maria Veneria avevamo continuato a sentirci a distanza, sporadicamente, senza mai ritornare al cuore della questione. E infine Federico aveva lascia¬ to definitivamente Ferrara. L’unico mezzo di squarciare il velo sarebbe stato forse mettere gli occhi sugli appunti di Else, quelli che lei annotava accuratamente dopo ogni seduta con Fellini. Ma, scrupolosa com’era nella sua deon¬ tologia, la Jacobsen avrebbe mai acconsentito ad 183
aprire la porta segreta dell’arca? Ogni mio larvatissi¬ mo accenno si era infranto contro una calcolata ‘sor¬ dità’. Eppure ero certissimo che sarei stato in grado di decifrare più e meglio di lei gli enigmi che vi erano contenuti, e di rinvenire anche la traccia capace di condurmi all’essenza della mia ricerca.
184
Capitolo XI L’ultimo esilio
Nel pomeriggio di venerdì Fellini aveva finalmente attuato il trasferimento a Roma. La sua stanza al Policlinico Umberto I sembrava un accampamento. Federico era stato sistemato nella branda accanto alla finestra, nell’altra s’era offerto di dormire durante la notte Rinaldo, l’amico pittore, in mancanza di un infermiere personale al quale nes¬ suno aveva provveduto. Sul modesto tavolinetto di fòrmica appoggiato alla parete di fondo, campeg¬ giava sgargiante il fascio di rose rosse che la Masina gli aveva fatto trovare arrivando, pegno d’amore per ogni nuovo spostamento. Tra le foglie l’immancabile messaggio: La Tua Giulietta. Ma a parte questa unica nota gentile e struggente, l’accomodamento nel suo complesso comunicava un senso di desolazione. L’armadietto striminzito non riusciva neppure a contenere l’indispensabile corredo personale; borse, abiti, ricambi che non vi trovavano posto giacevano alla rinfusa sul pavimento, addosso al calorifero, ammonticchiati sulle sedie. Il tavolo era ingombro di cartocci, sacchetti di plastica, vaschette di alluminio per il cibo; il minuscolo comodino di metallo, con due piani a vista, uno sopra uno sotto, era affollato di bicchieri, medicine, acqua minerale, oggetti privati, blocchi da disegno, quaderni di ap¬ punti, la rubrichetta telefonica, gli occhiali, tutto confuso insieme. Ma Federico non ci faceva caso, era contento: tor¬ nato finalmente a Roma come voleva. Aveva ricono185
sciuto quella stanza come la stessa in cui era stato ri¬ coverato il fratello; e appena mi aveva visto me l’a¬ veva rivelato: “Lo sai Oscar? È in questa stanza che è morto Riccardino.” Come lo sapeva, da quali segni se ne era accorto? Non aveva dubbi che fosse la stessa e sul volto, nel comunicarmelo, gli era persino affiorato un sorriso stupefatto, di tenerezza e di mestizia, come per un rientro in famiglia. Una coincidenza quasi identica si era verificata a Rimini, per la stanza n. 1 del Reparto di Medicina. “È qui che è morta mia madre” fu la prima noti¬ zia che mi diede. I suoi lari sembravano aprirgli la strada nel regno delle ombre. Prima di essere condotto all’ospedale aveva otte¬ nuto di passare nel suo appartamento, in Via Margutta, con l’emozione intensa di riassaporare spazi, oggetti, geometrie familiari. Si era addirittura seduto al solito posto, sul divano, accanto al telefono e al¬ l’abat-jour, con a fianco il vassoio della posta; la po¬ sizione abituale delle nostre tante sedute di lavoro, lui regalmente avvolto nella vestaglia di velluto damascato donatagli dall’amico costumista, e io si¬ stemato di fronte, sulla poltrona a dondolo di panno rosso trapuntato, la Olivetti Lettera 32 appoggiata alle ginocchia. Ritrovava salutarmente l’abbraccio di casa da cui la malattia lo aveva esiliato da mesi. Dava l’impressione che la nuova condizione di emergenza non lo allarmasse più di tanto. O perlo¬ meno si sforzava di non darlo a vedere. Ma la notte Federico l’aveva trascorsa in ango¬ scia, con crisi violente di dispnea, soffocanti stati di ansia e depressione. “Come ne uscirò?” sussurrava senza pretendere risposta. Il suo rientro a Roma non era stato preparato, l’appartamento non era predi186
sposto per la sua grave emiplegia e non lo sarebbe stato tanto presto, nessuno aveva potuto occuparse¬ ne. Anche Giulietta stava precipitando dentro un gorgo senza ritorno. Ed era l’assillo che più lo oppri¬ meva: “Ho una pena per lei, vederla così provata a cau¬ sa mia!” Non sapeva, nel senso che nessuno glielo aveva ancora rivelato esplicitamente, che la sua compagna stava lottando come lui per la vita. Così Federico avrebbe dovuto soggiornare al Poli¬ clinico chissà quanto a lungo, e senza la disciplinata, fervorosa, inesausta assistenza su cui poteva contare a Ferrara. Un qualsiasi personaggio del Palazzo, in condizio¬ ni analoghe alle sue, sarebbe stato ospitato in una casa di cura principesca, avendo meritato per l’Italia certamente assai meno di lui. All’opposto, un genio indiscusso del nostro secolo età abbandonato alle cure frettolose di una struttura pubblica sovraccarica di lavoro, lasciato languire nella generale indifferenza dei potenti. Non mi sembrava giusto. Ho sempre fantasticato un Paese in cui un artista tanto straordinario possa venire onorato come il rappresentante più prestigio¬ so della nazione, accudito, coccolato, circondato di mille attenzioni alla stregua di un capo di stato. “Guarda nel comodino, ci sono degli appunti, mettili per favore nell’armadietto.” Nella stanza non c’era altro posto munito di una serratura, lontano da mani e da occhi rapaci; nessu¬ na riservatezza, nessuna protezione per gli ultimi frutti del suo pensiero. Si trattava di tre paginette fitte, riempite durante la notte, e ogni finale di riga si inclinava drammaticamente verso il basso, come se la carica si stesse esaurendo senza rimedio. Nella mano buona tratteneva ancora gli occhiali 187
da lettura, e così prima di riporre il blocco mi ero in¬ formato: “Vuoi riguardarli?” Si era limitato a far cenno di no con la testa ab¬ bandonata sul cuscino, privo dell’energia sufficiente a rialzarsi: “Quando viene Giulietta?” domandava. Else Jacobsen lo aveva di nuovo seguito a Roma in quel trasferimento troppo precipitoso e avventato. E sebbene dalla partenza all’arrivo ai successivi spo¬ stamenti mi avesse sempre tenuto meticolosamente informato di ogni movimento, la combinazione degli avvenimenti non ci aveva permesso di restare da soli fino alle dieci di sera. Nel suo stesso albergo alloggiava Raffaele, l’infer¬ miere inviato con lei da Ferrara, alla cui ‘custodia’ intendevamo entrambi sottrarci. Avevamo perciò, di proposito, disertato il ristorante prenotato per loro due da Fellini, rifugiandoci in un localino più ami¬ chevole e discreto. E dopo cena, entrambi in apprensione, ci era parso consigliabile passare al Policlinico. Alle undici e mezzo eravamo assolutamente gli unici ad aggirarci nel padiglione distaccato e poi nel reparto silenzioso e deserto. Sulla branda accanto a quella di Federico, più accosto alla porta, si era siste¬ mato, vinto dal sonno, l’amico Rinaldo. Così ap¬ paiati, distesi, immobili, componevano un’immagine per niente rincuorante: un presagio iettatorio, una visione funerea, obitoriale. Tuttavia il medico di guardia, con cui la Jacobsen si era consultata, aveva adoperato toni e argomenti rasserenanti. Lasciato l’ospedale, Else aveva disertato l’albergo per trascorrere la notte insieme, a casa mia. Ma la gigantessa buona e sapiente che giaceva nel mio letto, 188
non era per me, le sue proporzioni appartenevano più che mai a ‘lui’, simile alle tante Ippolite e Minerve e Bradamanti vagheggiate fin da bambino nei primi acerbi turbamenti. L’innegabile femminilità della dorata valchiria era quella delle statue di bronzo, del¬ le Naiadi delle fontane, le virtù patrie dei monumenti di piazza: quelle natiche a palla di cannone che lo scolaretto Federico ammirava ammaliato col naso in aria, come aveva mirabilmente favoleggiato in Roma, in Amarcord: muliebrità remote, scolpite nel marmo o nel granito, carne tornita in una commistione di bruciante lussuria e di inerte freddezza, di solidità e di lascivia, di rigidità e levigatezza, che, una volta ar¬ resa al piacere, prometteva prodigi di ribollente, ra¬ pinosa, nascosta delizia. I tanti connubi fra Ares e Afrodite, effigiati da pittori magniloquenti, Tiziano, Tiepolo, Poussin; le ninfe irraggiungibili del Bernini, del Giambologna, dell’Ammannati, le Polene, le Ca¬ riatidi, le semidee delle fonti e dei ninfei... Le formule alchemiche avviate a svanire mostra¬ vano per ora di resistere intatte. Di prima mattina Rinaldo, al telefono, mi aveva avvertito che Federico durante la notte aveva avuto una brutta crisi di ansia e dispnea. Ma quando sia¬ mo arrivati al Policlinico attraversando a gran velo¬ cità una Roma domenicale, scampanante, assolata e priva di traffico, Fellini si era ripreso del tutto. Anzi si stupiva della nostra apprensione. Else era in partenza, e aveva indugiato presso di lui fino all’ora di colazione, assicurandosi in qualità di medico accompagnatore che nel reparto nulla venisse trascurato per il benessere e la sicurezza del ‘suo’ paziente. In stazione ci stava aspettando Raffaele, l’aitante infermiere assegnato alla dottoressa, che dietro una maschera di civile impassibilità aveva tradito suo 189
malgrado il malumore con un sorriso sgradevolmen¬ te logoro ed eloquente. Nel primo pomeriggio ero tornato da Federico. Era solo, più solo di quanto l’avessi mai lasciato a Ferrara, in uno stato di sgomento che non bastavano le mie rassicurazioni a dissipare, né i saluti che gli portavo degli amici. “Come ne uscirò...?” non smetteva di domandarsi. Abbiamo continuato a ragionarne fino all’ora di cena. C’era un’ombra che lo aveva raggiunto come un sinistro presagio: l’incontro con Nannarella avve¬ nuto in corridoio mentre veniva ricondotto in came¬ ra da uno dei ripetuti controlli. Anna Magnani gli si era materializzata proprio davanti: “Ah Federi, e ce n’hai messo a arrivà!” l’aveva apostrofato come se lo stesse aspettando. E nell’atto di andarsene s’era rivoltata, con la sua risata roca: “Arrivederci, Federi!” “Non mi pare un buon segno!” commentava lui svirgolando le sopracciglia con espressione disarma¬ ta, nel tentativo di addomesticare quel fosco avverti¬ mento. Non riuscivo ad abituarmi all’idea di vederlo pri¬ gioniero di un corpo inservibile, confinato dentro quel disumano impedimento, mi pareva una grande ingiustizia. Dal mio balbettamento, Federico aveva trattenuto quell’unica parola, e la rifiutava: “Perché ingiustizia! Cosa c’entra?” negava infles¬ sibile, ostile a qualsiasi autocommiserazione. Accet¬ tava la contrarietà persino come stimolo creativo la sua irrinunciabile filosofia di vita - e nello stesso tempo rifiutava, allontanava da sé l’idea tenebrosa, arcigna, di un irreparabile rovescio del destino. All’ora di cena era sopraggiunta Giulietta circon¬ data dai parenti. Gli occhi le vagavano perduti e, 190
prendendola fra le braccia, mi ero impressionato alla sua mancanza di peso, un uccellino dalle ossa forate. Else mi aveva spedito, per espresso, una lettera contenente una seconda busta indirizzata a Federico. Si affidava a me, mi incaricava di consegnargliela di persona, di accertarmi che la leggesse. Purtroppo dovevo assolutamente assentarmi quel fine settimana. Prima di partire, in macchina, avevo tentato di raggiungere il Policlinico, ma non so quale manifestazione antigovernativa mi aveva più volte dirottato e alla fine mi ero incagliato in un ingorgo inestricabile. Una volta riemerso si era fatto ormai tardissimo e ostinarmi a dirigermi all’ospedale signi¬ ficava di fatto rinviare la partenza. L’avessi deciso! Così, senza incontrare Federico, senza consegnar¬ gli la lettera, avevo proseguito in direzione dell’auto¬ strada. Lui mi aveva chiamato sul telefonino. “Ho una lettera di Else per te” m’ero affrettato a informarlo. “Quando me la porti?” “Adesso sto partendo, ma ritorno domenica stes¬ sa e passo direttamente al Policlinico.” C’era stata una sospensione nella voce, un vuoto che ancora mi scava nel petto. “Va bene, ci vediamo domenica” aveva concluso di colpo, secondo il suo solito, impaziente e deluso. DISPERSO DEI DISPERSI.
