Federico II imperatore
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Ernst Kantorowicz

FEDERICO II, IMPERATORE

Garzanti

In questa collana Prima edizione: marzo 1988

Traduzione dal tedesco di Gianni Pilone Colombo

Titolo originale dell’opera: «Kaiser Friedrich der Zweite» © Verlag Helmut Kiipper Vormals Georg Bondi Dusseldorf und Miinchen

ISBN 88-11-69305-5 © Garzanti Editore s.p.a., 1976, 1981 Printed in Italy

Capitolo primo L’infanzia di Federico

La quarta egloga di Virgilio è la più nota profezia in versi sul Reden­ tore che abbia l’occidente. In tale componimento, relativamente breve, il poeta, ancor prima di cantare il futuro dell’impero romano nell’epos po­ deroso àeWEneide, aveva delineato l’immagine del futuro dominatore del mondo, attribuendogli i tratti del Messia. Come un figlio degli dei avrebbe salutato la luce con un sorriso, recato pace al mondo intero e ricondotto sulla terra l’età dell’oro, il regno di Apollo. Che la predizione virgiliana si riferisse anche ad Augusto, l’imperatore della pace e protettore del poeta, non sfiorò neppure il mondo medievale; e infatti, per quel tempo cristiano, che cos’altro potevano significare quei versi profetici, se non un prodigioso annuncio dell’avvento di Cristo? Il fatto che i versi profetassero un signore, non infirmava l’interpretazione: si era usi celebrare il Cristo come re del mondo e reggitore dell’impero romano, e a raffigurarlo in tale senso: severo Pantocratore racchiuso in una mandorla, troneggiante sulle nubi, nelle mani il globo e il libro delle leggi, e in capo il diadema. E il fatto che Virgilio, pagano, avesse conosciuto e rivelato l’avvento del Salvatore così come i profeti dell’Antico Testamento, era solo un ulteriore miracolo; e proprio la rivelazione palesata dal breve componimento acquistava al poeta la venerazione, tra ammirata e timorosa, del mondo medievale. La profezia virgiliana offrì materia e tono al canto enfatico di Pietro da Eboli, poeta campano, che celebrò la nascita del figlio unigenito dell’imperatore Enrico vi. Accanto alla culla dell’ultimo e più grande imperatore dell’impero ro­ mano cristiano-germanico stava dunque — e non è di poco significato — Virgilio. Il dotto Pietro da Eboli non fu il solo cantore e savio che elevò profe­ tici detti alla nascita del figlio di Enrico, avvenuta il 26 dicembre del 1194: Goffredo da Viterbo, maestro di Enrico vi, celebrò anch’egli il bambino come futuro salvatore, come colui del quale avevano parlato i vaticini, il Cesare che sarebbe venuto a compiere i tempi; e aveva già per l’innanzi 5

oscuramente profetato al suo signore e imperatore che era destinato a suo figlio, secondo quanto predetto dalla Sibilla Tiburtina, lo scettro del mondo, sotto il quale l’occidente si sarebbe riunito all’oriente. E più tardi si narrò che il mondo intero aveva giubilato alla nascita dell’erede imperiale. Pre­ sto però si conobbero altre voci sulla nascita dell’ultimo Staufen, e assai meno benevole: dalla Bretagna, il mago Merlino aveva non solo predetto la nascita « miracolosa e insperata » del bimbo, ma altresì, con parole oscure, le calamità che ne sarebbero venute: « Egli sarà un agnello da squartare ma non da divorare, e leone furioso tra i suoi. » Gioacchino da Fiore, abate cistercense calabrese, e precursore di san Francesco, rico­ nobbe subito nel neonato il futuro castigatore del mondo e anticristo, che sarebbe venuto a confondere il mondo. Questo abate, inoltre, « di spirito profetico dotato », avrebbe assai per tempo fatto sapere all’imperatore che sua moglie, posseduta dal demonio, era gravida senza saperlo, e in ciò simile ad altre madri di eroi (Olimpia; Azia, madre di Augusto; e Herzeloide; che sognarono di portare un drago in grembo), ella pure fu avvertita da un sogno che avrebbe partorito un tizzone ardente, la fiaccola d’Italia. Costanza, del resto, ha eccitato la fantasia dei contemporanei come poche imperatrici. La giovinezza ritirata dell’erede di Sicilia, figlia postu­ ma di Ruggero n, il re normanno geniale che fondò lo stato, l’eroe grande dalla barba bionda; le tarde nozze di lei, più che trentenne, col figlio del Barbarossa, di circa dieci anni più giovane, e, dopo nove anni di infecon­ dità, in età già matura, l’inatteso concepimento di un figlio: tutto questo era, o apparve, a quell’epoca fuori dell’ordinario e offriva materia bastante a varie leggende. Correva voce che sogni infausti avessero perseguitato già la madre di lei, Beatrice, figlia del conte Giinther von Rethel, quando partorì, dopo la morte di re Ruggero, la futura imperatrice; e gli indovini della semiorientale corte normanna spiegarono che Costanza avrebbe pre­ cipitato la sua terra nella più profonda rovina. Appunto per scongiurare tale eventualità, Costanza sarebbe stata destinata al monastero (come un tempo, a Roma, Rea Silvia fu fatta vestale), e il fatto che ella effettiva­ mente trascorse parecchio tempo in vari conventi di Palermo, può aver rafforzato questa voce. Si diceva pure che si fosse decisa alle nozze contro sya voglia; opinione che si ritrova ancora in Dante, il quale le assegna un posto nel Paradiso, perché costretta, e non di sua volontà, lasciò la « dolce chiostra ». La leggenda che Costanza avesse preso il velo, fu universalmente creduta, e più tardi, per odio contro il figlio, fu intenzionalmente diffusa dal partito guelfo, secondo una tendenza strettamente imparentata con una versione più tarda: l’anticristo, cioè, sarebbe stato partorito da una mo­ naca. Nel contempo, la prima e unica gravidanza dell’imperatrice (a quel­ l’epoca quarantenne), offriva spunto a un altro ciclo di leggende, che la 6

voleva ancora più matura che non fosse, allo scopo di assimilare il mira­ colo di questo tardo concepimento ai modelli biblici; e la tradizione la descrive come una donna vecchia e rugosa. Sorse quindi inevitabilmente la diceria che il figlio non fosse suo, e si asseriva che avesse per padre un macellaio. Tuttavia, l’accorta Costanza avrebbe trovato il modo di infir­ mare tali voci col far innalzare una tenda sulla piazza del mercato e col partorirvi alla presenza del popolo, mostrando altera il turgido seno. Federico n vide la luce non a Palermo, ma a Jesi, cittadina di origine romana che egli, divenuto imperatore, celebrò in uno scritto singolare, chia­ mandola la sua « Betlemme »; né mancò di paragonare la « divina madre », che l’aveva generato, con la madre di Cristo. Ora, la marca di Ancona è uno dei territori più sacri dell’Italia rinascenziale, e il popolo italiano, non appena acquistò coscienza di sé, riconobbe e consacrò come tale questa « sancta regio »: è dal 1294; — esattamente cent’anni dopo la nascita del rampollo degli Staufen — che la casa di Maria a Nazareth è passata alla marca anconitana, e Loreto, il luogo ove essa sorge tuttora, divenne il più celebre luogo di pellegrinaggio d’Italia. Così è naturale che si possa cercare nelle Marche — patria, non lo si dimentichi, di un Raffaello — lo sfondo paesaggistico di molti dipinti della Madonna col Bambino, se pure mitiche contrade hanno qualche attinenza con luoghi ben determinati. Il fanciullo, al quale Costanza aveva imposto il nome di Costantino, non conobbe durante l’infanzia queste visioni luminose: il « figlio bene­ detto », a pochi mesi di vita, fu portato dalla madre a Foligno, presso Assisi, e affidato alle cure della duchessa di Spoleto, mentre l’imperatrice si affrettò a tornare nel suo regno di Sicilia. Si era fermata a Jesi solo per il parto, quando Enrico era sceso nel sud, a soffocare con sanguinosa du­ rezza una rivolta scoppiata in Sicilia, e a prendere interamente possesso, dopo anni di lotte e di sacrifici, delle terre ereditate dalla moglie. Col ma­ trimonio di suo figlio il Barbarossa aveva sognato e s’era prefisso di tenere in scacco i fastidiosi normanni (sempre pronti a sostenere le parti dei ne­ mici dell’impero), e di fornire alla potenza degli Staufen un saldo perno di forza così a nord delle Alpi come nell’estremo sud, donde poter sorvegliare e coartare ancor meglio la parte di territorio fra i due capi e il regno d’Ita­ lia sempre in rivolta, senza per questo dover dipendere dalle buone grazie dei principi tedeschi. Ciò s’era compiuto un giorno avanti la nascita del­ l’ultimo erede di questa potenza. Enrico vi, con pompa inaudita, fra gli squilli delle trombe saracene, entrò a cavallo, vittorioso, in Palermo do­ mata, davanti a un popolo in ginocchio, impaurito; e il Natale del 1194, nel duomo della capitale, fu incoronato re di Sicilia. Poco più in là poteva annunciare in una lettera, la conclusione vittoriosa delle sue lotte e la nascita del figlio. Solo quando per mezzo di questa fu assicurata la suc­ 7

cessione, l’acquisto del regno (ereditario e non elettivo) ottenne il suo si­ gnificato nel quadro delle altre poderose imprese dell’instancabile Enrico. La signoria di Enrico sull’impero durò soltanto sei anni, ma, per pochi che fossero, gli bastarono per mettere il mondo in ginocchio davanti al suo trono. Se anche, come il figlio, avesse saputo leggere gli astri e da questi apprendere quale breve tratto gli era destinato per adempiere a un compito così immane, le sue azioni non avrebbero potuto essere più strin­ gate di quello che furono. Altri valori che non fossero tangibili e concreti non conobbe: non v’era scrupolo che valesse a frenare la sua ascesa senza precedenti, e mere parvenze erano per lui le convenzioni, là dove si trattava delle sue mete imperiali. Aveva, degli Staufen, il freddo genio dell’uomo di stato, che si incarna in tali principi. Ma del geniale casato gli mancava qual­ che caratteristica: della serena leggerezza propria dell’indole della sua stirpe aveva poco, nulla dell’aspetto esteriore. Il suo corpo era magro e debole, pal­ lido il volto e sempre severo, dominato da una fronte spaziosa, la barba rada. Nessuno lo vide mai ridere. Gli mancavano completamente il fascino suasivo e la amabilità d’un Barbarossa; il suo carattere era cupo e dispotico, da ulti­ mo quasi di pietra, la sua politica largamente aggressiva, di mire universali­ stiche, terribilmente dura e arida. La durezza era, del resto, il connotato della sua indole: una durezza granitica e una chiusura rare in un tedesco, e, in più, una volontà inflessibile, una passionalità prepotente ma gelida, congiunte a una astuzia stupefacente e a un talento politico notevole. Tut­ to questo contribuisce a farlo apparire stranamente vecchio, per cui si è indotti a dimenticare che Enrico vi chiuse la sua carriera all’età di soli trentadue anni. Il Barbarossa gli aveva lasciato, oltre al regno, tutto il complesso dei diritti e delle prerogative che il diritto romano gli assegnava: l’intero orbe, in tutta la sua estensione, doveva sottostare all’imperatore dei romani. E ad Enrico imperatore toccò il compito di tradurre in pratica, nel giro di pochi anni, tali diritti. Anche se gli mancò la focosità effusa, l’ebbrezza trascinatrice d’un Barbarossa e la sua spontanea bramosia, che indusse il padre a ingiungere ai sultani di sottomettere a lui, come all’erede di Augu­ sto, le loro terre, per esser state un tempo, queste, conquistate dai con­ dottieri di Roma, tuttavia, in Enrico, la fredda determinazione, il senso illimitato della concreta realtà, erano forse più « romani ». Il grandioso slancio suscitato dal Barbarossa fu da Enrico abilmente sfruttato, e l’im­ magine che ancora se ne aveva, fornì al conquistatore del mondo il neces­ sario sostegno all’azione. « Come in grandezza e splendore il sole del cielo vince radioso il firmamento intero, così, alto sopra gli altri regni terrestri, splende l’impero di Roma. Di quell’impero fu un tempo la po­ testà unica e sovrana, così che, come le stelle ricevono la loro luce dal 8

sole, anche i re ricevono dall’imperatore la facoltà di regnare. » Così scriveva un poco più tardi il monaco cistercense renano Cesario di Heisterbach; né erano solo i tedeschi a pensare così. « Reucci » definiva tutti gli altri principi l’inglese Giovanni di Salisbury, partendo da una concezione già quasi umanistica, e Uguccione da Pisa riecheggiava il mondo ideale del diritto romano, insegnando che « se è vero che l’impero romano era composto di varie province con a capo vari re, c’era nondimeno un solo imperatore, al quale essi tutti erano soggetti ». È la nota teoria imperiale degli Staufen, alla quale diede più tardi espressione poetica Walther von der Vogelweide col verso: « i pòveri re si spingono l’un l’altro ». E se tale teoria non era realizzabile mediante una signoria assoluta e immediata, lo era però mediatamente, attraverso il diritto feudale; nello spazio di pochi anni l’occidente (e non solo esso), vide effettivamente in Enrico il più alto signore feudale. Egli aveva pre­ teso le terre polacche a oriente e la Danimarca già prima della morte del Barbarossa, e l’Inghilterra, con la cattura di Riccardo Cuordileone — capo­ lavoro dell’arte del calcolo politico di Enrico vi —, s’era ridotta a stato vassallo e tributario dell’imperatore; e pretese, appunto per mezzo di Ric­ cardo, di essere riconosciuto sovrano feudale sopra Filippo Augusto di Francia, giacché i grandi possedimenti inglesi, dalla Normandia ai confini della Navarra, erano feudi francesi. Restava da far prestare formale giura­ mento di vassallaggio alla Francia: Cuordileoné, come semplice vassallo, ricevette ordine dall’imperatore di muoverle guerra e di far la pace sol­ tanto dietro suo personale consenso. Le pretese dell’imperatore si estesero dalla Borgogna (regno passato all’impero per il matrimonio del Barbarossa con Beatrice) alla Castiglia, mentre i genovesi si curavano di farle valere pure sull’Aragona. L’Italia stessa, poi, era totalmente in mano all’imperatore. Anche le isole italiane erano sue. Le città lombarde non osarono resistere, e il papa, impotente di fronte alla potenza imperiale, era ridotto a controllare una parte della campagna romana, « dove però si temeva più l’imperatore che il prete ». Tutto il patrimonio papale (la Tuscia, la Marca e Spoleto), sono in pos­ sesso dello Staufen; Roma ha un prefetto di nomina imperiale, anzi la stessa parte destra della città, oltre Tevere, è incorporata al territorio della Tuscia: sicché l’Italia intera, dopo la conquista della Sicilia — che vide impegnate per lunghi anni tutte le forze imperiali —, è assoggettata a un solo potere assoluto. Col possesso della Sicilia si schiuse a Enrico, quale primo imperatore, un mondo completamente nuovo: il bacino del Medi terraneo, dalle Co­ lonne di Ercole all’Ellesponto, si apriva all’irradiazione della sua potenza. Lo Staufen non solo si sentì successore dei normanni nella reggia di Pa­ 9

lermo e nella dignità regale, ma si considerò altresì erede delle loro pretese. A partire da Ruggero n, i normanni si erano dati il titolo di « re d’Africa » e, come tali, ricevevano tributi dai principi musulmani, dal Marocco a Tripoli: ora tali tributi dovevano passare al nuovo signore di Sicilia e imperatore germanico. Il sultano degli Almohadi si era deciso ben presto al tributo, perché, dopo la conquista della Sicilia, vedeva minacciato il suo dominio sulle Baleari. Inoltre, Enrico vi si sentiva erede delle scorrerie di Roberto il Guiscardo e dei suoi successori contro la Roma d’oriente. La viva aspirazione a un potentato totale — uno, romano, universale — della nazione germanica, sarebbe stato certo lontano dall’attuarsi, se En­ rico avesse tollerato accanto a sé un altro imperatore, quello greco: il cer­ chio attorno al Mediterraneo non poteva chiudersi senza Bisanzio. Enrico può appoggiarsi a svariati diritti, e, in mancanza di questi, basta il terrore suscitato dalla sua potenza ad ammorbidire senz’altro i deboli greci. Quale retaggio normanno, pretende il territorio da Epidauro a Tessalonica, e, attraverso i suoi legati, esige inflessibilmente dal debole usurpatore Ales­ sio in tributi, milizie, navi. Con la corte bizantina tratta « come se fosse il signore dei signori e il re dei re ». Alessio m è costretto a imporre una « tassa dei germanici » sull’esazione del tributo, per far fronte alla quale non si fece scrupolo di profanare le tombe degl’imperatori — compresa quella del grande Costantino — e di depredare i morti dei loro ornamenti. Ma questi erano solo i primi passi per l’assoggettamento dell’oriente, al quale l’imperatore si dedicò quasi esclusivamente, con vasti progetti, du­ rante gli ultimi anni di vita. E già alcuni principi cristiani d’oriente s’erano posti spontaneamente sotto la protezione dell’imperatore appena trentenne, l’unico che allora gliela potesse concedere: il principe di uno stato crociato, Boemondo d’Antiochia, s’era dichiarato vassallo di Enrico; gli ambasciatori del principe di Cilicia gli resero omaggio, chiedendo che al loro signore venisse conferita la corona di « re d’Armenia » e mutando così il loro vas­ sallaggio a Bisanzio con quello al nuovo signore occidentale del mondo; e sino a Worms si spinsero i messi di Amalrico, re di Cipro, per ottenergli l’investitura a re. Ma intanto Enrico progettava una crociata, che vera­ mente schiudesse al suo dominio l’oriente. I preparativi furono effettuati con la maggior cura; e sebbene il papa (l’allora più che ottantenne Cele­ stino m) intuisse chiaramente le vere mire di tale guerra santa, come capo spirituale dell’occidente cristiano non gli restava, almeno in quel momento, se non prestare di buon grado il suo appoggio a tale progetto. Si trovò coinvolto contro sua voglia nei piani imperiali, e solo su un punto riuscì a contrastare validamente lo Staufen. Enrico vi sapeva benissimo che il suo sterminato impero mancava di organica unità, poiché ogni nazione stava in diverso rapporto col potere io

centrale: la Germania era una monarchia elettiva, la Sicilia ereditaria, e gli altri paesi, per vie più o meno complicate, erano feudi vassalli. Enrico, allora, cercò, per quanto poteva, di connettere il tutto e di dargli un’im­ pronta unitaria: natogli il figlio, credette giunto il momento. Per cattivare alle sue mire i principi e i vescovi tedeschi, offerse ai primi l’ereditarietà dei feudi, ai secondi concesse mano libera nella scelta dell’erede dei loro domini: l’impero tedesco dei grandi elettori doveva, nei suoi progetti, trasformarsi in un impero romano ereditario. E anche il suo dominio per­ sonale, la Sicilia, doveva essere incorporato in questo impero. A eccezione dell’arcivescovo di Colonia e di un suo esiguo seguito, i principi tedeschi si dichiararono d’accordo. L’imperatore, per sgombrare le ultime resistenze, si recò a Roma coll’intenzione, probabilmente, di far incoronare Cesare e co-imperatore il figlio dal papa, a onta delle proteste dei principi tedeschi. Ma il papa ricusò, e Enrico dovette accontentarsi di quanto altri prima di lui avevano fatto: di fare cioè eleggere a futuro imperatore il figlio dai principi tedeschi, per potere, in tal modo almeno, assicurare il trono agli Staufen. L’erede del suo enorme impero, Enrico lo vide soltanto due brevissime volte: la prima, subito dopo la nascita, a Foligno; la seconda, in occasione del battesimo, avvenuto più tardi. Il bimbo aveva inizialmente ricevuto il nome di Costantino, che ben si accostava a quello della madre, Costanza, la quale in lui vedeva solo il proprio erede; e con tale nome straniero i principi tedeschi l’avevano eletto re a Francoforte. Il giorno del battesimo (al quale erano presenti numerosi cardinali e vescovi, ma non — come aveva sperato Enrico — il papa), gli fu mutato il nome in quello dei due nonni, ai quali poi doveva assomigliare più che ai genitori, e fu chiamato Federico Ruggero. Già questi nomi aveva suggerito nel suo inno Pietro da Eboli, che aveva vaticinato al nipote dei due potenti principi, al figlio di Enrico vi, una enorme, quasi divina potenza. Tale predizione trovava d’accordo tutti i poeti e i savi, che attorniavano la culla del bimbo, sia che parteggiassero per l’impero, sia che, satelliti del papa, nutrissero ti­ mori per le sorti della chiesa romana. Ma ben presto parve che tutti i pro­ feti si fossero sbagliati. L’estate del 1197, Enrico si trattenne in Sicilia, dove, nella primavera, aveva scoperto una congiura diretta contro la sua persona da parte della nobiltà; e solo a malapena era riuscito a sfuggirvi. Si disse che ad essa avessero concorso il papa Celestino e anche Costanza, né si hanno fondati motivi di credere il contrario: infatti, quando Enrico, fatti prigionieri i caporioni, li fece giustiziare fra orribili tormenti, costrinse la sua sposa ad assistere alle torture inflitte ai suoi conterranei, fra i lazzi dei buffoni di corte che sberteggiavano i corpi non ancora del tutto morti. Di lì a poco n

si mise in moto anche la crociata allestita dall’imperatore. Gran parte dei crociati avevano fatto vela dalla Sicilia, quell’estate, alla volta della Terra­ santa, e non pareva improbabile la partecipazione di Enrico alla spedizione. Ma questi pensò bene di stare prima a vedere come si mettevano le cose e si fermò in Sicilia con un seguito poco numeroso. Non gli fu dato, come già a suo padre, di vedere la Terrasanta neppure da lontano. Come a molti nordici, gli nocque il clima dell’estate sitiliana, e, caduto in preda alla dissenteria durante una partita di caccia, in capo a poche settimane, dopo una effimera ripresa, inopinatamente si spense a Messina (settembre 1197). Enrico aveva mostrato al mondo la superiorità germanica, il suo valore guerresco aveva incusso timore ai popoli vicini: così parlava di lui un cronista; ma tutto questo svanì ben presto, con la sua morte, fra le ombre del passato. La grandezza tedesca, il dominio germanico del mondo — opera sempre del singolo genio, non del popolo — si sfasciò fatalmente nello spazio di un istante. Enrico vi ebbe piena coscienza del pericolo incombente sull’impero: il suo testamento, che a ogni passo esorta a concessioni, alla rinuncia, anzi, di privilegi ormai consolidati, lo dimostra in modo drammatico. Anche nell’impero si comprendeva che cosa significasse la morte dell’imperatore in tale momento: egli lasciava la sua opera incompiuta e un erede in età di tre anni; gli oppositori, impediti sino ad allora, dalla superiorità e rapi­ dità di intervento imperiale, a coalizzarsi, si sarebbero ora riuniti per l’inevi­ tabile contraccolpo. Il quale, a dir il vero, non avrebbe mancato di prodursi anche vivo Enrico vi; morto, poi, cioè scomparso l’unico che a questo avreb­ be potuto contrastare, le potenze rivali, principi e papa, si trovarono in pre­ senza di un vuoto di potere, nel quale potevano, non più tenuti a freno, e perciò più perniciosamente, esercitare la loro influenza. Già a pochi mesi dal­ la morte dell’imperatore, la Germania trovava in Filippo di Svevia e in Otto­ ne di Braunschweig due re: uno Staufen e un guelfo; mentre saliva sulla cattedra di Pietro Innocenzo m, vero erede della signoria dell’impero sul mondo, e, in un certo senso, il papa più grande per successi politici. In quei giorni si ebbe lungo le rive della Mosella un’apparizione che destò spavento: in groppa a un enorme cavallo nero passò Teodorico, venuto ad annunciare all’impero romano funeste sventure. Il piccolo Federico di tre anni se ne stava intanto a Foligno, dove si dirigeva Filippo di Svevia, fratello dell’imperatore, per condurlo seco in Germania e quivi incoronarlo. Ma giunto a Radicofani (presso Viterbo), apprese la nuova della morte di Enrico. La conseguente rivolta scatenatasi in tutta Italia contro l’esercito imperiale e in generale contro gli odiati tedeschi lo costrinse a piantare tutto e a passare le Alpi in gran fretta. A 12

stento Filippo riuscì ad aprirsi la strada per la Germania. Questa mancata esecuzione dell’ordine imperiale — forse una questione di qualche giorno appena — si sarebbe rivelata decisiva per tutto il futuro di Federico n, che fu costretto a restare in Italia, dove crebbe nel regno materno, invece che nella Svevia paterna. Inoltre, proprio per la sua lontananza dalla Ger­ mania, perdette, in sostanza, la corona che i principi tedeschi gli avevano già assegnata. Ma a parte le conseguenze negative che ebbero gli avveni­ menti del nord dell’impero, Costanza ci mise del suo, per togliere al figlio il regno tedesco. Subito dopo la morte di Enrico, Costanza mandò alcuni conti di Puglia a Foligno a prendere Federico, con l’incarico di condurlo in Sicilia. A Palermo lo ricevette vestita a lutto. Voci accusatorie correvano allora sul conto dell’imperatrice: si diceva che avesse avvelenato Enrico, e tutti sa­ pevano che non amava i tedeschi. Ora, se la prima era un’ingiusta calunnia, senza dubbio Costanza odiava i tedeschi, simile, in ciò, ai suoi conterranei siculi e agli italiani aizzati dalla curia romana. I motivi di questo odio sono quelli di sempre: le popolazioni medjterranee erano urtate dalla mancanza di misura « accompagnata da stoltezza », dalla « cocciutaggine e presun­ zione » dei tedeschi; e intimoriva i meridionali il loro rozzo vigore. Materia al dileggio era offerta dalle loro discordie intestine; inoltre, questi signori del mondo apparivano generalmente « goffi, grossolani e zotici », usi a una lingua ancora rozza, che all’orecchio latino suonava simile a « latrato di cane e gracchiare di cornacchia ». Il motivo principale dell’odio era co­ munque la paura di quell’irrompere « delle tempeste del nord e dell’inver­ no tedesco nel roseto siculo », accresciuta dal trattamento, talora veramente disumano, inflitto da Enrico vi ai siciliani. Innocenzo m ha forse colto nel segno, quando scrive, con immagine biblica, parlando della missione te­ desca in quel tempo: « Siccome il popolo siculo e gli altri abitanti del re­ gno, effeminati dagli ozi, senza ritegno per troppo lunga imbellita e osten­ tando la loro ricchezza, s’eran dati con eccessivo trasporto ai piaceri car­ nali, il loro lezzo era salito sino al cielo, e il cumulo dei loro peccati li aveva arresi nelle mani dei persecutori. » Ma Innocenzo non parlava certo così per amicizia verso i tedeschi, anzi. L’odio divampato contro i tedeschi in tutta Italia subito dopo la morte dell’imperatore, era stato accuratamente attizzato già per tempo dalla curia e spacciato come un moto nazionale ita­ liano, da sfruttare come mezzo per scalzare il dominio imperiale nel sud e sostituirvi l’Italia papale. Con scritti clamorosi proprio Innocenzo m si era adoperato a rinfocolare e a tener desto l’odio antigermanico: « Il fu­ rore della bufera venuta dal nord spazza i monti della Calabria con un nuovo sisma della terra, e per le piane di Puglia mulina la polvere negli occhi dei viandanti e degli abitanti, » così scriveva dei tedeschi di Enrico vi, al

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quale affibbia il titolo di « secondo vento di Soave », per dirla, poi, con Dante. Nel complesso, una simile reazione alla tirannia di Enrico vi era scon­ tata. Ma in Sicilia la rivolta acquistò rilevanza solo per il fatto che vi avesse aderito anche Costanza. Per lei giocarono forse un ruolo determinante an­ che motivi personali, se si considera che Enrico aveva spietatamente fatto piazza pulita dei familiari della casata normanna e bandito i superstiti, relegandoli in Germania. Alla morte dell’imperatóre, ella prese le redini del regno — già suo per eredità —, seguendo a un tempo la volontà del defunto e la prerogativa di diritto, che le spettava quale regina dei nor­ manni. E solo come tale, non come moglie di Enrico, governò la Sicilia, esiliando, subito dopo aver preso il potere, il siniscalco imperiale, Markward von Anweiler, insieme con tutti gli altri'grandi tedeschi, che in gran nu­ mero avevano ottenuto feudi e cariche nel regno normanno. Costoro rap­ presentavano — questo il pretesto — un potenziale pericolo per la tran­ quillità e la pace del reame; più degli altri, Markward, che aveva subito preteso la reggenza siciliana. Costanza fece inoltre incarcerare il cancelliere del regno siciliano, Gualtieri di Pagliara, vescovo di Troja, che, nemico dell’antica dinastia normanna, s’era mostrato incondizionatamente fedele all’imperatore tedesco. Solo l’intervento del papa potè farlo rimettere in libertà e reintegrarlo nel suo ufficio. Tale era, del resto, l’odio antigerma­ nico nel meridione, che i crociati tedeschi, di ritorno dalla Terrasanta, in Sicilia, dovettero guardarsi dal toccare i porti del regno pericoloso e ino­ spitale: i primi reduci ignari furono infatti assaliti e rapinati dal popolo isolano esasperato. Laddove proprio i principi tedeschi partecipanti alla crociata avevano riconfermato ad Akkon l’elezione a re dei romani di Fe­ derico il, al luttuoso annuncio della morte di Enrico. Ma Costanza non volle saperne di tutto ciò. Il suo odio antigermanico coincideva con l’apprensione, comune anche ad altre madri di valorosi: vedeva nel possesso della corona tedesca soltanto una fonte infinita di pericoli e conflitti futuri per il figlio. Federico sarebbe stato re della ricca Sicilia, e, signore d’una terra di sogno, doveva scordare di essere l’erede degl’imperatori d’occidente. Perciò, pochi mesi dopo l’arrivo a Palermo, Costanza lo fece incoronare re di Sicilia. Il giorno di Pentecoste del 1198 avvenne la fastosa cerimonia, secondo il solenne rituale bizantino, mentre il popolo, seguendo l’uso antico, gridava all’incoronato il motto che ancor oggi si legge su ogni crocifisso siciliano, e che significativamente appare inscritto nel primo sigillo di Federico: « Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat. » Dal giorno dell’incoronazione, Costanza non volle che si scrivesse più nei diplomi del figlio la dicitura consueta di rex romanorum: d’ora innanzi, Federico doveva portare soltanto i molti titoli dei reges 14

felices di ceppo normanno ed essere semplicemente il figlio di Costanza, regina di Sicilia, tenendosi lontano da ogni oscura minaccia, cui avrebbe potuto esporsi come figlio d’uno Staufen. Al che, torna alla mente la gio­ vinezza d’un Achille o d’un Parsifal. Ora, per molti aspetti, le intenzioni della regina concordavano con i piani della curia romana: comune l’avversione per i tedeschi, comune il desiderio di assicurare a Federico la corona di Sicilia e di far sì che si limi­ tasse a questa. La Sicilia, infatti, era feudo di Roma, e al papa si offriva così la gradevole prospettiva di influire per lunghi anni ancora sull’anda­ mento del regno siculo, visto che il re contava quattro anni appena. Privare Federico del suo diritto alla corona imperiale si imponeva infine come una necessità vitale per la chiesa, che, dopo le esperienze fatte con Enrico vi, non voleva esporsi ancora una volta a essere chiusa in una morsa dalle terre imperiali, quando in una sola persona fossero accentrati i titoli di impera­ tore e di re di Sicilia. Questo punto di vista determinò in modo essenziale anche la politica papale nei riguardi dell’impero: senza badare a pretese o diritti, Innocenzo m si schierò sempre, in Germania, con il pretendente guelfo, per scongiurare l’unione fra impero e regno siciliano, che si profi­ lava come una minaccia sotto ogni Staufen, e perciò anche sotto Filippo di Svevia. Così i desideri della curia collimavano perfettamente con quelli della regina, la quale, del resto, aveva un gran bisogno dell’aiuto del papa. La Sicilia, infatti, cadde in breve nel caos di completo disfacimento, in gran parte a causa dell’antigermanesimo di Costanza: i vassalli di Enrico vi, e primi fra questi i tedeschi, invece di agire nell’interesse di Costanza, erano diventati i suoi nemici più accesi e pericolosi — e quindi anche di Fede­ rico —; costoro si opposero con successo per un decennio al bando di esilio (per applicare il quale mancava l’autorità necessaria), e tennero la Sicilia in un continuo stato di guerra. Il papa era l’unica potenza in grado di aiutare, per mezzo di una alleanza, la regina esautorata. E Innocen­ zo in concesse l’alleanza, ma a caro prezzo. Per la Sicilia, Enrico vi s’era sempre rifiutato di prestare giuramento di vassallaggio al papa, e Costanza doveva ora pregarlo di questo come di un favore. Che ottenne; ma solo dopo la stipulazione di un concordato che toglieva alla chiesa siciliana la sua particolare indipendenza e ai re siculi la quasi totalità dei loro privilegi ecclesiastici. Vana fu la resistenza di Costanza, che dovette infine risolversi ad accettare le imposizioni, non solo, ma compiere poi un altro passo ancora. Ossia, un anno dopo la morte di Enrico, trovandosi ella stessa sul letto di morte, nel suo testamento nominò il papa reggente e tutore di Federico, assegnandogli a titolo di compenso, oltre al rimborso delle spese, la somma annua di trentamila tarenti. In tal modo Costanza ritenne di aver assicu­ i5

rato al figlio una buona protezione. La cura immediata di Federico e del regno fu da lei affidata ai fedeli del re, al « collegio dei familiari » — l’an­ tica autorità suprema dei normanni — che alla morte dell’imperatrice era composto di quattro arcivescovi, con a capo Gualtieri di Pagliara, vescovo di Troja, rieletto cancelliere. Alla morte di Costanza — avvenuta nel no­ vembre del 1198 —, il regno siciliano era sotto la tutela di quattro vescovi e Federico il pupillo del papa e della chiesa. Per il momento, il figlio di Enrico vi aveva perduto la corona tedesca. Le lotte per la successione fra guelfi e Staufen, e altri torbidi, avevano fatto sì che in Germania ci si dimenticasse dello Staufen di Sicilia, il cui nome solo all’inizio emerse qua e là, allorché ci si ricordò che, oltre Fi­ lippo di Svevia e il guelfo Ottone, poteva esser preso in considerazione come terzo aspirante al trono. Ma i signori tedeschi amici degli Staufen, che avrebbero potuto pren­ dere le difese di Federico, erano in generale passati dalla parte dell’altro Staufen, Filippo di Svevia; il quale aveva in un primo tempo regnato — come gli spettava « secondo la legge e la natura » — soltanto in nome del nipote minorenne. Quando però i principi che volevano sul trono un uomo e non un bimbo, data la situazione, decisero quasi all’unanimità di revocare l’elezione di Federico fatta un anno prima; e si formò sul Reno un partito d’opposizione antighibellino capeggiato dall’arcivescovo di Co­ lonia; Filippo, dietro pressione dei suoi partigiani, dopo alcune esitazioni si dichiarò pronto ad assumere la corona in proprio, perché essa restasse almeno al suo casato. Con grazia e dignità portavano la corona il bel principe infelice e la sua amata sposa; Walther von der Vogelweide li vide incedere nel duomo, « la corona in capo », « il dolce giovane » e la bella, infelice Irene; e così cantò:

Andava lento e misurato; al suo fianco la regina d’alto casato, rosa senza spine, colomba senza ira.

Le ricche e varie doti degli Staufen erano state' nettamente divise tra i due fratelli, Enrico vi e Filippo di Svevia: duro e brutale il primo, quanto il secondo era mite, gentile, dotato di grazia, e, al contrario degli altri Staufen, di vera religiosità. Questi era stato dapprima destinato allo stato ecclesiastico, e lo si vide spesso fra i chierichetti a cantare le ore e il re­ sponsorio. Fu probabilmente il reggitore più dolce e più mite che la Ger­ mania abbia avuto; troppo mite per la sua epoca: resse l’impero per dieci anni, e mai le armi trovarono posa; amantissimo della pace, dovette in­ 16

traprendere spedizioni su spedizioni. Subito dopo la sua elezione si vide contrapporre dal partito renano Ottone di Braunschweig, appoggiato da quella curia che aveva abbandonato lui, Filippo, trattandolo, senza mo­ tivo, da proscritto. Non è questa la sede per trattare delle lotte fra guelfi e ghibellini in Germania, perché non vi ebbero alcuna parte né Federico né il suo nome. Innocenzo m nella sua cavillosa Riflessione sulla questione del regno s’era dichiarato contro ogni pretesa degli Staufen e, in particolare, contro quelle di Federico. L’astuto pontefice esamina minutamente in un discorso lungo e abilmente costruito, il prò e il contro di un’eventuale elevazione di Fe­ derico al trono imperiale. Innanzitutto — dice egli — non si può conte­ stare che, siccome Federico è stato eletto regolarmente, tutti i principi o quasi gli abbiano prestato giuramento di fedeltà, e taluni anche di vas­ sallaggio; ma contestabile è proprio l’elezione, visto che questa reca fra gli altri presupposti anche questo: che sia abile a regnare, e cioè abbia l’età regolamentare per farlo, chi viene scelto. Federico manca di questi due requisiti, e inoltre, al momento dell’elezione, non aveva ancora ricevuto il battesimo. Non basta: il nome col quale Federico era stato eletto era Costantino. In secondo luogo — spiega il pontefice — può parer strano che il papa voglia sottrarre al proprio pupillo dei diritti, in luogo di essergli di aiuto come tutore; ora egli è stato sì nominato tutore di Federico, ma non per mantenergli l’impero, bensì per proteggergli il regno ereditato dalla madre. Del resto — ricorda — bisogna prestar orecchio al detto della Scrittura: « Guai alla terra che ha per re un bambino. » Superate le due obiezioni, quella dell’« inammissibilità » e della « sconvenienza » del sog­ giorno di Federico lontano dalla Germania, Innocenzo in esamina svan­ taggi e vantaggi che comporterebbe l’elezione di Federico a imperatore. Con una chiaroveggenza che ha davvero del divino, egli predice tutta la vita futura del suo pupillo: « Quando questo fanciullo sarà giunto all’età del giudizio, e apprenderà che fu la chiesa a derubarlo della dignità im­ periale, non soltanto le negherà il rispetto che le compete, ma la combat terà in tutti i modi possibili; strapperà dai feudi di Roma la Sicilia, rifiu­ tando alla chiesa l’obbedienza dovuta. » Innocenzo m aveva dunque esatta coscienza di quello che aspettava la chiesa; e tuttavia agì contro tale coscienza. Le argomentazioni sopra esposte erano inconfutabili, e quando egli, ciononostante, si vide costretto a negarle, lo fece a spese del vero. Ed eccolo a spiegare che non esisteva in realtà il pericolo che Federico si vendicasse, per la ragione che, non il papa, ma Filippo di Svevia lo aveva derubato del regno e del ducato di Svevia; Filippo, il quale cercava inoltre di sottrargli, per mezzo dei suoi accoliti, la Sicilia, che la chieda proteggeva con tutte le forze a vantaggio

del suo pupillo. Così il papa metteva senz’altro a tacere tutte le pretese che da parte tedesca potevano essere avanzate in favore di Federico, e in tal modo il fanciullo restò per lunghi anni assente dall’orizzonte politico­ diplomatico della Germania. Solo, i tedeschi avevano dinanzi agli occhi l’immagine quasi fiabesca del•la sua vita nella lontana Sicilia: tale sapore di favola aveva per loro, ormai da anni, tutto quanto riguardasse la Sicilia. Già dal tempo delle migra­ zioni germaniche, la Sicilia aveva esercitato una forte attrazione sugli uomini del nord, che credevano di avvicinarsi all’Eden, quanto più si spingevano a sud fra regioni sempre più ricche e feraci. I primordi della storia tedesca vedono campeggiare la figura d’un giovane re audacissimo, il visigoto Alarico, il quale, cedendo all’oscuro impulso che lo spingeva selvaggiamente al sud, vi andò e vi trovò la morte; e la fine del germanesimo in Italia si ebbe con Corradino, lo Staufen che lasciò la vita per la Sicilia. Il regno di Sicilia fu la terra fatale dei tedeschi; nel medioevo, quasi tutti gl’imperatori cercarono, in un modo o nell’altro, di impadronirsene; solo l’abile Barbarossa ci riuscì, facendone sposare la regina al figlio Enrico. Ma il dominio fatale del sud portò a qualche mutamento in Germania, poiché parve ai crociati tedeschi che VHort renano fosse passato in Sicilia; le leggende che narravano di re burgundi e di guerrieri unni mutarono colore, e raccontarono le eroiche imprese dei greci e dei romani; e questa nuova epopea cominciò a diventare patrimonio tedesco. Cosa non raccontò delle meraviglie di Sicilia il vescovo Corrado di Hildesheim (che aveva accompagnato colà l’imperatore in qualità di cancel­ liere), scrivendo al prevosto della sua diocesi! La fonte di Pegaso, la sede delle Muse aveva visto; e Napoli, stregata dal mago Virgilio, che l’aveva chiusa in una boccia di vetro. Scilla e Cariddi aveva passato non senza paura; e a Taormina, dall’alto della casa di Dedalo, aveva lasciato spaziare lo sguardo, sovvenendosi del destino d’Icaro e del Minotauro. E aveva veduto la fonte Aretusa, che rivelò per prima il ratto di Proserpina a Cerere afflitta; l’Alfeo, che nasce in Arabia, e l’Etna... E ciò gli offriva il destro di intrecciare fra loro il mito di Vulcano, il fabbro di Giove, con la leggenda di Sant’Agata. È chiaro che il nostro vescovo, colto qual era, vide soltanto ciò che aveva già letto nei poeti latini; ma il viaggio e il profondo rispetto con cui effettuò la ricerca di tutti quei luoghi e di quei prodigi fecero sì che i miti fossero localizzati e s’imprimessero più saldamente nella memoria. Così può orgogliosamente scrivere: « Per vedere ciò che i poeti hanno descritto impiegando tanto tempo, non occorre neppure varcare i confini del regno, né uscire dalle terre soggette al dominio del popolo tedesco. » 18

Relazioni come questa fornivano materia e colore alle raffigurazioni fantastiche che i tedeschi si facevano della Sicilia — dove, per esempio, Wolfram von Eschenbach trasporta il castello fatato di Klingsor —. Nel nord ci si potè inoltre fare un’idea de visu delle meraviglie di quel regno lontano quando, a un anno dalla nascita di Federico e dalla presa di pos­ sesso della Sicilia da parte di Enrico vi, arrivò al castello imperiale di Trifels, in Germania, una carovana di centocinquanta muli carichi di oro, seta, gemme e oggetti preziosi; e si seppe che questa era solo una parte del bottino fatto dall’imperatore nella reggia normanna di Palermo. Dopo poco tempo, Enrico fu raggiunto in Germania da un messo di Costanza che gli annunciava la scoperta dell’intero tesoro di re Ruggero, venuto alla luce grazie a una vecchia serva che aveva indicato la porta segreta che lo custodiva. In quel lontano paese delle meraviglie che era la Sicilia per i tedeschi, passava dunque l’infanzia Federico il. C’era chi assicurava che il bambino era stato posto sotto la stretta vigilanza di un vescovo, perché si temeva che i siciliani, spinti dall’odio contro Enrico, lo trovassero e lo uccides­ sero. Avvenimenti straordinari e insidie non mancarono davvero ai primi anni di Federico il; ma quel che avvenne effettivamente durante la sua infanzia nel castello di Castellammare, superò per inverosimiglianza ogni più fantastica leggenda. Alla morte di sua madre, Federico, allora bimbo di quattro anni, si trovò senza un parente e senza un vero amico: i pochi congiunti soprav­ vissuti di parte materna (ostili comunque al figlio di uno Staufen), vive­ vano in esilio dal tempo di Enrico vi, e l’unico Staufen ancora in vita, Fi­ lippo di Svevia, era così preso dalle sue guerre nel nord, che poteva far poco o nulla per il nipote. Di persone che gli si dichiaravano amiche, Fe­ derico ne aveva certo un buon numero; ma tutte, senza eccezione (a comin­ ciare dal suo tutore, Innocenzo m), si valevano delle prerogative regie per i propri interessi. Non si può negare che Innocenzo abbia speso fatica e denaro nella Sicilia e per la Sicilia di Federico, nell’arco di un decennio di lotte e tumulti; soltanto, i legati papali che erano a capo delle truppe inviate nell’isola, assicuravano in primo luogo la protezione del feudo papale, e quindi, seconda nell’ordine, la tutela degl’interessi reali. Quanto più importasse al papa la sua politica teocratica del destino del suo pupillo, lo dimostrò non solo il suo intervento nella questione della corona, ma anche il suo comportamento nei riguardi del conte fran­ cese Gualtiero di Brienne, il quale balzò fuori all’improvviso a pretendere, nella sua qualità di genero di Tancredi — figlio illegittimo e ultimo re normanno —, le contee di Lecce e di Taranto. Era perlomeno azzardato da parte di un tutore realmente preoccupato degli interessi del pupillo i9

decidere la questione a favore del conte (che pure aveva dato ampie ga­ ranzie di sicurezza per Federico) e riaprire in tal modo alla dinastia nor­ manna ormai detronizzata le porte del regno di Sicilia. Ma anche qui contarono di più per il papa le sue mire politiche che non gli scrupoli nei riguardi di Federico: Gualtiero poteva essere un alleato utile. La sorte del pupillo lo preoccupava poco, è vero, ma non sarebbe mai giunto a derubarlo del trono di Sicilia: che su di esso poi sedesse Federico o un agnato della dinastia normanna, non aveva alcuna importanza per il papa, purché fosse scongiurato il pericolo d’un’unione fra l’impero e il regno di Sicilia, dove l’influenza della chiesa doveva mantenersi in tutta la sua estensione. La politica di Innocenzo m andava dritta allo scopo, e in ciò sta la sua grandezza. È quindi comprensibile che Federico non potesse più tardi pensare al suo tutore se non con amaro sdegno, benché il papa fosse stato l’unico a conservargli, con la sua reggenza, il regno. Innocenzo m prese parte alla vita del suo protetto per quanto potè, ma mai di persona, bensì inviando legati in qualità di educatori e pren­ dendosi cura dei suoi beni; lodava i suoi progressi, e manifestò una gioia sincera quando lo seppe libero da mani nemiche. Ma Federico lo vide solo tardi, già diciassettenne, per la prima e ultima volta, giacché i viaggi che il papa aveva progettato di fare in Sicilia non ebbero luogo o solo in modo imperfetto. L’altra persona a cui Costanza aveva affidato il figlio era il cancelliere Gualtieri di Pagliara. Questi, come capo del consiglio di famiglia, restò per molti anni, malgrado lunghe interruzioni, accanto al piccolo re, ed esercitò effettive funzioni di reggente. Quello che s’è detto di Innocenzo m vale più che mai per il cancelliere, il quale si valse dei pieni poteri per obiettivi personali, differenti da quelli del papa solo nel senso che non miravano a una politica di respiro mondiale. Egli cercava sostanzialmente di conservare intatta la carica di reggente unico del regno, perché lui, la sua famiglia e i suoi partigiani potessero sfruttare ampiamente i vantaggi derivanti dall’amministrazione dei beni reali. Politicamente, era stato par­ tigiano di Enrico e quindi avversario della dinastia normanna; donde l’osti­ lità di Costanza, la quale, se si era risolta a lasciarlo, ciononostante, a capo del regno quale cancelliere, vi era stata indotta dal comprensibile timore che un uomo così potente potesse dimostrarsi nemico a suo figlio. Gual­ tieri di Pagliara restò comunque sempre dalla parte degli Staufen, e perché gli conveniva, e perché ogni mutamento avrebbe diminuito la sua indipen­ denza di reggente di un re bambino. La storia non dice che si sia dato gran cura del bimbo — e il compor­ 20

tamento verso di lui di Federico adulto pare escluderlo; in ogni caso, a quel che sappiamo, non gli fu mai ostile. Difensore della dinastia di Enrico in politica interna, in politica estera si mostrò alquanto mutevole. Prima ancora che quelli del giovane re, aveva da tutelare i propri interessi contro i tedeschi cacciati da Costanza e dive­ nuti così nemici del figlio di lei. Come partigiano di Enrico, il cancelliere avrebbe invero potuto intendersi con essi, non fosse stato per il loro capo, Markward von Anweiler, il quale pretendeva di esser stato nomi­ nato da Enrico amministratore della Sicilia. Qualcosa di vero in tale af­ fermazione doveva certo esserci: Markward era in rapporto con Filippo di Svevia e agiva presumibilmente dietro suo incarico: motivo sufficiente ad attirargli l’inimicizia del papa e di Gualtieri. Sicché il cancelliere e il papa si trovarono ben presto ad agire di comune accordo contro Markward e i tedeschi. Poco importava a Markward della sorte di Federico; il « figlio falso » di Costanza infatti — così lo chiamava l’antico siniscalco di Enrico seguendo la voce corrente — era d’ostacolo, in quanto erede normanno, all’unione della Sicilia con l’impero di Filippo di Svevia, alla quale, oltre che per i propri fini, egli lavorava. Da parte papale si diceva anche che egli avesse attentato alla vita del fanciullo. A complicare ancor di più la situazione siciliana, intervenne quel Gual­ tiero di Brienne, che il papa aveva appoggiato nelle sue pretese sulle contee di Lecce e Taranto: ora lui e i suoi cavalieri francesi venivano usati da Innocenzo per far la guerra ai tedeschi. Ma l’appoggio accordato al genero del normanno Tancredi mise ben presto il papa in disaccordo col cancelliere che, nella sua qualità di nemico giurato della dinastia normanna, aspettava l’arrivo del conte francese con diffidenza certo non ingiustificata. Alla prima occasione, Gualtieri di Pa­ gliara piantò in asso il papa per passare dalla parte dei tedeschi. I molteplici sotterfugi a cui ricorsero i principali interessati, la varietà dei punti di vista del collegio familiare, il tradimento, la potenza delle armi ridussero alla fine in potere di Markward la capitale, Palermo, il castello regio e il re bambino. Morto Markward, gli successero nel pos­ sesso altri avventurieri tedeschi, come Guglielmo Capparone e Diepold von Schweinspeunt. Solo dopo parecchi anni, morto improvvisamente il conte di Brienne, Gualtieri di Pagliara riuscì a ritornare nel castello di Pa­ gliara ed a riconciliarsi col papa. Sarebbe troppo lungo narrare a una a una le battaglie, gli intrighi, le inimicizie e le alleanze che si susseguirono in quei dieci anni di reggenza. È un groviglio inestricabile, perché, oltre i quattro gruppi principali che stavano dietro il papa, il cancelliere, Markward e Gualtiero di Brienne, ci fu una quantità di comparse, partigiane ora dell’uno ora dell’altro, a se­ lz

conda che scorgessero nell’uno o nell’altro, un più efficace mezzo di attua­ zione delle loro mire particolari. C’erano anzitutto i saraceni dell’interno, che abitavano la parte montagnosa della Sicilia; costoro, come musulmani, avevan poco da sperare da una signoria papale, ed erano quindi ostili al pupillo di Innocenzo m. Tenevano piuttosto per i tedeschi, quantunque anche il papa facesse ogni sforzo per avere l’aiuto delle loro armi. L’anar­ chia generale offriva loro la possibilità di saccheggiare le terre fin sotto le mura delle città e di occuparle temporaneamente. Altra fazione ugualmente carezzata dai contendenti era quella dei ba­ roni dell’entroterra, la cui politica era semplicissima: siccome l’ordine non poteva portar loro alcun guadagno, stavano dalla parte di chi prometteva il perdurare del disordine. Al seguito dei tedeschi si misero poi i pisani, i quali, sostenitori tradi­ zionali dell’impero, avevano anche in Sicilia interessi commerciali ostacolati dai genovesi. Dopo alcune battaglie, le due città marinare vennero a un accordo per spartirsi la costa siciliana. Se è vero che il fanciullo, nella sua adolescenza, è il trastullo di quelle forze, che, adulto, dovrà dirigere e dominare nella loro totalità, Federico era già da bimbo destinato a reggere il mondo. Nella piccola Sicilia, tutte le forze dell’occidente e dell’oriente erano rappresentate dal fior fiore delle potenze del tempo, le quali cozzavano fra loro, correndo i campi di Sicilia e di Puglia, e si urtavano e si accavallavano a onde, come nel caos degl’impulsi primigeni. C’erano i tedeschi di Enrico vi, i francesi di Gual­ tiero di Brienne, i siciliani e i pugliesi, i saraceni, Genova e Pisa, e in mezzo a costoro le truppe italiche, che il papa seguitava a inviare agli or­ dini dei suoi legati; sinché alla fine capitarono nella mischia anche alcuni cavalieri spagnoli. Comune a tutti un solo impulso: il guadagno puro e semplice, la ricchezza a spese del re inerme. Direttamente o indiretta­ mente era questa la meta di tutte le battaglie. Impadronirsi del re era il sogno di tutti, giacché l’aver nelle mani il bimbo significava, per chi fosse arrivato primo, il diritto legale a una signoria più o meno brutale. Come il sigillo reale siciliano, così anche Federico passò di mano in mano, simile a un oggetto di pregio, sfruttato da ogni potente, dai più avversato, spesso in pericolo di vita: « agnello fra lupi famelici », come lo definì un cronista. Questa l’atmosfera in cui crebbe Federico n, fra il rumore delle armi, talora in vero pericolo di vita, più spesso fra gli stenti. La situazione si mantenne tuttavia sopportabile nei primi anni, sinché gli fu accanto il vescovo di Troja; ma quando Federico cadde in potere di Markward von Anweiler e dei suoi successori, cominciarono per lui i tempi duri. Federico, malgrado i suoi sette anni, si comportò in quelle circostanze da uomo d’azione. Markward prese Palermo nel novembre del 1201. Un traditore 22

gli aprì le porte della reggia, nei cui penetrali s’era rifugiato il re bambine col suo maestro Guglielmo Francesco, per sfuggire al pericolo incombente. Ancora una volta Federico fu tradito dalle guardie che svelarono il suo nascondiglio; la sua debolezza di bimbo e la nessuna fidatezza delle guardie del corpo escludevano ogni possibilità di difesa: e vide i persecutori ir­ rompere nella sua camera. Quando cercarono di mettergli le mani addosso (per incatenarlo, egli pensava), il piccolo re, pieno di ribrezzo per il con­ tatto di mani indegne, per quanto non vi fossero speranze di successo, assalì l’intruso, tentando, come poteva, di spezzargli le mani, come a colui che aveva osato toccare l’Unto del Signore. Risultato vano il tentativo, si slacciò il manto regale e disperato si strappò le vesti, e si lacerò le carni con le unghie: esplosione d’una natura selvaggia e passionale, d’un furore sconfinato contro l’offensore della dignità del re. Così almeno giudicò il suo contegno lo scrivano di Federico, che, descrivendo la scena al papa, aggiungeva: « Un buon preludio per un fu­ turo signore che non sopporta venga sminuita la nobiltà del sentimento regale, e che si sente offeso come il Sinai, quando lo sfiori un animale da preda. » Nel castello, nessuno sembrò più occuparsi del bambino; i beni reali furono anzi così male amministrati, che egli si trovò letteralmente alla fame. I palermitani, mossi a pietà, si presero cura di lui e lo nutrirono, chi per una settimana, chi per un mese, a seconda delle possibilità loro. La gente vedeva volentieri accanto a sé il bel fanciullo di nove anni, colpita dagli occhi sereni e raggianti. Libero da ogni sorveglianza, vagava pei vicoli del mercato e i giardini della capitale mezzo africana ai piedi del Pellegrino, dove si mescolavano popoli religioni costumi fra i più diver­ si: moschee e sinagoghe sorgevano accanto a chiese e cattedrali normanne, ornate di mosaici d’oro dai maestri bizantini, le travature sorrette da colon­ ne greche, il nome di Allah inciso a lettere cufiche. Intorno alla città, nei par­ chi popolati di animali esotici della Conca d’oro., i castelli dei re normanni dalle fontane zampillanti che incantarono i poeti arabi; sulle piazze dei mercati, Un andirivieni di gente tutta presa dagli affari: normanni italiani saraceni tedeschi ebrei greci. Il contatto con tutti costoro istruì lo sveglio fanciullo, che divenne presto padrone dei loro usi e delle loro lingue. Fu forse, tra questo buli­ came, un savio imano il Chirone del solitario Federico? Una cosa è certa, che la sua educazione fu profondamente diversa, nei suoi fondamenti, da quella di ogni altro figlio di re. Federico n non fu, come suo padre, educato da un prete dotto del genere di Goffredo da Viterbo, e neppure, al pari di altri principi, lontano 23

dal mondo, nel silenzio d’un convento; tuttavia appunto il suo straordi­ nario, eclettico sapere, che avrebbe stupito il mondo, ha indotto a strenue ricerche sul suo educatore: ma l’Aristotele di Federico non s’è riusciti a trovarlo. Ed è comprensibile; perché non c’era allora maestro tale che egli non potesse superare o deludere, e la scuola d’un maestro d’armi non poteva più bastargli. Federico fu il tipico non-scolaro, che non deve nulla a nessuno, tutto a se stesso. I primi rudimenti può averli ricevuti da quel suo maestro, Guglielmo Francesco, che è menzionato ancora accanto al fan­ ciullo settenne intorno al 1209; le nozioni bibliche essenziali può averle assi­ milate da questo o quel legato papale, che si prendeva cura di lui di quando in quando. E possono avergli occasionalmente insegnato anche altro — certo, una vera educazione non l’ebbe. La sua cultura di adulto mostra molto chiaramente come egli fosse un prodotto non di una scuola ma della vita che lo costrinse sin dalla più tenera età ad attingere in sé, direttamente e senza l’aiuto di nessuno, le forze necessarie allo scopo. Perciò il suo sapere fu assolutamente diverso da quello dei suoi contemporanei nella forma come nella sostanza; fu la forza delle cose a educarlo, e, come ebbe a dire il papa, « la necessità di esporre le sue lagnanze lo rese eloquente in un’età che sa appena balbettare ». Suoi maestri, il mercato e i vicoli di Palermo: la vita stessa, insomma. Il suo vagabondare fra la gente, che lo rese amico del mondo, doveva porre le basi della sua filosofia futura. L’importanza del fatto che Federico abbia passato la sua infanzia in Sicilia, non fu mai sottovalutata. Se il suo sangue romano-germanico (svevoburgundo dal lato paterno, normanno-bassolorenese da quello materno) sembrava predisporlo a una certa universalità di spirito, questa doveva esser favorita dalla realtà di Sicilia, dove, a Palermo soltanto, convivevano e si fondevano (materialmente e non solo in spirito presenti), le civiltà del­ l’antico oriente e della chiesa. Non solo lo spirito e l’atmosfera, ma anche le lingue i riti i costumi Vbumanitas di quei mondi, fece propri Federico sin dalla fanciullezza. Il papa Innocenzo ebbe a scrivere della Sicilia: « È la terra ereditaria di Federico, nobile e ricca fra gli altri regni del mondo, loro porto e ombelico »; il che significava, a interpretarlo in senso quasi fisico, che da essa sarebbe nato un nuovo mondo. La vita libera di Federico durò quanto la signoria di Markward e dei suoi successori: cinque anni. Allorché, al principio del 1207, Gualtieri di Pagliara riacquistò la tutela, egli e il suo seguito dovettero stupirsi non poco della maturità del re allora dodicenne, il contegno del quale apparve « disdicevole e sgraziato », dovuto all’« ambiente rozzo » in cui era cre­ sciuto, e non alla sua natura. Preoccupava solo che quel suo « continuo girovagare in pubblico » potesse diminuire il prestigio reale presso i sud­ diti. Ma si vide ben presto che il fanciullo sapeva assumere piglio, espres­ 24

sione e tono da re, e che non sopportava alcun genere di ammonimento, ubbidiente solo all’impulso della propria volontà. E se tale grande e sfrenata forza di volontà fu la causa della riottosità di Federico fanciullo, determinò pure la certezza assoluta, che esclude ogni contraddizione, del futuro imperatore. A dodici anni voleva già scuotere da sé ogni tutela, parendogli, nel suo orgoglio di fanciullo, « vergognoso » di essere guidato da altri e trat­ tato non da re, ma da bambino. Chi lo vedeva era preso di rispetto per lui, e si notava che ben presto lo si sarebbe dovuto ascoltare senza di­ scutere. Appunto tale coscienza di sé, naturalmente cresciuta e non coltivata, gli permise di prendersi, ancor bambino, libertà che, come si giudicava, andavano spesso al di là di quanto è concesso a un re. Per contro, però, i cortigiani gli riconoscevano la completa sicurezza della condotta: un in­ fallibile senso di giustizia, discernimento personale e occhio sicuro nel giu­ dicare chi gli stava attorno. La dignità reale innata e la nobiltà della sua stirpe « lo fecero incedere saldo su ambo i piedi », come ebbe a scrivere Innocenzo in. Negli anni del suo libero vagabondare, Federico aveva esercitato pro­ fondamente il fisico. Di media statura da adulto, era stato sin da ragazzo resistente e agile, di membra solidissime che gli consentivano una naturale costanza in ogni esercizio, abile e forte nel maneggio e nell’uso di armi diverse. La valentia nell’arco e nell’equitazione, e lo spiccato amore per i cavalli di razza, annunziavano già il futuro appassionato cacciatore. Par­ ticolarmente destro nella scherma, gli avversari con cui si misurava corsero spesso non lieve pericolo, perché il suo temperamento violento lo condu­ ceva facilmente, nel corso del duello, a un furore eccessivo. Colpiva allora la sua particolarità di « esser sempre occupato durante il giorno senza un attimo di respiro »; e, trascorso il giorno negli esercizi fisici, l’uso di lavorare, dodicenne, sino a notte inoltrata, per ampliare le sue conoscenze. Lo avvinceva in quel tempo la storia, con le sue guerre e battaglie, e in particolare la storia di Roma. Dispiegava un’attività e una tensione senza fine, curò sempre che gli restasse tempo per la meditazione e la tranquilla contemplazione delle cose. Il papa Innocenzo in non ebbe più a preoccuparsi a lungo del fanciullo. Federico aveva degli Staufen la precocità, ma senza che questa, come spesso accade nei tedeschi, significasse un esaurimento d’energia subito dopo la fioritura. Vale per tutti gli Staufen quanto disse una volta Innocenzo di Fede­ rico: « La prodezza dei Cesari viene domata prima del tempo. » 25

Il paese in cui Federico era cresciuto e la dura esistenza dei primi anni, che lo aveva reso autosufficiente sin da piccolo, accrebbero le sue doti naturali; sicché il papa poteva riferire che il ragazzo varcava a volo la soglia della maturità, e che, come in età, cresceva giorno per giorno in ope­ rosità e saggezza. Anche la sua limpida sagacia si segnalava, e si pensava che Federico non andasse giudicato per gli anni che aveva, visto ch’era già uomo quanto a scienza, e signore per maestà. Malgrado il suo talento quasi soprannaturale, non era per nulla uno di quei frutti tardivi, a lungo coltivati, bensì la personificazione stessa di quanto si sarebbe potuto sperare da una fanciullezza perfetta; era un uomo « compietus ». Della sua statura sappiamo che « non era piccola, ma neppure più alta di quel che comportasse la sua età »; scrivono altri: « Il re ha riempito a tal segno di sapere e di forza i suoi primi anni, che in lui trovi soltanto quello che adorna un uomo fatto. » S’avvicinava rapidamente il momento in cui Federico avrebbe potuto scuotersi di dosso il peso della tutela: se­ condo il diritto feudale siciliano il re diventava maggiorenne al compimento del quattordicesimo anno d’età. Ma prima di lasciare il suo pupillo, Innocenzo in volle compir l’opera dandogli moglie. Già Costanza aveva disegnato d’imparentare il figlio col casato d’Aragona, e quando Federico, a sette anni, cadde in mano a Mark­ ward von Anweiler, il papa ripigliò l’antico disegno per motivi pratici. Nel 1202, fidanzò il pupillo con Sancha, sorella di Pietro d’Aragona, contando su quest’ultimo per un contingente di cavalieri spagnoli da mandare in Sicilia a liberare Federico dalle mani di Markward e dei tedeschi. Il papa sperava inoltre che la regina madre si sarebbe stabilita in Sicilia, per cre­ scervi insieme i due fanciulli: giacché l’aria troppo virile in cui cresceva Federico, non gli era molto gradita. Ma i piani del papa non si compi­ rono, e il fidanzamento fu sciolto; tuttavia anche negli anni seguenti Inno­ cenzo ebbe sempre l’occhio a quell’unione, non priva di vantaggi neppure per la chiesa, essendo l’Aragona, come la Sicilia, un feudo di Roma. Alla fine, dopo una lunga serie di trattative, fu stipulato l’atto di fidanzamento, ma — e qui, involontariamente, ci vien fatto di pensare ai racconti dei Padri e ad altre favole — non più con Sancha, bensì con la sorella di lei Costanza, molto maggiore, e più vecchia di Federico di almeno dieci anni, la quale era appena rimasta vedova del re d’Ungheria. Innocenzo dovette faticare non poco per convincere il quattordicenne Federico al matrimonio, ma questi, per la prima volta, si piegò alla ragion di stato: Costanza d’Aragona gli prometteva come dote cinquecento ca­ valieri spagnoli, che gli sarebbero serviti a riprendere piena signoria del suo regno, allora in completa rovina. 26

Un tale contingente sembrò a Federico valer bene un matrimonio; mai avrebbe potuto dominare da solo, senza aiuto straniero, l’anarchia che imperversava dovunque da anni, anche se alcune disposizioni promette­ vano molto. Durante gli ultimi anni di reggenza, il papa s’era anzitutto preoccupato di instaurare nel regno di Federico uno stato di cose almeno sopportabile, nonostante si ripromettesse anch’egli un risultato sostanziale dall’inter­ vento aragonese. Recatosi personalmente nel regno, aveva radunato attorno a sé a San Germano (vicino a Montecassino, al confine con lo stato della chiesa) i grandi di Sicilia, proclamato la pace, e chiamato a tutelarla, no­ minandoli capi supremi,' i due più potenti feudatari della parte continentale del regno, sperando di arginare, col conferimento di tale ufficio, la loro pericolosa potenza. Se anche tali misure non furono di enorme efficacia, si cominciò tuttavia a sentire, nella metà settentrionale del regno (prossima allo stato della chiesa), dopo anni di caos, la mano di un dominatore. La Sicilia invece non uscì dal disordine se non quando ne prese in mano le redini il gio­ vane re. Il fanciullo quattordicenne, infatti, non appena si trovò a governare autonomamente, mostrò un coraggio davvero notevole, lottando da più parti contro qualunque avversario, reale o supposto, intenzionato a smi­ nuire la sua autorità di re. Il 26 dicembre 1208, al compimento dei quattor­ dici anni di Federico, il papa depose la tutela, e da quel giorno in avanti Federico governò solo, entrando subito in disaccordo, già dopo due setti­ mane — inizio promettente! —, col potente Innocenzo. Si trattava dell’elezione del nuovo arcivescovo di Palermo, alla quale avrebbe voluto procedere il capitolo della cattedrale col consenso del re. Per ignoti motivi vi si opposero tre canonici, che si appellarono al papa. Il fatto di essere così scavalcato indignò il fanciullo, che espulse i tre dal regno, scrivendo al papa che prendeva misure moderate solo per rispetto di lui e, in generale, del clero. Innocenzo m, un signore fra i più potenti di tutta la storia, riconosciuto allora da tutti i re quale « verus imperator » della cristianità, non fu affatto dello stesso parere del suo ex pupillo. Secondo il concordato intercorso fra Costanza e il papa, il diritto del re siciliano nei riguardi dell’elezione del vescovo era limitato a un solo punto: quello di ratificare col proprio consenso l’insediamento di colui ch’era stato già in precedenza, e liberamente, eletto dal capitolo: l’ultima parola restava però alla chiesa, giacché l’eletto non poteva officiare se non dopo aver ricevuto il consenso papale. E quand’anche si trovassero con­ cordi nella scelta tanto il re quanto, il capitolo, il papa poteva sempre 27

negare il suo consenso alla « persona ingrata », la quale, vedi caso, era quasi sempre « persona grata » al re. A Federico dunque, in base al concordato, non restava che il diritto di consenso, né aveva, per ostacolare l’appello diretto a Roma, alcun ap­ piglio, anche se questo rispondesse alle disposizioni, non più valide ormai, dei re normanni più antichi. Il papa fu abbastanza accorto da risolvere la cosa con una lunga lettera d’ammonimento, scritta in tono paterno, dove diceva che Federico s’era lasciato mal consigliare, e lo esortava a tenersi pago del potere temporale, restando lontano da quello spirituale, spettante solo al papa. « Se tu avessi riguardato con attenzione, » scrive Innocenzo, « avresti capito che la confusione sopravvenuta al tuo regno deriva dai misfatti dei tuoi antenati, i quali aspirarono ad arrogarsi le cose spirituali. » Dopo aver dato minuziose e positive istruzioni sul concordato, Innocenzo con­ clude invitando il re a richiamare i canonici. A Federico, incontestabilmente in torto, non restò che obbedire. Ma alla sua prima azione di governo aveva centrato subito con infallibile sicu­ rezza il punto cruciale:, l’elezione dei vescovi, che gli avrebbe offerto per decenni ampia materia di conflitto con la curia. Maggior successo ebbe Federico in un altro campo: anche se i suoi provvedimenti per riportare ordine nel regno non paiono, a dire il vero, molto chiari, sembra tuttavia che egli si sia adoprato in modo rilevante, e più di quanto non si sia supposto fino a poco tempo fa. Nella primavera del 1209, intraprese « in gran pompa » — come scri­ ve egli stesso — un viaggio attraverso la Sicilia, una sorta di cavalcata reale, che lo condusse a Nicosia e a Catania, quindi a Messina. Che quello, attraverso il paese in rivolta, non fosse un viaggio di piacere, rappren­ diamo da Federico stesso: « I figli della rivolta, che odiavano la pace, li ho costretti alla quiete, chini sotto il mio giogo. » Nel giro di pochi mesi, il fanciullo quattordicenne sembra aver pacificato le regioni nordorientali dell’isola, e già meditare piani più ampi: singoli editti, il cui tono impe­ rioso non dà adito a dubbi, ci rivelano che meditava di passare lo stretto; per ristabilire anche sul continente l’autorità regale. Ma per questo gli serviva l’aiuto degli aragonesi. Il matrimonio tra Federico e Costanza d’Aragona era stato celebrato per procura da un vescovo siciliano nel duomo di Saragozza, quando Fe­ derico era ancora minorenne. L’arrivo della regina a Palermo era previsto per il marzo 1209, ma raggiunse la capitale soltanto nell’agosto, accom­ pagnata dal fratello, il conte Alfonso di Provenza, e dai cinquecento cava­ lieri promessi. Federico, allora a Messina, si affrettò a recarsi a Palermo, dove ebbero luogo i festeggiamenti nuziali. 28

Appena finita la festa, decise di ritornare a Messina coi cavalieri spa­ gnoli, per cominciare da qui la spedizione sul continente. Già l’anno prima il papa aveva designato, il giorno di San Germano, parecchie centinaia di cavalieri, che avrebbero costituito, insieme con gli spagnoli, un esercito davvero considerevole. Ma tutte le speranze del gio­ vane re andarono in fumo, perché gli spagnoli, dai quali tanto si aspettava, furono colti, già durante i preparativi e poi anche durante la marcia da Palermo, da una epidemia che, nello spazio di pochi giorni, ne ridusse a morte la maggior parte; oltre a loro morì anche il fratello della regina, il conte Alfonso. L’impresa diveniva così irrealizzabile; per di più gl’irre­ quieti baroni siciliani ordirono — preludio a futuri avvenimenti — una congiura contro Federico. Federico riuscì a sventarla: il capo, un conte calabrese, fu fatto prigioniero, e a Federico si offrì la possibilità di ripren­ dere ai congiurati una parte dei beni del demanio e della corona, della quale si erano impadroniti senza alcun diritto al tempo della reggenza papale. Le due madri di Federico — Costanza, quella carnale, la chiesa, quella spirituale — avevano stabilito che egli avrebbe regnato sulla Sicilia e sa­ rebbe vissuto a Palermo, « la città felice ». Ma mentre coraggiosamente tentava di metter ordine nel caos siciliano, era accaduto in Germania, già da un anno, un fatto importante per lui: nel giugno del 1208, era stato assassinato a tradimento, a Bamberga, da Ottone di Wittelsbach, conte del Palatinato, il re Filippo di Svevia. Federico n, il pupillo del papa, era ora l’ultimo Staufen. Un nuovo ciclo s’apriva per lui: non più trattenuto dalle madri, doveva risalire alle terre dei padri.

NOTE

PP- 5-6 la leggenda della nascita - La quarta egloga di Virgilio ha trovato molti interpreti proprio recentemente; cfr. particolarmente: Franz Boll, Sulla quarta ecloga di Virgilio, « Memorie della Reale accademia di Bologna », serie n, voi. 5, 1923; Franz Kampers, Vom Werdegang der abendlàndischen Kaisermystik, Lipsia-Berlino 1924; Eduard Norden, Die Geburt des Kindes, « Stud. d. Bibl. », Warburg, voi. in, 1924; Wilhelm Weber, Der Prophet und sein Goti, Beihaben zum « Alten Orient », quaderno ni, Lipsia 1925. Il riferimento dell’egloga ad Augusto: Weber, pp. 139 sgg.; Kampers, loc. cit., passim-, cfr. anche E. v. Frauenholz, Imperator Octavianus Augustus, Geschichte und Sage des Mittelalters, « Hist. Jahrb. », voi. 46, 1926, pp. 86 sgg. Virgilio nel medioevo: G. Zappert, Vergils Fortleben im Mittelalter, « Denkschr. d. Wiener Akad. », 1853; D. Comparetti, Vergilio nel Medioevo, n ediz., Firenze 1896; inoltre: F. Piper, Virgilius als Theolog und Prophet, 1862. Per la venerazione del xm secolo per Virgilio, basti cfr. la predica natalizia di Inno­ cenzo III, in migne-pl 217, p. 457; e Dante, Monarchia, i, il; Epistola VII § i (ad Arrigo vii); e il colloquio fra Stazio e Virgilio in Purgatorio, xxn, pp. 70 sgg.

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Reminiscenze dell’egloga in Pietro da Eboli, Liber ad honorem Augusti, ed. E. Rota in ss., n. ed., xxxi, i, p. 197, 1513 e cfr. la nota ivi-, cfr. anche la poesia in HolderEgger, Italienische Prophetieen des 13. Jhdts, na, xxx, 1905, pp. 351, 364. Profezie sulla nascita: Goffredo da Viterbo, Gesta Heinrici, mg-ss., Oktav, pp. 49, 95; cfr. anche in Pantheon la profezia sulla discendenza di Enrico vi, mg-ss, xxii, p. 146; Tolo­ meo da Lucca, Hist. eccles., xx, c. 44, in murat. ss., xi, p. 1117; Salimbene, mg-ss., xxxii, pp. 43, 395; Breve Chron. Sicul., in hb, i, p. 892; Anonym. Vatic., in murat. ss., vili, p. 778. Sulla Tiburtina: Sackur, Sibyllinische Texte und Forschungen, Halle 1898, p. 163; Kampers, Deutsche Kaiseridee, passim-, cfr. anche Holder-Egger, Italienische Prophetieen ecc., na, xv, 1890, pp. 143 sgg.; e il medesimo in na, xxx, 1905, pp. 323 sgg. per la Sibilla eritrea e samia, così pure per i Dieta Merlini; sulla precedente esistenza della samia cfr. anche Grundmann, ZfKirch. Gesch., 48, 1929, pp. 140 sgg.; su Merlino v. ora Lucy Alien Paton, Les prophecies de Merlin, New York-Londra, 1927. murat.

pp. 6-7 l’imperatrice costanza - Raccolta di documenti in Roberts Ries, Die Regesten der Kaiserin Konstanze, qf, xviii, pp. 30-100. Le parti di tale dissertazione, non stampata, Heidelberg, 1914, riguardanti la giovinezza, non sono state pubblicate. Cfr. inoltre Stephan Kekule v. Stradonitz, Die Abstammung der Kaiserin Konstanze, Famil. Gesch. Bl., xxn, 1924, pp. 45 sgg., oltre a na, xlvi, p. 216; hz, 130, p. 350. Una genealogia della madre di Costanza in Alberico di Troisfont, mg-ss., xxiii, pp. 851 sg. Profezie in occasione della nascita di Costanza: Tommaso da Pavia, mg-ss., xxii, pp. 498 sg.; Dandolo, Chron. Venet., in murat. ss., xii, p. 318; S. Bartholom. Cron., mg-ss., xxxi, pp. 224 sg.; Benvenuto da Imola, Comentum, voi. iv, p. 377; cfr. anche Manrique, Annales Cisterciensium, voi. ni, p. 169, § iv, 2. Sulla nascita di Merlino: Kampers, Kaiseridee, da p. 198 a p. 270. La leggenda della monaca: Tommaso da Pavia, loc. cit.\ Breve Chron. Sicul., in hb I., p. 891; Villani, iv, c. 20, v cap., 16; Anonym. Vatic., in murat. ss., vili, p. 778; Tolomeo da Lucca, in murat. ss., xi, p. 1127; Dante, Paradiso, in, pp. 113 sgg.; Benvenuto da Imola, Comentum, voi. iv, p. 377, e del medesimo, Liber augustalis, Basilea 1496, al­ l’anno 1194. La versione di Costanza abbadessa nel convento di S. Maria Panormitana, si trova anche in Collenuccio, p. 75. Una collazione di notizie sulla monacazione di Costanza compare nella cit. dissertazione di R. Ries, Heidelberg, alla cui cortesia devo la consultazione del manoscritto. Costanza partorì Federico all’età di quarant’anni, essendo nata nel 1154 poco dopo la morte di Ruggero li; cfr. Erich Caspar, Roger IL, Innsbruck 1904, pp. 429 sg. Secondo la leggenda ella era più vecchia: aveva cinquantanni secondo Tommaso da Pavia, loc. cit., p. 499, e Collenuccio, p. 75 e 80; sessanta secondo Albert v. Stade, mg-ss., xvi, p. 357, all’anno 1220; « multum annosa» era per Salimbene, mg-ss., xxxii, p. 42. Sul miracolo della sua nascita si sarebbe espresso Federico in persona, giurando, seppure giurò, « per illud miraculum quo mater mea genuit me »; cfr. Benvenuto da Imola, Comentum, voi. iv, p. 378. La leggenda dello scambio dei figli era molto diffusa; cfr. bf 511 b; Winkelmann, Philipp, Eri. in, pp. 498 sg. Federico figlio di un macellaio in Salimbene, mg-ss., xxxii, pp. 42 sg.; di un chie­ rico, in Monum. Erphesfurt., mg-ss., Oktav, p. 212. Analoghe voci si sparsero sul figlio di Federico, re Enrico vii: Philipp Mousket, mg-ss., xxvi, p. 800; cfr. Winkelmann, Otto, p. 316, nota 4; forse fu l’identità dei nomi delle due madri, Costanza, a causare qui. semplicemente uno scambio. E tuttavia più volte nel medioevo si diffusero simili voci sui grandi; v., per es., su Cesare, F. Gundelfinger, Caesar in der deutschen Literatur, 1904, p. 22; su Costantino, Burdach, Rienzo, p. 223, nota 1, su Ugo Capeto, Dante, Purgatorio, xx, 49. Il parto in pubblico: Collenuccio, pp. 79 sg.; alla sua fonte poterono attingere, fra gli altri, anche Villani, v, c. 16; Anonym. Vatic., in murat. ss., vili, p. 779; Benvenuto da Imola, Comentum, iv, p. 378; Manrique, Annales Cisterciensium, voi. m, p. 170, § iv, 4. Cfr. inoltre F. Gùterbock, Eine zeitgenòssische Biographie Friedrichs IL, na, xxx, 1905, p. 51, secondo cui il racconto potrebbe risalire a Mainardino da Imola; su talune cautele da usarsi nel ricorrere a Mainardino come fonte per la storia della fanciullezza del­ l’imperatore, cfr. Baethgen, Zu Mainardino v. Imola, na, xxxviii, pp. 684 sgg.

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Ciò che interessa in questa leggenda è il fatto che nelle rappresentazioni sull’anticristo del tardo medioevo, la madre dell’anticristo veniva fatta partorire sulla scena aperta: cfr. H. Preuss, Die Vorstellungen vom Antichrist itn spàteren Mittelalter, Lipsia 1906, p. 37, nota 3. La lettera di Federico a Jesi: bf 2470, hb, v, p. 378; v. più avanti nota a p. 524, terzultimo capoverso. Per la denominazione di Costantino: bf 511 sg. Probabilmente solo per il nome della madre, anche se non privo di riferimenti; cfr., per es., sul significato di Costantino, Burdach, Rienzo, passim. L’imperatore della fine non avrebbe dovuto portare il nome di Costantino, ma di Costante: cfr. Sackur, Sibyllinische Texte und Forschungen, pp. 154, 163; Goffredo da Vi­ terbo, Pantheon, mg-ss., xxn, p. 416. Sempre sulla questione del nome v. fra l’altro le osservazioni di E. Sackur, Z« Petrus von Ebulo. na, xv, 1890, p. 388, nota 3; ivi anche un aneddoto sulla fanciullezza di Fede­ rico n; un altro aneddoto — il sogno di lui quattrenne di venir soffocato da una campana da chiesa — è riportato da A. de Stefano, Federico II e le correnti spirituali del suo tempo, Roma 1922, p. 102, tratto da una cronaca non data alle stampe dal Fondo Bajardi di Parma. « Benedictus filius » è un appellativo spesso affibbiato a Federico; cfr., per es., Pietro da Eboli, Liber ad honorem Augusti, ed. Rota, in murat. ss., xxxi, i, tavola 44; Ries, Regesten der Kaiserin Konstanze, qf, xviii, p. 86, al regesto n. 67.

pp. 7-12 l’imperatore Enrico vi - Dare un quadro più ampio e organico del regno di Enrico vi non è possibile, e ciò da oltre sessant’anni, perché, allo stesso modo che per il Barbarossa, se ne attendono ancora, base indispensabile di lavoro, i regesti e i diplomi. Così, ci si deve pur sempre rifare a Th. Toeche, jahrbucher Kaiser Heinrichs VI., Lipsia 1867. Particolari importanti così come un conciso quadro d’insieme danno inoltre i lavori di Haller, hz, 113, 1914, pp. 473 sgg. e miòg, xxxv, 1914, pp. 385 sgg., pp. 545 sgg.; inoltre Hampe, Deutsche Kaisergeschichte, 51 ed., pp. 183 sgg.; cfr. anche, ivi, nota 3 e p. 190, nota 1, la bibliogr. citata; e i rimandi in Hampe, Mittelalterliche Geschichte, « Wissenschaf diche Forschungsberichte », voi. vii, Gotha 1922, pp. 78 sgg. L’annuncio della nascita di Federico: hb, i, p. 1; l’annuncio a Lucca: Ries, Regesten der Kaiserin Konstanze, qf, xviii, p. 37, reg. n. 8; ad altre città italiane: ibidem, p. 76, reg. n. 8; inoltre, Giovanni Sercambi, ed. Bongi, «Fonti stor. Ital. », i, Roma 1892, p. 10. La lettera del Barbarossa al Saladino: Roger Hoveden, mg-ss., xxvii, p. Ili; Stumpf, n. 4570; cfr. anche Pomtow, Altrómische Vorstellungen, passim. Per la posizione verso gli altri re: Caesarius v. Heisterbach, Dialog. mirac., x, 23, ed. Strange, voi. n, p. 235; Uguccio da Pisa, ad Decret., c. 12; in Maassen, Sitzb., Vienna 1857, voi. 24, pp. 79 sg.; cfr. Toeche, Jahrb. Heinrichs vi., p. 489, e passim-, Burdach, Walther von der Vogelweide, voi. i, 1900, pp. 135-215; v. anche Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, voi. i, Lipsia-Berlino 1929, p. 256, nota 5, p. 271. Cfr. Hans Hirsch, mióg, xliv, p. 16, che richiama l’attenzione sui rapporti fra preghiera liturgica e concetto imperiale. Cfr. in generale anche Mario Krammer, Der Retchsgedanke des staufischen Kaiserhauses, Breslavia 1908; H. Bloch, Die staufischen Katserwahlen und die Entstehung der Kurfurstentums, Lipsia-Berlino, 1911; W. Rusen, Der Weltherrschaftsgedanke und das deutsche Kaisertum tm Mittelalter, diss., Halle 1913. Sull’espansione della signoria di Enrico cfr. Winkelmann, Philipp, pp. 1 sgg.; Toeche, pp. 355 sgg.; Haller, hz, 113, pp. 492 sgg. Sulle pretese nei riguardi della Roma d’oriente cfr. anche Dólger, Corpus der griechischen Urkunden des Mittelalters, Berlino-Monaco, 1924 e success., n. 1619, 1638. Sulla crociata: Wilhelm Leonhardt, Der Kreuzzugsplan Kaiser Heinrichs VI., diss., Giessen 1913. Sull’elezione di Federico e il disegno di mutare l’impero in un impero universale cfr. Haller, hz, 113, pp. 485 sgg.; « Hist. Viert », xx, 1920, pp. 23 sgg.; v. anche Hampe, mióg, xxvii, p. 1-10. Contro l’opinione dello Haller, si espressero recentemente i lavori di Volkart Pfaff, Kaiser Heinrichs VI. hòchstes Angebot an die ròmische Kurie, Heidelberg Abh. 55, 1927, e di Perels, Der Erbreichsplan Heinrichs VI., Berlino 1927. Il battesimo di Federico: bf, 511 sg. L’assegnazione del nome « in auspicium cumu­ larle probi tatis »: Annal. Casin., mg-ss., xix, p. 318. Ma cfr. anche il suggerimento di Pietro da Eboli, 1378, e le osservazioni del Winkelmann, nella sua edizione di Pietro da Eboli, Lipsia 1874, intr. p. 15; come pure le osservazioni in Sackur, na, xv, p. 383, nota 3. La congiura dell’imperatrice Costanza è tramandata dalle parti più svariate; cfr.

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Haller, hz, 113, pp. 489, 503. L’ipotesi di Ries, Regesten der Kaiserin Konstanze, qf, xviii, p. 32 e p. 84 nota al regesto n. 55, che l’imperatrice non abbia avuto alcuna parte in essa, manca di solide fondamenta; cfr. anche Ficker, Forschungen, il, § 359, p. 373. La superiorità dei tedeschi viene esaltata da Otto v. S. Blasien, mg-ss. Oktav, p. 71. L’apparizione di Teodorico: Chron. Reg. Colon., mg-ss. Oktav, p. 159; cfr. ora a questo proposito le osservazioni di Fedor Schneider, Friedrich II. und seine Bedeutung fiir das Elsass, « Els.-lothr. Jahrb. », ix, p. 149. Il testamento di Enrico vi nelle Gesta Innocentii III, cap. 27, in migne-pl 214, p. lii; mg-const., i, n. 379, p. 530. Cfr. le osservazioni di Haller, hz, 113, pp. 490 sg., che per ultimo ha preso posizione sul problema dell’autenticità; e inoltre Hampe, Deutsche Kaisergeschichte, p. 199, nota 1; varrebbe comunque sempre la pena di compiere una nuova trat­ tazione della questione della autenticità.

pp. 12-16 la Sicilia sotto l’imperatrice costanza - Il soggiorno di Federico a Foligno: bf, 511 h; Collenuccio, p. 80r, 81v; cfr. Giiterbock, Eine zettgenòssiche Biographie Friedrichs II., na, xxx, p. 51; Ries, Regesten..., QF, xvm, p. 86; v. anche lo scritto in bf 3796, hb, v, p. 662. Federico fatto venire a Palermo: Breve Chron. Sicul., in hb, i, p. 892; Riccard., ed. Gaudenzi, p. 68; Collenuccio, Giiterbock, Ries, loc. cit.-, inoltre: Baethgen, Zu Mainardino von Imola, na, xxxviii, pp. 685 sg., il quale giustamente rimanda alle Gesta Innocentii III, cap. 21, migne-pl 214, p. xxxi come fonte di Collenuccio. Sulla diffusione della voce dell’avvelenamento dell’imperatore, cfr. Toeche, Jahrb. Heinrichs VI., p. 482, nota 2; e ancora: Notae Hist. S. Emmeram., mg-ss., xvii, p. 573; Chron. Ebersheim, mg-ss., xxiii, p. 448. Sull’odio antitedesco cfr., per es., Chron. Ursperg., mg-ss. Oktav, pp. 55 e 73; le posizioni provengono dalla cosidd. Brevis bistorta occupationis et ammissionis terrae sanctae, cfr. Sitzb. Monaco Akademie, 1865, voi. n, pp. 141 sgg., il cui autore era, secondo ogni apparenza, italiano, cfr. Simson, nell’introduz. alla Chron. Ursperg., pp. xix sg. Inoltre Pietro da Eboli, Carmen ad honorem Augusti, in murat. ss. n. ed. xxxi, i, p. 23, pp. 116 sgg.; altre posizioni in Toeche, Jahrb. Heinrichs VI., pp. 141 sg., pp. 272 sg., pp. 288 sg. Sul rapporto francesi-tedeschi, cfr. Math. Paris., mg-ss., xxviii, p. 366, all’anno 1257. La crudeltà dei tedeschi ritorna come stereotipo nelle Gesta Innocentii III, in migne-pl 214, per es., al cap. 9, p. xxiv, cap. n, p. xxvi; cfr. inoltre le Gesta Episcop. Halberst., mg-ss., xxiii, p. 112, e anche Joh. Codagn., mg-ss. Oktav, p. 74: « cum furore sue ire more Theotonico ». Scherno per la lingua tedesca, per es., in Peire Vidal, in Diez, Leben und Werke der Troubadours, Zwickau 1829, p. 172; Peire de la Cavarana, in Wittenberg, Die Hohenstaufen im Munde der Troubadours, p. 50; cfr. anche Pietro da Eboli, in murat. ss., n. ed. xxxi, i, p. 23, v. 123: « discere barbaricos barbarizare sonos ». In generale vedi K. Zimmermann, Die Beurtetlung des Deutschen in der franzósischen Literatur des Mittelalters mit besonderer Beriicksichtung der « Chansons de geste », «Roman. Forsch. », xxix, 1911, pp. 222 sgg.; F. Kern, Der mittelalterliche Deutsche in franzòsischer Ansicht, hz, 108, pp. 237 sgg. Le menzionate lettere di papa Innocenzo ili: Ep. I, n. 26, in migne-pl 214, p. 20; e, sempre, Ep. I, n. 558, loc. cit., p. 513; Ep. I, n. 413, loc. cit., p. 390; cfr. Dante, Paradiso, ni, 119. Per la politica nazionale-italiana di Innocenzo ni, cfr. Ficker, Forschungen, n, § 360, 361, pp. 375 sgg.; Winkelmann, Philipp, pp. 101 sg.; Burdach, Rienzo, pp. 338 sgg., 351; Davidsohn, Gesch. v. Florenz, voi. i, pp. 621 sg.; vedi anche Hauck, kgd iv, p. 718, nota 4, per le posizioni del papa nell’odio antitedesco. Costanza regina dei normanni: Ries, Regesten..., qf, xviii, p. 85, al regesto n. 66, la cui osservazione che Costanza sia stata costretta a un contegno ostile ai tedeschi dal movimento nazionale (loc cit., pp. 31 sg.), non muta tuttavia il fatto che ella tenne effettivamente tale condotta; cfr. a questo proposito Riccard., ed. Gaudenzi, p. 68; Winkelmann, Philipp, p. 63, nota 1; Hampe, miÒg, xxii, pp. 577 sgg.; e anche le Gesta Innocentii III, cap. 23, in MIGNE-PL 214, p. XXXVIII. La ratificazione dell’elezione di Federico in Terrasanta, Winkelmann, Philipp, p. 61, nota 3. L’incoronazione a Palermo: bf, 522a; Breve Chron. Sicul., in hb, i, p. 892; hb-introd., p. clxxix; ibid., p. ci sul sigillo, e p. evi sulla leggenda « Christus vincit, Christus regnat, Christus imperai » con allusione tanto alle monete dei re normanni, quanto ai fiorini aurei

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di Luigi ix di Francia. Per il motto stesso — derivato da Quintiliano (?) — cfr. C. Weyman, Analecta, Hist. Jahrb., 37, 1916, pp. 79 e 227. Sulla nuova titolatura di Federico: bf 522a; Winkelmann, Philipp, p. 120, e Commento, in, pp. 497 sg.; Ries, Regesten..., qf, xviii, p. 90, al regesto n. 75. Su una moneta fridericiana dell’anno 1196 col titolo: « Romanorum rex »; cfr. anche M. Krammer, Der Reichsgedanke des staufischen Kaiserhauses, p. 31, p. 42. Sulla questione dell’annessione della Sicilia all’impero, cfr. H. v. Kapherr, Die « Unio regni ad imperium », dzfgw, voi. i, pp. 96 sgg.; cfr. anche Baethgen, Die Regentschaft Papst Innocenz III., pp. 3 sgg. Sulle relazioni dell’imperatrice con la curia, cfr. bf, 531a-c; bfw, 12177a; Winkelmann, Philipp, pp. 120 sgg.; Kehr, Das Briefbuch des Thomas von Gaeta, qf, vili, pp. 13 sgg., pp. 50 sgg.; Ries, Regesten..., qf, xviii, pp. 71, 73, regesto n. 119, 127, e le osservazioni alle pp. 98 e 100; Schwalm, na, xxv, 1900, p. 721. In generale cfr. Baethgen, Die Regentschaft..., pp. 5 sg., ibid., p. 7, nota 1, sul col­ legio di famiglia, sul quale è da confrontare anche Niese, Gòtt. gel. Anz., 174, 1912, pp. 71 sg. pp. 16-19 la GERMANIA durante i torbidi dell’interregno - Su re Filippo: Winkelmann, Jahrbiicher Philipps von Schwaben, 1873; oltre alla vecchia trattazione, ma ancora degna di lettura, di Otto Abel: Konig Philipp, Berlino 1852; e anche Hampe, Deutsche Kaisergeschichte, pp. 202 sg. Sul problema della scomunica di Filippo di Svevia: Baethgen, miòg, xxxiv, 1913, pp. 209 sgg.; e E. Eichmann, Hist. Jahrb., 35, 1914, pp. 273 sgg. Federico il e la Germania: Winkelmann, Philipp, p. 49, p. 55, nota 2, p. 58, note 1 e 2. La « deliberatio » di Innocenzo in, in migne-pl, 216, pp. 1025 sgg. Cfr. inoltre M. Tangl, Die Deliberatio Innocenz' IH, « Sitzb. Berlino» 1919; Haller, Hist. Viert., 20, 1920, pp. 23 sgg.; G. Tangl, Arch. /. Ukd.-F., x, 1928, pp. 208 sgg., sotto il rimando all’ep. i, n. 69, pp. 58 sgg., con la stessa tripartizione: « quid liceat... deceat... expediat »; tradotta con al­ cun^ delucidazioni da Tangl, in « Gesch.-Schrb. d. dtsch. Vorzeit », voi. 95, 1923, pp. 61 sgg. Sull’immagine che la Germania medievale aveva della Sicilia manca, a quel che so, una trattazione generale; vi supplisce in qualche modo, F. Panzer, Die italischen Normannen in der deutschen Heldensage, « Deutsche Forschungen », quaderno l, Francoforte 1925. La relazione del cancelliere Corrado in: Arnold v. Liibeck, mg-ss., xxi, p. 193, v, cap. 19; sulle rappresentazioni mitologiche del cancelliere cfr. alcune osservazioni di Fedor Schneider, in « Els. lothr. Jahrb. », ix, 1930, pp. 150 sgg.; e anche Burdach, Walther von der Vogelweide, voi. i, pp. 187 sg., e Th. Miinster, Konrad von Querfurt (diss., Lipsia 1890). I tesori pugliesi dell’imperatore Enrico: Arnold v. Liibeck, loc. cit., p. 197, v cap., 20. Sulla pretesa educazione segreta di Federico: Richer Senon., mg-ss., xxv, pp. 291 sg.; e anche « Annal. Trudpert. », mg-ss., xvii, p. 292, all’anno 1200; fiabesche anche le Notae S. Emmeram., mg-ss., xvii, p. 574.

pp. 19-22 la Sicilia durante la reggenza - Col nuovo lavoro del Baethgen, Die Regentschaft Papst Innocenz IH. im Konigreich Sizilien, Heidelberg, Abh., quad. 44, 1914, risulta ormai superata la rappresentazione data dal Winkelmann, Otto, pp. 3-95. Nell’opera del primo tutta l’epoca è così dettagliatamente esaminata, che si rendono superflui singoli rimandi. Monografie sopra singole personalità: P. Lejeune-Jung, Walther von Palearia, diss., Bonn 1906; P. Prinz, Markward v. Anweiler, Emden 1875; J. Mayr, Markward v. Anweiler, Innsbruck 1876. Su Markward v. Anweiler cfr. anzitutto l’excursus, in Baethgen, pp. 119 sgg. Su Diepold v. Schweinspeunt, cfr. Winkelmann, fzdg, xvi, pp. 159 sgg., e ivi, pp. 373 sg. le osservazioni di Riezler sulla stirpe di Diepold. Sulle condizioni generali della Sicilia non è senza interesse una lettera del maestro dei Giovanniti, in Roger v. Hoveden, mg-ss., xxvii, p. 183, all’anno 1201. Nuovo materiale per quest’epoca proviene dalla raccolta delle lettere di Capua ed è presentato dall’Hampe, Ein sizilischer Legatenbericht an Innocenz III., aus dem Jahre 1204, qf, xx, 1928, pp. 40 sgg.

pp. 22-29 l’infanzia a Palermo - L’espressione: « agnus inter lupos », per es., in Breve Chron. Sicul.-, hb, i, p. 892; Jamsilla, in murat. ss., vili, p. 493; pure nelle esercitazioni stilistiche, in bf, 560, hb, i, p. 78; cfr. anche Winkelmann, Otto, p. 93, nota 1.