Non ci saremmo rivisti più. Non gli avrei recapi¬ tata la lettera, né l’avrei letta con lui. Ed era uno struggente messaggio d’amore. Al mio rientro a Roma, domenica notte, Federico era già stato ricoverato nel reparto di rianimazione. La crisi era sopraggiunta alle sei e mezzo del po¬ meriggio, durante la cena: un boccone di mozzarella, all’apparenza, l’aveva soffocato ostruendogli la gola. Almeno così era stata descritta la sua convulsione di 191
asfissia da chi lo accudiva in quel momento. Non aveva impiegato molto tempo a uscire di conoscen¬ za, e c’erano voluti tredici minuti prima che un me¬ dico rianimatore comparisse nella sua stanza. Una sentenza di morte. Solo poche ore prima, a mezzogiorno, si era reca¬ to a pranzo con Giulietta in un ristorante di Porta Pia, in compagnia del direttore di produzione e di un infermiere, due uomini prestanti, capaci, insieme, di provvedere al suo complicato trasporto. Giulietta, provatissima, indossava il turbante amaranto con cui nascondeva la calvizie e Federico aveva misurato, forse per la prima volta con agghiacciante consape¬ volezza, l’estrema gravità delle conseguenze: nelle condizioni in cui versava, cosa sarebbe stato di lui senza Giulietta? Dopo pranzo aveva voluto essere accompagnato al nuovo ufficio che il fedele Rinaldo gli aveva pro¬ curato a una sola rampa di scale dal proprio studio, nello stesso palazzetto di Via Capo le Case. A distan¬ za di cinquantanni i due amici si sarebbero ritrovati di nuovo insieme come agli inizi, a pasticciare con i colori e le tele. Aveva trascorso quel pomeriggio di domenica ad annusare i luoghi della sua nuova vita. Poi il direttore di produzione, con la sua spaziosa monovolume, l’aveva ricondotto in ospedale. Alle sei era stata servita la cena, una minestrina, una mozza¬ rella, il contorno. Federico desinava seduto sul letto, con i cuscini dietro la schiena, assistito dal segretario personale sopraggiunto casualmente in visita, unica presenza nella stanza. A metà di un boccone aveva strabuzzato gli occhi e l’improvvisa, inaudita violen¬ za della crisi l’aveva proiettato, semiparalizzato co¬ m’era, fin quasi ai piedi della branda. Si stava stran¬ golando. Il medico di guardia, una giovanissima dot¬ toressa fresca di laurea arrampicata sui tacchi a spil¬ lo, non aveva saputo, o potuto, intervenire con tem192
pestività e Federico aveva perso coscienza. Lo specia¬ lista rianimatore, non previsto nel reparto, era stato convocato d’urgenza da un padiglione distaccato del Policlinico e aveva impiegato un quarto d’ora ad ar¬ rivare (“tredici minuti” precisava puntigliosa, nei giorni seguenti, la direzione sanitaria del nosocomio, con l’unico risultato di ufficializzare la propria grave responsabilità). Non era più possibile intervenire, la lunga ipossia aveva già creato danni irreparabili e il malato, in fin di vita, era stato avviato in cella di ria¬ nimazione. Tuttavia, sottoposto a massaggio cardia¬ co e allacciato al polmone artificiale, Federico aveva continuato a respirare e il suo cuore non aveva mai cessato di battere. Alle otto di mattina di lunedì il notiziario televi¬ deo accennava a un improvviso aggravamento del paziente senza fornire ulteriori dettagli. Le informa¬ zioni giungevano frammentarie da amici giornalisti, e tanti chiamavano me per raccogliere ragguagli, aggiornamenti, speranze. Cosa potevo saperne?! Nella notte fra lunedì e martedì mi ero svegliato di soprassalto, mancavano cinque minuti alle cinque, avevo udito la voce di Federico che mi chiamava per nome ed ero sicuro, a quel punto, che fosse decedu¬ to. Mi ero alzato, avevo acceso di nuovo il televideo, ma senza trovare conferma al mio presentimento: la situazione non era precipitata, permaneva staziona¬ ria e gravissima, identica alla sera prima. Ho appreso soltanto in seguito che durante la notte l’elettroencefalogramma aveva smesso di invia¬ re segnali di attività cerebrale. Fellini era clinicamente morto, anche se, collegato al polmone d’acciaio, perdurava in stato di coma e il suo organismo gli stava sopravvivendo. Per quanto tempo? Qualche ora, qualche giorno? Al Policlinico erano accorsi quasi tutti i collabo193
ratori e gli amici più intimi. Con loro avevo trascor¬ so l’intera giornata. Fuori si erano affollati i pullman delle televisioni e al calar della notte i cineoperatori, con le camere già in postazione, avevano acceso le lampade a scari¬ ca, potenti proiettori a luce bianca puntati sui muri esterni del padiglione. Fra le colonne neoclassiche dell’ingresso a tem¬ pietto si era formato il bivacco dei giornalisti di sen¬ tinella a ogni minima notizia, a ogni soffiata e indi¬ screzione; scrutavano nei nuovi arrivati i potenziali, preziosi informatori, si rimbalzavano a bassa voce i nomi di ogni visitatore. Erano quasi tutte ragazze, assunte da poco in cronaca, molto scrupolose e per niente competitive. Avrebbero sfigurato in una storia alla Billy Wilder del genere L’asso nella manica. Nella cella di Federico era drasticamente proibito entrare. Avevamo provato a suonare al citofono del reparto, chiuso in fondo al corridoio da una porta a vetri opachi. Ma prima un poliziotto in borghese e poi un giovane medico in camice verde ci avevano impedito 1 accesso. Nessuno aveva il permesso di visitare il paziente, meno che mai i non familiari: erano state impartite disposizioni tassative. Il medico di turno non si era lasciato impietosire dai nostri accenti tormentati: “Domani Fellini starà come oggi” ci aveva liqui¬ dato con assoluta sicumera. Il giorno dopo all’ora delle visite, fra le tre e le quattro del pomeriggio, il professor Saraceni avrebbe deciso chi lasciar passare. Fuori dei cancelli, lungo tutta l’inferriata dell’Um¬ berto I, si eia sgranata una folla via via più consi¬ stente, in attesa dell’evento ritenuto imminente. Nei confronti di Federico, tuttavia, i mass media e di conseguenza il pubblico (chi dei due determina 194
l’atteggiamento dell’altro?) si disponevano fiduciosi al miracolo. Confermando la mia teoria: che Federi¬ co era un santo, una specie di martire - cioè un testi¬ mone, un ispiratore di vocazioni - in cui riconoscer¬ si. Attraverso la sua opera aveva testimoniato per ognuno di noi, individualmente; era il dono peculiare della sua arte, e anche il suo carisma, come in seguito avrebbe affermato un Principe della Chiesa, comme¬ morandolo nella dotta omelia ispirata a San Paolo. I santi vengono ricordati dai devoti per i loro interventi soprannaturali, i prodigi di Fellini sono le sue storie cinematografiche. Chi vi assiste può rinve¬ nire la scintilla con cui sciogliere e superare gli im¬ pedimenti della vita, radunare le facoltà disperse o ignorate, trovare la via giusta da seguire. La poesia sul piano della metafisica non è meno salvifica o li¬ beratoria della religione. L’eccesso di creatività che si concretizza in un evento portentoso può manifestarsi nel miracolo di fede o nell’opera d’arte, elargendo benefici non dissimili. Fellini col suo genio ha saputo interpretare il cuore e la mente di tanti uomini, in ogni parte del mondo, parlando una lingua che oltre¬ passa le culture, donando a tutti la consapevolezza e la consolazione di essere meno soli, meno incompre¬ si, meno giudicati. Era questa la spiegazione - si esalta Rinaldi - di tutta quell’elettricità che serpeggiava nell’aria, l’ac¬ correre di tanta folla, il disorientamento diffuso, l’accampamento spontaneo intorno alle mura di cin¬ ta, l’istantaneo acquartieramento di giornalisti e fo¬ toreporter, l’ondeggiare di facce così obbedienti alla sua regia occulta, quella sequenza già vista e assimi¬ lata in più di un suo film, he notti di Cabiria, ha dolce vita, ha voce della luna: quale sarebbe stato il prossimo titolo? II giorno dopo al Policlinico avevo rivisto Elena, 195
elegante e macerata, ossessionata da un’idea: consen¬ tire a Federico di ascoltare, tramite un auricolare, le musica di Nino Rota. L’espediente più diretto, imme¬ diato, di raggiungere il suo cuore e il suo cervello, di condurlo ad avvertire la nostra presenza, riattivare un contatto, una comunicazione, forse una speranza. Elena contava di utilizzare un’audiocassetta che lo stesso Fellini aveva regalato a suo figlio ed era cer¬ ta che nel coma, come altre volte era capitato, i motivetti familiari potessero farsi strada, penetrare nelle crepe di quel muro buio, arrivare faticosamente a produrre un bagliore, gettare una sonda, un salva¬ gente. Naturalmente ero d’accordo, ma purtroppo i medici si erano opposti. Anche per tale iniziativa bi¬ sognava affidarsi a Saraceni, diventato il filtro più autorevole fra il malato e il mondo esterno. Ma Sa¬ raceni, pur atteso da un momento all’altro, conti¬ nuava a tardare. Fuori della porta del reparto di rianimazione, mi¬ metizzata fra la piccola folla in attesa, avevo incon¬ trato Gherta Blumen, la moglie di un editore di Fel¬ lini. Alta, filiforme, biondocenere, abbigliata di nero, stava impalata contro la parete, quasi a sostenersene, e il sorriso si accendeva a fatica nel viso scavato, gli occhi, lustri e smarriti, da cerbiatto braccato. In pre¬ da a una specie di ottundimento aveva preso il primo aereo da Berlino ed era volata a Roma senza avverti¬ re nessuno, neppure il marito. Anche lei con la spe¬ ranza di commuovere i medici di guardia e restare qualche istante accanto a Federico. Ma nessun argo¬ mento era servito allo scopo: il divieto da parte della famiglia rimaneva inappellabile. Anche l’esperimento della musicassetta era stato infine scartato dall’équipe medica del professor Braschi: ritenevano che uno stimolo uditivo avrebbe potuto scatenare una crisi epilettica fatale. Intanto, da quattro giorni ormai, Fellini giaceva in 196
un tubo, allacciato al polmone artificiale e senza nes¬ sun contatto con l’esterno: DISPERSO DEI DISPERSI. Nessuno di noi si allontanava più dall’ospedale, con l’illusione che la nostra vicinanza, per onde elet¬ tromagnetiche, per un invisibile increspamento del¬ l’aria, per pulsazioni cardiache, per sconosciute riso¬ nanze, potesse arrivargli di un qualche conforto. Nel gruppo, la presenza delle donne che lo ama¬ vano costituiva la porzione maggiore. Una specie di ‘coro’ che si precisava ogni giorno più nitidamente. Angelica, una giovane attrice greca, da quella funesta domenica non faceva che telefonarmi da Atene; e una mattina mi aveva svegliato di buon’ora, incapace di trattenersi: aveva deciso di partire per Roma, sarebbe arrivata il pomeriggio stesso. A esacerbare gli animi era intervenuto anche uno scandalo sciagurato, di rivoltante cinismo. Sul televi¬ deo la notizia era apparsa alle 1.10 di notte di saba¬ to 23 ottobre: FELLINI SITUAZIONE SEMPRE DISPERATA
Fa discutere la diffusione di una foto di Fellini in agonia: l’episodio di sciacallaggio è stato denunciato dal prof. Saraceni, medico del regista. Il ministro della Sanità e la direzione del Policlinico hanno avviato un inchiesta sul¬ l’accaduto. Giulietta Masina, moglie del Maestro, ha rin¬ graziato calorosamente i giornali che non hanno pubblica¬ to quella foto. Qualcuno era penetrato nella cella asettica di Fel¬ lini e l’aveva fotografato rimuovendo il bendaggio che serviva ad assicurare l’indispensabile umidità ai bulbi oculari, e abbassando il lenzuolo sul busto. Il ricoverato in coma era stato messo in posa e il suo povero corpo privo di difese esposto all’obiettivo per essere ceduto al miglior offerente. Un’azione abbiet¬ ta, che non avrebbe potuto essere compiuta senza la 197
complicità del reparto, la compiacenza del personale sanitario, la colpevole distrazione di tutti i responsa¬ bili gerarchici. L’avevano venduto. Con spontanea, compatta decisione, tutti i gior¬ nali italiani si erano rifiutati di divulgare l’immagine impietosa, di aderire a quell’immondo sciacallaggio. La RAI non l’aveva divulgata nei suoi telegiornali. Era stata la televisione svizzera a trasmetterla per prima. E, a ruota, i notiziari di Canale 5 e Retequattro. Chi l’aveva vista aveva provato un insopportabi¬ le senso di raccapriccio: Federico scheletrito, consunto, il grosso torace irriconoscibilmente sparuto. Una maschera atroce: ecce homo! Il devoto cronista del TG confidava agli amici: “Un’immagine che non si dimentica più.” Personalmente ferito e indignato contro il tycoon delle televisioni commerciali, aveva deciso di monta¬ re precipitosamente e trasmettere la sera stessa un collage di interviste in cui Fellini, indietro nel tempo, tratteggiava giudizi già allarmanti del suo poco nobi¬ le avversario. Angelica non era tornata sulle sue decisioni. Sotto una pioggia torrenziale, la sera stessa era atterrata a Fiumicino. Mi aveva telefonato dall’aeroporto ed ero corso a incontrarla a casa dell’amica di cui era ospi¬ te, un anziana cantante lirica di origine russa. La giovane attrice era perfino più attraente di co¬ me la ricordavo, e d’un tratto provavo l’impressione di non aver fatto altro che aspettarla per tutto il tem¬ po in cui non ci eravamo più rivisti: noi tre, voglio dire, lei, io e Federico. Alla nostra presenza l’attempata soprano indulge¬ va alla nostalgia, aveva riesumato vecchi dischi delle sue esecuzioni e li riascoltava estatica, sprofondata in poltrona a occhi semichiusi. 198
Nella pagina da romanzo russo in cui eravamo precipitati, in presenza di quella incantevole mezza¬ na esperta di vita e di amori, non era difficile lasciar¬ si stordire dalla maliosa avvenenza di Angelica. Lei, nonostante il tempo così inclemente, pretendeva as¬ solutamente di uscire e correre al Policlinico; s’era infilata uno spolverino corto, color panna, morbido e panneggiato, direttamente sopra la camicetta che non riusciva a rimanere abbottonata sui seni incan¬ tatori (quanto li aveva magnificati Federico!). E ci eravamo tuffati insieme nella notte. Lungo il corridoio deserto dell’ospedale non re¬ stava più anima viva, soltanto noi due a trattenere il respiro davanti al vetro illuminato che ci separava dal reparto proibito. Angelica aveva portato con sé e stringeva fra le mani come un’offerta votiva, la lette¬ ra d’amore che per mancanza di coraggio non aveva mai spedito dalla Grecia. Le proporzioni del suo corpo erano quelle cele¬ brate dagli immortali plasmatori di dee, Lisippo, Prassitele, Fidia. La gran massa di capelli castani che le scendeva sulle spalle ampie, quei seni esuberanti oltre la più golosa fantasia, le cosce potenti, i glutei scolpiti nelle movenze flessuose: una vera apparizio¬ ne, una abitatrice dell’Olimpo. Non era Federico ad attrarla sul suo palcoscenico, a chiedermi di recitare al suo posto? Non ti meravigliare dell’assurdità delle mie affer¬ mazioni, ti assicuro che Angelica per prima ne era consapevole. “Tu pensi tutte queste cose di me?” rideva incre¬ dula più tardi, rivolgendo nel letto il suo corpo fata¬ to. Radunava e stringeva i seni fra le braccia, per far¬ li tracimare: bianchi, vellutati, rigonfi come meringhe di zucchero e panna. Ci tuffavo in mezzo il viso, mi facevo strada baciando, mordendo, leccando, mentre lei ripeteva stupefatta: 199
“Sei matto! Sei peggio di lui!” Era così torbidamente attratta dal suo gioco, dal¬ l’arcano scambio di persone che si inseguivano sul suo corpo sontuoso, che aveva preteso di percorrere, in ogni piega riposta e impalpabile, quella traccia evanescente che l’aveva condotta di nuovo fino a me e Federico; i contorni delle indecifrabili presenze femminili che pure aleggiavano diafane attorno a noi due, nella stanza buia, sfiorandole la pelle di incon¬ fessabili brividi sensuali. E aveva aggiunto in un tre¬ mito ghiotto e geloso: “M’ero dimenticata quanto porco tu sei!” Il tepore del sole scaldava la pelle in un palpito ar¬ tificiale di primavera. E anche la trasparenza del¬ l’aria non era diversa; i colori del Campidoglio, di fronte a noi, completavano l’inganno nel verde bril¬ lante della collina, nelle scalinate inondate di luce. Come non sospettare che dietro quel sorprenden¬ te illusionismo si celasse il suo tòcco leggero? Che Federico si stesse divertendo e non accennasse a vo¬ ler smettere tanto presto? Con Angelica trascorrevamo buona parte del po¬ meriggio in Ospedale, confusi agli altri amici sulle panche del corridoio; e la sera, per tacito accordo, ci lasciavamo divorare dalla febbre terzana, compulsiva. L’attrice di razza si abbandonava volentieri all’in¬ nato narcisismo: davanti alla mia telecamera portati¬ le lasciava esplodere l’esuberanza delle forme, i seni prodigiosi con cui accecava l’obiettivo. Con quello sfoggio di panna fra le mani, si stendeva sul divano offrendosi in pose lascive, da pin-up. Tenendo l’oc¬ chio al mirino, stringevo lo zoom fino ai dettagli più intimi e lei si fissava eccitata sullo schermo, incapace di staccare lo sguardo, illanguidendosi in una sma¬ niosa dissolutezza. Di fronte alla lente impassibile della videocamera avevamo anche fatto l’amore av200
viluppati sulle poltrone, o in piedi, e con l’avanzare della notte avevamo protratto i nostri intrecci con¬ vulsi nel più ospitale letto a due piazze. L’anziana cantante d’opera aveva ormai rinuncia¬ to a reclamare accanto a sé la giovane ospite greca con cui rinverdire le glorie degli anni di fuoco, sma¬ teriati dal tempo. Nei giorni successivi era tornata Else Jacobsen. Contavamo molto su di lei, neuroioga stimata e per giunta straniera, per sottrarre Federico al cordone sanitario che lo rendeva inavvicinabile dall’esterno. Al Policlinico, scortata da Mario Saraceni, la Ja¬ cobsen aveva potuto superare senza problemi la so¬ glia interdetta del reparto di rianimazione. Un’ora e mezzo dopo era ricomparsa col volto teso e smarri¬ to. Aveva visto Federico, aveva potuto confrontarsi con i colleghi: lo stato generale del degente sembrava non consentisse altri atteggiamenti da quelli che era¬ no stati adottati, cioè di estrema cautela. Ne coglievo l’incertezza: sbilanciata, combattuta, ma infine anche lei emotivamente incline, come tutti noi, a sperimentare qualsiasi espediente in grado di al¬ leviare lo stato di annullamento, di dispersione in cui Federico era precipitato dall’insorgere dell’ictus e che si stava tragicamente adempiendo sotto i nostri occhi. Nei pochi istanti in cui era rimasta sola con lui, Else aveva potuto percepirne l’incolmabile lontanan¬ za, ed era riuscita a trasferirci, più con gli occhi che con le parole, lo sgomento di quell’incontro. Per il resto, il suo quadro clinico non si scostava da quello ufficiale; uno scenario di assoluta instabilità in cui qualsiasi intervento avrebbe potuto compromettere il tenue equilibrio che teneva il suo organismo attacca¬ to alla vita. La domenica pioveva di nuovo a rovesci e per raggiungere l’ospedale ci eravamo zuppati dalla testa 201
ai piedi. Neanche l’ombrello era servito a ripararci, scrollato dal nubifragio. Else aveva appuntamento col professor Saraceni, e questa volta sarebbe rimasta con Federico a tu per tu, loro due da soli; immaginavo che avrebbe final¬ mente provato a sussurrargli le parole che per lettera non gli erano mai giunte. Durante il pomeriggio, un accavallarsi di ore con¬ vulse e affannate, Elena, la morbida, sinuosa, vibran¬ te Elena dal viso teso e scavato, quasi febbricitante... Il discorso si arresta esitante; Oscar, incrociando il mio sguardo, avverte la necessità di accompagnare con una spiegazione quella scelta di tono che potreb¬ be arrivare persino a me, suo complice dichiarato, l’indulgere compiaciuto a un decadentismo di ma¬ niera: “Uso queste espressioni perché so che tu puoi capire; non si tratta di rozza indiscrezione, né di tri¬ viale ricerca di colore; la ragione vera è che tramite il suo comportamento ero finalmente giunto a intuire, una volta per tutte, quello che stava accadendo. Per merito di Elena, stavamo arrivando al dunque.”