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Per l’adolescenza di Federico sono fondamentali le scoperte di Hampe, Aus der Kindheit Friedrichs IL, mióg, xxn, 1901, pp. 575 sgg., e la sua rappresentazione in hz, 83, 1899, pp. 1 sgg.; qui anche la relazione di Rinaldo da Capua sulla prigionia del giovane re. La cura dei palermitani per Federico fanciullo, in Breve Chron. Sicul., in hb, i, p- 892. Sulla moltitudine di lingue parlate a Palermo basti qui rimandare al diritto municipale di Palermo (creato la prima volta verso il 1270), che presenta autenticazioni di documenti in latino, greco, arabo ed ebraico; cfr. Niese, hz, 108, p. 490, nota 4, e ivi p. 478, nota 1, sul trilinguismo della cancelleria normanna; v. anche l’illustrazione a Pietro da Eboli, in murat. ss., n. ed., xxxi, 1 tavola vii. L’educatore di Federico n credeva il Winkelmann, Otto, pp. 475 sgg., Eri. ni, di aver ravvisato nella persona di Gregorio da Galgano, dopo che già precedentemente, in fzdg, vi, pp. 391 sgg., s’era occupato del problema. Che non potesse trattarsi di Gregorio da Galgano, l’ha dimostrato abbastanza decisamente il Baethgen, ne Die Regentschaft..., pp. 140 sgg., cfr. anche Baethgen, na, xxxviii, pp. 684 sgg. Le altre persone nominate da Winkelmann, Otto, p. 90, erano familiari, non educatori: cfr. Niese, hz, 108, p. 497, nota 1. L’unico che si potrebbe indicare come un maestro di Federico il, è quel Guglielmo Francesco chiamato « magister regis », in Hampe, mióg, xxii, p. 593, che appare anche po­ steriormente fra i seguaci di Federico. Menzionato ancora nel gennaio 1209, spicca quale avversario di Diepold von Schweinspeunt: cfr. Niese, Materialien zur Geschichte Kaiser Friedrichs IL, « Gbtt. Nachr. », 1912, pp. 388 e 398, n. 2. Egli apparteneva alla nota famiglia dei baroni Franciscus (o, secondo il Niese, loc. cit., Francisius), signori di Monteforte e Fiorino (a sud-ovest di Avellino). Altra menzione di Guglielmo Francesco in Niese, loc. cit., p. 388, nota 2, all’anno 1227; e all’anno 1239, in hb, v, p. 859. Che qui ci si trovi di fronte alla medesima persona, mi permetterei di dubitare; che quest’altro Guglielmo F. sarà piuttosto da identificare col congiurato del 1246, cfr. bfw, 7618, 7852, 15110, 8032, il quale poteva essere figlio di quel Guglielmo F. della fanciullezza di Federico: cfr., sulla famiglia, Capasso, Historia diplomai., pp. 346 sg.; e, le note alla p. 693, capoverso 1. Quando poi Fedor Schneider, « Els. lothr. Jahrb. », ix, 1930, p. 148, lo definisce « maestro di corte », non ve nulla da obiettargli, anche se da ciò non si debba concludere che sia stato proprio lui a impartire al fanciullo quelle nozioni elementari, che già di per sé appartenevano alla cultura cortese-cavalleresca. Come procedesse l’educazione di altri re siciliani, lo insegna, p. es., la lettera di Pietro di Blois all’arcivescovo di Palermo, che tratta del suo allievo Guglielmo n di Sicilia, mignepl, 207, p. 197, n. 66. Una caratterizzazione e descrizione dell’aspetto fisico di Federico nello scritto presente in Hampe, mióg, xxii, pp. 597 sg., n. iv; e cfr. anche Paolucci, La giovinezza di Federico II di Svevia, « Atti accademici », Palermo, serie in, voi. 6, 1900-1901, p. 37. Che descrizioni così penetranti del personale di un imperatore non fossero a quell’epoca tanto rare, cfr. Hampe, loc. cit., p. 591, lo mostra la lettera appena citata di Pietro di Blois; cfr. anche in generale l’interessante esercitazione stilistica in Hampe, p. 598, n. v, che mostra per di più come i contemporanei vedessero la posizione del sovrano. Molto più formalistiche le brevi note sul re che appaiono nelle lettere di Innocenzo ili: p. es., Ep. VII, n. 129, in migne-pl, 215, p. 419; Ep. IX, n. 157, cfr. qf, vili, p. 42, n. 158, in migne-pl, 215, pp. 984 sg.; Ep. XI, n. 4, in migne-pl, 215, p. 1342, dove si trova anche l’osservazione sulla Sicilia ombelico e porto del mondo; cfr. inoltre la lettera di condoglianze, Ep. I, n. 565, in migne-pl, 214, p. 520. Altra descrizione del re in Hampe, loc. cit., p. 597, n. m; cfr., tuttavia, sulla « ar­ mata... historia » le osservazioni di Niese, hz, 108, p. 497, nota 4. Sulle nozze di Federico cfr. Baethgen, Die Regentschaft..., pp. 76 sgg., pp. 107 sgg. Per i rapporti dell’Aragonese con la Santa sede v. P. Kehr, Wie und wann wurde das Reich Aragon ein Lehen der ròmischen Kirche?, Sitzb. Berlino 1928, pp. 196 sgg. Sulla tregua indetta dal papa a San Germano cfr. i termini in Baethgen, Regentschaft, pp. 102 sgg. Che l’evento fosse riguardato come un fattore incisivo, è mostrato dal fatto che Riccardo da San Germano fece cominciare la sua cronaca con la visita del papa; cfr. l’epistola dedicatoria all’abate Stefano di Montecassino, in Ryccard., ed. Gaudenzi, p. 73. Il primo conflitto di Federico con la curia: Ep. XI, n. 208, in migne-pl, 215, p. 1523; bfw, 6053. Un secondo scontro in seguito all’elezione per la sede vescovile di Policastro: Ep. 14, n. 81, in migne-pl, 216, p. 440; bfw, 6110; cfr. Winkelmann, Otto, p. 93. Sugli accordi dell’imperatrice Costanza con la curia nei riguardi delle elezioni siciliane.

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cfr. P. Kehr, Thomas v. Gaeta, qf, vili, pp. 59 sgg., n. xiv; bfw, 5654. Cfr. anche Ries, Re­ gesten der Kaiserin Constanze, qf, xviii, p. 71, Reg. n. 118, e le osservazioni all’uopo a p. 97. Sui diritti ecclesiastici dei Normanni in Sicilia.- E. Caspar, Die Legatengewaìt der normannisch-sizilischen Herrscher, QF, vii, pp. 189 sgg.; inoltre, MG-CONST., i, n. 413-418, pp. 588 sgg. Il diritto d’appello diretto a Roma era stato Tancredi a concederlo per tutto il reame, mg-const., i, p. 593 § 3, mentre Guglielmo i aveva escluso l’isola da esso, ivi p. 589, § 4. Se Federico n, dunque, vedeva in Tancredi un re illegittimo, avrebbe, almeno nella questione dell’elezione di Palermo, avuto dalla sua una apparenza di diritto, quando non vi fosse stato di mezzo il cosiddetto concordato di Costanza; cfr. Winkelmann, Philipp, pp. 121 sg.; Sentis, Die « Monarchia siculo », Friburgo 1869, pp. 82 sg. A Federico si offriva un’unica possibilità: sollevare il pretesto, come a più riprese si fece in epoca poststaufica, cfr. Sentis, loc. cit., p. 83, nota 3, che la stipulazione del trattato non era stata regolare, in quanto Costanza non l’aveva accettato di persona, ma eran stati i plenipotenziari a sottoscriverlo dopo la sua morte. Federico n, però, non sollevò mai tale eccezione. Sui primi provvedimenti presi da Federico per edificare la sua potenza in Sicilia, siamo ora meglio istruiti dalla più antica cronaca di Riccardo da San Germano, ed. Gaudenzi, p. 75, cfr. bfw, 14647a, 14648, e dai fondi di Hampe, Beitràge zur Geschichte Priedrichs IL, « Hist. Viert. », iv, 1901, p. 167, 171, n. in. Cfr. anche Heinrich Loewe, Richard von San Germano und die altere Redaktion seiner Chronik, Halle 1894, pp. 34 sgg.; Niese, Das Bistum Catania und die siztlischen Hohenstaufen, « Gott. Nachr. », 1912, pp. 54 sgg.; P. Lejeune-Jung, Walther von Palearia, p. 138. Sulle nozze di Federico e l’intromissione degli aragonesi cfr. Hampe, « Hist. Viert. », iv, pp. 161 sgg., e Baethgen, Regentschajt, pp. 108 sgg. Sull’assassinio di Filippo di Svevia cfr. bf, 185a; Winkelmann, Philipp, pp. 464 sgg.; su eventuali pretese di Federico: Winkelmann, Otto, pp. 101 sg.

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Capitolo secondo Puer Apuliae

Papa Innocenzo m, del casato dei Conti, esercitò tale potenza su tutto il mondo cristiano, quale nessun altro vescovo romano, pur desiderandola con ogni forza, mai ebbe prima di lui né dopo di lui. Questo prete dal portamento nobile, dal volto riflessivo, dal profilo romano, che aveva com­ piuto i suoi studi teologici e giuridici a Parigi e a Bologna, che possedeva tutto lo scibile del tempo, ascese al papato in un’ora a lui estremamente favorevole. Era il 1198; aveva trentasette anni; Enrico vi era morto da tre mesi; il mondo che Enrico era riuscito a tenere insieme per breve tempo s’era sfasciato e cominciava a scindersi di nuovo nelle sue singole potenze, nessuna delle quali era in grado di opporsi alle pretese papali, permeate dello spirito di Gregorio vii. Perché l’opporsi, come antagonista, al papa, spettava appunto al sacro romano imperatore. Ma siccome l’im­ pero, diviso dalle lotte per la successione tra guelfi e ghibellini, non aveva allora un imperatore, così, affinché il mondo non mancasse d’un capo, l’unico a regnare effettivamente fu lui, Innocenzo, « verus imperator », come lo chiamò il suo contemporaneo Gervasio da Tilbury. Né erano parole d’adulazione curialesca, giacché Innocenzo stesso si valeva d’immagini ancor più pretenziose; anche se la formula classica della dignità imperiale del papa (« ego sum Caesar, ego imperator ») non sia stata adottata se non un secolo dopo, da Bonifacio vili, col quale si chiu­ dono due secoli di tentativi, iniziati da Gregorio vii, per ottenere la sovra­ nità universale. Innocenzo m, il cui pontificato, cronologicamente, sta quasi a mezzo fra Gregorio e Bonifacio, fu colui che attuò pienamente l’ideale teocratico. Dice un cronista che « al suo tempo, la chiesa, all’apice del suo splendore, esercitava la signoria sull’impero e sui re e i principi di tutto il mondo ». Pur avendo scritto, da cardinale, il De contemptu mundi, Innocenzo fu sempre compreso della dignità sacerdotale, e, per quanto conducesse una vita frugale e di poche pretese, non trascurò mai l’aspetto esteriore di 36

quella dignità, giungendo a spiegare talora una pompa veramente impe­ riale. Eletto papa, attese, contro le usanze, parecchie settimane prima di salire al trono, e precisamente sino al giorno di San Pietro, per ascendere al seggio con pompa ancor maggiore. Certo egli voleva apparire, quel gior­ no, il nuovo Pietro, come pure, in altre circostanze, amò impersonare il redentore. A questo proposito, circolava una battuta: un giorno egli s’era messa l’inconsutile tunica del redentore (che si conservava in Laterano), per accertare se Cristo fosse più piccolo di lui; ma essa si rivelò troppo grande. Si sentiva veramente l’imperatore della cristianità: signore e statista della massima potenza, rese la chiesa — in quanto gerarchia di vescovi e sacerdoti — una monarchia assoluta, nella quale solo dal capo dello stato, come dall’unica fonte, emanavano potenza giustizia clemenza. Ma a noi non importa la vita così straordinariamente ricca di avvenimenti di questo pontefice, che vide ai suoi piedi i re d’occidente, quando li investì delle loro terre; che scatenò la guerra contro gli Albigesi con tutti i suoi orrori in nome della vera fede; che, prima, scomunicò i crociati, e poi, dopo la presa di Bisanzio, fondò in oriente l’impero latino appoggiandosi alla chiesa ortodossa. Non questo c’importa, bensì l’uomo di stato, che una volta, sostituendosi al padre carnale, volle passare per padre spirituale di Federico li; che riempì, nella serie degli imperatori del medioevo, la lacuna temporale fra il figlio del Barbarossa e suo nipote, dando alla sua reggenza un’impronta clericale, di cui l’impero era ancora pervaso quando salì al trono l’ultimo Staufen. Derivano, e si concentrano, in un’unica persona, il papa, l’autorità del sommo sacerdote della cristianità, del « verus imperator » e del giudice supremo. Questo concetto-base d’una unità compiuta dei tre poteri, questa summa (esercitata nel fatto, anche se non specificamente perseguita), ap­ pare per la prima volta con Innocenzo m. Il quale partiva dal concetto che il papa, per quanto successore del principe degli apostoli, non è il rappresentante di Pietro — e cioè d’un uomo, bensì di Cristo stesso e quindi di Dio. Come tale, gli discende direttamente da Dio la « plenitudo potestatis », e da tale potestà complessiva scaturiscono i poteri terreni: di sacerdote, di giudice, di re. Che debba essere così e non altrimenti, ce lo spiega Innocenzo stesso, dando, fra l’altro, una interpretazione molto contorta della funzione me­ diatrice del pontefice: ogni potere viene da Dio, ma il papa « sta a mezzo fra Dio e l’uomo, al di qua di Dio ma al di là dell’uomo, inferiore a Dio ma superiore all’uomo ». E conseguentemente, per assicurarsi una difesa completa da ogni lato, prosegue: « onorare noi è onorare Dio, disprezzare noi è disprezzare Dio ». Donde scaturì più tardi il dogma formulato per 37

la prima volta da Tommaso d’Aquino, che per la salute dell’anima ogni creatura deve sottomettersi al papa. Ciò fece sì che Innocenzo potesse condurre a compimento la trasfor­ mazione della chiesa in uno stato ecclesiastico. La gerarchia ecclesiastica non fu idea sua, lui le diede corpo grazie a un complesso di circostanze favo­ revoli. Tuttavia, affinché l’autorità pastorale — che emqna da Dio, interme­ diario il papa — si trasmettesse direttamente e senza interruzione ai ve­ scovi, era anzitutto necessario eliminare dalla loro elezione ogni intervento estraneo, e segnatamente il secolare, senza badare ai privilegi da gran tempo acquisiti a re e imperatori. Prudente, abile, quando necessario senza scrupoli, Innocenzo sfruttò per le sue mire la debolezza generale degli stati (sola eccezione la Francia) per fare eleggere in tutti i paesi i vescovi a modo suo, vuoi per mezzo di contratti vuoi per mezzo di concordati; e risolse a suo vantaggio la questione delle investiture coll’insediare sue creature. Innocenzo quindi prese a nominare i vescovi, a revocarli, a tra­ sferirli, secondo che gli piacesse. Ed era suo diritto, perché egli era « Dio, in quanto vicario di Dio, e non Vicario degli uomini »: sicché poteva con­ cludere o sciogliere le nozze spirituali fra il vescovo e il suo episcopato. Tale libertà di scelta dei vescovi rendeva la chiesa un vero stato, asso­ lutamente indipendente dal potere temporale, e anzi al di sopra di esso; e faceva dei vescovi ligi impiegati, governatori di province e rappresen­ tanti del papa-imperatore. Allo scopo di liberarsi da ogni ingerenza laica, vennero eletti dei legati pontifici, dotati di pieni poteri sui patriarchi e in­ caricati di sorvegliare l’operato dei vescovi: sicché il mondo laico per­ deva ogni voce in capitolo, e, per di più, non poteva muovere obiezioni di sorta. I contratti poi contenevano di solito speciali clausole concernenti il diritto delle legazioni nei singoli paesi: clausola importantissima, il diritto d’appello diretto al papa da parte del sacerdote, libero così dall’intervento civile: col che si costituì un vero e proprio rapporto statale col vicario pa­ pale. Conseguenza diretta di tutto ciò fu che, volendosi mantenere salda la struttura dello stato ecclesiastico, gli « impiegati » del papa — salvo casi eccezionali — furono sottratti al tribunale civile ancor più che per l’addietro. Con tutto questo si rendeva necessario un miglioramento del diritto canonico: Innocenzo, primo dei papi, diede allora inizio a una nuova raccolta di Decretali che fu condotta a compimento due decenni circa dopo la sua morte. Come quasi tutti i grandi papi dell’alto medioevo — pensiamo specialmente ad Alessandro m — anche Innocenzo fu un eccellente giurista; il che equivaleva, a quel tempo, quasi esattamente a statista. E per esser un 38

grande statista — e le Decretali lo rivelano per tale —, va da sé che do­ veva procedere senza riguardo al singolo e senza molti scrupoli nella scelta dei mezzi. Vescovi e preti avevano sin allora operato spesso coll’aiuto dell’autorità papale contro quella regia, e viceversa; ora, divenuta la chiesa uno stato monarchico e saldamente organico, uno stato ecclesiastico dove l’ubbidien­ za è legge, essi perdevano bensì in libertà, ma acquistavano in altro senso: conformemente all’alto concetto in cui Innocenzo teneva la dignità papale, anche la posizione del prete di fronte al laico godette di uno straordinario rialzo. Furono ripristinati tutti gli antichi editti che potessero servire al­ l’accrescimento del rispetto per il prete, e si mise l’accento su questi punti: il laico era obbligato alla mediazione sacerdotale, il sacerdote doveva essere regolarmente ordinato, il valore del sacramento non poteva in alcun modo dipendere dal comportamento personale, la simonia era delitto contro lo stato e di lesa maestà — e si capisce l’importanza di quest’ultimo concetto, perché la simonia impediva il giusto corso della grazia, che veniva comprata e non più ricevuta da Dio per il tramite del papa. A separare e isolare ancor più il prete dal mondo laico, intervennero contemporaneamente alcune modifiche apportate al culto, risultato della lotta senza tregua contro gli eretici, che stavano rafforzandosi e miravano a ridurre il. distacco fra preti e laici. Fra le innovazioni, questa: il prete non doveva più officiare dietro l’altare col viso rivolto ai fedeli, ma davanti, col popolo alle spalle, e col viso a oriente: perché il sacerdote « è inferiore a Dio, ma superiore al­ l’uomo ». Indifferente la presenza o meno dei fedeli al compiersi del mi­ stero della Transustanziazione, la quale (costituita a dogma per la prima volta da Innocenzo m nel 1215) si attua soltanto per lo stato di grazia del sacerdote. L’indipendenza dall’imperatore dell’ufficio e dell’elezione del papa (pri­ ma conquista del papato riformista dell’xi secolo, di Gregorio vii in par­ ticolare) si tradusse, sotto Innocenzo m, nell’indipendenza dei vescovi dal potere secolare. Il che poteva essere origine di pericolo non lieve per la chiesa, se a un qualche signore fosse piaciuto di costruire uno stato asso­ lutamente laico, libero dalla chiesa — e avrebbe potuto farlo facilmente. Di rado ci s’è resi pienamente conto che la chiesa, con tutto il suo adope­ rarsi per la separazione dei poteri, divenne, nella sua struttura di stato ecclesiastico indipendente e unitario, per molti rispetti il modello degli stati laici. Ma è singolare che proprio la chiesa abbia posto talune basi per un accostamento del potere secolare a quello spirituale, e proprio in un modo che possiamo definire « illegale ». Che Innocenzo abbia preteso di man­ 39

tenere assoluta e unica la sua posizione di intermediario nei riguardi del potere ecclesiastico, lo si capisce bene; ma si spinse più in là: in grazia del concetto di « plenitudo potestatis » — la quale gli toccava come rap­ presentante di Dio — venivano a esser legate alla sua mediazione non solo le potenze spirituali, ma anche quelle secolari: le curiali come le regie. Alle parole con le quali egli celebra la sua funzione di mediatore in una sorta di apoteosi personale, aggiunse appunto, ripetendo una dottrina notissima, il corollario che « gli spettava il diritto di giudicare e di non esser giu­ dicato ». L’ininterrotto fluire della potenza divina dal Vicario ai giudici e ai re, e non solo ai preti, infuse nuova forza alle potenze secolari. Tale dinamica era stata, sino a questo momento, estranea al medioevo — nel campo laico, per lo meno, giacché i signori ricevevano bensì direttamente da Dio il loro potere come « beneficium », ma, in quanto laici, mancava loro la prerogativa, ecclesiastica, della mediazione. Innaturale sa­ rebbe apparsa a Innocenzo m la separazione netta fra potere secolare e spi­ rituale, visto che, in quanto supremo sacerdote, gli apparteneva la « pleni­ tudo potestatis »; e ancor più significativamente avrebbe un giorno il mondo laico separato il curiale e il regale dallo spirituale, prendendo a modello proprio l’autoapoteosi di Innocenzo. Il quale, senza volerlo, aprì al potere regio e a quello curiale la via a un’altezza e ad una dignità sacerdotali. Nel suo continuo sforzo di di­ mostrare l’ampiezza sconfinata del suo potere di giudice, fiuscì a cancellare i confini fra questo ufficio e quello di sacerdote. Egli designava « sacerdos sive iudex » l’apostolo Pietro, modellandosi per questo sulla dignità di sacerdote-giudice che era dei leviti. Che Roma poi dovesse essere sede del tribunale supremo, l’aveva detto Cristo stesso, quando, rispondendo alla domanda di Pietro fuggiasco da Roma: « Signore, dove vai? », rispose: « A Roma, a farmi crocifiggere per la seconda volta. » Così Roma, ossia il papa, diveniva il supremo tribunale terreno, competente anche per le questioni secolari, quando si trattasse di casi dubbi od oscuri. Dio stesso — sostiene Innocenzo — ha posto il papa sul trono della giustizia, per­ ché giudichi anche al di sopra dei prìncipi. Sicché il papa, pur senza mischiarsi con la giustizia secolare, diven­ tava il giudice supremo al quale doveva ricorrere, per ogni sua questione, il mondo cristiano. Similmente Innocenzo univa insieme la dignità sacerdotale e quella regale: non stabiliva forse la Bibbia che l’essere re comportava la dignità sacerdotale e viceversa? Il Redentore, il tramite, come il papa, fra Dio e l’uomo, era stato re, in quanto discendente di Davide, e sacerdote, in quanto figlio di Dio. E Innocenzo diede nuova vita a un’immagine biblica 40

sino allora trascurata, o, per lo meno, poco curata dalla curia: quella sin­ golare prefigurazione del Cristo che fu Melchisedech, il re-sacerdote di Sa­ lem. Cristo, e il papa come suo rappresentante, erano allora sacerdoti secondo « l’ordine di Melchisedech »; formula, questa, sempre ritornante negli scritti del grande Innocenzo. Con sempre nuove immagini viene provato che, come l’anima al corpo, così il prete è superiore al re, e cor­ rispondentemente si applica al papa la parola della Scrittura: « In grazia mia i re sono re, e i potenti, per mia grazia fanno la legge. » A paragoni sempre nuovi ricorre Innocenzo per risuscitare l’idea che il vicario di Cristo è il vero imperatore, il re dei preti e il signore del mondo: anche questa non era un’idea nuova, ma acquistò importanza quando il papa, con ripetuti ed energici richiami, attirò l’attenzione del mondo sul fatto che il vicario di Cristo rappresenta nel sacerdote l’imperatore e viceversa. Lo scopo fu raggiunto: il portatore della tiara papale salì da allora ad altezze vertiginose; ma, d’altra parte, anche la dignità imperiale si per­ meò di un alito ieratico contro le intenzioni del pontefice, il quale, per parte sua, usava simboli e segni degl’imperatori romani. E l’impero, in­ vece di esserne indebolito, crebbe imprevedibilmente in forza grazie ap­ punto a quello spirito pastorale, del quale Innocenzo ormai da due de­ cenni aveva riempito il mondo: per questo Innocenzo m, in qualità di « padre spirituale » si collocava accanto ai normanni e agli Staufen, fra i precursori e gli avi di Federico n. Tali concezioni mossero il papa a intervenire nella lotta per la suc­ cessione al trono tedesco. Aveva dapprima sostenuto le parti di Ottone contro Filippo: innanzitutto perché « un papa non poteva amare uno Staufen »; poi perché con uno Staufen si correva sempre il grave rischio d’unione fra la Sicilia e l’impero — rischio inesistente con un guelfo come Ottone; da ultimo perché il guelfo, povero e con pochi partigiani, inclinava ad aiutare la curia e prometteva di diventare una docile e utile creatura del papa. Senza contare che la forza e la prestanza fisica di Ottone, unite alla sua rozzezza spirituale, ne facevano appuntino « la spada secolare della chiesa ». Ma, nonostante l’aiuto papale, Ottone non era riuscito a spuntarla in Germania su Filippo: nell’ultima spedizione dello svevo fissata per l’estate del 1208 Ottone sarebbe stato infallibilmente battuto. Che le cose gli fossero andate male, lo mostra senza possibilità di dubbio il comporta­ mento della curia: Innocenzo abbandonò il guelfo, tolse a Filippo la sco­ munica, lo riconobbe re e gli promise d’incoronarlo imperatore, pur che fosse venuto a Roma. L’assassinio di Filippo a opera del conte palatino Ottone di Wittelsbach — fu il primo regicidio della storia del regno tedesco e avvenne per

motivi strettamente privati — decise in breve la contesa in favore di Ot­ tone di Braunschweig; il quale, fidanzatosi coll’appoggio del papa alla figlia undicenne dell’ucciso, Beatrice, contava di unire in sé le aspirazioni dei due partiti. Il papa aveva dunque vinto senza fare una mossa, e si dichiarò pronto a incoronare imperatore a Roma Ottone, il favorito che prima aveva dovuto abbandonare contro voglia. Ma la curia, dacché s’era fatta potente, non usava più dare corone senza contraccambio. E da Ottone iv, sua creatura, si riprometteva di aver molto: prima di tutto la libertà della chiesa nell’elezione dei vescovi in Germania, sempre rifiutata dagli Staufen; poi il riconoscimento della Sicilia a feudo papale e l’intangibilità della medesima; infine la cessione ab papa da parte dell’impero di certe terre dell’Italia centrale: la marca di Ancona, Spoleto, i cosiddetti beni matildini, e altro ancora. Approfittando della confusione creatasi con la morte di Enrico vi, In­ nocenzo s’era già impadronito di queste terre a titolo di « recupero » e le aveva incorporate nel Patrimonium Petri, che ormai (nell’ampiezza alla quale solo Innocenzo riuscì a portarlo), veniva a insinuarsi come unità compatta nell’Italia centrale fra il feudo siciliano e la Lombardia, sempre avversa agli imperatori. Così pareva che il sogno dell’unità italica sotto lo scettro papale non fosse molto lontano dall’avverarsi. Al guelfo, che voleva arrivare alla meta il più presto possibile, e che nel 1201 aveva già accondisceso alle richieste territoriali di Roma, non restò che autenticare — senza il consenso scritto dei principi tedeschi, naturalmente — la presa di possesso del papa; dopo di che si mise in viaggio per l’Italia. Con splendido seguito sfilò davanti alla tranquilla Rivotorto, e san Francesco lo ammonì per mezzo d’un discepolo a riflettere sulla caducità della pompa terrena. Ma ciò non valse a trattenerlo: verso la fine del 1209 fu incoronato imperatore a Roma da Innocenzo in. Il quale — si poteva pensare — aveva raggiunto il suo scopo: il suo protetto era imperatore, e la separazione della Sicilia fridericiana dall’impero guelfo era ormai un fatto compiuto. Ma avvennero improvvisamente cose che minacciarono di sconvolgere la perfetta orditura della politica papale. Il guelfo, fatto imperatore, non mantenne le promesse. Lo spunto diretto all’insanabile dissidio fra l’imperatore e il papa lo offrirono i baroni della parte continentale del regno siculo. All'apparire in Italia di Ottone, la nobiltà pugliese credette giunto il momento di libe­ rarsi per sempre, sotto la guida dei tedeschi, della signoria del giovane e debole re. Fallita la congiura dei baroni di Sicilia e di Calabria contro Federico nel settembre del 1209, i baroni di Puglia cercarono di sbaraz­ 42

zarsi del giovane re col tradimento. Il loro capo era il conte di Acerra, Diepold von Schweinspeunt, uno di quei signori tedeschi che, seguaci di Markward von Anweiler, avevano tenùto la reggenza della Sicilia durante la fanciullezza di Federico. Diepold, simile in ciò a Markward, sosteneva che la Sicilia apparteneva senz’altro all’impero, e che l’erede normanno­ tedesco era un ostacolo all’annessione. Quando finalmente, dopo più di dieci anni, comparve in Italia con Ottone iv un imperatore, Diepold s’adoprò subito per procacciargli il regno come all’unico signore legittimo. Subito dopo l’ascesa al trono, Ottone si trattenne a Pisa — novembre 1209 —, città da lungo tempo legata a Diepold e ai tedeschi. Qui si pre­ sentarono a lui i potentati di Puglia a rendergli omaggio e ad esortarlo a impadronirsi del regno indifeso, « perché in Sicilia era giusto regnasse soltanto l’imperatore ». Ottone aveva dato al papa assicurazioni sull’intangibilità della Sicilia: fu un’altra promessa che non mantenne. Che Ottone avesse sempre pensato a una riunione della Sicilia all’impero — seguendo in questo le tracce di Enrico vi —, o che avessero giocato una parte determinante nella sua decisione le esortazioni dei pugliesi e le preghiere dei pisani — il risultato fu identico: Ottone acconsentì, nominò ben presto Diepold duca di Spo­ leto (il che era un aperto segno di ostilità nei confronti del pontefice), e, nei mesi seguenti, mentre regolava le cose del nord e del centro-Italia, cominciò, senza dare nell’occhio, a preparare la spedizione per la Sicilia. A ciò s’era forse risolto anche per altri motivi, quali il pensiero che quell’ultimo Staufen che ora gli era soltanto importuno, sarebbe potuto diventare un pericolo per lui, guelfo, poiché Federico (al quale sarebbe dovuta andare la corona imperiale dopo la morte di Filippo) era in diritto di pretendere almeno la Svevia, feudo di suo padre — e in effetti, erano già corse trattative fra l’imperatore e il papa per un’indennità da dare a Federico... Così qualcosa spingeva il guelfo all’impresa fatale, alla spedizione in Sicilia. La curia papale si vantava di avere « molti occhi e molte orecchie » a sua disposizione; di fatto Innocenzo fu informato in brevissimo tempo dei propositi dell’imperatore. « La spada che ci siamo forgiata c’infligge gravi ferite, » ebbe a dire ben presto il papa, vedendo che anche da parte guelfa si rinnovava il pericolo temuto di un’unione siculo-tedesca. Conscio del pericolo, dal suo palazzo del Laterano cominciò a stringere accordi con gli avversari del guelfo Ottone. Per prima cosa, informò con una circolare i vescovi tedeschi delle intenzioni dell’imperatore, cominciando la sua lettera con le parole: « Mi pento d’aver creato l’uomo »; e finendo con l’ammonimento ai vescovi 43

di sciogliere senza indugio i diocesani dal vincolo di fedeltà, nel caso egli avesse deciso di scomunicare l’imperatore. Il papa non dava ordini diretti; solo si lamentava di Ottone: ma i vescovi tedeschi avevano ben capito come si sarebbero dovuti comportare nei riguardi del guelfo, per obbedire ai desideri di Innocenzo. E certo si saranno adoprati per cattivarsi i prin­ cipi, perché, seppure non esisteva in Germania un’opposizione principesca a Ottone, essa era nondimeno facile a suscitarsi. Allo scritto ai vescovi tedeschi, Innocenzo fece seguire una lettera al re di Francia, Filippo n Augusto, potente re della stirpe capetingia, da sempre nemico dichiarato del guelfo, perché questi, quale nipote del suo acerrimo nemico (l’inglese Giovanni Senzatetta), era sempre stato alleato dell’Inghilterra, e aveva più volte minacciato di guerra la Francia. Filippo il s’era opposto quindi sin dal principio a che un guelfo salisse sul trono imperiale, sebbene il papa si fosse dato da fare come mediatore fra i due. Ora però il papa non scriveva più parole di conciliazione, bensì deplorava di non aver compreso l’animo di Ottone con la rapidità con cui aveva penetrato quello di Filippo Augusto, e gli comunicava quanto aveva scritto ai vescovi tedeschi. E scriveva in fondo alla lettera, con abile mano, alcune espressioni attribuite al guelfo, come questa: che egli non avrebbe potuto alzare gli occhi per la vergogna, sin quando il re di Francia avesse tenuto in potere territori appartenenti a suo zio, il re d’Inghilterra; e altre del genere. Anche qui Innocenzo non faceva proposte concrete, sicuro com’era degli effetti d’un veleno propinato a piccoli sorsi. Filippo capì a volo e, con tutte le precauzioni del caso, si legò con l’opposizione principesca di Germania. Già dopo un mese, nel settembre del 1210, Filippo di Francia, un numero rilevante di principi medio-tedeschi e il papa s’accordarono sui punti essenziali. Ora il papa poteva agire: quando Ottone, allestito l’esercito, mosse nell’autunno del 1210 alla volta della Puglia passando in armi attraverso i territori toscani di proprietà della curia, Innocenzo, dopo brevi trattative restate senza esito, lo scomunicò come aveva deliberato, e sciolse i sudditi dal giuramento. Il fatto non valse, per il momento, ad arrestare Ottone; anzi, dopo poche settimane era in suo possesso una parte notevole della Puglia e nel corso dell’anno seguente tutta l’Italia meridionale. Ora il pericolo incombeva imminente sul giovane re di Sicilia, il pri­ mo certamente a esser stato avvertito dal papa dei piani del guelfo: ma come poteva Federico, impossibilitato già a vincere i nemici interni, di­ fendersi dal re potentissimo, che aveva al suo seguito, ubbidiente e con­ senziente, tutta la nobiltà feudale? Su nessuno poteva contare il giovane 44

re e meno che mai sulle persone più vicine a lui; alla notizia del tradimento dei baroni capeggiati da Diepold (che egli stesso aveva nominato gran giustiziere di Puglia), s’era visto costretto ad allontanare anche il vescovocancelliere Gualtieri di Pagliara. Per quanto Innocenzo gli rimproverasse tale passo — non si dimen­ tichi che il cancelliere era anche vescovo —, ammonendolo che non era tempo di fanciullaggini, Federico non revocò il provvedimento: il cancel­ liere era strettamente imparentato e legato d’amicizia coi baroni ribelli, e inoltre la sua pieghevolezza nelle questioni politiche — che certo Fede­ rico era in grado di conoscere meglio che non Innocenzo — rendeva preoc­ cupante la sua permanenza in una carica tanto influente. Ma il licenzia­ mento del cancelliere non valse a diminuire il pericolo incombente. Nell’anno 1210 (quando Ottone era ancora occupato nei preparativi) e pure nei primi mesi dell’anno seguente (quando la città di Aversa, inco­ raggiata dall’opposizione papale, riuscì per qualche tempo a contenere l’avanzata dell’imperatore), Federico poteva ancora contare su un certo prestigio oltre che a Palermo anche a Catania ed a Messina. Fermatosi per breve tempo in queste città, dovette sicuramente fare in modo di con­ servare quell’ultimo brandello di signoria che gli restava sul triangolo nord­ orientale dell’isola. Ma quando il guelfo, proseguendo nella sua marcia di conquista senza incontrare serie resistenze, s’impadronì in Puglia di città quali Barletta e Bari, e passarono dalla sua le province più pròssime all’iso­ la come la Calabria e la Basilicata; e quando i saraceni stessi, che occu­ pavano la parte montagnosa della Sicilia, invitarono l’imperatore a pas­ sare sull’isola, promettendogli, in tal caso, il loro appoggio — Federico dovette allora dare per persa la sua signoria sull’isola, all’infuori che su Palermo. Nessuno poteva aspettarsi altro per il regulus, non rex, privato di città castelli terre, se non un sicuro tramonto. Federico faceva ancora incidere sul suo sigillo regale, a imitazione dell’imperatore, i simboli della signoria del mondo: il sole e la luna; ma nemmeno lui poteva seriamente sperare nella salvezza. Ancora nella primavera Federico aveva cercato di scendere a patti con Ottone, dichiarandosi pronto a rinunciare a ogni suo diritto sulla Svevia (che pure poco tempo prima aveva chiaramente documentato), e offrendo infine parecchie migliaia di libbre d’oro e d’argento all’impera­ tore (oro e argento che Federico certo non possedeva — tanto più che doveva cedere al papa, come risarcimento delle spese da questi sostenute durante la reggenza, la contea di Sara). Ma tutto fu vano. Ottone, che spadroneggiava liberamente, non se ne diede per inteso, e anzi « sputò » sulle offerte del papa e di Federico, che, in fondo, non 45

facevano che promettergli quanto già aveva o quanto comunque poteva pigliarsi da sé. Nel settembre 1211 Ottone era in Calabria, pronto a passare lo stretto, in attesa soltanto dell’arrivo della flotta pisana che proprio in quel mese aveva lasciato l’Arno per il mare. Nel frattempo Federico diede ordine che a Palermo, presso il suo castello di Castellammare, fosse sempre pronta una galera colla quale poter fuggire all’ultimo momento in Africa. Ed ecco che accadde l’inaspettato: Ottone lasciò improvvisamente la preda già sicura, rinunciò a proseguire nell’impresa, e uscì dal reame in tutta fretta. L’opera infaticabile del papa era la causa di tale mutamento. Oltre alle lettere ai principi tedeschi, al clero italiano, al re di Francia Innocenzo aveva largheggiato in minacce di scomunica ai partigiani di Ot­ tone e in parole di incoraggiamento per i suoi nemici: il tutto ad un unico scopo, quello di scuotere la posizione dell’imperatore in Italia ma, prima di tutto, in Germania. Tutti questi tentativi combinati ebbero successo, anche se all’ultimo momento. Dopo molti segreti conciliaboli i principi tedeschi, nemici del guelfo, si radunarono, dietro pressione del re di Francia, a Norimberga, nel settembre 1211, e dichiararono apertamente decaduto lo scomunicato Ottone, eleggendo imperatore l’ultimo Staufen, Federico di Sicilia (e an­ che qui c’è la mano di Filippo di Francia, che, come avversario del guelfo, era già da prima legato col casato degli Staufen). C’erano sì in Germania principi più ricchi e più potenti del fanciullo siciliano, ma nessuno dimen­ ticava che in questa lotta contro un guelfo valevano più il nome degli Staufen che non le ricchezze e le armi di altri; e inoltre splendeva ancora così chiara la stella di quel nuovo Cesare ch’era stato il Barbarossa, che anche l’ultimo discendente della sua casa avrebbe ben potuto procurarsi immediatamente tale e tanto seguito, quale, nel medesimo tempo, nessun altro principe, fosse pure quello di Turingia, avrebbe saputo. E anche l’elezione fatta un tempo del figlio dell’imperatore Enrico vi giocava non piccola parte. Così, unanimi, i principi riuniti a Norimberga inviarono in tutta fretta messi al papa per ottenere la sua approvazione, e a Federico per averne l’accettazione della corona. Nel contempo gli amici del guelfo lo informa­ rono che la Germania era in rivolta, ch’era stato eletto un anti-imperatore, e che bisognava tornasse il più presto possibile a nord delle Alpi, dove ne andava di tutta la sua signoria. Ottone era ancora in Calabria quando lo raggiunsero, insieme coi legati di Milano e di altre città lombarde a lui amiche, i messi di Germania, che lo scongiurarono d’interrompere la spedizione in Sicilia e di tornare in patria, a salvare quello che più importava, l’impero. « Sconvolto nell’inti­ 46

mo », Ottone non seppe padroneggiare la situazione, lasciò il reame e s’affrettò verso il nord. Anche un sogno era intervenuto a spaventarlo: un giovane orso saliva sul suo giaciglio imperiale, e crescendo d’attimo in attimo s’impadroniva di tutto il suo posto, sino a cacciare dal letto lui, Ottone. Un’ultima, splendida festa di corte lo trattenne ancora in Italia, a Lodi;, poi, in pieno inverno, passò le Alpi, e fu a Francoforte nel marzo del 1212. Federico di Sicilia era salvo; e in più, subito dopo la partenza di Ottone, giunse l’inviato dei principi tedeschi, il nobile svevo Anselm von Justingen, a comunicargli l’elezione a imperatore dei romani. C’era qualcosa di inverosimile nel fatto che Federico, sino a un mo­ mento prima preoccupato solo dell’esilio e di aver salva la vita, ora fosse insignito del supremo diadema, della corona del mondo cristiano; ed egli stesso guardò a questo avvenimento come a un miracolo. Quando più tardi amerà celebrare se stesso come incoronato dalla provvidenza, si glorierà sempre dell’invito rivolto da Dio a un fanciullo, d’essere imperatore « con­ tro tutte le opinioni e le speranze degli uomini ». A Palermo, tutti lo con­ sigliarono di rifiutare, e per prima, sua moglie Costanza, la quale aveva appena dato alla luce il suo primo e unico figlio Enrico. E pure i grandi di Sicilia cercarono di distogliere il loro signore, giovane di soli diciassette anni, da un futuro senza prospettive, che s’annunciava vago e avventuroso; fiutavano già il pericolo che sarebbe venuto al re dalla « perfidia dei tede­ schi »: forse che uno di loro, Diepold, non l’aveva già tradito? Codeste prevenzioni non mancavano del tutto di fondamento: a parte il cammino lungo e pericoloso, e la debolezza e la povertà del giovane re, quale certezza aveva Federico che i principi tedeschi, mutevoli e infidi, non avrebbero mutato d’avviso prima ancora del suo arrivo in Germania? Previsione azzeccata, visto che non appena Ottone apparve sul suolo te­ desco, buona parte dei principi che avevano abbracciato la causa dello Staufen si volsero di nuovo al guelfo: « Di qua, di là », come definì questo « gioco principesco » Walther von der Vogelweide. E poi, e per prima cosa, era sicuro Federico che il papa, ora che la Sicilia era salva per il seggio di Pietro, si sarebbe adoprato per far imperatore uno Staufen, e proprio lo Staufen di Sicilia? Impenetrabile riusciva la condotta del papa, il quale prima aveva cercato di scalzare uno Staufen per mettere al suo posto un guelfo, poi, riuscitagli la cosa, scalzava il guelfo a vantaggio dello Staufen. Un tale modo d’agire appariva troppo lontano da quello fermo e immutabile che avrebbe dovuto esser proprio di un papa, e questo immischiarsi della curia era incomprensibile ai migliori dei contemporanei; Walther von der Vogelweide scrisse per esempio, con mordace allusióne alle pretese papali, in una delle sue sentenze: 47

« Dio fa re chi vuole » non è parola da far meraviglia, ma ci stupisce, noi laici, la dottrina dei preti... Diteci dunque sul vostro onore: da quale parola noi siamo ingannati? Perché ci pare che una delle due sia falsa. Stan male assai due lingue in una bocca sola.

La politica papale di tenere la Sicilia separata dall’impero, e l’eleva­ zione all’impero del re di Sicilia non potevano andar d’accordo. Secondo ogni probabilità, Innocenzo fu messo da Filippo Augusto di Francia di fronte al fatto compiuto, e la ricerca di un altro anti-imperatore, specialmente quando ormai i principi tedeschi s’erano pronunciati unanimi per Federico, sarebbe stata solo questione di tempo. Ma gli avvenimenti non tennero in alcun riguardo la politica papale. O forse Innocenzo pensava che la corona imperiale a Federico, suo pupillo e vassallo, sarebbe servita alla sua onnipotenza, diventando vassallo di Pietro l’imperatore dei ro­ mani? Si può allora pensare con Federico n che il papa abbia agito sotto la spinta della provvidenza, perché « il Signore aveva conservato contro il pensare umano l’ultimo Staufen, affinché reggesse in modo meraviglioso l’impero romano ». Così, compreso dall’alto destino cui era chiamato come « ultimo super­ stite » del suo casato, Federico non prestò orecchio alle assennate obie­ zioni dei consiglieri. Conosceva la sua missione, e accettò. Le parole con cui più tardi spiegò le ragioni della sua scelta, mostra­ no solo lieto orgoglio per la propria unicità: « Non si poteva trovare alcun altro che fosse disposto ad accettare la dignità dell’impero contro di noi e contro il nostro diritto, quando i principi ci offersero una corona che già ci spettava. » L’offerta della corona era un fatto meraviglioso, ma non meno meravigliosa sarebbe stata la capacità di conservare questa corona. Oltre una rara fortuna, che sempre ebbe del favoloso, Federico dovette ringraziare anche il proprio singolare fascino, se potè condurre il suo viag­ gio sino alla meta nonostante gli innumerevoli ostacoli e le persecuzioni incontrate: senza esercito, senza denaro, poco esperto della lingua tedesca, affidato all’aiuto del papa, alla fedeltà solo probabile di alcuni principi te­ deschi, e al peso del nome degli Staufen, ubbidendo alle proprie convin­ zioni, lasciò Palermo e Messina per andare alla conquista dell’impero. La chioma fulva degli Staufen, la figura d’adolescente, « il viso bello e leggiadro, la fronte serena e gli occhi ancor più sereni e luminosi », da­ vano al fanciullo di Sicilia più che l’aspetto di « un imperatore romano eletto al trono » quello di un avventuriero o un principe di favola in veste 48

di mendico, quando « povero e lacero come un pitocco » lasciò la sua terra, partendo su nave straniera con scarso seguito la metà di marzo del 1212. Per desiderio del papa, che voleva prevenire con ogni mezzo il rinnovato pericolo d’un’unione dei due regni, prima della partenza suo figlio Enrico era stato incoronato re di Sicilia, reggente la madre; e Federico aveva do­ vuto rinnovare per iscritto l’antico concordato fra sua madre e il papa, oltre al giuramento di vassallaggio in attesa di confermarlo di persona. Roma era dunque la prima tappa del suo viaggio. La raggiunse solo alla metà di aprile, essendosi dovuto fermare quasi un mese a Gaeta, per evi­ tare probabilmente gli agguati della flotta pisana, amica di Ottone. Il papa, i cardinali, il senato e il popolo di Roma gli tributarono altis­ simo onore, accogliendolo come futuro imperatore romano secondo il co­ stume classico richiamato in vita per l’occasione. Fu questa la prima e l’ul­ tima volta che si videro Federico e Innocenzo; e poco è stato tramandato sull’incontro tra questi due signori del mondo, l’uno dei quali escludeva l’altro. Re « per grazia di Dio e del papa », Federico riconobbe gli sforzi fatti in passato dal suo tutore, al quale doveva, e sono parole sue, dopo Dio tutti i poteri; e prestò, secondo la tradizione dei re normanni, giuramento di vassallaggio per la Sicilia. Ora gl’interessi del papa e dell’imperatore s’accordavano; Innocenzo fece coraggio al fanciullo e lo aiutò come potè; e Federico, dopo pochi giorni di soggiorno (le spese furono sostenute dal papa), munito dal pon­ tefice d’una somma di denaro, lasciò Roma. Il ricordo glorioso della sua partenza dalla « città delle città » gli fu sempre presente, con quanto di simbolico esso comportava: non il papa, non i principi tedeschi, ma il popolo romano, Roma la grande l’aveva chia­ mato « come la madre il figlio, a correre in Germania, a occupare il cul­ mine dell’impero »; e forse, secondo quanto dice un tardo panegirico, « a lui, a un fanciullo, aveva conferito l’augusta natura dei Cesari ». Ma di questa dignità si vedeva ancor poco, quando Federico, « figlio della chiesa » per il papa, « re dei preti » per i suoi avversari, si rimise in viaggio. Su navi genovesi prese a nolo — il viaggio per via di terra era troppo malsicuro a causa delle guarnigioni imperiali — sbarcò il 1° mag­ gio a Genova (che, come rivale di Pisa, parteggiava per lo Staufen), accolto anche qui con grande onore e manifestazioni di simpatia. Pur impaziente di proseguire, fu costretto a fermarsi per varie setti­ mane, perché tutte le vie verso nord erano occupate dai suoi nemici; ma questa doveva essere l’ultima interruzione. Dietro una massa di promesse con la strana e fantastica aggiunta « per il tempo in cui fosse imperatore », Federico ottenne dai genovesi denaro 49

per la propria sussistenza. Pavia aveva sostenuto le spese del viaggio da Roma a Genova, e a Pavia arrivò, accompagnato dai genovesi e dal suo piccolo seguito, alla metà di luglio, dopo aver fatto un giro vizioso passando per Asti, perché la via diretta gli era impedita dalle città fedeli al guelfo. La città, clero cavalieri e popolo, lo accolse come se già fosse impera­ tore, onorandolo del baldacchino « come si conviene all’altezza imperiale ». Ma la parte più difficoltosa del viaggio doveva ancora venire: per an­ dare da Pavia a Cremona, doveva attraversare un territorio nemico. Pia­ cenza gli sbarrava il passo, e se avesse piegato più a nord sarebbe stato troppo vicino a Milano. Milano e Piacenza, per di più, erano state infor­ mate del suo viaggio e dei suoi piani, e avevano apprestato i loro vessilli, pronte alla battaglia. « Ma le parole che avevano detto, non si concreta­ rono nei fatti »: gli amici di Pavia avevano giurato a tutte lettere di por­ tare in salvo il futuro imperatore a qualunque costo, e a questo scopo s’accordarono coi cremonesi di incontrarsi a metà strada sulle rive del Lambro. Quivi convennero però anche i milanesi, mentre i piacentini scende­ vano il Po con tutte le loro imbarcazioni, alla ricerca di Federico. Una sera di luglio, di sabato, all’ora del vespro, i pavesi lasciarono la città e cavalcarono tutta notte per raggiungere il Lambro. Alla stessa ora si riunirono anche i cremonesi, secondo l’accordo, sotto la guida del mar­ chese d’Este, e raggiunsero il fiume all’alba della domenica. MS all’improv­ viso, mentre stavano riposandosi della galoppata, sopravvennero i mi­ lanesi, intenzionati a catturare il re; il quale, a quanto si dice, appena li vide si buttò su un cavallo senza sella, guadò il fiume, lasciandosi alle spalle le grida di scherno dei milanesi, che fecero strage dei pavesi in fuga verso la loro città. Tutto s’era deciso in pochi istanti, e Federico era salvo: « Cristo aveva fatto apertamente il miracolo, » dicevano tutti stupiti. Quando Federico entrò finalmente nella fedele Cremona, fu accolto da grida di giubilo e celebrato « come fosse l’angelo del Signore ». Poi fu una marcia irresistibile: da Cremona (dove l’apparizione ultraterrena chiese in fretta notevoli beni terreni che gli furono accordati), passò celermente a Mantova, e di là a Verona. Da Verona, per la valle dell’Adige, raggiunse Trento. Ma il Brennero gli era precluso, perché i conti di Merano e di Baviera era partigiani di Ottone. Allora Federico piegò a ovest, varcando le Alpi nei luoghi più desolati, e raggiunse Chur, in Engadina, con poco seguito, all’inizio di settembre. Gli ordini del papa, di appoggiare dovunque lo Staufen e di fargli ono­ revole accoglienza, ottennero il loro effetto anche in territorio tedesco: il vescovo di Chur accolse ospitalmente il fanciullo e lo accompagnò di per­ sona a San Gallo, dove, grazie all’abate del luogo e al governatore di Pfàffer, 5o

il seguito del re salì a circa trecento cavalieri, coi quali s’affrettò a Costanza. Ancora una volta la sorte fu dalla sua, ancora una volta lo spazio di poche ore bastò a decidere il suo destino e quello dell’impero. Mentre ancora correva da San Gallo a Costanza, il suo avversario Ot­ tone s’accampava sull’altra riva del lago di Costanza, a Uberlingen. Il guelfo aveva, nei mesi precedenti, ristabilito in gran parte la sua autorità in Ger­ mania, e, saputo della venuta di Federico, s’era precipitato nella Germania meridionale, per battere lo Staufen sin dal suo arrivo. Ottone contava ap­ punto di entrare a Costanza, che si apprestava a riceverlo; la sua servitù era già arrivata e i suoi cuochi erano tutti presi dalla preparazione del pranzo dell’imperatore. Ma invece dell’atteso, si presentò alle porte della città Federico, chiedendo di entrare; il vescovo, già pronto per accogliere l’imperatore Ottone, gli negò da principio il permesso. Il re si trovava di nuovo sul filo del rasoio, senonché il legato papale che lo accompagnava, l’arcivescovo Berardo di Bari, annunciò ancora una volta la scomunica che pesava su Ottone, e il vescovo di Costanza, dopo aver riflettuto, accondi­ scese alla richiesta: così la città, addobbata a festa per ricevere il guelfo, aprì le sue porte allo Staufen. Il ponte sul Reno, in direzione di Uberlingen, fu barricato alla svelta, e quando tre ore dopo Ottone tornò dinanzi a Costanza, trovò le porte chiuse, né potè pensare di attaccare battaglia dato lo scarso seguito che s’era portato appresso. « Se Federico fosse arrivato a Costanza solo tre ore più tardi, non avrebbe avuto più alcuna speranza di successo in Germania. » La notizia della venuta dello Staufen si sparse in un batter d’occhio: il successo di Federico era indiscutibilmente segno del favore celeste, si pen­ sava; e i suoi partigiani crescevano d’ora in ora. Nel giro di pochi giorni, principi e nobili dell’alto Reno abbracciarono le sue parti; borghi e città si pararono a festa. Quando, una settimana più tardi, Federico fece il suo ingresso a Ba­ silea, il suo seguito era già quello d’un vero re: c’erano i vescovi di Chur e di Costanza, gli abati di Reichenau e di San Gallo, i conti Ulrico di Kiburg e Rodolfo d’Asburgo, e molti altri ancora; a Basilea s’aggiunse il vescovo di Strasburgo con cinquecento cavalieri; ancora a Basilea, si presentarono al fanciullo diciassettenne gli inviati del re di Boemia a chiedergli di rati­ ficarne la corona. La debolezza, la miseria, le persecuzioni di Ottone, tutto era passato: Federico era felice e vincitore. In breve tempo il precoce fanciullo, non in sogno come altri eroi, ma in una realtà non meno favolosa, aveva acquisito la sicurezza del giovane lottatore: lui che, ormai adolescente, ancora era chiamato « il ragazzo d’Apulia ». Basilea e Costanza costituirono le prime basi sicure per Federico; 5i

quando Ottone cercò di sbarrargli la valle del Reno occupando Breisach, non ebbe neppure bisogno di levare la spada, perché gli abitanti di quella città, inferociti per alcune violenze commesse dai sassoni — gente già mal­ vista nel sud —, conosciuta la venuta dello Staufen, s’aiutarono da sé, cac­ ciando l’imperatore con tutti i suoi guerrieri. E quando Ottone, già abban­ donato da molti, si buttò su Hagenau, ne fu respinto dal cugino di Fede­ rico, il duca di Lotaringia. Solo a Colonia, nel basso Reno, la città che un tempo lo aveva sostenuto, riuscì il guelfo a raccogliere le proprie forze: ma l’alto Reno era così aperto a Federico. Non molto tempo prima, i paesi del Reno avevano visto un altro fan­ ciullo guidare una schiera innumerevole, quando in giorni luminosi di sole (simili a questi, nei quali il re apulo, baciato dalla sorte, era chiamato a impadronirsi dell’impero), un fanciullo tedesco passava le Alpi per entrare in Italia, non sotto la protezione del pontefice, ma col segno della croce sulle vesti, chiamato da un angelo alla conquista del santo sepolcro. Lo seguiva una schiera immensa di fanciulli del Reno, ragazzi e ragazze, che, presi dall’ebbrezza della crociata, accesi di zelo e di passione ardenti, an­ davano incontro a morte sicura. Questa crociata di fanciulli, che nessuno riuscì a trattenere, aveva lasciato un senso d’angoscia; così ora si salutava con un sospiro di sollievo la marcia, destinata al successo, del giovane Staufen. Il quale, accolto ovunque con un entusiasmo senza paragoni e salutato re di Germania, fece lentamente il giro delle città della valle renana, parate a festa in suo onore. Traversò l’Alsazia, « la nostra terra prediletta di Ger­ mania », come la chiamò, sempre e ancora osannato dal popolo, mentre il suo seguito si faceva maggiore man mano che proseguiva nella valle del Reno: un vero trionfo. Un italiano aveva detto che solo guardare quel bel fanciullo era già una gioia: le genti dell’alto Reno non dovettero avere impressioni diverse. Nelle povere cronache del tempo si può seguire passo passo la comparte­ cipazione e la gioia per i successi di Federico, le cui prime vittorie ottenute senza sforzo apparivano miracoli. Già nelle circostanze esterne della sua sorprendente ascesa sembravano attuate tutte le leggende fiorite sul suo conto: il principe mendico, che bussava alle porte di Costanza in cerca d’asilo, che sedeva a un banchetto preparato per un altro, che, per esser giunto al momento giusto, grazie al vantaggio di poche ore guadagnava l’impero: eran tutti episodi ben noti, fatti certi, e nondimeno apparivano già stranamente lontani, perduti nel tempo. Da questo stesso sentimento furono presi ora i tedeschi nei riguardi del fanciullo, avvolto ancora dell’aura di sogno dell’infanzia e della lontana Sicilia, il cui aspetto — familiare a tutti nonostante mai l’avessero veduto 52

— lo diceva chiaramente uno dei loro, quasi come se il duca Ernesto di Svevia, del quale si cominciavano proprio allora a cantare i viaggi meravi­ gliosi, si fosse presentato al popolo accompagnato dal bell’« orfano dello Staufen ». «Il fanciullo d’Apulia », «il nostro bambino»: così, quasi sempre senza titoli, lo chiamava la gente; e anche dopo decenni i cronisti usarono aggiungere al nome del potente imperatore quel « puer Apuliae » ch’era divenuto quasi un soprannome. Anche il fatto d’esser stato incoronato dal papa valse forse a circonfonderlo d’una luce tutta particolare, e, usi come si era a vedere in ogni accadimento terreno un disegno soprannaturale, si celebrava nel fanciullo Staufen la vittoria del bambino che vince i più forti con armi invisibili. Il papa l’aveva mandato contro il gigante guelfo come un « novello Davide », di cui si ripeteva la vicenda: al solo apparire, aveva ricacciato nella sua tana il guelfo, lo spirito maligno. « Il savio bimbo d’Apulia, » pensavano altri, « aveva vinto il guelfo con armi celesti, non terrene »; « Guardate la potenza del fanciullo! », cantava un trovatore:

Das chint von Ì?ulle man chomen sach... der Chaiser hete groezer chraft doch wart das chint sigehaft gar àne swertes slac: diu gunst dem chint die menge wac... * Intorno a quest’epoca, e fors’anche alcuni anni più tardi, Almerico di Peguilain, il trovatore ospite del conte di Monferrato, affermava che solo dopo le gesta di Federico poteva prestar fede a quelle di Alessandro Ma­ gno, a cui non aveva mai creduto: perché lo Staufen, « il medico di Sa­ lerno », aveva fatto rivivere la generosità, sino allora « malata ». Altre doti ancora celebravano i trovatori di Federico: la giovinezza, la gioia, la bel­ lezza, che corrispondeva in tutto all’immagine che del re avevano i Min­ nesanger, dalla statura media alla chioma bionda, e soprattutto la milte, la generosità, di cui era stato modello il re di Macedonia. La generosità come virtù regale era una creazione dell’etica trobadorica, etica per molti versi pagana (il medioevo cristiano, mancandogliene un esempio biblico, non aveva infatti il concetto di liberalitas come gioia e pienezza di vita, e norma del comportamento umano, ma solo quello di * Il bimbo di Puglia si vide venire... / l’imperatore aveva maggior forza / ma fu vin­ citore il bimbo di dura battaglia senza colpo ferire. / Il favore della folla fu sempre con lui.

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charitas, cioè d’una virtù esercitata di tempo in tempo per la salvezza del­ l’anima). A partire dagli Staufen, la generosità era tornata a essere l’immagine del re perfetto; e quando Federico n, nel suo primo scritto in terra tede­ sca, disse che « la generosità aumenta la dignità del sovrano, per nulla sminuita dai doni ch’egli fa », queste erano parole dei Minnesanger: anche il pensiero di corte si conformava alla vita del tempo. Federico agiva, e affermava di agire, seguendo « non tanto il costume regale, quanto piuttosto una sua personale inclinazione alla generosità », sicché si lodava la sua « liberalità innata », anche quando più tardi, per determinati motivi politici, Federico si fece meno generoso verso i trova­ tori. Ma, appena messo piede in Germania, la milte del fanciullo sconfinò quasi nella prodigalità: nell’ebbrezza dei primi momenti, il giovane prin­ cipe profuse a piene mani beni paterni e beni dell’impero a quanti l’attor­ niavano, promettendo doni, quando gli mancò il denaro, per il tempo che « coll’aiuto di Dio ne avesse ». Ma non appena aveva qualcosa, la dava ai suoi fedeli; e non poco stupiti dovettero restare gli inviati del re di Francia. Essi gli recarono nelle prime settimane del suo soggiorno tedesco una rilevante somma di denaro: e al cancelliere che gli chiedeva dove la si dovesse custodire Federico ’ rispose che non era da conservare, ma da dividere fra i principi. « Conosciuto il nobile atto, un unanime grido di giubilo si levò in suo favore »; in tal modo egli s’era cattivata la simpatia di tutti, come attestano concordi i cronisti. Il puer Apuliae però aveva obiettivi ben precisi e sapeva con quali mezzi tirare dalla sua i principi e i conti avidi di terre e di denaro; perché, se pure la generosità gli era connaturata, se ne serviva in maniera che ne spiccasse per contrasto l’avarizia del guelfo. Federico stesso ne fa cenno: « La ragione stessa ci spinge a questo, inducendoci a considerare come proprio per aver agito altrimenti, il nostro avversario si sia attirato l’ini­ micizia degli uomini e lo sfavore celeste. » Così, in poche settimane, il fanciullo era divenuto padrone di tutta la Germania meridionale, dalla Borgogna sin oltre la Boemia, senza colpo ferire e con poca fatica. Moltissimo doveva al papa, visto che, come s’è fatto giustamente rilevare, le prime terre che occupò come Chur, Costan­ za, Basilea, la regione strasburghese, e quasi tutta la parte settentrionale della valle del Reno, erano in prevalenza feudi vescovili. Pure il re di Francia aveva largamente contribuito ad aiutarlo, e ancor maggiori servigi gli avrebbe reso in futuro; con Filippo Augusto, Federico ebbe un abboc­ camento a Vaucouleurs, vicino a Toul, nel novembre 1212, e in tale occa­ sione scampò per miracolo a un attentato da parte di Ottone. L’incontro 54

ebbe per risultato un’alleanza fra i due re contro l’Inghilterra e contro il guelfo, coll’impegno, da parte di Federico, di non far pace né con l’una né con l’altro senza il consenso francese. In questi primi anni, lo Staufen dipendeva completamente dalle po­ tenze che lo avevano portato in alto; era particolarmente legato al re fran­ cese, il quale metteva nel proteggerlo forse fin troppo zelo. E che Filippo si arrogasse certi diritti è provato da un documento, nel quale un vassallo francese giura fedeltà a lui e a Federico, e in caso di morte di quest’ultimo, a colui « che sarebbe stato eletto a imperatore del sacro romano impero col consenso del re di Francia ». Come lo Staufen dalla Francia, così Ottone era sostenuto dall’Inghil­ terra: si preparava in tal modo il giorno in cui, a causa del grave scom­ piglio regnante in Germania, la corona tedesca sarebbe stata finalmente disputata tra Francia e Inghilterra. Inviati francesi erano presenti a Fran­ coforte, quando, il 5 dicembre 1212, Federico venne ancora una volta formalmente eletto re da una grande accolta di principi; e così pure a Magonza, dove ebbe luogo, quattro giorni dopo, l’incoronazione, alla quale si procedette con una copia delle insegne imperiali, essendo quelle autenti­ che ancora in possesso di Ottone che stava in quei giorni coi suoi partigiani ad Aquisgrana, città tradizionalmente designata all’incoronazione degli im­ peratori. Per il momento, i due avversari non vennero a battaglia: Ottone si perdeva in scaramucce nel basso Reno, nella natia Sassonia e in Tutingia, contro i partigiani dello Staufen, e Federico non aveva ancora radunato un esercito. Per riuscire a questo, e per farsi conoscere dai vassalli delle varie province al tempo stesso, onde riceverne l’omaggio, Federico presenziò a una serie di feste di corte: a Ratisbona per la Baviera e la Boemia, e a Costanza per la Svevia. Intanto, benché dovesse gratitudine al papa e al re di Francia per il loro aiuto, vedeva però che nella Germania meridionale, e prima di tutto in Svevia, esistevano anche altre forze che lo avrebbero aiuta­ to sino alla vittoria: il popolo, ad esempio, lo acclamava come figlio dello Staufen già suo signore. Voci calunniose sul suo conto erano state messe in giro dai suoi nemici: non era, si diceva, figlio dell’imperatore Enrico, ma di un funzionario della corte pontificia (si ripetevano, a un dipresso identiche, le voci ch’eran sorte dopo la sua nascita). Ma bastava che Federico si mostrasse, e tutte le chiacchiere finivano; come dice ottimamente il cronista: « Mentre il fune­ sto cicaleccio delle labbra più diverse cominciava a prevalere, ecco apparire il giovane re, tra il corteggio dei suoi svevi bavaresi Boemi, trionfatore della parte avversa, a mostrare la nobiltà della sua schia tta col nobile con­ tegno della persona. » 55

Federico, entrato nel regno paterno, ne fu salutato legittimo e natu­ rale erede. Già dopo l’assassinio di Filippo era stato riconosciuto da alcuni monasteri svevi quale duca di Svevia, e ci si ricordò ora che era già stato eletto re quando era ancora in vita l’imperatore Enrico, e che solo la sua giovane età, la lontananza e gli intrighi gli avevano impedito di assumere quella corona che spettava di diritto agli Staufen. Perché, si spiegava al­ lora, esisteva una sola stirpe, una regia stirps, che potesse generare impe­ ratori: quella dei Waiblingen, dei Ghibellini, nelle cui vene scorreva il sangue due volte regale dei Carolingi e dei Salii, e, risalendo più su, dei Troiani. La tradizione voleva che un antenato degli Staufen si fosse unito, per comando particolare di Dio, con una Waiblingen, sicché a ragione il Bar­ barossa poteva vantarsi di discendere dalla regia stirps Waiblingensium. Tutto ciò contribuì non poco al successo dell’ultimo Staufen, che il suo popolo s’era andato a prendere sin nella lontana Sicilia. A suo tempo gli eruli (come raccontavano i bizantini pieni di meraviglia) avevano inviato messi fin nella remotissima Tuie, per accertare se colà vi fosse ancora un rampollo della loro antica stirpe regia; tardando quelli a tornare, avevano eletto un nuovo re; ma l’avevano abbandonato immediatamente prima d’una battaglia, di notte, al sopraggiungere della nuova che i messi stavano arri­ vando coll’erede cercato. Gli svevi avevano agito nello stesso modo: l’im­ peratore Ottone, tornato in tutta fretta dall’Italia, su consiglio d’un amico s’era unito in matrimonio con Beatrice, erede degli Staufen, con la quale era fidanzato già da lungo tempo, vincolando così al suo seguito i guerrieri bavaresi e svevi. Morta però poco dopo Beatrice e sparsasi la voce dell’ar­ rivo dell’ultimo Staufen, tutti i guerrieri una bella notte piantarono armi e bagagli, lasciarono l’esercito del guelfo, e se ne tornarono in patria (ché « il Sassone », com’era chiamato Ottone, non lo amavano per nulla). Non è senza senso se la vita di Federico, in guerra contro quasi tutte le potenze del mondo, comincia col compimento d’un’antichissima lotta di stirpi. Il fanciullo non poteva essersi creati altri nemici: ma il guelfo Ot­ tone (figlio d’una inglese e destinato al regno più settentrionale d’Europa, quello di Scozia — così come Federico era destinato a quello più meridio­ nale) appariva in ogni tratto, persino nell’aspetto, il nemico nato del ghi­ bellino. Di corporatura alta e insolitamente massiccia, ma ben proporzionata, Ottone somigliava al tipo dell’antico eroe sassone: tertierario, irruente, in­ trepido, la sua forza risiedeva nel pugno poderoso, che lo affidava ad agire in modo tracotante e provocatorio, « come leone che al solo ruggire preci­ pita tutti nello spavento ». Pochi anni prima del viaggio di Federico attraverso il proprio ducato, 56

la Svevia, anche Ottone, da imperatore, aveva visitato la regione. Limitata dal mare svevo, si stendeva a ovest sin oltre il Reno comprendendo l’intera Alsazia, e a sud sino oltre le Alpi al lago di Como; come più antica pro­ vincia romana in Germania, aveva sempre una certa tendenza al sud. Per questa Svevia, Ottone di Braunschweig restò sempre « lo straniero », « il Sassone ». Pure la stirpe guelfa era originaria della Svevia: con la caduta del pa­ dre di Ottone, Enrico il Leone, fondatore di molte città, la signoria della sua casa era stata limitata al Braunschweig, e Ottone stesso visitava con pietà filiale i luoghi fedeli alla sua gente, come Augusta e il convento guelfo di Weingarten. Ma la fanciullezza trascorsa alla corte inglese dello zio Riccardo Cuordileone lo rese probabilmente estraneo alla terra dei padri, e gli lasciò in eredità, fra l’altro, un concetto della parsimonia che confi­ nava con l’avarizia (tanto che Walther von der Vogehveide poteva così schernirlo: « Se fosse liberale quanto è lungo avrebbe un mucchio di vir­ tù »), oltre a una cultura davvero ristrettissima e a una meschinità di spi­ rito notevole. E come avrebbe potuto un uomo così rozzo competere coll’arte del­ l’intrigo della curia romana, e specialmente d’un Innocenzo m? Nella sua impotenza ad agire contro forze delle quali non era neppure in grado di comprendere la portata, Ottone desta quasi un senso di pietà, quando senza alcun sospetto si avvia a cadere nella trappola preparata per lui. Solo quando il colpo gli fu vibrato se ne accorse, e ne restò profondamente scosso: « perplexus », dice il cronista. Anziché trarne nuovo impeto a di­ fendersi, ne restò schiacciato. Il suo carattere inoltre gli alienò ben presto le simpatie di tutti i ceti sociali, almeno nel sud: i principi non lo amavano per la sua severità, esercitata in modo inopportuno, altezzoso e, come si giudicava, ingiusto; il basso clero lo detestava perché (mossa maldestra!) egli aveva privato gli ordini mendicanti delle loro prebende a favore dei suoi sassoni e degli inglesi; l’alto clero non poteva certo averlo in simpatia, visto che, privo del senso delle convenienze, Ottone parlava sempre dei prelati chiamandoli « pretacci ». A farla breve, rovinò il suo gioco senza necessità, per una somma di piccolezze; e anche quando aveva ragione di prendere determi­ nati provvedimenti, lo faceva nel modo sbagliato, da prepotente invece che da persona che vuol guadagnarsi l’affetto altrui. È logico quindi che la sua scomunica fosse accolta con gioia maligna da quanti « avevano altri modi da quelli di Ottone ». « Fastidioso agl’italiani, agli svevi più fasti­ dioso, sgradito ai suoi »: tale il giudizio che si dava al sud del guelfo: la sua selvatichezza appariva segno più di insicurezza che non di vera superbia. Mancava a questo gigante quell’orgoglio veramente regale che permise a 57

un Barbarossa di inginocchiarsi di fronte al più potente dei suoi vassalli, il guelfo, senza nulla perdere in dignità; troppo facilmente il suo orgoglio di vassallo, che poteva essere spezzato solo dalla violenza, si mutava nel suo opposto. Questo imperatore, l’unico di stirpe guelfa, era destinato a morire sull’Harzburg, a soli trentasei anni, cacciato dal trono, in una lotta orribile, buttato a terra da un abate, e costretto a confessare i propri pec­ cati fra una turba di preti che lo sferzarono a sangue, a morte. I tempi eran già troppo maturi, le menti troppo sveglie perché un uomo dotato solo di forza fisica, per quanto valente e ardito, potesse reg­ gere il sacro romano impero. Un antichissimo mito indicava a chiare e crudeli parole il diverso destino riservato alle due stirpi: ghibellini sareb­ bero stati sempre gli imperatori, e loro vassalli i guelfi, anche se primi e più potenti fra i duchi. Se nell’impero ghibellino c’era sempre posto per il gi­ gante guelfo che serbava intatta la forza fisica del tempo antico, in un even­ tuale impero guelfo all’eroe ghibellino sarebbe mancato lo spazio spirituale. Dai tempi dei carolingi, da quando cessarono le migrazioni, s’era man­ tenuto un giusto rapporto fra le due stirpi; ma da allora il destino dei guelfi s’era ripetuto con infallibile esattezza: al tentativo sempre rinnovato di rompere il filo di quel mito, era ogni volta succeduta la sconfitta del­ l’orgoglio e della fierezza del vassallo, e con essa la morte solitaria. Il ri­ brezzo, l’orrore, l’aria lugubre che spira dalla poesia nordica, avvolge i guelfi tutti: a cominciare da uno dei primi, che colmo di dolore andò a perdersi nella solitudine dei monti, perché il figlio, a sua insaputa, aveva prestato omaggio e giuramento di vassallaggio al re dei franchi — ghibellino — compiendo così il destino dei guelfi; giù giù,fino a Enrico il Superbo, che dopo lunghe e vane battaglie contro il primo Staufen venne a morte pro­ prio quando poteva vincere; e a Enrico il Leone, rovesciato e mandato in esilio; e infine a Ottone, l’unico imperatore guelfo — anche se non il maggiore dei guelfi —, il quale sembrava già aver annullato il mito, e che, invece di fondare realmente una signoria guelfa nel nord (che il papa avrebbe salutato con gioia), pagò nell’orrendo modo che sappiamo la sua aggressione all’impero degli Staufen. Forse potremmo arrivare sino al fon­ datore del regno del nord, che non aveva corona: il vassallo solitario ab­ battuto nella foresta di Sassonia, per destino così prossimo al guelfo Ottone. Che la chiesa preferisse stare coi guelfi — l’alleanza col fanciullo sici­ liano fu solo una eccezione — non fa meraviglia: la chiesa aveva bisogno d’una spada, cioè di un docile guerriero, non di un uomo di alta spiritualità; e inoltre doveva apparirle fortemente pericolosa l’etica laica degli Staufen. Quando, in seguito alla lotta fra il guelfo Ottone e Federico (i due tipici rappresentanti dei rispettivi casati), i partiti che fecero risuonare per secoli 58

l’Italia delle loro armi assunsero i nomi di guelfo e di ghibellino, fu per­ fettamente logico che guelfo significasse partigiano del papa. Il concetto di ghibellino comprendeva, nel tredicesimo secolo, la chia­ rezza e la libertà laiche del pensiero, spesso confinanti con l’eresia (che trovavano posto anche nella chiesa, ma che essa chiesa giudicavano dal difuori e nel suo complesso). Onde un partigiano dell’impero potè dire della Divina Commedia, secondo quanto riferisce Benvenuto da Imola: chi non fosse ghibellino non avrebbe mai potuto comporre una simile opera. Le due denominazioni furono usate per la prima volta a Firenze in occasione delle lotte scoppiate dopo una cerimonia nuziale del 1216 fra le due famiglie dei Buondelmonti e degli Amidei: i primi, partigiani di Ottone, si chiamarono guelfi-, i secondi, sostenitori di Federico, ghibellini. Non si trattava dunque ancora di essere per l’imperatore o per il papa — perché allora il papa sarebbe stato ghibellino —; solo più tardi, divenuto imperatore Federico n, ghibellino significò essere per l’impero, e guelfo per il papa. All’esito della guerra fra il guelfo e lo Staufen non erano interessati solo i paesi della Germania, ma, e in modo ben più diretto, l’Inghilterra e la Francia, a causa dell’alleanza dell’una con Ottone e dell’altra con Federico. La contesa per il trono non rappresentava per le due potenze occidentali se non il proseguimento della loro antica e pertinace lotta; ma per Ottone, che solo nel nord della Germania poteva combattere Federico, l’entrata in lizza delle due potenze nascondeva qualche prospettiva di successo. Il guelfo pensava molto giustamente che una vittoria inglese sulla Francia non avrebbe mancato di scuotere la posizione dello Staufen, peraltro non ancora stabilizzata, nella Germania meridionale, se pure non l’avrebbe addirittura scalzata. Si venne così a un trattato comune anglo-guelfo contro la Francia. Filippo Augusto era in una situazione critica: nella primavera del 1214, il re d’Inghilterra era approdato a La Rochelle, mentre, nel contempo, Ottone e il duca di Brabante, suo alleato, marciavano contro la Francia da nord-est. Anche Federico, dopo una spedizione senza esito contro Quedlinburg nell’autunno dell’anno precedente, recatosi a Coblenza la Pasqua del 1214 vi aveva raccolto un esercito per assalire Ottone sul basso Reno, sì da render meno grave il pericolo per l’alleato francese. Ma i suoi progetti furono precorsi dagli eventi: non prese parte alla guerra franco-angloguelfa, gli restò solo da raccogliere i frutti delle vittorie francesi. L’erede al trono di Francia sbaragliò infatti l’esercito di Giovanni d’In­ ghilterra a Poitou, e poco più in là anche a Filippo Augusto riuscì di aver ragione della coalizione guelfo-bassorenana. Il 27 luglio 1214, nella me­ 59

morabile battaglia di Bouvines, si decise il destino di tre paesi: la Francia vittoriosa (la cui bandiera, l’orifiamma, fu da allora adottata dalle milizie di varie città), fondò la sua unità nazionale; l’Inghilterra vide, dopo la sconfitta, la rivolta dei nobili contro il re, e il grande documento di libertà che fu la Magna Charta (1215); la Germania rivelò per la prima volta, nell’ambito della politica europea, le sue profonde scissioni interne. Alla Germania era riservato un periodo di unità (ancor più ricco di splendore nella sua breve durata) sotto lo Staufen, che ricevette dalle mani del re di Francia l’aquila d’oro dell’impero, presa al vinto Ottone; il premuroso Filippo aveva fatto riparare in tutta fretta le ali dell’aquila, che si erano rotte. « Da questo momento, » dice- un cronista, « crollò la fama dei tede­ schi presso le genti latine. » Ottone non riuscì più a riprendersi dalla scon­ fitta: le spedizioni intraprese qua e là contro di lui da Federico (più tardi aiutato anche dal re di Danimarca), sono insignificanti. Accanto a Filippo Augusto e a Federico, v’era però il terzo vincitore di Bouvines: Innocenzo m. Le promesse del suo pupillo acquistavano va­ lore solo ora che il pupillo poteva adempierle. Già sei mesi dopo il suo arrivo in Germania, celebrando la .Pentecoste a Eger, Federico aveva rila­ sciato, col consenso dei numerosi principi colà convenuti, un importante privilegio, in cui riconosceva al papa quei diritti ecclesiastici interni e quei territori controversi dell’Italia centrale, ai quali aveva già rinunciato Ot­ tone iv prima dell’incoronazione: poiché non poteva assolutamente negare al suo « protettore e benefattore » (così chiamava ora Innocenzo m) quan­ to aveva accordato il suo avversario e predecessore. Ma l’importanza della famosa Bolla d’oro di Eger, che metteva la chiesa tedesca nelle mani del papa, sta in ciò: che su richiesta della curia essa assunse veste non di concessione personale, bensì di privilegio imperiale, attesoché tutti i principi, non solo nel loro complesso, ma singolarmente dovettero sottoscriverla, uno per uno. Il comportamento di Ottone aveva insegnato a papa Innocenzo quanto poca sicurezza offrissero gli impegni personali, fossero pure quelli d’un imperatore. Tale successo segnò lo zenit della potenza papale, e Innocenzo m volle, come ogni grande signore, che al mondo ne fosse resa evidente testimo­ nianza. E l’ottenne, e in modo da destare vivissima impressione, col con­ vocare in Laterano per l’anno 1215 un grande concilio ecumenico. Fu per molti secoli il più importante concilio della storia della chiesa cattolica, il maggiore che mai papa avesse convocato. Innocenzo potè con­ statare con soddisfazione che i rappresentanti di tutta la cristianità v’erano convenuti, raccogliendosi attorno a lui, vicario del vero Dio: 71 arcive­ scovi, coi patriarchi di Gerusalemme e di Costantinopoli, oltre 400 ve­ 6o

scovi e 800 abati, senza contare gli ambasciatori di numerosi principi e città e di quasi tutti i re dell’occidente. Anche Ottone e Federico, rappresentato quest’ultimo dall’arcivescovo Berardo di Palermo, inviarono messi, visto che il concilio doveva pronun­ ciarsi anche sulla questione del trono tedesco. Inevitabilmente, il favorito fu lo Staufen: ma che un concilio della chiesa deponesse un imperatore romano, costituiva un pericoloso precedente. Le altre deliberazioni del con­ cilio toccarono la disciplina interna della chiesa. Papa Innocenzo non sopravvisse agli sviluppi del concilio: nel luglio del 1216, a pochi mesi di distanza dal trionfo, moriva, in età di cinquantasei anni, a Perugia. Ci si ricordò allora che, quasi presentendo la morte vicina, aveva aperto il concilio con le parole della Scrittura: « Ardente­ mente ho bramato di mangiare con voi l’agnello pasquale prima di sof­ frire. » Un secolo dopo, Giotto (o un suo discepolo) affrescò nella chiesa, seguendo la leggenda, il sogno di questo papa, al quale nella notte avanti la conferma dell’ordine francescano (allora soltanto ai primi albori) era apparso il santo d’Assisi recante in mano l’edificio della chiesa cristiana. E fu sotto la protezione di codesto potente papa che sbocciarono due delle figure maggiori dell’immediato futuro: Francesco d’Assisi e Fede­ rico il. Anche prima della conferma conciliare del suo titolo d’imperatore, la causa di Federico in Germania era giunta a un esito positivo. Nello stesso tempo egli aveva reso alla chiesa un importante servigio, che il papa ri­ fiutò deliberatamente di riconoscere. Nei suoi ultimi anni di vita, il papa era tutto teso a preparare una nuova crociata, che, stavolta, non doveva esser opera di una potenza terrena, ma della chiesa militante. Certo, nella sua qualità di verus bnperator, Innocenzo non avrebbe mancato di porvisi a capo. Missive sulla questione della Terrasanta furono spedite a tutta la cri­ stianità e predicatori furono inviati in tutte le diocesi, coll’ordine di riac­ cendere in tutti, come un tempo san Bernardo nei tedeschi, l’ardore per la crociata. I predicatori si sparsero per città e paesi grandi e piccini, e predicarono la crociata sulle piazze, durante le fiere; comparvero anche fenomeni celesti a incitare chi esitava. Ma l’entusiasmo che avrebbe dovuto pervadere tutti, questa volta mancò: il fanatismo si mutò in indifferenza, causa non ultima la recente disastrosa riuscita della crociata dei fanciulli. Purtuttavia alcuni principi come il duca di Baviera avevano già dato la loro adesione allorché Federico n nella primavera del 1215 si preparò a una spedizione contro Aquisgrana e Colonia. Infatti, quando l’anno pre­ cedente, dopo la battaglia di Bouvines, s’era diretto verso il basso Reno, 6i

non aveva osato attaccare Colonia (malgrado fosse alla testa di un esercito considerevole), e aveva assalito Aquisgrana, senza risultato. Gli era riuscito in quell’occasione soltanto di trarre dalla sua l’alleato di Ottone, il’duca di Brabante. Nel maggio, ad Andernach, fu dunque decisa la nuova spedizione. Ma quando, nel luglio, Federico s’apprestava a lasciare l’Alsazia, seppe che la situazione del basso Reno era improvvisamente mutata: gli abitanti stessi di Aquisgrana avevano cacciato il rappresentante dell’imperatore Ottone, e lo invitavano a venire in pace, dicendosi pronti ad accoglierlo come vero signore. Così, non tra il cozzo delle armi, ma nello splendore della dignità imperiale, circondato dai principi e dalla nobiltà tutta, Federico fece il cuo ingresso trionfale in Aquisgrana, la capitale del sacro romano impero, « la sede e la capitale del regno tedesco », come la chiamò, « che, dopo Roma splendida sopra tutte le città e i paesi, doveva consacrare e incoronare gli imperatori del sacro romano impero ». Secondo la tradizione del tempo, solo l’unzione e l’incoronazione in Aquisgrana e l’elevazione al trono di Carlo Magno conferiva al re tedesco il pieno diritto alla dignità della corona imperiale; e Federico pure comin­ ciò a contare i suoi anni di regno dal giorno dell’incoronazione in questa città, che si compì con la sua ascesa al trono di Carlo. Altre festività si aggiunsero poi a quelle dei giorni dell’incoronazione. Cinquant’anni prima, nel 1165, il Barbarossa, benché colpito da sco­ munica, aveva fatto esumare le spoglie di Carlo Magno e lo aveva fatto proclamare santo da un antipapa cremasco — pure esso scomunicato — in presenza di principi e vescovi « in lode e gloria di Cristo, e in bene­ ficio dell’impero romano ». Con la canonizzazione del primo imperatore dell’impero romano-germanico, il Barbarossa aveva inteso consacrare quel­ lo che con lui si disse il sacro romano impero, e soprattutto la funzione del suo capo: quell’impero a cui aveva già dato consacrazione biblica tra­ sportando da Milano a Colonia le reliquie dei tre Re Magi. In onore di Carlo Magno e della sua città nacquero in quei giorni del 1165 i versi festosi della sequenza De Sancto Karolo imperatore-. Questi è il valoroso campione di Cristo, capo d’invitto esercito;

parole cariche di promesse per il nipote, quando entrò nel duomo di Aquisgrana a inumare le spoglie del primo imperatore tedesco. Gli abitanti della città avevano apprestato un superbo scrigno d’ar­ gento, sui lati del quale erano raffigurati gli imperatori in figura di apostoli: 62

l’ufficio apostolico della conversione dei pagani faceva così tutt’uno con quello imperiale. Anche Federico era rappresentato sullo scrigno che do­ veva esser richiuso in sua presenza. Il giorno dell’incoronazione, Federico salì i gradini dell’impalcatura su cui stava lo scrigno, vi depose il pesante manto indossato durante la cerimonia, e batté egli stesso i primi chiodi del coperchio, facendo notare ch’era « giusto e naturale che egli seguisse l’esempio del sire Carlo il Santo e quello degli avi ». Stupisce solo che l’immagine di Carlo Magno, vinci­ tore dei pagani, e del Barbarossa, che, vecchio, perse la vita durante una crociata, gli sia stata presente quel giorno come poi mai nella sua vita. Tale dichiarazione era stata preceduta dai fatti: subito dopo aver rice­ vuto il diadema imperiale, portogli da Sigfrido arcivescovo di Magonza, Federico improvvisamente, fra lo stupore generale, aveva afferrato la croce, e s’era messo ad arringare i principi e i cavalieri presenti, invitandoli alla crociata con parole di preghiera e con promesse di donativi, imitando così i predicatori che proprio in quei giorni chiamavano alla crociata. Molti principi seguirono l’esempio dell’imperatore, e mentre questi per tutto il giorno successivo, da mattina a sera, si trattenne nel duomo ad ascoltare i predicatori, anche gran parte del popolo si cucì la croce dietro le spalle. Ci s’attendeva forse che il fanciullo, da non molto paragonato al re Davide, avrebbe guidato le schiere crociate proprio a Gerusalemme, la città che aveva visto l’incoronazione di Davide stesso? Federico, certo, ci sperava; ed era comunque una mossa diplomatica straordinariamente abile e geniale quella di porsi a capo della crociata, togliendone improvvisamente di mano al papa la condotta e la direzione, e riacquistando all’impero e a chi lo reggeva il suo più nobile compito, quello di presiedere alla spedi­ zione dei cavalieri cristiani in Terrasanta. Il papa fu penosamente toccato dallo zelo del suo pupillo e serbò un assoluto silenzio di fronte all’iniziativa; ma i fini politici che Federico si proponeva discendevano naturalmente e necessariamente dal suo retto con­ tegno di uomo e di re; e non si doveva rimproverare all’orgoglioso e fo­ coso fanciullo come sottile calcolo politico il fatto che subito dopo ricevuto il diadema imperiale si fosse votato a Dio e all’impero con tutto lo slancio e la devozione della sua giovane età. Era un’offerta, un contraccambio alla sua chiamata all’impero: « Noi offrimmo al Signore umilmente la nostra persona, non in sacrificio ma in olocausto, con animo puro e sincero. » Federico aveva ormai ventun anni: il tempo della fanciullezza, il tempo del puer Apuliae, era finito.

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NOTE

pp. 36-41 papa innocenzo in - Registri, lettere, prediche e scritti papali in migne-pl, 214-217. Da F. Hurter (Geschichte Papst Innocenz’ III. und seiner Zeitgenossen, Amburgo 1834-42) in poi, vale a dire da quasi cento anni a questa parte, non è più stata tentata una rappresentazione d’insieme. Vi suppliscono in qualche modo i lavori di A. Luchaire, Innocent III, Parigi 1904 sgg., e particolarmente, oltre alle più ampie testimonianze letterarie prodotte da Hampe, Deutsche Kaisergeschichte, p. 196, nota 1, alcuni pezzi di complemento in Hampe, Mittelalterliche Geschichte, Wissensch. Forschungsberichte, pp. 82 sgg. Straordinariamente molto offre, pur nella sua limitatezza, un sunto in Hauck, kgd iv, pp. 713 sgg. Come raccolta di materiali, utile il lavoro di Erich W. Meyer, Staatstheorien Papst Innocenz’ III., « Jenaer hist. Arbeiten », quad. 9, 1920; di scarso giovamento la nuovissima compilazione dei fratelli Carlyle, A History of Mediaeval Politicai Theory in thè West, voi. v, The Politicai Theory of thè Thirteenth Century, Edimburgo-Londra 1928, pp. 153 sgg. Sulla posizione nella storia dello spirito del papa, aprono spesso nuove strade i problemi, ora solo ventilati ora risolti, che si leggono in Burdach, Rienzo. Un ritrat­ to di Innocenzo in uomo politico ha dato infine l’Haller in Meister der Politik, voi. i, 1922, pp. 361-401. Manca ancora, invece, quello di Innocenzo -statista sommo. Il papa « verus imperator »: Gervasio da Tilbury, Otta imperialia, mg-ss., xxvii, p. 378. La formula compare a più riprese: cfr. Fr. v. Schulte, Zur Geschichte der Literatur iìber das Dekret Gratians, « Sitzb., Wien », voi. 64, 1870, p. Ili, nella Summa Coloniensis: « ...cum papa super imperatorem, immo ipse verus imperator sit »; e, ivi: « videtur hoc inde, quod papa verus imperator est»; cfr. anche loc. cit., p. 132, nella Summa Parisiensis: « ... vel possumus dicere, quod ipse est verus imperator et im­ perator vicarius eius»; cfr. anche Gierke, Genossenschajtsrecht, voi. m, p. 521, nota 12. Per il nesso « papa verus imperator » con la donazione di Costantino, cfr. Burdach, Rienzo, pp. 268 sgg.; G. Laehr, Die konstantinische Schenkung in der abendlàndischen Literatur des Mittelalters, « Hist. Stud. », 166, 1926, pp. 73 sgg., 81 sgg.; v. anche in Schramm, Renovatio, voi. i, p. 24, il paragone del papa con l’Augusto dei romani. Su tutto il problema: J. B. Sagmuller, Die Idee von der Kirche als Imperium Romanum im kanonischen Recht, « Theolog. Quartalschr. », voi. 80, 1898, pp. 69 sgg. Innocenzo in realizzatore delle pretese universalistiche del papato: Salimbene, mg-ss., xxxii, p. 31; ivi anche l’aneddoto della tunica inconsutile. Non meno significativi i giudizi di altri cronisti; v. p. es. Albert. Miliol., Liber de temp. (mg-ss., xxxi, p. 453): « si viveret magis per decennium, totum mundum subiugasset, et tota fieret una fides »; Math. Paris, (mg-ss., xxviii, p. 399) gli conferisce, come anche a Federico n, l’appellativo di « immutator mirabilis»; e con piena ragione si trova anche la designazione « Innocentius Magnus »; cfr. Alberto di Beham, ed. Hbfler, p. 144; bfw, 11745. Elezione e ascesa al trono: bfw, 5621 b, 5625 a. Innocenzo annesse la massima im­ portanza al fatto che la sua incoronazione a pontefice cadesse nel giorno sacro a Pietro; cfr. p. es., Ep. I n. 296, migne-pl, 214, p. 254; Sermo de divers. m, migne-pl, 217, p. 663: « licet ipso die fuerim in sede apostolica consecratus, quo beatus Petrus apostolus in epi­ scopali fuit cathedra constitutus ». In Ep. I n. 359, migne-pl, 214, p. 336, egli comunica inoltre la visione di un tale, secondo cui Pietro avrebbe detto: « a nativitate sua (di Innocenzo ni, cioè) quasi filium illum dilexi et per diversos gradus promotum in mea tandem sede constitui ». Altri luoghi ancora in Erich W. Meyer, Staatstheorien Papst Innocenz’ III., pp. 8 sg. Innocenzo in vicario di Dio («vicarius Dei»): p. es. Ep. I n. 88, in migne-pl, 214, p. 75; Ep. I n. 326, ivi, p. 292, Ep I n. 335, ivi, p. 306, Ep. I n. 490, ivi, p. 456; Reg. de neg. imp., n. 107, in migne-pl, 216, p. 1109, Serm. de Sanctis VII, in migne-pl, 217, p. 481. Sul problema in sé v. Burdach, Rienzo, p. 293; e Harnack, Christus praesens - vicarius Christi, Sitzb. Berlino 1927, pp. 430 sgg. (e per Innocenzo ni specialmente pp. 440 sg.), secondo il quale il titolo di « vicarius Dei », originariamente riservato all’imperatore (cfr. a questo proposito anche Schramm, Renovatio, voi. i, pp. 272 sg.), fu da Innocenzo in per primo trasferito al pontefice. Frequentissimamente ricorre la « plenitudo potestatis » del papa: cfr. p. es. Ep. I n. 123, in migne-pl, 214, p. 114, Ep. I n. 171, ivi p. 150, Ep. I n. 320, ivi p. 286, Ep. 1 n. 495, ivi p. 458, Ep. Vili n. 153, in migne-pl, 215, p. 728; Ep. XV n. 1, in migne-pl, 216,

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p. 539; o anche Ep. VII n. 42, in migne-pl, 215, p. 326, dov’è l’affermazione della discen­ denza diretta da Dio del potere papale: « nostra potestas non est ex homine, sed ex Deo ». Numerosi altri luoghi in Erich W. Meyer, Staatstheorien ecc., pp. 11 sg. Cfr. anche Gierke, Genossenschaftsrecht, voi. in, p. 566, nota 131, su Innocenzo come propugnatore di tale teoria. La posizione del papa fra Dio e l’uomo: Ep. VI n. 86, in migne-pl, 215, p. 88, Sermo de divers. II, in migne-pl, 217, p. 658; o immediatamente dopo Dio: Ep. I n. 320, in migne-pl, 214, p. 286, dove si legge « ... ut de ipso (i.e. de papa) post Deum alii dicere possint: » citaz. da Giovanni, 1, 16, dove il papa riferisce a sé il detto biblico di Cristo. Questo continuo parallelo con Cristo — che anche Federico n perseguirà più tardi in modo identico — si trova pure in rapporto al Giorno del giudizio, nel quale sarà, per dir così, al papa da render conto: Ep. supplem. n. 233, in migne-pl, 217, p. 269. Significa­ tivo anche il « vassallaggio » dovuto a Cristo come feudatario supremo venga trasferito sul papa quale capo della crociata: Ep. XVI n. 28 e 108, in migne-pl, 216, pp. 817 e 905; cfr. anche Greven, Frankreich und der fiinfte Kreuzzug, « Hist. Jahrb. », 43, 1923, pp. 23 sgg. Cfr. inoltre Ep. II n. 202, in migne-pl, 214, p. 750, dove Innocenzo invia i suoi legati « ad exemplum Domini et magistri, qui discipulos suos per mundum universum transmisit », il che sta a indicare in qual misura questo papa avesse sempre dinanzi agli occhi l’esempio del Signore. Sul dogma « subesse Romano pontifici — de necessitate salutis », cfr. Harnack, Dogmengeschichte, voi. m, 1890, p. 396; molto interessanti anche le considerazioni di Burdach, Rienzo, pp. 538 sgg., sull’« homo spiritualis » in rapporto con questo dogma, per il quale la venerazione di Dio nella persona del papa pretesa da Innocenzo ni costituisce una pre­ messa: cfr. il luogo spesso citato dell’Ep. I n. 88, in migne-pl, 214, p. 75: « Dominus... in nobis honoratur, cum honoramur; et contemnitur, cum contemnimur. » Luca, 10, 16. La stessa cosa dice già l’Anonimo di York in un libello del tempo della lotta per le investiture in Inghilterra (mg-ldl hi, p. 665, riga 31 sgg.): « Si ergo sacerdos et rex uterque per gratiam deus est et christus Domini, quicquid agit et operatur..., iam non homo agit et operatur, sed deus et christus Domini. Sed et quicquid in eum fit, iam non in hominem fit, sed in deum et christum Domini. » Per la dottrina che i « sacerdotes » siano anche «dii», v. loc. cit., p. 667, riga 6: « sunt et dii et christi per adoptionis spiritum ». Il medesimo poi anche in Innocenzo in con riferimento a Exod. 22 in Reg. de neg. imp. n. 18 (in migne-pl, 216, p. 1013): « Dominus sacerdotes vocavit deos, reges autem principes appellavi! »; e, ivi- « Sed et propter dignitatem officii sacerdos angelus appellatur. » Cfr., per la derivazione di tale teoria, Burdach, Rienzo, pp. 262 sgg.; per l’epoca carolingia, particolarmente per Alcuino, v., per es., H. Lilienfein, Die Anschauungen von Kirche und Staat im Reiche der Karolinger, « Heidelb. Abh. », quaderno l, 1902, p. 31; sulla divinità dei papi cfr. anche Jean Rivière, Sur l’expression « Papa-Deus » au moyen-àge, Miscellanea Francesco Ehrle, Roma 1924, voi. il, pp. 276 sgg.; c inoltre i luoghi riportati in Schramm, Renovatio, voi. i, p. 25, nota 4. Fra i con temporanei, sostiene tale teoria Giovanni di Salisbury, Policrat., lib. v, cap. 5, ed. Webb (Oxford 1909), voi. i, p. 296. Molto significativo anche che il maestro Boncompagno scegliesse (nella sua Retorica nata dopo il 1215), là dove discute dei vari paragoni pos­ sibili, come esempio più calzante il paragone di Innocenzo in con Dio: « (potest... transumi) ipse Innocentius papa in Deum, quia omnia quaecumque voluit, fecit »; v. Gaudenzi, Sulla cronologia delle opere dei dettatori bolognesi, « Bullet. dell’Istit. stor. ital. », voi. xiv, 1895, p. 114. Per il trasferimento della « plenitudo potestatis » ai vescovi, cfr., p. es., Ep. I. n. 320, in migne-pl, 214, p. 286; i vescovi concepiti ben più che non semplici « funzionari », in Ep. I n. 493, loc. cit., p. 458 — p. es. —, dove si possono trovare tracce dei diplomi poste­ riori di nomina dei vicari generali di Federico n (cfr. anche mg-const., ii, n. 223, p. 306, e la esercitazione stilistica in hb, iv, p. 245). Lo stesso vale per la trasmissione della « plenitudo pontificalis officii » — v. fra l’altro Ep. I n. 374, in migne-pl, 214, p. 354 —; ovvero per la trasmissione di essa a partire dalla « plenitudo sensuum », dove la chiesa viene paragonata a un corpo umano che ha per testa il papa e i vescovi per membra (cfr., per il sorgere di questa importante visione « organica », Gierke, Genossenschaftsrecht, voi. ni, pp. 546 sgg.); v., fra l’altro, Sermon. de divers. II, in migne-pl, 217, p. 658: «...quia sicut in capite consisti! omnium sensuum plenitudo, in ceteris autem membris pars est aliqua plenitudinis »; cfr. anche Ep. I n. 117, in migne-pl.