202
Capitolo XII L’oracolo
Mi viene istintivo - si giustifica Rinaldi - adeguare l’intonazione all’impalpabile corrispondenza amoro¬ sa di Elena - non saprei come altro definirla riten¬ go si adatti meglio, come un profumo un po’ fané, alla sua eleganza, allo charme da signora altolocata, al suo impermeabile frusciante, alla banana di capelli biondi sulla nuca, alle delicate mani inanellate, e a quel riverbero di fiamma che pareva consumarla ine¬ sorabilmente. Ogni valutazione di merito, del resto, oltre che inutile, sarebbe volgare e fuori posto. Voglio dire che quanto stava accadendo apparte¬ neva alla sfera degli inganni sensoriali a cui affidarsi con la sola certezza dell’illusione. Assidua al pari di tutti noi, Elena non era mai mancata durante quei lunghi pomeriggi di attesa, e spesso anche la sera e la notte, sostando fino a molto tardi. Suggeriva l’impressione di non aver mai inter¬ rotto la comunicazione sotterranea con Federico, e qualsiasi cosa facesse si avvertiva che una parte era assente, come risucchiata in un’altra dimensione, ol¬ tre quella porta invalicabile. Non essendole permes¬ so di vederlo, di toccarlo, ma avvertendone costantemente il richiamo, era ricorsa all’espediente della musica, giungere fino a lui per mezzo di Nino Rota, tramite il nastro inciso che egli stesso le aveva rega¬ lato. Forse Federico, ascoltandone le note, l’avrebbe accolta accanto a sé, avrebbe saputo che era lei a in¬ viargliele. 203
Quando ti capiterà di esaminare i disegni che ti ho menzionato, rimarrai stordito anche tu - ribadi¬ sce Oscar - dalla concentrazione di sensualità che promanano; parlo proprio di eros, di quella passione che ti permette di scomparire, con i sensi e con l’ani¬ ma, dentro l’essere amato. Fra i disegni dell’ultimo periodo li trovo forse i più drammatici e affascinanti: esuberanti, coloratissimi, urlati, sembrano cantici di vita rivolti alla donna, al suo corpo, al suo sesso, alla inesauribile facoltà che lei possiede di renderci felici o di annientarci. Solo avendoli davanti agli occhi potresti afferrarne la straripante tensione, lo scontro arcaico che promanano e la profonda, sublime carica di gioco e di dolore che mi affanno tanto ad esaltarti. All’Umberto I Elena costituiva una presenza irra¬ diante, emanava da lei l’alone di un’investitura, da sacerdotessa del culto. In certi momenti mi è capitato perfino di concepire l’assurda idea che se fosse riu¬ scita a penetrare nella cella isolata di Federico, l’a¬ vrebbe fatto risorgere, come nei miracoli. Del resto la vita, la morte, non appartengono a un unico flus¬ so, un’unica corrente di energia; e dove altro risiede la prima fonte, cioè l’origine della vita stessa, se non nel grembo della donna? Non è sempre lei, la donna, che è stata chiamata salvatrice? Non è per mezzo del ventre di una donna che Dio si è incarnato? Considera soltanto - sottolinea Rinaldi - la lita¬ nia di attributi riferiti alla Madonna: Porta del cielo, Salute degli infermi, Torre eburnea... Nessun uomo ha mai assommato una tale concentrazione di virtù medianiche. Elena, donna e amante, quel pomeriggio trasmet¬ teva l’impressione di abitare al centro di un poten¬ te circuito magnetico, attraversata dall’alta tensione. Nei suoi occhi era lecito scorgere persino un legge¬ rissimo stato di trance; impossibile non avvertirne la 204
carica, non subirne l’influenza. Bastava la sua vici¬ nanza. All’ingresso del padiglione, fra il vestibolo e il corridoio, si apriva una specie di piccolo chiostro in¬ terno, un peristilio di colonne intorno a un esiguo spazio erboso con al centro il busto bronzeo di Laz¬ zaro Spallanzani. In quella zona di passaggio non so¬ stava quasi mai nessuno, i cronisti avevano requisito l’atrio esterno; i visitatori, a seconda delle ore, si rag¬ gruppavano in capannelli o si distribuivano lungo la navata. A ridosso della piccola costruzione a chiostro ci eravamo intenzionalmente appartati; io con la schie¬ na alla balaustra traforata, e lei di fronte a me, irre¬ soluta. L’avevo attratta perché si accostasse, e avevo sentito il suo corpo adattarsi al mio con quella cede¬ volezza speciale che alcune donne possiedono conna¬ turata, una attitudine seduttiva a flettersi, offrirsi e accogliere nello stesso tempo; i suoi seni, premuti al mio torace, mi trasferivano quel calore inconfondibi¬ le che rende inermi. Aveva abbassate le palpebre e il suo volto scarno, scavato, cercando rifugio sulla spalla, era quasi trascolorato. Incuranti delle rare persone che, passando, sbirciavano sorprese, o incu¬ riosite, ci eravamo intimamente compenetrati. Se¬ pararci? Interrompere quell’intreccio sconveniente? Ce ne mancava la volontà. E una volta tornati in corridoio, mimetizzati fra la folla anonima, quasi ubbidendo a una spinta occulta che non ci consenti¬ va di rimanere divisi, ci siamo ricongiunti davanti alla soglia proibita, la porta inviolabile. Senza più alcuna prudenza, Elena aveva di nuovo fuso il suo corpo al mio. Il desiderio agiva per noi, guidava ogni gesto: in preda alla medesima irrazionale, incalzante bramosia provata quel giorno d’estate a Rimini, ave¬ vo denudato i suoi seni dalle volute di seta. Appropriarmene, palparli: che avidità! Quello che 205
non avevo avuto il coraggio di provocare allora, lo attuavo adesso, in quel luogo pubblico, a rischio di uno scandalo. Avevo annaspato su quelle nuvole ri¬ gonfie e soffici, due colombe appena estenuate e per questo ancora più attraenti, più inermi, più svelate! Era un’insania la mia, me ne rendevo conto, una foia sconosciuta! E quanto voluttuosa! Federico era a un passo da noi, oltre la porta che stavamo virtual¬ mente attraversando: il corpo di Elena ardeva così intensamente da irradiare fino a lui. L’avevo girata verso la luce opalescente di quei vetri, l’avevo ag¬ guantata alle spalle e me l’ero premuta contro; la gonna stretta e scivolosa era risalita facilmente sul raso del reggicalze, e lei s’era contorta sinuosamente alle mie intrusioni, ne subiva, annaspando, l’indugio tormentoso. Com’era possibile che in quel momento nessuno più passasse, che la porta non si aprisse, che dal cor¬ ridoio centrale neanche più una sola persona si spin¬ gesse oltre il gomito di muro dietro al quale ci erava¬ mo riparati? Medici, infermieri, vigilanti, tutti spariti?! Un in¬ cantesimo? In quel vano di luce incerta, in quel limbo silen¬ zioso, solo noi due, divorati dall’oscura pulsione, dai sensi esplosi. Elena era talmente tesa ed eccitata che il viso s’era tramutato in cera, ancora più affilato, soggiogato da un dolore intensissimo e da una lussu¬ ria lacerante: il sembiante di una medium. Anch’io, come lei, agivo immerso dentro quel tur¬ bine potente, privato di ogni lucidità. Mi ero impos¬ sessato dei suoi seni che palpeggiavo esposti come in un’offerta, straripati, e intanto arpeggiavo febbrile fra le pieghe di carne viva che avevo denudato sco¬ stando la seta. Arresa, snervata, tenendo gli occhi serrati, aveva sussurrato con un filo di fiato: “Hai le stesse sue mani!” 206
Colava lava da lei, un magma bruciante che in breve l’aveva travolta. L’avevo penetrata come si trovava, in piedi con¬ tro il muro. Le sue mani mi percorrevano il volto, gli occhi: “Federico, tesoro mio, mi senti?” Una danza di fosfeni abbaglianti, e il prodigio s’era consumato; nel tempo indefinito in cui il mago aveva sospeso la vita intorno a noi. Poi quel vento amoroso era vorticato via, la vita era rifluita, la dimensione del quotidiano aveva ritro¬ vato il suo corso; e, sciolto l’incantesimo, quel no¬ stro limbo protetto era ritornato l’anticamera di ani¬ me inquiete che sempre era stato. Elena, con le sue eleganti dita inanellate, aveva riavvolto sulla nuca i sottili capelli biondi mollemen¬ te scomposti. Else era stata ammessa a visitare una seconda vol¬ ta Federico. Gli aveva finalmente parlato da sola, sus¬ surrato alle orecchie le parole che non aveva potuto confidargli, le stesse scritte con calligrafia incerta e in¬ fantile nella lettera che io non avevo mai consegnato. Appena la neuroioga era riapparsa dalla capsula in cui Fellini veniva tenuto artificialmente in vita, avevo cercato di spiare la verità nei suoi occhi. “Sta bene, anche meglio di ieri - aveva mormora¬ to. - Reagisce alle sensazioni di dolore persino con gli arti offesi dall’ictus, una risposta imprevista.” “E i medici?” “Sembrano disorientati. Federico non cessa di sorprenderli: la pupilla si restringe se viene sottopo¬ sta allo stimolo di luce, gli strumenti registrano an¬ cora attività nervosa.” Raccontava che Fellini agitava incessantemente la lingua fra le labbra dischiuse, come per un parlare instancabile, o un atto di suzione. 207
Mi illudevo di afferrarne l’arcano, la realtà che diventa espressione - verbo - e s’invera. Era stato il loro ultimo incontro. Nel primo po¬ meriggio la Jacobsen era ripartita. Recava con sé i fascicoli di una rivista di fumetti che nei mesi prece¬ denti aveva pubblicato un bel numero di sogni di Fellini: disegni autografi per la prima volta riprodot¬ ti dal librone inaccessibile, e impreziositi da com¬ menti appositamente composti da lui. La borsa a mano, con quel carico di carta patinata, era divenuta pesantissima e le ingobbiva la spalla da atleta mentre risaliva il binario verso la sua carrozza. Sulla piat¬ taforma dell’Intercity, mentre i ferrovieri richiudeva¬ no le porte, aveva scosso la testa rifugiandosi nel suo sorriso disarmato: “Non capisco perché riparto; tornare al San Gior¬ gio, adesso che non c’è lui, mi sembra non abbia più senso.” Insieme ad Angelica e altri amici avevamo cenato quella sera in un fumoso e affollatissimo ristorante cinese. Elettrica, inquieta, l’attrice aveva di nuovo diser¬ tato la compagnia della cantante russa, per non ri¬ nunciare a condividere con me il sentimento dilania¬ to e controverso a cui non sapeva opporre che una inutile e sterile resistenza. Durante la notte il suo corpo da semidea aveva fatto l’amore quasi separato da lei, fra spasimi furio¬ si, sconvolgenti annaspamenti, come caduto in balia di un filtro stregonesco, un sortilegio; i seni debor¬ danti (erano il suo complesso e il suo orgoglio) mi avviluppavano e comprimevano fino a togliermi il respiro, voleva soffocarmi mentre veniva squassata da un godimento convulso e frenetico. Stava assapo¬ rando la voluttà inconsueta, il gusto arido e amaro, di sdoppiarsi, di godere con i sensi e non con l’ani208
ma, soggiacendo a una colpevole debolezza, a una torbida, viziosa depravazione. La mattina successiva, il sole sfolgorante nel cielo terso aveva circondato Angelica con i colori della sua terra d’origine, allestito attorno a lei la cornice più ap¬ propriata ad esaltarne la figura prorompente e la na¬ turale luminosità; la massa dei capelli scuri e risplen¬ denti, le forme esuberanti e curvilinee del corpo, gli occhi oblunghi e verdi, tagliati verso le tempie, le con¬ ferivano l’impronta araldica delle stirpi regali, sugge¬ rivano la sfuggente malia delle vergini del Partenone. Al Policlinico l’assedio dei giornalisti si stringeva; dall’atrio esterno la schiera ingrossata si era trasferi¬ ta al chiostro interno, e da quello, col passare delle ore, direttamente al corridoio dei visitatori. Federico si era aggravato. L’Aedo dei cronisti, fra i primi a telefonare a ini¬ zio mattinata, insisteva protettivamente perché collaborassi alla stesura dell’orazione funebre. C’era una certa ansietà nella sua voce pastosa; a lui, all’amico romagnolo dalla facondia inimitabile, che sapeva eloquire ore rotundo con forbitezza e commozione, il sindaco di Rimini e la stessa Maria Maddalena, so¬ rella di Federico, avevano ripetutamente sollecitato la commemorazione nella città natale, all’Arengario, quando la salma, dopo i funerali di Roma, avrebbe ricevuto un secondo addio sull’Adriatico. Come di rito, i solerti cerimonieri precorrevano l’evento. Mi difendevo, deciso a sottrarmi alla corrosività dell’invito, non avrei mai saputo argomentare su Fe¬ derico le frasi di compunzione appropriate a un mor¬ to; congedarmi da lui prima dell’ora: significava ne¬ gare ogni speranza! Durante la notte che seguì, all’improvviso ero tra¬ salito al richiamo della sua voce, mi ero ridestato con un rivolo di gelo lungo la spina dorsale. La mo209
dulazione del suono, il timbro, ricordavano piuttosto quello di una donna anziana, forse addirittura di mia madre; ma era lui che si lamentava: “Sai, sono chiuso qui dentro.” Dove era imprigionato Federico e perché, se si ri¬ volgeva a me, non mi indicava la via per liberarlo? Angelica era costretta a ripartire. Dalla Grecia mi¬ nacciavano di protestarla se non tornava sul set da cui era fuggita per accorrere a Roma. Nel programma di ristampa dell’opera di Fellini i ritardi degli stabilimenti chimici stavano metten¬ do drammaticamente in pericolo la personale di New York. Il pomeriggio, insieme a Dario Di Palma, il direttore della fotografia, avevamo licenziato I clown... Il racconto di Rinaldi subisce un riflusso, si incep¬ pa, bloccato da un gorgo di commozione. Per uscir¬ ne Oscar stringe le labbra e mi sorride in cerca di complicità. Ti ricordi il finale? L’improvviso interrompersi della musica, di ogni minimo suono, e il trapezio vuoto che oscilla sotto la cuspide dello chapiteau, nel fruscio, appena avvertibile, di una pioggia colorata di stelle filanti! Il funerale del clown, quell’inseguimento a perdi¬ fiato, manicomiale, ebbro, travolgente, con cui si conclude la storia, è stato girato esattamente qui, in questa zona del Teatro 5, dove ora è esposto il suo feretro. Una casuale coincidenza? Lo affermeresti? Venerdì notte, riemergendo dalla camera asettica, Saraceni mi aveva confidato a frasi smozzicate, con voce scheggiata: “Continua a vivere contro ogni logica medica; re¬ spira da solo, sia pure debolmente, e il cuore batte 210
con forza. Purtroppo la febbre si sta alzando, ormai è questione di ore non più di giorni.” Si sussurrava che Giulietta, da parte sua, avesse rifiutato le cure, non trovava più una valida ragione di vivere. Insieme erano giunti a cinquantanni di matrimo¬ nio: il giorno dopo sarebbe caduto l’anniversario. I giornali 1 avevano annunciato unanimemente, con speciale enfasi; uno di essi aveva persino riprodotto la partecipazione di nozze disegnata dallo stesso Fe¬ derico in quel lontano 30 ottobre del 1943. Giulietta, priva di forze per far visita al suo sposo, aveva chiesto di poter assistere a una messa, in casa, pregando per tutto il tempo in ginocchio, a testa china. All’Umberto I, sulla panca di fòrmica del corri¬ doio, s’erano alternate intanto variopinte figure del¬ l’universo felliniano, celebri e meno celebri; alcune mitiche, come Vanina Olcese, afflitta ed elegante al pari di una zarina, il viso infarinato da un fard ges¬ soso che la rendeva ancora più irraggiungibile e lu¬ nare, l’alto colbacco di pelliccia in testa e un manto di cashemire color crema, panneggiato sulla persona con un effetto scenico impareggiabile. Con raffinato talento, Vanina aveva saputo since¬ ramente recitare la sincerità del dolore. Evaporata Vanina, ci eravamo ritrovati oscure comparse, in quel corridoio fievole di luci. Una indefinibile alterazione mi avvertiva di accu¬ mulare sensazioni che non appartenevano a me, pre¬ stavo i sensi, raccoglievo stimoli per lui; il dolore di Mila Rutovic, gli accessi improvvisi di pianto che colmava i suoi occhi sgranati da orfanella, la sottile fragranza di vaniglia filtrata dai suoi capelli, avevo la certezza che suscitassero in Federico la premura di carezze delicate. 211
Stefania era l’ultima in ordine di tempo ad aver frequentato Fellini, ma proprio per questo il riverbe¬ ro appariva più fosforico, di una passionalità inoc¬ cultabile. Era napoletana, e quindi anche per tempe¬ ramento portata a indossare una maschera vedovi¬ le, increspata di sorrisi contemplativi. Vestiva quasi esclusivamente di nero, esaltando generosamente il suo corpo fiorente in un lutto fastoso e tragico. Cre¬ deva con fermezza nell’esoterismo e nei poteri occul¬ ti che se ne potevano scatenare, e mai, neanche per un momento, aveva abbandonato la veglia, lascian¬ do battere il suo cuore all’unisono con quello di Fe¬ derico; voleva che formassimo una catena, una pila umana, con cui trasmettergli forza, aiutarlo a non cedere alla morte. Ma dove metterla in pratica? Sebbene fossimo tutti favorevoli all’esperimento, non nascondevamo una pudorata titubanza. Ci trattenevano considera¬ zioni di opportunità, forse un vago senso del ridico¬ lo. Qualcuno suggeriva di scendere nel sotterraneo, attraverso una porticina che si apriva appena prima del gomito del corridoio, cercare in quegli anfratti l’angolo più rispondente; oppure sistemarci proprio a ridosso della famigerata, impenetrabile porta di ve¬ tro smerigliato, sfidando il via vai dei medici e degli infermieri. O forse la soluzione migliore rimaneva uscire all’aperto, sotto le finestre della sua cella. Uno scenografo architetto, abituato a tracciare piante e topografie, non aveva impiegato molto tempo a identificare l’esatta localizzazione. Maria Kolosimo, - l’arpista di Prova d’orchestra, ricordi? - capelli ancora biondi e un cappotto morbi¬ do color zabaione con un gran collo a sciarpa, aveva interrogato l’oracolo fra le pagine di I King, ed era risultato il numero 8, L’unione: consigliabile è as¬ sociarsi. Appariva dunque giusto quello che stava¬ mo per tentare, tanto più che l’esagramma contene212
,
va una mutazione, il numero 1 Il creativo. Avreb¬ be potuto la sentenza essere più chiara? Al riparo di un rigoglioso cespuglio di oleandro, avevamo costituito la catena. Ci dominava una pal¬ ma imponente, orientale come la luna che si specchia¬ va a ondate d’argento fra le nuvole del cielo blu oltre¬ mare, e attorno a noi si muoveva un’intera famiglia i gatti inquieti e silenziosi. Disposti a cerchio avevamo unito le nostre mani, e nel silenzio percorso da brividi ci eravamo concentrati sulle finestrelle palpi¬ tanti di un lucore giallino. Saremmo riusciti a spin¬ gerci fino al cuore di Federico, a riportare la scintilla dove era caduta 1 oscurità? Ognuno di noi pregava in segreto, invocando da lui nutrimento e protezione. Le serate erano ormai fredde e umide, si avvertiva novembre alle porte; e chi come la maggior parte di noi continuava a rifiutare gli abiti invernali, soffriva il gelo penetrato nelle ossa. Dagli ultimi notiziari della notte non filtravano novità. Federico, il mago, stava elaborando un ulti¬ mo arcano, prima che il destino si compisse. “Tanto lo stop lo darà lui” mi aveva avvertito al telefono Serventi, come se fossimo tutti sul set di un suo film. E, prostrato dall’ineluttabilità, aveva con¬ cluso con quel molle e trascinato cinismo romano che non conosce retorica: “Non mi sento bene, sono già fra le pezze; e spero di rimanerci anche tutto domani, se Federico non mi fa alzare.” Federico era morto domenica 31, l’ultimo giorno di ottobre. Il suo cuore aveva cessato di battere ap¬ pena dopo mezzogiorno. “Arresto cardiocircolato¬ rio”, stabiliva laconicamente il bollettino medico dif¬ fuso dall’Ansa alle 12.52. La TV aveva interrotto i programmi per annun¬ ciarlo. Mentre tutti i giornali - se ti ricordi - quella 213
mattina pubblicavano plaudenti servizi dedicati alle nozze d’oro di Federico e Giulietta. Roma stava celebrando una delle sue più sfarzose ottobrate - proprio quelle che incantavano tanto Fe¬ derico! - un tepore di primavera profuso dal cielo dorato su strade e palazzi, sui pini e dentro i cuori. Fuori dell’ospedale, oltre le cancellate, il caravanserraglio delle troupe televisive fremeva scalpitante come un accampamento militare. Al reparto di rianimazione qualcuno ci aveva av¬ vertito che Fellini era già stato trasportato all’obito¬ rio, indicandoci il percorso da seguire per raggiun¬ gerlo. In quella città un po’ liberty e un po’ piranesiana che è il Policlinico Umberto I, esistevano inso¬ spettabili cartelli segnaletici di moderna grafica a icona: alla dicitura Camera mortuaria si associava la forma di una cassa. Avevamo attraversato atri sontuosi e passerelle art déco fiancheggiate da esili colonne in ghisa, ele¬ gantemente scanalate, imboccato itinerari tortuosi fra padiglioni a cupola lievitati come minareti. Una scenografia inattesa e singolare, cinematografica. Infine eravamo giunti davanti all’edificio dell’obito¬ rio, il palazzo dei morti, già assediato dalla folla. Avidi di notizie i giornalisti ci erano corsi incon¬ tro: tanti giorni insieme a vegliare Fellini ci avevano affratellati senza neanche conoscerci. Già da una settimana si parlava di allestire la ca¬ mera ardente qui al Teatro 5 di Cinecittà, e Giulietta aveva proposto come sfondo alla bara la gigantogra¬ fia a parete di un celebre fotogramma in cui Federico è solo, in piedi in mezzo al grande studio vuoto, sfio¬ rato dalla lama di luce di un potente proiettore da diecimila watt. Era stato stabilito che il rito funebre venisse offi¬ ciato nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Piazza della Repubblica, dove si celebrano 214
per consuetudine i funerali di Stato. Impossibile, per il momento, visitare la salma, si protraeva oltre ogni comprensibilità l’interdizione della famiglia. Monique Larouche, la più ingovernabile degli adepti, aveva scoperto che, imboccando i sotterranei delPimmensa morgue, si poteva aggirare la sorve¬ glianza e raggiungere la camera ardente. Dove i giar¬ dini si avvallavano al di sotto del livello stradale, do¬ minava il portale in travertino, imponente come l’in¬ gresso di un ipogeo faraonico. Non c’era anima viva in vista, a parte un gatto immobile e profilato sul timpano albeggiante, in posa da divinità egizia. Sen¬ za riflettere troppo avevamo infilato la soglia e in un breve tragitto ci eravamo calati dentro il ventre della città sconosciuta: chilometri di corridoi che si inter¬ secavano a perdita d’occhio e il rimbombo dei nostri passi su uno scivoloso pavimento di gres. Le pare¬ ti delle gallerie, di ceramica giallognola, riflettevano la luce raggelante dei neon fissati all’arco del soffit¬ to. Ci inoltravamo nel labirinto con piglio sicuro, ma senza la minima idea di come tornare indietro. I sotterranei del Policlinico si estendono per tutta l’area del quartiere universitario, una metropoli se¬ polta, un intestino infaticabile dove ribollono i boli della città affiorata. Come succede nei dedali, ci era¬ vamo smarriti: in quale punto sopra la nostra testa veniva occultato Federico? Ci avrebbe aiutato lui stesso a trovare la strada? Stentavamo a individuare l’esatta ubicazione del montacarichi delle salme, la via più diretta per acce¬ dere elusivamente alla camera obitoriale, e, sgranati lungo quello sterminato percorso, suggerivamo l’im¬ pressione di un drappello sperduto nella discesa all’Averno. Finalmente un inserviente, intravisto da lontano e subito raggiunto, ci aveva indirizzati non senza sospetto: “Seguite la freccia rossa, quella vi porta fuori.” 215
Nessuno di noi aveva avuto la prontezza di inter¬ rogarlo sulValtro percorso, quello per cui ci eravamo smarriti. Docilmente ci eravamo attenuti alle istru¬ zioni, riguadagnando l’uscita con un’ombra di in¬ confessato sollievo. Il mago non ci aveva permesso di violare la sua ultima cella; forse, semplicemente, non ne eravamo stati degni. Per l’intera nottata immagini di Fellini avevano inondato i teleschermi, trasmesse da tutti i canali: montaggi di interviste, servizi d’annata, film, spezzo¬ ni, testimonianze, special filmati, e la premiazione della Notte degli Oscar riproposta a ripetizione co¬ me estremo saluto. Fra le stazioni private, Retequattro aveva rapida¬ mente improvvisato una maratona non-stop, con la scritta in sovrimpressione: Ciao Federico. E ogni quarto d’ora interrompeva i suoi film con lunghissi¬ mi break di pubblicità. Il diritto del più forte. Angelica mi aveva chiamato da Atene, singhiozza¬ va, sconvolta dal sogno che aveva visto - si esprimeva traducendo letteralmente dalla sua lingua - la notte precedente. Stava facendo l’amore con me, in un luogo che as¬ somigliava a un circo agonale, un anfiteatro all’aper¬ to, di fronte alle gradinate gremite di pubblico che accompagnava il nostro congiungimento muovendosi al ritmo di una coreografia prestabilita, quasi facesse parte dello spettacolo. E tutt’intorno c’era Fellini, lei lo avvertiva come una presenza concreta sebbene in¬ corporea. Intanto, man mano che proseguivamo nel¬ l’amplesso, il mio pene si restringeva, diventava sem¬ pre più piccolo, piccolissimo, e a quel punto lei co¬ minciava a perdere sangue dalla vagina; ne perdeva tanto da allagare la terra sotto di noi e poi tutta l’are¬ na. E allo stesso tempo Fellini cominciava a svanire. Allora lei gli si rivolgeva: 216