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214, p. 106, Ep. I n. 345, ivi, p. 319, Ep. II n. 204, ivi, p. 752, Ep. II n. 209, ivi, p. 759, Reg. de neg. imp. n. 107, in migne-pl, 216, p. 1109, Decret. tit. Ili, in migne-pl, 216, p. 1187. Il governo autocratico del papa è ben delineato dall’Ep. II n. 278, in migne-pl, 214, p. 845: « Licet in tantum apostolicae sedis extendatur auctoritas ut nihil praeter eius auctoritatem in cunctis ecclesiarum negotiis rationabiliter disponatur. » Se per di più il papa dice ai vescovi (cfr. p. es., Ep. Vili n. 83, in migne-pl, 215, p. 650): « scientes quod Deo debetis magis quam homini obedire »; ciò non significa se non che essi dovevano prona obbedienza al « Vicarius Dei »: ma ben diversa è la situazione di quest’ultimo, anche se nello scritto che comincia « inter Deum et hominem constituti » (Ep. VI n. 86, in migne-pl, 215, pp. 88 sg.), pretenda da sé medesimo la stessa cosa: « magis Deo quam homini nos conveniat obedire ». Per l’amministrazione della chiesa cfr. Hauck, kgd, iv, pp. 755 sgg.; R. Schwemer, Innocenz III. und die deutsche Kirche, Strasburgo 1882, spec. cap. iv, pp. 71 sgg. per la questione dell’elezione dei vescovi. Su questo cfr. anche F. Geselbracht, Das Verfahren bei den deutschen Bischofswahlen in der zweiten Hàlfte des 12. fhdts (diss., Lipsia 1905). Sulla stima che il papa faceva dei laici, notevoli Ep. II n. 54, in migne-pl, 214, p. 594; Schwemer, loc. cit., pp. 78 sg., 113 sgg. Una risoluzione del problema delle elezioni in senso papale poteva venire dal diritto di devoluzione, cfr., p. es., Ep. II n. 289, in migne-pl, 214, p. 854, con riferimento al terzo concilio laterano; cfr. GJ. Ebers, Das Devolutionsrecht, « Kirchenr. Abh. », 37/38, 1906, pp. 171 sgg., e per Innocenzo in specialmente ivi, pp. 182 sgg.; cfr. anche Hauck, kgd, iv, p. 759, anche per il sistema delle postulazioni. In strettissimo rapporto con questo l’altro privilegio papale, che « cessiones, depositiones et translationes episcoporum » spettassero esclusivamente « ad auctoritatem apostolicae sedis »; cfr., p. es., Ep. I n. 574, in migne-pl, 214, p. 527, Ep. II n. 204, ivi, p. 752, Decret. tit. V, in migne-pl, 216, pp. 1197 sgg. Il privilegio si basa sull’opinione che le nozze di un vescovo con la chiesa siano insolubili, conformemente al detto: « quod Deus conjunxit homo non separet » (cfr. Ep. I n. 50, in migne-pl, 214, p. 45, n. 117, ivi, p. 106, n. 447, ivi, pp. 422 sg.). Tali nozze potevano essere sciolte unicamente dal papa quale vicario di Cristo, « non enim humana sed divina potius potestate »; la teoria è rigidamente formulata in Ep. I n. 326, in migne-pl, 214, p. 291, Ep. I n. 335, ivi, p. 306, Ep. I n. 490, ivi, p. 456; cfr. inoltre Ep. I n. 502, ivi, p. 462, Ep. I n. 532, ivi, p. 486, Ep. II n. 278, ivi, p. 845, e il Sermon. de divers. Ili, in migne-pl, 217, pp. 659 sgg.; e v. ancora, su ciò, Burdach, Rienzo, pp. 51, 246 sg. Per il diritto di legazione cfr. anzitutto Ep. II n. 202, in migne-pl, 214, p. 750, Decret. tit. X, in migne-pl, 216, p. 1204, e Ep. I n. 355, in migne-pl, 214, p. 319. Le legazioni sono state esaurientemente trattate da Heinrich Zimmermann, Die pàpstliche Legation in der ersten Hàlfte des XIII. fhdts, « Gòrres-Ges. Sektion f. Rechts- u. Soz. Wiss. », quaderno 17, Paderborn, 1913, pp. 21 sgg. I numerosi lavori della scuola di Brackmann sui legati si trovano elencati in J. Friedlànder, Die pàpstlichen Legaten in Deutschland und Italien am Ende des XII. fhdts., 1181-98, « Hist. Stud. » quaderno 177, Berlino 1928, nell’indice bibliografico pp. 163 sgg. Abrogati furono i privilegi delle singole terre in rapporto alle legazioni: cfr. per la Sicilia E. Caspar, Die Legatengewalt der normannischsizilischen Herrscher im XII. Jhdt, qf, vii, pp. 189 sgg., 208 sg.; per l’Ungheria, che aveva quasi gli stessi diritti, cfr. Walther Holtzmann, Papst Alexander IH. und Ungarn, « Ungar. Jahrb. », voi. vi, 1926, pp. 410 sgg., 417. V. anche il lavoro di K. Ruess, Paderborn 1912, su Die rechtliche Stellung der pàpstlichen Legaten. Per quanto riguarda il diritto d’appellazione cfr. Ph. Hergenróther, Die Appellationen nach dem Dekretalenrecht, 1875; Hinschius, Kirchenrecht, voi. vi, i, pp. 119 sgg., § 367. Sull’importanza della raccolta dei Decretali di Innocenzo in, cfr. J. F. v. Schulte, Die Geschichte der Quellen u. Literatur des Canonischen Rechts, voi. i, Stoccarda 1875, pp. 87 sg. Apprestò una raccolta di Decretali di Innocenzo Raniero de’ Pomposi, allo scopo di far nota, com’egli dichiara nella prefazione, la saggezza « nostri temporis Salomonis », migne-pl, 216, p. 1173. Sul gioco della potenza papale contro quella del sovrano, e di quella dei vescovi contro quella papale, cfr. Schwemer, Innocenz HI. und die deutsche Kirche, pp. 72 sgg. Per l’alta opinione che il papa aveva della dignità del sacerdote, molto istruttivi: Sermon. de divers. I, in migne-pl, 217, pp. 649 sgg., Decret. tit. IV, in migne-pl, 216, pp. 1191 sgg.; cfr. anche Ep. I n. 176, in migne-pl, 214, p. 158 oppure Ep. Vili n. 83, in

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migne-pl, 215, p. 650: « cum terrae principibus sedeatis ad faciendam vindictam in nationibus, et increpationes in populis exercendas ». Per la novella elevazione della dignità sacerdotale sono particolarmente importanti le decisioni del quarto concilio laterano, cfr. Hefele, Konziliengeschichte, v, pp. 883 sgg. La simonia delitto di lesa maestà: Ep. II n. 260, in migne-pl, 214, p. 820, Decret. tit. XXII, in migne-pl, 216, p. 1232; cfr. anche Ep. I n. 376, in migne-pl, 214, p. 365 a pro­ posito della « vendita della giustizia »; cfr. in generale Hinschius, Kirchenrecht, v, pp. 161 sgg., 226 sgg. Sul mutamento del culto, e sul rapporto tra questo e il mutamento della struttura dell’altare: Georg Dehio, Geschichte der deutschen Kunst, voi. il, p. HO. Sulla trasforma­ zione della dottrina della transustanziazione e sulla sua messa a dogma, cfr. Hefele, Konziliengeschichte, voi. v, p. 879. L’esemplarità della chiesa riguardo all’idea della perfezione di poteri monarchica e quindi a quella dell’assolutismo come dello « stato moderno » e della sua dinamica, viene accennata qua e là (p. es. dal Gierke, Genossenschaftsrecht, voi. ili, pp. 566 sgg.), anche se finora non sia mai stata tentata una soluzione di tanto problema. Il papa « sacerdos sive iudex »: tutto il capitolo si fonda su Ep. V n. 128, in mignepl, 214, p. 1130 (a cui si compari Burdach, Rienzo, pp. 250 sgg.); Erich W. Meyer, loc. cit., pp. 24 sgg., e W. Molitor, Die Dekretale « Per venerabile»! », Miinster 1876, p. 61. Vedi poi anche Ep. IX n. 72, in migne-pl, 215, p. 892, oltre a F. Baethgen, Der Anspruch des Papsttums auf das Reichsvikariat, zfrg, kan. Abt. x, 1920, pp. 172 sgg.; Sagmuller, Die Idee von der Kirche als Imperium Romanum, « Theol. Quartalschrift », voi. 80, 1898, PP- 69 sg. Il versetto spesso citato: « de omnibus iudicat et a nemine iudicatur » (Sermon. de divers. n, in migne-pl, 217, p. 658), che viene da Cor. 2, 15, ha trovato di recente una trattazione molto interessante in Burdach, Rienzo, pp. 539 sgg. Donde poi anche la frequente accentuazione del medesimo, col pretendere che il papa, in quanto giudice, dovesse calcare la « via regia » — senza guardare, cioè, né a destra né a sinistra —: cfr. Ep. I n. 171, in migne-pl, 214, p. 150, Ep. I n. 368, op. cit., p. 346. Sull’impiego della leggenda del « Quo vadis? », cfr. Burdach, Rienzo, p. 252; ivi, pp. 240 sgg. per la regalità papale procedente dall’ordine di Melchisedech; cfr. anche Bernheim, Mittelalterliche Zeitanschauungen, voi. i, Tubinga, 1918, pp. 117, 153 sgg. Che sacerdozio e regno si frenino a vicenda come l’anima il corpo, è una formula che, naturalmente, torna a più riprese: cfr., p. es., Ep. VII n. 79, in migne-pl, 215, p. 361, Reg. de neg. imp. n. 18, in migne-pl, 216, p. 1013.

pp. 41-48 Innocenzo e ottone iv - Fondamentale per tutta la questione Winkelmann, Otto, pp. 99 sgg., opera a cui ci si deve rifare anche per tutto quanto segue. Cfr. inoltre J. Haller, Innocenz III. und Otto IV., « Papsttum und Kaisertum », Festschrift fiir P. Kehr, Monaco 1926, pp. 475 sgg. Gli Staufen « genus persecutorum » già nella « deliberati© », Reg. de neg. imp. n. 29, in migne-pl, 216, p. 1028; cfr. anche le allusioni di Ep. XI n. 208, in migne-pl, 215, p. 1523. Qualcosa di simile si trova spesso anche nei cronisti, cfr., p. es., Guilelm. Brito, mg-ss., xxvi, p. 203; e in gen. le osservazioni di Kern, Gottesgnadentum, p. 65. L’imperatore braccio e spada della chiesa non era per Innocenzo ni una semplice metafora: con la consacrazione del braccio imperiale — spiegava egli infatti —, l’imperatore diveniva il braccio che doveva ubbidienza al capo, cioè al papa: cfr. Kern, Gottesgnadentum, pp. 115 sg., nota 207. Sulle recuperazioni della chiesa romana, v. Ficker, Forschungen, voi. il, § 328, pp. 284 sgg.; ivi anche qualcosa sulla costruzione dello stato della chiesa a opera di Inno­ cenzo ni; problema al quale porta altri documenti Hampe, Aus verlorenen Registerbdnden der Pdpste Innocenz III. und Innocenz IV., miòg, xxiii, 1902, pp. 553 sgg., nn. 3-5; v. anche Hauck, kgd, iv, p. 721, nota 5. L’attività amministrativa e legislativa nello stato della chiesa durante il xm sec. non hanno trovato sinora uno studio organico; costituiscono un inizio i lavori di Ermini, La libertà comunale nello stato della chiesa (1198-1367), « Arch. Soc. Rom. ». xlix, 1927, pp. 1 sgg.; e di P. Sella, Costituzioni dello stato della chiesa anteriori alla riforma Albornoziana, « Arch. stor. ital. », ser. vii, voi. vm, 1927, pp. 3 sgg. Sul concetto che Innocenzo in aveva del suo governo nello stato della chiesa getta chiara luce l’Ep. I n. 27. in migne-pl, 214, p. 21: « Nusquam melius ecclesiasticae consulitur

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libertari quam ubi Ecclesia Romana tam in temporalibus quam spiritualibus plenam obtinet potestatem. » Cfr. anche Ep. I n. 356, in migne-pl, 214, p. 331, ed Ep. 1 n. 369, ivi, p. 352; caratteristico, tuttavia, che Innocenzo in, anche in qualità di signore feudale, posponesse le temporali alle cose spirituali: cfr., p. es., Ep. II n. 202, ivi, p. 750. Sulle concessioni di Ottone al papa si veda H. Krabbo, Ottos IV. erste Versprechungen an Innocenz III., na, xxvii, 1902, pp. 515 sgg.; Winkelmann, Otto, pp. 144 sgg. e Commento, vili, § 4, pp. 489 sgg. Il tenore delle promesse in mg-const., ii, n. 23, p. 27, n. 31, p. 36; il n. 16, p. 20 è, secondo Krabbo (na, xxvii, p. 523), da cancellare; cfr. anche bf, 217. L’incontro di Ottone con san Francesco: Tommaso da Celano, Legenda prima, c. 42, Roma 1906, p. 45. L’incoronazione di Ottone: Winkelmann, Ottone, pp. 196 sgg. Sul dissidio col papa v. ivi, pp. 230 sgg.; inoltre Hampe, Beitrdge zur Geschichte Friedrich! IL, « Hist. Viert. », iv, p. 172 sgg., e Deutsche Angriffe auj das Kónigreich Sizilien im Anjang des XIII. Jhdts, « Hist. Viert. », vii, p. 479 sgg. Che la curia avesse a disposizione « multorum oculos et aures », lo disse una volta Onorio ni: cfr. mg-epp. pont., i, n. 178, pp. 125-147. Le misure papali contro Ottone co­ minciano, come è noto, subito dopo l’incoronazione di questi: cfr. bfw, 6081, wact. ii, n. 1009, p. 676; bfw, 6082, bact. n. 920, p. 629; bfw, 6083, Ep. XIII n. 210, in mignepl, 216, p. 375. La scomunica di Ottone: bf, 443e, bfw, 6098a; cfr. in gen. Winkelmann, Otto, pp. 248 sgg.; e i saggi citati da Hampe in « Hist. Viert. », iv e vii. Sulla deposizione di Gualtieri di Pagliara: bf, 625a, bfw, 6089; Lejeune, V/alther von Palearia, pp. 141 sgg. Del gran riguardo in cui Gualtieri era tenuto presso il papa testimonia anche la lettera del pontefice a lui: Hampe, « Hist. Viert. », iv, pp. 193 sg. La spedizione vittoriosa di Ottone nell’Italia meridionale: Winkelmann, Otto, pp. 259 sgg.; Hampe, « Hist. Viert. », vii, pp. 479 sgg. Federico è chiamato « regulus » da Tommaso da Pavia, mg-ss., xxii, p. 509. Sopra i simboli del sole e della luna prima in quello di Ottone, poi sul sigillo di Fede­ rico, cfr. Winkelmann, Otto, p. 498; e recent, anche Burdach, Rienzo, pp. 278 sgg., 639 sg., il quale però non offre una spiegazione completa ed esauriente. Se (secondo Burdach, op. cit.) codesti simboli compaiono tanto presso i re normanni di Sicilia quanto presso quelli d’In­ ghilterra, si potrebbe pensare con Ottone iv (quando questi s’apprestava ad attaccare la Sicilia) a un certo rilievo annesso alla discendenza normanna: e sarebbe più chiara la risposta data da Federico con l’adottare i medesimi simboli. Sulla dieta di Norimberga cfr. Winkelmann, Otto, pp. 500 sg., Comm. IX-, e, ivi, pp. 282 sgg. la ritirata di Ottone verso l’Italia settentrionale. Le trattative dei messi della dieta di Palermo: Chron. Ursperg., mg-ss. Oktav, pp. 99 sg. Il sogno dell’imperatore Ottone: Chron. Mont. Seren., mg-ss., xxiii, p. 179. L’elemento provvidenziale presente nella sua elevazione, viene diffusamente sottolineato da Federico (mg-const. ii, n. 116, p. 150): « ...per nos derelictum, quem mirabiliter preter humanam conscientiam (Dominus) conservarat... »; cfr. anche nota a p. 146, capoverso 6. Le citazioni di Walther v. d. Vogelweide provengono da Lachmann 12 e 107. Sulla questione se, in base alle vedute papali, Federico dovesse esser riguardato come vassallo della Santa sede anche nella sua qualità di imperatore romano, v. le osservazioni molto pertinenti di Winkelmann, Otto, p. 277, e il rimando che egli fa a Gervasio da Tilbury, ivi, p. 290. Che tale rischio ci fosse e che d’altra parte se ne fosse ben coscienti, lo dimostra in modo stringente il giuramento di vassallaggio dell’imperatrice Costanza (in Schwalm, na, xxv, p. 721): è infatti l’unica volta durante tutto il suo regno, che essa porta soltanto il titolo di « regina Sicilie », e non quello di imperatrice romana; il che — come osserva molto giustamente il Ries, Regesten der Kaiserin Constanze, qf, xviii, p. 98 al regesto n. 119 — non era affatto nell’interesse della curia. Il giuramento di vas­ sallaggio doveva inequivocabilmente valere soltanto per il regno di Sicilia; ma come si fosse vicini a concludere che tale giuramento si trasferisse dal regno all’impero, è dimostrato da quell’autorità in campo giuridico che era Roffredo di Benevento, il quale spiegava (De libelli! et ordine iudiciorum, Avignone 1500, p. 118; cfr. Carlyle, Politicai Theory, voi. v, p. 334, nota 1): « ... vasalli sunt, qui rem aliquam ab aliquo in feudum recipiunt, sicut dominus imperator a papa habet regnum Sicilie, et multi de imperio idem d i c u n t. »

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pp. 48-55 LA PARTENZA di Federico E GLI inizi in Germania - Fondamentale anche qui Win­ kelmann, Otto, p. 313 sgg. Così motivò più tardi Federico l’accettazione della corona (mg-const., ii, n. 116, pp. 150-152): « Cumque non inveniretur alius, qui oblatam imperii dignitatem contra nos et nostram iusticiam vellet assumere..., vocantibus nos principibus, ex quorum electione nobis corona imperii debebatur... ». La sua « felicitas » era nota sin nei luoghi più lontani, come dice il trovatore G. Figueira: « en bon pouh fou natz et en bona pianeta »; cfr. Wittenberg, Die Hohenstaufen im Munde der Froubadours, pp. 76 e 104. Anche gli arabi seguirono più tardi col massimo interesse la storia della giovinezza di Federico: cfr., p. es., Djemal-ad-Din in Abulfeda (Amari, Biblioth., p. 422, vers. ital. n, p. 108). Sul sembiante di Federico ci istruisce la descrizione (risalente all’anno 1207) in Hampe, mióg, xxii, p. 598: « forma quidem venusti decoris, leta fronte conspicuus, letioribus oculis ». Sulla sua'povertà: Tommaso da Pavia, mg-ss., xxii, p. 510; Alberto di Beham (ed. Hófler), p. 74. L’incoronazione di Enrico a re di Sicilia: mg-const. ii, n. 58, p. 72, bf, 654a. La regina Costanza reggente di Sicilia: bf, 659a, 5550e. Le promesse di Federico alla curia: bf, 651, 652, 653; mg-const. ii, n. 411-413, pp. 542 sgg. L’accoglienza di Federico a Roma: bf, 660b. Sull’« electio in imperatorem » v. Winkelmann, Otto, p. 314, nota 1, p. 318, nota 2. Il primo a sottolineare l’importanza dell’elezione romana a imperatore di Fe­ derico il fu lo Scheffer-Boichorst nella sua recensione all’Ozzo von Braunschweig del Win­ kelmann («Gesammelte Schriften », voi. n, Berlino 1905, pp. 335 sg.); v. su ciò Hampe, Zur Geschichte des Klosters Marbach, « Zs. Gesch. Oberrh. », xx, 1905, p. 11 sgg.; cfr. anche Bloch, Staufische Kaiser wahlen, pp. 90 sgg.; Burdach, Rienzo, pp. 350 sg.; e inoltre lo scritto fridericiano ai romani del gennaio 1238: bf, 2311, hb, v, p. 161. Sembra poi che Innocenzo in abbia fatto eleggere — come del resto era successo con l’elezione di Ottone iv (cfr. Roger Hoveden, mg-ss., xxvii, p. 180) — il designato dal senato e dal popolo romano sulla base della « lex regia », per rafforzare, valendosi del gregge della sua diocesi, le sue pretese sulla concessione della corona imperiale, e venendo così anche incontro alle antiche aspirazioni dei romani; cfr., sull’elezione dell’imperatore per mezzo del papa e dei romani, anche Schramm, Renovatio, voi. i, p. 47. Innocenzo avrebbe così indicato la strada che Federico prima, Manfredi poi, avreb­ bero percorso: ambedue, però, si valsero della dignità imperiale procedente dal popolo romano contro il papa (cfr. note a pp. 512, capov. 11 sgg.; inoltre il grande manifesto di Manfre­ di ai romani, mg-const., ii, n. 424, p. 563, riga 18), sino a pretendere la corona esclusivamente dalle mani del popolo, contro papa e principi: cfr. su ciò Paul Schmitthenner, Die Anspriiche des Adels und Volks der Stadt Rom auj Vergebung der Kaiserkrone wàhrend des Interregnums, «Ylìst. Stud. », quaderno 155, Berlino 1923. Per la formula «Per grazia di Dio e del papa»: bf, 662; la quale si ode anche nel­ l’anno 1216: mg-const., il, n. 58, p. 72; cfr. anche Bloch, Kaiserwahlen, pp. 95 sg. Federico riconosce gli sforzi del suo tutore, e giura vassallaggio: mg-const., ii, n. 414 e 415, pp. 545 sg. Dell’incoraggiamento dato dal papa a Federico c’informa il Breve Chron. Sicul., in hb, i, p. 894; e che Innocenzo pagò il soggiorno dello Staufen, dandogli altro denaro in sovrappiù, si legge in « Annal. Ceccan. », mg-ss., xix, p. 300. Gli scritti posteriori di Federico ai romani, qui cit., in bf, 2311; hb, v, p. 161; BF, 2199; hb, v, p. 761; WACT., il, n. 30, p. 28. Federico chiamato « Papenkeyser » p. es. in « Magdeb. Schoppenchron. » (Winkelmann, Friedrich, voi. i, p. 96). Codesto appellativo spiacque tanto al papa, da costituire uno dei « gravamina » papali contro Ottone iv al concilio laterano del 1215; cfr. Hefele, Konziliengeschichte, voi. v, p. 874. Sull’avventuroso viaggio di Federico in Germania cfr. Winkelmann, Otto, pp. 320 sgg., il quale registra tutto il materiale. Le promesse a Genova: bf, 669; hb, i, p. 212. L’accoglienza di Pavia: Giovanni Codagn., mg-ss., Oktav, p. 40; ivi anche le misure prese da milanesi e piacentini. Ivi anche il viaggio a Cremona; cfr. anche bact., n. 1142, p. 828. L’accoglienza dei

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cremonesi: « ac si vidissent angelum Domini »; in Tolosanus, cap. 139, « Documenti di Stor. Ital. », voi. vi, Cronache, Firenze 1876, p. 692; sui doni di Cremona cfr. Winkelmann. Otto, p. 323, nota 3. Sulle vicende seguenti: Corrado di Fabaria, mg-ss., ii, p. 171; Chron. Ursperg., mgss. Oktav, p. 109 e Winkelmann, Otto, p. 324, nota 4. Le tre ore di vantaggio in Guilelm. Brito, mg-ss., xxvi, p. 303; e, in gen., LadewigMiiller, Regesta episcop. Constant., n. 1251 sgg. L’accoglienza di Federico nella Germania meridionale: bf, 670g, h; Monument. Erphesf., mg-ss. Oktav, p. 212. L’entrata a Basilea: Chron. Ursperg., loc. cit.- Winkelmann, Otto, p. 325. La ratifica della corona di Boemia: bf, 671; mg-const., ii, n. 43, p. 54; cfr. anche bf, 19a, 20; Winkelmann, Philipp, p. 138; inoltre bf, 672, 673; hb, i, p. 218 sgg.; per l’ultimo diploma cfr. Bretholz, Mocran et Mocran., miòg, voi. di complem., vi, 1901, p. 235. I fatti di Brissago in Winkelmann, Otto, p. 326. Sulla crociata dei fanciulli: Chron. Reg. Colon., mg-ss. Oktav, p. 191; Giovanni Codagn., mg-ss. Oktav, p. 42; Anna). Januens., mg-ss., xviii, p. 131 e passim. Cfr. anche Ròhricht, hz, 36, pp. 1 sgg., 6 sgg. Gli « Annal. Stadens. » (mg-ss., xvi, p. 355, all’anno 1212) raccontano che in quel tempo, in Germania, donne nude correvano mute per città e villaggi. L’Alsazia terra « quem inter alia iura nostra patrimonialia cariorem habemus » in: bf, 2243; hb, v, p. 60; cfr. inoltre R. Wackernagel, Geschichte des Elsass, Basilea 1919; e recentemente Fedor Schneider, Kaiser Friedrich II. und seine Bedeutung fiir das Elsass, « Els.-lothr. Jahrb. », ix, 1930, pp. 128 sgg., e le numerose testimonianze letterarie ivi, p. 137, nota 35, addotte. Per l’aspetto di Federico, « aspectu desiderabilis », cfr. Hampe, miòg, xxii, p. 598. Quanto l’elemento favoloso incontrasse il favore dell’ideale epico-popolare del tempo — l’eroe cresciuto in povertà malgrado la nobilissima origine, che deve conquistarsi a forza e solo quanto gli spetterebbe di diritto —, è ricordato da Alfred Kiihne, Das Herrscherideal des Mittelalters, « Leipz. Hist. Stud. », v, 2, 1898, p. 31; il quale cita fra gli altri gli esempi di Sigfrido presso il fabbro, di Hagen, di Teodorico ecc. Sulla «saggezza» di Federico, ricordata anche da Walther v. d. Vogelweide (in Lachmann, 8 e 18), cfr., accanto alle testimonianze letterarie citate da Burdach, Walther, voi. i, p. 253, nota 1, anzitutto F. Kampers, Der Waise, «Hist. Jahrb.», voi. 39, 1918/19, pp. 433-486. « Puer Apuliae »: moltissimi luoghi in Winkelmann, Otto, p. 335, nota 1. Ma anche nella poesia trovadorica Federico è spessissimo chiamato « puer », cfr., p. es., G. Figueira in Wittenberg, Die Hohenstaufen im Munde der Troubadours, pp. 54, 95; Aimeric di Pegulhan, ivi, pp. 54 sg., 95 sg.; cfr. anche Wittenberg, pp. 62 sg., 85. In epoca posteriore l’appella­ tivo viene a volte usato in senso escatologico. Holder-Egger, Italienische Profetieen des XIII. Jhdts, na, xxx, pp. 351 sg., 364. Sull’uso della parola « puer », cfr. Pannenborg, (Jber den Ligurinus, fzdg, xi, pp. 178 sg. Recentemente: A. Hofmeister, Puer juvenis senex, Papsttum und Kaisertum (« Festschrift fiir P. Kehr », 1926), pp. 287 sgg. La « pueritia » si estendeva, secondo l’uso linguistico del xn sec., sino al ventottesimo anno d’età. Il paragone di Federico con Davide e di Ottone con Saul, è avanzato dallo stesso Innocenzo in, che dice: « que res instantis temporis est figura», bact., n. 921, p. 631. Il paragone fu preso a modello anche dal Boncompagno, che dice nella sua Retorica (Gaudenzi, Sulle opere dei dettatori bolognesi, « Bollett. Istit. stor. it. », xiv, 1895, p. 114): « Potest namque Otto... in Saulem vel Goliam propter magnitudinem stature transumi; rex Federicus in David, ipse Innocentius papa in Deum, quia omnia quecumque voluit fecit. » Pensava certo a un paragone del genere l’autore del Breve Chron. Sicul. (in hb, i, p. 894), quando scriveva: « et coram facie sua Otto fugiebat, et ad ultimum recepit se in Brunswic civitate »; Jamsilla (in murat. ss., vili, p. 493) dice: « coelesti magis quam terrena virtute superavit »; Phil. Mousket, mg-ss., xxvi, p. 764, v. 22772: « l’enfant de Pulle, moult sage »; Aimeric di Pegulhan (in Wittenberg, p. 96): « gardatz valor d’enfan »; Kaiserchronik Anh. i, MG-Dtsch. Chron., i, i, p. 403, v. 442 sgg. Per Aimeric di Pegulhan, cfr. Diez, Leben und Werke der Troubadours, p. 437; Wit­ tenberg, pp. 54 sgg. Sull’ideale del bello dell’epoca cfr. Alwin Schultz, Quid de perfecta corporis humani pulchritudine Germani saec. XII et XIII senserint, 1866; Jean Loubier, Das Schònheitsideal



bei den altfranzòsischen Dichtern des XII. und XIII. jahrhunderts (diss., Halle 1890); inoltre il succitato lavoro di Alfred Kùhne, Das Herrse berideal des Nlittelalters, pp. 39 sgg. Importa poco qui F. Vogt, Das Kaiser- und Konigsideal in der deutschen Dichtung des Nlittelalters, Marburger Akadem. Reden 19, 1908. La statura media diventa un ideale di bellezza solo in epoca staufica (« longitudo mensurata, sicut solent incliti terre », cfr. Martyrium Arnoldi in Bohmer, Fontes, m, p. 282). Sul concetto di « liberalitas » nell’uso linguistico medievale non sono state fatte, ch’io sappia, ricerche. Il vocabolo non compare nella Vulgata, e manca quindi anche, questa « liberalitas », tra le caratteristiche del perfetto signore, il quale vien detto piuttosto « largus » ovvero « munificus ». Soltanto col Barbarossa essa entra a far parte dell’immagine signorile, cfr. Kiihne, op. cit., p. 29. La parola compare, è vero, nei diplomi dei sovrani prestaufìci, ma la formula usuale delle donazioni suona: « ob amorem Dei animeque nostre remedium » — motivo che in Fede­ rico si connette alla « innata liberalitas », di cui danno notizia anche i cronisti (p. es. Chron. Reg. Colon., mg-ss. Oktav, p. 189): « favorem ac benevolentiam omnium innata sibi liberalitate captabat ». Il pensiero che le donazioni costituissero un « augmentum regie dignitatis » e non un « detrimentum » — pensiero che torna spesso nei diplomi: testo cit. mg-const., ii, n. 43, p. 54 —, si trova p. es. anche in Walther v. d. Vogelweide (ed. Lachmann 16 e 19). La promessa di donazioni « quantocius Deo dante pecuniam habuerimus », in bf, 674, hb, i, p. 222. La distribuzione del denaro francese tra i principi: Monum. Erphesf., mg-ss. Oktav, p. 212; cfr. anche Chron. Ursperg., mg-ss. Oktav, p. 109; Winkelmann, Otto, p. 332. Federico stesso rileva la differenza fra lui e Ottone: bf, 675, 676; hb, i, p. 224, 225. Winkelmann, Otto, p. 324, sottolinea molto giustamente che Federico si fermò dap­ prima nei territori dei principi ecclesiastici. Per la dipendenza dalla Francia, ivi, pp. 331 sg.; cfr. anche A. Cartellieri, Philipp II. August, Kònig von Frankreich, voi. iv, Lipsia 1921, pp. 330 sg.; W. Kienast, Die deutschen Fiirsten im Dienste der Westmàchte, voi. i, Utrecht 1904, p. 196. L’incontro a Vaucouleurs coll’erede al trono di Francia: bf, 677b, 678; mg-const., ii, n. 44, p. 55. L’attentato in Chron. D’Ernoul ed. L. De Mas Latrie, Parigi 1871, p. 401; Frane. Pipin., in murat. ss., ix, p. 646; cfr. inoltre Scheffer-Boichorst, fzdg, xi, p. 495. Il giuramento di vassallaggio di un nobile francese: hb, i, p. 627.

pp. 55-60 lo staufen contro il guelfo - L’elezione di Federico a Francoforte: bf, 680a, cfr. an­ che Bloch, Kaiserwablen, pp. 97 sgg., che istituisce una distinzione fra la prima elezione di Federico a imperatore e la nuova elezione a re a Francoforte. L’incoronazione di Mainz: bf, 680b. Federico signore avito di Svevia: Chron. Ursperg., mg-ss. Oktav, p. 97; Annal. Marbac., mg-ss. Oktav, p. 80; Monum. Erphesf., mg-ss. Oktav, p. 212; cfr. inoltre Winkelmann, Philipp, p. 473, nota 2, e Otto, p. 338, nota 1 e 2. Per le voci sull’illegittimità v. note a p. 30, capoverso 12 sgg.; per l’estinzione delle me­ desime cfr. Monum. Erphesf., loc. cit. I diplomi per Salem e Tennenbach in bf, 622 e 623, hb, i, pp. 161 sgg. Sulla « regia stirps » dei Waiblingen informano due cronisti contemporanei: Annal. Marbac., loc. cit., p. 46; e Chron. Ursperg., p. 5 e p. 24. Ambedue si rifanno a Ottone di Frisinga, Gesta, li, cap. 2, mg-ss. Oktav, p. 103: non verificabile, invece, la fonte di que­ st’ultimo. La derivazione « ex antiqua Troianorum stirpe » si trova a più riprese, p. es., in Ottone di Frisinga, Chron., vi cap., 28, mg-ss. Oktav, p. 291, e quindi in Chron. Ursperg., p. 5; o anche in Goffredo da Viterbo, Speculum, mg-ss., xxii, p. 21. Sugli eruli: Procop., Getica, il, cap. 15. Sulla defezione degli svevi dal guelfo cfr. partic. Monum. Erphesf., mg-ss. Oktav, p. 211; altri luoghi in Winkelmann, Otto, p. 309, nota 2. Sul carattere di Ottone IV cfr. i singoli tratti in Winkelmann, Philipp, pp. 74 sgg. e pp. 503 sgg., e il suo Otto, pp. 136 sgg. e 467 sgg. Inoltre: Grotefend, Zur Charakteristik Philipps v. Schwaben und Ottos v. Braunschweig, diss., Iena 1886; non ben riuscito il tentativo del Langerfeld, Kaiser Otto IV., der Welfe, Hannover 1872, di darne un giudizio più favorevole. Il comportamento di Ottone di Svevia: Chron. Ursperg., mg-ss. Oktav, p. 97; la gioia

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maligna per la disgrazia di Ottone provoca l’osservazione molto acuta di Monum. Erphesf., op. cit., p. 209: « Letantur omnes qui ab Ottone animos alienos edam ante hec tempora habuerant. » Feroce Corrado di Fabaria, mg-ss., ii, p. 170: « Gravis Italicis, Alamannis gravior, suis ingratus »; cfr. anche Winkelmann, Otto, pp. 136 sg. Sulla fine di Ottone: Winkelmann, Otto, pp. 463 sgg. La leggenda delle due schiatte è narrata da Ottone di Frisinga, Gesta, n, c. 2, mg-ss. Oktav, p. 103. Su Ethicho, fondatore di Ammergau e di Ettal: Histor. Welf. Weingart., mg-ss., xxi, p. 459, cap. 4; cfr. anche Friedrich Schmidt, Die Anfànge des welftschen Geschlechts, Han­ nover 1900. Il sorgere dei nomi Guelfo e Ghibellino: Davidsohn, Forschungen, voi. iv, pp. 29 sgg. Parte dal punto di vista della razza L. Woltmann, Die Germane» und die Renaissance in Italie», Eisenach 1915, p. 40; il quale sostiene che germani romanizzati e germani tedeschi combattevano per il predominio: e, in modo veramente stupefacente, comprende i guelfi fra i « romanizzati ». Sul carattere ghibellino di Dante scrive Benvenuto da Imola, Coment., voi. i, p. 339 a Inf., x: « Tamen autor noster (Dante) guelphus originaliter, post expulsionem suam factus est ghibelinus, imo ghibelinissimus, sicut aperte scribit Boccacius de Certaldo in suo libello de vita et moribus Dantis; unde, quod ridenter refero, quidam partifìcus hoc audito dixit: Vere hic homo nunquam facete poterai tantum opus, nisi factus fuisset ghibelinus. » Un compagno di parte dunque, non Boccaccio, ha pronunciato la frase. La battaglia di Bouvines: Winkelmann, Otto, pp. 350 sgg.; A. Cartellieri, Philipp II. August, Kònig von Frankreich, voi. iv, pp. 433 sgg.; cfr. anche, del medesimo autore, Die Schlacht bei Bouvines im Rahmen der europàischen Politik, Lipsia 1914. pp. 60-63 INNOCENZO III e Federico il - Le promesse di Eger: mg-const., ii, n. 46-51, pp. 57 sgg.; pp. 705 sg.; cfr. Winkelmann, Otto, pp..324 sgg. Sul concilio laterano: Hefele, Konziliengeschichte, voi. v, pp. 872 sgg. Lo scritto di convocazione del papa: Ep. XVI n. 30, in migne-pl, 216, pp. 823 sgg. La lista dei partecipanti in Winkelmann, Otto, p. 420, è, secondo J. Werner, na, xxxi, 1906, pp. 584 sgg., da correggere. Sui prelati tedeschi che parteciparono al concilio, informa Krabbo, qf, x, pp. 275 sgg. La predica d’Innocenzo per l’apertura del concilio: Serm. de divers., vi (in migne-pl., 217, p. 673). La morte di Innocenzo (alla — pretesa — presenza di s. Francesco) — cfr. Thomas di Eccleston, mg-ss., xxviii, p. 568 —, in bfw, 6188a. Le esortazioni papali alla crociata: Ep. XVI n. 28, in migne-pl, 216, p. 817; sui prepa­ rativi, cfr. anche Hauck, kgd, iv, pp. 785 sg.; Greven, Frankreich und der funfte Kreuzzug, « Hist. Jahrb. », 43, 1923, pp. 23 sgg. Sulle prediche crociate e i fenomeni miracolosi cfr. anzitutto la lettera di Oliviero da Colonia, in migne-pl, 217, n. 199, p. 238, e Ròhricht, Die Briefe des Kòlner Scholasticus Oliver, « Westd. Ztschr. », x, 1891, pp. 169 sg.; lettera che fu inclusa in molte cronache. Su Oliviero stesso: H. Hoogeweg, Der Kòlner Domscholaster Oliver als Kreuzprediger, « Westd. Ztschr. », vii, 1888, pp. 235 sgg. Oliviero fu un avversario del guelfo, e in tal senso predicò: cfr. Emonis Chron., mg-ss., xxiii, p. 474. Il nome degli altri predicatori crociati in Ep. XVI n. 29 (migne-pl, 216, pp. 822 sg.); cfr. anche bfw, 10772. Il movimento per la crociata in Germania e la posizione di Federico nei suoi riguardi, sono delineati molto propriamente in pochi tratti da K.W. Nitzsch, « Deutsche Studien », Berlino 1879, pp. 61 sgg. La dieta di Andernach: bf, 795a; per gli avvenimenti di questo periodo cfr. Winkel­ mann, Otto, pp. 390 sgg. Lo scritto ad Aquisgrana: bf, 814, hb, i, p. 399. Su bf, 3438, hb, vi, p. 224, e sulla — falsa — rinnovazione da parte di Federico n del privilegio di Carlo Magno e del Barbarossa, cfr. Hoffmann, Karl d. Gr. im Bilde der Geschichtsschreibung des frùhen Mittelalters, « Hist. Stud. », quad. 137, 1919, pp. 157 sgg. L’importanza dell’incoronazione ad Aquisgrana — messa in rapporto con la venera­ zione per Carlo Magno — è sottolineata da Guilelm. Brito, mg-ss., xxvi, p. 318; cfr. anche Reg. de neg. imp. n. 21, in migne-pl, 216, p. 1019; Frane. Pipin. in murat. ss., ix, p. 646; v. anche Aloys Schulte, Die Kaiser- und Kófngskrònungen zu Aachen 813-1331, « Rheinische Neujahrsblatter », quad. 3, 1924.

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Sulla canonizzazione di Carlo cfr. Giesebrecht, Kaisergeschichte, voi. v, p. 480; Hoffmann, op. cit., pp. 142 sgg.; cfr. anche M. Buchner, Ztschr. f. franz. Sprache und Literat., voi. Li, 1928, pp. 1-72. Sulla traslazione dei Re Magi cfr. H. Kehrer, Die heiligen Drei Kònige in der Literatur und Kunst, Lipsia, 1908, voi. i, pp. 81 sg. Il primo impiego noto della formula « sacrum imperium » a opera del Barbarossa: mgconst., i, n. 161, p. 224; cfr. Kern, Gottesgnadentum, p. 134, nota 245. I versi della sequenza « De S. Karolo imperatore » (« Urbs Aquensis, urbs regalis »), sìr. 4, in Mone, Hymni Latini, voi. in, Friburgo 1855, n. 982, p. 348. Per i festeggiamenti ad Aquisgrana v. le fonti: BF, 810a-d; e Winkelmann, Otto, pp. 392 sgg. La fonte principale è Reiner Leod., mg-ss., xvi, p. 673. Su Carlo Magno vincitore dei pagani e crociato cfr. Hoffmann, op. cit., pp. 97 sgg.; le parole cit. dello scritto di Federico in bf, 814; HB, l, p. 399; il modello del Barbarossa — in particolare — è ancor più fortemente sottolineato da un documento posteriore (del 3 gennaio 1216): v. Scheffer-Boichorst, miòg, x, pp. 459 sgg.; cfr. anche HB, vi, p. 224. Quanto presente fosse l’esempio del Barbarossa anche alla curia, lo mostra uno scritto del papa Onorio m del 1219, dove, a proposito del problema della crociata, si parla di Fe­ derico come del nuovo Barbarossa: mg-epp. pont., i, n. 106, p. 76. Per le conseguenze politico-chiesastiche della présa della croce da parte di Federico, cfr. Hauck, kgd, IV, p. 791; Steinen, Kaisertum, pp. 50 sg.; una buona osservazione in Nitzsch, «Deutsche Studien », p. 61. La spiegazione personale di Federico della sua presa della croce nel grande scritto apologetico del 1227 (mg-const., ii, n. 116, p. 150): « ... personam et'posse nostrum non in sacrifìcium, sed in holocaustum humiliter obtulimus domino puro et sincero animo »; cfr. anche bf, 1516, wact., i, n. 261, p. 237 all’anno 1224, dove la presa della croce è già chia­ mata « holocaustum gratitudinis »; cfr. in gen. le opinioni dei contemporanei in Winkelmann, Otto, p. 393, nota 1

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Capitolo terzo Gli inizi dell’uomo di stato

Alla pienezza della prima gioventù seguirono anni poveri di eventi, anche se per nulla inoperosi. Federico s’era consacrato all’impero e con ciò aveva chiaramente indicato le sue mete. Chi s’attendeva subito fatti concreti dal giovane Staufen, ne fu ben presto disilluso. Non erano questioni degne d’un imperatore le contese sorte fra un duca di Lotaringia e un Egeno von Urach per ragioni di eredità dopo l’estinzione del casato Zàhringer, e comunque non erano cose da aver importanza fuori di Germania. Anche la guerra col guelfo, ch’era stata una questione politica europea, nella quale s'erano scontrate ideologie opposte, era scaduta a sporadiche scaramucce da quando Ottone iv, perdute anche la bassa Renania e Co­ lonia, s’era ritirato nel Braunschweig. Federico lo attaccò ancora nell’estate del 1217; ma l’azione non aveva gran significato, visto che ormai nessuno più metteva in questione la sua sovranità. Tuttavia, la morte di Ottone sull’Harzburg, avvenuta nel maggio 1218, fu un sollievo per Federico, e contribuì a chiarire i rapporti fra le forze della Germania. Narra la leg­ genda, pochi giorni avanti la morte del gigante guelfo lo Staufen tenne a battesimo un bimbo che, nell’ora più cupa per la Germania, sarebbe stato destinato a raccogliere le membra dilacerate dell’impero e a ridonargli un barlume dell’antico splendore: Rodolfo d’Asburgo. Gli anni passarono fra battaglie di poco conto, di cui s’è dimenticato perfino il nome, feste di corte più o meno importanti nelle varie parti del regno, presente Federico, distribuzioni di titoli, privilegi, donativi e simili, e composizioni di liti e di guerricciole: tutto ciò insomma che comportava l’essere re di Germania. In questo periodo, Federico indugiò volentieri in Alsazia e in Renania, a Worms e a Spira, nel cui duomo fece trasportare da Bamberga le spoglie dell'assassinato Filippo di Svevia perché riposassero accanto a quelle della madre Beatrice, moglie del Barbarossa. Fra i suoi castelli diede la prefe­ 74

renza a quello di Hagenau, circondato da foreste che favorivano la sua passione per la caccia, e dotato d’una vasta raccolta di opere classiche, che poteva appagare la sua sete di sapere. Fu spesso in Franconia e in Svevia, a Wùrzburg e a Norimberga, ad Augusta e ad Ulma; e quindi, per motivi particolari, in Turingia, Sassonia e Lotaringia, sicché ebbe modo di conoscere bene la Germania. « Anni di vagabondaggio » furono chiamati, ma il loro senso non è da ricercare in ciò che Federico fece, bensì in ciò che apprese, come si conve­ niva alla sua età. E non vogliamo parlare qui di un arricchimento della sua cultura, giacché non se ne sa nulla; né pensiamo alla fanciullesca ricerca di quanto gli sembrasse conveniente alla sua cultura (la stessa ricerca che spinse un Napoleone, per esempio, a scrivere alla medesima età saggi di filosofìa): per sua fortuna, Federico era dispensato da simili ricerche e necessità. Sapeva già da allora esattamente quel che voleva: la chiarezza d’idee fu sempre una sua caratteristica; e si può ben credergli quando, più tardi, dirà d’aver teso sempre, sin dalla prima giovinezza, a un’unica, alta meta: far grande e potente l’impero. I suoi progetti furono sin dal prin­ cipio indirizzati tutti a risolvere i problemi dell’impero nel suo complesso; impero del quale la Germania era solo una parte, per quanto importante. Tale punto di vista guidò sempre la politica che Federico svolse in Ger­ mania: se di fronte ai principi tedeschi si mantenne passivo, se li lasciò fare, abbondando nella concessione di privilegi, lo fece perché aveva di mira sempre il quadro complessivo dell’impero; e voleva che l’indifferenza dei principi nei riguardi dell’impero si mutasse, grazie appunto alla sua libe­ ralità, in partecipazione interessata alle sue sorti. Poca cosa, certo; ma la situazione di Federico nei riguardi della no­ biltà tedesca non era delle più rosee; perché, per imporre i propri diritti di re o per farli maggiori, e dunque per regnare in modo diretto senza gli intermediari della nobiltà, sarebbe stato costretto a muover guerra ai prin­ cipi, che mai avrebbero consentito spontaneamente a esser limitati nella loro indipendenza e nei diritti acquisiti durante il lungo periodo di disor­ dine in cui l’impero era caduto. Tanto più che erano stati proprio loro a chiamarlo in Germania, e ad aiutarlo contro il guelfo; molti di loro poi appartenevano all’alto clero, e s’erano schierati dalla sua perché era il pro­ tetto del papa. Un simile modo di procedere gli avrebbe infallibilmente attirato l’ini­ micizia del papa (ch’era un’altra potenza cui doveva il trono). Questa via era dunque da scartare — anche perché, povero com’era, non avrebbe avuto i mezzi materiali per imporre ai principi alcunché. Né tali mezzi glieli poteva fornire il suo ducato di Svevia, povero e debole. E poi, quan­ d’anche avesse deciso di limitarsi alla Germania, rinunciando al sacro 75

romano impero nel suo complesso per costituire un forte regno nazionale tedesco, c’era in quel momento una sola strada, che non poteva imboccare. E inoltre come avrebbe potuto, lui, uno Staufen, rampollo d’una stirpe che aveva sempre mirato all’universale, contentarsi di propositi così par­ ticolari? Federico volle sempre evitare tutte quelle contese che avrebbero finito per impazientirlo: anche se ciò gli costava qualche privilegio. Poteva spe­ rare di ristabilire l’impero in tutta la sua grandezza per vie indirette, senza venire a contrasto coi principi, rafforzando anzi la sua autorità in Germania. In quegli anni passati in Germania, Federico colse d’istinto quanto poteva servire all’impero, quanto era suscettibile di sviluppi utili a tutto il mondo romano, e non solo alla terra germanica; della quale non gli importavano le piccole questioni interne, ma le forze che potevano rinsal­ dare l’impero, e rinsaldare la Germania con esso. Certo, perché si facesse compatta, la Germania doveva essere ampia tanto da bastare a raccogliere in sé materia sufficiente a serrarsi in un tutto sopratedesco. Ancora non v’era un’anima tedesca: romano era lo spirito che aveva plasmato i germani, romana, non tedesca, la forma che aveva unito e assi­ milato fra loro i popoli del nord: di tedesco, quelle tribù avevano in co­ mune solo il sangue. Il vincolo comune si faceva sentire di rado, nell’eb­ brezza di pochi momenti felici, in occasione delle festività solenni, quando, veramente une, quelle genti partivano per la crociata o per Roma, oppure in altri momenti di elevatezza si sentivano coscienti della loro importanza per il mondo. Nel fuoco dell’orgoglio esteriore, tutti, sassoni franchi svevi bavaresi, sentivano d’essere uniti non da un vincolo tedesco, ma d’essere vicini alla romanità come eredi del regno di Cesare; si credevano finanche discendenti dei troiani, e amavano chiamarsi non tedeschi, come solo oggi noi possiamo definirli, bensì romani. Quando dunque Federico n ricercò in Germania ciò che si potesse definire in qualche modo romano — nel senso dell’impero e della chiesa —, trovò che la romanità s’identificava col senti­ mento nazionale. La giovane Germania che si svegliava agli inizi del xm secolo trovò nel giovane re, nel « fanciullo di Puglia », di che nutrire la sua fioritura. Sotto lo Staufen, pervasa della luce venuta dal sud, -essa vide, per la prima volta e, avendo riguardo all’ampiezza del fenomeno, per l’ultima, un sor­ gere rigoglioso di sogni e di canti, di favole e di saghe, di architettura e scultura; e mostrò nel corso delle battaglie, delle tensioni umane e politi­ che, un tale fresco e completo abbandono (si stenterebbe a crederlo te­ desco, se non soccorressero i monumenti del tempo), che con la loro pre­ senza giustificano il detto di un tempo ormai irrigiditosi: « C’è qualcosa in loro, che potrebb’essere greco, e che si ridesta al contatto del sud. » 76

Questo espandersi di tipo meridionale non dipendeva dai viaggi nel sud, perché lo spirito muta anche i climi, e la Germania era meridionale sin oltre le coste del Baltico grazie all’impero romano e alla chiesa. Né per questo i germani dovevano rinunciare alle loro peculiarità più profonde; le quali anzi si manifestarono in tutta la loro potenza proprio nel xm secolo, il secolo romano per eccellenza. Fu allora che quasi tutte le saghe trovarono la loro forma definitiva' nel medioaltotedesco dell’epoca degli Staufen — se non sorsero proprio allora: la canzone dei nibelunghi, quella di Gudrunda, il ciclo di Teodorico, il giardino delle rose di Worms e molt’altre ancora sugli antichi eroi germanici. Accanto a questi monu­ menti, le nuove canzoni d’amore e di cavalleria, portate per le corti dai trovatori: quelle d’un Hartmann von Aue, d’un Heinrich von Veldeke, di Gottfried, di Wolfram von Eschenbach, di Walther von der Vogelweide, che risuonavano accanto agl’inni religiosi latini della chiesa cristiana. Con YEneide, il povero Enrico, Tristano e Parsifal, si compie nel mondo dei Minnesanger la fusione tra saga e spirito cristiano. E il mondo degli eroi germanici fattisi cavalieri cristiani ricevette allora dal concetto d’impero un’unità, un che di plasticamente definito, un’impronta di saldezza, che la Germania finora non ha più ritrovato. E possiamo seguire qualche traccia. Si ricordino le parole del vescovo e cancelliere Corrado di Hildesheim, quando, facendo il racconto delle meraviglie del meridione, così scrive: « Non bisogna nemmeno più uscire dai confini del regno tedesco per ve­ dere tutto quello che i poeti romani descrissero a prezzo di tanta fatica. » Dovunque, nell’impero, il tedesco era a casa sua; e la poesia latina si sparse dappertutto direttamente, non più solo come materia d’insegnamento e strumento di cultura della chiesa. Segno tangibile del desiderio d’assimila­ zione di tale patrimonio poetico, si riprese a tradurre dal latino nel tedesco del tempo (come già era accaduto, unico esempio, in epoca carolingia con la traduzione di Virgilio a opera di Notker). L’Ovidio voltato in tedesco da Alberto di Halberstadt (non più tradotto poi sino all’umanesimo), di­ mostra che in alcune cerehie tedesche, che pure non conoscevano il latino, cominciava allora a destarsi un interesse per le storie antiche; e viene innanzitutto da pensare ai cavalieri laici che attorniavano il landgravio Ermanno di Turingia, per incarico del quale fu, nel 1210, composta la traduzione che si è detta. Né si dimentichi che sotto gli Staufen fece il suo ingresso in Germania il diritto romano, che fu forse, col suo portato di spirito latino, la conquista più duratura della laicità tedesca. Risalgono a questo periodo le sculture della scuola di Bamberga (e poi anche di Naumburg): il tipo del vero tedesco, rappresentato coi caratteri 77

del romano antico. In statue come quella del cavaliere di Bamberga (ma lo stesso vale per quello di Magdeburgo) ci si offre alla vista per la prima volta, non più nei versi o nelle canzoni ma nella concretezza della pietra scolpita, quella possibilità di essere al tempo stesso cittadini del mondo, e tuttavia tedeschi. Sembra quasi un miracolo che dalla compiuta fusione fra il tedesco — mosso, vibrante, dotato di senso musicale — e la Roma papaie-imperatoria sia potuto uscire il tipo germanico, libero e sciolto da ogni legame, quasi mediterraneo; al quale solo gli italiani più tardi ebbero l’occhio, perché all’arte tedesca restò completamente estraneo. Che il mae­ stro di Bamberga abbia lavorato sotto l’influsso dell’arte plastica francese e romana classica è certo importante; ma ciò non significa che quel nobile, leggiadro tipo di cavaliere non sia allora vissuto in Germania. Che, se si trattasse solo di modelli, e non di uomini veri, che sublime arte plastica non sarebbe in grado di produrre la nostra epoca! Due forme di nobiltà contrassegnarono quel tempo e inserirono la Germania nella storia d’allora: la cavalleria e il monachiSmo. Tutto il mondo le conosceva, ma in Germania ebbero veste così pericolosamente esclusiva che accanto a loro non riuscì a svilupparsi alcun altro tipo di aristocrazia; laddove in Francia si vide quella dei dotti, a partire dai tempi di Eriugena, Ivo, Abelardo, con le scuole di Parigi Chartres Orléans, e in Italia quella del ceto mercantile, sorta dai commerci delle repubbliche marinare (Pisa Genova Venezia). Le vie del mondo erano nella Germania del tempo quasi esclusivamente riservate ai cavalieri e ai monaci, i rappre­ sentanti delle due potenze che, come il principe e il vescovo in un ambito più ristretto, riflettevano con maggior libertà di movimento e su base popolare, il quadro che imperatore e papa davano di sé nell’impero e nella chiesa. Per la prima volta nella storia si risolveva per la Germania divisa il problema tedesco, del quale non s’era mai venuti a capo; l’unica volta che la gioventù nobile, che riempiva istituti religiosi e conventi, venne educata in una forma che non aveva valore soltanto dentro i ristretti confini della patria, ma dovunque nel mondo; la sola in cui i tedeschi furono realmente e nel senso migliore uomini di mondo. Ecco perché era pronto il terreno per il sorgere di una grande arte plastica tedesca, la quale decadde nello stesso istante in cui — crollato l’impero — la cavalleria, tagliata fuori dal mondo, s’incupì a una strettezza borghese o, uscita dalla Germania, com­ battè al soldo di stranieri. Negli anni che trascorse in Germania, Federico si diede dattorno per guadagnarsi le simpatie di due grandi potenze: un ordine religioso e uno cavalleresco. Già poche settimane dopo l’incoronazione in Aquisgrana, prese contatto coi Cistercensi, l’ordine di san Bernardo, nel quale a quel 78

tempo « fioriva la chiesa di Dio ». Bernardo, abate di Chiaravalle, non ne era stato il fondatore, ma si doveva al suo ardente zelo se l’ordine era salito a tanta importanza. Questo, come quasi tutti gli ordini della chiesa romana, era sorto dal bisogno di riforma della chiesa, e in esso Bernardo, doctor mellifluus, aveva rafforzato oltremodo la disciplina e l’ascesi, alla severità delle quali aveva saputo accompagnare l’ardente suo amore per cui Dante se lo volle guida al trono di Dio: E la regina del cielo, ond’io ardo tutto d’amor, ne farà ogni grazia, però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo.

Egli ispirò all’ordine il culto quasi fanatico della Vergine nel tempo che risuonavano per il mondo le prime canzoni d’amore dei trovatori; per primo santificò « il lavoro della casta terra » e indicò al monacheSimo la nuova regola: l’unione di lavoro materiale e di vita spirituale. « Libero dai rumori e dalle sventure del mondo, l’ordine gode tuttavia anche della pace terrena, » scrive Federico. E infatti i Cistercensi sceglievano le valli più remote e silenziose per edificarvi i loro chiostri e luoghi di lavoro come pure per le loro chiese senza campanili, semplici e spoglie d’immagini, che per tutto ornamento portavano in onore della regina del cielo le rose del­ l’arte gotico-burgunda. I conventi di Màulbronn e di Ebrach testimoniano di quei primi tempi in cui i monaci vivevano « bensì fra gli uomini, ma al di sopra di essi ». L’obbligo di coltivare la terra favorì il rapido espandersi dell’ordine che, lentamente ma instancabilmente, dissodò terre che erano state fertili in antico, e, in Germania specialmente, terre vergini: come la Prussia, dove i Cistercensi avviarono la cristianizzazione degli abitanti e la bonifica delle terre. La stessa organizzazione dei conventi ne favoriva il moltiplicarsi: in un convento non potevano stare più di dodici frati e un abate, oltre ad al­ trettanti fratelli laici, cosicché i monaci in soprannumero erano invitati a trasferirsi altrove a fondare un nuovo chiostro. Tale limitazione del numero dei cenobiti portò al moltiplicarsi delle fondazioni sorelle, sottoposte tutte a case madri, a loro volta dipendenti, come rami dello stesso albero, dal chiostro primo, il convento di Citeaux. Così erano assicurati i rapporti fra le fondazioni dell’ordine che vide esten­ dersi a rete, e in modo compatto, la sua potenza in tutto il mondo; unione sino allora mai vista, perché, presso i Benedettini, per fare un esempio, ogni convento era indipendente dall’altro e faceva parte per se stesso. La salda coesione e la struttura monarchica dell’ordine vennero poi ul­ teriormente rafforzate dalle radunanze annuali a Citeaux, dove convenivano 79

gli abati (da quelli di Siria a quelli di Svezia) per il capitolo generale; e questo accentramento, veramente statale, delle singole forze in un tutto unico, emanava poi la stessa forza e lo stesso spirito dalla Borgogna sino alla Pomerania e alla Prussia (le chiese fondate dai Cistercensi nella Ger­ mania nordorientale, quasi tutte risalenti al secolo xm, parlano chiaro a questo proposito). Questo accentramento costituiva una novità, come ap­ punto l’introduzione del lavoro dei campi e del giardinaggio, grazie al quale i monaci Bonificarono nuovi territori e vi introdussero gli innesti di piante selvatiche. Allo stesso modo che questi frati proseguirono nel dissodamento e nella colonizzazione delle valli, fondando sempre nuovi conventi per la propagazione del Verbo, così, ispirati dall’amore per la Vergine, evocarono forse come un tardo riflesso cristiano della « primavera sacra » dei tempi andati. Colle sue vaste proprietà terriere, colla sua severa costituzione e colla sua enorme espansione, l’ordine cistercense era l’ordine nobile per eccel­ lenza dell’impero degli Staufen e della chiesa aristocratica medievale, a cui si contrapponevano gli ordini mendicanti — plebei — che allora andavano sorgendo, e che si trovavano a loro agio nelle città. Ben si adattava all’estensione e alla costruzione monarchica dell’ordine cistercense il fatto che esso dipendeva direttamente dal papa per le cose spirituali, né dall’imperatore per quelle temporali, né da qualche delegato del principe o del vescovo. L’ordine aveva ricevuto parecchie concessioni dagli imperatori, ma da nessuno ne ebbe di così munifiche come da Fede­ rico ii durante gli anni della sua permanenza in Germania. Testimonianza del calore e della venerazione in cui Federico teneva i Cistercensi, ch’egli colmò a più riprese di doni, sono alcuni editti in loro favore, nei quali l’ordine viene chiamato « l’ombroso boschetto di Cristo ». Subito dopo essersi atteggiato a promotore della crociata, chiese di essere accolto nell’ordine, con una lettera di tono particolarmente umile, rappresentandosi quale peccatore nella debolezza della carne. Con stile non diversamente devoto scrisse agli abati del potente ordine negli anni se­ guenti, sino agli ultimi giorni di vita. Comportandosi in tal modo, Federico non faceva che seguire l’uso degli imperatori precedenti; ma v’era in più il desiderio di procacciarsi partigiani nel seno della chiesa: « da custodi dell’armonia tra l’imperatore e il papa » dovevano operare i Cistercensi, come già avevano fatto, traen­ done più volte vantaggio, ai tempi del Barbarossa e di Ottone iv. Ma Federico si riprometteva anche tutt’altra cosa. I Cistercensi gode­ vano fama di ottimi amministratori; con grande orgoglio Cesario di Heisterbach, un monaco dell’ordine, racconta che alcuni fratelli laici erano stati raccomandati come eccellenti economi all’arcivescovo di Colonia. An­ 80

che Federico se ne potè valere in larghissima misura, e difatti amò inviare fratelli laici (che s’intendevano di economia agraria e di allevamento del bestiame) nei suoi domini di Puglia e Capitanata. Di altri si servì come di architetti per la costruzione di castelli, e all’edificazione, in Puglia, dei più importanti e dei più belli di essi parteciparono quasi sempre capomastri dell’ordine. Né mancano i documenti di tale attività: da uno statuto del capitolo generale si ricava che laici e monaci cistercensi erano sempre impiegati in gran numero dall’imperatore; al punto che il papa ebbe a lamentarsi che Federico li sfruttasse troppo per le sue costruzioni. Del resto parlano chiaro i vari castelli che Federico si fece costruire in Puglia, nei quali tutti si riconosce — per quanto almeno si può vedere oggi — lo stile cistercense, al quale Federico lasciò prendere il sopravvento sullo stile normanno-bi­ zantino. Certo, non s’intende parlare a questo proposito delle spezzature del tardo gotico, ma del principio architettonico di usare colonne e trava­ ture come elementi di forte tensione verso l’alto. E costituisce appunto la magia di quest’epoca di transizione che in essa siano entrate a contatto e si siano fuse le forme dell’arte tardoromanica e la fresca energia del go­ tico, che, giunte a maturazione dopo alcuni decenni, sbocciarono compiute al tempo stesso le une accanto alle altre. S'erano dunque, sotto ogni ri­ guardo, « compiuti i tempi » dei quali Federico era stato destinato a es­ sere signore. « Cavalleresca » è stata definita tutta la civiltà tedesca del tempo degli Staufen, e « cavallereschi » i conventi cistercensi costruiti nello stile acer­ bo del gotico nascente. E veramente viveva in questi monaci qualcosa della cavalleria, come in generale al tempo degli ordini cavallereschi si cancel­ lavano gli estremi di monaco e di cavaliere: non tanto perché il poeta faccia — con una certa intempestività, a dire il vero — cistercense quel monaco Ilsan, che al seguito di Teodorico irruppe devastando nel roseto di Worms; quanto perché l’unione fra ordini monastici e cavallereschi ri­ sale in effetti molto indietro nel tempo. Si narra addirittura che i primi ordini cavallereschi dell’occidente siano stati fondati dai Cistercensi spa­ gnoli che coraggiosamente avevano preso le armi contro i mori che mi­ nacciavano Calatrava. I rapporti fra gli ordini si spiegano facilmente: come i Cistercensi, così gli ordini cavallereschi facevano risalire la loro origine a san Bernardo; e se anche probabilmente non fu questi a dettare, come vuole la leggenda, ai cavalieri Ugo di Payens e Goffredo di St. Omer le prime regole dell’ordine dei Templari, costoro, in origine, erano certo molto vicini allo spirito di fanatica dedizione e severa sobrietà che animò il santo e i suoi monaci. Bernardo fu poi colui che, al tempo della seconda crociata, con eloquente 81

zelo si diede a far propaganda ai Templari; e che nel trattato In lode della nuova milizia di Cristo così si espresse: « Più miti degli agnelli e più feroci dei leoni, questi combattenti uniscono alla mansuetudine del monaco il coraggio del cavaliere, tanto che si è in dubbio se chiamarli con un nome o con l’altro; essi, che ornano il tempio di Salomone di armi più che di gemme, di scudi piuttosto che di corone d’oro, di morsi e di selle di cavalli piuttosto che di candelabri: avidi di vittoria non di fama, di battaglie non di pompa, alieni da discorsi inutili, da attività senza scopo, da risa smo­ date, aborriscono dalle chiacchiere come quelli che hanno in dispregio la vanità; e sono fieri di vivere in una casa comune, malgrado il loro numero, animati da un solo spirito e sottoposti a una sola regola, un’anima e un cuore solo... » S’è spesso celebrato san Bernardo per i suoi miracoli: quello della fondazione del primo ordine cavalleresco non è certo il meno importante. Perché un grande mutamento si compiva così: il cavaliere errante e vaga­ bondo, in caccia dell’avventura per l’avventura o come prova d’amore per la dama del cuore, che conduceva in tutto una vita sottoposta a leggi per­ sonali e che s’opponeva alla salda compagine dello stato, veniva ora portato ad adattarsi a una regola ferma e severa; e a combattere per motivi comuni e in comune, traendo impulso alle più alte gesta non più dalla donna amata ma dal Signore stesso, sotto le leggi e al servizio del quale l’ordine com­ batteva. Era la prima volta dall’avvento del cristianesimo che guerrieri e uomini di « vita attiva », in più larga misura che non monaci dediti alla vita contemplativa, si univano per un’idea, per una meta spirituale, agli ordini d’un signore spirituale, fatti simili gli uni agli altri: uniformità era il principio sempre ritornante (seppure per ben altre ragioni) dei Templari, uniformità che andava ben al di là della veste crociata che tutti indossavano. E, come i monaci, gli ordini cavallereschi formarono una singolare compa­ gine statale, costituita solo di uomini e di cavalieri, dalla quale in seguito ogni uomo di stato, coscientemente o no, fu costretto a prendere le mosse, riplasmandola a fini terreni. Questa forma di ordinamento statale degli ordini monastico-cavallereschi fu subito accolta dall’ordine fondato giusto un secolo dopo quello dei Templari: i Cavalieri teutonici. Lo spirito religioso-cavalleresco si andava ormai estinguendo in occi­ dente, allorché la pia confraternita tedesca di Santa Maria, tra la fine del xii e il principio del xm secolo, si trasformò ad Acri in questo terzo ordine (accanto a quello dei Templari, in gran parte francesi, e ai diversi rami, in­ glesi e italiani, di quello dei Giovanniti): i Cavalieri teutonici. Il papa Innocenzo in concesse ai Cavalieri teutonici la regola dei Templari, che dovevano emulare in spirito religioso e cavalleresco, allo stesso modo che i Giovanniti dovevano emularli nell’assistenza ai poveri e ai malati. L’or­ 82

dine però aveva carattere esclusivamente nazionale, potendo accedervi solo tedeschi di nobile nascita. La storia di questo nuovo ordine è di gran lunga più semplice di quella dei Templari: manca alla sua origine la consacrazione di un san Bernardo, alle sue battaglie la lontananza infinita e l’atmosfera leggendaria dell’oriente, alla sua fine quel mistero di un rapido tramonto da cui quasi sempre nascono i miti; le ricchezze dei Cavalieri teutonici non erano così ingenti, le tentazioni non così forti, la corruzione non così diffusa come fra i Tem­ plari, i misteriosi custodi del Gral, perché la leggenda e la poesia li avvol­ gesse, come questi, di cupe ombre e bagliori sublimi. Ma appunto perciò l’Ordine Teutonico ha una vera storia, scevra di miti e misteri; le sue bat­ taglie si svolsero in luoghi relativamente vicini e controllabili. Quando Federico n andò in Germania, i Cavalieri teutonici avevano ancora un’importanza irrilevante. L’imperatore Enrico vi aveva volto il suo interesse su di loro al tempo che meditava la crociata, ma, coi disor­ dini seguiti alla sua morte, anche quest’ordine, costituito di soli tedeschi, era stato, nonostante concessioni di vario genere, frenato nel suo sviluppo. La chiesa e più antiche potenze rivali lo guardavano di malocchio, sicché solo con Federico n gli riuscì di riprendersi. Promessa solennemente la crociata, si offriva allo Staufen la possibilità di servirsi dei Cavalieri teutonici; ben presto entrò in stretti rapporti con loro. La massa di doni di cui li colmò nei primi e nei successivi anni della sua permanenza in Germania è la prima testimonianza di come Federico volesse rafforzare l’ordine con tutti i mezzi a sua disposizione, spingendo talora il suo favore sino a privilegi che contrastavano coi diritti dello stato o sottraevano al sovrano stesso entrate rilevanti. Coll’ordine, egli era an­ cora più liberale che non verso i principi, perché se la meta più prossima era di ottenere il loro aiuto per la crociata, quella finale era di guadagnarsi la parte migliore dei cavalieri tedeschi per impiegarli in altri compiti. Così Federico si creò un piccolo esercito libero da gravosi obblighi feudali, in­ dipendente da influenze esterne (venissero da principi laici o ecclesiastici), e assolutamente fedele e sottomesso (sottoposto com’era al papa solo nelle cose della religione). Questa ben presto divenne la sua spada e la sua arma. L’imperatore si diede inoltre da fare al fine di ottenere all’ordine, per intercessione del papa, altri privilegi ancora: col risultato che i notai della cancelleria papale non riuscirono per giorni e giorni a redigere altri docu­ menti che quelli in favore dell’Ordine Teutonico, sin qui più che trascurato dalla curia. Federico mostrò particolare predilezione per i Cavalieri teutonici an­ che altrimenti, aiutando giovani della nobiltà (come per esempio i tre fratelli Hohenlohe) a entrare nell’ordine — e cercando più tardi di tener 83

lontano i figli di famiglie illustri dagli ordini mendicanti. Per missioni di fiducia, ove fosse necessaria gente provata, Federico si serviva spesso, dei Cavalieri teutonici. In Terrasanta, erano loro esclusivamente i suoi fidu­ ciari; e più avanti non solo affidò l’amministrazione d’Alsazia a un affiliato dell’ordine, Berthold von Tannenrode, ma sottomise anche il reggente dello stato per un certo periodo alla loro influenza: al punto che un cronista potè rilevare che il regno veniva amministrato solo secondo i consigli di costoro. Il che è certamente esagerato, sebbene sia innegabile che Federico mettesse ogni cura per ingraziarseli: uno dei primissimi privilegi accordati fu che, quando il gran maestro dell’ordine si presentasse a corte, dovesse essere considerato come un membro della reai casa, della « famiglia », e mantenuto dalla corte con tutto il suo seguito; e che inoltre due cavalieri del­ l’ordine prestassero servizio permanente a palazzo. Alfonso vili di Spagna aveva fatto qualcosa di simile nei riguardi del­ l’ordine di Calatrava; ma ciò dimostra soltanto come anche qui gli ordini cavallereschi, specie quando avessero carattere nazionale, si avviassero a diventare in certo senso « ordini di corte »; ed è noto come, fra il xiv e il xv secolo, essi divenissero per l’appunto un ornamento delle corti, il sim­ bolo d’un più alto modo di vita che solo nelle corti sopravviveva ancora. L’organizzazione dei Cavalieri teutonici (di cui Federico n amava far ri­ salire le prime origini al Barbarossa) fu, com’egli stesso asserì, opera sua per­ sonale e del gran maestro Ermanno di Salza. Per più di due decenni questi frequentò la corte di Federico come primo consigliere e uomo di fiducia, non solo in qualità di gran maestro dell’ordine, ma in grazia dei suoi pregi personali, che in numerose circostanze lo resero indispensabile allo Staufen. Ermanno di Salza era probabilmente originario della Turingia, come risalta da tutta la sua personalità: mancavano al suo carattere la giovialità e là prontezza, a cui supplivano la ponderata meditazione, la fedeltà a tutta prova e il senso virile di giustizia. Gran fama ebbe la sua fedeltà, quella fedeltà che, da tempi antichissimi quasi unicamente propria dei tedeschi, si risolve in forza positiva stimolante all’azione. Tale fedeltà assunse per lui un carattere tragico, perché egli aveva prestato giuramento a due signori, al papa e all’imperatore, di modo che ogni conflitto fra le due potenze gettava il suo animo in una tensione in­ soffribile. La necessità di mantenersi fedele ad ambedue ce lo mostra più tardi sempre in giro per l’Europa, dalla curia alla corte, per mantenere o ripristinare la pace negli anni bui degl’incessanti conflitti. « Lavorare per l’onore della chiesa e dell’impero »: questo, com’egli disse, il fine della sua vita; e fu così vero, che, quando la frattura fra le due potenze si fece insanabile, gli parve spenta ogni possibilità di vita: e morì di fatti quello stesso giovedì santo del 1239, in cui il papa fulminò per sempre la sco­ 84

munica su Federico. Nell’ambiente della corte, Ermanno di Salza, notevol­ mente più anziano di Federico, rappresentò sempre la ponderatezza e la moderazione, virtù che trattennero più d’una volta l’appassionato e ir­ ruente sovrano dallo sfidare il suo avversario. Innanzitutto, Ermanno di Salza mostrava attitudini politico-diplomatiche straordinarie, che dovevano guadagnargli la fiducia di un monarca universale; tanto più che il gioco politico in oriente come in Italia, a Roma come in Germania, gli era noto fin nei dettagli grazie all’esperienza che ne aveva acquisito. Era dunque un uomo prezioso quant’altri mai per la politica imperiale, da valersene in qualsiasi campo. Ma la collaborazione del gran maestro (che si presentò per la prima volta al re in occasione d’una festa di corte a Norimberga, l’anno 1216) era destinata ad acquistare la massima importanza nelle questioni riguar­ danti la Germania nordorientale. Alle faccende del nord-est tedesco, Federico aveva in generale dedicato scarsa attenzione, essendo, secondo scrive un cronista della Livonia, « oc­ cupato nei molteplici e alti compiti riguardanti l’impero ». Ma c’era per questo appunto Ermanno di Salza, che intrecciò ben presto la politica dell’Ordine Teutonico con quella attinente alle regioni nordorientali della Germania: al punto che tutte le questioni importanti nell’ambito del Balti­ co, dalla Danimarca alla Livonia, passarono per le sue mani o furono da lui esaminate. Quando il re di Danimarca, Waldemar, dopo aver esteso, a spese del­ l’impero, la sua sfera d’influenza sulle coste del Baltico sino alle foci della Dvina verso la Livonia e l’Estonia, cadde finalmente prigioniero di un vas­ sallo dell’imperatore, l’inviato di Federico alle trattative fu Ermanno di Salza. Il quale concluse la pace con Waldemar e, pare certo, consigliò Federico di elevare a città imperiale il più importante porto del Baltico, Lubecca (1226), per spazzar via tutte le rivendicazioni danesi e della curia (protettrice della Danimarca) sui paesi dell’Elba. E fu sempre lui che richiamò l’occhio di Federico sulla Prussia, dove, sino allora, soltanto la Santa sede aveva svolto coi Cistercensi opera colonizzatrice e missio­ naria. Ci sia lecito anticipare qui avvenimenti di poco posteriori. Nell’in­ verno 1225-26 il duca polacco Corrado di Masovia, non più in grado di difendersi dalla Prussia pagana, chiese l’aiuto dei Cavalieri teutonici, of­ frendo verbalmente a compenso dell’aiuto la regione di Culma. L’ordine aveva appena fallito un’impresa analoga nel territorio ungherese di Barcasàz; e il gran maestro colse la palla al balzo, elaborando immediatamente con Federico il progetto in tutti i particolari, a cui diede forma compiuta e definitiva immettendovi tutti gli importanti privilegi da accordare all’or­ 85

dine. Talmente definitiva, che nella memorabile Bolla d’oro di Rimini del 1226 erano già minutamente delineate tutte le mete future dell’ordine, tutta la costituzione del futuro stato dei Cavalieri teutonici: tutto questo prima ancora d’aver intavolato trattative o accordi col duca polacco, e so­ prattutto senza aver mai visto il territorio di Culma, senza che un solo membro dell’ordine vi avesse mai messo piede. Non a torto questo documento di fondazione del primo stato del­ l’ordine, la Prussia, fu definito un programma d’azione, perché esso con­ cedeva quanto ancora era da conquistare per l’ordine, che poneva con ciò le basi del suo agire futuro. Muniti di tale privilegio, ai Cavalieri teutonici si offriva un futuro scevro di preoccupazioni, perché tale privilegio era di così vasta portata che, qualsiasi azione l’ordine avesse intrapreso in futuro neh nuovo stato, sarebbe stata giustificata e compiuta sotto la particolare tutela dell’imperatore. Il documento stabilisce che tutto il territorio donato come pure quello eventualmente conquistato dovrà appartenere liberamente all’ordine, che sarà in esso l’autorità suprema, non responsabile verso alcuno; che al gran maestro saranno riconosciuti tutti i diritti spettanti a un principe del regno, comprese le relative regalie; e che l’ordine, in Prussia, sarà esentato da qualsiasi gravame o servizio nei riguardi dell’impero. Così Federico n aveva permesso all’ordine di costituirsi in un ente statale autonomo, che non aveva per capo un principe ma l’ordine stesso, e che d’altro canto — come dice il documento — « apparteneva alla monar­ chia dell’impero »; e non solo perché in forza di precedenti privilegi stava sotto l’immediata protezione dell’impero, ma perché (concetto degno di nota) era adesso sotto la protezione personale di Federico- n. La lotta contro i pagani entrava nel novero dei compiti imperatori sin dal tempo di Carlo Magno, il quale aveva condotto questa lotta in due direzioni: in Spagna contro i musulmani, nell’Europa orientale contro i sassoni. Le crociate avevano sì portato in primo piano la lotta contro l’IsIam, ma anche l’altra non fu dimenticata; sino ai tempi del Barbarossa fu anzi della massima importanza. Così anche Federico n assunse su di sé contemporaneamente la guerra ai saraceni e quella alle popolazioni pagane dell’Europa orientale. Anche l’impero era stato designato al compito della propagazione del Vangelo; perché tale era il pensiero di Federico, come si legge appunto nel suddetto documento: « A questo fine Dio ha innalzato il nostro regno al di sopra di tutti i re della terra, e allargato i confini della nostra potenza a molte zone del mondo: che noi indirizziamo ogni nostra cura a far mag­ giore il suo nome in questo mondo ed a propagare la sua dottrina fra i popoli, poiché Egli ha commesso all’impero romano la predicazione del­ 86

l’Evangelo; e che noi volgiamo quindi ogni sentimento alla soppressione non meno che alla conversione dei pagani... » Queste righe contengono indubbiamente una frecciata al papa: perché in Prussia, per mezzo dei Cistercensi, la chiesa aveva già dato inizio all’ope­ ra missionaria, e cera anzi il pericolo che quella terra finisse per diventare un feudo della curia romana né più né meno della Sicilia, che i normanni s’erano conquistata combattendo i pagani. Proprio questo infatti intendeva il papa quando chiamava « liberazione » la conversione dei pagani: che i convertiti non dovevano « assoggettarsi ad alcun’altra autorità che a Cristo e alla chiesa romana nel suo complesso » — dunque neppure all’imperatore. A questa, Federico rispose con un’altra teoria, quella della missione dell’impero, dichiarando fine dell’impresa la « soppressione » dei pagani nel senso d’una loro sottomissione, e facendosi forte anche d’un altro antichissimo diritto, in grazia del quale la terra pagana era terra senza padrone, e come tale non del possessore ma del signore che vi regnasse (era il caso del papa come dell’imperatore) quale rappresentante di Dio. Ecco il modo con cui Federico n cercava di mantenere la Prussia all’impero. Sull’importanza dell’insediamento dell’ordine in Prussia non servono commenti: all’ente spirituale veniva dato un corpo, al suo esser dovunque e in nessun luogo una sede fissa, cosicché questo divenne in breve un vero stato, e riuscì a mantenere alla cavalleria il suo significato anche in tempi nei quali nel resto della Germania s’imborghesiva e decadeva. Ma è molto significativa la partecipazione occasionale di Federico n alla fondazione dello stato prussiano, perché già qui vediamo quanto avremo a notare anche in seguito: ogni cosa cui mettesse mano, sia pur di sfuggita e come per caso, era destinata a segnare d’un’impronta vitale un intero periodo, e ad acquistare in breve tempo tale importanza, quale neppure Federico poteva prevedere, sproporzionata come spesso era ai piccoli sfor­ zi fatti per giungervi. Si affermò che la sua mano sprigionasse una forza vivificatrice; e il privilegio dell’ordine, la Bolla di Rimini, da lui redatta — per l’appunto quasi di sfuggita — in tempi movimentati (nei quali aveva da badare a faccende ben più importanti), giustifica bene il detto che il padrino dell’Asburgo fu pure il padrino della Prussia’. Cistercensi e Cavalieri teutonici: ecco gli ordini coi quali Federico strinse i rapporti più stretti durante gli anni vissuti in Germania. Con nessun altro fu così legato. Le città tedesche, in se stesse, non erano ancora abbastanza forti per lui (e quelle sottoposte a principi e vescovi si sot­ traevano alla sua influenza); se poi assicurava alcune libertà a certune di loro — come a Cambrai o a Basilea —, doveva revocarle per imposizione dei principi, i quali, a ogni tentativo dell’imperatore di prevaricare i loro diritti, si accordavano subito per difendersi. 87

Solo nelle città sveve e in quelle dipendenti direttamente dall’impero Federico poteva esercitare tutta la sua autorità; e quivi prendeva provvedi­ menti a loro favore: come quello di facilitare il traffico, a vantaggio dei borghesi, e quello d’assegnare una scorta ai commercianti in ogni parte dell’impero e di ripulire, per loro sicurezza, le strade dai briganti. Federico era abilissimo nell’arte di dare a credere alle sue città ch’egli aveva per loro ogni cura; in realtà, di concreto faceva ben poco, salvo appunto concedere qualche libertà, qualche dono ogni tanto, giusto per rafforzare la loro fiducia in lui. Allo stesso fine, elevò al rango di città al­ cuni villaggi, ad altri concesse il diritto di mercato e riunì in un unico editto gli sparsi privilegi di questa o altra città, che divennero in tal modo veri e propri diritti. E proprio queste città più tardi avrebbero preso posi­ zione in suo favore contro i principi. Ma la Germania, con la sua economia di tipo naturale, lenta nello svi­ luppo, non era, tutto sommato, il terreno adatto a ottenere quei mera­ vigliosi risultati che Federico avrà in Sicilia coll’impiantarvi un’economia di tipo statale. Inoltre, il fatto che la Germania fosse divisa in feudi non consentiva un intervento imperiale diretto nell’amministrazione. La risoluzione delle piccole questioni interne della Germania impegnava le forze di Federico senza dare risultati di effettiva rilevanza; e per tale ragione, già poco tempo dopo l’incoronazione ad Aquisgrana, pare che egli cercasse il modo di passare ad altre mani i problemi tedeschi di secondaria importanza, per dedicarsi soltanto alle cose di maggior momento. Dovunque siano presenti l’imperatore romano e i -suoi principi, là è la Germania: questo divenne ben presto il motto di Federico il; il che portava per altro alla conseguenza che tutto l’impero, e non solo i paesi a nord delle Alpi, poteva essere tedesco per mezzo dell’imperatore romano. Federico tendeva dunque a costituire una specie di governo secondario a cui demandare le questioni interne della Germania, per riservarsi quelle relative all’impero. Ma non s’affrettò mai all’attuazione dei suoi progetti; passo passo possiamo seguire la preparazione delle sue imprese, dall’origine al compimento. Federico non fu mai tipo da nascondere al mondo le sue intenzioni, ma agì sempre apertamente, rendendo noti in anticipo i suoi progetti. E se anche i suoi colpi piombavano d’improvviso, fra lo stupore generale, la causa di tale meraviglia era da ricercarsi nel fatto che non gli si era creduto quando molto prima aveva preannunciato la sua azione, compiuta poi in un attimo, mentre nessuno più se l’aspettava. Dimostra­ tiva di tale suo modo d’agire, la prima grande vittoria diplomatica sulla chiesa. Dal 1216 sedeva sul trono pontificio papa Onorio in. Chiunque fosse succeduto al grande Innocenzo m, non poteva che apparire insignificante 88

dopo quel gigante. Questo vale anche per il papa Onorio ut. Giurista per formazione, era soprattutto un funzionario amministrativo; prima della sua elezione, quand’era ancora il camerlengo Cencio Savelli, aveva dato vita al famoso Liber censuum (e se la chiesa potrà più tardi combattere contro l’impero forte della sua posizione di prima potenza finanziaria del mondo, lo dovrà in gran parte a Onorio ni). Del resto, il nuovo papa era vecchio e molto malato, incline dunque più alla mitezza e alla conciliazione che non alla lotta. Se il mondo doveva poggiare sull’equilibrio fra le due grandi potenze, Onorio era per l’appunto il giusto contrappeso del giovane Fe­ derico: e difatti per oltre un decennio l’equilibrio si mantenne. La questione più importante che doveva attrarre a sé in quel tempo i due capi della cristianità fu senza dubbio la crociata, che aveva per scopo la riconquista di Gerusalemme (obiettivo riguardato da Onorio ni come il più alto e personale del suo pontificato). La notizia che Federico n aveva preso la croce come re dei romani, trovò accoglienza alquanto fredda. Innocenzo, che a sua volta aveva divisato di porsi a capo della crociata, non s’era minimamente curato dell’azione di Federico; al punto che, senza badare al suo giovane rivale, aveva fissato perfino la data di partenza dei crociati: il primo luglio del 1217 (termine che non poteva neppur esser preso in considerazione da Federico: ancora viveva Ottone iv, quindi egli non poteva lasciare la Germania). Anche Onorio ni non fece commenti al fatto che Federico si fosse messo a capo della crociata: ma inviò un suo legato, sicché l’impresa finiva per essere diretta dal papa. Il quale spedì i crociati non in Terrasanta, ma in Egitto, conquistato questo, si sperava che anche Gerusalemme sarebbe caduta. La spedizione però, malamente preparata e maldestramente gui­ data, registrò un iniziale successo con la presa di Damietta, ma i crociati si misero in gravissimo pericolo avanzando sconsideratamente nella valle del Nilo. Quando, spinti dajla necessità, spontaneamente si rivolsero a Federico per aiuto, anche la curia si rammentò tutt’a un tratto che il capo della crocia­ ta era l’imperatore: Onorio in raccolse il grido d’aiuto dei crociati e lo tra­ smise al capo, al soccorritore, prospettando allo Staufen il compimento del suo voto a piene tinte: chiamandolo sin d’ora re vittorioso, al cui apparire non sarebbe rimasta agl’infedeli altra via di scampo che la fuga, e che, combattendo una guerra santa, si sarebbe guadagnata la salute eterna. Federico li però aveva già prevenuto lo scritto del papa, dichiarandosi pronto a bandire la crociata in Germania e a stabilire, durante una festa di corte da tenersi fra breve, il termine della partenza: papa Onorio, per parte sua, doveva solo comminare la scomunica ai crociati recalcitranti. Quanto al resto, Onorio doveva prendere sotto la sua protezione l’impero e il reggente che Federico si accingeva a nominare. 89

Federico il s’era quasi sempre designato, di fronte a Innocenzo ni, « re per grazia di Dio e del papa »: ma quest’uso finì con Onorio in, per­ ché non avrebbe più corrisposto alla situazione reale. Anche il tono usato da Federico nei riguardi della curia era nuovo: perfettamente cortese, mo­ strava nondimeno una tale determinazione, che fece probabilmente drizzare le orecchie a Roma. Ma il papa aveva bisogno di Federico: la situazione dei crociati a Damietta (fra di essi c’era anche Francesco d’Assisi, che voleva portare il Vangelo al sultano d’Egitto) nonostante l’invio di rin­ forzi, era sempre più preoccupante, e ad Onorio premeva solo che Federico corresse quanto prima in soccorso dell’esercito pericolante. Prima di partire, Federico avrebbe dovuto essere incoronato a Roma imperatore, e il papa attendeva con impazienza questo momento; ma, per quanto anche lo Staufen desiderasse la medesima cosa, fu costretto a ri­ mandare giorno dopo giorno la partenza per Roma, e quindi per la cro­ ciata: dal san Giovanni del 1219 il termine fu spostato al san Michele, poi al marzo dell’anno dopo, quindi a maggio, e infine a tempo indeter­ minato (perché solo il papa poteva sciogliere il voto pronunciato dall’im­ peratore). Che cosa tratteneva Federico n in Germania? A prescindere da que­ stioni marginali, aveva da sbrigare qualche altra faccenda prima di lasciare il paese, come per esempio venire a un’intesa col papa sul problema sici­ liano, prendere provvedimenti in vista del suo assentarsi dalla Germania, e infine disporre per l’elezione a suo successore del figlio Enrico. Così Federico faceva in certo modo dipendere la sua partenza per Roma — noncurante dell’impazienza del papa — da una soddisfacente soluzione di tali questioni. Papa Innocenzo m aveva sempre cercato di impedire la pericolosa unione fra impero e Sicilia, e conformemente a ciò, subito dopo l’eleva­ zione di Federico all’impero, aveva preso le misure necessarie: per suo desiderio il figlio dello Staufen, Enrico, era stato incoronato re di Sicilia. Federico stesso in più d’un documento aveva riconosciuto la sovranità della chiesa sull’isola, e s’era impegnato non solo a non annetterla all’im­ pero, ma addirittura a rinunciarvi a favore del figlio il giorno dell’incoro­ nazione. Inoltre, Enrico, per tutto il periodo della sua minorità, avrebbe lasciato il governo del regno di Sicilia a un reggente da scegliersi di co­ mune accordo fra il papa e Federico. L’incoronazione e la crociata dovevano segnare il giorno della depo­ sizione dello scettro di Sicilia da parte di Federico, ma questi, che aveva piani ben precisi sulla terra dei suoi padri, non fece alcun mistero * al papa che, se era pronto a riconoscere tutte le sue rinunce precedenti, non era però affatto disposto a rinunciare all’amministrazione della Sicilia. Ma la 9°

curia non se ne diede per inteso, anzi pretese che egli rinnovasse le pro­ messe fatte: e Federico premurosamente accondiscese. Non che avesse per nulla rinunciato ai suoi propositi sulla Sicilia, sulla terra che gli spettava per eredità e che avrebbe segnato la fine, come già il principio, dell’impero: solo, era costretto a seguire un’altra strada; e quel­ la giusta gliel’aveva indicata proprio la curia stessa nella sua eccessiva prudenza, col pretendere che la corona del reame passasse a suo figlio. L’altra questione da regolare era l’amministrazione della Germania durante la sua assenza. A questo scopo era stato elaborato un sistema particolareggiato, ma si vide ben presto cosa avesse in mente e a cosa alacremente lavorasse Federico. Subito dopo l’incoronazione ad Aquisgrana aveva chiamato a sé la moglie Costanza e il figlio Enrico. Quest’ultimo, già re di Sicilia, fu, nel 1217, investito dal padre del ducato di Svevia, e, nel 1219, si vide trasmettere il rettorato del regno di Borgogna; da allora suo padre s’adoprò per farlo eleggere re romano dai principi tedeschi. Nulla di straordinario nel desiderio di assicurare al proprio casato, da vivo, la successione al trono; tanti imperatori l’avevano fatto. Soltanto, Federico non era ancora imperatore a tutti gli effetti; senza contare le difficoltà di vario genere con cui doveva misurarsi. Innanzitutto, perché i suoi piani potessero attuarsi, bisognava ottenere il consenso di tutti i principi, e per ottenerlo egli spiegò tutte le sue forze. Tra il 1219 e il ’20 corsero dunque trattative, che, legate l’una all’altra com’erano nel loro fine, dovevano essere condotte a termine nel minor tempo possibile: erano in gioco la crociata, il viaggio a Roma, la scelta del reggente per la Germania, e l’elezione a successore di Enrico. La si­ tuazione intanto si faceva critica: il papa premeva per una sollecita par­ tenza e cominciava a spazientirsi per i continui ritardi, mentre le trattative per le altre questioni andavano sempre più aggrovigliandosi. Finalmente, Federico riuscì a districarle tutte in un colpo solo, e proprio nell’istante in cui pareva non esservene più la possibilità: grazie a maggiori e più pe­ santi promesse, e alla rinuncia ad altri diritti della corona in favore dei principi tedeschi, ottenne all’ultima ora il loro consenso all’elezione a re di suo figlio: il che avvenne in occasione della festa di congedo data da Federico a Francoforte nella primavera del 1220. Federico aveva vinto la partita, assicurato la successione agli Staufen, provveduto alla reggenza della Germania e risolta la questione siciliana a modo suo. Il regno di Sicilia non veniva incorporato direttamente nell’impero, i diritti di Roma su di esso restavano fermi: ma quell’unione delle due di­ gnità, in una persona sola, a cui Federico avrebbe dovuto rinunziare dal giorno dell’incoronazione, riviveva d’improvviso in Enrico, da lungo ormai 91

re di Sicilia e ora eletto successore all’impero; una persona sola era re e imperatore, senza che si fosse venuti meno ai trattati col papa: i quali si riferivano a Federico n, non a Enrico. Tutta la potenza, tutti i diritti che Federico, stretto dai patti, non avrebbe più potuto accampare, li aveva in tal modo trasmessi, in tutto il loro complesso, al figlio. Federico aveva saputo sfruttare l’unico lato debole degli accordi; che, se anche la curia avesse preteso che a regnare fosse proprio Enrico, bimbo di otto anni, non avrebbe potuto negargli l’assi­ stenza del padre in qualità di consigliere: ed era come dire che Federico si ritrovava contemporaneamente alla testa della Sicilia e della Germania. In poche parole, qualsiasi tentativo di opposizione da parte papale a con­ segnare la Sicilia al suo re, sarebbe stato assolutamente vano. La curia, passato il primo momento di amara sorpresa e disappunto, riconobbe la situazione e dovette finalmente rassegnarsi al fatto che le pergamene che aveva tra le mani (da Federico, con grande premura, negli ultimi anni accresciute di altri documenti), avevano perso ogni valore. Federico aveva ottenuto la sua prima, grande vittoria sulla diplomazia cu­ riale: l’unione della Sicilia all’impero era ripristinata; lo stato della chiesa di nuovo chiuso a tenaglia fra nord e sud — con questa differenza però, che Enrico non aveva mai riconosciuto al papa quella sovranità feudale sulla Sicilia che Federico solo poc’anzi aveva confermata addirittura per iscritto. Niente più lo tratteneva ormai, e Federico lasciò la Germania per Roma pochi mesi dopo. Per la prima volta si manifestò qui un aspetto della personalità di Federico, di cui aveva già dato piccola prova quando in Aquisgrana, subito dopo assunta la corona, aveva preso la croce: la capacità, da autentico campione, di risalire parecchie caselle con una sola mossa. Infatti coll’ele­ zione di re Enrico si offriva a Federico, deciso a liberarsi delle questioni tedesche a vantaggio dei suoi disegni universali, la possibilità di costituire alla corte del giovanissimo futuro imperatore un governo locale. La crociata aveva spinto a tale provvedimento che, provvisorio dapprima, finì per di­ ventare stabile e definitivo; sicché, da questo momento, la Germania era governata da un re romano, mentre il vero imperatore passava la maggior parte del suo tempo in Italia, il centro del mondo. E tutto ciò era derivato da un’unica mossa azzeccata. Il gesto di Federico ad Aquisgrana, aveva, a dire il vero, già prodotto un notevole effetto nelle più varie direzioni, ma, sortito in un momento d’ebbrezza, non aveva nulla di quella serenità diffusa, di quell’aria cristal­ lina che si respirò più tardi alla sua corte quando egli, sentendosi superiore al suo avversario spirituale, si prese gioco tanto spesso di lui con sottile ironia. Questo cominciò a vedersi con l’elezione di Enrico di Sicilia: balzò 92

subito all’occhio la ilare leggerezza (e la serietà di fondo) con cui Federico sapeva sbrogliare anche le matasse più intricate senza ricorrere alla violenza. Per decenni affronterà situazioni simili a questa con la stessa disinvoltura e impiegando sempre il minimo possibile di violenza, benché fosse un uomo senza scrupoli, che sapeva anche essere risoluto e violento. Tagliare con la spada nodi gordiani non era da Federico: tutto al contrario, la sua arte stava proprio nell’imbrogliare le fila sparse, per po­ terne poi afferrare, a tempo debito, i capi con gesto sicuro, e annodarli in un nodo inestricabile che solo un Alessandro avrebbe potuto sciogliere con un colpo di spada: ma non c’era a quell’epoca un Alessandro Magno. Da questo punto di vista, la prima vittoria di Federico sulla curia era ben più che un esempio, benché non si fosse ancora giunti alla situazione critica degli anni futuri. Roma aveva capito perfettamente le intenzioni dell’imperatore; né questi aveva fatto mistero dei suoi progetti riguardo alla Sicilia. Roma era informata dell’elezione di Enrico, e certo non mancò di valutarne le conseguenze: eppure, cascò nella rete tesa da Federico, senza riuscire a venirne fuori. Federico poi aveva tutti i diritti di far la parte dell’innocente, perché erano stati i principi a dare il consenso al­ l’elezione d’Enrico: aveva avuto l’accortezza di fare eleggere il figlio a Francoforte in un giorno in cui fui, Federico, non poteva essere presente: sicché potè scrivere che « tutto s’era svolto a sua insaputa e durante la sua assenza »... La curia aveva visto avvicinarsi l’esito finale di quell’elezione, ma aveva dovuto riconoscere che non era cosa che la riguardasse: sì, certo, Onorio aveva in segreto cercato di ostacolare l’elezione ricorrendo all’aiuto del­ l’alto clero tedesco (del quale resta da spiegare l’iniziale opposizione), e se avesse potuto accusare Federico d’esser venuto meno ai patti, l’avrebbe certamente fatto senza nulla trascurare: ma non poteva. Così la chiesa ebbe le mani legate, le rimase solo da sperare che l’elezione non potesse aver luogo, e che ancora una volta fosse stornato un minaccioso destino. Ma appunto in ciò si manifesta l’inesorabilità fatale che contrassegnò i primi anni di Federico e ancor più, in proporzioni smisurate, gli ultimi. Il fato stesso camminava con lui, ma senza annunciarsi con brontolìi di tuono: a passi leggeri, coll’ombra del sorriso innocente sul viso, o, negli ultimi anni, col riso macabro, come d’una danza di morti, sul labbro. Non solo le sue azioni, ma la natura, l’essere medesimo di Federico ne era se­ gnato: fanciullo, senza muovere un dito aveva segnato il destino di un gigante quale Innocenzo m, che, pur essendo l’avversario più potente del­ l’impero degli Staufen, non aveva trovato altra via per districarsi dalla rete in cui era chiuso che l’ultima possibile: quella di elevare alla corona im­ periale proprio quello Staufen siciliano ch’egli avrebbe potuto annientare. 93

Uno spirito schiettamente tedesco, germanico, avvolge lo Staufen (lo spi­ rito che mancò totalmente a un Napoleone), facendone, nella sua perico­ losità, quasi un precursore di Mefistofele, che non zoppica e non ha corna di caprone, ma va per il mondo con la chioma bionda, lo sguardo innocente e la bellezza del fanciullo di Puglia, e con armi rapite agli dei vince senza combattere. A completare il ritratto di questi anni di Federico il, s’è detto ch’egli pagò la sua vittoria sulla chiesa per la Sicilia col rinunciare senza scrupolo a molti diritti imperiali a vantaggio dei principi tedeschi. I vescovi si erano da principio mostrati riluttanti; ma quando Federico accordò loro il diritto di testare liberamente i loro beni, quando concesse loro di imporre gabelle e di batter moneta nelle loro terre, di disporre liberamente dei feudi che rientravano nei distretti di loro competenza, quando consentì a spogliarsi, per lo meno in parte, del suo più alto diritto, il bando dall’impero, a loro vantaggio — nel senso che d’ora in poi alla scomunica, sarebbe dovuto seguire senz’altro il bando dall’impero — allora i vescovi non ebbero più ragione d’opporsi, e abbandonarono il papa e la sua politica siciliana. I privilegi e le esenzioni concesse in passato avevano già tanto leso i diritti della corona che non si trattò più d’una gran perdita per Federico; ma il grave del « privilegio in favore dei principi della chiesa » stava in ciò, che l’eccezione era elevata a norma giuridica. Molti gli hanno rimpro­ verato tale provvedimento, ma il fatto è che a Federico premeva più il possesso della Sicilia, e a ragione, che qualche regalia; e del resto si po­ trebbe addurre con non minor fondamento che tutti indistintamente i prin­ cipi tedeschi si lasciarono comprare, disposti a seguire o a tradire il loro imperatore per un dazio sulla birra. La verità è che tutta la situazione, nel suo complesso, non era fatta per la statura politica di Federico: Federico aveva bisogno di grandi ne­ mici: non riuscì forse mai a capire i maneggi da bottegai. Voleva dalla sua, e l’ebbe, la forza virile dei tedeschi, che rappresentava pur sempre un mon­ do; a badare ai desideri e alle liti dei principi lasciò quel governo locale che durante la minorità di Enrico fu affidato all’arcivescovo Enghelberto di Colonia, il quale fu dunque il primo « governatore » della Germania. Alcuni versi di Walther von der Vogelweide tratteggiano la situazione con acuta, amara ironia. I principi rifiutano di eleggere Enrico, ritardando così la partenza di Federico per Roma e quindi per la Terrasanta; ma se i principi « amerebbero tanto star senza re » allora dovrebbero appunto eleggere Enrico per mandare « il re mille miglia e più lontano, a Trani »: Dovete, voi nemici, lasciarlo andar per la sua strada: chissà che non ritorni più a darvi noia. 94

Se resta là, non voglia Iddio, riderete voi, se torna indietro, rideremo noi. E voi e noi aspettiamo la fine della storia. Il consiglio ve l’ho dato.