“Vengo da te, in ospedale, al Policlinico.” E lui rispondeva: “Io non sono più lì, tu sai dove trovarmi.” Angelica aveva ‘visto’ il suo sogno nella notte fra sabato e domenica, quando Fellini stava abbando¬ nando la vita. Il 1° novembre era lunedì. Viale del Policlinico appariva un tappeto di foglie fiammeggianti, e il cielo si presentava omogeneamente grigio, uno strato spesso e compatto di nuvole. All’obitorio, contraria¬ mente a quanto era stato riportato dai giornali, non facevano passare nessuno. Del resto la bara era già stata sigillata. Impossi¬ bile per chiunque di noi rivedere per l’ultima volta Federico. La camera ardente era in corso di allestimento qui a Cinecittà, dentro il Teatro 5. E dove altro? Il fondale di cielo con le nuvolette sospese è lo stesso del film Intervista, nella sequenza in cui due pittori, seduti a mezz’aria sui ponti, intercalano stracche pennellate a scurrili contumelie. Antonello si è occupato della scenografia, ti piace? Sono suggestive e appropriate le tinte delicate, da limbo, che degradano dal celeste dei drappi e passa¬ manerie, al grigio della moquette sull’assito. A partire dal fondo del teatro, longitudinalmente, due corrimano a nastro incanalano la folla, e uno sbarramento di transenne separa i settori attorno al feretro. Il resto dello spazio è vuoto, spoglio, come la navata di una cattedrale. Per far fronte a ogni impre¬ visto derivante dal massiccio afflusso di folla, sono stati predisposti una postazione di prima assistenza medica, e un’ambulanza; per ragioni di sicurezza le entrate sono state differenziate, con una corsia prefe¬ renziale riservata alle autorità, ai politici, alle scorte; e un’altra per gli amici, i collaboratori, i colleghi del 217
cinema, i compagni di una lunga consuetudine di lavoro. L’aiuto regista più volenteroso e affezionato s’è incaricato dell’incombenza, cercando di non dimen¬ ticare nessuno e redigendo in fretta una lista di nomi da sistemare per riguardo nella zona immediatamen¬ te a ridosso del catafalco, di lato, contiguo al settore della stampa. Il taglio delle luci, un albore da mitreo che si dif¬ fonde dalle altissime capriate e prende forza soprat¬ tutto dalla distesa del cielo, è opera del direttore della fotografia degli ultimi film. Sulla bara si incro¬ ciano, con effetto teatrale, i raggi di due fondografi piazzati in cima alle torrette, quello che viene chia¬ mato in gergo occhio di bue, l’aureola sfavillante in cui si accoglie l’artista sulla scena. La bara - ricorda Oscar - è arrivata dal Policlini¬ co poco dopo mezzanotte. Quando è stata issata sul supporto sembrava che Federico stesse dirigendo una delle sue gag; erano stati mal calcolati i sostegni della cassa, troppo corti, di altezza disomogenea, instabili: un traballamento da circo, un'entrée da clown in pista fra fischi e battimani. Poi però è anda¬ to tutto a posto. Adriana, la custode dei camerini, s’è seduta con ago e filo a cucire la frangia dorata del drappo di vel¬ luto azzurro; aveva l’aria serena di chi continua a svolgere semplicemente le proprie mansioni di sempre, dopo anni passati ad accudire gli uffici del Maestro. Ritiratisi i canonici della basilica che avevano accompagnato il feretro, siamo restati in pochi nel¬ l’immenso teatro, senza sonno e senza quiete. Nessuno se la sentiva di allontanarsi. Stefania, Milenda, Lorena, Giannella, Fiorita, Marvisio: ci sia¬ mo dati dei turni per la prima notte di veglia; ma chi ha pensato a rispettarli! 218
Elena, che aveva richiesto di poter restare con noi, è accorsa singhiozzante nel cuore della notte; s’è rannicchiata di fianco alla cassa, con la fronte ap¬ poggiata al legno, e non è stato più possibile disto¬ glierla. Alle quattro è arrivato Rinaldo che non riusciva a costringersi a letto. Assomigliava a John Ford, con la benda nera sull’occhio, vestito di tutto punto in un abito di velluto a coste, il tocco estroso del papillon al colletto, l’impermeabile di foggia inglese e l’om¬ brello arrotolato a bastone, da anziano gentiluomo. Aveva recato con sé un grosso volume di fogli di car¬ ta di riso, rilegato in cuoio, da utilizzare per la rac¬ colta delle firme in sostituzione degli album troppo ordinari predisposti dal servizio funebre di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Il librone sembrava un messale, per imponenza, e nessuno di noi si azzardava a prendere l’iniziativa di interrompere la pagina immacolata per apporvi il pensiero di avvio, la prima firma; avremmo voluto che fosse lo stesso Rinaldo a inaugurarlo, appuntan¬ do un disegno, una frase. Il pittore nicchiava, riman¬ dava, poi a un tratto ha pescato la penna dal taschi¬ no e, in piedi, con pochi segni da prestigiatore, ha schizzato sotto i nostri sguardi stupefatti un ritratto di Fellini da giovane: due ardenti carboni, larghi, ma¬ gnetici, al posto degli occhi, il cappello in testa ti¬ rato un po’ all’indietro e la sciarpa avvolta attorno al collo. Sotto una dedica: Luglio 1939, quattro supplì. Ricordi? Rinaldino
Ed è scoppiato a piangere. In quelle poche parole era contenuto per intero il fato del loro primo incontro: entrambi a battere i piedi fuori della vetrina di una rosticceria, infreddo¬ liti, azzannati dalla fame, e subito solidali a racimo219
lare nelle tasche i pochi spiccioli indispensabili per quei quattro supplì. Non si erano più separati. Singolare che a luglio i due amici battessero i pie¬ di dal freddo. Ma mi sembrava indispensabile non dubitarne, perché così me l’aveva raccontata Federi¬ co, evocando nella memoria una sequenza alla Charlot, come lui l’avrebbe girata se fosse giunto a farla affiorare fra le pieghe riposte della sua vita immagi¬ nata. Nel progetto dei “Block-notes” che aveva in men¬ te, forse avrebbe trovato un posto anche per quel ricordo, fra gli altri racconti senza più sponde conce¬ piti ormai alla maniera dei “Dictée” di Simenon, che continuava a rileggere insaziabilmente in francese. E quanto ammirava! Sulla scia di Rinaldo abbiamo firmato tutti, quasi in allegria. S’è stabilita all’improvviso un’atmosfera lieve, giocosa, molto simile a quelle che sapeva susci¬ tare Federico. Girava il caffè, dentro i thermos, insieme alle brioches calde, le paste, le torte portate dai due fra¬ telli dell’Osteria del Curato. Monique teneva serrato in pugno un uccellino meccanico, coloratissimo; ba¬ stava sfiorarlo e cinguettava. L’aveva nascosto den¬ tro il cuscino di rose rosse appoggiato sulla bara: un minimo tremolio e il cardellino avrebbe lanciato squillante il suo verso, alla rimozione del feretro. Sarebbe ancora lì se gli agenti della vigilanza non l’avessero snidato e rimosso. Elena era restata per tutto il tempo aggrappata alla bara, intorpidita dal freddo, percorsa dai brividi. Lo so, mi vergogno un po’ a dirtelo, - si schermisce Rinaldi - ma ormai possiedi l’ordito e non posso na¬ sconderti nulla del mio stato di alterazione. Quando gli altri salivano di sopra, nei camerini, a rinfrancar¬ si, io mi avvicinavo a lei. Mi sedevo sulla pedana, ac¬ canto alla cassa, la prendevo fra le braccia col prete220
sto di scaldarla, ed era lei invece che immediatamen¬ te infiammava me. Mi porgeva le labbra che sembra¬ vano non avere più consistenza, acini d’uva svuotati, sfatte dal pianto, dal dolore, e pure brucianti. Cal¬ mava i singhiozzi in quel bacio e io non sapevo fre¬ nare le carezze; già pallidissima in viso, diventava di alabastro, sigillando le palpebre. Non credo che gli altri se ne siano accorti, non di questa nostra assurda tensione; avevo il cuore che mi batteva di turpe dolcezza, era come assaporarla an¬ cora calda dell’ultimo amplesso. Che razza di perver¬ sione era quella? Non la conoscevo, non mi apparte¬ neva, te lo giuro; si trattava di una possessione: per me al pari che per Elena. Una sola volta sono riuscito a strapparla dalla ba¬ ra, pervasa da scosse irrefrenabili di gelo, l’ho rialza¬ ta quasi di peso, per forzarla a muoversi, per condur¬ la di sopra a bere un caffè, un latte caldo. S’è lasciata allontanare di malavoglia, e forse per la sensazione di ghiaccio che la attanagliava, forse proseguendo a voce alta il filo del suo pensiero da cui era stata di¬ stolta, mi ha narrato del piumino d’oca danese che aveva acquistato per sé e per Federico, il tepore che ne godevano quando, nello studio di Corso d’Italia, si stendevano a terra abbracciati sulla moquette, in una improvvisata alcova di cuscini sottratti ai divani. “Adesso chissà chi l’avrà preso!” si affliggeva. Ha ragione, quel calore spetta solo a lei. Si sono fatte le sei di mattina. Con l’avanzare del giorno la pioggia sembrava promettere una tregua. Alle nove hanno aperto i cancelli, stavano soprag¬ giungendo le prime auto blu con la scorta, i fotogra¬ fi, i visitatori più mattinieri. La veglia si è confusa col bagno di folla.
221
Capitolo XIII Prodigi
Il racconto di Oscar si arresta qui, inconcluso. Sopraggiungono Else Jacobsen e svariate persone che lo stanno cercando. Rinaldi mi saluta con un generico: “Ci vediamo domani in chiesa”. E il tono lascia intendere che la nostra conversa¬ zione è soltanto interrotta, rimane sospeso un segui¬ to, la sua confessione riprenderà. O forse voglio semplicemente sperarlo, ingolosito ormai dalla sua favola morbosa. Il giorno dopo, a Piazza Esedra per la cerimonia funebre, lo scorgo da lontano in compagnia di Else e della mitica Angelica, l’attrice greca. Sono arrivato tardi ed è impensabile penetrare nella basilica. La piazza stessa già da ore è gremita di folla, impossibile scovare un varco per spingersi an¬ che solo fino al portale d’ingresso. A fatica guada¬ gno una posizione laterale, aggirando le transenne, e quando spunta la bara sostenuta a spalla da un pu¬ gno di amici, applaudo in mezzo alla turba commos¬ sa, slanciando alte le braccia. Qualcuno, nella calca, inasta uno stendardo di polistirolo bianco a forma di cuore, con sopra scritto in rosso: FEDERICO SEI GRANDE. Qualcun altro in¬ nalza un semplice: GRAZIE. Fra le ali di folla fremen¬ te di curiosità, i personaggi autorevoli e famosi scia¬ mano fuori dalla chiesa, incontro alle mini-troupe te¬ levisive a caccia di commenti. Quando la ressa si di¬ rada, avanzando controcorrente mi inoltro a mia 222
volta dentro la basilica; l’aula immensa ricavata dal¬ le antiche Terme di Diocleziano, abitualmente vuota di ogni suppellettile, appare irriconoscibile, ingombra di banchi, di sedie, di corone e di serti fioriti. È ma¬ gnifica e fastosa, riecheggiante di voci, l’aria intrisa di incenso. Risalgo l’imponente navata fin quasi al1 altare maggiore, e mi siedo in uno degli inginoc¬ chiatoi avanzati, avvolto dall’odore dolciastro dei fiori agonizzanti, immutato nel ricordo da quello re¬ spirato da bambino durante le visite al cimitero, nel Giorno dei Morti. Il rito propiziatorio per l’addio definitivo a Federico non sembra essersi esaurito, c’è un ultimo indugio sospeso dei tanti devoti che strap¬ pano il ricordo di un fiore ai verdi cuscini rigonfi e alle corone disposte a spalla lungo i muri perimetra¬ li; ognuno, procedendo in fila indiana, coglie una co¬ rolla da portare con sé. Una gerbera bianca, che spicca invitante nel cupo fogliame, non viene scel¬ ta da nessuno, mi illudo che sia lì per me. Sopravvive infatti, miracolosamente intatta e solitaria. Mi segno con l’acqua benedetta e mi avvio fuori della chiesa; la volta di scaglie d’oro del tempio bi¬ zantino sconfina all’aperto, nel cielo quasi primave¬ rile percorso da un nervoso vento di scirocco. Le Naiadi della fontana, in pose lascive, si beano ai get¬ ti dell’acqua, e lustre di gocce scintillanti si offrono plasmate in carne viva. Fuori ritrovo Oscar in compagnia di Angelica, e intorno tutte le altre amiche, Giannella, Stefania, Lo¬ rena, Milenda. Con loro c’è la neuroioga norvegese. Sostano tutti insieme sotto il porticato dell’Esedra: li trattiene una forte resistenza a separarsi, ad avviare i saluti. Oscar però deve affrettarsi verso uno stabilimento sulla Via Tuscolana, per un conclusivo controllo di stampa: la copia di un film di Fellini, ultima rimasta 223