I versi di Walther, vicinissimo all’imperatore, dovevano servire ai piani di Federico, il quale lo compensò con quel feudo che il poeta, nonostante ripetute preghiere, non era riuscito a ottenere da Ottone. Così lo Staufen legò a sé il Minnesanger, accaparrandosi ancora una volta quanto c’era di meglio in Germania. Federico poteva ormai lasciare il nord: il momento era giunto: in quello stesso anno avrebbe potuto dispiegare in Sicilia la sua grande arte di statista. Accompagnato dalla moglie Costanza e da un certo numero di principi (in maggior parte quelli che, come il loro re, avevano preso la croce), Fe­ derico il partì nell’agosto 1220 con un esercito poco numeroso dalla piana di Lechfeld a sud di Augusta (il consueto punto di raduno di tutte le spe­ dizioni per l’Italia), alla volta del sud. Lentamente percorse la strada del Brennero, illustrata dal passaggio di tanti imperatori tedeschi diretti a Ro­ ma, passando per Innsbruck, Bolzano e Trento (dove otto anni prima aveva seguito i sentieri più impervi delle Alpi come un avventuriero), e prose­ guendo per Verona. Ma non toccò questa città, bensì fece levare le tende, in quei giorni di settembre, per sé e per il suo seguito sulle rive del Garda. Il primo scritto di Federico sul suolo italiano fu una lettera a papa Onorio, con la quale lo ringraziava dei suoi benefici e si diceva disposto a sotto­ porsi a tutte le penitenze inflittegli dalla chiesa per la salute dell’anima, e affermava di essersi fatto dichiarare esente dalla scomunica che avrebbe potuto colpirlo perché, come crociato, aveva indugiato nella partenza. Ma, aggiungeva, tutto questo non perché fosse colpevole, bensì solo per mo­ strare il suo profondo rispetto per la chiesa e per il papa. Il cancelliere di corte, l’arcivescovo Corrado di Metz, era stato man­ dato in Italia già prima in qualità di legato imperiale per quietare questo regno sempre in subbuglio; e le città lombarde, persino la già inimicissima Milano, avevano riconosciuto Federico n come sovrano. Tutto però restava in fermento, perché s’aspettava di vedere quale posizione avrebbe preso nei riguardi dei partiti dell’Italia settentrionale. Federico arrivava preceduto da una fama d’energia di valore di sag­ gezza, diffusa da anni dalle canzoni dei trovatori, venuti alle corti della nobiltà del nord Italia; cosicché si fu un poco delusi quando giunse, poiché il suo aspetto, nonostante avesse ormai quasi ventisei anni, appariva an­ cora quello d’un fanciullo. Federico evitava inoltre di prender posizione a favore di questo *o quel partito cittadino; e anzi spinse la sua reticenza sino al punto che, durante tutta la discesa verso Roma, non visitò alcuna 95

città, ma s’accampò fuori mura. Unica eccezione Bologna, la città in cui fioriva il diritto romano; e fu così che d’improvviso apparve fra il suo se­ guito un maestro di diritto notissimo a quel tempo: Roffredo di Benevento, allora professore ad Arezzo (poi a Bologna). Si notò allora che Federico, il quale secondo l’uso aveva confermato per iscritto alle città italiche i loro diritti, non faceva che ratificare le loro libertà e i loro privilegi nei riguardi dell’impero, senza però mai toccare l’argomento Sicilia. Il fatto che neppure il papa si fosse ancora pronunciato, poteva servire di ottima scusa a Federico per il suo meditato riserbo; in realtà, non aveva alcuna intenzione di spendere altri privilegi per avere il suo reame. I più delusi erano i genovesi, che avevano mandato messi all’accampa­ mento imperiale presso Modena. Genova, la città che con tanto zelo aveva aiutato Federico nel suo viaggio per la Germania, che si vantava d’essergli stata «la porta dell’impero» — non si dimentichi il nome latino della città: lanua — sperava in qualche concessione nei riguardi della Sicilia. Ma Federico si limitò a ratificare anche per Genova i privilegi nei riguardi dell’impero, facendo sapere che non avrebbe firmato assolutamente più nulla che concernesse la Sicilia prima d’esserci arrivato. E ben presto si vide quali erano i suoi disegni. Intanto, nei primi giorni d’ottobre, Federico aveva annunziato il suo arrivo al papa tramite un’ambasceria, a cui prendeva parte per la prima volta il gran maestro dell’Ordine Teutonico, Ermanno di Salza. Seguendo l’antica via Flaminia e varcando l’Appennino, si mosse lentamente anche Federico; e quando, un mese più tardi, fu nelle vicinanze di Roma, gli giunse una contro-ambasceria del papa il quale, prima d’incoronarlo impe­ ratore, voleva ch’egli confermasse le sue promesse: che dichiarasse cioè che l’imperatore non Vantava diritti sulla Sicilia perché essa era stata pro­ prietà esclusiva di sua madre Costanza; che quindi s’impegnasse a non in­ trodurvi funzionari stranieri e a non usare un particolare sigillo regale. Il che non contrastava poi troppo coi desideri di Federico, al quale era più o meno indifferente, in quel momento, la formula giuridica sotto la cui etichetta avrebbe potuto governare la Sicilia: più importante era invece il fatto che la curia avesse con tale accordo accettato ufficialmente il dato dell’unione dei due regni in un’unica persona. Ci s’accordò inoltre sulla crociata e si stabilì infine il giorno dell’incoronazione: 22 novembre, ul­ tima domenica prima dell’Avvento. L’epoca della sua meravigliosa ascesa era ormai alle spalle; ma Fede­ rico attirò spesso l’attenzione del mondo su quegli anni, nei quali, fan­ ciullo, era stato assistito fra mille pericoli dalla provvidenza perché potesse in futuro servire da tempesta purificatrice del caos in cui era caduto l’im­ 96

pero. Da allora, il suo destino era legato direttamente alle leggi d’una vo­ lontà superiore: e ciò avrebbe avuto più tardi una particolare importanza. Infatti, se gl’imperatori precedenti facevano risalire, giovandosi di dottrine e teorie giuridiche, la ragione della loro autorità direttamente a Dio — principio regolarmente contestato da tutti i papi, a partire da Gregorio vii — solo di rado, in proporzione, Federico ricorse a tali cavilli, preferendo, e con maggior efficacia, rinviare sic et simpliciter al suo destino di eletto della provvidenza divina. Così non era più dimostrata la dipendenza diretta da Dio degli imperatori in generale, ma quella del presente imperatore: il che era ben più importante. In tal modo, ogni celebrazione dell’autorità imperiale diveniva celebrazione della persona di Federico, e la missione dell’impero s’identificava con quella personale di questo imperatore. Fede­ rico ha lasciato un autoritratto ben significativo: « La nostra insaziabile volontà crebbe col crescere della dignità imperiale. » L’ufficio e la persona cominciarono in tal modo a compenetrarsi. Per concludere l’ascesa di questi anni, Federico doveva essere incoro­ nato secondo l’antico e solenne cerimoniale. Il giorno stabilito, Federico, accompagnato dalla regina Costanza, scese a Roma da Monte Mario per l’antica via Trionfale, la via dei Cesari. Prima di entrare in città dovette, come futuro imperatore, fermarsi a un ponticello avanti la città per rati­ ficare ai romani i loro buoni diritti. Poi, a Porta Collina, vicino alle terme di Diocleziano, ricevette l’omaggio del clero cittadino, che l’accompagnò in solenne corteo, fra volute d’incenso e crocifissi, a San Pietro. Lo precede­ vano i camerlenghi che distribuivano elemosine, e il praefectus urbi che portava la spada. Giunti sul piazzale della chiesa, il corteggio mutò: i sena­ tori del popolo romano si posero alla destra del re per reggergli la briglia quando fosse sceso sul primo gradino di San Pietro; nel medesimo tempo anche il papa usciva in solenne processione dalla sacrestia di San Pietro e aspettava Federico sul gradino più alto, in trono, avendo alla destra i vescovi cardinali e i preti, alla sinistra i cardinali diaconi, e il resto del clero un gradino più giù. Il re e il suo seguito s’avanzarono alfine incontro al papa, a cui Fede­ rico baciò devotamente il piede e porse l’oro dovuto al vicario di Cristo. Papa Onorio lo accolse benevolmente, abbracciandolo e baciandolo; quindi si drizzò, e lo si vide avviarsi, il re alla sua destra, alla cappella di Santa Maria in Turribus, dove Federico doveva prestare giuramento di farsi cu­ stode e difensore del papa e della chiesa ad ogni bisogno e ad ogni eve­ nienza. Mentre il papa saliva l’altare, pregava e prendeva posto sul seggio, Federico rimase indietro per esser accolto nella confraternita dei canonici di San Pietro. Nei tempi passati, gli imperatori ricevevano la veste sacerdotale al 97

momento dell’incoronazione, entrando così nello stato ecclesiastico; e dive­ nivano chierici della chiesa. Si partiva infatti dal concetto che, nelle cose spirituali, l’imperatore non poteva essere « completamente laico ». Ma il cammino della storia si rifletté anche sul cerimoniale dell’incoronazione: col crescere della potenza papale diminuirono in maniera rilevante, anziché venir accresciute, le prerogative sacerdotali dell’imperatore: il quale non ricevette più l’anello vescovile, l’unzione non toccò più il capo ma lo spazio fra le scapole e il braccio destro, e per essa non si ricorse più al crisma ma semplicemente all’olio santo; alla consacrazione a vescovo, poi, subentrò l’ammissione alla confraternita dei canonici di San Pietro (come fu ap­ punto il caso di Federico il). Solo il rituale di preghiere e litanie si man­ teneva ancora molto simile a quello per la consacrazione a vescovo. Adorno delle insegne imperiali, Federico varcò la porta d’argento di San Pietro, dove l’accolsero le preci e le benedizioni dei cardinali; poi, reso profondo omaggio alla tomba di san Pietro e ricevuta da un cardinale l’unzione davanti a quella di san Maurizio, ascese all’altare del santo, dove depose la sua confessione e ricevette dal papa il bacio della pace; quindi prese posto con il seguito nel luogo a lui destinato. Il papa recitò la pre­ ghiera e ne aggiunse una particolare per l’imperatore, indi Federico gli s’accostò per ricevere le insegne imperiali: il papa gli impose mitra e corona e gli porse quindi la spada (che Federico, come « soldato del beato Pietro », doveva brandire tre volte), poi lo scettro e il pomo simboleggiante il globo. E salì il canto del coro: « A Federico invitto imperatore dei romani e sempre augusto, salute e vittoria. » Allo stesso modo si compì l’incorona­ zione deH’imperatrice Costanza. L’imperatore, deposto manto e corona, si dispose a servir messa in qualità di suddiacono; durante la messa lui e la moglie ricevettero dal papa la comunione e il bacio della pace. Impartita quindi dal papa la benedizione, s’avviarono il papa e Fede­ rico fuori della chiesa, dove attendevano i cavalli: Federico gli resse la briglia mentre Onorio montava, e condusse a mano il suo bianco destriero per un tratto prima di salire in sella. A Santa Maria Transpadina papa e imperatore si separarono con un altro bacio, e Federico tornò al suo ac­ campamento a Monte Mario. Durante l’incoronazione, lo Staufen aveva ricevuto ancora la croce (dalle mani del cardinale Ugo da Ostia, il futuro papa Gregorio ix), e aveva fatto solenne promessa di partire per la Terrasanta nell’agosto del 1221. Inoltre, in quel giorno medesimo, pubblicò un certo numero di editti, fra i quali sono anzitutto da ricordare quello contro gli eretici e un altro che confermava la successione immediata del bando dall’impero alla scomunica. Ed è significativo che Federico il, il quale, durante la sua discesa a Roma, aveva, delle città italiane, visitato solo Bologna, comandasse a docenti e 98

studenti del « sacro diritto » di quell’università, d’inserire i decreti del giorno della sua incoronazione nei codici di diritto romano, e di studiarli e insegnarli conformemente come valevoli per l’eternità. Così fu fatto, e i decreti di Federico furon posti sotto quelli del Barbarossa: gli unici im­ peratori tedeschi i cui nomi siano stati eternati dai codici di diritto romano. La cerimonia dell’incoronazione s’era svolta senza incidenti: cosa abba­ stanza rara, perché si era sempre venuti a qualche conflitto fra truppe imperiali e cittadini di Roma. Il Barbarossa era stato incoronato con una cerimonia segreta; e all’incoronazione di Ottone iv, poi, s’era accesa una battaglia vera e propria, perché tanto il Barbarossa quanto Ottone iv ave­ vano negato ai romani le regalie d’uso. Un simile modo d’agire non entrava nei modi di Federico n, il quale si compiacque anzi talora di definirsi come l’imperatore eletto dai romani e da loro inviato in Germania. Non meno orgoglioso dei suoi predecessori, ma attento al concreto, non diede mai troppa importanza al cerimoniale, al reggere una staffa o al dar regalie, sa­ pendo che le sue forze erano riservate a ben altri conflitti. Subito dopo l’incoronazione, Federico si volse al regno di Sicilia. L’isola lo attirava non solo perché era la sua patria, ma ancor più perché qui avrebbe potuto trovare quella materia grezza da plasmare a suo grado, come statista, che gli era stata negata nel mondo feudale tedesco — dove a ogni passo urtava in un modo o nell’altro contro i privilegi o i diritti dei prin­ cipi, contro forme d’amministrazione che escludevano la possibilità d’un intervento diretto e energico. Forme, poi, consacrate dall’uso dei secoli, a tal punto che, a mutarle, si rischiava di provocare profondi rivolgimenti. La situazione della Sicilia era, sotto questo riguardo, molto più rosea: i normanni l’avevano governata per due o tre generazioni; e particolarmente il nonno di Federico, il re Ruggero n, aveva saputo regnare con straordi­ nario dinamismo e geniale intuito politico. Ma le lotte succedutesi quasi ininterrottamente per tre decenni, e lo scompiglio che ne era derivato, avevano distrutto la sua opera sino a renderla irriconoscibile. Il paese, che già durante la fanciullezza di Federico era piombato nell’anarchia più completa e nell’imbarbarimento generale, non è che ora, dopo la lunga assenza dello Staufen, offrisse un’immagine molto diversa di sé: dovunque era il caos. Per decenni avevano corso queste terre tutte le forze del mondo d’allora, e tutto ancora aveva la forma d’un magma caldo: l’ideale per un vero uomo di stato, che generalmente porta a maturazione le sue forze proprio nei momenti d’instabilità — ogni grande ha bisogno d’una rivolu­ zione —, perché appunto il caos reca in sé tutte le condizioni propizie, e non conosce un’opposizione organizzata. E c’era altro: per un imperatore, che intendeva anzitutto essere imperatore romano, la posizione geografica 99

della Sicilia costituiva la più favorevole base d’operazioni. Se i tre grandi imperatori di casa Staufen s’eran volti alla Sicilia con tale assiduità, era perché essa poteva loro offrire quanto la Germania, sotto un certo profilo, negava. Al tempo delle crociate, la Sicilia era davvero « l’ombelico e il porto di tutti i reami del mondo », così come, all’epoca delle grandi scoperte, per la Spagna di Carlo V la « base » settentrionale doveva essere rappre­ sentata dall’Olanda e dalla Germania « atlantica », mentre gli Staufen si appoggiavano sulla Svevia « mediterranea » e la Germania meridionale. L’amore di Federico n per il regno di Sicilia è fuori discussione, ma per certi rispetti non era affatto un amore disinteressato: l’amava anche perché gli serviva. Il suo amore non era rivolto solo all’opima e semi­ tropicale Palermo (evitò persino di visitarla negli ultimi anni), ma alla Puglia, alla Campania e alla Capitanata, cioè alle province confinanti con lo stato della chiesa e più prossime a Roma, la capitale del mondo. Come differiva la « materia » del nord da quella del sud, così doveva essere diverso il modo di trattarla. In Germania Federico il, attento al com­ plesso dell’impero, aveva cercato di sciogliere e liberare quelle forze che avrebbero retto il mondo; in Sicilia invece, dove tali sostanze fecondatrici erano più che in abbondanza e si sarebbero distrutte a vicenda sino all’ultima piuttosto che appassire miserevolmente, Federico dovette frenarle e imbri­ gliarle. Nel complesso, ambedue i regni potevano essere avvicinati, ambedue a loro modo potevano diventare romani; e Federico, col suo intuito e con la sua pedagogia politica, ottenne effettivamente che la Germania, della quale egli aveva liberato le energie più profonde, si elevasse a tale pienezza da produrre un’arte plastica; e viceversa della ferrea Sicilia furono così ben tese le corde che, per la prima volta dal tempo dei tiranni, cominciarono a levarsi in essa i canti dell’arte poetica. In ambedue i casi, un gioco in­ comparabilmente ardito, anzi temerario, che solo quest’unico maestro era in grado di affrontare — e di affrontarlo nello spazio di pochi anni. È ben comprensibile che l’arrivo di Federico destasse molte preoccu­ pazioni, attesoché il tradimento contro di lui fanciullo era stato quasi ge­ nerale. Gran parte dei baroni convenne a Roma per l’incoronazione, allo scopo di rendergli omaggio e di fargli, se possibile, dimenticare il passato. Ma Federico aveva già preparato di lunga mano ogni suo passo, già avviato le sue mosse sin da quando stava in Germania: da questo o da quest’altro segno non era diffìcile in Sicilia capire le sue mire. Per esempio, quando uno dei primi usurpatori, il conte Raniero di Manente, sospetto d’aver attentato una volta alla vita di Federico, com­ mise l’imprudenza di recarsi in Germania senza lettere d’accompagnamen­ to, egli lo fece arrestare; e se, dietro intercessione papale, Raniero era 100

poi stato rimesso in libertà, aveva però dovuto restituire tutti i beni della corona dei quali s’era impadronito e che i suoi parenti cercavano, con l’aiuto dei banditi, di tenere ancora per sé. Anche il fatto che Federico, durante la sua marcia nell’Italia settentrionale, non avesse concesso privi­ legi nei riguardi della Sicilia, faceva pensare a propositi ben precisi: tutti i beni della corona che i potenti degli anni andati avevano sperperato a dritta e a manca, sarebbero stati anzitutto confiscati e, spazzati via tutti i potentucoli che s’annidavano nel reame, lo stato sarebbe sorto a nuova vita. Con tutta la sua energia, per la quale ebbe da papa Onorio parole più di biasimo che di lode, Federico n s’accinse al suo primo grande compito. La capacità di sciogliere un’imbrogliata matassa con una sola mossa azzeccata, Federico l’aveva già dimostrata nella partita diplomatica vinta contro la curia romana. Ora, se in quel caso si poteva sempre imputare il suo successo a un’abile casistica, adesso era il momento di riconfermarlo coi fatti concreti, fuori da ogni astrattezza. Una legge semplicissima, d’una semplicità quasi ridicola, da lui stu­ diata in una forma fatta su misura per il suo stato, bastò a Federico per rinsaldare tutto il caos, tutto il magma siciliano, in un attimo. Da tren­ tanni, ossia dalla morte dell’ultimo re legittimo di ceppo normanno, Gu­ glielmo il (t 1189), imperava il disordine: regalie, diritti e beni della co­ rona, feudi erano stati in parte concessi da Enrico vi ai vari potenti (col­ l’intenzione di farseli poi restituire), in parte regalati all’uno e all’altro e dilapidati durante la fanciullezza di Federico; e questo con grave pregiu­ dizio della corona, spogliata completamente e di mezzi e di ogni potenza. Si trattava ora di annullare gli avvenimenti succedutisi in questi trent’anni, riportando nelle mani del signore le redini di tutta la potenza che i nor­ manni avevano retto, la quale poggiava appunto su un demanio esteso e sui beni della corona. Con la legge « Sui privilegi da rassegnare » da lungo approntata, Fe­ derico invalidò tutti i donativi, privilegi, regalie, convalidazioni di proprie­ tà degli ultimi trent’anni; e ordinò che quanti avessero documenti relativi a proprietà non strettamente private, li depositassero presso la cancelleria imperiale, che li avrebbe esaminati e, solo se giudicati validi, confermati. Per il momento, dunque, ogni possessore di terre o feudi della corona, di regalie, dazi o privilegi particolari, era privato del suo: e dipendevano dalle grazie dell’imperatore la possibilità di rientrarne in possesso. È difficile dire qualcosa sulla ridistribuzione di questi beni, perché i documenti cancellereschi sono andati distrutti; certe * essa colpì chiese con­ venti città e anche borghesi (quelli che avevano l’appalto di piccole gabelle oppure usufruivano di altre libertà). ioi

I privilegi poi venivano cassati o meno a seconda che la tal terra, il tal borgo, un certo dazio o un certo diritto acquisito in altri tempi, servis­ sero o no al re per l’edificazione del suo stato: questo, in larghissima mi­ sura, il criterio seguito. Così, se era il caso, un certo possedimento veniva confiscato dalla cancelleria imperiale che seguiva le direttive dell’editto fridericiano; oppure veniva da essa confermato il tal privilegio al suo pos­ sessore, ma con una formula tuttavia secondo la quale l’imperatore si ri­ servava di revocare la concessione in ogni momento. In seguito a questo provvedimento, la cancelleria imperiale ottenne uno specchio esatto della distribuzione di tutti i domini privati, grazie al quale la corona poteva mettere le mani su qualsiasi proprietà le fosse ser­ vita, e quando lo giudicasse opportuno; così come all’imperatore veniva offerta la possibilità di privare dei loro privilegi le persone o gli enti a lui sgraditi. La corona inoltre — e cioè il re e lo stato, visto che allora non si faceva distinzione fra beni privati del sovrano e beni dello stato — rien­ trava in possesso dei suoi immensi possedimenti; all’imperatore, infine, era data una base legale per procedere contro le tante piccole potenze del regno: sicché egli non agiva più in veste di conquistatore, ma di esecutore di una legge. Federico stesso mise l’accento su questo fatto, ammonendo di guardarsi dal ricorrere a vie illegali di qualsiasi genere, perché esse sa­ rebbero senza alcun risultato, essendo egli venuto a ristabilire la giustizia, che cominciava a risplendere di nuovo sotto la sua signoria. Certo, con la parola « giustizia » Federico non intendeva un ordina­ mento stabilito per sempre, ma il diritto dello stato nel suo divenire, basato appunto sulle sempre rinnovate necessità dello stato. Onde la giustizia stessa diveniva — in contrasto con tutte le idee che ne aveva il medioevo — un che di vivo, di mosso; e pertanto il concetto, suscettibile di sempre nuove interpretazioni, d’una iustitia capace di movimento, da cui partiva l’imperatore, faceva che il suo « machiavellismo » — a base legale, si noti — andasse a servizio dello stato e non del principe. Tale concetto fu subito applicato con rara inesorabilità mediante la legge sui privilegi, il pilastro su cui poggiò il nuovo ordinamento statale della Sicilia. All’incoronazione dell’imperatore aveva presenziato un numero consi­ derevole di baroni. Perfino il più potente di loro, il conte del Molise Tommaso da Celano (che da solo disponeva di millequattrocento tra cavalieri e servi), aveva mandato suo figlio a rendergli omaggio e ad impetrarne il favore. Come la maggior parte dei grandi del regno an­ che Tommaso aveva tradito Federico, e anzi suo padre era stato uno dei principali partigiani di Ottone; Federico rifiutò questa libera sot­ tomissione, malgrado l’intercessione del papa e del cardinale Tommaso di Capua. 102

Non si sa di un odio particolare di Federico contro questo conte, ma nella sua lotta per piegare tutti insieme i potentati del reame egli applicò quelle regole semplicissime, che il Machiavelli avrebbe in seguito ridotto a dottrina; secondo le quali, volendo lottare contro molti nemici, si deve cominciare dai più forti e aizzare contro di loro i più deboli. Questo in­ tendeva appunto fare lo Staufen valendosi dei piccoli baroni contro i gran­ di, conscio che, piegati questi con l’aiuto di quelli, si sarebbe poi potuto sbarazzare facilmente dei piccoli. Federico quindi accettò l’omaggio dei baroni di minor conto, servendosi subito di loro per comandare ai conti Ruggero d’Aquila, Giacomo di San Severino, Riccardo d’Ajello, Riccardo da Celano e ad alcuni altri, di con­ segnare, in base alla legge sui privilegi e ad altri provvedimenti che sareb­ bero promulgati subito dopo l’incoronazione, certi castelli che essi posse­ devano. La cosa più importante in quel momento per Federico, era di pos­ sedere piazzaforti nel regno. Fu un vantaggio per l’imperatore che i baroni fossero presenti alla cerimonia e potessero constatare l’intesa esistente fra lui e il papa: inti­ moriti, ubbidirono ai suoi ordini. Del resto, Federico, nel togliere, non badava alle persone ma all’importanza delle cose: in base alla legge sui privilegi, il fedele e devoto abate di Montecassino, presente all’incorona­ zione, dovette rinunciare non solo a certe rendite ma, pur a malincuore, a due importanti rocche di confine, quelle d’Evandro e di Atina. Le quali, insieme con tre altri castelli: di Suessa, Teano e Modragone, cedute dal conte Ruggero di Aquila, permisero a Federico di entrare sicuro nel regno, presso Montecassino, nel dicembre del 1220, e d’imboccare colle spalle coperte la strada di Capua. Federico, nella scelta delle rocche da requisire, era stato guidato uni­ camente dal punto di vista strategico, lo stesso che avevano seguito gli an­ tichi romani nel costruire i loro fortilizi a difesa dai sanniti; e per questo s’era fatto consegnare i castelli di Sora e di Caiazzo. A questi, che lo pro­ teggevano verso sud e sud-ovest, si appoggiò l’imperatore che veniva da nord e aveva come prima meta Capua. Federico s’era dunque preparato una salda base d’azione prima ancora di entrare nel suo regno. Un’altra forza su cui poteva contare, era la provata fedeltà di alcune famiglie nobili: i Cicala e gli Eboli, e anzitutto i signori di Aquino: uno dei quali, Landolfo, era stato da lui nominato, subito dopo la sua entrata nel regno, giustiziere della Terra di lavoro; mentre un altro, più anziano, Tommaso d’Aquino, aveva ricevuto la nomina a gran giustiziere della stessa regione e della Puglia, e la contea di Acerra. Egli avrebbe inoltre avuto l’appoggio dei baroni sopra nominati, i quali, se pure un tempo l’avevano tradito, gli avevano però adesso reso 103

omaggio. Federico cominciò appunto a combattere i baroni sostenuto uni­ camente dai baroni: dalla Germania aveva portato scarse truppe, costi­ tuite in gran parte di crociati; entrava in Sicilia con un esercito quasi ine­ sistente: forte, anziché d’armati, della presenza di quel maestro di diritto a Bologna, Roffredo di Benevento. Federico voleva piegare la sua terra solo con forze della sua terra. Nel dicembre 1220 era a Capua, dove tenne una grande dieta e promulgò un certo numero di leggi: fra queste, quella sui privilegi, la più importante, che faceva tutt’uno con un’altra diretta espressamente contro i baroni, nella quale si stabiliva che ogni castello o fortilizio costruito dai vassalli negli ultimi trent’anni dovesse essere consegnato alla corona o distrutto: poiché anche il diritto di costruire postazioni difensive emanava dal signore, onde ai vassalli era stato sempre proibito di edificare castelli fortificati, fosse pure nei loro feudi. Anche qui, il sovrano non faceva che rivendicare un antico diritto. La dieta di Capua pose le basi legali del futuro agire di Federico, per il quale la lotta contro i baroni per la riconquista dei beni della corona non era che un preludio. L’imperatore non prese mai parte di persona a queste imprese, perché se la riconquista avveniva senza bisogno delle armi, bastavano i funzionari nominati all’uopo; se invece fosse occorsa la violenza, vi avrebbero provveduto i baroni devoti al sovrano (vedi per esempio la futura spedizione contro il conte del Molise capeggiata dal conte Tommaso d’Aquino). Federico restava quindi libero per altre imprese: perché molte cose importanti si svolgevano contemporaneamente. Riassumeremo brevemente la lotta,'protrattasi per due anni, per la sottomissione dei baroni della parte continentale del regno. Pochi mesi bastarono a Federico per impossessarsi di gran parte delle fortificazioni esistenti nella parte settentrionale del reame: il conte di Ajello aveva ceduto il castello omonimo; il conte Ruggero d’Aquila s’era in breve impadronito della rocca d’Arce, al confine con lo stato della chiesa; Caiazzo e Alife erano state cedute dal fratello di quel Diepold von Schweinspeunt che, dopo lunghi anni di prigionia, ottenne in cambio la libertà (e forse entrò nell’ordine dei Cavalieri teutonici). Più tardi fu confiscata la contea di Sora con la rocca di Sorella, già data in pegno a Innocenzo m e da questi ceduta al fratello Riccardo. Negli anni successivi furono presi, distrutti, o di nuovo fortificati, un gran numero di altri castelli, come quelli di Napoli, Gaeta, Aversa, Foggia. Quel che gli alsaziani avevano detto del primo degli Staufen, il duca Federico: che alla coda del suo cavallo stava sempre attac­ cato un castello — lo si poteva in certo senso ripetere anche per il suo discendente. Già nella primavera del 1221 cominciarono le operazioni di guerra 104

contro il conte del Molise, il quale, arroccato in due castelli quasi impren­ dibili, Boiano e Roccamandolfi, fu stretto, d’assedio dai capi dell’esercito imperiale: Boiano fu preso e Roccamandolfi s’arrese, ma il conte si rifugiò in un terzo castello, quello di Ovindoli, dove non si poteva sconfiggerlo in breve tempo. Tuttavia, dopo due anni (tanto erano durate le ostilità), si venne a un trattato, in seguito al quale anche Ovindoli fu ceduto, il conte bandito, e i suoi beni personali nel Molise lasciati a lui o, per meglio dire, alla moglie. Ma siccome il conte, a quel che pare, violò i patti e, citato al tribunale imperiale, non vi si presentò, Federico gli confiscò tutti i beni (come ne aveva avuta l’intenzione sin dal principio). Celano, la città più importante della contea, fu, a punizione di un’imboscata contro un distac­ camento imperiale, rasa al suolo, gli abitanti dispersi, e quindi riuniti di nuovo e spediti in Sicilia, dove Federico sapeva già cosa farne. Solo dopo anni essi poterono tornare e ricostruire la loro città, che da allora portò il nome di Cesarea: la città natale del francescano Tommaso da Celano, vivente appunto in quegli anni, aveva davvero sperimentato un Dies trae. Finita in tal modo la campagna nel Molise, è sopraffatto il più potente dei baroni del continente, restava ancora da concludere l’offensiva generale contro i feudatari. Federico non poteva continuare a dipendere dai piccoli baroni: anch’essi dovevano essere annientati alla prima occasione. L’occasione si presentò subito dopo la campagna del Molise, quando i conti Ruggero d’Aquila, Giacomo di San Severino e alcuni altri furono chiamati a partecipare alla guerra contro i saraceni: si presentarono con pochissimi uomini, o addirittura soli — e Federico senza por tempo in mezzo li fece prigionieri, e ne incamerò i beni. Dietro preghiera del papa, li mise poi in libertà, ma li bandì dal paese. (Come già il conte del Molise, presero rifugio a Roma.) A parte qualche episodio di poco conto, ogni resistenza dell’aristocrazia feudale contro Federico fu vinta, e non si manifestò più per tutta la durata del suo regno: dove si prova che anche i mezzi più duri e senza scrupoli sono i più miti quando uno sa come usarli; o, per usare le parole di Pla­ tone, « a drizzare uno stato ci vogliono misure dure, che sono al tempo stesso le migliori e che può prendere soltanto chi assommi in sé il tiranno e il legislatore... e non si faccia scrupolo di uccidere e di esiliare...: perché a nessun legislatore è concesso di cominciare l’opera sua senza ricorrere a tali misure ». Del resto, Federico applicò con stupefacente esattezza i principi più tardi codificati dal Machiavelli, che insegnerà come ci si debba sempre liberare di chi ci ha aiutato all’inizio, « per non li potere satisfare in quel modo che si erano presupposti e per non poter tu usare contro a di loro medicine forti, sendo loro obligato ». 105

In ogni caso, lo toccavano più questi che non i consigli del suo con­ temporaneo Tommaso di Gaeta, vecchio funzionario siciliano, che, inca­ ricato in altri tempi di numerose missioni presso la curia, ne aveva assimi­ lato alcune idee. Spaventato dalla nuova situazione, consigliava all’impera­ tore di costruire chiese e monasteri invece di edificare rocche e fortificar colline, perché, se non avesse trascurato più oltre di far questo, si sarebbe guadagnato le anime invece di vincere i corpi, atteso che l’amore dei sud­ diti è l’unico bastione inespugnabile. Federico non prese molto a cuore l’ammonimento, perché, malgrado la sua instancabile attività di edificatore, non costruì, durante tutta la vita, se non una chiesetta assolutamente insignificante; e anche questa non per sua volontà. La potenza dei grandi feudatari del regno era in tal modo rotta. Come altri uomini di stato, Federico seppe acquistarsi l’appoggio della bassa e piccola nobiltà, guardandosi bene però di offrirle i mezzi per arricchire. Del resto, il suo modo d’agire era causato da altri fattori, in ispecie dalla insofferenza per il sistema feudale che escludeva ogni intervento diretto del sovrano. Se i maggiori feudatari erano ormai sottomessi, già dalla dieta di Capua erano usciti decreti intesi a mutare l’intero sistema feudale, con lo stabilire che anche le forze armate dei nobili dovessero in larghissima misura essere alla dipendenza diretta del re. Non che Federico avesse effettivamente scoperto nuove leggi: solo, rimetteva in vigore certe dispo­ sizioni dei re normanni, ampliandole secondo una determinata tendenza. Suo principale interesse era incamerare quanti più feudi potesse e, possibilmente, non cederli più. A questo fine promulgò una legge in base alla quale un feudatario non poteva contrarre matrimonio senza previa approvazione da parte dell’imperatore: legge strettamente vincolante, né più né meno dell’altra sull’ereditarietà dei feudi, che impediva ai figli dei feudatari di subentrare nella proprietà del feudo senza espressa approva­ zione imperiale. Inoltre, allo stesso modo che il sovrano esigeva la restituzione dei suoi beni, i feudatari dovevano, per parte loro, rivendicare i diritti alienati alle singole parti dei feudi, per evitarne il frazionamento: anche questo, più che nel proprio interesse di feudatari, in previsione d’un possibile, integrale passaggio dei feudi maggiori alla corona. Per lo stesso motivo, l’imperatore vietò nel modo più assoluto ai feudatari la cessione di particolari diritti a feudi minori, perché l’essere troppo legati a vassalli minori avrebbe in­ debolito i feudi e, in caso di restituzione dei feudi maggiori alla corona non avrebbe fatto altro che accrescere gli obblighi verso costoro. L’indi­ pendenza dei sudditi (e quindi la facoltà di disporre liberamente dei feudi), 106

non corrispondeva affatto alle idee che ispiravano la politica statale del­ l’imperatore Federico n. Detto in poche parole, ecco quanto lo Staufen ottenne con questo nuovo ordinamento: siccome nessuno poteva mutare più nulla dell’ordi­ namento stabilito del feudo né dividerlo in parti — termine di riferimento era l’anno di morte dell’ultimo re normanno—, i feudi, vissuti sinora di vita indipendente e libera da vincoli, venivano costretti a assetti determi­ nati: d’ora in avanti le modifiche potevano venire solo dall’imperatore, il quale s’era guadagnato, grazie alla fissazione dei rapporti di proprietà, il mezzo per tenere sotto controllo e per influire direttamente fin sul ramo più lontano dell’intero sistema. Ogni possibilità di libero movimento era d’improvviso tolta e, com’era nelle idee di Federico n, ogni forma di vita, ogni azione doveva esser diretta dalla sua persona e dalla sua volontà, alla quale tutto doveva ubbidire. La compagine feudale, prima perfettamente sciolta, e legata solo indirettamente dal possesso della terra, doveva ora abbandonarsi alla salda e compatta struttura dello stato: non più la terra e il feudo legavano la nobiltà all’imperatore, bensì soltanto il servizio per­ sonale cui era tenuta. Fu così anche in seguito: il prestigio non veniva più al nobile dal possesso del feudo, ma solo dal servizio prestato direttamente al sovrano come soldato, oppure, quel che più importava a Federico, come funzionario. Si ha così per la prima volta il concetto d’una « nobiltà di corte », a un dipresso identico a quello che ne ebbe l’assolutismo. Parallelo alla statalizzazione di nobiltà e cavalleria fu un altro nuovo provvedimento: per la prima volta, d’ordine di Federico, numerosi castelli, rocche e manieri passarono alle dirette dipendenze della corona: le forti­ ficazioni non servivano più a difendere il singolo feudatario bensì tutto lo stato. Furono più di duecento i castelli incamerati, tanto che Federico do­ vette creare un nuovo corpo di funzionari che soprintendessero a questo « organismo per la difesa del paese », vigilando sulla amministrazione e manutenzione dei castelli, scegliendo impiegati adatti allo scopo e occu­ pandosi delle spese generali. In tempo di pace, contrariamente all’uso di quello e d’altri tempi, i castelli non avevano presidio alcuno ma, al massimo, un castellano e un paio d’armati; in tempo di guerra invece, i feudatari e gli abitanti dei din­ torni, come già avevano contribuito all’edificazione e alla manutenzione del castello, dovevano, secondo i loro obblighi e per ordine dello stato, fornirlo d’un presidio e sostenere le spese del suo mantenimento. S’attuava così una specie di difesa nazionale coll’aiuto delle vecchie, ma ora sostanzialmente modificate, strutture feudali: piano unico nel suo genere per il quadro unitario con cui era stato matematicamente pensato.

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È da notare un’altra importante conseguenza del passaggio dei castelli da feudali a statali: con l’edificazione di nuovi castelli imperiali (che Fede­ rico il avviò molto presto), s’inaugurò un nuovo stile architettonico. Non dovendo i castelli più servire all’abitazione d’una famiglia — il signore, la moglie, i figli, i servi —, bensì al soggiorno di scolte militari, essi potevano essere costruiti come i castra romani, secondo un sistema unico, con poche varianti, il quale, anche esteriormente, offriva il massimo di semplicità e sobrietà matematiche: un quadrato di pietra con una torre in capo a ogni lato. Si distinguono, è vero, specialmente nelle parti interne, variazioni deco­ rative — sempre presenti — e aggiunte artistiche; e anche all’esterno si hanno forme particolari dovute alla conformazione del terreno; tuttavia dovunque domina ed è generalmente osservato il medesimo principio ar­ chitettonico. A ragione s’è riscontrato nei castelli fridericiani il modello di quelli dell’ordine dei Cavalieri teutonici in Prussia, che hanno tutti lo stesso impianto e lo stesso stile, servendo agli stessi scopi di quelli del mezzo­ giorno d’Italia — e dipendenti dallo stato anch’essi. Tanto ai castelli prus­ siani quanto a quelli italiani mancava comunque l’aspetto « pittorico », sacrificato a favore di una monumentalità severa, d’una struttura rigida­ mente disegnata, mirante alla semplicità geometrica. Nell’interno non man­ cavano le volte a crociera, gli archi e le finestre a sesto acuto, i portali gotici; ma l’esterno, coi torrioni mozzi e i tetti piatti, mostrava soltanto angoli retti, blocchi, cubi giganteschi di pietra. Se si era guardato all’arrivo di Federico con qualche apprensione, dopo pochi mesi questa si tramutò in paura: « Tutti nel reame piegavano la nuca davanti all’imperatore, » dice il cronista. Mentre i capitani di Federico e i baroni conducevano la campagna del Molise, egli, pochi mesi dopo la dieta di Capua, nel maggio del 1221, si trattenne un poco in Puglia e in Calabria, e quindi passò in Sicilia; dove, a Messina, tenne una nuova dieta e promulgò nuove leggi: ma non nella forma recisa cui s’era tenuto nelle assise di Capua, bensì in quella che doveva divenirgli usuale, aggiungendo cioè alla proclamazione della legge, per chiarirne la necessità, anche i mo­ tivi che l’avevano determinata. Se quella di Capua aveva gettato le basi della nuova costituzione del regno di Sicilia, la dieta di Messina si occupò esclusivamente di quei sud­ diti che stavano al di fuori della compagine statale vera e propria e che Federico li volle distinguere nettamente da essa: attori e bestemmiatori, ebrei, prostitute e giullari. Siccome l’immagine che costoro davano di sé era pericolosa, Federico volle limitare nettamente le loro libertà: poiché gli attori erano facili alla irriverenza e alla bestemmia, non dovevano as­ 108

solutamente essercene tra i chierici, i quali « dovevano diffondere le norme della correttezza nel contegno e nella parola »; gli ebrei dovevano portare il segno giallo sulla veste e farsi crescere la barba a imitazione dei musul­ mani — come prescritto dal concilio laterano del 1215 — perché, diver­ samente, « i doveri e gli usi dei cristiani sarebbero stati confusi »; le mere­ trici non potevano abitare in città né recarsi al bagno con donne oneste, « perché una pecora malata guasta tutto il gregge »; attori e giullari infine sarebbero proscritti « se avessero osato disturbare la pace dell’imperatore con canti oltraggiosi ». Tutti costoro erano dunque dall’imperatore, con­ formemente al canone ecclesiastico, separati dal suo popolo, ch’egli inten­ deva sceverare da ogni elemento estraneo. La necessità di sottrarre il paese da ogni influenza straniera determinò il secondo provvedimento di Federico, in base al quale erano tolte, sulla scorta della legge sui privilegi, tutte le concessioni alle potenze marinare, ché venivano in tal guisa cacciate dai porti siciliani. Amalfi Pisa Genova Venezia s’erano guadagnate numerose concessioni commerciali in passato, sulla ferace isola; poiché la Sicilia non era solo il « granaio » donde trarre cereali e forse anche zucchero, datteri, canapa, lino, seta e lana; ma offriva pure, coi suoi porti, gli scali e i punti di scambio delle merci da e per l’oriente. Amalfi, dopo la devastazione subita a opera dei normanni nel 1135, era ormai fuori concorrenza. Venezia si serviva tutt’al più del porto di Brindisi, non trovandosi l’isola sulla via diretta del commercio veneziano in oriente. Restavano così Pisa e Genova, interessate allo sfruttamento del comrtìercio siciliano. La vicinanza geografica e d’interessi fra le due repubbliche più potenti del nord Italia le condusse alla rivalità più accanita: entrambe desiderose del predominio sul Mar Ligure, in Sardegna e Corsica, in Provenza, in Ter­ rasanta e in Sicilia. Qui avevano entrambe i medesimi privilegi: un quar­ tiere riservato in ogni porto importante, con un consolato e un deposito per le merci — il « fondaco », ricevuto dagli arabi —, e in ispecie la libertà di traffico, che comportava l’esenzione da ogni dazio, tassa o tributo. La rivalità rimontava anche a motivi politici, ché i genovesi erano stati dalla parte dei lombardi e dunque contro l’impero, laddove i pisani ne erano stati partigiani. Pisa durante la giovinezza di Federico aveva pro­ peso per il guelfo Ottone iv mentre Genova, la nemica dell’impero, s’era messa dalla parte dello Staufen. Legata dunque al re siciliano, Genova aveva presto acquistato il predominio sull’isola. Un episodio accaduto durante la giovinezza di Federico serve a far luce sull’operato delle due città rivali. Certi marinai o mercanti pisani — certo più corsari che pacifica gente di mare —, approfittando della confusione 109

regnante nella Sicilia di Federico bambino, s’erano impadroniti di Siracusa, cacciandone -il vescovo e tutti gli abitanti; e la città divenne un covo di pirati sotto la protezione di Pisa, che se ne serviva di base senza assumersi ufficialmente la responsabilità degli avvenimenti. Nell’estate del 1204, al­ cuni genovesi di ritorno dal Levante s’incontrarono a Creta con altri che venivano da Alessandria, di modo che a Creta si costituì una flotta consi­ derevole: ci si consigliò sul dafarsi, e si decise di prendere Siracusa ai pisani. Istigatore dell’impresa fu il celebre corsaro genovese Alemanno da Costa, che aveva appena predato un legno pisano carico d’armi, e che ottenne la direzione della flotta. Questa, salpata da Creta alla volta di Sira­ cusa, fece sosta a Malta — allora dipendente da Genova — per rilevare altre galere genovesi; e quindi giunta a Siracusa e strettala d’assedio, se ne impadronì dopo otto giorni. Alemanno da Costa si fece signore della città « per grazia di Dio, del re e della città di Genova, conte di Siracusa e familiare del re », cercando subito di estendere la sua signoria e d’influenzare secondo i suoi fini la politica del reame. Questa nuova tirannide stava sotto la protezione di Genova che, grazie a un privilegio ottenuto dal Barbarossa, poteva van­ tare certi diritti su Siracusa. Siracusa, con Creta e Malta, era una delle più importanti basi della via del Levante — e Genova adesso era padrona di tutte tre. Federico n, non dimentico dell’aiuto ricevutone al tempo del suo viag­ gio in Germania, era ben disposto verso i genovesi, ma nel suo nuovo stato non c’era posto né per una contea genovese né per l’influenza commerciale di alcun’altra potenza straniera, genovese o pisana che fosse. Pisa, sempre stata fedele all’impero, si considerava in certo senso favorita, perché Fede­ rico, che manteneva un comportamento imparziale verso le due rivali, aveva ammesso a rendergli omaggio dopo la morte di Ottone non solo i genovesi ma anche i pisani, confermando ad ambedue le città i diritti nei riguardi dell’impero, ma privando l’una e l’altra dei privilegi sulla Sicilia. Pisa, meno fortemente interessata all’isola, si contentò di buon grado del privilegio imperiale e si mantenne sempre partigiana dell’impero, tra­ sferendo semplicemente la fedeltà concessa un tempo al guelfo Ottone a Federico il (fedeltà a cui non venne mai meno per tutto il tempo del suo regno); Genova invece, che in Sicilia occupava una posizione di privilegio, si trovò a pagare un prezzo straordinariamente alto. Federico non mise tempo in mezzo: il conte Alemanno da Costa e tutti i genovesi di Siracusa furono cacciati dalla città; i fondaci genovesi di Palermo Messina Trapani e d’altri luoghi furono confiscati in base alla legge sui privilegi: l’ammi­ raglio genovese di Sicilia, Guglielmo Porco, fiutata l’aria, prese la fuga. La legge sui privilegi, che abrogava ogni concessione, colpì i genovesi no

ancor più forte della legge di Capua che toglieva ogni favore agli stranieri in confronto ai siciliani, come l’esenzione di tasse e tributi. I genovesi, non tardarono ad accusare Federico d’ingratitudine: ma questi non poteva lasciare che la gratitudine personale andasse a scapito degli interessi dello stato, per cui sopportò la malevolenza sempre crescente dei genovesi sino a quando, nonostante i suoi ripetuti sforzi, non si tramutò in aperta ostilità. Le necessità della Sicilia stavano per Federico al primo posto: le en­ trate dello stato, ridotte al minimo a causa delle esenzioni dai dazi e dalle gabelle sul commercio praticate alle più importanti potenze commerciali, non consentivano di proseguire in tale politica. E a quanto ammontassero le perdite subite sino allora dall’erario siciliano, lo possiamo rilevare dalle paròle del cronista genovese, che si lamenta della nuova tassa (imposta sulle merci in ragione di oltre il 10 %). Spezzata la potenza dei baroni sul continente e sostituitavi quella dello stato, Federico si volse alle coste. L’espulsione delle potenze marinare portava a un’altra necessità: dotare la Sitilia d’una flotta. Anche, cadute le esenzioni e i favori, rientrò in vigore la legge normanna che imponeva a certe località di fornire marinai, e ai baroni di provvedere al legname per la costruzione di navi. L’imperatore fece ben presto allestire cantieri di sta­ to, ma provvide intanto alla nuova flotta prendendo a nolo o acquistando navi altrove. In questo l’imperatore non andava tanto per il sottile: i comandanti di flotte delle città marinare italiane o i capitani delle navi mercantili che attraccavano in Sicilia, venivano invitati (o costretti) a noleggiare o a ven­ dere i loro legni; cosicché Venezia mise in guardia i suoi capitani che veleg­ giavano per la Puglia, dal concludere simile contratti, rendendoli respon­ sabili delle eventuali perdite di navi. Ma le navi mercantili non bastavano: servivano quelle da guerra, le galere, alla cui costruzione Federico cominciò subito ad applicarsi. E dav­ vero grande dovette essere lo zelo, se già nel 1221 vedeva due sue squadre veleggiare al seguito dei crociati verso l’Egitto: nelle sue intenzioni poi, cento galere e cinquanta navi da trasporto dovevano essere pronte per il 1225. In ogni caso, l’imperatore si creò un forte naviglio mercantile e un’ec­ cellente flotta da guerra, che gli resero innumerevoli servigi nelle sue guerre in Italia, e gli valsero più di una vittoria. Certo, per il momento non si trattava che di una flotta siciliana: ma presto sarebbe divenuta la flotta dell’impero romano, come lo provava sin dall’inizio lo stemma degli Staufen — l’aquila romana in campo d’oro — dipinto sulle sue bandiere: per la prima volta al tempo di Federico una flotta imperiale romano-germanica correva il mar Tirreno e lo Jonio, e per in

la prima volta il commercio navale con la Siria, l’Egitto e Tunisi avveniva sotto l’insegna dell’aquila imperiale. « Aquila » per l’appunto si chiamava una di queste navi; un’altra, « Nusf-ed-dunia » (Metà del mondo). Sol­ tanto tre secoli dopo, con Carlo v, si assiste ancora a qualcosa di analogo. A capo della nuova flotta fu nominato il conte Enrico di Malta, geno­ vese pure lui come il suo predecessore nella carica. Un tempo audace corsaro e uomo ancora pericoloso, Federico gli affidò la nomina per prevenirne la possibile ostilità. Contemporaneamente, l’imperatore cominciò a requisire castelli anche in Sicilia e a fortificarne le coste, non solo per difendersi da navi nemiche, ma in previsione d’una eventuale guerra contro i saraceni negli anni a venire. L’epurazione della Sicilia dalle potenze straniere aveva favorito l’unità del regno, la costruzione della flotta aveva ampliato la sua influenza. La disponibilità di una flotta garantiva l’indipendenza dal naviglio e dal com­ mercio straniero, anzi permise una nuova politica economica: un attivo commercio siciliano che Federico favorì con grande larghezza di vedute. Caduti i privilegi accordati sin qui alle potenze marinare, nessun ostacolo più si opponeva o impediva lo sviluppo dei traffici isolani. Il sistema economico di Federico n, tanto ammirato dai posteri per la sua meravigliosa organizzazione, non risale a quest’epoca; tuttavia già du­ rante i primi anni si delinea l’energia così lineare nel suo procedere che contraddistinse questo imperatore. Nonostante la legge sui privilegi (che si riferiva a quelli concessi du­ rante gli ultimi trent’anni) fosse severamente applicata, genovesi e pisani conservavano ancora certe concessioni ottenute prima di quel periodo, che impedivano ai siciliani una piena concorrenza commerciale; la quale sarebbe stata possibile quando Federico avesse trasferito tali concessioni alle città sicule. Ma ciò avrebbe contrastato con tutta la politica fridericiana, che privava anche i porti siciliani di gran parte dei loro privilegi. Un certo danno alle città marinare Federico l’aveva già procurato col cercare in ogni modo di far incetta delle loro navi, sottraendo naviglio al commercio straniero dei cereali per servirsene in proprio: ora si trattava di batterle in un altro modo ancora, senza ledere i diritti da esse acquisiti sotto i normanni. Gli enormi guadagni che esse realizzavano coll’acquisto a basso prezzo del grano siciliano passarono più tardi nelle casse imperiali quando Fede­ rico stesso si occupò di esportare con la sua flotta le derrate sui mercati esteri, e di venderle agli alti prezzi locali; ma negli anni in cui la flotta imperiale era ancora in allestimento (senza contare lo sforzo a cui fu sot­ toposta con la crociata), lo Staufen escogitò un altro sistema per sottrarre 112

agli esportatori stranieri enormi guadagni: una legge uscita nel 1224 vietò qualsiasi esportazione di cereali, bestiame e altri viveri. Le imprese commerciali potevano ora comprare il grano soltanto dallo stato, e Federico fissò un prezzo così alto che le antiche concessioni non servivano più a nulla, mentre la corona ne ricavava pingui guadagni. La conseguenza immediata fu che si registrò un tale calo dei prezzi dei generi alimentari, che i produttori riuscivano a malapena a coprire le spese di produzione: del che approfittò Federico per acquistare abbondanti partite di cereali per conto della corona. Questa però era solo la conseguenza d’un provvedimento che aveva come fine primo l’eliminazione dei privilegi delle potenze marinare: se poi le imprese private (che l’anno successivo dovettero rinunciare a parecchi carichi per Venezia) furono gravemente pregiudicate, ciò non pare abbia preoccupato molto Federico (le cui energiche misure si rendevano necessarie perché a un certo momento non sfuggissero allo stato i migliori guadagni, che un privato non sarebbe mai stato in grado di conseguire). Espulse le potenze marinare, confiscati i loro fondaci, ed eliminate le loro basi, i porti siciliani passarono sotto il controllo diretto dello stato e Federico potè servirsene ben presto per i suoi fini. Per esempio, durante la guerra contro i saraceni (1222), Federico, per assicurare i rifornimenti all’isola, rese Palermo porto franco: l’apertura di quest’unico porto, in coincidenza con la chiusura degli altri, costituì uno stimolo per il com­ mercio — che fu però convogliato verso il punto più favorevole alle ope­ razioni di guerra, col risultato di assicurare gli approvvigionamenti delle truppe. Analoghi provvedimenti costrittivi furono rivolti ad altri campi del­ l’economia (quantunque non sempre se ne capisca appieno il senso): fu severissimamente vietata l’esportazione di metallo nobile, e imposto \’imperiale (una nuova, grossolana moneta d’argento appena coniata) a corso forzoso come valuta pei pagamenti a enti stranieri. Federico fece garantire e sorvegliare attentamente, la stabilità di tale corso. L’abolizione di nume­ rosi mercati che frazionavano il commercio e facevano soltanto l’utile di alcuni « grandi », è indicativa della centralizzazione degli scambi; con Federico, inoltre, si cominciò ad applicare, a partire dal 1223, un’imposta diretta che, secondo l’occorrenza, veniva riscossa ogni due, ire anni; sin­ ché, durante gli ultimi anni di regno dello Staufen, divenne annuale. Tale imposta, che all’inizio aveva carattere di contributo straordinario, veniva esatta in questo modo: l’imperatore fissava la somma da versare dopo aver stabilito anche quanto dovesse pagare ciascuna provincia; i contributi dei singoli erano poi determinati dai vicari provinciali e dai giustizieri, i quali, insieme con gli esattori, erano comandati a riscuotere il denaro. n3

Queste poche disposizioni, confermate dalla politica economica degli anni successivi, bastano da sole a delineare la direzione presa da Federico: egli intendeva creare anche in campo economico l’unità statale, portando lo stato al monopolio del commercio estero. S’è accennato più volte alla guerra contro i saraceni, incominciata da Federico nel suo secondo anno di regno in Sicilia: 1222. Federico n non aveva da combattere contro un qualche emiro indipendente come quelli del tempo degli aglabiti, che, come nipoti dei cartaginesi, eran partiti nel ix secolo da Tunisi alla conquista della Sicilia: quella guerra l’avevano già fatta i normanni. Ora si trattava di combattere contro quei saraceni che abitavano le impervie montagne dell’interno dell’isola, cresciuti di numero e di forza per l’arrivo di quanti erano scampati a una sanguinosa strage perpetrata dai cristiani di Palermo (1190). S’erano uniti a loro anche schiavi saraceni evasi, e forse nuovi immigrati d’Africa. Di fatto, si era venuto formando un nucleo di considerevole potenza, che, poco a poco, giunse a dominare tutto l’interno della Sicilia senza che alcuno riuscisse a piegarlo. Durante la tutela di Innocenzo m, questi saraceni, come i ca­ valieri sul continente e i corsari della costa, erano stati di volta in volta gli avversari più temibili e gli alleati più preziosi; nondimeno, essi erano sempre stati ostili al pupillo del papa, giungendo anzi in varie occasioni ad attentare alla sua vita. Come i genovesi a Siracusa, così i saraceni si stabilirono temporanea­ mente a Girgenti, certo per mantenere i collegamenti coi saraceni d’Africa; anch’essi presero prigioniero il vescovo e cacciarono una parte degli abi­ tanti, e quindi si spinsero a nord a razziare la costa sino a Monreale. La guerra contro di loro era perciò inevitabile. La spedizione contro i ribelli arroccati sui monti costò fatica e denaro. Pur non conoscendone i singoli particolari, sappiamo che già nella prima estate fu posto l’assedio a Jato, caposaldo saraceno, che venne occupato temporaneamente. L’emiro Ibn-Abbad, deposta ogni speranza di vittoria, si consegnò coi suoi figli a Federico, chiedendogli grazia; ma Ibn-Abbad aveva usato violenza ai messi imperiali, e Federico era adiratissimo contro di lui: come lo vide, ebbe un accesso che ricordava le collere della sua fanciullezza. Quando l’emiro, entrato nella sua tenda, gli s’inginocchiò dinanzi, Federico gli allungò un calcio al ventre, e gli squarciò il fianco con lo sperone. Ibn-Abbad fu portato fuori dalla tenda e, una settimana più tardi, venne impiccato come ribelle insieme ai figli. La stessa sorte toccò a due commercianti di Marsiglia che per caso erano stati fatti prigionieri con l’emiro: dieci anni prima avevano venduto schiavi a Tunisi e al Cairo fan­ ciulli e ragazze di quella famosa crociata, e ora meditavano di tradire Fede­ rico coll’emiro. 114

Forte di questo primo successo, l’imperatore passò l’inverno sul conti­ nente; ma la guarnigione lasciata di presidio a Jato fu assalita a tradimento dai saraceni e distrutta sino all’ultimo uomo. L’ammiraglio Enrico di Malta, lasciato sull’isola, non riuscì a impedire una nuova sollevazione saracena. Enrico lamentò la scarsità delle sue forze per un attacco decisivo, ma Federico non accettò la scusa per valida, e Enrico cadde in disgrazia e per­ dette Malta. Più tardi Federico gli restituì le sue grazie e i possedimenti che aveva a Malta, meno il castello, che l’imperatore tenne per sé. L’estate seguente Federico dovette riprendere la campagna contro i saraceni. Per rompere i loro collegamenti Coll’Africa compì una spedizione contro le isole nordafricane, impiegando per la prima volta la flotta da guerra imperiale. Nonostante gli ampi successi, i soldati di Federico dovettero restare lunghi anni ancora sul piede di guerra in Sicilia ed egli stesso fu costretto a intervenire più volte, anche se solo per brevi periodi. Questo è quanto sappiamo della guerra contro i saraceni di Sicilia, la cui conclusione vittoriosa suscitò la meraviglia dei cronisti. Ma più stupe­ facente fu il comportamento di Federico che, dopo la seconda spedizione, decise di allontanare, se possibile, tutti i saraceni dall’isola; e li dedusse infatti nelle piane di Puglia, giudicando che se fossero rimasti sui loro monti non gli avrebbero mai dato pace. A poco a poco fece passare a Lu­ cerà circa sedicimila musulmani (da principio, soprattutto servi della gleba: musulmani ed ebrei erano senz’altro schiavi del re), dove costituirono una colonia militare. Egli ridiede così a Lucerà la sua fisionomia originaria, ché essa era stata una colonia militare al tempo dei romani: terra demaniale semispopolata al tempo degli Staufen, fu la residenza preferita degli ultimi anni di Federico. A Lucerà (dove l’imperatore si fece costruire un grande castello), i musulmani vivevano fra loro, con un capo proprio, il caid, con propri organi di vigilanza, coi loro sceicchi e fakih; così che, in mezzo a una terra di antichissime tradizioni cristiane, e ai confini col Patrimonio di San Pietro, s’era installata una città maomettana vera e propria, i cui simboli caratteristici, moschee e minareti, si vedevano di lontano. I nuovi coloni dovevano coltivare quella terra desolata e pagare le tasse che gravavano su di loro in quanto musulmani: il testatico (gezia) per la tolleranza religiosa e il terragiumy ossia il canone per l’usufrutto del suolo. Ma siccome Federico spediva man mano a Lucerà tutti i saraceni di Sicilia, anche quelli che non avevano preso parte alla guerra, i proprie­ tari terrieri dell’isola furono in tal modo privati della forza di lavoro: né bastavano a sostituirla i celanesi, e, più tardi, i lombardi, mandati dall’im­ peratore. Il quale però aveva un bisogno ancor maggiore di braccia per le sue vastissime proprietà, e inoltre contava di valersi dei coloni di Lucerà n5

per un uso molto più importante: qyesti pacifici agricoltori, infatti, pote­ vano in ogni momento impugnare le armi da loro stessi costruite, archi e frecce, e, quando fosse il caso, mettersi in campagna da guerrieri pronti a combattere: sarebbero stati fanti o anche, considerata l’eccellenza delle loro scuderie, cavalleggeri. Queste truppe, che potevano divenire un grosso pericolo pei nemici, erano indifferenti alla scomunica papale e ubbidivano solo all’imperatore; il quale riuscì prodigiosamente a mutare in breve il selvaggio odio dei vinti nella fanatica fedeltà verso il vincitore propria degli orientali, che servivano da schiavi il loro signore e protettore. In mezzo a loro, fra quella guardia del corpo costituita da saraceni che lo chiamavano sultano, Federico doveva più tardi sentirsi perfettamente al sicuro; come pure d’ora in poi si trovarono molti saraceni fra la sua servitù, mentre nei quartieri imperiali di Lucerà, nel famigerato harem di Federico n, le operose fanciulle saracene dovevano apprestare tessuti e altro per il loro signore e padrone. È certo meraviglioso come questo imperatore appena trentenne riuscisse a raccogliere dovunque le forze che gli s’opponevano per liberarne le ener­ gie latenti a favore dello stato: si direbbe che non esistesse per lui alcunché di inutilizzabile. L’idea di trapiantare i saraceni, staccandoli a viva forza da tutto il loro passato, e persuaderli che il loro materiale benessere poggiava sulla cieca sottomissione alla sua persona, e volgere il loro spirito di rasse­ gnazione e la loro gioia d’essere schiavi a una piena, fanatica devozione verso di lui: tutto ciò ricorda la maniera di trattare il materiale umano di un despota orientale. Federico ne aveva tutta la stoffa. In oriente, questi prin­ cipi raggiunsero il culmine con l’istituzione dei giannizzeri dei sultani osmanici. Era logico che una colonia musulmana nel cuore d’una terra cristiana suonasse scandalo per la chiesa; laddove per Federico non era affatto una preoccupazione, anzi: egli aveva nei suoi saraceni una cosa che mancava a qualsiasi altro signore occidentale del tempo: un esercito stabile, truppe sempre pronte a prendere le armi, ciecamente fedeli a lui in quanto pro­ tettore della loro fede maomettana. Questo era un motivo di più per legare i saraceni a Federico: sradicati, soli in un paese straniero, in lui solo trovava protezione la loro fede. Ed era un legame che Federico, saggiamente, si guardò bene dal rompere: difatti, non desiderava per nulla una loro con­ versione, e solo per brevissimo tempo, essendo i rapporti col papa divenuti molto tesi, permise di malavoglia a certi Domenicani di recarsi in missione a Lucerà, dopo aver dichiarato che non ne vedeva la necessità, visto che alcuni saraceni erano già convertiti. Battezzare i musulmani comportava inoltre un altro svantaggio: la perdita del testatico. Per la medesima ra­ gione anche gli arabi noti vedevano di buon occhio che i vinti si conver­ 116

tissero all’IsIam, perché anch’essi ne perdevano il testatico, retaggio appunto dei saraceni di Sicilia. Il trapianto dei saraceni in Puglia aveva, come s’esprime un cronista, liberato la Sicilia « dagl’infedeli e dalle loro sedi »; e in effetti solo con Federico il regno siciliano, grazie alla segregazione dei musulmani, giunse a una quasi completa unità cristiana (non contando il piccolo numero di ebrei, e i greci considerati scismatici). Con ciò, tuttavia, si profilava un nuovo problema per lo stato di Federico il: quello dell’unità di fede e di razza, cui l’imperatore si pronunciò più tardi in modo singolare. La sua guerra contro i saraceni, in ogni modo, segnò la fine della lotta contro l’IsIam sul suolo italico. Una simile lotta fu continuata solo in I Spagna. Così, in poco meno di tre anni, Federico aveva fatto della Sicilia uno stato. I mezzi e le armi di cui s’era valso si conformavano agli avversari; senza scrupoli verso i baroni infidi e traditori, s’era comportato in economia in modo lungimirante quanto le città marinare, se non più; il tutto col medesimo fine: l’eliminazione di libertà particolari a vantaggio dell’unità dello stato. Ciò che colpisce anzitutto in tutte lè imprese politiche dell’imperatore è lo stile rettilineo del suo agire, che nel disordine trova sempre la via più breve alla meta: come dire che ogni scrupolo d’ordine morale o sentimen­ tale o d’altro genere è lasciato da parte dinanzi alle necessità immediate dello stato: l’unica cosa che interessi Federico. Ed è per l’appunto a tali necessità che deve la sua origine una importante istituzione: l’università di Napoli, la cui fondazione fu stabilita da un editto fridericiano della primavera del 1224. Già alla dieta di Capua era stato vietato nel modo più stretto ai grandi del regno, tanto secolari quanto ecclesiastici di esercitare la giustizia o di farla esercitare da persone scelte da loro: stava all’imperatore di nominare i giudici e le corti di giustizia e nessuno doveva osare arrogarsi le preroga­ tive di queste e di quelli. Siccome però i giudici dovevano procurarsi le necessarie conoscenze di diritto per poter pronunciare le sentenze, ecco che si offriva loro con l’università di Napoli il mezzo per entrarne in possesso. Ciò è dichiarato dall’imperatore nel decreto di fondazione: l’università viene creata espressamente per formare uomini abili ed esperti nel servire l’impero, ai quali affidare anche l’amministrazione della giustizia in Sicilia. Poiché Federico non amava fare le cose a mezzo, non si limitò a istituire una scuola di diritto, ma volle una vera università, in cui, eccetto la medi­ cina (per la quale bastava la vicina Salerno), fossero insegnate tutte le di­ scipline. Si creava così per la prima volta una università puramente statale, 117

diversa da ogni altra scuola superiore cittadina od università ecclesiastica, nel senso che qui non s’insegnava per la scienza ma per lo stato, non si formavano chierici vaganti ma funzionari. Se erano sinora mancate scuole di questo tipo, lo si doveva ai ristretti bisogni del tempo, quando basta­ vano, per l’amministrazione della giustizia, conti e vescovi (esempio tipico i due paladini del Barbarossa, Otto von Wittelsbach e l’arcivescovo Rainald von Dassel). Solo nello stato di Federico n si fece sentire la necessità che l’amministrazione passasse nelle mani di laici con buona formazione intel­ lettuale e salda preparazione giuridica. Perciò, la nuova università, che s’affiancava alle precedenti ecclesiastiche o civiche, era diretta dallo stato, che sceglieva direttamente e pagava i maestri che v’insegnavano; il che mostra come tale università si contrapponesse in certo modo alla chiesa, e più coscientemente anzi a Bologna: non per entrare in concorrenza con quest’ultima al fine di abbassarne il prestigio — ché invece essa era sem­ pre stata tenuta nel più alto pregio da Federico —, bensì per preservare i funzionari statali che ne uscirebbero dallo spirito ribelle e libertario dei comuni dell’Italia settentrionale, coi quali Federico si scontrò ben presto. A Napoli, insomma, si dovevano crescere uomini che fossero non solo all’altezza della chiesa e dei comuni, ma in grado altresì di porsi come antagonisti di queste due potenze. Lo « studio generale », dice il documento di fondazione, viene isti­ tuito perché chi ha fame e sete di sapienza possa trovare nel regno stesso di che saziarsi, senza bisogno di recarsi altrove; liberi ormai da lunghi viaggi e peregrinazioni, gli studenti potranno dedicarsi ai loro studi sotto gli occhi dei genitori. Ma perché fosse ben chiaro che non stava agli studenti di decidere se profittare o meno di tale beneficio imperiale, Federico noti­ ficò subito che d’ora innanzi era proibito a tutti i sudditi del regno fre­ quentare altre università, e che inoltre si faceva obbligo a quelli di loro che stessero studiando altrove, di rientrare a Napoli entro un dato periodo di tempo a proseguire qui i loro studi. Scopo del provvedimento era anche quello di fornire un alto numero di scolari a un’università messa in piedi da un giorno all’altro. A tal fine, furono invitati a Napoli anche studenti stranieri, cercando di allettarli in ogni modo: tutti gli abitanti dell’impero romano potevano studiare all’università fatta erigere dall’imperatore nella « leggiadra Napoli »; qui si sarebbe provveduto al loro alloggio, a facilita­ zioni finanziarie, alla loro sicurezza e al vitto a prezzi moderati, poiché il paese aveva sovrabbondanza di cereali, vino, carne e pesce; l’università vantava inoltre i migliori maestri, scelti dall’imperatore fra i più valenti, come il suo giudice Roffredo di Benevento. Interdette ai sudditi le università straniere, Federico provvide ad assi­ curare alla sua fondazione l’esclusività nel regno, vietando a chiunque di 118

insegnare le discipline impartite all’università. Così, tutte le scuole che prima lo facevano furono obbligate a chiudere. Da quanto sopra si deduce che se Federico poteva gradire o meno che gli studenti si trasferissero in altri luoghi dell’impero, non desiderava af­ fatto, anzi detestava che il medesimo accadesse nell’ambito del suo regno: cavalieri, clerici vagantes e trovatori (che disturbavano la pace dell’impe­ ratore con canzoni offensive), non poteva concentrarli nel saldo organismo del suo stato e servirsene; sicché, per quanto stava in lui, si adoperava a che a tutti costoro fosse tolta la possibilità di viaggiare, quando non fosse per servizio del governo. L’università doveva servire a trattenere in patria le forze migliori che, allevate in uno spirito d’obbedienza all’imperatore, servissero compattamente soltanto lui e lo stato. Federico provvide natu­ ralmente a che i sudditi trovassero in patria tutto quanto avrebbero potuto offrire i paesi stranieri, mettendo in tali misure di carattere spirituale la medesima intensità che nelle altre: primo imperatore che volle coscien­ temente instaurare la propria signoria anche sugli spiriti dei sudditi. Così, con rapido volo, Federico aveva toccato tutte le forme di vita del regno, imprimendovi il suo marchio inconfondibile. Ben presto cessò ogni forma di vita che non avesse il suo consenso o non risalisse allo stato: immobilizzato il feudalesimo, ridotta la nobiltà di qualche importanza al servizio personale dell’imperatore, trasformati i castelli in baluardi di di­ fesa nazionale, sempre più statalizzato il commercio, concentrati in poche località fiere e mercati: ecco il quadro; a cui s’aggiunge la creazione d’una flotta statale a petto della quale i navigli privati perdevano ogni impor­ tanza. Aver poi quasi compiuto l’unità del regno anche in campo religioso colla deduzione dei saraceni, e creato un esercito stabile, vietata la giu­ stizia dei signori, e infine gettato le basi d’una istituzione che amplierebbe lo spirito di fedeltà all’imperatore e ne formerebbe i quadri; non è poco per un uomo appena trentenne, che aveva fondato le sue riforme su una sola legge e l’aveva applicata come per giuoco. Tutto era accaduto in un sol tempo grazie al rapido combaciare di tutte le forze adatte; soltanto una potenza s’opponeva ancora a ogni tentativo di Federico il, e non era una potenza siciliana ma mondiale: la chiesa.

Erano anni ormai che Federico n portava la corona d’imperatore del sacro romano impero, ma quanto aveva sinora compiuto non usciva dai ristretti confini del regno: le sue eran sì « gesta di re », e potevano in fu­ turo servire all’impero, ma, per il momento, mancavano d’importanza di­ retta pel mondo cristiano. Come imperatore romano incoronato, Federico poteva bensì bilanciare una potenza mondiale come il papa e la chiesa, ma non contrapporlesi. Federico non rappresentava ancora una vera potenza 119

« mondiale ». Tale stadio non era raggiungibile d’un balzo né tanto meno poteva Federico saltare i primi gradini passando subito da re, qual era, a imperatore effettivo; al punto che papa Onorio poteva scrivergli in quegli anni che attribuiva « al fuoco della giovinezza » certi provvedimenti troppo radicali presi occasionalmente dall’imperatore: osservazione che toglieva senz’altro ogni importanza ai’ medesimi. Il quadro politico non si scostava molto da quello umano: Federico non aveva un impero mondiale unitario e concluso da opporre alla chiesa mondiale, perché il suo impero era ancora in fieri: la Germania, la teneva solo indirettamente e non vi s’era ancora presentato dopo l’incoronazione a imperatore; la Sicilia l’aveva sottomessa, è vero, ma i frutti del nuovo ordinamento stavano solo maturando; nel regno d’Italia, infine, non era ancora intervenuto. Così, ogni tentativo di far pressione sulla chiesa era destinato a fallire, anche se aveva riportato numerose vittorie diplomatiche su di essa. Il giuramento di crociato, poi, non l’aveva ancora sciolto, teso com’era sempre a chiedere proroghe per guadagnar tempo per le sue fac­ cende in Sicilia. Ma qualcosa venne ad aiutarlo. Al momento dell’incoronazione, Federico n s’era impegnato a partire verso la fine dell’estate del 1221; solo due squadre imperiali, però, al comando dell’ammiraglio Enrico di Malta e dell’ex cancelliere Gualtieri di Pagliara, ora Vescovo di Catania, furono mandate a Damietta, mentre Fe­ derico rimase indietro. Gli aiuti ai crociati giunsero tardi, furono anche commessi errori: in ogni caso non era più possibile riparare alla catastrofe del delta del Nilo. Senza aspettare i rinforzi mandati da Federico, i crociati avevano lasciato Damietta per risalire il Nilo onde impadronirsi colle loro sole forze del Cairo. Questo accadeva appunto all’epoca della piena del fiume: gli egiziani aprirono le dighe, e l’esercito cristiano dovette capito­ lare e lasciare perfino Damietta. L’arrivo del re non serviva più a nulla. La sconfitta colpì dolorosamente tutto il mondo cristiano, e ancor più il papa, che aveva avviato personalmente l’impresa; neppure Federico n rimase insensibile all’insuccesso, come testimoniano lo scambio di lettere e alcuni abboccamenti col papa sempre in merito alla questione dell’oriente. Ci si accordò pure sull’approntamento d’una nuova spedizione, ma i pre­ parativi presero altro tempo, che Federico n adoperò nella sua Sicilia: non senza ragione egli fece notare che faceva guerra ai saraceni sull’isola non meno che in Terrasanta. Si dovette così ricominciare la propaganda per la crociata; in Germania ne fu incaricato Ermanno di Salza, e per tre anni chierici e laici dovettero pagare contributi straordinari per la nuova impresa. Il successo fu dovun­ que scarso; l’ardore della crociata era visibilmente spento, s’imponevano lunghi preparativi. 120

Il papa si lasciò convincere dalle spiegazioni del gran maestro dell’Ordine Teutonico, che (eseguendo consegne ricevute da altri) allegava la malavoglia generale, e accordò all’imperatore una proroga sino al 1227. Tutto questo fu stabilito e messo in carta nel 1225 a San Germano, ma Federico e il papa s’eran già incontrati nel ’22 a Napoli e nel ’23 a Feren­ tino per discutere della situazione orientale. In tali incontri, Federico era riuscito ad ottenere una nuova proroga della partenza che il papa, date le circostanze, non aveva potuto negargli, anche se di mala voglia; un’impresa come la crociata richiedeva un impegno d’energie quale un uomo vecchio e malato come lui non avrebbe potuto sostenere. Se le trattative di San Germano assicuravano Onorio che la crociata si sarebbe fatta, era chiaro tuttavia che l’impresa sarebbe passata dalle mani della curia a quelle dell’imperatore. Assumendosene tutti gli oneri, Federico si sobbarcava a condizioni non certo lievi; ma testimoniava della potenza economica del suo regno se poteva impegnarsi, giurando sulla pro­ pria anima, a partire nell’agosto del 1227 per la Terrasanta con mille cava­ lieri, a mantenerli colà per due anni, a mettere a disposizione le navi per il trasbordo di altri duemila cavalieri (ognuno accompagnato, e con tre cavalli), e infine a versare in cinque rate e a tener depositate sino al giorno della partenza, come garanzia, centomila once d’oro (l’oro oggi è quotato suppergiù 35 dollari l’oncia). Il depositario dell’ingente somma doveva essere Ermanno di Salza. L’inadempimento del termine fissato per la partenza o degli altri im­ pegni, avrebbe significato non solo la perdita del denaro, ma pure la scomunica papale, che sin da allora gli fu minacciata per decreto, come a crociato renitente. Malgrado i gravosi impegni assunti l’imperatore ne usciva pur sempre in vantaggio, perché s’era guadagnati altri due anni di tempo per le fac­ cende del suo regno oltre alla possibilità di servirsi della crociata a fini personali. La buona volontà da lui dimostrata fece dimenticare i dissapori degli ultimi cinque anni; pare infatti che in occasione del primo incontro col papa (1222), egli avesse cercato di riportare in certo modo alle dipen­ denze del regno i possedimenti imperiali dell’Italia centrale, la marca anconitana e anzitutto il ducato di Spoleto; ma il papa e i cardinali si erano opposti definendo « richiesta fuor di proposito » tale pretesa. Questo complesso di terre, disposto come un cuneo fra la Sicilia e il regno d’Italia, rompeva l’unità dell’impero e difficilmente Federico avrebbe potuto accettare un simile stato di cose: presto o tardi si sarebbe dovuto tornarci sopra: queste province costiere servivano all’imperatore come via di passaggio per la Lombardia. Il momento d'impadronirsene con la forza non era ancor giunto e, intanto, Federico, coi suoi tentativi, aveva prema­ 121

turamente scoperto i suoi piani e suscitato la diffidenza della curia. Quan­ do poco più tardi il vicario imperiale Gunzelin von Wolfenbuttel si per­ mise di occupare questi territori, cacciandone i funzionari del papa e fa­ cendo giurare agli abitanti fedeltà all’imperatore, a Roma non si prestò fede alle scuse di Federico che allegava la sua estraneità al fatto, attribuen­ dolo esclusivamente all’arbitrio del vicario. Solo la deposizione di Gunzelin dalla carica e la mediazione di Ermanno di Salza riuscirono a chiudere, per il momento, l’incidente. Quando, a San Germano, Federico aveva preso su di sé tutti i gravosi oneri della crociata, s’era in ciò conformato al suo antico giuramento di crociato, d’essere come imperatore, come braccio secolare della chiesa e come capo della cristianità, tenuto a dirigere la spedizione. C’era di più: nel 1222 moriva a Catania sua moglie Costanza, e Federico, per compiacere al papa e al maestro dell’Ordine Teutonico, s’era indotto a nuove nozze con la figlia del re Giovanni di Gerusalemme « perché ancor meglio si risolvesse la questione della Terrasanta ». La curia intendeva, con queste nozze, legarlo ancor più alle sorti di quel paese (e ci riuscì); all’imperatore interessava soprattutto il fatto che Isabella di Gerusalemme, per altro poverissima, gli avrebbe recato in dote la corona di Terrasanta, che più d’ogni altra poteva conferire splendore all’impero. Isabella, secondo la legge siriaca, aveva ereditato la effettiva corona di Gerusalemme dalla ma­ dre, mentre suo padre, il conte Giovanni di Brienne, portava unicamente il titolo nominale di re. Le nozze furono celebrate a Brindisi, al principio di novembre del­ l’anno 1225, in tale pompa che già il racconto di come si svolsero i fatti ci restituisce in tutto il suo abbagliante splendore il tempo delle crociate. L’imperatore mandò una squadra navale coi grandi del regno ad Acri, dove, nella chiesa della Santa Croce, la figlia del re fu, tra la meraviglia generale, unita in matrimonio all’imperatore lontano, ricevendo l’anello di lui dalle mani d’un vescovo siciliano; e quindi ella, appena quattordi­ cenne, ricevette a Tiro, dal patriarca, la corona di Terrasanta, mentre i cavalieri gerosolimitani le rendevano omaggio. Poi, la giovane franco-sira, accompagnata da un cavaliere teutonico, ascese la galera imperiale e varcò il mare, per unirsi al signore d’occidente. C’era materia bastante perché quel tempo arricchisse l’intera vicenda di toni fiabeschi e leggendari: l’epopea tedesca ha posto in Ortnit, che sembra accennare a Federico n anche altrimenti, tale matrimonio al cen­ tro del racconto: con l’aiuto del « savio pagano d’Apulia », il siculo Zaccaria re dei saraceni, l’eroe della vicenda riesce a conquistare dopo molte avventure la sposa siriaca, devota ad Apollo e a Maometto. L’intera vicenda dello Staufen, che, come imperatore dell’ultimo me­ 122

dioevo, visse realmente tutti i motivi leggendari della cavalleria dell’età di mezzo, è inscindibile da questo splendore cavalleresco, che sembra farne a tratti il personaggio di uno dei tanti romanzi sulle crociate. Ma l’incanto dell’avventura non distolse l’imperatore dalla realtà poli­ tica, che sembra aver pregiudicato non poco già il festino nuziale, perché il giorno stesso delle nozze Federico, com’era suo diritto, assunse il titolo di re di Gerusalemme (che d’ora in poi comparirà sempre nei documenti prima di quello di re di Sicilia e dopo quello di imperatore romano), pre­ tendendo da Giovanni di Brienne la deposizione del medesimo e la rinuncia a ogni diritto regale. Re Giovanni, divenuto suo amico dopo essere stato suo ospite per mesi (e come lui cantore dei primissimi versi in volgare italiano), contava almeno sul vicariato di Gerusalemme; sicché fu profondamente colpito dall’atteggiamento di Federico e, dopo una violenta disputa, corse a rifu­ giarsi dal papa. Federico, intanto, richiese l’omaggio dei grandi di Siria. Poco si sa del destino d’isabella. Il dissidio fra il padre di lei e Federico offrì lo spunto a varie leggende. Un francese racconta che l’imperatore passò la notte nuziale con una nipote di Giovanni, non con Isabella: che fu battuta, messa in carcere e mai accostata dallo sposo. I fatti lo escludono: Federico assegnò alla moglie il castello di Terracina, vicino a Salerno, e più tardi visitò con lei la Sicilia. La fanciulla non ebbe però alcuna influenza su di lui; già nel 1228 moriva dopo aver dato alla luce il figlio Corrado. Con la corona di Gerusalemme, la crociata acquistava improvvisamente per Federico un senso politico concreto: si trattava di impadronirsi d’un nuovo regno già suo di diritto. I poteri statali e personali crescevano in­ sieme. Federico doveva solo cogliere il momento opportuno per conseguire un successo senza pari, che diffondesse ovunque la sua gloria. Contando l’uno sull’aiuto dell’altro per la crociata, papa e imperatore si trovarono sostanzialmente d’accordo anche se tale accordo era stato rag­ giunto dopo dissapori, e lasciava dissapori dietro di sé. Si cercò di scan­ sarli, come pure s’aggirò per il momento lo scoglio della marca anconitana e del ducato di Spoleto; solo a proposito della Sicilia si venne al primo, notevole conflitto, quando Federico n, nel corso del riordinamento dello stato, cominciò a regolare anche le questioni ecclesiastiche a modo suo. Già a Capua aveva caldamente raccomandato ai sudditi di pagare le decime alla chiesa; poco dopo aveva ripristinato un editto normanno che vietava il cumulo di beni terrieri alla manomorta: chiese e conventi potevano sì comprare terreni o riceverli in dono (anche questo però fu più tardi proi­ bito), ma dovevano a loro volta alienarli nel termine di un anno, un mese, una settimana e un giorno; altrimenti — come s’espresse più tardi Fede­ rico — la chiesa avrebbe comprato in breve l’intero reame. 123

Questi erano soltanto provvedimenti normali e non gli attirarono inimi­ cizie, ma le cose presero un’altra piega quando Federico si mosse contro l’episcopato siciliano. Sempre aveva usato il coltello e il ferro incandescente per recidere e cauterizzare ulcere e mali — come amava dire. Con lo stesso sistema si accinse all’epurazione del clero siculo. Il vescovo Arduino di Cefalù fu sospeso dalla sua dignità (e con ragione, stando alle carte del proces­ so) per aver sperperato i beni della chiesa e tenuto vita riprovevole; similmente si procedette, e per motivi analoghi, nei confronti dell’ar­ civescovo Nicola di Taranto. L’ex cancelliere Gualtieri di Pagliara, ve­ scovo di Catania, che non godeva più della fiducia di Federico e ap­ punto perciò era stato spedito a Damietta coi rinforzi per i crociati, non osò più rimetter piede in Sicilia, ma, di ritorno dalla spedizione, andò a Roma, e infine a Venezia, dove, a quel che pare, morì poverissimo. La corruzione degli ecclesiastici in Sicilia doveva esser ben grande, se non solo Federico imprigionò larga parte del basso clero, ma pure il papa fu costretto a deporre singoli vescovi come quelli di Carinola e Squillace. I vescovi deposti da Federico, però, si recavano a Roma che, a grado a grado, divenne il rifugio di tutti i siciliani cacciati dall’imperatore. Oltre ai tre vescovi, risiedevano in Roma i conti Ruggero di Aquila, Giacomo di San Severino e altri baroni; presumibilmente, anche il conte di Siracusa Ale­ manno da Costa e re Giovanni di Gerusalemme. Pur se il comportamento di Federico contribuiva ad aumentare il malu­ more della curia, il papa avrebbe potuto adattarsi a sopportarlo; ma ciò che portò a una violentissima disputa epistolare fra le due parti fu, come ai bei giorni di Innocenzo ni, la questione dell’elezione dei vescovi. Quale importanza avesse per l’intero sistema gerarchico la cosiddetta libertà nella elezione dei vescovi, è già stato spiegato; ora però bisogna aggiungere qualcos’altro. Parallelamente allo sforzo della chiesa di legare saldamente a sé i vescovi di tutto il mondo, facendone vicari del papa di­ rettamente sottoposti alla Santa sede, si svolgeva in occidente un altro processo: lo sviluppo del sentimento nazionale dei singoli paesi. La chiesa, cercando di mantenere i vescovi delle varie nazioni alle sue immediate di­ pendenze, si opponeva con ogni forza allo smembramento del sacro ro­ mano impero in singoli stati; d’altra parte, però, impediva ai singoli paesi di costituirsi a nazione, a stato, formando essa stessa ovunque uno stato nello stato; e questo perché la chiesa costituiva una potenza non puramente spirituale, ma bensì quasi esclusivamente materiale, dotata com’era di terre e di possedimenti acquisiti da gran tempo, che le permettevano di sottrarsi al controllo e alla giurisdizione statale nelle questioni di maggiore im­ portanza. 124

Perciò in tutti i paesi d’Europa, presto o tardi, ci si oppose strenua­ mente a questo stato di cose. Federico n fu il primo a muoversi in questo senso, e col peso della sua posizione di re e imperatore. Come imperatore era in una strana posizione: nel proposito di conservare l’unità mondiale si incontrava con le vedute della chiesa, perché, da imperatore romano ap­ punto, aveva a cuore quell’unità né più né meno dei papi. La discrepanza stava però nel fatto che, a dispetto di quell’unità, non solo Federico rico­ nosceva le nazioni, anzi s’accingeva egli stesso a fare di un popolo una na­ zione strettamente compatta e conchiusa. Tale duplice atteggiamento di Federico il, sinora latente, si rivelò nella sua pienezza quando egli si ap­ prestò all’edificazione dello stato di Sicilia. Per la prima volta apparve qui l’antitesi che doveva segnare tutta l’esistenza di Federico e che possiamo definire con questa formula: impero sì, ma nazioni. Tale concetto d’unità sarà ampliato più tardi da Dante nell’altro: individuo sì, ma impero. Degno di nota è ancora che Federico n abbia lasciato mano libera alla chiesa nell’elezione dei vescovi in Germania, dove il sentimento nazionale, nel senso d’una posizione antitetica a Roma, non aveva ancora acquistato consistenza; e si sia invece violentemente opposto alle pretese papali in Sicilia, dov’era non solo imperatore ma anche sovrano locale. Già da fan­ ciullo aveva preso posizione contro Innocenzo m riguardo all’elezione del vescovo di Palermo: casi del genere erano destinati a ripetersi data l’im­ portanza dell’elezione dei vescovi specialmente in Sicilia. Questa piccola terra aveva ventun arcivescovi e centoventiquattro vescovi: cifra enorme, che si fa ancor più evidente quando si consideri come al concilio latérano del 1215, che raccolse quasi tutto l’alto clero della cristianità, si contassero, su quattrocentocinque partecipanti del mondo interno, centocinque rappre­ sentanti della sola chiesa siciliana. Il gran numero di arcivescovadi si spiega con la dominazione nell’Italia meridionale dei bizantini: arcipreti greci erano stati fatti arcivescovi ro­ mani, il titolo di arciprete significando solamente indipendenza dal pa­ triarca di Costantinopoli. Siccome, naturalmente, si verificavano spesso va­ canze di sedi, premeva moltissimo all’imperatore di saperle in mano a pre­ lati fedeli, che lavorassero per lui e non contro di lui: che insomma, come al tempo dei normanni, anche i vescovi fossero soltanto organi del re e dello stato. Il fatto che fossero tanto numerosi facilitava queste mire: essi infatti non erano, come i tedeschi, a un tempo vescovi e grandi feudatari, ma, a seconda della loro natura, semplici funzionari della chiesa o dello stato. Il tipo ideale di vescovo Federico n lo trovò nel primate di Sicilia Be­ rardo di Castacca, arcivescovo di Palermo, che Innocenzo m, dopo la disputa palermitana, aveva trasferito per desiderio di Federico • da Bari alla capitale sicula. Non avrebbe potuto fare scelta migliore, per Fe125

clerico, perché Berardo si rivelò indispensabile all’imperatore, assumendo una parte in certo senso analoga a quella del gran maestro dell’Ordine Teutonico (a cui, se non in destrezza politica, certo era superiore per cul­ tura e dottrina). Benvisto a Roma, totalmente devoto all’imperatore, era il tramite migliore fra le due potenze. Non ci fu infatti avvenimento importante a cui non fosse legato il suo nome; e innumerevoli servigi rese all’imperatore, del quale riscosse sempre la piena fiducia: « in ogni circostanza egli fu al nostro fianco e molto sop­ portò per noi », ebbe a scrivere Federico. Berardo, uno dei pochi prelati che si sentissero a loro agio nell’aria intellettuale della corte fridericiana e che anzi ne condividessero la vita letteraria, ha pure il merito d’aver sco­ perto e introdotto a corte Pier delle Vigne. Il merito maggiore tuttavia — e non era cosa da poco — fu quello d’aver vissuto tutta la vita presso Federico. Già membro, come vescovo di Bari, del collegio di tutela del giovane Federico, lo aveva accompagnato poi nel suo avventuroso viaggio in Germania; aveva persuaso, con la sua fermezza, il vescovo di Costanza ad aprirgli le porte della città; quindi aveva rappresentato il suo signore al concilio laterano, ed era passa'to a vivere per sempre alla corte impe­ riale: avendo finanche la ventura di sopravvivere al suo signore e di som­ ministrargli i sacramenti in punto di morte. Non conosciamo molto della personalità di Berardo, ma la sua figura di prete devoto e venerando, vi­ cino a Federico dalla fanciullezza alla morte, fedele anche nella scomunica e nell’esilio, fa bello spicco fra le altre che attorniarono quel grande. Ecco il genere di prelati che Federico n preferiva. Preti del genere ce n’erano in buon numero in Sicilia, ma nessuno poteva vantare un’intimità con lui come quella di Berardo di Palermo. Favorire l’elezione a vescovi di tali prelati dando solo a loro il suo benestare, era l’unico diritto che i concordati, molto precisi su questo punto, lasciavano a Federico: perché, in base al concordato della regina Costanza, le facoltà del re si limitavano al consenso all’eletto dal capitolo, mentre spettava al papa di conferire l’officiatura al neovescovo. Questo diritto imperiale già tanto ristretto era ulteriormente diminuito dall’antico diritto « di devoluzione », in grazia del quale il papa poteva, dopo sei mesi di vacanza d’una sede vescovile, nomi­ nare chi volesse senza riguardo né al capitolo né al sovrano. Generalmente si rimandava con futili pretesti la conferma papale fino alla scadenza dei sei mesi per fornire poi un vescovo non gradito né al re né al capitolo, ma che si conformasse alle tendenze di Roma. D’altro canto l’imperatore non mancava di andare al di là del suo di­ ritto, cercando di costringere il capitolo con promesse o minacce a eleggere il candidato da lui proposto (magari un medico o un notaio di corte). Tutto ciò disturbava la curia al punto, che si bocciava qualsiasi candidato 126

anche solo raccomandato da Federico. Fu il caso del decano Ugo: scelto all’unanimità, fu ricusato dal papa proprio perché segnalato da Federico quale « uomo colto, adatto all’incarico e originario del luogo ». Non diver­ samente mastro Perrone da Nola, notaio imperiale, non fu confermato per l’opposizione d’una minoranza. Un caso a parte è quello della lunga vacanza della sede vescovile di Salerno. L’arcivescovo Nicola d’Ajello aveva designato un successore, ma siccome Nicola era parente di quel tal conte Riccardo d’Ajello non tanto gradito all’imperatore, questi aveva rifiutato il consenso al successore de­ signato. Più aperto ancora il contrasto a Brindisi. Per comune accordo la scelta era caduta su un notaio e familiare del re, Giovanni di Trajetto, e Federico aveva mandato espressamente a Roma una ambasceria per ottenere la confer­ ma del candidato, ben noto anche alla curia. La curia però non volle deflette­ re dal principio di ricusare ogni raccomandato di Federico, e papa Onorio allegò un errore di forma per rifiutare la conferma a Giovanni: Federico gli scrisse ancora personalmente per farlo recedere dal diniego, ma invano. Analoghe situazioni ad Aversa, Acerno, Sarno, Conza, Bari. Mai che Federico sia riuscito a far approvare un suo candidato: e ciò, a quanto oggi si può giudicare, per partito preso da parte di Roma. L’esasperazione crebbe da ambo le parti. Onorio rimproverò Federico d’immischiarsi nelle elezioni, ammonendolo, con parole quasi analoghe a quelle indirizzategli un giorno da Innocenzo m, a non abbandonarsi a quegli abusi in seguito ai quali i suoi antenati erano periti tutti, lasciando lui solo per discendente. L’imperatore, di rimando, rispose che Onorio mirava solo alla sua rovina, che la sua protezione non era una protezione ma un mezzo per perderlo; e aggiungeva con straordinaria durezza che se il papa non era disposto a confermare i vescovi da lui designati, po­ teva fare a meno di mandargliene dei suoi, ché non avrebbe, per parte sua, mai dato loro il consenso, anzi avrebbe ordinato che fossero loro chiuse non solo le porte delle chiese ma pure quelle delle città. Era una dichiarazione di guerra; ma Onorio non la prese come tale, rispondendo che il re s’era lasciato trascinare da cattivi consiglieri e dal­ l’ardore della giovinezza, e che un simile modo di procedere avrebbe fatto nascere scandali. Invitava infine l’imperatore a scusarsi del linguaggio ardito dei suoi messi (ma voleva dire: dello scritto imperiale). Non sappiamo se Federico si sia scusato. Certo è che papa Onorio si rimise a nominar vescovi per le sedi vacanti. Mise ancora una volta in guardia Federico dal pericolo, per un laico, d’ingerirsi nelle cose della chiesa, allegando l’esempio biblico di Uzza, il quale, coll’intenzione di sostenere l’Arca santa che vacillava, aveva osato toccarla senza esserne autorizzato, ed era stato fulminato. 127

Concludeva che d’ora in poi avrebbe provveduto da sé a dare al gregge i pastori. Benché le persone scelte non fossero in complesso sgradite a Federico — un Marino Filangieri, per esempio, era fratello del maresciallo dell’im­ pero Riccardo Filangieri —, egli s’oppose al loro insediamento. Le lettere fra lui e Onorio acquistarono progressivamente un tono di aperta ostilità, e alfine l’ira lungamente repressa scoppiò nel momento più sfavorevole per l’imperatore, quando questi cioè s’adoprava a metter ordine in Lombardia.

I primi anni del regno di Federico n non dovevano passare senza ch’egli facesse esperienza di altri acerrimi nemici: come le città lombarde, per le quali non era ancora abbastanza forte, tanto più che dietro le loro spalle stava la curia romana. Col trattato di San Germano aveva ottenuto una proroga di due anni alla crociata, e intendeva usare questo tempo per siste­ mare la situazione dell’occidente, prima di mettersi alle prese con l’oriente. Riordinata la Sicilia, restava la questione tedesca. Decise di regolarla in una dieta da tenersi in Lombardia, per ristabilire anche l’autorità im­ periale. Invitò quindi a Cremona per la Pasqua del 1226 i principi tedeschi e suo figlio, il re Enrico: « Se non per altro scopo, perché vediate la nostra persona, la quale gioisce della vostra vista, » come concludeva l’invito. Scopo della dieta, problemi d’indole generale: restaurazione dei diritti imperiali in Italia, estirpazione dell’eresia e rapido approntamento della crociata. Agli ultimi due problemi di competenza ecclesiastica Federico annetteva grande importanza; quanto ai lombardi, sperava che, al cospetto della potenza d’armi di tedeschi e siciliani uniti, si mostrerebbero docili. Ma i lombardi, vista la politica siciliana dello Staufen, avevano com­ preso abbastanza chiaramente cosa significasse « restaurazione dei diritti dell’impero »: dalla pace di Costanza col Barbarossa (1183) nessun impe­ ratore aveva più badato alle loro città; diritti e beni dell’impero erano stati usurpati nell’Italia del nord negli ultimi decenni come quando in Sicilia i piccoli baroni avevano usurpato i beni e i diritti della corona. Un’eventuale legge sui privilegi avrebbe maturato nell’Italia settentrionale ben altri frutti che in Sicilia: e le città lombarde non intendevano sottoporvisi. Le voci esagerate sull’entità delle forze che Federico recava con sé alla dieta compirono l’opera: fattesi tutt’a un tratto diffidenti, le città, come in altri tempi, si strinsero in una lega con a capo Milano, alla quale aderì la maggior parte dei comuni dell’Italia del nord. È improbabile che Federico pensasse a una legge sui privilegi, ché sin da principio sapeva di dover contare su ben altre resistenze che in Sicilia: se qui infatti s’era trattato d’un pullulare di forze, aggrovigliate e confuse, non legate da reciproci rapporti, gli si presentava invece di fronte in Lom­ 128

bardia una massa di avversari che — analogamente ai prìncipi tedeschi —, pur essendo come potenze territoriali sempre in conflitto fra di loro, si mostravano tuttavia pronti a stringersi a difesa non appena un pericolo esterno li minacciasse. Quantunque il trattato di Costanza permettesse alle città di contrarre alleanza tra loro, la ricostituzione della lega lombarda era un’aperta provocazione per l’imperatore, benché fosse conseguenza del suo modo d’agire: Federico, nelle faccende di Lombardia, prendeva sempre più l’atteggia­ mento d’un capo-partito. In effetti però i rapporti interni della Lombardia erano giunti a un tal punto di frizione — spaccata com’era in due partiti — che si faceva impensabile un comportamento equidistante da parte dello Staufen; e inoltre tradizione e motivi personali avevano determinato la sua posizione. Come Pisa e Genova per il predominio nel Mediterraneo occidentale, così Cremona e Milano lottavano per l’egemonia nella regione lombarda. Milano era già da lungo tempo la città più potente di Lombardia; l’orgoglio dei vescovi sedenti sulla cattedra di sant’Ambrogio era, ancora nell’xi se­ colo, sfociato nell’antica- rivalità con Roma: e Federico se ne ricordò giusto per esortare i romani a spezzare l’alterigia dei milanesi. Milano era anche città che coronava imperatori, e ultimamente aveva posto sul capo del­ l’imperatore Enrico vi la corona del regno d’Italia; a Milano, prima che negli altri comuni, il popolo, giustamente conscio di sé, aveva lottato per la propria libertà; qui per la prima volta piccola nobiltà e borghesia s’erano levate insieme contro i grandi feudatari e fuse in unità cittadina nella Motta; Milano, infine, era stata la prima città che avesse osato resistere a un imperatore, e con successo. Ridestata una volta alla libertà, la città si sforzava sotto i consoli di conquistare anche un’indipendenza statale, e di mala grazia si piegava al­ l’autorità tanto laica quanto ecclesiastica. La doppia opposizione a chiesa e impero portò con sé che Milano divenisse presto il centro dell’eresia e della ribellione. La città crebbe di fama potenza ricchezza, e il suo territorio raggiunse l’estensione d’un ducato: nessuna delle altre città lombarde la superava. Malgrado le lotte incessanti fra di loro, quando un pericolo esterno, minacciando la libertà comune, consigliava una resistenza comune, le città lombarde s’affidavano di buon grado alla guida della « città centrale », an­ che se talvolta s’alleavano fra loro per sgombrare il gravoso predominio di Milano, come quando diedero man forte al Barbarossa per distruggerla (1162). Ma l’accordo delle città non scaturiva dalla volontà di arrivare a un complesso più vasto: anche per i lombardi la polis era tutto, sicché 129

ne era frenato ogni grande ideale politico, e ancor più la sottomissione alla signoria dell’impero romano. Non tutte le città tenevano per Milano, anzi un buon numero di esse stava con Cremona; sulla quale parve per lungo tempo pesare come una maledizione il giudizio di Tacito: hellis externis intacta, civilibus infelix. A partire dal ix secolo però, anche Cremona si fece ricca e potente coi suoi navigli che solcavano il Po sino a Venezia e di qui proseguivano direttaménte per Bisanzio. A Cremona toccò il più antico privilegio di cui mai godesse una città italiana: i suoi cittadini, protetti da Ottone m, furono da allora dalla parte dell’impero. Un secolo più tardi (1098), l’atteggia­ mento di fedeltà all’impero divenne definitivo; e fu quando la marchesa Matilde, le cui donazioni non avevano causato che dissidi (il maggiore dei quali portò all’episodio di Canossa), gettò il pomo della discordia fra Cre­ mona e Milano donando alla prima il territorio tra l’Adda e il Serio, la cosiddetta insula Fulcherii, e Crema. « Da quell’anno s’accese la battaglia per Crema, » scrive il cronista; e da allora Cremona si tenne sempre ben vicina agli imperatori: solo gli imperatori potevano aiutarla a conservare la donazione proteggendola dalla prepotenza di Milano, che ugualmente avanzava pretese su Crema. Gli im­ peratori, d’altro canto, avevano tutto l’interesse a rafforzare il comune a loro fedele: Cremona attirava a sé le città che per un qualsiasi motivo erano nemiche di Milano o dei satelliti di Milano. Gli aggruppamenti politici di Lombardia mutavano spesso e alla svelta, ma se pure qualcosa cambiava nel seguito delle città partigiane dell’una o dell’altra, immutabile rimase l’odio tra le due grandi rivali, Cremona e Milano. Il primo compito di Federico n era di prender posizione rispetto a tali schieramenti. Due vie gli si offrivano in sostanza: la prima, persistere in un atteggiamento sovrapartitico cercando una formula d’accomodamento che soddisfacesse tutte le città rivali, e che gliele guadagnasse — il che sarebbe stato effettivamente possibile se Federico, invece d’andare sempre in caccia di un accordo con l’aristocrazia ecclesiastica, avesse'fatto causa coi lombardi contro il nemico comune: il papato. Ma l’unione dell’impero col « terzo stato » contro il clero — in tutt’altro campo, l’affare migliore di Federico n — non era ancora stata presa in considerazione dallo Staufen. Restava così soltanto la seconda via: abbracciare un partito, lavorare (come gli altri impe­ ratori) di concerto con Cremona; e coll’aiuto di questa e dei suoi satelliti, con gli strumenti che gli forniva la Sicilia (che erano mancati ai suoi ante­ nati), e col contributo tedesco, intimorire i partiti avversari (senza combat­ terli, se possibile), e così restaurare i diritti imperiali. A ciò s’aggiungevano elementi personali. Quando, diciassettenne, Fe130

derico s’avviava in Germania, perseguitato dai milanesi, aveva avuto l’ap­ poggio di Cremona; a questa, nel momento del bisogno, aveva riconosciuto la signoria di Crema e deVCinsula Fulcherii. In ogni caso, l’imperatore ve­ deva l’utilità d’una alleanza con Cremona, perché (contrariamente al suo costume) si ritenne legato dalle sue promesse; e la città che « quasi per ere­ dità teneva fede all’impero », la città che, a quanto si pretende, divenne più tardi madrina di suo figlio Corrado, ricevette prove del suo favore quali nessun’altra né prima né dopo doveva vantare. Altro elemento di rilievo, l’odio istintivo di Federico contro ogni sorta di ribelli, e l’odio ereditario contro Milano in particolare; come ebbe a scrivere egli stesso di lì a dieci anni: « Non appena, negli anni della matu­ rità, nella piena fioritura dello spirito e del corpo, contro l’aspettazione degli uomini, salimmo, guidati solo dal cenno della divina provvidenza, alla vetta suprema dell’impero romano [...]; l’acume della nostra mente fu sempre più dirizzato [...] a vendicare le ingiurie fatte all’avo e al padre nostro [dai milanesi], e ad estirpare il germoglio di un’empia libertà già cresciuto in altri luoghi. » Quest’odio radicale, questa sete di vendetta non sono da discutere, ma da accettare come dato di fatto. Già nel 1219 in Germania, egli aveva giurato a Cremona che mai avrebbe dato il favore imperiale a Milano senza il suo consenso; e ben presto le concesse il con­ trollo su tutte le questioni lombarde. Questo era il partito dell’Italia settentrionale per il quale Federico n aveva preso chiara posizione: che la dieta fosse convocata a Cremona, do­ vette bene aprire gli occhi agli avversari. Ma nel quadro delle discordie e delle ostilità fra le città del nord Italia entrava pure, come elemento di scissione, la rivalità interna dei gruppi cittadini. Sullo scorcio del secolo, press’a poco, la borghesia aveva cominciato a far parte a sé all’interno di ogni città. Nell’xi secolo, borghesia e bassa nobiltà s’erano legate contro marchesi e conti, per conquistare alle città i territori di costoro. Quasi ovunque i due ceti s’erano stretti in consorterie di cavalieri e popolani, ed erano sorte leghe fra partiti uguali di città diverse: anche riguardo a questi dissidi, che per altro verso spaccavano la Lombardia in due parti, l’impera­ tore era costretto a prender posizione. Ma il suo comportamento non era deciso una volta per tutte, né inteso a sostenere sempre e soltanto i cavalieri (quantunque fosse certamente questo, in generale, il partito imperiale, lad­ dove quello popolare, rivoluzionario e nemico dell’autorità, rappresentava la parte avversaria). La situazione non fu mai troppo chiara per Federico il, perché spesse volte appunto i cavalieri si portavano da nemici e i popolari invece da amici dell’impero; poteva finanche accadere — come una volta a Siena — che un partigiano dell’impero sapesse abilmente mettersi a capo del movimento B1

popolare e farlo così passare dalla parte dell’imperatore. Nel comportamento di Federico, tuttavia, si riconoscono talune regole fisse: nelle città tradizio­ nalmente fedeli, come Cremona Parma Pavia, cercò di appianare le contese fra cavalieri e popolo e di riportare la caliria, allo scopo di guadagnarsele integralmente; verso le altre, verso quelle di dubbia fedeltà che non poteva avere nella loro integrità, tenne un altro modo: o prese partito per i cavalieri (come a Piacenza, dove sciolse il partito popolare dichiarandolo ribelle, e lo bandì); o riconobbe e protesse il partito dei cavalieri, a lui prontamente fedele, al quale, per suo ordine, anche le città vicine dovevano prestare sostegno. Si ebbe pure una breve alleanza fra i cavalieri piacentini e il comune filoimperiale di Cremona. Nelle città ostili, infine, cercò di attizzare le contese: fu insomma, quello di Federico n, un intricato destreggiarsi, forzato come egli era a prender le città una per una, non potendo applicare qui il suo metodo retti­ lineo senza ricorrere immediatamente alla spada, dalla quale voleva astenersi. A mostrare la fondamentale differenza di concezioni fra le città impe­ riali e quelle non imperiali, interviene uno scambio di lettere che, se è in­ ventato, acquista significato ancor più generale. Firenze avrebbe scritto in questi anni all’imperiale Siena: « Benché la maestà imperiale, non costretta ad alcuna legge, abbia i pieni poteri, nondimeno essa vive secondo la legge e non le è lecito prendere l’altrui, a rischio di rompere la legge e di passare per ingiusta proprio quando essa costringe gli altri ad obbedirvi. » Al che Siena avrebbe risposto: « Se pure sia proprio del principe romano di sovra­ stare a tutti in pace e in guerra come vincitore, tuttavia non è permesso che i sudditi anelino ad essere al suo pari, attesoché sarebbe vuoto il nome di principe qualora ogni condizione fosse eguale, non dandosi dignità senza sudditi. A nulla poi servirebbe il diritto delle genti, il quale ha stabilito disuguaglianze e fissato gradi e ranghi. » I punti di contrasto non potrebbero essere formulati più acutamente.. Si pone ora la questione dell’atteggiamento della curia a questo proposito. La chiesa aristocratica del medioevo avversava i movimenti popolari, che, per desiderio d’indipendenza, lottavano in certo modo sia contro l’autorità secolare sia contro quella ecclesiastica. I partiti popolari, dal canto loro, non vedevano di buon occhio la chiesa: di recente, quando il popolo mila­ nese s’era sollevato contro il suo vescovo, il legato papale in Lombardia, cardinale Ugo di Ostia, aveva appoggiato i cavalieri contro il popolo. Federico stesso s’era adoprato, come i suoi predecessori, per tenere in piedi i deboli resti dell’autorità episcopale nelle città lombarde: in ciò ap­ parentemente d’accordo col papa che scomunicò Milano, « imbevuta del veleno dell’eresia ». Prova di tale unità di vedute, il fatto che Federico, subi­ to dopo l’incoronazione, avesse dato fuori, nel marzo del 1224, editti contro J32

gli eretici, facendoli più severi in seguito: chi veniva segnalato come eretico dal vescovo era giudicato da un tribunale civile, quindi condannato al rogo o mutilato della lingua perché gli fosse tolta ogni ulteriore possibilità di offendere Dio. Gli editti non erano un semplice gesto di cortesia verso il papa, ma, come vedremo, rispondevano perfettamente alle convinzioni dell’impera­ tore Federico, per il quale il ribelle che offendeva la maestà imperiale deri­ vante da Dio era senz’altro un eretico. Pienamente concorde con la chiesa sulla questione dei ribelli e degli eretici, Federico credeva quindi di poter contare sull’appoggio di Roma alla dieta lombarda, tanto più che erano in programma due punti riguar­ danti la chiesa: la lotta contro l’eresia e la crociata. Federico n non s’era sbagliato nel calcolare che la curia, per quanto riguardava la crociata, sarebbe stata al suo fianco; ma ciò non significava che la chiesa avrebbe fatto a meno dell’amicizia dei lombardi: anzi, al con­ trario, come potenza politica ci contava molto. Difatti, se all’imperatore fosse riuscito di costituire anche nell’Italia del nord un centro di potenza simile a quello di Sicilia, lo stato della chiesa si sarebbe trovato di nuovo chiuso a nord e a sud da terre dell’impero, e il prossimo passo di Federico avrebbe potuto riguardare la curia: le province della chiesa nell’Italia cen­ trale sarebbero minacciate, o quanto meno la marca anconitana e Spoleto. E Federico aveva fatto chiaramente capire a Roma quanto rimpiangesse la perdita di questi territori. Sin quando però i lombardi avessero resistito all’imperatore, opponen­ dosi alla creazione d’una signoria imperiale nel nord analoga a quella esi­ stente in Sicilia, anche lo stato della chiesa non avrebbe corso alcun peri­ colo. Nella lega, la chiesa trovava, come potenza politica, il più valido punto d’appoggio; sicché a Roma non ci si potè che rallegrare che essa si organizzasse in forma quasi statale: le città s’erano infatti legate per venti­ cinque anni, impegnandosi a rinnovare il giuramento ogni anno, a non concludere pace separata e a tenere colpevole di ribellione, per dir così, allo stato (e a punire conformemente) quella di loro che fosse uscita dalla lega. Se dunque per l’imperatore la lega non rappresentava che uno stato ribelle all’interno dello stato, per la chiesa essa significava un solido ba­ stione che la preservava ancora dalla tenaglia imperiale. Nemmeno per quel che riguardava l’eresia e i movimenti popolari le vedute dell’imperatore e quelle della chiesa coincidevano: se per molti rispet­ ti erano d’accordo sulla questione della plebe ribelle e nemica dell’autorità, all’imperatore mancavano quei legami che la chiesa aveva ancora con la ple­ be. Quanto all’eresia, Roma era certo lieta che se ne incaricasse la spada im­ periale, ma non contava esclusivamente sull’aiuto dell’imperatore, per quan­ i33

to Federico amasse crederlo. Si dava infatti il caso che il problema dei plebei e degli eretici da riguadagnare alla chiesa o da rendere inoffensivi, fosse già di competenza di due ordini mendicanti: il francescano, vicino al popolo, e il domenicano, persecutore degli emetici, sorti nel seno della chiesa « in un tempo già declinante ». Essi diedero all’unione della chiesa coi lombardi un senso che andava al di là della pura politica di potenza. Senza diffonderci oltre sopra le varie attività dei due ordini, basti, a illu­ strazione dell’amicizia d’un san Francesco coi ceti popolari, l’episodio tra­ mandato dalla leggenda. Il santo predicava un giorno di fronte a numerosa folla sulla piazza di Perugia, quando sopraggiunsero i cavalieri della città che presero a torneare coi loro cavalli nell’intenzione di disturbare la pre­ dica; offeso, il popolo si sollevò contro di loro. Questa all’incirca l’aggrovigliata situazione dell’Italia settentrionale quando Federico n partì per la dieta. Alle altre difficoltà s’aggiungeva il dissidio fra imperatore e curia per la questione dell’elezione dei vescovi in Sicilia. Senza chiederne licenza alla curia, Federico attraversò con le sue truppe i territori ceduti alla chiesa nell’Italia centrale, invitando alla dieta anche le forze che rappresentavano la chiesa in quei luoghi. Federico aveva tralasciato di proposito di chiedere il permesso, perché se il papa glielo avesse negato la contesa sarebbe sorta egualmente, e inol­ tre l’imperatore stesso avrebbe con ciò creato il pericoloso precedente di dover chiedere il consenso papale per le truppe in marcia dalla Sicilia al­ l’Italia del nord. Quando papa Onorio si oppose, e definì Federico ingrato verso la chiesa, la collera lungamente repressa da ambo le parti scoppiò: « Quousque tandem patientia mea abutetur pontifex! », avrebbe detto Federico, stando a un tardo cronista. Ora, una tale espressione che paragona il papa a un Catilina rende il senso della risposta dell’imperatore. Aspramente Federico scrive tutto quello che ha da rinfacciare alla curia: egli non doveva alcuna gratitudine alla chiesa, perché questa, quando gli era venuta in aiuto, aveva sempre e soltanto cercato il proprio vantaggio; ciò malgrado egli aveva accondisceso a ogni desiderio del papa; e questi, in cambio, accoglieva presso di sé tutti i nemici dell’imperatore e gli esiliati di Sicilia, diminuiva i diritti imperiali nell’isola, gl’impediva di procedere contro chierici sfre­ nati, gli lasciava sulle spalle tutto il peso della crociata « senza muovere un dito » — e tante altre cose ancora. Onorio ribattè con una lunga epistola ch’è un capolavoro di stile. Comincia con le parole: « Mirabile parve alla tua mente il nostro messag­ gio, così hai scritto [...]; ancor più mirabile il tuo alla nostra. » Onorio non tralascia nulla, e quando giunge a parlare del contegno di Federico verso gli esuli rifugiati a Roma (in particolare verso il disgraziato re di 134

Gerusalemme, Giovanni), ai quali tutti un solo rimprovero poteva l’impe­ ratore muovere, quello d’essere dopo tutto ancora in vita; ricorda allora a Federico, n il suo grande modello: « Delle gesta di Giulio Cesare tu non ritieni quell’una, quando egli salvò Domizio quasi contro la volontà di questi e reputò indegno della sua ira Metello che si offriva di persona alla spada... »: al di là della perfezione formale, uno scritto tremendamente velenoso. In tale scambio di lettere l’ira delle due parti aveva raggiunto il colmo, ma s’era anche esaurita. Federico rispose brevemente, non senza negarsi il piacere di qualche sarcasmo sull’insolita lunghezza dell’epistola papale: la lettera del papa aveva tratto fuori dalla camera del tesoro pontificia già tante cose vecchie e nuove, che una nuova risposta dell’imperatore non avrebbe provocato dal gravido seno della chiesa se non un feto simile al precedente; egli nutriva pertanto i sentimenti d’un figlio devoto verso il padre che lo sgrida, e lasciava il campo: anche perché il papa, con la sua schiera di scribi e di maestri nell’arte della penna, gli era superiore. Questo voltafaccia dell’imperatore avvenne però soltanto quando l’im­ presa in Lombardia era già completamente fallita. Ecco, in poche parole, i fatti. Federico aveva cercato dapprima di vincere l’inattesa ostilità della lega insistendo sulle sue intenzioni pacifiche e ponendo in prima linea la sua preoccupazione per la crociata; inoltre aveva accuratamente evitato durante la marcia di venire a conflitto con qualsiasi città. E fu proprio la sua mode­ razione a dar coraggio ai lombardi, i quali, al corrente com’erano del dis­ sidio tra l’imperatore e la curia, potevano star sicuri che la loro principale preoccupazione, che cioè le due parti si unissero contro di loro, era, per questa volta, destituita di fondamento. Consci della propria potenza, non misero tempo a manifestarla: quan­ do l’esercito tedesco al comando di re Enrico, passato il Brennero, giunse a Trento, le città della lega (alla quale apparteneva pure Verona) sbarra­ rono lo stretto passaggio delle Chiuse. L’esercito tedesco, composto esclu­ sivamente di cavalieri, pare non fosse in grado di forzare il blocco. Ciò avrebbe del resto contrastato con le intenzioni dell’imperatore che, per il momento, non intendeva né poteva scendere a guerra aperta coi lombardi, e preferiva invece farli passare dalla parte del torto presso il papa. Re Enrico dovette quindi starsene in attesa a Trento; d’altra parte, senza i cavalieri tedeschi le forze dell’imperatore sarebbero state troppo deboli persino per intimorire non che a vincere i nemici. Federico intavolò così trattative coi capi della lega, principalmente per ottenere il passaggio delle truppe tedesche; ma le condizioni poste dai lombardi allo sgombro del blocco, al quale partecipava un numero inaudito di città, furono tali i35

che l’imperatore lasciò i negoziati, seguendo il voto unanime dei grandi raccolti intorno a lui (e anche di vari vescovi tedeschi, italiani, siculi, bor­ gognoni). Rimaste senza risultato le ripetute intimazioni alla resa, l’imperatore fece scomunicare dai vescovi presenti tutte le città della lega in quanto impedivano la crociata, e per sua parte bandì i lombardi come rei di lesa maestà, vietando con ciò ogni rapporto con loro e dichiarando inoltre sop­ presse la costituzione e le scuole loro — fra queste, l’università di Bologna. Questo fu quanto gli restò da fare dopo una permanenza di mesi, e se dopo tutto gli riuscì di tirarsene fuori con poco danno, fu perché tenne l’atteggiamento del crociato che in Lombardia non procurava il proprio in­ teresse bensì quello di Dio e della chiesa — sì che i lombardi, offendendo lui, offendevano la chiesa. In tal modo costrinse effettivamente la chiesa a stare dalla sua; pel momento, però, l’imperatore dovette contentarsi della scomunica e del bando dall’impero dei lombardi, rimandando ad altro tempo la vendetta (a Faenza avevano ucciso un cavaliere sospetto di parteggiare per lui). Anche l’assemblea non s’era potuta tenere; soltanto pochi principi te­ deschi erano riusciti a unirsi a Federico prendendo la strada di Venezia, mentre re Enrico col grosso degli altri, dopo un’attesa di mesi a Trento, era stato costretto a tornare indietro. La situazione lombarda era intricata quanto prima, e Federico non aveva ottenuto nulla: nel luglio del 1226 intraprese il viaggio di ritorno in Sicilia che si rivelò carico di rischi. Ve­ nutegli incontro truppe pisane, fu infine da queste accompagnato nella loro città dove rimase per breve tempo. Durante il soggiorno pisano, l’imperatore, nonostante tutti i disagi, tro­ vò tempo d’intrattenersi nel suo palazzo con un dotto, i cui scritti gli erano ben noti, a discutere minutamente d’un gran numero di problemi di geo­ metria e d’algebra che lo interessavano. Il dotto aveva nome Leonardo Fi­ bonacci da Pisa (il maggior matematico del tempo suo e anzi del medioevo), ed era stato introdotto presso di lui da un dotto spagnolo, Domenico. Leonardo aveva compiuto gli studi in Egitto e in Siria, in Grecia e in Ispagna, e cercava appunto d’introdurre in Europa un nuovo sistema di calcolo « al modo degli indiani »: il calcolo cioè con le cifre arabiche e con lo zero. I problemi che Federico n gli pose in seguito per il tramite del maestro e filosofo di corte Giovanni da Palermo, sono talmente difficili che anche oggi li può intendere bene solo un matematico; ma Leonardo li risolse in un libro, e da allora restò in rapporto coi dotti della corte: con un maestro Teodoro e in particolare con Michele Scoto. Questi contatti scientifici non furono tuttavia l’unico risultato del pe­ riodo lombardo: i principi tedeschi che erano passati per la via di Venezia 136

s’incontrarono con Federico, ed egli ebbe modo di vedere più da vicino le questioni tedesche, dove però non poteva intervenire che sanzionando i dati di fatto. L’anno avanti (1225) era stato assassinato l’arcivescovo di Colonia Engelberto, governatore della Germania, e nominato a suo successore, an­ che nel consiglio di tutela del giovane re Enrico, il duca Lodovico di Ba­ viera. Inoltre, in seguito alla caduta della potenza danese — alla quale l’imperatore non aveva contribuito direttamente —, i nordalbingi fino all’Eider erano passati all’impero. Risale infine a questo periodo la Bolla d’oro di Rimini, colla quale si sanzionava l’insediamento dell’ordine dei Cavalieri teutonici in Prussia. Politicamente però, nulla era così importante per Federico come la sistemazione della questione lombarda: e per questo aveva bisogno della chiesa. L’opinione di taluni contemporanei, che attribuirono al papa e alla curia la cattiva riuscita della dieta, è difficilmente sostenibile. Che a Roma si seguissero gli avvenimenti con una certa soddisfazione e ci si rallegrasse dell’insuccesso dell’imperatore, è comprensibile, tanto più che le difficoltà presenti di Federico tornavano a vantaggio della curia. Egli infatti si sotto­ mise a tutti i desideri del papa mostrandosi d’una arrendevolezza senza pari su tutti i punti: acconsentì all’insediamento dei vescovi in Sicilia come non ci fossero mai state fra le parti divergenze di sorta in proposito, e quando scoppiò una carestia a Roma, venne prontamente in aiuto del papa mandandogli grano dalla Sicilia. Con la pieghevolezza che gli era propria, Federico n sapeva mutare la sua tattica da un giorno all’altro, passando dalla più aspra provocazione alla maggiore arrendevolezza. Vero è che anche il papa si trovava in una difficile situazione, perché la caparbia opposizione dei lombardi poteva condurre al completo fallimento della crociata, se l’imperatore, forte delle nuove difficoltà, avesse preteso un altro rinvio. Il papa aveva adesso tutto l’interesse a sgombrargli la strada da qualsiasi ostacolo, anche apparente, creando in quella regione uno stato di cose sopportabile: a tal fine, si offrì come mediatore fra i lombardi e Federico. Non era compito facile. Dopo alcune trattative, si venne, grazie alla condiscendenza di Federico n, a un accordo provvisorio, secondo cui il papa doveva sciogliere le città dalla scomunica, l’imperatore revocare il bando, e la lega cessare le ostilità con le città imperiali (Cremona e satelliti). Era in tal modo ristabilito lo status quo, senza che Federico ottenesse soddisfazione per le offese ricevute; ma egli non curò per il momento le deficienze della sentenza papale e consentì, nell’interesse della crociata, al­ l’accordo provvisorio. Tuttavia la comunanza di vedute politiche fra papa e lombardi non poteva ormai sfuggire a Federico; il quale considerava i37

questa alleanza tra il papa e gli eretici lombardi e le città ribelli (nemiche, quindi, tanto della chiesa quanto dell’impero), un tradimento del papa verso la chiesa stessa, cioè verso la chiesa aristocratica del medioevo. Que­ sta coalizione contro natura tra chiesa ed eretici sconvolgeva l’ordinamento del mondo voluto da Dio, che si fondava appunto, aristocraticamente, sul­ l’unione fra imperatore e papa. Federico avrebbe avuto piena ragione di parlare di tradimento, se l’al­ leanza (effettivamente innaturale all’apparenza) fra la curia e i lombardi, per la quale il papa rinunciava all’unità dei due mondi, non avesse dovuto servire ad altro che a una transitoria, e personale, politica di forza. Questa stava, è vero, in primissimo piano — ma dietro i suoi strumenti, dietro i lombardi e il papato, si levò contro l’imperatore un’altra forze universale: Francesco d’Assisi e la nuova immagine di Cristo da lui suscitata. Francesco d’Assisi, il maggior contemporaneo dello Staufen, incarnava la forza segreta contro la quale Federico n già dalla culla era destinato a le­ varsi raccogliendole contro tutte le forze del mondo. Decenni addietro, l’abate Gioacchino da Fiore aveva vaticinato la venuta di entrambi i futuri antagonisti: dal fondatore di un ordine doveva risorgere l’età di Cristo e degli apostoli; la chiesa ne sarebbe stata ringiovanita; da un imperatore sarebbe flagellata. E l’abate Gioacchino aveva indicato nel figlio di Enrico vi il futuro castigatore e sconvolgitore del mondo, il precursore dell’anti­ cristo. S’avvicinò al vero: che, per rinnovare l’età di Cristo sulla terra, doveva nascere necessariamente anche l’anticristo. La leggenda narra di un incontro fra i due grandi. Tenendo Federico n corte bandita a Bari circa l’anno 1222, Francesco vi si recò per ammonire con sante parole il popolo di guardarsi dai peccati e i nobili dai pericoli della corte. L’incontro tra il giovane imperatore vittorioso e lo sposo della po­ vertà, sul piano umano presenta molti punti di contatto con quello tra Ales­ sandro Magno e Diogene. Leggende più tarde assegnano a Federico sin d’ora la parte del tentatore: conoscendo la castità del santo, tentò di in­ durlo in tentazione per mezzo d’una bella giovane, ma il tentativo fallì e l’imperatore potè constatare che quegli « viveva come predicava »; allora lasciò i cortigiani e passò parecchie ore ad ascoltare attentamente Fran­ cesco, che lo ammonì sulla salute dell’anima. Poco più in là (nel 1223), papa Onorio approvò l’ultima regola del­ l’ordine dei Frati minori, e quando Francesco morì tre anni dopo, la fiam­ ma da lui suscitata s’era ormai trasfusa in decine di migliaia di seguaci. Egli aveva, per così dire, dato forma canonica all’eresia; perché la sua con­ dotta, nei primi tempi, era in tutto apparentata con quella degli eretici, dei poveri di Lione come degli albigesi, contro i quali la chiesa condusse per anni in Provenza una guerra sanguinosa. 138

Gli eretici avevano divulgato una dottrina pericolosa, culminante nella famigerata espressione: « Si deve maggior obbedienza a Dio che non agli uomini. » Sostenevano inoltre che l’anima del singolo poteva unirsi a Dio senza l’intermediario dei preti di Roma e dei sacramenti. Appunto per combattere tale dottrina Innocenzo m aveva rialzato la dignità del sacer­ dote e rinnovato il principio basilare che il laico è legato alla mediazione del prete. Dagli eretici però san Francesco differiva in ciò: che, pur avendo in verità meno di chiunque altro bisogno del prete, riconosceva tuttavia per giusta la mediazione del prete; e anzi pose addirittura a servizio della chiesa gl’impulsi eretici, facendo egli stesso il maggior sacrifìcio col piegarsi alle necessità della chiesa universale papale. Pochi anni dopo la morte, nel 1228, Francesco d’Assisi fu dichiarato santo. Innumerevoli i suoi miracoli, ma cointeressa più da vicino, benché manchi apparentemente del fascino celeste e dello splendore serafico, la sua immagine d’un uomo, e d’un uomo completo, oggi quasi dimenticata per quella del tenero vagabondo, amoroso e mite come un bimbo — benché, secondo le parole di Dante, il santo si fosse comportato « regalmente » di fronte al papa; e vietò ai fratelli di cercare la bellezza nella Scrittura, poiché il sacro sta al di là del bello e del brutto; e appartenne al novero di quei grandi, per i quali la beatitudine dell’anima fa tutt’uno coll’esercizio se­ vero e inesorabile della « vile carne ». A lui erano molto meno dolorose le stimmate del Signore che non la terribile pressione che gravava sull’anima sua, costringendola, libera e va­ gabonda e prossima a Dio, nelle rigide e stabili forme della gerarchia di Roma. La tensione a cui gli eretici sfuggivano formando gruppi particolari al di fuori della, chiesa, Francesco la prese su di sé, malgrado la trovasse più pesante e ne soffrisse più profondamente degli altri, conscio com’era che l’unione immediata dell’anima con Dio era bensì la cosa più sublime, ma che la chiesa romana e papale restava tuttavia una necessità. Forse nessuno in quegli anni era colmo di energie esplosive per la chiesa quanto Francesco. Eppure, benché da principio non volesse saperne di ge­ rarchia, benché ricusasse di riceverne i privilegi e vietasse ai fratelli di accettare cariche ecclesiastiche, riconobbe nondimeno, in opposizione agli eretici, la chiesa una e universale, e costrinse il suo Io vasto, vivo di natura e di comunione con Dio, nelle anguste e severe leggi della gerarchia. Una tensione che, per intensità, corrispose a quell’altra, terribile, di Federico n, il suo antagonista, che si accinse a portarla a compimento sul térreno se­ colare: la contrapposizione immediata tra il singolo individuo e l’impero romano universale. Solo Dante doveva mostrare agli uomini di esser co­ scientemente in grado di sopportare a un tempo entrambe le tensioni. Per il tramite di Francesco, gli impulsi soggettivi degli eretici — già 139

messi al bando — venivano inseriti nel gran complesso della chiesa e volti al suo servizio. Il santo non sarebbe riuscito a tanto se non avesse avuto vicino a sé, amico, un cardinale della chiesa di Roma, Ugo da Ostia, posto a capo dell’ordine francescano come protettore. Questo prete, traboccante di sapienza scolastica e di erudizione, era, per sua natura, lontanissimo da Francesco ma ciò che nonostante tutto lo legava al santo, era la nostalgia della semplicità, del perdersi nel rapimento mistico — cose dalle quali il suo ufficio e il tumulto del mondo sempre più lo allontanavano. L’impulso al misticismo era però sempre stato vivo in Ugo da Ostia, che, durante la giovinezza, pieno d’ammirazione per Gioacchino da Fiore (il vero precursore di san Francesco), aveva a proprie spese fondato due conventi intitolati a Gioacchino. Ugo fu pure colui che, con la compilazione dell’ultima regola dell’ordine francescano, introdusse nella chiesa lo spirito del fondatore, e seppe conservarlo nelle confraternite dei penitenti dell’Ita­ lia settentrionale, perché non svanisse, ovvero, come pareva più probabile, non ricadesse, in quelle pericolose regioni, nell’eresia dalla quale era infine riuscito a sollevarsi. Ugo fondò ordinò amministrò confraternite di frati penitenti in ogni città. Grazie a queste, gli impulsi individualistici degli eretici, che erano un bisogno del tempo, tornavano alfine in favore della chiesa. La comunione della chiesa coi lombardi, anche di là della politica di potenza, fu dunque essenzialmente opera di Ugo da Ostia, la cui mano riteniamo di poter riconoscere spesso nei provvedimenti presi da papa Onorio durante gli ultimi anni della sua vita. L’ultima opera di Onorio m doveva essere la mediazione fra i lom­ bardi e Federico il: poco più tardi infatti, mentre l’imperatore già si accin­ geva alla crociata, egli morì (marzo .1227). Gli successe il cardinale Ugo da Ostia, l’amico di Francesco, già legato in Lombardia. Parente del grande Innocenzo, un Conti come lui, era cresciuto alla sua scuola. Come nome, ne scelse uno di grande significato: Gregorio ix. Con un tale avversario, che riuniva in sé tutte le forze anti-imperiali del tempo quando, già vecchio, salì al trono papale, doveva finire la giovi­ nezza di Federico: gli era lecito attendersi qualcosa fuori dell’ordinario, e doveva prepararsi a contrapporre quanto prima al suo avversario un im­ pero universale.

NOTE

pp. 74-78 introduzione - Fondamentale per gli anni tedeschi (1212-20) di Federico il la rap­ presentazione offerta dal Winkelmann, Otto, pp. 432-468, e Jahrb., I, pp. 3-75. Federico padrino di battesimo di Rodolfo d’Asburgo: bfw, 1082la; contro Winkel-

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mann, Jahrb., i, p. 5, nota 3, cfr. Oswald Redlich, Rudolf v. Habsburg, 1903, p. 16, nota 6. Sull’Alsazia in gen., cfr. De Rebus Alzatici;, mg-ss., xvii, p. 232 sgg., e la Descriptio Alsatie, ivi, pp. 237 sg.; inoltre la bella rappresentazione di Rudolf Wackernagel, Geschichte des Elsass, Basilea 1919, pp. 54 sgg.; sul castello palatino di Hagenau, op. cit., pp. 95 sgg.; da Goffredo da Viterbo, Speculum, nei supplementi a L. Delisle, Littérature latine et histoire du moyen age, Parigi 1890, p. 48; cfr. inoltre Aloys Meister, Die Hohenstaufen im Elsass, Strasburgo 1890; e recentemente Fedor Schneider, Kaiser Friedrich II. und scine Bedeutung fùr das Elsass, « Els.-lothr. Jahrb.», ix, 1930, pp. 137 sgg., che presenta un’abbondante rac­ colta di testimonianze letterarie L’inumazione di re Filippo: bf, 713b. La notizia sull’apertura dei sepolcri a Speyer nel 1900: Grauert, Die Kaisergràber im Dom zu Speyer., « Sitzb. Miinchen », 1900, pp. 539 sgg. L’espressione « anni di vagabondaggio» (« Wanderjahre ») in Steinen, Staatsbriefe, p. 2. La denominazione di « romani » data ai tedeschi: Pomtow, Altròmische Vorstellungen, p. 67. Anche i cristiani si Sentivano « romani »: cfr. Sàgmiiller, Die Idee von der Kirche als imperium Romanum, « Theol. Quart. Schrift », voi. 80, p. 74. Un’ottima rappresentazione del carattere della cultura tedesca all’inizio del xm secolo in Georg Dehio, Geschichte der deutschen Kunst, voi. i, 1919, pp. 205 sgg. Si rimanda inol­ tre, molto in gen., al lavoro di E. Michael S.J., Geschichte der deutschen Volkes, i cui voli, i-v, 1897-1911, si occupano esclusivamente dei « Kulturzustànden des deutschen Volkes wàhrend des xm. Jahrhunderts ». La traduzione di Ovidio: K. Bartsch, Albrecht von Halberstadt und Ovid im Mittelal­ ter, Quedlinburg 1861, introduz., pp. cxxvm sgg.; Otto Runge, Die Metamorphosenverdeutschung Albrechts v. Halberstadt, « Palaestra », quad. 37, Berlino 1908. La lettera del cancelliere Corrado di Querfurt in Arnoldo da Lubecca, mg-ss., xxi, p. 193, v cap., 19; per i rapporti spirituali della Germania centr. col meridione, cfr. Eugen Rosenstock, Ostfalens Rechtsliteratur unter Friedrich II., Weimar 1912, partic., pp. 114 sgg. D’importanza generale per la composizione del clero tedesco: Aloys Schulte, Der Adel und die deutsche Kirche im Mittelalter, « Kirchenr. Abh. », quadd. 63/64, 2a ed., Stoccar­ da 1922.

pp. 78-81 i cistercensi - La letteratura sull’ordine cistercense in M. Heimbucher, Die Orden und Kongregationen der katholischen Kirche, 27 ed., Paderborn 1907/1908, voi. i, pp. 420 sgg.; L. Janauschek, Der Cisterzienser-Orden, Briinn 1884; F. Winter, Die Cisterzienser des nordòstlichen Déutschlands, Gotha 1860-71. Cfr. inoltre su scala più generale i compendi di A. Harnack, Das Mònchtum. Seine Ideale und seine Geschichte, 7* ed., Giessen 1907; e A. Hauck, kgd, voi. iv, pp. 337 sgg. Le fonti per la storia della fondazione dell’ordine in Tissier, Bibliotheca patrum Cisterciensium, voi. i, Bonofonte 1660; le decisioni del capitolo generale in Martène et Durand, Thesaurus anecdotorum novus, voi. iv, pp. 1243 sgg. Sopra san Bernardo v. i recenti lavori di Steinen, Bernhard von Clairvaux, Breslavia 1926, e del medesimo autore, Vom heiligen Geist des Mittelalter;, Breslavia 1927, con esauriente bi­ bliografìa. Per l’appellativo di « doctor mellifìuus », cfr. F. Ehrle, Die Ehrentitel der scholastischen Lehrer des Mittelalters, « Sitzb. Miinchen », 1919, Abh. 9, p. 39, n. 58. Sul culto mariano dell’ordine cisterc.: Stephan Beissel S.J., Geschichte der Verehrung Maria; in Deutschland wàhrend des Mittelalters, quaderni di complem. alle « Stimmen aus Maria-Laach », quad. 66, Friburgo 1896, pp. 63 sgg. Cfr. anche le note di Hauck, kgd, iv, p. 354. I versi danteschi: Par., xxxi, pp. 100 sgg. L’architettura cistercense: Dehio, op. cit., voi di testo i, pp. 249 sgg.; Hans Rose, Die Baukunst der Cisterzienser, 1916; Riittimann, Bau- und Kunstbetrieb der Cisterz., diss., Friburgo svizz. 1911. Le parole d’elogio di Federico: bf, 823, hb, i, p. 412. Esse sono tuttavia frasi comuni alle arringhe imperiali: cfr., p. es., il medesimo loro impiego presso Ottone iv: wact., i, p. 16, n. 25, dove ricorre anche il luogo: « et viventes inter homines, viventes tamen super homines ». Sull’importanza in campo economico dell’ordine, cfr. i lavori di E. Hoffmann, Die Entwicklung der Wirtschaftsprinzipien im Cist.-Orden, « Hist. Jahrb. », xxxi, 1910, pp. 699 sgg.; e Das Konverseninstitut des Cist.-Ordens, « Freiburger Hist. Stud. », quad. i, Friburgo svizz. 1905; H. Muggenthaler, Kolonisatorische und wirtschaftliche Tàtigkeit eines deutschen Zisterzienser-Klosters im XII. und XIII. Jhdt, Deutsche Geschichtsbucherei, voi. n, Monaco 1924; Ludwig Dolberg, Cisterciensermonche und Conversen als Landwirthe und Arbeiter, HI

« Stud. u. Mitt. a. d. Bened. u. Cisterc. Ord. », voi. xni, 1892, pp. 216 sgg., 360 sgg., 503 sgg. Cfr. inoltre Hauck, kgd, iv, pp. 349 sgg.; Theo Sómmerlad, Die wirtschajtliche Tatigkeit der Kirche im mittelalterlichen Deutschland, « Jahrb. f. Nat.-Okon. und Stat. », serie in, voi. 7, 1894, pp. 664 sg.; G. Uhlhorn, Der Einfluss der wirtschaftlichen Verhàltnisse auf die Entwicklung des Mònchtums im MA., « Ztschr. f. Kirch.-Gesch. », voi. xiv, 1894, pp. 364 sgg. Del diffondersi dell’ordine e delle sue filiazioni conventuali offre un quadro chiaro L. Janauschek, Origines Cisterciensium, voi. i, 1877; per la Germania v. Hauck, kgd, voi. iv, pp. 340-345; inoltre M. Gloning, Verzeichnis der deutschen Cisterzienserabteien und Priorate, « Stud. u. Mitt. a. d. Bened. u. Cisterc. Ord. », n.f., v, 1915, pp. 2-42; ivi, voi. vi, 1916, pp. 2-45, il lavoro di B. Hiimer sui conventi di suore cistercensi in Germania. Per la colonizzazione orientale v. la sopracit. opera del Winter e le testimonianze let­ terarie riportate da Hauck, loc. cit., p. 349, nota 4. La colonizzazione cisterc. in rapporto all’architettura: Dehio, op. cit., pp. 279 sgg. Proverbiale la predilezione dell’ordine per le valli: Bernardus valles, montes Benedictus amabat, oppida Franciscus, celebres Ignatius urbes.

I particolari rapporti tra Federico il e l’ordine cist.: P. Opladen, Die Stellung der deutschen Kònige zu den Orden, diss., Bonp 1908, pp. 20 sgg.; e più specialmente la diss. non stampata, Heidelberg 1922, di Liselotte Wulff, Der Hohenstaufe Friedrich II. und die Benediktiner und Cisterzienser in Deutschland und Italien. Sull’esenzione dell’ordine: G. Schreiber, Kurie und Kloster im XII. Jhdt, « Kirchenrechtlich. Abhandlungen », quadd. 65-68, Stoccarda 1910, voi. i, pp. 83 sgg., n, pp. 272 sgg.; del medesimo autore, Studien zur Exemtionsgeschichte der Cisterzienser, zfrg, voi. 35, kan. Abt. 4, 1914, pp. 74 sgg. La questione del governatorato imperiale sull’ordine ha dato luogo al sorgere d’un’ampia controversia fra Hans Hirsch, Die Klosterimmunitàt seit dem Investiturstreit, Weimar 1913, cap. iv, pp. 99 sgg., 122 sgg., 126; del medesimo autore, Studien ùber die Vogteiurkunden der suddeutschosterreichischen Cist.-Kloster, « Archivai. Ztschr. », serie in, voi. 4, 1928, pp. 1-37; e H. Zeiss, Zur Frage der kaiserlichen Cisterzienservogtei, « Hist. Jahrb. », voi. 46, 1926, pp. 594 sgg.; cfr. del medesimo autore, Reichsunmittelharkeit und Schutzverhàltnisse der Zisterzienser-Abtei Ebrach, diss., Monaco 1927. Le donazioni di Federico n all’ordine sono raccolte da Opladen, op. cit., pp. 22 sgg., e da Wulff, op. cit. Sul favore mostrato dall’imperatore all’ordine ancora negli ultimi tempi (30 gennaio 1249), cfr. qf, xv, p. 260. Federico n accolto nella comunità cisterc.: bf, 824, wact., i, n. 131, p. 110, e bf, 943, wact., i, n. 149, p. 126. Cfr. Steinen, Staatsbriefe, p. 21, n. 2. La stessa cosa per Ottone iv: Arnoldo da Lubecca, mg-ss., xxi, p. 247, vii cap., 17, bf, 279a. I Cistercensi mediatori fra imperatore e papa: Winter, op. cit., voi. i, p. 89. Com’è noto, gioco una parte non insignificante nell’entourage di Ottone iv l’abate Heidenreich di Morimund: cfr. p. es. Chron Ursperg., mg-ss. Oktav, p. 100. Cfr. anche hb-pierre, p. 150, 414, n. 103. L’ordine all’interno dell’amministrazione: Nitzsch, Deutsche Studien, p. 49; e sopratt. Arthur Haseloff, Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, voi. di testo i (Lipsia, 1920), pp. 31 sgg. e p. 425, il quale, accanto alla nota testimonianza del cronista di S. Maria Ferrara (ed. Gaudenzi), p. 38 (all’anno 1224), reca gran numero d’esempi di altri impieghi dei Cisterc. nell’ambito dell’amministrazione imperiale. Per quanto riguarda l’impiego di conversi a opera dell’arcivescovo di Colonia, cfr. Cesa­ rio di Heisterbach, Dial. mirac., iv, 62 ed.; Strange, voi. i, p. 230; gen. il cit. lavoro di L. Dolberg, in « Stud. u. Mitt. a. d. Bened. u. Cister. Ord. », voi. xm. Per il gotico nell’Italia meridionale: Dehio, Kunsthistorische Aufsàtze, 1914, pp. 101 sgg.; Bertaux, L'art dans l'Italie meridionale, voi. i, p. 749; Haseloff, op. cit., pp. 27 sgg.

pp. 82-87 l’ordine dei cavalieri teutonici - Sugli ordini cavallereschi v. in gen. .Hans Prutz, Die geistlichen Ritterorden, Berlino 1908; ivi, pp. 74 sgg., 88 sgg., si tratta dei legami fra gli ordini cavallereschi, specialmente di quelli spagnoli coi Cistercensi; cfr. anche Prutz, « Sitzb. Miinchen », 1905, p. 11. Gli dà contro, e a ragione, Schnuerer, Zur ersten Organisation der Templer, «Hist. Jahrb.», 32, 1911, pp. 298 sgg., 511 sgg.

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Il trattato di san Bernardo « De laude novae militiae » in migne-pl, 182, pp. 921 sgg., 927; cfr. anche Steinen, Bernhard v. Clairvaux, Breslavia 1926. Sulle battaglie dei Templari così si esprime Giovanni di Salisbury, vii, c. 21, ed. Webb, Oxford 1909, voi. n, p. 198: « qui pene soli inter homines legittima gerunt bella ». Per l’« uniformitas » spec. presso i Cavalieri teutonici: Erich Caspar, Hermann von Salza und die Grùndung des Deutschordensstaats in Preussen, Tubinga 1924, p. 52, nota 223. I diplomi riguardanti l’ordine dei Cavalieri teutonici in E. Strehlke, Tabulae ordinis Theutonici, Berlino 1869; le regole dell’ordine in M. Perlbach, Die Statuten des Deutschritterordens, Halle 1890. Manca pel momento ancora di descrizioni particol. una storia a grandi linee dell’ordine, che essa si occupa spec. della storia della Prussia: Johannes Voigt, Geschichte Preussens, voi. il, Konigsberg 1827, che è opera invecchiata; Max Oehler, Geschichte des deutschen Ritterordens, Elbing 1908 sg., inutilizzabile. Per un orientamento si trova tutto l’essenziale in Prutz, op. cit., pp. 101 sgg. Innocenzo ni concede ai Cavalieri teutonici la regola dei Templari (19 febbraio 1199): Potth., 606, Strehlke, p. 266, n. 297. La parificazione cogli altri due ordini avvenne solo con Onorio m (9 gennaio 1221): Potth., 6473; Strehlke, p. 281, n. 309; e appunto su istanza di Federico: bf, 1371, hb, ii, p. 224. La malevolenza degli altri ordini è dimostrata p. es. dall’annosa contesa sul mantello bianco dell’ordine: Potth., 4068; Strehlke, p. 269, n. 299; Potth., 6474, 6814; Strehlke, p. 280, n. 308, p. 322, n. 368; cfr. Prutz, op. cit., p. 102; Grumblat, Ober einige Urkunden Friedrichs II. fiir den Deutschen Orden, mióg, xxix, p. 409 sgg. La meschinità della poesia riguard. l’Ordine Teutonico è dimostrata da F. Gulhoff, Der deutsche Ritterorden in der deutschen Dichtung des Mittelalters (Programm Zaborze o.-s., 1907). I rapporti dell’imperatore con l’Ordine Teutonico in P. Opladen, Die Stellung der deutschen Kónige zu den Orden, diss., Bonn 1908, pp. 26 sgg. Su donazioni particolari v. p. es. bf, 747, 1307; hb, i, 313; hb, ii, p. 160 — donaz. riguardanti feudi dell’impero. Federico stesso mette in rilievo il suo appello al papa in favore deh'ordine: bf, 1371. La richiesta è esaudita nel gennaio e nel febbraio 1221: v. Potth., 6486-6522, 6544-6561. Sugli ordini mendicanti cfr. p. es. bf, 2409; Salimbene, mg-ss., xxxii, p. 39 — e le note a p. 370, capoverso 13 sg., oltre all’Appendice v, n. 25, p. 725, in rapporto a san Tom­ maso d’Aquino. Hohenlohe: entrarono nell’ordine i fratelli Enrico, Andrea e Federico di Hohenlohe (bf, 1084-86, 1126). Enrico di Hohenlohe, nel 1239 « Landmeister » dell’ordine per la Germa­ nia (bf, 4396), diventa gran maestro (« Hochmeister ») nel 1224 dopo l’abdicazione di Gerardo di Malperga: O. Schreiber, Die Personal- und Amstdaten der Hochmeister bis 1525, Oberlànd. Gesch.-Blàtter xv (1913) p. 658. Due altri fratelli, Goffredo e Corrado di Hohenlohe, entrarono in stretto rapporto col­ l’imperatore: Archiv /. Hohenlohische Gesch., n, 1870, pp. 215-238, 349-366; Ficker, Forschungen, il, § 397, pp. 488 sgg.; K. Weller, Gottfried und Konrad v. Hohenlohe im Dienste Frie­ drichs IL, Wurttemb. Viertelj.-Hefte N. F., voi. 5, 1897, pp. 209 sgg. Incarichi particolari affidati a cavalieri dell’ordine: costruzione di navi: wact., i, n. 261, p. 238; corrieri come il fratello Leonardo (probabilmente si tratta di Leonardo di Bretenorio: bfw, 12939): bf, 1736a, mg-const., ii, p. 162, riga 27; un cavaliere dell’ordine doveva accom­ pagnare la sposa dell’imperatore dalla Siria a Brindisi (si tratta probabilmente di Enrico di Hohenlohe: cfr. K. Weller, Geschichte des Hauses Hohenlohe, Stoccarda 1904, voi. i, p. 116): hb, ii, pp. 921 sg., Winkelmann, Jahrb., i, p. 243; il trattato fra Luigi ix di Francia e Fede­ rico li fu stipulato da un Cavaliere teutonico, Giovanni, priore dell’ordine in Francia: bf, 1986, hb, iv, p. 354; capitani di truppe: bf, 2337. E gli esempi potrebbero esser moltiplicati; che non senza ragione osserva nel 1239 Alberto di Beham (ed. Hofler, p. 14), che « consilio (dei Cavalieri teutonici) et quorundam aliorum imperium nunc gubernatur »; cfr. anche bf, 4396. Ricorderemo qui anzitutto il Cavaliere teutonico Bertoldo di Tannerode, il quale funse da « procurator rerum imperialium in Alsatia » a partire dal 1236 (cfr. bfw, 11183, 11214, bf, 4389); egli succedeva al noto balivo Wolfhelm di Hagenau, dopo esser già stato — dal 1225 — alla corte di re Enrico vii; su Bertoldo procuratore in Alsazia cfr. Niese, Die Verwaltung des Reichsg,utes im 15. Jhdt, Innsbruck 1905, pp. 274 sgg. Il privilegio in base al quale il gran maestro dell’ordine e dei fratelli dovevano appar­ tenere alla « famiglia »: bf, 842, hb, i, p. 439, Strehlke, p. 239, cfr. p. 242. Re Enrico vii, in quanto re tedesco, conferisce al maestro dell’ordine in Germania (« Landmeister ») lo stesso

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privilegio, portando il numero dei fratelli beneficiari a sette: bf, 4038, hb, hi, p. 309. Riguardo ad Alfonso vili di Castiglia v. Prutz, op. cit., p. 85, nota 6. Il rifarsi dell’ordine a Barbarossa e ad Enrico vi: bf, 1309, 1370, 1786. Che a ciò si desse valore, mostra il paragone di bf, 1307 e 1309; l’ordine doveva essere creazione pretta­ mente e ùnicamente staufìca: e difatti in bf, 1458 e 1459, Enrico vi è detto « fundator » dell’ordine; cfr. anche Toeche, Jahrb. Heinrichs VI., pp. 463 sgg. Anche Federico parla una volta di esso come di « nostra structura »: bf, 1423, hb, il, p. 282; cfr. H. Grumblat, miòg, xxix, pp. 412 sgg. Hermann von Salza (Ermanno di Salza): G. Dasse, Hermann v. S. als Sachwalter und Ratgeber Friedrichs IL, diss., Berlino 1867; A. Lorck, Hermann v. S. Sein Itinerar, diss., Kiel 1888; A. Koch, Hermann v. S., Meister des deutschen Ordens, Lipsia 1883; recentemente il succitato lavoro di Erich Caspar, H. v. S. und die Griindung des Deutschordenstaats in Preussen, Tubinga 1924. Inoltre: Willy Cohn, Hermann v. Salza, Breslavia 1930. La Turingia: noto lo strettissimo rapporto fra questa regione e l’Ordine Teutonico; nessun ceppo d’altre regioni diede tanti gran maestri all’ordine, quanti la Turingia (Schreiber, Amtsdaten, p. 645): e fu Corrado landgravio di Turingia a succedere a Ermdnno di Salza. Sui turingi nell’ordine cfr. le testimonianze letterarie riportate in Caspar, op. cit., p. 91, nota 176. Winkelmann, Friedrich, voi. il, p. 25, rileva che la landgravia Elisabetta stava, come santa, particolarmente a cuore all’ordine: cfr. anche bf, 2152a. La Turingia era anche la più antica balia dell’Ordine Teutonico. Ermanno di Salza circoscrive egli stesso il suo compito, in una delle poche lettere che di lui ci rimangano, con queste parole: « sicut ille qui honorem ecclesie et imperii diligit et utriusque exaltationi intendit » (bf, 1739, mg-const., ii, n. 123, p. 167). La stessa cosa dice Federico: bf, 2225, hb, v, p. 33, e Gregorio ix: bfw, 7146, mg-epp. pont., i., n. 691, p. 588, bfw, 7147, mg-epp. pqnt., i, n. 692, p. 589. La presenza di H. v. S. a Norimberga nel 1216 in rapporto con le donazioni all’ordine (bf, 877-878, 887-888), è assunta da Koch, op. cit., p. 15, e da Lorck, op. cit., p. 6. Per i rapporti con la'Danimarca cfr. Winkelmann, Jahrb., I, pp. 418-446. L’osservazione del cronista Livonio: Heinrici Chron. Lyvoniae, mg-SS. Oktav, p. 168, c. xxiv, 4; cfr. Caspar, op. cit., p. 76, nota 97. Il trattato di pace con la Danimarca: bfw, 10922, mg-co^st., ii, n. 101, p. 127. Lubecca: bf, 1636, hb, i, p. 626; cfr. i saggi su Lubecca di F. Ròrig, Hansische Beitrdge zur deutschen Wirtschaftsgeschichte, « Veròfientlich. d. schlesw.-holst. Universitàts-Ges. », voi. 12, Breslavia 1928. Gli scritti comparsi in occasione del giubileo di Lubecca per il settimo centenario dalla sua fondazione a città imperiale, non offrono alcunché di nuovo su questo periodo; cfr. na, xlvii, pp. 303 sg., 365. Lo stabilirsi dell’ordine in Prussia e la fondazione dello stato dell’Ordine Teutonico: cfr. il più volte citato scritto di E. Caspar, Hermann v. Salza ecc., Tubinga 1924, nel quale viene elaborata anche tutta la letteratura sul problema; v. inoltre l’opera del Caspar, Vom Wesen des Deutschordensstaates, Kònigsberger Universitàtsreden, quad. 2, 1928. La Bolla d’oro di Rimini: bf, 1598, hb, ii, p. 549, e VExcursus in Caspar, Hermann v. Salza, pp. 103 sgg. La teoria della missione imperiale: Caspar, op. cit., p. 14; Vehse, Propaganda, p. 7, nota 10, sfiora soltanto questa teoria e non l’annovera fra le « idee guida » (§ 13, pp. 175 sgg.) della pubblicistica imperiale. Tuttavia torna sempre in luce la frase pronunciata in occasione del privilegio conferito all’ordine, la quale spiega che l’impero è stato posto , da Dio sopra tutti i re della terra « ad ... fidem in gentibus propagandam, prout ad predicationem evangeli! sacrum Romanum imperium preparavit ». Analogamente, nel 1239, l’imperatore si duole coi cardinali del papa, il quale « in Romanum intendit principem, advocatum ecclesie, ac ad predicationem evangelii stabilitum... ». La stessa frase torna pure in bf, 3185, hb, v, p. 1099, e nel manifesto contro i tartari (bf, 3216, Matth. Paris., mg-ss., xxviii, p. 210): « Romanum imperium, velut ad predicacionem euangelii preparatum ». Solo recentemente Hans Hirsch, Der mittelalterliche Kaisergedanke in den liturgischen Gebeten, miòg, xliv, 1930, p. 4, poteva far notare come tale teoria risuoni nelle parole della « missa prò regibus »: « Deus qui predi­ cando aeterni regni evangelio Romanum imperium praeparasti... » Un testo della messa in Eichmann, Die Ordines der Kaiserkrònung, Zfrg, voi. xxxm, Kanon. Abt., voi. n, 1912, p. 43; cfr. in generale anche Burdach, Rienzo, p. 640. , Sulla missione particolare in Prussia, v. il recente lavoro di Erich Maschke, Der deutsche Orden und die Preussen. Bekehrung und Unterwerfung in der preussisch-baltischen Mission des 13. Jhdts., « Hist. Stud. », quad. 176, Berlino 1928.

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Le terre incolte come quelle pagane erano di proprietà del monarca: cfr. Caspar, op. cit., p. 14 e p. 71, nota 68. Si ricordi che il diritto musulmano condivideva tale teoria: le terre incolte erano di proprietà esclusiva dell’imano; cfr. p. es. N. di Tornauw, Das moslemische Rechi, Lipsia 1885, pp. 52, 225 sg.; Querry, Le droit musulman, voi. n, Parigi 1872, pp. 295 sg.; Sachau, Muhammedanisches Recht nach schafiitischer Lehre, Berlino 1897, p. 591. pp. 87-95 la situazione tedesca sino al 1220 - I rapporti di Federico con le città tedesche: Winkelmann, jahrb., i, p. 59-64; recentemente il lavoro di F. Knopp, Die Stellung Friedrich; II. und seiner beiden Sòhne zu den deutschen Stàdte'n, « Hist. Studien », quad. 181 (1928); cfr. anche Franzel, Kònig Heinrich VII. von Hohenstaufen, Praga, 1929, pp. 150 sgg.; Herold, Kònigtum und Stàdtewesen in Deutschland unter den letzten Staufern (diss., non stampata; Kiel 1924); E. Rutimeyer, Stadtherr und Stadtburgerschaft in den rheinischen Bischofsstàdten, Stoccarda 1928. Per la riunione di privilegi sparsi in un solo grande privilegio, istruttivo per esempio il diploma del luglio 1219 a favore di Goslar: bf, 1025, hb, i, p. 643; cfr. su questo diploma Knopp, op. cit., p. 20, nota 64. La nota risoluzione « ibi sit Alemanie curia ubi 'persona nostra et princjpes imperii nostri consistunt... », in hb, ii, p. 630, bf, 1638; cfr. a tale proposito anche Fickerpuntschart, Vom Reichsfùrstenstande, voi. n, 2, Graz-Lipsia 1921, § 420, pp. 161 sgg. onorio in - I regesti di codesto papa sono editi da P. Pressutti, Regesta Honorii Papae III, Roma, 1888-95. Sul « liber censuum » cfr. P. Fabre e L. Duchesne, Le liber censuum de l’église Romaine, Parigi 1889-1910; P. Fabre, Étude sur le liber censuum de l’église Romaine, Parigi 1892; e inoltre I. Clausen, Papst Honorius III, Bonn 1895; W. Knebel, Kaiser Friedrich IL und Papst Honorius III., diss., Miinster 1905; una rappresentazione generale di tutto il periodo in Winkelmann, Jahrb., i, pp. 12 sgg., 35 sgg.; Hauck, kgd, iv, pp. 777 sgg., 785 sgg.; Hampe, Kaisergeschichte, pp. 220 sgg. Sulla crociata cfr. R. Ròhricht, Studien zur Geschichte des funften Kreuzzuges, Innsbruck 1891; O. Hassler, Pelagius Galvani, diss., Basilea 1902; J. Greven, Frankreich und der funfte Kreuzzug, «Hist. Jahrb. », 43, 1923, pp. 15 sgg.; v. la bibliografia ivi citata. Il problema dell’unione: H. v. Kap-Herr, Die « unio regni ad imperium », dzfgw, voi. I, pp. 96 sgg., 331 sgg.; v. nota a p. 146, capoverso 4. L’elezione del re a Francoforte: Winkelmann, Jahrb., i, pp. 39 sgg., 523 sg.; cfr. inoltre la controversia fra Bloch, Staufische Kaiserwahlen, pp. 109 sgg., e Krammer, Reichsgedanke, pp. 52 sgg.; sostiene una posizione mediatrice Franzel, Kònig Heinrich VII., pp. 32 sgg. Per il governo della Germania in caso non avesse avuto luogo l’elezione di Enrico, cfr. Winkelmann, Jahrb., I, p. 41. Il « Privilegium in favorem principum ecclesiasticorum »: mg-const., ii, n. 73, p. 86; su ciò cfr. L. Weiland, Friedrich; IL Privileg fùr die geisthchen Fiìrsten. Historische Aufsdtze zum Andenken an G. Waitz, 1886, pp. 249 sgg.; ivi anche il saggio di Rodenberg, Friedrich II. und die deutsche Kirche-, inoltre Winkelmann, Jahrb., i, pp. 64 sgg. Sui versi citati di Walther v. d. Vogelweide (in Lachmann 29 e 15), cfr. Burdach, Walther, voi. i, pp. 82 sg.

pp. 95-99 il viaggio a ROMA e l’incoronazione a imperatore - La lettera di Federico a Onorio: 1156, bact., n. 276, p. 244; la scomunica formale dell’imperatore quale crociato renitente e lo scioglimento dal bando: mg-epp. pont., i, n. 178, p. 125, riga 15. L’itinerario del vescovo Corrado di Metz: BFW-introduz. p. cxxxvi; sulla sua legazione cfr. Ficker, Forschungen, n, § 283, pp. 156 sg.; la situazione nel regno d’Italia: Win­ kelmann, Jahrb., I, pp. 76-105. Le espressioni trovadoriche su Federico n sono raccolte in Wittenberg, Die Hohen­ staufen im Munde der Troubadours (diss., Miinster 1908) e in De Bartholomeis, Os­ servazioni sulle poesie provenzali relative a Federico II, « Memor. accad. di Bologna », serie i, voi. vi, 1911, pp. 97 sgg. Sono in questione in tale epoca Aimeric di Pegulhan (Wittenberg, pp. 56, 96); G. Figueira (ivi, pp. 54, 95); Folquet de Romans (ivi, pp. 83 sg., 109); Rambaut de Belioc (ivi, pp. 58, 97). Della « puerilis etas » di Federico parlano in modo nient’affatto amichevole gli « An­ nal. Januens. », mg-ss., xviii, p 147 all’anno 1221; ivi, p. 147, riga 25, il bisticcio « fuit ei Janua porta ». bf,

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Sempre gli « Annal. », p. 146, riga 2 sgg., dicono l’essenziale sul rifiuto dei privilegi. Il soggiorno a Bologna comincia il 5 ottobre, se si accetta bf, 1182, 1183. Pura congettura, benché altamente probabile, che proprio allora, e a Bologna, abbia avuto luogo rincontro col giurista Roffredo da Benevento: cfr. Giovanni Ferretti, Roffredo Epifanio da Benevento, « Studi mediev. », in, 1908 sgg., pp. 250 sg. Roffredo doveva co­ munque appartenere al seguito dell’imperatore già prima del suo arrivo a Roma, visto che è lui stesso a scrivere: « ... qualiter vidi iurare principes domino Imperatori... quando veni cum domino meo imperatore Frederico ad coronandum »; cfr. Ferretti, op. cit., p. 251, nota 1. Egli entrò in ogni caso molto presto al servizio dello stato, ché lo troviamo gran giudice di corte già nel marzo 1221: cfr. Niese, qf, ix, pp. 238 e 250; già prima compare egli come « judex » in calce a un diploma imperiale: bf, 1248, hb, ii, p. 72. La decisione di tener la Sicilia separata dall’impero: bf, 1201, mg-const., ii, n. 84, p. 105. Della massima importanza la rinuncia alla Sicilia da parte dell’impero: « ... profitemur, imperium nichil prorsus iuris habere in regno Sicilie nec nos racione imperii obtinere aliquid iuris in ipso, cum ad nos non racione patris... sed ex matris tantum successione pervenerit, que a regum Sicilie stirpe descendit, qui regnum ipsum ab ecclesia romana tenebant. » Dove è detto a chiare lettere che l’impero, in quanto tale, non aveva pretese da accampare sull’isola; il che — come appunto sottolinea H. v. Kap-Herr, dzfgw, i, pp. 104 sgg. — stava in aperto contrasto con talune opinioni del tempo, secondo le quali la Sicilia era sempre e senza riserve appartenuta all’i m p e r o. Alle testimonianze citate dal Kap-Herr s’aggiunge anche quella, importante, delle «Chron. Reg. Colon.»; mg-ss. Oktav, p. 186 (cfr. Hampe, «Hist. Viert.», iv, pp. 177 sgg.), dove, all’anno 1210, si legge che alcuni grandi di Puglia resero omaggio e prestarono giuramento di vassallaggio a Ottone iv, a Foligno, « sacramento fidei firmiter attestantes, in Apulia nullum debere regnare, nisi regnum et coronam ab Romano imperatore suscepisset ». E la cronaca aggiunge: « sed utrum hec in dolo facerant necne, incertum habetur ». Il Baethgen, Regentschaft, pp. 4 sg., ha tentato di dar a credere che anche Filippo di Svevia aveva sostenuto tali privilegi dell’impero (cfr. del resto anche Perels, Der Erbreichsplan Heinrichs VI., p. 71). Malgrado la rinuncia di Federico, restò viva ancora a lungo l’opinione che la Sicilia fosse feudo dell’impero, non della chiesa. Ecco p. es. un giurista imperiale del tempo del viaggio a Roma di Enrico vii, spiegare che la Sicilia non era affatto soggetta feudalmente alla chiesa, ma « quod regnum Sicilie et specialiter insula Sicilie sicut et cetere provincie sunt de imperio»; aggiungendo che anche gli esperti di diritto canonico ammettevano « quod imperator est dominus mundi... ergo et regni Sicilie dominus est»; cfr. mg-const., iv, n. 1248, pp. 1315 sg. V. ora anche K.L. Hitzfeld, Studien zu den religiòsen und politischen Anschauungen Friedrichs III. von Sizilien, « Hist. Stud. », quad. 193, 1930, pp. 58 sg. L’elemento provvidenziale della sua ascesa è rilevato dall’imperatore stesso p* es. nei luoghi più salienti della circolare emanata in occasione della prima scomunica del dicembre 1227 (mg-const., li, n. 116, p. 150): «...per nos derelictum, quem mirabiliter preter humanam conscientiam conservarat »; e nel proemio al codice siculo (Carcani, p. 2, hb, iv, p. 4): « Nos itaque quos ad imperii Romani fastigia... sola divine potentie dextra preter spem hominum sublimavi! »; o in una costituzione per il governo italico (Hessel, na, xxxi, p. 724): « Nos itaque, quos ad regimen domus imperli preter multorum spem et plurium voluntatem divina provisio mirabiliter evocavit »; oltre che nello scritto trionfale ai romani del gennaio 1238 (bf, 2311, hb, v, p. 161; cfr. nota a p. 510, capoverso 16), nel quale ricorda la sua par­ tenza da Roma; cfr. a questo proposito, Burdach, Rienzo, pp. 353 sg. In un’altra lettera ai romani è ricordato che la volontà di rinnovamento della dignità cesarea («continuata voluntas ») «...cum dignitate succedente concrevit »: bf, 2199, hb, v, p. 761, wact, il, n. 30, p. 28. Sull’incoronazione: Winkelmann, Jahrb., i, pp. 109 sg. L’« ordo » dell’incoronazione che prese ad esser impiegato è il cosiddetto « ordo » del terzo periodo (zfrg, xxxiii, kan. Abt., n, pp. 37 sgg.), quasi identico a quello dell’incoro­ nazione dell’imperatore Enrico vii (mg-const., iv, n. 644, pp. 609 sgg.), che fu posto a base della njia rappresentazione; cfr. i vari lavori di E. Eichmann: Die Ordine; der Kaiserkrónung, zfrg, xxxiii, kan. Abt., voi. il, 1912, pp. 32 sgg.; Studien zur Geschichte der abendlàndischen Kaiserkrónung, « Hist. Jahrb. », 45, 1925, pp. 21 sgg.; ivi, pp. 516 sgg., v. Die sogenannte rómische Kónigskrónungformel. Recentemente: P.E. Schramm, Die Ordine; d. ma’lichen Kaiserkrónung, « Arch. f. Urk.-Forsch. », xi, pp. 285 sgg. Sui rapporti fra consacrazione a sacerdote e consacrazione a sovrano cfr. F. Kern, Gottesgnadentum, pp. 80 sgg.; E. Eichmann, Kónigsweihe und Bischofsweihe. Sitzb. Monaco

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1928, Abh. 6; K.G. Hugelmann, Die Wirkungen der Katserweihe nach dem Sachsenspiegel, kan. Abt., voi. ix, pp. 1 sgg. L’assunzione fra i canonici di San Pietro: E. Eichmann, Das Exkommunikationsprivileg des deutschen Kaisers im Mittelalter, zfrg, xxxii, kan. Abt., voi. i, 1911, pp. 192 sg.; Kern, Gottesgnadentum, p. 84, nota 148, che ricorda il modello bizantino. L’unzione: E. Eichmann, Die rechtliche und kirchenpolitische Bedeutung der Kaisersalbung im Mittelalter, « Festschrift fur G. v. Hertling », Kempten e Monaco 1913, pp. 269 sg.; ivi, note 8-11, si parla della « dignitas ecclesiastica» dell’imperatore; cfr. inoltre Kern, Gottesgnadentum, pp. 114 sgg. L’imperatore « scudiero » (strator): Robert Holtzmann, Der Kaiser als Marse hall des Papstes, « Schriften der Strassburger Wissensch. Ges. », nuova serie vili, Berlino-Lipsia 1928; cfr. anche la replica di Eichmann, Das Officium stratoris et strepae, hz, 142, 1930, pp. 16 sgg. I decreti dell’incoronazione: mg-const., ii, n. 85 pp. 106 sgg.; lo scritto ai docenti e agli scolari bolognesi, ivi, n. 86, p. 110; cfr. Winkelmann, jahrb., i, pp. 112 sgg. I rapporti coi romani: Gerda IJàseler, Die Kaiserkrònungen in Rom und die Rómer, Friburgo 1919, pp. 115 sg. zfrg, xl,

pp. 100-109 contro la nobiltà feudale - Sui grandi di Sicilia presenti all’incoronazione v. Win­ kelmann, Jahrb., I, p. Ili, nota 2. Riguardo alla presenza del conte d’Ajello: ivi e bfw, 6406; su quella di Roffredo da Benevento: v. nota a p. 146, capoverso 3. Su Raniero da Manente: Baethgen, Regentschaft, p. 88, nota 3; Winkelmann, Jahrb., i, p. 129, e Otto, p. 407, nota 1. Sulle sue azioni si diffonde ampiamente la lettera di Federico a papa Onorio: bf, 1097, wact., i, n.-176, pp. 154>sg.; cfr. bfw, 6378, 6379, mg-epp. pont., i, n. 120, p. 85; n. 121, p. 86. La liberazione del conte Raniero avvenne soltanto dopo l’inco­ ronazione: bfw, 12650, wact., i, n. 599, pp. 480 sg. Che ci si aspettasse da parte imperiale severe misure contro i grandi di Sicilia, è provato da uno scritto indirizzato a Federico da un cardinale:' bfw, 12651, wact., i, n. 601, p. 481. Il decreto « De resignandis privilegiis » uscì col tit. xv dalle assise di Capua: Ryccard., ed. Gaudenzi, p. 102; esso fu rinnovato nel liber aug., ii, 29 (carcani, p. 139, hb, iv, p. 100). Sui precedenti del decreto: Scheffer-Boichorst, Das Gesetz Kaiser Friedrichs lì. « De resignan­ dis privilegiis », Sitzb. Berlino 1900, pp. 132 sgg.; e Zur Geschichte des 12. u. 13. Jhdts, « Hist. Stud. », quad. 8V 1897, pp. 244 sg.; inoltre: Caspar, Roger II., pp. 320 sgg.; Niese, Die Gesetzgebung der normannischen Dynastie im regnum Siciliae, Halle 1910, pp. 115 sgg.; cfr. le osservazioni del medesimo a questo decreto in Gotting. Nachr., 1912, pp. 388 sg. Federico'giustifica la legge di fronte al papa: bf, 1295, mg-const., ii, n. 417, p. 547. Le discussioni (bf, 1260b; Winkelmann, Jahrb., i, pp. 132 sg.) sono esaminate dalla cronaca di Riccardo da San Germano, che' ne dà il testo completo; cfr. tuttavia Winkelmann, Jahrb., i, pp. 527 sgg., § 6. Ivi, p. 530, si parla della formula: « salvo mandato et ordinatione nostra ».■ Il primo editto fridericiano riguardante i grandi di Sicilia (bf, 1270; hb, il, p. 101), del 4 gennaio 1221, è già tutto un programma: « ... omnia volumus sub iure lucescere et cuncta sub regimine nostro in statu iusticie reformare. » Su Tommaso da Celano: bfw, 6404, wact., i, n. 597, p. 479, e wact., ii, n. 1014, p. 681; bfw, 12640-42, hb, i, p. 931, wact., i, n. 596, p. 478, hb, i, p. 239; cfr. Winkelmann, Jahrb., i, pp. 128 e 137 sg.; ivi, p. 138, nota 3, si parla dell’esercito del conte di Celano. Confisca dei castelli: E. Sthamer, Die Verwaltung der Kastelle im Kònigreich Sizilien unter Kaiser Friedrich II. und Karl I. von Anjou. Die Bauten der Hohenstaufen in Unteritalien, voi. di compì., i, Lipsia 1914, pp. 5 sgg. Non menzionata la confisca del castello di Ajello; Federico l’aveva tolto al suo pro­ prietario, il conte Riccardo d’Ajello, già prima — o, al più tardi, in occasione — dell’inco­ ronazione, se è vero che egli poco prima del 26 dicembre 1220 confermava al conte il titolo e le terre « preter castrum Agelli »: cfr. bfw, 6406. Federico venne inoltre a contrasto con la curia a proposito del castello di Arquata del Tronto negli Abruzzi: cfr. Riccard. ed. Gaudenzi, p. 125; bfw, 14696. Sthamer, op. cit., fa rilevare la grande importanza strategica della posizione dei castelli incamerati; riguardo a una delle strade principali cfr. G. Colasanti, Il passo di Ceprano sotto gli ultimi Hohenstaufen, « Arch. soc. Rom. », xxxv, 1912, pp. 5 sgg.; sulla situazione in periodo romano-classico: Mommsen, Rómische Geschichte, voi. i, p. 369. Gli Aquino principali sostenitori di Federico. Su Tommaso d’Aquino, il cui nome cam­ peggia a più riprese, cfr. Fedor Schneider, Toscan. Stud., cap. xv, qf, xi, pp. 268 sgg.

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Landolfo d’Aquino, figlio d’un Aymo d’Aquino non altrimenti noto (il nome Aymo compare tuttavia nella famiglia, cfr. bfw, 9458, 14308, e Arndt, Manfred, p. 184), è ricordato quale giustiziere della Terra di lavoro da Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 101. Adenolfo è nel 1228 « imperialis comestabulus militum » e gran giustiziere di Sicilia: cfr. L. Genuardi, Documenti inediti di Federico II, qf, xii, pp. 239 sg. — il quale, contr. al Ficker (Forschungen, i, § 199, p. 357, § 203, p. 364, nota 5, § 200, p. 359), poneva il « magister iustitiarius » anche per l’isola di Sicilia prima del 1231 e rispettivamente del 1239. Adenolfo d’A. deteneva la stessa carica ancora nel 1231: bf, 1861, 1903; cfr. anche bf, 3176. Le assise della dieta di Capua: Ryccard. ed Gaudenzi, pp. 101 sgg.; un’analisi delle leggi capuane in Winkelmann, Jahrb., i, pp. 132 sgg., già spesso esaminate altrove; cfr. Niese, Gesetzgebung, pp. 153 sgg., 160. Delle fortificazioni tratta il tit. xix; sulla confisca del castello di Ajello v. nota p. 147, terzultimo capoverso; sugli altri castelli cfr. Ryccard. all’anno 1221 e 1223; Sthamer, op. cit. Diepold entra nell’Ordine Teutonico: Alber. Tresfont., mg-ss., xxiii, p. 879; e general­ mente Winkelmann, fzdg, xvi, pp. 159 sgg., e Jahrb., i, p. 131; oltre a Riezler, ivi, pp. 373 sg. Sul fratello di Innocenzo ni, Riccardo Conti, signore della contea di Sora, cfr. Baethgen, Regentìchaft, pp. 116 sgg.; bf, 836, mg-const., ii, n. 416, p. 546; e inoltre bf, 631, 639, 662. Su una progettata parentela fra il conte e Filippo di Svevia nell’anno 1206, cfr. Chron. Ursperg., mg-SS. Oktav, pp. 88 sg., oltré a bf, 1596 e alla discussione (utile, in quanto raccolta di materiale) di Michael, Geschichte des deutschen Volks, voi. Vi, pp. 445 sgg. Su Riccardo Conti cfr. anche Brem, Papst Gregor IX. bis zum Beginn seines Pontifikats, « Heidelberg. Abh. », quad. 32, 1911, pp. 56 sgg. Sul duca Federico, il quale « in cauda.equi sui semper trahit castrum », cfr. Ottone di Frisinga, Gesta, i, 12, mg-ss. Oktav, p. 28. La spedizione contro il conte Tommaso da Celano: Sthamer, Kastellverwaltung, p. 7; il trattato col conte: bf, 1484-86, wact., i, n. 255 sg., pp. 232 sg., hb, ii, p. 357, mgconst., il, n. 418 sg., pp. 548 sgg.; cfr. poi Winkelmann, Jahrb., I, pp. 202 sgg. La distruzione di Celano: Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 110. L’ira dell’imperatore potrebbe essere stata provocata particolarmente da un agguato, di cui furono vittime le truppe imperiali: Ryccard., p. 107. La deportazione a Malta è narrata da Ryccard. (anno 1224) nella seconda redazione della sua Cronaca; nella precedente (op. cit., p. 112) si parla d’un invio in Sicilia, il che concorderebbe con la notizia (op. cit., p. 127), secondo cui furono liberati nell’anno 1227 i « Celanenses omnes qui captivi in Sicilia tenebantur ». Anche Collenuccio, p. 85, dice la stessa cosa: « e li habitanti di Celiano tutti mando ad habitare in Sicilia », cfr. Giiterbock, na, xxx, p. 55. Egidi, La colonia Saracena di Lucerà e la sua distruzione, Napoli 1915, p. 10, richiama l’attenzione 'sull’importanza di questi prigionieri come coloni. Il passaggio della « Sicilia » della prima redazione, a « Malta » della seconda redazione della Cronica di Riccardo deriva da uno sbaglio, perché, altrimenti, anche nella seconda (p. 127, all’anno 1227) avrebbe dovuto parlare del ritorno da Malta, anziché dalla Sicilia; il Loewe, Die Chronik des Richard von San Germano und ihre altere Redaktion, Halle 1894, non rileva la discrepanza. Su particolari trapianti di popolazioni da parte di Federico il: Niese, qf, ix, pp. 262 sgg.; Scheffer-Boicho'rst, Zur Geschichte des 12. u. IL Jhdts., pp. 250 sgg. L’azione contro gli altri signori feudali: Winkelmann, Jahrb., i, p. 204, nota 2. Cfr. anche Sthamer, op. cit., p. 7; alla sua rappresentazione non offrono tuttavia appigli né Ryccard. ed. Gaudenzi, p. Ili, né Minieri Riccio, I notamenti di Matteo Spinelli, Napoli 1870, p. 252, n. 46, né Capasso, Historia diplomatica, Napoli 1874, p. 349. Il conte Raniero di Bareto fu sottomesso soltanto più tardi, nel 1226: bfw, 12957a. Su Tommaso da Gaeta: P. Kehr, Das Briefbuch des Thomas v. Gaeta, Justitiars Friedrichs IL, qf, vili, 1905, pp. 18 sgg., 22 sg., 34 sgg. e 53 sgg., n. x, xi. Sulle costruzioni di chiese di Federico il, se si eccettua il caso di quella di Altamura, non sappiamo nulla: cfr. Haseloff, pp. 26 sg., e cod. barese, vi, p. 89 sg., n. 57, p. 136, n. 87. Sul fatto che — a differenza degli Ottoni, dei Salii e dei Normanni — gli Staufen costruirono poche chiese, ma molte regge, cfr. Dehio e v. Bezold, Die kirchliche Baukunst des Abendlandes, Stoccarda 1892, voi. i, p. 480. Sulla mancanza di cappelle nella maggior parte dei castelli imperlali e sulla loro co­ struzione a opera di Carlo i d’Angiò, cfr. Haseloff, pp. 27 e 82. Leggi feudali: delle venti assise capuane (v. Ryccard. ed. Gaudenzi, pp. 101 sgg.), non meno di otto — più o meno — riguardavano i feudatari. Il tit. x, concernente la restituzione di beni della corona alienati (località e fortificazioni), e il tit. xi sulla restituzione di baronie

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della corona, coincidono in gran parte col decreto dei privilegi (tit. xv e xix) sulla distruzione di castelli di recente edificazione; decreto che si rifà alla regalia normanna sulle fortifica­ zioni sempre e strettamente osservata. Il tit. xvii riguarda le nozze e il diritto di successione dei feudatari — più diffusamente poi in LIB. august., in, pp. 23 sgg., Caiani, p. 179, hb, iv, p. 134; cfr. Niese, Gesetzgebung, pp. 152 sgg., 160. Molto minuziosi i commentari a queste leggi: come quello di Andrea d’Isernia (nel­ l’edizione delle Costituzioni del Cervonio, Napoli, 1773, pp. 345 sgg.), i cui discorsi comin­ ciano con le parole: « Imo destructionem animae istius Frederici Imperatoris prohibentis per obliquum matrimonia instituta a Deo in paradiso... » Il tit. xii tratta della trasmissione di feudi secondari, legge che rimonta a un’altra di Ruggero (ii (cfr. liber aug., ih, 5, carcani, p. 165, hb, iv, p. 122; Niese, Gesetzgebung, p. 120). 11 tit. xx tratta della restituzione dei beni alienati ai baroni; anche tale tit. (così come il tit. xiii sui rapporti dei feudatari coi loro vassalli) si basa su disposizioni normanne: cfr. oltre a Niese, op. cit., Winkelmann, Jahrb., i, p. 134 sg., 530 sgg. Il governo dei castelli in un lavoro degno di lode: quello di Sthamer, op. cit.-, lo stile ar­ chitettonico dei medesimi: Haseloff, op. cit.-, e inoltre Dehio, Kunsthistorische Aufsàtze, pp. 107 sg., il quale sottolinea i paralleli con gli edifici dell’Ordine Teutonico: ivi, p. 114, e cfr. Haseloff, p. 30, nota 3. La paura che l’imperatore diffondeva attorno a sé, si rispecchia tanto nelle lettere — cfr. oltre a bfw, 12651, wact., i, n. 601, p. 481, gli scritti di Tommaso da Gaeta, cit., in Kehr, QF, vili, pp. 53 sgg., n. x, xi e, anche, xv, —, quanto nelle cronache dei contemporanei: Ryccard. all’anno 1221, dice: «Imperator ceteris de regno sibi colla flectentibus ... feliciter in Siciliam transfretat » (diversamente che nella Chron. priora, ed. Gaudenzi, p. 104; il Loewe, Chronik Richards v. San Germano, non rileva); Anonymus Remensis, MG-SS., xxvi, p. 532: « et estoit bons jousticieres, et' tant faisoit que il estoit craint et redouteiz par toutes terres »; Richer Senon., mg-ss., xxv, p. 302, iv, c. 4: «et ita totas regiònes illas iurisdictioni et timori suo subdidit »; cfr. anche Chron. S. Mart. Turon., Mg-ss., xxvl, p. 471; Sachs. Weltchronik all’anno 1220, mg-dtsche Chron., n, p. 243; Annal. S. Just. Patav., mg-ss., xix, p. 152. La dieta di Messina: le leggi in Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 104 sg. Sulla differenza formale delle leggi di Capua e di Messina, cfr. Winkelmann, Jahrb., I, p. 532; sulle leggi cfr. anche Scheffer-Boichorst, Sitzb.-Berlino, xm, 1900, p. 142. Le leggi per gli ebrei: R. Strauss, Die Juden im Kónigreich Sizilien unter Normannen und Staufern, Heidelb. « Abh. », quad. 30, 1910, pp. 50 sg. L’ipotesi (v. il testo p. 109) che gli ebrei dovessero portare la « toppa gialla », poggia su un’inesattezza, perché, mancando un’ipotesi più stringente nella cronaca posteriore di Riccardo da San Germano sul tipo di segno, s’è assunto l’usuale segno di riconoscimento (cfr. per es. Graetz, Geschichte der Juden, 4’ ed., Lipsia, senza data, voi. vii, pp. 16 sgg.). Riccardo informa tuttavia diffusamente, nella prima cronaca (ed. Gaudenzi, p. 105), che gli ebrei dovevano portare un camiciotto stretto alla vita « tinctum colore celesti ».

pp. 109-113 contro le città marinare - Tutto il materiale sulle città marinare e i loro commerci in Sicilia è elaborato da Schaube, Handelsgeschichte der romanischen Vòlker des Mittelmeergebiets (Monaco-Berlino 1906), § 358 sgg., pp. 456 sgg. Cfr. anche il più vecchio lavoro di W. Heyd, Geschichte des Levantehandels im Mùtelalter, voi. I (1879), pp. 200 sgg., e le monografie di August Baer, Die Beziehungen Venedigs zum Kaiserreiche in der staufischen Zeit, Innsbruck, 1888, pp. 87 sgg.; Hi Chone, Die Handelsbeziehungen Kaiser Friedrichs II. zu den Seestàdten Venedig, Pisa, Genua, « Hist. Stud. », quad. 32, Berlino 1902; Cesare Imperiale, Genova e le sue relazioni con Federico II di Svevia, Venezia 1923; non ni’è stato possibile avere il lavoro di Pietro Nardone, Genova e Pisa nei loro rapporti commerciali col mezzogiorno d’Italia fra la fine del sec. XII e gl’inizi del XIII, Prato 1923. Su Brindisi porto-base di Venezia cfr. Schaube, p. 494, nota 3. Per l’antica rivalità fra Pisa e Genova significativi i due privilegi del Barbarossa: mg-ss., xviii, pp. 121 sgg. all’anno 1204-05; cfr. Winkelmann,' Otto, pp. 60 sg.; Schaube, op. cit., § 361 sgg., 364 sgg. Il conte Alamanno da Costa e Siracusa: singole fonti sono gli « Annal. J^nuens. », mg-ss., xviii, pp. 121 sgg. all’anno 1204-05; cfr. Winkelmann, Otto, pp. 60 sg.; Schaube, pp. 480 sg., § 378; Niese, Das Bistum Catania und die sizilischen Hohenstaufen, Gottinger Nachrichten 1913, pp. 55 sgg.; Baethgen, Regentschaft, pp. 88 sg.