a dover partire per l’America. Così invita le amiche; e Lorena, Giannella, Angelica, Milenda, la stessa Jacobsen, si muovono in comitiva, assieme a lui. Li ac¬ compagno fino alla macchina, sono curioso di scopri¬ re come riuscirà a stiparle tutte; e invece, a imitazione di una prova di abilità, o di un gioco di prestigio, le ragazze si schiacciano una sull’altra, ridenti, allegre, vocianti, una classe di liceali in gita scolastica. “Se ti ritirano la patente, - gorgheggiano elettriz¬ zate - guidiamo noi.” Fra tutti quei volti non scorgo Federico, ma c’è, or¬ mai ne sono persuaso anch’io, contaminato dalle es¬ senze insidiose di Oscar Rinaldi. E non cado in errore. Trascorre un mese intero. Alla fine di novembre decido di far visita a Giulietta, ricoverata in una cli¬ nica della Pineta Sacchetti. Mi hanno avvertito che la stanza della Masina è al secondo piano. Procedo a caso finché alcune infer¬ miere accalcate in una guardiola di vetro mi invitano ad attendere; una di esse si allontana controvoglia dal gruppo e in capo a pochi istanti appare Mariolina, la sorella dell’attrice. In quella breve pausa di convenevoli, Giulietta ha avuto il tempo di infilarsi in testa il turbante con cui nasconde la calvizie. La abbraccio, la bacio, e lei mi si aggrappa, singhioz¬ zando, con le dita scarne impigliate al bavero del so¬ prabito: suggerisce la penosa impressione di un mi¬ nuscolo volatile dalle ali spezzate. Durante la notte è anche scivolata fuori del letto, sul pavimento, incri¬ nandosi una costola; la sorte si accanisce e lei lo sot¬ tolinea, sgomenta. Appena ci sciogliamo dall’abbrac¬ cio, Giulietta si toglie il fastidioso copricapo, e ap¬ pare il suo cranio minuto, uniformemente calvo e li¬ scio, che le conferisce un aspetto incorporeo, da extraterrestre spaurito. La aiuto a rialzarsi a sedere e, appoggiata ai cuscini, si accende una sigaretta sug224
gendola con la bramosia di un bambino incollato al capezzolo. Il suo contatto con la vita sembra prove¬ nire da quel fumo che inala nei polmoni, per il resto, negli occhi spiritati, dilaga solo l’agonia. Mariolina mi accompagna in corridoio, fino all’a¬ scensore. Da mesi si sta prodigando senza pause, è provata oltre ogni resistenza, ha i nervi scoperti, il pianto pronto in gola. Fuma anche lei con lo stesso accanimento della sorella, e tossisce col medesimo suono cupo e catarroso. Ha voglia di sfogare la sua pena: Giulietta non è più autosufficiente, la metasta¬ si al cervello per ora è stata contrastata, ma la lesio¬ ne ha raggiunto il cervelletto; deve essere accudita momento per momento. All’uscita dalla clinica, proprio nell’atrio, mi in¬ crocio con Oscar Rinaldi che non vedo dal giorno del funerale. Viene anche lui a trovare la Masina che, a quanto è trapelato, ha i giorni contati. Mi sembra molto carico, sta rientrando da Mila¬ no dove ha appena discusso con l’editore la revisione del suo romanzo e stabilito la data di consegna, sta vivendo intensamente questa circostanza fortunata. “Possiamo vederci? - mi domanda di fretta. - Sei libero per cena?” C’è ancora qualcosa che gli urge raccontarmi, or¬ mai sono suo complice, l’unico da cui può sperare di non essere scambiato per visionario. Accetto volen¬ tieri, sono curioso degli sviluppi almeno quanto lui è impaziente di narrarmeli. Fuori comincia a piovere, un’acqua pungente e fredda, quasi di nevischio. Alcune strade appaiono già scintillanti di luci natalizie, addobbate con giran¬ dole e festoni. Nella trattoria di Prati in cui ci siamo dati appun¬ tamento, respiro l’atmosfera avvolgente e saporosa di buona cucina, resa cordiale dalla gentilezza esube¬ rante dei camerieri. Nonostante la penosa visita a 225
Giulietta, non mi è difficile recuperare il buon umo¬ re, e Oscar collabora attivamente a rendere alla vita i suoi diritti. Quel 2 novembre, - riprende a raccontare - quan¬ do ci siamo visti al Teatro 5 e ti ho confidato di me e Federico, era presente solo Else Jacobsen, se ricordi; Angelica doveva ancora arrivare: risoluta com’è, aveva deciso di partecipare ai funerali anche a costo di una nuova diserzione dal set, incurante degli strali della produzione. La pioggia insistente non aveva mai smesso di ca¬ dere quella notte e lasciato il teatro, ancora col buio, sull’Appia Antica ero stato investito da un tale rove¬ scio che i tergicristalli stentavano a liberare il para¬ brezza dall’acqua. Sembrava proprio una cateratta di lacrime, un pianto inconsolabile. Else mi aveva accompagnato, e appena a casa s’era infilata sotto una doccia bollente per smaltire il freddo accumulato. Poi si era rifugiata al caldo del piumone, precipitando istantaneamente nel sonno. Quando l’avevo raggiunta, aveva aderito torpida al mio corpo, per non voler rinunciare all’abbraccio; e in uno stato di semiveglia non aveva smesso di acca¬ rezzarmi, fino ad avermi per sé. Il sonno ci aveva poi sommerso ancora con l’af¬ fanno nel petto. Il telefono era squillato di primissima mattina con l’effetto di un’esplosione dentro il cranio. Era Ange¬ lica, dall’aeroporto: “Passo da te o vado direttamente in chiesa?” Non sapevo cosa risponderle, lei temeva di ar¬ rivare tardi, non intendeva rinunciare a un posto nei banchi, trovarsi costretta a restare fuori, fra la folla anonima. E poi aveva capito d’istinto che non ero solo. S’era fatta ripetere più volte, stizzosamente, il nome della basilica e della piazza, e aveva concluso: 226
“Prendo un taxi e ci vediamo lì, cercami tu!” Dopo il funerale si era unita alle altre amiche per venire anche lei allo stabilimento di sviluppo e stampa. Verzini, lo stampatore, non c’era, per una improv¬ visa influenza, ma ad aspettarci era rimasta Ambra, la figliola, “la bella Ambrina” come la chiamava Fe¬ derico, inguainata a pelle in pantaloni lucidi e setosi. Non s’era affatto meravigliata di quella turba che in¬ vadeva la saletta di proiezione, anzi, aveva fatto in fretta comunella, ordinando caffè per tutti; e nello spirito di generale euforia, s’era seduta fra noi come ci trovassimo al cinema: “Resto anch’io, tanto non l’ho mai visto!” Era in programma Luci del varietà, il primo film diretto da Fellini in coppia con Alberto Lattuada. Spente le luci, eravamo sprofondati in quel sogno collettivo pilotato da Federico. Le ‘sue’ facce inegua¬ gliabili, Peppino De Filippo, Carla Del Poggio, Giu¬ lietta Masina, Carletto Romano, ci avevano attratto in un divertimento riconciliante, una gioia contagio¬ sa e serena. La copia in bianco e nero era splendida, restaura¬ ta alla perfezione, inappuntabilmente pronta per rag¬ giungere tutte le altre alla restrospettiva di New York. Al di là dell’Atlantico avrebbero avuto la buona sorte di ritrovare un gigante! Ero felice dell’opera di ristampa; mi sembrava di scoprire dentro me stesso, ora più che mai, come l’impegno e la passione profusi per riguardo a Fe¬ derico, fossero in realtà dedicati a tutti coloro che lo amavano, a quella folla sterminata che per un giorno intero aveva sfilato in silenzio, commossa, davanti alla sua bara; al suo pubblico immenso sparso in tut¬ to il mondo, che avrebbe avuto l’opportunità rara e irrinunciabile di celebrare i film di Fellini nelle con227
dizioni più appropriate, sul grande schermo di una vera sala cinematografica. Finita la proiezione, discioltasi la comitiva, An¬ gelica aveva veleggiato verso casa mia come diretta a un ormeggio di passaggio, senza impegni precisi per la serata. Sprofondati uno accanto all’altra nel diva¬ no, guardavamo scorrere sul televisore la cassetta re¬ gistrata dei funerali trasmessi la mattina dalla RAI. Le immagini ripercorse attraverso l’occhio pano¬ ramico e al contempo dettagliatissimo delle teleca¬ mere, le provocavano un acuto turbamento; da au¬ tentica attrice subiva il fascino delle riprese in cui ve¬ niva inquadrata a tutto schermo, isolata dalle altre presenze nei banchi. Appariscente, con gli occhiali neri, un’ombra invisibile di trucco a sottolinearne il pallore, incarnava una apparizione metareale, degna di Anita Ekberg nella Dolce vita, impareggiabilmente sensuale. Ogni volta che la regia televisiva ne ri¬ proponeva la figura regale, conturbante, fermavo la registrazione e tornavo indietro, due, tre, quattro volte, a soddisfare, e alimentare insieme, la sua va¬ nità. Nella fila di inginocchiatoi dietro di lei era ben visibile Michelangelo Antonioni, col suo volto scar¬ nito, trasparente a fior di pelle di una ininterrotta commozione. Angelica assorbiva ogni istante della cerimonia funebre con la trepida concentrazione di una scolaretta, e anche quel leggero e ingiustificato risentimento che nutriva nei miei confronti si stava stemperando. Era ancora abbigliata come ai funerali, con la gonna longuette ad ampio invito sul davanti che, sedendosi, scopriva fino all’inguine, provocante¬ mente, le lunghe gambe; le calze scure, semivelate, ne esaltavano la slanciata formosità, e ai piedi calzava maliziose francesine belle époque, alla caviglia, con tacchi alti a rocchetto. Ma era travagliata, la bella Angelica, lo avvertivo, 228
come se si spiasse, se si frugasse dentro, sfuggente a se stessa. Abbandonata sul divano, aveva accolto la mia testa sulla spalla, senza concedermi più di qual¬ che bacio distratto fra i capelli o sulla fronte; e io in quel rilassamento mi ero addormentato. M’ero ri¬ scosso solo alla fine della registrazione, nel momento in cui Padre Angelo Arpa, il gesuita amico di Fellini, nei paramenti dell’officiante, si accostava al banco dei familiari a mormorare parole di conforto; e subi¬ to seguiva il gesto straziante di Giulietta che, al pas¬ saggio della bara, alzava il braccio con l’ultimo resi¬ duo di energie per dire addio al suo sposo, la corona del rosario intrecciata e pendente fra le dita. Era stato in quel momento, o prima? Gli sfioramenti di Angelica mi avevano provocato una improvvisa, intrattenibile eccitazione, talmente inoccultabile che lei, con un atteggiamento di sorpre¬ sa e di severa, ma fiacca e torbida, disapprovazione, era venuta a saggiarne l’impudenza. La mia reazione indecente l’aveva coinvolta, e dalle parole di finto rimprovero era passata all’azione, chinandosi senza indugi in un fervore sapiente e puntiglioso, la chio¬ ma ondulata sparsa intorno a raggiera. Una golosità, un gorgo di vita invincibili; ma anche, avvertivo, una vena intrisa di inquietudine, quel gusto amaro di ar¬ rendersi a un piacere oltraggioso, degradante, a un godimento arido e distorto. Le immagini di lutto che scorrevano sullo scher¬ mo del televisore, sgargianti, nitide e solenni; i gesti gravi della cerimonia, la melodia del celebrante, il pubblico nei banchi, i volti velati, gli occhi rossi di pianto, o colmi, in alcuni amici più stretti, di interno sgomento; e Federico in quella bara inondata di fio¬ ri, - ma ero proprio sicuro che fosse li? - e noi due noi due? - scandalosamente a ‘pasticciare’ (questa è l’espressione che egli stesso avrebbe usato), tirati ai fili dall’irriverente ed esperto Mangiafuoco. 229
Angelica, completamente assorbita dal suo com¬ pito, si prodigava con trasporto, eppure debbo con¬ fessarti che non la avvertivo minimamente come mia amante; di nuovo pervaso dalla percezione inequivo¬ cabile di agire per delega, di alienare sangue e nervi del mio corpo. Il nostro incontro, alla fine, si era esaurito in quel¬ l’atto, senza bisogno di assicurare un seguito al gioco d’amore. Lei mi aveva rivelato inaspettatamente di essere indisposta, si stava dissanguando, sosteneva. E quel suo pallore incantevole, le occhiaie bluastre, ne esprimevano il languore lunare. Ritornava, attraverso percorsi affiorati, il sogno da lei ‘visto’ la notte precedente la morte di Fellini: il mio pene che diventava sempre più piccolo e lei che allagava col suo sangue l’intera arena. Con Angelica abbiamo trascorso il resto della se¬ ra a ragionare e a sognare. Avrebbe voluto allestire uno spettacolo teatrale in Grecia, interpretando le numerose donne dei film di Fellini, Anitona, Cabiria, Gelsomina, la Gradisca. Si caricava di attese, imma¬ ginava di diventare la musa ellenica di Federico, la sua ambasciatrice nel paese dei Miti. La mattina do¬ po era ripartita. Il funerale di Fellini poteva dirsi davvero, definiti¬ vamente, concluso. Ai giornalisti Federico aveva donato quindici giorni di pagine da riempire; al pubblico l’anteprima del film che non avrebbe girato; e a me l’amore impalpabile e già svanito delle sue donne. “Il sogno si è dissolto?” mi informo ostinato, de¬ ciso a non contentarmi. Non lo so - spiega lui. - Continuano ad accadermi episodi che io stesso stento a decifrare. Casualità ben congegnate, sapienti coincidenze, per chi ci cre¬ de; mi fido dei segnali sotterranei, delle comunica230
zioni ultrafaniche, delle onde mentali; e della libertà dell’immaginazione. Da quando lui è morto non mi sono mai sentito così prossimo al prodigio. Sere fa, tornando a casa, a notte alta, mi sono im¬ battuto nel Circo Massimo ammantato di nebbia. Un vapore leggero che si levava dallo sterminato ca¬ tino; ne emergevano solo i radi alberi, esili e illusori in quella nuvola bianca depositata in virtù di chissà quale artificio da un cielo uniformemente limpido e stellato. Un effetto di potente teatralità; una visione fantastica non troppo dissimile dalla caligine sospesa sui campi, a perdita d’occhio, che durante il ricovero di Federico a Ferrara incontravo tornando in ferro¬ via; quel cielo grigio indistinguibile dalla bruma, un mondo sfilacciato nell’ovatta, contorni incerti, sfu¬ mati, e infine inconsistenti verso l’orizzonte latteo, immobile e compatto come il fondale di un set cine¬ matografico. Avevo fermato l’auto ed ero disceso sul margine erboso dello stadio millenario. Mi capita, soprattutto quando dormo da solo, nel perfetto silenzio della notte fonda, di captare allu¬ cinazioni uditive, miraggi di voci frammentate nell’e¬ tere. In quel luogo, in quel preciso volgere di tempo, l’illusione sensoriale era stata tattile, corporea: mi ero sentito trattenere per un braccio. Ma accanto non c’era nessuno. “Resta con me” avevo bisbigliato di slancio, inva¬ so da sacro timore, rivolgendomi a quella presenza immateriale che cercava attenzione. Se mai potesse udirmi. Segni, ectoplasmi, lasciti impalpabili, dissimulati fra le increspature di un velo, per chi può trovarli. E non so se sia stato il suo ultimo dono... Giorni fa mi trovavo a Milano; dovevo concordare con l’e¬ ditore alcuni dettagli sull’uscita in libreria del mio romanzo. Federico, durante la degenza di Zurigo, mi 231
aveva più volte accennato a un’attraente giovane mulatta che prestava servizio da infermiera nell’o¬ spedale; era lei che aveva in consegna l’apparecchio telefonico, e restava sulla soglia della stanza a con¬ trollare la durata delle sue conversazioni, perché non si stancasse. Se ti ricordi, ti avevo accennato a come Federico ne fosse stato colpito, tanto da riferirmene con le sue tipiche accensioni, in un fuoco d’artificio di descri¬ zioni esaltanti. E poiché la ragazza sognava di fare l’attrice, l’aveva invitata a spedirgli le fotografie a Roma, al suo ufficio, promettendole di convocarla alla prima occasione. Con gli avvenimenti che seguirono ogni progetto andò stravolto; ma le foto mi capitarono in mano, col nome scritto dietro: Iside, come la dea egizia. Le avevo osservate con molta attenzione, cercando di ri¬ costruire dai lineamenti del viso l’emozionata ispira¬ zione di Federico: “E come scoprire all’improvvisó, - si infervorava - affascinati e grati, gli attributi indefinibili della femminilità: che cosa sono un paio di labbra, l’armo¬ nia di un orecchio, la delicatezza di un zigomo, la lucentezza umida degli occhi; riprecipitare indietro, all’origine del creato, e trovarsi di fronte alla prima donna da ammirare: ecco com’è la pelle!, sei portato a stupirti, così sono modellate le braccia, il collo, la nuca, le ciglia! Proprio la rivelazione archetipica del¬ l’avvenenza femminile.” Nel frattempo da Zurigo la ragazza si era trasferi¬ ta a Milano per tentare la carriera di fotomodella. Così l’avevo chiamata per restituirle le fotografie, concordando con lei luogo e ora in cui incontrarci; un impegno che potevo incastrare facilmente prima della partenza dell’aereo. Dalla casa editrice, mi ero recato direttamente al suo indirizzo dalle parti di Viale Lodi; una specie di 232
pied-à-terre attrezzato a studio fotografico. Mi aveva aperto lei stessa, una regina incantatrice, attraente e giovanissima. Con immediatezza priva di qualsiasi imbarazzo, mi aveva invitato a notare come, rispetto alle fotografie, ora esibisse un seno più prosperoso; un ritocco chirurgico imposto dall’agenzia artisti¬ ca. Ne appariva fiera e anche divertita: s’era sbotto¬ nata la camicetta e spiava l’approvazione sul mio vi¬ so. D’istinto, per un atto di riverenza incoercibile, un’ammissione di sudditanza, mi ero chinato a ba¬ ciare il neo che risaltava al colmo di quel frutto proi¬ bito; un cieco impulso che mi aveva indotto ad agire senza riflettere, e del quale la destinataria non sem¬ brava affatto sdegnata né sorpresa. Un omaggio scontato, arriverei a dire inevitabile, definito da un disegno preesistente. Anche lei aveva in programma di partire per Ro¬ ma, convocata all’indomani per un provino cinema¬ tografico. E il volo della sera era il medesimo: dun¬ que per raggiungere l’aeroporto avremmo potuto di¬ videre lo stesso taxi! Iside si era presentata superpuntuale nella lobby del residence in cui l’attendevo; indossava un man¬ tello di renna orlato di pelliccia e incedeva con l’ele¬ ganza di una divinità africana, maestosa sui tacchi degli stivaletti alla caviglia, il nasino graziosamente schiacciato e le orecchie minuscole, da leonessa. Il suo fisico è quello delle creole, cosce possenti e slanciate da gazzella, glutei rilevati, elastici, carnosi, e i seni incredibilmente sporgenti. Ne ammiravo le mani affusolate, la nuca sottile e nuda nel taglio dei capelli corti, e la pelle, quella carnagione omogenea, liscia come il raso, che appartiene soltanto alle razze scure: una visione arabescata fin nei dettagli da Fellini, da lasciare attoniti. Inconfondibilmente uno dei suoi illusionismi. 233
Il taxi ci aveva trasportato a Linate, molto acco¬ stati, per tacita intesa, sul sedile posteriore reso inti¬ mo dalla complicità della sera. E una volta nella va¬ stissima sala d’aspetto dell’aeroporto, superato il metal detector, avevamo scelto un angoletto in di¬ sparte, vicino alla vetrata, volutamente in cerca di ri¬ servatezza. Iside si era liberata del mantello. Indos¬ sava un gilè a decorazione cashemire, tenuto aperto su un body bianco, scollato e semitrasparente, che le enfatizzava il prorompere del petto. Affettuosamen¬ te, le avevo passato un braccio attorno alla schiena e con le dita, attraverso l’ampio giromanica, mi ero avventurato a lisciarle la carne turgida del seno, rag¬ giungendo il capezzolo indurito e soffermandomici a lungo, senza ritegno. Non reagiva, non si sottraeva, apparentemente insensibile; ma che fosse turbata me ne avvertiva la bocca, che si era dischiusa inumidi¬ ta. Incoraggiato, vi avevo appoggiato le labbra, con sfioramenti accennati, appena suggeriti. “Mi stai facendo rabbrividire, non puoi accarez¬ zarmi così.” Si era schermita seria, usando un tono da studen¬ tessa giudiziosa, apertamente in contrasto con la ten¬ tazione ad abbandonarsi. Per arginare il desiderio ci eravamo alzati in pie¬ di: peggio! La tentazione era cresciuta a dismisura! L’avevo attratta senza più scrupoli: talmente ingo¬ losito dall’assaggio di quel suo corpo troppo sinuo¬ so da non riuscire a placare la mia voglia scompo¬ sta! Mi ero addirittura arrischiato a infilare entrambi le mani sotto il body aderente, sulla tette nude e vel¬ lutate. Pennellata dai pantacollant lei accoglieva le mie smanie ondulando lieve il bacino, flessuosa, accondi¬ scendente. Ma ahimè, il luogo pubblico costituiva un ostacolo insormontabile a quel preludio di acuta feli¬ cità! Per resistere al tormento, ci eravamo avviati ver234
so il bar; e nel momento stesso in cui stavamo acce¬ dendo all’area di ristoro, in quel preciso istante, s’era creato uno stacco nel fluire omogeneo della filodiffu¬ sione, un vuoto sospeso; e in capo a un attimo, sal¬ tellante, inconfondibile, ‘onirico’, era risuonato il se¬ condo movimento della Dolce vita. Fra gli sconfina¬ ti, innumerevoli, inesauribili motivi musicali che po¬ tevano essere trasmessi con quel matematico sincro¬ nismo, e senza nessun collegamento logico con il re¬ pertorio che lo precedeva, né con quello che sarebbe seguito, s’era diffuso nell’aria quel tema ‘universale’, unico e inequivocabile. Inesistente qualsiasi riferi¬ mento a una sequenza di melodie cinematografiche, o alle composizioni di un autore tanto particolare come Nino Rota: le note più celebri del più celebre film di Fellini venivano evocate dal nulla, per un ar¬ cano, ineludibile, fatato appuntamento. Federico era con noi. Per un breve istante m’era parso di avvertirne materialmente la presenza, la vo¬ ce, il sorriso, persino la familiare carezza della mano sui miei capelli; e un lungo brivido mi aveva raggela¬ to la schiena. Il mio sguardo si era incrociato con quello di Isi¬ de: mi fissava con occhi diversi, interrogativi, carichi di singolare intensità. Sono certo che lei, troppo gio¬ vane, non aveva riconosciuto quel motivo, non pote¬ va sapere cosa significasse per me. E poi non dispo¬ neva di notizie sul mio conto per percepire la natura del prodigio, la ragione riposta della mia scossa im¬ provvisa. Eppure, trasalendo a sua volta, mi aveva sussurrato: “Chi era, un fantasma?”
.
Indice
::
Capitolo I
La premonizione
11
Capitolo II
Il recinto incantato
27
Capitolo III
La catena magica
40
Capitolo IV
L’angelo azzurro
52
Capitolo V
La signora Elena
73
Capitolo VI
Le mura stregate
96
Capitolo VII
La lanterna dell’illusionista
115
Capitolo Vili
Minerva medica
133
Capitolo IX
Il labirinto degli specchi
149
Capitolo X
Fughe d’amore
165
Capitolo XI
L’ultimo esilio
185
Capitolo XII
L’oracolo
203
Capitolo XIII
Prodigi
222
Stampato nel mese di novembre 2000 dalla X-Press Industria Poligrafica Napoli
N»
18634302
I-'EDERICO F rt CURtì DI ''INFRtìNco ANGELICO I
£
Gianfranco Angelucci, scrittore, regi¬
sta, autore di programmi televisivi, vi¬ ve e lavora a Roma, dove alterna l’atti¬ vità letteraria a quella cinematografica. Amico e collaboratore di Federico Fellini, ha curato vari volumi sulla sua pro¬ duzione artistica: Amarcord, Casanova, E la nave va, Ginger e Fred, Block-notes di un regista-, oltre ai libri fotografici La dolce vita e Un regista a Cinecittà. Nel 1994 ha esordito nella narrativa con il romanzo L’amore in corpo. Autore del film Miele di donna (1981), ha firmato per Fellini la sceneggiatura del film In¬ tervista (1987, Premio Speciale della giu¬ ria a Cannes, e Primo Premio al Festival di Mosca), e diretto alcune importanti produzioni fra cui l’omaggio in due ca¬ pitoli Fellini nel cestino e I protagonisti di Fellini (RCS Flome Video) e la re¬ gistrazione alla Scala del “ Balletto La Strada” di Nino Rota. Nel 1997 la fa¬ miglia del regista lo ha chiamato a diri¬ gere la “Fondazione Federico Fellini”.
In copertina: Milo Manara, Oscar a Fellini (1992)
« Pamina era sempre al centro dell’at¬ tenzione, euforica, incredula di parteci¬ pare a quella specie di scampagnata, lei abituata a chissà quali degenti, a quali veglie noiose e deprimenti. Quando poi era arrivato in visita Titta Benzi, l’av¬ vocato, appoggiandosi al suo bastone, sornione e gaudente, allora l’atmosfera goliardica si era proprio surriscaldata. Federico se la spassava di gusto, a pan¬ cia scoperta, come se fosse sdraiato su una brandina da spiaggia a prendere il sole. Titta era di nuovo il compagno dell’adolescenza disposto a buffoneg¬ giare per lui... »
L. 24.000 € 12,39 ISBN 88-8309-061-6
9 788883 090615