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La titolatura di Alamanno da Costa « dei et regia gratia ac communitatis Janue comes Syracuse et domini regis familiaris », in bfw, 12370, hb, i, p. 172; Ugo di Baux lo considera semplicemente un corsaro, cfr. bfw, 12335, Liber ìurium, voi. I (Hist.- Patr. Monum., vii), p. 540; Imperiale, Genova e le sue relazioni con Federico II di Svevia, pp. 15 sg. Sui suoi presunti rapporti col collegio dei familiari cfr. Baethgen, Regentschaft, p. 89, nota 2. Che Alamanno da Costa abbia tentato di estendere la sua signoria quanto meno sulla vicina Aci Castello, lo mostra una notizia in Niese, Das Bistum Catania, ecc., Gottinger Nachr., 1913, p. 48, nota 3; p. 56, nota 5, secondo la quale il giustiziere « Bartholomeus de Anicito fecit suspendi apud Jacium quendam nomine Marcolphum, quia volebat prodere castrum ipsius terre cdmiti Alamanno ». Aci Castello era un castello della corona, cfr. Niese, Catania, p. 49, nota 7; Sthamer, Kastellverwaltung, p. 58; sui « castra exempta » cfr. wact, i, n. 840, p. 646. Si vuole che Alamanno cadesse prigioniero dei veneziani nell’anno 1217, e fosse da questi messo in una gabbia di ferro: Da Canale, Cronaca veneta, « Arch. stor. it. », serie i, voi. vili, Firenze 1845, pp. 353 sg., cap. lxxi; cfr. anche « Cronaca Altinate », ivi, p. 188 sg., 195. Cacciato da Siracusa (cfr. « Annal. Januens. », mg-ss., xviii, p. 146), fuggì probabil­ mente a Gaeta; in ogni caso, come ogni siciliano esiliato dall’imperatore, si ebbe l’appoggio del papa, v. bfw, 6545; cfr. anche bfw, 6548. Per la breve signoria genovese a Creta cfr. Heyd, Levanteshandel, voi. i, pp. 350 sgg.; Gerola, La dominazione Genovese in Creta, « Atti della R. Accad. degli agiati di Rovereto », ser. in, voi. vili (òpera che, purtroppo, non mi fu accessibile). L’isola di Creta era stata occupata nel 1206 da Enrico Pescatore, conte di Malta, in nome di Genova; ancora nel 1210 questo Enrico amava chiamarsi: «Dei gratia comes Malte et dominus Crete»: cfr. Liber ìurium, voi. i, pp. 540 e 553. Sul conte Enrico Pescatore v. Willy Cohn, Heinrich v. Malta, « Hist. Viert. », xviii, 1916, pp. 253 sgg.; cfr. anche le esercitazioni stilistiche riguardanti Enrico di Malta in Hampe, Ada pacis, Anh., pp. 107 sg, nn. 8 e 9. Il privilegio fridericiano a Genova: bf, 1179, hb, I, p. 868; i privilegi in Sicilia: « Annal. Januens. », mg-ss., xviii, p. 139, oltre a Winkelmann, Jahrb., i, p. 85, nota 8. Negazione dei privilegi: « Annal. Januens. », pp. 144 sg., Winkelmann, p. 98 sgg. Notevoli anche singoli provvedimenti fridericiani contro l’ormai adirata Genova: anzitutto, il raffor­ zamento dei vicini di Genova sulla stessa costa genovese: bf, 1255, hb, ii, p. 915; F. Kern, Analekten, miòg, xxxi, 1910, pp. 73 sgg. I privilegi a Pisa: bf, 1009, wact., i, n. 160, p. 137, con le concessioni per la Sicilia; e bf, 1217, hb, 11, p. 20 per la cancellazione delle stesse e la conferma del privilegio: bf, 1368, wact., i, n. 232, p. 213; cfr. Schaube, § 384, p. 486, § 387, p. 490. Federico procede contro i genovesi: « Annal. Januens. », mg-SS., xviii, p. 146; Win­ kelmann, Jahrb., i, pp. 142 sg.; Schaube, § 384, p. 487. Sulla flotta siciliana esaurienti i lavori di Willy Cohn, Das Ami des Admirals in Sizilien unter Friedrich IL, « Festsch. fiir A. Hillebrandt », Halle 1913; Der Kampf der Flotte Friedrichs IL gegen Genua, « Armee- und Marine-Zeitschrift < Oberali >», Jahrg. 1916; Organisation und Verwaltung der Flotte Kaiser Friedrichs IL, e Die Kreuzzugsflotten Kaiser Friedrichs IL, ivi, Jahrg. 1918-19. Recentemente dello stesso autore: Die Geschichte der sizilischen Flotte unter der Regierung Kaiser Friedrichs IL, Breslavia 1926 — che amplia e raccoglie i saggi sopra citati. «Marinaria»: Scheffer-Boichorst, Zur Geschichte des 12. u. 13. Jhdts, p. 401 e Sitzb. Berlino 1900, pp. 138 sg.; oltre a na, xxiv, p. 182; Ries, Regesten der Kaiserin Constanze, qf, xviii, p. 47, reg. 38. Il governo delle fortificazioni costiere: Winkelmann, Bischof Harduin von Cefalù, miòg, voi. di compì, i, 1885, pp. 300 sg.; Niese, Das Bistum Catania..., « Gótting. Nachr. » 1913, p. 66, nota 7 e p. 60, nota 7, per il castello di Malta. Cfr. anche per l’epoca successiva Niese, Materialien zur Geschichte Kaiser Friedrichs IL, « Gotting. Nachr. »< 1912, pp. 392 sg. Le difese costiere dei normanni: Niese, QF, x, p. 71, nota 1; sempre sulla difesa costiera sono di qualche interesse, malgrado falsificazioni indubbie, anche BF, 1334 e bf, 1454. Sulla politica commerciale di Federico il nel 1224, cfr. le singole fonti in Chron. S. Maria Ferrar, ed Gaudenzi (monumenti storici, ser. I; Napoli 1888), p. 38; inoltre, Schaube, pp. 505, 507, nota 6 contro Winkelmann, Jahrb., il, p. 278 sg. Le importazioni a Palermo nel 1222: Winkelmann, Bischof Harduin von Cefalù, miòg, voi. di compì, i, pp. 320, 340 e Jahrb., i, p. 189, nota 2. Le nuove coniazioni monetarie: Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 105 all’anno 1221, p. 108 all’anno 1222, p. 119 all’anno 1225; cfr. bfw, 14678, dove tuttavia si rimanda a bf, 1318 anziché a bf, 1818; inoltre Schaube, § 402, p. 513

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I mercati: Schaube, § 403, p. 515. ■Le collette: O. Maerker, Die « colletta » in der Monarchia siculo Kaiser Friedrichs II. (Heidelberg 1889). Le imposte a carattere straordinario (ivi, p. 5), si rifacevano agli esempi di Roma classica: cfr. Dionys. Halicarn., n, 10; Mommsen, Ròmisches Gastrecht und ròmische Clientel, Ròmische Forschungen, voi. i, pp. 369 sg.

pp. 114-117 la guerra contro i saraceni - I precedenti, e gli avvenimenti della guerra: M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, voi. in, 1872, p. 601 sgg.; Winkelmann, Jahrb., i, pp. 188 sg., 206 sgg. Per la politica fridericiana verso i saraceni v. .anche HB-Introduz., pp. ccclxxv sgg. Che i saraceni, insieme con Markward v. Anweiler, si fossero prefissi un giorno l’« excidium » del re, lo credeva, quanto meno, Innocenzo ni: Ep. V, n. 39, in migne-pl, 214, p. 998, Ep. IX, ivi, 215, p. 985, QF, vili, p. 69 n. xix. La scena dell’emiro Ibn-Abbad è narrata da Abu Al-Fadayl, Tarih Mansuri, ed. Amari, « Arch. stor. Sicil. », nuova ser., ix, 1884, pp. 98 sgg., 108 sgg. Il tradimento dei commercianti di Marsiglia: Alberic. Tresfont., mg-ss., xxiii, p. 894. Il conte Enrico di Malta: bf, 1496a; Winkelmann, Jahrb., i, p. 206, nota 1; Willy Cohn, «Hist. Viert.'», xviii, pp. 253 sgg.; Niese, Das Bistum Catania, p. 60, nota 7. La spedizione contro le isole nordafricane: Amari, Storia dei Musulmani, voi. ni, p. 605; Winkelmann, Jahrb., i, p. 207, nota 1. Le isole — p. es. Pantelleria — stavano sotto la sovranità siciliana, naturalmente, però a tutto il 1254 erano ancora saracene, cfr. Joinville, mg-ss., xxvi, p. 557. Sulla signoria africana della Sicilia cfr. Giuseppe La Mantia, La Sicilia ed il suo dominio nell’Africa settentrionale, « Arch. stor. Sicil. », voi. 44, 1922, pp. 154 sgg. I tributi dei sovrani di Tunisi: Sternfeld, Ludwigs des Heiligen Kreuzzug nach Tunis 1270 und die Politile Karls I. von Sizilien, «Hist. Stud.», quad. 4, 1896, Excursus i, pp. 355 sgg. Trapianto dei saraceni a Lucerà e storia della colonia saracena: Pietro Egidi, La colonia saracena di Lucerà e la sua distruzione (Napoli 1915); cfr. anche « Arch. stor. Napol. », xxxvìxxxix, 1911-15; inoltre Haseloff, Bauten der Hohenstaufen, voi. i, pp. 99 sgg.; in ambe le opere è scrutinato il materiale al completo. Gli schiavi saraceni: spesse volte essi venivano acquistati anche da privati, cfr. Amari, Storia dei Musulmani, voi. in, p. 233. Per una schiava vien pagata una volta la somma di cinque once d’oro, cfr. G. Battaglia, Diplomi inediti, p. 95, n. xxxii; sui prezzi degli schiavi al mercato di Marsiglia cfr. Schaube, p. 549, nota 6, p. 609, nota 7; e v. in generale M. Gau­ dioso, La schiavitù domestica in Sicilia dopo i Normanni, Catania 1926. Federico pensava, contro il papa, che il trapianto dei saraceni portasse alla cristianiz­ zazione della Sicilia: bf, 2149, hb, iv, p. 83; cfr, anche bf, 2034, hb, iv, p. 457; della mede­ sima opinione anche singoli cronisti, v. p. es. Philipp Mousket, mg-ss., xxvi, p. 767, v. 23351 sgg.: « ensi fu Sesile widie / des paiens et de leur mesnìe ».

pp. 117-119 l’università di napoli - Sull’università di Napoli cfr. Winkelmann, Dber die ersten Staatsuniversitàten, Progr. Heidelberg, 1880; G. Kaufmann, Die Geschichte der deutschen Dniversitàten, voi. i, 1888, pp. 324 sgg.; Denifle, Die Universitàten des Mittelalters, voi. i, 1885, pp. 452 sg.; in generale v. a p. 117 sgg. Il diploma di fondazione: bf, 1537, hb, ii, p. 450; Ryccard. ed Gaudenzi, p. 112, in forma lievemente diversa e con la data esatta, cfr. bf,4537 nell’aggiunta. Il diploma è pre­ sente pure nell’epistolario di Pier delle Vigne, il quale potrebbe ben esserne stato il compi­ latore: cfr. Niese, hz, 108, p. 526, nota 4. Sulla questione se l’università napoletana fosse statale, cfr. Hampe, Zur Grùndungsgeschichte der Universitàt Neapel, Sitzb. Heidelberg 1923, saggio 10, p. 3, nota 1. Ai primi tempi della politica universitaria dell’imperatore risale anche la lettera a Bologna, in Gaudenzi, « Arch. stor. ital. », ser. v, voi. 4, 1908, p. 35. È noto che l’università di Napoli fu fondata per far da contrapposto a quella di Bologna — in quell’epoca spesso afflitta da secessioni di chierici —: cfr. Niese, hz, 108, p. 520 sg., il quale a ragione ravvisa il modello arabo nella fondazione dell’università; cfr. inoltre Hampe, op. cit., pp. 12 sg. Sull’amministrazione della giustizia a mezzo di giustizieri dipendenti dal governo impe­ riale, e non a mezzo dei vescovi, anche nelle diocesi (« giustizieri ecclesiastici »): Niese, Das Bistum Catania, p. 47, nota 4.

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pp. 120-123

le trattative per la crociata - L’osservazione del papa: « animatus tue calore et robore iuventutis » nello scritto del 27 giugno 1223: bfw, 6544, mg-epp. pont. i., n. 232, p. 161, r. 35. Sulla v crociata ctr. le op. cit. sopra nelle note a p. 145, capoverso 7; inoltre Hoogeweg, Der Kreuzzug von Damiette, miòg, vili, 1887, pp. 188 sgg.; ix, 1888, pp. 249 sgg. Sulle negoziazioni di Federico col papa a Veroli, Ferentino e San Germano, scrive molto diffusamente Winkelmann, Jahrb., i, pp. 178 sgg.; W. Knebel, Kaiser Friedrich II. und Papst Honorius III., diss., Miinster 1905, pp. 64 sgg.,11 trattato di San Germano: mg-const., ii, n. 102 sg., pp. 129.sgg.; cfr. Winkelmann, Jahrb., i, pp. 237 sgg. La divergenza d’opinioni .sul problema dell’Italia centrale: bfw, 6514; Ficker, Drkunden, n. 301, p. 334; cfr. bf, 1384b, e Winkelmann,' Jahrb., i, p. 181. Su Gunzelin di Wolfenbiittel: Ficker, Forschungen, n, § 379, pp. 435 sg. e Winkel­ mann, op. cit., pp. 185 sgg. Le nozze con Isabella di Gerusalemme: Winkelmann, op. cit., pp. 199 sgg.; ivi, pp. 242 sgg., gli sponsali e la contesa dell’imperatore con re Giovanni. Re Giovanni poeta: Torraca, Studi sulla lirica italiana del Duecento, Bologna 1902, pp. 92 sg. L’epopea Ortnit e Federico li: Mullenhoff, Das Alter des Ortnit, Zs. f. dt. Altert., xiii, 1867, pp. 185 sgg.; E. H. Meyer, Quellenstudien zur mittelhochdeutschen Spielmannsdichtung, Zs. f. dt. Altert., xxxviii, 1894, pp. 65 sgg. Winkelmann, p. 245, nota 6, raccoglie un gran numero di leggende sul cattivo tratta­ mento cui Isabella darebbe stata sottoposta da parte di Federico il; il soggiorno di Isabella a Terracina e a Napoli in Ryccard. ed. Gaudenzi, pp. 123 sg. Isabella ebbe una figlia’ nel 1226, un figlio (re Corrado) nel 1228; essa morì dieci giorni dopo la nascita di questo figlio. Sulla sua tomba cfr. Haseloff, Die Kaiserinnengràber in Andria, Roma 1905.

pp. 123-128 il clero siculo - Sul computo delle decime v. il tit. n delle assise capuane in Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 101; cfr. anche l’ordinanza in bf, 1388, hb, ii, p. 239. Sulla legge «De rebus stabilibus non alienandis ecclesiis », v. liber. aug., hi, 29; carcani, p. 185, hb, iv, p. 227; cfr. Winkelmann, Jahrb., i, pp. 135 sg., p. 526, § 2; Niese, Gesetzgebung der nòrmannischen Kònige, p. 123. Un lungo commento a questa legge stese il giurisperito Domenico Alfeno Vario (nato nel 1725, prof, di diritto a Pavia; cfr. Capasso, Sulla storia esterna, p. 481), stampato nell’ed. Cervonio delle Costituzioni, Napoli 1773, pp. 380 sgg. Federico il e i nuovi vescovi siciliani: cfr. anzitutto bfw, 14696, Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 124; mg-epp. pont., i, n. 296, pp. 219 sg.; Vita Gregorit IX, c. 30, in liber censuum ed. Fabre-Duchesne, voi. n, p. 29. Sul vescovo Arduino di Cefalù e il processo al medesimo cfr. gli atti pubblicati dal Winkelmann, mióg, voi. di compì, i, pp. 298 sgg. Su Nicola di Taranto v. Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 123, mg-epp. pont., i, n. 296, p. 219; Winkelmann, Jahrb., i, p. 278, nota 1. Su Gualtieri di Pagliara v. Lejeune-Jung, Walther v. Palearia, Bonn 1906, pp. 156 sgg.; Niese, Das Bistum Catania, pp. 51 sgg:, il quale {ivi, p. 63, nota 2) fa notare che non erano i beni dei due vescovi a interessare l’imperatore, visto che ambedue permanevano nel godi­ mento dei medesimi: cfr. per Gualtieri di Pagliara anche Hampe, Acta pacis, p. 30, nota 2. La deposizione del vescovo di Carinola: Pressutti, 1569; quella del vescovo di Squillace: Pressutti, 1623, 2202. Anche contro l’arcivescovo Andrea di Aceranza fu intentato a par­ tire dal 1217 un processo per spergiuro e simonia, che si concluse nel 1231 con la deposi­ zione del prelato: Ughelli, Italia sacra, vii (2 * ed.), p. 42, Pressutti, 5914, 2189 e 808. Per contestazione delle elezioni fu deposto nel 1216 il vescovo di Anglona: Pressutti, 98, 2189, 3641. Dopo contese a non finire fu cassata l’elezione a Valva-Sulmona nel 1226: Pressutti, 5529, 5916, 6260, 6261. Il vescovo di Venosa assassinato da un chierico: Ughelli, Italia sacra, vii (2 * ed.), p. 172. Della sfrenatezza del clero siciliano Federico n si duole nella sua lettera dell’aprile 1226: bfw, 14696, Ryccard. ed Gaudenzi, p. 123 sg.; ivi la lagnanza che il papa dia ricetto a Roma a tutti gli esiliati siciliani; v. la risposta papale in mg-epp. pont., i, n. 296, pp. 219 sgg. La posizione di Federico nei riguardi dell’episcopato tedesco: Rodenberg, Kaiser Frie­ drich II. und die deutsche Kirche, Histor. Aufsàtze d. Andenken an G. Waitz, Hannover, 1886, pp. 238 sgg., e per gli anni susseguenti al 1220 particolarmente pp. 245 sg.; cfr. anche

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Krabbo, Die Besetzung der deutschen Bistumer unter der Regierung Kaiser Friedrichs IL, « Hist. Stud. », quad. 25, Berlino 1901. La regolamentazione delle elezioni vescovili in Sicilia a mezzo dei concordati e il primo intervento fridericiano nelle elezioni di Palermo e di Policastro al tempo di Innocenzo ni: v. nota a p. 34, penultimo capoverso; cfr. anche il richiamo di Federico alla prassi di Tancredi e di Costanza nello scritto in Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 124. Non mancano casi in cui l’imperatore metteva lo zampino nelle elezioni: v. l’esempio di Taranto (cfr. Winkelmann, Jahrb., i, p. 278, nota 1) e forse anche quello dell’elezione a vescovo di Marturano di Filippo di Matera — se questi sia da identificarsi con il tesoriere dallo stesso nome che compare in bf, 1078, accettato da Ughelli, Italia sacra (2 * ed.), ix, p. 275 e da BFW-Introduz., p. lxii; cfr. tuttavia Niese, qf, ix, p. 260, nota 2, il quale, pur senza prove più, valide, mette in dubbio che si tratti della medesima persona. La composizione dell’episcopato siciliano: Walther. Ruck, Die Besetzung der sizilischen Bistumer unter Kaiser Friedrich II. (diss. non stampata, Heidelberg 1923). Nono­ stante le liste dei vescovi (che costituiscono la parte principale del lavoro) siano talora difettose, restano tuttavia incomparabilmente più utili degli elenchi del Gams, Series episcoporum, Regensburg 1873, o dell’Eubel, Hierarchia catholica, Regensburg 1913. Nel com­ plèsso, il lavoro del Ruck acuisce ancor più il bisogno di un’opera che sappia penetrare i rapporti del clero siculo in tutta l’epoca normanno-staufica. L’elenco dei partecipanti al concilio laterano del 1215 in Jaboc Werner, na, xxxi, pp. 584 sgg.; dei partecipanti — secondo tale lista, 405 in tutto —, 105 erano siciliani; cfr. anche l’elenco dei vescovadi in liber censuum ed. Fabre-Duchesne, voi. i, p. 14 sgg.; secondo il quale v’erano nel regno di Sicilia i seguenti 21 arcivescovadi (il numero fra pa­ rentesi indica le sedi suffraganee): Benevento (22), Salerno (6), Amalfi (4), Sorrento (3), Napoli (5), Capua (8), Conza (6), Aceranza (5), Taranto (2), Brindisi (1), Otranto (5), Bari (12), Trani (2), Siponto (1), Reggio Calabria (9), Cosenza (1), Santa Severina (6), Rossano (—), Palermo (3), Monreale (2), Messina (2). V’erano inoltre 16 vescovadi: Aquila, Marsica, Valva-Sulmona, Theate, Penna, Abruzzo, Gaeta, Fondi, Sora, Troja, Monopoli, Ravello, Rapolla, Bisignano, Mileto, San Marco. Sulla struttura ecclesiastica dell’epoca bizantina cfr. su ciò i cataloghi dei vescovadi greci raccolti dal Parthey, Hierocles Synecdemus et notitiae graecae episcopatuum, Berlino 1866 — richiama l’attenzione il Ruck nell’introduzione della sua opera; egli però non esa­ mina il problema. La situazione era all’incirca questa: dopo la distruzione in epoca saracena dell’antica struttura vescovile dell’Italia meridionale, i vescovadi superstiti, senza divisione in diocesi o senza struttura gerarchica, passarono alle dipendenze dirette di Roma; contemporaneamente, i bizantini si adoprarono in favore della chiesa dell’I calia meridionale elevando le cariche ec­ clesiastiche: del che avrebbe fatto le spese la chiesa romana, quando, con la conquista nor­ manna, la nuova gerarchia sarebbe rimasta tale nelle province della chiesa. Cfr. su ciò anzitutto i lavori del Caspar: Die Grùndungsurkunden der sizilischen Bistumer und die Kirchenpolitik Graf Rogers L, diss., Berlino 1902; Roger IL, pp. 583 sgg.; Kritische Dntersuchungen zu den àlteren Papsturkunden fiir Apulien, qf, vi, pp. 250 sgg.; e inoltre J. Gay, L’Italie meridionale et l’empire Byzantin, Parigi 1904; P. Batiffol, L’Abbaye de Rossano, Parigi 1891. Ben rispecchiata la confusione del periodo di trapasso nella Chronik v. Tres Tabernae ed. Caspar, qf, x, pp. 1-56; cfr. anche per la caduta dell’antica partizione ecclesiastica, Arnold Pòschl, Bischofsgut und Mensa episcopalis, voi. m, Bonn 1912, pp. 52 sgg.; e in generale LIBER CENSUUM, voi. I pàssim. A quanto posso vedere, su 21 arcivescovadi siciliani, non meno di 10, e fors’anche 13, hanno origine nell’elevazione bizantina delle cariche (fossero essi elevati ad arcivescovadi con titolare o a vere e proprie sedi metropolitane): 1) Reggio-Calabria (cfr. Gay, pp. 185 sgg.; .liber censuum, i, pp. 21 sgg.); 2) Santa Severina (cfr. Gay, p. 190; liber censuum, i, p. 23); 3) Rossaho (cfr. Gay, p. 186; Batiffol, pp. xi sg.; Ughelli, voi. ix, p. 293; liber cen­ suum, i, p. 248, cfr. p. 23 e p. 243); 4) Taranto (cfr. Gay, p. 364, nota 4; Parthey, p. 295; Ughellik voi. vm, p. 66); 5) Otranto (cfr. Gay, p. 190; liber censuum, i, pp. 28 sg.); 6) Cosenza (cfr. Parthey, p. 294; liber censuum, i, pp. 247 sg.; Gay, pp. 187, 546); 7) Bari (cfr. Caspar, qf, vi, pp. 257 sgg.); 8) Trani (cfr. Caspar, qf, vi, pp. 262 sgg.);

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9) Brindisi (cfr. Caspar, qf, vi, p. 266, note 3 e 6; Parthey, p. 295); 10) Messina (cfr. Caspar, Griìndungsurkunden, pp. 43 sgg.; Roger IL, pp. 619 sgg.). Probabilmente, però, anche Aceranza (11) e Conza (12) risalgono ad avanzamenti bi­ zantini (cfr. Jaffé-Lowenfeld, 5707; Ughelli, vii, p. 393; liber censuum, i, p. 24, nota 2); e forse anche Siponto (13), benché qui il titolo risalga direttamente alla divisione dell’arcivesco­ vado di Benevento-Siponto (cfr. liber censuum, i, p. 32; Potth. 1681; Innocent. m, Ep. V, n. 42, in migne-pl, 214, p. 999). Altri arcivescovadi bizantini, p. es., Siracusa, Catania (cfr. Caspar, Griìndungsurkunden, pp. 47 e 49) e Lucerà (cfr. Gay, p. 364, nota 6), divennero poi, nella partizione ecclesiastica romana, vescovadi. Su Berardo di Castacca, arcivescovo di Palermo, un gran numero di notizie in Pirro, Sicilia sacra, voi. i, pp. 137 sgg. Berardo era stato arcivescovo di Bari nel 1207: Ughelli, vii, pp. 623 sg. La consacrazione però l’ebbe solo nel 1208: Winkelmann, Otto, p. 78, nota 1. Fu trasferito alla sede arcivescovilè di Palermo nel 1213: bfw, 6155, Innocent. in, Ep. XVI, n. 110, in migne-pl, 216, p. 906. Già da arcivescovo di Bari era familiare del re (bf, 633, hb, i, p. 174) e, come tale, entrò a far parte, dall’anno 1210, del collegio di famiglia: Winkelmann, fzdg, vi, pp. 397 sg. Fu lui a portare a corte Pier delle Vigne, com’è testimoniato da Enrico d’Isernia: cfr. Hampe, Heinrich v. Isernia, pp. 124 e 53, nota 3. Sulla sua partecipazione alla vita letteraria della corte: hb-pierre, pp. 118 sgg., n. 58-62; cfr. Niese, hz, 108, p. 524. Le parole di lode dell’imperatore: bf, 683, hb, i, p. 232; bf, 793, hb, i, p. 373 e passim. Il prestigio di Berardo presso la curia: v. una bella testimonianza in Kehr, Thomas v. Gaeta, qf, vili, p. 43, n. 3. I Regesta Imperii ci educono sulla stia partecipazione a tutte le trattative del suo governo di qualche importanza (v. l’indice); nel 1235 fece parte del consiglio di famiglia nuovamente ricostruito in occasione della permanenza dell’imperatore in Germania. La notizia (basata su Pirro, Sicilia sacra, voi. n, p. 807) che egli fosse stato nel 1223 « balius Sicilie generalis » (cfr. bfw, 14308) — e sarebbe da intendersi, in ogni caso: della sola isola —, suona tanto più inverosimile, quanto più si consideri che proprio in quell’anno — e per la maggior parte di esso — Federico il si trattenne in Sicilia a causa della guerra saracena. Non è affatto impossibile, però, che a un vescovo potesse essere affidato il vicariato; difatti pure l’ufficio di gran giustiziere era sostenuto allora da un chierico, il vescovo Richero da Melfi: cfr. Niese, qf, ix, pp. 237 sg., 250. Inoltre bfw, 7544b mette ingiustificatamente in dubbio la sua partecipazione al concilio di Lione-e altrettanto ingiustificatamente propone, al suo posto, il, nome dell’arcivescovo Marino di Bari. A parte il fatto che Marino faceva da accusatore, Berardo da difensore dell’imperatore, in modo che tale scambio non è possibile (cfr. Folz, Kaiser Friedrich II. und Papst Innocenz IV., Strasburgo 1905, p. 59); la sua pre­ senza a Lione è garantita anche da Collenuccio, p. 94v (cfr. Giiterbock, na, xxx, p. 64). Berardo fu una seconda volta a Lione, a sostenere la buonafede di Federico: bfw, 7635; e restò sotto scomunica sin oltre la morte di questi: mg-epp. pont., ih, n. 108, p. 86; cfr. bfw, 7397, 8166, 8379. Berardo morì 1’8 settembre 1252: bfw, 8379; arcivescovo di Bari nel 1207 — a un minimo di trent’anni —, doveva essere ultraottantenne all’epoca della morte. Altri alti prelati del tipo di Berardo erano per es. Giacomo di Capua, Berardo da Messina, Stefano Abate di Montecassino, Rinaldo da Capua (cfr. Niese, hz, 108, pp. 524 sgg.; Hampe, «Hist. Viert.», xxi, 1922-23, p. 76 sgg.), e fors’anche Pietro da Ravello, che appartenne al collegio di famiglia del 1235 (bf, 2085a). Sui concordati v. sopra. Sul diritto di devoluzione e la sua amministrazione v. la trattazione esauriente offerta da G. J. Ebers, Das Devolutionsrecht, « Kirchenrechtl. Abh. », quad. 37-8, Stoccarda 1906. Sul temporaneo insediamento di un gran numero di prelati incaricati dell’esame delle elezioni, cfr. bfw, 6509, mg-epp. pont., i, n. 195, p. 136 (24 aprile 1222). Il conflitto dell’imperatore con la curia a causa delle elezioni dei vescovi siciliani è stato esaurientemente trattato dal Winkelmann, Jahrb., i, p. 213 sgg., 247 sgg. Riguardo all’elezione di Salerno, devo qui far ammenda di un errore sfuggitomi nel testo: Nicola d’Ajello s’era scagliato contro la legge sui privilegi, cadendo pertanto in disgrazia (Niese, Materialien, pp. 388 sgg.); a suo fratello Riccardo (cfr. Ughelli, Italia sacra, vii, pp. 407, 412) era stato tolto da Federico il castello di Ajello (bfw, 6406). Nicola era stato, tempo innanzi, prigioniero in Germania quale partigiano di Tancredi e avversario di Enrico vi (bfw, 5626-27); non nominò successori. Alla base di tutto sta lo scambio fra Salerno e Acerno, ambedue attratte nella contesa per le elezioni vescovili; cfr. per Acerno: Pressutti, 3917, secondo cui Acerno doveva essere di nuovo occupata in accordo con Nicola d’Ajello.

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Le lettere citate: bfw, 6477, mg-epp. pont., i, n. 178, p. 125; bfw, 6544, mg-epp. pont., n. 232, p. 161, dove figura la risposta dei messi imperiali; bfw, 6613, wact., i, n. 606, p. 485; bfw, 6614, mg-epp. pont., i, n. 283, p. 204.

i,

pp. 128-138 la dieta di Cremona - Lo scritto imperiale d’invito ai principi tedeschi, alle città del­ l’Italia settentrionale, ecc. in Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 118; mg-const., ii, n. 103a, p. 644; bfw, 14694. Lo sterminio dell’eresia compito della dieta: Winkelmann, Jahrb., i, p. 267, nota 2; l’elemento propagandistico dello scritto: Otto Vehse, Die amtliche Propaganda in der Staatskunst K. Friedrichs II. (Monaco 1929), p. 13. Riguardo a bf, 1593 (invito a Viterbo), cfr. bfw, 14755, secondo cui la data va spostata al 1247; Winkelmann, Jahrb., i, p. 542. Il rinnovamento della lega lombarda: bfw, 12926a, c; 12929; Winkelmann, p. 268 sgg. Gli atti della lega in hb, ii, p. 924 sgg.; cfr. tuttavia Giiterbock, Die Urkunden des Corio, na, xxiii (1898), p. 213 sgg. Su Bergamo: «Ann. Bergomates », mg-ss., xxxi, p. 332, e bfw, 12934b. Como e Novara entrano più tardi nella lega: Giiterbock, op. cit., pp. 219, 220, nota 7. Il permesso per il- rinnovamento della lega secondo il trattato di Costanza: mg-const., i, n. 293, p. 414, § 18; cfr. inoltre Ficker, Zur Geschichte des Lombardenbundes, Sitzb. Wien 1868, voi. 60, pp. 297 sgg., Giiterbock, Der Friede von Montebello und die Weiterentwicklung des Lombardenbundes, diss., Berlino 1895. La letteratura sulla prima lega lombarda è tanto copiosa, quanto scarsa è quella sulla seconda; sarebbe per lo meno da esaminare l’intervallo fra le due, quantunque, a ben guar­ dare, la lega non abbia mai cessato di esistere: cfr. per es. anche solamente bfw, 12192, 12214, 12324, 12336, 12423, 12502, 12507 e così via. Su Milano v. E. Abegg, Die Politik Mailands in den ersten Jahrzehnten des XIII. Jhdts, Beitr. z. Kulturgeschichte d. Mas., voi. 24, Lipsia 1918, che abbraccia tuttavia solo il periodo sino al 1225. Per l’epoca precedente: E. Anemiiller, Geschichte des Verfassung Mailands in den Jahren 1073-1117, diss., Halle 1881. La rivalità fra Milano e Roma: mg-const., i, n. 23, p. 51, dove si legge che al concilio di Pavia (20 settembre 998) « nomen papae ablatum est » all’arcivescovo di Milano; e v. anche il fatto che a lato dell’imperatore in procinto di essere incoronato stavano « ex una parte papa Romanus, ex altera parte archipontifex Ambrosianus »: Benzo, mg-ss., xi, pp. 602-635. Alla diocesi metropolitana appartenevano ventun vescovadi: cfr. Wladislaus Wicherkiewicz, Die kirchliche Stellung der Erzbischòfe von Mailand zur Zeit der Pataria, diss., Breslavia 1875, pp. 7 sgg., 20 sgg. Vivi soprattutto sotto l’arcivescovo Ariberto gl’istinti di rivalità con Roma: cfr. Erich Wunderlich, Aribert von Antemiano, Erzb. von Mailand, diss., Halle 1914; Bresslau, Jahrb. Konrad IL, voi. n, pp. 187 sgg., 191 sgg.; Giesebrecht, Kaiserzeit, voi. n, p. 315. Ancora Federico n allude a tale rivalità: bf, 2192, hb, iv, p. 901. Milano «città di mezzo»: Abegg, p. 3, nota 5; ivi, pp. 1 sg., si tratta del dominio di Milano nel xm secolo. Sulle rivoluzioni sociali a Milano, cfr. Bresslau, op. cit., n, pp. 193 sgg., 200 sgg.; Steindorff, Jahrb. Heinrich III., voi. i, pp. 238 sgg. Sulla pataria cfr. i lavori di Hugo Paech, Sondershausen 1892 e di A. Kriiger (Progr. Friedrichs-Gymnas., Breslavia 1873 sg.); e inoltre Goetz, Kritische Beitrdge zur Geschichte der Pataria, « Arch. f. Kulturg. », xn, 1916, pp. 17 sgg., 164 sgg.; cfr. tuttavia G. Schwartz, op. cit., pp. 402 sgg. Cremona: i diplomi sono raccolti in Astegiano, Codex diplomatica Cremonae, « Hist. Patr. Mon. », ser. n, voi. xxi-xxii, Torino 1895; ivi, voi. il, pp. 225 sgg. un valido abbozzo di storia cremonese sino al 1334. La citazione è da Tacito, Hist., m, 34. Sui traffici fluviali di Cremona cfr. Schaube, Handelsgeschichte, § 51, p. 70, § 557, p. 708; inoltre Liutprant, Legatio, c. 33, mg-ss. Oktav, p. 192. Il diploma di Ottone m: mg-do, ih, n. 198, p. 606; cfr. ivi, n. 222 e 270. Il diploma di donazione di Matilde di Toscana: Astegiano, voi. i, p. 92, n. 203, voi. n, p. 282; Ficker, Forschungen, n, § 301, p. 200; Sicardo da Cremona, mg-ss., xxxi, p. 162. Su tutto il problema di Federico n che prende le parti di Cremona cfr. Ficker, Forsch., il, § 373, p. 419 sgg.; Winkelmann, Beitrdge zur Gesch. Fr., p. 11., fzdg, vii, pp. 293 sgg.

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I favori di Federico a Cremona: baci., n. 1074, 1075, p. 772; n. 1077, 1078, p. 774; n. 1080, 1081, p. 776; n. 1082, p. 777. Ivi n. 1086, 1087, 1088, pp. 781 sg. in rapporto a una lite per certi diritti di navigazione. Cremona madrina di Corrado iv: A. De Stefano, Federico II e le correnti spirituali del suo tempo, Roma 1922, pp. 104 sg.; ivi, p. 106, la notizia che Federico pensava di far di Cremona una nuova Roma: col che pure Cremona sarebbe entrata in quella rivalità che opponeva Milano a Roma. Non va sottovalutato il tono affatto speciale dei diplomi rilasciati a Cremona, partico­ larmente bf, 953, bact., n. 1077, p. 774; ma si v. anche bf, 1642, baci., n. 1089, pp. 782 sg., dove i cremonesi son detti « quasi hereditario iure erga imperium fidem puram habentes ». Cremona incaricata del controllo delle cose di Lombardia: bf, 995, 996, 1581, 1785; bact., n. 1080, 1081, 288, 1092. Lo stretto rapporto di Federico n con Cremona è diventato leggendario; infatti, ogni volta che egli compariva nell’Italia del nord, si spandevano subito voci secondo cui erano stati i cremonesi a chiamarlo: Tolosanus, Gesta Florent. (« Docum. di storia ital. », vi, Cronache), p. 692, c. cxxxix, ritiene che Federico lasciasse la Puglia nel 1212 « consilio Cremonensium »; Joan. Codagnellus, mg-ss. Oktav, p. 74, str. 2, dice che nel 1226 furono Cremona e Pavia a indurlo alla dieta; Chron. March. Tarv. in murat. ss., viti, 3 (nuova ed.), p. 11, informa che l’imperatore passò dalla Germania in Lombardia (nel 1236) per consiglio di Cremona e di Ezzelino da Romano. Federico stesso motivava la sua scelta di Cremona per la dieta col fatto che, oltre a essere la città tranquillamente raggiungibile sia per quanti venissero d’oltralpe sia per quanti venissero dalla direzione opposta, essa era pure « devota imperio » (Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 118). Sul grande movimento rivoluzionario delle città italiane all’inizio del xm secòlo — e anzitutto durante il primo quarto di esso —, manca sinora una trattazione organica, che sappia comprendere sotto forti direttive la copia di singoli particolari. Vi s’avvicina più degli altri E. Salzer, col suo Uber die Anfànge der Signorie in Oberitalien, « Hist. Stud. », quad. 14, 1900, pp. 87 sgg. Amplia talora lodevolmente il campo Davidsohn, Forsch., iv, pp. 8 sgg., col suo panorama su « Die Popularbewegung in italienischen Stddten zu Anfang des XIII. Jhdts ». Per gli eventi a Firenze cfr. anche Davidsohn, Gesch. v. Florenz, n, i, p. 29 sgg.; e per Bologna Hessel, Geschichte der Stadt Bologna, « Hist. Stud. », quad. 76, 1910, pp. 330 sgg. Come fonte, accanto alle varie raccolte di diplomi e di statuti cittadini (un indice in Salzer, Introduzione, pp. xm sg.), v. anzitutto il registro delle legazioni di Ugo da Ostia edito da Guido Levy (Registri dei cardinali Ugolino da Ostia e Ottaviano degli Ubaldini, Roma 1890) e del medesimo autore, Documenti ad illustrazione del registro del cardinale Ugo­ lino da Ostia, « Arch. soc. Rom. », voi. xn, 1889, pp. 241-326. La condotta dell’imperatore nei riguardi delle lotte fra le parti, differente a seconda delle città, ha sempre colpito l’attenzione; cfr. p. es. Salzer, pp. 93 sgg.; Winkelmann, Beziehungen Friedrichs II. zu den oberital. Stddten, fzdg, vii, pp. 293 sgg. Per Piacenza v. bfw, 12596a, 12638, bf, 1’238, bfw, 12679, bact., n. 945, 1084, 947, pp. 655 sg., 779 sg., secondo cui l’imperatore avrebbe bandito il partito del popolo e so­ stenuto invece quello dei cavalieri; laddove Ugolino da Ostia, dopo lungo discutere (bfw, 12696, 12715, 12716, 12718, 12719, 12739, 12754, 12766 sgg.; Levy, Registri, pp. 29 sgg., 88 sgg.), propone lo scioglimento di ambedue i partiti: bfw, 12780, bact., n. 952, p. 661; cfr. Salzer, p. 93 sg., particolarmente la nota 15; Winkelmann, fzdg, vii, pp. 312 sgg.; Levy, Documenti, pp. 261 sg.; Winkelmann, Jahrb., i, pp. 89, 165, 171 sgg. Piacenza, ch’era sempre appartenuta al gruppo di Milano (bfw, 12549a, 12553), passò, in seguito alle lotte intestine, sotto l’influenza di' Cremona (bfw, 12694, 12822, 12826, 12839); la quale concluse un’alleanza col partito dei cavalieri piacentini (bfw, 12921), che s’infranse nuovamente col rinnovamento della lega lombarda (bfw, 12934a). Un’alleanza analoga fu stretta dai cavalieri di Perugia con Città di Castello: Davidsohn, Forschungen, iv, pp. 15 sg.; e cfr. p. 28 su altre alleanze dello stesso genere. Su Pavia: bf_ 1138, 1145; wact., i, n. 179, p. 156, n. 181, p. 159; bfw, 12613, secondo cui Federico diede dapprima incarico al vescovo di Pavia di ristabilire la pace. In questa città — appartenente al gruppo di Cremona — egli non s’accostò ad alcun partito, bensì sciolse ambe le fazioni nel 1226; bf, 1644, wact., i, n. 283, p. 257; cfr. bf, 1623, QF, xv, p. 104, n. xxxii e bf, 1696, wact., i, n. 289, p. 264; Salzer, p. 95, nota 16; Winkelmann, Jahrb., i, p. 89. Sulla decisione imperiale favorevole a Pavia nella contesa con Vigevano e sui maneggi

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di Milano per attirarla nella lega cfr. Kalbfuss, Drkunden und Regesten zur Reichsgeschichte Oberitaliens, qf, xv, pp. 109 sgg., un contributo sulla difficoltà d’allora di barcamenarsi nell’Italia settentrionale. Su Cremona: bfw, 12363, Astegiano, voi. i, p. 215, n. ni, voi. n, pp. 296 sg. Qui la contesa fu composta già 1’11 marzo 1210 dal vescovo Sicardo da Cremona, il quale indusse il partito (dei cavalieri) della città vecchia ad alcune insignificanti concessioni a quello (del popolo) della città nuova, ristabilendo così la pace; cfr. « Ann. Cremon. », mg-ss., xxxi, p. 12; na, xxv, pp. 514 sg.; Salzer, p. 93. Su Parma cfr. Salzer, p. 101. Anche qui s’era acquistata la pace a prezzo di piccole concessioni ai popolari. Le battaglie vere e proprie scoppiano solo nel 1244. Su Milano cfr. Abegg, op. cit., p. 81 sgg. Il partito imperiale porta dalla sua il partito del popolo a Siena: Davidsohn, Geschichte v. Florenz, voi. n, i, pp. 262 sg. Federico n aveva cercato di far la stessa cosa coi cittadini di Roma, dove egli voleva porsi alla testa del movimento rivoluzionario, indirizzato contro il papa, e levarsi, per dir così, a podestà del popolo romano: v. nota a p. 512, capoverso 11. Il commercio epistolare delle città in Sanzanome, Gesta Florent. (« Doc. di stor. ital. », voi. vii, Firenze 1876), p. 149. Il comportamento della curia nei riguardi di Milano: Abegg, pp. 82 sgg.; Winkelmann, Jahrb., i, p. 264. L’editto contro gli eretici (ancor più pesante): mg-const., ii, n. 100, p. 126, bf, 1523; cfr. Ficker, Die gesetzliche Einfiihrung der Todesstrafe jiir Ketzerei, miòg, i, pp. 177 sgg.; H. Ch. Lea, Geschichte der Inquisition im Mittelalter, Bonn 1905, voi. i, pp. 359 sgg.; v. anche note a p. 348, capoverso 10 sgg. Costituzione della lega lombarda: bf, 12931, 12932, 12935, 12940, 12952; hb, ii, pp. 929931; Corio, Historia di Milano, Venezia 1544, pp. 89v-90v; Giiterbock, na, xxiii; p. 216. Un orientamento sull’attività dei Mendicanti in H. Hefele, Die Bettelorden und das re­ ligiose Volksleben Ober- und Mittelitaliens im XIII. Jhdt, « Beitr. z. Kulturg. d. Ma. », quad. 9, 1910. Plebei e cavalieri a Perugia: Speculum Perjectionis (ed. Sabatier, Parigi 1898), p. 208, c. 105; Davidsohn, Forsch., iv, p. 16. Le varie entrate di Federico nel territorio papale: Ficker, Forsch., n, § 381, pp. 438 sgg.; Winkelmann, Jahrb., i, pp. 274 sgg. Essenziale, inoltre — nel testo, a p. 134, non vi ho insistito a sufficienza —, che Federico si presentasse qui come protettore della chiesa. Come tale, pensava di poter levar soldati nello stato papale, tanto più che i punti principali della dieta toccavano gl’interessi della chiesa (la crociata, cioè, e lo sterminio degli eretici). Su quest’aspetto dello Staufen protettore della chiesa non se fatta sinora piena luce; cfr. tuttavia Adolf Waas, Vogtei und Fede in der deutschen Kaiserzeit, voi. i, Berlino 1919, pp. 144 sgg.; altre osservazioni in Ficker, Forschungen, n, § 335, p. 305 e § 381, p. 439; cfr. anche Schramm, Renovatio, voi. i, pp. 174 sgg. Privo di valore, malgrado le promesse del titolo, il lavoro di R. Miiller, Die rechtlichen Wandlungen der advocatio ecclesiae des ròmischen Kaisers deutscher Nation, diss., Kaiserslautern 1895. Il commercio epistolare fra l’imperatore e il papa: bfw, 6628, 14696, Ryccard. ed. Gaudenzi, pp. 123 sgg.; bfw, 6630, mg-epp. pont., i, n. 296, p. 216; bf, 1664, wact., i, n. 286, p. 261; cfr. Winkelmann, Jahrb., i, pp. 276 sgg., 544 sg. Non posso tuttavia con­ sentire con l’opinione del Winkelmann che Fazellus, De rebus stculis decades (ni edizione, senza data), lib. vili, c. 2, pp. 546 sg. (cfr. hb, ii, p. 932), nel restituire la lettera impe­ riale in forma di discorso diretto abbia conosciuto soltanto lo scritto papale « Miranda » (bfw, 6630), e non l’epistolario imperatore-papa a noi ora, pur se frammentariamente, noto grazie alla prima redazione della Cronaca di Riccardo da San Germano. Appunto la frase: « Quousque tandem patientia mea abutetur pontifex! », nonostante suoni così im­ probabile, avrebbe potuto trovarsi a piena ragione nell’introduzione (non pervenutaci) dello scritto fridericiano, dal momento che corrisponderebbe all’analoga espressione della lettera papale (in Ryccard., p. 123) « Quid tam ... pacientia nostre longanimitatis abuteris? » Cfr. anche bf, 1569. Senza contare che, in quest’epoca, le citazioni dalle Catilinarie ciceroniane non sono affatto frequenti. Sulla dieta e sul suo svolgimento cfr. Winkelmann, Jahrb., i, pp. 272 sgg. Spila crociata scopo principe di Federico v. Vehse, Propaganda, pp. 13 sgg. Il parere dei vescovi: bf, 1624, mg-const., ii, n. 105, p. 132; la dichiarazione della scomunica: bf, 1658, mg-const., ii, n. 107, p. 136. La storia del complotto dei faentini contro il presunto imperatore: bf, 1605b; Matth Paris., mg-ss., xxvm, pp. 230 sg.

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Il soggiorno a Pisa: bf, 1667b; qui rincontro col matematico Leonardo da Pisa. Per la datazione dell’incontro all’anno 1226 (che, come è noto, procura qualche difficoltà, poiché il Liber quadratorum di Leonardo, scritto per suggerimento di Federico, reca la data del 1225), cfr. la pausibile soluzione offerta da G. Enestròm, Bihliotheca Mathematica, voi. ix, 1908, pp. 72 sg., secondo il quale lo Staufen doveva conoscere gli scritti del matematico per lo meno un anno prima dell’incontro con lui. Gli scritti di Leonardo da Pisa sono editi dal Principe Boncompagni, Scritti di Leonardo Pisano, Roma 1857-62. Sui temi proposti dall’imperatore cfr. M. Cantor, Mathematische Beitrdge zum Kulturleben der Vòlker, Halle 1863, pp. 341 sgg., e Vorlesungen iiber Geschichte der Mathematik, voi. n (n ediz. 1899), pp. 1-53; S. Giinther, Geschichte der Mathematik, voi. i, Lipsia 1908, pp. 268 sgg.; Haskins, Studies, p. 249; Niese, HZ, 108, p. 505. Nulla di più preciso si sa sulla persona del Magister Dominicus; che fosse d’origine spagnola, è un’ipotesi di Guido Bonatti (cfr. Cantor, Vorlesungen, voi. n, p. 35). Non è comunque da confondere col noto Dominicus Hispalensis. Oltre che non è affatto stabilito che si debba identificare il maestro Giovanni da Palermo col notaio di corte (a noi cono­ sciuto da un registro del 1239/40) di tal nome (cfr. bf, 2773, hb, v, p. 726; bf, 3028, HB, v, p. 928; HB, v, pp. 727, 745), come fanno il Cantor, Vorlesungen, voi. n, p. 42, e l’Amari, Storia dei Musulmani, voi. m, p. 693; cfr. Niese, hz, 108, p. 503, nota 5. Ed è pure da decidere se questi sia da identificare col notato Giovanni da Palermo in bf, 1336. Su Michele Scotto e Maestro Teodoro v. note a p. 373, capoverso 1 sg. Anche alla curia s’aveva interesse per il matematico Leonardo da Pisa; egli stava in commercio col cardinale Ranieri da Viterbo: cfr. Boncompagni, Scritti di Leonardo Pisano, voi. il, p. 227, e E. v. Westenholz, Kardinal Rainer v. Viterbo, « Heidelb. Abh. », quad. 34, 1912, p. 4. Analogamente, il cardinale Ugolino da Ostia s’interessava di M. Scotto, cfr. Auvray, n. 61. La situazione tedesca: Winkelmann, Jahrb., i, pp. 465 sgg. La morte di Engelberto da Colonia: Ficker, Engelbert d. Heilige, Erzbischof v. Kóln und Reichsverweser, Colonia 1853, pp. 161 sgg.; H. Foerster, Engelbert v. Berg, der Heilige, Elberfeld 1925, pp. 108 sg.; Knipping, Regesten der Erzb. v. Kòln., voi. in, n. 569. Che la dieta fosse stata sabotata dal papa, è opinione, p. es., di Chron. Ursperg., mg-ss. Oktav, p. 121. Sulla mediazione della chiesa (chiesta da Federico) nella questione lombarda (v. bf, 1674, 1684; hb, ii, pp. 676, 691), cfr. Winkelmann, Jahrb., i, pp. 302 sgg. Sulle trattative cfr. mg-const., il, n. 109 sgg., pp. 141 sgg.; mg-epp. pont., i, nn. 319-321, pp. 240 sgg., nn. 327-331, pp. 246 sgg., n. 342, p. 259, n. 345, p. 263, nn. 349, 351, 352, pp. 265 sgg., n. 355, p. 269.

pp. 138-140 san Francesco - L’incontro di Federico n con Francesco d’Assisi, in Wadding, Annales Minorum, voi. n, p. 41, cap. xvi. Datare tale incontro puramente leggendario sarebbe super­ fluo: durante la vita del santo, Federico si recò soltanto due volte a Bari — e precisamente nel marzo 1221 e nel dicembre 1222 —; impensabile, in ambedue i casi, la presenza, quivi, di san Francesco. Del resto, si raccontava la stessa cosa di Ruggero n, il quale si sarebbe incontrato con san Guglielmo da Montevergine; cfr. Caspar, Roger, p. 447. Francesco si giudicava dotato di dignità principesca: cfr. Dante, Par., xi, 88 sg. Diceva infatti di sé (cfr. Tommaso da Celano, Leg. Il, c. 43 — ed. P. Eduardus Alenconiensis, Roma 1906 —, p. 227: «ego autem regalem habeo dignitatem et nobilitatem insignem »; frase che avrebbe detto a Ugolino da Ostia, il quale, per parte sua, lo chiama « princeps » in un inno; cfr. Thode, Franz v. Assisi, n ediz. 1904, p. 97, nota 1. Contro la lettura della Bibbia intesa a ricercare la bellezza in essa cfr. Tommaso da Celano, op. cit., p. 217; Leg,. II, cap. 32. Sui Terziari: Karl Miiller, Die Anfdnge des Minoritenordens und der Bussbruderschaften, Freiburg i. Br. 1885; altra letteratura in Bòhmer, Analecten zur Geschichte des Franciscus v. Assisi, Tubinga 1904, p. xxii; cfr. inoltre Davidsohn, Forschungen, iv, PP- 67 sgg., e contro di lui Brem, Papst Gregor IX. bis zum Beginn seines Pontifikates, «Heidelb. Abh.», quad. 32, 1911, pp. Ili sgg. I rapporti di Ugolino da Ostia con l’ordine: Brem, op. cit., pp. 70-110, che è da confron­ tare anche per quanto dice della personalità di Gregorio ix durante la sua giovinezza. Gli atti del cardinale in Guido Levy, Registro del Cardinale Ugolino d'Ostia. Fonti per la storia d’Italia, voi. vili (1890), e: Documenti ad illustrazione del Registro del Card. Ugolino d’Ostia, Arch. soc. Rom. », xn, 1889, pp. 241 sgg. Su Gregorio ix papa, v. nota a p. 194, capoverso 5.

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Capitolo quarto La crociata

La storia dell’occidente ci mostra che l’ultimo gradino della signoria del mondo lo salì in ogni tempo chi assoggettò anche l’oriente. Ogni grande dominatore — pare una legge — dovette rinnovare la monarchia nel suo paese d’origine prima di edificare il proprio impero in occidente, prima di poterla ricondurre, ringiovanita e splendida, più a oriente. Anche ai signori del mondo universo, anche a quei pochi, ciò fu indispensabile, per­ ché solo l’oriente conferiva loro quel nembo assoluto, celeste. E dunque, col nascere del sentimento di signoria universale degli Staufen, la crociata divenne l’ambizione più alta degli imperatori romano-germanici. Subito dopo la prima spedizione franco-normanna di Goffredo e Boemondo e Tancredi, partecipò alla seconda, chiamatovi da san Bernardo, lo Staufen Corrado m in qualità di capo dell’esercitò cristiano accanto al re di Francia; finché, dopo due decenni, il Barbarossa non fece cosciente­ mente di crociata e impero un tutto unico. La santificazione di Carlo Magno, da lui perseguita, non fu che il pri­ mo passo; poco dopo,, dietro suo ordine, un monaco di Aquisgrana com­ poneva la Legenda Karoli Magni, nella quale si dava largo spazio al crociato Carlo e al suo pellegrinaggio in Terrasanta. Si trattava in realtà della cam­ pagna condotta in Spagna da Carlo contro i mori, ma per mezzo della leg­ genda della crociata si suppliva al viaggio in oriente che sarebbe conve­ nuto alla figura di un signore universale come Carlo Magno; il Barbarossa strappò apposta la leggenda alle sue origini francesi e le ottenne ingresso in Germania, o quanto meno fu per mezzo suo che essa, voltata in senso imperial-cristiano, trovò amplissima diffusione fra i tedeschi. Il Barbarossa veniva con ciò incontro ai sogni del tempo, anzi contri­ buiva ad accenderli. Il mondo aspettava che un imperatore d’occidente entrasse in Gerusalemme, con un’ansia d’anno in anno crescente, perché a tale avvenimento erano legate nuove promesse: chi fosse entrato come re nella città santa, avrebbe portato l’atteso e bramato regno della pa­ i59

ce, premessa all’avvento dell’anticristo. A Toledo, la capitale della mantica medievale, gli astrologi assicuravano che, dopo terremoti e tempe­ ste, ancora per breve sarebbe sopravvissuto l’IsIam; mentre sibille .e leg­ gende vaticinavano che un imperatore d’occidente si unirebbe con quello d’oriente, e che l’albero secco sarebbe rinverdito non appena l’imperatore d’occidente vi avesse appeso lo scudo in segno della sua giurisdizione. Queste voci cominciarono ad acquistare sempre più forza ai tempi del Barbarossa; e con grande aspettazione si guardava alle spedizioni degli im­ peratori. Nonostante l’età ormai tarda, il Barbarossa non esitò a prender su di sé l’ambito privilegio degl’imperatori e ad addossarsi l’altissimo com­ pito, non appena si apprese che il Saladino, il gran sultano, s’era impa­ dronito di Gerusalemme (1187). Ma al vecchio — salutato alla partenza come novello Mosè che conduceva le elette schiere nella terra promessa — era destinato di vedere solo di lontano la Terrasanta.. Neppure Enrico vi, il suo potente figlio, doveva metter piede, come imperatore della cristia­ nità, nella città reale d’oriente, il cui suolo mai imperatore tedesco aveva calcato. Federico il ripigliava l’opera dove i suoi antenati l’avevano lasciata. La crociata non era per lui solo un dovere dell’imperatore e un servigio alla chiesa: a Gerusalemme lo aspettava una nuova corona. E l’oriente non rappresentava per lui, come pei suoi avi, il paese straniero e miraco­ loso, bensì la patria spirituale, giacché durante la sua giovinezza s’era formato alla scienza araba. I preparativi per la spedizione imperiale furono da lui fatti con ogni cura: come vicario del suo regno di Siria aveva man­ dato avanti il conte Tommaso d’Aquino, e in occidente gli era riuscito di ri­ destare ancora una volta l’entusiasmo per la crociata: non certo per mezzo di prediche infuocate (il suo propagandista, Ermanno di Salza, non era un san Bernardo), ma con promesse e oro a quanti accettassero di seguirlo in Terrasanta: una forza, anche questa, che allettava le schiere alla cro­ ciata. A principi, cavalieri e signori, Federico assicurò la traversata gra­ tuita, corredandola di ingenti somme di denaro. In tal modo guadagnò all’impresa una larga fetta di principi tedeschi: prima di tutti il landgravio Lodovico di Turingia, sposo di santa Elisabetta, il quale arrivò in Sicilia, nell’agosto del 1227, con un intero esercito. Pel­ legrini tedeschi d’ogni ceto varcarono le Alpi per portarsi a Brindisi, luogo destinato all’imbarco, mentre i frisoni preferirono circumnavigare la Spa­ gna — e così pure gli inglesi, che a migliaia, guidati da numerosi vescovi, avevano risposto alla chiamata. La chiesa aveva contribuito all’arruolamento spargendo indulgenze con dovizia, sicché, allettati dalle favorevoli condizioni, arrivavano a Brindisi sempre nuovi gruppi di pellegrini. I pochi che, durante il viaggio, erano

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tornati indietro, non furono quasi notati, data la massa di coloro che arri­ varono a destinazione. Alcuni, infatti, passando per Roma, erano stati in­ gannati da un imbroglione che, travestito da vicario papale, s’era messo davanti al portale di San Pietro: contro il pagamento di quattro marchi d’argento, scioglieva dal voto i crociati senza pregiudizio dell’indulgenza. I romani si divertivano a questo scherzo e non si opposero all’imbroglione, sinché non ne ebbe notizia il papa, che stava ad Anagni, e impedì in tutta fretta al « vicario » di continuare il suo lavoro. Forse sarebbe stato meglio che un numero ancor maggiore di pellegrini si fosse comperato il ritorno, perché a poco a poco convennero a Brindisi folle tanto numerose che non si poteva neppure calcolarne approssimativa­ mente il numero. L’imperatore non s’aspettava un simile afflusso: il nu­ mero di navi approntate non bastava e scarseggiavano pure i viveri che Federico non s’era certo impegnato a provvedere. Tuttavia, la flotta doveva ben presto dimostrarsi più che sufficiente, al punto che si lasciarono nel porto navi vuote: alla metà d’agosto era scoppiata a Brindisi una terribile epidemia che si portò via crociati a schiere, mentre, a quanto pare, decine di migliaia di persone fuggirono dagli accampamenti appestati e si sparsero per la penisola. Nessuno era responsabile di tanto flagello: così era già finito più d’un esercito tedesco per la calura agostana del meridione. L’affollarsi di migliaia di pellegrini non avvezzi al clima, ai cibi, al modo di vita del sud, basta a spiegare l’insorgere della pestilenza. Ne morirono àlcuni principi tedeschi, e anche l’imperatore alfine ne fu contagiato; ciononostante egli diresse ancora l’imbarco delle prime due squadre e quindi, poco prima della par­ tenza dell’ultimo contingente, che avrebbe dovuto accoglierlo insieme col landgravio Lodovico di Turingia, raggiunse l’isoletta di Sant’Andrea fuori del porto di Brindisi, per vedere se, lontano dall’aria ammorbata, potesse ristabilirsi. Anche il landgravio, il principale sostenitore dell’impresa, aveva contratto la malattia ed era partito con lui il 9 settembre, nella speranza che il viaggio e l’aria pura gli giovassero. Non fu così, perché due giorni dopo la partenza il landgravio morì; Federico allora, seguendo il consiglio dei medici, del gran maestro dell’Ordine Teutonico e del patriarca Geroldo di Gerusalemme, tornò a Otranto, rimandando la sua partenza per la crociata a quando si fosse completamente ristabilito. Dopo aver passato il comando supremo al duca di Limburgo e pro­ messo di raggiungere la Terrasanta con nuove forze nella primavera se­ guente, si recò ai bagni di Pozzuoli per cercarvi guarigione. Due giudici della corte siciliana furono inviati ad Anagni dal papa per comunicare l’accaduto e presentare le scuse dell’imperatore. I rapporti con Gregorio ix durante i primi mesi del suo pontificato 161

erano stati improntati ad amicizia: Federico non aveva perso occasione di mostrarsi ben disposto verso di lui, talché, per il momento, non si profila­ vano motivi di discordia da nessuna delle parti. L’imperatore aveva rego­ larmente avviato la crociata; e Gregorio, per parte sua, già da cardinale s’era mostrato ben inclinato verso il pupillo della curia d’un tempo, chia­ mandolo persino, pochi anni avanti, « pianta prediletta della chiesa ». Da allora, però, la sua inclinazione era sostanzialmente mutata. Con finissimo intuito, aguzzato ancor più dalla frequentazione di san Francesco, papa Gregorio aveva fiutato in anticipo l’enorme pericolo che Federico rappresentava, e proprio in un momento in cui nessuno ancora ne era cosciente. Pur non essendo uno statista vero e proprio, sapeva non­ dimeno da buon diplomatico valutare tutte le cabale della politica; sicché, quando s’era svolta la campagna di Lombardia, egli aveva avvertito subito l’approssimarsi d’un nuovo pericolo per lo stato della chiesa. Siccome il patrìmonium Petri sbarrava all’imperatore la via per il nord, e siccome l’imperatore diventava sempre più potente, non c’era dubbio che la terra del papa fosse minacciata; e poiché il papa, visti gli inizi dello Staufen, non poteva più sperare di farne un docile strumento della curia, restava una cosa sola da compiere: cercare di abbassare la potenza di Federico. Sin dall’inizio del suo pontificato, Gregorio ix conobbe una sola meta: l’umiliazione, se non l’annientamento di Federico n. Gregorio ix non aveva paura della lotta che riteneva inevitabile; ben­ ché vecchio, era ancora vigoroso e bello d’aspetto. Come prete, amava ele­ vare la maestà della sua persona circondandola di splendore e pompa re­ gali, e tenendo il contegno d’un imperatore coronato della tiara. Bruciava in lui una fiamma selvaggia e giovanile che, come poteva brillare nel mistico abbandono d’un Francesco d’Assisi, sapeva anche trovare sfogo nell’indo­ mabile odio contro Federico n. Simili qualità, unite alla consapevolezza del pericolo fridericiano, ne fecero presto un aggressore. Papa Gregorio bramava l’annientamento dello Staufen e, ubbidendo alla necessità, non esitò un istante a cercare ogni pretesto per indurre alla lotta il rivale. Questo il suo modo, e i suoi mezzi, di combattere: piccole menzogne, accuse, calunnie; mezzi poco soddisfacenti, che ebbero spesso influenze negative e penose, e finirono per togliere all’azione del papa ogni apparenza di giustizia: ma nessuno meglio di lui conosceva le superiori esigenze della guerra. Vecchio pieno d’odio e d’ostinazione, fino all’ultima ora seguì imper­ turbato la sua strada, indifferente al fatto che lo definissero eretico o che i più vicini lo abbandonassero. Con tutte le sue piccole macchie, tuttavia, fu non solo un pericoloso nemico, ma a poco a poco divenne un vero, grande avversario. Alla prima occasione, il papa si gettò su Federico. 162

Il 12 o il 13 settembre l’imperatore aveva preso la decisione di fer­ marsi a Otranto: il 18, Gregorio ix, per rafforzare la sua posizione, fece cardinali alcuni lombardi, e, dieci giorni più tardi, scomunicò l’imperatore. Lungi dall'ascoltarli, non aveva neppure ricevuto i messi imperiali; ora, se è vero che il papa era nel pieno diritto di scomunicare l’imperatore per­ ché, stando agli accordi di San Germano, Federico aveva accettato incon­ dizionatamente la scomunica qualora non avesse osservato il termine stabi­ lito per la partenza (l’agosto del 1227) — è vero però anche che il papa, in considerazione della malattia, avrebbe potuto concedergli la dispensa. Non lo fece, e invece esercitò il diritto di bando che gli veniva dagli ac­ cordi. La situazione era chiara: l’imperatore non era partito e incorreva così nella scomunica. Dei motivi — il principale, la malattia dell’impera­ tore — Gregorio non tenne alcun conto, dichiarandoli falsi senza vedere né ascoltare chi avrebbe potuto testimoniare della loro veridicità. Gli ba­ stava il fatto che Federico fosse venuto meno ai suoi obblighi. Il mondo cristiano, già poco ben disposto verso Federico a causa dei ripetuti rinvii della crociata, avrebbe capito; e l’« opinione pubblica » costituiva in quel tempo già lucidissimo un’arma di rara importanza, che tanto l’imperatore quanto il papa cercavano con ogni zelo di conquistarsi. Eppure le avvelenate encicliche papali, piuttosto che affrontare que­ stioni concrete, si perdevano in accuse senza fondamento. Papa Onorio aveva stabilito il termine della partenza, il mese d’agosto, di comune ac­ cordo con Federico; perché, invece di prender in considerazione i pericoli d’una partenza in piena estate, s’era piuttosto tenuto conto del vantaggio di condurre la campagna di Siria nel periodo autunnale e invernale. Anche la scelta di Brindisi come luogo d’imbarco era logica, considerato che era il porto preferito per chi partiva alla volta dell’oriente: l’ultimo che i vene­ ziani toccavano prima di solcare il mediterraneo. Gregorio ix però seppe presentare al mondo le cose in maniera diversa, facendo figurare che Federico n, in seguito alla cattiva amministrazione della Sicilia — feudo della chiesa! —, non aveva potuto scegliere che Brin­ disi, il porto più malsano del regno; inoltre l’imperatore aveva scelto a bella posta il mese più malsano per la partenza; e premeditatamente aveva approntato navi in numero insufficiente, e colla stessa premeditazione aveva trattenuto molti pellegrini, causando in tal modo l’epidemia. Non passò molto che il papa si spinse oltre, affermando che l’impe­ ratore aveva non solo procurato la morte dei pellegrini, ma altresì avvele­ nato il landgravio di Turingia: infine il male di Federico non stava nel corpo, ma nello spirito: egli non aveva saputo sottrarsi alle delizie del suo regno, giudicandole preferibili alla spedizione in Terrasanta. Di altro ancora doveva essere informata la cristianità: anche la catastrofe di Da163

inietta era colpa dell’imperatore, responsabile per sovrammercato di quella del Nilo (mentre invece Federico aveva messo in guardia i crociati da quel­ l’impresa); Federico inoltre aveva permesso ai suoi di mettere a sacco la città, abbandonata poi nelle mani del sultano. Quanto alla nuova spedi­ zione, Federico era venuto meno ai suoi impegni sin dapprincipio col non provvedere né al numero necessario di navi — e questo è vero —, né ai vive­ ri per i pellegrini; i mille cavalieri, poi, che aveva promesso, non s’eran visti; come non s’erano viste le centomila once d’oro che s’era impegnato a pagare. Certo, Gregorio doveva ben presto prendere atto di quanto gli dicevano i vescovi siciliani e l’ammiraglio Enrico di Malta: che cioè il loro signore aveva spedito in Siria ben più che mille cavalieri, che l’oro era stato ver­ sato, e che l’imperatore s’era bensì impegnato per il trasporto dei pellegrini, ma non per il loro sostentamento. Un’altra cosa che il papa avrebbe dovuto ricordare era che i lombardi s’erano scordati i quattrocento cavalieri che avrebbero dovuto inviare a titolo di riparazione per l’arbitrio delle Chiuse. Le rettifiche dei vescovi non ebbero tuttavia alcun frutto, o meglio ne eb­ bero uno: quello di indurre il papa a rinnovare la scomunica. L’imperatore s’era frattanto detto disposto a ogni penitenza e aveva ribadito la promessa di partire nel maggio prossimo. Prese la scomunica come il solito provvedimento disciplinare della chiesa in cui incorrevano i crociati morosi, che poteva essere revocato dietro appropriata penitenza; e in effetti il papa non aveva appigli per negare l’assoluzione a uno come lui che si fosse convenientemente pentito. Ma siccome Gregorio aveva altri disegni, la scomunica doveva restare tale; a tal fine il papa mise la faccenda su un terreno diverso, dove non era più la questione della mancata par­ tenza a colmare il vaso delle colpe di Federico: si trattava tutt’a un tratto dell’amministrazione della Sicilia, feudo del papa; dell’asservimento del clero siculo; di controversie che rimontavano ad anni prima, quali la scon­ fitta e l’esilio dei baroni; d’altre questioni regolate ormai da tempo; e infine d’una quantità di nuove accuse senza fondamento, per non dire che talune di esse erano addirittura false. Papa Gregorio non aveva alcuna intenzione di risolvere il conflitto: al contrario, voleva rendere insanabile la frattura. A una sola condizione Federico avrebbe potuto ottenere la cancellazione della scomunica: accet­ tando la superiore vigilanza del papa sulla Sicilia; e siccome non poteva assoggettarvisi, non era il caso di pensare a una conciliazione. Gregorio ix aveva in mente, all’incirca, questo: procurare in occidente tali difficoltà all’imperatore, che neppure nel maggio dell’anno seguente gli fosse possibile partire. Se infatti Federico fosse, ancora una volta, ri­ masto, il papa avrebbe acquistato agli occhi del mondo il diritto di inca­ merare il regno di Sicilia come feudo della chiesa, o quanto meno di de­ 164

porre l’imperatore maldisposto e fedifrago, come Innocenzo m aveva fatto col guelfo Ottone. La Lombardia era adesso il terreno ideale per creare difficoltà: e il papa cominciò ad avvicinarsi ai lombardi. Non contento d’aver fatto cardinali alcuni lombardi senza far parola del mancato invio dei famosi cavalieri, Gregorio si spinse più in là: quando l’imperatore decise di convocare per il maggio prossimo un’assemblea di principi tedeschi a Ravenna, per consultarsi con loro sulla nuova contesa, spinse i lombardi a sbarrare nuovamente le Chiuse: sicché Federico si vide costretto a rinunciare ancora una volta alla dieta. L’accordo fra il papa e la lega, alla quale, fatta eccezione di Cremona e di tre o quattro altre città, apparteneva ormai tutta quanta la Lombardia, andò- tanto oltre, da tramutarsi in un’alleanza vera e propria; e siccome il papa aveva tutto l’interesse a che Federico non potesse partire per la cro­ ciata, fece in modo che i suoi alleati lombardi assalissero e depredassero quanti traversavano la regione diretti alla crociata. Questi i preparativi del papa. Non che mancassero resistenze inattese. Quando papa Grégorio rinnovò la scomunica a Federico il giovedì santo (proprio nel giorno cioè in cui si proclamavano le scomuniche), la nobiltà romana capeggiata dai Frangipani — divenuti partigiani di Federico — sollevò con gran facilità il popolo contro il vescovo di Roma; il lunedì santo, la folla assalì il papa durante la messa, in modo così minaccioso, che egli riuscì a stento a sottrarsi agli oltraggi rifugiandosi in Laterano. I ro­ mani non sembravano più disposti, per il momento, a tollerare la presenza di Gregorio nella loro città, sicché egli, avuto un salvacondotto, se ne fuggì a Rieti. Federico il aveva taciuto a lungo di fronte a tutte le accuse del papa, nella speranza che la contesa si sarebbe rapidamente appianata; infine però fu costretto a rintuzzare i rimproveri, e si mise anch’egli a pubblicare enci­ cliche. Queste (le prime encicliche di Federico), contrariamente a quelle papali erano improntate a perfetta calma e oggettività, senza invettive, tese soltanto a mettere in chiaro gli avvenimenti di Brindisi e la condotta del pontefice. Federico non aveva interesse ad approfondire un dissidio che, secondo le parole del cronista, « per anni aveva afflitto il mondo cristiano di nuove e inusitate tribolazioni »; per questo si mostrò, nel complesso, misurato. Solo verso la fine del suo primo scritto s’avverte un certo pathos quando protesta « al cospetto del cielo e della terra », e così esorta i re e i principi d’Europa, i vescovi e i grandi di Germania: « Curate che, in reverenza a noi, le presenti righe siano lette ed ascoltate, affinché da esse balzi chiara ed evidente la nostra innocenza e lo smacco subito da noi e dall’impero. » In Roma poi, la sua capitale, la pubblicazione dello scritto imperiale 165

avvenne in modo tutto particolare: per desiderio del senato e del popolo, l’inviato di Federico, il giudice di corte Roffredo di Benevento, lesse l’epi­ stola dall’alto del Campidoglio. Questi « manifesti » dell’imperatore avevano di mira la limitazione del conflitto ai fotti concreti. Faceva rilevare che la scomunica non era ingiustificata, ma che tuttavia l’aveva colto unicamente perché non aveva adempiuto al suo giuramento di crociato: fatto che il papa aveva preme­ ditatamente passato in secondo piano. Per togliere le armi di mano a Gregorio, l’imperatore dichiarava poi al mondo intero che sarebbe partito in primavera « a meno che, Dio non voglia, il dissidio non prenda, contro il nostro volere, una piega tale, da impedirci questa santa impresa ». Con ciò Federico alludeva alle macchina­ zioni papali che in due scritti posteriori designerà ancor più chiaramente, accusando Gregorio ix d’aver preso le parti di quella massa di traditori dell’imperatore che erano i milanesi; di avere ordinato di levare le armi contro di lui, e di star sobillando la Sicilia contro il suo signore. In effetti, il papa aveva vietato al clero siculo di aiutare in qualsiasi modo l’imperatore nei nuovi preparativi, minacciando del pari di sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà, se Federico non si fosse sottomesso alla curia. Ma Federico seppe informare il mondo della sua lealtà anche su tale punto: non aveva forse negato il papa la benedizione d’uso alle vele crociate prima della partenza? non aveva forse taciuto quando l’am­ basciatore imperiale, il venerando arcivescovo Alberto di Magdeburgo, gli aveva chiesto a quale espiazione Federico avrebbe dovuto 'sottoporsi? L’ac­ cusa più grave però, contro la quale Gregorio non poteva difendersi, la serbò per ultima: « Col denaro che avrebbe dovuto servire a quanti par­ tivano crociati al servizio di Dio, codesto prete romano ha assoldato mer­ cenari per combattere contro di noi in tutti quei modi che solo egli conosce. » Federico sapeva bene che, così parlando, avrebbe messo le cose sotto una certa luce, ma che gli sarebbe toccato poi di dimostrare la sua buona volontà « coi fatti, non colla bocca »: solo in questo modo poteva respin­ gere gli assalti del papa e rivolgere contro di lui le sue stesse armi, met­ tendolo, col suo agire, a nudo dinanzi al mondo e tacciando di menzogna le sue parole. Nulla doveva più trattenerlo dal partire, neppure il divieto conseguente alla scomunica del papa, il quale temeva « suggerimenti dia­ bolici ». Le mene dell’accorto Gregorio erano ormai sin troppo trasparenti: fin che non fosse revocata la scomunica Federico non poteva partire, e fin che non fosse partito non avrebbe potuto liberarsi dalla scomunica. Date le circostanze, fu una mossa di rara abilità il non lasciarsi disto­ 166

gliere dal proposito di partire. Per diventare padrone della situazione, ci volevano fatti chiari: e Federico mandò avanti, nella primavera, il ma­ resciallo dell’impero Riccardo Filangieri con cinquecento cavalieri; tenne a Barletta un’assemblea, durante la quale nominò reggente del regno di Sicilia Rinaldo di Urslingen, duca titolare di Spoleto; e, ricevute buone notizie dalla Siria, s’imbarcò a Brindisi sulle sue galere alla fine di giugno. « Già lasciammo Brindisi verso la Siria in condizioni favorevoli e viag­ giamo veloci col ventò in poppa, con Cristo al timone... »: in questi termini l’imperatore comunicava l’inizio del viaggio. Nessuno s’aspettava che Federico partisse, meno che mai Gregorio ix, il quale ora si trovava in una situazione penosa. « Noi non sappiamo quale pazzo consiglio abbia seguito, meglio: quale artificio diabolico abbia in­ dotto colui a lasciare nascostamente il porto di Brindisi, senza assoluzione e senza espiazione; senza che si sapesse con sicurezza dove fosse diretto, » scrisse il papa poco più tardi. Ma pur vedendosi dalla parte del torto, Gre­ gorio non pensò affatto a cedere: al contrario, ora che sapeva l’imperatore lontano, credette di avere mano libera in occidente. Appena ricevuta la notizia che Federico era sbarcato in Siria, Gregorio aprì le ostilità, sciogliendo tedeschi e siciliani dal giuramento di fedeltà, e cercando subito poi di mettere un anti-re sul trono di Germania. Trovò anche questa volta un guelfo, il quale però ben presto cambiò idea, per nulla desideroso di fare la fine dello zio Ottone iv... Principi e vescovi stettero questa volta dalla parte dell’imperatore. La scomunica che aveva colto anche il sedicenne re Enrico non li sgomentò; anzi, non appena giunsero in Germania le notizie delle prime vittorie di Federico, anche la plebe sottopose a dura critica le macchinazioni del papa, affermando che « era posseduto dal demonio » e che « era malato di cer­ vello e seguitava a ostinarsi ». Chi diceva che questo era un segno abomi­ nevole della caduta della chiesa, chi esclamava: « il popolo cristiano si vergognerà di ciò sino al giorno del giudizio »; ma quello che suscitava, in Germania come dappertutto in Europa, la maggiore indignazione, era la condotta del papa in Sicilia. Il reggente del regno, Rinaldo di Spoleto, prese lo scioglimento dei sudditi dal vincolo di fedeltà come una dichiarazione di guerra e irruppe, con un esercito composto di siciliani e saraceni, nella Marca e quindi nel suo stesso ducato — il che andava certo al di là dei poteri a lui commessi. Il papa allora, che da tempo vi era preparato, entrò in Sicilia col proprio esercito — il primo mai raccolto sotto le insegne di Pietro: i cosiddetti « soldati delle chiavi » — appoggiato dai ribelli lombardi; mise all’opera i Francescani e, diffusa ad arte la notizia che l’imperatore era morto, si trovò in breve tempo padrone di molte province continentali del regno.

Ora non si mettevano più in dubbio le parole di Federico, che Gre­ gorio si serviva del denaro crociato per le sue soldatesche. Il papa man­ teneva un esercito per far guerra a un principe cristiano! anzi a un crociato che combatteva in terre lontane per la vera fede! un crociato la cui terra e i cui averi, consacrati da una tradizione antichissima, avrebbero dovuto essere sotto la protezione della chiesa! Nessuno credeva più alle giustifica­ zioni di Gregorio, anche se in ultima analisi erano ben fondate: « Questa guerra è voluta da Dio ed è necessaria affinché un persecutore strapotente della chiesa venga cacciato dai fastigi dell’impero. » Di tale necessità Gre­ gorio era ben cosciente: ma quello che il mondo vedeva, era proprio l’opposto. La decisione dell’imperatore di lasciare l’occidente fu una mossa d’in­ comparabile audacia: partendo, la Lombardia era, senza meno, perduta; il papa (Federico lo sapeva bene) avrebbe sciolto i siciliani dal giuramento di fedeltà e si sarebbe annessa la Sicilia, feudo vacante; a questo atto poi (Federico era abbastanza esperto per prevederlo) sarebbe senza dubbio se­ guita la sua deposizione dal trono imperiale. Era in gioco la sua signoria sull’occidente: e se fosse intervenuta anche una sola sconfitta in oriente — nella quale si sarebbe visto chiaro il giudizio di Dio contro la hybris dello scomunicato, che da maledetto aveva osato mettere piede in Terra­ santa — sarebbero andati irrimediabilmente perduti per Federico n, in­ sieme con le sue corone di re, anche i sogni d’un nuovo impero romano. Non gli restava dunque altra via d’uscita: doveva a ogni costo aver successo in oriente. Gravi momenti lo aspettavano, Federico lo sapeva bene, ma — come disse egli stesso — non lo dava a vedere, conservando sempre di fronte al mondo un viso sereno e tranquillo. Questa singolare crociata, intrapresa da uno scomunicato, perseguitato dalla maledizione papale fin in Terrasanta, resta davvero fra gli avveni­ menti più belli d’una vita che contò tanti avvenimenti bellissimi: perché Federico, strappato per breve tempo al disordine dell’occidente, potè sen­ tirsi libero come un avventuriero o (così pensava Gregorio ix) come « un pirata ». Federico il aveva lasciato Brindisi nel giugno 1228 con una flotta di quaranta galere al comando dell’ammiraglio Enrico di Malta. Accompa­ gnavano l’imperatore il fido arcivescovo Berardo di Palermo, al suo fianco in ogni occasione, il camerlengo Riccardo (un siciliano che, dal viaggio in Germania del puer Apuliae in poi, era sempre rimasto con lui), l’arcive­ scovo Giacomo di Capua (anch’egli fra gli intimi). Altri amici, il gran maestro dell’Ordine Teutonico, il conte Tommaso d’Aquino e il mare­ sciallo dell’impero Riccardo Filangieri, lo aspettavano in Siria. Numerosi anche i tedeschi al suo seguito; uno di questi, Corrado di Hohenlohe, passò 168

presto al servizio personale dell’imperatore. Fra i saraceni che lo accom­ pagnavano come al solito v’era il suo maestro di dialettica araba, un sara­ ceno di Sicilia; e più importante di battaglie e armi doveva rivelarsi all’im­ peratore poliglotta la conoscenza dell’arabo parlato. Quando papa Gregorio scriveva che non si sapeva neppure con esat­ tezza dove Federico fosse diretto, aveva i suoi buoni motivi. Perché l’im­ peratore unì alla crociata anche un’altra impresa: a tre settimane dalla partenza, dopo una navigazione per lo più costiera passando davanti a Corfù Cefalonia Creta, le sue galere gettarono le ancore a Limassol, il porto di Cipro. Signore dell’isola era Amalarico di Lusignano, che se n’era fatto infeudare da Enrico vi. Da allora Cipro era dunque un feudo dell’im­ pero, ma, durante gli anni di caos in Germania, anche Cipro era andata perduta, sicché si rendeva necessaria una sosta perché Federico, come aveva da lungo divisato, potesse riconquistarla. Il possesso di Cipro avrebbe ac­ quistato grande importanza come punto d’appoggio per la campagna di Siria: l’isola poteva fornire facilmente il vettovagliamento per mille soldati. Basti per ora il fatto che Federico, se pure a prezzo di qualche scara­ muccia, ottenne a Cipro quanto voleva. Si venne a un patto con Giovanni d’Ibelin, tutore del re dodicenne, un nobile siriaco noto in tutto l’oriente cristiano come valente giurisperito e celebrato per eloquenza e sottile scaltrezza. Secondo Giovanni era giusto che la tutela passasse, come d’uso nel diritto feudale germanico, all’imperatore. Federico nominò subito un vicario siciliano, affidò le piazzeforti a castellani siculi e la riscossione delle imposte nei vari distretti a funzionari del fisco imperiale. Giovanni d’Ibelin e i cavalieri ciprioti dovettero seguire l’esercito crociato in Terrasanta. Questi i fatti del soggiorno a Cipro durato più settimane. L’epopea cavalleresca, vissuta da Federico anche in molti altri episodi, vi aggiunse poi molto di suo; come, per esempio, Giovanni d’Ibelin, il capo degli avversari di Federico, gli si presentò dinanzi vestito a lutto per la recente morte del fratello; e allora l’imperatore gli fece donare preziose vesti scar­ latte in gran copia, pregandolo di accettare l’offerta: perché la gioia di ve­ dere l’imperatore doveva superare anche il dolore per la perdita d’un fra­ tello. In uno dei giorni seguenti ebbe luogo un sontuoso banchetto, nel quale Ibelin sedette alla destra di Federico, mentre i suoi figli facevano da paggi; verso la fine del banchetto però il castello cominciò a empirsi di armati e marinai delle galere imperiali, e Federico, con tono ruvido, pre­ tese dall’Ibelin che gli desse conto delle sue azioni. Spaventato, questi non seppe sul principio cosa rispondere; ma quando l’imperatore adirato giurò solennemente che l’avrebbe fatto arrestare, il celebre giurista fu co­ stretto a una delle sue famose uscite, che alla corte siriaca s’era soliti ascol­ tare con ansiosa meraviglia — e Federico pure se ne stupì. L’evento però 169

rese diffidente Ibelin che, una notte, fuggì di nascosto coi cavalieri ciprioti, i quali già da lungo avevano messo in guardia il loro capo, e meditavano ora di vendicarsi dell’atto di forza dell’imperatore. Messo sull’avviso dal rumore dei fuggitivi e temendo un agguato, questi passò la notte vicino alle navi con l’intenzione d’inseguirli l’indomani. Ibelin e i suoi andarono a rifugiarsi nell’imprendibile castello di Dieu d’Amour. Poi si addivenne a un trattato, e l’avventura finì. Ibelin seguì l’imperatore in Terrasanta, e gli rese anche buoni servigi — ma solo per potersi vendicare ancora più aspramente in seguito. La notizia del rapido successo a Cipro deve aver preceduto Federico in Siria, perché, giunto ad Acri, vi fu accolto con indescrivibile giubilo, e invocato come « salute d’Israele », come voleva l’antichissima e sempre viva profezia che dall’occidente sarebbe venuto un imperatore a unire est e ovest, a liberare Gerusalemme e a compiere i tempi. Anche il clero venne a dargli il benvenuto, sia pur negando allo scomunicato il bacio di rito: ma Giovanniti e Templari si prostrarono ai suoi piedi. I musulmani credettero che il potente signore dell’occidente, il « re degli emiri », fosse venuto con schiere innumerevoli, ed ebbero paura. Ben presto appresero tuttavia che i loro timori erano infondati: al massimo diecimila crociati e mille cavalieri suppergiù Federico poteva aver raccolto ad Acri. Passò poco, e l’imperatore seppe di non poter contare neppure sulla completa fedeltà di questo piccolo esercito. Pochi giorni dopo l’arrivo, infatti, giunsero due francescani, messi del papa, coll’ordine che non si ubbidisse allo scomunicato. Così la lotta fra papa e imperatore si trasferiva in Terrasanta: dove ci si sarebbe aspettato piuttosto che Federico, adempiuto il voto, fosse sciolto dalla scomunica. Il risultato fu che la sua posizione di capo della cristianità ne fu minata e i crociati si divisero in due fazioni: per Federico siciliani tedeschi pisani genovesi; contro, tutti gli altri, inglesi e francesi, Templari e Giovanniti, e massime il clero. Una la meta della fazione av­ versaria: ostacolare e impedire sin dove fosse possibile ogni azione del­ l’imperatore. Federico si comportò con molta prudenza, cercando di togliere alla di­ scordia la sua ragion d’essere, e giunse al punto di cedere il comando del­ l’impresa, almeno di nome, al gran maestro dell’Ordine Teutonico Erman­ no di Salza, al maresciallo dell’impero Riccardo Filangieri e al connestabile siriaco Odo di Montbeliard, perché non si avesse a obbedire a lui, a uno scomunicato. Per amor di pace, accondiscese persino alla pretesa dei Tem­ plari che gli ordini non fossero più dati in nome suo ma di Dio e della cristianità. Ma ogni moderazione era inutile sinché il papa e il suo legato, il patriarca di Gerusalemme Geroldo, attizzavano il fuoco contro di lui.

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L’opposizione, anziché spegnersi, andava rafforzandosi di giorno in giorno; e per di più venne ad aggravare le cose la notizia che il papa aveva sciolto i sudditi dal giuramento di fedeltà: la campagna d’oriente s’annunciava dunque più dura del previsto. Altre condizioni poi impedivano un’azione militare contro i saraceni, quand’anche Federico ne avesse avuto l’inten­ zione (e non sarebbe proprio stato il caso). Ancora poco prima la situazione politica orientale gli era stata straor­ dinariamente favorevole. I principi musulmani erano in lotta fra loro e l’imperatore aveva pensato di approfittarne. Già da lungo erano in corso trattative col sultano d’Egitto Al-Kamil il quale, figlio del primo Egiubide, il cavalleresco Saladino (il cui vasto regno era stato suddiviso dopo la sua morte), si credeva minacciato dal fratello Al-Asraf, sultano di Damasco, e cercava aiuto contro di lui. Saputo che l’imperatore d’occidente prepa­ rava la crociata, che l’avrebbe reso necessariamente nemico del sultano damasceno, Al-Kamil spedì immediatamente ambasciatori in Sicilia ad of­ frire alleanza, chiedendo di poter cooperare con Federico alla conquista del regno di Gerusalemme che sarebbe rimasto poi all’imperatore: solo, era necessaria una sollecita partenza da parte sua. Seguirono altre ambascerie da ambo le parti, condotte, per il sultano dall’emiro Fahr-ed-Din, per Federico dall’arcivescovo Berardo di Palermo; si scambiarono anche doni e l’imperatore ebbe un elefante. Le trattative erano a buon punto quando Federico arrivò, più tardi del previsto, ad Acri e mandò il suo vicario di Siria, conte Tommaso d’Aquino, ad annunciare il suo arrivo al sultano. Si narrò in seguito che Al-Kamil avesse coperto di tappeti le strade per dove sarebbe passato Federico; in realtà l’accoglienza non fu un gran che. Al-Kamil stava allora accampato con un grande esercito a Nablus, dove ricevette con grande onore i messi imperiali e li fece assistere a una parata militare. Mandò Fahr-ed-Din all’imperatore con preziosi doni, stoffe e gioielli, veloci cammelli e muli: ma della cessione di Gerusalemme non si parlò più, perché la situazione era sostanzialmente mutata a sfavore dello Staufen. Al-Asraf, il sultano di Damasco, il temuto nemico comune, era morto, e il figlio ancora bambino non appariva ad Al-Kamil un avversario pericoloso; al punto che, alleato da breve tempo col sultano di Mesopotamia, s’impadronì di gran parte del regno damasceno e di Gerusalemme stessa senza l’aiuto di Federico. L’imperatore pretendeva terre che appartenevano ormai, per diritto di conquista, al sultano d’Egitto. Al-Kamil ricorse pertanto ai mezzi con­ sueti degli orientali in simili circostanze: cortesie sperticate, infinite atten­ zioni, le più vivaci dichiarazioni d’amicizia; il tutto allo scopo di lasciar morire nel silenzio la cosa più importante. Inoltre al sultano non erano

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ignoti l’esiguità delle truppe imperiali, il disaccordo fra i cristiani, il dis­ sidio tra il papa e Federico, sicché finì ben presto per dimenticare la pre­ senza dell’imperatore, ignorando bellamente l’invio d’un nuovo messo dello Staufen, un notaio. Le cose si mettevano decisamente male per Federico: tutto congiurava contro di lui. Eppure doveva riuscire a ogni costo. Affrontare con le armi il potente esercito del sultano era un’audacia impensabile; le truppe che aveva mandato a Giaffa a scopo dimostrativo erano alla fame perché le navi non potevano rifornirle a causa delle tempeste; le trattative nelle quali da principio aveva riposto le sue speranze fallivano, mentre giungeva dalla Sicilia notizia degli atti bellicosi del papa; e nel suo accampamento pren­ devano sempre più piede le macchinazioni contro di lui. Da lettere intercettate si seppe che i partigiani del papa esortavano il sultano a non cedere Gerusalemme: si giungeva a tanto perché un suc­ cesso di Federico, dello scomunicato, sarebbe stato quasi un giudizio di­ vino verso il pontefice. Che allora si credesse il papa personalmente, di­ rettamente responsabile di tradimento, lo mostrano finte lettere e molte leggende crociate legate a questi avvenimenti, le quali, in tarde redazioni, parlano persino di un imprigionamento dell’imperatore. Il papa avrebbe fatto « ritrarre » Federico mandando poi la sua imtriagine al sultano perché questi non si sbagliasse sulla sua identità. Mentre la sua presenza in Sicilia si faceva estremamente necessaria, l’imperatore era costretto a perdere nell’inazione un tempo prezioso. Non abbiamo difficoltà a credere a quanto ebbe a dire in seguito, che egli pianse allora di rabbia e di dolore e pensò subito al ritorno: « Pur celando fretto­ losamente il mio cocente dolore dietro un aspetto di serenità, affinché i ne­ mici, tenuti all’oscuro, non ne giubilassero, io cominciai a negoziare di pace e trattati, e affrettai il ritorno. » Effettivamente, in un momento così privo di prospettive, furono an­ cora una volta avviate trattative, e, per l’appunto, proprio coll’aiuto dei nemici. L’emiro Fahr-ed-Din, profondo ammiratore e amico personale di Federico, gli fece capire come avrebbe potuto raggiungere il suo scopo mandando al sultano un altro ambasciatore in luogo del notaio, a quegli sgradito; così il conte Tommaso d’Aquino prese il posto del notaio alla corte del sultano, mentre Federico n continuava le trattative con Fahr-edDin. Il fascino della persona, la vasta cultura, l’abile dialettica, non seconda ad alcun’altra, mettevano Federico all’altezza di ogni avversario, quantun­ que l’acceso orgoglio e lo spirito spesso sferzante potessero divenirgli peri­ colosi. Tanto più pericolosi in quanto non si trattava qui di far valere delle pretese, ma di ottenere dei favori. Tuttavia, con Fahr-ed-Din non c’era 172

questo rischio, anzi, dopo tante schermaglie, i colloqui fra il dotto impe­ ratore e il' colto emiro dovettero essere un vero sollievo. Federico conosceva perfettamente la lingua araba e i suoi poeti; stupe­ facente la sua familiarità con la filosofìa e la logica come con la matematica, la farmaceutica e tutte le altre discipline. Allo stesso modo che aveva sa­ puto trattare coi saraceni trapiantati a Lucerà, così si muoveva ora fra i principi saraceni con l’assoluta sicurezza dell’uomo di mondo. Durante i colloqui con Fahr-ed-Din, fece cadere il discorso sulla filosofia e sulle isti­ tuzioni statali; e qualcosa delle sue idee dovette certo giungere all’orecchio del sultano per il tramite dell’emiro. Anche Al-Kamil era tuttavia in grado di apprezzare le sue qualità. Il sultano sarebbe anzi stato il Federico dell’oriente se meglio non corrispon­ desse ai fatti il rapporto inverso. Al-Kamil amava disputare coi dotti di giurisprudenza e di grammatica, disciplina particolarmente coltivata dagli arabi; poeta egli stesso, del quale ci sono tramandati i versi, si narra che nel suo castello sui monti sedessero, la sera, sui loro scanni attorno al trono, cinquanta dotti, coi quali s’intratteneva. Mecenate, fondò al Cairo una scuola per la scienza delle tradizioni e assegnò stipendi ai rappresentanti del diritto. Restò famoso per la gentilezza dei modi e per il contegno austero che meritava rispetto. Fu un amministratore eccellente; rivedeva di persona le liste delle imposte e sapeva inventarne di nuove e impensate. Come Federico, rifuggiva da inutili spargimenti di sangue quando fosse possibile pervenire allo stesso scopo con le buone maniere. Le trattative portarono presto a buoni risultati. Il poco che si sa in­ torno a esse, è sufficiente a mostrare come Federico cercasse di guadagnarsi i musulmani prima di tutto sulla base di rapporti d’amicizia personale. Affermava di non esser venuto a conquistare, bensì a prendere pacifica­ mente possesso di territori che già prima gli erano stati assegnati; come ebbe a dire a chiusura delle trattative, condotte sempre con questo tono conciliante: « Se io non avessi dovuto temere la perdita del mio prestigio presso i franchi, non avrei mai preteso tali patti dal sultano. » Nulla trapelò delle trattative sinché furono in corso. Di questa impe­ netrabilità da parte dell’imperatore, richiesta dalla frattura in campo cri­ stiano, fu fatto grande rimprovero allo Staufen. Per i partigiani di Grego­ rio ix era uno scandalo che Federico scendesse a trattative con gli infedeli; ma anche il poeta svevo Freidank, che partecipava alla crociata ed era grande ammiratore dello Staufen, trovava che le trattative condotte senza l’alto consiglio avevano un valore molto dubbio. Né i tedeschi né i partigiani di Gregorio potevano approvare che l’imperatore, accentrando su di sé autocraticamente ogni potere, intavolasse accordi senza consultarsi coi gran­ di; ma questo modo di procedere corrispondeva alle vedute di Federico i73

non meno che a quelle di Al-Kamil, il quale, a quanto si dice, usava prov­ vedere in prima persona agli affari di stato, senza fare affidamento sul visir (al punto che, dopo la morte di questo, non ne nominò altri, contentandosi di uno scrivano). Del resto, lo Staufen era abbastanza accorto per sapere quanto si sa­ rebbe potuto ottenere seguendo la via di trattative aperte, e quanto sulla base di rapporti personali. Il trattato concluso finalmente da Federico n il 18 febbraio 1229 mo­ stra chiaramente l’impronta della condiscendenza personale del sultano; ai cristiani, però, parve che avesse un difetto sostanziale, quello appunto d’es­ sere garantito soltanto dalle promesse che Federico e Al-Kamil s’erano scambiate. L’imperatore rientrava in possesso di Gerusalemme, ad eccezione del recinto di Haran-esh-Sherif, luogo sacro ai musulmani, dove sorgevano la moschea di Omar e il tempio di Salomone; ai cristiani era concesso di entrarvi a pregare, così com’era lecito ai musulmani recarsi a Betlemme, ceduta a Federico. Il quale ebbe anche Nazareth, una striscia di terra dalla costa a Gerusalemme, Sidone, Cesarea, Giaffa, Acri e altro ancora. Tutti questi luoghi potevano inoltre essere fortificati dai cristiani; e se anche il regno di Gerusalemme non era in grado di difendersi militarmente in tale forma, costituiva però una certa garanzia la stipulazione di un armistizio decennale, che Federico, grazie alla sua amicizia con Al-Kamil, sperava di prolungare quando fosse scaduto. Certo, il trattato aveva i suoi punti deboli: ma gli attacchi fanatici del partito papale contro questo lavoro abborracciato erano privi di fonda­ mento. Federico n aveva ottenuto quanto era fallito a tutti gli altri cro­ ciati dopo la conquista di Gerusalemme da parte del Saladino: la libera­ zione cioè della città santa. Quando Federico, chiamati a convegno i pellegrini tedeschi, annunciò loro il risultato delle trattative, il giubilo fu enorme; ed egli, per consiglio di Ermanno di Salza, risolse di entrare per primo, alla testa dei pellegrini, in Gerusalemme liberata. Alla gioia dei suoi partigiani corrispose, logicamente, il dispetto degli avversari. Il patriarca Geroldo vietò ai pellegrini di recarsi a Gerusalemme con Federico, e scrisse al papa: « Nient’altro stava a cuore ai tedeschi se non di visitare il santo sepolcro, e furono gli unici a sciogliersi in canti di lode e ad illuminare la città a festa; mentre tutti gli altri stimavano l’accaduto una sciocchezza. » L’odio di Geroldo per l’imperatore varcò ben presto ogni misura: glos­ sandone farisaicamente i punti deboli, fece al papa una relazione dettagliata sul trattato, presentando l’imperatore come un mentecatto che s’era lasciato i74

abbindolare dai musulmani, e battendo amaramente sul fatto che nel trat­ tato non si faceva il minimo cenno alla restituzione dei beni a chiese e conventi. Il papa non esitò a dipingere al mondo un quadro ancor più fo­ sco della situazione col mettere malignamente in risalto l’empietà di Fede­ rico, reo di aver trattato cogli infedeli e d’aver consentito ai pagani di en­ trare a Gerusalemme: che poi in realtà Federico avesse ottenuto risultati migliori d’ogni altro crociato degli ultimi tempi, era una cosa che papa Gregorio seppe abilmente dissimulare. L’impressione prodotta nel mondo musulmano dalla perdita di Geru­ salemme mostra del resto che ALKamil aveva spinto al massimo le sue concessioni, oltre le quali non si sarebbe potuti andare. « Gerusalemme, » aveva scritto una volta il Saladino a Riccardo Cuordileone, « è per noi al­ trettanto ed ancor più sacra che per i cristiani, poiché fu qui che il Profeta ascese nottetempo al cielo, e qui si raccolgono gli angeli. » Al-Kamil fu chiamato a render conto del suo atto dal califfo di Bagdad; gli altri sultani si adirarono contro di lui, e il lutto per la perdita della città santa — considerata il più grave colpo infetto all’IsIam — sfociò in aperte manifestazioni d’ostilità contro Al-Kamil, culminate in una funzione reli­ giosa di protesta. Alla quale il sultano rispose tout-court coll’asportare dalle moschee gli oggetti preziosi; provvedimento che non mancò di fare una certa impressione a Federico. I musulmani però dovettero riconoscere anche che Al-Kamil, avendo chiamato di persona l’imperatore, si era trovato preso al laccio; e si conso­ larono fidando nel futuro e nella volontà di Allah. In effetti, il vantaggio che il sultano ritraeva dall’accordo era molto limitato e si riduceva soltanto a ciò, che era stornato il pericolo di una nuova crociata, la quale avrebbe disturbato le sue azioni di conquista. I rapporti fra Al-Kamil e Federico, però, furono sempre più cordiali, benché tale amicizia fosse tacciata d’eresia da un campo come dall’altro. Federico dovette il suo indiscutibile successo, la liberazione di Gerusa­ lemme, innanzitutto all’emiro Fahr-ed-Din. La tradizione vuole che egli l’abbia fatto cavaliere, permettendogli inoltre d’inserire fra le sue insegne l’aquila imperiale: il che non presenta nulla di strano in sé (si racconta lo stesso di Riccardo Cuordileone), per la ragione che il mondo d'allora, l’oc­ cidente come l’oriente, era come una grande koinè di cavalieri: la diver­ sità di religione non costituiva una barriera insormontabile. Le norme della cavalleria (come provano l’epopea di Firdusi ed altre ancora) erano state coniate in oriente, in Persia molto prima che in Europa. Il sentimento della comunità cavalleresca era vivo in ambedue le parti del mondo. Nell’epica occidentale, il cavaliere saraceno appare sempre no­ bile e generoso: basti pensare a Feirefiss, il fratello disonorato di Parsifal, i75

che viene in aiuto di Ortnit; al saggio pagano Zaccaria, al Medoro dell’Ariosto; ma anzitutto al Saladino, vanto della cavalleria orientale, posto da Dante nel Limbo fra gli eroi e i grandi poeti pagani, benché fosse pro­ prio colui che aveva tolto Gerusalemme ai cristiani. Federico n doveva conoscere un altro esempio della cavalleria degli orientali. Aveva in animo di compiere, con poco seguito, un pellegrinaggio al punto del Giordano dove Cristo era stato battezzato; i Templari, ciechi strumenti del patriarca, ne informarono Al-Kamil (a quel che si pretende, dietro istigazione del papa) prospettandogli l’opportunità di far prigioniero Federico, magari di ucciderlo, se volesse. « Nauseato dalla bassezza del tra­ dimento » Al-Kamil mandò la lettera a Federico con alcune parole d’ac­ compagnamento. L’imperatore perseguitò da allora in poi i Templari con odio inestinguibile. Il sultano si ebbe il ringraziamento di Federico e la sua eterna amicizia che, dopo la morte di lui, fu trasferita al figlio. In generale, gli arabi conservarono un buon ricordo dell’imperatore. Un po’ per interesse politico, un po’ per inclinazione personale, s’era sem­ pre mostrato come uno dei loro e, se aveva una sincera ammirazione specialmente per la scienza araba, aveva pure ostentato in ogni occasione un profondo rispetto per la loro religione e i loro costumi. I musulmani raccontavano alcune storie su di lui, che, anche nel tono, corrispondono al modo di comportarsi di Federico. L’imperatore era stato condotto alla moschea di Omar da un emiro del sultano; uscendo, notò, dinanzi alla porta della chiesa sacra agli arabi, un prete cristiano che, Van­ gelo alla mano, chiedeva l’elemosina ai pellegrini. Federico lo colpì, pieno d’ira, al petto, così da farlo cadere; e gridò: « Tutti noi siamo solo schiavi del sultano che tanto ci permette; e tu,’ tu osi calpestare i confini che egli ha segnato! Fa’ ch’io sorprenda un altro di voi qui, e lo uccido senza fallo. » Anche i modi brutali dell’imperatore quando s’adirava sono noti e se n’è parlato più volte.A Gerusalemme, Federico aveva residenza nella casa del kadi Shamsed-Din. Per gentilezza verso il suo amico e per non recare offesa ai suoi sentimenti religiosi, il sultano aveva espressamente vietato, ai muezzin di chiamare i fedeli alla preghiera per il tempo del soggiorno dell’imperatore. Uno di loro però, dimentico dell’ordine, salì un mattino in cima al mina­ reto e cominciò a recitare proprio dei versetti avversi ai cristiani. Richiesto di spiegazioni dal kadi, tralasciò la funzione della seconda parte della notte. Il mattino seguente, Federico fece chiamare il kadi e gli domandò perché il muezzin non avesse lanciato il suo grido; quando seppe dell’ordine del sultano: « O kadi, » si dice abbia risposto, « farei ingiustizia a voi, se, per me, doveste cambiare culto religione costumi. Neppure se voi foste nella mia terra, dovreste mutare i vostri usi. » E infatti, quando più tardi un 176

dotto arabo si recò a visitare re Manfredi, fu non poco stupito di udire i muezzin chiamare in arabo i fedeli alla preghiera dall’alto delle torri di Lucerà. Che l’imperatore (del quale si raccontava anche la storia delle tre anella) avesse opinioni personalissime sulle religioni, ben diverse da quelle cor­ renti al tempo suo, gli arabi lo appresero anche in altra occasione. Sulla cupola della moschea di Gerusalemme il Saladino aveva fatto incidere, dopo la conquista, le parole: « Salah-ed-Din epurò questo tempio dai politeisti. » Federico, letta l’iscrizione, fece le viste di non capire e chiese, per mettere in imbarazzo i musulmani, chi mai fossero codesti politeisti. Rispostogli che, con tale termine, si designavano i credenti nella Trinità, domandò ancora: « A che servono le grate alle finestre della mo­ schea? » « A che i passeri non possano entrare. » Allora Federico, ser­ vendosi dell’insulto che gli arabi facevano ai cristiani, agl’impuri: « Eppu­ re Allah ha permesso che vi entrassero dei maiali! » L’imperatore riuscì a impressionare, con simili uscite, perfino i sara­ ceni, i quali non lo giudicarono tanto un cristiano quanto un materialista non credente nell’immortalità dell’anima. Il suo aspetto esteriore — media la statura, senza barba il viso — non faceva grande impressione; dicevano anzi che « se fosse uno schiavo, non varrebbe duecento dracme »; ma pia­ ceva la sua affabilità e la nobiltà dell’animo. Sbalordiva poi che all’ora della preghiera di mezzodì, i servi dell’imperatore (compresi i saraceni di Sicilia al suo seguito), e anzi il suo stesso maestro, si levassero, come veri credenti, a pregare. Federico aveva condotto la guerra non come guerra di religione ma esclusivamente come una faccenda di stato, una questione dell’impero, non della chiesa: nulla di più chiaro del suo seguito composto di musulmani... Logico pure che, fedele ai suoi fini politici, si comportasse, in Siria, da orientale: non ebbe Napoleone forse l’intenzione di farsi chiamare in Egit­ to « sultano El-Kebir »? Così Federico il non disdegnò di ricorrere di quando in quando a forme schiettamente orientali, in Siria. A conclusione del trattato, per esempio, giurò di « mangiare la carne della mano sinistra » se non vi avesse tenuto fede; e quando le trattative si ancorarono ed egli marciò con le sue truppe alla volta di Giaffa, inviò al sultano, giocando sul simbolismo orientale, la sua armatura, elmo e corazza, a significare che restavano pur sempre le armi per risolvere la cosa. Per altri grandi l’oriente ebbe anche altri significati; per lo Staufen, c’era, nel fondo, una sconfinata ammirazione per lo spirito arabo. Fede­ rico il si trovava nel paese allora fonte d’ogni scienza per l’Europa. Quello che l’Italia e Roma furono per le terre del nord, ciò che l’Ellade, la sua i77

arte e la sua filosofia, rappresentarono per Roma, questo fu la scienza ellenistico-orientale per lo spirito occidentale d’allora. Più d’ogni altro Federico n si adoprò per schiudere all’occidente que­ sta fonte di scienza: grazie alla sua vasta apertura spirituale e all’origine siciliana, era predestinato a essere uno dei grandi mediatori fra i due mon­ di. Lo vediamo infatti parlare di filosofia con Fahr-ed-Din; di problemi d’algebra e di geometria con Al-Kamil; frequentare il più celebre astro­ nomo arabo da lui richiesto al sultano. E non solo queste discipline, ma pure l’architettura lo appassionava: la moschea di Omar, colla sua regolare forma ottagona e la cupola verde-dorata, lo riempì d’ammirazione; volle salirne il pergamo. Anche la caccia attirò la sua attenzione. « Allorché fum­ mo in oriente, » ebbe a scrivere, « notammo che anche gli arabi si servono d’un cappuccio per la caccia col falcone... I re d’Arabia ci inviarono i loro falconieri, espertissimi in quest’arte, con falchi dei tipi più diversi. » Va da sé che, come ci mostra il frammento di un colloquio, egli rivolse il massimo interesse alle istituzioni politiche. Intrattenendosi con Fahr-edDin sul califfato, questi gli spiegò come quello degli Abbasidi derivasse in linea diretta da Al-Abbas, lo zio del Profeta, e fosse sempre rimasto nella famiglia del fondatore: « Questo è bene, » disse l’imperatore, « anzi molto meglio del sistema di quei mentecatti, i cristiani dico, che si prendono per capo spirituale il primo che capita, senza il minimo rapporto di parentela col messia, e ne fanno il suo rappresentante in terra. Colui, il papa, non ha il minimo diritto di rivestire una tale carica, mentre lo ha il vostro ca­ liffo come discendente dello zio di Maometto. » Erompe già qui l’orgoglio del sangue di colui che più tardi si definirà, in opposizione al papa, vero figlio d’imperatore e nipote di re. Su tutto * ciò poggia l’accusa papale che Federico avesse preso costumi saraceni; e la leggenda — parte in buona, parte in mala fede — rafforzò l’accusa. Le danzatrici saracene che il sultano aveva inviato all’imperatore perché lo dilettassero, diventano, nello scritto del pontefice, donne cristiane, che Federico costrinse a danzare di fronte ai saraceni « prima di congiun­ gersi carnalmente con loro »; e un pellegrino inglese scrisse in patria che l’imperatore aveva sposato la figlia del sultano e cinquanta saracene. A tali dicerie può avere contribuito da un lato il matrimonio con Isa­ bella di Gerusalemme, dall’altro il fatto che egli avesse avuto un figlio naturale, Federico d’Antiochia, di cui era ignota la madre (ma che si sup­ poneva orientale, dato il nome del figlio). Più tardi si raccontò perfino che le donne musulmane avevano cominciato a portare il loro costume, il ciarciaf nero, in segno di lutto, a partire dal giorno che Federico s’era imbar­ cato per l’occidente. È chiaro che il soggiorno di Federico in Terrasanta, e particolarmente 178

i suoi rapporti con gli Assassini (con un ramo dei quali, gli ismaeliti del Libano, egli ebbe realmente uno scambio d’ambascerie) eccitarono al mas­ simo la fantasia dei contemporanei. Gli Assassini, come raccontò Marco Polo una generazione dopo, erano una setta di fanatici, i quali, educati dal loro capo Hassan Sabbah (il Vecchio della Montagna) a obbedire cieca­ mente, venivano adoperati per ogni strage che servisse alla causa dell’IsIam. Codesta obbedienza si otteneva nel modo seguente: ci s’impadroniva di ra­ gazzi stimati adatti, li si costringeva a vivere per alcuni anni una vita asce­ tica, non parlando loro altro se non delle bellezze del paradiso. Giunto il momento opportuno, ricevevano un bel giorno, insieme col cibo, una be­ vanda a base di hashish, grazie alla quale si svegliavano in un giardino vera­ mente paradisiaco che il Vecchio della Montagna, seguendo alla lettera il Corano, aveva fatto preparare in una magnifica valle dove scorrevano ru­ scelli di vino, latte e miele, si vedevano fontane zampillanti, e uri e fan­ ciulli. Dopo aver goduto alcuni giorni di tali delizie, gli educandi riceve­ vano una seconda bevanda drogata, s’addormentavano, e si risvegliavano alla tavola del Vecchio — con un desiderio disperato di godere ancora di quel paradiso. Ma, veniva detto loro, l’avrebbero rivisto solo se fossero morti al servizio del Vecchio. Sicché, da quel momento, la morte stava in vetta ai desideri degli Assassini. Con questa terribile setta dunque (sotto i pugnali della quale perirono molti nobili crociati) Federico n era stato per breve in relazione, e si favo­ leggiava persino d’una sua visita al Vecchio della Montagna. Il quale, per mostrargli l’ubbidienza degli adepti, fece cenno a due Assassini che sta­ vano in cima a un’alta torre, che si buttassero giù: e quelli, felici di ritor­ nare in paradiso, ubbidirono senza esitare. Una leggenda più tarda racconta addirittura che Federico stesso si mise ad allevare un corpo speciale di « ubbidienti pugnalatoti ». Avrebbe chiuso dei bambini in una cella, mostrandosi loro di quando in quando, dopo aver ordinato che gli si dicesse che l’imperatore era Dio in persona. Quando i piccoli reclusi udirono questo, « credettero invero che quegli fosse Dio venuto dal cielo ». Non ci fu assassinio di principe a quel tempo che non fosse attribuito agli Assassini dell’imperatore, e i papi aiutarono la diffu­ sione della diceria. Benché tutto questo sia destituito di ogni realtà storica, è curioso tut­ tavia come le storie di eventi meravigliosi e raccapriccianti di un deter­ minato periodo si condensino sempre attorno a un personaggio, cercando un sostegno in esso, vuoi per essere credute grazie all’autorità del nome, vuoi per quel piacere di vedere inclusi in un sol uomo due mondi diversi, il reale e l’inverosimile — nel caso nostro, il mondo di Maometto e quello di Cristo, dell’imperatore e dei califfi. Ma l’atmosfera della terra dei califfi 179

che tiene ferma la figura di Federico n allo spazio statico e sospeso dei sogni, e torna a ogni passo sotto altri segni e altre manifestazioni in ogni situa­ zione della sua vita, è una premessa indispensabile per capire il suo asso­ lutismo: la vita dei singoli non è che materia per il suo volere e dovere, per l’arbitrio del despota, del sultano, che solò conosce le necessità ultime delle sue decisioni. D’altra parte, l’imperatore che, sotto le sembianze del Vecchio della Montagna, appare come Dio stesso ai suoi prigionieri, rappresenta chiara­ mente non più il fato d’un solo uomo, come il puer Apuliae, ma quello d’un intero popolo o d’una comunità. Nessun dubbio che l’assoluta obbe­ dienza da un lato, l’illimitato potere e l’aura fatale che circonfondeva il despota orientale dall’altro, abbiano profondamente toccato l’imperatorq Federico. Come gli scriveva pochi anni dopo, in tono di aspro rimprovero, il papa: « Nel [suo] regno di Sicilia, nessuno osava muovere un dito senza [suo] ordine. » Quello che risalta dai racconti, dai colloqui, dal modo di comportarsi dell’imperatore durante il soggiorno siriaco e dalla frequentazione dei mu­ sulmani, è la sconfinata ammirazione, il profondo rispetto che Federico n manifestava per loro e per le loro cose. Certo, v’erano anche motivi politici per questo; e tuttavia identico per tutta la vita permase il suo atteggiamento nei loro riguardi. Quando Federico, più tardi, mostrava a qualche ospite particolarmente importante il suo prezioso planetario, dove sole luna stelle si muovevano in arcana armonia, amava dire che questo era un dono del suo amico arabo, il sultano, e la cosa più cara che avesse dopo re Corrado, suo diletto figlio ed erede. Donde si può intendere l’enorme pregio in cui egli, quasi unico signore dell’occidente, tanto più forte e importante di loro, teneva i prin­ cipi musulmani. Si gloriava d’essere amico dei re musulmani. Richiese occasionalmente al sultano d’Egitto piccole scolte da impiegare contro i ribelli lombardi; deplorò di non poter intervenire per evitare certi avvenimenti in oriente, sospirando: « Ah, se vivesse ancora il mio amico Al-Kamil! » A una dieta di principi tedeschi in Friuli, tributò particolare onore agli inviati dei suoi amici arabi, celebrando con loro, alla presenza dei principi e dei vescovi, la festa musulmana dell’Egira con un grande banchetto, e facendosi quindi accompagnare da loro in Puglia. Alla morte di Al-Kamil, col quale pure aveva avuto soltanto contatti fugaci, se ne dolse a lungo e pianse amara­ mente l’amico — a quanto racconta il cronista (che giustifica così il dolore dell’imperatore: « Pianse perché colui era morto senza battesimo »). Tutto questo spiega come ora, per la prima volta, Federico si sentisse nella posi­ zione di chi riceve: l’oriente e gli orientali gli apparivano in certo modo 180

superiori a tutti quelli che egli aveva ammirato come superiori a lui stesso, e quindi se ne professava scolaro: anzi qualcosa di più, se dobbiamo cre­ dergli quando dice: « Tutti noi siamo solo schiavi del sultano. » Di qui i suoi sforzi per comportarsi, per apparire come uno di quei principi tanto ammirati, sia ponendo ai sultani problemi di matematica e di filosofia, sia pregando i califfi di consegnare una lettera imperiale, conte­ nente questioni analoghe, a questo od a quel dotto. Dopo il ritorno in Italia, mantenne ancora vivo il contatto epistolare coi musulmani, raccontando loro delle sue lotte contro il papa e i lombardi, e citando i più celebri poeti arabi. E si chiudono, le lettere, con l’esibizione, alla maniera araba, dei suoi molti titoli: « Federico, figlio dell’imperatore Enrico, figlio dell’imperatore Federico... » Persino nello scambio dei doni faceva a gara coi venerati sultani, come quando, ricevuto un elefante da Al-Kamil, contraccambiò con un orso bian­ co, che, con stupore degli arabi, mangiava solo pesci: evidente l’orgoglio dell’imperatore di poter rispondere a quello del sultano, con un dono al­ trettanto prezioso. Nei contatti di Federico con gli orientali è dato cogliere la gratitudine del beneficato — quella gratitudine che avrebbero voluto poter pretendere da lui i papi: perché se Federico doveva a qualcuno l’acquisizione d’un nuovo mondo spirituale, nel senso più alto del termine, lo doveva agli orientali. Quand’anche l’imperatore agisse così solo per acquistarsi l’am­ mirazione dei musulmani, bisogna dire che ci riuscì: nessun principe occi­ dentale infatti riscosse mai tanta simpatia fra gli orientali. Suscitavano già profonda impressione la sua vasta cultura, i suoi rapporti epistolari coi dotti d’Egitto e di Siria, d’Arabia, dell’Iraq e dello Yemen, del Marocco e di Spagna; ma poi si diffusero fra loro gli eventi memorabili della sua vita: le sue lotte coi lombardi, le congiure ordite dal papa; si parlava cor­ rentemente di Lombardia e di Toscana, e si citavano con ammirazione il gran numero di titoli dell’imperatore con tutti i nomi dei suoi regni e delle sue province. « Ho voluto inserire [i suoi titoli], » dice uno storico arabo, « per chiarire quali regni si trovino riuniti sotto il suo scettro di re e di imperatore. Poiché, invero, dai tempi d’Alessandro a oggi, non s’è veduto mai nel mondo cristiano un monarca pari a questo per potenza: che osa persino provocare il papa e i suoi califfi, e scendere a battaglia con lui, e sconfiggerlo. » Ancora un secolo più tardi si consideravano le costellazioni politiche d’Italia facendo riferimento a Federico li: « Chi vuol dominare l’Italia, » si diceva, « dev’essere in ottimi rapporti col papa, aver Milano in proprio potere, e disporre inoltre di buoni astrologi. » Ogni grande, dopo il macedone, doveva rinnovare a suo modo, in senso 181

spirituale, le nozze di Susa. Quanto a Federico, la sua passione per l’oriente e il suo modo di abbandonarsi a questo « altro da sé » senza perdervisi, fu di tipo personalissimo. Quello che inebriava Federico non erano tanto gli spazi sterminati, il fascino malioso che a lui, siciliano, meglio che ad altri « era connaturato già da tempo »; lo avvinceva piuttosto la libertà sconfinata dello spirito, librantesi sopra ogni barriera scolastica o ecclesiastica. Questa libertà che, primo e unico degli imperatori medievali, fece sua direttamente, la sposò, al suo ritorno, all’impero romano cristiano-germanico, all’impero degli Ot­ toni, dai Salii, e degli Staufen. Non il viaggio soltanto, bensì anche il trionfo ottenuto lo cinsero del nimbo dei Cesari. Il 17 marzo 1229 Federico n fece il suo ingresso nella città regale di Gerusalemme. Lo seguiva, nonostante il divieto del patriarca Geroldo, la gran massa dei pellegrini, spinti non meno dal desiderio di visitare devotamente il santo sepolcro, che da quello di essere testimoni del compimento dell’antichissima profezia che voleva un signore d’occidente a liberatore di Gerusalemme. Già da un decennio avanti una diffusa predizione araba aveva nominato un re di Calabria come liberatore del Sepolcro, e già si credeva vicino anche il re d’oriente che avrebbe assalito l’IsIam alle spalle. Ma anche se allora si sapeva che nell’oriente estremo i musulmani dovevano combattere duramen­ te — ed era vero — non si sapeva tuttavia che cosa in realtà significasse. Poiché quel brontolio lontano proveniva dalle orde di Gengis-Kahn, mentre i cristiani credevano ancora a Prete Gianni, il re nestoriano di Gerusa­ lemme, con il quale si pretendeva che l’imperatore avesse già scambiato ambascerie. Per i « pii » (come Federico chiamò allora per la prima volta i suoi partigiani) non v’era dubbio che proprio Federico n, col seguito di pelle­ grini, fosse l’imperatore della « pienezza dei tempi », al quale, come per miracolo, « senza lotta e senza strumenti di guerra » e senza spargimen­ to di sangue era riuscito di compiere il vaticinio. La parte papale in­ vece gli prestò subito i tratti dell’anticristo venuto a oltraggiare la fede, a troneggiare come un dio nel tempio del Signore, per gettare nella confu­ sione il mondo e i veri credenti. Il giorno dell’entrata in Gerusalemme, Federico si recò alla chiesa del Santo Sepolcro « per adorare Dio, come imperatore cattolico, davanti alla sua tomba » — come scrisse. Tutto il mondo era quell’opinione che, sic­ come egli aveva compiuto non solo il giuramento di crociato, ma anche la liberazione della città santa, fosse ormai caduta la scomunica: « perché davanti a Dio la scomunica non va oltre la colpa degli uomini », diceva quasi ereticamente Freidank, ponendo in questione così tutto il potere 182

papale di legare e di sciogliere. E aggiungeva, in tono ancora più ostile: « Giusta è l’obbedienza sinché il maestro fa il bene. Ma quando voglia costringere Dio all’ingiustizia, dobbiamo allora abbandonarlo e porci ac­ canto a chi è nel giusto. » Della stessa opinione erano altri pellegrini; e in Germania, dopo non molto, si definì « eretico » il papa stesso. Anche l’imperatore si considerava ormai libero dalla scomunica, al pun­ to che intendeva, la domenica, far celebrare un servizio divino nella chiesa del Santo Sepolcro; ma ne fu sconsigliato dall’abile e prudente Ermanno di Salza, per non provocare maggiormente lo sdegno del papa (il quale non aveva risposto a nessuna delle numerose offerte di riconciliazione indiriz­ zategli, anche negli ultimi tempi, da Federico). Per l’irriducibilità di Gregorio ix si ebbe il 18 marzo nella chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme la più memorabile autoincoronazione im­ periale che la storia ricordi fino a Napoleone. Paludato delle vesti imperiali, seguito dal corteggio dei suoi e degli amici, s’avanzò l’imperatore scomunicato e al di fuori ormai della comunità dei credenti, nella chiesa del Santo Sepolcro: e laddove il primo re di Geru­ salemme aveva con umile commozione rifiutato la corona d’oro, asserendo che il Cristo l’aveva portata di spine, Federico n invece, senza l’interme­ diario della chiesa, senza vescovo, senza messa d’incoronazione, superbo e senza rimorso ascese l’altare, prese la corona di Gerusalemme e se la pose egli stesso in capo. Senza volerlo, anzi quasi contro la sua volontà, Fede­ rico compiva così un atto simbolico di ampia portata: rinnovava nel luogo più sacro della cristianità la dipendenza diretta della regalità da Dio e si legava trionfante a Dio senza l’intermediario della chiesa. La dipendenza immediata dell’autorità imperiale da Dio, negata dai papi sin dall’edificazione della gerarchia ecclesiastica, Federico n raffer­ mava non tanto sulla base di dottrine o teori'e, quanto sulla base del mira­ colo, chiaro e manifesto a tutto il mondo, della sua ascesa: il che mostrava la diretta predilezione della sua persona di imperatore più che della astratta regalità. Le dottrine potevano certo rafforzare questo aspetto personale, col dare un certo carattere soprannaturale alla maestà dell’imperatore: prima dei dissidi, papa Gregorio stesso aveva scritto a Federico che Dio aveva dato all’imperatore il rango di un cherubino, e più tardi si scrisse che l’im­ peratore era stato elevato al rango « di un secondo cherubino, non di un serafino, in segno della somiglianza di lui col Figlio Unigenito ». Questo carattere angelico, che anche Innocenzo m aveva preteso per sé (« inferiore a Dio, ma superiore agli uomini ») Federico lo rivendicò annunziando al mondo il suo trionfo in Gerusalemme. Subito dopo l’inco­ ronazione, parlò alla folla dei pellegrini, ed Ermanno di Salza ripetè le sue 183

parole in tedesco e in latino; esse risuonarono ancor più solenni da un ma­ nifesto, destinato a partecipare a tutti i popoli della terra la gloria di quel giorno — e per la prima volta con quel pathos sublime e crescente, che doveva far ascoltare a tutto Torbe la voce quasi soprannaturale dell’impe­ ratore : « S’allietino ed esultino in Dio i retti di cuore, poiché Egli si com­ piace del Suo popolo quando dice: < Beati i pacifici. > Lodiamo anche noi colui che lodano gli angeli... » Sin dalla prima frase, dunque, Federico il mette l’accento sulla sua vici­ nanza a Dio: di diritto, egli è vicino al Signore come gli angeli, similmente agli angeli la sua persona si eleva sopra il popolo; attraverso la sua bocca parla la voce stessa di Dio, che annuncia ai popoli le gesta dell’imperatore come gesta di Dio medesimo, del quale l’Unto del Signore non è stato che l’esecutore — gesta, quelle operate da Dio stesso, che sono miracoli: « Il Signore Iddio stesso, che solo grandi miracoli compì, non dimentico del­ l’antica misericordia rinnova nel nostro secolo i miracoli che fece nel tempo antico, come sta scritto. Egli non sempre procede con carri e cavalli affinché risplenda al mondo la Sua potenza; ma, come ora, manifesta la Sua gloria per mezzo di una esigua schiera di uomini: affinché tutte le genti vedano e riconoscano eh'Egli è terribile nella Sua signoria, glorioso nella Sua maestà, miracoloso nei Suoi disegni sopra i figli dell’uomo; e volge i tempi a Suo grado e unisce in Uno i cuori di tutti i popoli. Perché in pochi giorni, grazie alla Sua forza più che al nostro valore, s’è felicemente compiuta quell’opera che, nei tempi andati, molti principi e vari potenti dell’orbe, né per folle di genti che avessero, né per timore che incutessero, né per altro, furono in grado di compiere... » Ciò che egli aveva fatto, l’aveva dunque fatto Dio (lascia intendere Federico n), al quale piacque di compiere grande impresa con piccolo numero di uomini...: ma celebrando il trionfo dell’Uno, l’imperatore ce­ lebra anche se stesso. Dopo l’invito ai popoli: «Guardate, ora è giunto il giorno della sal­ vezza... », il manifesto narra i miracoli con cui Dio s’è manifestato sin da principio, a consiglio e soccorso. Diffusamente è narrata la miseria dei cro­ ciati a Giaffa: privi improvvisamente di viveri a cagione delle tempeste, mentre già fra i pellegrini mormorii e paura prendevano il sopravvento, Dio comandò al mare e ai venti; e gran calma venne, e tutti esclamarono: « Com’è grande Colui che comanda ai venti e alle acque, cd esse gli ub­ bidiscono. » Dopo questo miracolo, l’imperatore narrava delle altre difficoltà che Dio stesso, e il figlio di Lui, avevano, per mezzo suo, miracolosamente eli­ minato. Le schiere del sultano erano soltanto a un giorno di marcia, e Cristo stesso, guardando dalla sua altezza alla pazienza e alla devozione dell’im­ 184

peratore, aveva diretto le trattative così che questi potesse liberare la città santa: anzi l’accordo fu firmato proprio il giorno dell'Ascensione, celebrato solennemente da tutti. E raccontava in fine brevemente del giorno in cui, imperatore scomunicato, aveva in Gerusalemme preso la corona: « Il Si­ gnore onnipotente, che dal trono della maestà Sua a noi la riserbava, ci ha, per grazia particolare della Sua clemenza, miracolosamente innalzato fra tutti i principi della terra: cosicché, mentre noi ci affidiamo al giubilo vittorioso di quest’alto onore, si sparga più e più fra le genti tutte la nuova che la mano del Signore ha compiuto tutto questo. E poiché tutte le cose recano l’impronta della Sua misericordia, tutti i credenti nella vera fede devono ormai riconoscere e proclamare a ogni luogo della terra, che Colui che è benedetto nei secoli ci ha visitato, ci ha creato liberatori del popolo Suo, e istituiti a pilastro della casa di Davide, Suo figliolo. » In apparenza segno di devozione, riportare ogni azione a Dio serviva a innalzare la persona dell’imperatore. Per la prima volta Federico n tra­ sferì su di sé le parole che, nelle Scritture, riguardavano il figlio di Dio, perché era proprio il regno divino ’di Davide che avvicinava lui, l’impera­ tore, al Salvatore. Non era cosa nuova; ma se gli imperatori, a partire da Carlo Magno, si erano sentiti eredi e successori di Davide, l’eletto da Dio, ciò costituiva un appoggio all’antica rivendicazione della diretta dipendenza da Dio dell’autorità imperiale: come diceva la formula d’incoronazione « Tu levasti Davide, il figlio Tuo, ai fastigi del trono ». Una cosa però era rivendicare, un’altra veder attuata questa pretesa, Federico n non solo pretende di avere ricevuto l’eredità spirituale di Da­ vide: ma detiene ora l’eredità materiale di Davide, e in modo miracoloso, e presceltovi da Dio. Può presentarsi al mondo come re di Gerusalemme: «Tu fosti Davide in Gerusalemme! », lo celebrano; « E che il nostro Sal­ vatore Gesù di Nazareth esca dalla stirpe di Davide, ci riempie di gioia, » scrive egli stesso. Qualcosa di analogo aveva in mente anche un poeta tedesco, quando, celebrando in esametri entusiastici il trionfo dell’imperatore e paragonan­ dolo all’altro re di Gerusalemme, scriveva: Intona grida di giubilo e venera il nome del Signore, o Gerusalemme... poiché come il sublime re Gesù un tempo, ora Federico imperatore, come Quegli pronto al martirio, si leva nel tuo splendore. Ambedue fecero offerta: il primo di Sé pel secondo, di sé e del suo il secondo per la gloria del primo... Re di Gerusalemme sono considerati insieme in questi versi Cristo e Federico come successori di Davide, come figli di Dio, entità angeliche,

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mediatrici fra Dio e l’uomo. Questo legame mancava a un Goffredo di Bu­ glione e ai suoi successori sul trono di Gerusalemme, perché essi non erano cosmocratori; laddove l’anticbissima formula d’incoronazione dei re di Si­ cilia (Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat — creata agli al­ bori del cristianesimo, quasi ancora in età pagana, quando Cristo era rap­ presentato in figura di Apollo trionfatore) ben si attagliava a un signore del mondo. Federico, genio con la spada della forza e della giustizia, poteva compararsi soltanto al Trionfatore, soltanto a Cristo Re come lo avevano concepito i germani quando negli anonimi versi dello Heliand avevano raf­ figurato il Signore coi suoi fedeli come un re guerriero, con alleati e cor­ teggio di seguaci. Con questo, però, erano segnati anche i confini dell’im­ peratore. L’imperatore che compie la legge viene esplicitamente chiamato, «il secondo cherubino, non serafino, in segno della simiglianza col Figlio uni­ genito... »: ma anche l’altro s’era di nuovo incarnato in un uomo: France­ sco d’Assisi, il quale aveva rinnovato il Cristo serafico, il liberatore e il martire. Fanciullo, Federico n s’era votato a Dio dopo il primo trionfo in Aquisgrana: quattordici anni più tardi, a trentacinque d’età, nel mezzo della vita, sciolse a Gerusalemme il suo giuramento e s’unì a Dio nel se­ condo trionfo. Un terzo trionfo lo attendeva nei suoi ultimi anni. Furono sempre trionfi che gli aprirono nuovo spazio vitale. Anche la chiesa conosceva un tipo di trionfo: VEcclesia triumphans, il Gloriari in Christo-, ma era un trionfo che toccava tutta la comunità, non il singolo. S’era a una svolta decisiva, perché la chiesa stessa, col suo papa Innocen­ zo in, aveva bensì trionfato nel puer Apuliae, ma nel trionfo in Dio del­ l’imperatore scomunicato non ebbe parte alcuna — e proprio per colpa dei rancori del suo maggior rappresentante. Non una parola in tutto il ma­ nifesto accenna alla chiesa trionfante: il trionfatore è Dio, il Salvatore — e l’imperatore per Sua grazia. I fatti lo dimostravano ampiamente (l’enume­ razione dei miracoli serviva appunto a questo): Federico aveva agito sotto la guida del Signore, né più né meno che i numerosi prodigi avvenuti il giorno della battaglia di Parsalo avevano dimostrato il favore degli dei per Cesare. Non per mezzo della chiesa, ma accanto ad essa e al di fuori di essa aveva Federico n compiuto l’« unione mistica » con Dio (e si può ricor­ dare come similmente l’antagonista dell’imperatore, san Francesco, l’avesse compiuta anch’egli senza l’intermediario della chiesa, ma tuttavia con la più profonda umiltà). Certo, né il trionfo ottenuto da Federico a prezzo di altissima tensione, né l’estrema sottomissione di un Francesco potevano trovar più posto nella cornice della chiesa tradizionale: come geni, come cherubino e serafino servivano sì, con la spada e con la palma, la chiesa 186

nella sua lotta contro infedeli ed eretici, ma come sudditi immediati di Dio erano in grado di fare a meno della mediazione ecclesiale, e quindi co­ stretti ambedue a cercarsi la propria comunità: l’ordine l’uno, lo stato l’altro. - L’autoincoronazione di Federico il dinanzi al sepolcro del Salvatore vuole esprimere chiaramente codesta nuova dipendenza diretta da Dio. Accanto alla luce magica, all’aura fatale dei califfi, v’era per lui la gloria radiosa, il nimbo divino dei signori d’oriente: come gli oracoli delle sibille avevano vaticinato — ma in modo diverso da come il mondo se lo aspet­ tava —, Federico n a Gerusalemme aveva unito in sé il signore d’occi­ dente con quello d’oriente; e la città santa era stata liberata. Con Federico n però, con l’unico imperatore che di persona si mise in capo la corona di Gerusalemme, fu compiuta l’era dell’impero cristiano e se ne aperse una nuova: dall’oriente Federico il non riportò una monar­ chia cristiana, bensì una monarchia occidentale rinnovata, e solo in lui, nell’imperatore « dal trono estremo », rifulse ancora una vòlta l’unione della autorità e sacralità dei primi imperatori cristiani, con lo splendore della nuova monarchia estendentesi su tutto il mondo occidentale. Il re­ gno feudale franco-germanico, consacrato dalla stirpe e dal sangue; l’im­ pero romano-staufico del Barbarossa, consacrato dalla carica, vengono an­ cora una volta innalzati da Federico n grazie al despotato orientale, che faceva apparire il detentore dell’impero supremo come l’uomo di Dio, il figlio a Lui sacro, anzi Dio stesso. Con l’acquisto di questa quarta e ultima corona aveva fine lo sviluppo di Federico il, l’ascesa da lui compiuta con le sue sole forze. Non più nella sua persona, ma nei suoi stati e per mezzo dei suoi stati doveva crescere ormai Federico; importava anzi soltanto or­ mai che egli riuscisse a suscitare, a trovare una eco in un popolo, e che questo l’afferrasse, come prometteva la potenza che Dio aveva trasferito su di lui. Il successo in oriente prese a rinsaldare in occidente la posizione del­ l’imperatore. In Germania, dove le mene papali avevano avuto scarso effet­ to, ancor maggiore fu l’effetto della vittoria. Il conte Alberto di Sassonia diffuse rapidamente il manifesto di Federico fra i tedeschi di Revai, mentre il conte Adolfo di Holstein prese a datare i suoi documenti dell’anno « del ricupero della Terrasanta da parte di Federico, imperatore invitto dei ro­ mani ». In Sicilia al contrario la situazione si faceva sempre più preoccu­ pante. Malgrado gli sforzi dei signori d’Aquino, del gran giustiziere di corte Enrico di Morra, del reggente Rinaldo di Spoleto, e malgrado i saraceni dessero per la prima volta buona prova di sé; il regno non aveva dimostrato, per lo meno durante l’assenza del suo signore, quella capacità di resistenza

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che forse Federico il aveva sperato. L’esercito imperiale era stato spaccato in due tronchi, uno in Abruzzo, l’altro presso Capua. I « soldati delle chia­ vi », al comando dell’ex re di Gerusalemme, Giovanni, erano riusciti a penetrare nel reame e ad impossessarsi della maggior parte delle province continentali. La chiesa, al solito, si presentava come « liberatrice degli oppressi »; il duro regime a cui i sudditi erano sottoposti da Federico n, la voce messa in giro dal papa della morte del sovrano e lo scioglimento dal dovere d’obbedienza, affrettarono la dissoluzione delle strutture impe­ riali, almeno sul continente. Ma anche qui restavano ancora all’imperatore abbastanza partigiani, che speravano in un suo rapido ritorno colla stessa intensità con cui i loro avversari lo temevano: Giovanni di Brienne, co­ mandante delle forze papali, aveva dato segretamente ordine di sorvegliare i porti della Puglia, perché si potesse far prigioniero Federico al momento dell’arrivo. Nonostante ogni precauzione si sparse d’improvviso all’inizio di giugno del 1229 la voce che l’imperatore era sbarcato in Puglia. Federico n aveva avuto altre sgradevoli esperienze in Terrasanta. Il giorno dell’incoronazione, nel suo discorso alla folla dei pellegrini, aveva avuto per il papa soltanto parole di conciliazione, ne aveva giustificato l’operato anziché accusarlo come gli sarebbe stato più facile — e questo si conformava pienamente al contegno da lui sempre tenuto sin dall’inizio della contesa. Ma gli avversari non ebbero minor coerenza: contrastarono il crescente successo dell’imperatore raddoppiando i loro colpi e le loro macchinazioni. Il papa non aveva riconosciuto Federico come crociato, l’aveva defi­ nito « pirata », e il patriarca Geroldo poteva quindi star sicuro che Gre­ gorio ix non avrebbe disapprovato nessuno dei suoi maneggi — quelli di cui l’imperatore aveva parlato a scusante del papa. Così avvenne alla fine che il soggiorno trionfale di Federico in Gerusalemme durò in tutto due giorni soltanto: entrato in città un sabato' presa la corona il giorno dopo, già il lunedì ne usciva. Il patriarca Geroldo, infatti, non solo fece rinnovare la scomunica per mezzo di un domenicano, ma osò colpire d’interdetto la città santa: fra lo sdegno indescrivibile dei pellegrini, i quali non potevano ora compiere le loro preghiere nei luoghi che l’imperatore aveva restituito alla cristianità, e si sentivano beffati dalla chiesa e dal papa. Dopo di che, avuta ancora' una violenta disputa col clero e coi Templari (il cui tradi­ mento avvenne appunto in quei giorni), l’imperatore lasciò seduta stante Gerusalemme, consigliando i pellegrini di unirsi a lui che s’imbarcava per Acri. Nulla poteva ormai trattenere in Terrasanta l’imperatore, che trovò ad attenderlo ad Acri cattive notizie sulla situazione in Sicilia. Impaziente 188

di tornare in patria, aveva già comandato all’ammiraglio Enrico di Malta di tenersi pronto per Pasqua ad Acri. Ma, prima di lasciare la Palestina, altri e peggiori scandali l’attende­ vano. Il patriarca, nonostante l’espresso divieto dell’imperatore, aveva as­ soldato truppe nel regno fridericiano di Gerusalemme: un’usurpazione in piena regola dei diritti imperiali, aggravata dal fatto che l’arruolamento pon poteva che essere diretto contro lo Staufen, visto che coi saraceni v’era tregua d’armi. In seguito a ciò, le truppe imperiali avevano chiuso patriarca e Templari nelle loro case in Acri, tagliati loro i viveri, bloccata la città e tirati giù dal pulpito, e bastonati, un paio di monaci mendicanti che predi­ cavano contro Federico e aizzavano alla rivolta. E non fu tutto: quando, il giorno stabilito, di mattina presto, l’impe­ ratore si diresse alle sue galere, trovò ad aspettarlo il popolaccio acceso dai pontifici, che lo rincorse gettando lordure contro di lui e il suo seguito. Con una maledizione sulle labbra, l’imperatore lasciò la Terrasanta. Di lì a poche settimane, ecco in Puglia il fatto inatteso: precedendo di molto gli altri crociati, Federico li sbarcò il 10 giugno nel porto di Brin­ disi — « Dio mi guardava », ebbe a scrivere all’emiro Fahr-ed-Din. Il suo arrivo era tanto stupefacente che, a vedere spiegate le insegne imperiali, gli abitanti della città non credevano ai propri occhi, perché già avevano pianto Federico n per morto. Solo quando videro l’imperatore in persona capirono la menzogna del papa. Grande fu il giubilo con cui Federico n fu accolto; e in brevissimo tempo si propagò la notizia del suo arrivo. La situazione era rapidamente mutata. Da Brindisi, l’imperatore si por­ tò celermente a Barletta, emanando un proclama che annunciava il suo inat­ teso ritorno; quindi esortò il presidio di Capua a resistere e a restargli fedele, e vi spedì il conte Tommaso d’Aquino, promettendo di seguirlo an­ ch’egli al più presto. Frattanto si diede a raccogliere truppe, ma senza af­ fannarsi; da ogni parte confluivano i suoi partigiani: presto apparvero Ri­ naldo di Spoleto col suo distaccamento dagli Abruzzi, il gran giustiziere coi saraceni e gli altri siciliani che avevano serbato fede all’imperatore. Caso fortunato: spinti da una burrasca, sbarcarono in gran numero a Brindisi i cavalieri tedeschi di ritorno dalla crociata, e si dichiararono pronti a soc­ correre Federico. Anche i pisani si offersero. Quando l’imperatore parlò di nuovo di intervento divino e di miracolo, ne ebbe ben donde. Intorno a Federico n s’era raccolto un esercito notevole, dove i cro­ ciati tedeschi combattevano a lato dei siciliani e dei saraceni dell’imperatore contro i soldati papalini e i lombardi — o meglio: avrebbero dovuto com­ battere, perché a un combattimento vero e proprio non si venne. Il timore dell’imperatore, la constatazione d’esser stati raggirati dal papa con la falsa voce della morte di Federico, la scarsità delle paghe, l’inabilità dei condot­ 189

tieri — e nei lombardi la poca voglia di farsi sorprendere con le armi in pugno dal loro signore in flagrante delitto di tradimento; causarono la riti­ rata precipitosa dell’« esercito delle chiavi », fino ai confini dello stato della chiesa. L’apparire dell’imperatore, anzi il suo semplice nome aveva avuto un effetto paralizzante. Qua e là riuscì ancora ai pontifici di tener saldo; ma quando Federico, alla fine d’agosto, puntò su Capua, le truppe della Santa sede non mantennero neppure le piazzeforti: senza essere attaccate fug­ girono oltre confine, benché Pelasgio, il legato pontificio, si fosse impadro­ nito del tesoro delle chiese di Montecassino e di San Germano per pagar loro il soldo (e che indignazione quando Federico n fece più tardi la stessa cosa!). Questa fu la famosa cacciata dei « soldati delle chiavi » dal regno di Sicilia. La campagna era conclusa fra l’ammirazione del mondo che vedeva Federico n vincitore ancora una volta senza colpo ferire. I musulmani lo paragonarono ad Alessandro; e il re greco di Nicea inviò dapprima un’am­ basceria e quindi doni preziosi e una forte somma di denaro come tributo. Nel contempo, i partigiani imperiali del regno d’Italia riuscirono a riportar vittoria sulle città della lega. Nel regno di Sicilia, a quel che si pretende, duecento città, nello spazio di pochi giorni, si dichiararono per l’imperatore: solo poche resistevano ancora. Esempio memorabile per queste ribelli la sorte della città di Sora: non desistendo dalla ribellione, Federico venne di persona ad assediarla, la prese e la ridusse in cenere per i secoli. Su di essa, come su Cartagine, doveva passare l’aratro, disse più tardi l’imperatore. Si spiega anche che egli abbia agito con terribile severità verso funzio­ nari infidi e verso chi l’aveva tradito: chi aveva sperato di ascendere grazie alla caduta dell’imperatore, vide attuato il suo desiderio: penzo­ larono da una forca particolarmente elevata- — come dice il cronista. Per vendicarsi del tradimento degli ordini cavallereschi occidentali, poi, Federico n incamerò tutti i beni e i possedimenti di Templari e Giovanniti in Sicilia. Che faceva il papa nel frattempo? Il papa si trovava nella situazione più difficile: cacciato da Roma dall’odio della nobiltà, esaurito il denaro, senz’armi per continuare la lotta, lasciato nelle peste dai lombardi, anche le sue grida d’aiuto ai re occidentali rimasero inascoltate. E tuttavia nes­ suna delle numerose ambascerie inviate da Federico a chiedere pace ottenne alcunché da Gregorio ix: non lui, il vinto, ma l’imperatore doveva cedere. Al quale non restava che impadronirsi dello stato della chiesa e costringere con la forza il papa alla pace — e più tardi ci provò, ma, giunto al confine dello stato pontificio, si arrestò: mostrando dunque anche in tale circostanza, 190

con accortezza, il contegno moderato e pronto alla conciliazione che egli aveva osservato per tutto il tempo della contesa. Sapeva che, stando così le cose, avrebbe nuociuto maggiormente al papa col venirgli devotamente incontro che non con un’azione di guerra. All’imperatore conveniva di più mettere in cattiva luce il papa come perturbatore della pace europea, che non impegnarsi a un’occupazione provvisoria dello stato pontificio, con un conseguente prolungarsi della scomunica, e un’aureola di martirio al capo spirituale della cristianità. Inoltre tutto l’impero richiedeva urgentemente una nuova sistemazione. Così fu mandato ancora da Gregorio ix il gran maestro dell’Ordine Teutonico, il quale già una volta, senza esito, aveva cercato di trattare la pace; e, siccome anche una parte dei cardinali disapprovava la politica papale, si addivenne per lo meno a una tregua d’armi (alla quale solo a stento il pontefice diede il suo assenso, quantunque fosse l’unico a guada­ gnarci). Ad ogni modo, ciò apriva la strada a trattative di pace. Le quali si protrassero per quasi un anno, e ciò basta a dare un’idea di quale potenza godesse la chiesa. Federico n, il vincitore, faceva la parte di chi chiede la pace, mentre il vinto, il papa, s’irrigidiva nel rifiuto e cer­ cava di dettare le condizioni di una pace che non desiderava per nulla. Qui si dimostrò come il pontefice fosse solo in misura minima un avver­ sario militare e come, nella sua qualità di capo supremo della chiesa ro­ mana, risultasse intangibile: stava nelle mani di Gregorio ix di sciogliere o di mantenere la scomunica sul capo di Federico n, il quale sarebbe ri­ masto un figlio disobbediente della chiesa sin quando non si fosse adeguato in tutto e per tutto ai suoi ordini. La scomunica, comminata per la mancata osservazione del termine di partenza per la crociata, non aveva più senso; questo però non importava a papa Gregorio, il quale aveva solo cercato di abbattere con la scomunica l’odiato imperatore: dal momento che il mezzo non era servito, Federico doveva pagare ancor più cara la riassunzione fra i cristiani. Non il papa dunque, bensì l’imperatore aveva dopo tutto interesse alla pace: le mi­ nacce di guerra non spaventavano Gregorio, anzi erano le benvenute... Durante le trattative Federico n si mostrò d’una pazienza, d’una ar­ rendevolezza quasi inconcepibili, e non fu colpa sua se mancò poco si ve­ nisse a nuova guerra. Egli si rivolse allora ai principi tedeschi perché in­ tervenissero presso il papa per la pace, ed essi, dopo molti sforzi, ottennero il consenso, rendendosi personalmente garanti che l’imperatore avrebbe ri­ spettato i patti. Il pontefice diede il consenso quando non gli restò più nulla da escogitare per negarlo. Un’altra ragione per cui Gregorio ix non gradiva concedere il perdono, era che, in questo modo, doveva necessariamente sconfessare la sua con­ 191

dotta sino a quel momento. E fece una notevole impressione udirlo definire, nell’estate del 1230, « diletto figlio della chiesa » quel Federico che sino a poco prima era stato il disprezzato « discepolo di Maometto ». Al mondo non sfuggì lo « smacco per la chiesa », come un contempo­ raneo ebbe a definire tutta la faccenda della pace, avviata a San Germano e conclusa a Ceperano. Parole ancor più accese ha un trovatore che maledice il papa e scaglia voci minacciose contro la città pontificia: « Mi consola, o Roma, che tosto giacerai in rovina, non appena il probo imperatore avrà rinsaldato la sua fortuna e farà quel che deve. » Appunto per rinsaldare la sua fortuna, cioè la sua potenza, Federico accettò condizioni di pace per lui niente affatto favorevoli. L’aver garantito l’impunità ai partigiani del papa nel regno di Sicilia, la restituzione dei beni ecclesiastici incamerati durante la guerra (compresi quelli dei Templari e dei Giovanniti), era ancora il meno: restava da risolvere il problema del clero siciliano, e a Gregorio ix il concordato dell’imperatrice Costanza non bastava più. Sembrava contraddire a tutti i principi di Federico n che, a prezzo d’uno scioglimento dalla scomunica, egli si sottoponesse a impegni di lar­ ghissima portata, come quello che il clero siciliano, astraendo da casi par­ ticolari, non sarebbe più stato soggetto alla giurisdizione civile né tenuto a pagare le imposte; e che lui stesso avrebbe rinunciato a tutti i diritti sin qui avuti nel campo dell’elezione dei vescovi. Questa pace così poco con­ veniente all’imperatore, è stata giudicata nei modi più diversi, avendo l’oc­ chio soprattutto (troppo) ai diritti imperiali sacrificati. Ma si consideri come la lotta con Onorio ni avesse chiaramente dimostrato quanto poco fossero serviti, in pratica, a Federico i diritti della corona nell’elezione dei vescovi; come l’esigere tasse e il far giudicare dal tribunale civile gli ecclesiastici avesse sempre dato luogo a controversie. Ora, sinché l’impe­ ratore viveva in pace col papa, tali questioni potevano essere superate; in caso di guerra invece tutti gli accordi avrebbero automaticamente perso ogni valore (e Federico sapeva quanto fosse vicina la guerra). Per il momento, la cosa più importante per l’imperatore era guadagnar tempo per riordinare il regno e riunire tutta la sua potenza, per poter quindi sottomettere la Lombardia. Appunto in vista di tale lotta, doveva premergli non solo d’avere avanti a sé qualche anno di tranquillità, bensì di sapere la chiesa e il papa neutrali (se non addirittura dalla sua) in questa guerra contro ribelli ed eretici. Il momento era favorevole: nella campagna di Sicilia i lombardi ave­ vano aiutato il papa molto, ma molto meno di quanto egli avesse sperato; così, negli anni seguenti una sola prospettiva guidò Federico nei suoi rap­ porti col papa: quella di mostrare alla curia quanto più vantaggioso sarebbe, 192

nel triangolo delle tre potenze, l’accordo di papa e imperatore contro i lom­ bardi, piuttosto che l’alleanza del papa e dei lombardi contro l’imperatore. Quest’unità delle due potenze, da Federico n sempre propugnata, era ben pensata, perché corrispondeva ai desideri del mondo intero: rappre­ sentava l’ordine del mondo voluto da Dio. Sotto questo rapporto lo Staufen era assolutamente reazionario; e con tanto maggior zelo cercò di incatenare a sé la curia a ogni costo, di tenerla lontana dalla lega e di riscuotere tutti gli elementi aristocratici della chiesa, per custodire l’antichissima unità delle due potenze. La cosa poteva riuscire per un certo tempo, anche perché altre ragioni la prospettavano utile al papa, come il fatto di essere egli, così a mezza strada fra i lombardi e l’imperatore, esposto a una tensióne notevole. E poi tutt’e tre le potenze avevano bisogno di respiro...: ma quanto più impe­ ratore papa lombardi si rimisero in forza, tanto più sinistra tempestosa ir­ respirabile si fece l’atmosfera al mondo. Così ebbe fine la prima grande battaglia di Federico n con la curia, destinata a covare sotto le ceneri per quasi un decennio ancora. Ma il re­ staurato accordo tra imperatore e papa fu chiaro agli occhi del mondo al­ lorché Federico il si recò a visitare Gregorio ix nella sua casa paterna di Anagni; qui, come scrive l’imperatore, la pace fu suggellata con un « santo bacio ». Papa e imperatore pranzarono soli, alla presenza d’un uomo solo — un uomo che s’era sempre proposto di operare per l’onore della chiesa e dell’impero, e che aveva giocato una parte speciale nella conclusione della pace: Ermanno di Salza, il gran maestro dell’ordine dei Cavalieri teu­ tonici. L’imperatore poteva ormai condurre a compimento la sua potenza: in Sicilia, prima, in Germania, poi.

NOTE

La crociata e la storia degli eventi che condussero alla prima scomunica dell’imperatore sono state così diffusamente illustrate dal Winkelmann (Jahrb., i, p. 324 sgg., il, p. 3 sgg.) e, prima ancora, da R. Róhricht (Beitrage zur Geschichte der Kreuzzùge, voi. I, Berlino 1874), che si rende superflua una ripetizione delle fonti là citate (sinora, per quest’epoca, non ampliate). Né vai la pena di citare altre opere sull’argomento. La condotta di Federico il guadagna in chiarezza, in alcuni punti, nel lavoro di Vehse, Propaganda, pp. 18 sgg. Le fonti arabe sono reperibili comodamente in Amari, Biblioteca arabo-sictda, voli. 1 e II (vers. Hai., 1880-81), e Appendice (1889); estratti in traduzione tedesca in Róhricht, Beitràge, voi. I, pp. 88 sg. pp. 159-168 PREISTORIA DELLA SCOMUNICA E PRIMO CONFLITTO CON LA CURIA - Sulla Leggenda di Carlo Magno; H. Hoffmann, Karl d. Gr. im Bilde der Geschichtsforschung des friihen Mittelalters, «Hist. Stud. », quad. 137, 1919, pp. 97 sgg.’, 109 sgg., 144 sgg.; sotto il titolo

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«Vita Karoli Magni» essa è stampata in G. Rauschen, Die Legende Karls d. Gr. im 11 und 12. Jahrhundert, Publik. d. Ges. f. Rhein. Gesch.-Kde, vii, 1890, pp. 17-93. Le speranze escatologiche del tempo in rapporto alla crociata imperiale: Kampers, Kaiseridee, pp. 55 sgg.; Grauert, Johann v. Toledo, Sitzb. Mùnchen, 1901, pp. 173 sgg.; cfr. anche Róhricht, Beitrdge, l, pp. Ili sg. Sulle speranze più realistiche cfr. p. es. lo scritto dell’abate Gervasio di Prémontré: bfw, 10992, hb, in, p. 479. Sull’impostore in S. Pietro informa, oltre a Ryccard., ed. Gaudenzi, p. 127, anche Alberic. Tresfònt., mg-ss., xxiii, p. 922. L’epidemia di Brindisi e la malattia dell’imperatore: Winkelmann, Jahrb., I, p. 329 sgg.; grazie al quale si dimostra chiaramente uno scritto di parte (non bisognevole di ulteriore considerazione), il recente saggio di Michael S.J., Ist Kaiser Friedrich II. im August und September 1227 schwer krank gewesen?, « Ztschr. f. kath. Theol. », voi. 41, 1917, pp. 52 sgg. Papa Gregorio IX: i suoi registri sono editi da L. Auvray nella Bibl. des écoles franf. d'Athènes et de Rome; la sua Vita in liber censuum ed. Fabre, voi. n, pp. 18 sgg.; cfr. inoltre la letteratura cit. in bfw, 6669b, alla quale s’aggiunge ancora l’opera prima (a p. 158, terzultimo capoverso) cit. di Brem, Papst Gregor IX. bis zum Beginn seines Pontifikates, Heidelberg 1911. Giudizi più recenti sul papa in Hampe, Kaisergeschichte, pp. 230 sg., e in Hauck, kgd, iv, pp. 803 sg. Gregorio chiama Federico il «prima pianta ecclesie»; bact., n. 939, p. 648. Anche Federico a sua volta s’era espresso molto favorevolmente nei riguardi del cardinale Ugolino da Ostia, cfr. p. es., bf, 1274, wact., i, n. 210, p. 187; bf, 1286, hb, ii, pp. 124 e passim; cfr. anche Brem, op. cit., pp. 38 sgg. Sulla scomunica dell’imperatore cfr. bfw, 6710a, 6711, 6712 sgg.; Winkelmann, Jahrb., i, pp. 333 sgg. Per quanto riguarda l’opinione pubblica, cfr. le voci di condanna di singoli trovatori sui ripetuti rinvii di Federico in Wittenberg, p. 60 sgg.; voci più favorevoli in Vehse, Propaganda, pp. 191 sg. Per il giudizio da dare ai motivi addotti dal papa per la scomunica dell’imperatore cfr. Winkelmann, Jahrb., I, pp. 334 sgg. L’alleanza della curia con i lombardi: cfr. p. es. Winkelmann, Jahrb., il, pp. 487 sgg.; inoltre Giiterbock, Die Urkunden des Corio, na, xxiii, pp. 226 sg., per un abboccamento fra il rettore della lega e il legato pontificio a Brescia. I lombardi spogliano i crociati tedeschi: Chron. Ursperg., mg-SS. Oktav, p. 125; Winkelmann, Jahrb., il, p. 8. Per il giudizio dato da Roma agli eventi d’oriente cfr. le fonti cit. in bfw, 6720b. Il manifesto imperiale del 6 dicembre: bf, 1715, mg-const., ii, n. 116, p. 148; inoltre Vehse, Propaganda, pp. 19 sgg., e ivi, pp. 219 sg: su bf, 1716. Il manifesto imperiale letto in Campidoglio: Ryccard. ed Gaudenzi, p. 128. Il conflitto si sposta sulle questioni interne della Sicilia: bfw, 6715, mg-epp. pont., I, n. 370, p. 286; la ripetizione della scomunica nel marzo 1228 fondata sugli stessi pretesti: bfw, 6721, mg-epp. pont., i, n. 371, pp. 288 e passim. La posizione opposta del manifesto imperiale: bf, 1724, hb, ih, p. 57, e l’altra, po­ steriore, subito prima della partenza: bf, 1729, mg-const., il, n. 118, p. 157; cfr. Vehse, Propaganda, pp. 24 sgg. Sulla partenza dell’imperatore cfr. lo scritto papale in bfw, 6737, mg-epp. pont., i, n. 831, p. 731. Gli eventi italiani e tedeschi e le mene pontificie: Winkelmann, Jahrb., il, pp. 23 sgg.; le voci dell’opinione pubblica in Germania: ivi, pp. 78 sgg. L’espressione del papa: « iustum esse et fidei Christiane necessarium, ut tam validus ecclesie persecutor a fastu imperii depellatur... », nello scritto solo sommariamente noto in bfw, 6769, Roger Wend., mg-ss., xxviii, p. 66. pp. 168-175 GLI EVENTI di Cipro E di SIRIA - L’espressione fridericiana: « celans precordialem dolorem sub sereno vuku », è tramandata da Matth. Paris., mg-ss., xxviii, p. 150. I compagni di Federico alla crociata sono elencati da Winkelmann, Jahrb., il, pp. 490 sgg., comm. ii. Sul camerlengo Riccardo alcune; notizie in HB-Introduz., p. cxlvii. Che la sua posizione non fosse di piccola importanza, e che egli dovette godere in larga misura della fiducia

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dell’imperatore, è mostrato da uno scritto a lui di Onorio ni in Kehr, Thomas v. Gaeta, qf, vili, p. 44, cfr. pp. 8 sgg. Un nipote del camerlengo Riccardo, Benvenuto, fu creato in seguito vescovo di Squillace dallo Staufen: cfr. bfw, 8820. Incidentalmente, sappiamo anche di un « inarescallus » di Riccardo, il quale aveva anch’esso un servo: v. hb, I, p. 859. Il maestro di dialettica araba dello Staufen era, si suppone, Ibn El-Djusi: cfr. Amari, Storia dei Musulmani, voi. ili, p. 701; Winkelmann, Otto, p. 90, nota 1. Su Corrado di Hohenlohe cfr. K. Weller, Gottfried und Konrad v. Hohenlohe im Dienste Friedrichs IL, « Wùrttemb. Viertelj. », Hefte, nuova serie, vpl. 5, 1897, pp. 209 sgg.; v. nota a p. 143, capoverso 15. In seguito, com’è noto, egli divenne conte di Romagnola: cfr. Ficker, Forschungen, voi. li, § 397, pp. 488 sg.; inoltre F. Schneider, Beitrdge zur Geschichte Friedrichs IL und Manfreds, qf, xv, pp. 3 sg. Per gli eventi di Cipro la fonte principale è Phelippe de Nevaire, stampato nelle Gestes des Chiprois ed. Gaston Raynaud, in « Public, de la soc. de l’orient latin », serie storica, voi. v, Ginevra 1887, pp. 37 sgg. Cfr. inoltre P. Richter, Beitrdge zur Historiographie in den Kreuzfahrerstaaten, vornehmlich fùr die Geschichte Kaiser Friedrichs IL, miòg, xm, 1892, pp. 257 sgg.; v. anche miòg, xv, 1894, pp. 561 sgg. Cfr. in generale F. v. Lóher, Kaiser Friedrichs IL Kampf um Cypern, « Abh. Akad. Miinchen », voi. xiv, gruppo 2, 1878; inoltre Winkelmann, Jahrb., li, pp. 85 sgg. L’arrivo dell’imperatore ad Acri: Roger Wend., mg-ss., xxviii, p. 61. Le speranze escatologiche sull’imperatore venuto a compiere i tempi: Alberic. Tresfont., mg-ss., xxiii, p. 910-all’anno 1220; cfr. Kampers, Kaiseridee, pp. 73 sgg. Sul patriarca: W. Jacobs, Patriarch Gerold von Jerusalem, diss., Bonn 1905. La preistoria delle trattative con Al-Kamil in Winkelmann, Jahrb., n, pp. 9 sgg.; Róhricht, Geschichte des Kònigreichs Jerusalem, Innsbruck 1897, pp. 765 sgg., che è da cfr. anche per il resto. La favola che Al-Kamil avesse fatto spargere di tappeti le strade per Federico, in Amari, Altre narrazioni del Vespro Siciliano, Milano 1887, p. 26. L’accoglienza dei messi imperiali a Nablus è illustrata da Liber Pont. Alexandr. in Amari, Bibl., p. 323, vers. ital., voi. i, pp. 519 sg. Sul mutato contegno del sultano cfr. Abulfeda in Amari, Bibl., pp. 418 sg., vers. it., voi. il, p. 104. Sulla tattica del tirare per le lunghe v. Winkelmann, Jahrb., n, pp. 100 sgg. Sulla carestia in Palestina c’informano fonti occidentali (v. anzitutto il manifesto im­ periale da Gerusalemme) e, anche, orientali: come Abu Al-Fadayl in Amari, Append., p. 56. Le lettere traditrici della fazione pontificia in mg-const., ii, n. 215, p. 292, r. 12; Matth. Paris., mg-ss., xxviii, p. 123. Con un tono molto più leggendario in Giovanni da Winterthur, mg-ss. Oktav, p. 7; col tono giusto soltanto nel romanzo popolare dell’imperatore F. edito da Pfeitfer, Ztsch. f. dtsch. Altert., voi. v, pp. 250 sg. Luoghi particolari in Winkelmann, Jahrb., il, pp. 106 sg. Le parole dell’imperatore in Matth. Paris., mg-ss., xxviii, p. 150, r. 24. La sostituzione dell’ambasciatore imperiale fu suggerita — stando alle informazioni del patriarca, almeno — da Fahr-ed-Din, il quale « imperatorem diligere se fingebat... »: mg-epp. PONT., i, n. 384, p. 300, r. 20. La grande confidenza esistente tra Fahr-ed-Din e Federico il è messa in risalto da tutti i cronisti arabi. Al primo sono anche indirizzate alcune lettere dell’imperatore in lingua araba: Abu Al-Fadayl in Amari, Append., pp. 58 sgg.; cfr. « Arch. stor. Sicil. », nuova serie, ix, pp. 119 sgg., e la traduzione in Steinen, Staatsbriefe, p. 31, n. 6; bfw, 14708, 14709. Come figlio dello sceicco Al-Shujuch, Fahr-ed-Din era, insieme con tre fratelli, al ser­ vizio di Al-Kamil: Hammer-Purgstall, Litteratur-Geschichte der Araber, voi. vii, Vienna 1856, p. 63, con rimando ad Abulfeda. I colloqui di Federico coll’emiro: Bibars in Amari, Bibl., p. 514, vers. ital., voi. il, p. 252; Blochet, Les relations diplomatiques des Hohenstaufen avec les sultans d’Égypte, « Revue Historique », voi. lxxx, 1902, p. 60. Su Al-Kamil cfr. Hammer-Purgstall, op. cit.-, Makrizi, in Róhricht, Beitrdge, voi. i, pp. 94 sgg.; ivi anche alcuni versi del sultano. Sulle trattative cfr. p. es. Ibn Al-Athir in Amari, Bibl., p. 314, vers. ital., i, p. 504; As-Safadi, ivi, Append., p. 18; Abu Al-Fadayl, ivi, Append., p. 55. La frase citata dell’im­ peratore in Bibars, Amari, op. cit., p. 514, vers. ital., voi. il, p. 252. Criticata da più parti la segretezza delle trattative: cfr. le espressioni di Geroldo in Winkelmann, Jahrb., il, p. 110, nota 5; Freidank, Bescheidenheit (ed. da W. Grimm), Introduz., pp. xlii sgg. e p. 158; Roger Wend., mg-ss., xxviii, p. 66, r. 8: « nemo scivit qua conditione tractatum fuit inter eos nisi ipse solus ».

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Sul modo di trattare del sultano cfr. Róhricht, Beitràge, voi. i, p. 100. Sul trattato stesso mg-const., ii, nn. 120-123, pp. 160 sgg.; ivi anche le relazioni di Ermanno di Salza; sul valore delle quali v. Vehse, Propaganda, pp. 32 sgg.; 208 sgg.; cfr. inoltre Winkelmann, op. cit., pp. 113 sgg., che è da consultare anche per il resto. Le relazioni del patriarca: mg-epp. pont., i, n. 384, pp. 299 sgg., hb, ih, p. 135 sgg. Gregorio ix sul trattato: bfw, 6769, 6777; hb, ih, pp. 140, 147. La lettera del Saladino a Riccardo Cuordileone in Beha-ed-Din, Recueil des Hist. des croisades (Histor. orient.), voi. ili, p. 275. Il dissenso musulmano verso Al-Kamil: Winkelmann, p. 120, note 2, 3; la puni­ zione inflitta ai protestatari: Makrizi, in Amari, Bibl., p. 521, vers. ital., voi. il, p. 264. Sulla ragione di tale trattato di pace sfavorevole al sultano cfr. anche R. Sternfeld, Abirrungen und Ablenkungen der Kreuzzùge, hz, 106, p. 316, il quale la spiega con una promessa di Federico di non aggredire l’Egitto (com’era accaduto nella quinta crociata).

pp. 175-181 FEDERICO E gli orientali - Sulla creazione a cavaliere di Fahr-ed-Din e sul permesso di portare l’aquila come insegna, informa Joinville, mg-ss., xxvi, p. 556, c. 196, 198. Riccardo Cuordileone aveva creato cavaliere suo figlio Malik Al-Adils nel 1192: Róhricht, Geschichte des Kónigreich Jerusalem, Innsbruck 1897, p. 611. Lo stemma di Fahr-ed-Din era, stando alla descrizione di Joinville, costituito da uno scudo a tre fasce; mi par dubbio però che abbia qualsiasi fondamento reale l’affermazione che la prima fascia indicasse il vassallaggio a Federico il, la seconda quello al sultano d’Egitto, la terza quello al sultano d’Aleppo. Certo è, in. ogni caso, che nell’Egitto musul­ mano l’aquila come stemma non era rara: cfr. E. Thomas Rogers Bey, Das Wappenwesen der muhamedanischen Pursten in Aegypten und Syrien, Viertelj.-Schrift fiir Heraldik, Sphragistik, Genealogie, voi. xi (1883), pp. 418 sgg., 428 e tav. in illustr. 9-13, tav. vii illustr. 48-49; v. anche I. Karabacek, Etn damaszenischer Leuchter des 14. Jhdts., in « Reperì, f. Kunstwissensch. », voi. I, 1876, pp. 275 sgg. Sulla comunità Futuwwa dalla struttura analoga agli ordini cavallereschi v. Thorning, Beitràge zur Kenntnis des islamischen Vereinswesens auf Grund von Bast Madad et-taufiq, Turk. Bibliothek, voi. xvi, Berlino 1913. Su un altro ordine cavalleresco informa Ibn Challikan, cfr. Róhricht, Geschichte des Kònigreichs Jerusalem, p. 275, nota 1. Il tradimento dei Templari: Matth. Paris., mg-ss., xxviii, pp. 123 sg.; Winkelmann, Jahrb., il, p. 127. Le narrazioni del soggiorno ierosolimitano dell’imperatore: cfr. le fonti citate in Winkelmann, pp. 137 sg. La visita a Lucerà del dotto arabo è narrata dallo stesso Djemal-ed-Din, in Amari. Bibl., p. 421, vers. ital., n, p. 107. L’astronomo inviato all’imperatore dal sultano era Al-’Alam Qaysar detto Al-Hanifi: Abu Al-Fadayl in Amari, Append., p. 57. Sull’interesse di Federico per l’architettura informa Makrizi, in Amari, Bibl., p. 521, vers. ital., n, p. 265. Federico stesso, poi, afferma nel suo libro di falconeria d’aver appreso qualcosa dai musulmani in questo campo: De arte venandi, ed. Schneider, p. 162. I colloqui con Fahr-ed-Din in Blochet, Le relations..., « Rev. Histor.», voi. lxxx, p. 60. Naturalmente, l’accento sul diritto d’eredità per via di sangue veniva posto in modo particolare quando fossero presenti dei musulmani: anche Djemal-ed-Din (in Amari, Bibl., pp. 421 sg., vers. ital., n, pp. 107 sgg.) rileva il fatto. Per la posizione (contraria) della chiesa cfr. p. es. Kern, Gottesgnadentum, pp. 65 sgg. I biasimi papali contro l’imperatore sono stati raccolti da Winkelmann: Jahrb., il, pp. 140 sg. Ivi, nota 4, le pretese nozze con una figlia del sultano; cfr. anche bfw, 11045; Shirley, Letters of Henry III., voi. i, p. 343. Che questa sia stata la madre di Federico di Antiochia, asseriscono, oltre agli « Annal. Dunstapl. » (mg-ss., xxvii, p. 507), Giovanni di Victring, Benvenuto da Imola e altri; ma tutto resta nel regno delle favole: cfr. bfw, 13527. L’abito da lutto delle donne musulmane: Amari, Altre narrazioni, p. 29; Davidsohn, Geschichte, Vói. iv, i, pp. 28 sg. I legami di Federico cogli ismaeliti del Libano: Abu Al-Fadayl, in Amari, Append., pp. 51, 53; « Chron. Reg. Colon. », all’anno 1231-32, MG-Oktav, p. 263; Joinville, mg-ss., xxvi, p. 557, c. 451; Winkelmann, op. cit., pp. 11, 99, nota 2.

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Sugli Assassini cfr. Marco Polo, Viaggi, Venezia 1847, p. 33, c. xvi; e Hammer-Purgstall, Geschichte der Assassine», Stoccarda 1818. La visita di Federico al Vecchio della Montagna: novellino, ed. Biagi, n. 86. Che poi abbia egli stesso allevato degli Assassini, ci è tramandato da Jans Enenkel, Weltchronik, in mg-dtsch., Chron., in sez., i, p. 557, w. 28060 sg.; dove (w. 28625 sgg.) si narra anche che Federico comandò ai suoi pugnalatoti di gettarsi da una torre — così che l’intero ciclo leggendario del Vecchio della Montagna fu trasferito sullo Staufen. Come Jans Enenkel s’esprime, seppur più brevemente, la Osterreich. Reimchronik in mg-dtsch., Chron., v sez., i, pp. 529, vv. 40747 sgg.; e più in generale Monum. Erphesf., mg-ss., xxiv, p. 201. Notissima l’accusa all’imperatore d’aver fatto ammazzare dagli Assassini il duca Lu­ dovico di Baviera: mg-epp. pont., ii, n. 124, p. 92, r. 35 nel decreto di deposizione del 1245; cfr. Winkelmann, op. cit., p. 255, e il suo saggio Die angebliche Ermordung des tìerzogs Ludwig von Bayern durch Kaiser Friedrich IL, miòg, xvii (1896), pp. 50 sgg.; cfr. anche sugli Assassini nelle poesie dei trovatori: Diez, Poesie der Troubadours, p. 279. Federico accusa il duca d’Austria d’essersi legato al « Senior Montane » contro di lui: mg-const., il, n. 201, pp. 271 sg. Leggende crociate: « Actji Aragon. », voi. I, p. 634. Che in Sicilia « nullus manum vel pedem absque ipsius movet imperio » riteneva Gregorio ix: mg-epp. pont., i, n. 750, p. 648, r. 42. Il planetario donato all’imperatore: « Chron. Reg. Colon. », mg-ss. Oktav, p. 263; Corrado di Fabaria, mg-ss., ii, p. 178. Esso fu custodito a Venosa. Altri doni (un prezioso liuto indiano; un albero d’argento con uccelletti che cantavano al soffiar del vento; il prezioso cavallo « Drago », ricordato anche dagli annal. placent. ed. Huillard Bréholles, p. 215) sono elencati in Amari, Altre narrazioni, p. 27. Federico riceve un contingente di rincalzi all’assedio di Brescia dal sultano nel 1238: ANNAL. PLACENT., ed. Huillard, p. 174. Espressioni dell’imperatore sopra Al-Kamil in Matth. Paris., mg-ss., xxviii, p. 192, r. 32; bf, 3019, hb, v, p. 921. Accoglienza degl’inviati musulmani e festeggiamento dell’Egira: « Chron. Reg. Colon. », MG-Oktav, pp. 263 sg.; Winkelmann, op. cit., pp. 399 sgg. Morte del sultano Al-Kamil: Matth. Paris., pp. 144, rr. 23 sgg.; ivi, p. 281, e « Annal. Stadens. », mg-ss., xvi, p. 370, la lettera del successore di Al-Kamil a Innocenzo iv. La dichiarazione di Federico di essere « semplicemente uno schiavo del sultano » è tramandata, oltre che da Makrizi (Amari, Bibl., p. 521, vers. ital., il, p. 265), anche da As-Safadi (Amari, Append., p. 18). I quesiti dell’imperatore al dotto Ibn Sabin a mezzo del sultano almohade in Amari, Bibl., p. 574, vers. ital., li, p. 416. Djemal-ed-Din compose una Logica, ch’egli intitolò « imperiale », in onore di Fede­ rico che gliel’aveva ispirata: Winkelmann, p. 137, nota 5. L’orso bianco donato al sultano: As-Safadi in Amari, Append., p. 20; Roger Wend., mg-ss., xxviii, p. 61. L’imperatore mandò ad Al-Kamil anche un pavone bianco, avendone in cambio un cacatoa indiano di colore pure bianco: De Arte Venandi, i, c. 23, p. 29. Cfr. in generale su tutto ciò: Haskins, Studies, pp. 252 sg. Le lettere dello Staufen a Fahr-ed-Din: bfw, 14708, 14709. Un epistolario fittizio dell’imperatore col sultano di Ikonio in Davidsohn, Ein Briefcodex des XIII. Jhdts, qf, xix, p. 378, n. 4; cfr. anche Wattenbach, Iter austriacum, pp. 53 sg.; Hampe-Hennesthal, Die Reimser Briefsammlung, na, xlvii, pp. 533 sgg. Meraviglia dei musulmani per la dottrina dell’imperatore: Abulfeda, in Amari, Bibl., p. 419, vers. ital., n, p. 104; Makrizi, ivi, p. 522, vers. ital., n, p. 266; Bibars, ivi, p. 511, vers. ital., il, pp. 248 e passim. L’imperatore stesso informava di frequente i musulmani degli eventi per mezzo delle sue lettere, ma preferiva ancor più farseli narrare: cfr. Abu Al-Fadayl, in Amari, Append., p. 64. Sulla congiura del 1246 v. As-Sibt, in Amari, Bibl., pp. 516 sg., vers. ital., p. 526. Interessava anche la storia della giovinezza di Federico: Djemal-ed-Din, in Amari, Bibl., p. 422, vers. ital., il, p. 108; Ibn Challikan, ivi, p. 643, vers. ital., il, p. 540. I titoli dell’imperatore: Abu Al-Fadayl, ivi, Append., p. 57, e p. 63 le parole citate del cronista e il parallelo con Alessandro. Le premesse politiche della signoria italiana: Davidsohn, Geschichte v. Florenz, voi. iv, i, p. 260. Molto elevata l’opinione che s’aveva del papa presso i musulmani: Edrisi, p. es.,

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dice, nello stile di Gregorio e di Innocenzo, che il papa sta al disopra di tutti i principi del mondo: J. Guidi, Roma nei geografi arabi, « Arch. soc. Rom. », voi. i, p. 177. pp. 182-186 l’incoronazione a GERUSALEMME - Il sovrano d’occidente e d’oriente: Alberic. Tresfont., mg-ss., xxiii, p. 910, cfr. pp. 914 sg. Altre profezie e attese della fine dei tempi nella lettera toledana in Ryccard. ed. Gaudenzi, p. 138 (ivi, p. Ili, la identificazione di re Davide col Prete Gianni), a proposito della quale Roger Wendower nota diffusamente che essa era già nota prima della riconquista di Gerusalemme; cfr. Grauert, Johann v. Toledo, pp. 166 sgg. Sul nesso tra la profezia toledana e Gengis-Khan, ivi, pp. 208 sgg.; e inoltre Kampers, Kaiseridee, pp. 78 sgg. Sul re Prete Gianni cfr. F. Zarncke, Der Priester Johannes, Abh. sàchs. Akad., voi. vii (1876), vili (1879) particolarmente cap. iv (= voi. vili, pp. 5 sgg.). Il rapporto fra le speculazioni sull’anticristo e l’entrata di Federico in Gerusalemme è messo in luce, p. es., dalla lettera di Adso (in Sackur, Sibyllinische Texte und Forschungen, p. 107), dóve si legge: « Deinde Hierosolimam veniens... sedem suam in tempio sancto parabit. Templum etiam destructum, quod Salomon Deo aedificavit, in statum suum restaurabit... et filium Dei omnipotentis se esse mentietur »; cfr., anche a proposito delle accuse posteriori, Burdach, Rienzo, pp. 399, 405 sgg.; le prime mosse su questa strada già nelle relazioni di Gregorio ix di quest’epoca, cfr. Roger Wend., mg-ss., xxviii, pp. 65 sg.; mg-epp. pont., i, n. 390, p. 309, n. 397, pp. 315 e passim-, cfr. anche nota a p. 688, capoverso 5. Sugli eventi ierosolimitani informano gli scritti del patriarca Geroldo: bf, 1740, mgepp. pont., i, n. 384, p. 299; bf, 1754, hb, ih, p. 135; quelli del gran maestro dell’Ordine Teu­ tonico: bf, 1737, 1739; mg-const., il, n. 121, p. 161, n. 123, p. 167; e il manifesto del­ l’imperatore: bf, 1738, mg-const., il, q. 122, p. 163; cfr. inoltre Winkelmann, Jahrb., n, pp. 122 sgg.; Vehse, Propaganda, pp. 28 sgg. Da parte papale si prese molto male l’autoincoronazione dell’imperatore. Il patriarca di Gerusalemme Geroldo informava anzitutto il papa del fatto nudo e crudo (mg-epp. pont., I, n. 384, p. 303, riga 21 sg.): « Sepulchrum intravit, vestibusque indutus regalibus capiti suo imposuit diadema »; quindi, nel manifesto ai credenti, dava espressione al suo sdegno (Matth. Paris., mg-ss., xxviii, p. 124, riga 39 sg.): « satis inordinate satisque confuse excommunicatus in preiudicium honoris et excellentie imperialis manifestum suo capiti imposuit diadema ». Il papa, poi., ci fece una giunta (mg-epp. pont., i, n. 390, p. 309, riga 18): « se sollempniter vel potius inaniter coronavit ». Da parte imperiale si accennava con poche parole all’autoincoronazione. Fra i contem­ poranei, Roger Wendover (mg-ss., xxviii, p. 66) informa che il pontefice s’era sdegnato che Federico « propria manu sese coronavit et ita coronatus resedit in cathedra patriarchatus et ibi predicavi! populo ». Esemplari per il trovatore Guilhem Montanhagol il coraggio e l’audacia di quest’autoincoronazione; alludendo al proprio comportamento verso la sua dama, egli opinava che Fe­ derico s’era autoincoronato perché non vera colà alcuno che gli stesse a pari per rango: cfr. Jules Coulet, Le troubadour Guilhem Montanhagol (« Bibl. méridion. », serie I, voi. iv, Tolosa 1898), pp. 19 e 131, vv. 17 sgg. Sulla datazione come sullo scambio dell’incoronazione di Gerusalemme con quella di Roma: Wittenberg, Die Hohenstaufen im Munde der Troubadours, diss., Mùnster 1908, p. 64. Che Federico il, autoincoronandosi, non intendesse compiere un atto programmatico, lo fan capire chiaramente le fonti; che però alla corte staufica si sapesse molto bene che una autoincoronazione poteva avere un senso simbolico, lo mostra per esempio il manifesto di Manfredi ai romani (mg-const., il, n. 424, pp. 564, rr. 40 sgg.), nel quale egli si richiama a un’autoincoronazione del Barbarossa in forza di un editto da lui rilasciato, che escludeva i preti dalla cerimonia; cfr. Hampe, na, xxxvi, p. 237. Di tale editto sap­ piamo così poco come dell’incoronazione stessa, né si può stabilire a quale tradizione si rifacesse qui la cancelleria manfrediana; il dettatore del manifesto era però Pietro da Prezza, il quale aveva anche fatto parte della cancelleria di Federico il; cfr. Eugen Miiller, Peter von Prezza, « Heidelb. Abh. », quad. 37, 1913, pp. 22, note 107 sgg. Cfr. anche su tutto il problema dell’incoronazione ierosolimitana come sul resto A. Brackmann, Kaiser Friedrich II. in « mythischer Schau », hz, 140, pp. 534 sgg., e la mia replica in hz, 141, pp. 457 sgg. Sul carattere angelico dei papi e degli imperatori mancano lavori complessivi; cfr. tuttavia Burdach, Rienzo, passim, che richiama l’attenzione particolarmente su questo punto; v. inoltre nota a p. 66, capoverso 1.

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L’imperatore come cherubino p. es. nello scritto mistico e moderato di Gregorio ix a Federico (mg-epp. pont., i, n. 365, p. 278; cfr. anche ivi l’espressione: « vexillum quod habes commune cum angelis »), col quale sarebbe da cfr. il Reg. de neg. di Innocenzo in (n. 2 in migne-pl, 216, p. 997), che designa cherubini tanto il papa quanto l’imperatore; in altro luogo (ivi, n. 18, p. 1013) egli riserva il carattere angelico esclusivamente al sacerdote. Anche Ranieri da Viterbo definisce l’imperatore (wact., II, n. 1037, p. 709, r. 36): « quasi alter Cherub et non Seraph... signaculum similitudinis filii spetialis... ». Cfr. anche Tolosanus, c. 139 (« Doc. Stor. Ital. », voi. vi), p. 692, che paragona Federico a un « angelus Domini »; oppure Orfino da Lodi (ed. Ceruti, « Misceli, stor. Ital. », voi. vii, 1896, p. 36), che lo paragona all’arcangelo Michele. L’imperatore « angelus Dei » (all’incoronazione egli è accompagnato in San Pietro dal clero al canto di: « Ecce mieto angelum meum », mg-const., iv, n. 644, p. 609) sta in stretta relazione coll’imperatore « rex iustitiae », come colui che è « homo Dei » e contem­ poraneamente « imago Dei », prefigurato solo in Adamo, il solo uomo « quem paulo minus minuerat ab angelis », come (secondo Hebr., 2, 7) sta scritto nel proemio del liber august. (cfr. CARCANI, p. I, hb, iv, p. 3); cfr. in generale sotto note al cap. v. Il fatto che nel manifesto di Gerusalemme (mg-const., il, n. 122, p. 163) l’impera­ tore sin dalle prime parole — « laudemus et nos ipsum quem laudani angeli » — si ponesse a lato degli angeli, non è affatto da trascurare, secondo me; tanto più se si considera il motivo sempre ricorrente del miracolo compiuto da Dio per mezzo dell’imperatore; cfr. su ciò anche Steinen, Kaisertum, pp. 36 sg.; Vehse, Propaganda, p. 30 e 154; e v. anche in « Arch. f. Kunde òsterr. Gesch.-Quellen », voi. xx, 1858, pp. 197, un accenno analogo in uno scritto a Enrico IH: « illam pacem praedicavetis populo vestro, quam nascente Christo angeli nuntiaverunt mundo ». Talora, il carattere angelico dell’imperatore non era affatto apprezzato; cfr. per es. B. Tageno («Chron. Magn. Presb. »), mg-ss., xvii, p. 510, r. 4, che rimprovera all’imperatore bizantino di chiamarsi « superbe et arroganter angelum Dei »; cfr. Kern, Gottesgna­ dentum, p. 135, nota 249. Sul « Davidicum regnum » — il termine compare spesso p. es. in Gerhoh v. Reichersberg, mg-ldl, Hi, p. 282, riga 28, p. 501, rr. 15 e passim — manca una rappresentazione d’insieme; cfr. tuttavia Harnack, Christus praesens - vicarius Christi, « Sitzb. Berlin », 1927, p. 436, che richiama l’attenzione sul legame fra regno davidico e idea dell’imperatore quale « vicarius Christi »: inoltre Eichmann, Die rechtliche und kirchenpolitische Bedeutung der Kaisersalbung im Mittelalter, Festschrift f. Hertling, 1913, pp. 268 sg., nota 10. L’importanza di Davide nell’impero di Carlo Magno è nota; a lui ci si rivolgeva di preferenza come a « David rex » o « David pater patriae ». Sul regno sacerdotale-davidico carolingio cfr. p. es. H. Lilienfein, Die Anschauungen von Staat und Kirche im Reich der Karolinger, « Heidelb. Abh. », quad. i, 1902, pp. 28 sgg., 33 sgg. e passim. Davide gode anzitutto dello spirito del Signore: « directus est Spiritus Domini in David » scrive p. es. Pietro Di Blois, Ep. 10, in migne-pl, 207, p. 28; cfr. anche sull’adozione divina di Davide: Kern, Gottesgnadentum, pp. 74 sgg. Abbastanza ovvio il vedere in Davide la prefigurazione di Cristo: cfr. p. es. Hincmar di Reims, Ordo palai., mg-ss. Oktav, p. 8, c. 4, dove Davide è chiamato: « rex simul et propheta praefigurans dominum nostrum Jesum Christum, qui solus rex simul et sacerdos fieri potuit ». Si amava anche paragonare l’imperatore a Davide e questi a Cristo: cfr. p. es. la lettera di Bern di Reichenau all’imperatore Enrico ili (« Arch. f. Kunde òsterr. Gesch.-Quellen », voi. xx, 1858, pp. 197 sgg., particolarmente p. 199). Cfr. anche l’Anonimo di York, mg-ldl, p. 666, il quale spiega che il Cristo paziente è rappresentato dal sacerdote; il Cristo regnante « in eternum » coronato d’onore e di gloria, invece, dal re, il quale poi è paragonato a Davide; il Christus rex, poi, starebbe al disopra del Christus sacerdos. Anche Gerhoh v. Reichersberg (mg-ldl, ih, p. 282, r. 28) dice che « ante constitutionem regni Davidici quasi obscurus fuerat honor sacerdotii Levitici ». Che il Cristo coronato « d’onore e gloria » s’incarni nel sovrano fa pensare di nuovo il proemio al liber aug., dove Federico n rappresenta Adamo come « honoris et glorie diademate coronatus »; cfr. Burdach, Rienzo, pp. 313 sgg., e le note a p. 347, capoverso 7 sg. Degno di nota il rapporto tra regno davidico e « aurea aetas », su cui richiama l’at­ tenzione Schramm, Renovatio, voi. i, p. 236, nota 5; Pier Damiani (migne-pl, 144, p. 436) celebra Enrico ili, perché sotto di lui « iam saeculi fine aureum David saeculum renovatur ». L’invocazione a Davide nella formula dell’incoronazione appare semplicemente ovvia: cfr. Waitz, Formeln der deutschen Kònigs- und ròmischen Kaiserkronung, « Gòtting. Abh » 18, 1873, p. 39.

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Di pura genealogia si trattava anche, quando si facevano discendere da David gli imperatori: cfr. p. es., Domenico de Lello, « Arch. stor. Napol. », voi. xvi, p. 182 sg. E Federico n scrive spesso: « noster predecessor David, rex inclytus Israel », p. es. in hb, iv, p. 528, hb, vi, p. 2; cfr. anche wact., i, n. 338, p. 299. Il parallelo con Davide dolente (hb, vi, p. 28) è da porre in tutta altra relazione. Concependo Davide come predecessore degl’imperatori romani, ne veniva talora che anche Roma fosse chiamata «città di Davide»; cfr. p. es. Alcuino, mg, Poet. lat., i, p. 230, v. 41: «Quid te, sancta, canam, David urbs inclita regis ». Generalmente era Gerusalemme, è naturale, la città davidica, e appunto in rapporto con questa città Enrico di Avranches ce­ lebra l’imperatore come «Davide» (cfr. Winkelmann, fzdg, xviii, p. 491). Federico n, però, era successore di Davide non solo in quanto egli pure unto a re, sì soprattutto per essere cosmocratore e re di Gerusalemme. Perfettamente comprensibile, dunque, che a lui, cui, come scriveva il re d’Inghilterra (bfw, 11024; Shirley, Letters of Henry III., voi. I, p. 331), Dio aveva posto nelle mani, per la crociata, tutte le forze della terra; stesse molto a cuore di ricordare proprio a Gerusalemme il suo « Davidicum regnum ». Tutto l’esordio del manifesto viene dal Salterio davidico (cfr. Vehse, Propaganda, p. 154, nota 91, le prove), e lo stesso tono vien mantenuto nella chiusa dell’edizione destinata all’Inghilterra: cfr. mg-const., ii, p. 166, sub 5; Roger Wend., mg-ss., xxviii, p. 63; v. Luca, i, 69. Caratteristico d’altronde che Marquard di Ried (cfr. su di lui Winkelmann, Jahrb., il, p. 78, nota 4) celebri l’imperatore in primo luogo come cosmocratore e sovrano degli elementi, colui che, « famulus dei », porta l’« aurea aetas »; in secondo come re di Ge­ rusalemme, paragonato quindi, come tale, a Cristo...: tutti motivi, questi, che più tardi saranno ripresi in larghissima misura dalla cerchia dei cortigiani. Qui sorge anche il problema della dipendenza diretta dell’imperatore da Dio: per la prima volta, a Gerusalemme, Fe­ derico il apparve strumento immediato di Dio; per la prima volta, tale si proclamò al mondo nel suo manifesto: per la prima volta, infine, fu dal mondo celebrato come tale; cfr. su tutto ciò anche hz, 141, pp. 463 sgg. pp. 187-193 il ritorno in Sicilia - Per l’eco in Germania cfr. bfw, 11044, wact., i, n. 614, p. 493; bfw, 11045; Shirley, Letters of Henry III, voi. i, p. 343; Hasse, Schleswig-HolsteinLauenburgische Regesten und Urkunden, voi. i, n. 476, p. 216; Winkelmann, Jahrb., il, p. 70; Vehse, Propaganda, p. 192. La fonte principale per gli eventi di Sicilia è Ryccard. ed. Gaudenzi, pp. 129 sgg.; in generale cfr. Winkelmann, Jahrb., il, pp. 47 sgg. La chiesa « liberatrice degli oppressi » è una parola d’ordine costante: v. p. es. mgepp. pont., I, n. 386, p. 305, dove Winkelmann, p. 54, rimanda a Innocenzo Hi; tale motto continuerà ad esistere anche posteriormente, cfr. p. es. Hampe, Papst Innocenz IV. und die sizilische Verschwòrung, Sitzb. Heidelberg 1923, Abh. 8, p. 6: « prò liberatione miserorum de regno ». Significativo per Federico li, che egli, come spesso, facesse propria anche questa parola d’ordine della chiesa, piegandola al suo uso, quando nel 1239-40 si mosse alla volta dello stato della chiesa come « liberatore ». Sulla voce della morte di Federico messa in giro dal pontefice, cfr. Winkelmann, Jahrb., il, p. 53, nota 8. Ivi, pp. 123 sgg., gli ultimi avvenimenti a Gerusalemme e ad Acri; cfr. anche Ròhricht, Beitràge, voi. I, pp. 45 sgg.; v. anche Schonbach, « Sitzb. Wien. », 1904, voi. 150, p. 75, su una poesia di frate Wernher. L’arrivo dell’imperatore è descritto drammaticamente da Bartolomeo di Nicastro in murat. ss., xm, p. 1162; sul ritorno dello Staufen cfr. anche lo scritto di Rinaldo da Spoleto presso F. Schneider, « Toscanische Studien », xv, qf, xi, pp. 278 sgg.; per tutto il resto in generale: Winkelmann, Jahrb., il, pp. 143-216. Il paragone con Alessandro: Abu Al-Fadayl, in Amari, Append., p. 63; si esprime analogamente una esercitazione stilistica del tempo: na, xlvii, p. 534. La distruzione di Sora: bf, 1765a, hb, iv, p. 909. Fondamentale per le trattative di pace l’edizione dell’Hampe dei frammenti degli atti della pace di San Germano, MG-Oktav, Epp. sei., voi. iv (1926). Un giudizio sulla pace in Winkelmann, Jahrb., n, p. 189; Hampe, Kaisergeschichte, pp. 234 sgg., dov’è anche elencata la più recente letteratura sull’argomento.

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Capitolo quinto Tiranno in Sicilia

La fondazione della prima monarchia assoluta d’occidente a opera di Federico n dipendeva dal suo trionfo in oriente. Causa dell’avvenimento fu infatti quel mutamento fondamentale che interviene quando l’eroe ha preso sicura coscienza della sua origine divina e sente la divinità battergli in cuore. Sia che si senta figlio di Zeus Am­ inone, o nipote di Venere genitrice, o che per altri segni si dichiari emana­ zione di una divinità, l’eroe riesce a poco a poco a ottenere la propria deificazione; nel contempo, non appena si fa manifesta la sua origine di­ vina, la vita del monarca prende un altro corso: dal piano dell’azione e del successo personale passa a quello della creazione universale. Il corso della vita di Federico n aveva, coll’incoronazione in Gerusa­ lemme, compiuto il suo più ampio ciclo. Dai giorni del puer Apuliae, descr’vendo volute sempre più larghe, da Palermo ad Aquisgrana a Roma, lo Staufen aveva, unico degli imperatori romano-germanici, toccato l’orien­ te. Ma quest’ultimo cerchio, l’estremo, al confine già degli spazi infiniti del sogno, segnava la fine dell’innalzamento personale dell’imperatore: non c’erano più scalini da salire, non c’erano più corone che potessero farlo diventare più grande di quel che era già. Federico il aveva raggiunto il fiore della vita: aveva trentacinque anni e la sua maturazione s’era compiuta. Ma per la prima volta l’occidente cri­ stiano e l’oriente musulmano guardavano a lui come all’imperatore; per la prima volta l’imperatore della cristianità e il capo dell’esercito crociato s’erano messi a cimento in una questione d’importanza mondiale; per la prima volta nel grande manifesto di Gerusalemme, per bocca dell’impera­ tore aveva parlato Dio stesso, partecipando a tutte le genti della terra le imprese che Egli aveva compiuto per mezzo suo. Così Gerusalemme segnò la svolta oltre la quale la vita di Federico do­ veva mutare: gli ampi spazi d’oriente dovevano essere ridotti entro confini più ristretti, trasportati in occidente perché la sua grandezza crescesse an­ 201

cora di più. Non più da solo però doveva alzarsi, bensì in cooperazione col suo stato. Forte della regalità davidica (derivata immediatamente da Dio), della sovranità feudale germanica e della dignità di princeps Romanorum, lo Stau­ fen aveva elevato l’autorità cesarea del medioevo cristiano a un’altezza uni­ ca. E fu una fortuna personale di Federico n l’aver trovato un popolo aperto agli stimoli e consenziente, che, nonostante il distacco imposto dalla sua maestà, sapeva comprendere e rispondere ai suoi impulsi: un popolo col quale egli potè realmente crescere, pur essendo già signore del mondo. Altra e singolare era stata la posizione degli imperatori prima di lui': pretendevano di rifulgere ài cospetto di tutti i popoli in quanto signori dell’impero cristiano-romano-germanico, ma assai meno dei « re di pro­ vince » potevano affermare di possedere un popolo pròprio, che immedia­ tamente e incondizionatamente appartenesse loro: che trovasse esclusivamente nel proprio signore l’espressione di sé, che fosse devoto anima e cor­ po al proprio signore così da renderlo partecipe di quei legami, di quelle gravezze della vita che è necessario anche il signore conosca. Gli imperatori erano certo i condottieri della cristianità, ma solo a lato del pontefice; e solò in talune occasioni — come la crociata, ad esempio — il mondo cristiano si raccoglieva tutto in loro. Mancava però un popolo cristiano, e quand’anche lo si chiamasse così, restava nondimeno l’espres­ sione di singoli spiriti e di singole fedi. Imperatores venivano chiamati re e imperatori romani; ma l’antico popolo di Roma che aveva dominato il mondo, era morto: restava un guscio vuoto, donde si estraevano la formula di imperium e altre formule per il cerimoniale e la celebrazione degli im­ peratori. Che dire poi degli imperatori come signori del popolo tedesco? L’unità dei tedeschi in un popolo unico fu sempre soltanto un brillio di poche ore: un popolo tedesco come nazione a sé non era neppur con­ cepibile, men che mai attuabile, e l’unità tedesca era da conservare solo al servizio della chiesa e dell’impero. Non in un popolo tedesco, ma nelle varie stirpi avevano trovato appoggio gli imperatori sassoni, franchi, svevi: una terra, un popolo su cui regnare assolutamente come Dio, non li co­ nobbero mai. Qualcuno di loro ci provò, e sempre in Italia, come quel fanciullo che andò in cerca, come nessun altro prima di Federico n, di altezze supreme, della dignità sacerdotale dell’imperatore: Ottone in. Il quale, dopo avere cercato quella eco e quella forza fecondatrice di un popolo nei cittadini di Roma ormai decaduta, fu da questi ingannato; i suoi sogni, perduti in spazi altissimi, erano presaghi, ma egli fu solo uno stupor mundi, e incon­ trò rapida morte — accomunato nel destino all’epigono degli Staufen, Cor202

radino, il fanciullo poeta in cerca del suo regno. Solo per mostrare al mondo il sogno d’un impero tedesco divampò ancora una volta nei due germogli la coscienza della potente schiatta: a nessuno dei due era destinato di ri­ scattare e riunire in un popolo di cui essere sovrani le energie sparse. Federico n, l’ultimo tedesco fondatore di stati su suolo italiano, fu l’imperatore del compimento e della fine del sogno tedesco. Veramente, neppur Federico fu elevato a quell’altezza da un popolo, bensì dall’zwp^rium, del sacro romano impero come idea tradizionale di un mondo, dalla provvidenza divina (com’ebbe sempre ad affermare), e da sé medesimo. Anch’egli sarebbe svanito come un grande fantasma, come lo spirito d’un imperatore sublime, librantesi su quella terra a cui non lo legava radice alcuna, se dalla sua altezza celeste, ma gravida di rovina, non fosse ridisceso sulla terra; se la sua saggezza non gli avesse consigliato di cozzare ancora e più profondamente con le forze naturali della terra; di fermare il suo volo sopra un popolo, affinché, traendo da questo sicurezza, ancora più alto potesse salire, sino a cogliere il fuoco eterno negli spazi eterei del Tutto. Soltanto Federico n trovò una terra e degli uomini che credessero e fossero pronti ad accogliere quella sua maestà che scendeva minacciosa da regioni lontane, pronti a seguirlo incondizionatamente, non importa se per paura o per amore. Ogni dominatore ha bisogno d’un simile terreno in cui affondare le radici: che, non chiuso ancora in stretti confini, faccia germogliare per lui uomini simili a lui, dominatori del mondo anch’essi: così la nobiltà mace­ done in Asia, così dominarono nelle ampie terre degli Asburgo i grandi di Spagna al tempo di Carlo, così i marescialli di Francia tennero a freno per Napoleone l’Europa intera. Gli imperatori precedenti avevano, se non un popolo, la forza della stirpe: i successivi ebbero quella del casato. Ma la forza della stirpe di sassoni, franchi, svevi, volgeva al tramonto, perché essi tutti avevano ver­ sato la loro forza nel mondo, nell’impero; non avvertivano più la spinta, non avevano più la volontà né la voglia, e neppure la forza del tempo delle migrazioni, per seguire stabilmente e dovunque l’imperatore — per lo meno, non come stirpe: ché, come mercenari, entrarono al seguito del sovrano in numero sempre maggiore; ma un insieme di mercenari non fa un popolo e la sua dedizione è ben altra da quella di una stirpe che abbia radici salde. Federico n aveva bisogno di dedizione assoluta e consenziente, delle forze unite di tutt’un popolo, per rinsanguare il suo impero. Per lui, po­ polo e stato erano una esigenza personale — un cronista inglese più tardo dice che lo Staufen fu un uomo che in modo tutto proprio « avrebbe potuto guardare a una grande comunità umana, a una setta, a un par­ 203

tito, a una nazione: fondatore o liberatore, certo come suo profeta ». Federico, l’erede dell’impero romano, appariva in effetti destinato per natura a fondare uno stato proprio, perché solo un corpo statale da lui creato poteva costringerlo a quella disciplinata misura di governo che, a lui, orfano cresciuto in paese straniero, era negata nella forma della tribù, della patria o della stirpe. In questa assoluta indipendenza e libertà della persona, che nessun imperatqre conobbe prima di lui, affondavano le radici i tratti salienti di Federico il: la serenità, la larghezza d’idee, la tensione e l’elasticità; la ver­ satilità del poliglotta; anche l’immediatezza del suo contatto con Dio, che lo svincolava dai legami della chiesa, e gli permise di percorrere sempre la via più diritta e più breve verso uomini e cose, senza riguardo alcuno per ciò che non fosse interesse dello stato. Le insolite doti di questo impera­ tore, però, si sarebbero appunto perse nel vuoto come manifestazione d’una genialità poliedrica ma pericolosa, se non fosse intervenuto a racchiuderle in un tutto organico ed a legarle saldamente, il diritto dello stato da lui stesso fondato, la cui legge era la sua legge: alla quale doveva egli stesso obbedienza. Un dominatore della sua specie poteva essere incatenato soltanto da sé medesimo: dalle proprie leggi. E bisognava assolutamente ch’egli po­ tesse applicarle a proprio indiscriminato giudizio. Questa possibilità gli era offerta dal regno dei normanni, la Sicilia, ora suo amato retaggio. Sicilia mater tyrannorum, appose più tardi in cima a un decreto Fe­ derico il seguendo Orosio; quasi cinicamente, perché, in senso cristiano, « tiranno » era Satana stesso. Più per sicuro istinto della realtà che non per chiara coscienza, già i successori del Guiscardo si erano riallacciati al modo di governo dei tiranni greci di Sicilia: la quale più che mai necessi­ tava d’un tiranno saggio ed energico. L’unità geografica del regno cinto dal mare da tre lati (e i confini al nord erano stati tempestivamente muniti di roccaforti da Federico) era la sola unità originaria — perfettamente rispondente all’unità di volere e po­ tere del dominatore. Mancava però ancora l’elemento mediatore fra il si­ gnore e la sua terra, l’unità del popolo cioè, che presupponeva d’altro canto l’unità di lingua e di sangue, di fede e di riti, di storia e di diritto. Atten­ deva perciò lo Staufen il compito più stupendo che tocchi mai a un crea­ tore: la creazione d’un popolo. Compito veramente inattuabile, o quasi, senza essere « tiranno », senza credersi Dio, e, quel che più importa, senza farsi credere tale! Perché ogni parola, ogni ordine della divina maestà do­ veva essere sacro; a ogni decreto, anzi a ogni « oracolo » come talora lo chiamò Federico n, il popolo aveva ad inchinarsi nella polvere. Questo era possibile soltanto in Sicilia, perché,essa c’era avvezza; anzi 204

decadeva, si corrompeva senza tiranni codesta terra ricca e fertile, paradi­ siaca; e se i siciliani — non per nulla mezzo orientali — adoravano come divina la potenza del sovrano, ne avevano tutti i motivi, perché in tale paese esuberante e pigro per natura il tiranno era veramente anche il salvatore. Allorché fece solenne ingresso in Palermo l’imperatore Enrico vi, vin­ citore, col suo esercito, alla vista dell’eccelso il popolo si prosternò; anche sotto i « re felici », i normanni, la proskynesis era d’uso: costume mante­ nutosi forse dai tempi di Narsete, e quindi ulteriormente rafforzato dalla signoria araba. Avvezzi dunque com’erano a prostrarsi in adorazione da­ vanti a ogni potentato, si può immaginare a che grado salisse questa.sotto­ missione quando, in luogo di un conte normanno o d’un principe ebbero per imperatore e congiuntamente re di Sicilia Federico n in persona, al quale il diritto romano dava il titolo di Divus, che tutto l’impero era solito celebrare come immagine di Dio, dinanzi al quale gli stessi Giovan­ niti e Templari piegavano i ginocchi. Qui Federico n poteva contare su quella dedizione che gli era indispensabile. La Sicilia, il paradiso sognato dai germani, e ancora per Goethe « la chiave a tutto », era, con le Puglie, la terra promessa dell’imperatore. Quando Federico il ebbe visto di là dal mare la Terra promessa della Bibbia, disse, a quel che pare, con la sua inclinazione al motto blasfemo, che Jehova certo non aveva conosciuto la Sicilia, la Puglia e la Terra Laboris, sennò non avrebbe avuto parole così alte di elogio per la terra promessa agli ebrei. Il suo regno nell’Italia meridionale, dove aveva trascorsa la fanciul­ lezza, la terra cui sin da principio s’era affidato e con la quale era cresciuto, restò sempre il suo unico, vero amore. Parlava della sua Apulia come di un essere corporeo, le si rivolgeva come ad una donna, come all’unico grembo che l’avesse accolto. Diceva Napoleone: « Io ho una sola passione, una sola amante: la Francia. Con lei dormo, ella non mi ha mai lasciato nei guai, per me ella versa i suoi beni e il suo sangue »; e Federico si espri­ meva in modo simile quando, alla terra cui s’era dato e che l’aveva accolto, scriveva parole d’amore, ricorrendo a immagini che evocavano la Bibbia, la poesia del tempo e la lirica occidentale: la « pupilla dei suoi occhi è il suo regno del sud »; «l’amabilità della [sua] terra supera ogni dolcezza terrena »; « porto nel mare tempestoso, giardino di delizie nella foresta selvaggia », che egli cerca « colmo di nostalgia », quando è sbattuto « nel mare dell’impero ». « Ancora poco tempo, quello di procurare ai nostri titoli la più alta vittoria, a voi la fine delle fatiche, e il nostro ritorno in patria compirà la comune attesa. Allora noi, lieti del vicendevole amore, vi avvezzeremo in 205

perpetuo alla serenità del nostro aspetto, voi che di quando in quando accarezziamo per lettera, » scrisse Federico una volta dall’alta Italia; e altra volta: « Quand’anche la moltitudine delle genti, che sotto il nostro scet­ tro beate respirano nella libertà, ci porga materia incessante al pensiero, tuttavia una certa predilezione è causa dell’amore che ci porta a pensare incessantemente come il nostro diletto popolo di Sicilia — al quale vanno tutte le nostre cure, il cui retaggio a noi rifulge più d’ogni altro possesso — si segnali come ornamento della pace e si moltiplichi nei tempi di Ce­ sare Augusto. » Questo il rapporto di Federico con la Sicilia (che per lui significava politicamente tutto il regno dell’Italia meridionale, compresa la parte con­ tinentale, la Puglia), e col suo popolo, i siciliani, coi quali si sente tutt’uno. Allo stesso modo che il dio di Israele s’era scelto un popolo dalla folla dei popoli della terra, anche l’imperatore, il re dei re, il signore dell’impero, aveva eletto il popolo di Sicilia e di Puglia. La Sicilia era la sua terra pro­ messa, i siciliani il popolo eletto e suo fra tutti, al quale s’appoggiava « come il capo riposa su un cuscino ». « Lo splendore della fedeltà loro c’irradia come un astro che getti luce sempre più chiara sul ciclo del tempo. » Il sentimento che lo lega ai sici­ liani è come « il tenero amore del padre verso i figli »: espressione note­ vole, perché solo a partire da Federico il il termine abusato di pater patriae viene usato nel suo senso primo. La vivente unità col suo popolo balza particolarmente da un tardo scritto: « Perciò eleggiamo la Sicilia a nostra diletta fra le terre e la scegliemmo a residenza della nostra dimora, perché noi cui irradia lo splendore del titolo di Cesare, non ci teniamo meno glo­ riosi di chiamarci uomo d’Apulia\ e ci sentiamo, per dir così, pellegrini fuori della nostra casa, quando, chiamati ovunque nel mare tempestoso dell’impero, veleggiamo lontano dalle corti e dai porti di Sicilia... Sempre trovammo unanimi i nostri coi vostri desideri, unanime sempre il vostro col nostro volere. » Non erano parole da poco. Ma le molte proteste d’amore per la Sicilia, di comunione col suo popolo, sarebbero rimaste parole vuote se Federico n non le avesse provate nei fatti. E molti furono i fatti, anche quando man­ cavano ancora simili parole. Perché nei suoi anni di regno aveva dovuto sbarazzare il paese dai parassiti, interni ed esterni, che ne succhiavano il midollo; e, combattendo la sua prima accesa battaglia con la forza e con l’astuzia contro molte, anche se frantumate, potenze, aveva portato un pri­ mo ordine nel caos. Allo stato aveva dato cornice e ossatura, tracciato le vie per lo sviluppo futuro, per molti rispetti avviato l’unità. Ma tutto ciò era, per così dire, soltanto la preparazione di quel grembo dal quale ora, a dieci anni di distanza, procreare. Questo « secondo stato », 206

infatti, fu opera dell’uomo maturo, filosofo e nomoteta, di colui che « in­ tesse il tessuto », che permea lo stato, come l’anima il corpo, del suo spirito e delle sue leggi, che anima la sua creatura — « come l’anima crea il corpo », per usare le parole di un manuale per l’educazione dei principi. Federico n voleva ora vivificare quello spazio che s’era creato, ponendosi in esso come il Cesare legislatore che fa seguire a quella della spada l’opera dell’amore: del « primo amor » nel senso d’un Cesare cristiano, come quello celebrato da Dante in Giustiniano legislatore. E come legislatore ebbe la possibilità d’accostarsi effettivamente ai Ce­ sari, al di là degli onori dell’ufficio: laddove non poteva certo compararsi a loro per fatti d’arme. Ma nell’agire spirituale e materiale (la formula dei Cesari era arma et leges) doveva avvicinarsi a quelli come nessun altro principe cristiano d’occidente prima di lui. Fin da principio, Federico n s’era trovato in una situazione affatto spe­ ciale, perché la Sicilia costituiva un tutto con l’impero romano. Gli Staufen e i re normanni erano sì, molto più che gli altri principi d’Europa, i suc­ cessori dei Cesari romani e bizantini; ma gli eredi del Guiscardo, come re e despoti assoluti di Sicilia, amavano adornarsi di formule imperiali di de­ rivazione giustinianea, d’una pomposità che era come un mantello troppo largo per un re normanno che non fosse al tempo medesimo anche impe­ ratore romano. D’altra parte, se un Barbarossa aveva sostenuto tanto caldamente gli assiomi del diritto romano a proposito dell’assolutezza imperiale; se un Enrico vi aveva preteso a feudo tutto l’impero romano; se il Barbarossa e Enrico vi s’erano circondati di tutto il fasto esteriore dei Cesari: tuttavia non si dava un palmo di terra in cui né l’uno né l’altro potessero mettere radici. Nel loro impero gigantesco non v’era una provincia, per piccola che fosse, dove potessero regnare con la medesima assolutezza d’un re normanno di Sicilia. Quando il Barbarossa deduceva direttamente dal diritto romano l’assolutezza dell’autorità imperiale, poteva farlo tranquillamente perché alla teoria nessuno gli si opponeva: ma non esisteva in Germania un solo villaggio dove egli avrebbe potuto tradurla in pratica. Federico n non ebbe bisogno di adoprarsi tanto per far riconoscere le massime-del diritto romano: i normanni le avevano messe in così bel va­ lore in Sicilia, che appariva ora naturalissimo che un imperatore se ne av­ valesse. Trovandosi per felice combinazione ad essere imperatore romano un successore dei despoti siciliani, e sapendo costui non solo rivendicare, ma esercitare effettivamente su una terra e su un popolo l’autorità asso­ luta di un despota; Federico n potè liberamente e naturalmente valersi di gesti, forme e titoli romani. Egli inoltre differiva dai predecessori non tanto per una maggior pa­ 207

dronanza della scienza o per una più precisa conoscenza dei classici antichi, quanto perché in lui tutto s’accordava alle premesse. Così si capisce bene che questo imperatore cercasse di accostarsi ai Cesari per la prima volta proprio in Sicilia. Tre furono gli imperatori romani su cui parve talora mo­ dellarsi: Giustiniano, Augusto e Cesare. Giustiniano (con Scipione, Catone e Traiano, l’immagine stessa della giustizia per il medioevo), « ministro del Signore » in quanto raccoglitore del diritto romano, e come tale santo anche per Dante, fu logicamente il modello di Federico legislatore. Subito dopo la pace col papa, Federico si rivolse a unificare le leggi siciliane, e le costituzioni pubblicate a Melfi nel­ l’agosto 1231 costituirono il risultato d’un lungo e attivissimo lavoro della gran corte imperiale. La raccolta, una specie di corpus' di diritto pubblico e amministrativo, constava in parte di leggi normanne (per le quali s’era ricorso alla memoria delle persone più vecchie del paese), in parte di decreti rilasciati dall’im­ peratore nei primi anni di regno, e infine di un gran numero di leggi nuove che, coll’aggiunta di altre promulgate in seguito, furono riunite in un tutto dall’imperatore e dai suoi collaboratori. Questa grande codificazione, la prima dopo Giustiniano e l’unica in tutto il medioevo, riscosse l’ammira­ zione del mondo intero e fu glossata dai dotti; ed essendo durata in vigore per tutto un secolo, la sua influenza sulla formazione del diritto degli stati assoluti d’Europa è tutt’altro che trascurabile. Il desiderio di emulare Giustiniano non risiede tanto nel fatto in sé della raccolta — benché anche questo abbia il suo peso —, quanto nel­ l’aspetto formale di quest’opera sbalorditiva. Lo spirito di Giustiniano che vi aleggia, s’era comunicato al discendente degli Staufen e come sentimento della solida struttura formale romana, e come solenne pompa cristiano­ bizantina. Come Giustiniano aveva scritto in capo al Digesto i suoi titoli trionfali {Alanicus, Goticus, VandalicusY derivati dai nomi dei popoli sog­ giogati; così anche il codice dello Staufen si apre con un elenco magnifi­ camente fastoso: IMPERATOR FRIDERICUS SECUNDUS • ROMANORUM CAESAR SEMPER AUGUSTUS • ITALICUS SICULUS

HIEROSOLYMITANUS ARELATENSIS • FELIX VICTOR AC TRIUMPHATOR

Lo stile dell’intestazione non importa tanto per l’orgoglioso sentirsi pari a Giustiniano legislatore, quanto perché Federico n vuole esprimere l’im­ portanza di sé e dell’opera propria — anche se il corpus non doveva ser­ vire all’impero romano, bensì soltanto al regno di Sicilia. Anche il proemio, non meno solenne, che spiegava l’origine del potere dei sovrani e dei giu­ 208

dici e offriva l’opera al Dio dello Stato; e le prime leggi contro gli eretici e in protezione della chiesa; corrispondono perfettamente al corpus iuris di Giustiniano. Accanto a Giustiniano, imperatore del diritto, servì di modello a Fe­ derico ii l’imperatore della pace, Augusto. Conformemente alla Scrittura, sotto Augusto si ebbe la « pienezza dei tempi », e, per la prima volta dal paradiso terrestre, l’aurea aetas della pace; lui imperante, il figlio di Dio volle apparire, e vivere come uomo sotto le leggi dell’imperatore romano, e morire da esse giudicato. Sotto quest’imperatore contemporaneo di Cristo, celebrato già come sotér, s’era compiuto l’ordine del mondo, poiché Augu­ sto dava a ciascuno il suo, onde sotto di lui regnava la pace. Rinnovare la pax augustea e l’ordine divino del mondo, fu da Federico il riguardata come missione propria; poiché se quell’ordine divino fosse stato ripristinato, anche il suo tempo sarebbe stato « compiuto », e la pax e la iustitia — unico senso dello stato terreno — sarebbero tornate sulla terra come già con Augusto. Molti pensavano così in quel secolo xm in cui come non mai s’aspet­ tava di giorno in giorno la fine del mondo, perché le predizioni volevano che essa fosse mezzo e principio, redenzione e creazione al tempo medesimo. Si credeva dunque vicina Vaurea aetas, la pax augustea-, e anche Federico n, allora, si adoprò perché il suo regno ereditario « si segnalasse nel decoro della pace e si accrescesse nei tempi di Cesare Augusto ». Federico il ebbe però coscienza d’essere legato ad Augusto anche per altro che per la pace universale. Una sola volta il Salvatore aveva ricono­ sciuto come legittima l’autorità dell’impero romano, quando disse: « Date a Cesare quel che è di Cesare »; onde Federico faceva risalire l’ufficio impe­ riale proprio all’istante in cui al Signore « era stata mostrata l’effigie sulla moneta che garantiva' il risarcimento del censo, la quale davanti agli altri re rimandava al fine ultimo del destino imperiale ». La moneta mostrava, secondo l’opinione del tempo, il ritratto di Cesare Augusto sotto il quale visse il redentore — e sotto Tiberio furono difatti coniati degli augustali sul cui rovescio compariva l’aquila romana. Quando dunque Federico n si accinse a riordinare il sistema monetario, fece battere monete d’oro che non solo .si chiamarono augustali, ma erano di conio molto simile a una moneta del tempo di Augusto. Da una parte era inciso il ritratto dello Staufen col mantello cesareo, l’alloro o il diadema raggiante sul capo, e la leggenda: iMP(erator) ROM(anorum) • caesar AUGfustus); dall’altra, accanto all’aquila romana, che è quasi la copia per­ fetta di quella delle monete d’Augusto, il nome dell’imperatore: fridericus. Persino nei particolari, dunque, Federico voleva imitare Augu­ sto, ponendo il suo nome dalla parte dell’aquila. 209

Ma il rifarsi all’antichità non proveniva da sentimenti estetici (quan­ tunque pure questi avessero la loro parte), bensì da un freddo senso della realtà e dall’acuta percezióne che se la sua epoca rappresentava la pienezza dei tempi, ed egli ne era la causa, tutto in essa doveva corrispondere ai tempi della redenzione. Il rinnovamento dell’antichità, che nasceva da uno speculare tendente alla realizzazione e consolidantesi in realtà, poggiò non solo per Federico n ma per tutto il rinascimento allora agli albori sul me­ desimo concetto: il ritorno del tempo di Cristo e, con esso, dell’era d’Augusto. Federico n non si limitò a copiare semplicemente le monete d’Augu­ sto: con tutta libertà, fece sostituire a quella dell’imperatore-jo/ér la sua effigie, che di conio in conio diventò sempre più chiara e più netta; diede all’aquila dagli artigli contratti qualcosa come l’espressione della tensione rattratta dell’età sua; e anche questo fu il suo modo di esfsere romano. Torneremo più avanti sul significato, anzi sull’importanza di quella certa rassomiglianza fra il ritratto e l’originale; ma è chiaro sin d’ora quale importanza avesse il fatto che su queste stupende monete — le più belle coniazioni del medioevo e di buona parte del rinascimento — invece di apparire una testa tanto simbolica quanto ignota, in luogo del Cristo, del­ l’agnello o della crope, si ammiravano il ritratto vero del Cesare Augusto e l’immagine dell’aquila imperiale: il tutto coniato in oro, nel metallo cioè che a quel tempo non s’usava quasi più in nessun luogo per coniare monete. In tutti i tempi capaci di fede il valore della moneta era in certo modo garantito dalla divinità protettrice dello stato: l’animale totemico assicu­ rava il valore delle monete primitive come la divinità tutelare della polis quello delle greche e l’effigie del Divus Caesar quello delle romane, e il Sal­ vatore (nei suoi vari simboli) quello delle monete del medioevo. Ma sugli augustali d’oro di Federico n non si trova il minimo simbolo cristiano, non la più piccola croce su scettro pomo corona: qui si presenta a governare un Divus senza rapporti con Cristo, esigendo che gli si creda come a novello Cesare Augusto. Giustiniano, l’imperatore del diritto, e Augusto, l’imperatore della pace, furono i modelli di Federico; pax et iustitia la formula più volte, e variamente, ripetuta: quella che racchiudeva il significato dello stato ter­ reno; pax et iustitia, « le due sorelle che si abbracciano ». E codesta diade penetra tutto il corpus iuris siciliano, il cui primo, e più importante, libro è diviso, dopo i decreti introduttivi, in due parti ben distinte: la prima — che tocca la tranquillità pubblica — riguardante la pax, la seconda — che stabilisce l’ordinamento del diritto — la iustitia. Il codice stesso fu poi chiamato dall’imperatore Liber augustalis,-e pur essendo stato reso noto nel settembre 1231, fu datato dal mese di agosto. 210

Se Giustiniano ed Augusto furono dunque per Federico il la personi­ ficazione e il simbolo d’un certo modo di reggere lo stato, della giustizia e della pace, si sente però in lui anche l’influenza di Cesare, il ritratto uma­ no del dominatore. In anni più tardi, lo Staufen chiamerà a testimonio « quel superbo Giulio, primo Cesare » che seppe versare lacrime dolenti sul morto Pompeo. Consapevolmente o meno, Federico seguì comunque in Sicilia il modo solenne della gens Julia quando comandò che il suo com­ pleanno (che cadeva proprio il giorno dopo la nascita del Salvatore) fosse celebrato con grande solennità in tutto il regno; Cesare era stato il primo infatti a ordinare (sotto pena di morte per chi disobbedisse, a quel che si pretende) la celebrazione del suo compleanno — e probabilmente lo Stau­ fen aveva pure dinanzi agli occhi i leggendari festini che Cesare aveva dato al popolo, quando nel giorno del suo compleanno dispensava cibo a decine di migliaia di persone (solo durante i festeggiamenti nella piccola San Ger­ mano, pane carne e vino furono distribuiti a più di cinquecento persone). (Ma qui si deve pensare anche al modello biblico.) Il giorno natalizio del­ l’imperatore fu la prima festa cui prese parte tutto il popolo di Sicilia: saraceni e greci, ebrei e cristiani. Diritto, ordine, umanità erano dunque per Federico il simboleggiati dalle figure dei tre Cesari. In questo trinomio si esaurisce anche il suo senso dello stato. Il codice siciliano, il Liber augustalis dell’imperatore, ci insegna a conoscere le forze, le virtutes, che determinano la situazione statale; e queste forze che stanno alla base dello stato, anche se se ne parla nell’in­ voluto stile scolastico-giuridico del tempo, sono tanto più importanti in quanto crearono il primo stato puramente laico, completamente sciolto dalla chiesa, e — principio d’ogni formazione statale più recente — per­ durarono, al di là dell’assolutismo e dello stato burocratico, benché invilite e ingoffite, sino ad oggi. La rappresentazione dello stato imperiale siciliano doveva venir eternata da Dante nella dottrina dell’unità monarchica del mondo e della monarchia divina sulla terra: dottrina che il più spirituale dei poeti propugnò con la stessa passione con cui l’aveva sostenuta il più spirituale dei sovrani.

i Vista l’importanza della raccolta di leggi di Melfi — « l’atto di nascita della burocrazia moderna », come fu definita —, deve per forza interessarci anche l’ora in cui questa raccolta nacque. Il medioevo riassumeva il senso di ogni sovranità terrena nella formula mille volte ripetuta di pax et iustitia-. dove regnava l’una, regnava anche 211

l’altra, e viceversa. Alla giustizia doveva essere indirizzata ogni forma di governo, perché essa era fine a se stessa, e, in quanto dono di Dio, qualcosa di assoluto: lo stato terreno, nato dal peccato originale, aveva per unico fine la conservazione di questo assoluto. In ciò differì la coscienza medie­ vale da quella dei tempi successivi: che non la giustizia doveva servire a mantenere lo stato, ma lo stato esisteva in funzione della giustizia — e, secondo il principio di Agostino, « la vera giustizia regna soltanto in quello stato del quale Cristo sia fondatore e sovrano ». Si tenga presente che Federico n visse alla fine del secolo che conosceva la giustizia come unico fine dello stato — fine, del quale, come si sa, gli statisti del rinascimento si occuparono ben poco. Federico era nato nel tempo della massima fioritura del « secolo giuridico », che chiudeva un millennio dedicato alla ricerca della giustizia, e che senza dubbio ebbe tanta influenza su Federico, quanta egli ne ebbe poi sulla giurisprudenza: si pensi soltanto alla visita dello Staufen a Bologna, al giurisperito Roffredo di Be­ nevento, alla fondazione dell’università di Napoli. A buona ragione s’è definito « epoca del diritto » quel secolo (11501250) che chiude il medioevo, perché dai giorni di un Graziano e di un Irnerio, da quelli che segnarono una notevole ripresa del diritto romano da parte del Barbarossa (simbolo dello spirito del tempo), a nessun’altra ri­ cerca scientifica il mondo aveva mostrato effettivo interesse come allo stu­ dio del diritto — il che certo non impedì che l’interesse si tramutasse in pazzia: come dimostra l’aver cominciato, verso la fine del xm secolo, a mettere in versi le Institutiones di Giustiniano, allo stesso modo che si è fatto ai giorni nostri con la Critica della ragion pura di Kant. Tale degenerazione indica che nel campo in oggetto non resta più nulla da fare. Non che la scienza del diritto si esaurisse con quel secolo: solo, la materia era stata dai glossatori assiduamente e sempre più sterilmente pe­ rorata, e, d’altro canto, si schiudevano al rinascimento nascente tanti e in­ finitamente più importanti spazi scientifici, che la cultura profana non potè più, come al tempo di Federico n, essere identificata con quella giuridica. La scienza giuridica, però, che consiste nello studio delle leggi, contraddi­ stingue la nascita d’uno spirito non teologico, anzi essenzialmente laico. D’altra parte, la chiesa stessa aveva mantenuto, nel campo del diritto, una posizione di guida: tutti i papi più importanti di questo secolo — Alessandro m, Innocenzo m, Onorio m, Gregorio ix, Innocenzo iv — furono giuristi, anzi la conoscenza del diritto canonico diventò elemento essenziale della teologia, o meglio: teologia e scienza giuridica vennero a pericolosi conflitti nell’ambito della chiesa, e la seconda ne patì gravi danni. Sdegnato di ciò, Dante maledisse i Decretali perché papa e cardinali, a furia di studiarli sino a consumarne i « vivagni », dimenticavano Nazareth. 212

Le raccolte di leggi cominciarono a farsi più frequenti: la piccola ma importante raccolta del normanno Ruggero n aveva segnato un inizio. Con­ temporanea quasi alla grande codificazione fridericiana del diritto pubblico e amministrativo, venne alla luce la raccolta dei Decretali, cominciata da Innocenzo m e pubblicata da Gregorio ix nel 1234 e « lasciando da parte il superfluo », « secondo l’esempio di Giustiniano ». È strano che in quel tempo che aspettava quasi da un momento all’al­ tro giudizio universale e fine del mondo, sbocciasse ovunque lo studio del diritto, quasi che la conoscenza delle leggi potesse stornare appunto il giu­ dizio universale; e che in quel secolo, che come nessun altro guardava alla pienezza dei tempi, vedesse giungere a compimento l’aspirazione di un mil­ lennio: la iustitia. Ma di tutto il lavoro dei giuristi soltanto un’opera, co­ me sempre accade, portò a una rottura,decisi va: .il Liber augustalis di Fe­ derico li. Nel quale confluirono e costituirono un tutto determinate pre­ messe: al punto che nel codice siculo la giustizia stessa celebrava la sua apoteosi. In forza della dignità imperiale e del suo ufficio di giudice su­ premo, Federico n si pose a capo, in veste di realizzatore, del secolare movimento tendente alla giustizia, allo scopo di fondare, grazie ad esso, lo stato laico: il quale, pur senza la spiritualità ecclesiastica, sarebbe stato tuttavia una creazione permeata di forze spirituali. Il medioevo, dominato dal dualismo fra il contingente e l’eterno, co­ nosceva due tipi di diritto assolutamente inconciliabili fra loro: quello eterno (divino o naturale), e quello positivo (o umano), sempre discordan­ te dal primo. Il diritto umano, valido negli stati terreni e, come ogni cosa terrena, imperfetto, si basava in parte su diritti tramandati e su consuetudini vi­ genti fra i vari popoli; in parte sulle leggi rivelate dalle Scritture (le quali si approssimavano quanto meno a quelle divine); in parte, da tempi più recenti, sul diritto romano, consacrato e riconosciuto legittimo dal Salva­ tore che vi si era sottoposto. Essendo compito dei principi mantenere la pace; e comportando necessariamente ogni mutamento di leggi il pregiu­ dizio di qualcuno e quindi la perturbazione della pace: i principi, come difensori della pace, avevano a tenersi al diritto stabilito. E allora, per dare una base agli inevitabili mutamenti delle leggi, si preferiva rimandare a vecchi diritti, magari degenerati in abuso, e riguar­ dare le innovazioni del sovrano come proseguimento e ristabilimento di an­ tiche leggi dimenticate, piuttosto che osare di procurarsi fama col fondare un nuovo diritto. Lo stato medievale fu dunque « conservatore, non crea­ tore di leggi »; onde il compito del signore veniva sostanzialmente circo­ scritto a quello appunto di conservare l’antico diritto. Ma, fra tutti i potentati, soprattutto agli imperatori, conformemente 213

alla loro posizione nella gerarchia del mondo medievale, spettava l’ufficio di protettori delle antiche leggi: « L’imperatore è in terra quello che Dio è in cielo », questo il concetto. Dai giorni di Carlo Magno, gli imperatori ro­ mani erano qualcosa di simile a Dio Padre: simili al Signore (primo della gerarchia celeste), in quanto primi nella gerarchia terrena; simili a Dio (conservatore del diritto naturale immutabile nei secoli) in quanto custodi e protettori del diritto terrestre. Nel medioevo cristiano, dunque, l’imperatore appariva simile a Dio padre, reggitore e custode della terra. Quando però in quest’altissima pace entrò improvvisamente una giovane forza irruente, e sull’imperatore tro­ neggiarne fra le nubi scoccò dall’alto dei cieli la scintilla; allora egli, sin qui simile a Dio padre, divenne anche simile al figlio Suo, mediatore e giudice, anzi redentore. D’ora innanzi l’imperatore non doveva apparire più soltanto custode e tutore, né mediatore e portatore, bensì fonte del diritto divino-naturale: l’imperatore portava il diritto divino nel suo stato, con statuti celesti ed eterni traeva il cielo in terra, colle sue leggi sacre, con la iustitia... La giustizia non era più qualcosa di spirituale e santificante che toccasse alla chiesa di dispensare come grazia. « Dio è principio d’ogni diritto, » suonava un antico detto germa­ nico: « Fonte della giustizia è Dio, » aveva insegnato Agostino. Ma i teo­ rici dello stato immediatamente susseguenti all’epoca dell’ultimo Staufen, concepirono l’imperatore come « mediatore fra il diritto divino e quello umano »: e questa era l’esatta funzione che Federico il aveva assegnato all’imperatore nel suo codice. Infatti, che il sovrano in forza della iustitia fosse mediatore fra Dio e l’uomo; o, detto altrimenti, che la giustizia stesse a mediatrice fra Dio e imperatore come fra imperatore e popolo (« il diritto terreno sta sotto il sovrano come sopra di questi sta quello divino »): questo corrispondeva pienamente alle frasi brevi e minuziose delle Costituzioni, con le quali l’imperatore Federico così introduceva le circa settanta leggi del nuovo ordinamento giuridico: « Della giustizia, il Cesare deve essere dunque PADRE e FIGLIO, SIGNORE e SERVO. »

Il che non significa (si pensi per esempio alla dottrina del lògos) se non che il Dio vivente era dall’imperatore concepito e rappresentato sotto forma di diritto e legge: di iustitia. L’imperatore, anzi, secondo il ripristi­ nato diritto romano, diveniva senz’altro la lex animata in terris. Certo, solo la comunione mistica col dio vivente, la fonte della iustitia, rendeva l’im­ peratore atto a dar leggi e ad interpretare il diritto. « L’imperatore fonda il diritto sul dono largitogli dalla grazia celeste »: così -formulò l’autorità giuridica di Federico n il dotto Roffredo di Benevento; e l’imperatore stesso, seguendo i codici giustinianei, proclamava 214

che il suo motus veniva direttamente dall’arbitrio celeste. In tal modo, la fonte della giustizia nello stato diviene l’imperatore stesso: per mezzo di Dio e come Dio egli è creatore del diritto; non solo custode di esso, ma anzi « fondatore di un nuovo diritto », perché « nuove leggi giorno per giorno escono dal [suo] grembo»: perché, come egli pretende, «come dalla sorgente i rivi, così dalla corte imperiale dovunque si espande nel regno la norma della giustizia ». Solo a lui, al promulgatore di leggi, è sciolta la lingua. Questo significa la chiusa della raccolta: « Le genti dei secoli a venire non crederanno che noi abbiamo messo insieme codesto libro di leggi solo per servire alla gloria; ma piuttosto che noi l’abbiamo fatto per cancellare ai giorni nostri l’ingiu­ stizia dei tempi precedenti, nei quali la lingua del diritto era muta. » E che Federico il non intendesse con ciò soltanto l’ingiustizia del tempo prece­ dente, bensì proprio il fatto che la lingua del diritto era muta, cioè che allora mancavano creazioni nuove di diritto, lo mostrano le parole dell’in­ troduzione, che (come quelle preposte a ogni opera d’arte) invocano la consa­ crazione divina: « In tal modo noi vogliamo restituire al Dio vivente raddop­ piate le monete che ci furono affidate, e offriamo, col culto della giustizia e l’istituzione del diritto, le nostre labbra in olocausto a Gesù Cristo, al quale dobbiamo tutto quanto è in nostro possesso. » Che Federico n avesse lingua e labbra sciolte a promulgar leggi, era quasi una grazia a lui personalmente concessa; ma, d’altra parte, vera in lui una particolare inclinazione all’attività legislativa. Ciò che lo metteva in grado di essere in posizione mediatrice fra il diritto naturale (divino) e quello umano (positivo), era la sua enorme scienza e la sua instancabile ricerca delle leggi eterne della natura. Più volte, e orgogliosamente, Fe­ derico Il si vanta di questo: che in opposizione a taluni pregiudizi « che non guardano alla natura delle cose », egli ha investigato « la vera scienza delle loro leggi »; e come già forse della comunione con Dio, getta ora le basi della sua scienza sulla natura dell’infallibilità dell’imperatore, quando dice subito dopo: «... Noi rifiutiamo gli errori. » Se il papa è infallibile in materia di fede perché ispirato dallo spirito santo, l’imperatore, « come colui che trabocca di giustizia », non lo è meno in materia di diritto. E si conformava perfettamente all’infallibilità imperiale la formula del diritto romano che Federico, come i re normanni, fece sua: « Discutere sentenze, decisioni e massime dell’imperatore è sacrilegio »; assioma che sta così bene alla base dello stato, che Federico lo contrappone arditamente al papa medesimo, allorché questi s’azzarda a muover critiche a un suo provve­ dimento. Pur se l’imperatore, posto in vetta all’edificio del mondo, riceveva di­ rettamente i raggi « della giustizia che emana direttamente dal cielo », e li 2I5

serbava dentro di sé per distribuirli a sua volta in numerose ramificazioni a giudici e giuristi (perciò emanava come imperatore, non come re, le leggi di Sicilia); pur se, grazie alla sua scienza delle leggi di'natura, era in grado di leggere anche quelle della giustizia divina e naturale; col rapporto fra l’imperatore e Dio, tuttavia, il ciclo non era ancor chiuso — allo stesso modo che nel rapporto che pone ai due poli il creditore e il debitore, solo il garante produce una circolazione di forze. Ecco allora che, accanto a Dio e alla propria scienza della natura, Fe­ derico il pose come terza fonte quella che sprizza dalla terra: quella che viene dal popolo, cioè; che egli raccolse in sé per il tramite della lex regia dei romani. Con un latino non più udito da secoli, in un sublime maestoso dove l’ampio, profondo, ritmico scorrere e vibrare dello stile sposa la gravitas del Cesare romano a quella del Cesare cristiano, così si esprime in parole quasi intraducibili: « Non sine grandi consilio et deliberatione perpensa condendae legis jus et imperium in Romanum Principem lege regia transtulere Quirites »: non senza grande prudenza, non senza ponderata deliberazione trasferirono i Quiriti il diritto di fare la legge e l’imperio nella persona del principe romano... Dizione superba, che colpì contemporanei e glossatori, e con la quale l’imperatore ricordava che il popolo romano, i Quiriti, sulla base della lex regia di Roma trasferivano al princeps, come un tutto, il comando supremo e il diritto di fare la legge. Con questo rifarsi al precedente decisivo della fondazione dell’impero romano, Federico n — ultimo dei Cesari e, come tale, identico al primo — ha tolto di mezzo il potere legislativo e l’autorità del popolo, o, più preci­ samente, ha assorbito in sé le due cose non altrimenti del flusso divino della giustizia. Federico il ha dunque accumulato sulla sua persona e in sé riu­ nito ogni potenza, forza, dignità: di Dio, della natura e del popolo. Dio, popolo e imperatore erano la fonte del diritto per Federico li, che aveva assommato in sé tutt’e tre le cose: Dio, l’imperatore come sua irra­ diazione, come figlio suo, e la iustitia'. ecco la nuova trinità laica, che, nello stato di Federico li, lasciava impregiudicata la validità della chiesa, e che s’impersonava nell’imperatore, nella lex animata in terris. Sul culto di codesta trinità poggiò tutto lo stato giuridico-burocratico di Federico il, e qui comincia a mostrarsi un poco della grande opera dello Staufen: il Dio che per un millennio s’era mostrato solo per miracoli, spirito aleg­ giante nello spazio, veniva da questo imperatore captato, e la grazia che regna inafferrabile mutata nella legge dello stato, chiara e comprensibile: la giustizia; anzi in senso più stretto essa diventava il « dio dello stato », a un dipresso come al tempo di Costantino, dopo Mitra, Cristo era stato elevato a divinità statale? 216

Federico n aveva sposato il Dio ultraterreno al senso assoluto dello stato terreno, alla giustizia, accostandolo all’unico modo di intendere lo stato del medioevo: Deus et iustitia è la formula sempre ritornante...; e solo così del resto era possibile concepire l’Uno e il Tutto in senso statale come la particolare divinità dello stato, e rappresentarlo invocarlo cele­ brarlo nello stato terreno senza l’aiuto della chiesa: costringendo Dio a scendere in questo stato, non solo lo stato a salire alla Sua trascendenza. Se dunque Dio come giustizia era realmente in senso stretto la divinità dello stato, anche il servizio giuridico statale-imperiale doveva diventare servizio di Dio. Papa Innocenzo m aveva detto: « Onorando noi, si onora Dio »; l’imperatore Federico gli opponeva che i sudditi « coltivando là giustizia servivano e piacevano a Dio e all’imperatore », in modo del tutto analogo alla formulazione del diritto romano: « Chi onora la giustizia, ren­ de omaggio alla santità di Dio. » Di qui derivavano le peculiarità esteriori dell’esercizio della giustizia: l’intestazione della legge che tratta del « culto della giustizia » comincia con queste parole: « Il culto della giustizia esige il silenzio. » E mentre papa e preti elargivano Dio ai credenti come grazia nel miracolo, dall’imperatore, dai giudici e dai giurisperiti Dio passava come legge e come norma ai sudditi-fedeli, e i ministri della giustizia ne diveni­ vano effettivamente i sacerdoti (termine che già i normanni avevano mu­ tuato dai digesti romani). A pieno diritto si cominciò quindi a parlare ben presto dell’impero non solo come del « tempio della giustizia », bensì come di bnperialis ecclesia-, e infatti sin nei minimi particolari era rispecchiato in questo « Stato di giustizia » imperiale lo Stato divino ecclesiastico, che Innocenzo m aveva edificato con la strutturazione della gerarchia. La plenitudo potestatis, come passava dal papa ai vescovi e ai sacerdoti che dovevano dispensarla al popolo come grazia; così discendeva dall’im­ peratore ai funzionari e ai giudici che dovevano dispensarla come legge. In tal modo, fluiva per lo stato una nuova, viva energia che scaturiva im­ mediatamente da Dio. Tutte le immagini del codice non fanno che illustrare questo punto: l’imperatore è l’unica fonte del diritto e siede sul trono della giustizia che egli abbraccia, detiene quella autorità di cui è fatto il tessuto della giustizia. Sovrabbondantemente fluisce la sua giustizia, colla bilancia della quale egli pesa a ciascuno il suo; a lui spetta di interpretare il diritto, di sciogliere i dubbi dei giuristi, di promulgare leggi che mettano fine alle loro contese. Egli aveva ad escogitare giorno per giorno provvedimenti salutari contro nuovi vizi, poiché col mutamento delle cose e dei tempi le antiche leggi non bastavano più ad ammorbidire, con ripetuti colpi di martello, il vizio. Da lui fluisce in rivi la giustizia per tutto il reame, e coloro che hanno a 217

espandere la sua norma nello stato, sono i funzionari imperiali, i quali rap­ presentano l’imperatore al timone dell’amministrazione e anzi l’immagine stessa di lui, che è infine l’immagine medesima di Dio. Ma questi funzionari non erano più il vecchio ceto feudale, bensì gli eletti dei più diversi gradi per grazia imperiale; gradi che non davano più loro l’incarico come beneficium, come feudo, bensì come officiutn, come servizio e funzione: come, per usare il linguaggio della chiesa, « servizio divino ». Siccome dunque si poneva la questione d’uno speciale dono o grazia che passasse dall’imperatore a questi funzionari formati al diritto — « coscienti della nostra coscienza » li chiamava Federico —, il commer­ cio delle cariche statali era vietato come simonia, e il funzionario restava tale in tutta la sua dignità sin quando l’imperatore ne lo stimasse degno e su lui posasse il carisma: « È sacrilegio discettare sulla dignità di chi l’imperatore abbia eletto e stabilito per degno! » La scelta dei funzionari è affare dell’imperatore e di lui soltanto; a lui solo è lecito nominarli; le loro cariche sono puramente personali, assolu­ tamente intrasferibili: non esistono cariche ereditarie. La nomina dei fun­ zionari è diritto esclusivo dell’imperatore: diritto che nessuno, senza il suo grazioso permesso, può osare di arrogarsi; donde le punizioni più severe minacciate per gli insediamenti arbitrari di funzionari: la città in cui si verificasse una cosa simile verrebbe distrutta, i suoi abitanti ridotti in ser­ vitù, decapitato chi avesse accettato l’ufficio. Ma in abbondanza, anzi in sovrabbondanza dovevano essere gli addetti alla giustizia, affinché palesassero il Sacro Volere dell’imperatore; i quali dovevano accudire al più sacro dei servizi, al culto della giustizia, onde servire Dio. E l’amministrazione della giustizia cui essi dovevano atten­ dere quotidianamente (e il re stesso tre volte la settimana) era una cosa sacra, per la quale si richiedeva il silenzio, poiché per mezzo degli ufficiali la giustizia è venerata e, venerata, viene somministrata a chi la richiede. Il servizio loro doveva essere esercitato gratuitamente, a quel modo che i sacerdoti gratuitamente largivano la grazia della chiesa: perché dalla gra­ ziosa liberalità dell’imperatore ricevevano gli ufficiali emolumenti, che se­ gnalavano appunto il loro ufficio quale instici mysterium. Nulla ci autorizza a non considerare la solennità sacrale che emana da ogni parola del codice con la stessa serietà con cui l’aveva considerata Fe­ derico il, tanto più che numerose testimonianze intervengono a mostrare l’imperatore che di persona celebra il sacratissimum ministerium, non in­ terrompendosi mai neppure negli ultimi anni di vita. Ogni nuovo culto si crea nuovi riti: per cui troviamo qui cerimonie forme usi inconsueti sinora all’occidente. L’imperatore troneggiava alto e irraggiungibile nella sua sacra maestà, il capo sormontato da una corona gigantesca...; solo colla proslty218

nesis ci si poteva avvicinare a lui per baciargli il piede...; e il popolo re stava prosternato dinanzi al divo Augusto, il quale, come la divinità, rima­ neva sullo sfondo, senza parlare quasi mai ma solo accennando i suoi ordini al logoteta in piedi al suo fianco: che poi, autorizzato da un cenno dell’augusta mano, si faceva labbro e strumento del sovrano, pronunciando sacralmente la sentenza come un oracolo, accompagnato in certi casi dal suono delle campane. Tale era in effetti il mysterium, « il servizio più sacro di ogni altro »: alto giudizio come alto ufficio àe\Yirnperatore-Dio-iustitia. Qui conviene richiamarsi a coloro che prepararono la strada a Fede­ rico il e a questo culto singolare. Per quel che concerne il rituale e lo spi­ rito giuridico permeante lo stato, si adoprarono insieme Ruggero il e il Barbarossa: il normanno col proseguire nel cerimoniale bizantino e con la creazione del diritto, in quanto datore di leggi a una terra da poco conqui­ stata; lo Staufen derivando dal diritto romano la santificazione dell’impero e dell’imperatore. Solo col Barbarossa cominciò a invalere l’uso di chiamare sacro l’im­ pero, sacri i brevi, le ordinanze, i palazzi imperiali; a definire l’imperatore stesso sacra tnajestas, perennitas\ nutnina e divi i sovrani defunti. Ma come predecessore di gran lunga il più importante di Federico n va ricordato papa Innocenzo iil Fu questi infatti a imprimere nella coscienza univer­ sale che giudice e sacerdote son tutt’uno; che il sacerdozio è regale e la regalità è sacerdotale; fu Innocenzo a permeare l’ufficio di re e di giudice di quello spirito pontificale, di cui Federico il si sarebbe valso in funzione secolare: fu Innocenzo, verus itnperator, a trasformare l’imperatore in fun­ zione sacerdotale, a cancellare l’immagine dell’imperatore quale similitu­ dine di Dio padre, quale era stata sino al Barbarossa. Fu questo papa, infine, che svincolando lo stato ecclesiastico dalla tutela secolare, aprì la strada all’imperatore perché si rendesse anche per sua parte libero dalla chiesa, a costruire uno stato giuridico laico e spiritualmente indipendente. Così, l’abisso fra le due potenze s’approfondiva ancora: perché il cam­ po del non materiale, sinora, come unità di spirito e di anima, governato nel suo complesso dalla chiesa, veniva da Federico n definitivamente scisso nell’anima, che restava alla chiesa, e nello spirito, che ora lo stato voleva per sé. E, in contrapposizione alla gerarchia ecclesiastica, si erse la gerar­ chia giuridica laica. Ancora si ricordi, che se già il diritto romano chiamava il giudice « sa­ cerdote », non doveva poi esser sfuggita allo Staufen (nella sua eccezionale conoscenza dei costumi musulmani, e in particolare nelle conversazioni con Fahr-ed-Din, che toccarono così la vita dello stato come quella della chiesa) la singolarissima istituzione degli Ulema, i dotti di Allah, che erano giuristi e sacerdoti al tempo stesso. E il linguaggio occidentale, anch’esso, contribuì 219

la sua parte, denominando, circa al principio del secolo dei giuristi, laico chi non solo non era prete, ma neppure giurista colto: il quale non si chia­ mava, è vero, sacerdos, bensì clericus, vale a dire: « formato spiritualmen­ te », « dotto ». E l’imperatore Federico aveva' fondato l’università di Na­ poli appunto per attirarvi codesti chierici. In tal modo Federico n aveva radunato in un determinato momento quanto il mondo offriva, legando tutti questi elementi al culto solenne e trionfale della giustizia, la deità dello stato secolare. La giustizia non era certo « tutto Dio », ma una parte di Dio, il suo modo di apparire, di es­ sere in rapporto con lo stato. Che cosa significhi questo, lo si capisce solo che lo si metta in rapporto, per esempio, con il problema filosofico del tempo: il contrasto fra scienza e fede. La giustizia infatti diventa l’aspetto di Dio comprensibile alla ra­ gione, d’iddio che si manifesta nello stato come legge vivente; laddove la grazia, comprensibile solo per il tramite della fede, rimane l’aspetto eccle­ siastico d’iddio. Così diventa visibile la rivoluzione provocata da Federi­ co il: che pei; oltre mille anni Dio si era manifestato nel miracolo, e nel miracolo aveva ottenuto fede — ora cominciava ad apparire nella vita quo­ tidiana, al di fuori della chiesa, il Dio accessibile come legge alla forza della ragione. Comincia così a delinearsi l’antitesi fra impero e chiesa, ambedue derivanti direttamente da Dio, che avrà il suo culmine in Dante. La divinità non sarà dunque più presente corporalmente per mezzo della grazia sacerdotale soltanto nella civitas Dei, la chiesa, bensì anche nella città terrena, lo stato, evocata e concretata in legge per il tramite del­ l’imperatore: incarnata nell’imperatore come nel sacerdote. L’innovazione sostanziale consisteva in questo: che la giustizia non operava più come ri­ gida legge scritta, ma come forza viva e onnipossente. « Poiché noi non possiamo essere personalmente presenti in ogni parte del mondo ad esercitare la giustizia (benché lo siamo tuttavia potenzial­ mente), abbiamo scelto tra i più fedeli del regno alcuni ministri...; affin­ ché quello che noi compiamo in potenza per mezzo loro, sia condotto al­ l’atto della giustizia. » Così i contemporanei, appoggiandosi allo scritto imperiale, ripigliarono l’opinione di Federico sul senso dello stato buro­ cratico; e l’opinione della giustizia come d’una forza che « guida oltre » corrispondeva assolutamente all’altro detto dell’imperatore: che egli ri­ traeva dalla grazia divina il suo motus, e lo comunicava ad altri come ordine o comando, producendo in chi lo riceveva un motum interioris hotninis, « un eccitamento dell’intimo, mediante il quale gli ordini procedenti dalla forza dell'Uno si traducevano in atto ». Questa dottrina nettamente aristotelica, che pone l’imperatore al cen­ tro dello stato, come forza pensante e imperante, si estraeva da tutte le 220

parole della legge. Ma la compenetrazione della cìvitas terrena da parte di una forza a sé stante, proveniente in via diretta da Dio, svela contempo­ raneamente la differenza fra stato e impero-, dove l’impero, come struttura a sé stante poggia su un’idea e riceve dalla chiesa le sue forze spirituali; mentre lo stato, necessariamente limitato, non riposa su un’idea, bensì è compenetrato e avvivato sino ai suoi estremi dall’attività di una forza viva. Il Dio-giustizia, inteso come forza legalmente operante per il tramite dell’imperatore, sarebbe il contrassegno dello stato siciliano. Così si scio­ glie anche il mistero del perché l’imperatore ci appaia « medievale » per quanto riguarda l’impero — dove restava custode e tutore della Pax et Justitia come i suoi predecessori —, « moderno » invece in rapporto al re­ gno di Sicilia, appunto perché nel suo stato egli è forza. Si badi inoltre che l’« uomo moderno » non ha più nulla dell’immagine di Dio: e questo appunto era ancora Federico n in Sicilia. Perché l’essere in ogni istante contemporaneamente forza viva e immagine di Dio, questo dava all’intera signoria sicula dello Staufen la sua pienezza. Nella concezione della divinità come forza perenne, indipendente dalla chiesa, risiede la rinascimentalità del nuovo stato; e qui si pensa forse a Francesco, il quale — costante antagonista dell’imperatore — in modo ana­ logo aveva annunciato Dio come forza, senza l’aiuto della chiesa. Per lui, il semplice, codesta forza si manifestava come amore sempre operante, come divino pneuma vivificatore di uomini animali piante nell’incanto del tutto; mentre il dotto e vigile monarca la riconosceva come ragione divina nelle leggi terrene e naturali: ambedue considerando la divinità come presente nel mondo, ma ciascuno a modo proprio, questi con lo spirito, quegli con l’anima. Come tutto ciò si rispecchiasse nella prassi dello stato, bastano due im­ portanti innovazioni imperiali a mostrarlo. L’una (jus novum secondo i glossatori) tende a dimostrare l’onnipre­ senza dell’imperatore: dichiara che l’imperatore intende venire in aiuto ai deboli spesso soverchiati dai potenti, e concede, a chi sia ingiustamente aggredito, di « tutelarsi contro l’aggressore mediante l’invocazione del nome dell’imperatore, per mezzo della quale è fatto divieto al molestatore di pro­ seguire nell’offesa ». Se questi poi non desisterà, sarà deferito al tribunale di corte, la cui altissima istanza non ammette appello. Ma siccome nello stato vale anche la legge che non sia lecito abusare del nome di Dio, così chi invoca abusivamente il nome dell’imperatore (per esempio, per pro­ curarsi un vantaggio), sarà punito nel modo più severo. Nel momento di estremo bisogno, non bisogna invocare Dio, ma la forza immediata e più efficace dell’imperatore: la giustizia animata, il soccorritore e il vendicatore. Il che non ha modelli nella storia. 221

Ma il modo di afferrare, anzi di assalire della giustizia imperiale, si mostra ancora più nettamente nella seconda innovazione fridericiana, che rivoluzionò completamente la procedura processuale dell’occidente: l’in­ quisizione, introdotta dallo Staufen nel diritto civile. Nel medioevo, infatti, prevaleva il concetto che premessa di ogni procedimento penale fosse l’ac­ cusa: dove non vi fosse querelante, non v’era giudice. Federico n ruppe definitivamente con questa legge; e per certi delitti capitali stabilì che fosse lo stato a procedere direttamente anche senza querelanti: anzi, che ove si trattasse di delitti di lesa maestà, i funzionari addetti intervenissero in luogo dell’imperatore e senza sua particolare autorizzazione. Per altri gravi delitti, però, l’istruzione d’un processo dove mancasse il querelante, restava legata al permesso imperiale. In caso di delitti capitali, quindi, non stava più alla discrezione d’un querelante d’interrompere il procedimento pendente e di venire a una composizione: al contrario i misfatti gravi venivano perseguiti e giudicati d’ufficio dallo stato, anche contro la volontà del querelante. Si tratta dunque d’un primo accenno di « procura dello stato », qualcosa di completamente opposto alla mentalità medievale; sicché a ragione nota il glossatore del­ l’editto: « Si hanno motivi sufficienti per dire che questa legge contiene un nuovo diritto. » Il glossatore definisce l’imperatore « tiranno »: do­ veva dar l’impressione di tirannide il fatto che la giustizia imperiale non agisse per assicurare il proprio diritto all’offeso, ma come vendetta, come fine a se stessa, anzi: per soddisfare alla divinità dello stato, alla iustitia o per dar riparazione allo stato offeso nel suo ordinamento. Può apparire singolare che l’inventore di questo procedimento non fosse Federico n, bensì papa Innocenzo m. Il quale aveva introdotto l’inquisi­ zione nella giurisdizione disciplinare ecclesiastica per punire ogni offesa fatta alle cose sacre dall’eresia, anche in mancanza di querelanti. Il procedimento però ricevette la sua impronta peculiare solo quando, completamente mutato nei fini, passò, da mezzo straordinario di tutela della chiesa contro il sacrilegio, allo stato secolare e alle sue leggi. In esso pos­ siamo appunto vedere una secolarizzazione della procedura ecclesiastica, ovvero una norma a tutela dei corrispondenti mysteria et sacra dello stato; onde è perfettamente logico che l’inquisizione statale si rivolgesse precipua­ mente contro i colpevoli di lesa maestà, « infedeli » per lo stato come gli eretici per la chiesa. E infatti i processi d’inquisizione erano di competenza del « tribunale di corte » e venivano celebrati con un cerimoniale parti­ colarmente solenne. In ogni caso, questa procedura da « procura dello stato » portava in sé non solo l’ordinamento della chiesa, ma il senso dello stato secolare come ordinamento sacro in sé: non meno divino della civitas Dei, la chiesa. 222

Questo fondarsi dello stato terreno in se stesso rappresenta un’altra più ampia ingerenza di Federico n — gravida di conseguenze. Se, infatti, la divinità non viveva, sulla terra, soltanto all’interno del suo regno predi­ letto, la chiesa, bensì come iustitia si calava anche nello stato laico, questo allora non era più « colpevole », non era più un bene relativo in un mondo di peccatori: era un bene assoluto per sua propria volontà: anzi, in esso era entrato Dio. Non veniva certo negata la necessità della redenzione, riguardante la vita dell’anima nell’#/ di là-, di questo poco si curava l’imperatore (egli agiva per Vhic et nunc, per lui anzi era tanto importante questo agire nelV al di qua, che a buona ragione si disse di lui che non credeva nell’altro mondo). Ma accanto alla redenzione celeste Federico il aveva posto qual­ cosa di non meno sacro e di non meno divino: la pienezza in questa vita, nello stato terreno. Ora è peculiare di Federico n aver considerato lo stato come fine a se stesso, attribuendogli una virtù divina non inferiore a quella della chiesa. Nell’introduzione al suo corpo di leggi, come più tardi in diplomi di nomina dei governatori, lo Staufen narra la storia della creazione. Nei primi para­ grafi segue sostanzialmente le credenze del tempo suo, per venire poi al­ l’episodio della caduta. Nello stadio dell’innocenza e dell’immortalità, quan­ do vigeva il diritto naturale e l’uomo godeva di assoluta libertà, nell’età d’oro del paradiso dunque, non v’era stato bisogno né di re né di stati: soltanto il primo peccato aveva costretto l’uomo originariamente libero al giogo della servitù. Tutto lo stato medievale deriva dalla colpa del primo uomo; e forse per questo Dante simboleggiò l’impero romano nell’albero della conoscenza del bene e del male del paradiso terrestre (o almeno non lo fece a caso, per­ ché, secondo Dante, compito dell’imperatore è ricondurre l’uomo alla ra­ gione suprema, all’albero della conoscenza che sorge all’entrata del para­ diso terrestre, all’istante in cui l’uomo era ancora innocente: mentre da questo punto in poi stava nelle mani della chiesa il condurlo sino al para­ diso celeste, alla beatitudine eterna, che lo redime dalla condanna alla vita mortale). Qui Federico comincia a volgere ai suoi fini mito, leggenda e dogma. Mentre la chiesa, infatti, deduceva dal peccato originale l’ereditarietà della colpa, che aveva ridotto, per punizione del primo, gli altri uomini al giogo della servitù sottò principi e re; Federico spostò su di sé questa ereditarietà, considerando Adamo ed Èva semplicemente come trasgressori di una « pre­ scrizione di legge » (di un comandamento, diceva la Bibbia): colpa per la quale erano stati puniti con la cacciata dal paradiso terrestre e la perdita dell’immortalità. Con il che l’episodio del peccato originale era concluso. 223

Certo, sull’uomo che non è più immortale grava la stessa tendenza alla trasgressione che sul padre primigenio creato da Dio stesso; e per di più l’odio reciproco ha preso gli uomini, che ora numerosi popolano la terra...: ma per questo esiste appunto un rimedio: la giustizia, il sovrano, lo stato. Conseguenza necessaria (per nulla moralistica, vicinissima al pensiero antico): il peccato originale dipende dalla natura dell’uomo, « dalle cose come sono nella loro realtà »: la quale natura fa sì che gli uomini, colmi di vizi e di odio dopo la cacciata, si dilanierebbero a vicenda, se non ci fosse il polso del sovrano. Dove si comincia a vedere una cosa: che i principi esistono non per l’esigenza morale di punire la colpa, ma per l’esigenza razionale di impedire l’autodistruzione dell’umanità. Con la razza umana però — prosegue l’im­ peratore — anche « tutto il resto è destinato alla rovina, perché l’inferiore fa a meno del superiore e così il bisogno di nessuno verrebbe più servito »; la natura, destinata a servire l’uomo, non avrebbe più ragione di esistere e perirebbe anch’essa... Il concetto deriva da Aristotele ed era allora cor­ rente, tuttavia dà un quadro raro della funzione dell’impero. Perché, portato alle estreme conseguenze, significa che, senza l’imperatore, il superiore per eccellenza, la razza umana e quindi la natura intera perirebbero, perché senza di lui re e principi si sterminerebbero a vicenda e gli uomini li segui­ rebbero nella rovina. All’impero viene annessa una responsabilità così ver­ tiginosamente elevata, da essere appena concepibile. Anche il severo castigo per i delitti di lesa maestà acquista allora un significato speciale: ché, ripete Federico, « dalla vita dell’imperatore dipen­ de la vita degli altri corpi », onde il delitto contro la maestà offende il mondo intero. Affinché l’umanità non si dilanii, a salvarla e a scongiurare il pericolo della scomparsa del mondo, « la necessità medesima delle cose non meno dell’ispirazione della provvidenza ha creato i sovrani »: la necessità, il bi­ sogno naturale li ha creati, non l’esigenza di punire il peccato. Ancora una volta si mostra la grande arte di Federico n, di volgere tutto al positivo, quando afferma che sovrano e stato non rappresentano soltanto la frusta per l’umanità peccatrice, bensì recano anzitutto un principio di conservazione e di salvazione del mondo; e sono divenuti « un bene per la sua salute » come la chiesa e i sacerdoti lo sono per la salute dell’anima. Il Signore ha redento le anime, ma « né i flutti del diluvio, né le acque battesi­ mali son valsi a cancellare l’imprudente trasgressione del padre primige­ nio »: così Federico non nega la redenzione in sé, però ne limita l’efficacia all’anima e alla vita dell’anima nell’al di là. L’uomo, in questa vita, non è ancora redento; e solo dal sovrano, dallo stato, può in certa misura essere ricondotto allo stadio dell’innocenza, o 224

meglio: della giustizia — e per l’appunto grazie alla forza della giustizia, « regolatrice della vita umana ». Col che la giustizia diventa una potenza salvatrice del mondo. In tal modo, dunque, l’imperatore, il divus Augustus (simile in tutto a questo imperatore romano come portatore visibile della salvezza), sarebbe diventato il sotér, il salvatore e il redentore del mondo: o non aveva forse detto Agostino: « Vera giustizia non si ha se non in quello stato dove fon­ datore e rettore sia Cristo »? E, quando fu l’ora, Federico non arretrò di fronte alla conclusione: poi­ ché non solo come mediatore e giudice doveva apparire simile al figlio di Dio, ma altresì come redentore, come colui che aveva compiuto la legge. Il suo impero, infatti, non mirava alla giustizia che si ha nel regno celeste, ma si fondava su di essa: « guardando dal cielo, la Giustizia ha eretto il suo trono fra i popoli »: e, conformemente al detto del Signore, « Date a Cesare quel che è di Cesare », ha eletto il trono dell’imperatore romano. Quasi messaggio di gioia aveva Federico n emanato le sue Costituzioni, nelle quali le labbra del diritto e la lingua della giustizia, mute ormai da lungo tempo, riacquistavano la favella. Egli voleva che queste frasi fossero lette e accettate come un’etica, una regola di vita; onde così si rivolgeva ai suoi fedeli in chiusura del codice: « In lode e gloria di nostro Signore accetterà la nostra comunità l’opera cominciata colla speranza del favore di­ vino e condotta a termine sulla scorta della Sua grazia. Essa reca l’iscrizione del nome d’Augusto, perché vuol essere di omaggio all’eccellenza di lui e alla dignità regale. Grati accogliete, o popoli, queste leggi, e valetevene tanto nei tribunali quanto fuori di essi..., affinché dalla vittoria del nuovo re sorga nuova propaggine di giustizia. » E fu infatti un messaggio di gioia, quando l’imperatore dichiarò che l’astratta rigidità dei tempi passati era finita; perché, mentre sino a questo momento s’era guardato alla disciplina statale in parte come a punizione, in parte come a un vano tendere a una perfezione assolutamente irraggiun­ gibile sulla terra, a una legge divina e naturale perduta nell’eternità; l’im­ peratore insegnava invece che è lo stato a generare quotidianamente la vera legge divina — e l’unica valida: che Vanimata lex di questo mondo rappresenta il Dio vivente, e anche l’eterno e l’assoluto devono trasformarsi nel tempo per restare vivi. Era la rottura decisiva con tutti i concetti prevalsi sino allora. « Nulla togliamo alla dignità dei precedenti sovrani, se, conformemente alla peculiarità dei nuovi tempi, generiamo dal nostro seno nuovi diritti, e per nuovi mali escogitiamo nuove medicine. La necessità del suo mini­ stero, infatti, comporta all’augusta autorità imperiale il privilegio che essa, quando, pel mutare delle cose e dei tempi, le paia che gli antichi diritti degli 225

uomini più non bastino a sradicare i vizi e a far attechire le virtù; trovi ogni giorno nuovo consiglio, che faccia la virtù ricca di premio e ammor­ bidisca il vizio sotto il costante martellio delle pene. » La giustizia si mo­ stra qui sotto una nuova dinamica: essa non irraggia più soltanto come forza viva emanata da Dio per riversarsi sullo stato, ma è mossa èssa stessa da un’altra forza, e muta col mutare quotidiano delle necessità dello stato. A quel modo che l’imperatore era « padre e figlio della giustizia », così la giustizia sarebbe la fondatrice dello stato, e al tempo medesimo sarebbe fondata da esso: perché diventato lo stato un fine a sé, anzi un oggetto di salvazione, anche le necessità dello stato ricevevano automaticamente im­ pronta divina e determinavano la salvezza. E così il ciclo si chiudeva: la giustizia divina influendo sulle leggi terrene, le necessità terrene influendo alla loro volta sulla giustizia divina. In effetti, quest’ultima, astratta e incommossa, perdeva la sua rigidezza e, colmata dalla vita, annodata al corso del tempo e legata ai mutamenti della natura, poteva realmente rappresentare il Dio vivente dello stato: men­ tre, in grazia sua, l’imperatore era veramente la legge animata in terra. Ed ecco che viene in luce la seconda forza dinamica, quella della vita stessa: la necessitas. Dalla necessitas ministerii viene dunque all’imperatore di poter mutare diritto e legge. E solo su ciò, sul fatto che all’imperatore è lecito mutare la forma della giustizia divina a seconda delle necessità degli uomini e dello stato, riposava il « machiavellismo legale » di Federico il: era il diritto dello stato che egli propugnava e notificava. Mentre però già il re Manfredi, appoggiandosi al detto di Cesare: Si violandum est jus, regnandi gratia violandum est, parlava di « violazione di diritto »; e se infine il Machiavelli sostenne che la necessità dello stato e l’interesse del principe infrangono ogni legge morale (il che significa: il diritto così divino come naturale): in Federico il, accanto alla mancanza di scrupoli nella scelta dei mezzi, dominava ciononostante un altro punto di vista: la necessità dello stato non infrange nulla, perché è essa stessa diritto divino e naturale. Questo valeva per Federico n, ma non più per i principi del rinascimento; perché, siccome dal prendere o meno in consi­ derazione le minime necessità dello stato dipendeva allora realmente il de­ stino di tutta YEuropa imperiale, l’imperatore era costretto a tenervisi così stretto, che il bisogno presente dello stato si faceva ineludibile necessità uni­ versale e cosmica, pari solo ai piani divini, alla provvidenza celeste. Anche le necessità di vita dello stato erano divenute così assolute: non in contrasto col divino ma divine esse stesse, in grado quindi di determinare il diritto e di portare mutamenti nella giustizia divina. Ex aristotelismo machiavellismus dirà in seguito il Campanella, met226

tendo effettivamente in luce i più salienti rapporti. È infatti evidente che nella cosmologia medievale avevano dovuto agire anche influenze esterne, accompagnate da un mutamento fondamentale del pensiero dell’epoca. Accanto all’immagine dell’imperatore come legislatore, sorge improv­ visamente quella del filosofo formatosi alla saggezza arabo-ellenistica. È stupefacente come Federico n sia riuscito a mutare il concetto medievale di stato quasi con una sola parola, colmandolo di nuova energia. Mentre, infatti, si continuava a discettare se l’origine dello stato terreno stesse in Dio o in Satana, nel bene o nel male, Federico n dichiarò sic et simpliciter che l’ufficio del sovrano ha origine nella sua naturale necessità. La necessitas come forza autonomamente operante sulle cose, come leg­ ge viva della natura, apparteneva al pensiero di Aristotele e dei suoi com­ mentatori arabi; e divenne il nuovo assioma che l’imperatore introdusse nella filosofia dello stato medievale, allo scopo di dare a questo un fonda­ mento in se stesso. Questo il significato delle parole d’introduzione al co­ dice siculo, dove si dice che i sovrani « sono creati dalla necessità costrit­ tiva delle cose stesse non meno che dall’ispirazione della provvidenza di­ vina »; e di quelle dei diplomi posteriori, dove più nettamente si parla di necessitas tout-court, come della base su cui la giustizia ha eretto il trono dei sovrani. E anche trattando dell’origine dell’ufficio imperiale, Federico rinuncia a farla risalire a qualche disposizione sovrumana e imperscrutabile della provvidenza, riferendosi semplicemente alle parole pronunciate dal Signore nel guardare le monete. La necessità naturale, invece, gli servì più volte a rendere razionalmente comprensibili dogmi e istituzioni sacre, che sareb­ bero altrimenti rimasti puri articoli di fede: così, per esempio, il matri­ monio — senza pregiudizio della sua santità come sacramento — è da lui definito semplicemente come naturalmente necessario alla conservazione del genere umano, né più né meno dello stato. E che la necessità naturale del matrimonio fosse per lui più importante del suo carattere sacramentale, lo dimostrarono le disposizioni, incisive quant’altre mai e antidogmatiche, emanate in Sicilia per il miglioramento della razza. Tutto questo era gravido di conseguenze. Perché lo stato, col ridurre le teorie biblico-ecclesiastiche a quelle naturali, non veniva rigettato in braccio alla violenza e alla forza pure e semplici, ma innalzato su basi spi­ rituali, anche.se al di fuori della chiesa: sul fondamento di una natura a cui si riconoscevano valori spirituali e giuridici. La trascendenza, si poteva dire, lasciava il posto alla metafisica. La necessitas era per l’imperatore un indispensabile fondamento dello stato terreno, rivolta com’era alla ragione e non alla fede. La protesta ancor 227

così patetica dei sovrani precedenti, che lo stato è istituito da Dio, poteva certo essere creduta valida, ma non spingeva per se stessa a credervi; lad­ dove la necessità dell’ufficio del sovrano parlava alla ragione, coll’affermare che, senza di essa, il genere umano si annienterebbe. Quando dunque Dante cercò di dimostrare la indispensabilità d’una monarchia universale, i suoi principi erano in tutto simili a quelli di Fe­ derico il, giacché anch’egli propugnava la fede nella missione salvatrice dello stato. La dottrina di papa Bonifacio che ogni creatura dev’essere sot­ tomessa al pontefice per la salute dell’anima, Dante — mancando un vero imperatore, quasi propugnatore dei Cesari di casa Staufen — gliela ritorse audacemente contro, coll’affermare che ogni essere vivente dev’essere, per la salute del mondo, soggetto al monarca di Roma, l’imperatore. L’affermazione incondizionata dello stato terreno da parte di Dante non è, persino nei mezzi, se non un proseguimento dell’idea e della dottrina imperiale; e il primo libro del De Monarchia, nel quale viene trattata la missione salutare e la divinità propria dello stato, reca per titolo: De ne­ cessitate monarchie. In questo libro si sviluppa la teoria della necessità naturale e vitale della monarchia, e quasi ogni capitolo della prima parte finisce con l’affermazione che « dunque, la monarchia è necessaria per la salvezza e il bene del mondo ». In ciò s’incontravano imperatore e poeta, nel dare, contro la scolastica e la chiesa, tanta importanza allo stato terreno da farne uno strumento di salute, necessario insomma per migliorare la natura dell’uomo e del mondo come Dio aveva voluto. Ma quale il significato vero di tale dottrina della necessitas, che ai con­ temporanei parve una caratteristica ghibellina, la parola d’ordine della corte staufica; tanto che, nelle esercitazioni di stile epistolare intese a cogliere il tono cancelleresco, di rado era tralasciata la necessitas rerumì Federico il, senza dubbio l’uomo più versatile e colto del suo tempo, il dialettico e il filosofo cresciuto alla scolastica e al pensiero latino come ad Aristotele Avicenna Averroè, fu spesso definito un illuminista. E invero, la parola d’ordine fondamentale di ogni illuminismo (rompere un vincolo che si presenti come costrizione innaturale) è anche quella di Federico, che sostiene la necessitas dello stato, la necessità naturale delle cose stesse, in cui le fila del destino si annodano secondo la legge di causa ed effetto, e su­ biscono, accanto alle leggi divine ed umane, quelle della natura. È appena il caso di dire dell’importanza rivoluzionaria di codesta dot­ trina. Sintanto, infatti, che si aveva fede solo nel miracolo come rinnovatore e conservatore del mondo, ogni causalità si poteva riportare all’intervento della provvidenza, e si potevano spiegare con esso le cause naturali. Non 228

si voleva pensare altrimenti; né ve n’era motivo, del resto, perché Dio non si manifestava nella legge di causa ed effetto, bensì nel miracolo. Sinché imperava il miracolo, e l’annodarsi causale delle cose spariva dietro di esso, neppure il destino umano era comprensibile: la vita più movimentata appariva sì splendidamente e magicamente favolosa, ma non mai vicina alla terra e al destino, mai dominata da una legge propria. Illuministica dunque la dottrina della necessitas, in quanto il riconosci­ mento delle leggi di natura insite nelle cose stesse, rompeva l’incanto della magia. E, in questo senso, Federico n, quale investigatore delle leggi della natura e della vita, vir inquisitor come lo definì suo figlio, fu un illuminista, o agì da illuminista: ponendo accanto alla magia, la conoscenza. Perché, nonostante cominciasse col rompere l’incanto dei miracoli dei miti delle leggende, proprio valendosene e concretandoli, e mostrandone così di nuovi; il concetto di miracolo, valido sino allora, non veniva ancora annullato, bensì gli era posta accanto una scienza; e si creava uno di quegli incomparabili periodi di transizione, in cui tutto e ogni cosa vive, e mito e chiaroveggenza, fede e scienza, miracolo e assioma si confermano l’un l’altro e al tempo stesso si combattono, influenzandosi tuttavia sempre a vicenda. Questa all’incirca l’atmosfera che respirava Federico li: uomo straordina­ riamente colto eppure alle volte candido, perduto in una sua irrealtà e al tempo stesso limpidamènte realistico, freddamente duro e insieme appas­ sionato; questa anche l’atmosfera che fu di Dante. Soltanto la scienza della necessitas che pervade tutta la natura poteva sottomettere i viventi alle medesime leggi che governano il tutto. Federi­ co il, facendo con la necessitas fluire nello stato la natura come forza, elu­ deva — come nel caso della giustizia — l’idea medievale dei due aspetti della natura: il primo, quello della contingenza e del peccato, in quanto natura umana; il secondo, quello dell’eternità e della santità, in quanto essa natura riposava in Dio. Federico stesso non ha mai intaccato tale concezione, ma ha più volte abbastanza chiaramente accennato alla forza e alla legge naturale che per­ vade così il regno celeste come quello terreno, sovrana dell’universo: la necessitas. Solo ove esistesse questa forza vincolatrice dell’uomo all’uni­ verso, avrebbe potuto darsi anche un destino umano; e ciò si vide innan­ zitutto nell’imperatore stesso, che interpretava e notificava il significato della necessità del momento. Federico n annetteva alla propria persona così enorme importanza da elevarla a necessità universale: si ergeva a rappresentare nella sua persona il fato universale e il destino dei sudditi. Già dalla dottrina imperiale del­ l’imperatore come baluardo contro l’autodistruzione del mondo si aveva la misura in cui egli rappresentava le sorti del mondo: nelle sue leggi l’aveva 229

detto chiaramente: « Dopo Dio, solo alla dolcezza della magnanimità im­ periale debbono i sudditi la possibilità di respirare. » I fideles non avevano un destino proprio: con la lex regia, s'erano messi nelle mani dell’imperatore e il loro fato si compiva in quello di lui, « vita di tutte le vite ». L’imperatore era l’unico individuo nel suo stato, perché — come dice Dante — era « un Uno che non è parte di un altro »; perché, come tale, aveva immediato contatto con Dio. Dalle gelide altezze, gravide di pericoli e minacce, librandosi libero in vetta al mondo, l’imperatore percepiva i bisogni terreni e il loro apparec­ chiarsi, come l’etere sottile della necessità universale, l’operare comune e inevitabile delle forze dei due regni, le quali si raccoglievano in lui. Nessuno può aver sperimentato sulla propria persona il destino stabilito da Dio al cielo e alla terra così immediatamente come questo Staufen studioso delle stelle, che si sentiva legato a Dio nel modo degli astri ruotanti secondo legge immutabile — anche qui mediatore e interpretatore, scrutatore del moto dei corpi celesti per dedurne la sorte propria e del mondo: e vice­ versa, regolatore del corso dell’esistenza terrena sulla traccia del corso de­ gli astri. Solo per questa comunione d’una singolare creatura con le leggi del­ l’universo comincia a divenir possibile il destino; e tutti i grandi che con­ cepirono il cosmo alla stregua di gigantesca unità, furono, come Federico il, compenetrati del concetto che « per il cenno della volontà celeste, la con­ giunzione dei pianeti influisce in modo salutare sui corpi inferiori ». Né suscita stupore che tale adeguamento di natura celeste e natura terrestre si compisse prima di tutto nell’imperatore, come nel culmine altissimo del­ l’edificio del mondo, al quale, in grazia appunto della sua doppia natura, si concedeva come un carattere di genio e di angelo, chiamandolo cherubino o comparandolo addirittura al redentore. In questa fusione tra la natura eterna, ottima come la chiamava Federico, e la natura umana, contingente e smarritasi dall’immagine prima, sta il senso e la meta dello stato terreno. Bene riescono a cogliere l’unità, voluta da Federico n, di legge umana, divina e naturale, le parole di un cronista: « Questo imperatore, monarca dell’universo, la cui fama si estende su tutta la terra... credeva di poter agguagliare la sua alla natura dei celesti, forse a cagione della sua esperienza nell’arte matematica. » Federico n credette senza alcun dubbio di « poter agguagliare la sua alla natura dei celesti »; anzi, inversamente agguagliò la natura divina alla sua, concependo la divinità nel suo operare molto più umanamente dei tempi che l’avevano preceduto. La sua posizione rispetto alle questioni filo­ sofiche del tempo, se il mondo fosse stato creato da Dio o Dio si fosse limitato a plasmare la materia esistente, è nettamente precisata nell’intro230

eduzione al Liber augustalis-. Dio ha plasmato la materia esistente — simil­ mente, dunque, all’imperatore! Ma anche altrove si manifesta lo sforzo di porre confini precisi all’opera di Dio. Nella prefazione al codice le due forze fondatrici dell’ufficio impe­ riale stavano già l’una accanto all’altra, in un rapporto di singolare ten­ sione: « la necessità costrittiva delle cose stesse, non meno dell’ispirazione della divina provvidenza... » Non si giungeva al contrasto, perché la legge autonoma della natura non differiva dalla provvidenza nel suo operare. D’al­ tra parte, la natura ubbidiva però alla sua propria legge, alla necessità delle cose; e se Dio non voleva distruggere la sua creazione, non doveva operare contro la legge naturale: Dio era, insomma, legato alla legge della sua crea­ tura, la natura. Non era una negazione del libero arbitrio divino, perché Dio non si sottoponeva ad alcun’altra legge che a quella da lui stesso voluta a decretata: la legge divina — il medesimo mistero di costrizione e libertà che valeva per l’imperatore: « Padre e figlio, padrone e servo » della propria legge era l’imperatore, che mai avrebbe contratto un tale obbligo, se con ciò aves­ se dovuto cessar d’essere l’immagine della divinità. Le leggi dell’imperatore corrispondevano esattamente alla necessità della sua creatura, lo stato, come quelle di Dio alla necessità della creatura divina, la natura. Qui non è da pensare valla dottrina degli antichi, che neppure gli dei possono combattere contro il fato: il mistero della libertà nel vincolo della legge è da intendere in senso tutt’affatto cristiano; come dice un contem­ poraneo di Federico n, il re non sta sotto un uomo, bensì sotto Dio e la legge, e alla legge deve attribuire quello che la legge attribuisce a lui: « e che il re debba sottostare alla legge, benché sia il vicario di Dio, appare evidente dalla similitudine con Gesù Cristo — del quale il re fa le veci regnando sulla terra: che volle sottostare a essa legge. » Nell’adempimento della legge risiede dunque il mistero della salvezza e della redenzione dello stato secolare e dell’imperatore. Un Dio misericor­ dioso sì, ma arbitrariamente operante solo nel miracolo e non sottoposto alla legge, non era allora ammissibile: una provvidenza che governasse arbitrariamente, non vincolata alla legge e quindi alla ragione, avrebbe smembrato lo stato. E Federico ne tirò le conseguenze: benché non potesse fare a meno per la sua persona della provvidenza operante per miracoli (la quale si ma­ nifestò in tutta la sua vita come simbolo e avvertimento, impulso e ispi­ razione), egli negava però una provvidenza che si manifesti nello stato per via di miracolo, che trascuri o contraddica alle leggi della natura e della ragione, che intervenga nello stato direttamente e non per il tramite del sovrano. 231

L’ordalia venne abolita — non perché « tentasse Dio », come aveva detto Innocenzo m, ma perché contraddiceva alle leggi della natura e della ragione: « Come si potrebbe credere che il naturale calore del ferro ro­ vente s’intiepidisca o addirittura si raffreddi, senza l’intervento d’una causa efficiente? » E aggiungeva ironicamente l’imperatore: « Queste ordalie che son chiamate leggi rivelatrici della verità, meriterebbero piuttosto di chia­ marsene velatrici. » Per gli stessi motivi venne abolito anche il duello giudiziario, altra specie di ordalia, tranne casi eccezionali, o delitti di lesa maestà. Il che, oltre ad essere significativo, era anche perfettamente logico, perché questo duello, essendo una divinazione, valeva adesso soltanto per la persona sacra e divina dell’imperatore, riguardo alla quale non sapienza umana, ma Dio solo poteva rendersi garante. Sempre per motivi razionalissimi furono poi vietati i filtri d’amore, ed emanate altre disposizioni: perché, nello stato, di miracoli non ne dovevano accadere: ogni legalità dello stato, anzi, sarebbe stata interrotta, se la provvidenza divina, in luogo d’essere legge anch’essa, avesse disturbato col miracolo la giustizia. Provvidenza divina come legge, significa quella provvidenza che opera perpetuamente avendo di mira un ordinamento dello stato e del mondo conforme alla legge; che, dunque, non differisce dalla legge di natura, poi­ ché anzi l’ordinamento naturale del mondo si identifica con quello divino: si chiama, insomma, ragione. « La provvidenza è il modo di ordinare razio­ nalmente a un fine le cose »: questa la definizione della scolastica. Alla corte staufica si disputava inoltre fervorosamente sullo « scopo nella na­ tura ». Ma, se la provvidenza nel suo operare non differisce dalla legge della necessità, non può stupire il fatto che già nei documenti di Manfredi si incontri talora la ratio, laddove nei formulari imperiali è ancora presente — più ampiamente, efficacemente e profondamente al tempo stesso — la necessitas. Con la provvidenza — terza forza per l’edificazione dello stato ac­ canto alla giustizia e alla necessità — si ripetono ancora una volta i rap­ porti già noti. Da un lato si scorgeva il carattere metaforico della provvi­ denza, perché alla provisio per eccellenza, cioè alle disposizioni divine per l’ordine del mondo, corrispondeva sulla terra l’altra provisio, quella del­ l’imperatore nei suoi piani per l’ordine dello stato. D’altro lato però, men­ tre la scolastica si preoccupava di tener separate le due provisiones, espres­ samente connotando l’una come eterna, l’altra come temporale, l’imperatore componeva il dissidio su di sé, o, in luogo del dissidio, metteva in risalto l’usurpazione virtuale della provvidenza divina: « Esecutori, per dir così, 232

della provvidenza divina, i sovrani forgiarono motivatamente ai popoli de­ stino parte ceto, secondo la spettanza di ognuno. » Anche qui, dunque, l’imperatore s’istituiva a mediatore e interprete dei piani celesti; e, come con la giustizia e la necessità, veniva a imperso­ nare anche la provvidenza divina, in quanto essa avesse fra i suoi fini l’ordi­ namento dello stato. La provvidenza, nel suo specifico operare statale, era concepita come forza perenne e riferita all’imperatore. Federico n non intendeva eliminare la provvidenza che si manifesta efficacemente nel miracolo della grazia: anzi egli governava, come ogni al­ tro principe del medioevo, per grazia di Dio-, e proprio lui era stato elevato al trono dal miracolo della grazia, in uno splendore magico come nessun altro sovrano; ma la grazia non lo permeò come forza agente secondo piani determinati: entrò in lui, « condottiero sul viottolo della ragione », come la forma più alta di ragione. Quasi superfluo notare le differenze dal razionalismo posteriore: la ra­ gione, concepita come illuminazione altissima del privilegiato dalla grazia, in particolar modo dell’imperatore, si rivelava (si affacciava timidamente) come meta suprema dell’uomo, per mezzo della quale la divinità poteva ora aderire alla terra. La ragione, però, non era affatto un semplice mezzo, e lo scopo del mondo non era il semplice benessere utilitaristico: il mezzo era, nello stato fridericiano, la giustizia, che una volta era stata il fine-. sicché la ratio acquistava un senso, soprattutto nei suoi rapporti col diritto e con la legge. Juste et rationabiliter, secondo giustizia e secondo ragione: un motto che rappresenta un nesso di idee antichissimo, dove il nuovo sta solo nel fatto che, come la giustizia, ora anche la ragione viene astretta alla legge della natura vivente, alla necessitas. Da principio, solo il diritto legava questi elementi: la forte accentua­ zione della ratio risaliva propriamente ai giuristi bolognesi, e la fusione di natura ragione provvidenza nella giustizia era data dal diritto romano. Tut­ te queste forze, equivalenti fra loro, si intersecavano abbastanza spesso: l’imperatore riceve il suo impulso dalla provvidenza, si diceva; il che si­ gnificava, ancora una volta, che l’imperatore era spinto a una determinata azione dalla ragione, la quale non differiva dalla natura. Ma alla fin fine si tendeva alla giustizia come deità vivente. La giustizia mutava a seconda delle necessità presenti dello stato, e dunque era stret­ tamente legata alla vita temporale; sottostava inoltre alla ragione celeste, che la legava all’eterno — il che rispecchiava la posizione dell’imperatore: « Quantunque la nostra maestà sia sciolta da ogni legge, non si leva essa tuttavia al di sopra del giudizio della ragione, che è la madre del diritto. » In tal modo, l’imperatore era immagine di Dio anche in grazia del suo 233

legame con la ragione, sulla quale neppure Dio si solleva perché Dio s’iden­ tifica con la ragione. Con la nuova giustizia, però, umanatasi nell’imperatore e come questo tesa fra legge divina e legge della vita naturale, era superato il dualismo fra diritto positivo o umano e diritto eterno, divino o naturale. Prima di discutere la meta della dottrina della salvezza di Federico n, bisognerebbe dare uno sguardo d’insieme al grandioso edificio statale da lui creato: esempio unico come ogni opera d’arte. Premessa di tale stato, l’unione dell’impero alla tirannide, la sua collocazione fra due epoche sto­ riche, e un filosofo per sovrano. Poco frutto darebbe il considerare se lo stato siciliano di Federico ap­ partenga ancora al medioevo o non piuttosto già al rinascimento: fondato nella « pienezza dei tempi », esso appartiene ad entrambe le età ed a nes­ suna. Dallo stato medievale si differenzia in quanto esaurisce in sé il proprio significato spirituale; e il principe, anziché dirigere il suo impero soltanto verso la salute nell’al di là, attrae Dio come Tutto nello stato terreno e in esso lo rappresenta. Nuovo era che nel dualismo medievale fra legge divina e legge umana s’inserisse e operasse una terza grandezza, estranea alle due: la legge di natura. Solo con essa lo stato s’acquistava uno spazio nel profondo; solo la triade incarnata rendeva possibile la viva circolazione delle forze. E questo preannuncia il rinascimento. Lo stato rinascimentale, però, mancava totalmente della ieraticità dello stato imperial-sacerdotale di Sicilia, non meno che della partecipazione al­ l’estensione mondiale, effettiva o solo pensata, dell’impero, come della sua portata universale. Lo stato rinascimentale era strumento e più non ab­ bracciava un mondo: gravido di aspirazioni mondiali, cosmiche, era, nella rinascenza, solo il principe, l’individuo: non lo stato. Non cambia nulla se si voglia scorgere nello stato di Federico n l’ap­ plicazione del pensiero giuridico romano, o la corrente araba delle dottrine aristoteliche e neoplatoniche, oppure l’accettazione di elementi cristiano­ sacerdotali: ché tutta questa materia fu rielaborata in una nuova unità. Solido, rigoroso e chiaro ci appare lo stato-legge imperiale, fondato su tre forze universali: necessitas, iustitia, providentia. E questa triade pulsa al­ l’unisono nello stato, e ognuna delle parti torna a comporre l’uno e trino delle leggi della natura, di Dio, dell’uomo. L’equilibrio assoluto di questo edificio, nel quale regno superiore e regno inferiore si contenevano come riflessi l’uno dell’altro e tuttavia for­ mavano un tutto, si lascerebbe, per dir così, rappresentare graficamente nel­ la sua canonica regolarità, e farebbe veramente pensare ai principi archi­ tettonici del rinascimento. Quelle tali forze dominano sovrane l’una ac­ canto all’altra nell’universo come nello stato, stanno sopra e sotto l’impe­ 234

ratore, fluiscono sciolte dal regno celeste a quello terreno per opera del mediatore, e rifluiscono rinvigorite dal contatto con terre e popoli...: ope­ rando a vicenda l’una sull’altra. Non per l’ingegnosità del suo meccanismo amministrativo fu quest») stato un’opera d’arte-, ma piuttosto il confluire delle tre forze — Dio, na­ tura, uomo — lo accostò a una formazione statale primigenia, per cui, co­ scientemente o no, la nuova monarchia influì come simbolo nel corso dei secoli. Questo stato di giustizia edificato dallo Staufen appariva quasi l’at­ tuazione dell’idea che aveva spinto Platone in Sicilia, alla ricerca della dikaiosyne, e che, secoli più tardi, Plotino cercò di attuare in Campania sul modello di questo filosofo. Il terreno.era allora singolarmente propizio, e Federico n poteva cre­ dere d’aver appunto creato qualcosa come uno stato ideale, se apriva con queste parole il suo codice: « Sia la Sicilia specchio per chi l’ammira, invi­ dia dei principi e norma dei regni. » Federico n foggiò anche l’Italia secondo la norma del regno di Sicilia; ma ad estendere codeste proporzioni su tutta la terra, sull’« impero ròmano stendentesi fino all’oceano », ci si provò solo Dante, quando propose il qua­ dro smisurato di una monarchia romana, una e universale — molto meno utopistica di quanto talora si pensi. Anche l’immagine che dello stato aveva il poeta s’era già manifestata nella realtà ed aveva avuto vita non'meno dello stato platonico di Platone. Monarchia, non Imperium ha per titolo l’opera di Dante; e nelle tre parti di questo scritto politico si ritrova la triade di potenze che regge la mo­ narchia dello Staufen. Della necessità della monarchia tratta Dante nel primo libro di questa annunciazione di salvezza per lo stato; nel secondo cerca di dimostrare che la giustizia fu connaturata all’impero romano sin dal principio; e nel terzo, che l’imperatore è stato posto direttamente da Dio a esecutore della Sua provvidenza regolatrice del mondo, e a guida verso la ragione suprema. Dante cerca le prove, la giustificazione della monarchia: Federico l’ave­ va creata, benché più limitata nello spazio. Ma le tre forze vitali e fonda­ mentali, necessità giustizia provvidenza, sono presenti nello stato immagi­ nato da Dante, e identiche a quelle dello stato concretamente attuato dallo Staufen; Dante, inoltre, non prospetta soltanto l’estensione di quel com­ plesso di forze sul mondo intero, bensì anche la sua concentrazione in un solo uomo, l’individuo. Il mondo concepito come unità statale di enorme circonferenza, e in ogni singolo essere l’unità e l’armonia di forze del tutto... Solo Platone e Dante, sino ad oggi, hanno riguardato e parlato del cosmo come d’uno stato vivente e dello stato come d’un cosmo. In Federico n, il costruttore, una simile estensione e condensazione ap­ 235

paiono solo accennate. Quanto a estensione, fondò una colossale signoria in Italia; l’altra, la condensazione dello stato intero in un unico individuo, non l’ha forse voluta e tanto meno attuata — salvo che nella sua propria per­ sona. Egli anzi fu il primo che il sacramento dello stato abbia redento. Di che genere era dunque la salvezza che la monarchia laica dell’impe­ ratore prometteva — e che Dante nella grande dichiarazione di salvezza divulgò con tanto ardore, approfondendone e ampliandone il concetto? Du­ rante i primi anni di Federico n, Francesco d’Assisi aveva rinnovato la buona novella del Crocefisso, predicando che l’amore per ogni creatura animata dal soffio divino, e la povertà, avrebbero redento il mondo. Con la stessa insistenza andava predicando Federico n il vangelo del Trasfigu­ rato, il quale, re e sangue di re, aveva mostrato la via di salvezza allorché, pur figlio di Dio, s’era tuttavia sottomesso alla legge e alla legge aveva adempiuto come uomo. Perché l’adempimento della legge sulla terra è re­ denzione, il vincolo della legge è libertà, l’ubbidienza dia legge riconduce alla giusta rettitudine dell’uomo voluta da Dio: questo il mysterium del­ l’imperatore. La giustizia non doveva infatti significare soltanto la potenza punitrice e vendicatrice, ma il correttivo altresì della natura umana degenerata, che Dio in principio aveva voluto « retta e semplice »; la forza che tende a un’altissima meta: l’attuazione dell’o/7zw